Wickham_L'Italia Nel Primo Medioevo. Potere Centrale e Societa Locale (400-1000)

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INTRODUZIONE

L'Italia è, geograficamente, un'unità, almeno nel nome; la catena delle Alpi rende ciò indiscutibile.Essa non costituisce tuttavia una unità omogenea. L'Italia è ed è sempre stata un insieme di regioni,e ciascuna regione è un insieme di unità minori. Alcune di queste sono antichissime, ed hannoconservato la propria identità ed una sorta di coesione interna anche sotto i governi più forti, qualil'Impero Romano e lo Stato Italiano di questo secolo. Ancor oggi, l'italiano è una seconda linguache la maggior parte dei bambini deve apprendere come tale; il dialetto che parlano a casa è cosìdiverso in alcune parti dell'Italia da poter venir classificato come una lingua a sé. Un italiano, primadi essere un italiano è un milanese o un napoletano; o, molto spesso, identifica l'essere italiano conl'essere milanese o napoletano. Che questo sia un problema fondamentale è simboleggiato dal fattoche il Partito Comunista Italiano non chiama il suo quotidiano « Umanità », o « Avanti », o « Verità», come in altre parti d'Europa, ma l'Unità, indicando, almeno in parte, la necessità di renderel'unificazione italiana una realtà, parallelamente a qualsiasi progresso verso il socialismo.

E’ in un tale contesto che lo studio dell'Italia durante l'Alto Medioevo può risultare utile anche aglistorici contemporanei. Poiché il periodo che va circa dal 500 al 1000 è quello in cui, nell'intervallofra la Repubblica Romana ed il 1815, vennero fatti gli unici seri tentativi di trasformare l'Italia inuna qualche sorta di entità politica indipendente, ed in cui si verificò in effetti il globale definitivofallimento di tali tentativi, che naufragarono alla fin fine sugli stessi scogli esistenti oggi: la persistentecruciale importanza di identità e problematiche locali. Soltanto per pochi decenni l'Italia tutta fuparte di un singolo stato indipendente: approssimativamente dal settimo decennio del v secolo alquarto decennio del VI; ma la gran parte della penisola (due terzi, circa) costituì in qualche modouno stato unico per la maggior parte dell'Alto Medioevo, e i re italici, ostrogoti, longobardi efranchi, furono ricchi e potenti. Tuttavia, il regno che ebbero a governare non costituiva un'entitàcoerente più di quanto lo sia l'Italia moderna, e per le stesse ragioni, rese maggiormente valide dauna economia sottosviluppata e da cattive comunicazioni: le località italiane erano assolutamentedissimili e possedevano ciascuna una propria storia e un proprio sviluppo. Tali problemiaccomunano tutta l'Europa medievale; l'interesse dell'esperienza italiana sta nel relativo successoche ebbero molti di quei re. La frantumazione dell'Italia non era affatto inevitabile, tranne forse perquanto riguarda la separazione da essa del Meridione, che costituisce ancor oggi il problemapolitico italiano più spinoso; e vi furono parecchi momenti nell'VIII e IX secolo in cui sembrò che itentativi centralizzanti di alcuni sovrani potessero aver esito positivo... seinbrò quasi che avesseroe,iettivamente successo. I1 loro fallimento deve pur quindi essere spiegato, ed è altrettantointeressante.

L'Italia dell'Alto Medioevo non è stato vista tradizionalmente nell'ambito di questi problemi. L'Italiadel periodo che intercorre fra la caduta dell'Impero Romano d'Occidente e il sorgere dei comuni nonè certo un campo di studi semplice, e se ne è trattato qualche volta con un po' di imbarazzo.L'invasione dell'Italia da parte dei Longobardi nel 568, non molto tempo dopo che 1'Imperod'Oriente l'aveva con difficoltà sottratta agli Ostrogoti, spezzò effettivamente l'unità politicadell'Italia nel suo insieme. L'altra forma politica « naturale » italiana, la città-stato indipendente,fece la sua riapparizione soltanto al sorgere di Amalfi e di Napoli nel secolo IX e di altre città piùfamose del nord e del centro nel secolo XI. Per gli storici del tempo passato, quel periodointermedio non pareva conformarsi ad alcuna chiara regola.

L'Italia, culla di cultura e di civiltà, mostrava pochissimo dell'una e dell'altra in quei secoli, tranneche per una considerevole sofisticazione dell'apparato legale, e per l'occasionale presenza di scrittoridallo stile pretenzioso, con vere capacità letterarie (come Paolo Diacono) o senza (come Liutprando

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da Cremona). L'Italia, centro mercantile del Mediterraneo antico e medievale, pareva aver persotemporaneamente contatto

col mare, mano a mano che un porto dopo l'altro lungo le coste del Tirreno e dell'Adriatico fuabbandonato e chiuso. D'altra parte, pareva che l'Italia fosse passata sotto il controllo dei guerrieribarbari del nord germanico, che vi introdussero le forme della loro società: l'economis chiusa, lacurtis, il fendalesimo. Sembrà che l'Italia fosse divenuta parte dell'Europa settentrionale, persvilupparsi lungo linee nord-europee, finoché giungessero a liberarla i fondatori dei comuni e iprimi imprenditori del capitalismo mercantile. Lo storico belga Henri Pirenne fornì l'analisieconomica classica di un'Europa il cui centro di gravità s'era spostato dal Mediterraneo al Reno,dopo la chiusura del Mediterraneo operata dagli Arabi... ma già scrittori italiani della generazioneprecedente a quella di Pirenne avevano dipinto un fosco quadro di un'Italia dvisa e feudale, dove lacampagna s'era resa indipendente dalla città, pur se e in conseguenza del fatto dhe la città s'era fattarurale quanto la campagna. Anche se ci si sarebbe potuto aspettare che un tal quadro inducessealmeno ad una analisi attenta delle parti del paese non cadute in mani germaniche, quelle areefurono in realtà studiate assai poco, con l'eccezione della Roma dei Papi. La storia del diritto e delleistituzioni costitul il tipo principale di letteratura storica prima della seconda guerra mondiale, e ilsuo peculiare orientamento contribul a distorcere ancor più l'immagine complessiva.

Tali tendenze raggiunsero l'apice in Italia nell'epoca fascista, con il suo forte, pur se per noi ironico,elemento di anti-germanismo. In quell'epoca pochi studiarono l'Italia dell'Alto Medioevo. Delperiodo dei re longobardi, che ebbero sempre particolarmente a soffrire di questa tradizionestoriografica, Gabriele Pepe poteva scrivere nel suo Il Medioevo Barbarico d'Italia (1941) ancoroggi in commercio:

I duccento anni che vanno dal 568 al 774... costituiscono uno di quei secoli ideali che Vico diceva ainfelici », se non è il più infelice della nostra storia; né il ferreo secolo x, né l'età dellaControriforma, né la reazione tra il 1821 e il 1848, ci danno tanta pena, tanta impressione di morte,come questi duecento anni. Dopo la morte di Gregorio I, le tenebre sono più profonde; quella lucedi vita politica ed economica che viene dalle città bizantine è anch'essa offuscata da spiriti selvaggie di sangue, da crudeltà, da tendenze anarchiche.

Nessuno potrebbe descrivere oggigiorno l'Italia dell'Alto Medioevo, o una quslche sua parte, in talitermini negativi. Abbiamo abbandonato lo sprezzo moralistico del periodo di cui Pepe fu un tardo,anche se energico, retore. Nel dopoguerra la storia altomedievale italiana ha vissuto una sorta dirinascenza. I1 1948 è una data significativa; vi fu stampato il memorabile studio di GianpieroBognetti, che fece parte di un'analisi contemporaneamente storica ed architettonica della chiesettalongobarda di S. Maria di Castelseprio, tra Milano e Varese, situando quella chiesa su un ampio edettagliato sfondo di storia politica e religiosa dei secoli v, VI e VII t. Oggi opere eccellenti su quelperiodo non mancano, e per la maggior parte sono ovviamente in italiano, ma un grande aiuto èanche venuto dal riaccendersi del tradizionale interesse tedesco per la storia italiana: studiosi inglesie francesi sono senz'altro meno numerosi ma hanno pur reso un certo numero di importantissimicontributi. Alcune sintesi generali, basate su lavori recenti, stan pure cominciando ad apparire, e lapiù notevole fra queste è quella contenuta nei contributi di Giovanni Tabacco e Philip Jones allavasta opera a più mani Storia d'Italia, pubblicata da Einaudi nel 1974. Tuttavia, non c'è ancora statoun tentativo di fornire una monografia dello sviluppo dell'Italia in quegli anni.

Ci son modi più eff1icaci di considerare la storia italiana altomedievale che non vedervi lo splendoreriflesso del passato e del futuro. Pochi storici cercheranno mai di negare che la grande cultura

1 Cfr. bibliografia (B6-c).

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italiana abbia avuto ben pochi nomi illustri fra Gregorio Magno e Pier Damiani, o che ci sianopoche opere architettoniche notevoli tra San Vitale a Ravenna e la cattedrale di Pisa; ma quelperiodo durò cinque secoli, secoli di sviluppo e di sperimentazione come tutti gli altri, e non tantobui in Italia quanto lo furono in molte altre parti dell'Europa contemporanea.

Un primo modo è già stato indicato. Pur se di rado completamente unito, lo stato italianosoprawisse al crollo dell'Impero Romano d'Occidente. L'Italia rimase, concettualmente, un'unità.Paolo Diacono, scrivendo negli ultimi anni del secolo VIII, ne elencò le diciotto provincie, dalleAlpi alla Corsica, la Sicilia e la Sardegna2. Fu come se nulla fosse mutato in tre secoli. E' vero cheuna tale impressione deriva largamente dal fatto che la terminologia di Paolo era molto antiquata:potrebbe facilmente appartenere al VI secolo, o ad epoche ancor più antiche (considerando che erainaccurata anche secondo i modelli del VI secolo). In queI brano, Paolo ignorò scrupolosamentequalsiasi sviluppo successivo a quei tempi, eccetto che per brevi allusioni a Bobbio (il monastero diColombano, fondato nel 612) e a Pavia, nuovo nome di Ticinum, che sostituì il nome vecchioallorché la città divenne capitale dell'Italia longobarda. Comunque, il concetto di Paolo dell'unitàitaliana sussisteva nonostante la divisione politica. Che fosse un concetto condiviso dai sovrani puòessere constatato facilmente nelle attività dei più forti di loro, da Liutprando (712-44) a Lodovico II(844-75), le cui intenzioni di occupare l'intero territorio son più che evidenti.

Questo concetto dell'Italia come entità ancor definibile è sottolineato dalla somiglianza soggiacentealle formazioni politiche della penisola. La più importante delle quali era il Regno Italico, centratosulla pianura padana ed esteso verso sud fino a dove arrivava la potenza del suo re; ma ci fu ancheuna lunga fila di stati minori sparsi qua e là per l'Italia dopo il 568, l'Esarcato attorno a Ravenna(fino al 750), le terre governate dai Papi, le città sulla baia di Napoli, e gli stati longobardi nel sud,che vari re cercarono di integrare nel Regno Italico, ma che per lo più rimasero indipendenti. Tuttequelle entità conservarono una posizione e una consapevolezza pubblica, basate nella maggior partedei casi sulle stesse fondamenta su cui si appoggiava il Regno Italico: il reticolo di città.

Le città erano vecchie. Molte di loro, in effetti, erano più antiche dello stesso Impero Romano.Erano depositarie nella sostanza della coscienza pubblica e delle responsabilità dell'Impero, emantennero tali caratteristiche per tutto l'Alto Medioevo. Ci sono, quindi, ascendenze dirette deicomuni nella Repubblica Romana. Lo stato italiano conservava la struttura cellulare dell'Impero.Inizialmente, le implicazioni di ciò furono positive per lo stato, in quanto l'Impero era stato forte ecentralizzato. Ma quando lo stato cominciò a cedere nel secolo x, la sua struttura costitul unelemento sfavorevole, poiché gli interessi di ciascuna città non si amalgamavano affatto nel governocentrale; l'Italia si trovò ad essere cosl una congerie di località con per di più interessi localigeneralmente cristallizzati attorno a singole città. Esisteva già un vitale reticolo di città-stato moltoprima che lo stato centralizzato abbandonasse la scena politica italiana.

I temi che verranno sviluppati nel corso di questo libro affrontano quattro livelli. Primo, l'ereditàdello stato romano, la sua continuazione sotto i re germanici, ed il finale cedimento nel x secolo.Secondo, le località che formavano la vera base spontanea per lo sviluppo della storia dell'Italia; leloro differenze regionali, geografiche, economiche, e la loro interrelazione dal punto di vistaeconomico. Terzo, la città ed il suo sviluppo, anch'essa retaggio della romanità, ma fondata su unasocietà locale di cui seguiva i mutamenti; la sua relazione col territorio; e gli aspetti sociali tipici diciascuna città, come l'alfabetizzazione e l'importanza della legge scritta. Quarto, l'importanzaschiacciante nell'economia, nella società e persino nella politica italiane della proprietà terriera,fatto ben noto e comune a tutta l'Europa Occidentale medievale, ma pur degno di venir sottolineato.Le stesse città dipendevano largamente dalle proprietà terriere dei loro abitanti, piuttosto che, per

2 Historia Langobrdorum, 2, 14-24 (cfr. capitolo 2, nota 1).

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esempio, dal commercio, come più avanti verrà chiarito. E' questa dipendenza della classearistocratica dalla terra, e, più esattamente, dalla coltivazione affidata a propri dipendenti, cheassumerò a tratto distintivo della società « feudale », piuttosto che la caratteristica più circoscrittadell'esistenza di feudi e vassallaggio; i feudi almeno erano relativamente rari in Italia nel nostroperiodo. Aggiungerei inoltre un quinto elemento, il rapporto tra l'Italia urbana e le zone montagnosenon urbanizzate che occupano l'interno dell'Italia peninsulare, come illustrazione della forzaistituzionale delle città di pianura. Lo studio di questo aspetto, però, è ancora alle fasi iniziali, e nonsi può quindi ancora trattarne con la completezza che meriterebbe.

Ovviamente, questi temi non includono tutti gli elementi dello sviluppo storico dell'Italia in questoperiodo. In parte ne è responsabile lo spazio. I1 Meridione italiano, quindi, non riceverà tantaattenzione quantao il Nord; pur se in questo caso altre ragioni sono una relativa scarsezza dimateriale storico, e la mia relativa ignoranza di molti fra gli sviluppi altomedievali nell'Italia a suddi Napoli. Ragioni simili, da aggiungersi a una effettiva differenza di esperienze storiche,precludono la considerazione delle isole, Sicilia e Sardegna (e in effetti, anche la Corsica, inmoltissimi aspetti più italiana delle prime due).

Un'altra notevole lacuna riguarda una considerazione della Chiesa come istituzione indipendente edello sviluppo culturale nelle sue forme medievali tradizionalmente accettate: la culturaecclesiastica, le belle arti e l'architettura. Preferisco vedere la Chiesa nel suo contesto sociale, e intale ambito apparirà in questo libro. I1 papato, che è stato comunque piuttosto impropriamenteconsiderato nel passato il vero simbolo della Chiesa e della cultura italiane (a tutto detrimento dellareputazione di ingegni capaci e meritevoli quali Giovanni X e Benedetto VIII), è stato in gran partetralasciato. In quanto simbolo di valore internazionale, la sua storia non rientra nei fini di questolibro; in quanto centro in grado di mettere a fuoco lo sviluppo locale di Roma e della campagnaromana, presenta lo svantaggio dell'estrema atipica peculiarità dello sviluppo di Roma come città;in quanto carica rivestita da molti grandi capi spirituali dell'Europa altomedievale, come Gregorio I,Adriano I, Nicola I, e Silvestro II, traviserebbe l'obiettivo di un libro che mira primariamente aconsiderare gli uomini nel tèmpo piuttosto che al di fuori di esso. Inoltre, il papato rappresentaun'eccezione nella storiografia altomedievale italiana, perché un numero non piccolo di studi glisono stati dedicati.

I temi trattati in questo libro son condizionati anche sotto un altro profilo: dalla natura delletestimonianze relative all'epoca. Gli italiani del nostro periodo non erano bravi storici; in realtàerano, con poche eccezioni, cattivi storici. Persino gli anglo-sassoni quasi analfabeti sono statiserviti meglio dalle storie e dalle cronache contemporanee, rispetto agli italiani. Fra la metà del VIsecolo dove si arrestano le storie di Procopio (e Procopio era ben poco italiano) e l'XI secolo, c'ècosì poca letteratura storica che basta appena a riempire un solo volume. Nel MonumentaGermaniae Historica, Ia celebre miniera di informazioni e fonti storiche, i testi relativi alla Galliamerovingia riempiono otto volumi. L'unico volume relativo all'Italia, però, lo Scriptores RerumLangobardicarum et Italicarum, copre l'intero periodo dal VI al X secolo, e agli autori ivi contenuti(Paolo Diacono, Agnello, Andrea da Bergamo, Erchemperto, Giovanni da Napoli e alcune opere piùbrevi) c'è ben poco da aggiungere oltre alle biografie dei Papi nel Liber Pontificalis, il ChroniconSalernitanum, e l'Antapolosis di Liutprando da Cremona. Ad eccezione del Liber Pontificalis, chetratta principalmente di Roma, nessuna di queste opere e di lunghezza notevole. Alcune di queste, inparticolare il testo di Andrea da Bergamo, rivelano un uso assai ingenuo del passato storico (si veda,più oltre). Inoltre le notizie sull'Italia riportate in testi non italiani, dopo Procopio, sono viziate dauna notevole scarsità di informazioni, se si eccettuano gli annali dei Franchi dei secoli VIII e IX.

In contrasto con la penuria in campo letterario, siamo ricchissimi di fonti documentarie. Questi noniniziano in epoche cosl remote come accade per la Francia e la Renania (esclusa la serie di papiri

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ravennati conservatisi risalenti ai secoli V, VI e VII), ma forniscono una buona documentazione sualcune parti dell'Italia almeno a partire dal secolo VIII (Lucca, Farfa, Brescia), e su molte altre apartire dal secolo IX (Milano, Verona, la maggior parte dell'Emilia, la Valle del Volturno,

Napoli), e aumentano progressivamente di volume. I fini prettamente specifici di singoli documentied il loro contesto assolutamente regionale sottolineano l'aspetto locale della storia italiana,ovviamente. E' possibile ricostruire una società alquanto intricata, a livello locale, grazie alla varietàdi documenti. Viceversa, se si cerca di stabilire l'attività dei sovrani sulla esdusiva base di diplomireali, così come ci si trova spesso a dover fare, si ottiene un'impressione piuttosto arida del governocentrale; e per capire come i due poteri interagiscono fra loro bisogna spesso ricorrere allesupposizioni. Un tal problema, per quanto riguarda il nostro periodo, è insolubile.

D'altra parte, siamo fortunati ad avere una buona raccolta di leggi risalenti al VII, VIII e IX secolo,accresciuta senza molta coerenza, più tardi, dai vari imperatori tedeschi; e, inoltre, in parecchiecentinaia di cause legali risalenti fino all'VIII secolo si può vedere come una tale legislazione abbiainfluenzato alcuni particolari tipi di controversie. Ciò può dimostrare se non altro come lo statoriuscisse a penetrare in alcuni aspetti della società: in effetti, la consapevolezza, nel popolo,dell'attività legislativa dello stato era considerevole.

Questo tipo di letteratura completa l'elenco delle tre principali fonti letterarie per lacstoria dell'Italiaaltomedievale. Esistono altri tipi di fonti letterarie, ma quantitativamente son poco significative.Un'eccezione è data dal gruppo di raccolte di epistole papali, e in particolare quelle di Gregorio I(590-604) e di Giovanni VIII (873-82), che, iniziando dal settimo decennio del VI secolo, sisusseguono piuttosto consistentemente, con almeno due o tre lettere per regno, e, a volte, comeaccade per Adriano I (772-95), più numerose. Non tutte le lettere si riferiscono alI'Italia (in quantoopposta a Roma e alle zone circonvicine da un lato, ed il resto dell'Europa dall'altro), ma ciòavviene per una buona quantità di esse, e nel caso dei tre papi summenzionati, le lettere formano unelemento di prova importantissimo per quanto concerne l'Italia nel suo insieme nei tre periodi.

Infine, I'archeologia sta cominciando a divenire un elemento testimoniale significativo,relativamente all'arco di tempo in questione. Non si può più ignorare l'opera degli archeologimedievali italiani come insignificante o mal svolta. Sono stati recentemente condotti scavi moltoimportanti che stanno già producendo risultati notevoli, permettendoci di aggiungere Luni, Genova,vari altri luoghi in Liguria e in Lombardia, Capaccio Vecchia in Campania, e varie località delLazio, del Molise e della Sicilia, ai dassici scavi compiuti prima degli anni Settanta: Ventimiglia,Castelseprio, Torcello, e la serie di cimiteri dei primi longobardi quali Castel Trosino e NoceraUmbra. Pur se mancano ancora, per quel che riguarda il periodo dhe va dal VII al x secolo, scaviesaurlenti e rivelatori in qualche città importante o grosso paese, così che il materiale probante chegetta luce sul nostro periodo ne è in parte ridotto, userò fonti archeologiche allorché le duediscipline (archeologica e letteraria) s'incontreranno.

Che una panoramica di questo tipo possa essere in qualche modo condotta è di per sé una prova dicome sia progredita negli ultimi tre decenni la storiografia italiana, soprattutto per quanto concernelo sviluppo di studi regionali altomedievali in grado di controbilanciare la ferratissima tradizione distudi locali sull'Italia dei comuni e successiva. Ma, più ancora che lo studio dell'Italia realizzato daKenneth Hyde, Politics and Society in Communal Italy 1000-1350 (trad. it. T1 Mulino 1977), il miolibro dovrà inevitabilmente scontrarsi con molte lacune nella ricerca. Di conseguenza, una granparte delle argomentazioni qui contenute sono, e possono soltanto essere, congetturali, soprattuttoquando giungono alla complessità del X secolo e alle tenebre del secolo XI, che, oltre ad essere unsecolo i cui documenti legali italiani sono ancora in gran parte inediti, manca ancora di buoni studilocali (tra le eccezioni: i classici studi su Milano di Violante, su Lucca di Schwarzmaier, e sul Lazio

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di Toubert)3. Va sottolineato dhe, qui come altrove, la necessità, tipica di un libro di tal sorta, digeneralizzare, fa sì che molti dettagli vadano perduti e molte eccezioni restino ignorate. Ma lapanoramica è indispensabile. La storia dell'Italia nell'Alto Medioevo rimane quasi totalmentesconosciuta anche agli Italiani, benché l'Italia e la storia italiana abbiano allora avuto influenzaformativa in Europa. Quando l'Italia è studiata—specialmente quando è studiata da stranieri ospesso vista come un'appendice dell'Europa settentrionale. Qui, almeno, costituirà il tema centrale,studiata indipendentemente. Ci sono dei problemi innegabili in una storia scritta da uno straniero,più particolarmente nella mancanza di comprensione dell'ambiente e del contesto sociale del paesepreso in esame. Ci sono comunque, come spero, alcuni vantaggi: un maggior disinteressamento, unamaggior facilità di generalizzare sull'esperienza multiforme di un popolo. Ho tentato di scrivere inquesto spirito, e ho voluto in particolare concentrarmi su un approccio tematico, per così dire,sull'Italia altomedievale, per aiutare tali generalizzazioni. Sta al lettore giudicare ın quale mısura siariuscito.

3 Cfr. bibliografia (B3-f).

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ELENCO DEI SOVRANI

Imperatori romani

Onorio (393-423)Costanzo III (421)Giovanni (423-5)Valentiniano III (425-55)Petronio Massimo (455)Avito (455-6)Maggioriano (457-61)Libio Severo (461-5)Antemio (467-72)Anicio Olibrio (472)Glicerio (473)Giulio Nepote (473-80) Romolo Augustolo (475-6) Odoacre, (476-93)

Re ostrogoti

Teodorico (490-526)Atalarico (526-34)Amalasunta (5345)Teodato (534-6)Vitige (536-40)Ildibaldo (540-1)Erarico (541)Totila (541-52)Teia (552)

Re longobardi

Alboino ([560] 568-72)Clefi (5724)Autari (584-90)Agilulfo (590-616)Adaloaldo (616-26)Arioaldo (626-36)Rotari (636-52)Rodoaldo (652-3)Ariperto I (653-61)Pertarito (661-2, 672-88)Godeperto (661-2)Grimoaldo (662-71)Garibaldo (671-2)Cuniperto (679-700) Alachi (circa 688-9)Liutperto (700-1)Raginperto (700-1)Ariperto II (701-12)

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Ansprando (712)Liutprando (71244)Ildeprando (735-44)Rachi (744-9, 756~7)Astolfo (749-56)Desiderio (757-74)Adelchi (759-74)

Re franchi (I = imperatori)

Carlomagno (774814, I 800)Pipino (781-810)Bernardo (812-7)Lodovico il Pio (I 81340)Lotario (817-55, I 824)Lodovico II (840-75, I 850)Carlo il Calvo (875-7, I 875)Carlomanno (877-9)Carlo il Grosso (879-87, I 881)Berengario I (888-924, I 915)Guido (889-95, I 891)Lamberto (891-8, T 892)Arnolfo (8946, I 896)Lodovico III (900-5, I 905)Rodolfo (922-6)Ugo (926-47)Lotario (931-50)Berengario II (950-62)Adalberto (950-62)

Imperatoti germanici fino al 1039

Ottone I (962-73)Ottone II (973-83)Ottone III (983-1002)Arduino, re (1002-15)Enrico II (100424)Corrado Il (102439)

Principi di Benevento fino al 981

Arichi II ([ 758], 77487)Grimoaldo III (787-806)Grimoaldo IV (806-17)Sicone (817-33)Sicardo (833-9)Radelchi I (839-51)Siconolfo (839-49) (Principe di Salerno 849-51)Radelgario (851-3)Adelchi (853-78)Gaideri (878-81)

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Radelchi II (8814, 897-900)Aione (88491) Orso (891-2)Occupazione bizantina (892-5)Guido IV di Spoleto (895-7)Atenolfo I (900-10)Landolfo I (90043)Landolfo II (943-61 )Pandolfo I (943-81)

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Capitolo primoL'EREDITÀ DI ROMA

Molte caratteristiche dell'Italia altomedievale sono state in qualche modo, legittimamente oillegittimamente, ereditate da Roma; ne discuteremo lungo l'intero libro. Due, comunque, vannoconsiderate subito in quanto quinte e ribalta di ciò che seguirà: prima cosa, il paesaggio; seconda, lastoria politica ed amministrativa del tardo Impero e del regno ostrogoto, dalla cui struttura sisviluppò l'ossatura degli stati italiani altomedievali.

I Romani non possono rivendicare il paesaggio italiano come prodotto della loro storia; le suecaratteristiche fondamentali son più antiche di qualsiasi società. I Romani, però, lo alterarono più diquanto non fecero altre società sino almeno al secolo XVI e probabilmente al XIX. Non che iRomani siano stati in possesso delle tecniche necessarie per affrontare le avversità del loro ambiente(abbastanza spesso quelle tecniche ci mancano tuttora), ma ebbero a loro disposizione ottocentoanni per lasciare, con la forza, una propria impronta, e molti dei durevoli lineamenti dell'Italiarisalgono a loro in parte notevole: le colline disboscate ed erose del sud, la centuriazione (chesopravvive nei campi ancora nettamente squadrati di molte pianute italiane), la « coltura promiscua» di cereali, viti e olivi, e forse, soprattutto, il reticolo di strade e di città ancor oggi per la massimaparte vitali.

I1 paesaggio non fu del tutto addomesticato attraverso l'impatto con Roma, come si vedrà inseguito, ma quando si leggono gli scrittori latini verrebbe da credere che i Romani dessero tale fattoper certo. L'Italia, cosi come il resto del Mediterraneo, tende a sembrare sospettosamente uniforme nei testi romani. Gli elenchi itinerari la configurano unicamente come una rete dilinee e di punti: strade e città, « moneta corrente » dell'Impero. Le differenze regionali dell'Italiaromana vanno desunte da allusioni frammentarie nella Geografia di Strabone e nella Storia Naturaledi Plinio; le descrizioni della campagna sono di solito puramente convenzionali. Persinouna`narrazione dettagliata quale la Storia delle Guerre Gotiche di Procopio, scritta nel sestodecennio del VI secolo, non fa quasi alcuna allusione a montagne o foreste (malgrado laconsiderevole importanza strategica di queste); si potrebbe pensare, e a volte è stato propriopensato, che le foreste dell'Alto Medioevo furono una specie di nuova invenzione, un ritorno aitempi precedenti la romanità. Sarebbe un'esagerazione. Gli scrittori romani, nostra principale fonte,rappresentavano essenzialmente una élite urbana; amavano idealizzare la campagna, e recarvisi ilmeno possibile 1.

D'altra parte, i nostri testi medievali più antichi consistono per la massima parte di atti di transazionidi terra, con scarne descrizioni di casolari, colture e confini: stilizzati, pur se non idealizzati. Laterra incolta e non disboscata di cui fanno menzione, cosl come le montagne ed i fiumi, risaliva aitempi dei Romani. il in un tale contesto che risulta utilissimo segnalare gli esiti ottenuti dai Romaninell'edilizia, nel disboscamento e nell'idraulica; si configura un ambiente profondamentedifferenziato: fertile e arido, agricolo e pastorizio, montagnoso e piano, i freddi inverni del nord e learide estati del sud.

Di questi contrasti, il più importante è quello fra montagna e piapura. La prosperità delle varieregioni italiane in epoche preindustriali era virtualmente una funzione matematica del loro livellomedio sul mare. I Romani fecero dell'Italia una società urbana, una scacchiera di centinaia diterritori urbani, ma non riuscirono ad eliminare il contrasto tra le città ricche ed importanti dellapianura padana e le minuscole città con territori angusti lungo gli Appennini.

1 Si paragoni l'atteggiamento di Cassiodoro, Variae (MGH A.A., 12), 8. 31, 33 (in particolare 8.33.4).

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L'Italia è composta dalla grande pianura settentrionale, cinta di montagne, e dalla lunga crestaappenninica della penisola, nell'Italia centrale e meridionale, affiancata da pianure e colline (si vedala sezione dedicata alle carte geografiche). La parte pianeggiante a nord è costituita dalle valli delPo, dell'Adige e del Reno, difficilmente distinguibili alle loro imboccature, e dei fiumi minori delVeneto. Costituisce da molto tempo la zona più ricca dell'Italia, e ne è stata il centro politico, ilpunto focale, sin dal v secolo d.C., anche quando la capitale fu Roma. Le sue città sono state sin daltardo Impero le maggiori città italiane: Milano, Pavia, Verona, Ravenna; soltanto Roma e Napolison riuscite a competere con loro o a superarle, all'inizio del tempo qui considerato. Le Alpidominano la pianura, apparentemente invalicabili; i loro ripidi pendii nascondono tuttavia moltipassi accessibili, e questi sono ancor meglio transitabili sull'altro versante, dove le Alpi scendonopiù dolcemente. L'Italia è stata spesso invasa, nell'epoca che trattiamo, attraverso questi passi, e laloro esistenza spiega parte dell'importanza delle città che si trovano alla loro imboccatura: Torino epiù tardi Ivrea per i passi occidentali, Milano e Verona per quelli al centro, Aquileia e Cividale delFriuli per quelli orientali.

Ma ancor più importanti per quel che riguarda la storia interna dell'Italia appaiono gli Appennini sulmargine meridionale della pianura padana, giacché essi taglian fuori il nord dal resto dell'Italia. GliAppennini sembrano meno imponenti delle Alpi, sulla carta geografica, e sono per lo più soltantometà di quelle in altezza. Eppure hanno costituito una barriera importantissima. Anche là dove sonopiù bassi, a nord di Genova e di Perugia, hanno separato società totalmente differenti. La storia diPavia e quella di Genova, per esempio, pur se le città son distanti soltanto un centinaio dichilometri, non mostrano quasi niente in comune nel nostro periodo. I1 controllo dei passiappenninici era importante quanto quello delle Alpi, e giustifica la rilevanza di città quali Lucca eSpoleto, o, più a sud, Benevento. Gli Appennini, cosl come le Alpi, hanno dato unità alla pianurapadana. La pianura aveva i suoi contrasti: le terre ricche attorno a Milano e Verona, gli altopianidistanti del Piemonte, e le paludi del Po, che spaccavano l'Emilia dando sicurezza e isolamento aRavenna; ma la pianura padana rimase il nucleo centrale del regno italico fino alla fine del nostroperiodo, allorché la penisola s'era ormai da molto scissa in vari stati.

La penisola è dominata dagli Appennini. I suoi contrasti interni sono cosl grandi che è quasiimpossibile fare generalizzazioni: ad est, una sottile striscia di costa fertile che corre giù lungo tuttal'Italia da Rimini alle pianure e ai tavolati pastorizi delle Puglie; ad ovest, una serie di valli fluviali,fertili frecce puntate verso l'interno: in Toscana le valli del Serchio, dell'Arno e dell'Ombrone; nelLazio del Tevere e del Garigliano; in Campania del Volturno e del Sele; ciascuna con la sua diversastoria, sempre più esplicita fino a che diventarono i nudei degli stati peninsulari del X secolo. Lacresta montagnosa corre lungo la costa orientale, relegandola così ai margini della storia, conl'eccezione della Puglia. Dove s’allarga maggiormente giunge a sfiorare anche la costa occidentale,tra il Lazio e la Campania, classico spartiacque fra l'Italia centrale ed il sud. Ma le valli e glialtopiani della Toscana e del Lazio, a nord di-quello spartiacque, non formano una unità singola. Levalli son qui separate da terreni collinari e macchie desertiche, le colline metallifere ad ovest diSiena, il Monte Amiata a sud, e cosI via. Nessuno è mai riùscito a dare una forte impronta a queiterreni che contribuiscono, con la stessa efficacia degli Appennini, a distanziare e tener separate learee più ricdle e più urbanizzate dell'Italia centrale. I1 sud ha contrasti ancor maggiori, come sivedrà nel capitolo sesto. Questo tipo di differenziazione è il punto di partenza per le divergenzestoriche dell'Italia pianeggiante. Colline e montagne son poi anche quelle diverse le une dalle altre.

Con l'eccezione di alcune città chiuse fra gli acquitrini del Po e le lagune adriatiche, ogni cittàitaliana è in vista delle montagne. I montanari hanno cercato di non conformarsi alle regole sociali epolitiche della pianura, pur se gli abitanti di questa, in particolare i romani, hanno di solito preferitoignorare tale tendenza e hanno fatto di tutto per mitigarla. Meno facili da controllare furono le

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differenziazioni economiche: le montagne erano la roccaforte dell'economia pastorizia, e le pianurecoltivate erano di solito a corto di carne. Ai tempi della pax romana, e anche prima, i greggitransumanti attraversavano le pianure diretti ai pascoli estivi nei terreni paludosi lungo le coste.Certamente diminuirono nei momenti turbolenti dell'Alto Medioevo, ma le strade rimasero apertesino ai secoli XVI-XVII, con la seconda grande epoca della transumanza2, Solo alcune parti degliAppennini furono dedicate completamente al pascolo (probabilmente le alte valli del Sangro e delTrigno, per esempio); ma la coltivazione per uso locale, nel resto delle montagne, recò un dannoancora maggiore al potere delle terre basse, dato che permetteva l'indipendenza completa dalle valli.I1 controllo effettivo sulle genti di montagna da parte degli abitanti delle pianure poteva derivaresoltanto dalla proprietà terriera, ed è poco probabile che i proprietari terrieri di pianura abbianoesteso sistematicamente i loro possedimenti verso le montagne, almeno fino alla fondazione deigrandi monasteri benedettini, tra il VII e il IX secolo: Bobbio, Monte Amiata, Farfa, Montecassino,S. Vincenzo al Volturno, S. Clemente in Casauria.

Le montagne erano, e sono, selvagge. Le stesse pianure rimasero parzialmente incolte nel periodoromano. I Romani le disboscarono in gran parte: Papa Gregorio Magno dovette chiedere ai suoinemici longobardi a Benevento legname da costruzione calabro quando, nel 598, fece riparare lebasiliche romane di San Pietro e di San Paolo.3

Più difficile fu eliminare le paludi, sparse qua e là lungo una gran parte delle piane costiere e dimolti fiumi. L'apparato idraulico e l'arginamento dei fiumi richiedevano cure continue, e le pienedei fiumi divennero gradualmente più minacciose mano a mano che si cominciò a disboscare ilfondovalle. In ogni caso, molti dei grandi fiumi italiani erano indomabili con le tecniche romane. Lapianura padana non fu mai pulita degli acquitrini e delle boscaglie di sterpi. Sidonio Apollinare,scendendo lungo il Po fino a Ravenna nel 467, si abbandonò al lirismo scrivendo della vita animalee della vegetazione:

Ho ispezionato il Lambro bordeggiato di falaschi, l'Adda celeste, il veloce Adige, il lento Mincio,[...] risalendo un po' le loro acque in ciascun caso; avevano argini adorni di boschetti di quercia e diacero. Un concerto di uccelli vi cantava dolcemente [...] ogni cespuglio era un tumulto di gemmelungo i fianchi dei fiumi sul tiepido terreno impregnato di acqua4.

Oggi il Po non giunge a Ravenna, e l'Adige non ne è un tributario; neppure gli italiani moderni lohanno pienamente controllato. Di certo i Romani non avevano finito di bonificare le paludiaccessibili nelle pianure, alla fine dell'età romana. In testi ostrogoti, nel 507-11 si trovano ancoraprogetti di bonifica, non molto riusciti, per la verità, per la pianura a nord di Spoleto e le PaludiPontine fra Roma e Napoli 5. Gli insediamenti romani tendevano ad evitare i fondovalle, e sembranoesser stati più fitti nelle pianure elevate e nelle colline che costeggiavano le zone montuose.

Ciò che non appare chiaro è l'espansione dei terreni paludosi e delle sterpaglie in pianura alla finedell'epoca romana, quando (possiamo ritenere) il complicato sistema idraulico dell'Impero cominciòa venire trascurato, e nella quale (come si è pure soliti ritenere) la popolazione cominciò adiminuire. Una qualche considerevole espansione ci deve essere stata, ma è difficile quantificarla. Aparte alcune zone prosciugate artificialmente, come il Ferrarese e la piana fiorentina, ci sono scarsi 2 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II (tr. it. Torino 1976), pp. 73 ss.; P. Toubert (B3-f),pp. 269-73; F. Sabatini, La regione degli altopiani maggiori d'Abruzzo (Roccaraso, 1960).

3 Gregorio Magno, Epistolae, 9. 126 (MGH Epp. 1-2).

4 Sidonio Apollinare, Epistolae, 1. 5.5 Variae, 2. 21, 32, 33.

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elementi sull'abbandono di terreni estesi, alla fine dell'Impero. La zona costiera toscana e laziale, adesempio, era abitata all'epoca degli Etruschi e disabitata verso il 1100; ma i suoi tratti meridionalierano già parzialmente spopolati e forse malarici prima del tardo Impero, mentre zone a nord eranoancora prospere nell'VIII secolo, e avrebbero perso i propri abitanti, probabilmente, solo durante gliattacchi degli Arabi nel secolo IX6. I1 ritmo dell'abbandono delle campagne non coincideesattamente con i mutamenti politici; non si vede d'altro canto perché dovrebbe. E se si è esageratonel descrivere il disboscamento e il controllo sulle campagne durante l'epoca romana, si è ancheesagerato per quanto riguarda il declino dell'agricoltura e l'abbandono della campagna nell'AltoMedioevo.

I Romani, in effetti, seppero meglio affrontare il paesaggio italiano, e in modo più duraturo,costruendo strade; se gli ostacoli naturali dell'Italia non potevano venir controllati, potevano almenoessere aggirati e ignorati. Le grandi strade consolari rimasero la principale rete di comunicazioneitaliana via terra sino all'awento della ferrovia, senza quasi alcuna aggiunta, eccettuata la ViaFrancigena tra Piacenza e Roma, nuova arteria che costruì la costiera Via Aurelia allorché la costatoscana venne abbandonata dopo 1'800. Queste strade erano usate dagli eserciti, che si potevanomuovere attraverso l'Italia con grande agio e convenienza (per loro stessi...). Altrettanto poteva farel'amministrazione imperiale, attraverso un complicato reticolo governativo di cavalli da posta e distalle (il cursus publicus), che comprendeva persino il reclutamento forzato di imbarcazioni lungo ifiumi maggiori (al quale ricorse Sidonio per il suo viaggio lungo il Po). Funzionari e istruzionigovernative potevano attraversare l'Italia abbastanza velocemente. Gli amministratori carolingifecero poi la stessa cosa, pur se in maniera meno organizzata. I1 traffico privato invece era menocomune lungo tali strade, se si eccettuano i senatori amici dei funzionari romani, che sfruttavanoillegalmente il cursus publicus, e i mercanti di merci facilmente trasportabili, soprattutto beni dilusso. La maggior parte della popolazione, quando doveva viaggiare, trovava più economico e piùconveniente il tragitto per mare, se la cosa era possibile. E il traffico su larga scala, come quello digeneri alimentari, era proibitivamente costoso lungo le vie di terra. Si doveva sempre ricorrere allenavi, fino a dove esse potevano giungere, e di conseguenza era conveniente soltanto lungo la costa enella pianura padana dove molti fiumi erano navigabili: Brescia, Mantova, Cremona e Parmaavevano tutte i loro porti. Le carestie locali erano la norma in Italia, come altrove nel mondoromano, e la stessa organizzazione amministrativa del tardo Impero poteva fare ben poco peralleviarle, pur se Teodorico fece notevoli tentativi per ovviarvi all'inizio del vı secolo. Chispeculava sui cereali accumulava spesso profitti enormi7. Durante l'inverno cessavano più o menocompletamente i traffici sia per mare sia per terra, con la neve che sbarrava gli Appennini e letempeste nel Mediterraneo. Si comprende che la geografia ha avuto un ruolo determinante nellastoria italiana. Le organizzazioni statali potevano adempiere alle loro funzioni essenziali senzatroppi ostacoli creati dalle condizioni geografiche (eccetto forse negli Appennini meridionali), ma leregioni italiane su cui il loro governo si esercitava sono state quasi sempre ben circoscritte e conpochi legami permanenti fra di loro. Ciò accadde persino durante l'Impero Romano, e non è maicessato, fino alla metà di questo secolo. Allorché le organizzazioni statali si indebolivano tendevanoa perdere il controllo proprio su quegli elementi che mantenevano unita l'Italia. Quando crollal'organizzazione statale, l'Italia stessa si frantuma.

6 Plinio il Giovane, Epistolae, 5.6. 1; Rutilio Namaziano, De Redito Suo ; l'occupazione della costa toscana nell'VIIIsecolo può esser vista in numerosi documenti in Memorie e documenti per servire all'istoria di Lucca, v, 2, a cura di D.Barsocchini (Lucca, 1833).

7 L.C. Ruggini, Economia e società (Bs-c), Parte II, passim.

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Questa tendenza poi si cristallizza nell'altra grande eredità socioeconomica romana, la città. Lacostituzione dell'Impero Romano si basava tradizionalmente su città-stato o municipiasemiindipendenti, governate da curiae o amministrazioni cittadine locali. Pur se verso l'anno 400 lacosa si era ridotta a poco più che un mito opprimente (in quanto 1'<< indipendenza >> delleamministrazioni cittadine riposava sulla loro capacità di far fronte alle pesanti tassazioni impostedal tardo impero), l'identità locale delle città persisteva, e agiva come duraturo punto focale per iterritori che tradizionalmente facevano capo ad esse. Alcuni di questi territori rimangono quasiinalterati all'interno- dei moderni confini di provincia. Quando lo stato italico fini col venir meno, anord, nei secoli X e XI, il reticolo delle città gli sopravvisse e lo rimpiazzò. Le città-statosostituirono anche parecchi stati regionali della penisola, laddove le città erano abbastanza forti dapoterlo fare. L'Italia quale entità non soprawisse, ma la persistenza e la permanenza di città italianecostituisce una delle caratteristiche cruciali e peculiari della storia altomedievale. Come si vedrà, èun elemento costitutivo di ogni aspetto particolare che verrà di seguito qui trattato.

L'anno 476, che tradizionalmente data la « caduta dell'Impero Romano d'Occidente », non coincisecon alcun'importante rottura nella storia italiana, e ancor meno in quella dell'Impero d'Occidente.Affermarlo oggi è divenuto quasi un luogo comune, ma è ancora necessario. La deposizione inquell'anno, ad opera di Odoacre, di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d'Occidente, non haprovocato alcun commento nei cronachisti occidentali. Per esempio, nelle cronache della ConsulariaItalica l'unica differenza è nella terminologia: la serie di imperatori diventa ora una serie di re(barbarici)8. Solo alcuni scrittori residenti nella capitale dell'Impero d'Oriente, Costantinopoli,interpretarono il cambiamento nel tono apocalittico suggerito dai termini « caduta dell'Imperod'Occidente ». Gli Italiani, che vivevano più da vicino l'esperienza, non ne furono granché scossi.L'olocausto ebbe luogo in Italia durante la grande epoca delle guerre, 535-605: i cambiamentid'squilibrio verificatisi durante i governi germanici, prima Odoacre (476-93) e poi i re ostrogoti(490-553), apparvero, per contrasto, insignificanti.

Ovviamente nacquero fenomeni nuovi. Anziché da un sovrano romano preposto all'interoOccidente, gli Italiani ebbero a dipendere da un sovrano germanico della sola Italia (checomprendeva la Dalmazia, e le Alpi Centrali, la Rezia Romana), così come accadde per la Spagna ola Gallia dei Visigoti, o l'Africa dei Vandali. Odoacre ed il suo grande successore, l'ostrogotoTeodorico (490-526), si ritennero senz'altro pari agli altri re germanici. Ma verso il 476 lo stessoImpero d'Occidente s'era ristretto alla sola Italia e territori dipendenti, e la soggezione politica acondottieri militari barbari non rappresentava alcuna novità. Fin dai tempi di Arbogaste, nelpenultimo decennio del IV secolo, ce n'era stata una sequela ininterrotta—Stilicone, Saro, Ricimero,Gundobaldo—che si mescolarono a condottieri militari romani, quali Costanzo, Ezio e Oreste, chesi distinguevano per la razza esclusivamente. E la conquista dell'Italia da parte dei barbari fufondamentalmente diversa da quella da loro operata altrove. I Visigoti e i Vandali conquistarono lefrange dell'Impero d'Occidente, rompendo il sistema governativo romano; Odoacre invece siimpadronì del potere centrale con un colpo militare senza quasi spargimento di sangue, continuandonelle apparenze a riconoscere un imperatore d'Occidente rifugiatosi in Dalmazia, Giulio Nepote (m.480), e cercando pure il riconoscimento da parte dell'imperatore d'Oriente Zenone della propriaqualifica di suo viceré in Occidente (Zenone temporeggiò, ma non gliela riconobbe)9. La vitapolitica italiana proseguiva senza esserne particolarmente influenzata.

8 Consularia Italica, in MGH A.A., 9. La teoria di M.A. Wes secondo cui il senatore romano Simmaco avrebbe datogran risalto al 476 (B3-a) [per queste abbreviazioni cEr. Ia bibliografia a p. 247] è controbattuta da B. Croke, Thechronicle of Marcellinus in its contemporary and historiographical context, Oxford, tesi per il Ph. D., 1978, capitolo 5.9 Malchus, frammento 10 (Fragmenta Historicorum Graecorum, IV, a cura diK. Muller, Parigi, 1851); cfr. A.H.M. Jones, The constitutional position of Odoacerand Theoderic (A3-a).

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Tale vita politica s'era concentrata verso il v secolo in due luoghi: Roma e Ravenna. Romacostituiva il simbolo dell'Impero, la patria del Senato; Ravenna sostitul Milano nel 401 come sededell'amministrazione civile. Gli imperatori vivevano di solito a Ravenna, pur se parecchi di loro(particolarmente fra il 450 e il 476) le preferirono Roma. I re germanici fecero base esclusivamentea Ravenna, uscendone solo per visite uíliciali. Teodorico celebrò i suoi decennalia a Roma nel 500,con tutti i fasti imperiali, i giochi, il trionfo, le ricostruzioni e distribuzioni gratuite di grano10. Romae Ravenna rimasero in opposizione più o meno permanente: il passato e il presente, l'autorità e ilpotere, estrinsecazione geografica della vecchia tensione fra Senato e Imperatore... pur se dopo il400 1'Imperatore era divenuto figura meno importante che non quelle del potere esecutivo, cioèl'amministrazione civile e l'esercito. L'esercito, che verso la metà del V secolo era in maggioranzagermanico, tendeva a favorire un'amministrazione civile efficace, in quanto esso doveva far contosu un governo capace di raccogliere le tasse che lo mantenevano in vita. Non aveva una basegeografica stabile, ma i suoi centri erano nelle città settentrionali (considerando che il nord era piùfacilmente soggetto alle invasioni) e aveva stretti rapporti con Ravenna.

I1 contrasto sotterraneo fra Senato e amministrazione era di duplice natura. Innanzitutto, il Senatotendeva a considerarsi la fonte legittima di ogni autorità nello stato tardo romano, dipendentesoltanto dalI'Imperatore. Per definizione, continuava ad esserlo: il possesso di incarichiamministrativi era pressoché l'unico requisito di ammissione degli aspiranti al Senato, e in realtà ilperiodo fra il 425 (al piu tardi) e il 490, e in particolar modo il regno di Odoacre, vide i maggioriincarichi dello stato controllati in modo permanente dalle grandi famiglie senatoriali, soprattutto iDecii, gli Anicii e i Petronii. Tali senatori riuscirono persino, certe volte, a ottenere l'incaricoimperiale, con Petronio Massimo (455) e Anicio Olibrio (472), pur se per brevi periodi. Tuttavia, ledue gerarchie non coincidevano. Il prefetto del pretorio, maggior carica amministrativa, non eranecessariamente il senatore più importante, poiché l'importanza all'interno del Senato derivava dalpossesso dei titoli di console e di patrizio, in forza di una tradizione formale che risaliva sino aitempi della Repubblica Romana. Il prefetto non godeva del prestigio che tale tradizione offriva; eraperò infinitamente più potente. Teodorico, la cui forza si basava saldamente sull'esercito ostrogoto,fece rivivere la tradizione, risalente al IV secolo, di nominare nuovi ricchi, con adeguate capacità, incariche importanti, e affidò a volte degli incarichi ai Goti. Nel 510 giunse a nominare un non-romano nell'incarico di prefetto di Roma (l'influente orientale, Artemiodoro)11. I membri del Senatoche non appartenevano all'amministrazione dovettero trovare la cosa assai significativa. Come sivedrà, i senatori continuarono a rivestire posizioni preminenti a Ravenna, ma lì le regole non eranole stesse che a Roma.

In secondo luogo, e più importante, gli interessi delle due gerarchie erano in conflitto.L'amministrazione civile era responsabile per la raccolta delle imposte fondiarie in Italia, ivi inclusequelle sulle proprietà dei senatori. La scarsa disponibilità dei ricchi e potenti a pagare quell'impostafu una delle fondamentali debolezze dell'Impero nelV secolo, poiché essa serviva per sovvenzionarela difesa in un periodo in cui i barbari occupavano la Gallia, la Spagna e l'Africa. Allorché l'Imperosi restrinse all'Italia, l'esercito non diminuì proporzionalmente, e le altre principali voci della spesapubblica, la stessa burocrazia centrale e l'approvvigionamento di Roma, continuarono a gravaresoltanto sull'Italia. La tassazione era pesante, ma non eHicacemente raccolta (se non tra i poveri).Tassazioni supplementari su transazioni commerciali si rivelarono insufEcienti a coprire la spesapubblica. Come conseguenza, l'esercito finì col ribellarsi per motivi pecuniari, spingendo, nel 476,Odoacre al potere e domandando in cambio un terzo delle proprietà fondiarie italiane. La riluttanzaa pagare, da parte del Senato, fu in parte responsabile della rivolta, poiché la proprietà terriera nelle

10 Anonymus Valesianus (MGH A.A., 9), 65-7; Cassiodoro, Chronica (MGH A.A.,11), 1339.11 Variae, 1. 42-4.

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mani dei senatori era considerevole. Ma fu alquanto meno facile evitare l'insediamento terriero deibarbari, di quanto non fosse stato l'evitare di pagare le imposte. D'altra parte, le proprietà terriere deisenatori non si trovavano per la maggior parte nelle zone in cui i barbari s'erano maggiormenteinsediati.

L'influenza del Senato sembra essere stata particolarmente grande nel v secolo: stava comunquescemando. I maggiori senatori nella prima metà del v secolo, quali i Simmachi e Petronio Massimo,avevano entrate medie di più di 5000 libbre d'oro all'anno: nel terzo decennio del v secolo il padredi Petronio spese 4000 libbre d'oro per finanziare sette giorni di giochi pretori del figlio. Talericchezza, però, dipendeva dai possedimenti terrieri oltremare, soprattutto in Africa e in Sicilia. Laconquista germanica rese la conservazione di tali sparsi possedimenti sempre più diffícile. I Vandalisi erano insediati in Africa- e tra il 467 e il 477 occuparono anche la Sicilia, fino a quando Odoacrela riebbe indietro con un trattato. I senatori mantenevano le proprie ricchezze, ma nel periodoostrogoto si trovarono messi via via nell'ombra dall'amministrazione civile, che sotto Teodoricoricominciò con successo la raccolta delle imposte. E' forse significativo che Fausto, probabilmenteil più prestigioso senatore favorevole ai Goti dell'inizio del VII sècolo, e prefetto del pretorio perl'Italia nel 507-12, non siadivenuto famoso, come Petronio, per la stravaganza nella ricchezza, maper la (pure tradizionale) caratteristica senatoriale della corruzione e della cupidigia12. Si conosconopoco i dettagli delle rendite senatoriali, ma certamente le spese dei senatori andavano diminuendo.Essi erano sempre meno disposti a spendere denaro per costruire e ricostruire monumenti pubbliciche abbellissero Roma. Un'eccezione fu quella del tradizionalista Simmaco, che ricostrul il teatropompeiano verso il 510, e che venne rimborsato dal grato Teodorico. La maggior parte delle nuovecostruzioni, a Roma, è ora opera dei re (Odoacre, per esempio, rimise in ordine il Colosseo) e,sempre più, della Chiesa13. Nel loro confronto, il Senato stava certamente perdendo terreno. Ediventava sempre più difficile per l'Italia mantenere due separate gerarchie civili.

Fino ad ora la Chiesa non è apparsa in questa panoramica. Abbiamo trattato soltanto di Roma eRavenna. In entrambe le città la politica continuava ad essere questione di decisa pertinenza laica; ilche non signiíica che gli uomini della chiesa non vi avessero ruoli importanti (non fu certo questo ilcaso del vescovo di Roma). Alcuni dei vescovi e dei papi del v secolo conquistarono una rilevanzainternazionale, fra tutti Leone I (440-61) e Gelasio ~ (492-ó). Ma non erano i papi a controllareRoma, bensì, ancora, il Senato. La burocrazia ecclesiastica stava solo allora cominciando araggiungere quella coerenza interna che avrebbe retto la sua potenza nei secoli seguenti. Soltantoverso la metà del VI secolo, mentre il Senato veniva decimato dalla guerra e dall'emigrazione versoCostantinopoli, il papa (allora Vigilio, figlio e fratello di prefetti pretoriani) divenne una forzadi~amica. In questo aspetto, però, Roma non era rappresentativa di tutta l'Italia. Si può dir ben poco,in riguardo a questo periodo, circa le differenze regionali nella struttura italiana tra una zona eun'altra, ma le sedi del Senato e delI'amministrazione civile erano ovviamente atipiche. Almeno perciò che concerne l'Italia settentrionale, e particolarmente Milano e Pavia, i contrasti sono abbastanzachiaramente documentati.

I senatori rappresentavano l'aristocrazia romana, non l'aristocrazia italiana. Le città avevano le loronobiltà, ma fuori Roma queste non erano di solito molto ricche e influenti. Questo dato generale sispiega in parte da sé, in quanto i ricchi tendevano a comprarsi un accesso al Senato, ma l'esempiopiù noto di tal fenomeno, la famiglia dei Cassiodori, provinciali dei Brutii (Calabria), all'epoca delproprio maggiore esponente, Senatore Cassiodoro`(circa 487-582), passò gran parte del propriotempo a Roma e Ravenna. Le nuove famiglie senatorie persero le proprie radici e divenneroproprietari terrieri assenteisti: Cassiodoro tornò nella propria città, Squillace, solo al ritiro dalla vita

12 V Petronio Massimo: Olympiodoro, frammento 44 (frag. Hist. Gr., IV). Fausto: Variae, 1. 35, 3. 20, 27.13 Variae, 4.51; A.Chastagnol (B3-a).

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politica. A nord le famiglie emergenti erano in numero certamente rninore. Gli aristocratici localiavevano probabilrnente possedimenti territoriali in zone limitate, che raramente sconfinavano dallapianura padana. Comunque, la Chiesa si era già ben stabilizzata al nord ed era divenuta alquantoinfluente nelle città, e già nel v secolo stava accumulando proprietà terriere attraverso donazioni pie.A Milano aveva tratto bene~ci soprattutto nel tempo in cui quella città si era fregiata del titolo dicapitale e Ambrogio era vescovo, alla fine del IV secolo: la Chiesa milanese, in effetti, fu tra le piùricche. Anche a Pavia i vescovi ebbero grande peso, almeno dall'epoca di Epifanio (467-497). I duevescovi sunnominati; come pure altri fra cui Ennodio di Pavia (513-21) e Dazio di Milano (c. 528-52) si fecero portavoce delle proprie città, vere e proprie guide politiche: difensori delle popolazionida tassazioni eccessive, dall'ingiustizia e persino dagli eserciti nemici. Ebbero anche funzione dirappresentanti dello stato. Epifanio esegul varie ambasciate per conto di imperatori e di re; Ennodioscrisse panegirici per Teodorico; Dazio vendette cereali per conto dello stato durante la carestia del535, essendo l'unico uomo di cui il prefetto pretoriano Cassiodoro si Edava. La determinazione deiprezzi era di tradizionale eompetenza dell'amministrazione cittadina, ma i vescovi le si aíliancaronosempre di più14, così il prestigio della Chiesa andava equiparandosi a quello del consiglio cittadino,l'organo che rappresentava i proprietari terrieri della città. La collettività degli aristocratici, diMilano, per esempio, poteva ovviamente contare su una ricchezza di gran lunga maggiore di quelladei vescovi, ma la chiesa era divenuta un proprietario terriero ben più consistente di qualsiasisingolo proprietario terriero laico, e il suo potere ne usciva di conseguenza ampliato: Milano e Paviasono esempi tipici, tra le città principali dell'Italia settentrionale e di parte della stessa Gallia.Difficile è stabilire se anche nelle città del centro e del sud; forse, fuori dalla pianura padana, ivescovi non avevano ancora accumulato abbastanza terra da poter giocare un ruolo simile. Ma piùin là nel tempo tutte le città italiane avrebbero avuto nel vescovo il loro rappresentante. I1 poterevescovile dovette sopportare un certo contraccolpo durante l'invasione longobarda, ma ai consiglicittadini venne inferto un colpo mortale. Con la notevole eccezione, sembra, di Napoli, questi ultiminon riuscirono a giungere al secolo VII e i vescovi si ritrovarono, da un punto di vista istituzionale,privi di concorrenza. I loro rivali secolari dopo il VII secolo, duchi, castaldi e conti, furono per lopiù nobili locali, il cui ruolo ufEiciale era di rappresentanti del governo centrale, e non locale.L'unica carica propriamente cittadina fu quella di vescovo.

Sullo sfondo di queste tensioni nelle strutture sociali, la politica del tardo Impero venne aconfigurarsi per lo più come risultato dell'attrito fra ambiziosi imperatori e ambiziosi condottieri,attrito che almeno dopo il 408 (quando fu sconfitto Stilicone, magister militum dell'ImperatoreOnorio) si risolse sempre a favore dell'esercito. La cosa non sorprende: l'esercito aveva sempredeterminato la politica di Roma. La sola novità del v secolo fu che a comandare non ci fu piùl'imperatore. L'ultimo imperatore-soldato, Teodosio I, morì nel 395. I suoi successori, con brevieccezioni fra il sesto ed il settimo decennio del v secolo, non intervennero nelle questioni militari. (Ire ostrogoti, più tardi, avrebbero sofferto della stessa fatale emorragia di potere allorché, nel 526-36,non ebbero il comando dell'esercito.) Quegli imperatori furono tutti figure piuttosto secondarie, se sieccettua il breve regno del più vitale di loro, Maggioriano (457-61). I1 periodo è meglio illustratoattraverso la carriera dei condottieri militari Ezio e Ricimero, al loro apogeo rispettivamente nel429-54 e nel 456-72. Ezio fu l'ultimo personaggio a godere di prestigio sia in Italia che in Gallia el'ultimo che si oppose efficacemente agli invasori barbari dell'Impero, ricorrendo ai mercenari Unnicontro i Visigoti e agli alleati Goti contro gli Unni. Il suo assassinio nel 454 fu uno shock per icronachisti come non sarebbero stati i fatti del 476. La strategia messa in pratica da Ezio non è stataancora definitivamente delineata, ma sembra più che probabile che egli abbia sostenuto una fazionepro-Gallia del Senato contro almeno alcuni gruppi di senatori italiani che mal sopportavano i costi

14 Ruggini, op. cit., è lo studio fodamentale per l’Italia Settentrionale; pp. 330-5 sui vescovi. Ennodius, Vita Epifani(MGH A.A., 7 pp. 84-109)per Epiphanius; Variae 12. 27 per Datius

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delle sue guerre15. E’ certo che nel confuso periodo seguito alla sua morte, ci fu della rivalità tra ledue aree geografiche, particolarmente durante il breve regno dell'Imperatore Avito (455-ó),importante senatore gallico, sostenuto da un esercito gallico e infine deposto dopo avere subito unasconfitta durante una scaramuccia a Piacenza contro un esercito italiano comandato da Ricimero. E'difficile seguire la rivalità tra le due etnie, oltre il 456, d'altro canto la Gallia e l'Italia giàpercorrevano strade diverse; dopo la caduta di Maggiorino nel 461 la storia dell'una aveva pochirapporti con quella dell'altra. I Visigoti e i Burgundi espandevano sempre più i loro territori nellaGallia, mentre l'Impero era già quasi esclusivamente una realtà italiana.

Ricimero era stato uíficiale di Ezio, ed era nipote di un re visigoto. Per quinclici anni cercò diconsolidare in Italia la propria forza, accanto ad un imperatore condiscendente, non potendoassumere il trono in prima persona, in quanto germanico e (probabilmente) eretico ariano.Nonostante vari tentativi, non trovò mai un re che fosse contemporaneamente senza ambizioni egradito all'imperatore d'Oriente. Significativamente, per due volte (456-7 e 465-7) governò da solo,in qualità di patricius e diretto rappresentante dell'imperatore d'Oriente, ruolo che Odoacre cercò persé nel 47616 . Ma Odoacre fu rifiutato, e governò col titolo di re; il romanizzato Ricimero nonsarebbe mai probabilmente riuscito a scegliere quella via, e dovette quindi continuamente accettareimperatori che determinavano una condizione di instabilità. La storia politica del v secolo è permolti versi quella di una costante e fallita ricerca di un sistema politico stabile che fosse al tempostesso legittimo e militarmente eílìcace. Odoacre regalò all'Italia quattordici anni di pace. La suasoluzione fu, se non altro, più duratura di quella di Ricimero, ma soltanto Teodorico, che ottenne ilriconoscimento dell'Imperatore d'Oriente, risolse in pieno il problema, e la sua soluzione,dipendendo dalla volontà dell'imperatore d'Oriente, venne essa stessa a cessare di funzionarequando l'Oriente negò, nel 535, quel riconoscimento dando inizio alle Guerre Gotiche.

Odoacre fu efficace ma debole. L'esercito era compatto attorno a lui, giacché con un terzo delleterre italiane aveva, per la prima volta in un secolo, un sostentamento materiale sicuro, ma era unesercitopiccolo. Odoacre corteggiò il Senato con grandi blandizie, offrendo alti incarichi a molti suoiimportanti esponenti. Alcuni lo sostennero sino alla fine, ma la maggior parte di essi venne menoquando gli Ostrogoti, sotto Teodorico, invasero l'Italia nel 489, con l'incoraggiamentodell'Imperatore Zenone. I vescovi di Milano e di Pavia, che rappresentavano il nord, si schieraronoimmediatamente dalla parte di Teodorico. Nel 493, dopo quattro anni di guerra, Teodorico preseRavenna e uccise Odoacre. Teodorico era a guida di mna popolazione che contava forse cento ocentoventi migliaia di persone, con un esercito permanente di circa venticinque o trenta migliaia disoldati, stando a calcoli recenti17: un numero esiguo paragonato alla popolazione italianacomplessiva, che giungeva a parecchi milioni di abitanti, ma grande abbastanza per dare all'Italiauna forte base militare. Teodorico, diversamente da Odoacre, non aveva bisogno dell'appoggio deisenatori, pur se lo desiderava. Egual cosa, ma in minor grado, accadeva per il riconoscimento daparte dell'Impero d'Oriente, che comunque fu concesso nel 497 quando Anastasio I accettò chel'Italia non facesse più parte dell'Impero. I modelli di Teodorico furono Traiano e Valentiniano I, idue maggiori imperatori militari, e le sue attività politiche somigliarono molto a quelle dell'ultimo

15 B.L. Twyman, Aetius and the aristocracy (A3-a); ma per alcuni cambiamentinei dettagli riguardanti i gruppi, cfr. F.M. Clover, The family and early career of Anicius Olybrius (A3-a), pp. 182-92.16 Cfr. E. Sestan (Bl), pp. 202-3; A.H.M. Jones , Later Roman Empire (A3-a), p. 245. Per le vicende storiche fino al 565,cfr. le note in E. Stein (B3-a).

17 K. Hannestad, Le forces militaires d'après la Guerre Gothique de Procope, «Classica et Medievalia», 21 (1960), pp.136-83. I calcoli si riferiscono al 530 circa, ma con buona approssimazione possono ritenersi validi anche per il 490circa.

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di quei due18. Di certo egli fu il governante più forte che l'Italia ebbe dopo la morte di Valentinianonel 375. Lungi dal configurarsi come una rottura della continuità, il suo dominio pare piuttosto larestaurazione di una continuità che per un secolo era rimasta interrotta.

Una tale impressione è rafforzata dalla documentazione relativa al suo regno, giacché il periodoostrogoto è il primo di cui sia penenuta una buona documentazione, dopo la morte di Valentiniano.Tale documentazione deriva in gran parte dalla notevole raccolta di lettere ufficiali conosciuta comeVariae, scritta da Senatore Cassiodoro durante il suo periodo di attività politica fra il 507 e il 537,ma anche da una gran varietà di altri materiali: storie, agiografie, lettere, opere filosofiche. Apparechiaro dalle Variae che quello di Teodorico fu un governo efficace: che le tasse venivano pagate,anche (pur con qualche difEcoltà) dai senatori; che alcuni esempi, almeno, dell'enorme corruzionetipica del tardo stato romano, vennero eliminati; che la pace interna venne mantenuta; e che leguerre non solo venivano vinte ma erano condotte con popolazioni straniere. Procopio, che ebbe acombattere nell'esercito bizantino contro gli eredi di Teodorico, lo considerò l'equivalente morale diun imperatore, e varie fonti sottolineano la stima goduta fra i Goti e i Romani. Pare che nel 500promettesse al Senato e alla popolazione di Roma di non interferire con le loro leggi; e questoscrupolo diretto a conservare le tradizioni romane è la ragione principale per cui gli Ostrogoti, unavolta spodestati dalle Guerre Gotiche, non lasciarono quasi traccia del loro governo in Italia, tranneforse la monumentale tomba di Teodorico a Ravenna19.

Teodorico cercò di accattivarsi il Senato. Certo ci fu sempre un gruppo di senatori che preferìevitare il contatto con la corte barbara ariana, ma pochissimi dei senatori passati alla storia sitennero al di fuori degli incarichi amministrativi. Nel 522, il filosofo Boezio, uno dei capi di questogruppo tradizionalista, venne onorato col privilegio, assolutamente privo di precedenti, di entrambi iconsolati td'Oriente e d'Occidente) per i propri giovanissimi figli, e accettò il titolo di magistero~iciorum di Ravenna. A torto o a ragione, pare che egli abbia usato la sua posizione per difenderegli interessi del Senato contro il resto dell'amministrazione, e nel 523-4 fu prima imprigionato e poicondannato a morte; Teodorico, consciamente o inconsciamente, imitò ancora una voltaValentiniano, reprimendo violentemente l'opposizione dei senatori tradizionalisti. Boezio venneaccusato di avere complottato con l'imperatore d'Oriente, e che fosse vero 0 no nel suo caso, resta ilfatto che nel decennio seguente alla sua morte l'accusa si dimostrò vera al riguardo di altri senatori.Il Senato si divise fra i pro-Goti e anti-Goti; quando gli stessi Goti si spaccarono al loro interno,dopo la morte di Teadorico nel 526, il regno ne risultò decisamente indebolito.

