William · 2018. 4. 12. · PRESENTAZIONE di Harold Bloom Le origini del più famoso dramma...

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Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom Amleto Che dovrebbero fare le persone che, come me, strisciano fra il cielo e la terra? William ^ ^ C D Estratto della pubblicazione

Transcript of William · 2018. 4. 12. · PRESENTAZIONE di Harold Bloom Le origini del più famoso dramma...

  • Cura e introduzione di Gabriele Baldini

    Con un testo di Harold Bloom

    Amleto

    Che dovrebbero fare le persone che, come me,

    strisciano fra il cielo e la terra?

    William

    C D

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  • Opere

    William

  • Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico letterario e cinematogra�co, è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare, in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate (Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’lnghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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  • Amleto

    William

    C D

    Cura e introduzione di Gabriele Baldini

    Con un testo di Harold Bloom

  • WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE2 – Amleto

    Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, MilanoVia Solferino 28, 20121 MilanoSede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

    Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

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    Proprietà letteraria riservata© 1963-2012 RCS Libri S.p.A, Milano

    Titolo originale dell’opera:Hamlet, Prince of DenmarkTraduzione di Gabriele Baldini

    Per il testo di Harold Bloom, tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo© 2001 RCS Libri S.p.A. Titolo originale dell’opera:Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold BloomTraduzione di Roberta Zuppet

    Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI

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    B 9788861261396

    2012 2012K

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  • PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

    Le origini del più famoso dramma shakespeariano sono ne-bulose quanto la sua condizione testuale. Esiste un preceden-te Amleto che Shakespeare rivide e superò, ma quest’opera di prova non ci è pervenuta e non sappiamo nemmeno chi l’ab-bia scritta. Gran parte degli studiosi ritiene che il suo autore sia Thomas Kyd, che scrisse La tragedia spagnola, l’archetipo del dramma della vendetta. Ritengo tuttavia che Peter Ale-xander abbia ragione quando afferma che fu lo stesso Sha-kespeare a comporre l’Ur-Hamlet, non più tardi del 1589, quando intraprese la sua carriera di drammaturgo. Benché i critici non la condividano, la tesi di Alexander sostiene che Amleto, che nella sua versione definitiva regalò al pubblico un nuovo Shakespeare, sia maturato nella mente dell’autore per oltre dieci anni.

    Il dramma è immenso: senza tagli è lungo quasi quattro-mila versi e viene recitato solo di rado nella sua forma più o meno completa. T.S. Eliot afferma che Amleto è «senza dub-bio un fallimento artistico» (ma allora quale opera letteraria è un successo artistico?), e il suo giudizio, un tempo molto in voga, sembra fare riferimento alla sproporzione tra il prin-cipe e il dramma. Amleto pare avere una coscienza troppo vasta per Amleto; una tragedia della vendetta non offre spazio sufficiente per la più importante rappresentazione occiden-tale dell’intellettuale. Amleto non è però la tragedia della vendetta che finge di essere. È un teatro del mondo, come La divina commedia, Paradiso perduto, Faust, Ulisse o Alla ricerca del tempo perduto. Le precedenti tragedie di Shakespeare lo

  • anticipano solo in parte, e le opere successive sono molto diverse da Amleto per spirito e tonalità, sebbene lo ricordino. Nessun altro personaggio dei drammi, nemmeno Falstaff o Cleopatra, eguaglia gli infiniti riflessi di Amleto.