La fazione pro-Goti del Senato pare la più interessante. E' quella su cui esiste una documentazionemaggiore, poiché i suoi membri ebbero parte attiva nell'amministrazione civile e figurano nelleVaride. Non fu affatto un gruppo omogeneo, e le carriere in reciproco conflitto di alcuni dei suoimembri indicano molto chiaramente le diverse correnti esistenti nella politica del regno ostrogoto.Dobbiamo iniziare da Liberio (circa 465-555), straordinariamente longevo, come il più giovanecontemporaneo Cassiodoro, e titolare di cariche ammini strative per circa sessantacinque anni.Tenne prima alcuni incarichi sotto Odoacre, e fu uno degli ultirni amministratori ad abbandonarlo.Teodorico lo nominò subito prefetto pretoriano (493-500), e lo incaricò di insediare i Goti su quelterzo di possedimenti italiani lasciati vacanti dai meno numerosi seguaci di Odoacre. Ci sono giuntedue diverse descrizioni laudative del successo di Liberio, ad opera di Ennodio e di Cassiodoro, incui sembrerebbe che la cosa fosse avvenuta in pace ed armonia, « i vittoriosi non desideravanoaltro, gli sconfitti non si considerarono puniti ». Comunque siano andate le cose, nelle numerosedocumentazioni in nostro possesso non risultano esserci tracce di dissàpori, tranne forse nel Sannio,

18 Anon. Vales., 60.

19 Anon. Vales., 66, 69; Procopio, Guerra, 6. 6.

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dove si stabill un gran numero di Goti. Sembra che Liberio abbia eseguito l'espropriazione diproprietà per l'insediamento dei Goti, operazione di cruciale importanza in qualsiasi occupazionebarbarica, con grande perizia. Ciò risulta ancor più rilevante se si ricorda che la conquista ostrogotafu la prima vera e propria conquista barbarica in Italia, molti decenni più tardi che in altre provinciedell'Occidente. Lasciato l'incarico di prefetto pretoriano, Liberio continuò ad avere una grandeautorità e nel 510 circa divenne prefetto del pretorio per la Gallia (cioè la Provenza, che Teodoricooccupò nel 508). Anche in questo incarico, di tipo più militare, sembra aver avuto eguale successo.Lo tenne fino al 533-4 circa, trovandosi in tal modo assente durante la crisi conseguente all'arrestodi Boezio e per tutto il regno di Atalarico, nipote e successore di Teodorico (526-34). Durante quelregno, cominciarono a generarsi alcune tensioni fra i Goti, in quanto Atalarico era minorenne e lamadre reggente, Amalasunta, era troppo romanizzata per poter risultare gradita ai più militareschifra i Goti. Alla morte di Atalarico, Amalasunta sposò il cugino Teodato (re, 534-ó), per rafforzare ilproprio potere di regnante, ma Teodato era un suo vecchio nemico e finl col metterla in prigione e,nel 535, la fece uccidere. Mandò alcuni ambasciatori che spiegassero le sue azioni all'imperatored'Oriente, Giustiniano, e fra questi scelse, a capo della spedizione, Liberio. Liberio svelò lemalefatte di Teodato e rimase in Oriente. Gli anni 534-5 segnarono la seconda crisi del regno degliOstrogoti. Se Teodorico aveva perso il sostegno dei tradizionalisti al Senato nel 523-4, Teodatoperse quello dei legittimisti fra gli amministratori nel 534-5. Significativamente, Liberio assunsesubito incarichi ufficiali in Oriente. Fu prefetto d'Alessandria alla fine del quarto decennio del VIsecolo e, nel 550-2, a ottantacinque anni di età, guidò eserciti in Sicilia ed in Spagna. Tornò in Italianel 554, alla fine della guerra,e mori a Rimini, dove ancora è conservato il suo epitafio;20Cassiodoro Senatore resistette più a lungo di Liberio. Il padre, Cassiodoro il vecchio, avevarivestito cariche pubbliche sotto Odoacre ed era passato sotto Teodorico fino dal 490, divenendoprefetto del pretorio (circa 503-7); Cassiodoro Senatore fu quaestor nel 507-11, magisteroD~iciorum nel 523-7, succedendo a Boezio, e prefetto del pretorio nel 533-8. Come stè visto, egliapparteneva a una famiglia delle province e forse anche una famiglia di nuovi ricchi (pur se èdi~cile stabilirlo); ad ogni buon conto il nome Senatore, quand'anche non rarissimo, appare un po'troppo goffo, per un membro del Senato. I1 bagaglio culturale di Cassiodoro era certo quello tipicodi ogni nobile istruito del tardo mondo romano, come è dimostrato facilmente da una lettura delleVar~ae. I1 termine civilitas, per non citare che l'esempio più owio, è una pietra di paragone costantenella sua rettorica: lo usa, in quella forma o in varianti, più di quaranta volte nelle Variae. Ma ilsuccessore di Boezio nell'incarico poté difficilmente mantenersi molto fedele al gruppo di Boeziostesso, e va osservato che al momento della partenza di Liberio, Cassiodoro reggeva l'incarico diprefetto del pretorio, che conservò per i primi tre anni di guerra. L'aristocrazia romana non avevaancora abbandonato completamente i Goti. Soltanto dopo il 538, Cassiodoro lasciò l'Italia perCostantinopoli; Giustiniano non gli offerse alcun incarico. Se ne tornò, come Liberio, alla fine dellaguerra, e passò la vecchiaia nel Bruzio. Qui egli fondò Vivarium, che si segnala, nonostante la brevedurata (la seconda metà del VI secolo), come uno dei centri ~monastici più importanti dell'AltoMedioevo per la copia di testi classici21.

Teodorico sembra aver pensato che il sistema migliore per tenere in vita la civiltà romana fosse dicontinuarla inalterata. Aveva la stessa opinione in merito alla cultura dei Goti, soprattutto riguardoalle tradizioni dei guerrieri, e fece del suo meglio per evitare che i Goti venissero romanizzati22.Apparentemente riusci bene anche in questo. Il legame tra Goti e Romani ebbe a rimanereesclusivamente politico, nonostante le affermazioni di Cassiodoro nel suo panegirico su Liberio percui « le due nazioni, vivendo assieme, si uniranno ». Ma Teodorico non impedì alla propria cerchia 20 Cfr., in generale, J. Sundwall, Abhandlungen (B3-a), pp. 133-6; in particolare, Variae, 2. 15, 16; Ennodius, Epistolae(MGH A.A., 7), 9. 23. Per Amalasunta, Procopio, Guerra, 5. 734; per il Sannio, Variae, 3. 13.21 In generale, Sundwall, op. cit., pp. 106-7, 154-6; in particolare, Variae, 1. 3,4; 9. 24, 25 (e passim).22 Variae, 1. 24, 38; Anon. Vales., 61; Procopio, Guerra, 5. 2.

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di assorbire valori romani, e sia Amalasunta che Teodato ebbero una cultura notevole. Teadoricorimase il tipico eroe-guerriero, ma i suoi successori non lo erano già più. I Goti cominciarono, nonsenza ragione, a inquietarsi poiché i loro sovrani erano così alienati dalla società gotica che pareprogettassero segretamente ti mettere l'Italia nelle mani dell'Imperatore. Uccisa Amalasunta,Giustiniano dichiarò guerra, dando inizio ai vent'anni delle Guerre Gotiche (535-54). Quando il suoesercito, grudato da Belisario, risalì dalla Sicilia nel 535-ó, Teodato venne deposto e sostituito da unguerriero, Vitige (536-40). Da quel momento in poi, ogni figura di sovrano parve coincidere semprepiù con l'ideale del barbaro rozzo e ineducato. Come s'è visto, Cassiodoro durò solo altri due anni:fece comunque in tempo ad assistere alla condanna a morte di senatori romani a Ravenna. Alcunialtri senatori, però, non persero affatto il proprio potere. Cetego, presidente del Senato, consideratocome un sostenitore dei Goti, fu obbligato a lasciare Roma nel 545. E non si sa cosa sia successo diCipriano, l'accusatore di Boezio, che aveva fatto crescere i propri figli fra i Goti, o di suo fratelloOpilione, che aveva difeso Teodato a Costantinopoli nel 534 quando questi era stato accusato daLiberio, pur se è possibile che Opilione sia morto a Roma poco prima del 550. Mano a mano che laguerra crebbe in ferocia, la spaccatura si approfondì. Totila, l'ultimo Bran re degli Ostrogoti (541-52), ebbe un solo uíEciale romano, il quaestor Spino, oscuro personaggio proveniente da Spoleto23.

Questa descrizione del rapporto e della sempre più grave spaccatura fra Goti e Romani ha però undifetto grosso ancorché consacrato dalla tradizione: tiene conto soltanto dell'atteggiamento dellearisto«azie di Roma e di Ravenna. Altre aristocrazie possono essere state caratterizzate da similicontrasti; per esempio, la grande nobiltà napoletana si oppose a Belisario nel 536; ma, al contrario,Dazio, di Milano, supplicò Belisario d'aiutarlo nel 53724. La popolazione nel suo insieme avrà ilmolo di protagonista nei successivi capitoli, ma l'impatto dei Goti su di essa va discusso qui, benchénon sia facile individuarlo. Certo i Goti non si diffusero omogeneamente in Italia, pare che si sianoconcentrati a nord del Po, particolarmente attorno a Verona e Pavia (dove si trovano i due palazzi diTeodorico, gli unici due fuori Ravenna), e negli Appennini centrali, il Piceno e il Sanniosettentrionale (corrispondenti alle Marche e all'Abruzzo di oggi)25. I1 resto della penisola pagava latertia, la terza parte gotica, sotto forma di imposta. Non v'era motivo per cui la presenza dei Gotidovesse pesare Esicamente sulla maggior parte degli Italiani. Ai tempi di Teodorico, essi potevanoanzi aver provato un certo sollievo al pensiero della pace che garantiva, sollievo temperato,senz'altro, e con giustificazione, dal risentimento per il gravame di tasse che egli impose. Va dettoperò che i Goti ridussero le tasse in tempi di carestia, mentre i Bizantini (come verranno quichiamati, per evitare confusioni, i Romani d'Oriente), quando cominceranno a rioccupare l'Italia,non faranno proprio nulla per ridurre le tassazioni, e Procopio afferrna anzi che nel 541 i Bizantinigiunsero a pretendere tasse arretrate non versate ai Goti durante la prima parte della guerra o primadi essa. Né i Goti né i Bizantini che presero il loro posto introdussero modifiche sostanziali allestrutture sodali. Forse perciò non sorprende che quando la guerra scoppiò il popolo non provassegrandi entusiasmi. Nel 536 le genti di Napoli non erano neanche certe di qual parte volesserosostenere e gli abitanti di Roma furono una parte in causa piuttosto restia durante l'assedio postoalla città dai Goti nel 536-7, il primo di una serie di quattro26. L'impressione è che i Goti ed iBizantini abbian combattuto per tutti i venti anni della guerra in mezzo ad una popolazione che nonvi partecipava minimamente. ~ alquanto dubbio che a quella popolazi~ne interessasse qualcosa didiverso dalla pace tout court: e non riuscirono ad ottenerla.

Le guerre gotiche ebbero sulla società un impatto certo maggiore della pace, ed in tale contesto èsituato l'unico mutamento sociale attribuibile agli Ostrogoti. Durante la tarda romanità, gli schiavi 23 Ibid., 7. 40. Per Cipriano e Opilione, cfr.. Sundwall, op. cit., pp. 110-1, 142-3; Variae, 8. 16, 17, 21, 22; Anon. Vales.,85-6; Procopio, Guerra, S. 4. Per Catego, ibid., 7. 13.24 Ibid., S. 8-10; 6. 7.25 Cfr. V. Bierbrauer (B3-a)26 Per. Ie tasse: Procopio, Guerra, 7. 1. Per Napoli: ibid., 5. 8-10. Per Roma ibid., S. 20.

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tendevano a fuggire dalle proprietà fondiarie in cui erano tenuti; durante la guerra trovarono unadirezione in cui scappare, e numerosissinu nel quinto decennio del VI secolo, raggiunsero le filedell'esercito di Totila che volentieri li accolse. Nel 546 un senatore della Lucania, Tulliano, armò glischiavi facendone un reparto dell'esercito bizantino. Totila prometteva possedimenti dei padroni acoloro che si ribellavano ed il suo comportamento è stato visto come una « rivoluzione sociale »contro il Senato, ma una spiegazione più convincente individua nei meccanismi reattivi instauratidalla guerra la responsabilità di tale scelta. Di norma, gli Ostrogoti non avevano alcun interesse ainterferire nelle gerarchie sociali italiane, la loro stessa aristocrazia possedeva fondi, probabilmentecome diretta conseguenza dell'insediamento originario. Nel 553, Ranilo, una nobile di stirpe gota,donò terreni situati nei pressi di Urbino e di Lucca alla Chiesa di Ravenna, e con quelli donò anchegli schiavi, « se in questi tempi barbarici i fuggitivi possono essere ripresi ». Non c'è motivo disupporre che Totila avesse opinioni molto diverse: era sua consuetudine, quando aveva il controllosu proprietà senatoriali riscuotere direttamente le rendite lasciando i contadini dov'erano 27

Gli eventi bellici riempiono quasi quattro volumi delle storie di Procopio, e non possono venirdescritti qui se non in un rapido proElo. Belisario si fece progressivamente strada, risalendo lapenisola fino al Po, nel 535-40, e occupò Ravenna, mentre Vitige si ritirò in Oriente come semplicepatrizio imperiale. Ma al nord i Goti elessero nuovi re, il terzo dei quali, Totila, con efficaci efulminee campagne militari tra il 542 e il 550, riconquistò tutta l'Italia e la Sicilia eccezion fatta peralcune città costiere (fra cui Ravenna) protette dalla flotta bizantina. Soltanto un potente esercito,condotto da Narsete, riuscl a sconfiggere Totila nel 552, il successore di lui, Teia, lo stesso anno, eun esercito franco-alemanno che sosteneva i Goti nel 554. Ma neanche allora i bizantini riuscirono acontrollare le terre a nord del Po, che erano state dominate per lo più dai Franchi fuoriusciti dallaGallia all'inizio del quinto decennio del secolo VI, pur se a Pavia, Verona e Brescia continuavano afunzionare presidI militari dei Goti. Entro il 561 Narsete aveva riconquistato anche il nord, ma ilbreve dominio franco, non va dimenticato: è l'inizio di una lunga tradizione di interventi dei Franchiin Italia.Le guerre devastarono l'Italia. La conquista e la riconquista imperversarono sull'intero paese, pur sealcune zone ebbero meno a patirne: la Toscana, probabilmente anche le terre a nord del Po (eccettoMilano), almeno dove i Franchi non avevano arrecato danni troppo notevoli. Le aree in cui più sicombatté furono l'Emilia, il Piceno, l'Umbria e la Campagna Romana, chiavi strategiche dell'Italiatra Roma e Ravenna (e quelle aree rimasero più tardi gli unici territori bizantini nel settentrioneitaliano longobardo). Procopio descrive carestie tremende sin dal 538. Nel 556 papa Pelagio Iafferma che i propri possedimenti italiani sono disabitati28. I Goti scomparvero come nazione.Owiamente molti di loro devono essere rimasti nei primitivi insediamenti, soprattutto a Ravenna lanomenclatura gotica e le proprietà fondiarie in mano ai Goti continuarono per molto tempo asussistere. Ancor nel 769 il proprietario terriero bresciano Stavile si descriveva come « soggetto allalegge dei Goti »29. Ma i Goti non rispuntarono più come entità politica, e la loro culturaarcheologica svani senza lasciar traccia; i Longobardi che s'insediarono nelle loro aree non neripresero pressoché alcun elemento. Sotto altri aspetti, comunque, è probabile che l'Italia si siasollevata abbastanza velocemente. L'area attorno a Ravenna fu una delle principali zone di battagliá,eppure i papiri ravennati della sesta e settima decade del VI secolo testimoniano di ben poche

27 Cfr. Stein, op. Cit., II, pp. 569-71 e i riferimenti ivi citati, seguendo L.M. Hartmann (Bl), I, pp. 305-6 e i riferimentiivi citati. Diversamente: G. Tabacco, La storia politica e sociale (Bl), pp. 37-8, e Procopio, Guerra, 7. 6, 13. Ranilo: J-O. Tjader, Die nichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens, I (Lund, 1955), n. 13.

28 Procopio, Guerra, 6. 20; Pdagius in MGH Epp., 3. pp. 72-329 L. Schiaparelli (curatore), Codice diplomatico longobardo (Roma, 1929-33) che d'ora in poi apparirà come «Schiaparelli »), n. 228; cfr. L. Schmidt, Die letzien Ostgoten, « Abbandlungen der Prenssischen Akademie derWissenschaft, Philosophische-historische Klasse », 1943, n. 10, pp. 3-15, pur se non è affatto vero che tutti i nomi da luielencati appartengano a dei Goti.

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distruzioni. La desolazione totale dell'Italia in quegli anni è stata sicuramente esagerata. Comunquela guerra era soltanto agli inizi. Gli anni 554-68 costituiscono un breve intervallo nell'arco deisettant'anni di una guerra che riprese nel 568 con le invasioni dei Longobardi e continuò, conqualche interruzione, fino al 605. Pur se l'Italia medicò le proprie ferite dopo il 605, come aveva giàiniziato a fare durante la breve pace, non c'è dubbio che il colpo era stato forte. Si vedrà quanto neiprossimi capitoli.

Gli anni 554-68 segnano una svolta, ed è alquanto utile stabilire alcuni dei mutamenti politicicruciali dell'epoca delle guerre, in un momento in cui la documentazione è ancora abbastanzabuona. Nel 554Giustiniano emise una Prammatica Sanzione allo scopo di riconfermare l'Italia nel nuovo elegittimo posto di provincia più occidentale dell'Impero 30Ogni concessione fatta agli Ostrogotidoveva essere rispettata, tranne quelle decise da Totila. La proprietà fondiaria doveva essereristabilita secondo l'assetto del 490, con particolare riguardo per il capovolgimento delle misureprese alla fine della prima metà del secolo VI. Gli schiavi dovevano tornare presso i loro padroni.Le imposte arretrate dovevano venire pagate per metà, e trascorso un lasso di cinque anni. I giudicicivili dovevano presiedere i processi civili sostituendosi all'esercito e spettava ai vescovi e ai nobilidi ciascuna regione nominarli. Quest'ultimo prowedimento, in realtà, ebbe ben poco effetto:l'esercito aveva amministrato la giustizia in quelle parti dell'Italia che controllava sin dalla quartadecade del secolo VI; le amministrazioni civili gli erano del tutto subordinate e continuarono adesserlo. Nell'Italia degli anni 554-68 ci furono prefetti pretoriani, ma non ne conosciamo i nomi.L'Italia era governata da Narsete, comandante in capo. Si è già visto come fosse impossibile perl'Italia mantenere due gerarchie civili, e quel che era rimasto del Senato scomparve e verso il 600non sussisteva più come organismo a sé. Molti senatori non tornarono più indietro daCostantinopoli, divenuta ora la capitale, e gli altri s'affossarono fra i più anonimi ranghidell'aristocrazia italiana. Ma verso la fine del secolo VI anche l'amministrazione civile cominciò adeclinare per importanza, e venne inghiottita dall'amministrazione militare. I Goti non avrebberomai fatto una cosa del genere, poiché il loro esercito era troppo distinto, anche etnicamente.L'influenza dell'esercito bizantino dopo la riconquista fu comunque ben maggiore del controlloeseguito dall'esercito dei Goti sull'amministrazione. L'Italia, immiserita, poteva a malapenamantenere un'unica gerarchia, civile ~o militare che fosse, e durante il secolo VII l'esercito giunsegradualmente, sia nei territori longobardi che in quelli bizantini, a coincidere con la stessaaristocrazia fondiaria. L'Italia altomedievale fu molto più semplice dell'Italia tardoromana, pur se(come si vedrà) non completamente diversa.

30 In Cortus iuris civilis, III (a cura di R. Scholl e W. Kroll, 6' ed., Berlino, 1954), appendici 7 e 8; cfr. T.S. Brown (A3-b).

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Capitolo secondoIL REGNO ITALICO, 568-875: CONTINUAZIONE E CONSOLIDAMENTO AL

NORD

Il Regno Longobardo

I Longobardi dominano la storia italiana altomedievale, e la loro improvvisaapparizione in Italia dalla Pannonia (I'attuale Ungheria) nel 568 segnatradizionalmente una rottura nella storia italiana. Dal 568 in poi, l'Italia dovette subirequasi quattordici secoli di disunione, in quanto gli stessi Longobardi nonconquistarono mai l'intera penisola. Essi iniziano, quindi, la lunga storia italiana diparticolarismi e occupazioni da parte di potenze straniere. D'altra parte, a partire dal600 circa, occuparono due terzi dell'intera penisola, e dalla fine del VII secolo forse itre quarti di essa, e sin dai regni di Grimoaldo e di Liutprando (rispettivamente: 662-71 e 712-44), il compatto Regno Longobardo, che comprendeva la maggior partedell'Italia settentrionale e la Toscana, ebbe supremazia politica sui ducati longobardidegli Appennini meridionali, Spoleto e Benevento, e sugli avamposti romano-bizantini, aventi per centri Ravenna, Roma, Napoli e le estremità meridionali dellaterraferma italiana (cfr. carta geografica 2). Le istituzioni politiche longobardevennero mantenute praticamente in toto dai Franchi, dopo la conquista di Carlomagnonel 774, e la loro fisionomia longobarda era assai più decisa di quanto non lo fosserostate ostrogote le istituzioni di questo popolo. All'origine, certo, molte di esserisalivano ai Romani, anche alcune dai nomi germanici, come si vedrà, ma vennerorisistemate dai Longobardi ricorrendo (con aiuto romano) a frammenti più antichi,proprio come accadde per la costruzione, da parte dell'imperatore Costantino, dellachiesa di S. Lorenzo fuori le mura, a Roma, eretta utilizzando materiali di templidemoliti. Gran parte dei progressi compiuti dalla storia dell'Italia medievale possonoesser fatti risalire in un modo o nell'altro al periodo longobardo, e questo apparirà nellibro una sorta di punto di partenza.

Ma molto più che una rottura storica, l'invasione longobarda segna una rotturastoriografica. A partire dal 568, e ancor più dopo il 610, i materiali si diradanomoltissimo, riprendendo nuovamente solo con l'avvio delle serie di documentimedievali all'inizio dell'VIII secolo. (L'eccezione, in questo vuoto, è Ravenna, con isuoi papiri del VII secolo e la competente cronaca locale di Andrea Agnello. Inmerito, si veda il capitolo terzo.) La nostra fonte principale è la storia longobarda diPaolo Diacono, scritta nell'ultima decade dell'VIII secolo, ma anch'egli dovetteconfrontarsi con la scarsezza di materiali, e la sua opera è di conseguenza piuttostobreve (circa 140 pagine in folio)1. Paolo fu un critico intelligente e uno scrittore dallostile attraente, ed era in grado di correggere il latino delle sue fonti (checomprendevano Gregorio di Tours), ma aveva un senso semplicistico del passato.Nella sua storia, il senso del passato si riduce a una sorta di orgoglio per la passataprodezza dei Longobardi, venato dal desiderio di rendere i Longobardi pagani piùviolenti che fosse possibile, cosl da far risaltare il contrasto con i loro discendenticristiani, e in particolare il re Liutprando. Egli offuscò o eliminò fenomeni chepotevano risultare imbarazzanti, come l'arianesimo longobardo, o l'opposizione papaleal suo eroe Liutprando. La sua affidabilità è spesso sospetta, e le sue prove devono

1 Ed. in MGH S.R.L., pp. 4S-187; di seguito: « Paolo, H.L.».

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venir frequentemente soppesate con cautela. Oltre a lui, la fonte principale è la leggelongobarda, in particolare l'Editto di Rotari del 643 (388 capitoli) e la legislazione diLiutprando (152 capitoli). Nei casi in cui ci siano altre fonti alternative, così comeaccade per il tardo secolo VI, si tratta generalmente di frammenti contraddittori econfusi, quasi tutti provenienti dall'esterno del regno longobardo e ad esso ostili.Come conseguenza di tale scarsezza di fonti, la storiografia relativa al periodolongobardo consiste, più che in ogni altro periodo della storia italiana, in una minieradi opposte teorie formulate da storici moderni. Gli storici degli ultimi 150 anni hannosuggerito più o meno ogni possibile opposta interpretazione del tardo VI secolo e delVII, ricorrendo a generosissime interpretazioni delle fonti probanti. Gli storici delperiodo ostrogoto tendono ad assumere atteggiamenti che, nell'insieme, convergono.Per quanto riguarda il periodo longobardo, invece, la storia tende a diventare,alquanto apettamente, una congerie di teorie di singoli storici. Una proporzionenotevole di quanto qui segue è fatta necessariamente di congetture.

La storia dei primi Longobardi, prima del 568, non ha rilievo diretto per l'Italia. Bastidire che si trattava di una popolazione germanica, come i Franchi, e che parlava unalingua imparentata con l'antico alto tedesco. I1 primo a parlarne, localizzandoli lungoil basso Elba, fu Tacito; successivamente si mossero verso quella che è oggi la Bomia, quindi nell'Austria inferiore, infine, all'inizio del VI secolo (circa 527 )s'insediarono nella provincia romana di frontiera della Pannonia. Per quanto potesseroricordare, erano stati sempre governati da un re, per lo più della famiglia Lething,almeno fino al 547, quando l'ultimo re di quella dinastia, Waltari, ebbe per successoreil proprio tutore Audoino, padre di Alboino. Procopio li definisce cattolici nel 548,allorché Audoino sollecitò l'aiuto di Bisanzio contro i Gepidi ariani, che i Longobardiinfine sconfissero nel 567 con l'aiuto degli Avari2. Tal cattolicesimo era inizialmentelimitato certamente alla corte e ai suoi fedelissimi, e nel 568 il re era già divenutoariano e, secondo il punto di vista bizantino, un eretico; ciò comunque indica che iLongobardi, al tempo di Giustiniano, facevano parte dell'orbita bizantina. Anche ilegami conseguiti attraverso i matrimoni dei re del VI secolo fino ad Alboinosembrano indicare che la popolazione rientrava in un vasto ambito centro-europeo dimutuo sostegno, sotto l'egemonia dei Franchi. I Longobardi non arrivarono dal nulla,né si trattò di semplici barbari selvaggi allo stadio primitivo. Avevano occupato perquarant’anni una provincia romana. Avevano anche incluso nel proprio sistemapolitico un'intera serie di titoli militari romani, quali dux e comes, e probabilmenteagivano formalmente in qualità di confederati romani. Narsete, quando distrusseTotila, chiese ad Audoino un contingente militare, e l'ottenne, ma, trovandolo troppoviolento ed indisciplinato, lo rispedì presto indietro3. D'altra parte, quando Alboinoinvase l'Italia tenne sotto il proprio controllo sia il grande e disparato esercito che lapopolazione, dal S68 fino al suo assassinio nel 572. Ovviamente, la disciplina non èun indice particolarmente utile o significativo di romanizzazione (e ancor meno dellacivilizzazione), ma nei primi anni i Longobardi sono descritti quasi esclusivamente inbase a termini militari. Non abbiamo a disposizione altri criteri.

Gianpiero Bognetti vide nell'invasione di Alboino un « piano organico e generale »,una strategia su vasta scala. Alboino vantava legami franco-austrasiani tramite la 2 Procopio, Histories, 7. 34. Cfr. J. Werner Die Langobarden in Pannonien (Monaco, 1962, e ibid., DieHeriunit der Bajumaren... in Zur Geschschte der Bayern, a cura di K. Bosl (Darmstadt, 1965), pp.2143. Per la storia dei Longobardi fino al 590, cfr. L. Schmidt (B3-b).3 Procopio, Histories, 8. 25, 33.

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prima moglie e, con una conversione tattica all'Arianesimo nel 565 circa, sperò diottenere l'appoggio dei Goti ariani dell'Italia settentrionale, che erano stati appenaschiacciati da Narsete nel 561. Alboino avanzò lentamente e apparentemente senzaopposizioni attraverso la pianura padana nel 569, lasciando duchi nelle maggiori città,in particolare il nipote Gisolfo a Cividale del Friuli; quindi assediò Pavia, la primacittà che gli fece resistenza, per tre anni (569-72). Durante questi tre anni,cominciarono le complicazioni, poiché contingenti di predatori longobardi iniziaronoa spargersi sulle Alpi penetrando nella Borgogna dei Franchi (negli anni 569-75), everso il 571 i Longobardi stanno già formando ducati per un lungo tratto verticaledella penisola, a Spoleto (sotto Faroaldo) e Benevento (sotto Zotto), senza avereapparentemente occupato i territori intermedi. Bognetti ha suggerito delle spiegazioni:l'invasione della Borgogna fu il risultato dell'alleanza con Sigeberto d'Austrasia,mentre i ducati della penisola furono in effetti costituiti dai Bizantini come presídicontro Alboino in punti strategici, in quanto sia Spoleto che Benevento controllavanoimportanti passi appenninici. Questa seconda ipotesi pare molto verosimile, nonaltrettanto la prima. In ogni caso, l'assassinio di Alboino, forse con la complicitàbizantina, mise fine al « piano organico », e durante il resto del secolo regnò il caos4.

Il successore di Alboino, Clefi, fu pure assassinato nel 574, e nei seguenti dieci anni,durante il cosiddetto interregno, i Longobardi rimasero senza re. Paolo Diaconosostiene che a governarli c'erano trentacinque duchi, pur se il numero sembra davverotroppo alto5. Ne nomina soltanto cinque, quelli di Pavia, Bergamo, Brescia, Trento eCividale, per la maggior parte vicini al Trentino, ossia alla zona in cui visse una dellesue principali fonti, Secondo di Non. Possiamo aggiungere Torino, Spoleto eBenevento, con sicurezza, ma per altri si possono soltanto fare supposizioni. Entro1'VIII secolo, i Longobardi ebbero ducati o loro equivalenti in tutte le città romane delnord e della Toscana, ma non si può ancora affermare che ad ogni città corrispondesseun ducato. Quanto a questo, non si può nemmeno essere certi che i Longobardicontrollassero determinate zone, poiché i Bizantini mantennero certamente dei presidiin alcuni luoghi importanti dell'Italia del nord: sul Lago di Como fino al 588, a Susa(sulla principale via verso la Borgogna) finché i Franchi la presero nell'ottavodecennio del VI secolo, nella valle di Non fino alla decade seguente, e a Cremona finoal 603.

L'interregno costituisce una delle maggiori difficoltà della storiografia longobarda. Disolito lo si vede come il contrassegno della barbarie e dell'atavismo dei Longobardi;l'abbandono della monarchia è un evento quasi privo di paragone nella storia dei regniromano-germanici e se ne deduce che evidentemente non dovevano essere troppolegati a tale forma. Tuttavia, non era proprio cosa normale, neanche per i Germani deitempi di Tacito, abbandonare la monarchia nel bel mezzo di una guerra, che in questocaso continuò anche dopo la morte di Clefi: il primo contrattacco bizantino si ebbesotto Baduario nel 57S, e fu un clamoroso insuccesso. Altre spiegazionidell'interregno paiono più probabili. Ne sono state suggerite parecchie. La piùsoddisfacente l'ha offerta ancora Bognetti, affermando che i duchi longobardi 4 G.P. Bognetti, « Santa Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi » (d'orain avanti: S.M.C.) in Eta Longobarda (d'ora in avanti: E.L.) (Milano, 19668), Il, pp. 71ss.; ibid.,Tradizione Longobarda e politica Bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, E.L.., Ill, pp. 441-7S;ibid., La rivalità tra Austrasia e Burgundia..., E.L., IV, pp. 559-82.5 Paolo, H.L., 2. 32.

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potrebbero essere stati invitati alla ribellione e disgregati dalle offerte bizantine didenaro. Menandro, il principale cronachista bizantino per la settima e ottava decadedel secolo VI, nota che nel 577 l'imperatore Tiberio II sborsò ai Franchi 30.000 libbred'oro perché muovessero guerra ai Longobardi, e ai Longobardi perché trattassero lapace. Anche nel 579 mandò denaro a singoli duchi longobardi perché si ribellassero.E in realtà, nelle fonti del VI secolo giunteci, particolarmente le lettere di GregorioMagno, troviamo i nomi dei Longobardi che combatterono contro Bizantini, cosìcome, e quasi in egual misura, di quelli che combatterono a loro fianco. Uno di questiultimi, Droctulfo, nella tomba erettagli a Ravenna, si meritò un'iscrizione celebrativaalle sue gesta eroiche: « terribile d'aspetto ma d'animo nobile, aveva lunga barba eardito cuore. Amò sempre i fasti ed il nome di Roma e fu lo sterminatore della propriagente ». Etnicamente, Droctulfo era uno Svevo, e la confederazione longobardacomprendeva un gran numero di gruppi etuici diversi—Sassoni, Gepidi, Bulgari,Sarmati, Svevi, Turingi, Romani, Pannonici— e i Sassoni possono venir consideraticome un gruppo in sé omogeneo, stando alle nostre fonti. Una tale mescolanza non hacerto aiutato la coesione politica dei Longobardi in quel periodo. Spoleto e Beneventosi erano già certamente ribellate a Bisanzio, e potevano diffondere il caos nellapenisola. D'altra partc, verso il 580 i Bizantini avevano « comperato » il duca delFriuli, Grasulfo, probabilmente il più potente duca del settentrione. Si deve almenoammettere che l'ottavo e il nono decennio di quel secolo devono essere stati cosìcaotici, sia per i Longobardi che per i Romano-Bizantini, che l'uso intelligente didenaro bizantino potrebbe essere ben stato la causa dell'abbandono temporaneo dellamonarchia longobarda6. Ma anche se le cose andarono così, si trattò di fenomenotemporaneo. Nel 584, di fronte alle invasioni franco-austrasiane provenienti dal nord,i duchi longobardi si riunirono ed elessero Autari, figlio di Clefi, loro re. Se quantoafferma Paolo è vero, dovettero avere intenzioni politiche ben ferme, visto checiascun duca cedette al re metà delle proprie sostanze, denaro e possedimenti perrenderlo forte baluardo della monarchia. Certo è che sin da allora i re in Italiapoterono contare su una base di vasta proprietà fondiaria, che durò fino all'XI secolo.Darmstadter calcolò che in Lombardia e in Piemonte questa consisteva di un decimo epiù della totale area fondiaria7.

Autari è presentato come un re energico, giovane e romantico, ma si sa poco di lui.Sopravvisse a tre invasioni franche in sei anni, e morì nel 590 dopo avere appenastabilito un'alleanza con i Bavaresi, attraverso le nozze con la principessa bavareseTeodolinda. Poco prima della morte, emise un editto anticattolico. Gregorio Magno(che fu eletto Papa in quello stesso anno) ne ritenne la morte un segno della giustiziadivina, ma Dio sembra esser stato dalla parte di Autari: l'ultima invasione franca, del590 consistette in un doppio attacco, coordinato con i Bizantini e destinato a spazzarvia i Longobardi, ma non ebbe successo. I Longobardi si barricarono nelle città, senzaopporre resistenza, ma i Franchi e i Bizantini non riuscirono a congiungere le forze einfine iFranchi se ne tornarono indietro. I Bizantini ne furono oltraggiati, maprobabilmente i Franchi non avevano alcun vero desiderio di eliminare i Longobardi.A1 contrario, ottennero quasi certamente la supremazia sull'Italia settentrionale,secondo la tradizione impostasi verso la metà del secolo VI. Autari pagava loro iltributo, e pur se una fonte afferma che il suo successore Agilulfo (590-616) avrebbe

6 Paolo, H.L., 3. S-7, 19; Menandro, Historia, 25, 29 (a cura di B.G. Niebuhr, Corpus ScriptorumHistoriac Byzantinae, I, Bonn, 1829, pp. 327-8, 331-2).7 Paolo, H.L., 3. 16; P. Darmstadter (B3-b), p. 5.

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sborsato una somma di denaro per liberarsi da esso, è possibile trovare i Longobardi,ancora nel terzo decennio del secolo VII, tra le file dell'esercito franco contro il redegli Slavi Samo, assieme agli Alemanni che erano certamente una popolazionetributaria dei Franchi8.

Dopo il S90, i Bizantini si rassegnarono momentaneamente alla sopravvivenza deiLongobardi, e cominciarono a consolidarsi nelle aree geografiche in cui eranoconfinati. Le loro élite militari finirono con lo stabilirvisi con potere sia politico cheeconomico, a fianco delle gerarchie episcopali di Ravenna, Roma e Napoli (si veda ilcapitolo terzo). A partire dal 590 anche fra i Longobardi cominciò a delinearsi unamaggiore coesione politica. Autari tenne soprattutto un atteggiamento difensivo, maAgilulfo, privo di minacce da parte dei Franchi, passò all'attacco, occupando orioccupando parecchie città lungo il Po, e minacciando Roma nel 593-4. Verso il 605,la serie di tregue concordate fra le due parti si cristallizzò in una pace permanente, chei re longobardi avrebbero infranto solo due volte nei successivi 120 anni. Da questomomento, fu possibile una ripresa dell'Italia. Per Agilulfo ciò significava ilconsolidamento del potere centralizzato dello stato longobardo, e Paolo lo descrivementre ottiene la resa o la sottomissione di almeno otto duchi (la fonte di Paolo,Secondo, si trovava presso la corte di Agilulfo, e ciò rende Paolo testimone affidabiledi questo regno). Entro il 603, anche Gisolfo II del Friuli, il ducato politicamente piùautonomo di tutto il nord, venne a patti. Più a sud, Agilulfo fu o meno ambizioso omeno fortunato. Pare che verso la fine del suo regno fosse riuscito a stabilirsi inToscana, pur se nel 603 Gregorio Magno ci indica l'esistenza là di un ducaindipendente lombardo, Cillanne, in guerra con Pisa (che per breve tempo fuautonoma). D'altra parte, Spoleto e Benevento ebbero vite politiche del tuttoindipendenti, anche se Paolo afferma che il duca Arichi I di Benevento (591-641)era un friulano messo al potere da Agilulfo: così, per esempio, il duca Ariulfo diSpoleto, che nel 592 minacciò per conto proprio Roma, si rifiutò di aiutare Agilulfo afare la stessa cosa nel 5939. Certamente Agilulfo concesse ai ducati meridionali unaautonomia de facto, e per tale aspetto fissò la situazione politica per un secolo emezzo a venire, con la breve eccezione del regno di Grimoaldo. Il regno longobardonon incluse il sud, e la storia del mezzogiorno è diversa, come si vedrà nel capitolosesto. A1 nord, però, Agilulfo riuscì ad avere il riconoscimento della propriasupremazia da parte di tutti gli altri potenti gruppi longobardi, e su questa basecominciò a consolidare lo stato, che per la prima volta comincia a prender forma nellenostre fonti. Lo fece anche imitando accuratamente forme e cerimonie romane ebizantine, e sicuramente si servì di consiglieri e ministri romani, fra i quali Secondo diNon. Sulla decorazione in oro d'un elmo ritrovato in Toscana appare una suaimmagine, fiancheggiato da guerrieri longobardi ma pure da angeli che portanoinsegne recanti la parola victoria. Un'iscrizione ce lo presenta con i titoliromaneggianti di grat(ia) d(e)i, vir glor(iosissimus), rex totius Ital(iae). E, imitandoAutari, egli usò certamente il titolo romano e ostrogoto di flavius. Nel 604 volle che ilproprio figlio Adaloaldo, già battezzato cattolico, venisse presentato come re nel circo

8 Autari: Gregorio Magno, Epistolae (MGH Epp., 1-11), 1. 17. Per i Franchi:Paolo, H.L., 3. 17; Fredegar, Chronicon, ıv, 43, 68 (MGH Scriptores Rerum Merovingicarum =S.R.M., III).

9 Per i Duchi: Paolo, H.L., 4. 3, 8, 13, 18, 27; Gregorio Magno, Epp., 2. 33, 45; 13. 36.

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romano di Milano (alla maniera degli imperatori a Costantinopoli), al cospetto diambasciatori provenienti dalla Francia10.

E’ chiaro che Agilulfo, utilizzando una serie piuttosto eclettica di immagini, mirava adare al suo regno una patina di romanità. Bognetti lo ha visto come una figura eroica,il guerriero ariano (o pagano) che cercava di romanizzare e cattolicizzare la sua cortee la sua eredità simile in molti modi al Teodorico di un secolo prima e, comeTeodorico, suscitando l'ira nazionalistica germanica sui propri successori, così da fariniziare una serie di colpi di stato religiosi e guerre civili che durarono nell'assiemedal 626 al 690. L'interpretazione di Bognetti mi sembra però molto azzardata. In ognicaso, l'intera vicenda della storia religiosa dei Longobardi va discussa, pur sebrevemente.

I Longobardi erano sicuramente per la maggior parte pagani al momento del loroarrivo in Italia nel 568, pur se conosciamo poco circa le loro pratiche: i sacrifici resialla testa di un capro, come racconta Gregorio Magno, o in un tempietto nel bosco,secondo quanto dice Giona di Bobbio (che scrisse nel quinto decennio del VII secolo),o tirando frecce contro una pelle appesa ad un albero, come nella vita di Barbato delsecolo IX riguardante il vescovo di Benevento vissuto nell'ottava decade del secoloVII11. Ma sovrapposta a ciò, almeno per una parte dell'aristocrazia, c'era la religionecristiana. Dalla metà del VI secolo furono in gran parte cattolici, ma sin da Alboinocominciarono ad essere ariani, almeno a corte. Sappiamo che Autari fu attivamenteariano. Può darsi lo sia stato anche Agilulfo: di certo non fu cattolico, pur se granparte della sua corte lo fu; Aricaldo (626-36) e Rotari (636-52) lo furono certamente.Dei re più tardi non sappiamo se qualcuno fu ariano, ma Grimoaldo probabilmente si(66271). Adaloaldo (616-26), Ariperto (652-61) e i successori di Grimoaldo furontutti cattolici. Bognetti sostiene che ci sia stata una grande frattura tra elementi «progressisti », che desideravano introdurre il cattolicesimo alla corte longobarda edella società, e i gruppi di guerrieri nazionalisti e tradizionalisti, che usavanol'arianesimo di Alboino e Autari come pietra di paragone. Agilulfo poté circondarsi dicattolici, come la moglie Teodolinda, o Agrippino vescovo di Como, o l'irlandeseColombano (che fondò nel 613 il monastero di Bobbio), in quanto nell'Italiasettentrionale il cattolicesimo si ricollegava allo scisma dei Tre Capitoli (un conflittosull'ortodossia di tre trattati di teologia, che nascondeva tensioni interne alla chiesad'oriente, e tra l'Imperatore di Bisanzio e il Papa di Roma) fin dal 551 e si opponevaquindi sia al papato che ai Bizantini. Però, quando, sotto Adaloaldo e la madrereggente Teadolinda, si manifestarono tendenze atte a por fine allo scisma, inazionalisti longobardi cominciarono ad agitarsi. E quando nel 626 l'imperatored'Oriente Eraclio iniziò a vincere nelle sue guerre contro i Persiani, rendendo in talmodo più palpabile la minaccia bizantina, i Longobardi, allarmati, sostituironoprestamente ad Adaloeldo un ariano, Arioaldo. Da quel momento in poi, ogniqualvolta i Longobardi ebbero un re cattolico, ogni sua attività fu indebolita dalpericolo di una rivolta dei tradizionalisti, come accadde nel 661-2, e poi ancora nel688, quando il duca ribelle di Trento, Alachi, giunse, senza rimanervi molto, al trono.Alcuni dei problemi relativi all'affresco di questo periodo scendono in dettagliparticolarissimi, che non sono rilevanti per la nostra narrazione. I1 quadro che 10 Paolo, H.L., 3. 16; 4. 30; O. von Hessen, Secondo contributo all'archeologiaLongobarda in Toscana (Firenze, 1975), pp. 90-7; E.L., III, p. 525.11 Gregorio, Dialoghi (a cura di U. Moricca, Roma, 1924), 3. 28; fonas, Vitae Columba„s (a cura di B.Ktusch, MGH S.R.M., IV, Hannover, 1902), 2. 25, Vita Barbati (in MGH S.R.L.), p. S67.

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Bognetti offre, però, è quello di gruppi ben definiti, legati a consapevoli ideologiepolitiche, e sarebbe cruciale per la nostra analisi se fosse vero; esso non è tuttaviatotalmente attendibile. Innanzitutto c'è l'assenza di prove attestanti qualche particolarefervore religioso durante l'epoca longobarda. All'editto anti-cattolico di Autariabbiamo già fatto riferimento: si limitò a proibire ai Longobardi di battezzarecattolicamente i propri figli. Comunque, fra i seguaci di Autari ci furono dei cattolici,e Gregorio ne nomina uno12. In avvenimenti di cui siamo a conoscenza si possonovedere Arioaldo e Rotari che rispettano, se non altro, i diritti della Chiesa di Roma suicattolici in territorio longobardo. Della sensibilità religiosa di Grimoaldo nonsappiamo assolutamente niente, pur se Paolo, la nostra maggior fonte in questioni delgenere, non è giunto mai ad ammettere che alcuno dei suoi re sia stato ariano conl'unica eccezione di Rotari. I re del tardo secolo VII e dell'VIII, divenuti ormaichiaramente cattolici, non mostrano zelo maggiore dei re ariani. Lo stesso uso dellaChiesa come strumento politico per il rafforzamento dello stato, cosa ricorrente tra lemonarchie alto medievali, è del tutto assente sino ai tempi della conquista franca13.Alboino si convertì all'arianesimo per evidenti motivi politici, e l'ultimo re chesostenne l'arianesimo in modo attivo morì nel 590, soltanto venticinque anni più tardi.Non si trattò di un periodo sufficientemente lungo perché si installasse fra iLongobardi la coscienza del valore potenziale dell'arianesimo come vessillo delnazionalismo.

Un secondo problema è costituito dal fatto che il colpo di stato del 626, in cui furimosso Adaloaldo, venne aiutato dai vescovi cattolici del regno longobardo, comepossiamo apprendere da una lettera indignata di Onorio I14. La cosa non apparirebbemolto strana se fosse vero che Adaloaldo aveva ricusato lo scisma dei Tre Capitoli,come ha sostenuto Bognetti; ma abbiamo troppo poche prove per affermarlo. D'altrocanto, il fatto che sia i vescovi (cioè i Romani) sia i Longobardi contribuissero allacaduta di Adaioaldo, e che il Papa e l'esarca la deplorassero, mostra che controAdaloaldo non erano schierati soltanto i nazionalisti longobardi. Paolo afferma cheAdaloaldo impazzì; è possibile. Oppure, così come era successo con Amalasunta eTeodato un secolo prima, può essere che avesse progettato una totale riconciliazionecon Bisanzio sul piano politico. Ma in ogni caso, supporre che ci fosse unraggruppamento irredentistico fra i Longobardi, in forza di un'ideologia religiosacoerente e dell'assunzione del ruolo di custodi della politica, pare superfluo eanacronistico. Paolo ci fornisce un'unica prova della consapevolezza politica deiLongobardi: quando nel 663 il nuovo re Grimoaldo tornò al suo ducato di un tempo,Benevento, per combattere un'invasione bizantina, molti Longobardi (fra cui il suoreggente, Lupo, duca del Friuli) conclusero che non ne sarebbe tornato più, eabbandonarono la sua causa15. Ciò non quadra molto con la visione politicainternazionale che Bognetti suggerisce come tipica dei nazionalisti del 626.Personalmente, preferisco considerare l'alternanza di credo religioso nei re del VIIsecolo come l'indice non della centralità della religione per i Longobardi, bensì dellaquasi totale irrilevanza del personale schieramento religioso all'interno di un sistemapolitico assolutamente secolare. Diversamente dai Franchi, i Longobardi non ebbero 12 Epp.. 7. 23.13 Cfr. O. Bertolini, I vescovi del regnum langobardorum al tempo dei Carolingi(B3-c).14 MGH Epp., III, p. 694.

15 Paolo H L 5 7 1 R

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bisogno della Chiesa per rafforzare il proprio stato. Piuttosto, poterono far ricorso,come vedremo, a parecchi residui delle istituzioni della tarda romanità.

D'altra parte, nelle nostre fonti è possibile scorgere due diverse correnti all'internodella monarchia del secolo VII, che possono venir collegate, con cautela, a fedireligiose: da un lato, la tradizione di Agilulfo, della corte cattolica con legami colcerimoniale e la cultura romani e bizantini, seguita dai discendenti del fratello diTeodolinda, Gundoaldo, la dinastia bevarese, che governò più o meno dal 652 al 712;da un altro lato, quella che potrebbe venir definita la tradizione « del paese», lamonarchia di uomini che avevano cominciato col titolo di duchi e s'erano legati allacorte attraverso matrimoni: Arioaldo, Rotari e Grimoeldo. Le due tendenze non sicristallizzarono in raggruppamenti politici; rappresentarono solo un contrasto fra leorigini sociali degli uomini che erano nella posizione di giungere al supremo poteredell’organizzazione statale. Tuttavia, Rotari e Grimoaldo, almeno, agironodiversamente rispetto ai Bavaresi. Promulgarono leggi e contribuirono allalegislazione longobarda.

L'Editto di Rotari del 643 costituisce l'esposizione più sistematica e su più ampia scaladelle consuetudini germaniche giunta sino a noi e proveniente da un regno germanico,con la sola esclusione dei Visigoti16. Ma il codice dei Visigoti è fortementeinfluenzato dal diritto rornano in generale. L'Editto di Rotari, viceversa, è romanosolo per quel che riguarda il linguaggio, certe affermazioni basilari sulla proprietà (e,fino a un certo punto, il molo e la figura pubblica dello stato), e la sua inclusività.Entra attentamente nelle sfere della corte e dell'esercito, della compensazione per leferite, della proprietà fondiaria e delle responsabilità (in misura minore), l'eredità, ilmatrimonio, la schiavitù, i crimini agricoli e la procedura legale. Rotari s'accontentòper lo più di esporre le consuetudini, pur se di tanto in tanto ammise specificatamentedi aver alterato qualche usanza, cosi come fece nell'aumentare la compensazionemonetaria nel caso di ferimenti per rendere più onorevole la rinuncia alle falde.Redasse invece una serie il più possibile vasta, con l'aiuto dei suoi consiglieri, delleusanze longobarde e vi appose il suo nome. Si trattò di una cosa di stile tipicamentegermanico, e costituì una maniera per accaparrarsi prestigio del tutto diversa da quelladi Agilulfo. Inoltre, ebbe a cadere nel contesto della prima guerra longobardad'aggressione dopo quattro decadi, nella quale Rotari conquistò gran parte dell'Emiliae l'intera costa ligure. Ma la cosa fu resa possibile grazie alla organizzazione statalerisalente ad Agilulfo, all'interno di un sistema amministrativo di origine romana chepoté fornire il personale (sicuramente romano) necessario per raccogliere e redigere388 articoli di legge, e che poté considerare l'Editto, una volta steso, un codice scrittoparallelo al codice romano, e suscettibile di mutamenti (con le aggiunte di Grimoaldoe quelle dei sovrani dell'VIII secolo). Rotari non fu educato a corte e fu un ariano, manon si oppose alla tradizione di Agilulfo; costruì su di essa. In modo simile, Cuniperto(679-700) migliorò l'amministrazione, e accrebbe l'importanza della capitalelongobarda, Pavia; ma uno dei cardini della sua amministrazione fu il codiceformulato da Rotari e Grimoaldo. Le due tradizioni, anziché opporsi, paionointegrarsi.

16 A cura di F. Bluhme in MGH Leges, IV O F. Beyerle, Leges Langobardorum (Witzenhausen, 1962).D'ora in poi si farà riferimento alle leggi con i nomi dei re.

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Grimoaldo giunse al potere nel 662 strappandolo ai due figli di Ariperto I, Godepertoe Pertarito, iniziatori di una guerra civile che segnò le origini di un conflittosanguinoso sfociato in una serie di violenti colpi di stato tra i loro discendenti(completamente cattolici) nel 701-2. Grimoaldo era duca di Benevento, pur se figliodi Gisolfo II del Friuli. La cosa è interessante perché indica i rapporti di parentela fraducati situati ai poli opposti dell'Italia, nonostante l'indipendenza de facto diBenevento. Ma il fatto che un duca di Benevento si potesse sentire sufficientementeparte del sistema politico longobardo da reclamarne la corona suggeriscequalcos'altro. Ci furono molti colpi di stato nella storia dei Longobardi: dieci o undici,per non nominare che quelli che ebbero successo. A volte si interpreta ciò come unsegno della debolezza politica dei Longobardi. Quanto fosse forte lo stato lo si vedràfra poco, ma la tendenza a prendere il potere con un colpo di stato non è un segnodella disgregazione dei Longobardi ma, al contrario, della sostanziale coesione delsistema politico. Max Gluckman in uno dei testi classici di introduzioneall'antropologia sociale ha mostrato come la ribellione compiuta da gruppi cherispettano i confini di un sistema politico può rafforzare, piuttosto che minare, un talesistema.17Ha fatto l'esempio degli Zulù, nel cui stato le comunicazioni etano cosldifficili che sarebbe stato facile per i vari sovrani locali mantenersi indipendenti.Invece, quei sovrani potevano, ribellandosi, aspirare al titolo reale, e le periodicheguerre civili, scoppiate attorno a candidati rivali in lizza per il regno unitario,rafforzarono quell'unità. In modo simile, è possibile vedere come l'indipendenza deiduchi longobardi all'interno del regno sia stata distrutta da Agilulfo e come, dopo ilregno di questi, non si trovino più duchi alla ricerca dell'indipendenza. Diversamente,essi cominciarono ad aspirare al trono, con Arioaldo di Torino nel 626, Alachi diTrento nel 688 circa, Rotari di Bergamo nel 702 circa, Rachi del Friuli nel 744,Desiderio di Brescia nel 756, e altri. I1 fatto che anche Grimoaldo abbia compiutoquesto tentativo nel 622 sta a indicare che per certi aspetti anche Benevento potevaessere coinvolta in tali esperienze pur se eccezionalmente. Grimoaldo lasciò suo figlioRomoaldo come duca indipendente, e fu solo nel quarto decennio dell'VIII secolo cheLiutprando sottomise il sud al controllo reale Se ne può dedurre che, nonostante illegame ereditario con la dinastia bavarese che perduro con qualche interruzione finoal 712, il sistema politico longobardo permetteva a coloro che, sia ariani sia, semprepiù, cattolici, ritenevano di poter raccogliere attorno a sé forze militari e politichesufficienti a conquistare il potere, di esplicare pienamente le proprie personaliambizioni. Ciò può produrre una debolezza nel sistema politico, ma nonnecessariamente, e nel caso dei Longobardi non la produsse18. Argomenti similipotrebbero essere addotti in merito ai problemi sulla successione tra i Visigoti inSpagna nel secolo VII.

La corte reale e la costruzione dello stato costituivano la base del potere realelongobardo. Entrambe si reggevano su una capitale, Pavia, dove si trovava il palatiumreale o curtis regia. Non è che Pavia avesse avuto sempre quel ruolo (Alboinoprobabilmente le preferì Verona, e Agilulfo Milano), ma verso il 620 fu più o menoaccettata come la città principale, e lo rimase per quattro secoli. Venne arricchita diedifici monumentali che esprimessero quel suo ruolo: il palazzo stesso, di originiostrogote, un'intera serie di chiese fondate da re e regine a partire almeno dalla metà

17 M. Gluckman, Custom and Confict in Africa (Oxford, 1959), pp. 28ss., 43-7.18 Cfr. R Schneid« (B3-b), pp. 5-63, 24-58.

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del secolo VII, e uno dei pochi complessi termali che si sappia funzionante in quelsecolo. Se non fu modellata esattamente su Costantinopoli, lo fu sul modo in cuiquella città era concepita, e, più direttamente, su Ravenna. Eccettuando la Toledo deiVisigoti e la Aquisgrana di Carlo Magno (che fu per poco tempo capitale), non ebbealcun parallelo nell'Europa occidentale. Sin dai tempi di Cuniperto in poi, è possibilerintracciare una successione di grammatici che vi han risieduto, con lo stesso PaoloDiacono sotto Desiderio attorno al 760, e divenne probabilmente già allora il centrodegli avvocati e dei notai, anche fuori dai confini della corte reale vera e propria19

L'organizzazione centrale dello stato era chiaramente di derivazione romana.Esistevano alcune cariche cerimoniali appartenenti di certo alla tradizione longobarda,marpabis, scilpor, scaJard, antepor, stolesaz, molte delle quali sono difficilmentedefinibili pur se sappiamo che lo stolesaz era il tesoriere (incarico particolarmenteimportante alla corte di Benevento, che imitò le tradizioni longobarde), e il marpabis èa volte chiosato come strator o stalliere. Ma dall'epoca in cui cominciamo ad averdocumenti della corte, cioè dal regno di Liutprando, non sono tanto quelle figure cheincontriamo, quanto incarichi di chiara origine romana, maiordomus, vesterarius,camerarius, actionarius, e in particolare il referendarius e tutta una serie di notari dicorte. Questi ultimi erano incaricati di redigere i diplomi reali, registrazioni formali didecisioni e doni del re, che venivano stilati prima dal referendarius. I1 maiordomus egli altri avevano incarichi pubblici, sia domestici che amministrativi, a Pavia, mafunzionavano anche da rappresentanti, almeno parziali, del sovrano nel restodell'Italia, come una sorta di missi carolingi. Era a loro che venivano sottoposti casigiuridici difficili nelle province. Liutprando inviò il maiordomus Ambrosio nellaprimavera del 715 e il notarius e missus reale Gunteramo nell'estate dello stesso annoa sentire le prime discussioni dell'interminabile disputa relativa ai confini tra lediocesi di Siena e di Arezzo20. Tutti quei funzionari pubblici, con l'aiuto deglistratores, davano udienza anche a Pavia. Tali funzioni giuridiche rendono difficileseparare i singoli compiti di ciascuno di loro, tanto che i funzionari di palazzo, inmodo simile ai duchi e ai gastaldi delle province, sono spesso chiamati semplicementeiudices. Ma a Pavia formavano comunque un gruppo ben definito, potenzialmentedisponibile per chiunque avesse bisogno della ratificazione reale di un atto giuridico odesiderasse appellarsi contro una decisione della magistratura. I re o i loro più vicinirappresentanti dovettero ratificare molti atti giuridici assai banali, nei nostri testidell'VIII secolo, quali la copia autentica di una concessione fondiaria fatta da unnotabile toscano durante il regno di Astolfo, o una piccola alterazione di dettagli neltestamento di Gisolfo strator di Lodi nel 759. Nel 771 i tre proprietari di una chiesettaprivata nei pressi di Lucca si appellarono al re in una disputa legale col vescovoPeredeo, Desiderio ingiunse a Peredeo di riconsiderare le loro istanze e di riconosere iloro diritti, cosa che il vescovo fece21. I1 re mantenne in uso ~ànche molte prerogativee molti oneri del tardo stato romano: la zecca, ia determinazione dei prezzi, laconservazione delle mura cittadine22. La presenza di Pavia quale forza politica nel

19 D.A. Bullaugh, Urban change in Early Mediaeval Italy: the example of Pavia (5-b); E. Ewig,Residence et Capitale pendant le haut meyen age, « Revue Historique», CCXXX (1963), pp. 3647; C-R. Bruhl, Fodrum, Gistum, Servitium regis (d’ora in poi: F.G.S.) (Colonia, 1968), pp. 368-75.20 Schiaparelli, 19, 20;CR. Bruh1 (curatore), Cod. Dsp. Long., III (di seguito:Bruhl) (Roma, 1973), nn. 12, 13. Per i funzionari: F.G.S., pp. 377-80.21 Schiaparelli, 137,163, 255.22 Per le zecche: Rotari 242 (solo Benevento aveva una zecca indipendente).Per la determinazione dei prezzi: Memoratorium de Mercedibus Commacinorum

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regno fu senz'altro efficace. Una cosa soltanto contraddistingue nettamente il regnolongobardo dal tardo Impero e dallo stato degli Ostrogoti: non riscosse impostefondiarie. Di certo i re ricevettero abbondanti proventi dalle tasse sulle attivitàcommerciali, dazi di importazione, imposte sulle vendite e dazi portuali, fra i quali èpressoché impossibile distinguere chiaramente: datio, teloneum, siliquaticum,ripaticum, portaticum, tutti con radici tardo romane. Poterono anche beneficiare dimanodopera di corvée (angaria, scuvide o utilitates), da parte probabilmente di uominiliberi romani e longobardi23. Ma gli imperatori avevano considerato tutte questetassazioni come banalità in confronto all'imposta fondiaria, che era stata la vera fontedi sostentamento dello stato. Nel caso in cui quell'imposta sia rimasta in vigore inepoca longobarda, ciò può esser successo solo in modo frammentario e irrilevante. Adesempio, in un diploma di Carlomagno del 792 si fa riferimento a una decima versatain precedenza allo stato dalla chiesa di Aquileia; se il peso di quelle tasse fosse statoperò rilevante e normale, ne avremmo senz'altro qualche cenno in altri documenti24.La mancanza di un'imposta fondiaria, però, muta l'intero rapporto fra stato e società.L'imposta era stata essenziale per il funzionamento di intere attività sociali, quali ilmantenimento dell'esercito. Aveva costituito senz'altro la voce di maggior pesofinanziario per contadini e proprietari terrieri, e la sua raccolta annuale aveva segnatocertamente il momento in cui lo stato gravava maggiormente sulla società. Non devesorprendere che sia scomparsa durante le invasioni longobarde, considerata ladifficoltà che c'era sempre stata a riscuoterla. Sopravvisse però nell'Italia bizantina.L'esercito longobardo trovò invece il proprio sostentamento dall'insediamento direttosulle terre (cfr. pp. 92 ss.). Ma ciò significò che, per quanto romane fossero le formedello stato longobardo, il suo peso istituzionale era molto diverso. Se si eccettuanoproventi straordinari, quali bottini di guerra o confische legali, le risorse finanziariedello stato derivavano ora quasi esclusivamente dalla sua stessa proprietà fondiaria.Così che la proprietà fondiaria diventò in questo periodo più che uno strumento perottenere il potere e l'influenza politici, come era stato con i Romani, il potere politicovero e proprio. L'esercito venne ora organizzato localmente, come una sorta di doverepubblico, sotto il controllo dei duchi. Tuttavia, i duchi tendevano a rappresentareanche i maggiori proprietari privati di terreni nei rispettivi loro territori, e avevano ipropri dipendenti; verso il 750 l'obbligo di fornire forze militari fu già misuratosecondo la proprietà fondiaria. Per cui il modello sociale, pur se inserito in unastruttura politica che doveva le sue linee generali alla tarda romanità, era già divenutoampiamente « feudale ». Fintantoché l'Impero poteva riscuotere le sue imposte essorimaneva ipso facio un'istituzione potente e sovrastante. Dall'epoca longobarda in poilo stato ebbe a dipendere per la sua stessa esistenza, più esplicitamente e direttamente,dal consenso: il consenso dei suoi sostenitori più potenti, i duchi (e, più tardi, i conti)e gli altri proprietari terrieri. Per il momento, in ogni caso, non aveva alcuna difficoltàad ottenere quel consenso. I re (con l'eccezione di Grimoaldo) non sembrano averdovuto essere troppo generosi con i loro sostenitori per ottenere il loro appoggio,diversamente da quanto accadde per altri sovrani dell'Alto Medioevo. Solo a partiredal 900, da quando cioè il potere statale cominciò a venir meno, i sovrani presero arilasciare grandi concessioni di terra. Nel frattempo, la sopravvivenza di un sistema MGH Leges, IV, pp. 176~0. Per le mura di cinta cittadine V. Fainelli (curatore)Codice Diplomasico Veronese, I (venezia, 1940), n. 147.23 Brühl, 19, 27, 43, 4424 MGH Dipl. Kar., I, n. 174; cir. P.S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel medioevo, II (Padova,1907), pp. 47-54 per il materiale ma non per le conclusioni.

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legale complesso che si basava sui centri di potere regi, e su un equilibrio di forze neicentri minori, la città, costituiva la base più sicura per l'egemonia dei re longobardi,come vedremo nei capitoli seguenti.

L'amministrazione locale longobarda era pure, in massima parte, di derivazioneromana. I1 regno risultava da un complesso di circoscrizioni locali checorrispondevano, nella maggior parte, ai territori cittadini e alle diocesi ecclesiasticheromani. A controllarli c'erano duchi e gastaldi, che vivevano nelle città, rafforzandocosì il predominio che le città avevano sempre avuto sui territori circostanti. A volte siverificavano cambiamenti, quasi sempre chiaramente motivati. La difesa dei confinilocali era il motivo principale, e produceva grandi ducati come il Friuli, o in altre areeuna proliferazione di distretti amministrativi basati su castra, roccaforti difensive,come Castelseprio e Sirmione ai piedi delle Alpi, e un'intera catena di castra negliAppennini toscani ed emiliani a controbilanciare le difese appenniniche bizantine25.Laddove i confini fra territori di singole città venivano a mutare, le città cheperdevano appezzamenti tendevano a fare resistenza, così che i re dovevano risolverele dispute, come accadde tra Parma e Piacenza (almeno quattro volte fra il 626 e1'854) e tra Siena e Arezzo. In quest'ultimo caso, i confini amministrativi di Arezzonon s'erano veramente estesi; tuttavia, all'inizio del VII secolo, durante una lungavacanza di vescovi a Siena, la diocesi di Arezzo era giunta a includere una ventina dichiese senesi. I vescovi senesi considerarono una tal cosa un'anomalia intollerabile evennero appoggiati dai propri gastaldi. Liutprando stette dalla parte di Arezzo, e cosìaccadde anche per una serie di re e di papi, pur se un giudizio contrario espresso dapapa Leone IV nell'850 ingarbugliò tanto la disputa da impedirne la soluzione permolti secoli26.

Ovviamente, in qualità di duchi furono nominati i capi militari dell'esercito diAlboino, collocati subito in singole città, e presto incaricati anche di responsabilitàcivili. I gastaldi, invece, pare fossero originariamente gli amministratori locali delfisco reale (cioè le entrate del re, derivanti allora quasi esclusivamente da terreni). PerRotari di certo le due funzioni pubbliche coesistono nella stessa città e anzi egli le usacome meccanismi di appello27. Ma sotto Agilulfo si nota che i gastaldi rimpiazzano iduchi nelle città ribelli, e in Toscana la maggior parte delle città (tranne Lucca eChiusi) sembrano non avere avuto mai alcun duca. Nei ducati meridionali, i gastaldicostituivano gli unici rappresentanti politici locali, ma erano però totalmentesottoposti ai duchi che reggevano il governo centrale a Spoleto e a Benevento. I1ruolo duplice dei gastaldi sembra essersi cristallizzato a Siena tanto che nel 715coesistettero due gastaldi. Non si può sapere con certezza se la netta separazione deipoteri fu una caratteristica diffusa; ma a Lucca, almeno, la curtis regia ovvero il centropolitico-amministrativo locale era geograficamente separato dalla curtis ducalis, lacorte del duca, e a Brescia, nel 759-60, il re Desiderio distinse nei suoi diplomi tra laproprietà del re (curtem nostram), la proprietà ufficiale del duca (curtis ducalis) e laproprietà personale da lui posseduta, o affidatagli, quando si trovò duca in quella città

25 V. Fumagalli, L'amministrazione periferica dello stato nell'Emilia occidentale in età carolingia (B3-c).26 Tutti i documenti sono riuniti convenientemente in U. Pasqui, Documenti perla storia della città di Arezzo nel medioevo, I (Firetue, 1890). 2s Rotari 234.

27 Rotari 23-4

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sotto Astolfo28. Duchi e gastaldi godettero entrambi di un considerevole rispetto localee mostrarono grande impegno nelle vicende locali, ma è significativo che, con rareeccezioni, non sia possibile ripercorrere dinastie degli uni o degli altri. Agli inizi neebbe una il Friuli, ma essa si perse nel quarto o quinto decennio del secolo VII. Lastessa Spoleto mutò dinastia parecchie volte, subendo di solito le pressioni dei re.Soltanto Benevento continuò indisturbata (sotto l'ex dinastia friulana), almeno sino alregno di Liutprando.

Per quanto riguarda ambiti di minore ampiezza delle città-territorio, d'altra parte, laconfusione è estrema. Le leggi alludono a funzionari pubblici minori, gli sculdabis, ilcentenarius e il lecanus. Si sono fatti vari tentativi di organizzarli in gerarchieverosimili con verosimili circoscrizioni; in generale però non s'è avuto alcunsuccesso. Non c'è alcun motivo per credere che avessero nell'Italia longobarda lestesse funzioni che adempivano altrove. In alcuni casi, tali funzionari devono avereavuto responsabilità locali: è chiaro che Liutprando lo dà per scontato nelle sue leggi,e di tanto in tanto troviamo riferimenti a decani e centenari, responsabili forse per ivillaggi toscani e i territori relativi. Più a nord, comunque, non si riesce a trovarnetracce nel periodo longobardo. Nel ducato di Spoleto pare che entro il gastaldato diRieti gli sculdabes abbiano avuto incarichi ufficiali, ma solo nella cerchia delgastaldo, e non fuori di quella città29. La relativa omogeneità del governo centrale edell'amministrazione cittadina sparisce completamente a livello locale. Non si puòdire se ciò fosse risultato del caos delle guerre gotiche e longobarde o se invece siasoltanto la più antica prova documentata in nostro possesso di contrasti ancor piùremoti. L'unità locale base dello stato longobardo fu essenzialmente la città con ilterritorio che la circondava; essa costituiva una struttura cellulare, in parte risultatodella volontà di Alboino di lasciare il governo delle città ai duchi, ma soprattuttocontinuazione della tradizionale ripartizione sociale e geografica dell'Italia.Soddisfatta la coerenza a questo principio, il problema delle unità minori pare avercontato poco.

Con l’VIII secolo, tale quadro politico si consolida. Grimoaldo sconfisse l'ultimotentativo bizantino di riconquistare territori longobardi, sotto l'imperatore Costante IInel 663, e ne seguirono sessant'anni di pace, con l'eccezione di alcune espansioni deiBeneventini (Taranto e Brindisi nel penultimo decennio del VII secolo, la Valle delLiri nel 702 circa). La dinastia bavarese si distrusse da sé attraverso una serie di colpidi stato a catena tra il 701 e il 712, e nel 712 il suo ultimo re, Ariperto lI (701-12),venne spodestato da Ansprando. Ansprando morì quello stesso anno, e gli successe ilfiglio Liutprando (712-44). Liutprando e i tre principali suoi successori, Ratchis (744-9), Astolfo (749-56) e Desiderio (757-74) mostrano identità individuali eatteggiamenti sottilmente differenti. Diviene così possibile una storia politica30.

I1 padre di Liutprando era stato il tutore di Liutperto (700-2), figlio di Cuniperto, edera salito al potere con l'aiuto militare del duca dei Bavaresi. In senso politico erachiaramente l'erede di Cuniperto, tuttavia non rientrava nella tradizione dinastica dellacorte di Pavia, e per quel che riguarda le sue gesta si mostrò più un seguace di Rotari 28 Per Siena: Brühl, 13; Brescia: Brühl, 31, 33. Cfr. F.G.S., pp. 365,-6.

29 Liutprando 44; Schiaparelli, 19, 86, 184; E. Saracco Previdi, «Lo sculdahis nel territorio longobardodi Rieti » (B3-c).30 Per la storia dell'VIII secolo, cfr. L.M. Hartmann (Bl) II;. Bertolini (B6-b).

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e Grimoaldo. Con Liutprando venne a configurarsi nella sua completezza la sintesidelle due tendenze della monarchia longobarda nel VII secolo. I1 suo primo gesto, nel713, fu di rivedere le disposizioni del codice di Rotati in merito all'eredità. La rapiditàdella revisione è sintomatica: ci deve essere stata una considerevole pressionepopolare a favore di maggiori diritti ereditari per le donne e della legittimazione delledonazioni lasciate alla Chiesa. Liutprando stesso ne accenna in una notizia del 733 incui si lamenta dell'avidità dei funzionari reali, e si chiede perché non s'accontentinodelle concessioni di cui già godono. I provvedimenti sembrano avere avuto unriscontro immediato; quasi le prime donazioni alla Chiesa di cui ci sia giunta notizia,seguono subito nel 71431. L'importanza della legittimazione esplicita di atti giuridicida parte dei re dimostra quanto fossero forti l'autorità del re e della legge, comevedremo nel capitolo quinto. Dimostra altresì l'influsso del diritto romano, poichéquesti mutamenti andavano nella direzione della pratica legale romana. I Romanicostituivano la gran maggioranza degli abitanti dell'Italia longobarda, ma comincianoa spuntare solo nelle fonti che documentano il regno di Liutprando, pur se alcunis'eran già notati nel VII secolo, come Pietro figlio di Paolo, l'aiutante di Adaloaldo, ela nobildonna romana Teodota, di cui s'innamorò Cuniperto alle terme32. I1 rapportofra Romani e Longobardi verrà discusso più avanti, ma possiamo notare fin d'oracome Liutprando fosse stato influenzato dal diritto romano. Non però in modoindiscriminato: elementi romani ebbero a inserirsi in una cornice legale fermamentelongobarda. Il resto della legislazione sull'eredità, ad esempio, rimase totalmentelongobardo. Così ancora, nel 731, Liutprando: rese il combattimento conosciuto come« giudizio di Dio » un avvenimento dal valore accuratamente circoscritto: « poichénon siamo sicuri sulla verità del giudizio di Dio, e abbiamo saputo di molti che hannoperduto la loro causa ingiustamente; ma, poiché esso rientra nelle tradizioni dellanostra gente longobarda, non possiamo proibire del tutto la legge che lo autorizza »33.Sentimenti nobili, tipici della nazionalità dei giudizi ad hoc di Liutprando; essi sonocomunque fermamente soggiogati alle norme del diritto longobardo. Questa corniceLongobarda tradizionale che circondava ogni innovazione legale fu l'elementocaratterizzante della versione di Liutprando della sintesi del VII secolo.Liutprando legiferò durante l'intero suo regno, con l'eccezione degli ultimi nove anni,aggiungendo 152 articoli all'Editto (158 se includiamo anche i sei capitoli della notitiade acioribus regis, che nella sua essenza si configura come precorritrice del capitolarecarolingio). Per il resto egli tenne sotto fermo controllo i suoi duchi e, dopo il 126,attaccò con una certa sicurezza tutte le altre potenze della penisola. Nel 726-7 invasel'Esarcato e l'occupò per intero con la sola eccezione di Ravenna; quando se ne ritirò,mantenne sotto il suo controllo le zone più occidentali. Nel 732-3, nel 740 e nel 743ne rioccupò le altre parti, compresa, stavolta, Ravenna. Nel 733 scese verso il sud, emise il nipote Gregorio al potere a Benevento. Nel 739, in reazione ad un’alleanza alui ostile fra Spoleto, Benevento e il papato, espulse il duca di Spoleto e occupòquattro città appartenenti a Roma, prima di tornarsene a nord per aiutare CarloMartello nella guerra contro gli Arabi in Francia. Nel 742 tornò nel sud e cacciò via iduchi sia di Spoleto che di Benevento, tornando a nord solo nel 743 per occupare;Ravenna: All'improvviso, per la prima volta dopo sessant'anni, il potere militarelongobardo dimostrava di non avere alcun rivale in Italia. Al tempo di Rachi, Spoleto 31 Liutprando 1-6 e Notitia de actoribus regir, 5; Schiaparelli, 16, 18 (I'unica precedente donazione è la14, del 710).

32 MGH Epp., III, p.694; Paolo, H.L., 5.37.33 Liutprando 118.

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viene assorbita entro la cornice del regno: le sue pratiche notarili dipendono sin daallora da Pavia, e i re acquisiscono il diritto di alienare le proprietà dei duchi. Tra il751 e il 756 Astolfo eliminò addirittura la figura del duca34. Come conseguenza,Spoleto sarebbe stata incorporata saldamente nell'Impero Carolingio. AncheBenevento, almeno parzialmente, fu assoggettata a Pavia, pur se in questo caso solocome conseguenza del riconoscimento della supremazia del settentrione, rafforzatadalla capacità degli eserciti settentrionali di spodestare in qualsiasi momento i suoiduchi. Cosa intendesse fare Liutprando delle parti bizantine dell'Italia è meno certo.Non sembra avere avuto progetti di occupazione territoriale permanente in merito aipossedimenti romani, e, nel 744, dietro richiesta del papa Zaccaria, evacuò Ravenna.Pare avesse riconosciuto un'esistenza indipendente e legittima all'Esarcato, pur se nonai ducati longobardi. Quando giunse al potere Astolfo, le cui idee erano alquantodifferenti, l'equilibrio internazionale delle forze era mutato.

Ildeprando successe allo zio Liutprando, ma fu destituito quasi subito da Rachi delFriuli (744). Rachi pare aver seguito la politica di Liutprando, attaccando Roma eRavenna, e poi ritirandosi. Le sue quattordici leggi del 746 rientrano nelle tradizionidi Liutprando. I1 problema che maggiormente afflisse il suo regno è quello dell'abusodi potere da parte degli iudices (duchi e gastaldi) e dell'opposizione illegale nei loroconfronti. Non si trattava di un problema nuovo per i re longobardi (o per i loropredecessori): sia Rotari che Liutprando lo affrontarono nelle loro leggi, e Rachistesso usa termini tardo-romani, quali patrocinium, nella propria analisi dellasituazione35. In effetti, i re longobardi, come tutti i sovrani medievali, eranopraticamente impotenti dinanzi all'abuso di potere da parte dei loro rappresentantilocali (quello che Rachi definisce il favoritismo nei confronti di dipendenti, parenti,amici, o persone che sborsavano denaro), in quanto il loro potere locale era basatoproprio su quei rappresentanti. Si può dire che almeno qualche tentativo venne fatto,come indicano le leggi; e, per esempio, Liutprando cacciò Pemmo (padre di Rachi)dal ducato del Friuli, per aver questi trattato iniquamente il patriarca di Aquileia36.Quel che queste leggi non mostrano è la presunta insicurezza vissuta da Rachi difronte alla crescente inquietudine civile; inquietudini di tal sorta erano comuni nellasocietà altomedievale. Più serie furono le misure che egli prese soprattutto contro laFrancia37, per proteggere i confini dalle infiltrazioni di nemici e di spie, e dalla fuga diinformazioni segrete e di persone.

La Francia fu sempre più potente del regno longobardo, anche durante l'eclissi politicadei Merovingi nel tardo VII secolo, e i Longobardi fecero bene attenzione a rimanerein rapporti amichevoli. Dopo il regno di Agilulfo, le due potenze si mantenneroalleate, con l'unico intervallo dell'invasione dei Franchi nel 662 (a favore del reesiliato Pertarito), fino al regno di Liutprando. Come s'è visto, Liutprando e CarloMartello combatterono assieme contro gli Arabi. Quando nel 740 il papa Gregorio IIIchiese l'aiuto dei Franchi contro Liutprando, questo gli fu negato. Ma il papato avevasempre più bisogno dei Franchi contro i Longobardi, in quanto gli imperatoribizantini, sia per differenze religiose che per le guerre in Oriente, non erano piùdisposti a venire in aiuto di Roma. Dopo la morte di Carlo Martello nel 741, il papato 34 D.A. Bullough, The writing-office of the dubes of Spoleto in the eighth century (A3-b)35 Rotari, prologo; Liutprando 59; Rachi 1,10,11,14.36 Paolo, H.L., 6. 51.37 Rachi 9, 12, 13; anche Astolfo 4, S. Cfr. G. Tangl, Die Passvorschrif des konigs Ratchis (B3-b).

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e i Franchi avviarono un ravvicinamento che portò al riconoscimento papale delladinastia carolingia come dinastia reale in Francia, nel 752. Era più che logico cheRachi se ne preoccupasse: la Francia era anche la patria tradizionale degli esulilongobardi e avrebbe potuto, volendo, aiutarli. Nel 749 egli si ritirò nel monastero diMontecassino, dopo essere stato destituito (probabilmente con un colpo di stato) dalsuo energico fratello Astolfo. I problemi si acuirono. Come abbiamo detto, Astolfoassorbì completamente Spoleto. Nel 751 occupò Ravenna, con tutta l'intenzione dirimanervi, come si può vedere dalle testimonianze relative alle edificazioni (poiinterrotte) da lui intraprese in qella città. Nel 752 chiese il tributo dei Romani, e ilcontrollo sui castra della campagna romana. Dopo il fallimento dei negoziati, il papaStefano II si rivolse ai Franchi. Nel 755 (o 754) i Franchi, guidati da Pipino III,attaccarono; Astolfo li affrontò in una battaglia campale e perse. Dentro l'assediataPavia firmò l'accordo coi Franchi, cedendo al Papa tutto l'Esarcato (contro il desideriodei ravennati, che certo preferivano il dominio dei Longobardi piuttosto che quello delPapa). A seguito della rottura della pace, nel 756, Pipino invase nuovamente il regnolongobardo e si giunse a un nuovo accordo. Entro l'anno Astolfo morì.38

In generale gli storici hanno giudicato severamente Astolfo, vedendoloesclusivamente con gli occhi dei suoi nemici. La storia di Paolo si ferma al 744, e delresto la sua ipersensibilità in merito ai cattivi rapporti fra re longobardi e papato loavrebbe reso poco affidabile per il periodo seguente. Ci restano soltanto gli annali deiFranchi e il Liber Pontificalis romano, analisi condotte con animo per nulla amico.Quest'ultimo non lesina le parole nell'esprimere la sua opioione su Astolfo: il piùmalvagio, il più feroce, spaventoso, empio, blasfemo, son tra gli epiteti più laconici.In realtà, Astolfo stava solo portando alle loro logiche conclusioni le linee politiche diLiutprando. Si può dire unicamente che ebbe la sfortuna di regnare in un momento incui i Franchi si mostrarono disposti a intervenire, poiché i Franchi erano invincibili.Non fu neanche in vera opposizione nei confronti del papa, dal punto di vistareligioso. Nel 7S2, nel bel mezzo delle sue campagne militari, delegò Roma adecidere in merito alla terza fase della controversia fra Siena e Arezzo, affermandoche la cosa non era di sua competenza. Neanche Liutprando era giunto a ciò. Le sueleggi mostrano preoccupazioni assai simili a quelle di Rachi, con forse l'aggiuntasignificativa di una legge che castigava la tendenza dei potenti a fuggire dai doverimilitari. I Longobardi, probabilmente, erano assai meno pronti dei Franchi allo statodi guerra permanente: parecchi aristocratici longobardi, come è noto, fecerotestamento prima di scendere in campo contro Pipino, e questo non contribuì certoall'efficacia di Astolfo contro i Franchi39.

I1 regno di Desiderio (757-74) ha tutta l'aria di un commento in appendice sull'interasituazione. All'inizio, Desiderio cominciò, con l'appoggio papale, vincendo una guerracivile contro Rachi, riapparso momentaneamente da Montecassino per reclamare iltrono. Dapprima visse nell’ombra dell'alleanza franco-papale, pur se ciò non gliimpedì di controllare almeno Spoleto e Benevento. Dopo il 768, la morte di Pipino e

38 Per Astolfo, cfr. Ia biografia sotto la voce « Astolfo » in Dizionario biografico degli Italiani, Iv(Rorna, 1962), pp. 467-83.

39 Astolfo 7; Pasqui, n. 11; Liber Pontificalis, ı (a cura di L. Duchesue, Roma, 1886), pp. 441-S4;Schiaparelli, 114, 117.

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una difficile successione a Roma gli dettero l'opportuoità di riaffermarsi, ma i relongobardi ormai erano in trappola. In un'epoca di più

Netti confini (i Longobardi avevano persino introdotto i passaporti), i Longobardi nonpotevano accettare tranquillamente l'esistenza dello stato pontificio nel centrodell'Italia. Ma, quando Desiderio fu forte abbastanza da poterlo attaccare (nel 772-3),a Roma c'era un papa della forza di Adriano I (772-94), e il figlio di Pipino,Carlomagno, era unico re in Francia. Carlomagno, piuttosto controvoglia, invasel’Italia nel 773 e sconfisse un esercito longobardo ai piedi delle Alpi. Tra l'autunno773 e il giugno 774 assediò Pavia e Verona, e quindi, entrando trionfalmente in Pavia,s'incoronò re.

I1 regno longobardo cadde per la semplice ragione che la logica geografica imponevaa qualsiasi re longobardo ambizioso di opporsi al pontefice in un momento in cui ilpiù forte esercito d'Europa era pronto a combattere dietro richiesta del papato. D'altraparte Desiderio, nelle sue attività interne, pare esser stato tanto fiducioso e sicuroquanto ogni suo altro predecessore. Di certo ebbe un'opposizione all'interno: ilcognato di Astolfo, Anselmo, abate di Nonantola, si rifugiò a Montecassino nel 760circa, e tornò solo dopo la conquista franca; e un documento reale del 772 elenca novenobili infideles, uno dei quali, Augino, se n'era scappato proprio in Francia. Ma tuttociò avrebbe avuto ben poco peso se i Franchi fossero rimasti neutrali; conflitti di queltipo non costituivano alcuna novità. Inoltre, nel 773-4, la gente si raccolse attorno aCarlomagno, e gli Spoletani cacciarono via il duca Teodicio che stava dalla parte diDesiderio. Adriano stesso; scelse Ildeprando, come suo successore.40 Ma taleprontezza nello scendere a patti con i Franchi non può essere considerata una causadella caduta di Desiderio, poiché ebbe luogo solo dopo la sconfitta militaredell'esercito longobardo, quando gli italiani si resero conto che Desiderio aveva igiorni contati. I1 regno longobardo era militarmente più debole di quello dei Franchi,ma Carlomagno ereditò uno stato forte e bene organizzato.

Il Regno Carolingio

Carlomagno fu in Italia nel 773-4 per meno di un anno. Pavia cadde in giugno; primadella fine della stagione delle campagne militari egli se ne tornò al nord, a combatterein Sassonia. Ciò istituì una tradizione che perdurò per tutto il periodo in cui vi furonore d'Italia: governo d'oltralpe significò monarca assente. Carlomagno ritornò soloquattro volte prima della sua morte nell'814 (776, 780-1, 786-7 e 800-1, quando glivenne dato il titolo simbolico di imperatore da papa Leone III), ma cinque anni sononotevoli quando si pensa a ciò che fecero alcuni dei suoi successori, e derivò dal suodesiderio di stabilizzare una parte dell'impero appena conquistata. In ogni caso, iLongobardi non gli provocarono molti guai. Adriano I gli scrisse per avvertirlo di uncomplotto, nel 775, fra diversi duchi longobardi e l'imperatore bizantino, ma quandoesso scoppiò nel 776 solo uno o due duchi vi erano effettivamente coinvolti, e il lorocapo, Rodgaudo del Friuli, cadde durante la battaglia. Carlomagno avrebbe potutoprendere l'occasione per allontanare dal loro incarico tutti i duchi longobardi, mapreferì aspettare che morissero per sostituirli con conti franchi, e almeno un vecchioribelle, Aione, venne perdonato nel 799 e reinsediato, e il figlio di questi, Alboino,

40 Brühl, 44, Liber Pont., I, pp. 495-6.

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divenne pure lui conte, durante il regno seguente. I ribelli longobardi persero i loropossedimenti, che furono confiscati, ma i loro parenti più fedeli conservarono leproprie terre. Di tanto in tanto venivano portati in Francia alcuni ostaggi, fra cui ivescovi di Lucca, Pisa e Reggio Emilia, e probabilmente il fratello di Paolo Diacono,Arichis, ma verso il 780 erano stati rilasciati quasi tutti. Può darsi comunque chel'esercito di Carlomagno abbia tenuto un atteggiamento meno cauto: nel 776 eglidovette emanare un capitolare riguardante le conseguenze di una seria carestia,causata probabilmente dalle invasioni militari 41

Da quel momento, il regno longobardo divenne un regno dipendente dall'imperofranco, e le sue istituzioni cominciarono a mutare lentamente. Verso 1'814, i duchilongobardi erano divenuti conti, per lo più franchi o alemanni; missi franchi sedevano,in qualità di messaggeri del re, alle corti locali. Ma l'influsso delle popolazionisettentrionali in Italia fu piuttosto lento, e alla morte di Carlomagno era appena aglialbori. La politica locale e le corti locali non mutarono molto d'aspetto durante ladominazione carolingia. Rimasero in piedi sia le strutture sociali italiane che le normeche governavano l'attività politica. Ciò accadde in parte anche perché si trattava dinorme non dissimili da quelle dei Franchi: l'Italia e la Gallia si erano sviluppate indirezioni molto simili, fino a un certo punto, almeno. Per esempio, nel 774Carlomagno cedette due valli alpine strategicamente importanti, la Valtellina e laValcamonica, ai monasteri franchi di San Dionigi e San Martino di Tours, compiendole uniche grandi donazioni di terra regia durante il suo regno. Si trattò di una classicaazione politica franca. Tuttavia, gli ultimi re longobardi s'erano comportatiesattamente allo stesso modo con i monasteri da loro patrocinati, cosa che accadde peresempio quando i re friulani Rachi e Astolfo incoraggiarono i Friulani a fondare imonasteri importanti, anche strategicamente, di Sesto, Nonantola e del MonteAmiata42. La politica rimase, sotto i Carolingi, quella che era stata sotto i Longobardi:una politica basata sulla proprietà fondiaria.

La conquista franca non apportò grandi modifiche alla mappa dell'Italia. Ovviamente,Carlomagno aveva conquistato solo il nord ed il centro dell'Italia, il regno longobardoe il ducato di Spoleto. Spoleto: rimase parte del regno italico (come cominciò a venirchiamato), pur se gran parte delle sue attività rimasero pressoché del tuttoindipendenti. I papi conservarono lo stato pontificio che si trovava fra quei dueterritori, il vecchio Esarcato di Ravenna e il ducato di Roma. Tuttavia, i Carolingimantennero di fatto il potere su d tutto quel territorio, con l'eccezione del retroterraromano, e dopo la fine del IX secolo Ravenna stessa divenne una parte permanentedel regno. A sud, Benevento conservò la sua indipendenza. I1 duca Arichi II (758-87),genero di Desiderio, si dichiarò princeps, principe, nel 774, ed emanò diciassette leggicome aggiunte al codice longobardo, attribuendo a qesti due gesti un valore di sfida aCarlomagno. Benevento conservò una tradizione legittimista longobarda per altri tresecoli, fino alla conquista normanna della fine del secolo XI. Carlomagno, spronatoda Papa Adriano (che reclamava delle terre meridionali), invase Benevento nel 787.Arichi chiese l'aiuto bizantino, ma morì. Il suo erede, Grimoaldo III, non fu che un 41 Per i ribelli: MGH Dipl. Kar., I, nn. 112, 187, 214; il capitolare 776 in MGH Capitularia, I, n. 88;cfr. E. Hlavitschka (B3-c), pp. 23ss., J. Fischer (B3-c), pp. 7-17. Hlawitschka e Fischer offrono lemigliori analisi politiche del periodo carolingio.

42 MGH Dipl. Kar., I, nn. 81, 94; per paralleli longobardi, cfr. K. Schmid, ZurAblosung der Langobardenherrschaft (B3-b), pp. 6-29.

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ostaggio in mani franche. In cambio della sua liberazione, Grimoaldo ebbe il compitoimbarazzante di sconfiggere, l'esercito di sostegno bizantino che era arrivato nel 788,capeggiato da suo zio Adelchi, figlio di Desiderio. Grimoaldo (787-806) riconobbe lasovranità franca, ma essa rimase puramente nominale. Lo si vede agire sempre comeun governante indipendente; combatté varie guerre contro i Franchi, e coniò le propriemonete43. Sin dai regni di Arichi e Grimoaldo, in realtà, c'è sufficiente materialedocumentario da permetterci di considerare Benevento come un'entità indipendente, e,eccettuati occasionali interventi franchi (particolarmente fra 1'866 e 1'873), la suastoria rimase del tutto distinta. Ciò fu ancor più vero per quel che riguarda i territoriminori rimasti ai Bizantini nell'Italia meridionale; Napoli, Amalfi, e le zone greche diOtranto e della Calabria; di tutti questi si parlerà a parte nel capitolo sesto.

A scrivere la storia politica dei primi settant'anni dell'Italia carolingia si fa presto. Nel781 Carlomagno incoronò il suo figliolo di quattro anni, Pipino, re d'Italia (781-810),e dopo di allora vi passò ben poco tempo. Pipino fu a capo di un'amministrazioneautonoma ma non indi. pendente, con un mutevole stuolo di guardiani: il cuginoAdalardo di Corbie prima, poi i beiuli (tutori) Waldo di Reichenau (circa 783-90) eRotchild (circa 800). Eserciti guidati da Pipino annientarono gli Avari nel 796 esottrassero Chieti a Benevento nell'80144. Quando mori Pipino, Adalardo ricomparve,come tutore del giovane figlio di quello, Bernardo (812-7). Nell'814, tuttavia,Lodovico il Pio, ultimo figlio sopravvissuto di Carlomagno, divenne unicoimperatore. Lodovico, che aveva tre figli propri, teneva in scarso conto i diritti delnipote. Nell'817 divise l'amministrazione dell'Impero: il figlio maggiore ebbe l'Italiacon il titolo di imperatore; Bernardo, anche se non destituito apertamente, non fupreso in considerazione. Si ribellò contro Lodovico, col sostegno di parecchi seguscifranchi del padre, e col sostegno anche, o la simpatia, di non pochi tradizionalisti inItalia della Francia. La rivolta falli, e Lodovico fece accecare Bernardo che morì perle ferite riportate 45. Nell'822-4' il figlio di Lodovico, Lotario, fu visto per la primavolta in Italia (mentre Lodovico il Pio non vi si recò mai). Minorenne come i suoi duepredecessori, fu rappresentato da Wala, il fratello di Adalardo.

Dei Carolingi che furono per qualche tempo in Italia, Lotario (817-55) fu il menoitaliano. Rimase nel paese per la maggior parte della decade 831-841, maprincipalmente perché Lodovico il Pio ve l'aveva effettivamente bandito. L'Italia servia Lotario come base militare e politica per le sue awenture a nord; diversamente dalproprio figlio Lodovico II e dallo stesso Carlomagno, Lotario non visse molto nelledttà, preferendo le grandi tenute reali come Corteolona o Aureola, cosi come fecero ire franchi nell'Europa del nord 46. E, distinguendosi anche in questo sia dal successoreche dal predecessore, Lotario non nominò alcun longobardo in incarichi ecclesiastici osecolari. Le nomine che egli dedse, tuttavia, non suggeriscono antagonismo coiLongobardi (Leone, uno dei suoi più intimi consiglieri, era longobardo), ma soltantola totale dipendenza dell'Italia dagli interessi dei Franchi. Quando nell'834 ebbe luogola rottura con Lodovico, Lotario dovette mettersi alla ricerca di proprietà e incarichi 43 Per i dettagli, cfr. O. Bertolini, Carlomagno e Benevento (B3-e).44 Annales regni Francorum in MGH Saipt. rer. Germanicaram, s.a. 796, 801; cfr. D.A. Bullough,Baiuli in the Carolingian regnum Langobardorum (A3-c).45 Cfr. T.F.X. Noble, The Revolt of King Bernard of Italy (A3-c); H. Houben, Visio cuiusdampauperculae mulieris, Zeitschrift fur die Geschichte Obertheins, CXXIV (1976), pp. 3142.46 F.G.S., pp. 401-2.

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per i propri sostenitori settentrionali, e che comportò la maggiore ondata diimmigrazione nordica in Italia di tutto il periodo carolingio. Lotario secolarizzò unaporzione notevole delle proprietà ecclesiastiche per concedere feudi ai proprisostenitori, in perfetto stile franco, in aggiunta alle terre confiscate agli uomini diLodovico che Lotario espulse dall'Italia. Pur se molti dei sostenitori di Lotariomorirono nella pestilenza dell'836-7, quando, alla morte di Lodovico nell'840, Lotariolasciò l'Italia, l'influsso franco sulla penisola aveva raggiunto il suo apice.Contemporaneamente, l'Italia mostrava già segni di uno sviluppo in direzioni diverseda quelle del resto dell'impero dei Franchi. I Franchi giuntivi con Carlomagno vierano insediati già da una generazione, e avevano cominciato a mettere radici. E icapitolari del regno di Lotario, in particolare quelli dell'825 e del1'832, costituirono iprimi esempi di legislazione massiccia, dopo il 774, priva di un inílusso predominantedelle leggi di Francia. In questa direzione avrebbe continuato poi Lodovico II,divenuto imperatore d'Italia nell'850.

La descrizione della politica italiana in questo periodo, per quanto concerne le attivitàdei re, risulta monotona e banale. Ciò è in parte dovuto al fatto che l'Italia aveva unostatus ambiguo, né indipendente né totalmente parte integrante dell'impero franco, conmonarchi minorenni o assenti per la maggior parte del tempo. Ma è ancor più dovutoalla quasi totale mancanza di storiografia indigena relativa al periodo carolingio, conle sole eccezioni dei materiali riguardanti Benevento e delle storie vescovili delle cittàromano-bizantine di Roma, Ravenna e Napoli. Tra l'interruzione improvvisa dellastoria di Paolo Diacono nel 744 e l'inizio di quella di Liutprando da Cremona nell'888,non abbiamo altro che irrilevanti frammenti. I1 principale è costituito dalla storia diAndrea da Bergamo, scritta come seguito di Paolo Diacono nel penultimo decenniodel IX secolo. Ci offre un quadro abbastanza dettagliato e ben documentatodell'ultima decade del regno di Lodovico II, e illustra i problemi sorti dopo la suamorte nell'875. Ma per quanto riguarda la storia precedente si dimostra stranamentemal informata. Rachi e Astolfo vi sono nominati come legislatori, e il numero delleloro leggi è fornito con cura, ma a parte ciò, Andrea « non si ricorda delle loro gesta,ma, per sentito dire, furono entrambi coraggiosi, e i Longobardi durante i loro regninon ebbero paura di nessuno ». Gli informatori franchi di Andrea si sono addiritturadimenticati di Pipino III. Le guerre degli anni 773-6 e la rivolta di Bernardo sonodivenute leggende popolari, come è pure successo per la mediazione dell'Arcivescovodi Milano, Angilberto, fra Lodovico e Lotario. Non vi si legge d'altro: nel testo diAndrea, fra 1'833 e 1'863 l'Italia sembra non aver vissuto nessun avvenimentoimportante47. Andrea è certamente un cattivo storico, ma la sua ignoranza èsignificativa. I re franchi, fino a Lodovico II (che regnò soltanto in Italia), non parveroeffettivamente agli Italiani sovrani del loro paese. Le loro guerre in Italia, contro gliSlavi ad est, i Longobardi a sud, gli Arabi sulle coste, sono ricordate soltanto daicronachisti franchi. L'amministrazione italiana, come si vedrà, giungeva ovunque, mai suoi sovrani venivano dimenticati. I1 solo modo di governare l'Italia propriamentecomportava il vivervi di persona, e solo Lodovico II, fra tutti i sovrani carolingiindipendenti, lo fece; solo lui riuscì a dare una impronta nuova al regno.

D'altra parte, fu proprio durante il governo incolore dei primi Carolingi che lasofisticazione del sistema amministrativo raggiunse il vertice. L'efficienza dello stato

47 Andrea, Historia (in MGH S.R.L., pp. 221-30), cc. 3-7.

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cominciò a venir meno soltanto durante il regno di Lotario poiché, eccettuando ildecennio 831-41, egli fu in pratica un monarca assente. L'amministrazione continuòad essere basata essenzialmente sui modelli longobardi che Carlomagno aveva trovatogià nel 774: la gerarchia di funzionari pubblici basata su duchi e gastaldi nelle città, el'amministrazione centrale di Pavia. Quei modelli; erano retti ancora dal principiodella proprietà terriera, la chiave che s piega tutto il potere politico post-romano. Idazi, le corvées e i servizi richiesti dai re longobardi vennero richiesti ancora daiCarolingi e dai loro successori, e sono ancor meglio documentati, ma continuavano arappresentare una piccola parte delle entrate e dei fondi del re, tranne per quantoriguarda il servizio più importante richiesto, quello del contributo militare48.

La politica della proprietà fondiaria è stata menzionata come un problema deiLongobardi, ma fu nel periodo carolingio che cominciò a venir chiaramentedocumentata, e alcuni conflitti locali fanno capolinO nella nostra documentazione. Ire dell'Europa altomedievale ebbero principalmente due diversi, ma correlati, tipi diproblemi, per stabilire il loro potere: il problema del consenso e quello del controllo.In parole povere, il re doveva riuscire a far si che l'aristocrazia fosse d'accordo con lesue azioni e lo aiutasse in quelle; ma contemporaneamente aveva bisogno diconservare una qualche autorità sulle azioni dei nobili nei loro rispettivi territori. InFrancia, i Carolingi (almeno dopo Carlomagno) ebbero poca fortuna relativamente alsecondo problema, e per quel che riguarda il primo dovettero cedere gran parte delleloro proprietà sotto forma di doni oppure feudi. In Italia le cose andarono piùfacilmente. L'attiva monarchia longobarda aveva stabilizzato il potere del re a unlivello abbastanza alto, che permetteva di ottenere l'appoggio dell'aristocrazia incambio di doni relativamente esigui. La pratica venne conservata dai Carolingi. I redonarono raramente appezzamenti di terra, e solo di piccole dimensioni. Lo stessoLotario, al momento di insediare i suoi sostenitori in Italia nell'834, agì con prudenza,dando loro terre della Chiesa anziché proprie. La documentazione in nostrO possessotende a dare più spazio alle registrazioni di donazioni alla Chiesa, che non di beneficia vassalli laici (possessi feudali ), e questo contribuisce sicuramente ad attenuare laproporzione dei benefici. Ma la proprietà « feudale » non raggiunse mai quotesignifcative in Italia e, almeno nel IX secolo, appare chiaro come la generosità del re,in Italia diversamente che in Francia, non abbia mai minato seriamente la proprietàfondiaria reale49.

L'effetto che ciò ebbe sulle classi più elevate sarà messo a tema nei capitoli seguenti,ma un risultato immediato va discusso subito. I re che non distribuirono consistentiquantità di terreni si trovarono in una posizione alquanto debole al momento diaffidare ai loro protetti una supremazia fondiaria locale, quando desideravano farlo.Perché una protezione dei reali franchi (soprattutto verso i conti) si trasformasse invera e propria egemonia franca in aree locali erano necessarie tre generazioni. Se i renon insediavano i loro protetti in qualità di proprietari terrieri, la possibilità di questidi influenzare gli equilibri di potere era alquanto limitata. I re potevano agire sulladistribuzione e ridistribuzione degli incarichi pubblici, e lo fecero; ma non fu mai 48 F.G.S., pp. 421-51; MGH Dipl. Kar., I, nn. 132, 134, e III, n. 91 per alcuni esempi di redditi epedaggi; Honorantiae Civitatis Papiae in MGH S.5., 30. 2, pp 1450 9 per una lunga lista riguardante isecoli X e Xl.

49 Darmstadter, op. cit., pp. 16-24 MGH Dipl. Kar., lII, n. 40 per una secolarizzazione operata daLotario.

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facile, per esempio, controllare le illegalità di un conte nella sua contea, se egli era unsostenitore leale ed efficace del sovrano. Sin dal quarto decennio del secolo IX,cominciò ad esser difficile anche impedire che il figlio succedesse al padrenell'incarico. I Carolingi affrontarono tale problema in tre principali maniere: conl'intervento diretto e il rafforzamento delle gerarchie dei funzionari, particolarmenteattraverso le leggi; con mezzi più specifici e mirati, soprattutto l'uso massiccio dimissi; e con l'uso politico della Chiesa per bilanciare il potere locale dell'aristocrazialaica.

Non v'è alcun dubbio che i Carolingi ritenessero compito loro intervenire nella societàpiù capillarmente di quanto avevan fatto altri sovrani altomedievali. La lorolegislazione, o « capitolari », comprende, nell'edizione classica, due volumi in folio ditesto in latino. Re e imperatori emanarono decreti amministrativi su una gran varietàdi argomenti, imponendoli a Longobardi, Romani e Franchi, senza tenerminimamente conto delle leggi dei singoli gruppi etnici. Nell'832, ad esempio, Lotariopromulgò due capitolari in Italia. Nel primo, legiferò sulle nomine e le assegnazionirelative alle chiese battesimali; lo spargimento di sangue in chiesa; i diritti legali degliebrei; il vilipendio alla magistratura; le cospirazioni suggellate dal giuramento;l'oppressione dei poveri; l'inosservanza delle disposizioni imperiali; il rifiuto diaccettare denaro in corso legale; la coniatura di denaro falso; la normativa relativa alletestimonianze; e il costo della redazione di documenti. Nel secondo, impartì istruzioniai suoi missi per indagare su un campo altrettanto vasto: le dotazioni monastiche;l'organizzazione delle zecche, e le frodi locali inerenti al conio; pesi e misure antichi,e l'usura; il giusto giudizio; come agire con chi non avesse giurato fedeltà al re; ildisprezzo della proprietà e dei palazzi del re; il godimento di benefici reali e di terredel fisco; il restauro delle chiese; le recenti depredazioni della proprietà ecclesiastica;la cospirazione il mantenimento di ponti e di strade50. La lista fornisce un esempioabbastanza rappresentativo delle principali preoccupazioni dei re carolingi in Italia. Anord delle Alpi, il quadro era un po' diverso, ma non di molto. Nel capitolo quintoverrà discusso un esempio particolarmente sorprendente di intervento, il tentativocarolingio di mantenere un intero gruppo sociale di piccoli proprietari terrieri cosIch`e servissero nell'esercito e partecipassero alle corti locali.

Come riuscissero i Carolingi a mettere in pratica tali decreti è un problema assai piùserio. In Francia essi venivano promulgati oralmente, e può essere messa in dubbio laconoscenza generale della loro esistenza In Italia, invece, troviamo riferimentiespliciti in documenti, ed è probabile che una classe aristocratica alfabeta ne fosseabbastanza bene informata. Responsabili per la messa in pratica erano i conti locali,operanti nella rete delle città italiane. I Carolingi fecero grande affidamento sui propriconti, e si può constatare come la responsabilità comitale si sia progressivamenteestesa in tutto il IX secolo a molti territori alpini o appenninici che erano rimastiindipendenti dall'autorità delle città durante il periodo longobardo. Vi erano poi varitipi di funzionari legali non totalmente dipendenti dai conti ed ancora legati alle città.Fra questi i più importanti furono gli scabini, generalmente piccoli proprietari terrieri,che avevano il compito di far funzionare i tribunali, strumento fondamentale delgoverno carolingio e considerevole fonte di entrate51. Ma ad esercitare un ruolo 50 MGH Capitularia, Il, nn. 201-2.51 V. Fumagalli, Un territorio piacentino nel secolo nono, QP, XLVIII (1968), pp. 25-31 per la carrieradi un funzionario locale; ibid., art. cit., n. 26, e A. Castagnetti, Distretti fiscali auttonomi... (B3-c) per leunità amministrative rurali.

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politico e direttivo predominante erano i conti, come conseguenza anche del lororuolo di capi militari locali, ed è più che probabile che molte delle leggi emanate daLotario nell'832 venissero violate dai conti o dai loro vassalli, in particolare quellevolte a limitare la spoliazione di proprietà ecclesiastiche e l'oppressione dei poveri. :Èper tal ragione che Lotario emanò istruzioni parallele ai suoi missi per indagare sullaloro applicazione.

I missi, messaggeri del re, non costituivano un'innovazione carolingia. Già i relongobardi avevano spedito i loro rappresentanti a controllare l'attività di singoli duchie a giudicare importanti controversie legali. Ma i Carolingi fecero dei missi unacaratteristica fondamentale del loro governo; il missus divenne l'organorappresentativo del governo centrale nelle province. Se un conte ne sfidava l'autorità,sapeva che ne sarebbe seguita una rappresaglia militare. Questo è almeno il modo incui il sistema funzionava secondo quanto ci dicono i capitolari, ma i testi legalitendono a idealizzare le istituzioni. I1 governo carolingio, in realtà, non funzionava inmodo così limpido; ricorreva piuttosto a una serie di misure ad hoc, che sicontrobilanciavano a vicenda. Parlare di una « istituzione dei missi » significa dire inmodo formale che i re carolingi spedivano di continuo emissari che rettificassero ledepredazioni dei potenti e degli altri emissari. In tal modo Carlomagno inviò deibaiuli con Pipino per accertarsi che l'Italia fosse governata giustamente; ma abbiamonotizie di uno di essi, Rotchild, soltanto grazie alle illegalità che commise. Nell'anno800 circa, per esempio, espulse l'abate Ildeperto dal monastero di San Bartolomeo aPistoia e affidò questo in fendo al bavarese Nebulung, finché non arrivarono altrimissi a rettificare il suo gesto. La biografia del missus Wala fornisce un resocontodrammatico di come le diverse circoscrizioní giudiziarie e le aristocrazie localiitaliane cospirassero per impedire che per esempio una vedova ottenesse da luigiustizia52. Nei casi in cui i missi erano anche conti, cosa non rara, i conti su cuiinvestigavano ricevevano non di rado un trattamento privilegiato. In ogni caso, però,non si dovrebbe esser troppo severi nel giudicare i funzionari carolingi; i re possonoessersi sì lamentati per l'oppressione subita dai deboli, ma non sembrano averlaconsiderata una cosa cosi insopportabile, poi, se non quando veniva minacciata lacapacità dei deboli di prestar servizi militari. Per lo più, lo stato non s'aspettava grandigesti d'onestà e di giustizia da parte dei suoi sudditi, e in tale ristretto ambito si puòdire che alcuni missi abbiano servito i loro padroni con tutta l'onestà necessaria.

La carriera di uno di questi, Leone, che firmò documenti con una sua caratteristicaformula tra 1'801 e 1'841, è stata messa in luce da Donald Bullongh in un'accurataindagine documentaria53. Cominciò come vassallo al seguito del conte di palazzoEbroardo, un Alemanno; fra 1'812 e 1'814 e nel terzo decennio di quel secolo fu conAdalardo e Wala, tipici emissari carolingi. Allora veniva nominato spesso conl'epiteto di missus, e fu testimone alle redazioni di documenti o a processi in luoghitanto distanti quanto lo sono Roma, Spoleto, Pistoia, Reggio e Milano. Verso 1'823-4fu nominato probabilmente conte di Milano. Nell'837 una cronaca lo descrisse come

52 C. Manaresi, I placiti del « regnum Italiae », I (di seguito: « Manaresi ») (Roma 1955), n. 25;Paschesius Radberbls, Epitaphium Arsenii, 1. 26 (a cura di E. Dilmmler, Phil. und hist. Abh. derKonigl. Akad. der Wiss. zu Berlin, II, (1900).53 D.A. Bullaugh, Leo qui apud Hlottarium magni loci habebatur et le goourernement du RegnumItaliae a l'époque carolingienne (B3-c).

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tenuto « in grande stima» (magni loci) da Lotario, e organizzatore di alcune attivitàinerenti alla guerra fredda fra Lotario e il padre. Entro 1'844 il figlio Giovanni gli erasucceduto come conte di Milano, al cui territorio aggiunse Seprio. Leone fu unamministratore di professione, con quarant'anni di servizio, e sotto governanti nonaltrettanto duraturi. Non è che si possa precisamente ritrarlo in una qualche categoriaall'interno del « sistema governativo », ma assieme ai suoi meno conosciuti colleghicontribui a dare vera continuità ed efficacia al governo italiano. Era evidentementeoriginario del posto. Bullaugh ha pensato, probabilmente giustamente, che fosse unlongobardo, pur se con parentele franche. Comunque non fu un aristocratico grandeproprietario terriero, com'erano i principali conti, fu attivo in ogni sfera del governocarolingio. La sua carriera indica quanta autorità poteva avere il governo centraleitaliano. Leone, privo di prestigio familiare, poteva fare moltissimo semplicementecon l'autorità conferitagli dalla sanzione di Pavia. Probabilmente già i re longobardiavevano fatto ricorso a uomini del suo tipo; Lodovico II avrebbe rinvigorito questatradizione, affidandosi in gran misura a personaggi sconosciuti. il però significativoche la contea di Leone fosse cosI vicina a Pavia. Come funzionario pubblico localeprivo di possedimenti propri, i suoi poteri sarebbero stati assai minori. Le contee difrontiera (o « marche »), in particolare, venivano affidate di regola a membri dellaReichsadel, la nobiltà imperiale. Solo questi possedevano la base fondiaria privata e ilpotere militare necessari per mantenere l'autorità in quelle zone.

L'altra forza che i Carolingi cominciarono a sfruttare fu quella della Chiesa. ILongobardi non avevano mai usato la Chiesa nelLa gestione del potere. Adeguandosialla tradizione romana (diversamente dai Bizantini), cercarono di tener separate lefaccende secolari da quelle ecclesiastiche; non che ignorassero completamente lapolitica ecclesiastica, abbiamo visto come fondassero monasteri in contesti politici, el'aristocrazia aveva fatto la stessa cosa. Carlomagno favori questi monasteri neltentativo di far accettare Ia sovranità franca in Italia54. Ma Carlomagno e ancor più isuoi successori andarono ben più in là: il clero, e particolarmente i vescovi, divennerostrumento di governo. Gli stessi capitolari franchi, a differenza delle leggi longobarde,trattarono ampiamente di faccende ecclesiastiche. In Francia, ciò costituiva praticacomune, e il rilevare la diffusione di tale pratica in Italia segna l'assimilazione delpaese alle tradizioni di governo franche. Gli stessi vescovi, però, erano di solitolongobardi, tranne quelli più importanti, quali Ratoldo di Verona sotto Lodovico il Pioe soprattutto Angilberto II di Milano e Giuseppe di Ivrea sotto Lotatio e Lodovico II.L'importanza di questo predominio longobardo deriva dalle posizioni dei vescovinelle strutture di potere delle città italiane.55

Come s'è visto nel capitolo primo, i vescovi e le loro chiese, sin dal quinto secolo,avevano avuto in alcune città grandi possedimenti terrieri. La conquista longobardaimpedì dapprima che quei possedimenti s'estendessero ancora di più (tranne che nellecittà romanobizantine, dove la progressione continuò indisturbata), ma verso 1'VIIIsecolo, nella gran parte delle città per le quali abbiamo una documentazione, ilvescovo costituiva la maggior figura di proprietario terriero. Lucca, influenti famiglielocali fornirono una catena quasi ininterrotta di vescovi dal secondo decenniodell'VIII secolo sino al 1023. Il potere locale dei vescovi era nella maggior parte deiluoghi strettamente collegato alle famiglie più importanti della zona. I vescovi si

54 Schmid, Ablosung..., pp. 33-5.55 Cfr. oltre a Fischer, Bertolini, arf. cit., n. 14 e G. Tabacco, La storia politica e sociale (B1), pp. 88ss.

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trovavano al centro della vita politica ad ogni livello eccettuato quello statale. Lascomparsa di questa eccezione sotto i Carolingi pare logica, e s inserisce bene nonsolo nella pratica dei Franchi, ma anche nell'ambito delle implicazioni conseguentialla Cooperazione politica fra Carolingi e papato che sostituì l'inimicizia del periodolongobardo e controbilanciò la tendenza ad attribuire ogni incarico secolare aiFranchi. Gli aristocratici longobardi furono sempre più esclusi dalla rete del patronatostatale: tra 1'814 e 1'875 si possono rintracciare solo due o tre conti l.ongobardi.Questi accentrarono la loro attenzione sul potere locale, all'in- terno del quale il ruolopiù importante era quello di vescovo. I re avevano il potere de facto di scegliere ivescovi, e Lotario e Lodovico II lo esercitarono spesso. Lotario scelse sempre deiFranchi, Lodovico di solito dei Longobardi. In altri periodi, però, i vescovi furonoeletti localmente, e rimasero il centro delle strutture di potere urbane. Franchi eAlemanni presero a diffondersi in tutta l'Italia e quando coprivano il rango di conti viavia ne ereditavano gli incarichi e agivano con sempre maggiore indipendenza. Ma, perla maggior parte, quando i vescovi venivano scelti localmente non erano presi dafamiglie franche. Sarebbe sbagliato vedere in ciò un'opposizione etnica tra Franchi eLongobardi; è più che altro un segno che i franchi non riuscirono quasi mai a inserirsiprofondamente nlle strutture sociali locali. In virtù dei loro incarichi, vescovi e contierano tuttavia effettivamente in potenziale opposizione. Entrambe le caricheprevedevano il controllo di grandi quantità di terra e, con la nuova importanzaattribuita dai Carolingi ai vescovi, le due funzioni cominciarono ad entrare incontrasto. I conti attaccarono spesso le proprietà episcopali, o per avidità o, semprepiù, per autodifesa. I vescovi avevano spesso poteri giudiziari e sempre più, durante ilrx secolo, godevano di immunità nei confronti dei conti. Questa fu in parte una sceltapolitica di alcuni Carolingi, che davano forse peso al contributo morale dei vescovialla politica, pur se i vescovi non opprimevano i deboli meno dei conti56. D'altro cantoessi coprivano cariche non ereditarie; e lo stato forse anche comprese che unequilibrio locale del potere andava a suo vantaggio. Fintantochè le rivalità locali sibilanciavano, lo stato sarebbe sopravvissuto e sarebbe stato forte. Quando però uno diquesti funzionari di elevato grado (o una famiglia) emergeva vittorioso in una città,come accadde in moltissime località fra 1'880 e il 920 circa, la coesione dello stato neera minacciata.

La comprensione di una tale politica locale è fondamentale per capire la storiaitaliana, e a partire dal IX secolo è possibile seguirla in parecchie località. Dueesempi, Brescia e Lucca, ne sottolineeranno alcune implicazioni. Brescia costituisceun buon esempio del potere derivante da una grande proprietà terriera, eparticolarmente rappresentabile è la storia della famiglia dei Supponidi. Il primomembro di quella famiglia di cui si sappia qualcosa è un franco, Suppone I, conte diBrescia nell'817, che contribuì a domare la rivolta di Bernardo. Forse in premio gli fudata Spoleto nell'822, mentre il (probabile) figlio Mauringo conservò Brescia, prestodiventando pure lui duca di Spoleto, nell'824. In quegli anni e nelle decadi seguenti iSupponidi si costruirono un patrimonio fondiario consistente in tenute sparse in tuttal'Italia settentrionale, grazie probabilmente ai vari tradizionali mezzi: doni e feudireali, appropriazione di terra comitale, acquisizioni, estorsioni. Un altro membro dellafamiglia, Adelchi I, fu conte di Parma nel quarto decennio del secolo IX, di Cremona,forse, nell'841 e, ancora una volta, di Brescia. Quest'asse Lombardia orientale-Emilia

56 Cfr. Capitularia, n, 213 c. 4, 221 c. 13. Per i poteri giuridici dei vescovi, cfr. H. Keller, DerGcrichisort in oberitalienischen... Stadten (B3-c), pp. 540.

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occidentale rimase, più o meno, un centro di interessi della famiglia dei Supponidi, equando la famiglia raggiunse il massimo splendore con il matrimonio fra la supponideAngilberga e Lodovico II, ella ottenne dal marito altre terre in quei territori, comemostra chiaramente il testamento di lei nell'87957. Da allora ritroviamo spesso iSupponidi conti di Brescia, Piacenza e Parma. I più importanti fra loro, Suppone II e ilcugino Suppone III, sotto Lodovico II coprirono incarichi anche altrove: Suppone II aParma, Asti e Torino; Suppone III (1'archiminister e consiliarius di Lodovico)nuovamente a Spoleto. Non controllarono mai pienamente quelle città; non neavevano bisogno, tale era il raggio del loro influsso; a Brescia spartirono il controllocon i vescovi, e con il ricco monastero di San Salvatore (più tardi Santa Giulia),fondato da Desiderio, e governato di solito tramite principesse reali. Tra i vescovi cifurono il franco Notting (844-63), altro aiutante di Lodovico II, e, prima, illongobardo Ramperto (circa 825-44), che contribuì alla fama di parecchie chieselocali attraverso miracoli e reliquie ed il sostegno politico dell'Arcivescovo di MilanoAngilberto.

Queste istituzioni mostrano un complicato intreccio di legami, specialmente SanSalvatore, che fu sotto il patrocinio sia dei vescovi che dei conti. G]i stessi duchi delFriuli, strettamente imparentati con i Supponidi (e con i Carolingi), mandarono le lorofiglie in quel monastero; e sia i Supponidi che i vescovi di Brescia sostennerolealmente la fazione germanica e friulana durante le dispute per la successione chenacquero dopo la morte di Lodovico II nell'875. Non esiste traccia di rivalità traquelle forze, a Brescia. Il motivo sta probabilmente nel fatto che avevano vari legamiin tutta l'Italia settentrionale e che operavano su una scala che sconfinava dai limiti diuna singola città. Ciò spiega anche perché si rifiutarono di ricorrere allemutevolissime alleanze che caratterizzarono i decenni seguenti all'875. I Supponidi, inparticolare, abbisognavano di uno stato forte, in quanto la loro proprietà fondiaria siestendeva in così tanta parte del nord che solo lo stato poteva garantire la pace di cuiavevano bisogno per conservarla. Non è forse una coincidenza che essi scomparvero,come famiglia, nelle stesse decadi della metà del secolo X che videro lafrantumazione dello stato italico. Altre famiglie avevano dimensioni simili, pur se nonarrivarono ad essere tanto importanti quanto i Supponidi. Una rete fragile e insiemecomplessa di proprietà fondiarie si stendeva sulla maggior parte dell'Italiasettentrionale, in un equilibrio precario che era sostenuto dalla forza dello statomentre gli consentiva di essere forte. Ludovico poteva affidare ai Supponidi unamiriade di incarichi, perché essi avevano bisogno di lui. A loro volta, essi nondovevano dirigere le loro ambizioni verso un controllo territoriale di singole contee,ma solo sulla carica di conte, in qualsiasi contea. Le famiglie i cui interessi silimitavano a una sola contea erano invece assai più pericolose, pur se più deboli, perla coesione interna del regno.

I pericoli apparvero più chiaramente in questo periodo lungo i confini del regnoitalico, nelle tre grandi « marche » del Friuli, della Toscana e di Spoleto, che sommateassieme costituivano più di un terzo dei territori italiani. I1 termine « marca » èappropriato, ma comparve tardi, e suggerisce una omogeneità fra le tre zone superiore 57 G. Porro-Lambertenghi, Codex diplomaticus Langobardiae (d'ora in avanti: “Porro”) (Torino, 1873),n. 270. Gli editti conservatici di Lodovico per Angilberga riguardano la stessa regione: cfr. sotto, n. 65.Per i Supponidi, Hlawitschka, op. cit., pp. 299-309; per Brescia: G.P. Bognetti in Treccani Storia diBrescia (Brescia, 1963), pp. 449-83.

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alla realtà. I1 Friuli e Spoleto costituivano, ovviamente, vecchie unità longobarde, e iloro sovrani erano generalmente chiamati conti o, ancora, duchi, fino al penultimodecennio del IX secolo. La marca toscana si venne a formare all'inizio del secolo IX.Entro la metà di quel secolo in tutte e tre il potere si trasmetteva per via ereditaria e siverificò un'autonomia de facto sotto le tre famiglie regnanti: gli Unruochingi, iBonifaci e i Guideschi, come vengono chiamate oggi (ma non allora). Si trattava di tredelle maggiori famiglie appartenenti alla nobiltà imperiale franca, con interessi indiversissime aree dell'Impero, ma, per quanto riguardava l'Italia, basatiesclusivamente sulla marca che controllavano. Ne risultò che non ebbero alcunmotivo strutturale per usare il loro potere locale al fine di rafforzare lo stato italico. Letre famiglie sfruttarono fino in fondo le proprie opportunità, ma in modi diversi. GliUnruochingi friulani, coi loro stretti legami di parentela con i Carolingi, ebbero lareputazione di sudditi leali. I Bonifaci toscani cooperarono con i Franchi fino allamorte di Lodovicó II, dopodiché presero a cuore soprattutto la propria autonomia. IGuideschi di Spoleto conservarono i loro legami con l'oltralpe, ma si trovarono agovernare il ducato più distante; sin dall'inizio s'interessarono soprattutto alla propriaautonomia e alle faccende di Benevento, e resistettero a qualsiasi re che cercasse diesercitare un qualche controllo su di loro58.

La creazione di questo tipo di potere si può meglio osservare a Lucca. Nell'812-3, ilbavarese Bonifacio I Vi fece la comparsa in qualità di conte. Diversamente dai suoipredecessori, sembrò controllare la maggior parte delle contee lungo la valledell'Arno. I1 figlio Bonifacio II gli successe e nell'828 è ricordato nell'incarico didifensore della Corsica. Condusse una flotta a combattere gli Arabi e razziòaddirittura l'Africa59. La difesa per mare era stata responsabilità dei conti di Lucca sindall'ottava decade dell'VlII secolo, e con l'accrescersi degli attacchi arabi, fu logicoche l'autorità comitale toscana venisse a rafforzarsi. Documenti lucchesi ci mostranocome il conte accumulasse poteri anche a livello locale. I1 vescovo di Lucca, che peralmeno un secolo aveva rappresentato la figura più prestigiosa nella città, perse ilcontrollo sul notariato urbano nel secondo decennio del IX secolo, e ne seguì unaserie di vescovi meno importanti (fra cui due franchi) fino alla metà del secolo,quando fu nominato vescovo Geremia, appartenente a una importante famiglia delluogo e scelto dietro consiglio di Lodovico II. I conti di Lucca non poteronocontrollare direttamente i vescovi, in quanto questi ultimi possedevano proprietàtroppo vaste e avevano tutta una rete di legami locali, ma limitarono l'autoritàepiscopale alle sole faccende ecclesiastiche. Se alcuni vescovi di Lucca raggiunseromaggior prestigio, non lo ottennero dentro la città, bensì in qualità di missi del re alivello nazionale, come quando il vescovo Gherardo I guidò un esercito in Calabriaper conto di Lodovico II nell'870.

Nell'833 Bonifacio II si espose nella difesa di Lodovico il Pio e venne spodestato daLotario; dovette cosl ritirarsi nelle sue terre nella Francia meridionale. Anche ipossidenti italo-franchi maggiormente coinvolti nelle vicende italiane avevanoproprietà al di fuori dell'Italia. Quando però, nell'864, Everardo del Friuli divise le sueterre (che s'estendevano dal Belgio al Veneto) fra i propri eredi, ne impose 58 Per le marche in generale, A Hofmoister, Markgrafen und Marigrafschaiten im italianischenKonigrcich (B3-c).59 Annales regam Francorum' s.a. 828; H. Keller, La formazione della marca di Tuscia in Atti del 5°Congresso internazionale (B3-f), pp. 117-33 e note, e H.M. Schwarzmaier tB3-f), per la marca toscanain generale.

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esplicitamente la ridistribuzione qualora guerre civili causassero perdite. La proprietàfondiaria su scala europea fu sicura solo fintantoché durò l'unità dell'Impero e apartire dall'843 essa prese a disgregarsi. Quando tornò la pace, Bonifacio era giàmorto; ma il figlio Adalberto I (84686) divenne il sovrano di quella che era allora avolte definita la marca toscana, un agglomerato delle contee settentrionali di quellaregione, ed ebbe un potere paragonabile a quello di un vicerè. I processi non ebberopiù luogo alla corte del re ma a quella di Adalberto sin dalla metà del secolo. Benpoche potenze secolari poterono fiorire nei suoi territori se non rientravano sotto ilsuo controllo. Dopo 1'875, quando alla morte di Lodovico II seguirono le guerrecivili, Adalberto e il figlio Adalberto II (886-915) governarono quello che diventòeffettivamente uno stato indipendente: Adalberto II non si curò nemmeno di prenderparte a molte di quelle guerre, e dai suoi documenti cominciarono a scomparire ledatazioni fondate sugli anni di regno. Il potere di Adalberto II si basò sicuramentesull'appropriazione del fisco toscano, a favore della propria famiglia, pur se nonsappiamo con esattezza quando ciò avvenne. I1 suo non fu, comunque, solo il potereprivato di un grande proprietario terriero; Adalberto esercitò anche il controllo sulmeccanismo pubblico dello stato. La sua posizione personale fu tanto forte daconsentirci di affermare che l'indipendenza della Toscana durante il suo regno nondimostra tanto la debolezza dello stato, ma ne rappresenta piuttosto la continuazionesu scala ridotta. Come si vedrà, la coesione toscana sopravvisse effettivamente aquella dello stato italico stesso. Adalberto e i suoi successori governarono in un'areageografica omogenea e abbastanza grande, nella quale il reticolo statale carolingiopoteva funzionare nella stessa maniera in cui aveva funzionato per i re. In conteeminori, o in aree montagnose come Spoleto, l'affermarsi di una indipendenza simileportò al collasso, come si vedrà negli ultimi due capitoli.

Nell'844 Lodovico II venne inviato in Italia da Lotario, e nell'850 (in qualità diimperatore) si mise a governare senza il controllo del padre. Da quel momento nonlasciò più l'Italia, nemmeno dopo la morte di Lotario nell'855 e, pur se imperatore,non ebbe alcun interesse o influsso nell'Europa del nord. Fu comunque il primo eultimo carolingio a coglier l'occasione di governare l'Italia come avevano fatto i relongobardi. I1 re che vi si provò successivamente, Ugo (926-47), si accorse che eraormai troppo tardi. Lodovico fu generalmente accettato dalla sua aristocrazia per laforza e l'autorità di cui godeva, tranne forse a Spoleto. Abbiamo già esaminatol'intelaiatura di quel potere, l'intrico di autorità centrale, gerarchia di funzionari erivalità urbane. Lodovico ritenne che quel sistema si fosse indebolito a causa di varidecenni di vacanza, ma che potesse ancora costituire la base d'azione per il potere diun re attivo e deciso com'egli era. Lodovico consolidò il controllo sulle struttureinterne del regno e quindi, seguendo l'esempio degli ultimi re longobardi, cercò diestendere la propria autorità, intervenendo negli stati del meridione60.

Alla fine del quinto decennio del secolo, Lodovico dette istruzioni ai vescovi perchéindagassero nelle proprie diocesi su abusi ecclesiastici o secolari. Nell'850, in unsinodo episcopale e due capitolari, stilò un catalogo delle osservazioni dei vescovi emise in atto dei rimedi. I1 sinodo di Pavia costituì la prima importante occasionepubblica. A presiedere vi furono Lodovico, Angilberto II di Milano, Teodemaro

60 Per Lodovico, P. Delogu, Strutture politiche e ideologia nel regno di Lodovico II (B3-c); H. Keller.,Zur Struktur der Konigsterrshaft (B3-c), pp. 152-5.

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patriarca di Aquileia, e l'arcicappellano Giuseppe vescovo di Ivrea. Ma l'avvenimentodi quell'anno è costituito dai capitolari. Trattano quasi esclusivamente di problemiattinenti la violenza, l'abbandono e l'oppressione. Nel Capitolare 213 i ladri assaltanomercanti e pellegrini; i malvagi assaltano ville e viandanti; alcuni proprietaricospirano con quelli. I potenti, laici o ecclesiastici, vivono alle spalle del popolo, neconfiscano i cavalli, ne usano i pascoli; i palazzi reali giacciono nello squallore, e gliedifici pubblici devono essere restaurati, per essere degne dimore di ambasciatoristranieri (eco interessante questo delle Variae di Cassiodoro: si veda p. 113); il pontesul Ticino a Pavia deve essere ricostruito; i missi pretendono troppi doni e favori dalpopolo61. Quel capitolare offre una immagine da manuale dello squallido stato diabbandono in cui l'Italia era caduta con i Carolingi, e non v'è da dubitare che molti diquei problemi fossero endemici, particolarmente, come s'è visto, lo sfruttamento daparte dei potenti. In tale campo Lodovico giunge quasi ad ammettere la sconfitta: sevengono portati via i cavalli, questi devono venire almeno pagati al prezzo equo; imissi possono continuare a pretendere i loro tributi, fintantoché sono quelli in uso. Mail ponte a Pavia è ricostruito; e nei capitolari più tardi non si parla più di ladri. La listainsolitamente dettagliata delle illegalità pare un segno della serietà delle intenzioni diLodovico, e i suoi rimedi han tutto l'aspetto di misure efficaci. Quel che si riesce asapere sulle attività di Lodovico indica che egli riusci a stabilire un livelloconsiderevole di controllo politico. Nell'853, Geremia vescovo di Lucca, con l'aiuto didue diplomi imperiali, allora promulgati, ristabilì i suoi diritti su terre dal suopredecessore date in locazione, apparentemente a seguito di pressioni, ad alcuni laici.Nell'860 vari missi imperiali investigarono sull'impossessamento illegale di terreimperiali attuato dal conte di Camerino, Ildeperto e lo annullarono62. Lodovico stessocominciò a organizzare un gruppo di cortigiani e amministratori col quale governarel'Italia direttamente. Ricorse ai grandi potenti del regno di Lotario, Giuseppe d'Ivrea,Angilberto di Milano, Notting di Brescia ed Everardo del Friuli, ma dopo le loro mortipreferì affidarsi a personaggi relativamente sconosciuti, di propri cappellani personali,consiliarii, e vassalli; gli unici nomi di prestigio furono quelli di Suppone II eSuppone III, parenti della propria moglie. Sotto Lodovico, venne anche un po' adiminuire la burocratizzazione del governo di Pavia. I grandi incarichi diarcicappellano e arcicancelliere sparirono, temporaneamente. Lodovico e Angilberga(in qualità di consors regni, regina consorte), divennero essi stessi i capi del governo,e gran parte di questo si spostava attraverso il regno con loro, di città in città.

Da ciò potrebbe sembrare che Lodovico volesse contrastare l'influsso dei grandinobili, ma quasi certamente la cosa non avvenne. Nelle contee i figli continuarono asuccedere ai padri. Lodovico cercò soltanto di controllarne le attività in modo un po'più vigile, e ricorse meno a loro nel governo centrale. Probabilmente usò la Chiesa percontrobilanciare il potere di alcuni, e ci risulta che egli abbia nominato un grannumero di vescovi (di solito longobardi), prendendoli in larga misura fra i propri fidi,nella Toscana di Adalberto63. Ma il fondamento della sua politica, il fisco, non fuseriamente minacciato dalla nobiltà, e pare che Lodovico abbia lasciato in pace gliaristocratici a lui leali. Probabilmente fu ancor meno generoso dei suoi predecessoriper quel che riguarda le concessioni di terre reali; fra tutti i laici, Suppone III è l'unico

61 Capitularia, Ir, 213; cfr. anche 209-12, 228.62 Manaresi, 57, 65.63 Fischer, op. cit., pp. 68-76.

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per il quale i documenti testimonino una vera e propria donazione di terreni; e gliunici beneficiari di grandi doni furono Angilberga e i due monasteri reali di SanSalvatore a Brescia e San Clemente di Casauria 64 Lodovico accontentò la suaaristocrazia in un altro modo: con l'avventura militare.

Nell'866 Lodovico promulgò un capitolare in cui richiamava alle armi per unacampagna militare contro Benevento, con clausole specifiche relative agli obblighimilitari, e con un elenco dei missi destinati a rimanere in patria ad organizzare ladifesa e la chiamata alle armi locale in dodici diverse aree del regno65. Pare che quasitutta l'aristocrazia lo abbia accompagnato. Lodovico era già intervenuto prima nelsud: era stato a Roma parecchie volte, e aveva condotto eserciti contro gli Arabinell'846 e nell'848. Nell'848 aveva anche contribuito a por fine alla guerra civile aBenevento, che da allora in poi rimase divisa fra i principati di Benevento e Salerno(con Capua come terza forza quasi indipendente). Nell'866 era sceso a sud perscacciare gli Arabi sotto Sawdan (ovvero « il Sultano ») da Bari, dove erano insediatisin dall'847. Quel che si stava esattamente verificando nel caos politico dell'Italiameridionale verrà discusso nel capitolo sesto; i tre stati longobardi erano soltanto tretessere di un intarsio politico che includeva gli stati neoindipendenti di Napoli, Amalfie Gaeta, il rinnovato inílusso bizantino che si sprigionava dalla Calabria, l'interventodi Roma e Spoleto appartenenti ali'orbita franca, e ovviamente gli Arabi. Lo scopodella spedizione di Lodovico era di allontanare questi ultimi, ma è quasi fuor didubbio che egli intendesse anche estendere il proprio potere negli stati frammentatidel sud, usando la forza del più potente esercito italiano di quel secolo. Gli statimeridionali lo accolsero bene e con cautela. Gli stessi Bizantini collaborarono, inquanto si sentivano pure loro minacciati: all'inizio della seconda metà del secolo gliArabi avevano conquistato la maggior parte della Sicilia. Sfortunatamente perLodovico, ci vollero quasi cinque anni perché Bari cadesse, e ciò accadde solo permerito di un blocco navale attuato dagli Slavi e dai Bizantini nell'871. Lodovico se neaccreditò il merito, almeno agli occhi dei Franchi, tuttavia non lasciò il sud. La suapresenza laggiù rese possibile ciò che era pressoché impossibile: un'alleanza diBeneventani, Salernitani, Napoletani e Spoletani contro di lui; fonti successiveincludono tra gli alleati anche il Sultano arabo. Nell'agosto 871 Lodovico venne fattoprigioniero da Adelchi di Benevento, tenuto nella città per un mese, e lasciato liberosoltanto dietro giuramento di non vendicarsi.