    Il fenomeno di Amleto, il principe senza dramma, è qualcosa di unico nella letteratura occidentale di fantasia. Don Chisciotte e Sancho Panza, Falstaff e forse il signor Pickwick imitano la carriera di Amleto come invenzioni letterarie che si sono trasformate in miti indipendenti. In questo caso, l’imitazione può essere estesa ad alcune figure della letteratura antica, tra cui Elena di Troia, Odisseo (Ulisse) e Achille. Amleto rimane in disparte; qualcosa di trascendente lo assimila al re Davide o a figure bibliche ancor più celebri. Il carisma, un’aura soprannaturale, cir-conda Amleto sia all’interno sia all’esterno della tragedia di Shakespeare. I personaggi carismatici, rari nella letteratura laica, sono particolarmente e stranamente molto infrequen-ti nella produzione shakespeariana. Enrico V sembra dota-to di carisma, ma volgarizza questa caratteristica proprio come Giulio Cesare prima di lui. Lear perde quasi tutto il suo carisma prima che lo incontriamo, e Antonio diventa ben presto uno studio analitico della sua evanescenza. Cleopatra è così istrionica e narcisista che la sua apoteosi carismatica al momento della morte non sembra affatto convincente, e Prospero è troppo intriso della sua magia er-metica per possedere un carisma autentico. Amleto, primo e unico, compete con re Davide e con il Gesù di san Mar-co per conquistarsi il titolo di carismatico dei carismatici. Potremmo aggiungere il Giuseppe dello scrittore yahwista e chi altri? Vi è l’Hadij Murad di Tolstoj, il surrogato della sognante vecchiaia del suo creatore, e vi è Sir John Falstaff, che non offende che i virtuosi, ma questi virtuosi critici formano un coro di disapprovazione così severo da far apparire il carisma del grande personaggio più confuso di quanto non sia.

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  • La preminenza di Amleto non è mai stata messa in dub-bio, il che solleva ancora una volta la domanda: «Shakespeare sapeva di aver investito tante risorse nel principe?» Molti studiosi sostengono che Falstaff sia sfuggito al controllo di Shakespeare, cosa che sembra evidente benché non pos-siamo sapere se il drammaturgo avesse previsto la grande e immediata popolarità del personaggio. Enrico IV – Parte seconda è il dramma di Falstaff quanto lo è la Parte prima, ma Shakespeare doveva sapere che il grasso Jack delle Allegre comari di Windsor era un semplice impostore e non Falstaff il genio carismatico. Riusciamo a immaginare Amleto, anche un falso Amleto, in un altro dramma shakespeariano? Dove potremmo situarlo? Quale contesto riuscirebbe ad accoglier-lo? I grandi cattivi (Iago, Edmund, Macbeth) verrebbero distrutti dal brillante scherno di Amleto. Nelle tragedie tarde e nei drammi romanzeschi nessuno potrebbe rimanere sul palcoscenico accanto ad Amleto: gli altri personaggi sono in grado di sostenere lo scetticismo, ma non una combinazione di scetticismo e carisma. Amleto si troverebbe sempre nel dramma sbagliato, ma, a dire la verità, vi si trova già. La crudele corte di Elsinore è una trappola troppo piccola per catturare Amleto, sebbene lui vi faccia ritorno volontaria-mente per uccidere ed essere ucciso.

    Però la grandezza non costituisce da sola il vero problema; Re Lear è il più vasto cosmo psichico shakespeariano, ma è volutamente arcaico, mentre quello di Amleto è il ruolo meno arcaico nell’intera produzione shakespeariana. Amleto non viene solo dopo Machiavelli e Montaigne; Amleto viene dopo Shakespeare, e finora nessuno è riuscito a essere post-shakespeariano. Non voglio dire che Amleto è Shakespeare o il sostituto di Shakespeare. Molti critici hanno giustamente notato il parallelo fra la relazione tra Falstaff e Hal e quella tra Shakespeare e il giovane aristocratico dei Sonetti (forse il conte di Southampton). I moralisti non vogliono riconoscere che Falstaff, più di Prospero, rappresenta un elemento fonda-

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  • mentale nello spirito di Shakespeare ma, se dovessi azzardare un’ipotesi, direi che l’autorappresentazione del drammaturgo si trova in Falstaff. Amleto è tuttavia il figlio ideale di Shake-speare, come Hal lo è di Falstaff. Questa affermazione non è mia: appartiene a James Joyce, che fu il primo a identificare Amleto il danese con Hamnet, l’unico figlio maschio di Sha-kespeare, morto nel 1596, all’età di undici anni, quattro o cin-que anni prima della versione definitiva di Amleto, principe di Danimarca, in cui il padre di Hamnet Shakespeare interpretò la parte del fantasma del padre di Amleto.