E’ difficile, per noi, renderci conto dell'impatto negativo provocatodall'imprigionamento a Benevento, ma esso rovinò il prestigio di Lodovico. Percontrobilanciarne gli esiti egli dovette farsi reincoronare imperatore. Ma non poteva,ora, ricambiare l'ostilità degli stati meridionali. Pur se tornò nel sud nell'872-3, la suabattaglia lì era perduta. I principi longobardi si schierarono dalla parte dei Bizantini,che li ripagarono nel decennio seguente, sottraendo loro quasi la metà dei territori,compresa l'intera Puglia. Alla fin fine i beneficiari delle campagne militari diLodovico furono proprio i Bizantini. I1 massimo che Lodovico poté fare perdimostrare il suo potere fu allontanare Lamberto di Spoleto per il ruolo da luisostenuto nella faccenda dell'871, e di sostituirgli Suppone III. Lamberto tornò a

64 Suppone: J.F. B;Bohmer e E. Mùhlbacher, Regesta Imperii, I (2A alizione, Innsbruck, 1908), n.1243; Angilberga, Brescia, Casauria: Dn. 1183-1272 passim.65 Capitularia, II, 218.

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Spoleto nell'876, dopo la morte di Lodovico. In tal modo sparirono anche le ultimevestigia del successo di Lodovico.

Le fonti riguardanti gli ultimi anni del regno di Lodovico hanno un timbroapocalittico. Andrea ci racconta che il vino ribolliva nei tini durante la vendemmiadell'871, di inondazioni, siccità, invasioni di cavallette nell'872-3 e, nell'875, di unacometa, chiaro simbolo delle « grandi tribolazioni » che sarebbero seguite alla mortedi Lodovico, privo di figli, prima del cinquantesimo anno, nell'agosto 87566. Ma nonsi riesce a dimostrare che la posizione interna, al nord, di Lodovico si fosse indebolita,eccetto per quanto concerne l'evento curioso di una petiziOne presentatagli da ungruppo di nobili, mirante a farlo divorziare dalla moglie in favore, pare, della figliadel conte di Siena67. Ad ogni buon conto, Ludovico era demoralizzato. E alla suamorte la fatale debolezza del regno, ossia l'assenza di un erede maschio, apparvechiaramente. I suoi due zii, in Francia e in Germania, accampavano eguali diritti. Ladisputa per la successione che ne risultò, durò più o meno trent'anni, e portò comeconseguenza al crollo dello stato. Come mai la cosa sia accaduta, lo si vedrà nelcapitolo settimo, ma non si può capirla ragionando soltanto in termini politici. Fu ilrisultato di mutamenti strutturali e congiunturali che interessavano i livelli piùprofondi della società e dell'economia italiane.

66 Andrea, Historia, cc. 17-8.67 Annales Bertiniani s.a. 872 (a cura di G. Waitz, MGH Scripiores rerum Germanicarum).

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Capitolo terzoROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E BIZANTINI

Gli Ostrogoti svanirono senza lasciar traccia; non fu cosi per i loro successori. Versol'anno 900, l'Italia era divenuta una complicata mescolanza etnica. La massa dellapopolazione era romana d'origini, pur se i Romani appaiono raramente come tali nellenostre fonti. A1 loro fianco troviamo i Longobardi, in ogni livello sociale, maparticolarmente nell'aristocrazia; e nell'aristocrazia compaiono anche immigrati piùrecenti: Franchi e Alemanni, e alcuni Burgundi e Bavaresi. Anche nelle aree italianemai conquistate dai Longobardi troviamo nuovi arrivati, stavolta dal Mediterraneoorientale. L'Italia bizantina, però, costituiva il margine occidentale di un Impero chemanteneva legami ininterrotti col suo passato romano, e nell'Esarcato del VII edel1,VI1I secolo è difficile distinguere i Romani indigeni da quelli immigrati.Soltanto nelle province meridionali bizantine del X e dell'X secolo i Greci sidistinsero etnicamente, come vedremo in un prossimo capitolo.

I1 miscuglio di popolazioni costituisce il miglior contesto in cui trattare due problemiinerenti alla continuità nella storia sociale dell'Italia. I1 primo tema è relativo allarottura verificatasi nel VI secolo; fino a che punto cioè l'occupazione longobardaabbia distrutto la struttura sociale italiana, confinando la massa dei Romani nei cetipiù bassi del contadinato, e provocando una sorta di tabula rasa su cui la storia, percosi dire, riprendesse da zero il proprio corso. La seconda questione,indissolubilmente legata alla prima, è quella della continuità dei quadri e degli uominicostitutivi dell'aristocrazia durante i vari mutamenti politici in Italia. Entrambi questiproblemi sono stati spesso descritti come cambiamenti rivoluzionari all'interno dellasocietà italiana. Ma a me non pare ci siano effettivamente stati. Per tutto il periodoaltomedievale, le fondamentali strutture sociali italiane e i modelli dell'aristocraziafurono così saldamente collegati all'economia che le intrusioni di popolazioni nuovenon apportarono grandi modifiche.

L'invasione longobarda e le guerre che seguirono, fra il 568 e il 605, furonocertamente un disastro per l'Italia. Come abbiamo visto, gli italiani non avevano fattoin tempo a riprendersi dalle Guerre Gotiche che vennero sprofondati in un'esperienzaaltrettanto violenta e ancor più caotica. Gli osservatori del VI secolo non sentirono ilbisogno di dimostrare che i Longobardi erano barbari e distruttori, gens nefa?'dissima,nelle parole di Gregorio Magno; la cosa era più che evidente. Le popolazioni dialcune città situate in luoghi vulnerabili, come Orvieto e Civita Castellana lungo ilTevere, si spostarono in cima alle colline per sfuggire agli assalti. Nella gran partedelle città che avrebbero costituito i ducati di Spoleto e Benevento, l'episcopatoscomparve totalmente per almeno due secoli. Inoltre, i primi anni dell'invasionelongobarda furono anche anni di pestilenze e carestie; queste si ripeterono spesso,accompagnate da altri disastri naturali, inondazioni e apparizioni di draghi, fino allafine del VI secolo. E’ come se l'Italia fosse stata visitata contemporaneamente da tuttie quattro i cavalieri dell'Apocalisse1. I1 violento impatto coi Longobardi ci è descrittomolto chiaramente nelle opere di Gregorio di Tours, Mario di Avenches e GregorioMagno, che vissero in territori ripetutamente attaccati dai Longobardi, o ebbero

1 Paolo, H.L., 2. 4, 26; 3. 23-4; Mario di Avenches, Chronicon (MGH A.A., 11) s.a. 569-71, 580; cfr.Ruggini, op. cit., pp. 466-89, per un elenco completo delle calamità sino al 700.

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contatti con quelle aree. I1 destino degli sventurati abitanti dei territori italiani che iLongobardi effettivamente controllavano venne ritenuto ancor più terribile. Nell'Italialongobarda i Romani scompaiono praticamente dalla storia, tanto che nel XIX secolosi poté sostenere che erano stati ridotti tutti in schiavitù. Nello stesso VIII secolo,laddove inizia la nostra documentazione, troviamo rarissimi riferimenti a loro: tre oquattro menzioni nelle leggi longobarde, due o tre in documenti sopravvissuti. Noiintendiamo riferirci a tutti gli abitanti dell'Italia longobarda con l'epiteto di'Longobardi'; le nostre fonti certo ce lo permettono. Ma sappiamo che la gran massadegli Italiani deve esser stata etnicamente romana. Presumendo (con scarse prove) checi furono molti più Longobardi di quanti erano stati gli Ostrogoti, circa duecentomila,i Longobardi non possono avere costituito più del 5-8% della popolazione nelle zoneoccupate, e la percentuale può anche essere stata inferiore.

La storiografia relativa al destino-dei Romani è immensa, e non è basata su quasialcuna buona documentazione. Tra la morte di Alboino ed il regno di Agilulfo, icontemporanei ci offrono informazioni minime. L'Italia longobarda fu praticamenteun paese chiuso, pur se molti dei suoi primi duchi erano disposti a negoziare con iBizantini. La sola storia che si stesse scrivendo nell'Italia dei primi Longobardi eraquella di Secondo di Non, che sembra essersi trovato in una parte piuttosto isolata delTrentino, durante i primi anni dell'invasione longobarda; solo durante il regno diAgilulfo egli entrò a far parte della corte reale, con un maggior accesso a informazioniattendibili. L'historiola, o piccola storia, di Secondo non ci è giunta, ma è stata usatada Paolo Diacono per la sua Storia Longobarda della fine del secolo VIII. Paolo è lanostra unica fonte dettagliata, ma egli scrisse due secoli dopo gli avvenimenti, e usòmateriali che, se si eccettua Secondo, non sono particolarmente attendibili per quelche riguarda la storia interna dell'Italia longobarda del tardo VI secolo: testimoni ostilicome Gregorio di Tours e Gregorio Magno, e occasionali tradizioni orali riguardantiAlboino e Autari. Escluso Paolo, non v'è alcuna testimonianza scritta dell'Italia diallora. I1 nostro solo altro materiale è costituito, da una parte dall'archeologiacimiteriale, e dall'altra dalle estrapolazioni a ritroso desunte dalla società come sipresenta nei testi del1'VIII secolo. Inoltre, Gregorio Magno, a Roma, ci ha descritto inmodo assai valido i contrastanti atteggiamenti dell'Italia romano-bizantina neiconfronti dei Longobardi.

Due brani di Paolo sono tradizionalmente considerati testi-chiave:

Costui [re Clefi] uccise molti uomini potenti, fra i Romani, con la spada, e altri [o: glialtri] mandò in esilio dall'Italia. [...] [Dopo la sua morte,] in quei giorni molti nobiliromani furono uccisi per avidità. Gli altri vennero spartiti per hespites e obbligati aessere tributati, cosi che dovettero versare un terzo dei loro raccolti ai Longobardi.

Il secondo brano è assai più breve, ed appare nel mezzo di un'esaltazione della felicitàdell'Italia sotto Autari: « Ma gli oppressi vennero spartiti fra i Longobardi in qualità dihospites »2. I due brani non sono oscuri da un punto di vista linguistico: la parolahospites è di certo imparentata con hospitalitas, l'uso secondo il quale alcune tribù, fra 2 Paolo, HL., 2. 31-2; 3. 16. Per un commento tipicamente pessimista e intelligente, cfr. Bognetti,S.M.C., pp. 110.41; per controbilanciarlo: G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'ltalia delsecolo 7 (Bs-c), pp. 109-16.

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cui gli Ostrogoti e i Burgondi, s'impossessavano di una porzione dei terreni (un terzoo due terzi) per il mantenimento degli eserciti. Tuttavia appaiono criptici per chiintende considerarli come una sorta di accurata guida sociologica. Nel primo testo, iltermine alii (« altri ») significa che tutti i romani potenti sopravvissuti venneroesiliati, o che solo una parte di essi lo furono? E reliqui («il resto ») indica gli altrinobili, o il resto della popolazione? Su questi problemi non è possibile dare unarisposta. Pur se questi brani furono fedelmente riportati da Secondo, cosa che non ècerta, e pur se Secondo, al sicuro nella sua remota valle di montagna, ne seppedavvero molto sugli eventi relativi agli insediamenti longobardi, cosa altrettantoincerta, i testi non riescono a dirci in modo sufficientemente dettagliato cosa accaddeai Romani e, in particoIare, secondo quale protocollo (se mai ce ne fu uno) iLongobardi organizzatono i propri insediamenti, e fino a che punto la classe deiproprietari fondiari romani sopravvisse. La tendenza degli storici ad interpretarel'impatto Iongobardo in modo assolutamente pessimistico, può venir controbilanciatadalle testimonianze più indirette a nostra disposizione.

Come abbiamo visto, Gregorio Magno considerò i Longobardi quasi una astratta forzadi pura distruzione (almeno fino a che egli non costituì legami diplomatici con icattolici della corte di Agilulfo). Ma ci sono indicazioni secondo Ie quali non tutti isuoi concittadini erano d'accordo con lui. Nel 592, i cittadini di Sovana, nefla Toscanameridionale, promisero di arrendersi pacificamente ad Ariulfo di Spoleto. Nel 595,Gregorio si lamentò del fatto che in Corsica le richieste dei giudici e degli esattorierano così irragionevoli che i proprietari terrieri cercavano di passare dalla parte deiLongobardi. Nel 599 pare qualcosa del genere succedesse anche a Napoli: « glischiavi di varr nobili, il clero di molte chiese, i monaci di vari monasteri, gli uomini dimolti giudici si sono arresi al nemico ». I contadini di Otranto avrebbero fatto la stessacosa se i tribuni locali non avessero cessato di sfruttarli3. Ovviamente, queicomportamenti riflettevano teazioni diverse. E’ ben difficile che i contadini sull'orlodella fame si lasciassero impressionare dalla reputazione dei Longobardi in meritoallo sfruttamento dei proprietari terrieri. Ma i cittadini di Sovana cercaronoprobabilmente di evitare uno sconvolgimento sociale, piuttosto che assecondarlo. E iproprietari terrieri corsi non possono aver creduto che i Longobardi avesserol'intenzione di spogliarli delle loro proprietà e delle loro vite. L'esistenza di taliatteggiamenti può venir certamente bilanciata da testimonianze opposte di difeselunghe ed eroiche di città contro gli attacchi longobardi, e di occasionali rivolte controil dominio longobardo. La reazione romana ai Longobardi fu incoerente masignificativa. Fu la reazione di una popolazione civile che cercò di evitare i guaiprovocati da una guerra lunga e caotica. Troviamo simili esempi di resistenza e di resadurante le Guerre Gotiche del quinto decennio del secolo VI o durante la conquistaaraba della Siria nel quarto decennio del secolo VII. I Longobardi erano violenti ebarbari, ma almeno non imponevano tasse. Per molti, venir conquistati da loro erameno grave che venir da loro combattuti. Come s'è visto, alcuni capi longobardifurono disposti ad accordarsi individualmente con i Bizantini ed a combattere al lorofianco. Questa sorta di compromesso si diffuse probabilmente, almeno per un certoperiodo di tempo, fra la popolazione romana dell'Italia. Quanto meno, non siamo ingrado di sostenere che i Longobardi abbiano perseguito una politica di sistematicaespropriazione delle classi che detenevano la proprietà fondiaria, e la pratica, menosistematica, di massacro e asservimento del contadinato.

3 Gregorio, Epp., 2. 33; 5. 38; 9. 205; 10. 5.

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Le altre nostre fonti sono di solito più tarde, ma vanno tutte in una direzione, quella diuna rapida fusione culturale fra Longobardi e Romani. Ciò, come si vedrà, deve avercomportato una complessa mescolanza della società, che sarebbe stata impossibile sel'occupazione longobarda fosse stata radicale come la si è dipinta. E’ stato spessosostenuto che i Longobardi s'insediarono in libere comunità di guerrieri staccate dallapopolazione romana, e i ritrovamenti archeologici parvero confermarlo4. La maggiorparte dell'archeologia « longobarda » consiste nel rinvenimento di luoghi di sepolturacontenenti oggetti longobardi di metallo del VI-VII secolo, simili a quelli ritrovatinella Pannonia degli inizi del secola VI, dove i Longobardi furono stanziati fino al568. Complessi cimiteriali (compresi all'interno delle centinaia che costituiscono i sitipiù vasti, quali Nocera Umbra in Umbria e Castel Trosino vicino ad Ascoli Piceno),contenenti oggetti in metallo nella maggior parte delle tombe, han tutto l'aspetto disingoli cimiteri per singole comunità longobarde. D'altra parte, se si eccettuano i piùantichi cimiteri del nord, una gran percentuale della ceramica ritrovata in tali tombe èmolto più simile sia nella forma che nel materiale a ceramica grezza tardo romana.Forse i Longobardi imitarono i Romani: è evidente una qualche sorta di mescolanza diculture. E, in efletti, un uomo o una donna che indossino una fibula di stilelongobardo non sono necessariamente longobardi, così come una famiglia di Vercelliche possegga una Toyota non è necessariamente giapponese; i reperti artigianali nonsono guide sicure delle origini etniche5. La mescolanza stilistica dei manufatti, d'altraparte, è una spia del contatto fra le culture. In uno dei rari scavi completi di un luogod'insediamento del periodo longobardo, la fortificazione di confine di Invillino, nelleAlpi friulane, i ricercatori hanno trovato una tale mescolanza, con un gran predominiodi manufatti « romani », nonostante le caratteristiche militari del luogo. Contattisociali tra Longobardi e Romani sono suggeriti anche dalla scoperta di cimiteri «longobardi » dentro le città o nella loro immediata periferia, ad esempio a Fiesole,Brescia e Cividale6. Pare che i Longobardi abbandonassero ben presto la loro lingua,forse prima del 700. I prestiti che si ritrovano nell'italiano si riferiscono per lo più adoggetti umili (di solito agricoli): greppia, melma, bica, schifo, gualdo. A1 tempo diPaolo i Longobardi avevano anche già abbandonato i loro vecchi modi di vestirsi epettinarsi, che egli poté ritrovare soltanto grazie ai dipinti murali del Palazzo diMonza: capelli lunghi separati nel mezzo, abiti di lino simili a quelli degliAnglosassoni, con strisce multicolori. Adottarono invece gli usi romani sia per ivestiti che per le calzature e i pantaloni7. Un tal progresso indica l'influsso culturaleromano sui Longobardi, che non sarebbe potuto avvenire se i Longobardi avesseroavuto contatti sociali con i Romani esclusivamente in qualità di padroni, con ifittavoli, o di soldati, con la popolazione civile sottomessa. Esso pare invececomportare una fusione dalla base di proporzioni piuttosto ampie.

4 Così pensava F. Schneider (B3-b), pp. 155-64, 177ss. (con i Romani sopravvissuti); S.M.C., pp. 141-9(senza di essi).5 Nella Grancia (prov. di Grosseto), da ottanta tombe (di cui circa dieci con oggetti di metallolongobardi) è stata trovata un'arma soltanto. se si trattava di defunti longobardi, certo non si trattavaalmeno di soldati. Cfr. O. von Hessen, Primo contributo alla archeologia longobarda in Toscana(Firenze, 1971), pp. 53-80. Per le ceramiche: I. Baldassare, Le ceramiche delle necropoli longobarde diNocera Umbra e Castel Trosino, « Altomedioevo », I (1967), pp. 141-85.6 G. Fingerlin et al., Gli scavi nel castello longobardo di Ib1igo Invillino (B3-6). Per i cimiteri nellecittà: SM, XlV (1973), pp. 1136-41; xv (1974), pp. 1118s., 112S.7 Paolo, H.L., 4. 22; B. Migliorini, Storia della lingua italiana (Firenze, 19S8), pp. 79-80.

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La fusione è ancor più evidente nelle fonti dell'VIII secolo. L'onomastica per esempio,mostra una mescolanza assolutamente asistematica di forme longobarde e di formeromane. Uno dei documenti più antichi in nostro possesso, relativo a Fortonato, unproprietario terriero lucchese dal chiaro nome romano, e risalente al secondo decenniodell'vIII secolo, elenca anche i cinque Egli di lui: Benetato è un nome romano, maBonualdo, Rodualdo, Radualdo e Baronte sono indiscutibilmente nomi longobardi.Altre famiglie mostrano simili mescolanze. In casi estremi si trovano elementilongobardi e romani nello stesso nome, come accade per Daviprando (a Lucca nel774) o Pauliperto (nella cerchia di Carlomagno nel 788). Giovanni Tabacco hamostrato come i nomi longobardi superano quelli romani (quasi il doppio) neidocumenti del regno longobardo relativi a proprietari terrieri e soldati; ma le sueconclusioni, secondo le quali gli elementi etnici longobardi dominavanocompletamente quei gruppi, sono piuttosto ridimensionate dal fatto che anche un grannumero di schiavi avesse nomi longobardi8. Non è possibile che i Longobardi fosserodiventati l'intera popolazione; dobbiamo dedurne che l'influsso culturale dei loro usirelativi all'onomastica aveva penetrato la società romana da cima a fondo.

La mescolanza fra Romani e Longobardi si può rintracciare chiaramente nel campodel diritto. I1 diritto romano continuò ad esistere. I1 diritto longobardo lo menzionòraramente, ma i re legiferarono soltanto per i loro sudditi longobardi; le allusioni fatteda Liutprando al diritto romano dimostrano che esso era stato mantenuto in vigore conpari importanza. I1 diritto individuale longobardo cominciò ad essere influenzato daldiritto romano nell'VIII secolo, ma solo marginalmente (cfr. pp. 62-63). D'altra parte,i pochi Romani che si dichiararono esplicitamente tali nell'VIII secolo avevanoadottato tutti usanze che appartengono propriamente solo alla legge longobarda, comeaccadde a Felex di Treviso, il quale cedette delle proprietà alla figlia nel 780,accettando in cambio « un fazzoletto, come launigild, secondo la legge romana ». Mail launigild era concetto tipicarnente longobardo, che si riferiva allo scambio di doni,ovvero al contro dono che rendeva valido il primo secondo la legge longobarda9. Lacosa non deve sorprendere molto. I1 diritto romano scritto si dev'essere fossilizzatodopo il 568, per gli abitanti dell'Italia longobarda, e i re legiferavano solo per iLongobardi, mentre la legislazione romana diveniva inadeguata ad affrontare lasituazione radicalmente nuova dello stato longobardo. L'unica soluzione era quella diprendere a prestito il diritto altrui, e quello longobardo era il più accessibile. Taliprestiti devono essere stati molto comuni, infatti non è possibile distinguere tra unatradizione legale longobarda ed una romana nei documenti che si riferiscono ad attigiuridici di italiani di ogni livello sociale.

Ma l'influsso non fu comunque unidirezionale. Le leggi che governavano i rapportiinterpersonali nel secolo VIII sembrano avere avuto uno stampo decisamentelongobardo. Le leggi sulla proprietà, invece, rimasero saldamente romane. GianpieroBognetti pare avere sostenuto a volte anche il concetto longobardo di proprietà, dipossesso diretto (gewere), di solito da parte di una collettività (fara: si veda qui di se.guito a pp. 152ss.), si sostituì talmente al sistema romano della proprietà che qualsiasi 8 Per Fortonato: Schiaparelli, 16. Per i nomi misti: Schiaparelli, 287, Chronicon Salernitanum, c. 25 (acura di U. Westerbergh, Stoccolma, 1956). Per gli schiavi: cfr., per esempio, Schiaparelli, 154. G.Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda (B4), pp. 228-34.9 Storia del diritto italiano. Il diritto privato, III, a cura di P.S. Leicht (Milano' 1948), pp. 193-4; cfr.Rotari, 175.

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proprietario terriero residente lontano dalle sue terre fu automaticamente spodestatodal codice longobardo. Ma ciò è davvero eccessivo. Ernst Levy ha dimostrato che lalegge tardoromana sulla proprietà era già così simile al concetto di genere chequest'ultimo pottebbe essersi addirittura formato per l'influsso della prima. Fin dalcodice di Rotari, la proprietà terriera è interamente privata e basata, pare, su normelegali romane. Nelle documentazioni dei secoli VI-II e IX in nostro possesso, le formedella proprietà sono, salvo rarissime eccezioni, totalmente romane. Le forme megliodocumentate di possesso, proprietà e affittanza sono strettamente imparentate aiconcetti giuridid tardoromani, e quasi identiche alle forme in vigore allora a Ravenna,dove non si può presumere vi fosse un influsso longobardo10.I1 perdurare del concettoromano di proprietà sembra più logico se si postula anche il perdurare di proprietariromani.

Abbiamo già osservato altri aspetti dell'influsso romano sui Longobardi: la nozionelongobarda dello stato e del suo ruolo amministrativo, per esempio; la distinzione frapubblico e privato. E, in parte come risultato del perdurare della tradizioneamministrativa romana, l'aristocrazia longobarda si trasferì nelle città e seguì imodelli delI'aristocrazia urbana dell'Impero. E’possibile verificare ciò sin dai primianni dell'insediamento: già verso il 574, un gran numero di città romane ebbero duchilongobardi; nel 585, quando i Franchi invasero l'Italia, le città furono le roccafortinaturali dei Longobardi. Come s'è visto, ci sono testimonianze archeologiche dellapresenza dei Longobardi nelle città. All'inizio, tale occupazione delle città può esserestata esclusivamente militare. Ma già durante il regno di Cuniperto, quando Paolofinalmente ci fornisce un resoconto abbastanza dettagliato, a Brescia, e probabilmentea Pavia, Vicenza e parecchie altre città, vi sono cittadini che sono aristocraticilongobardi senza alcuna carica ufficiale11. L'attrazione della vita urbana e le sueconseguenze economiche verranno discusse in un prossimo capitolo; ma tutto ciòsarebbe stato inconcepibile senza la continuità della presenza dei cittadini romani edell'ideologia urbana che essi perpetuarono. Anche nelle città, poi, diventaimpossibile, a partire dal secolo VIII, distinguere i Longobardi dai Romani.

L'invasione longobarda dell'Italia fu ovviamente violenta, ma ciò accadde in parteproprio perché fu disorganizzata. Ogni regione deve averne ricevuto una diversaimpressione. L'insediamento longobardo variò in intensità: più forte attorno a Milanoe Pavia, Brescia e Verona, e nel Friuli; meno forte nell'Emilia occidentale e attorno aLucca; quasi inesistente più a sud. Cominciano ad apparire anche differenze regionalinon direttamente dovute ai Longobardi. Sin dal 700, nei documenti e contratti innostro possesso, ogni area italiana ha le proprie tradizioni e caratteristiche locali, lasua particolare gerarchia sociale, le sue formule legali, i suoi pesi e le sue misure. Ciòpuò indicare lo sviluppo separato di diverse località dopo il 568, o, più probabilmente,la prima chiara testimonianza deLte profonde divergenze locali che i Romani nonavevano mai sradicato. Ma indica anche che era improbabile una riorganizzazionesistematica della società da parte dei Longobardi. La maggior parte del contadinato, lamassa della società, era e rimase romana: un singolo documento pistoiese del 767allude addirittura ai fittavoli col nome di romani. Ma i Longobardi ebbero pure

10 Bognetti, S.M.C., capitolo 1. 8; La proprietà della terra, E.L., IV, pp. 76ss.Ma cfr. E. Levy (4), pp. 87-99, 187ss. Per alcune eccezioni: per esempio Schiaparelli, 49 (730).11 Paolo, H.L., 2. 32; 3. 17; 5.38-9.

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schiavi propri, i liberti e i semiaffrancati, come mostra l'editto di Rotari, e questi,come si vedrà, vennero assorbiti all'interno delle classi inferiori romane. L'infiussoromano sulla società dell'VIII secolo implica la sopravvivenza in misura rilevantedelle dassi di proprietari terrieri romani, dai proprietari di piccoli fondi ai grandiproprietari dimoranti in città. Un chiaro esempio di quest'ultimo gruppo èrappresentato dal nobile pavese Senatore, figlio di Albino, che fondò un monastero aPavia nel 714 con terreni donatigli in parte dal re12.

L'insediamento longobardo non produsse, quindi, un mutamento radicale dellastruttura sociale. Certamente, molti proprietari terrieri romani furono spodestati peravidità, come afferma Paolo, ma ne devono essere sopravvissuti abbastanza daassicurare il predominio dell'ideologia romana relativa alla proprietà nei secoliseguenti, così come accadde per le caratteristiche romane nel sistema governativomonarchico di cui si è visto nel capitolo precedente. La pretesa parità fra leggeromana e legge longobarda affermata da Liutprando mostra che non vi eranecessariamente distinzione fra ranghi sociali derivante dall'essere longobardi eromani, pur se non v'è dubbio che la maggior parte dei Romani erano contadinidipendenti e che una gran percentuale dei Longobardi non lo era. In alcuni luoghi puòanche darsi che i Longobardi praticassero il sistema a cui fa riferimento Paolo, dellabospitalitas, ma non ci è possibile verificarlo. Non furono comunque tanto numerosida distruggere le gerarchie sociali italiane, e la loro veloce fusione con i Romani devesuggerirci che non riuscirono a farlo. Quando arrivarono i Franchi, Longobardi eRomani erano assai più simili gli uni agli altri di quanto essi non lo fossero neiconfronti degli invasori settentrionali.

La caratteristica della società longobarda che era, e rimase, unicamente longobarda ful'ideologia del popolo guerriero connessa con l'immagine di una società di uominiliberi e di aristocratici. Tabacco ha mostrato come nelle leggi di Liutprando, «soldato»(exercitalis, o l'equivalente longobardo latinizzato arimannus) è usato comeequivalente di « proprietario » e di «uomo libero » (liber homo). ciò non significa chei tre termini fossero esatti sinonimi. C'eran già nell'VIII secolo degli uomini liberi cheavevano perduto le loro proprietà o che non ne avevano avuta mai alcuna (cfr. pp. 141ss.), e non erano sempre sottoposti all'obbligo del servizio militare (cfr. pp. 177 ss).Né fu vero che i proprietari dovessero essere necessariamente longobardi. MaTabacco sostiene che nell'insieme lo erano, poiché i re presumevano (come accaddespesso, anche nel periodo carolingio), che « Longobardo » e « proprietario libero earmato » significassero più o meno la stessa cosa. Lo stato, il regnumLangobardorum, pur se romano in ogni suo lineamento, era quel che il suo nomediceva: dei Longobardi e basta.

Non vi è indizio di un'imponente assimilazione giuridica e militare di una liberapopolazione romana da parte dei Longobardi. Dunque, lo sconvolgimento dellecondizioni del possesso alla fine del VI secolo fu più vasto e radicale di quantol'annientamento dell'aristocrazia romana già facesse supporre13.

Sotto tale aspetto, lo stato longobardo ottenne senz'altro un'indiscutibile vittoriaideologica; i Romani divennero socialmente marginali ad ogni livello. Ma Tabacco

12 Per il nome romani: Schiaparelli, 206. Per il senatore: Schiaparelli, 18.13 Tabacco, La storia politica e sociale, cit., p. 62; cfr. « Dai possessori... », Cit.

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deve essersi sbagliato nel desumere da ciò l'allontanamento dell'aristocrazia romana, eancor meno del contadino proprietario di terre. La proprietà terriera fu nell'VIII secolol'unico criterio che distinguesse in pratica il rango sociale. Ma, in un periodo in cui lostato è forte e influente, il rango sociale dipende quasi completamente, nelle sueforme, dalla struttura e dall'ideologia dello stato stesso. Un proprietario terrieroromano non avrebbe trovato vantaggioso comportarsi come Boezio. Status sociale eonori dipendevano dalla capacità di combattere, e probabilmente di professarel'adesione alla legge longobarda. Nel Medio Evo era possibile mutar le leggiabbastanza facilmente... cosa da cui derivò, senz'altro, la scomparsa degli Ostrogoti. Eda ciò derivò anche, nel XII secolo, la rapida vittoria (poco più di due generazioni) deldiritto romano, modifcato, sul diritto longobardo.

La 'franchizzazione' dell'aristocrazia romana nella Gallia del VI e VII secolo è cosarisaputa e ben documentata: dapprima nel costume (il servizio militare, e la crescenteviolenza del comportamento di cui si lamenta Gregorio di Tours), poi nell'onomastica,infine nel diritto. Nell’VIII secolo c'erano solo Franchi a nord della Loira. Latrasformazione pacifica dell'aristocrazia nell'Italia bizantina è altrettanto evidente,come si vedrà. Trasformare l'intera forma della società aristocratica e dei suoi valori,per una ideologia dominante è più facile di quanto non ritenga Tabacco. Viceversa,mutano meno facilmente le realtà economiche relative alla proprietà fondiaria. Altempo del regno di Astolfo, a quanto sembra, il criterio determinante gli obblighi delleprestazioni rnilitari era divenuto la proprietà pura e semplice, indipendentemente dallamatrice etnica14. E, pur se persistette l'immagine longobarda del guerriero armato elibero, nel periodo carolingio la prestazione militare cominciò ad escluderegradualmente i poveri, come si vedrà.

L'occupazione franca, dopo il 774, non venne ad alterare questo predominiolongobardo, pur se contribuì alla fusione fra Longobardi e Romani in quantopopolazioni italiane indigene: gli Italiani. Un formulario del secolo XI esprime laprossimità nella procedura legale dei Longobardi e dei Romani in contrasto con quelladegli invasori nordici. Negli atti di vendita dei terreni, ad esempio, i Longobardi e iRomani dovevano allegare un documento contenente certe formule che esplicitavanogli obblighi legali derivati dall'assunzione della somma pattuita. Inoltre, per ivenditori franchi, visigoti, alemanni, bavaresi e burgundi c'era l'obbligo di « porre ilcontratto per terra, e gettare su di esso un coltello [con l'eccezione dei Bavaresi e deiBurgundi], un bastone segnato, un guanto, una zolla di terra, il ramo di un albero, e uncalamaio ». I1 formulario include anche elaborazioni abbastanza tarde, ma sappiamoche Franchi e Alemanni eseguirono tali riti, come risulta da contratti del IX secolo15.La nuova immigrazione fu per due terzi franca, e per circa un terzo alemanna(particolarmente a Verona); gli altri gruppi costituirono entità assai inferiori. Abbiamogià visto come i Carolingi nominassero dei Franchi in incarichi ufficiali dellagerarchia secolare. I conti e la maggior parte dei missi furono per lo più franchinell'Italia settentrionale fino alla metà del X secolo, ma i Longobardi riapparveropresto nella Toscana meridionale e a Spoleto, dove i Franchi non si insediarono mai.Un insediamento di piccoli aristocratici e di soldati franchi nella fascia di terra in 14 Astolfo, 2, 3.

15 MGH Leges, IV, p. 595; cfr. R. Bordone, Un'attiva minoranza etnica nell'alto medioevo (B3-f).Hlawitschka (B3-c) rappresenta il testo fondamentale per capire l'insediamento franco.

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fondo ai maggiori passi alpini fra Pavia e Verona, e in altre zone strategiche (Asti,Piacenza, e in minor misura Lucca), per lo più aristocrazia rurale, è ben documentato.Di raro li troviamo nelle città, se non nelle loro vesti di funzionari, e a ciò è dovuto inparte il fatto che i Franchi, con l'eccezione delle famiglie più prestigiose, non ebberoinflusso locale sufficiente a divenir vescovi. I vescovi non eletti dai re provenivanogeneralmente da farniglie longobarde.

All'interno delle classi dei proprietari terrieri, i Longobardi (e i Romani) superarono digran misura i Franchi (e gli Alemanni); nelle classi inferiori, probabilmente, i Franchierano del tutto assenti. Ma, come s'è visto, per i Longobardi l'essere in pochi noncostituì uno svantaggio due secoli prima, quando erano essi diventati il gruppo socialepredominante. Tuttavia, come s'è detto nel capitolo precedente, i Carolingi nonfranchizzarono lo stato, ma solo i suoi funzionari, particolarmente nel governo localee nel comando degli eserciti. I Longobardi, se non si ribellavano, non erano privatidelle loro terre. Sin dalla penultima decade dell'VIII secolo figurano come vassallialla corte del Re Pipino. Non furono più i maggiori benefciari del favore del re, e ciòindeboli forse la loro posizione, soprattutto durante il regno di Lotario, ma a partire daLodovico II i Longobardi ricominciarono a godere dell'interessamento reale. Peresempio, gli Aldobrandeschi furono una famiglia longobarda di Lucca: dopo l'800,cominciarono ad accumulare proprietà nella Toscana meridionaie, comprandole oaffittandole, stabilendo una base per un forte potere locale protetto dai rivali dalladistanza, proprio negli anni in cui gli aristocratici longobardi godettero del minimoappoggio da parte del re. In tal modo, la famiglia si trovò in posizione eccellenteallorché Lodovico volle controbilanciare il potere di Adalberto I nella Toscanasettentrionale: Geremia divenne vescovo di Lucca, suo fratello Eriprando missusimperiale, e il terzo fratello, Ildebrando, conte. Successivamente Geremia cedette oaífittò ai suoi fratelli tutta la proprietà episcopale nella Toscana meridionale,permettendo loro di stabilire una potenza familiare immensa che durò cinque secoli16.Né si trattò, con gli Aldobrandeschi, di un caso isolato. Gran parte della « nuova »nobiltà della Toscana del x secolo può venir fatta risalire alle famiglie Iongobarde delsecolo VIII grazie all'eccezionale documentazione che abbiamo della Luccaaltomedievale. La stessa cosa valse, per lo più, per gli aristocratici longobardisettentrionali del X secolo. I quadri delle dassi superiori rimasero longobarde, inparticolare quelle relative alla posizione di arimanni, i liberi guerrieri, pur se talerango includeva allora anche dei Franchi. Le potenti famiglie comitali francesi sitrovarono a doversi infiltrare entro una cornice ancor essenzialmente immutata daitempi dei re longobardi. I1 perno dell'attività sociale rimaneva la città, diversamenteda quanto accadeva al nord delle Alpi, e le riforme amministrative carolingecontribuirono a rafforzare tale tendenza. Laddove le famiglie franche non siinurbavano, come accadde nella maggior parte dei casi, divenivano socialmentemarginali. Giacché i Carolingi non cercarono di alterare le fondamenta ideologiche ele basi materiali dello stato, le famiglie aristocratiche longobarde non dovetterodivenire franche per sopravvivere, come era accaduto ai loro predecessori (e forseantenati) romani. Anche se avessero dovuto farlo, alcuni degli elementi basilari dellastruttura sociale, quali la tendenza degli aristocratici ad inurbarsi, sarebberosopravvissuti.

16 Cfr. il breve resoconto in G. Rossetti, Società e istituzioni nei secoli 9 e 10: Pisa, Volterra,Populonia, 5° Congresso, cit., pp. 296ss.

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Lo sviluppo sociale dell'Italia bizantina conferma alcune osservazioni già fatte suLongobardi e Franchi. Le principali zone italiane che i Longobardi non riuscirono maia conquistare pienamente furono 1'Esarcato di Ravenna (o meglio, Esarcato ePentapolis) ed il ducato di Roma. Venezia, l'Istria e Napoli furono pure esenti da talioccupazioni, come accadde per le zone più greche del sud, di cui si parlerà nelcapitolo sesto. L'Esarca era il governatore civile e militare dell'Italia sin dal tardosecolo VI, speditovi da Costantinopoli e mutato con grande frequenza. L'Italia eradistante dalle province centrali dell'Impero, e se ai governanti locali fosse statoconcesso troppo tempo per ambientarsi, avrebbero potuto finire col ribellarsi—comein effetti accadde nel 619 e nel 651. I Romani e i Ravennati non erano sudditi facili,poi, e seri disordini locali si verificarono più di dieci volte fra il 600 e la conquistadell'Esarcato da parte di Astolfo nel 75117.

La struttura sociale delle aree bizantine per le quali abbiamo una miglioredocumentazione, Ravenna, Roma e Napoli, discendeva direttamente da quella diRoma, senza alcuna rottura del tipo causato in altri luoghi dagli insediamentilongobardi. Verso l'anno 700, però, era mutata fino ad essere irriconoscibile edassomigliava, piuttosto, a quella dello stato longobardo. Per almeno un aspettoimportante, la somiglianza era superficiale: nell'Esarcato lo stato continuava adimporre le tasse, e con quelle manteneva un'amministrazione complessa e un esercito(pur se dopo la metà del secolo VII la paga che l'esercito riscuoteva in Italia eraprobabilmente molto bassa in confronto alle rendite che riceveva dai terreni di suaproprietà). Le tasse erano piuttosto alte, almeno agli inizi. Le proprietà della chiesa diRavenna in Sicilia ai tempi dell'arcivescovo Mauro (642-73) rendevano 50.000 modiadi grano (e altro reddito in natura), e 31.000 solidi d'oro. Di questi ultimi, ben 15.000se ne andavano in tasse18. D'altra parte, è assai probabile che proprietari terrieri menoresponsabili fossero in grado di evadere le tasse (come accadde nel V secolo) e ciòsembra particolarmente probabile per i soldati. L'Italia bizantina, diversamente dallatarda romanità, non manteneva una gerarchia militar-amministrativa distintadall'aristocrazia civile. La struttura dello stato si era semplificata, e l'élite al poterecompletamente militarizzata. Tale processo era iniziato fin dai tempi degli Ostrogoti,come si è visto nel capitolo primo; dinanzi alle pressioni delle invasioni longobarde,divenne ancor più rapido. I capi dei numeri, o unità militari, divennero predominantifigure sociali, i senatori si trasferirono a sud, in Sicilia, dove si trovavano ancora nelVI secolo, e ad oriente, a Costantinopoli. Verso la fine del VI secolo, la Curia, ilconsiglio cittadino, non esisteva più in alcuna città bizantina del nord, eccetto forseRavenna. Solo a Napoli, che non dovette temere alcuna seria minaccia longobardafino alla fine del secolo VI, la militarizzazione della società si compì piuttosto tardi.Gregorio Magno descrive le fazioni delle città che si distinguevano a seconda dellaloro associazione od opposizione ai vescovi, in una tradizione tipicamentetardoromana19. Napoli era città prospera, e la sua base rimase essenzialmente civile. Isoldati costituivano una minoranza, e la Curia sopravvisse fino al X secolo, pur se giànell'VIII secolo il comandante militare, console (o duca), fu il governanteincontrastato di Napoli.

17 Per l'Esarcato: A. Guillou (B3-b), e particolarmente T.S. Brown, The Church of Ravenna and theimperial administration in the 7th century, e il suo libro di prossima pubblicazione (A3-b).18 Agnello, c. 11119 Gregorio, Epp., 2. 12, 18; 3. 1, 2, 60; 9. 47, 76.

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Mano a mano che i vertici della società bizantina corrispondevano sempre più aivertici militari, l'aristocrazia civile perdeva il proprio status. Pur continuando adesistere, in quanto la distinzione fra gerarchia civile e gerarchia militare vennescrupolosamente mantenuta, i suoi membri più autorevoli penetrarono tra i ranghidell'esercito. Viceversa, soldati di tutti i ranghi militari, ricorrendo ai loro legami conla ricca rete di protezionismi, basata sul sistema fiscale, che copriva l'interaamministrazione (e, come si vedrà, anche la Chiesa), riuscivano facilmente a divenireproprietari terrieri, tramite acquisti, matrimoni, aífitti o mezzi meno leciti. Verso il700, la maggior parte dei grandi proprietari terrieri era costituita da militari.

L'esercito del tardo secolo VI era di provenienza in massima parte orientale, e la suaorigine sociale è evidente nei testi a nostra disposizione. Nel 591, Tzita, appartenenteal numerus dei Perso-Armeni, era sposato con un'appartenente alla classe deiproprietari terrieri (suo suocero Felice era defensor della chiesa di Ravenna)20.L'onomastica, come era accaduto nell'Italia longobarda segul questi infIussi. Nelsecolo VII, quasi la metà dei nomi registrati nei documenti ravennati sono di origineorientale. Le complesse regole dell'onomastica del l'Impero Romano svanirono. Oltrea questi nomi orientali (e ad alcuni residui di nomi goti), c'erano molti che sichiamavano semplicemente Stefano, Giovanni o Sergio, con i nomi dei santi. Diventapiuttosto difficile seguire la storia delle famiglie nel secolo VII, come succede ancheper l'Italia longobarda, pur se gli antenati di tribuni o giudici di nome Giovanni, nellaRavenna dell'VIII secolo, avrebbero potuto essere aristocratici ravennati del secoloVI, i Melminii o i Pompilii. Tale sviluppo nell'onomastica è di certo collegato inqualche modo con la militarizzazione della gerarchia sociale, poiché nell'esercitol'onomastica non era mai stata cosl complessa; comunque, esso non indica una vastaimmigrazione orientale. Né i nomi orientaleggianti del VII secolo, né quelli derivatidai santi nei secoli VII e VIII, indicano l'affermarsi di famiglie nuove, pur se ve nefurono senz'altro alcune. Non è possibile d siano mai stati molti orientali in Italia; dicerto costituivano una porzione di popolazione inferiore di gran lunga persino a quellacostituita dai Longobardi nell'Italia longobarda. Nel VII secolo, in effetti, anche se ilnumero dei nomi orientali continuava ad essere piuttosto alto, l'immigrazione era giàcessata. I Bizantini ebbero bisogno di tutti i soldati che poterono reperire per le guerrecontro i Persiani e contro gli Arabi. I1 reclutamento militare in Italia tornò ad averebase locale: nuovi numeri vennero costituiti in città italiane, Rimini, o Fermo, o Nepi.Ma l'influsso militare orientale aveva già avuto i suoi effetti. L'intera terminologiadell'organizzazione sociale si era militarizzata: gli abitanti di Comacchio, allafrontiera, venivano chiamati milites, « soldati », persino dai Longobardi; l'interocorpo cittadino triestino veniva definito un numerus nel caso giudiziario di Rizananell'804.

La militarizzazione dell'immagine sociale ha notevoli paralleli con l'Italia longobarda,in cui i governanti locali erano duchi, e i comuni uomini liberi avevano titoli militariquali vir devotus. La popolazione di Siena nel 730 venne definita un esercito(exercitus)21 L'esercito longobardo e la sua gerarchia compenetravano l'intera società,proprio come l'esercito bizantino, ma ciò non significa, in nessuno dei due casi, che

20 G. Marini, I papiri diplomatici (Roma, 1805), n. 122.

21 LM. Hartmann (BSb), pp. 123-4, per Comacchio; Manaresi, 17, per Trieste; Schiaparelli, 50, persiena.

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l'intera società servisse nell'esercito. Nell'Italia bizantina, in effetti, l'esercito eradivenuto una vera élite di professionisti, e i Triestini, a Rizana, come si vedrà, stavanosolo appellandosi contro la prestazione militare da rendere ai loro nuovi padronifranchi, e solo in teoria costituivano un numerus. Questi mutamenti della terminologiadimostrano soltanto una trasformazione dell'orientamento, e fino a un certo puntodell'ideologia, dei ranghi sociali più elevati. I capi della gerarchia sociale avevanoincarichi diversi, diverse funzioni e diversi nomi dei loro predecessori. Ma la base diquella leadership continuava ad essere la terra, e almeno alcune delle principalifamiglie delI'Italia bizantina devono essere ancora state le stesse che nei secoli V eVI, anche se sotto diverse mascherature, pur se ci furono alcune famiglie nuove, siaorientali che indigene. Il fatto che una tal completa trasformazione potesse avvenirepacificamente dovrebbe dimostrare che qualcosa del genere avrebbe potuto verificarsianche tra i Longobardi. In entrambi i casi l'aristocrazia civile romana cessò di esserepoliticamente influente. Alcuni dei suoi membri affondarono, espropriati (almenonell'Italia longobarda), esuli a Costantinopoli o in Sicilia, o incapaci di conservare ilpossesso di proprietà sparse in troppe zone teatro di guerra. Molti altri, però,scamparono divenendo membri di questa nuova élite, accanto ad aristocratici militaribizantini o longobardi, o a semplicissimi soldati affermatisi in battaglia: fusioniattuate spesso con matrimoni, dopo dei quali le differenze d'origine cessavano dicontare.

Per un altro aspetto, la società del VII secolo a Ravenna, Roma e Napoli, fu diversa daquella dell'Italia longobarda (anche se le città longobarde sarebbero giunte agli stessirisultati in due o tre secoli): il ruolo della Chiesa. Si è visto come nell'Italiasettentrionale tardoromana i vescovi divenissero importanti elementidell'amministrazione civile. Con i Longobardi cessarono di esserlo, e anche quando iLongobardi accettarono il cattolicesimo rimasero politicamente marginali, almeno alivello nazionale. Nelle città bizantine, però, ciò non accadde. A Roma i Papipossedevano già vastissime terre e, col crollo del Senato, si assunsero decisamente ilgoverno della città nel VI secolo, mantenendo la popolazione con distribuzioni digrano. Anche gli arcivescovi di Ravenna avevano cominciato ad accumulare terreni,in particolare successivamente a parecchie generosissime concessioni imperiali (inalcuni casi come corrispettivi di prestiti), dal 550 in poi. Nel VII secolo l'arcivescovofu secondo soltanto all'Esarca, nd potere; di solito i due collaboravano strettamente,con reciproco vantaggio (diversamente dai conti e dai vescovi catolingi, ediversamente da Papa ed Esarca, con le loro tempestose relazioni). Gli enormipossedimenti del Papa e dell'arcivescovo rappresentavano direttamente un poterepolitico ed economico vastissimo. Rappresentavano anche, però, l'occasione peresteso clientelismo. Dal VII secolo in poi, sia a Ravenna che a Roma, gli aristocraticimilitari cominciarono a prendere in affitto terreni della Chiesa. In alcuni casi laChiesa non aveva scelta. L'alternativa al concedere un terreno in affitto (per una cifrafissa, sovente nominale, per diverse generazioni), spesso era la perdita totale di esso,ma queste concessioni in affitto comportavano l'acquisizione di un appoggio politico,che a volte veniva esplicitamente richiesto per iscritto nel contratto22. Una famiglianobile era in grado di accumulare una notevole proprietà fondiaria tramite i contrattidi aditto, in un'epoca in cui in altre parti d'Italia i contratti d'affitto erano concessisoltanto al contadinato. In tal modo la Chiesa si legava strettamente alle fortunepolitiche dei suoi nuovi aristocratici affittuari. Gli arcivescovi di Ravenna furono

22 Agnello, c. 152.

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spesso scelti nell'ambito di quelle famiglie; e così cominciò ad accadere anche un po'più tardi, dal 750, per i Papi. A Napoli, a partire dal tardo secolo VIlI, solo una o duefamiglie prevalsero, fornendo di solito dalle loro file sia il vescovo che il ducaconsole; a volte, come accadde con Stefano II (754-800) e soprattutto con Atanasio II(876-898), la stessa persona copri entrambe le cariche23. Ovviamente, Napoli aveva unterritorio piccolo, e offriva poche occasioni perché si potesse costruire una complessarete di famiglie nobili. Le famiglie della fine del secolo VI persero probabilmente laloro base fondiaria allorché i Longobardi conquistarono il resto della Campania. Lealtre città-stato bizantine dei secoli VIII e IX ed oltre mostrarono similisovrapposizioni di incarichi laici ed ecclesiastici all'interno delle famiglie principali: aGaeta, ad Amalfi, e anche a Venezia, con l'egemonia nel IX secolo della famiglia deiPartecipazio, che divenne la più antica grande dinastia veneziana. In tutta l'Italiabizantina, infatti, l'importanza della Chiesa si specchiava negli stretti legami di questacon la gerarchia sociale cittadina. Nell'VIII secolo, anche in alcune città longobarde,cominciò a rivelarsi un fenomeno simile; i vescovi di Bergamo e di Lucca erano benvisibilmente degli aristocratid. Quando, nel IX secolo, le chiese cominciarono adaffittare i loro terreni agli aristocratici, I'intero fenomeno diviene visibile. Col Xsecolo, come si vedrà, gli affittuari dei terreni della Chiesa costituirono la nuovaaristocrazia, e divennero spesso vescovi loro stessi, come era successo a Ravenna nelsecolo VII.

Lo stato bizantino in Italia fu più complesso del suo vicino longobardo-carolingio.Ciò appare benissimo nel caso giuridico di Rilana nell'804, nel quale gli abitantidell'Istria e delle sue nove città, recentemente conquistate dai Franchi, si lamentanoper le imposizioni introdotte dal nuovo governatore, il duca franco Giovanni.Elencano i privilegi goduti precedentemente, e i doveri precedentemente prestati allostato bizantino. E invece, Giovanni stera impadronito di terre, aveva modificato leusanze, e s'era arrogato diritti fiscali. Tra le altre cose, gli Istriani si videro sottratti iloro diritti di pesca nel mare e di pascolo nelle selve pubbliche. Le loro gerarchie difunzionari, le posizioni di tribuno, domesticus, vicarius, e hypatus (console), eranostate eliminate o assunte da Franchi; alcuni Istriani furono obbligati a servirepersonalmente nell'esercito, assieme ai propri schiavi; Giovanni aveva cominciato apretendere lavori di corvée alla maniera franca, e continuava a chiedere tributi fiscali(344 solidi mancusi dalle nove città) che teneva per sé.

A tutti questi obblighi noi siamo forzati con la violenza, e mai era accaduta cosa delgenere ai nostri avi; i nostri parenti e vicini, a Venezia e nella Dalmazia, che sonoancora sotto il dominio greco, come noi fummo prima, ci deridono. Se l'imperatoreCarlo ci aiuta, possiamo sopravvivere; se non ci aiuta, per noi è preferibile la mortealla vita.

Giovanni, nel difendersi, sostenne che la cosa era successa in gran parte per il fattoch'egli non era a conoscenza delle usanze dell'Istria, e che ovviamente avrebbe fattoammenda e non avrebbe più imposto lavori di corvée. Se poi lo fece o no, è per noisconosciuto24. I1 quadro che si ottiene da quel caso giuridico, con tutti i suoicomplicati dettagli, è quello di un Franco spietato e incolto che pesta rozzamente i

23 Giovanni Diacono, Gesta episcoporum neapolitanorum, c. 42 (S.R.L., p. 425).24 Manaresi, 17; resoconto e commento in Guillou (B3-b), pp. 294-307.

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suoi piedi su un organismo dall'equilibrio delicatissimo, retto dalle convenzionisociali, almeno nella forma in cui la memoria degli Istriani le idealizzavadeliberatamente. Ma alcune cose erano già mutate: i 344 solidi, se costituivano ilresiduo dell'imposta fondiaria, rappresentavano una frazione di quella romana. Sottotale punto di vista lo stesso stato bizantino si era semplificato. Gli incarichi che gliIstriani avevano perduto avevano i loro equivalenti nello stato longobardo-carolingio,pur se con una gerarchia meno comp]icata. Le strutture della società, cheesamineremo nei prossimi due capitoli, erano verso l’800 più o meno le stesse dalledue parti dei confini, in Italia. Le linee di sviluppo erano pure simili, anche se lavelocità dello sviluppo variava da un posto all'altro. E in nessuna delle due parti vennea introdursi nel tessuto sociale qualche differenza dovuta all'immigrazione. Se alcuniimmigrati si sostituirono a singoli Romani, non alterarono comunque le strutturesocioeconomiche della vita italiana. Solo insediamenti di massa avrebbero potutofarla e di questi, come si è visto, non ve ne furono. L'economia italiana altomedievaleera in ogni suo importante aspetto l'erede diretta di quella dell'Impero.

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Capitolo quartoLA CITTÀ E LA CAMPAGNA

La città

Nel regno d'Italia, vale a dire l'Italia settentrionale e la Toscana, durante l'Imperoc'erano stati alcune centinaia di municipia. Più di tre quarti di essi esistevano ancorafunzionanti nel 1000. Ben pochi di quelli che erano stati abbandonati sembra sianostati sedi vescovili nel tardo Impero. Erano quindi probabilmente in un avanzato statodi decadenza ancor prima dell'inizio del periodo in esame. Dal 400 al 1000 si puònotare una continuità urbana quasi completa, ininterrotta a tutt'oggi: di cinquantacapoluoghi di provincia moderni nella stessa area, trentacinque erano città sottol'Impero. L'Italia settentrionale e centro-settentrionale nei due millenni passati èrimasta una società urbana senza interruzioni. Per tutto quel periodo le cittàpredominavano politicamente, socialmente ed economicamente sui territori rurali.

Si potrebbe obiettare, ed è stato obiettato, che si tratta solo di un problema didefinizione. L'identità della città, sia nell'Impero sia nell'alto Medioevo, era definitaamministrativamente: la presenza di un consiglio municipale, di un duca, di un conte,di un vescovo; la sola presenza di mura talvolta sembra abbia comportato ladefinizione giuridica di città. Tali città avrebbero potuto essere vuoti agglomerati, opiccoli insediamenti di contadini, come spesso furono (e talvolta sono ancora)nell'Italia del Sud e in quella centro-meridionale. Ma c'era forse una densità urbana inalcune zone meridionali quattro volte quella della pianura padana, in un contesto benpiù povero. Una base territoriale così limitata spesso significava che tali città nonerano che villaggi, con solo una cattedrale nel loro punto centrale. Offrivano pocaresistenza in caso di guerra o di invasione. Meno della metà delle città romane del Sudcontinuarono ad esistere nei secoli VI e VII, anche come sedi vescovili (cfr. p. 192).La persistenza geografica delle città del Nord contrasta chiaramente con tutto ciò.Tuttavia ciò non indica solo una maggiore continuità amministrativa o ecclesiastica.Nel Nord si può vedere una vera società urbana che funziona per tutto il periodo nellecittà delle quali si ha documentazione, come Ravenna, Lucca, o Milano, e si puòpensare sia altrettanto per la maggior parte delle altre. Ciò ovviamente presupponeuna chiara definizione economica di città. Suggerirei la seguente per il tipo di societàmediterranea pre-industriale che stiamo analizzando: un centro abitato relativamentepopolato, distinto funzionalmente dagli altri centri circostanti, con almeno tre dellecaratteristiche che seguono: maestri e artigiani (specialmente), una concentrazione diproprietari terrieri, un ruolo amministrativo e religioso importante ed un mercato dirilievo. Queste caratteristiche saranno esaminate a fondo più oltre.

Certamente, alcune città sono sparite. Talvolta furono distrutte in guerra e non piùoccupate (Brescello sul Po, dopo essere stata bruciata nel 586 e nel 603, fuprobabilmente abbandonata per vari secoli ma ciò era insolito). Ben più tipico fu illento decadimento e l'abbandono di città in aree marginali. Ad esempio, sulla costaligure, quantunque capoluogo di contea e sede vescovile fino al X secolo ed oltre,Luni sembra fosse già in fase di decadenza nel tardo Impero, quando il suo foro fuspogliato dei marmi. Uno scavo recente ha dimostrato l'esistenza di capanne in legnosul foro e nella zona monumentale circostante e sembra che nell'VIII secolo lamaggior parte delle attività fosse limitata alla zona circostante la cattedrale. Questo

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declino colpisce ancor più se si pensa che Luni era per i romani il punto d'arrivo e dismercio di quello che chiamiamo oggi marmo di Carrara. Ma nel tardo Impero sismise di tagliare marmo quando si resero disponibili molti blocchi dei templi ormai indisuso delle città romane. Luni era situata su una fascia costiera paludosa direttamentecomunicante con un territorio formato da valli isolate e da ripide colline, retroterratroppo povero e scarsamente popolato per fungere da base adeguata per la vita dellacittà a meno che non vi fosse il supporto di qualche altra attività economica. Quando iLongobardi, che non conquistarono Luni fino a circa il 640, occuparono la maggiorparte del suo retroterra e mutarono il sistema viario in modo da evitare la città, lediedero il colpo di grazia. Alcune città decaddero come Luni. Altre cambiaronoubicazione, come Ventimiglia o Altino, i cui abitanti si trasferirono a Torcello e poi aVenezia. Ma furono casi atipici. La tipica città romana sopravvisse; e sopravviveancora 1.

L'aspetto fisico delle città del primo medioevo è in se stesso una prova della lorocontinuità. Indubbiamente, non erano troppo appariscenti. La monumentalità e l'altolivello tecnologico dell'architettura tardo-romana dopo il VI secolo non ebbe segruto.I templi e gli edifici civici tardo-romani furono per lo più lasciati andare in rovina, ousati come cave. Le chiese che furono costruite dopo il 600 erano piccole, anche leopere di grande prestigio come S. Salvatore in Brescia o S. Maria in Cosmedin aRoma, sebbene questo possa essere almeno parzialmente addebitato ad uncambiamento nello stile architettonico, poiché esse erano di certo ricche negli interni.Sembra che l'edilizia privata spesso sia stata realizzata in legno, arretrata rispetto allastrada, con un cortile anteriore e un giardino posteriore, forse più simile ad una cittàgiardino in sfacelo che non agli isolati di Pompei. In molte città esistono tracce dicolture agricole interne alle mura (in particolare vigne). Alcuni storici hannoriconosciuto in questo la 'ruralizzazione' della città. Tuttavia ciò è un'esagerazione.Città e campagna non erano certamente del tutto differenziate, i contadini potevano`vivere nella città e uscire per andare a coltivare la campagna, come ancora avvienenell'Italia meridionale. Ma le città fungevano da punti focali della campagna, e la vitaurbana era in genere del tutto diversa dalla vita rurale, molto similmente a quantosuccedeva nell'antichità.

I1 primo elemento che definisce la città è la cinta muraria. Erano mura romane,quantunque conservate dai re Longobardi e successivamente dalle stesseamministrazioni cittadine. Nel 739 un autore anonimo scrisse un panegirico della cittàdi Milano, descrivendone le glorie. In primo luogo venivano le mura:

Attorno al perimetro ci sono torri con alte guglie, rifinite all'esterno con grande cura, eall'interno abbellite da edifici. Le mura sono larghe dodici piedi; l'immensafondazione è fatta di blocchi squadrati, completati elegantemente nella parte superioreda mattoni. Lungo le mura ci sono nove cancelli meravigliosi, ben protetti dacatenacci e chiavi, davanti ai quali si ergono le torri dei ponti levatoi.

Con simili difese, non sorprende molto che la gente abitasse nelle città durante leguerre del VI secolo, né che i governi successivi le abbiano mantenute. Le mura

1 Per Luni: B. Ward-Perkins, Luni (A5-b); cir. G. Schmidt, Città scomparse e città di nuova formazionein Italia, Sett., XXI (1973), pp. 503-617, per molti dati comparativi.

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davano identità alla città sotto ogni aspetto. Le davano anche una configurazionespecifica. La disposizione romana delle strade era in genere ad angolo retto (e spessoallineate con i campi squadrati della campagna); il quadrato formato dalle muracristallizzò quest'aspetto. Le due strade principali di queste città prevedevano duecancelli alle estremità e si incrodavano al centro, in genere al foro. La sempliceconservazione delle mura romane rese questa disposizione planimetrica permanente.Ma in molte città italiane è pervenuta fino ad oggi una disposizione planimetrica quasitotalmente quadrata: Torino, Albenga, Piacenza, Milano, Cremona, Brescia, Verona,Bologna, Firenze, Lucca sono solo alcune voci di un lungo elenco. E’ vero, ciò ètalora possibile in città con una popolazione abbastanza limitata (Aosta ne è unesempio), specialmente se le strade, come in Italia, sono ritenute una proprietàpubblica; ma da tanti esempi si possono trarre conclusioni più generali. A Luccanell'890 due contratti d'affitto ci mostrano una fila di cinque case, tutte che siaffacciano direttamente sulla strada, nel centro della città. Qui, almeno, la piantastradale mostra decisamente una continuità nella densità dell'insediamento2.

Milano non aveva soltanto le mura. « L'edificio nel foro è assai bello, e il sistemaviario ha pavimentazione solida; l'acqua per le terme scorre in un acquedotto ». Siamoqui riportati al mondo tardo-romano. L'acquedotto deve essere stato oggetto diparticolare orgoglio, dato che ne erano rimasti pochi nell'VIII secolo (a Roma, Napoli,forse Brescia, probabilmente a Pavia; e in pochi altri luoghi). D'altro canto il foro eraancora presente nella maggior parte delle città. Nell'antichità era stato il centropolitico, ove si riuniva il consiglio della città, ed il punto focale dell'edilizia civica.Nell'alto Medio Evo, aveva due antagonisti, il palazzo reale e la cattedrale, simbolidei due maggiori poteri di ogni città, lo stato e il vescovo. I1 foro perse il suo molopolitico diretto con la scomparsa del consiglio cittadino nel VI secolo, quantunque siarestato un centro economico, e ivi si svolgesse ancora il mercato. E’ ancora così oggi,in molte città. Tuttavia solo raramente il foro rimane al centro della città. I1 palazzo oresidenza reale spesso fu costruito su di esso o nelle vicinanze, ma l'importanza delpalazzo diminuì col crollo dello stato italiano nel x secolo. D'altro canto la cattedraleraramente era costruita nelle sue vicinanze: come ultimo edificio tardo-romanoimportante essa era, in genere, posta al limite della città romana. L'influenza telvescovo nella città fece crescere sempre di più l'importanza del complesso dellacattedrale. A Milano, la cattedrale fu costruita nel IV secolo, nella vasta area aperta anord-est della città, compresa entro le mura da un ampliamento recente delle murastesse Nel IX secolo era già diventato un punto politico importante: il primotestamento dell'arcivescovo Ansperto, nell'879, allude all'asemblatorio, puntod'incontro dei cittadini, posto di fronte alla cattedrale, ove oggi è ubicato il centrodella città moderna, la Piazza del Duomo. I1 vecchio foro continuò ad esistere, e funoto sotto il termine di mercatum; dal 952 aveva bancarelle fisse (per la maggior parteproprietà del principale monastero suburbano di S. Ambrogio). Nel X secolo e dopo,il prezzo delle case attorno al mercato e vicino alla zecca era elevato3. Ma Milano,come si vedrà in seguito, era un centro commerciale importante. Altrove, il forodiventò meno importante in un tempo più breve. A Brescia il foro è oggi in unatranquilla zona residenziale della città vecchia; perse la sua importanza prima che ilcapitolium romano, che ancor oggi lo domina, fosse destinato ad usi diversi

2 Versum de Mediolano civitate, in MGH Poetae, I, pp. 22-66 per Lucca, Barsocchini 965-6 (890). Cfr.P-A. Février, Permanence et héritages de l'antiquité dans la topographie des villes (Bs-b).3 Porro, 287 (879); MGH Dipl. Ottonis, I, n. 145 (952); G Violante (B3-f), pp. 109-15 per i prezzi.

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(quantunque sia rimasto certamente un mercato). I1 centro della città moderna emedioevale è a cavallo dell'asse delle mura romane, a fianco e di fronte alla cattedrale.

Questi spostamenti del centro all'interno delle città dell'alto MedioEvo mostranochiaramente la stretta relazione fra potere politico, status sociale, ed edifici. Di per séera una tradizione romana. Cassiodoro scrisse, a proposito dello splendore dei palazzidi Teodorico: « Sono i piaceri del nostro potere, l'immagine appropriata dell'Impero...sono in mostra perché ricevano l'ammirazione degli ambasciatori, e dal loro aspetto sigiudica il loro signore ». Tre secoli più tardi, Lodovico II diceva più o meno la stessacosa: « Gli edifici pubblidci che in ogni città erano stati costruiti da molto tempo peradornare il nostro stato, devono essere ricostruiti per i nostri scopi, decorosi e adattialle ambasciate straniere che vengono alla nostra presenza »4. Ben lo sapevano icostruttori di chiese. L'edificio ecclesiastico fu il diretto successore della costruzione ericostruzione monumentale della città romana. Nel I secolo Agrippa pose il suo nomesul portico del Pantheon a Roma. Così nel tardo Impero i donatori dei pavimentimusivi nelle chiese avevano il loro nome posto nell'elenco all'interno della portaassieme alla misura, espressa in piedi, del mosaico donato. Alcune chiese preseropersino nome dal loro fondatore, come S. Maria Theodota a Pavia e San PietroSomaldi da Sumuald, a Lucca. Agnello scrisse gran parte della sua storia di Ravennaunicamente partendo dalle iscrizioni dei donatori presenti nelle chiese della città. I1vescovo Giacomo di Lucca (m. 818) pensò che sul suo epitaffio bastasse ricordaresolo le fondazioni e donazioni di cui era autore; nessuna frase piamente retorica. Ivescovi facevano le donazioni maggiori, come era giusto, non solo per le lororesponsabilità religiose, ma poichè in genere erano, nella città, i proprietari terrieri piùricchi. I1 numero delle chiese di nuova costruzione nelle città, nel periodo in esame, èuno dei segni più chiari della prosperità degli abitanti e della loro disponibilità a speseingenti. A Pavia si sa dell'esistenza di circa quarantacinque chiese prima che fossesaccheggiata nel 924 dagli Ungari. Prima del 900 a Lucca se ne sono ricordatecinquantasette. Chiunque volesse affermare il proprio status sociale, lo facevacostruendo una chiesa. L'Imperatore Giustiniano si lamentava nel contesto bizantinoche gli uomini erano così desiderosi di essere ricordati come fondatori di chiese chespesso non provvedevano neppure agli addobbi o alla manutenzione delle chiesestesse 5. Le uniche differenze rilevanti tra questo comportamento e la munificenzacivica tardo-romana risiedevano nel fatto che un campo sociale ben più vasto, nonsolo le autorità civiche, poteva partecipare alla dotazione delle chiese nell'alto MedioEvo, e che furono costruite più chiese allora che edifici civici nella tardaromanità. Neconsegue che, anche per minor ricchezza degli aristocratici dell'alto Medio Evo, lechiese erano piuttosto piccole e non appariscenti in paragone ai monumenti tardo-romani.