    Quando assistiamo a una rappresentazione di Amleto o leggiamo il testo, non ci occorre molto tempo per capire che il principe trascende il dramma. La trascendenza è un con-cetto difficile per molti di noi, soprattutto se si riferisce a un contesto del tutto secolare come un dramma shakespeariano. Amleto possiede qualcosa che richiede (e fornisce) una di-mostrazione proveniente da una sfera al di là dei nostri sensi. I desideri di Amleto, i suoi ideali e le sue aspirazioni, sono quasi fuori luogo nell’irriverente atmosfera di Elsinore. Per Amleto, il verbo inglese shuffle (che significa «rimescolare», «ricorrere a sotterfugi», «gettare alla rinfusa») serve a «scio-gliersi da questo viluppo», dove «viluppo» significa «rumore» o «agitazione». Per Claudio, shuffling indica trucchi mortali: «grazie a un piccolo trucco», dice a Laerte, sarà possibile scambiare le spade ed eliminare Amleto. «Non c’è scappatoia lassù», dice infine Claudio in tono languido, usando ancora il sostantivo shuffle per «scappatoia» e riferendosi a un cielo in cui non sa se credere o meno. Claudio, il maestro della scappatoia, non è il «potente avversario» di Amleto, come lo chiama quest’ultimo; lo sventurato usurpatore viene irri-mediabilmente superato dal nipote. Se, come credo, Shake-speare rivide il suo Ur-Hamlet di una decina d’anni prima, lasciò forse intatto Claudio mentre trasformò Amleto tanto da renderlo irriconoscibile. La malvagità di Claudio non ha nulla del genio di Iago, Edmund e Macbeth.

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  • Iago, il diavolo di Shakespeare, il padre del Satana di Milton, è l’autore della farsa tragica La gelosia di Otello e l’omicidio della moglie Desdemona. Questo dramma, per nul-la identico all’Otello di Shakespeare, è inserito solo in parte nella tragedia shakespeariana perché non è Iago a concludere quest’ultima. Frustrato dal tradimento di Emilia, la uccide e quindi rifiuta qualsiasi interpretazione: «Da questo momen-to non dirò più una parola». Amleto, un drammaturgo ancor più metafisico di Iago, scrive l’atto V, e noi non riusciamo a capire chi, tra Shakespeare e Amleto, componga la maggior parte del dramma di Shakespeare e Amleto. Chiunque sia stato il Dio di Shakespeare, Amleto sembra essere uno scrit-tore di farse, e non solo di una commedia in senso cristiano. Nella Bibbia ebraica, e soprattutto in Giobbe, Dio è parti-colarmente abile con le domande retoriche. Amleto ama le domande retoriche, ma, a differenza di quelle di Dio, quelle di Amleto non sempre cercano una risposta. Il Dio ebraico, soprattutto nel testo yahwista, è in primo luogo un ironista. Amleto, senza dubbio un ironista, non desidera un Dio iro-nico, ma Shakespeare non gli lascia altra possibilità di scelta.

    Meditando su questo aspetto, Harry Levin dice giusta-mente che Amleto è un dramma ossessionato dalla parola question (in italiano «domanda», «problema»), usata ben diciassette volte, e dai dubbi sulla «fede nei fantasmi e nel codice della vendetta». Vorrei affrontare tale ossessione per i problemi in maniera un po’ diversa. La principale diffe-renza tra l’Amleto di Shakespeare e quello della leggenda e della storia è il terreno d’azione del principe. Nel cronista Saxo Grammaticus e nel racconto francese di Belleforest, il principe Amleth è minacciato sin dall’inizio dagli intenti omicidi dello zio e finge con astuzia di essere pazzo per sal-varsi la vita. Forse nell’Ur-Hamlet Shakespeare aveva seguito questo paradigma, di cui rimangono tuttavia poche tracce nella versione definitiva. Claudio è contentissimo di avere il nipote come erede; lo Stato di Danimarca è talmente marcio

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  • che Claudio ha tutto ciò che ha sempre voluto: Gertrude e il trono. Se, dopo la visita dello spettro, Amleto fosse rimasto passivo, Polonio, Ofelia, Laerte, Rosencrantz, Guildenstern, Claudio, Gertrude e lo stesso Amleto non sarebbero morti di morte violenta. Nel dramma tutto dipende dalla risposta di Amleto al fantasma, una risposta che è dialettica quanto il resto. Il problema di Amleto sarà sempre Amleto, perché Shakespeare gli ha dato la coscienza più ambigua e dilaniata che un dramma coerente possa sostenere.

    Il primo Amleto di Shakespeare deve essere stato mar-lowiano e, come ho detto in precedenza, un imbroglione, un anti-Machiavelli aucotompiaciuto, un retore le cui meta-fore convincono gli altri ad agire. L’Amleto maturo è molto più complesso, in maniera quasi irriverente. Con astuzia affascinata e affascinante, Shakespeare non seguì la fonte chiamando Horwendil il padre del principe, ma decise di dare lo stesso nome a padre e figlio, il nome del suo unico figlio. Con il suo consueto acume, Peter Alexander osserva nel suo Hamlet, Father and Son (1955) che lo spettro è un guerriero adatto alle saghe islandesi, mentre il principe è un intellettuale universitario, un rappresentante della nuova epoca. Due Amleto si trovano l’uno di fronte all’altro e non hanno quasi nulla in comune a parte il nome. Il fantasma pretende che il figlio diventi un suo riflesso, proprio come il giovane Fortebraccio è una copia del vecchio Fortebraccio. I due Amleto si incontrano come se l’Edda incontrasse Mon-taigne: l’età arcaica si imbatte nel tardo Rinascimento, con le conseguenze più bizzarre che riusciamo a immaginare.

    Come vedremo, il fantasma non è Horwendil, ma ha alcune caratteristiche dell’Amleth della saga danese: duro, bellicoso, astuto nel manipolare il figlio quanto lo è stato nel respingere i nemici. Il principe Amleto, una figura dall’argu-zia e dallo scetticismo rinascimentale, lettore di Montaigne e frequentatore dei teatri londinesi, si allontana sia dall’Am-leto di Belleforest sia da quello del dramma originale di

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  • Shakespeare: interpretando il ruolo del fantasma nel 1601, il drammaturgo espresse le sue speranze per il figlio Hamnet, ormai giunto alla soglia della virilità. Lo spettro parla della propria passione uxoricida per Gertrude, e noi ci rendiamo conto trasalendo che questo sentimento non si ritorce contro il padre Horwendil, bensì contro Amleth, che nell’antica storia viene distrutto dall’eccessivo amore per l’infida secon-da moglie. Confondendo così le generazioni, Shakespeare accenna ai livelli di complessità che ci lasciano ancor più perplessi di fronte alla versione definitiva di Amleto, ma che in parte ci guidano verso l’uscita del labirinto.

    Con un’arguzia più che joyceana, l’Amleto del 1588-1589 diventa il padre dell’Amleto del 1600-1601 e compare nel dramma successivo nei panni dello spettro che chiede una vendetta immediata ma riceve l’espiazione ritardata che oc-cupa cinque atti e quattromila versi. Per quanto riguarda il fantasma del 1588-1589, possiamo chiamarlo Horwendil e osservare che per lui non vi è spazio nel testo del 1600-1601. Horwendil il fantasma doveva essere piuttosto ripetitivo, e le sue grida: «Amleto! Vendetta!» diventarono un tormentone per gli spettatori. Amleto il fantasma non è un tormentone; è Amleth l’Eracle danese, uno spirito scaltro e sanguinario. Il fatto che questo re Amleto abbia generato il personaggio più intelligente dell’intera letteratura va imputato all’ironia trascendente di Shakespeare. Non occorrono un grande intelletto e una coscienza vasta per distruggere Claudio, e il principe Amleto sa meglio di noi di aver ricevuto un incarico del tutto inadatto alla sua personalità. Se Hotspur o Douglas avessero ucciso Enrico IV, Hal sarebbe stato troppo dotato per il ruolo di vendicatore, ma avrebbe portato a termine il proprio compito con fulminea velocità. Paragonato all’Amleto del 1601, Enrico V è solo un ipocrita e un machiavelliano pur essendo in possesso di una superba arguzia derivante dagli insegnamenti di Sir John Falstaff. Amleto, il Falstaff di se stesso, non è stato inserito in una tragedia della vendetta.