Lucca, la città alto-medievale italiana meglio documentata, mostra chiaramente questecaratteristiche. La conservazione della sua pianta romana pressoché perfetta e lefacciate dei suoi edifici della fine del IX secolo, indicano che conservò almeno ad uncerto livello la densità di costruzione romana. Le sue chiese erano distribuite in modoabbastanza uniforme nella città; non c'erano aree aperte evidenti; esistono 4 Variae, 7. 5; MGH Capitularia, II, 213 c. 7.

5 D.A. Bullough, Urban change in Early Mediaeval Italy (A5-h), pp. 99ss., 119-29; Barsocchini 1759(818); Giustiniano, Novella 67 (Corprus Iuris Civilis, nı); cir. M. Mauss, The Gift (Londra, 1951), pp.3145; T. Veblen, The Theory of the Leisurc Class (Londra, 1924) capitolo quarto.

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testimonianze che le case fossero costruite in legno, mattoni e pietra; la pietra è ilmateriale da costruzione più evidenziato. Tra il 700 e il 1100 le case a due pianiaumentano sempre più; e nel x secolo, persino la sporadica casa-torre. I1 palazzo reale(curtis regia) e la zecca erano vicini al foro, nel centro; il complesso della cattedraleera nell'angolo sud-est della città. A Lucca, tuttavia, la capitale della Toscana, ilpalazzo del duca (curtis ducalis) fuori le mura diventò ben più splendido, sollevandola gelosia di Lodovico III nel 905; quando re Ugo depose il marchese verso il 930,pose li il palazzo reale. I1 palazzo ducale non era l'unico edificio di Lucca fuori dallemura. Oltre un terzo delle chiese e metà delle case citate nei documenti di Luccaanteriori al 1000 risultavano essere all'esterno della cerchia muraria. Secondo idocumenti una fascia suburbana circondava Lucca fin dall'inizio dell'VIII secolo;alcuni agglomerati, nel X secolo, avevano preso il nome di borgo (burgus). Un'elevatapercentuale della popolazione di Lucca viveva fuori mura e tali insediamentirisalgono alle prime tracce storiche. Lucca era un centro importante, e cresciuto forsetroppo in fretta, ma molte altre città devono essersi espanse fuori dalle mura benprima della fine del periodo in esame6,

Elemento chiarificatore sono anche le attività degli abitanti di Lucca. Sempre daiprimi testi in nostro possesso rileviamo la presenza di una serie di mercanti edartigiani di generi di lusso, orefici, calderai, dottori, sarti, costruttori, monetieri. Tuttisono citati come residenti nella città stessa e nelle sue immediate vicinanze. Alcunierano anche proprietari terrieri, come, ad esempio, Giusto l'orefice di porta S. Gervasinel 729, il quartiere della porta di S. Gervasio (molte città conoscevano suddivisioniinterne; i quartieri di Ravenna si scontravano persino in battaglie simboliche ognidomenica pomeriggio. Un mastro costruttore dell'Italia settentrionale, Natale, acquistòdei terreni a sud di Lucca nel 787-8, e nell'805 diventò cosi ricco da fondare unachiesa urbana7. Tuttavia nella città non abitavano solo mercanti e artigiani, vi eranoanche aristocratici. Nell'VIII secolo oltre metà dei venti maggiori proprietari terrieripresenti a Lucca e nel suo territorio sembra abitassero in città. E ciò esclude i terrenidelle chiese urbane, e soprattutto la cattedrale, che con tutta probabilità possedeva lamaggior parte dei terreni della zona. Anche le terre dello stato erano amministrate dadentro la città. I terreni sotto il controllo di cittadini o di istituzioni dovevano già—oancora—costituire una parte rilevante dell'intera Lucchesia. In un contesto geograficopiù limitato, la popolazione rurale forse si serviva del mercato di Lucca anche per loscambio delle sue eccedenze. Lucca predominava socialmente ed economicamente sulsuo territorio sotto qualsiasi aspetto, in modi sostanzialmente invariati rispetto a quellidel mondo romano, e che in seguito non sarebbero cambiati granché.

Sottolineo qui la proprietà terriera urbana piuttosto che il commercio urbano, e lofaccio deliberatamente. Le città romane non erano principalmente centri commerciali;erano centri politico-amministrativi fondati sulla tassazione delle campagne, edavevano peso socio-economico in quanto i grossi proprietari terrieri dell'Imperovivevano quasi tutti all'interno di esse. Solo così, col potere d'acquisto dello stato edell'aristocrazia, iniziarono ad essere presenti gli interessi commerciali. In pochissimecittà occidentali, in genere grandi porti come Ostia, e forse in nessun'altro posto, ilcommercio era cosi preponderante sotto ogni aspetto, e in linea di massima, questo 6 Cfr. H.E Schwarzmaier (83-f), pp. 14-70, I. Belli Bersali, La topografia di Lucca nei ss 8-11 (B5-b).Lodovico III: Liutprando da cremona, Antapodosis (MGH S.S. der Germ., nuova edizione a cura di J.secker), 2. 39.7 Schiaparelli, 69 (739); Barsocchini, 216, 221, 322 per Natalis. Per Ravenna: Agnello, cc. 12-9.

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valeva per l'Italia anche nei secoli XII e XIII. Genova e Venezia erano, ovviamente,centri quasi esclusivamente commerciali, ma si trattava di eccezioni. Città più piccoledell'interno, più tipiche dei comuni, come Mantova, Arezzo o Parma, erano semprecontrollate dai proprietari terrieri. E anche centri commerciali come Milano eCremona, con traffici fiorenti, erano città basate in egual misura sulla proprietàfondiaria. Non dobbiamo di conseguenza identificare una rottura storica nella baseeconomica delle nostre città, ora proprietà fondiaria ora commercio (nonconsideriamo qui l'industria (ora aristocrazia ora borghesia. Le città antiche (secondoWeber) erano centri di consumo, non di produzione e gravavano sulla campagna; lostesso vale, entro limiti più ridotti, per le città dei secoli XII e XIII. Il commercio nelperiodo centrale del Medio Evo, quantunque avesse smesso di essere del tuttodipendente dal potere d'acquisto dei proprietari terrieri italiani, era per lo più scambiointernazionale di generi di lusso. Di certo la maggior parte della popolazioneraramente acquistava tali merci, non vi fu mai grande commercializzazionenell'agricoltura dell'Italia medievale, e la popolazione della campagna era coinvoltanel commercio solo in quanto ultimo destinatario di pratiche monopolistiche erelativarnente alla determinazione dei prezzi, che erano calcolati a scapito dellacampagna per giovare ai mercati e alle botteghe urbani.

Si è già visto ampiamente come la struttura politica ed amministrativa del regnolongobardo e di quello carolingio che gli successe sia rimasta urbana, anche perconseguenza della tradizione romana della pubblica amministrazione. La Chiesa pureera nettamente urbana, con l'eccezione del sistema dei monasteri rurali, alcuni diquesti corredati di tenute estese, che cominciarono a sorgere nell'VIII secolo.Anch'essi venivano volutamente fondati in zone remote al fine di evitare il contattocon la società secolare, cioè, per eccellenza, la società urbana. I proprietari terrieririmasero, come abbiamo visto a Lucca, cittadini; è il caso di Taldo, il gasindio(dipendente) del re, figlio di Teuderolfo, cittadino di Bergamo che fece testamento nel774 (mentre Desiderio assediava Pavia). I1 suo essere cittadino (o quello di suo padre)sembra sia stato un titolo, proprio come il suo status di gasindio. Distribuì una lungaserie di proprietà a tredici chiese (le donazioni maggiori a due chiese urbane) e ordinòal vescovo di vendere tutto il resto alla sua morte8.

Può non sembrare inevitabile che i proprietari terrieri dovessero abitare nelle città; ivantaggi materiali dell'appartenenza istituzionale al corpo cittadino erano scomparsicon la centralizzazione del sistema fiscale alla fine del III secolo. I1 sistemalongobardo di patrocinio statale su base urbana quantunque forte, non potevagareggiare con quello centralizzato, basato sulle tasse, del tardo Impero. E qualsiasistudente dell'Europa dell'inizio del Medio Evo conosce bene la deurbanizzazione digran parte dell'occidente durante i regni germanici. Lellia Ruggini ha sostenuto che iproprietari terrieri italiani lasciarono le città anche durante le dominazioni ostrogote,tuttavia la sua documentazione, si riferisce solo al Bruzio (moderna Calabria), zonamarginale da sempre9. La deurbanizzazione della parte occidentale fu per lo piùlimitata a quelle regioni, come la Britannia e la Gallia settentrionale, che menoavevano subito l'influsso di Roma. La Gallia meridionale, almeno nelle sue partiagricole fiorenti, rimase urbana; cosl fu per gran parte della Spagna; Le classisuperiori, romane e germaniche, della frangia mediterranea dell'Europa occidentale

8 Schiaparelli, 293.9 Variae, 8. 31; Ruggini, Italia annonaria, pp. 301-11, 350-9.

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continuarono a pensare che la vita urbana fosse il principale obiettivo sociale. Si èvisto che i Longobardi si erano insediati in città già nel VI secolo, senza dubbio sottol'influenza romana, che era meglio rappresentata dalla autorità ininterrottadell'episcopato. Continuità amministrativa significava che tutte le cariche importantirimanessero cittadine, quantunque non fossero diminuite dall'epoca del tardo Impero.E l'attrattiva della vita cittadina era essa stessa una forza che si perpetuava da sé.L'occasione per gli aristocratici di misurarsi con i loro pari era più facile in uncontesto urbano—se qualcuno costruiva una chiesa in città, altra gente potevamaterialmente vederla. Non vi erano più ragioni economiche determinanti per abitarein città, ma il vivervi per tutta una serie di valori che continuavano a sussistere, avevaun suo fascino. La preminenza ideologica della vita urbana in Italia nell'alto MedioEvo e chiara, e il soprawivere di istituzioni dello stato e della chiesa nelle cittàcontribul a dare solidità all'attività economica, anche se questa aveva basi meno solideche non sotto l'Impero. C'erano nobili di campagna, particolarmente negli Appennini,che non erano mai stati del tutto romanizzati nell'antichità. Al decadere dello statoitaliano nel nord, anche alcune delle più forti famiglie aristocratiche si ruralizzaronocome si vedrà. In un certo senso l’XI secolo in Italia, malgrado il suo fiorireeconomico e l'espansione urbana, vide al livello più basso la supremazia politica dellecittà, ma di per sé ciò mostra l'importanza della persistenza delle città come centroamministrativo dello stato fino ad almeno il x secolo. E anche nell'XI secolo, comedimostra il sorgere dei comuni, il bilancio è a favore della città.

I1 sistema clientelare amministrativo, ecclesiastico e aristacratico, basato sullaproprietà terriera, è sotteso a tutte le altre attività urbane. Anche i poveri della città nepotevano usufruire: dar da mangiare ai poveri era, fin dal tempo dei Romani, unaprova di munificenza civica, e questo ruolo fu assunto in vasta misura dai vescovi.Gregorio Magno e i suoi successori a Roma nell'VIII secolo, la consideravano unadelle destinazioni privilegiate delle rendite derivate dalle loro tenute10. Ma ilcommercio e il lavoro artigianale, basati sulla domanda aristocratica, erano unprocesso più vitale, e, nel suo sviluppo mercantile, l'Italia del primo Medio Evo eraben più progredita di ogni altra parte dell'occidente cristiano eccetto il sud arabo dellaSpagna.

I commerci presero l'avvio in modo deciso sotto la protezione e con la mediazionedello stato—altra tradizione romana. Rotari pose i mercati stranieri sotto la propriaprotezione. Liutprando (o Grimoaldo) sanci regole dettagliate, fissando i prezzi per lacorporazione dei costruttori, i magistri commacini, riguardo lavori specifici: coperturadei tetti, costruzione di muri, dipintura a calce, costruzioni di tramezze e finestre,scavo di pozzi. Ratchis e Astolfo imposero la licenza a tutti i mercanti— i mercantierano inaffidabili e privi di vere radici; potevano commerciare con i nemici e le loromerci potevano essere rubate. I re indubbiamente consideravano fissi i valori dei beni,quantunque la gente fosse spesso incline ad aumentarne i prezzi, specie in tempi dicarestia o al passaggio degli eserciti. I Carolingi emanarono leggi per salvaguardare ilgiusto prezzo delle merci, in particolare delle derrate alimentari. Queste erano usanzeben radicate nella società medievale, anche i comuni conservarono tali leggi. Di certoi prezzi cambiarono, ed anche il prezzo del terreno aumentò enormemente alla fine del

10 Giovanni Diacono, Vita Gregorii, 2. 24-30 (Migne, PL 75); Liber Pont., I, p. 502; cfr. « Papers of theBritish School at Rome », XLVI (1978), pp. 173-7.

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x secolo, ma il concetto di prezzo di mercato 'liberamente determinato', non eraaccettabile per la maggior parte degli italiani. Per prineipio i prezzi erano legati aibisogni sociali11.

Lo stato non s'interessava al commercio solo per via della pace sociale. I mercantipotevano far la guerra; nel 750 Astolfo promulgò una Iegge per determinare quali tipidi armi i mercanti più o meno importanti dovessero portare quando fossero chiamati aservire nell'esercito. E i mercanti pagavano dazi al governo, che poteva ricavarne ungettito notevole. Liutprando e i re che gli successero stipularono trattati con le gentidei territori bizantini lungo l'Adriatico, prima con quelli di Comacchio, poi conVenezia, determinando quanto dovessero pagare ad ogni porto lungo il Po ed ai suoiaffluenti: a Mantova, alla bocca del Mincio, ai porti di Brescia, Parma, Cremona, allaconduenza dell'Adda, Piacenza, e a quella del Lambro12. Anche i luoghi di mercatodovevano pagare dazi. Infatti quasi tutto ciò che si sa dei mercati nel periodo in esamederiva da donazioni dei dazi sui mercati fatte alle chiese sotto gli ultimi Carolingi e iloro successori. Prima dei Carolingi dobbiamo ipotizzarne l'esistenza. I1 resocontopiù dettagliato di tali entrate è in un testo dell'inizio dell'XI secolo noto col titolo diHonorantiae Civitatis Papiae, in cui si descrive una situazione dell'inizio del X secolo,quantunque alcuni dettagli debbano essere successivi. Elenca le tasse dovute daimercanti venuti in Italia attraverso le Alpi; le regalie particolari dovute alle autorità eal palazzo di Pavia dal re d'Inghilterra e dal doge di Venezia per compensarle con idazi dovuti dai loro mercanti; le percentuali da pagare ai monetieri pavesi e milanesiin cambio delle operazioni di conio, e le quote che essi dovevano al palazzo; le tassedovute dai cercatori d'oro dei fiumi dell'Italia settentrionale, dai pescatori, cuoiai, daifabbricanti di sapone di Pavia, e così di seguito13. Queste professioni sono tutteorganizzate in ministeria che a molti storici sono sembrati discendere dallecorporazioni dell'Impero o dalle schelae dell'Italia bizantina. Ciò non è mai statodimostrato e non v'è continuità nel contesto sociale di tali organizzazioni: lo statocontrollava tutta la struttura amministrativa delle corporazioni sotto l'Impero, ed èmolto opinabile lo abbia fatto anche dopo il 568. Ci deve essere stata almeno lacontinuità dell'addestramento sistematico e della qualificazione dell'artigianato nelperiodo che analizziamo, e già nell'VIII secolo si trova documentazione sui magistri,maestri artigiani, in diversi settori-costruzioni, ferro, notariato. Ciò che sappiamodell'artigianato proviene da fonti disparate, sempre in via indiretta: cessione di dirittida parte dello stato, acquisizione di terreni da parte di artigiani affermati, liste ditestimoni. Tuttavia abbiamo testimonianza di una vasta gamma di commerci già neisecoli VIII-IX: artigiani dell'oro, argento, rame, ferro; fabbricanti di pellami, sapone,stoffe, costruttorì civili e navali. C'erano anche estrazioni minerarie: sale, oro (come siè già visto) e argento al vescovo di Volterra furono dati nell'896 dal marchese diToscana i proventi fiscali derivanti dalle miniere di Montieri14.

11 Rotari 367, Grimoaldo/Liutprando, Memoratorium de mercedibus magistri Commacinorum, Ratchis13, Astolfo 4-6; MGH Capitularia, I, 28 c. 4, 88, II, 217 c. 10 Cfr. G. Duby (B5-a), pp. 48-70; K.Polanyi, CM. Arensberg, H.W. Pearson, Trade and Market in the Early Empires (Glencoe, Illinois,1957), pp. 243-7012 Astolfo 3; L.M. Hartmann (B5-b), pp. 1234; MGH Dipl. Karol., I, n. 132 Capitularia, II, 233-41.

13 Honorantiae, MGH S.S., 30. 2, pp. 1450-9; per i meseieri, U. Monneret de Villard, L'organizzazioneindustriale nell'Italia longobarda (B5-6) rimane ancora un classico; per i mercati: F. Carli (B5-a).14 l testo è andato perduto; cfr. F. Schneider (B3-b), p. 268 n., e ibid., Bistum und Geldwirtschalt, QF,VIII ( 1905), pp. 81-2.

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Le linee fondamentali dell'attività commerciale italiana erano probabilmente statedelineate in vista del commercio del sale poiché il sale è la merce più antica. E’sempre stata un bene necessario, specie nei climi caldi. I1 sale italiano veniva dallacosta: le lagune adriatiche, le piane di Vada a sud di Pisa, la foce del Tevere. I1traffico da Vada a Lucca e Pisa può essere ricostruito hn dal 760 (esistono anchetestimonianze nel v secolo) e fu all'origine dell'attività marittima di Pisa. Ma ilcommercio del sale adriatico, ben più visibilmente, era la base di tutto il commerciodell'alto Medio Evo nel Nord. La gente di Comacchio alla foce del Po, nell'VIIIsecolo, portava sale nel Nord. All'inizio del IX secolo i cremonesi cominciarono aprendere parte a tale attività, e presto comprarono barche per commerciare in proprio.Lo si sa in quanto nell'852 reclamarono senza successo l'esenzione dei dazi a favoredel vescovo nel porto di Cremona, esordio di due secoli di dispute sempre più accesefra il vescovo e i cittadini di Cremona15. Altre città hanno forse avuto uguale sviluppo.Comacchio, piccola città dipendente dal suo monopolio, forse ne risentì. I1 centro chene beneficiò fu Venezia, l'isola di Rialto, ove il duca bizantino della costa adriaticaaveva trasferito di recente la propria residenza. All'inizio del IX secolo i venezianicominciarono ad assumere il controllo del tratto terminale della rotta commercialebizantina, assicurandoselo nell'889 quando assediarono e diedero alle fiammeComacchio. Ma Venezia, ultimo collegamento del Nord Italia con Bisanzio, era inposizione favorevole per far entrare in Italià ben numerose merci oltre il sale. Prestoqueste aumentarono di volume ed importanza. I mercanti veneziani a Pavia al tempodelle Honorantiae presentavano doni ufficiali al ciambellano del re, doni cherispecchiavano la varietà delle loro mercanzie: una libbra di pepe, cannella, galanga(una radice aromatica) e zenzero; e un pettine d'avorio, uno specchio o accessori dibellezza per la sua sposa. Importavano anche oggetti d'arte e stoffe bizantine; lacontroparte comperava schiavi, grano e tessuti italiani. Gran parte di questi scambiavevano base a Pavia. Metà dei vescovi del regno vi avevano casa, e questafunzionava come deposito delle merci oltre che come base per accedere a corte.

I Veneziani, anche la più alta aristocrazia, privi di entroterra agricolo, eranopraticamente forzati ad esercitare il commercio. Già nell'829 il doge di Venezia,Justinianus (Giustiniano Partecipazio) quantunque proprietario terriero in terrafermanel regno d'Italia, fece riferimento nel suo testamento ad un investimento di 1.200libbre di solidi « liquidi, se non vanno perduti lungo il viaggio per mare », primoriferimento nella storia medievale all'investimento di capitali. Su di esso i Venezianisi basarono nei secoli successivi. Nel 992 avevano occupato la maggior parte dellacosta dell'Adriatico ed avevano ottenuto privilegi commerciali immensidall'imperatore d'oriente. Dal 995 erano in posizione da poter bloccare gli sbocchisull'Adriatico delle altre città d'Italia. I1 loro futuro aveva solide basi16.

I porti principali del regno d'Italia, Pisa e Genova, divennero tali nell'XI secolo,quantunque almeno Pisa vantasse una ininterrotta tradizione marinara a partire dal VIIsecolo e anche da prima. Le città dell'interno offrono indici migliori dello sviluppocommerciale ed urbano dei secoli IX e X, in particolare Milano. Milano non èparticolarmente ben documentata prima dell'ottocento, ma di lì in poi, in gran parte

15 Manaresi, 56.16 Honorantiae c. 5; Colice diplomatico Padovano, a cura di A. Gloria (Venezia, 1877), n. 7 (829); cfr.G. Luzzatto (Bs-b), pp. 4-16.

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attraverso gli archivi del monastero di S. Ambrogio, la documentazione inízia adaumentare velocemente. Nel IX secolo osserviamo all'opera lo stesso modello disviluppo di Lucca, con artigiani benestanti e mercanti che acquistano terreni. Alcunimercanti erano protetti dal monastero di S. Ambrogio e citati come tali nei documenti(anche S. Giulia di Brescia aveva simili protetti, ed aveva anche ottenuto da LodovicoII l'esenzione fiscale per uno di loro, Januarius, nell'861). Dalla fine del IX secolo inpoi tali menzioni crescono di numero. Nel 900, il commercio a Milano fioriva; dopola metà del X secolo i prezzi degli immobili aumentarono vertiginosamente. Accadeora che famiglie rurali si trasferiscano in città: due famiglie da Cologno, ad est dellacittà, nella prima metà del X secolo; una di Trivulzio, a sud, i discendenti di Ingo, dal970 in poi. Gli 'Ingonidi' persero il controllo della maggior parte delle loro terre afavore di mercanti e monetieri della città, non appena vi si stabilirono. Talemutamento di situazione venne perfezionato attraverso i matrimoni, essi infatti sisposarono all'interno di quei gruppi sociali: ancora mercanti, giudici, le classiprofessionali17. Il mescolarsi di attività professionali e commerciali—possiamoaggiungere anche ecclesiastichc era caratteristica di tutto lo strato medio nellapopolazione della città, fascia che divenne capace di azione autonoma nel secolosuccessivo associandosi con la classe ben più potente dell'aristocrazia terriera. I1commercio non era la base principale del cambiamento sociale di Milano, ma di certoaveva maggior peso che a Lucca. Era per lo meno un elemento nella crescita dellostatus della città, che sottendeva un'espansione abbastanza rapida della popolazione diMilano. La nuova importanza sociale dei mercanti indicava tuttavia meno ilriconoscimento dell'esistenza di un benessere commmerciale come fonte di statussociale, che non l'abilità e il desiderio di mercanti affermati di acquistare terreni. Laterra era ancora la base del potere politico.

In questa discussione, in un certo senso siamo andati troppo in là. La Milano dellafine del x secolo era situata in un contesto assai diverso da quello di un secolo prima:l'intera struttura politica era mutata. Gli interessi del nuovo strato sociale, quello deimercanti (non si poteva ancora parlare di classe) potevano in alcune città,specialmente Cremona, inddere sull'equilibrio fra vescovi e aristocrazia laica nelmondo carolingio e post-carolingio, ma lo si capirà meglio nell'ultimo capitolo,quando le vicende saranno esaminate in un contesto politico. Ciò è importante inquanto fra gli storici c'è una forte tendenza ad isolare la crescita commerciale e leattività dei mercanti dalla società che li circonda; a considerare, per così dire, la pulaanziché il grano. Ma l'attività dei membri di un gruppo marginale, a prescindere daquanto abbiano in mano il mondo futuro, è incomprensibile al di fuori del contestosociale globale. Artigiani e mercanti erano strettamente inseriti nella società e nesubivano il controllo, dal momento che essa comperava i loro prodotti. E, ancora allafìne del x secolo, avevano stretti legami con lo stato. I monetieri, ad esempio, la cuiattività era uno dei ministeria delle Honorantiae, non erano artigiani indipendenti:rappresentavano lo stato, battendo moneta per esso sotto licenza, soggetti a regolerigide in merito al peso e all'autenticità delle loro coniazioni. La concentrazionedell'attività commerciale a Pavia, in particolare nel secolo a cavallo dell'anno 900, erasolo il risultato degli interessi e delle necessità dell'apparato amministrativo statale, edopo che il palazzo venne incendiato nel 1024 la città perse velocemente terrenorispetto a Milano, che forse era rimasta la più grande città del Nord sin dall'antichità, e

17 Violante (B3-f), pp. 115-34; G. Rossetti, Società e istituzioni nel contado Lombardo (B3-t), pp. 172-82; Porro, 211 per Brescia.

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che pertanto era un nodo commerciale più ricco. Forse il commercio sarebbe potutoesistere in forma abbastanza fiorente senza che lo stato vi partecipasse, specie agliinizi del commercio internazionale che prese awio nel x secolo con il diminuire dellescorrerie arabe; ma era ancora per la maggior parte, dipendente dal potere d'acquisto equindi dal rango sociale dell'aristocrazia. Non vi è alcun vantaggio nel trattare l'Italiadel x secolo come precursore della « rivoluzione commerciale » avulsa da ognicontesto sociale ed economico.. Non è neanche detto che aiuti la comprensionedefinire l'Italia una « economia del denaro », anche se il denaro era, almeno nel 700,facilmente ottenibile, ed usato per la maggior parte delle transazioni di cui esistetraccia. A1 di fuori del mercato urbano, la maggior parte dei commerci avveniva incontesti sociali entro i quali non era determinante l'uso del denaro come mezzo discambio, sia in mercati locali, sia, addirittura, al di fuori dei mercati. La maggior partedella popolazione era al di fuori di questo commercio internazionale; come i signoriterrieri, viveva esclusivamente della terra.

Agricoltura e mutamenti sociali nella campagna

La campagna era tanto primitiva quanto la città era sofisticata. Gli aratri appaionosolo occasionalmente nelle nostre fonti, ma zappe, vanghe, sarchie sembra siano statigli unici attrezzi accessibili alla maggior parte dei contadini. Buona parte dell'Italiaera ancora coperta da foreste o paludi e, sebbene il periodo fra l’VIII e l'XI secolo siastato il periodo del disboscamento medievale in Italia, non portò a variazioni delletecniche. Non ci furono grandi sviluppi tecnologici nell'agricoltura italiana alto-medievale, a parte il rapido affermarsi del muIino ad acqua, caratteristica tipica diogni villaggio dal 1100. L'unica eccezione di rilievo fu costituita dalla Sicilia araba, aldi fuori del campo di studio di questo libro, ove fra il IX e il XII secolo fu iniziatatutta una serie di nuove colture ed introdotta una sofisticata rete d'irrigazione.

Nel primo capitolo ho dato risalto alla diversità geografica dell'Italia romana. L'Italiaalto-medievale non era meno differenziata, e, dall'VIII secolo in poi la relativaprecisione dei documenti ne fa risaltare ai nostri occhi il contrasto. L'uso della terra,l'alimentazione, l'insediamento, il sopravvivere di contadini liberi, la condizione deipossessori, il cambiamento della struttura delle grandi aziende possono variaretotalmente fra i territori delle diverse città, fra zone montane e zone pianeggianti, fravalli vicine. Anche all'interno di un territorio le differenze sono enorrni—fra lepianure coltivate più elevate e le colline della provincia di Parma e le foreste diquercia delle paludi del Po a nord, o i pascoli di argilla e le foreste di faggio degli altiAppenníni a sud. Talvolta si hanno prove sufficienti per collegare a tali contrasti ledifferenze di struttura sociale. Gli storici e, ancor più, gli archeologi italiani hannolavorato parecchio su queste differenze, in particolare nell'ultimo decennio. Un brevestudio come questo non esaurirà l'argomento; voglio solo delineare il problema ncllesue linee fondamentali e nella sua evoluzione. Ma le eccezioni sono presenti, ad ogniistante. Alcune di queste analisi generali si applicano anche all'Italia meridionale, manel capitolo sesto verranno esaminate proprio le caratteristiche tipiche del sud.

L' effettivamente possibile che i contadini fossero la classe che meno risenti della finedell'Impero e delle guerre del VI secolo. L'aristocrazia romana dei proprietari terrierifu parzialmente sostituita da quella longobarda; i Longobardi di livello inferiore(compresi gli schiavi) s'insediarono sui terreni a fianco di schiavi romani e di coloni.

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Tuttavia essi erano relativamente pochi rispetto alle dassi agrarie romane; e, di frontealla realtà della vita economica in Italia, gli agricoltori longobardi persero la propriaidentità. Si è visto che i Longobardi avevano adottato le leggi romane sulla proprietàterriera; con 1'VIII secolo non v'è più modo di distinguere i Longobardi dai Romani inbase alle loro azioni. Queste realtà economiche furono semplicemente le reazionitradizionali dei contadini romani verso il loro ambiente. I contadini non si dedicano adesperimenti agricoli—hanno troppo da perdere. E anche la devastazione della guerranon sembra far gran differenza sul modo col quale i sopravvissuti coltivano la terra,una volta ricostruite le loro scorte di grano da semina o ripiantate le vigne distrutte.Guerre e catastrofi possono sminuire lo status di indipendenza dei contadini, se questisi pongono sotto la protezione dei signori (volontariamente o no) per avere da loro imezzi di sostentamento; ma essi continueranno a coltivare la terra nello stesso modo.E nel VI secolo, come si è visto, i proprietari terrieri erano anch'essi molto vulnerabili.it anche possibile che alcuni contadini siano sfuggiti al loro controllo. Letestimonianze dell'VIII secolo rivelano con certezza la presenza di piccoli proprietariterrieri in numero superiore a quanti in genere si pensi esistessero nel tardo Impero.Ovviamente alcune cose cambiarono. La tassa sul terreno, che aveva provocatol'abbandono delle campagne, cessò d'essere applicata nella maggior parte d'Italia, equei pochi progetti economici su vasta scala cui lo stato partecipava, scomparverodefinitivamente. I1 sistema di bonifica delle valli del Po e dell'Arno cessò; laceramica africana che domina nei siti archeologici tardo-romani, comprese lemasserie e i villaggi agricoli, non fu più disponibile in Italia subito dopo la fine del VIsecolo (con grande svantaggio per i nostri studi sugli insediamenti alto-medievali;finora abbiamo ben pochi tipi di ceramica come guida per i due secoli che seguono).Ma senza un calo improvviso e massiccio della popolazione, del quale non v'è prova ospiegazione possibile, non ci si possono aspettare grandi cambiamenti nell'agricolturacontadina del prisno periodo medievale18.L'agricoltura contadina consisteva, almeno nelle pianure italiane, nella triadefondamentale mediterranea formata da grano, vino e olio integrato da fagioli e fruttache in genere crescevano nei piccoli orti cintati che ogni contadino alto-medievalecoltivava. Questa struttura non era cambiata molto dai tempi romani; Cesare non siera preoccupato di dare carne alle sue truppe fino a quando, nel 52 a.C., esse nonstavano per morire di fame nella Gallia centrale. Da allora le cose non erano cambiatetanto. Che gli Italiani dell'alto medioevo vivessero in questo modo si vede bene datesti dell'VIII secolo scritti in luoghi diversi del Lazio, della Toscana e della pianuraPadana, che elencano le razioni giornaliere date ai poveri da associazioni benefichecollegate a chiese di fondazione privata. Tali scritti possono considerarsi esempi diuna specie di « norma» nelle diete dei contadini, almeno com'era idealizzata daiproprietari terrieri; l'inventario dei cibi è probabilmente accurato, quantunoue le dietevere abbiano potuto avere grandi variazioni nella quantità. A Lucca nel 764 Rixsolfoindicò come razione giornaliera per una persona un pane di frumento, un quartod'anfora di vino, e la stessa quantità di un miscuglio di fagioli e farina di panico « benpressata e condita con grasso o con olio ». Altre erano molto simili, sebbene spesso sipreferisse il lardo all'olio e il miscuglio (chiamato pulmentario) talvolta comprendesseanche un po' di carne. Questa alimentazione assunta per anni e anni, doveva risultarenoiosissima. Fra i poveri, l'uso della carne era limitato ad occasioni particolari, e perquesto scopo ogni famiglia contadina aveva qualche animale, forse un maiale, una

18 Guide generali si possono trovare nelle opere di P.J. Jones elencate nelle sezioni bibliografiche A5-a,Bs-c; più di recente, La storia economica (Bl), pp. 1555-1681.

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vacca e una gallina; ciò bastava anche per i regali annuali di animali vecchi di un annoche si solevano fare assieme ai canoni in natura o denaro nei contratti dei secoli VIII eIX19.

Queste diete sono l'unica testimonianza di ciò che la gente mangiava; ma abbiamo unadocumentazione maggiore riguardo la distribuzione dell'uso agricolo del suolo inItalia, e questa distribuzione come si vedrà era diretta principalmente a soddisfare lenecessità di una economia contadina. La struttura si perpetua: una preponderanzaassoluta di terreno arabile (specie nelle zone pianeggianti) e di vigne (specie nellecolline). I prodotti dei terreni arabili, come si può vedere nei canoni, erano per lo piùdiversi tipi di cereali. In Toscana predomiriava il frumento; nella pianura Padana, lasegale era più comune. I cereali inferiori erano molto meno diffusi, quantunque siapossibile che i signori si prendessero i migliori tipi di cereali, lasciando ai loroaffittuari quantità maggiori di avena e miglio. In genere gli Italiani seguivano ilsistema dell'alternanza delle colture, ma possono talora aver coltivato legumi (piselli efagioli) nell'anno del maggese. Se è così, è un uso abbastanza sofisticato del terreno,ma è in contrasto con i raccolti scarsi che si possono calcolare in base ad alcuniarchivi del x secolo dell'Italia settentrionale, specie da quelli di S. Tommaso diReggio, che non sempre raggiunsero il rapporto 3 ad 120.

Gli uliveti e la cultura specializzata dell'olivo in paragone erano rari, sebbene parecchimonasteri dell'Italia settentrionale avessero terreni sui laghi italiani dove hannocoltivato ulivi forse anche per la vendita sui fianchi delle colline rivolti a sud (inquantità forse maggiore che non oggi). Più comune, particolarmente in Toscana, era la« coltivazione promiscua »; la coltivazione di olive e cereali sullo stesso terreno,pratica che fino a poco tempo fa, per tutta una serie di motivi, veniva considerata unsegno distintivo della sofisticazione agricola. Anche le viti spesso devono essere statefatte crescere in modo promiscuo. L'e spressione terra vitata o terra cum vineissuperposita, terra arabile con vigneti, è comune, specialmente in Toscana e nel sud.La vite, tuttavia, era fatta crescere sola in tutta l'Italia, e dopo il x secolo, specienell'Italia centrale, si trovano contratti di pastinatio con gli affittuari che provocano uncambiamento nello sfruttamento agricolo, da terreno da cereali (o terra incolta) avigneti. In questi casi i proprietari terrieri devono aver considerato le viti comeraccolto commerciale. Tali contratti sono solo una piccola parte delle locazioni giuntefino a noi. Generalmente sembra che i proprietari si siano accontentati di avere unapercentuale dei tipi di prodotto che i contadini coltivavano per sé, base della loroalimentazione, e ciò significa che cereali e vino erano richiesti in quantità nontrascurabili.

I Longobardi, con l'esperienza di vita nelle foreste dell'Europa centrale, valutavanol'allevamento più della maggior parte dei contadini romani. I1 codice delle leggi diRotari, pur trattando anche i reati agricoli (furto di frutta, danneggiamento o taglio diviti, coltivazione di terreno altrui), tratta estesamente i problemi legali dell'economiaagricola mista e di quella puramente pastorale. Si trovano pene per ferite ad animali 19 Schiaparelli, 194; cfr. 218, 2g3; Barsocchini, 231, 273; Mem. de Mac. Com. S; Liber. Pont., I, pp.501-2; Cesare, Guerra Gallica, 7. 17.

20 M. Montanari, Cereali e legumi nell'alto medioevo (Bs-c); V. Fumagalli, Rapporto tra granoseminato e grano raccolto nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio, R.S.A., vl (l966), pp.360-2.

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provocate da rami di siepi sporgenti, per furto di una cavezza, per morti provocate dacavalli, uccisione di vacca gravida, danni provocati da animali su terreno altrui o nellestrade del paese, furto di verro (con provvedimento speciale nel caso di sonorpair, ilcapobranco di un insieme di oltre trenta animali) e così via21. Da ciò si è spessoconcluso che il periodo longobardo fu l'epoca d'oro dell'allevamento e dell'economiasilvo-pastorale, e che il ritorno all'agricoltura si ebbe solo con i grandi riassetti deisuoli del IX secolo. Ciò è improbabile. Rotari legiferava per il suo popolo; ma pochierano i contadini longobardi, e questa parte del codice forse aveva poca importanzanel contesto generale dell'Italia. La maggior parte della pianura italiana continuava adessere coltivata allo stesso modo di prima, e ciò significava per i suoi abitanti unaalimentazione fondamentalmente vegetariana.

Tuttavia al di fuori delle zone coltivate d'Italia, nelle paludi del Po o negli altiAppennini, prevaleva un regime più pastorale. All'epoca romana le montagne e lepaludi erano collegate da transumanza sistematica fra i pascoli in quota estivi e quelliinvernali nella pianura. Ciò è meno evidente nel nostro periodo ma certamenteesisteva ancora il contrasto fra l'agricolutra e pastorizia. Nel 772 Desiderio donò a S.Salvatore in Brescia 4.000 iugera (1050 ettari) di foresta nella bassa emiliana,chiaramente delimitati da alberi contrassegnati; quale terreno incolto poteva averepoco valore se non per l'allevamento di porci. S. Salvatore, sotto il nuovo nome di S.Giulia, lasciò una documentazione sistematica delle rendite delle sue proprietà, un «polittico », che risale circa al 900. Calcoli recenti delle risorse agricole degli aílittuaridi S. GiuIia, assieme a quelli del monastero appenninico di Bobbio (i cui politticirisalgono all'862 e all'883) indicano rendite così basse che sembra probabile sianostati aiutati dalla pastorizia. La maggior parte degli affittuari pare esser vissuta conuna media di 100 chilogrammi di cereali all'anno—in alcuni casi meno di 64chilogrammi, ben al di sotto del minimo vitale. Questi dati possono essere visti comeindicativi di una minore importanza dei cereali nelle zone marginali, in montagna enella bassa pianura, ove la terra era per lo più proprietà di monasteri; ma ciò non puòspiegare tutti i risultati che ancora oggi non sono chiariti. Gli schiavi domestici di S.Giulia, tuttavia, il più delle volte insediati nella zona centrale coltivata dellaLombardia, venivano nutriti esclusivamente con cereali in quantità fino a sei voltequella degli aífittuari, se i dati del polittico son esatti22.

Non si può dire quanta parte d'Italia per esempio nell'800 fosse tenuta a pascolo,boscaglia, palude o bosco non coltivato; forse la maggior parte del terreno che si trovaa quota superiore ai 500 metri eccetto la maggior parte delle valli di montagna; al disotto di questa quota soltanto i terreni vicini ai grandi fiumi, e alcuni dei terreni piùsterili in collina, come nella Toscana centrale o nelle Murge in Puglia, sebbene cifossero certamente anche fasce di terra boschiva sulle zone di maggior insediamentodelle pianure particolarmente del nord. Tuttavia nel IX secolo, forse anche nell'VIII, sicominciano a vedere segni di dissodamento sistematico, per lo più ad opera deimonasteri, sebbene questa preminenza sia forse imputabile al miglior stato diconservazione dei loro archivi. Ad esempio Nonantola disboscò la foresta di Ostiglia 21 Rotari 284-358.

22 Per le foreste: Bruhl, 41 (cfr. anche Brahl 24). Per i polittici: Inventari (B21. Cfr. M. Montanari,L'alimentazione contadina nell'alto medioevo (Bs-c) per le cifre. L'archeologia aiuterà presto arisolvere questo problema; cfr., per esempio, G.A.M. Barker, Dry Bones, Papers in ItalianArchaeology, I (A5-c), pp. 35-49.

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sul Po a partire dall'inizio del IX secolo; a metà del secolo la gente tornava neidintorni della città di Brescello, e a partire dalla fine del x secolo troviamo ancoratraccia di una famiglia laica di proprietari terrieri, il casato di Canossa, che organizzòil disboscamento nella stessa area. Nell'Appennino centrale, a nord di Roma, ancheFarfa è impegnata nel disboscamento, forse in gran parte basato sul lavoro dicontadini pionieri indipendenti dei secoli VIIl e IX23. E' questa attività, diretta verso legrandi foreste o verso i boschi delle zone da tempo oggetto di insediamenti (ove ladocumentazione è pet lo più costituita da casuali riferimenti e occasionali toponimi),che segna il vero dinamismo economico dell'Italia alto medievale più che l'aumentodel commercio internazionale di lusso. Sembra che esso vada collegato con unacrescita demografica; per lo meno la suddivisione dei poderi in affitto, e l'aumento deiprezzi dei terreni comuni alla fine del X secolo hanno portato gli storici a concludereche la popolazione aumentava. E’ oggi impossibile dire se i contratti d'aíffittofavorevoli concessi ai coltivatori pionieri da parte dei monasteri—assieme ad unleggero sgravio dei gravami impo sti ai servi concessionari di quasi tuttal'Italia—fossero la causa di una maggiore prosperità e quindi di famiglie piùnumerose, e se la pressione della popolazione fosse essa stessa la spinta aldisboscamento che si rese visibile solo al suo diminuire (se fu così) dopo il 950.L'archeologia in futuro forse potrà darci indizi circa la pressione sulle risorse, maattualmente vi sono troppo pochi reperti per avere una risposta.

L'archeologia tuttavia ci è più utile ed è in grado di fornirci notizie sugli insediamentialtoınedievali, prima dei cambiamenti nell'habitat che presero l'avvio all'inizio del xsecolo, noti generalmente col termine incastellamento e che portarono allapreponderanza di insediamenti compatti in alcune parti d'Italia, e ad unaconcentrazione parziale di insediamenti entro e attorno centri fortificati, in altriluoghi. Si pensa che l'habitat dell'Italia romana sia stato sparso e ciò è avvalorato siada ricerche archeologiche, che riscoprono ville e masserie sparse, sia da ricerchestoriche, che descrivono la campagna romana come formata non da villaggi, ma daunità fondiarie, massae e fundi, insiemi frammentari di proprietà che in genereprendevano il nome da qualche precedente proprietario, come massa Firmidiana ofundus Domitianus. Non è chiaro come ciò funzionasse sotto l'aspettosociologico—ad esempio è difficile dire come i contadini inserissero le loro proprietàin questo contesto, a meno che i fundi non fossero molto piccoli. I1 latino classico hauna parola per villaggio, vicus, e nei nostri testi si possono trovare vici che mal siadattano a questa struttura, ma non è certo se fossero modi alternativi di organizzare ilterritorio o solo nuclei insediativi isolati (uno o due sono stati scoperti dagliarcheologi).

Sotto i Longobardi troviamo un quadro chiaro di villaggi in Italia, chiamatiindifferentemente vici, loci, casalia, villae e con altri nomi locali più tipici. Essi sisostituirono a massae e fundi come unità dell'organizzazione territoriale (quantunquequeste ultime abbiano continuato ad essere usate fino ai secoli X e XI nelle zone cheprima erano state bizantine nel centro e nel nord); i territori dei villaggi essendodefiniti geograficamente, furono certamente più flessibili e permanenti rispetto alleunità fondiarie. E' tuttavia assolutamente poco chiaro cosa significasse questo

23 Cfr. Ie opere di V. Fumagalli nella sezione bibliografica B5-c; P. Toubert (B3-f), pp. 339-48 e notecitate.

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cambiamento per i contadini. I villaggi potevano essere ad un capo o all'altro del piùampio spettro dei tipi di insediamento, da nuclei accentrati, anche fortificati, a casecosì sparse che i confini tra i territori dei villaggi erano diflicili da conservare; sembrache talvolta non si potessero neanche distinguere gli abitanti dei diversi villaggi.L'agricoltura mediterranea non richiede grande cooperazione, dato che sonorelativamente pochi gli animali da far pascolare liberi su terreno, fondamento usualedella cooperazione, ma un informale aiuto ad hoc era senza dubbio dato dagli abitantidel villaggio. Cesario d'Arles, negli anni attorno al 510, descrisse l'aiuto dato daivicini e dai congiunti ad un uomo che ripristinava un vigneto, in una parte della Galliamolto simile all'Italia. Tuttavia, in zone da pascolo l'azione comunitaria era piùimportante, e nel IX secolo si vedono diversi villaggi situati in tali zone agire in modocollettivo nelle cause.

Come questi villaggi si siano sviluppati dal periodo romano, o, anche, se sianorealmente sempre esistiti, è un problema che solo gli scavi archeologici ci potrannoaiutare a definire nell'immediato futuro24.

Possiamo essere sicuri sulle alterne fortune di diversi strati di contadini, e dei lororapporti con i proprietari terrieri, in quanto su tali argomenti la documentazione èricca: lo schema generale è abbastanza noto. Nel tardo Impero la produzioneschiavistica dei secoli I e II era già sparita, e sono documentati rapporti fraproprietario terriero e concessionario che diverranno caratteristici dei secolisuccessivi, assieme alla permanenza di coltivatori proprietari. I1 meccanismo diequilibrio fra le due forme è di didicile comprensione. Spesso si è pensato che icoltivatori proprietari siano stati assorbiti da grandi aziende, ma di certo alcunisopravvissero, particolarmente in montagna. I1 termine tardoromano colonus potevasignificare sia libero concessionario sia coltivatore proprietario, e spesso c'è ambiguitàfra le due accezioni. Lo stato tassava ambedue ed esigeva anche dai proprietariindipendenti che abitassero sul fondo. Tuttavia non vi era motivo che i coloniabitassero sempre sul fondo. La legislazione tardo-romana è piena di lamenteleriguardo alla partenza di coloni (ma per dove?) e il conseguente abbandono dei terreni(agri deserti) che erano un'alta percentuale della terra agricola che andava perduta allafine dell'Impero. Talora s'impiegavano ancora schiavi per coltivare direttamente ifondi dei loro padroni, ma erano allora casati, alloggiati nelle case coloniche comeconcessionari servili.

Sarebbe impossibile generalizzare in merito al modo di coltivazione dei fondi delperiodo tardo-romano. Nel territorio di Padova attorno al 550 gli affittuari (coloni)della Chiesa di Ravenna erano già obbligati ad eseguire pesanti lavori manuali suidominici dei loro padroni, da uno a tre giorni alla settimana (e pagavano un canone didenaro, e regalie di miele, lardo e pollame). Questa è la prima testimonianza che siconosca in qualsiasi luogo, e l'ultima per due secoli, del sistema bipartito, noto inInghilterra col termine « manorial system » e in Italia come sistema curtense:dominico coltivato col lavoro diretto degli affittuari e una serie di terreni coltivati daaffittuari tenuti a prestare opera oltre che a pagare il canone. Certo nell'Italia del VIsecolo non era un sistema universale. Gli amministratori dei beni pontifici in Sicilia al

24 C Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati... (Bs-c), pp. 317-26; « Archeologia Medievale», v (1978),pp. 495-503; Pap. Brit. Sch. Rome, XLVII (1979). Caesarius Arles, Sermones, I, 67, a cura di G. Morin(Corp. Christ. Ser. Lat., CIII, 1953).

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tempo di Gregorio Magno (590-604) non richiedevano prestazioni d'opera dai lororustici, quantunque pretendessero molte altre cose. Nei primi anni di pontificatoGregorio mandò parecchie lettere ai suoi rappresentanti onde correggerne gli abusi.Sembra che in Sicilia ai contadini venisse in genere richiesto di pagare come canonel'equivalente in cereali di una cifra fissa, che variava col prezzo dei cereali stessi. Gliamministratori erano disposti a mantenere artificiosamente bassi questi prezzi, e arichiedere misure esagerate di cereali in cambio del loro denaro, oltre a dirittisupplettivi e regali di nozze. Arrivavano fino ad espropriare i propri vicini. Tuttavia laprestazione obbligatoria di mano d'opera è totalmente assente; gli affittuari pagavanosolo canoni. Per parecchi secoli successivi questa sarebbe rimasta una caratteristicadel sud. Si deve qui infine valutare un altro aspetto connesso ai possedimenti diGregorio: gli affittuari dei fondi di Gregorio erano sia uomini liberi che schiavi, masembra che tutti fossero legati alle terre avute in concessione, ed avessero canonifissati da consuetudini. Già attorno al 590 anche all'esterno delle aree « curtensi »d'Italia, si riscontra la fusione fra liberi e non liberi, che viene generalmenteconsiderata la base dello strato di concessionari nella società contadina medievale25

I Longobardi, come si vede nell'editto di Rotari, avevano una triplice classificazionedella società: l'uomo libero, l'aldius, e lo schiavo. L’aldius in genere tradotto con vagotermine di « semi-liberò », era per sempre sotto la protezione del suo padrone, ed eravincolato a servirlo; lo schiavo era, almeno all'inizio, soltanto un bene. Questaclassificazione, come quella romana, cominciò a perdere vigore di fronte allarelazione economica fra proprietario terriero e affittuario. In particolare, gli aldiicominciarono a sparire. Vengono citati occasionalmente nei testi del IX secolo, comedipendenti privilegiati, specialmente come corrieri. Talora gli affittuari rivendicaronol'appartenenza alla categoria degli aldii di fronte alla giustizia (la miglior condizionedei non liberi) per salvaguardare la natura consuetudinaria del loro diritto. I liberi e glischiavi longobardi divennero molto simili a quelli romani, quantunque il liberolongobardo fosse molto più indipendente del colonas romano: non era legato al fondo,aveva la responsabilità di prestare servizio militare e di comparire in tribunale, ealmeno al tempo di Rotari era ancora, in teoria, su un piano di legale parità conl'aristocrazia. I1 termine colonus quindi significava solo affittuario.

Nel 727 gli sviluppi futuri già si palesano in una legge di Liutprando che esordisce:

Se un libero, che vive da libellarius (titolare di documento d'affitto) su un terrenoaltrui, si rende responsabile di omicidio e fugge, il proprietario del fondo sul qualevive l'omicida ha un mese di tempo per trovarlo; (se non lo trova deve pagare metàdel valore dei beni mobili dell'omicida)26.

I liberi longobardi si stavano trasformando in locatari, e ciò non aveva solo effettieconomici; era anche una diminuzione del loro status. I contratti dell'VIII secolospesso contenevano clausole che stabilivano che i locatari erano legati alla terra e, conquesta legge, i loro padroni gia si assumevano notevoli responsabilità nei lororiguardi. I1 loro status cominciava ad avvicinarsi a quello dei concessionari non liberi. 25 Tjader, Papyri Italiens, n. 3; Gregorio, Epp., 1. 39a, 42; 2. 38. J.C. Percival, Seigneurial aspects ofLate Roman estate management, « English Historical Review », LXXXIV (1969), pp. 449-73, proponeuna suggestiva analisi di tutto il materiale riguardante il periodo iniziale.

26 Liutprando 92; cfr. Rotari 41-137 per la triplice divisione sociale.

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Questo declino della posizione di molti liberi fu, come si vedrà, uno degli aspetticruciali dello sviluppo della società italiana dall'VIII secolo in poi. Al di fuori delcontesto delle leggi longobarde, ancora una volta, è impossibile dire se questa gentefosse longobarda o romana e la questione non sembra rilevante. Le suddivisionisociali dei Longobardi si amalgamarono completamente con quelle romane.

Nell'VIII secolo, quindi, ritroviamo le caratteristiche che esistevano nel tardo impero,quantunque esse siano ora meglio documentate. Troviamo, in gran quantità libericoltivatori proprietari. Sopra di loro troviamo proprietari terrieri di diversedimensioni, dal coltivatore con qualche appezzamento dato in affitto a terzi, fino allatifondista. Anche i più grandi, come Gisolfo strator di Lodi con una tenuta adAlfiano (in provincia di Cremona) del valore di qualche cosa come 9.000 solidi, nonerano paragonabili alle principali famiglie senatoriali del tardo impero27. Sotto di loroc'erano affittuari liberi a vari livelli di dipendenza: alcuni che avevano terreni inproprietà e anche in affitto; alcuni con obbligo di prestazione d'opera, altri senza;alcuni (almeno dopo l'800) soggetti alla giustizia privata del loro padrone. A1 livelloancora inferiore c'erano coloni non liberi con obblighi (nella maggior parte dei casi)più pesanti, quantunque fissati da consuetudini. Alla base della società alcuni schiavi,intesi come beni (servi praebendarii) che lavoravano sul dominico del padrone o inincarichi domestici, sebbene il loro numero andasse diminuendo. Conduttori e schiaviformavano la grande maggioranza della società italiana del periodo in esame. Tuttaviasono relativamente poco menzionati e per lo più presentati dal punto di vista dei loropadroni, esito inevitabile ma sfortunato delle lacune nella documentazione altomedievale.

Con i secoli VIII e IX la divisione in due parti delle curtes era diventata comune nellamaggior parte dell'Italia del Nord e del Centro (come si è fatto notare non fu maicaratteristica del sud ove gli affittuari si limitavano a pagare canoni). Alcune di questecurtes, in particolare quelle monastiche, godevano di una notevole organizzazione. Lastruttura interna della coltivazione in affitto (con o senza apporto di lavoro manuale)era la base di tutte le relazioni socio-economiche in quella che si può chiamare società'feudale'. Queste strutture erano diventate dominanti nell'intera società, eccetto inqualche parte dell'Appennino, ove la signoria terriera non era ancora del tuttoinsediata, e nell'Italia bizantina ove il sistema fiscale dello stato bizantino fornivamodi alternativi di assorbire le eccedenze agricole con vantaggio dei ricchi. Tuttaviacome funzionasse in realtà il sistema si vede meglio attraverso alcuni esempi concreti.

Si può cogliere la vera complessità di questi schemi analizzando le differenze locali.

Per cominciare, si osservi il villaggio di Varsi nell'Appennino Parmense, non troppodistante dalla città (circa quaranta chilometri da Parma), ma posto in collina, inposizione sicura. E’al centro di una serie di documenti fra loro collegati della metàdell'VIII secolo, conservatisi in quanto sono tutti transazioni riferite alla chiesa diVarsi, S. Pietro, e ai suoi rettori. Nel 735 sette persone donarono o vendettero piccoliappezzamenti a S. Pietro in casale Cavalloniano. I1 terreno più grande era circa diduemila metri quadrati, il più piccolo settanta metri quadrati. Due anni dopo, uno diquesti sette, Munari Eglio di Gemmolo, con due suoi fratelli, vendette altri due campi

27 Schiaparelli, 137, 155, 226.

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nella stessa località alla Chiesa. In modo simile la Chiesa accumulò per sé terrenonella stessa Varsi. Nel 736 Ansoaldo e sua moglie Teotconda vendettero treappezzamenti di terra arabile vicini al lago di Varsi, confinanti coi terreni di altriquattro gruppi di persone. Nel 737 i due figli di Godilani vendettero quattroappezzamenti 'con alberi' lungo la strada che conduceva al lago, anch'essi confinanticol terreno di altre cinque persone, alcune delle quali legate da parentela. Esistonodocumenti simili che risalgono al 742, 758 e 774; ogni volta S. Pietro o laici del luogoricevevano o acquistavano piccoli appezzamenti. Nel 753 Ambrogio, figlio diMarioni, confermò con un documento la libertà di Domoaldo, precedentementeschiavo, che era stato ricevuto in S. Pietro. Nel 762, Ansoaldo, zio di Lopoaldo rettoredi S. Pietro, riconobbe di aver occupato illegalmente alcune terre di Lopoaldo, maLopoaldo, « considerata la liberalità che si deve ai congiunti », non gli fece pagare lamulta di venti solidi. Ansoaldo gli diede due tremisses, ed un appezzamento con vignein regalo28.

Varsi non era una società particolarmente ricca. L'entità delle sue transazioni, come sipuò vedere, era modesta. Molti degli uomini citati nei documenti erano exercitales,longobardi liberi, ma sembra che siano stati tutti contadini proprietari; neanchecasualmente sono citati gli affittuari Come testimoni si presentano uomini dei villaggilimitrofi, ma nessuno di zone cosl lontane come la pianura. Fra i testimoni compaionoun artigiano, un costruttore e un notaio e la maggior parte dei documenti sono scrittida un chierico locale, Maurace. Era una società stabile. Molti villaggi simili a Varsidivennero maggiormente dipendenti dalla Chiesa nello spazio di una generazione, piùo meno, ma S. Pietro di Varsi, sebbene aumentasse in modo consistente i propriterreni, non ottenne mai più di uno o due appezzamenti alla volta. Questi terreni eranoin alcuni casi confinanti, segno chiaro di un certo tipo di accumulazione, ma spessonon lo erano. Nessuna famiglia cedeva tutte le sue terre alla Chiesa; molte famiglieappaiono discontinuamente in questi testi; non vi è traccia di alcuna che sia andata inrovina.

Varsi era una società degli Appennini; in contrasto ad essa si vede Gnignano nellapianura longobarda, a metà strada fra Milano e Pavia. Qui abbiamo una serie didocumenti interessanti che si estendono dal 798 all'856, conservati nell'archivio di S.Ambrogio di Milano. Nei documenti più antichi del 798 e 824, Walperto di Gnignanoe suo figlio Leone di Siziano (un villaggio vicino) cedettero alcuni appezzamenti alloro amico (o creditore), l'orefice Arifus di Pavia. Nell'833 queste praprietà, passate aVigilinda, moglie di Arifus come dono di nozze, furono vendute per quaranta denariiad un importante ecclesiastico milanese, Guntzo, che le cedette ad un cittadino suoamico, l'aristocratico alemanno Hunger, figlio di Hunoarch. Entrambi, Guntzo eHunger, si davano da fare per procurarsi terreni a Gnignano. In un documentodel1'836 Hunger elencò le case coloniche di Gnignano che aveva acquistato dapersone diverse, ed una vasta proprietà che Paolo, un notaio di Pavia, gli avevavenduto l'anno prima per diciassette libbre di argento coniato. La maggior parte diquesti terreni era destinata, dopo la morte dei parenti diretti di Hunger, a diventareproprietà del monastero di S. Ambrogio. Nell'840 ciò era in gran parte già avvenuto,malgrado le proteste di un abitante del luogo, Rodeperto, forse un protetto di Hunger,che in quell'anno riconobbe i diritti del monastero sulla terra. Verso l'850 Guntzo 28 Schiaparelli, 52, 54, 59, 60, 64, 79, 109, 129, 159, 291.

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possedeva ancora terreni a Gnignano, ma nell'856, dopo la sua morte, il monastero diS. Ambrogio (per conto del quale Guntzo aveva agito in qualità di patrocinatore) neaveva anch'esso riunito una notevole quantità.

A quel punto il monastero di S. Ambrogio era indubbiamente diventato il principaleproprietario a Gnignano. I documenti antichi che non menzionano Guntzo e Hunger siriferiscono a terreni che S. Ambrogio ottenne da altre famiglie, come quelli cheRachinfrit di Gnignano e suo fratello affittarono ad un ecclesiastico nell'832, e quelliche Teutpaldo di Gnignano, che non aveva figli, vendette nell'839. La terra di S.Ambrogio per la prima volta è documentata confinante con terreni di altri proprietarinell'832; in precedenza i confini portavano i nomi di piccoli proprietari terrieri laicicitati nei contratti precedenti. Verso 1'850, invece, sembra che la terra di S. Ambrogiosia stata onnipresente nel centro abitato, assieme alle terre di altre due chiese, S.Vittore in Meda e S. Stefano in Decimo. L'unico proprietario laico che ancorarimaneva nell'850 e del quale si abbia notizia era un certo Bavo, figlio di Rotari,affittuario di S. Vittore nell'856, ma anche proprietario terriero indipendente (con suoipropri affittuari) menzionato in tre atti dell'851-ó, forse l'ultimo che sia vissuto aGnignano29.

Le caratteristiche sociali di Gnignano ovviamente stavano mutando velocemente inquesto mezzo secolo tanto quanto quelle di Varsi erano state fisse. I possessi dellequattro o cinque famiglie proprietarie locali note erano dapprima mescolati con leterre di artigiani cittadini di Pavia, e nell'arco di una generazione, attraverso i buonioffici di due importanti aristocratici milanesi, queste quattro o cinque famiglie localisi ridussero ad una; il resto andò alle chiese. Ciò può non essere tipico di altri paesiattorno a Milano, in quanto la mole di documenti di Gnignano è insolita, e S.Ambrogio potrebbe non aver ottenuto altrettanti successi in paesi privi didocumentazione archivistica. Chiaramente, però, all'inizio del IX secolo, c'era latendenza alla costituzione di una notevole proprietà fondiaria ecclesiastica. Altrochiaro elemento di contrasto con Varsi è l'esistenza di affittuari. Non è chiara l'entità el'importanza sociale dei proprietari terrieri di Gnignano, sebbene, almeno alcuni,fossero collegati ad artigiani importanti. Bavo, l'ultimo che sopravvisse, appare in unruolo decisamente minore come conduttore-coltivatore di alcune sue terre. Ma questiproprietari locali, persino Bavo, avevano i propri conduttori, sia affittuari liberi cheavevano in affitto singoli terreni, sia (forse) conduttori servi nelle case coloniche(casae massariciae). Probabilmente la maggior parte della popolazione del villaggio fusempre formata da conduttori, frammisti a proprietari locali. Alcuni di lorodipendevano da questi proprietari, ed altri, in numero sempre crescente, da chieseesterne. E’ quindi realistico dire che dall'inizio del IX secolo in Gnignano i conduttori,invece di pagare canoni localmente, dovevano corrisponderli a proprietari esterni,quanto dire che i proprietari terrieri locali perdevano le loro terre a favore dellaChiesa.

Nel caso di Gnignano sono invece assenti i contratti di fitto fatti dai conduttori; dellaLombardia ne sono rimasti ben pochi di questo periodo. E’ soprattutto dai polittici chesi può vedere il tipo di canone che i conduttori pagavano in questa parte d'Italia. Ad 29 Porro, 66, 105, 114, 117, 120, 127, 128, 133, 135, 137, 172, 191, 197, 199. 137

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esempio cito di segruto parte di qucllo di Bobbio dell'862-883, canone della tenutaposta a Travo, trenta chilometri a sud-ovest di Piacenza.

(In dominico) 60 media di cereali possono essere seminati ogni anno, 18 anforas divino possono essere raccolte in una buona annata, ed 11 carri di fieno. C'è un boscoper 40 porci, ed un mulino... Ci sono 11 1ibellarii (conduttori per contratto) e 19massarii (affittuari per consuetudine); danno un terzo del loro grano, per un totale di223 modia, un terzo del loro vino (80 anforas), 7 solidi, 74 galline e uova. I libellariifanno 24 giornate lavorative obbligatorie all'anno; i massarii tutte quelle che vengonoloro ordinate.

Non si sa di alcun abitante di Travo che non fosse conduttore di terreni di Bobbio, eforse il paese era più omogeneo di Gnignano, ma non tutti i conduttori vivevano aTravo, poiché nell'835 i possedimenti venivano descritti come ‘Travo e i suoi territoridipendenti'. Le case coloniche erano probabilmente sparse attorno ai villaggi vicini. Icanoni sono certamente abbastanza tipici per fornire indicazioni di ciò che eranormale in Lombardia. Questi tre esempi mostranc la gamma di testimonianze che gliatti ci possono dare, ed evidenziano i contrasti che si possono trovare in zone diverse,ma anche nella stessa zona, in Italia. Comunque c'è una uniformità importante, ed ènorma quasi ovunque in Italia: la frammentazione della proprietà. Sia a Varsi che aGnignano, la proprietà era sparsa in vaste zone. Anche a Travo, un territorioapparentemente coerente, i conduttori abitavano anche in altri paesi. Per lo più iproprietari terrieri non avevano tenute poste in un unico lotto di terreno, checostituisse un unico villaggio o anche parte di esso. Invece tendevano ad avere, nelmigliore dei casi, il centro dei loro possedimenti in un villaggio, e le case deiconduttori sparpagliate in vari altri villaggi. I conduttori stessi, come i coltivatoridiretti di Varsi, avevano poderi- formati da diversi appezzamenti sparsi in uno stessovillaggio, o spesso in più d'uno, e molti di quest; campi solevano essere molto piccoli.Teuprando e sua moglie Gumpranda fondarono una chiesa urbana a Lucca nel 764 ele lasciarono una serie di proprietà che avrebbero dovuto essere una base fondiariasufficiente al suo mantenimento. Queste proprietà erano formate da una casa colonicacon terre annesse a Sesto, dieci chilometri a nord di Lucca, un'altra sulla costa, ventichilometri a nord-ovest, un'altra a circa settanta chilometri più in giù lungo la costacon un quarto delle terre (ci si domanda se i tre fratelli di Teuprando abbianoconservato il resto), un quarto di un'azienda a circa cinque chilometri a nord-ovest diLucca, un quarto di un bosco di ulivi sulle colline vicino a Sesto, ed altri tre campisparsi nelle pianure a nord e ad est della città. E’ una proprietà di questo tipo che icampi apparentemente sparsi di Varsi e Gnignano suggeriscono; e questadistribuzione casuale è il prodotto di molte generazioni di spartizioni ereditarie30.

La frammentazione ebbe molte conseguenze, la più ovvia che i contadini dovevanospostarsi maggiormente per coltivare i loro terreni. La terra veniva spartitascrupolosamente fra eredi dello stesso asse, fino al più piccolo campo. Ciò aveva delleimplicazioni sulla cooperazione economica all'interno della famiglia, come si vedrà.L'indebolirsi del controllo sugli affittuari se vivevano in case isolate a distanza diparecchi chilometri è un elemento che si ripresenta. La conseguenza che qui voglioevidenziare è la grande difficoltà insita in qualsiasi pianificazione economica. I

30 Per Travo: Inventari, pp. 136, 157-8, Codice diplomatico di S. Colombano di Bobbio, a cura di C.Cipolla (Roma 1918), n. 36. Per Teuprando: Schiapareli, 178.

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proprietari terrieri secolari non potevano tener unite le loro aziende per più di duegenerazioni al massimo, dato che ogni azienda era divisibile. Chiese e monasterividero aumentare le proprie tenute come prodotto di donazioni estemporanee e divendite, e anche a Gnignano, ove il monastero di S. Ambrogio raggiunse una certasupremazia, le sue terre erano frammiste ad altre di altri proprietari. I1consolidamento fu vana speranza, eccetto che nei casi poco frequenti in cui una chiesaera venuta in possesso della quasi totalità di una zona. I proprietari, per la maggiorparte, non potevano controllare ciò che i loro conduttori coltivavano sui lotti diterreno, in quanto non sempre questi lotti erano facilmente separabili dalle terre dialtre proprietà. E in una società eome quella di Gnignano, ove i singoli campi econduttori venivano trasferiti da un proprietario all'altro come merci, la rigidastruttura dell'azienda bipartita deve essere stata molto diflicile da conservare. Né fusempre facile reperire mano d'opera da conduttori che vivevano a distanze dell'ordinedi venti chilometri dal centro del fondo. il possibile che un piccolo proprietarioterriero con solo alcuni conduttori abbia coltivato il suo dominico da sé (o conschiavi), oppure si sia basato unicamente sui canoni, affittando il dominico in lotti.

Travo, in paragone, era chiaramente molto più organizzato; e invero sembra chel'eccezione ad un sistema cosl frammentato fosse la società dei polittici di Bobbio e S.Giulia, e di altri monasteri i cui polittici si conservarono solo in parte, o sparirono deltutto31, Qui, almeno, abbiamo notizie sistematiche del volume dei canoni, dei servizidi lavoro pesante, ed anche di raccolti destinati alla vendita; per non parlare dellavendita sistematica delle eccedenze. Bobbio da cinquantasei tenute ricavava 5679modia (forse 9.600 stai) di cereali, 1.640 anfore di vino, 2.886 libbre di olio, 1.590carri di fieno, 5.500 maiali ed una varietà di prodotti diversi come ferro, nocciole,pollame e canoni in denaro. Questi sono redditi di un certo livello, prodotti di tenuteorganizzate come Travo, con una curtis, centro della tenuta (in linguaggio monasticocella), punto focale del dominico nel quale i conduttori prestavano la loro opera, chevariava da parecchi giorni alla settimana ad alcune settimane all'anno. Gli uniciesempi reperibili di interi villaggi sotto un unico signore provengono da tali proprietàmonastiche (e più raramente episcopali). Questi paesi erano quasi certamente, per lamaggior parte, terre fiscali date alla Chiesa dal re, talvolta in zone boscose osottopopolate, che i monasteri del IX secolo cominciavano a dissodare. Tuttaviasarebbe eccessivo pretendere che questi monasteri avessero una visione d'insiemedell'organizzazione delle loro proprietà. I canoni di Bobbio variavano da paese apaese per tipo ed entità; e cosl le prestazioni d'opera. Esso aveva due tipi diversi diconduttori, libellarii e massarii, ognuno con obblighi diversi pur all'interno dellostesso fondo o villaggio. I tipi di canone, sebbene fossero un ammontare enorme perogni tipo di prodotto, sono chiaramente in ogni caso quelli tipici dell'agricoltura dellasussistenza della zona di provenienza. Anche i grandi monasteri si trovavano di frontead un compito quasi impossibile se volevano sistematizzare le loro proprietà, a menoche non avessero organizzato essi stessi il dissodamento della terra, situazione chetende sempre a produrre maggiore uniformità. E i grandi monasteri erano pochi. Lamaggior parte dei terreni era proprietà di istituzioni ben più piccole, o di nobili laici,che in genere avevano una proprietà terriera estremamente frammentata. Ne segue cheè più utile analizzare le strutture economiche di base della società come costituite nonda aziende, ma da unità di coltivazione contadina, case coloniche o casae massariciae,

31 Cfr. Hartmann (B5-b), pp. 42-73; G. Luzzatto, I servi delle grandi proprietà ecelesiastiche (B5-c),particolarmente pp. 47ss., 70-4.