  • Proprio come Falstaff, ma in misura maggiore, il principe occupa invece tutto lo spazio mentale che un dramma può sperare di occupare. I due terzi dei versi che non vengono pronunciati da Amleto sono stati scritti su di lui e potrebbero benissimo essere stati scritti da lui. In inglese, «Amleto senza il principe di Danimarca» è una frase proverbiale per indicare qualcosa di vuoto o insignificante. Come ho osservato prima, Falstaff fu il primo grande esperimento shakespeariano sul modo in cui il significato scaturisce. Amleto è l’esperimento perfezionato, la dimostrazione che il significato non scaturisce dalla ripetizione, da un episodio fortunato o dall’errore, bensì da un nuovo trascendimento del secolare, da un’apoteosi che è anche annichilimento di tutte le certezze del passato culturale.

    Probabilmente, una decina d’anni dopo (dal 1588-1589 al 1600-1601), Shakespeare recitò di nuovo la parte dello spettro in Amleto. Una delle poche certezze che abbiamo sul primo Amleto è che tra i personaggi figurava il fantasma del padre del principe. Credo che durante la revisione Shake-speare abbia tagliato notevolmente la parte: a mio avviso, lo spettro era più importante nel primo che nel secondo dram-ma, perché nella versione definitiva dovette farsi da parte per lasciare posto alla crescente interiorizzazione di Amleto. Non che l’opera sia mai stata il dramma del fantasma; Shakespe-are era quello che oggi definiamo un «caratterista» e forse non fu mai tanto ispirato da accettare un ruolo da protago-nista. Perché interpretò lo spettro? Shakespeare si specializzò nell’interpretazione di personaggi maschili anziani, tra cui i re, anche se, oltre a quella del fantasma di Amleto, l’unica parte che recitò con certezza è quella del vecchio Adamo in Come vi piace. Vi era forse qualche interesse personale nella scelta dello spettro? Lo Stephen Dedalus di James Joyce sostiene quest’idea nella sua brillante fantasia su Amleto nella scena della biblioteca di Ulisse che, secondo Richard

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  • Ellman, fu sempre l’autentica interpretazione joyceana del dramma. Credo che dobbiamo fare un passo indietro. Per-ché Shakespeare chiamò il figlio con il nome dell’Amleth di Belleforest, o meglio di Amleto il Verde, come era stato denominato dal folklore inglese?

    Quando Shakespeare era solo un ragazzino, una giovane donna di nome Kate Hamlet o Hamnet si gettò nel fiume Avon, nei pressi di Stratford, forse per una delusione d’amo-re. Possiamo solo fare delle ipotesi sulla sua relazione con Ofelia, ma l’eventuale relazione con Hamnet Shakespeare è del tutto fortuita; è inverosimile che vi sia una qualche as-sociazione tra i due. A quanto pare, il bambino prese nome da Hamnet o Hamlet Sadler, un amico di Shakespeare, ma tutti gli Hamnet/Hamlet inglesi presero nome dal leggen-dario Amleth, come l’erudito Shakespeare sapeva di sicuro. Amleth era famoso per la sua astuzia, per la sua pazzia, su cui si basava il suo schiacciante trionfo. Il primo Amleto era una tragedia? Il principe moriva o l’idea della morte arrivò più tardi, come prezzo dell’apoteosi della sua coscienza intel-lettuale? L’Amleth della tradizione, descritto da Belleforest, sposa la figlia del re di Gran Bretagna e quindi si vendica sullo zio per la morte del padre. Diventa così una sorta di eroe britannico, e possiamo immaginare che Shakespeare abbia scritto il primo Amleto con qualche speranza per il figlioletto, che a quel tempo aveva solo tre o quattro anni. Quando venne scritto l’Amleto maturo, Hamnet Shakespe-are era morto da quattro anni, e nel dramma non compare certo il fantasma interpretato dall’undicenne. Joyce/Stephen non è però del tutto d’accordo: secondo lui, Amleto il danese e Hamnet Shakespeare sono gemelli, e lo spettrale Shakespe-are è pertanto il padre del suo personaggio più famigerato.