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e da piccole proprietà di proprietari terrieri contadini. I canoni e gli obblighi deiconduttori, quantunque, fossero spesso pesanti, erano ben più estranei alla vita delconduttore di quanto non fossero in altre zone dell'Europa del Nord, ove interecollettività contadine avevano obblighi nei riguardi di un solo proprietario. In Italia, ilcentro amministrativo di un fondo poteva distare chilometri dai casali periferici.Anche se esisteva un diritto di esigere prestazioni d'opera all'interno del paese, spessoil diritto si riferiva a terreni tanto frazionati quanto quelli del conduttore stesso, espesso tali conduttori erano gli unici nel paese ad essere dipendenti dai loro padroniterrieri. La maggior parte dei paesi, come Gnignano all'inizio della serie dei suoi atti,era un miscuglio di proprietari contadini, piccoli proprietari fondiari, ed affittuari ditutta una serie di signori. Il paese stesso, e ancor più la famiglia erano punti focali benpiù importanti della maggior parte delle aziende. Di rado i proprietari terrieririuscivano ad influire sui processi di produzione; i canoni erano in genere fissati pertradizione, e rari i raccolti commerciali. Con alcune importanti eccezioni, quali adesempio l'organizzazione del dissodamento, l'agricoltura era attività dei soli contadini.

I1 periodo dalla fine dell'VIII alla fine del X secolo vide due processi contraddittori:l'indebolimento della posizione sociale e politica dei contadini liberi e l'indebolimentodelle strutture economiche delle aziende, e quindi della base economica della classedei proprietari terrieri. A conclusione del capitolo questi due fatti verranno esaminatiseparatamente.

Si è visto che i re dei secoli VIII o IX erano propensi a promulgare leggi control'oppressione dei poveri. Lo stato era occupato principalmente a conservare laposizione pubblica del libero, il suo accesso alla giustizia e (in particolare) il suoservizio nell'esercito. Questi diritti stavano già indebolendosi per i conduttori liberiche diventavano sempre più legati ai loro signori. Si è visto l'inizio di questo svilupponella legge di Liutprando sui libellarii. Nell'813 un capitolare diede ai proprietariterrieri la responsabilità di fare in modo che i loro dipendenti prestassero servizio allostato, schiavi, aldii, e libellarii, « che fossero sempre stati o fossero da poco diventaticonduttori », tutti allo stesso modo. Non tutti i libellarii erano ex-proprietari; la parolasignificava soltanto « conduttore, colui che ha diritto per contratto scritto », ed è solodopo 1'800 che diventa comune. Nell'Italia alto-medievale c’erano sempre staticonduttori liberi, ma solo col nono secolo diventò normale la conferma dei lorocontratti con i proprietari terrieri per mezzo di accordi scritti. I1 termine tradizionaledi conduttore nell'Italia longobarda, libero o no che fosse, era massarius, e questovocabolo continuò ad essere usato per tutto il periodo in esame (e dopo il 774,assieme al termine franco manens). I libellarii dovevano essere liberi, in quanto chinon era libero non poteva fare contratti; talvolta, come a Bobbio, erano contrapposti aimassarii debitori di maggior lavoro servile e, in qualche fondo, di canoni inferiori. Inaltre zone non si può distinguere fra i due: i massarii spesso appaiono come autori deicontratti, e i libellarii spesso dovevano canoni e obblighi pesanti pari ai massarii. I1contratto scritto dava forse ai conduttori garanzia maggiore dei diritti perconsuetudine, ma non necessariamente dava loro uno status superiore32,

Ma se non tutti i libellarii erano per nascita liberi, molti lo erano certamente. Anche ipolittici che in generale non si occupano dell'origine dei conduttori, fanno riferimenticasuali ad essi; cosi a Porzano a sud di Brescia, nelle tenute di S. Giulia, quattordici 32 MGH Capitularia, I, 93 c. 5 (813); P.S. Leicht, Livellario nomine (B5-c).

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uomini liberi avevano ceduto le loro proprietà alla curtis per riaverle in cambio di unagiornata lavorativa alla settimana. Anche i contratti, talvolta, lo dicono espressamente.Nel 765 nel territorio di Chiusi, Bonulus vendette tutte le sue proprietà a Guntefrido;le riprese in aílitto in cambio di dodici giornate lavorative all'anno in qualità diconduttore vincolato. I contratti del monastero toscano medievale di Monte Amiataerano quasi tutti di questo tipo, dall'804 in poi. Perché i proprietari liberi abbianoagito così non è mai chiaro; talvolta, certamente, a causa di dissesti economici,quando il cibo e la protezione di un signore sembrava valere la cessione delle loroterre; spesso, certamente, come risultato della violenza o della coercizione del signorein questione: Monte Amiata era di gran lunga il proprietario più potente nel raggio dimolte miglia di campagna intorno33.

La Chiesa ottenne anche terreni per motivi meno direttamente economici, per mezzodi pii lasciti. Re ed aristocratici fondavano chiese e monasteri, o donavano terreni aquelli già esistenti, per carità e col desiderio di salire in prestigio. Anche i meno ricchie perfino i poveri facevano elargizioni. Non è facile distinguere i motivi: carità,prestigio, disperazione, coercizione, ma si può tentarlo quando, come è comune, idonatori davano alla Chiesa una parte del loro terreno equivalente, sembra, alla quotache sarebbe spettata ad un ulteriore figlio. Quando i donatori davano tutta la loro terraspesso si può vedere dal testo che non avevano discendenti diretti, come nel caso diGuinifredo da Pistoia e dei suoi figli che, nel 767, lasciarono tutti i loro averi allaChiesa che avevano fondato « non avendo figli o figlie o parenti cui si possa lasciarela nostra proprietà o i nostri diritti ». Talora sbagliarono, come Goderisio di Rieti, chefu citato in tribunale nel 791 per aver occupato i terreni dei monaci di Farfa che eglistesso aveva loro donato. Egli spiegò: « E’ vero che ho donato questa proprietà almonastero, ma dopo ebbi figli ed ora né io né i miei figli possiamo vivere, l'indigenzami opprime ». L'VIII secolo fu l'epoca d'oro di queste donazioni, apparentementeautorizzate dalla legge di Liutprando che legalizzava le donazioni alla Chiesa nel71334. Dopo i primi decenni del IX secolo (in modo diverso da luogo a luogo) essediventarono molto meno comuni. Le ragioni non sono chiare, e alcuni storiciconcludono che ciò avvenne in quanto non c'erano più proprietari terrieri piccoli omedi; erano diven. tati tutti conduttori. Si tratta di una visione un po' pessimistica, inquanto gli autori delle donazioni più cospicue erano privi di prole, ed è difficilevedere come i loro eredi sarebbero diventati dei libellarii; è invece più probabile chele chiese d'Italia siano diventate così ricche, sommerse da queste donazioni, da nonvenire più considerate oggetto di lasciti. L'obbligo della corresponsione delle decimealla Chiesa, istituito da Carlomagno, può anche aver diminuito la popolarità dellaChiesa fra i poveri. Solo in alcune zone piuttosto remote, come Monte Amiata e neidintorni di Farfa, le donazioni continuarono. Qui, come è stato detto, si può pensaread una coercizione, e col 900 i due monasteri erano praticamente gli unici proprietarinelle vaste zone di campagna che li circondava.

La Chiesa accrebbe le sue proprietà come conseguenza fortuita di pie donazioni etramite deliberate espansioni; dal IX secolo poteva anche avválersi del diritto delledecime per indebolire l'indipendenza contadina. Anche gli aristocratici laici 33 Inventari, p. 63 per Porzano; Schiaparelli, 192; W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus (Tubinga,1974) e la recensione di B. Andreolli, R.S.A. XVII(1977), pp. 139-40.34 Schiaparelli, 206; Manaresi, 8; Liutprando 6.

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estorcevano la terra ai più deboli o la accettavano da coloro che soffrivano la fame, incambio di protezione. I piccoli proprietari divennero sempre più dipendenti dai lorovicini benestanti per tutto il IX secolo, e ancor più nel X, quando i signori siarrogarono alcune prerogative dello stato. Tuttavia non tutti vennero assorbiti senzacolpo ferire come accadde con i contadini dell'Amiata; alcuni si difesero, alcuni anchepassarono all'attacco. Infatti la resistenza contadina è vecchia quanto l'editto di Rotari,ove la cospirazione e la sedizione di 'gente rustica' e di schiavi è punita con condannepesanti35. Nel periodo carolingio, tuttavia, sono documentati una serie di casigiudiziari nei quali i contadini affermano i loro diritti, in genere senza successo.

Questi casi furono molto vari. A Milano nel 900, undici uomini di Cusago (diecichilometri ad ovest della città) reclamano di essere arimanni liberi, e non aldii, anchese prestavano opere per la curtis di Palazzolo, proprietà del conte di Milano; infattiavevano piccole proprietà a Bestazzo oltre a quelle per le quali prestavano lavoromanuale obbligatorio. I1 legale del conte chiamò tredici « uomini nobili e timorati diDio » per dimostrare che gli uomini di Cusago erano aldii, ma tutti giurarono che gliuomini di Cusago avevano ragione. Questo caso mostra chiaramente quantovuluerabili fossero i piccoli proprietari di fronte alle pretese dei loro vicini infiuenti edei signori terrieri; questo è uno dei pochissimi casi in cui vinsero. Nell'845, ilmonastero veronese di S. Maria in Organo portò in tribunale i suoi presunti schiavinella contea di Trento, che rifiutavano di pagare il canone e di lavorare, edaffermavano di essere liberi. Quando Lupus Suplaiopunio ed altri sette dissero diessere proprietari liberi secondo la legge e che prestavano opera tramite un accordo dicommendazione (protezione), S. Maria concesse loro la libertà ma con successo siappropriò della loro terra in base al fatto che i loro servizi venivano prestati per laterra stessa. In questo caso S. Maria aveva rinunciato ad ottenere lavoro manuale incambio di protezione, avvenimento assolutamente inconsueto, per ottenere laproprietà dei terreni dei suoi protetti, e per affermare (senza successo) che essi eranosuoi schiavi. A Pavia nell'880, due uomini di Oulx nelle Alpi piemontesi tentarono diriaprire un processo precedentemente abbandonato, che riguardava la loro libertàpersonale, affermando di « essere stati sottomessi con la forza », e non è dasorprendersi che anch'essi persero. Porse gli uomini di Oulx erano già affittuari delmonastero di Novalesa, e stavano tentando di porre un confine fra conduzione libera eservile, confine importante per quei conduttori che desideravano evitare imposizioni epunizioni arbitrarie. Ci sono parecchi casi giudiziari simili riguardanti Milano e Pisa36.Questi rappresentano, ovviamente, un diverso livello di resistenza rispetto a quello deiproprietari liberi di Cusago, o anche di Trento, ma i due gruppi hanno somiglianzeevidenti. È interessante che molti di questi casi provengano da zone montane, eparecchi vengano da zone ove i monasteri avevano di recente ottenuto terre da altriproprietari, specialmente dal fisco, e in un momento in cui pare tentassero di porre leloro terre in modo più deciso sotto un controllo centrale.

Quest'ultimo punto è chiarissimo nel caso della gente della Valle Trita, una zonamolto remota dell'Appennino abruzzese, dove alcuni valligiani furono rivendicaticome schiavi dal monasteto di S. Vincenzo al Volturno dopo la cessione ad esso diterreni fiscali da parte del re Desiderio. Gli uomini ribadirono il loro status, 35 Rotari 279-8036 Manaresi, 110, 112 (per cusago), 49 (per Trento), 89 (per Oulx), 9, 34; cfr. ariche i dati forniti da B.Andreolli, Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia (B5-c), pp. 12s-7. Per Limonea, cfr. n. 38.

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affermando che le terre erano di loro proprietà, in cinque cause fra il 779 e 1'872;talvolta fu necessaria tutta la forza dello stato carolingio per farli comparire alprocesso37. Non si può affermare che il monastero abbia sempre vinto; le decisioni deltribunale venivano chiaramente disattese in modo sistematico e la fine della serie didispute coincide con un secolo di debolezza del controllo su tutte le proprietà delmonastero. Qui, poi fallì un tentativo da parte del monastero di S. Vincenzo disottomettere contatini di zone remote, che erano debitori al re di una dipendenza forsesolo molto formale, alla struttura fondiaria della proprietà terriera monastica. NelNord questi monasteri ebbero maggior súccesso: S. Maria in Organo a Trento; S.Ambrogio nelle vertenze in Valtellina e a Limonta sul lago di Como; Novalesa in Valdi Susa. Queste cause sono parallele a quella di Cusago in quanto mostranoopposizioni precostituite all'aumentO del potere dei latifondisti e della organizzazionedel fondo. Può darsi che riguardino per lo più casi di zone montane in quanto icontadini di zone marginali hanno relazioni economiche più strette e quindi sono ingrado di opporre maggior resistenza. Ma persero, eccetto il caso di Cusago e forsequello di Valle Trita: i monasteri aumentarono i loro terreni, i proprietari liberidivennero conduttori, i conduttori liberi persero la libertà. E nel x secolo, anche iproprietari liberi ancora esistenti spesso divennero soggetti alla giurisdizione dei lorovicini ricchi, come si vedrà.

Mentre questi processi un po' alla volta diminuivano i diritti dei liberi, la strutturainterna delle grandi aziende in espansione stava anch'essa mutando. Come altrove inEuropa, alla posizione dell'uomo libero che andava indebolendosi corrispondeva unmiglioramento della posizione dei servi. Nelle cause di Limonta dell'882-957, glischiavi pretesero dal monastero di S. Ambrogio la libertà, o almeno lo status di aldii,come gli uomini di Oulx avevano già richiesto. Concesso lo status, si lamentarono cheil monastero di S. Ambrogio aveva aumentato i doveri fissati dalle consuetudini,aggiungendo, in particolare, l'obbligo di raccogliere e frangere le olive. I1 monasterodi S. Ambrogio, significativamente, non affermò di avere il diritto di aumentare glioneri che gli dovevano gli schiavi; portò invece come testimoni i notabili locali perdimostrare che gli obblighi erano sempre esistiti. Le consuetudini, almeno in teoria,erano fisse, anche per gli schiavi. La schiavitù stessa stava sparendo. La fusione diliberi e schiavi nella vasta gamma della classe dei conduttori portò alla fine ad unprevalere di uomini liberi, diversamente che in altre zone d'Europa, ove i conduttoripersero la loro libertà. Molti dei contratti del IX secolo sembra siano fatti conconduttori schiavi che erano stati liberati. Le manomissioni diventarono più frequenti;sempre più spesso gli schiavi comperarono la loro libertà. Alla fine degli anni 990,Ottone III tentò di limitare questi cambiamenti con un capitolare speciale « suglischiavi che agognano la libertà », ma ciò ha certo esercitato scarsa influenza.Dall'inizio dell'XI secolo la schiavitù divenne sempre meno comune38.

I1 motivo per il quale i conduttori come classe divennero liberi, e non restaronoschiavi, era senza dubbio dovuto al fatto che i proprietari terrieri cominciarono adaffittare le loro proprietà senza richiedere lavoro manuale; sparirono i legami 37 In Manaresi, ma con maggiore completezza in « Chronicon Valturnense », a cura di v. Federici(Rorna, 1925-38), n. 23, 24, 25, 26, 55, 71, 72.

38 Per Limonta: Porro, 314, 417, 427 (Manaresi, 117, 122), 625; cfr. A. Casta gnetti, Dominico emassaricio a Limonta (B5-c); per il contesto europeo: RH. Hilton, Bondmen Made Free (Londra,1973), pp. 66ss. Per Ottone MGH Constitutiones, I, n. 21.

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personali diretti che rafforzavano la posizione di servitù. Lo sviluppo è già visibile inToscana alla fine del IX secolo, e anche in alcune tenute di Bobbio e S. Giulia. Col Xsecolo, la corvée servile fu ovunque rara. Nelle grandi tenute monastiche esso potevacontinuare, causa la volontà dei monasteri che volevano impie gare concessionari peril dissodamento. Altrove, era la conclusione lo gica dell'incoerenzadell'organizzazione di territori molto frammentari proprietà di laici e di vescovi.Quando i modelli esistenti venivano tra sformati incessantemente dalle divisioniereditarie fra l'aristocrazia laica: e dalle donazioni casuali che ancora venivano fattealle chiese, e co gli inizi di cessioni di fondi della Chiesa su vasta scala a piccolinobili i legami necessari per il lavoro dei domini signorili non poterono più esseremantenuti. Le aziende divennero ora gruppi di case di conduttori, e nulla di più. Icontratti con conduttori liberi per la durata di una vita, tre generazioni, o perpetui,comuni nell'VIII secolo, divennero meno frequenti, e sempre più vennero stipulati perperiodi fissi in particolare per ventinove anni. Ciò anche evidenziava e aiutava l'indipendenza sempre maggiore dei conduttori. E sempre più i proprietari terrierivolevano canoni in denaro. Nell'VIII secolo già molti canoni erano in denaro, assiemea canoni in natura (cereali, vino, olio, uova, animali) e lavoro—quantunque i canoniin denaro, che rappresentavano uno status superiore per i conduttori, venisserorichiesti meno frequentemente assieme alle prestazioni d'opera. Nel IX secolo, eancora più nel X, i canoni erano sempre più in denaro, spesso assieme a un canoneparziario in vino e olio, ma quasi mai in altre merci39.

I canoni in denaro, ovviamente, erano generati da necessità specifiche dei proprietariterrieri, dato che il commercio con zone lontane diventava sempre più comune, maindicano anche altri due fatti: l'abilità dei contadini che vivevano dei prodotti dellaterra di ottenere denaro in cambio delle eccedenze, e l'esclusione totale dei proprietariterrieri da qualsiasi controllo su ciò che veniva fatto sulle campagne. I1 contadino,fino a che riusciva ad ottenere tre, o otto, o dodici denari all'anno, li Lero o no chefosse, poteva da allora sfruttare la sua terra senza chieder nulla al padrone. Con la finedel X secolo, c'è qualche testimonianza per cui egli poteva vendere terreni già affittatiad altri conduttori. A questo punto, il 'sistema curtense' era evidentemente spezzato.Anche se i coltivatori liberi erano ancora costretti e assorbiti in grandi aziende, questeriguardo al territorio erano diventate soltanto organizzazioni sparse ad ombrello per lariscossione dei canoni. Sembra che alla fine del X secolo nell'Italia centrale esettentrionale i proprietari terrieri avessero perso il controllo economico reale sullacampagna, a livello del suolo.

L'attività dei contadini nello scambio delle eccedenze è difficile da documentare, main qualche modo deve essere esistita a lungo. Si è visto che l'unità economicafondamentale in Italia era la piccola proprietà. Ogni famiglia contadina coltivava, perquanto poteva, un'ampia gamma di prodotti base nell'ambito di quanto riusciva a fareda sola. Ma geograficamente l'Italia non è omogenea e raccolti diversi megliocrescevano in zone diverse, in particolare le vigne in collina e i cereali in pianura.Malgrado l'esistenza di una agricoltura promiscua si possono già notare questedifferenze nel periodo alto medievale. Gli squilibri dovevano essere compensati conlo scambio. Alcuni prodotti dell'artigianato, come la ceramica e il cuoio, venivano 39 Violante (B3-f), pp. 76ss., 91ss.; Andreolli, art. cit.; G. Rossetti, Società e istituzioniPisa, Volterra, Populonia, 5° Congresso cit., pp. 259-72, P.J. Jones in Italian Estate(A5-c) G. Cherubini, Qualche considerazione... (B5-c), pp. 55-63.

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quasi certamente acquistati, sebbene se ne abbiano scarse prove; cosi, avveniva,naturalmente, anche per il sale. E’ per questi motivi che i proprietari terrieri trovanoconveniente nel x secolo farsi pagare diritti per piccoli mercati locali, che ilcommercio di lusso difficilmente avrebbe raggiunto. Non sempre si usava denaro inqueste operazioni. I Longobardi per la maggior parte coniarono un solo tipo di monetad'oro, il tremissis (la terza parte del solidus) che certamente valeva troppo rispetto alvalore delle merci oggetto della maggior parte degli scambi locali. Alla fine dell'VIIIsecolo, i Carolingi lo sostituiscono col denarius d'argento (un dodicesimo del solidus)in teoria più adeguato a scambi su piccola scala (in Lucchesia nel IX secolo sembrache un maiale valesse dodici denarii, e un montone sei denarii; in Francia nel 794, seil paragone è utile, il prezzo del pane era fissato ad un denarius per dodici pagnotte difrumento da due libbre, o quindici di segale, venti di orzo, o venticinque di avena).Anche così, un'unica moneta di tale taglio è troppo scomoda per le transazioni indenaro corrente, quali possiamo figurarceli. Le transazioni economiche devono essersisvolte facendo riferimento al denaro piuttosto che servendosene come mezzo discambio. In una società tradizionale ove le relazioni sociali ed economiche sonomolto strette, all'interno delle quali gli scam bi avvengono fra persone che siconoscono, ciò non è difficile come sembra40. I1 denaro era facilmente accessibile allepopolazioni italiche di tutti i livelli sociali; non era però poi tanto utile. Forse icontadini consideravano le monete merce ottenuta vendendo prodotti cheprobabilmente sarebbero finiti sui mercati cittadini; le monete sarebbero poi stateusate per pagare i canoni. D'altro canto i proprietari terrieri, operando sui mercaticittadini su scala ben più ampia, senza dubbio si sarebbero serviti del denaro in modopiù chiaramente 'commerciale'.

Tutto ciò è assolutamente teorico. Ma si può riconoscere come la societàconsuetudinaria basata su rapporti economici tradizionali, all'interno della quale erainserito lo scambio locale, esercitasse il suo controllo sui valori. Si è visto che i revolevano mantenere 'prezzi equi'. In alcuni casi erano anche pronti ad intervenire edeliminare vendite 'inique', come dopo la carestia italiana del 776. I valori potevanodiventar molto stabili, con considerevoli divari da regione a regione. Lo si vide, adesempio, nell'813, nell'imbarazzo dei periti che stavano trattando uno scambio diterreni fra i monasteri di Nonantola e S. Salvatore di Brescia; il costume di Brescia eradi valutare la terra meno di otto denarii per iugum, ma quella di Nonantola la valutavaalmeno tre solidi per iugum. Si dovette chiamare Adalardo di Corbie per raggiungereun compromesso. Nessuno pensò che le forze di mercato potessero venir usate, o cheesistessero quanto meno forze di mercato riguardo alla valutazione della terra,malgrado le vendite dei terreni fossero frequenti41. In Italia lo scambio erastrettamente connesso al contesto sociale nel quale avveniva. Simili legami socio-economici fra contadini a livello di scambi, sono anch'essi un altro elemento dellaseparazione fra proprieri terrieri e società contadina.

40 Per i prezzi: Andreolli, art. cit., p. 118, MGH Capitularia, I, 28 c. 4. Cfr. K. Polanyi, Primitive,archaic and modern economics (New York, 1968), pp. 175203; M. Godelier, Rationality andirrationality in economics (Londra, 1972), pp. 252-303; W.A. Christian, Person and God in a SpanishValley (Londra, 1972), Pp. 168-171; P. Grierson, Problemi monetari nell'alto medioevo, «Boll. dellasocieta pavese di stor. pat. », LIV (1954), pp. 67-82.41 MGH Capitularia, T, 88; Porro, 88.

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Questa separazione raggiunse il massimo attorno al 1000, quando le prestazionid'opera erano in pratica sparite, lasciando per lo più una classe di conduttori chedovevano quasi ovunque canoni solo in denaro, e a volte in natura. L'azienda bipartitaera pressoché scomparsa. I grandi proprietari terrieri non erano capaci di stabilizzare edi concentrare, e ancor meno di razionalizzare, le loro proprietà. Infatti con la crescitadi una nuova classe di piccoli nobili basata sull'affitto di vasti terreni, spesso ad uncanone nominale, i proprietari maggiori (specie le chiese) avevano meno controllo diprima sulle proprie terre. Nella campagna iniziò la violenza, non appena i più piccolifra questi signori tentarono d'imporre i loro poteri sui contadini. I contadini, come isignori, talora furono capaci di utilizzare diritti giurisdizionali secondari e di usarenuove unità territoriali fortificate dei secoli X e XI, i castelli, per rafforzare il propriopotere e fondare dei 'comuni rurali' a fianco di quelli urbani. Ma di nuovo andiamooltre ciò che ci eravamo prefissati; questi sono sviluppi che sarebbero potuti avveniresolo alla caduta dello stato, come si vedrà nel capitolo settimo. Solo a metà dell'XIsecolo, nel contesto del movimento di riforma, le chiese sarebbero riuscite a ristabilireil controllo sulle proprietà rurali, e col sorgere dei comuni urbani esse ed altriproprietari cittadini cominciarono a farsi strada si stematicamente nella campagna,agendo da mediatori fra i contadini e il mercato cittadino, e servendosi di quelleposizioni per riguadagnare il controllo sui contadini. Dai secoli XII e XIII i contadinipagarono nuovamente i canoni in natura, cosicché il guadagno derivantedall'espansione dei mercati urbani andava ai proprietari terrieri. Le città non avevanobisogno di relazioni commerciali con la campagna; solo di cibo. Lo sviluppo deiprogressi commerciali dei secoli XII e XIII, infatti, significherà il capovolgimentoanche della più modesta penetrazione degli scambi commerciali nella società rurale42.

42 Cfr. C. Violante, Stadi sulla cristianità medioevale (Milano, 1975), pp. 328-39; L.A.Kotel'nikova, Mondo contadino e civiltà in Italia (Bologna, 1975), pp. l9ss.

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Capitolo quintoSOLIDARIETÀ, GERARCHIA E DIRITTO

La Parentela e i Tribunali

Si è visto il sopravvivere per molti secoli in Italia di una classe di contadini liberi, talora piccoliproprietari e altre volte concessionari, parallelamente a complesse gerarchie di proprietari terrieri,alcuni locali, alcuni abitualmente assenti dalle proprie terre, e in gran parte abitanti in città. I1potere dei proprietari terrieri era considerevole ma non sufficiente a controllare la vita economicadei vari villaggi e parimenti insufficiente a dominarne la vita sociale. E’ facile vedere che gliabitanti liberi di villaggi come Varsi furono completamente indipendenti dalle pressioni esterne,eccetto che per le pubbliche richieste dello stato, quali il servizio nell'esercito. Ma anche gli abitantidi villaggi come Gnignano, ove predominavano i grandi proprietari, non sentirono particolarmentel'influenza dei loro padroni sulla vita quotidiana, in particolare in quanto non vivevano più entro ilvillaggio. L'aumento del potere economico dei grandi proprietari nei secoli VIII e IX certamenterafforzò l'importanza sociale delle gerarchie e delle signorie, come si vedrà nella seconda parte diquesto capitolo. Ma i problemi quotidiani delle comunità contadine, cooperazioni su piccola scala,tensioni, l'eliminazione di differenze, venivano raggiunte in maniere diverse, tramite legami socialifra eguali e quasi-eguali, in particolare quelli basati su relazioni di parentela e di famiglia.

L'intera immagine dello stato carolingio e longobardo si basava sulla importanza dei liberi,specialmente in quanto soldati, ma anche come partecipanti a varie responsabilità e istituzionipubbliche quali i tribunali. Ciò non impedì agli strati più deboli di venir oppressi da quelli più forti,ma significava che almeno le attività pubbliche erano piuttosto ben documentate, e che i re avevanointeresse ai loro destini. Significava anche che, almeno in teoria, i membri liberi della societàavevano tutti pressoché lo stesso status, ricchi e poveri. Sebbene ciò non sia mai stato vero in realtà,significa almeno che non si può tracciare una divisione tra gli appartenenti alla società aristocraticae a quella non aristocratica dei secoli VIII e IX; e i tipi di parentela documentati in Italia in questoperiodo sembra siano stati caratteristici di tutti i livelli della società libera. Le famigliearistocratiche avrebbero iniziato solo nell'XI secolo ad assumere caratteristiche anche formalmentediverse, come si vedrà nell'ultimo capitolo. E’ impossibile esser certi che gli uomini non liberiavessero modelli di vita sociale simili. Di rado i documenti in nostro possesso trattano questoaspetto della società; la sua esistenza, e l'entità incerta, devono servire da filtro a tutto ciò che vieneesposto in questo capitolo. Comunque ci sono indizi che negli strati non liberi almeno iconcessionari, e forse anche gli schiavi domestici, avessero legami sociali non diversi da quelli delleclassi inferiori della società libera.

In questa parte verranno discussi i più importanti di questi legami sociali, la parentela, oltre ad altritipi di solidarietà organizzata a livelli meno complessi, il consortium ed il villaggio stesso. In tuttele società tradizionali la parentela è importante, e si suole porla in antitesi sotto questo aspetto allesocietà moderne, ove le attività pubbliche dei cittadini vengono regolate da leggi e dalle strutturedella giustizia. Comunque l'Italia alto medievale era socialmente molto precoce, e l'impatto dellalegislazione e dell'attività giudiziaria era anch'esso considerevole. Alla fine del presente capitoloverrà trattato questo impatto e alcuni dei contrasti fra legge e solidarietà parentale, cosi comeappaiono all'osservatore moderno; gli stessi italiani alto-medievali non sembra siano stati poi tantoturbati da tali contrasti.

Une delle più note caratteristiche dei Longobardi è che erano suddivisi in vasti raggruppamenti diparenti, le farae. Alboino invase l'Italia in fara, e quando elevò suo nipote Gisolfo a duca del Friuligli permise di scegliere le farae da tenere con sé. Paolo chiosa la parola 'cioè, generazione o

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lignaggio', ed il termine 'lignaggio' è forse la traduzione migliore. I toponimi che incorporano taleparola sembra indichino il primo stadio dell'insediamento longobardo, dato che la parola cade indisuso dopo un'unica citazione nel codice di Rotari. Una di queste, negli Appennini abruzzesi, è lasuggestiva 'Fara filiorum Petri', un nome già latinizzato di lignaggio, che giunge in questa formafino ai giorni nostri. Gregorio Magno fece riferimento a gruppi dell'esercito longobardo (di fattomercenari bizantini) chiamati Grisingi e Gaugingi, e anche questi possono essere nomi di farae inquesto caso non del tutto latinizzati; -ing è un comune suffisso germanico occidentale, spesso usatocome segno distintivo di una stirpe. Rimane sfortunatamente oscuro cosa esattamente significassefarae, o quale ne fosse la consistenza. Ciò che successe alla farae è altrettanto oscuro. Come sidisse, Rotari usò la parola una sola volta, quando fece riferimento al diritto di un uomo di 'migrare'in un'altra parte del regno con la sua fara. Altrimenti, si riferì alla 'stirpe' (parentilla) intendendo ungruppo di persone rispetto al quale un longobardo avrebbe potuto far valere diritti ereditari, fin tantoche fosse l'erede più vicino e potesse dar nome a tutti i suoi parenti intermedi1. La parentilla eravasta, si estendeva per sette generazioni, ma sembra non abbia avuto alcuna funzione reale. Comecorpi effettivi, Rotari faceva riferimento a gruppi più piccoli di parentela (parentes) che si riunivanoper attività legali o quasi legali, per prestare garanzia, per giuramenti purgatori (il giuramentoformale a favore del buon nome e dell'innocenza di un uomo accusato), e per faide.

La faida non veniva considerata dagli abitanti dell'Europa altomedievale, anche dai re, un processodi degrado quale talvolta è stato severamente giudicato dagli storici moderni. E’ regolata e le èinsita la tendenza a ristabilire la pace, in quanto la gente coinvolta volente o nolente nella contesa,spesso con legami con ambo le parti, in genere non vuole dedicare la maggior parte del suo tempoal combattere. In tutte le società le faide famose che durano a lungo sono atipiche per definizione,infatti attirano l'attenzione di tutti proprio perché non vengono risolte. Ciò è in genere possibile soloin casi di antagonismo e gravità eccezionali, e di solito anche quando i partecipanti vivonoabbastanza lontani gli uni dagli altri da poter evitare il contatto sociale, o in luoghi che presentanocomplessità sociale, come le città; le grandi faide italiane sono state quasi tutte urbane (si pensi aMontecchi e Capuleti). La falda può verificarsi in molte comunità tradizionali e su piccola scala, edil Mediterraneo è sempre stato sotto questo profilo una zona calda. I1 sorgere potenziale della faidasottende tutti gli interessi contadini tradizionali per la solidarietà e la pace familiare2.

Anche i re longobardi davano valore alla pace, tuttavia non consideravano la violenza, se non entrola corte del re, offensiva dei principi della società civile. Essi tentarono di limitare l'accadere dellefaide, di prevenirne il sorgere ad ogni banalità, Rotari aumentò l'indennità di danni, per rendere piùonorevole la sua accettazione, aumentando così le possibilità della soluzione della lite stessa. Maquesta era parte del costume longobardo, e i diritti fondamentali di ogni longobardo di aderirvi nonpotevano essere negati. Si è visto che Liutprando mantenne il duello (che di per sé, per lo più, è unaversione rituale e limitata della faida), malgrado i suoi dubbi che esso fosse uno strumento digiustizia, ed i Carolingi persino ne aumentarono leggermente l'importanza. Tuttavia è ironia che siapprenda la maggior parte di quanto se ne sa dalla legislazione delle corti reali che guida e limita lemodalità delle faide. Le fonti sono poche e a parte racconti occasionali di vendetta in PaoloDiacono, Liutprando di Cremona, o specialmente nel Chronicon Salernitanum, non si ha traccia dicontese importanti fino alle cronache del periodo dei comuni ed oltre. Tuttavia l'esistenza dellacontesa e la sua legittimità viene affermata in tutte le fonti che la citano.

1 Mario d'Avenches, Chronicon (MGH A.A. II, s.a. 569, Paolo, H.L., 2. 9; Rotari 153, 177. In opposizione a S.M.C., pp.39-40n., cfr. H.H. Meinhard, The patr linear principle in early Teutonic Kingship, Studies in Social Anthropology, acura dt J. Beattie, R.G. Lienhardt (Oxford, 1975), pp. 23-6.

2 M. Gluckman, op. cit., capitolo primo; J.M. Wallace-Hadrill, The LongHaired Kings (Londra, 1962), pp. 121-47; cfr.M. Hasluck, The Unwritten Law in Albania (Cambridge, 1954) per alcuni esempi, e E. Gellner, Saints of the Atlas(Londra, 1969), pp. 104-25, per giuramenti.

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La struttura del gruppo familiare nella società longobarda era patrilineare, i cosidetti legami'agnatici'. Quando una figlia si sposava, si sposava entrando in una nuova famiglia (Liutprandometteva in guardia contro il matrimonio in una famiglia con la quale si fosse in lotta) e si dovevapensare a particolari misure precauzionali per evitarne lo sfruttamento. Se dopo il matrimonio ladonna avesse venduto terreni, la sua stessa famiglia d'origine avrebbe dovuto testimoniare che loaveva fatto di sua volontà, liberamente, e che non vi era stata costretta dal marito e dalla famiglia diquesti; documenti simili sono comuni nell'X secolo. Questo sistema di discendenza per lineamaschile contribuì alla definizione delle famiglie, in quanto l'uomo o la donna potevano esseremembri di un solo gruppo familiare; esso era strettamente connesso all'eredità. Quando un uomoaveva bisogno che la sua parentela giurasse per lui in una cerimonia di giuramento purgatorio,doveva presentare i membri del suo casato nell'ordine della successione, facendoli venire, senecessario, da ogni parte del regno. Anche nella faida, l'unico uomo che aveva diritto di vendicareun uomo morto era il figlio, sebbene nel caso non avesse figli ma solo figlie il diritto passasse ad ungruppo meno definito di propinqui o proximi parentes, parenti stretti. La contesa, essendo per naturaun fatto più spontaneo, non poteva essere controllata in modo severo quanto il giuramento rituale3.

Queste erano norme longobarde, in quanto facevano parte del diritto longobardo; anche i romaniavevano un sistema patrilineare, ma la legge dell'Impero non riconosceva risoluzioni private comela faida. Tuttavia vi sono tracce che i Romani almeno sentissero la necessità di vendicare la morte diun congiunto. I1 manuale giuridico dell'Italia del VIl secolo, la Summa Perusina, affermaesplicitamente « se avete vendicato la morte di un congiunto, ne diventerete erede ». Forse questotesto riflette le usanze di Roma sotto l'Esarcato4. Nell'Italia longobarda, si possono fare solo ipotesi.Si è visto che i Romani nell'Italia longobarda avevano fatto propri elementi della solidarietà digruppo longobarda quali il launigild, che con 1'XI secolo divenne parte della legge territoriale delregno longobardo; non è improbabile abbiano riconosciuto anche la`faida, anche se non ci èpossibile dimostrarlo.

In questo mondo le donne avevano una posizione pubblica di poco conto. I Longobardi (adifferenza dei Romani) le consideravano sempre soggette all'uomo dalla nascita alla morte; alpadre, al fratello, al marito e al figlio a seconda dei casi. Raramente potevano possedere terreni, senon come eredi o vedove, e anche in questi casi il loro controllo era limitato per legge. Le unichedonne longobarde legalmente indipendenti erano le badesse dei conventi, forse poiché avevanoassunto parte della legge romana nei loro voti. L'Italia dell'alto medioevo non fu probabilmente maiparticolarmente piacevole per le donne. Solo occasionalmente, nella nobiltà più alta, alcune donnedotate di carattere eccezionalmente forte riuscirono ad assumere qualche carica politica, specie inperiodi d'instabilità. In genere erano le vedove di uomini importanti senza eredi adulti comeTeodolinda fra i Longobardi, e più occasionalmente mogli influenti di uomini in vita, comeAngilberga, moglie di Lodovico II. Il X secolo vide molte di queste figure: Berta, vedova diAdalberto II di Toscana, Ermengarda, vedova di Adalberto d'Ivrea, Villa, moglie di Berengariod'Ivrea, e più notevole di ogni altra, Marozia, che governò Roma dal 928 al 932. In modosignificativo, Liutprando di Cremona, il loro cronista, non volle trovare altra spiegazione della loroimportanza se non estrema licenziosità, unico motivo cui potesse pensare per spiegare il loroincomprensibile controllo sull'uomo; il loro potere metteva in crisi l'intera sua immagine delmondo5:E meglio vedere in loro il punto focale della continuità dinastica (come eredi, o custodi difigli piccoli) in un secolo nel quale diventava sempre più importante per l'aristocrazia la 3 Lineprando 13, 22, 61, 119.4 Summa Perusina, 6. 35. 10 a cura di F. Patetta (Roma, 1900), cfr. P.S. Letcht, Vindictam facere, « Scritte Varie », II, 2(Milano, 1949), pp. 363-6.5 Liutprando, Antap., 2. 48, 55-6; 3. 7-8, 445; 5. 32.

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consapevolezza della discendenza. Tuttavia esse erano atipiche. Per noi la maggior parte delledonne sono soltanto nomi, nominali padrone di terre alienate dagli uomini delle loro famiglie, o lecontroparti con le quali gruppi di famiglie avevano fatto alleanze per mezzo di matrimoni. Non ènoto cosa in realtà facessero o pensassero.

La base della solidarietà parentale fu senza dubbio la cooperazione nelle attività economiche. ilmolto più probabile che si volesse vendicare la morte di un proprio cugino se lo si aiutava a potarele viti e se lui aiutava a raccogliere le olive. Finora abbiamo considerato la teoria della faidaall'interno della parentela ma la faida è rara. Ben più comune è la cooperazione economica, e questaè meglio documentata. Quando Lopichis, il bisnonno di Paolo Diacono, unico di tutti i suoi fratelli,scappò dalla prigionia dopo un'incursione avara e tornò (con l'aiuto di un lupo addomesticato) allasua casa distrutta, la ricostruì con regali della sua gente (consanguineorum et amicorum). Questo erauno dei compiti della parentela6. Si è già vista la frammentazione della terra in Italia causata dallesuddivisioni ereditarie. Era ed è tipico dei proprietari dividere ogni zolla fra i propri figli (le figliericevevano in eredità terreni solo se non vi erano figli maschi). Ma l'altra faccia della medaglia èche non era previsto che tali eredi coltivassero le terre separatamente, almeno per una generazione,e talvolta anche di più. Infatti non sempre era necessario dividere la terra immediatamente allamorte del padre; parecchie leggi longobarde trattano le norme che stanno alla base della proprietàcomune fra fratelli. Nel periodo longobardo, questa indivisione permaneva solo, nella maggior partedei casi, fino alla morte di uno dei fratelli o fino a che questi non volessero separarsi in modo piùformale.

Tuttavia, coi secoli X e XI, erano ancora più comuni i terreni indivisi fra cugini e talora parentianche più lontani. Non suddividere almeno posponeva la necessità di determinare parti giuste,operazione suscettibile di generare acredine, e sempre complessa. Un documento lucchese del 762elenca parte del processo col quale il vescovo Peredeo alla morte del fratello divise le proprietà diquesti con il nipote Sunderad; circa trenta appezzamenti vengono accuratamente scorporati e riuniti,e ciò era solo parte della loro proprietà fondiaria. Ma per separare totalmente i beni di Peredeo daquelli di Sunderad sarebbe stato necessario scambiare le terre, per avere blocchi indipendenti diproprietà, cosa che certamente i due eredi non riuscirono a fare. Tali scambi sono in effetti ben rarinei documenti italiani. Un primo esempio si ha nella zona collinare sopra Parma, nell'alta valle diVarsi, nel 770, quando Audeperto, figlio di Auderat diede la sua proprietà in un villaggio in cambiodi quella di suo zio e dei suoi cugini posta in un altro villaggio. Sembra che Audeperto si siaseparato dalla sua gente, almeno in senso fisico. Comunque è forse più interessante il fatto che isuoi parenti, Artemio e i nipoti Rodeperto, Gumperto, Asstruda e Paltruda, mantenessero le proprieterre ancora indivise; qui l'eccezione era Audeperto. Stiamo trattando due diversi livelli sociali, inquanto Peredeo e Sunderad erano aristocratici importanti, mentre Artemio e Audeperto erano nonpiù che proprietari terrieri di scarsa importanza, e forse contadini proprietari, ma il problema didivisione e cooperazione era lo stesso7.

La parentela era la forma più comune di solidarietà orizzontale, non tuttavia l'unica. Gli schiavi, adesempio, venivano considerati dalla legge come privi di parentela, e quando furono liberati inmassa, i gruppi di colliberti che ne derivarono venivano considerati come aventi gli stessi obblighidi un gruppo di parenti. Tuttavia anche gli schiavi avevano talvolta qualche parente individuabile.In merito esistono ancora due testi notevoli di Arezzo, della fine dell'XI secolo, che elencano alcunidegli schiavi domestici (compresa una famiglia di cuochi) del monastero di S. Fiora e S. Lucilla, edin particolare cinque generazioni di discendenti di un certo Pietro, vivente attorno al 950, tramite lesue tre figlie, Lucica, Gumpiza, e Dominica, che sono descritte come tutte unite da parentela 6 Paolo, H.L., 4. 37.7 Rotari 167, Liutprando 70; Schiaparelli, 161 (cfr. 154), 249; cfr. J. Davis, Land and Family in Pisticci (Londra, 1973),pp. 107-45.

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(propinquitate). Cinque generazioni costituiscono una parentela vasta sotto qualsiasi aspetto, e sorgeil sospetto che le dimensioni di tale parentela siano proprio il risultato delle documentazioni diproprietà del monastero; ma quando un membro dell'ultima generazione, Giovanni figlio diRusticello, reclamò la libertà in un pubblico tribunale nel 1080 (senza successo), furono presentianche i suoi parenti servi. La maggior parte dei legami in queste genealogie di schiavi eranoindividuati per discendenza maschile; la struttura del gruppo era identica a quella degli uominiliberi. Non mancavano neanche i legami fra gli schiavi domestici e i liberi. Uno o due uomini liberisi sposarono all'interno delle famiglie servili (alcuni schiavi, infatti, erano stati una volta liberi, ederano schiavi soltanto in quanto non potevano pagare le penalità stabilite dalla legge per assassinioe furto; potevano avere anche parenti liberi). Per quanto ne so, questi testi sono unici, e gettano unaluce su qualcosa che altrimenti è del tutto oscuro. Ma è improbabile che la` situazione sulla qualefanno luce non avesse rispondenza altrove8.

Per lo più ci si riferisce in modo generico ad altri gruppi collettivi col termine consortes o consortia.Consors nel latino classico significava 'socio' o 'comproprietario', spesso 'co-erede', e questeaccezioni costituiscono la base del suo significato nell'Italia alto-medievale, come altrove inEuropa, con diverse sfumature in contesti diversi. Nell'Italia dell'VIII secolo significava raramente'parente' o 'co-erede', e in genere definiva il socio non parente in una attività economica. Ma neisecoli seguenti la differenza fra parenti e consortes diminui, e spesso ci si riferisce a parenti e aeredi col termine di consortes. I1 significato della parola, tuttavia, verteva ancora sulla comproprietào sull'uso cooperativo della proprietà, mantenendo anche il suo significato di 'cooperazione fra nonparenti'. il in questo contesto che ci si riferisce talvolta ai membri della comunità del villaggio coltermine consortes. Si è visto nel precedente capitolo che i villaggi che si univano in azionecollettiva erano in genere posti in zone marginali, con qualche attività economica cooperativa comebase della loro attività, quale la pastorizia. Gli uomini di Limonta si autodefinivano consortes, maqui probabilmente la base economica era l'essere tutti sottomessi al monastero di S. Ambrogio. Unesempio in cui emerge l'attività collettiva di tutto un villaggio o area si ha in un caso giudiziariodell'824, quando i consortes di Flexum, senza successo, contestarono al monastero di Nonantola idiritti di pesca e pastorizia nelle vicinanze del loro territorio, anche se questi diritti erano statigarantiti al villaggio dal re Liutprando. Flexum si trovava nelle paludi del Po, ed i suoi abitantierano ancora piccoli proprietari, che lottavano per mantenersi indipendenti dalle violazionimonastiche. E’ del tutto possibile che in tali zone la solidarietà del villaggio fosse più importantedella parentela, o almeno avesse pari importanza, e, per contro, I'assenza di una comunità divillaggio potente in zone abitate fosse uno degli elementi che in Italia dava alla forza della parentelala sua ragione d'essere, dato che era l'unico principio di organizzazione esistente. Di certo gli 'eredie consortes' presenti negli atti dei secoli X e XI altrove in Italia erano piuttosto diversi dai consortesdi Flexum. Tali consortes erano, per la maggior parte, estensioni del gruppo familiare,modificazioni più o meno artificiali della sua estensione. Quando nell'XI secolo e successivamente,le famiglie aristocratiche instaurarono relazioni contrattuali all'interno del gruppo familiare persalvaguardare i nuclei territoriali ed alcune forme di attività economica collettiva, queste relazionifurono conosciute anche come consortia. La loro esistenza fa notare come permanga importante larelazione di parentela come principio organizzativo di quasi tutta la società9.

La legislazione reale mostra che i re vedevano nella faida e nel giuramento purgatorio espressionivalide della legge, ricorsi informali basati non sulla presentazione formale di prove e decisioni digiudici, ma sul confronto di gruppi familiari e su accordi circa la determinazione dellecompensazioni. La faida e i fatti ad essa analoghi sono tradizionalmente legati ai crimini di violenzae onore. I casi giudiziari che si conoscono, tuttavia, per lo più ebbero per oggetto la terra e lo status

8 Pasqui, Arezzo, cit., 292-3, 240.9 G. Salvioli, Consortes e colliberti (B4); Manaresi, 36.

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legale. Raramente erano associati a qualche compromesso e mediazione che si possa collegare allafaida. Alcuni esempi dovrebbero darcene l'idea.

Nel 762 Alperto di Pisa e sua cognata Rodtruda (che aveva come procuratore Tasso) comparvero altribunale reale di Pavia. Tasso affermò che Alperto illegalmente occupava la terra del suo defuntofratello Auriperto, che l'aveva lasciata in testamento alla Chiesa. In risposta a ciò Alperto mostrò ilsuo contratto, nel quale Auriperto e lui si erano accordati di nominarsi vicendevolmente eredi nelcaso uno di loro morisse senza prole, come era accaduto ad Auriperto. Tasso rispose affermando, inprimo luogo, che l'atto era solo una copia, e quindi priva di valore legale; in secondo luogo, che nonera concorde con i tipi di donazione previsti dalla settantatreesima legge di Liutprando; in terzoluogo, mostrò un altro atto (anch'esso copia) col quale Auriperto aveva lasciato le sue terre pertestamento alla Chiesa, inficiando cosi il primo atto. Alperto chiese con sorpresa evidente: « Ma,Tasso, se la mia copia non ha valore, com'è possibile che la vostra ne abbia? ». Tasso, con gestoteatrale, comunicò che il suo atto era stato controfirmato da re Astolfo, e quindi aveva pieno valore.Alperto perse la causa10.

Ad un certo punto durante il regno di Liutprando, a Como o nelle vicinanze, Lucio si presentò intribunale reclamando il riconoscimento legale della sua libertà che era stata posta in discussione(con violenza) da parte di Totone di Campione. Lucio esibì l'atto in suo possesso fatto al tempo diCuniperto, che dimostrava che era stato messo in libertà dai parenti di Totone col rituale del giroattorno ad un altare di chiesa. Ma questo rituale ebbe validità legale solo dal 721, con laventitreesima legge di Liutprando; quindi l'atto che era antecedente alla legge decadde. Lucio nonpoté neppure dimostrare di essere stato ritenuto Libero per i trent'anni precedenti il caso giudiziario,(il pagamento del suo affitto e i suoi obblighi in lavoro avrebbero potuto essere stati effettuati sia daschiavi che da uomini liberi). Quindi il suo diritto decadde, in quanto la trentennale rinunciaannullava la pretesa di un uomo di avvalersi degli effetti di tale diritto11

Talora, quando non si avevano testimonianze scritte, la corte poteva avvalersi di testimonianzeorali; se ne è visto l'esempio nel capitolo quarto, nei casi fra proprietari e concessionari, alcuni deiquali trattano istanze nelle quali le chiese richiedevano testimonianze in aggiunta ad atti, erendevano gli atti privi di valore quando si riscontrava la morte dei testimoni. Un caso di minoreingiustizia è forse quello di Gundi, moglie di Sisenando, un franco che nell'873 viveva nell'Abruzzoorientale. I1 legale imperiale Maione affermò ch'ella aveva preso i voti dopo la morte del primomarito, contrariamente alla deposizione di Sisenando che aveva affermato di averla sposatalegittimamente. Maione trovò un vescovo ed altri quindici testimoni che giurarono che ella si erafatta suora; sia lei che la sua proprietà furono assoggettate a confisca da parte dello stato. Talorasorgevano problemi legali più sottili. Nel 912 Ageltruda vedova dell'imperatore Guido richiese larestituzione di terre che aveva dato alla Chiesa in un atto ancora esistente, contro le proteste delvescovo di Piacenza, che accusava la falsità dell'atto. Riuscì a dimostrare ciò non sulla base dellasua inautenticità, ma dimostrando che la chiesa beneficiata, S. Croce e S. Bartolomeo in Persico,non era mai stata costruita, e così l'atto perse valore12.

L'elenco potrebbe continuare. Quasi tutti i casi giudiziari sono interessanti ed illuminanti. Ce nesono circa dodici del periodo longobardo, e qualcosa come 260 nella raccolta di placiti di CesareManaresi, casi giudiziari regi, del periodo fra il 774 e il 1000; Manaresi ne saltò parecchi, e neescluse un gran numero in quanto non furono oggetto di giudizio da parte di funzionari del re.Hanno tutti stile diverso, almeno fino a che si precisano le procedure rituali ed i metodi diarchiviazione dei casi verso 1'880, ma si assomigliano in un punto molto importante: la 10 Schiaparelli, 163.11 Schiaparelli, 81.12 Manaresi, 76 (cfr. 82, 84), 124.

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preoccupazione per la lettera della legge, e per il significato letterale dell'atto, quando ciò non fossein contrasto con la legge. Da ciò è chiaro che non avevano molto a che fare con la faida. Faide etestimonianze giurate forse non ricorrevano tanto negli atti scritti; e spesso non interessavano lechiese, archivi principali dei documenti. E, come si disse, il tipo di diatriba che ci viene tramandatoper iscritto sotto forma di casi giudiziari non è tanto quello che avrebbe generato la faida. Non ve nesono per furto o per atti violenti, malgrado l'attenzione che venne data a questi fatti nel codicelongobardo. Una piccola percentuale fa vedere la Chiesa che esercita i suoi diritti di giudicare i reaticarnali dei suoi chierici. Un gruppo un po' più grande è costituito da dispute inerenti lo status,dispute che abbiamo esaminato nel precedente capitolo. Tuttavia, la gran parte dei casi che ci sonogiunti è relativa ai terreni. Dopo tutto la terra è oggetto della maggior parte degli atti scritti.Certamente Rotari capì che il giuramento purgatorio poteva essere usato nelle dispute relative allaproprietà, come infatti spesso capitava nei casi giudiziari dell'Europa del Nord e soprattuttonell'Inghilterra anglo-sassone. Ma già permetteva che un documento potesse essere usato comeprova prima facie per dimostrare l'esistenza di una vendita controversa di un terreno, se esisteva unsimile documento (i contratti erano molto meno comuni nel VII secolo). Nel 746 Rachi diede a ciòmaggior forza. I venditori in malafede erano pronti a giurare che non era stato loro pagato l'interoprezzo di una vendita, anche se questa aveva dato origine ad un contratto: « ciò sembra a noi e ainostri giudici severo; ...con tale giuramento possono toglierci qualsiasi cosa ». Quindi nessungiuramento poteva inficiare un contratto steso in modo corretto13.

La testimonianza scritta era la base della maggior parte dei casi giudiziari. Il suo corollario era ilprevalere della legge scritta. Rotari, come altrove i legislatori germanici, dava forma scritta alleconsuetudini (talvolta aggiornandole); quantunque a differenza di molti altri tentasse di metterletutte per iscritto, in 388 capitoli. I1 suo tentativo è alla base di tutte le legislazioni successive,direttamente fino al Liber Papiensis dell'inizio dell'XI secolo, compilazione della scuola di legge diPavia di tutte le leggi reali longobarde e post-longobarde, con chiose globali, rimandi, ed esempi dicasi tipici, un lavoro notevole e sofisticato, e modello del ripristino, un secolo più tardi, del dirittoromano e canonico. La legge reale scritta sempre più veniva considerata suprema in ogni campo.Liutprando permise che nei contratti la legge scritta fosse superata solo con l'accordo delle dueparti—e da ciò escludeva la legge sull'eredità. Lodovico II asserì categoricamente: « nessunodovrebbe osare giudicare solo con la propria volontà, ma dovrebbe mettere in pratica nella manierapiù ampia la legge scritta. Ciò che non è oggetto di legge scritta dovrebbe venirci sottoposto per unanostra decisione ». Nella maggior parte dei paesi la legge medievale evolveva lentamente, dallapubblicazione regia di consuetudini tradizionali si giungeva alla volontà del re di prevalere sopraogni legge. Comunque in Italia, poco più di due secoli dopo Rotari, tutte le leggi avevano assuntoforma scritta, almeno agli occhi dei re14.

Queste, ovviamente, erano le pretese dei re, ma sembra siano state largamente rispettate da Italici-Longobardi, Romani e Franchi. L'ampiezza del rispetto fa notare la forza dell'egemonia dello statoin Italia. Ciò, forse, richiede anche qualche spiegazione, in quanto l'Italia fu certamente unicanell'Europa occidentale per forza e diffusione della legge scritta nei secoli VIII e IX.

I1 punto fondamentale qui importante è l'alta percentuale degli abitanti del regno d'Italia, almenoquelli appartenenti alle classi più alte, che possono essere definiti colti. Per loro legge scritta esignificato letterale degli atti avevano un significato ben preciso. Ce lo si può aspettare dal clero edalle classi professionali cittadine: scrivani, notai, avvocati, medici, ma lo si riscontra anche frauomini comuni, specie dopo l'inizio del IX secolo. La testimonianza ci viene dalla percentuale di 13 Rotari 359, 227, Rachi 814 Liutprando 91, MGH Capitularia, II, 219 c. 5. Per alcune implicazioni: cfr.,per esempio, L. Nader, Law and Culture in Society (Chicago, 1969), pp. 69-91Per alcuni paralleli: cfr. C.P. Wormald, Lex Scripta and Verbam Regis (A4).

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persone che come testimoni firmarono, anziché porre una croce in calce agli atti. Negli atti di Luccadei secoli VIII e IX, la percentuale delle firme aumenta fino a livelli notevoli. Nel decennio dopo il760, la prima decade durante la quale gli atti diventarono numerosi, il 47 per cento dei testimoni giàapponeva la propria firma; questa percentuale attorno all'820 era salita al 62% e con 1'ultima decadedel secolo era già giunta all'83%. Clero e professionisti attorno al 760 firmavano già per il 69%;attorno all'890 questo dato era salito al 100%. Anche la gente comune, quantunque mostri unapercentuale dell'11 per cento attorno al 760, raggiunse il 7796 attorno all'89015. Solo persone di unacerta levatura testimoniavano negli atti, e questi dati possono essere assunti come significativi soloper gli uomini della classe dei proprietari terrieri, ma per quelle classi i dati sono decisamente alti, e,in quel momento, ben più alti che altrove in occidente. Inoltre l'aumento nel secolo IX deve fornirequalche indicazione dell'effetto pratico che l'interesse della Rinascenza Carolingia per l'istruzioneebbe in Italia sulle classi superiori urbanizzate. Essere capaci di firmare col proprio nome eaggiungere una breve formula di testimonianza non è, ovviamente, un criterio molto selettivo dialfabetismo. In alcuni contesti oggi (ove la capacità di apporre una firma è il requisito essenziale peraccedere a molti lavori) non sempre comprova la capacità di leggere. Ma nel secolo IX, quando ilconcetto d'istruzione era totalmente diverso, la capacità di scrivere deve per lo meno implicare lacomprensione del significato di legge scritta e testimonianze scritte, anche se tale persona'funzionalmente alfabeta' non era in grado di leggere speditamente, per non parlare poi di leggereVirgilio per diletto. In effetti, alcune persone d'eccezione lo potevano fare. Everando del Friuli,morto nell'866, con testamento divise la sua biblioteca fra i propri figli. Possedeva oltre cinquantalibri: bibbie, vangeli, opere liturgiche; il commentario di Agostino ad Ezechiele, i suoi sermoni, laCittà di Dio; le vite di Martino di Tours, gli scritti dei Padri Orientali e di Apollonio; opere diIsidoro, Fulgenzio, Martino di Braga, Basilio di Cesarea, Orosio; due trattati sui principi, del IXsecolo, le Gesta regnum francorum, il Liber Pontificalis, un bestiario, la cosmografia di Aethicus,De Retus Bellicis, e sette codici di leggi, quelli dei Franchi salici e ripuari, degli Alemanni, deiBavaresi, dei Longobardi, e i codici romani di Teodosio II e Alarico. Pochi proprietari terrieri, se vene furono, avrebbero pensato di imitare Everardo, ma la Rinascenza Carolingia ebbe anche su diloro qualche effetto, svolgendo il ruolo lento ma utilissimo di promotrice di una qualche formad'istruzione16.

Il fatto che i testi scritti avessero un qualche significato e una qualche utilità per gli Italiani èampiamente dimostrato dal numero di atti tuttora esistenti: varie centinaia nell'VIII secolo, per lopiù originali; parecchie migliaia nel secolo IX. La legge era considerata parte integrante di tali testi.Non di rado, chi stendeva gli atti (o gli scrivani) mostra di conoscere i termini specifici delle leggi:parecchie formule comuni negli atti italiani citano la specifica legge cui l'atto fa riferimento. In unatto della zona di Pistoia dell'880, la suora Roteruda, facendo una donazione legalmente dubbia adun certo Vidulprando, cita parola per parola tutta la centounesima legge di Liutprando. In genere,gli atti non sembra potessero prevedere procedure non ancora sancite dalla legge. Si è visto reLiutprando districarsi nella sua legge per legittimare le donazioni alla Chiesa nel 713, la serie degliatti in nostro possesso praticamente inizia da tale data. Nella classe dei proprietari terrieri almeno,fu molto forte l'influenza del diritto reale e della legislazione17.

Questi comportamenti certamente derivavano dalle tradizioni romane così come l'uso di una ampialegislazione e dell'atto scritto. Si è visto come l'influsso romano agisse sul contenuto di alcuni

15 Da Batsocchini. Gli esempi si riferiscono in ciascun caso a più di 300 testimoni riguardanti una sessantina di atti.

16 Per il testamento di Everardo P. Riché, Les bibliotbèques de trois aristocrates laies carolingiens, «Moyen Age», LXIX(1963), pp. 96-101. Cfr. D.A. sullough, Le scuole cattedrali e la cultura dell'ltalia settentrionale (B6-c).17 F. Brunetti, Codice Diplomatico Toscano, II, n. 1 (Firenze, 1833), erroneamente datato 774; F. sinatti d'Amico,L'applicazione dell'Edictum... in Tuscia, 5° Congresso, cit., pp. 745~81.

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aspetti della legge longobarda, in particolare la legge sulla proprietà. L'osservanza della legge scrittae una regolamentazione delle testimonianze discendevano parimenti da Roma, tuttavia il solorispetto non bastava a ricreare la forza enorme del sistema giuridico tardo-romano, basato suatteggiamenti nei confronti della legge che riconfermeremmo oggi: la differenza fra penale e civile,il fine disinteressato della decisione del giudice (con possibilità di appello) oltre a procedure inteoria meno familiari, quali la tortura sistematica dei testimoni. Lo stato era a quest'epocalongobardo e franco-longobardo, e i Longobardi, sebbene acculturati e sofisticati, erano ancora unpopolo germanico, che non aveva interesse a ristabilire l'apparato coercitivo dello stato tardo-romano, essenziale per il funzionamento della legge tardo-romana. E’ a questo punto che lasopravvivenza apparentemente contraddittoria della faida diventa spiegabile. I procedimenti formaliderivanti dal periodo romano erano limitati ad ambiti specifici della legge che si sono già esaminati:proprietà e status. In altri ambiti, particolarmente ove una parte cercava soddisfazione per un tortosubito per violenza, furto o insulto, si usavano i metodi tradizionali della comunità germanica, chedifficilmente facevano ricorso allo stato. La mescolanza di procedura formale ed informale, diprova e compurgazione, forse è meglio evidenziabile in una legge di Lodovico II contro lecospirazioni in latrocini, che appartiene alle disposizioni generali per ristabilire l'ordine pubbliconell'850. Se qualcuno era sospettato o correva voce facesse parte di una cospirazione, potevadiscolparsi col giuramento purgatorio di dodici uomini, e nel caso non potesse, doveva sottomettersialla penalità prevista (si trattava normalmente di una transazione, metà andava alla vittima e metàallo stato). Tutta la popolazione locale doveva, se ne era in possesso, fornire le prove al tribunale inun interrogatorio sotto giuramento18. Lo stato interveniva per eliminare l'illegalità in una zona; matutti gli abitanti del luogo sospetti dovevano ancora all'interno della comunità sottoporsi agli usualiprocedimenti del giuramento purgatorio, e l'unico cambiamento operato da Lodovico in questocampo fu la possibilità di raddoppiare i testimoni giurati necessari all'accusato per farsi dichiarareinnocente. Questo è il metodo che Lodovico ritenne necessario per risolvere ciò che chiaramente eraun grave problema sociale, e avrebbe potuto funzionare; il problema non si ripresentò nelle sueleggi successive. Forse una società transalpina sarebbe ricorsa a ordalie per integrare le accuse dellacomunità. Lodovico invece fece ricorso ad una inquisizione, una sorta di raccolta dei fatti, simile alGrand Jury inglese e americano; le ordalie in Italia erano piuttosto rare, a parte i duelli.

Quando sull'appoggio di leggi scritte intervenivano i re, essi avevano il problema di assicurarsi chelo stato avesse la forza d'imporre i giudizi che non erano accettati dalla parte perdente, in particolarequando chi soccombeva era persona influente e potente. (Quante volte i giudici abbiano emessogiudizi contrari a persone potenti è, forse, un altro discorso, di certo i re dovevano legiferare troppospesso contro sentenze corrotte o interessate per dimostrare che lo stato era decisamente efficace).Non è facile capire con quali mezzi lo stato riuscisse a fare ciò. I casi giudiziari di cui ci sono giuntigli atti presentano soltanto i giudizi, e non ci dicono come (e se) furono messi in pratica. Forse èsignificativo che nei nostri testi gli unici gruppi che contestarono e protestarono contro le decisionidei tribunali sono alcuni contadini che persero cause inerenti il loro status e i loro diritti;appartenevano a gruppi sociali che erano stati esclusi dall'assetto politico longobardo-carolingio.Nella classe dei proprietari terrieri non sembra che il disposto dei tribunali sia stato rifiutato; ledecisioni erano apparentemente accettate anche se non erano a favore. Se è proprio così, allora sirafforza l'impressione dell'autorità dello stato longobardo e carolingio in Italia se paragonata allealtre nazioni europee, e ciò deve essere fondamentalmente collegato alla più ampia egemonia dellostato su una classe colta superiore.

Ci sono alcuni esempi fra i casi pervenutici di parti vincenti che fanno concessioni a quelle perdenti,a volte, presumibilmente, in base alla consapevolezza che non sarebbero riuscite ad esercitare i lorodiritti reali, anche se avevano l'appoggio formale dello stato, senza il consenso della parte perdente.

18 MGH Capitularia, II, 213 c. 3.

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Il monastero di Farfa nel 750 riuscì a provare che il prete Claudiano aveva avuto il diritto di donareuna chiesa al monastero; dimostrò che il documento presentato dai nipoti di questi, che dichiaravache Claudiano reggeva la chiesa soltanto come rappresentante della famiglia, era tecnicamenteinvalidato davanti alla legge (mancava un elenco di testimoni). Ma nel 751 Farfa donò una piccolatenuta ai nipoti, che sarebbe tornata al monastero alla loro morte, in cambio della loro sottomissioneal giudizio forse anche Farfa pensò che la sua vittoria fosse non tanto equa. Tipico esempio di untale riscatto è un caso giudiziario del 859, nel quale il monastero milanese di S. Ambrogio dimostròche Lupus non aveva diritto al beneficio che reclamava a Cologno Monzese, ma poi gli concessealtra terra19. Casi simili divennero sempre più numerosi fino al secolo XI e oltre, e di certo índicanola posizione debole nella quale talvolta si trovavano i monasteri, soggetti alla coercizione da partedei loro locatari/vassalli, o per lo meno ad arbitrati segreti. Ma il compromesso aveva luogo dopo lasentenza; non faceva parte del procedimento giudiziario. Quantunque i vincitori delle cause talvoltaabbiano dovuto constatare l'inefficacia delle loro vittorie, l'uso del compromesso come parte dellacausa stessa fu assai raro; e così erano il giuramento purgatorio (sebbene fosse usato a Luccanell'840 per mancanza di testimoni) e il duello20. Tuttavia il duello veniva mantenuto dai Carolingicome mezzo estremo se le prove offerte dalle parti erano prive di consistenza e non abilitavanoquindi il giudizio. I1 procedimento fu molto esteso da Ottone I nel Capitolario di Verona del 967,che, nonostante l'allarme di molti ecclesiastici e dei successivi commentatori di leggi di Pavia,permise di mettere in dubbio l'autenticità degli atti attraverso l'uso del duello, portando, comelamentarono i giuristi, a « duelli per proprietà possedute da un centinaio d'anni... e alla morte di chile possedeva »21. Con questa legislazione lo stato in parte abbandonò il ruolo di fonte del diritto cheaveva precedentemente assunto. Ottone e molti dei suoi consiglieri erano germanici, estranei allatradizione italiana. Attorno al 960 lo stato era debole, e sotto molti aspetti aveva rinunciato alleproprie funzioni in favore di unità sufficientemente decentralizzate, tali da poter lasciare allecomunità i risarcimenti legali. Ma nelle cause dei 150 anni successivi al 967 l'interessante non sonoi giudizi per duello, quanto il loro basso numero: meno di una dozzina in 320 casi giudiziari, fra il967 e il 1100 nella raccolta di Manaresi. L'idea di giustizia assoluta amministrata dallo stato sitrasferì alle città d'Italia; la ereditarono i comuni, insieme con il giudizio per duello. Essi sapevanoche lo stato era la fonte del diritto, e quando nel XII secolo reclamarono una statualità de facto, lofecero in gran parte con la legislazione. I1 duello e anche la faida fecero parte di quel diritto persecoli.

Gerarchia e clientela: aristocrazia

Finora in questo capitolo si è contrapposta la solidarietà della fami glia e della comunità di villaggioalla nozione di giustizia associata agli interessi dello stato. Potrebbe sembrare che il potere dellearistocrazie sia stato escluso. La tendenza, nei secoli VIII e IX, dei proprietari terrieri laici edecclesiastici verso l'espansione delle loro proprietà a discapito dei vicini meno importanti potrebbe,tuttavia, esser vista come un venir meno delle solidarietà delle comunità finora esaminate. MarcBloch, uno dei più grandi storici medievisti, pensava fosse stato proprio così: egli vide la 'societàfeudale in Francia e Germania sostituirsi ad una più vecchia società, un po' più ugualitaria, basata sulegami di parentela, in gran parte a causa della inadeguatezza di tali legami, nel X secolo e

19 Regesto di Farfa II (a cura di I. Giorgi, U. Balzani, Roma 1879) nn. 25, 31; Porro, 208.20 Sul compromesso Manaresi, 97; sulla testimonianza a discarico Manaresi, 44. Cfr. i comrnenti di J. van Velsen in M.Gluckman (curatore), Idees and Procedures in African Customary Law (Oxford, 1969), pp. 137-49.21 MGH Constitutiones, I, n. 13 e i commenti in Liber Papiensis, MGH Leges, IV, Pp. 568-80. Cfr. A. visconti, Lalegislazione di Ottone I, A.S. Lombardo, LIII (1925), pp. 40 73, 221-51.

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successivamente. Le solidarietà di parentela potrebbero essersi rafforzate man mano che lo stato sidisgregava ed il potere delle signorie diveniva più consistente, ma la maggior parte delle funzioni diparentela furono assorbite dal vincolo feudale. Tuttavia lavori più recenti, rispetto all'opera diBloch, hanno evidenziato aspetti diversi. Si pensa oggi che le famiglie abbiano sempre avuto unruolo importante nell'organizzazione della società feudale, e che il loro ruolo si sia accresciutoallorché le gerarchie feudali si sostituirono allo stato. Inoltre la parentela assumeva importanza tantopiù grande quanto più elevata era la posizione sociale del singolo; più vasto era il campo di azionedel singolo, più egli aveva bisogno dei parenti. Parentela e aristocrazia certamente potevano esserein tensione; è questo l'argomento di fondo di una vasta parte della letteratura sulla Francia del XIIsecolo, ma la società era abbastanza complessa da poterle fare coesistere salvo casi particolari.

Come si è visto, in Italia, parentela e famiglia sembrano aver rivestito la più notevole funzione nellavita quotidiana e nella solidarietà locale; clientela e dipendenza divenivano invece significative suscala maggiore e per la mobilità sociale. L'individuo poteva emergere col servizio prestato al suosignore. La sua necessità di porsi sotto la protezione di un signore poteva anche mostrare la suadisgrazia. La parentela, sorta di vincolo orizzontale, era estremamente importante quando ci simetteva in contrasto tra pari: la clientela, sorta di vincolo verticale, quando l'opposizione era controi potenti (salvo che quest'ultimi non fossero proprio i signori del singolo). Fin da tempi moltoremoti si può vedere la coesistenza di ambo gli assi nel regno longobardo: la legge di Rotari sullefarae, gruppo di parenti corporati assieme, tratta per esempio del destino delle donazioni che 'unduca od ogni uomo libero' ha fatto ad un uomo al suo servizio che ora vuole emigrare con la suafara. Questi assi coesistono ancora oggi: Jeremy Boissevain ha dimostrato come i vincoli familiari ela protezione siano fra loro complementari nella mafia siciliana moderna. La struttura frammentariadella proprietà terriera e del potere locale che erano una caratteristica così rilevante nell'Italia deisecoli VIII e X (e successivamente), e il sopravvivere del concetto di obbligo pubblico in tutto ilperiodo oggetto del presente studio, forse fecero in modo che la clientela fosse una forza menodominante che non nella Francia feudale, ma essa rimase uno dei vincoli fondamentali22.

La dipendenza e le gerarchie sono soggetti ovviamente a cambiamenti più cospicui che non glischemi della parentela finora descritti; ciò avviene in quanto sono più strettamente collegati allemutevoli strutture dello stato. Una parte di questo dinamismo è più apparente che reale, l'affermarsied il cadere di certe famiglie, ad esempio, o le variazioni nella terminologia dell'aristocrazia, mauna parte è genuina, specialmente in quanto lo stato stesso muta.

Finora nel mio scritto l'aristocrazia ha avuto un ruolo dominante, senza che io abbia tentato didefinire esattamente cosa essa fosse. Si è esaminata la relazione fra famiglie potenti e stato sotto iCarolingi; il modo in cui l'ideologia dei singoli governanti d'Italia poteva modificare titoli e nomidei proprietari terrieri d'Italia; la tendenza ad urbanizzarsi delle classi superiori e le architetture cheli ospitavano; il possesso da parte di famiglie aristocratiche di aziende costituite, per lo più, digruppi di proprietà piccole e disperse. L'elemento comune fu sempre la proprietà fondiaria. La terra,in misura quasi esclusiva (tralasciando i mercanti occasionali e meno occasionali) dava benessere equindi status e potere. Questo è l'elemento di maggior peso nell'identità delle classi superiori. I modiin cui la terra e i suoi coltivatori venivano sfruttati potevano cambiare, come anche il modo in cui ilpossesso di terreni si tramutava, come si vedrà, in potere politico; ma continuava ad essere il primopasso verso la nobiltà. Paolo Diacono succintamente ne fece il punto in una poesia degli anni dopoil 780, una supplica a Carlomagno a favore di suo fratello Arichi, ostaggio in Francia: nobilitasperiit miseris, accessit aegestas, o, assai meno succintamente: « la nobiltà non si cura dei poveri; alsuo posto è subentrata l'indigenza ». I Longobardi e i loro successori attribuivano scarsa importanza 22 M. Bloch, La società feudale (Torino 19774); Rotari 177; J. Boisservain, Patronage in Sicily, «Man», New Ser., u. s.I (1966), pp. 18-33.

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ad una 'nobiltà di sangue', lo status di nobile non persisteva se disgiunto dal possesso di terre; l'usoda parte di Paolo del termine nobilitas è davvero molto vago, e 'eminenza', o 'notabilità', sarebberovocaboli più adatti23. La mobilità sociale era del tutto possibile in Italia per i fortunati come per imeno fortunati: anche per i Carolingi. I discendenti in linea maschile di re Bernardo, nel x secolo sistabilirono in Italia come mediocri conti di Parma e Sospiro (nonché distinti conti di Vermandois inFrancia). Le famiglie si adattarono abbastanza facilmente ai cambiamenti economici.

La terra non era l'unico criterio per l'affermazione dell'arıstocrazia. Altre due erano le variabili dirilievo: i reciproci atteggiamenti degli aristocratici e l'intervento dello stato, la protezione regia. Peressere aristocratico bisognava essere riconosciuto tale dagli altri; la corsa allo status, fra le classialte delle città nel periodo tardo romano ed alto medievale è evidente negli edifici che in essefurono costruite, come si è già visto. L'attrazione era forte anche per quelli, come i vescovi e gliabati, che erano, almeno in teoria, estranei a tutte le gerarchie laiche. Tuttavia il patrocinio reale erala chiave della affermazione politica. Sebbene le gerarchie fossero basate sul possesso di terreni, inogni gerarchia i livelli erano dati dagli incarichi pubblici, senatori o prefetti sotto l'Impero, tribuni oduchi sotto i Bizantini, duchi, conti, o marchesi nel regno longobardo-carolingio. Tuttal'organizzazione della nobiltà era determinata dalla ideologia e dall’orientamento dello stato. I reerano in grado di dare ai proprietari terrieri status e potere così ampi, per lo più attraverso le carichepubbliche, che nessuno poteva sottrarsi al patrocinio reale con facilità, né poteva misconoscere ilpotere che da ciò i re ottenevano. La tensione fra proprietà terriera ed interessi dello stato, fra potereprivato e pubblico, favorì ampiamente lo stato. All'inizio del IX secolo l'equilibrio a Beneventocominciò a mutare, e all'inizio del X secolo anche nel regno d'Italia, fino a che verso la fine del Xsecolo, il sistema era totalmente cambiato e lo stato stesso aveva pressoché cessato di esistere nellasua vecchia forma. Nell'ultimo capitolo di questo libro esamineremo come ciò avvenne, mentre quiconsideriamo le precondizioni del fenomeno: il mutare dei caratteri delle classi più elevate.

Certamente i Longobardi possedevano una qualche gerarchia sociale quando giunsero in Italia. Neosserviamo la cristallizzazione durante i primi decenni di occupazione, con lo stabilirsi dei duchilongobardi nelle città, ed il loro enorme potere nel periodo dell'interregno. Alcuni di questi duchidiscendevano da celebri casate. Rotari, in apertura dell'Editto, elencò tutti i suoi sedici predecessoricome re dei Longobardi. Non tutti questi re erano imparentati fra loro, così, per i re di ogni nuovagenus (famiglia o clan, molto probabilmente fara), egli dava il nome della stirpe—Audoino, exgenere Gausus, o Arioaldo, ex genere Caupus, o il genas di Rotari stesso, gli Harodo; qui egliaggiunse l'elenco di undici suoi antenati per linea maschile. Tali personaggi erano, in un certosenso, nobili per nascita; ma anche così i raggruppamenti non detenevano quel solido potere che, adesempio, era in mano alle sei nobili stirpi citate nel codice legale bavarese dell'VIII secolo, stirpipreminenti, la cui importanza è indiscussa nella storia bavarese. Mai i nomi ricorrono fra iLongobardi, né compaiono alla ribalta altri cognomi fino alla situazione ben diversa che si verificanell'XI secolo. Le stesse leggi non menzionano affatto una aristocrazia, ma solo guerrieri liberi,chiamati indifferentemente liberi homines, exercitales e arimanni. Essi erano la base formale epubblica dello stato longobardo. Nelle leggi l'unica testimonianza di un qualche tipo di gerarchia èdata dal fatto che per la composizione della vertenza per l'omicidio di un uomo libero non vienestabilita l'entità dell'indennizzo; deve essere pagato in angargathungi, termine longobardo glossatoin latino come 'secondo la qualità della persona', e affine al gethynge anglosassone, 'onore'. Si trattadi un criterio specifico di status, ma è estremamente vago. Non ci è possibile dare un quadrocoerente delle gerarchie longobarde dei secoli VI e VII. Tutto ciò che si può dire è che le differenzedi status probabilmente davano luogo a suddivisioni differenziate dei terreni e del bottino all'epocadell'invasione. Duchi, gastaldi e i proprietari terrieri più ricchi senza dubbio erano per la maggiorparte le persone più importanti fra i Longobardi nel periodo antecedente il 568. I1 significato reale

23 MGH Poetae, I p. 48; cfr. D.A. Bullough, Europae Pater, << Eng. Hist. Rev. >>, LXXXV (1970) p. 76.

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dei termini di 'qualità' o 'onore' in Rotari era probabilmente' comunque, collegato all’estensionedella proprietà terriera posseduta da un singolo individuo. Ciò diventò esplicito nell'VIII secolo, inquanto nel 750 Astolfo suddivise i potenziali coscritti esclusivamente in base alla proprietà: quelliche avevano otto o più concessionari, quelli che ne avevano sette, quelli che non ne avevano mapossedevano quaranta iugis (dieci ettari) di terra, e i minores homines che ne avevano ancora meno.Anche i Longobardi utilizzano titoli, presi in prestito dai Romani, quali vir devotus e virmagnificus, ma è difficile dimostrare che essi volessero dire qualcosa di più preciso che 'soldato' e'uomo importante' rispettivamente. La precisione dei titoli che aveva accompagnato la complessitàdello stato tardo-romano e le sue varie gerarchie aristocratiche era a questo punto scomparsa24.

All'inizio della documentazione a noi disponibile, nell'VIII secolo, le persone importanti sonochiaramente tutte proprietari terrieri. Ne abbiamo già menzionati alcuni, quali Taldo di Bergamo(vivente nel 774) e Gisolfo di Lodi (morto attorno al 759). Taido era un gasindo reale e Gisolfo unostrator (sua figlia Natalia fu dapprima moglie di un altro gasindius, Alchi vir magnificus, esuccessivamente moglie di Adelperto anteper regine; un suo parente, Arichi, era stato gastaldo diBergamo). Ambedue avevano posizioni importanti a corte. Gisolfo, per lo meno, era un funzionariodel re—i gasindii avevano un ruolo meno importante quali dipendenti del re, come si vedrà. La loroposizione divenne parte del loro titolo, e di certo contribuì allo status personale. Arichi di Bergamonon era più gastaldo quando venne citato in un atto del 769, ma il testo fa ancora riferimento al suoincarico precedente. La carica contemplava il possesso di terreni; quantunque teoricamente questiterreni passassero a chi succedeva nella carica, in pratica i funzionari potevano appropriarsi di partedi essi o darne parte ai dipendenti, come lamentava Liutprando. Funzionari senza scrupoli potevanoanche trarre guadagni dalla 'vendita della giustizia', come appare dalle leggi di Rachi25. E, infine, ifunzionari erano i più comuni destinatari del patrocinio reale sotto forma di donazioni di terreni. Lacarica forniva dunque dei vantaggi, anche se non era di per sé indizio di appartenenzaall'aristocrazia. Non si può dubitare di trovarsi di fronte ai massimi livelli dell'aristocrazialongobarda quando leggiamo questi atti: i registri con le loro testimonianze risuonano di gasindii eviri magnifici. Ma la base economica principale non era tanto costituita dalle cariche quanto dalleproprietà terriere familiari.

I1 testamento di Taido chiarisce questo aspetto. Come dipendente reale, aveva un legameparticolarmente stretto col re, ma il suo testamento trattava quasi esclusivamente di terreni avuti ineredità da suo padre. Non vi è in esso neanche un solo riferimento a terre acquisite in qualsiasi altramaniera, e in particolare a nulla ricevuto dal re. Ciò è forse un po' eccezionale, e, in numerosi atti eleggi si trovano riferimenti a donazioni di terre reali a laici. Queste donazioni, di certo, molto spessovenivano fatte a funzionari e gasindii, come le donazioni di Astolfo a Desiderio quando era duca diBrescia26, comunque generalmente esse avvenivano in favore di persone che già possedevanoterreni. La proprietà terriera non solo era l'elemento principale di accesso alla posizione difunzionario, ma anche all'attenzione del re. Ovviamente i re potevano donare terre ai loro favoriti, aprescindere dal precedente status di costoro, e alcuni dei funzionari di Pavia avevano probabilmenteretaggi oscuri. Molto raramente si hanno testimonianze di re che abbiano elargito terre, tuttaviaun'eccezione è costituita da Gregorio Greco, giullare di Liutprando, che ricevette in dono dal redella terra vicino a Bologna. I professionisti della corte del re, come i referendarii e i notai,funzionari che qualche volta forse avevano umili origini, non stesero atti che ci siano pervenuti.L'unico per cui abbiamo documentazione, Gaidoaldo, dottore di Liutprando e Astolfo, aveva vaste

24 Rotari, Prologo e 48, 74; Lex Baiwariorum, 3. 1 (MGH Leges, v, 2); Astolfo 2.25 Schiaparelli, 293 per Taldo (e forse Porro, 80 per le parentele); Schiaparelli, 137, 155 e 226 per Gisolfo; Liutprando59 e Notitia 5, Rachi 10. Cfr. Ie opere di G. Tabacco elencate nella bibliografia, sezione B4, in particolare Laconnessione tra potere e possesso..., pp. 146-64, 207-28.26 Rotari 167; Bruhl, 31; Schiaparelli, 28 per un probabile non-funzionario

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terre di famiglia, ed era di fatto uno dei maggiori proprietari terrieri della Toscana longobarda27, Fuquesta posizione, piuttosto che la sua abilità di medico, che inizialmente lo alzò al rango diaristocratico. L'affermazione di Paolo della nobiltà come opposto della povertà fu scritta proprio inqueste decadi.I1 patrocinio reale favorì dunque principalmente chi già era proprietario terriero. Inoltre ledonazioni del re non erano particolarmente generose, e raramente eguagliavano la proprietà che unuomo già aveva. Grimoaldo, come tramanda Paolo Diacono, fece notevoli donazioni all'esercito diBenevento, che nel 662 lo aveva aiutato a prendere il trono; ad alcuni che rimasero presso di luidiede enormi possedimenti. Ciò può essersi reso necessario per dare basi materiali a quelli cheavevano terre molto lontano, ed è l'ultimo esempio di donazioni liberali di re che si conosca in Italiafino all'inizio del secolo X28. I re successivi fecero notevoli donazioni alle chiese, ma anche allora,non dell'entità di quelle dei re franchi, e sembra che i laici venissero soddisfatti con alcune casecoloniche, un bosco, una striscia di terra incolta, occasionalmente con un'intera azienda, e certo legratifiche inerenti le funzioni pubbliche. Forse per questa ragione gli aristocratici longobardi non cicolpiscono per la loro ricchezza. Otto case coloniche costituivano per Astolfo il criteriodell'importanza politica. Taido e Gisolfo possedevano ben di più, nulla comunque di paragonabilealle proprietà tipiche di un senatore romano o a quelle che avrebbe avuto, nel secolo successivo, unaristocratico imperiale franco. Le terre di questi però erano sparse quanto quelle dei Supponidi. Laproprietà terriera di Taldo era formata da otto tenute e circa dieci case coloniche in quattro diversezone, in comproprietà con i suoi due fratelli. Difficilmente si può considerarle come ricchezzapersonale, ed ogni porzione era già divisa in tre: la frammentazione sarebbe stata più grande el'entità della proprietà anche minore nella generazione successiva. Le sostanze e la ricchezza dei reoffuscavano completamente una simile proprietà terriera. Quantunque la posizione e la vicinanza alre non portassero grandi benefici materiali, almeno davano maggior potere politico. In questoconsistevano, soprattutto, le regalie dei re longobardi ai propri aristocratici ed era meno costoso deiterreni.

Da tale stato di cose si evince come i re longobardi patrocinassero i loro aristocratici, esso mostratuttavia anche che i re che non creavano nuove nobiltà con donazioni, inevitabilmente dovevanoavvalersi della nobiltà preesistente. Forse il legame fra proprietari terrieri e re non eraparticolarmente solido, ma non si spezzò. Senza dubbio ciò avvenne per la ricchezza ed il poteredello stato e per la relativa mancanza di centri di potere che gli si opponessero. Un ulteriorerafforzamento veniva dal senso che i re, e in parte le classi più alte, avevano della natura pubblicadel regno, eredità romana lasciata allo stato longobardo: la funzione pubblica dava potere e status diper sé, indipendentemente dalle sostanze private che un funzionario già aveva e che potevaillegalmente ottenere. Un simile concetto della cosa pubblica è sempre presente in tutta lalegislazione longobarda. Nondimeno lo stato era basato su fondamenta meno sicure rispetto a quelledel tardo Impero. Non poteva più, anche se ne fosse stato capace, basarsi su servizi disinteressati.Erano ormai necessari legami più personali. Le gerarchie pubbliche basate sullo status e sullaproprietà terriera erano rafforzate dalla nobiltà e dai legami personali fra gente di posizione socialediversa. Questi legami esistevano già all'epoca di Rotari, nell'VIII secolo furono ampliati. I gasindiireali appaiono nelle leggi e negli atti in nostro possesso: compagni o dipendenti dei re, legati al reda fidelitas, obbligati a fedeltà da giuramento. Liutprando ne fa menzione nella sessantaduesimalegge, del 724, quando aggiornò la legge di Rotari sulla compensazione per l'assassinio e definl la'qualità della persona' in modo più preciso. I1 'più piccolo' exercitalis valeva 150 solidi, il 'primo,300 solidi. Ma in merito ai gasindii se ne deduce che se veniva ucciso anche il più infimoappartenente a tale casta, la sua morte doveva venir compensata con 200 solidi, « dato che è ovvioche è a nostro servizio », e la cifra arrivava ai 300 solidi per il più importante. I1 legame personale 27 Gregorio, Dipl. Kar., I, 183. Galdoaldo: Schiaparelli, 203, Brnhl, 26 (p. 156).

28 Paolo, H.L., 5. 1.

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diretto fra gasindius e re aveva importanza per Liutprando e i suoi successori. La frode perpetratadagli amministratori di Liutprando era considerata grave, ma gravissima quando perpetrata da unodei suoi fideles: << di che tipo di fidelitas si tratta, quando egli collude con un giudice, o con unamministratore, o un aldius o uno schiavo e s'impadronisce della nostra proprietà contro la nostravolontà? >> Simili persone sono colpevoli del crimine di spergiuro oltre che a quello di frode29

Anche così, il ruolo di gasindius non fu mai particolarmente emergente della società longobarda. Ilcarattere saliente della sessantaduesima legge di Liutprando non è dato dal riconoscimento di unacategoria legalmente privilegiata di dipendenti del re, quantunque tale legge ne parli, ma dalla lievedifferenza che la posizione sociale comportava per le wergilds dei suoi uomini. Uno spettro di soli150 solidi per coprire l'intera gamma degli uomini liberi, dai coltivatori agli aristocratici, non èparticolarmente ampio secondo gli standard medievali. E, come dimostra il testamento di Taido, laposizione di gasindius non portava necessariamente vantaggi materiali permanenti Ai nostri occhi,abituati ai rilevanti compensi attribuiti alla lealtà nelle società meglio note della Francia edell'Inghilterra feudali, tutto questo quadro può sembrare piuttosto debole alcuni hanno visto nelledisfatte militari del 775-6 e del 773-4 proprio la dimostrazione di tale fragilità. Tuttavia taliconsiderazioni risalgono all'insidia idealistica di valutare l'ordine logico del feudalesimo militareclassico come prodotto della inevitabilità storica. Non ci si può avvalere di una 'mancanza disviluppo' di legami formali individuali con il re come spiegazione della caduta dello statolongobardo. I Franchi erano semplicemente, in campo militare, più potenti e avevano maggioreesperienza. Come lo stato longobardo si sarebbe sviluppato resta ignoto.

Percorrendo la società verso il basso già esistevano vari livelli di signoria. Non solo i re avevanogasindii, ma anche duchi ed altri aristocratici. Una legge di Rachi parla di un uomo che entra alservizio di un gasindius reale o di un suo fidelis; qui si hanno almeno quattro livelli. Non si può direquanto ciò fosse normale, ma non era una caratteristica nuova del secolo VIII. Rotari citava gente alservizio (gasindium) di Duchi e di altri uomini liberi, e inoltre dal 568 in poi ogni aristocratico deveavere avuto un qualche tipo di seguito armato, vincolato attraverso donazioni che avrebberocompreso anche terre. A giudicare dalle parallele donazioni reali queste erano in genere complete.Le citazioni di donazioni revocabili o non ereditabili sono rare in Italia antecedentemente al 77430.Sebbene la clientela fosse importante, essa era ancora un comportamento relativamente informaledella struttura sociale italiana. La base formale del sistema sociale del regno longobardo era ancorala posizione pubblica degli uomini liberi, exercitales o arimanni. Questi erano per lo più piccoli omedi proprietari terrieri, che coltivavano la terra da sé o tramite affittuari. L'informalità dellasignoria deve essere collegata alla rarità delle locazioni, con l'eccezione di un ristretto numero dicoltivatori prima del secolo IX. I rapporti clientelari fra le classi più alte nel secolo IX esuccessivamente, furono, come si vedrà, regolarmente espresse nella concessione di locazioni.

I re franchi apportarono poche modifiche a questo quadro. Proteggevano i Franchi, come si è visto,e forse donarono loro terre di longobardi ribelli. In alcune zone la bilancia della proprietà terrierapendeva un po' alla volta a favore dei Franchi. I dipendenti venivano ora chiamati vassi, vassalli,anziché gasindii, ma lo stato continuava ad essere pressoché eguale a quello che era stato nelperiodo longobardo. La società continuava a cambiare, comunque, alla fine del secolo IX avevasubito mutamenti notevoli. Se ne esamineranno separatamente i due aspetti: lo sviluppo ideale ereale dello status sociale del proprietario libero, l'arimannus, e i cambiamenti nella naturadell'aristocrazia e della proprietà terriera stessa.

Molte delle più diffuse ipotesi sugli arimanni sono dovute a Giovanni Tabacco, che le elaborò afondo in un classico del 1966, I liberi del re nell'Italia carolingia e postcarolingia. Il regno 29 Liutprando, Notitia 5.30 Rachi 10, 11, Rotari 225. Revocabile e non ereditabile: Rotari 177, Schiaparelli, 124.

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carolingio mantenne la tradizione longobarda riguardo l'affidamento di responsabilità pubbliche aiguerrieri liberi, gli arimanni, ai quali ci si riferisce altrimenti col termine 'figli della Chiesa' o'uomini privati', o anche solo 'Longobardi'; si è visto che l'ideale era strettamente connesso con Iaconsapevolezza di essere longobardo, sebbene tale categoria comprendesse anche Romani e, dopo il774, Franchi, che nel loro paese avevano tradizioni simili. Gli obblighi specifici degli arimannierano determinati dal loro status e dalla disponibilità di proprietà. Dal tempo di Astolfo, alcuni diloro erano anche passati alla condizione di affittuari, ma ancora dovevano servizi allo stato, non acausa di obblighi personali verso i signori ma per la loro posizione pubblica. Questi servizi eranoprincipalmente militari, ma non sempre, in quanto il regno non era di certo sempre in guerra siasotto i Longobardi sia successivamente. Un caso giudiziario dell'864 si riferisce agli obblighi deiproprietari come oste et ponte et placito, l'esercito, la manutenzione dei ponti (compresi i lavoripubblici in genere) e la presenza in tribunale; la legislazione carolingia menziona in pari modo tuttiquesti obblighi31. Gli Arimanni, come gli aristocratici che avevano cariche pubbliche, avevano unlegame diretto con lo stato, in teoria ancora non mediato dai vari livelli di potere clientelare chesempre più facevano parte della società italiana nel secolo IX.

I Carolingi consideravano questa relazione estremamente importante. Il potere di grandi proprietariterrieri a livello locale, in particolare di conti e vescovi, era rilevante e sempre maggiore, ma i re sisforzavano nella loro legislazione di mantenere legami diretti con gli uomini liberi. Le attivitàespansionistiche dei potenti creavano due rischi per i re. I1 primo, di cui si sono già esaminate letestimonianze, era l'oppressione dei vicini da parte dei ricchi, fatto che, unito alla debolezzatradizionale dei poveri nei periodi di calamità economica, portò gli arimanni minori alla condizionedi concessionari e li rese quindi potenzialmente estranei al potere pubblico nel suo insieme. I1secondo fu la tendenza dei signori a formare le loro scorte con persone che avrebbero dovutocoprire cariche pubbliche, privatizzando così i canali dei servizi dello stato, e dando loro unindirizzo personalistico.

La risposta dello stato ad entrambe le tendenze era di fatto piuttosto incoerente. Ai re non occorrevache ogni uomo libero del regno combattesse nelle loro guerre, e non era irrazionale prendere soloquelli che potevano impugnare le armi, e non avevano bisogno di coltivare la terra. Nel 726Liutprando, all'inizio delle sue guerre, permise ai giudici di lasciar liberi un certo numero degli «uomini degli strati più bassi, privi di casa e di terreni » per eseguire servizi pubblici di un generenon specificato per tutto il periodo della guerra. Nell'825 Lotario pretese dagli uomini liberi cheavevano proprietà insufficienti per partecipare alla spedizione in Corsica che si unissero in gruppida due a quattro o più e scegliessero un rappresentante da mandare alla guerra (questo era undiffuso costume europeo). Lodovico II nelle ordinanze relative alla guerra di Benevento dell'866esonerò da ogni obbligo gli uomini che avevano proprietà di valore inferiore a 10 solidi (nonnecessariamente terreni), e quelli con poco più di 10 solidi dovevano rimanere in forza come unaspecie di guardia civica per il periodo bellico32. Il povero era troppo insignificante per forniretangibili vantaggi militari al re, e anche quando se ne mobilitavano grandi masse, come nell'866-7, ire furono propensi a considerare che i meno importanti potevano essere ignorati; d'altro canto eranopreoccupati che le attività senza scrupoli dei potenti potessero allontanare sempre più lo stato dalpopolo. Libertà e servizio nell'esercito erano strettamente connessi per i Longobardi, e altri obblighidei liberi, come la partecipazione all'attività dei tribunali, potevano andar perduti se l'uomo liberopovero veniva emarginato. Nell'813, dei libellarii 'di recente creazione' furono posti sotto ilcontrollo dei loro signori terrieri quando prestarono servizi per conto dello stato, almeno nel casoche si fossero « tagliati fuori dalla sfera pubblica, non per frode o attività improprie, ma solo per 31 Manaresi, 66.

32 Liutprando 83, MGH Capiularia, I, 162 c. 3, II, 218 c. 1. Ma in Kurze, 67 (809) apparirebbe che gli affittuariservissero nell'esercito (sotto la guida dei loro signori).

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povertà e bisogno di terreni ». Le cariche pubbliche tendevano ad essere associate alla proprietàterriera, e non alla conduzione. Già all'inizio del secolo IX si trovano negli atti i primi riferimenti adaffittuari soggetti alla giurisdizione privata dei loro proprietari per dispute minori e per infrazioni (icasi principali, tuttavia, rimasero pubblici)33

Lotario (o i suoi consiglieri) fu il primo a reagire alla privatizzazione crescente dei servizi degliaffittuari. Dall'822, chi aveva totalmente alienato la sua proprietà (ed era così presumibilmentediventato affittuario) cominciò ad essere soggetto ai conti per i servizi pubblici. Le norme del1'813furono sostituite dalla riaffermazione dei diritti pubblici rappresentati dall'autorità comitale. Ilsecolo IX fu anche ricco di leggi concepite per evitare che i piccoli proprietari terrieri fossero ridottial livello di affittuari causa le esazioni indebite dei potenti, fino ai capitolari degli ultimi legislatorisecondo il modello carolingio, Guido e Lamberto, negli anni dopo 1'890. Nell'891 poi, Guidoriaffermò tutti gli obblighi pubblici di tutti gli arimanni, che fossero o no proprietari di terre, diprestare servizio militare. Guido stava, tuttavia coscientemente riprendendo la tradizione carolingia;di certo gli arimanni non erano meno oppressi, infatti l'elenco di atti di oppressione perpetrati su diloro nelle leggi degli anni attorno all'890 è più lungo di quanto non fosse in precedenza. E le leggidi Guido e di Lamberto rendono ben chiaro un punto: conti e vassalli, le stesse autorità pubbliche,erano quelli che più facilmente potevano opprimere i poveri. Nell'898 Lamberto promulgò ancheleggi contro l'abitudine dei conti di dare in feudo i servizi pubblici degli arimanni ai loro vassalli34.Nel 900 l'azione di retroguardia degli arimanni di Cusago contro il conte di Milano mostra in modopiù che chiaro la fondatezza del pericolo. Ed era un pericolo riguardo al qua le i re non potevanofare nulla. L'unica effettiva controparte al potere dei conti, la Chiesa, godendo del privilegiodell'immunità nelle azioni giudiziarie contro i propri concessionari, allontanava ancor più lecategorie più povere dal controllo-rutela dello stato.

Le nostre argomentazioni si sono quasi integralmente basate sulla legislazione carolingia. E’difficile dimostrarne la validità. I documenti privati, per loro natura, c'informano poco dellerelazioni fra liberi e stato. e quasi nulla ci dicono dell'oppressione operata dai potenti. Non si puòdire quante concessioni furono il risultato di azioni di forza. Ma, per contro, l'insistenza delle leggi,sebbene ci mostri come i Carolingi fossero consapevoli di non essere obbediti, non ci dice quantocomune fosse l'oppressione. Come si è visto nel capitolo quarto, è improbabile che tutti i piccoliproprietari terrieri abbiano perduto le loro terre. E’ anche chiaro come gli affittuari liberi per lamaggior parte abbiano conservato la loro libertà giuridica, e si vede dalla documentazione che essialmeno potevano accedere ai tribunali pubblici, anche se raramente vincevano le cause. Ciò che siaffaccia negli anni attorno al 900 è un sistema di libertà a due livelli: gli affittuari liberi avevanoperso i loro obblighi pubblici, quantunque conservassero ancora alcuni diritti pubblici abilanciamento della loro dipendenza economica; i proprietari contadini liberi a quell'epoca per lopiù mantenevano i loro obblighi e i loro diritti, quantunque ci fossero ora meno proprietari. Benpoco potevano fare i Carolingi per salvare gli uomini liberi di minore importanza che rischiavano diessere sottomessi ai potenti, ma almeno potevano mantenere in vigore le responsabilità pubblichedegli arimanni per coloro che rimanevano abbastanza indipendenti da reclamarle.

Ci resta, tuttavia, un sospetto: proprio perché la piena entità della minaccia portata alla posizionedei liberi ci è nota solo attraverso la legislazione carolingia, tali minacce possono non rappresentareuna caratteristica particolare del IX secolo come spesso si pensa. La Roma del tardo Imperopresentò certamente con ampiezza simili sintomi, ed il prologo dell'Editto di Rotari del 643dichiarava che Rotari lo aveva in realtà largamente steso in quella forma a causa delle « esazionisupplementari (richieste ai poveri) da parte di chi era più forte, servendosi della forza ». I1 33 MGH Capitularia, I, 93 c. 5; per la giurisdizione privata, cfr. per esempio, Regesto della chiesa di Pisa, I (a cura diN. Caturegli, Roma, 1938), nn. 23, 15, 16.34 Capitularia, I, 158 c.8 (Cfr. 165 c.2), II, 224 c. 4, 225 c. 3.

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contadino in tutte le società ha da temere dal ricco, anche quando questi non si pone in posizione diattacco deliberato, ma specialmente (com'è normale il caso) quando lo è. I1 fatto nuovo nel periodocarolingio fu in parte l'accrescersi della proprietà terriera della Chiesa, risultato di un secolo didonazioni, che si è già visto spostare l'equilibrio del potere locale decisamente a favore deiproprietari maggiori; ma in particolare la nuova minaccia che il potere locale dei ricchirappresentava per la posizione pubblica del povero. E’ possibile che questo nuovo sviluppo sia statoil prodotto degli atteggiamenti aristocratici franchi. I1 concetto di autorità pubblica fu certamentepiù debole nel regno franco che in quello longobardo. Tuttavia può davvero darsi che solosuccessivamente alla fine del secolo VIII i legislatori si occupassero del problema dei liberi chedivenivano affittuari. Se così fosse, e in questo caso perché, sono problemi ai quali ancora non sipuò dare una risposta.

Lo sviluppo del sistema delle clientele (gruppi di persone dipendenti da un signore) fra i liberiproprietari ancora esistenti fu, tuttavia, chiaramente collegato alla matrice sociale franca. Si è vistoche nel periodo longobardo gli aristocratici si munivano di scorte, e che questi legami personalispesso erano contro gli interessi dello stato. Sotto i Carolingi tali legami ebbero grande sviluppo,tramite l'istituzione del vassallaggio, un legame personale molto più forte del gasindiato, sebbenebasato anch'esso sul giuramento di fedeltà. Certamente nelle loro leggi si trovano assai piùriferimenti ai vassalli e all'entourage degli aristocratici che non nelle leggi longobarde. Anche i renon erano del tutto contrari a questo sviluppo; esso consentiva una più veloce mobilitazione delletruppe, e, quantunque esaltasse il potere armato locale dei conti, almeno dava maggior forza allaloro autorità quando essi agivano nell'interesse dello stato35. I re si basavano sui propri vassalli, epresupponevano che sia questi che i vassalli dei conti e dei vescovi fossero pronti a servirli. Nonsembra siano stati del tutto delusi: il vassallaggio, lungi dall'indebolire l'autorità reale, sotto moltiaspetti la rafforzò, particolarmente durante la crisi del potete pubblico che seguì alla morte diLodovico II.

D'altro canto, le relazioni private inevitabilmente indebolirono l'insieme degli obblighi pubblici,specialmente quando i re si basarono sempre più su di esse, causa la poca affidabilità degli obblighipubblici. Gli arimanni minori che sopravvivevano nel secolo IX, per la maggior parte lo dovetteroall'aiuto che veniva dato loro dai patroni, sia laici che ecclesiastici. Col 900, i re rimasero con pochiuomini delle classi inferiori che non riconoscevano alcuna aristocrazia intermedia fra sé e il re.L'Italia era diventata un sistema di clientele, gruppi di protetti dipendenti o da conti o da famiglienon comitali con incarichi pubblici di poca importanza (sia secolari che clericali), o, sempre più, davescovi. Le classi più alte fungevano da intermediari fra lo stato e tutti gli altri strati della società.Quantunque ciò fosse all'inizio meno contrario agli interessi dello stato dell'espropriazione deglistrati più bassi dei liberi, colpi le relazioni pubbliche in modo assai più rilevante. I1 governocentrale perse via via importanza negli affari locali. Si cominciavano a gettare le basi per lalocalizzazione completa del potere nelle città e nei castelli rurali (rocche e villaggi fortificati) cheiniziarono a sorgere nel secolo X man mano che lo stato perdeva ed alienava il proprio potere.

Via via che i liberi proprietari non appartenenti all'aristocrazia venivano costretti all'autodifesa,l'aristocrazia stessa assunse caratteristiche più complesse. Disponibilità economica e status eranodipese fin allora dalla proprietà terriera diretta; gli affittuari per la maggior parte erano contadininon liberi o semiliberi. Man mano che i grossi proprietari terrieri aumentavano le loro proprietà, ciònon era più possibile. I1 secolo IX vide l'acme della proprietà ecclesiastica, e le più grandi famigliefranche erano proprietari terrieri maggiori di quanto non fossero state le famiglie aristocratichelongobarde. I1 vuoto fra esse e i proprietari minori aumentava. Ma il crescere delle clientele deivassalli e la loro influenza politica sollevò il problema di come ricompensarli e mantenerli in stato

35 Cfr. G. Tabacco, il regno italico (B4), pp. 771-7.

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di fedeltà. E’ ben nota la risposta dei Franchi: il beneficio dato in cambio del servizio nell'esercito,la base del 'diritto feudale'. In Italia tali benefici sono presenti nelle fonti a noi disponibili a partiredall'inizio del IX secolo, e presto il sistema fu ovunque adottato. Nell'816 l'abate di Monte Amiataaffittò ai contadini una casa con terreno « che il nostro vassallo Inghiperto precedentemente ebbe inbeneficio », dimostrando, almeno qualche volta, il riconoscimento del legame franco usuale fravassallaggio e beneficio36. Tuttavia gli Italici non accettarono mai totalmente le implicazioni delbeneficio, che cioè l'unica cosa che un signore avrebbe esigito in cambio della propria terra era ilservizio militare. Ben più comuni erano le forme tipiche della cessione condizionata dei poderi inItalia, cioè il normale affitto di terreno.

Si sono visti i vescovi di Roma e di Ravenna crearsi appoggi sin dal secolo VII affittando terreniagli aristocratici e ai soldati. Dall'inizio del secolo IX i documenti ecclesiastici in nostro possessomostrano un analogo comportamento nell'Italia longobarda. L'unica differenza fra le due zone stanel fatto che le parti non longobarde dell'Italia avevano ancora un tipo particolare di cessione per ifitti a lungo termine, l'emphytensis, mentre i Longobardi non l'avevano; pertanto non è semprefacile conoscere se un fitto nell'Italia franco-longobarda veniva fatto al coltivatore, ad unaristocratico o a un vassallo (se non per informazioni casuali), la dimensione della proprietàaffittata, l'entità del canone richiesto. Non necessariamente la gente avrebbe considerato le dueforme di cessione del tutto distinte. Anche i contadini potevano, se avevano risorse sufficienti,prendere in affitto ulteriori proprietà che coltivavano in forma indiretta, e a partire da ciò tutta unagamma di variazioni esisteva. I grandi fondi venivano dati in genere in affitto per ricavarne canoniin denaro, che erano, anche se spesso superiori al nominale, esigui rispetto alla dimensione dellaproprietà. Uno dei primi affitti alla famiglia Aldobrandeschi nel sud della Toscana, ad esempio, apartire dall'809, Fissava un canone di 120 denarii annui al I ottobre, una bella cifra, ma piccola serapportata ad una estensione molto vasta con annessi due monasteri37. Questi fitti non dicono nulladel servizio militare o, per la maggior parte, della fedeltà politica. Tuttavia sono atti pubblici, egiudizialmente validi. La preoccupazione di mantenere il lato economico delle relazioni personalianche fra membri di una clientela, nell'ambito della legge pubblica, è proprio tipica degli italiani. Letestimonianze scritte dei diritti dei proprietari ebbero importanza per lo meno pari a quelle nonscritte, forse solo sottintese, relative al riconoscimento di obblighi personali. Questi erano ancoraper lo più il prodotto dei soli legami personali, in particolare il giuramento di vassallaggio. La terraera il quid pro quo, ma non era direttamente associata agli obblighi personali, a meno che non fosseun beneficio. All'inizio della caduta dello stato nel X secolo, quando le clientele diventarono semprepiù importanti, l'affitto rimase la forma principale di concessione. I benefici di per sé sitrasformarono in una semplice forma di affitto e gli assomigliarono sempre di più; divisibili fraeredi, ad esempio, com'era la terra in affitto, e non necessariamente collegati al servizio militare. Ledue forme si amalgamavano comunque, in quanto entrambe divennero sempre più cessioni direttedella proprietà, anche se nessuna delle due forme intendeva necessariamente esserlo.

Gli affitti su vasta scala furono fatti dalle chiese in cambio di appoggio politico, ma sarebbe unerrore immaginare che siano stati fatti in forma del tutto volontaria. I vescovi e gli abati avevanobisogno di appoggio contro le appropriazioni ad opera di aristocratici laici (talora, come sottoLotario, incoraggiati dallo stato). Il miglior modo per ottenerlo fu l'affittare ad altri aristocratici;talvolta agli stessi che avevano tentato l'appropriazione, come riconoscimento di sconfitta. I Franchipossono essere stati i principali colpevoli, avvalendosi della protezione dello stato per stabilirsi suiterreni; certamente i casi giudiziari del IX secolo mostrano che le azioni delle chiese contro simili 36 Kurze, 75. Per il feudalesimo militare italiano, cfr. P.S. Leicht, Il feudo in Italia nell'età carolingia (B4).

37 Barsocchini, 365.

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uomini sono per lo più rivolte contro Franchi. I1 clero concedeva affitti a chi lo appoggiava, mentrecontemporaneamente tentava di revocarli a quelli che li avevano ottenuti con la violenza. Geremiadi Lucca nell'852 ottenne da Lodovico II dei diplomi per revocare ogni contratto d'affitto o cessionescritta a sua scelta (non benefici—questi non possono aver costituito parte importante delledonazioni episcopali dell'epoca a Lucca). Le usò nell'853 contro una piccola famiglia che avevaaffittato una chiesa episcopale. Ma anche Geremia diede in affitto grandi estensioni ad altri, inparticolare alla sua stessa famiglia38. E, con l'inizio del X secolo, era emersa a Lucca tutta una seriedi famiglie aristocratiche che, pur avendo direttamente proprietà, si basava principalmente sucontratti di affittanza episcopali, famiglie alle quali le fonti fanno riferimento col termine di vassallidel vescovo. Queste famiglie erano per la maggior parte longobarde, e talora apparentementediscendevano da famiglie di proprietari terrieri del regno longobardo. I 'Rolandinghi' dellaGarfagnana, negli Appennini sopra Lucca, che appaiono per la prima volta nel secolo X,probabilmente erano discendenti di Pertualdo vir magnificus, un protetto di re Liutprando all'iniziodell'VIII secolo e padre di un vescovo di Lucca, Peredeo. Tali famiglie, che regolarmentericevevano terreni in affitto dai vescovi, chiaramente appartenevano in modo stabile alla clientelaepiscopale, come due secoli prima nell'Italia bizantina; da alcune di esse erano usciti i detentori dicariche episcopali, ma tutta la base del loro potere si era spostata. Lo status nell'VIII secolo sibasava sulla proprietà terriera. Col X secolo lo status si basava solo sul possesso, sia tramite laproprietà diretta, sia tramite l'affitto. Con la fine del X secolo un'intera signoria poteva basarsi sutali contratti d'affitto, in genere fondati sulla cessione in affitto da parte del vescovo delle decime diuna chiesa battesimale (pieve) e le chiese da questa dipendenti. Ad esempio i Rolandinghicontrollavano la pieve di S. Pancrazio sin dal 94039.

I Rolandinghi e famiglie ad essi simili erano la nuova piccola nobiltà del X secolo e oltre. Molte diesse presto cessarono di essere dipendenti dai vescovi, loro primi protettori. Per tutto il X secolo, sipossono trovare sacerdoti coscienziosi o ambiziosi che lamentano di aver trovato i propri patrimonidistrutti quando accedevano alla carica. Un chierico ben inserito, Gerberto, fatto abate di Bobbio daOttone II nel 982 e papa (col nome di Silvestro II) da Ottone III nel 999, avrebbe potuto ottenerequalcosa. Gerberto inviò numerose lettere a Ottone II lamentandosi dello stato di Bobbio dopo lapolitica degli affitti fatta dai suoi predecessori. Ottone III infine annullò tutti gli affitti nel 998, epersino emanò in materia un capitolare di carattere generale. I1 vescovo di Verona Raterio, ilmassimo letterato dell'Italia del X secolo, si trovò in posizione simile attorno al 960, se si puòcredere alle sue lamentele di così vasta portata e assai accese. Anch'egli fu ricompensato da undiploma del re del 967 che annullava i contratti d'affitto non vantaggiosi, quantunque è improbabilesia riuscito a servirsene, dato che i suoi nemici riuscirono a farlo destituire (ed era ormai tempo)dalla carica nel 96840. Ma malgrado gli sforzi di questi luminari, l'aristocrazia minore continuò abasarsi sugli affitti episcopali, emergendo talora come la parte più importante delle classi piùelevate dell'XI secolo.

La concentrazione delle terre della Chiesa è il risultato del carattere ecclesiastico della maggiorparte della nostra documentazione, ma tutto indica che conti ed altri aristocratici laici sicomportavano nella stessa maniera. Ciò valeva anche per lo stato. I re si avvalsero di donazionidirette, che, come si è visto, non erano troppo generose nei riguardi dei laici (le chiese non potevanofarlo; diminuire le proprietà della Chiesa tramite donazioni era contro il diritto canonico). Nonsembra si siano avvalsi di contratti di affitto, ma dopo il 774 essi certamente beneficiarono i loro

38 Manaresi, 25, 35, 43, 64 contro i Franchi; 57 per Geremia.39 Schwarzmaier (B3-f), pp. 22244; C.E. Boyd (4), pp. 88-99.40 Gerberto, Epistolae (MGH Briefe, II), nn. 2, 3, 5; Dipl. Ottonts, III, n. 303; b4GH Constitutiones, I, n. 23. Ratber:Dipl. Ottonis, I, 348; cfr. F. Weigle, Ratherius uon Verona inn Kampt um das Kirchengut, Q.F., XXVIII (1937-8), pp.27-35.

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vassalli, forse ancora su piccola scala. Comunque nel X secolo, le famiglie di vassalli del re erano inquantità pari a quelle di vassalli episcopali, comprese parecchie nuove famiglie comitali italiane.Ciò deve riflettere la maggiore generosità dei re dopo la morte di Lodovico II, che raggiunseproporzioni sbalorditive sotto Berengario I. Se queste famiglie si basassero su donazioni dirette diterreno o su benefici è spesso poco chiaro, ma non sembra abbiano considerato il loro diritto dipossesso come particolarmente condizionante; in quel momento non potrebbe aver fatto grandifferenza, dato che il potere dello stato declinava. Anche lo status di conte o visconte, e le terreconnesse a tale carica, spesso divennero nel X secolo proprietà privata per eredità, dato che allora inesse si ravvisavano maggiormente cessioni permanenti di diritti ad una famiglia. Sotto questoaspetto, il ricoprire una carica divenne una variante del godere di benefici, come nel nord Europa.Tuttavia, diversamente dal nord Europa, ciò non si limitò alla gerarchia aperta degli obblighimilitari feudali; sia coprire una carica sia il beneficio divennero proprietà incondizionate di singolefamiglie. I terreni pubblici di un conte iniziarono ad essere divisi fra i suoi eredi. Con il 1000, ancheil titolo di conte, o marchese, spesso divenne comune a tutti i membri di una famiglia. D'allora inpoi la struttura del potere da cui dipendevano i Carolingi era quasi dimenticata.

Col X secolo le gerarchie della società italiana erano sostanzialmente mutate. I diritti pubblici e leresponsabilità di tutti gli uomini liberi variavano a seconda della proprietà terriera e facevano capo aproprietari terrieri ricchi che in genere erano pubblici funzionari, base ideale dello stato longobardo-carolingio; ora ad essi si era sostituito un sistema di clientele legate ad un signore principale (laico oecclesiastico) da legami di vassallaggio, e da contratti d'affitto concessi più o meno liberamente,donazioni e benefici fondiari. Gli obblighi pubblici dell'uomo libero nei secoli VIII e IX erano perla maggior parte militari, ma si estendevano ad altro specialmente all'amministrazione dellagiustizia. Le clientele dei secoli X e XI, per contrasto, erano quasi totalmente militari.

Tuttavia l'antitesi non era completa. Anche i Longobardi avevano avuto seguiti armati collegati ailoro signori, come era logico per uno dei gruppi più attivi di invasori barbarici dell'Imperooccidentale. E nel X secolo non tutto era stato privatizzato. La maggior parte della giustizia erarimasta pubblica. Lo status di libero era ancora per principio una questione pubblica; lo statoesisteva ancora come concetto nel diritto pubblico. La signoria non fu mai così forte da diventare ilprincipio organizzativo per tutta, o anche per la maggior parte, della società, diversamente, adesempio, dal nord della Francia. Come in Francia il servizio militare fu sempre più prerogativadell'aristocrazia. Nell'XI secolo, miles, soldato o 'cavaliere', divenne un termine tecnico dellapiccola nobiltà. I comuni abitanti delle città lottavano ancora tuttavia, spesso con qualche effettoman mano che le città andavano verso l'indipendenza e lo status comunale. E un elementoimportante della feudalizzazione del nord Europa col X secolo non si verificò in Italia: la crescitadel concetto di una casta di nobili chiusa. Paolo Diacono nell'VIII secolo ne aveva menzionatol'assenza. Raterio di Verona fece la stessa affermazione nel X secolo:

Si consideri il figlio di un conte, il cui nonno fosse giudice; suo bisnonno fosse un tribuno o unosculdahis, il suo trisavolo solo un soldato. Ma chi era il padre di quel soldato? Un indovino o unpittore? Un lottatore o un uccellatore? Un pescivendolo o un vasaio, un sarto o un allevatore dipolli, un mulattiere o un venditore ambulante? Un cavaliere o un contadino? Uno schiavo o unuomo libero? 41

Chiaramente Raterio vide che la mobilità sociale avveniva all'interno dei ranghi della gerarchiaufficiale. Non v'è dubbio che la possibilità di tale mobilità (quantunque allora fosse rara) eracollegata al continuo sopravvivere dell'ideologia pubblica dello stato, nel quale in teoria tutti gli

41 Raterio, Praeloquia, 1. 23 (Migne, Pr, 136 c. 167).

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uomini liberi avevano gli stessi diritti. Questa ideologia doveva continuare ad esistere, soprattutto,nelle città, e dopo un secolo e mezzo sarebbe diventata uno strumento di forza nelle mani deicomuni. Tuttavia il potere reale dello stato era a quell'epoca scomparso da tempo, in parte in seguitoallo sviluppo sopra descritto. Nell'ultimo capitolo vedremo come.

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Capitolo sestoIL SUD

Nell'839 il principe Sicardo di Benevento fu giudice in una vertenza fra il vescovo diBenevento e il monastero di S. Maria in Locosano circa la proprietà della chiesabattesimale di S. Felice. I legali delle due parti disquisirono sulla storia della chiesanegli ultimi cent'anni o giù di lì, indi Giusto, l'avvocato del vescovo, decise diappellarsi al principio: tutte le chiese battesimali appartengono al vescovo in base aldiritto canonico. Ciò non ha alcuna importanza, dissero gli avvocati del monastero,«in quanto i principi e i vescovi (di Benevento), avendo dimenticato sia il dirittocanonico sia gli editti del nostro popolo longobardo, hanno sempre giudicato (il nostropossedimento) secondo il diritto consuetudinario del nostro stato» e se così non fossestato, molti monasteri sarebbero stati distrutti. Se il vescovo vuole osservare i principifondamentali, dissero, perché mantiene il controllo sulla diocesi di Siponto, cosa chefa sin da quando il duca Romoaldo I la diede a S. Barbatus di Benevento nel VIIsecolo? In primo luogo nomini un vescovo a Siponto, dissero, indi ci dica chitrasgredisce il diritto canonico. Sembra che Sicardo abbia reputato questo argomentoaccettabile; comunque S. Maria mantenne la propria chiesa1. L'autonomia diBenevento fu una giustificazione sufficiente per ignorare, quando necessario, non soloil diritto longobardo del nord, ma anche lo stesso diritto ecclesiastico.

Nel IX secolo Benevento era diversa dal nord, e si accorse di esserlo.

Erchemperto, scrivendo la sua storia di Capua attorno all'890, non trovò nella storialongobarda successiva al 774 null'altro che la storia di Benevento e degli stati che adessa successero; al nord tale storia aveva cessato di esistere. Questo senso dilegittimismo longobardo mette in risalto l'ideologia dei governanti degli stati del sud,fin dall'epoca in cui il duca Arichi II assunse il titolo di principe nel 774. Può darsiche Arichi abbia portato la corona; di certo la portarono i suoi successori. In alcunicasi i principi erano pronti ad offrire lealtà ai re franchi e agli imperatori, come nel788, 812, 867 e 963, ma ciò era solo il riconoscimento di eserciti più potenti. Semprepiù spesso, infatti, essi riconobbero l'egemonia dell'imperatore di Bisanzioparticolarmente negli anni in cui il potere bizantino era al suo apice, circa l'880-960.Per decenni consecutivi i principi di Benevento e Salerno accettarono il titolo dipatrizi di Costantinopoli, talora recandovisi personalmente per riceverlo. Ma losviluppo del sud longobardo, e almeno parte del sud bizantino, proseguirono lungolinee indipendenti da quanto accadeva altrove, ed avevano iniziato questo processoben prima del 774. Eccezion fatta per le ultime quattro decadi del regno longobardo,Benevento era sempre stata in realtà un ducato indipendente; e i territori bizantini diRoma, Gaeta e Napoli dopo il VII secolo erano solo nominalmente sotto il controlloorientale.

La documentazione del sud non è eguale a quella del nord, ed il rilievo per tradizionedato dagli storici è stato diverso. Un primo motivo risiede nel fatto che l'Italia del sudaveva una migliore tradizione nel tramandare la storia per iscritto. Fino alla fine del Xsecolo, si può accedere a descrizioni dettagliate di eventi politici, che invece sono un

1 Chronicon Vulturnense, cit. (in seguito: C. Vult.), n. 61.

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po' più rare nel Nord, e queste spesso sono più che adeguate. Erchemperto vanta diessere il migliore storico, assieme ad Agnello, del periodo in esame in Italia; l'autoreanonimo del Chronicon Salernitanum degli anni attorno al 980 ha il pregio, almeno, diessere il più geniale2. La tentazione di concentrarsi sulla pura storia politica è piùfrequente al sud, e, per il vasto numero di stati sovrani ivi esistenti, che erano semprein guerra, forse vi è più storia politica da analizzare. Questa tentazione è incoraggiatadal sopravvivere non uniforme di documenti antecedenti il XII secolo. Ci sonoeffettivamente alcune raccolte molto ampie di documenti: gli archivi monastici e icartulari di Farfa, Montecassino, Casauria e Cava, ognuno dei quali è formato damigliaia di documenti antecedenti il XII secolo, e anche gli archivi laici di alcune cittàdell'Apulia e in particolare di Napoli sono fondamentali. Ma per vaste zone dell'Italiameridionale siamo quasi privi di documentazione, e anche gli archivi esistenti si sonocominciati appena ad esaminare, eccetto Farfa, S. Vincenzo e Napoli.

In questi casi, una trattazione dettagliata dello sviluppo dell'Italia del sud in paragoneal nord è ancora a malapena possibile, specialmente in quanto la frammentazionepolitica e geografica ha dato origine a molte storie fra loro totalmente diverse. Inprimo luogo verrà data una descrizione dell'economia del sud, quindi un breve profilopolitico fino agli anni attorno al 1000. Successivamente verranno analizzate due diqueste storie diverse, che forniranno alcuni paragoni per il soggetto del VII capitolo,sulla caduta dello stato nel nord: primo, il Catepanato Bizantino, ove un governo fortecontinuò ad esistere anche nell'XI secolo; secondo, Benevento, ove la decadenzainiziò ai primi anni del IX secolo. Alla fine verrà preso in esame il contesto deicambiamenti principali nellinsediamento e nel controllo locale a Roma e in Campanianei secoli X e XI.

Nel sud d'Italia poca è la terra in pianura. La campagna romana, la Liburia (l'attualeTerra di Lavoro, la pianura di Capua) e la pianura dell'Apulia erano le aree piùimportanti; altre zone, come le pianure di Metaponto, Sibari, e del Sele, sono maldocumentate e probabilmente erano per la maggior parte incolte o zone paludosemalsane. Fra queste zone di terra relativamente fertile e popolata si erge la massadegli Appennini meridionali, meno alti di quelli dell'Italia centrale, ma anche piùsterili, specialmente in quei tratti ove predominavano gli aridi altopiani di calcare e ipendii di argilla erosa. Zone simili esistono nel nord, e costituiscono terre marginalifra zone abitate; a sud di Roma costituiscono la metà dell'intera massa di terreni. Nonsorprende che il potere politico fosse concentrato in così poco spazio. Dei sette statiche contestavano il potere a sud di Roma, i centri politici di cinque erano raggruppatiin mezzo alla Campania, Capua, Napoli, Benevento, Salerno, e Amalfi; il sesto,Gaeta, era vicino al nord; il settimo, Bisanzio, tramite il susseguirsi diamministrazioni provinciali, aveva il suo centro in Apulia (cfr. le carte 3,5,ó). I1controllo delle terre ricche esistenti costituiva la principale preoccupazione di questistati, e chiaramente giustifica le incessanti guerre fra essi. Ma non si devonodimenticare le montagne.

Esse costituivano la parte principale dei territori degli stati longobardi, almeno, ed unostato sfortunato, come Benevento negli anni attorno all'880 e 890, poteva trovarsi

2 Erchemperto, Historia Langobardorum Beneventanorum, in S.R.L.; Chronicon Salernitanum, cit. (inseguito: 5. Sal.).

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temporaneamente formato solo da zone collinose o montuose. I1 controllo di essoveniva reso più difficile dall'assenza di centri urbani vitali che fungessero da basedell'amministrazione locale.

Nel 1903 Louis Duchesne evidenziò che le invasioni longobarde e, in modo minore,le guerre gotiche avevano portato all'annientamento della maggior parte dei seggiepiscopali del sud d'Italia3. Nei ducati di Spoleto e Benevento, di alcune centinaia divescovati, nel 700 ne esistevano solo una decina: Spoleto e Forcona nel ducato diSpoleto; nel ducato di Benevento, probabilmente Capua e Agropoli, Benevento (dopoun intervallo di un secolo) e un pugno di città dell'Apulia conquistate verso la fine delVII secolo. I Longobardi possono essere stati favorevoli o contrari al cattolicesimo nelSud; ma tutte queste diocesi erano certamente assai piccole, e per la maggior parteerano in zone collinari. Le città sulle quali si basavano erano anch'esse molto piccole,e in molti casi nel nord Italia sarebbero state ritenute appena villaggi.L'organizzazione episcopale, e la cristianità stessa, erano probabilmente piuttostodeboli in molte di esse. Ogni piccolo disturbo, una guerra o un duca ostile, sarebbebastato ad abbatterle.

Si potrebbe prendere Isernia negli Appennini del Molise come esempio tipico di talecittà, sede vescovile nel IX secolo e contea dal 964, che ancor oggi, dopo una veloceespansione, ha appena 15.000 abitanti. Sorge lungo uno stretto cuneo di speronimontuosi fra due torrenti, città principale di una provincia di campagna frammentata eflagellata dalla povertà, con confini pressoché identici a quelli della contea del Xsecolo. Questa contea era in effetti piuttosto estesa per un territorio urbano del sud delX secolo ma totalmente insufficiente nel contesto in cui si trovava ad essere ilsupporto territoriale ad una attiva vita urbana. Altre città erano anche più piccole. NelX secolo i Bizantini smisero di tentare di distinguere le loro dai villaggi fortificati; neitesti greci conservati comincia ad essere usato indifferentemente il termine kastronper entrambi i tipi di habitat. Acerenza, la città più importante della zona che oggiviene definita Lucania, se si può credere al Chronicon Salernitanum, avrebbe potutocambiare di luogo secondo il capriccio di Grimoaldo III di Benevento nel 7884. AncheCapua, centro della Liburia, fu evacuata verso un vicino castello in collina chiamatoSicopoli nell'840. Gli abitanti della città tornarono in pianura solo nell'856, in unluogo diverso, a cinque chilometri dal guado del Volturno. Della vecchia città (ora S.Maria Capua Vetere) rimase solo l'anfiteatro, usato come fortificazione. Atanasio diNapoli con acutezza sfruttò il periodo della vendemmia per saccheggiare la nuovacittà nell'884, in quanto tutto il corpo cittadino, anche le classi più elevate, erano fuoria vendemmiare; è ovvio che l'economia di Capua era decisamente agraria5. Capua ful'ultima a svilupparsi fra le città delle grandi pianure, e col X secolo era anchefiorente; ma fuori delle pianure, le città non erano mai grandi o prospere, e bendifficilmente avevano vera importanza urbana.

I1 contrasto fra montagna e pianura era posto in maggior rilievo dalla notevolecomplessità delle città principali poste in pianura. Nei secoli VII e VIII ciò poteva nonessere ancora evidente, eccezion fatta per le capitali bizantine e longobarde, Napoli eBenevento; queste erano città attive, com'era logico visto il loro ruolo politico. Arichi

3 L. Duchesne, Les évechés d'Italie et l'invasion Lombarde (86-a).4 C. Sal., c. 27.5 Erchemperto, cc. 15, 245, 56.

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II espanse Benevento verso la fine dell'VIII secolo, costruendo lì una civitas nova, unacittà nuova. Le nuove capitali del IX secolo, Gaeta, Amalfi e Salerno, erano fino aquesto momento soltanto castra, baluardi di difesa. Tuttavia una volta fondate,crebbero velocemente. Anche Salerno fu praticamente rifondata da Arichi negli anni770-780; egli quadruplicò la cinta muraria e vi costrui un palazzo, facendone laseconda città del suo principato. Nei secoli IX e X essa giunse fino alle nuove mura,poiché la popolazione si era triplicata. Inizialmente una tale espansione fusemplicemente il riflesso della nuova importanza politica della città, che a partiredal1'849 fu il centro di uno stato sovrano. Ma nel X secolo, quando ebbe un porto, inbreve tempo assunse importanza pari ad Amalfi, Napoli e Gaeta come centrocommerciale6.

Fra queste città commerciali Amalfi è la più famosa. Sembra si sia affermata, dopoessersi resa libera rispetto a Napoli attorno all'840, con alleanze più o meno strette congli Arabi nei loro saccheggi sulla costa italiana nei secoli IX e X, ottenendo cosìconcessioni e vantaggi particolari nel mondo arabo. Certamente è ragione sufficiente acomprendere perché gli abitanti di un villaggio di pescatori inaccessibile, didimensioni ridottissime, circondato da scogliere, debbano essere diventati i maggioricommercianti del Mediterraneo occidentale. Ma anche le altre città avevanoimportanza commerciale: gli abitanti di Salerno e Gaeta a fianco degli Amalfitani edei Veneziani compaiono nelle Honorantiae come mercanti privilegiati a Pavia, e ilviaggiatore arabo Ibn Hawqal nel 977 vide in Napoli un centro commerciale secondosolo ad Amalfi7. Ironicamente, grazie alle stesse scorrerie arabe, si sviluppò una retecomplessa di rotte commerciali fra Bisanzio, gli Arabi e l'occidente, con il suo apiceoccidentale in Campania (Venezia, naturalmente, aveva posizione similenell'Adriatico, segruta dalle città pugliesi Bari e Trani). Le città della Campaniaavevano già grandi flotte nel IX secolo, che forse erano pari a quelle dei Bizantini; isecoli X e XI ne segnarono il culmine. I1 contraltare del testamento di GiustinianoPartecipazio a Venezia è quello di Docibile I, console (ypatus) di Gaeta nel 906, chepoteva distribuire ai suoi sette figli e a parecchi altri destinatari gran quantità dimonete d'oro, argento e bronzo, tessuti di seta, gioielli, un valore di 120 solidicostituito da ornamenti marmorei nella chiesa di S. Silviniano, oltre a vasti terreni enumerosi animali. Queste città erano cosmopolite, con notevoli legami con l'Oriente,e quartieri ebraici; anche Capua e Benevento annoveravano ebreinell'amministrazione, e Oria in Apulia era un centro culturale ebraico rilevante8.Dall'XI secolo Salerno aveva fondato la scuola di medicina, fonte principale della suarinomanza europea. Le città declinarono solo con la conquista normanna e con laconcorrenza da parte delle nuove città commerciali del nord, Genova e Pisa, cheavevano relazioni più strette con i centri commerciali in Europa.

Non è chiaro quanto abbia esattamente influito questa complessità commercialesull'entroterra dell'Italia del sud. Le città delle montagne erano politicamente separatedai porti commerciali, e, come si è visto, ben poche di esse erano centri urbani. Ancheil principato di Salerno, che almeno di nome comprendeva una vasta zona collinare emontuosa, non aveva altre vere e proprie città eccetto forse Nocera. Di certo Capua e 6 Cfr. P. Delogu (B3-e), capitolo primo e terzo.7 R.S. Lopez e I.W. Raymond (As-b), p. 54; Honorantiae, c. 6.8 Codex Diplornaticus Cajetanus, I (Montecassino, 1887), n. 19. Per gli ebrei, cfr. in particolare TheChronicle of Ahimaaz (A3-e).

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Benevento erano prospere, ma più nel senso che si è visto per le città del nord: comecentri delle classi superiori e centri amministrativi, più che come città commerciali.Le città costiere del sud fungevano da porti per il commercio internazionale più cheda punti commerciali rivolti all'entroterra. Napoli produceva manufatti in lino.Sembra che in Liburia dal x secolo vi sia stato uno sviluppo relativamente ai raccoltidi uva per la vendita. In Campania almeno, l'effetto del commercio costierosull'economia interna sembra essersi limitato a questo. Nell'Apulia bizantina nell'XIsecolo, vi è qualche prova dello sviluppo della produzione di frumento e forse olio peri mercati, e in Calabria si trovano manifatture di seta. La manifattura della seta prestoprese piede anche nelle zone longobarde, in quanto ci sono riferimenti al riguardo neicontratti d'aflitto della fine del X secolo degli alti Appennini d'Abruzzo. Monasteriquali S. Vincenzo al Volturno erano talora preparati a migliorare le loro proprietàmeno produttive, forse in vista del commercio (quantunque il monastero di S.Vincenzo dovesse produrre seta per proprio uso). Ma, a parte le aree bizantine, ciònon era comune9.