    Ma il fantasma è l’autore del dramma? Creando il vecchio Amleto e il principe, Shakespeare ci presenta, con grande accuratezza e persino astuzia, un padre e un figlio del tutto di-versi l’uno dall’altro. Del re Amleto sappiamo che era un abile

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  • guerriero e condottiero, dominato dall’amore (o dalla lascivia) per la moglie. Il padre sembra non possedere nemmeno una delle qualità che rendono tanto singolare il figlio. Come hanno fatto Amleto e Gertrude a generare un figlio così intellettuale da non poter essere contestualizzato, nemmeno dal dramma di Shakespeare? Il principe Amleto non assomiglia al padre più di quanto assomigli allo zio usurpatore. Shakespeare dà ad Am-leto un pragmatico padre adottivo in Yorick, il buffone del re, perché anche il principe non smette mai di essere un burlone e non è molto distante da Iago, il più pericoloso tra i burloni.

    Non sappiamo se il misterioso passaggio dall’atto IV all’atto V di Amleto costituisca l’addio di Shakespeare alla giovinezza, ma di certo è un addio all’Amleto della giovi-nezza. Il nome Amleth deriva dall’antica parola norrena che significa «idiota» e designa un infido buffone che finge di essere pazzo. Dopo la scena del cimitero non rimane nulla della «sfrenata stravaganza» del principe, e anche in quell’oc-casione la follia si è trasformata in un’intensa ironia diretta alle volgari immagini della morte. Perché Shakespeare scrisse la scena del cimitero, dal momento che l’evocazione di Yorick non fa procedere l’azione? La domanda ha senso solo se la applichiamo ad altre scene di questa sorprendente opera che, essendo composta da quasi quattromila versi, è troppo lunga per la rappresentazione teatrale. Non sappia-mo nemmeno se sia mai stata messa in scena per intero nella Londra di Shakespeare, anche se forse le rappresentazioni tenutesi a Oxford e Cambridge furono integrali.

    Sebbene questa ipotesi sia un’eresia per quasi tutti gli sha-kespeariani moderni, rimane la possibilità che Shakespeare abbia scritto solo questa volta spinto da impulso puramente personale, sapendo che avrebbe dovuto tagliare il testo a ogni messa in scena. Ciò potrebbe spiegare la differenza tra i 3800 versi del secondo in quarto e l’omissione di 230 di quei versi nel primo in folio. Il fatto che il primo in folio con-tenga altri ottanta versi non presenti nel secondo in quarto

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  • indica forse che Shakespeare continuò a rivedere Amleto dopo il 1604-1605, quando comparve il secondo in quarto. Ritengo che l’in folio sia l’ultima versione di Shakespeare, anche se, con i suoi 3650 versi, era forse troppo lunga per i teatri londinesi. L’Amleto integrale, composto da 3880 versi, ci rammenta che il dramma non è solo la «Monna Lisa della letteratura», ma anche la mosca bianca di Shakespeare e un’anomalia all’interno del suo canone.

    Credo che Shakespeare non abbia mai smesso di scriverlo, dalla prima versione, risalente al 1588-1589, fino quasi al suo ritorno a Stratford. Con ogni probabilità, il secondo in quarto fu stampato direttamente a partire dal manoscritto, mentre il testo del primo in folio fu l’ultima versione del dramma rimasta ai suoi colleghi attori. Quest’opera, il più personale e tenace dei trentanove drammi di Shakespeare, suggerisce senza dubbio un atteggiamento ossessivo. Forse, essendo un maestro dell’ironia (come lo ha definito Kierke-gaard), Shakespeare amava pensare che solo La tragedia spa-gnola di Kyd, che secondo alcuni studiosi influenzò Amleto, fosse stata un successo di pubblico quanto quest’ultimo e i drammi di Falstaff. Salvo che tra gli studiosi, La tragedia spa-gnola è ormai morta; non ho mai assistito a una sua rappre-sentazione, so che ne sono state allestite poche e non credo che riuscirei a sopportarne una, anche se ho tollerato varie messe in scena di Tito Andronico. Amleto è sopravvissuto a qualsiasi cosa, persino a Peter Brook, e l’immortalità di Fal-staff trascende persino la migliore opera di Verdi. Possiamo immaginare che cosa significasse Amleto per Shakespeare?

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    È ragionevole pensare che nessuno riuscirà mai a definire la fede religiosa di Shakespeare, né durante la giovinezza né in età matura. A differenza del padre, che morì cattolico, Sha-kespeare conservò la sua consueta ambiguità in quest’area

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  • pericolosa, e Amleto non è un’opera protestante né cattolica. Ritengo che non possa definirsi un testo cattolico o non cat-tolico, perché lo scetticismo di Amleto non si limita solo a su-perare la sua probabile origine in Montaigne, ma nell’atto V si tramuta in qualcosa di molto ricco e bizzarro, qualcosa per cui non esiste alcun nome. Il pubblico non avverte il desiderio di contestare Fortebraccio, che ordina la musica militare e i riti della guerra, né Orazio, che invoca voli di angeli. Di chi era soldato Amleto, e perché l’intervento angelico non sembra fuori luogo? Il dramma si conclude con un’epifania molto originale e del tutto laica, quando uno splendore trascendentale sembra emanare dagli onori che i soldati tributano al corpo del principe. Sullo sfondo si staglia il sorprendente tentato omicidio di Orazio, impedito da Amleto affinché il seguace possa diventare il suo memo-rialista e possa guarire il suo nome offeso. A pronunciare l’ultima parola, che è «sparare» non è tuttavia Orazio ma Fortebraccio. La salva fa parte dei riti della guerra, che forse celebrano Amleto come un nuovo Fortebraccio. È difficile credere che Shakespeare non concluda con un’ironia idonea al principe, che non era solo ironico di per sé ma causava l’ironia anche negli altri. Orazio e Fortebraccio non sono iro-nisti, e Shakespeare ci abbandona, con un certo rammarico da parte nostra, quando Amleto non è più in grado di fare un ultimo commento su ciò che sembra ironico e tuttavia trascende forse l’ironia cui siamo abituati.

    Penso che quelli che critici come Empson e Graham Bradshaw chiamano «problemi di innesto» non servano a spiegare Amleto, perché Shakespeare non intervenne su un melodramma kydiano ma rivide un proprio dramma prece-dente. Da J.M. Robertson ai giorni nostri, sono state avan-zate parecchie ipotesi sull’Ur-Hamlet (a prescindere da chi l’abbia scritto), ma non altrettante sul primo Amleto. Anche se il dramma originale fu una creazione di Shakespeare, il principe del 1588-1589 doveva essere una semplice ca-

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  • ricatura rispetto all’Amleto del 1600-1601. Il problema di Shakespeare non consisteva tanto nell’inserire Amleto in un contesto adeguato quanto nel mostrare un personaggio più sottile all’interno di uno più grossolano. È ragionevole pensare che il primo Amleto di Shakespeare fosse molo più simile all’Amleth di Belleforest: un imbroglione fortunato privo di eroismo arcaico, che non rifletteva tanto su se stesso quanto sui pericoli da evitare. Il secondo Amleto, quello rivisto, non è un abitante di un mondo inadeguato, ma è a dir poco due esseri allo stesso tempo: un sopravvissuto del folklore e un contemporaneo di Montaigne. Tutto ciò è po-sitivo: l’infinito fascino di Amleto cancella la distinzione tra Saxo Grammaticus e i Saggi di Montaigne. Non sappiamo se ciò sia cominciato come scherzo personale di Shakespeare, ma ha funzionato e funziona tuttora.

    L’Amleto del 1601 non è più adatto al ruolo del vendica-tore, perché la sua libertà intellettuale, la sua vastità di spirito sembrano in netto contrasto con la missione imposta dallo spettro. Questa è forse l’argomentazione su cui soffermarsi se l’idea della revisione della prima versione del dramma da parte di Shakespeare non riesce a chiarire l’eterno enigma della versione finale. Come nel testo di Belleforest, l’Amleto dei primi quattro atti di Shakespeare è un giovane di circa vent’anni, uno studente dell’università di Wittenberg, dove desidera tornare e dove tra i suoi amici vi sono il nobile Ora-zio e gli sventurati Rosencrantz e Guildenstern. Laerte, che appartiene alla medesima generazione, desidera forse tornare all’università di Parigi. Dopo non più di qualche settimana, l’Amleto dell’atto V ha tuttavia trent’anni (secondo quanto dice il becchino) e sembra avere almeno la stessa età del trentasettenne Shakespeare. Tornando al vecchio dramma, l’autore partì forse da un Amleto ancora minorenne (co-me quello di Bellforest e dell’Ur-Hamlet shakespeariano), ma può darsi che il processo di revisione abbia prodotto l’Amleto maturo dell’atto V. Affezionato, in certa misura, al

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  • personaggio della versione precedente, il drammaturgo non risolse la contraddizione. Quando chiamò il figlio Hamnet, Shakespeare aveva solo ventun anni, e non ne aveva più di venticinque quando scrisse il suo Ur-Hamlet. Voleva en-trambe le cose: rimanere aggrappato alla visione giovanile di Amleto e mostrare un Amleto ormai maturo.

    Nella Nascita della tragedia (1873), Nietzsche fornisce un’esatta descrizione di Amleto, definendolo non l’uomo che pensa troppo ma l’uomo che pensa troppo bene:

    L’estasi dello stato dionisiaco con il suo annientamento delle barriere e dei limiti abituali dell’esistenza contiene infatti, mentre dura, un elemento letargico, in cui si immerge tutto ciò che è stato vissuto personalmente nel passato. Così, per questo abisso di oblio, il mondo della realtà quotidiana e quello della realtà dionisiaca si separano. Ma non appena quella realtà quotidiana rientra nella coscienza, viene sentita con nausea come tale; una disposizione ascetica, negatrice della volontà, è il frutto di quegli stati. In questo senso l’uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e provano nausea di fronte all’agire; giac-ché la loro azione non può mutare nulla nell’essenza eterna delle cose, ed essi sentono come ridicolo o infame che si pretenda da loro che rimettano in sesto il mondo che è fuori dai cardini. La conoscenza uccide l’azione, per agire occorre essere avvolti nell’illusione – questa è la dottrina di Amleto, non già la saggezza a buon mercato di Hans il sognatore, che non si decide ad agire per troppa riflessione, quasi per sovrabbondanza di possibilità. Non è la riflessione, certo – è la vera conoscenza, è la visione della verità raccapricciante, che prepondera su ogni motivo sospingente all’azione, tanto per Amleto quanto per l’uomo dionisiaco.

    Come sarebbe strano e illuminante applicare la definizione di Nietzsche a Sir John Falstaff, un altro apparente dioni-siaco, l’unico rivale shakespeariano di Amleto in termini di vastità di coscienza e acume intellettuale. È chiaro che una volta, molto prima che lo conoscessimo, Falstaff gettò

    Estratto della pubblicazione

  • uno sguardo vero nell’essenza delle cose. Il veterano guar-dò attraverso la guerra e gettò via l’onore e la gloria come illusioni pericolose, ordinando invece a se stesso di giocare. A differenza di Amleto, Falstaff ha acquisito la conoscenza senza esserne nauseato, e in lui la conoscenza non inibisce l’azione ma la spinge da parte come se non contasse nulla rispetto all’intramontabile mondo del gioco. Hotspur espri-me quest’idea con grande precisione:

    Dov’è suo figlio,il matto principe di Galles lesto di gambee i suoi soci, che tenevano il mondo in dispregioe gli dicevano di passare.

    [Enrico IV – Parte prima, IV.i.94-97]

    Amleto, che è il Falstaff di se stesso, non smette mai di gio-care, anche se Amleto è così crudele e Falstaff, nonostante la sua millanteria, è così dolce. I critici marxisti confondono il proprio materialismo con la materialità di Sir John e ve-dono questo grande personaggio come un opportunista. A differenza di quello del principe, l’investimento di Falstaff è nell’arguzia fine a se stessa. Facciamo un confronto tra le due figure nel loro momento di massimo splendore, Amleto nel cimitero e Falstaff nella taverna:

    Amleto. Quel teschio ebbe una lingua, un tempo, e poteva cantare, e il marrano lo scaraventa per terra come se fosse la mascella di Caino, che commise il primo delitto. Potrebbe essere il cranio di un politicante, questo che il villano ha gettato via, di uno che si sarebbe sentito di ingannare anche Dio: tu che ne dici, Orazio?

    Orazio. Potrebbe essere.Amleto. O di un cortigiano. «Buondì, mio sire; dolce mio

    sire, avete ben dormito?» Perché no, il cranio di un messer Tal-dei-tali, che lodava il roano di messer Tal-dei-tal-altro con la speranza di averlo in dono. Che ne dici, Orazio?

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    CopertinaBiografia di Gabriele BaldiniCopyrightPresentazione