L'economia rurale del Sud rifletteva inevitabilmente gli enormi contrasti fra zonegeografiche. Nelle pianure la terra era frazionata almeno quanto in ogni altro luogodel nord. Nel 964 Pandolfo I di Capua-Benevento donò 300 modia (forse 27 ettari) diterra in Liburia al monastero di S. Vincenzo, divisa in non meno di 118 campiseparati, ognuno con confini propri e dimensioni citate nel testo. Alcuni di questiappezzamenti erano piccoli come in questo esempio: « ...I1 cinquantunesimoappezzamento, chiamato ad cirasa: da un lato la terra di S. Salvatore; dall'altro la terradi Giovanni il Napoletano; un'estremità dà sulla terra del sopracitato Ursus; l'altrasulla terra già citata di Agimundo. Su ogni lato misura 41 passi, e ad ogni estremità 8passi ».

D'altro canto, si poteva possedere terra in montagna in vaste unità. I1 nucleo dellaterra di S. Vincenzo alle fonti del Volturno, donazione o del duca Gisolfo I diBenevento attorno al 700, o di Arichi II nel 760, formava un unico blocco di oltre 500chilometri quadrati10. Un'area simile, o come il blocco limitrofo di proprietà diMontecassino, per lo più era costituita da foresta con insediamento antico, ma supiccola scala. Parte di questo forse sparì dopo che gli Arabi saccheggiarono imonasteri negli anni 881-3 ed i monaci si rifugiarono a Capua. Nel X secolo, sitrovano contratti di affitto per disboscamenti su vasta scala fatti a coltivatoriimmigranti, da poco insediatisi in villaggi fortificati. Questo contrasto fra proprietàterriera frazionata e consolidata fu ben più acuto che al nord. Indicava grandidifferenze nel controllo locale. il comunque dubbio se l'economia nel suo insiemefosse tanto differenziata. Lo spartiacque agricolo-pastorale nel sud non portò in questoperiodo a specializzazioni regionali individuate. Sembra che le zone di montagnaabbiano prodotto granaglie e vino in quantità pari ai prodotti della pastorizia. El'organizzazione della produzione agraria non variava poi tanto nel sud, in quanto il'sistema curtense' centralizzato, abbastanza debole nel nord, a sud di Roma proprionon esisteva. La prestazione obbligatoria di lavoro, raramente esisteva nel IX secoloin Sabina e Abruzzo; più a sud non fu mai citata nei documenti. Parte della terra eracoltivata direttamente dagli schiavi; la maggior parte di tutto il sud era comunque

9 C. Vult., 157, 177, 178, 181. Per Bisanzio: A. Guillou (A5-b).10 C. Vult., 140 (Liburia), 9, 12, 70 (Appennini).

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formata da tenute date in affitto per canoni, in denaro o (più spesso) in natura,frammista alla terra di piccoli proprietari liberi. La produzione contadina su piccolascala era ovunque preponderante.

All'inizio c'erano probabilmente più concessionari servili nel sud che nel nord. Non ciè noto perché dovesse essere così, ma probabilmente questo spiega il costume usualedei secoli VI-IX dell'Italia del sud e della Sicilia di alienare, non lotti di terreno, macondamae, famiglie di schiavi. In genere la terra seguiva queste condumae, cosi ladonazione era molto simile a quella delle casae massariciae del nord Queste ultime,tuttavia, potevano essere coltivate da contadini liberi; una conduma doveva per forzaessere formata da servi. Nei secoli X e XI, sembra che i concessionari servili abbianogradualmente acquistato la libertà, in parte aiutati dal caos delle guerre arabe, e inparte, come nel nord, dall'assenza di prestazione obbligatoria di lavoro11. Col Xsecolo, cominciarono ad essere presenti nel sud contratti d'affitto con coltivatori liberi,oltre un secolo dopo che nell'Italia del nord e centrale. La schiavitù persisteva ancora,ma, come nel nord, andava diminuendo. Un esempio viene fornito da un gruppo dischiavi di Gaeta che reclamano la libertà in un caso giudiziario del 999; sebbene siritirino dal processo per duello per dimostrarla, alla fine è concessa loro la libertà daparte del vescovo in cambio di una libbra d'oro. Gli schiavi non solo desideravano lalibertà, ma talvolta potevano far fronte all'acquisto della stessa ad alto prezzo12. Lacrescita nello status di coltivatore schiavo sembra sia stata assoluta, e nonaccompagnata da un indebolimento rilevante della posizione degli uomini liberi. Lalenta crescita della proprietà ecclesiastica provocò una lenta diminuzione delle terredei piccoli proprietari liberi, come avveniva per le terre delle classi più elevate, manon si hanno paragoni con il declino degli arimanni del nord nella poco documentatalegislazione del sud a noi pervenuta, e per il sud di Roma, non si sono ancoraesaminati documenti che vi alludono. Le invasioni arabe possono anch'esse averimpedito in questo caso, il consolidarsi del potere locale che si può vedere a nord diRoma. I1 riproporsi della proprietà monastica negli Appennini nel X secolo consentìagli affittuari dei monasteri una notevole indipendenza locale. Nell'Apulia bizantinaera presente un numero particolarmente grande di piccoli proprietari; il potere dellostato bizantino deve aver avuto qualcosa a che fare con ciò.

Prima di occuparsi di problemi più politici, è bene esaminare uno dei più notevoliaspetti minori della vita economica del sud, la proprietà dei tertiatores della Liburia13.Ciò era oggetto di una complessa serie di capitoli di un trattato fatto da Arichi lI con ilduca Gregorio II di Napoli, forse nel 786. Gli stessi tertiatores apparentemente eranoaíEttuari schiavi, che pagavano un canone parziale pari ad un terzo. Compaiono in undocumento forse del 748, quando due di loro, Mauremundo e sua moglie Colossa,vengono venduti ad un monastero napoletano, proprio in modo identico a quantoaltrove avveniva per le condumae. L'aspetto più notevole della loro condizione,tuttavia, è dato dal fatto che essi appartenevano contemporaneamente al duca di

11 Il Per le condumae di schiavi: Gregorio, Epp., 9. 71, 13. 18; C. Vult., 22, 32, 38, 69; C. Troya,Codice diplomatico longobardo (Napoli, 1852-5), nn. 430, 559, 568, 625, ecc. Per le prestazioni dilavoro obbligatorio e la fine della schiavitù: P. Toubert (B3-f), pp. 465-79. Sull'agricoltura nel sud ingenerale: A. Lizier (B5-c).12 Cod. Dipl. Cajetanus, 100 (= Manaresi, 250).13 Pactum Arechisi (in MGH Leges, I«, pp. 213-5) e Sicardi Pactio, c. 14 (ibid., p. 220); Troya, op. cit.,vol. v, 616'; cir. Ie opere di G. Cassandro, recentemente: Il ducato bizantino, in Storia di Napoli, II(Napoli, 1969), pp. 129-56.

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Benevento e al duca di Napoli, o a vari aristocratici longobardi o napoletani e a chiesealle quali i duchi avevano fatto donazioni. La Liburia deve essere stata formata sottol'Impero principalmente da terreni fiscali e urbani municipali, ed era stata divisa fraBenevento e Napoli, forse nel VII secolo. Ma la soluzione scelta da queste città per ilproblema della divisione, e cioè la proprietà congiunta e l'uguale divisione dell'affittoricavato, era una risposta univoca ad un problema territoriale, e non sembra abbiarisentito delle varie guerre fra le due parti. Arichi fece in modo che questa forma dicomproprietà nella maggior parte della Liburia sparisse, ma in alcune zone continuòad esistere fino al X secolo ed oltre. Dei 118 appezzamenti ivi alienati da Pandolfo Inel 964, 57 erano « in comproprietà con Napoletani »; e nell'XI secolo, quando laterra in Liburia era quasi totalmente privata e del tutto frazionata, la pars militiae(Napoli) e la pars langobardorum rimanevano come due gruppi di proprietaricontrapposti, mescolati tra loro in modo inscindibile. Ciò può servire a dare rilievo adun punto: le principali suddivisioni socioeconomiche del sud erano geografiche e nonpolitiche. Le zone longobarde e non longobarde del sud in genere erano in guerra, indiverse alleanze, ma avevano le medesime abitudini, ed inoltre la maggior parteparlava la stessa lingua. Nella nostra analisi non serve separarle in modo troppo netto.

La storia politica del sud è molto complessa, e, pur esistendo molte opere a riguardo, èpiuttosto difficile fare generalizzazioni in proposito14. Grimoaldo I (649-62) eRomoaldo I (662-87) di Benevento avevano scacciato Costante II ed avevanoristabilito l'egemonia di Benevento nel sud. Dal 774 Arichi II aveva il controllo di unprincipato unito che si estendeva fino alla estremità dell'Apulia (solo Otrantocontinuava ad essere bizantina) e si addentrava fino a metà della Calabria. I1 ducatodi Napoli era un endave indipendente sulla costa occidentale, più o meno autonomoda Costantinopoli. La Calabria bizantina e la Sicilia erano soggette al più ampiocontrollo orientale.

Benevento era abbastanza forte da fronteggiare le saltuarie invasioni franche del nord.Per la sua integrità territoriale furono più pericolosi la guerra civile dell'839-49 e iprimi attacchi arabi negli stessi anni. Gli assassini di Grimoaldo IV nell'817 e Sicardonell'839 mostrano, come si vedrà, la crescente insicurezza del potere del principato aBenevento. Con 1'839 parecchi aristocratici di Benevento ritenevano di avere dirittoin linea diretta al trono. Radelchi I, il nuovo princípe, uccise il suo principale rivale,ma i suoi nemici si raccolsero attorno a Siconolfo, fratello di Sicardo e fecero base aSalerno. Soltanto l'intervento franco pose fine alla guerra, quando Lodovico II eGuido I di Spoleto imposero la divisione del principato nell'849. In quel momento, gliArabi attaccavano ogni zona del Sud. Radelchi cominciò a servirsene come mercenarinell'841, e fece in modo che facessero base a Bari nell'843. Essi assediarono la città, ela costituirono base di un emirato che cedette all'assedio franco-longobardo-bizantinonell'871. Di lì in poi e dalle successive basi sulla costa orientale poste a Agropoli e sulGarigliano, per vari decenni gli Arabi terrorizzarono il sud. L'insicurezza da loroprovocata cominciò a logorare i rapporti su cui si fondava la società meridionale. Alsud ogni stato era ormai fragile, a meno che non fosse bizantino, quando un'altraalleanza internazionale non scacciò gli Arabi nel 915 dal Garigliano.

14 Cfr. per un'analisi basilare, N. Cilento, Le origini della signoria capuana (Roma, 1966); J. Gay (B3-e); C.G. Mor (B1).

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Napoli aveva avuto presto il suo momento di maggiore debolezza, fra 1'800 e 1'840.Un governo debole rimase sulla difensiva di fronte agli attacchi di Sicone e Sicardo diBenevento i quali assediarono Napoli due volte prima di fare la pace nell'836, eproseguirono occupando Amalfi nell'838-9. Dall'839 non è riscontrabile alcunaautorità esercitata da Napoli sulla successione di consoli e prefetti di Amalfì. Anchegli anni attorno all'830 videro i primi bypatoi di Gaeta, anch'essi più o menoindipendenti. Docibile I (867-circa 910) certamente non doveva alcuna fedeltà aNapoli, e fondò una dinastia che si protrasse fino al XII secolo. Da quest'epoca ancheNapoli ebbe una dinastia permanente, di pari durata, che iniziò nell'840 con Sergio I.Sergio e suo figlio Gregorio III furono molto attivi nelle guerre del IX secolo, sebbeneil figlio di Gregorio, Atanasio II, vescovo e duca (876-98) fosse certamente il membropiù importante della dinastia in questi anni.

Benevento e Salerno si separarono nell'849, ma rimasero in cattivi rapporti, esacerbatidai conti di Capua, che volevano instaurare una loro autonomia indipendentemente daSalerno. Salerno rimase instabile fino a che un protetto capuano, Guaiferio I, divenneprincipe nell'861. Da quell'epoca l'indipendenza di Capua fu riconosciuta. Ne seguì unbreve periodo di pace dovuto anche alla presenza di Lodovico II nel sud negli anni867-73; dopo la sua partenza, le guerre ripresero. Le guerre, almeno in Campania,erano ora più complicate dalla divisione di Capua dopo 1'879 in diversi gastaldatibelligeranti. Gaeta, Salerno, e Napoli si unirono a diverse fazioni finché Atenolfo I diCalvi, uno dei gastaldi rivali, prese Capua nell'887 con l'aiuto di Atanasio di Napoli.I1 successo di Atenolfo era in contrasto con le fortune di Benevento e Salerno, checominciavano a risentire della ripresa bizantina. Nell,876 i Bizantini occuparono Bari,e nell'880 cacciarono gli Arabi da Taranto. Negli anni 885-8 occuparono tutta l'Apuliaobbligando i principi di Benevento a ritirarsi sulle montagne. Salerno divenne nell'866uno stato soggetto a Costantinopoli. Benevento fu effettivamente conquistata daiBizantini, e da essi governata per tre anni (892-5) fino a che fu 'liberata' da Guido IVdi Spoleto, che la occupò fino all'897. Benevento godette di tre anni d'indipendenzaprima che Atenolfo la unisse a Capua nel 900, unione che durò fino al 981.

Verso il 900 i Bizantini governavano tutta l'Apulia (sebbene la fascia settentrionale, inseguito, fu varie volte in mano a Benevento), quasi tutta la Lucania e l'intera Calabria.Benevento e Salerno avevano perduto quasi metà dei loro territori, tuttavia i Bizantininon ebbero ovunque lo stesso successo. Tra 1'827 e il 902 gli Arabi avevanoconquistato l'intera Sicilia, e successivamente se ne servirono per attaccaresistematicamente la Calabria. Napoli era totalmente al di fuori della sfera d'influenzabizantina, e d'allora in poi la Sardegna fu dawero indipendente, sommariamente divisain quattro iudicati, governati da giudici. Ma i temi bizantini della Langobardia(Apulia) e della Calabria, uniti verso la fine del X secolo sotto un catepano, rimaseroda allora gli elementi più solidi del Sud.

Dopo che gli Arabi furono scacciati dal Garigliano nel 915, Capua-Benevento eSalerno raggiunsero una qualche forma di stabilità territoriale. La guerra in Campaniadiminul, sebbene Landolfo I di Benevento (910-43) e Gualmario II di Salerno (893-946) tentassero più volte di dimostrare il loro coraggio combattendo in Apulia, inparte in risposta alla prima di una serie di rivolte urbane. Nel 961 Pandolfo I che fudetto Capodiferro, divenne il principe che governava CapuaBenevento ed aumentò ilsuo potere stringendo un'alleanza col nuovo re-imperatore italiano Ottone I. Nel 967Ottone I venne al Sud, a capo della prima invasione proveniente dal nord Italia per

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circa un secolo. A Pandolfo, che già aveva ottenuto Spoleto e Camerino, fu affidatanel 969 la conquista dell'Apulia pianificata da Ottone. Egli fu catturato in modoabbastanza ignominoso e condotto per un breve periodo prigioniero a Costantinopoli,ma l'aiuto di Ottone gli diede ancora la supremazia nel Sud longobardo. Quando unarivolta di palazzo rovesciò Gisolfo I di Salerno negli anni 973-4, Pandolfo intervennee lo reinsediò; fu ricompensato con la successione a Salerno per sé e il proprio figlio.In breve, negli anni 974-81, Pandolfo governò l'Italia da Ancona ai confini dellaCalabria. Alla sua morte tuttavia, i suoi domini andatono dispersi. Salerno, dopo unabreve occupazione attuata da Amalfi (981-3), insediò una nuova dinastia; Spoletotornò ad essere retta da governanti del Nord; anche Capua e Benevento si divisero. I1secolo finì com'era iniziato, in un caos di guerre e invasioni condotte dal Nord inmodo disastroso con Ottone II negli anni 981-2; in modo più efficace nel 999 conOttone III, quando Capua per breve tempo fu posta sotto il controllo di Spoleto. L'XIsecolo ebbe caratteristiche simili: le grandi imprese occasionali di principi qualiPandolfo IV di Capua negli anni attorno al 1020 o Guaimario V di Salerno negli anniattorno al 1030 vennero sempre più offuscate dalla crescita del potere dei mercenarinormanni che, dagli anni attorno al 1070, erano padroni di tutto il Sud. La storia delSud di lì in poi avrebbe registrato un cambiamento decisivo.

Nel 1907 Réné Poupardin defini questa storia 'lotte intestine tanto sterili quantooscure' e per questa frase fu criticato dagli storici, ma sarebbe difficile dire che egliavesse completamente torto15. Ogni governo della Campania ebbe il suo momento digloria; in pari modo ogni momento era effimero. In periodi diversi Capua occupòBenevento, Salerno e Napoli; Salerno occupò Amalfi e viceversa; per breve tempoNapoli e Salerno governarono entrambi Capua; i duchi di Spoleto, nelle loroavventure meridionali ebbero talora autorita su Benevento e Capua. Troppe potenze sicontendevano un territorio troppo piccolo. L'apice fu raggiunto da Pandolfo I il piùforte principe longobardo dopo Sicardo, ma in realtà il regno di Pandolfo fucaratterizzato da una quasi totale assenza di controllo da parte del principe suiterritori. Le ragioni di ciò sono più interessanti dei motivi del suo successo politicotemporaneo. Si esaminerà lo sviluppo di Capua-Benevento come paradigma delfallimento delle strutture interne della maggior parte degli stati del Sud, dopo che sisarà esaminata brevemente l'eccezione a questa storia di declino, il Catepanatobizantino, in particolare il tema di Apulia16.

I Bizantini non raggiunsero mai l'egemonia totale in Apulia, nel senso di unaaccettazione indiscussa della legittimità del loro governo. Le sollevazioni cittadineerano comuni, e culminarono in una serie di rivolte negli anni 1009-18 cheprocurarono una certa autonomia a città quali Bari e Trani, come a nuove città qualiTroia (fondata nel 1019). L'infuenza greca non fu mai dominante nella maggior partedell'Apulia.

Il diritto longobardo è il più comunemente usato negli atti (il diritto romano lo fumolto raramente, quantunque l'Apulia non fosse una regione nella quale i Longobardisi siano mai insediati in modo massiccio). L'onomastica longobarda anche nelle città 15 R. Poupardin (B3-e), p. v.16 Cfr. Gay (B3-e); V. von Falkenhausen (B3-e); A. Guillou, Italie méridionale byzantine ou Byzantinsen Italie méridionale? (B3-e).

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costiere fu molto più comune di quella greca. Sotto quest'aspetto l'Apulia era incontrasto con la Calabria, che in gran parte ebbe usanze cultura e lingua decisamentegreche, in quanto i Longobardi non l'avevano mai conquistata. Le vite dei santi dellaCalabria dei secoli X e XI rivelano chiaramente una cultura che guardavaesclusivamente a Costantipoli. Così, ad esempio, quando il famoso eremita calabrese,Nilo di Rossano (circa 910-1005) lasciò la Calabria attorno agli anni 970, prevedendola ripresa degli attacchi da parte degli Arabi, si recò a Capua e successivamente aRoma, piuttosto che nel Mediterraneo orientale, sperando di rimanere nell'ombra se siritirava in zone di lingua latina17. Anche l'Apulia aveva consuetudini greche—epersino il capo dei ribelli, Meles, attorno al 1010, indossava secondo le descrizioninormali abiti greci—ma i Bizantini ben poco influirono sulla società dell'Apulia. IBizantini si servirono dell'aristocrazia longobarda per trarne i propri funzionari e gliamministratori locali. Soltanto i catepani e gli strategòi, che reggevano l'Italiabizantina, erano sempre solo greci e, come gli esarchi del Nord dell'VIII secolo,venivano cambiati spesso. Comunque sembra che l'aristocrazia longobarda sia statanella maggior parte leale. Certamente le sollevazioni cittadine non andavano avantaggio dei principi di Benevento e Salerno. Più spesso furono risposte ostilispecificamente indirizzate contro singoli amministratori e contro l'instancabileefficienza del governo bizantino.

L'amministrazione bizantina indicò che un modello di governo, che sotto molti aspettifondamentali era ancora quello del tardo Impero poteva funzionare nel X xsecolo inmodo efficace come aveva fatto nel VI secolo. I Bizantini esigevano ancora tasse, edil loro sistema fiscale era maggiormente centralizzato di quanto non lo fosse statoquattro secoli prima. I territori urbani e i territori rurali furono amalgamati,diventando, semplicemente, unità fiscali, kàstra (se fortificati) o khoría (se eranoinsediamenti aperti). L'autonomia rurale ed urbana all'inizio fu soltanto de facto, esitodel conferimento di tutta una serie di cariche locali a importanti famiglie locali.Tuttavia le città, particolarmente sulla costa dell'Apulia, furono comunità complesse,e talora le si può veder agire collettivamente. Un atto del 992 riguardo alla piccolacittà di Polignano cita « tutti gli uomini che abitano nella città di Polignano, isuperiori, i mediocri e tutto il popolo » che acconsente collettivamente ad unadonazione. Come nell'Italia del Nord dello stesso periodo le città cominciarono alottare per l'autonomia che più si addiceva alla loro complessità interna, e con lerivolte dell'inizio dell'XI secolo parzialmente l'ottennero. Sembra che anche i villaggiabbiano agito collettivamente, ed abbiano ottenuto in alcuni casi poteri diautogoverno. Tuttavia si sbaglierebbe se si volesse vedere in questa autonomia laprefigurazione precisa del movimento comunale del Nord. Lo stato bizantinomantenne il controllo globale e, eccetto ove concedeva immunità specifiche,continuava a riscuotere tasse. Troia resistette eroicamente all'assedio postoledall'imperatore germanico Entico II nel 1022; nel 1024, come ricompensa, le sue tassefurono diminuite all'esigua somma di 100 solidi annui, e venne esentata dalle tasse suimercati. 100 solili, comunque non sarebbero sembrati poca cosa nel sud longobardo,se applicati ad un agglomerato che deve aver avuto dimensioni di villaggio più che dicittà, e a quell'epoca era stato fondato solo da cinque anni18.

17 Vita Nili, c. 72 (Migne, Patrologia Greca, 120 c. 124).

18 F. Carabellese, L’Apulia ed il suo comune nell’alto medioevo (Bari, 1905), pp. 109ss., 167ss.; F.Trinchera, Syllabus Graecarum membranarum (Napoli, 1865) nn. 18, 20.

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Si può vedere come i Bizantini abbiano amministrato parti molto remote del loroterritorio. Gli abitanti di Tricarico, nell'interno della Lucania, nel 1001 chiesero alcatepano che il loro territorio urbano venisse ridefinito dopo una devastazione araba;il catepano inviò due legazioni di funzionari per decidere sulla questione, con l'aiutolocale. Lo stato partecipò anche agli utili del dissodamento. I nuovi insediamenti,fondati in modo privato, divennero khorìa, iscritti nei registri fiscali dello stato, equindi tassabili: se ne ha un esempio (anche se con alcune esenzioni fiscali) nelmonastero di S. Maria del Rifugio, anch'esso vicino a Tricarico, nel 99819. Altrove, lostato fondò i propri insediamenti, in particolare lungo la frontiera settentrionaledell'Apulia. Certamente alcuni di essi richiesero disboscamenti e insediamento dinuove popolazioni: nel caso di Troia in gran parte provenienti da zone longobarde.

La struttura interna dello stato bizantino in Italia rimase stabile, anche verso la metàdell'XI secolo, quando guerre incessanti ed il declino dell'interesse di Costantinopoliconsentirono una sempre maggiore influenza da parte dei Normanni. Questa stabilitàfu forse per la maggior parte ottenuta tramite solidità finanziaria e protezionepotenziale di uno stato che ancora esigeva e riscuoteva tasse dai suoi abitanti.Paragoni con la Roma del tardo Impero di certo farebbero pensare che anche quandogli aristocratici locali controllavano le cariche, potevano esitare a sottrarsi ad unostato che era in grado di offrire loro tanti vantaggi finanziari personali. Tuttavia, comequesti processi avvenissero in Apulia, e quando (o se) sparirono, sono fatti cherichiedono maggior studio sui documenti dei secoli X e XI delle città costiere.

A Capua e Benevento la vita politica era piuttosto diversa. Nell'VIII secolo ilprincipato di Benevento era uno stato forte, molto somigliante allo stato longobardo diLiutprando e di Astolfo20. Da Romoaldo II (706-30) in poi, i documenti reperibilimostrano che duchi e principi facevano donazioni di terre fiscali o schiavi (in generein piccole quantità, eccezion fatta per le valli di montagna donate a Montecassino e almonastero di San Vincenzo), sopraintendevano ai processi, e facevano trattati conNapoli molto simili a quelli che i re del Nord stipulavano con Venezia. Sembra che lacorte di Benevento fosse una copia di quella di Pavia, con la stessa gamma difunzionari, sebbene le loro funzioni siano anche più oscure: il referendarius (oduddus), vesterarius, marepabis, cubicularius, e il tesoriere, il thesaurarius o stolesays,che era particolarmente importante, e talora raggiungeva il rango di principe. I duchi ei principi erano certamente ricchi. Sembra abbiano avuto sotto il proprio controllovaste estensioni di terreni, compresa, come si è visto, gran parte della Liburia. I1sistema monetario di Benevento era indipendente da quello del Nord, e molto piùcomplesso. Fino a metà del IX secolo coniava due monete auree, il solidus e iltremissis, e dopo gli anni attorno al 780 anche il denarius d'argento. Dopo l'851 iLongobardi coniarono solo argento, ma monete d'oro bizantine, arabe e più tardiamalfitane circolavano in tutto il Sud (Napoli aveva anche monete in bronzo).Particolarmente, al crescere della importanza di Bisanzio, i principi erano tentatid'imitare i più famosi modelli di Costantinopoli che non quelli di Pavia; così Arichi II,sciogliendo l'alleanza che aveva stretto con il Nord, costruì a Benevento una chiesa 19 Cfr. A. Guillou e F. Holzmann, Zwei Katerpansurbunden aus Tricarico, QF, XLI(1961), pp. 1-28.20 Cfr. Poupardin, Cilento, Delogu, opp. cit.

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vescovile intitolata a S. Sofia, seguendo l'esempio di Giustiniano. Ciò non ci deveingannare: la dignità cerimoniale dei principi longobardi era al suo apice nell'XIsecolo quando la loro effettiva irruenza era pressoché sparita. I1 destino delle caricherelative all'arnrninistrazione di conrte che dopo il 900 scomparvero quasi tutte indicaancor meglio quale fosse il controllo esercitato dal principe.

Anche l'amministrazione locale di Benevento era simile a quella del Nord. Duchi eprincipi governavano tramite gastaldi che, sotto l'influenza franca, sempre più preseroad essere noti come conti. Questi erano i rappresentanti locali dello stato nelle cittàdel principato, ed inoltre sembra fossero responsabili del fisco, che era diviso in particorrispondenti ai gastaldati (più spesso noti col termine di actiones). Principi comeArichi II e Grimoaldo III avevano un chiaro controllo su queste actiones, e non sipossono riconoscere dinastie di gastaldi fino a metà del secolo IX. Montecassino e ilmonastero di S. Vincenzo si sentirono abbastanza sicuri da acquistare terre sparse inzone lontane come Lucera, Taranto, e Oria21.

Sembra che i principi fossero eletti, almeno in assenza di evidente successioneereditaria, e dopo la morte di Grimoaldo III nell'806 il popolo e l'aristocrazia diBenevento in parecchie occasioni poterono scegliere il loro principe. Grimoaldo IV lostolesayz (806-17) e Sicone, gastaldo di Acerenza (817-32) furono eletti; dopol'assassinio di Sicardo, figlio di Sicone (832-9), furono eletti i suoi successori rivaliRadelchi I il tesoriere (839-51) e Siconolfo, fratello di Sicardo (839-51). Come si puòvedere i principi provenivano da ranghi aristocratici di funzionari, ed è nel legame fraquesti ranghi ed i principi che si possono riconoscere i prodromi della caduta dellostato.

Un aspetto di tale legame di certo sta nel fatto che ogni aristocratico influente potevasentirsi qualificato a divenire principe. Erchemperto ed il Chronicon Salernitanum(sebbene in modo meno credibile) elencano molte persone che avevano simileambizione. Grimoaldo IV fu ucciso in una congiura di diversi aristocratici cheaspiravano al potere supremo. Due di essi, Sicone di Acerenza e Radelchi di Conza,governavano gastaldati remoti e selvaggi ove il potere centrale non poteva essere statomolto forte. Ma è importante che i gastaldi di città lontane siano stati interessati araggiungere la posizione di principi. Come nel regno longobardo, la possibilità didiventare principe manteneva signorie lontane all'interno della stessa strutturapolitica. Anche la guerra civile degli anni 839-49 mostra la forza di questa struttura,dato che alleanze di aristocratici in lotta fra loro si combattevano in tutto il principatoper raggiungere il potere centrale per i loro protetti.

Più pericolosa per il sopravvivere del potere del principe fu la posizionedell'aristocrazia nei riguardi del principe in carica. Grimoaldo IV, Sicone e Sicardofurono tutti attaccati come tiranni. Sicone potrebbe aver evitato la sorte degli altri soloperché trascorse la maggior parte del suo regno combattendo contro i Napoletani,offrendo così ai suoi nobili la possibilità di rivolgere i loro attacchi su qualcun altro.Certamente si trovava in una posizione debole quando sall al trono nell'817, essendoimmigrato a Benevento, esule aristocratico del Nord senza solidi appoggi. Dovettesposare i suoi figli in varie famiglie aristocratiche, e conciliare il più possibile i suoi

21 Cfr., per esempio, C. Vult., 34, 41, 45, 62.

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nobili. Ma queste misure e l'assassinio di Sicardo quando questi ignorò il potere degliaristocratici, dimostrano che i principi non avevano più il consenso delle classi elevatead agire come autocrati. Radelchi di Conza, lo sfortunato rivale di Sicone, è ritenutoaver detto all'elezione di Sicone: « è uno straniero; abbiamo lui come principe, inquanto lo vogliamo; lo terremo, fintanto che vorremo; lo elimineremo, quando lovorremo »22. Se questa riserva nel potere del principe fosse un nuovo sviluppo delsecolo IX non è chiaro, dato che le cronache dettagliate in nostro possesso inizianosolo nel 774, ma avrebbe potuto essere una conseguenza tardiva del declino nellalegittimità dell'autorità centrale dopo la fine della dinastia tradizionale di Beneventonel 758. E’ però chiaro che la natura montuosa del principato deve averlo reso semprediffcilmente controllabile, e i poteri de facto dei gastaldati di confine, specialmenteCapua, Conza ed Acerenza, sebbene molti di questi gastaldati si rifacessero aBenevento, devono sempre essere stati notevoli. Per dominarli ogni principe dovevaforse agire con mano più forte di quanto non piacesse alle classi più elevate. I1successivo sviluppo è maggiormente visibile a Capua, tramite il resoconto ostile diErchemperto: esso documenta il tentativo lento ma sistematico dei membri dellafamiglia comitale di Capua di staccarsi totalmente dal principato. Landolfo I (815-43),suo fondatore, sulI1 successivo sviluppo è maggiormente visibile a Capua, tramite ilresoconto ostile di Erchemperto: esso documenta il tentativo lento ma sistematico deimembri della famiglia comitale di Capua di staccarsi totalmente dal principato.Landolfo I (815-43), suo fondatore, sul letto di morte fece promettere ai propri figli«che mai avrebbero permesso, se fosse stato in loro potere, una pace fra Benevento eSalerno», mentre instauravano il loro potere, sicuri nel loro castello di Sicopoli.(Sicone era stato colpito dall'onore attribuitogli con tale scelta, ma un seguace notòehe 'Rebellopolis' sarebbe stato un nome più appropriato)23. Mentre Radelchi,Siconolfo e i loro alleati combattevano a Sud, gli eredi di Landolfo progressivamentes'impossessavano di gastaldati delle valli di Volturno e del Garigliano. Alla fine dellaguerra nel1'849, Capua, nominalmente sempre schierata con Siconolfo, faceva partedi Salerno, ma presto le venne concessa di fatto l'indipendenza. Tuttavia la contea diCapua non era, come invece erano Benevento e Salerno, un organismo pubblico.Presumibilmente Landolfo si era appropriato delle terre fiscali del territorio e questenon divennero terre dello stato di Capua, ma della sua famiglia. I figli di Landolfo viesercitavano il loro controllo, non senza disaccordi, in collaborazione. Nell'879, allamorte dell'ultimo di essi, i nipoti di Landolfo divisero il patrimonio in gastaldati ediniziarono a combattere. I gastaldi delle zone che non appartenevano ancora allafamiglia cominciarono anch'essi a privatizzare le loro terre. Rodoaldo, gastaldo diAquino, costruì il castello di Pontecorvo dopo l'860 contro i Capuani. I1 francoMagenolfo, che lo sconfisse, reintrodusse obblighi quali tasse e servizio militare per lapopolazione rurale, che « precedentemente si occupava soltanto di cipolle e aglio ». I1castello di Rodoaldo certamente non era pubblico ed inoltre sembra che per un certoperiodo non vi siano stati obblighi pubblici nel territorio di Aquino. I1 castello diCalvi, centro del gastaldato da cui Atenolfo rioccupò tutta Capua e finalmenteBenevento, fu parimenti costruito da Atenolfo stesso e da suo fratello Lando conl'aiuto dei seguaci nobili e non (la pars nobilium e la pars vulgi). Come Pontecorvo, ilcastello di Calvi somiglia meno ad un centro di autorità pubblica che non di potereprivato24. 22 C. Sal., c. 54; cc. 42ss. per la storia passata di Sicone23 Erchemperto, c. 22; C. Sal., c. 58.24 Chronicon S. Benedicii, c. 14 (S.R.L., pp. 475-6); Erchemperto, cc. 40, 45.

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Quando la dinastia di Atenolfo si annesse la maggior parte del vecchio principato diBenevento, sembra che queste tendenze alla scissione cessassero. Infatti Atenolfo ed isuoi successori semplicemente continuarono la tradizione della casa di Capua, dando igastaldati a membri della famiglia, confidando sulla lealtà dei congiunti. A questi doniseguivano notevoli immunità; il ruolo dello stato andava lentamente diminuendo. I1dono di Pandolfo I a Landolfo, suo secondo cugino, nel 964, della contea d'Isernianella zona che ora va sotto il nome di Molise ne è un esempio particolarmente chiaro,in quanto tutta la contea fu assegnata, con una immunità, al possesso privato diLandolfo e dei suoi eredi. Landolfo esercitava ancora i suoi poteri pubblici comeconte, ma il possesso della contea era totalmente privatizzato. Allo stesso modo ilresto del Molise a quel tempo divenne completamente al di fuori del potere delgoverno centrale. Nel 992 Trivento fu ceduta ad una famiglia comitale in modo moltosimile a quanto era accaduto ad Isernia; e, sebbene i principi avessero ancora poteri aLarino anche nel 970, qui le attività di Pandolfo furono le ultime di cui si abbianotizia documentante l'intervento di un principe di Benevento25. Relativamente alMolise i documenti dell'XI secolo rivelano un mondo in cui la gestione della cosapubblica era del tutto privata; conti che facevano libere concessioni a monasteri di ciòche sembra fosse terreno pubblico. Altrove i principi avrebbero potuto essere esclusianche prima; dopo 1'850 esistono pochi documenti redatti da principi che non sianostati stesi nelle vicinanze di Capua e di Benevento. Quando i monasteri di S. Vincenzoal Volturno e Montecassino, verso la metà del secolo X, si mobilitarono per ristabilirele loro proprietà, i principi confermarono i diritti dei monasteri, permisero loro dicostruire castelli e di esercitarvi in pieno la propria autorità, ed anche intervennero perbloccare l'opposizione dei conti contrari al potere locale che i monasteri andavanoassumendo.

Questo sviluppo in margine all'autorità pubblica e indirizzato verso il potere privatofamiliare unito all'uso delle fortificazioni, è più simile ai contemporanei sviluppi delNord della Francia e dei Paesi Bassi che non a quelli dell'Italia del nord, oggetto delprossimo capitolo. In Francia le concessioni reali sono associate al diritto di possessofeudale, al feudo condizionale; nell'Italia del sud erano doni diretti, in quanto, essendodebole l'influenza franca, il feudo era istituzione pressoché sconosciuta primadell'avvento dei Normanni (la forma più simile nell'Italia del sud fu il giuramentotemporaneo di fedeltà, come quello che Atenolfo fece ad Atanasio di Napoli nell'887per un periodo fisso di quindici mesi: Erchemperto lo definì un faedus gallicus26). Taliconcessiani presentano, tuttavia, gli stessi caratteri di disintegrazione eprivatizzazione. Motivo principale della vittoria del potere privato in tutte queste areedeve essere stata l'assenza di città, punti focali fissi dei diritti pubblici. La complessitàsociale delle città impediva ai poteri indipendenti basati su di esse di divenire privati.Nell'Italia del nord, ove lo stato incontrò una altrettanto grave rovina, l'autorità urbanapubblica continuò a dominare sulla sempre crescente privatizzazione dell'aristocraziarurale. Nelle montagne del sud semplicemente non esistevano città che potessero agireda polo pubblico. L'unità del potere politico divenne la valle montana, con un piccolocentro come Isernia o Trivento, dominata da una sola famiglia. Solo nelle cittàcostiere il potere pubblico continuò ad esistere e ad essere forte, ma, almenoall'esterno della provincia bizantina, ciò non ebbe conseguenze sull'entroterra.

25 F. Ughelli, Italia Sacra, 2 edizione (Venezia, 1720-2), VI, CC. 393-4, x Appendice c. 471.26 Erchemperto, c. 65.

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Tuttavia, per uno degli aspetti principali, l'Italia del sud era del tutto diversa dallaFrancia del nord: nel modo in cui questi nuovi poteri locali esercitavano il lorocontrollo sui loro sudditi. Diversamente dalla Francia (e anche da altre zone del NordItalia) gli aristocratici non eseritavano dal castello il loro potere sui contadini semprepiù terrorizzati; anche i contadini vivevano all'interno del castello, liberamente, concontratti validi. Castello, bisogna notare, non significa qui rocca; ha un senso ampio, e'villaggio fortificato' sarebbe in genere più appropriato ovunque a sud di Siena. Losmembramento dello stato, in gran parte del sud e del centro Italia, fu segnato dallarapida concentrazione degli insediamenti in questi castelli, processo noto in Italia coltermine incastellamento, assieme all'instaurarsi di diritti privati basati sullacostruzione delle relative fortificazioni, comune contesto europeo della costruzionedel castello. Le frange settentrionali di Capua-Benevento dimostrano in modo chiaroquesto fenomeno, ma meglio esso è stato studiato in Lazio da Pierre Toubert e, ingenere, si userà questa regione come base della discussione generaledell'incastellamento nel Sud.

Lo sviluppo socio-politico di Roma e del suo territorio fu superficialmente unico, mapresentava parecchie caratteristiche comuni col resto del Sud27. In base allo statusinternazionale dei vescovi di Roma (i papi), presto la Chiesa ottenne un dominiototale sulle città, e sui suoi dintorni, e l'organizzazione della burocrazia ecclesiasticafu ben più sviluppata ed ebbe potere politico maggiore che altrove, almeno dal VIIsecolo. Fino alla fine del secolo IX, e di nuovo dopo gli anni attorno al 1050, ilcontrollo di questa burocrazia fu il prerequisito inevitabile di tutto il potere locale, edanche nel periodo che seguì fu una forza colla quale anche il più risoluto gerarca laicodovette confrontarsi. Quando Roma si trovò ai confini di un impero che affermava ilproprio ruolo di centro spirituale, quello dei Bizantini fino al 730 circa, dei Franchi frail 774 e circa 1'880, o dei Germani, con minore continuità a partire dal 962, laburocrazia conservò una certa solidità in quanto gerarchia che manteneva cariche inantitesi a quella della nobiltà laica. Quando Roma fu lasciata a se stessa, come a metàdell'VIII secolo, o nell'882 dopo la morte di Giovanni VIII, i papi e le altre autoritàecclesiastiche caddero molto più sotto il controllo dei loro congiunti, le famiglienobili più in vista della città e della Campagna Romana. Tuttavia i legami fra Chiesa earistocrazia furono sempre estremamente stretti: dopo tutto l'aristocrazia basava granparte o la maggior parte del suo potere terriero sull'affitto della proprietà ecclesiastica,come si è già visto.

Roma si era ridotta rispetto al periodo in cui era il centro simbolico dell'Impero, edera mantenuta dalle tasse in grano africano, ma nei secoli IX e X essa era ancoragrande, rispetto alle medie dell'epoca. I1 prestigio della città faceva sì che fosse ilpunto focale per gli aristocratici di tutto il territorio (di estensione pari a tre o quattrovolte quella di un territorio urbano del Nord, e di dimensione pari ad un principato delSud del X secolo), anche quando questo territorio comprendeva circa venti 'città' deltipo meridionale, insediamenti di media dimensione con una cattedrale ed anchealcuni uffici pubblici essenziali. Roma traeva la propria sussistenza da queste città.

27 Cfr. Toubert (B3-f), in particolare pp. 303-549, 960-1038; la miglior esposizione introduttiva si trovain P. Partner (A6-b). Per S. Vincenzo, cfr. M. del Treppo, La vita economica e sociale in una grandeabbazia... (Bs-c).

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Salvo rare eccezioni, esse non erano mai centri di attività delle famiglie aristocratichepiù importanti, che preferivano tutte risiedere a Roma, eccetto quando erano sconfittein una delle molte dispute di fazione, e le città rimasero estranee alla ripresaeconomica dell'Italia centrale anche nel XII secolo. A Roma la privatizzazione e lalocalizzazione dell'autorità pubblica avvenne nel X secolo, anche più di quantoavvenne in ben più piccoli territori del Nord, a vantaggio di famiglie che per lamaggior parte vivevano nella città. I grandi poteri rurali erano solo ecclesiastici: imonasteri di Farfa e Subiaco e i vescovati delle più importanti città del Lazio, Sutri,Tivoli, Velletri, Veroli. Infatti questi organismi erano spesso grandi proprietariterrieri. Farfa, un po' meno devastata dagli Arabi rispetto ai monasteri dellaCampania, aveva assorbito la maggior parte della piccola proprietà terriera limitrofaverso la fine del IX secolo, forse proprio in quanto era l'unico potere presente inSabina: tutti i proprietari terrieri potenzialmente rivali vivevano entro la città. Vennequindi a controllare la stessa enorme estensione di terra di cui Montecassino e ilmonastero di S. Vincenzo avevano sempre goduto, e parecchie altre chiese lazialiproprietarie di terre ottennero una simile posizione.

Nel X secolo tutte queste istituzioni cominciarono a costruire villaggi fortificati, siadirettamente che tramite contratti d'affitto ai nobili. Così nel 966 l'abate di Subiacoaffittò una tenuta ai nobili Milone e Anastasia << nella quale c'è un luogo ovecostruire un nuovo castello a loro spese, e circondato da mura di tufa (pietravulcanica), ove si devono ammassare gli uomini >>. Nel 972, il monastero di S.Vincenzo affittò una vasta area del suo territorio centrale ad un gruppo formato dasedici-venti famiglie; << devono costruire un castello all'interno dei confini in unposto a loro scelta, e costruire case, giardini e cortili, e vivere lì >> 28. Senza dubbio lapreminenza di proprietari ecclesiastici è dovuta solo alla natura degli archivi; gliaristocratici romani e della Campania devono aver fatto la stessa cosa all'interno deiloro territori. Così devono aver fatto anche gli abitanti di quelle zone (che devonoesser state la maggior parte) ove le singole famiglie non possedevano estensionicospicue, in quanto talora sembra che gruppi di contadini fossero gli unici proprietarientro i castelli. Con la metà dell'XI secolo, quasi tutta l'Italia a sud della Toscanasembra sia stata dominata da questi castelli (sebbene la data e il completamentodell'incastellamento di certo variasse da luogo a luogo, e in certe zone esso non si siamai verificato).

La spinta all'incastellamento fu tradizionalmente pensata come effetto del pericolod'invasioni arabe, ma tale processo non cominciò prima della sconfitta degli Arabi alGarigliano nel 915. I1 contesto socio-politico fu certamente la crescita di immunità ela devoluzione dei poteri pubblici che segnavano il declino dello stato. Pandolfo Ilegittimò la costruzione dei castelli di S. Vincenzo, forse un po' dopo, nel 967; nel 962Ottone I aveva già concesso al monastero completa giurisdizione sui suoi affittuari29.A Roma gran parte della spinta a tale localizzazione e alla politica da poco instauratadella costruzione di castelli fu ad opera di Alberico figlio di Marozia, che governòRoma come capo laico dello stato negli anni 932-54 in qualità di 'senatore di tutti iRomani' e patrizio, e, dal 936, come principe, sul modello dell'Italia del sud. Alberico 28 Regesto Sublacense , a cura di L. Allodi, G. Levi (Roma, 1885), n. 200; C. Vult ., 109; cfr. Touberr,pp. 322-3 per simili testi nel Lazio.

29 C. Vult., 124, 115.

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tuttavia non intendeva esercitare un controllo sulla disintegrazione del territorio diRoma, come aveva fatto Pandolfo a Capua. Infatti in Campania pochi erano i poteripubblici locali da esercitare, ed i conti al confine del territorio romano erano inparagone deboli. Comunque ad Alberico non interessava particolarmente la naturapubblica del potere locale; Roma e la sua nobiltà avrebbero controllato la campagna,in forma pubblica o privata. Alberico si accertò che conti e monasteri fossero soggettiai suoi seguaci (che comprendevano parecchi abati riformatori, anche Odone diCluny, oltre a famiglie nobili importanti) riconoscendo implicitamente che essistavano per assumere il controllo delle loro proprietà nel miglior modo possibile:costruendo castelli. Non avevano esplicitamente il diritto di esercitare privatamente lagiustizia. I signori si procuravano tali poteri in modo più graduale, e giunsero a fruirnesolo all'inizio dell'XI secolo.

Ciò fornisce un contesto alla crescita di castelli nell'entroterra di Roma; non spiegatuttavia l'incastellamento, lo spostamento da zone limitrofe d'intere popolazioni entrole nuove fortificazioni. Una risposta sta nel fatto che i testi relativi all'incastellamentodisponibili molto spesso sono associati al dissodamento. I terreni incolti del territorioche Farfa dominava vennero dissodati dall'VIII secolo in poi, ed i castelli eranoassociati ad una riorganizzazione definitiva della proprietà terriera ed anche,apparentemente, delle forme dei campi, maggiormente collegata al completamento ditale dissodamento. I1 monastero di S. Vincenzo e Montecassino, più all'interno versole montagne, avevano ancora intere zone non dissodate, e parte dei documenti relativiall'incastellamento del monastero di S. Vincenzo non prevedono affitti per i primi treo quattro anni, per dare una possibilità agli affittuari di aumentare i propri raccolti30.Questa teoria si adatta a gran parte degli Appennini del sud, e tien conto del fatto chel'incastellamento fu molto meno massiccio nelle pianure, che erano già statedissodate, e ove la proprietà terriera era molto più frammentata. Non soddisfa del tuttocome spiegazione, dato che non si può pensare che ogni fondatore di castello sia statoimpegnato in opere di dissodamento o nella riorganizzazione fondiaria quasiimprenditoriale visibile a Farfa e Subiaco, e non spiega perché le nuove fondazionidovessero essere necessariamente collegate ad insediamenti compatti, ma è quanto dimeglio si può fare attualmente. Risolvere definitivamente questo problema è almomento impossibile; si dovranno studiare in dettaglio più zone prima di poterlosviscerare.

Lo stabilirsi di gruppi di famiglie in proprio, circondate da mura, non semprerappresentava un chiaro aumento del controllo che i signori esercitavano su di loro. Icanoni erano fissi per contratto, e spesso bassi, specie negli alti Appennini ove imonasteri avevano interesse ad attirare colonizzatori, che talora venivano da zonemolto distanti ed erano anche uomini con un certo status. I1 canone annuo di unmodius di grano, uno di orzo, e due di vino per casa, più un maiale per ogni undici oventi famiglie, ad esempio,- era pressoché normale. per gli affittuari del monastero diS. Vincenzo31. Questi contratti d'affitto, e ogni altra norma dei castelli, prestodivennero usanza. Sembra stato difficile cambiare tutto ciò, e non è facile trovaresignori che abbiano tentato di farlo. Al contrario, gli abitanti di questi castelliraramente tentarono di aumentare i loro diritti e di ottenere autonomia; i loro signori

30 Per es. C. Vult., 92, 167.

31 Per es. C. Vult., 109, 110, 164.

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erano troppo influenti. Ne risultò la situazione opposta: i piccoli nobili, talora forseessi stessi i più fortunati abitanti del castello, cominciarono ad essere i signori deisingoli castelli, spesso proprio vivendovi all'interno, titolari nominali di affitti da partedei loro signori ecclesiastici. In questi casi gli abitanti comuni dei castelli certamentepersero parte della propria indipendenza sociale anche quando i tributi economici nondiventarono più pesanti. I soli abitanti di villaggio nel sud che ottenevano libertàcollettive frequentemente erano sudditi del Catepanato Bizantino, il più potente emeno privatizzato di tutti gli stati del sud. Si possono ancora aggiungere alcuni deicastelli di Montecassino, la cui militarizzazione eccezionale fu forse la base perrivendicazioni di autonomia più frequenti, e con miglior esito che altrove. Ma in tuttoil sud, il villaggio fortificato portò con sé stabilità di occupazione e del diritto dipossesso, e status libero; vantaggi non piccoli, in un momento in cui la proprietàterriera era tanto solida in montagna e in collina ove tali villaggi predominavano. Soloal nord, ove la proprietà fondiaria era più frammentata, i contadini talora potevanoottenere di più, raggiungendo l'apice in alcuni posti, alla fine dell'XI secolo, all'iniziodel comune rurale.

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Capitolo settimoLA DISGREGAZIONE DELLO STATO

Mutamenti politici ed istituzionali nell'Italia del Nord 875-1024

Lodovico II (844-75) fu un sovrano potente che poteva agire a piacimento all'interno del proprioregno e distruggere ogni oppositore. Gli imperatori germanici che governarono in Italia dopo il 962,come Ottone I o Enrico II, erano altrettanto potenti; i loro oppositori, pur più forti di quelli diLodovico, non durarono di più. Ottone o Enrico certamente ebbero poco potere per controllarequanto succedeva in Italia a livello locale, se non per mezzo di procedimenti giudiziari su vastascala, ma chi attribuisse a Lodovico un potere ben più diretto sarebbe uno studioso assai ottimista.Tutti i re medievali dovevano agire entro schemi stabiliti dagli atteggiamenti di chi li serviva,persone alle quali il potere reale veniva delegato. Fra 1'875 e il 962, tuttavia, questi schemicambiarono radicalmente. Lodovico aveva governato per mezzo d'un complesso insieme diistituzioni—la burocrazia dello stato, missi, conti e vescovi nelle città—che strutturavano la loroattività politica attorno al re, e tendevano ad equilibrarsi reciprocamente a vantaggio del re. Con lafine del X secolo, esser conte non era molto diverso da essere un qualsiasi proprietario terriero; laburocrazia dello stato si stava dissolvendo; gli interessi dell'aristocrazia ecclesiastica e laica eranodiretti verso le proprie basi di potere, e certo non a favore dello stato. Gli Ottoniani potevanodestituire vescovi e anche papi, innalzare nuove nobili famiglie in modo tradizionale, ma ilfondamento del loro potere era germanico e non italico. Come re d'Italia erano pressoché privi tipotere tiretto d'ogni tipo. Nel 1024, gli abitanti ti Pavia insorsero e diedero alle fiamme il palazzoreale ivi situato; topo di ciò l'Italia, come stato, quasi non esisteva. Va tuttavia sottolineato chequesti cambiamenti non rappresentavano il trionfo dello sfacelo sull'organizzazione, dell'anarchiasull'ordine. Furono cambiamenti nella sete del potere, piuttosto che nel potere stesso1. Le forzelocali acquistarono indipendenza; piccoli nobili, villaggi e città guadagnarono autonomie di tipodiverso; il governo centrale fu sostituito da una serie di piccoli poteri. Come e perché ciò successe èuno dei problemi più interessanti e complessi della storia dell'Italia medievale. Ciò verrà trattato dadue punti di vista: il primo, le ampie linee dello sviluppo politico e del cambiamento istituzionale; ilsecondo, le mutue relazioni fra questi e le strutture in mutamento nei contesti locali. Scindere i dueè in un certo senso improprio, ma è l'unico modo di trattare questi cambiamenti in un modorelativamente coerente.

Nell'875 Lodovico II morì. Gli successero vari Carolingi per lo più assenti dal regno italico. Quandol'ultimo di questi, Carlo il Grosso, fu rovesciato nell'887, i marchesi di Spoleto e Friulicombatterono una serie di disordinate guerre civili che si protrassero quasi per due decadi, rese piùdifficili da pretendenti esterni della Provenza e della Germania, fino al 905. I1 periodo 875-905 hauna certa omogeneità. E’ più utile considerarlo come teatro di un'antitesi continua fra due fazionidell'aristocrazia italiana laica ed ecclesiastica; una parte favorevole ai re con collegamenti coiFranchi o coi Burgundi, l'altra favorevole ai Germani. Lodovico II non lasciò eredi. Gli unicipretendenti erano i suoi zii, Carlo il Calvo e Lodovico il Germanico, che rispettivamente furono acapo dei territori oggi chiamati Francia e Germania. Fra quelli a favore di Carlo v'erano ancheAnsperto, arcivescovo ti Milano, e i vescovi e conti dell'Italia di nord-ovest. I seguaci di Lodovicocomprendevano Berengario del Friuli, la sua stirpe, i Supponidi, Wibod, vescovo di Parma (il piùimportante sede episcopale di Lodovico Il nei suoi ultimi anni), e i vescovi dell'Italia di nord-est. Inquesto caso il confronto era per lo più geografico. I membri più interessati in ambo le parti avevano 1 Come osserva G. Rossetti, Formazione e caratteri delle signorie di castello... (B3-d), p. 308. Per esposizioni dicarattere generale relative al periodo 875-962: Hlawitschka (B3-c), pp. 67-94, Hartmann (Bl), III, 2, Mor (Bl), G. Fasoli(B3-d). La migliore analisi fino al 905: P. Delogu, Vescovi, conti e sovrani nella crisi del regno italico (B3-d).

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forti legami personali oltralpe con la Francia-Burgundia e la Germania, rispettivamente. Tutti i re e ipretendenti del periodo fino al 905 possono essere collegati con l'una o l'altra fazione. Carlo ilCalvo (875-7), Bosone di Provenza (pretendente nell'879), Guido di Spoleto (889-94), Lamberto(891-8) e Lodovico III di Provenza (900-5) avevano l'aiuto della fazione pro-franca; Carlomanno(877-9), Carlo il Grosso (879-87), Berengario I del Friuli (888-924), e Arnolfo (894-7), di quellapro-germanica. Con una tale pletora di sovrani in rapida successione, che morirono quasi tutti senzadiscendenza maschile, le possibilità di cambiare partito e di sfruttare le rivalità reali erano notevoli,e molti vi si dedicarono. Tuttavia il nucleo dell'appoggio di ogni fazione rimase considerevole, egeograficamente quasi costante, col Piemonte e la Lombardia a favore dei Franchi, Veneto e Friuli afavore dei Germanici, e l'Emilia che esitava incerta. Toscana e Spoleto per lo più rimasero estranee.

Carlo il Calvo e Carlomanno fecero solo brevi visite in Italia. Carlo il Grosso rimase in Italia perquasi tutto il periodo 879-886, ma è difficile dimostrare che effettivamente egli abbia fatto qualcosa.I1 papa Giovanni VIII (873-82) lo attirò a Roma con l'offerta del titolo imperiale nell’881, ma nonriuscì a persuaderlo ad imitare Lodovico II e a combattere contro gli Arabi. I1 titolo di imperatore,dato per la prima volta a Carlomagno nell'800 e portato dai sovrani in Italia quasi costantementedall'817, fu un utile elemento di prestigio nelle lotte per avere l'appoggio al potere in questi anni:Guido nell'891 e Arnolfo nell'894 ricavarono da ciò particolari benefici. Carlo il Grosso ne avevabisogno principalmente come elemento aggiuntivo al suo potere europeo; dopo 1'884 tutti iCarolingi adulti di diretta discendenza maschile erano morti e Carlo fu l'erede di tutti i regni diCarlomagno. Egli fece abbastanza poco ovunque in Europa, ma la sua inattività in Italia è un fattocurioso trattandosi del paese ove trascorse effettivamente quasi tutto il suo periodo di regno. Alcontrario, la politica italiana degli anni attorno all'885 fu dominata da lotte fra Berengario del Friuli,il massimo fautore laico di Carlo, e Liutvardo vescovo di Vercelli, suo arcicappellano earciministro, che cadde nell'886. Non deve davvero sorprendere che quando Carlo venne rovesciatoi potenti italiani eleggessero re Berengario, particolarmente in quanto Berengario era egli stesso uncarolingio per linea femminile.

Il periodo dopo 1'887 è una continuazione di quello degli anni 875-87, quantunque vi fossero piùcandidati fra cui scegliere dopo che i Carolingi avevano cessato di essere l'unica famiglia realeavente diritto alla successione, e quindi vi furono più guerre. Berengario era appoggiatoprincipalmente dalla fazione germanica; la fazione franca, guidata da Anselmo arcivescovo diMilano, sarebbe stata invece pronta a scegliere Guido (III) di Spoleto. Guido aveva notevoliambizioni; i Guideschi marchesi di Spoleto, sebbene pronti a difendere la loro autonomia (Guido siera ribellato contro Carlo il Grosso nell'883), appartenevano ad una delle massime famiglie dellanobiltà imperiale, e sembra che Guido nell'887 abbia avuto per breve tempo idea di ottenere il regnodi Francia e Lorena. Ritornando in Italia con i suoi seguaci francoburgundi, in antitesi a Berengarionell'889 fu eletto re, lo sconfisse e lo relegò in quella che doveva rimanere la solida base diBerengario in tutte le difficoltà che sarebbero seguite, il nord-est. Nell'891 Guido assunse il titolod'imperatore, primo fra i non-Carolingi, ed emanò capitolari, per la prima volta ovunque in Europaper un decennio. Guido intendeva chiaramente governare nella maniera carolingia, come fece suofiglio Lamberto, che legiferò nell'898. Questa intenzione gli guadagnò il sostegno persino di vecchivalorosi pro-germani come Wibad di Parma. Tuttavia, a prescindere dall'attività legislativa, sembrache Guido non abbia fatto molto; ne fu impedito dalla prima invasione germanica di Arnolfonell'894, e dalla morte improvvisa nello stesso anno. Nominalmente Arnolfo scese in Italia inseguito alla richiesta di Berengario e del papa Formoso (891-6), ma intendeva governare l'Italiadirettamente, come imperatore. I1 prestigio imperiale attirò verso di lui i fautori di ambo le fazionidurante le sue due invasioni, 894 e 895-6, ma nell'896 ebbe un collasso e si ritirò, lasciando i suoiseguaci alla mercede di Berengario e Lamberto.

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Lamberto morì nell'898, lasciando Berengario unico re. Nell'899 tuttavia, comparvero in Italiadell'est i cavalieri ungari nella prima di una serie di invasioni che sarebbero durate fino a circa il9502. L'esercito di Berengario fu da loro annientato. Berengario, infatti, in quarant'anni di campagnemilitari, in base a quanto risulta dai cronisti, non vinse una sola battaglia. Le scorrerie degli Ungarinella pianura Padana cominciarono ad essere rivaleggiate, circa alla stessa epoca, dagli attacchiarabi in Piemonte dai loro baluardi di Provenza. Nel 900 i potenti del nord-ovest, guidati ora dagliAnscaridi, marchesi d'Ivrea, famiglia burgunda insediata da Guido, si ribellarono ed elessero reLodovico di Provenza. Lodovico andò a Roma e fu incoronato imperatore, ma gli alleati venneromeno e se ne andò nel 902. Quando nel 905 ritornò, Berengario lo catturò e lo fece accecare, quindifino al 922 Berengario governò senza opposizioni. Nel 915 si fece incoronare anche imperatore, maseguì con riluttanza gli aspetti più grandiosi dell'ideologia carolingia. I suoi interessi eranosaldamente limitati dai confini dell'Italia, e dalle scelte del potere diretto entro tali confini. ConLamberto la tradizione di stendere capitolari sparì.

Tutti questi re ed i loro successori o non erano italiani o erano governanti di marche italiane. Ciòaveva portato alcuni storici a concludere che lo stato italiano era già tanto debole che solo uominidotati di una base di potere esterno avevano la forza di governarlo. E' di certo vero che i marchesifossero i più forti aristocratici italiani; ma la preferenza accordata a re forestieri fu inizialmente soloil prodotto del legittimismo carolingio (dopo 1'875, tutti i Carolingi erano stranieri), e dopo 1'898 fuil risultato del desiderio delle popolazioni italiche avere stranieri neutrali che non potessero crearerivalità interne, così come Berengario di Friuli aveva fatto con Guido di Spoleto. Solo dopo il 940gli indigeni furono troppo deboli per governare l'Italia, e da allora si verificarono notevolicambiamenti. Non sembra che le classi superiori italiane abbiano preferito gli stranieri in quantotali; semplicemente riconoscevano i vantaggi che potevano trarne. Sebbene tutti questi re stranierifossero franchi per discendenza, risultarono decisamente stranieri. Dopo 1'887 i Franchi in Italiacominciarono a considerarsi italiani più che Franchi. Pertanto i fautori di Berengario affermarono(in modo specioso) che egli era un uomo del luogo, diversamente da Guido con il suo esercitoburgundo. In modo simile, uno di questi Burgundi, Berengario II, attorno al 940 avrebbe avutofautori che lo additavano come rappresentativo degli interessi italiani contro i protetti provenzali diUgo di Arles. I1 concetto della coerenza del regno italiano rimaneva forte. Fu abbastanza forteperché Guido di Spoleto reputasse valido lottare per esso dopo che le sue più ampie ambizioni eranofallite, malgrado l'atavica diversità fra la politica di Spoleto e quella del Nord Italia, prima e dopo labreve impresa di Guido. Da notare, l'unico aristocratico italiano che rimase lontano dalle lotte dipotere nel nord fu l'unico marchese che non tentò di assumere il trono, Adalberto II di Toscana(886-915), che continuamente cambiò fazione fra 1'887 e 905, e talora (come negli anni 887-9) nonriconobbe nessuno come re. Altri notabili, laici e specialmente ecclesiastici, sembra volessero ununico re d'Italia ed uno stato stabile e solido. Non avevano tutti la stessa idea su chi dovessegovernare e la cambiavano spesso.

Di certo le guerre civili dimostrano che valeva ancora la pena combattere per avere il regno, macome era successo dopo l'840 per Benevento, le lacerazioni della guerra civile resero tali regniancora più fragili, Nel primo periodo dello stato carolingio uno dei primi elementi ad indebolirsi fula burocrazia. I1 gruppo personale di amministratori professionisti che guidava lo stato a metà delIX secolo cessò di esistere. Al contrario i più importanti rappresentanti del re erano potenti chegodevano della sua fiducia, Bosone di Provenza sotto Carlo il Calvo, Liutvardo di Vercelli sottoCarlo il Grosso, Ardingo vescovo di Brescia sotto Berengario. Questi furono, non deve sorprendere,rappresentanti principali dei due avversi gruppi politici. Gli amministratori dell'apparato di Paviaall'inizio furono meno coinvolti, ma nel 927 avrebbero assunto un ruolo politico rilevante quando

2 Cfr. G. Fasoli, Le incursioni ungare in Europa nel sec. x (Firenze, 1945).

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alcuni di loro tentarono senza successo un colpo di mano contro il nuovo re, Ugo3. Sempre più icircoli governativi italiani si trovavano divisi. I re non potevano fare affidamento su di una basesicura d'appoggio incondizionato, pur controllando la maggior parte dell'Italia. Dovettero fareconcessioni. Guido e Lamberto, malgrado il prograrnma espresso nei loro capitolari controsaccheggi da parte dei potenti, come aveva fatto Lodovico II, non erano in posizione tanto forte darendere operanti le proprie leggi. Anche i loro seguaci più fedeli erano tentati di tradirli a favore diBerengario di Friuli, quando i re prendevano provvedimenti troppo severi contro le loro illegalità.Quasi tutto ciò che si sa delle attività concrete dei re dell’epoca è dato dalle concessioni di terra e didiritti legali fatte ai loro sostenitori laici ed ecclesiastici. Esse raggiunsero il culmine negli anni 902-22, anni di incondizionato dominio di Berengario I.

Berengario visse il passaggio fra potere ed impotenza. Prima del 902 un re fortunato avrebbe potutoristabilire lo stato centralizzato di Lodovico II. Dal 902 in poi, in qualche centinaio di diplomi chesono stati conservati, Berengario alienò terra fiscale, fortificazioni, diritti sulle mura di città, poteregiuridico, dazi, ed altre immunità, come ricompense dirette, su scala più vasta di ogni altro reitaliano della storia. Si è affermato in modo del tutto credibile che le istituzioni pubbliche dello statosotto Berengario fossero così deboli che nessun re futuro sarebbe stato in grado di ristabilirle.Perché Berengario lo abbia consentito costituisce la base per capire gli sviluppi di quegli anni4.

I1 contesto immediato era la minaccia degli Ungari. Negli atti con i quali Berengario consentiva lacostruzione di castelli spesso erano presenti frasi sul pericolo ungaro. I1 castello di Sperongia fudato al monastero di Tolla nel 903 «dato che era stato fondato per l'uso del monastero contro lapersecuzione dei pagani e di altri saccheggiatori ». Nel 912 S. Maria Teodota a Pavia ottenne ilpermesso di costruire castelli ovunque nelle sue proprietà « per far fronte alla persecuzione eall'invasione da parte dei pagani »5. Gli Ungari se n'erano andati nel. 900, ma erano ritornati nel 904e poi nel 921-4. Berengario sapeva di non poter radunare un esercito contro di loro e ancor menodifendere l'intera popolazione dalle loro scorrerie frequenti ed imprevedibili. In realtà, la sua famamilitare era così modesta che ogni invasione ungara provocava una rivolta contro di lui. Si è vistonel capitolo quinto che sotto i Carolingi il servizio pubblico nell'esercito tendeva sempre più adefinirsi per mezzo di clientele di aristocratici preposti a cariche, lentamente privatizzandosi.Queste clientele avevano guadagnato terreno durante le guerre civili, e sotto Berengario laconcessione di diritti di fortificazione a persone private da un lato riconosceva uno sviluppoirreversibile, dall'altro lo cristallizzava. La difesa privata si sostituì agli obblighi pubblici dell'epocacarolingia. Berengario concesse al diacono Audeberto il diritto di costruire il castello di Nogara interritorio fiscale sulla pianura di Verona nel 906, con un'ampia concessione di dazi doganali, dirittisui mercati ed una completa immunità giudiziaria. Verso il 920` l'abbazia di Nonantola avevaacquistato metà del castello, e la si vede parte in un accordo con venticinque dei suoi abitanti chespecifica i loro obblighi di difenderlo e di corrisponderle un basso affitto in denaro (1 denariusannuo per famiglia) in cambio di case, terreni, pascoli, ed il diritto di raccogliere legna in una vicinaforesta « dato che non osiamo far legna per i nostri focolari in qualsiasi altro luogo, per paura deipagani ». La difesa era ora oggetto di contratto privato fra proprietari ed affittuari. Quando a metàdell'XI secolo Nogara divenne il centro di un potere laico, gli obblighi di difesa si sarebbero ancorpiù limitati all'aristocrazia militare6.

3 Liutprando, Antap., 3. 39-41. Cfr., per il declino della burocrazia, Keller, Konigsterrschaft (B3-c), pp. 155-204.

4 Per le erasformazioni del tardo secolo X e per quella qui esposta: Rossetti, Formazione, cit., pp. 243-309; e Tabacco,La storia politica e sociale (B1), pp. 113-37, capolavoro di sintesi; cfr. anche idem, La dissoluzione medievale dellostato (B3-d), pp. 397-4135 I dipiomi di Berengario I (di seguito: «D.B.I »), a cura di L. Schiaparelli (Roma, 1903), nn. 38, 84.6 D.B.I 65, 88, 117 (= Manaresi, 125, 128); G. Tiraboschi, Codice Diplomatico Nonantolano (Modena, 1785), nn. 78,85; cfr. Rossetti, Formazione, cit., pp. 270-86.

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Castelli come Nogara hanno una rassomiglianza ovvia con quelli che si sono visti negli Appenninicentrali e meridionali, con abitanti affittuari liberi che dovevano canoni fissi ed obblighi di difesa.Più diffuse al Nord, erano invece fortificazioni più piccole con pochi abitanti stabili, che servivanosolo come luoghi di rifugio, e sempre più da centri amministrativi e giudiziari delle tenute private.La maggior parte dei villaggi non apparteneva ad un singolo proprietario e così un signore nonpoteva fondare molto facilmente un castello per occupazione permanente da parte di tutta lapopolazione di un villaggio, come invece nel sud potevano fare molti signori7. L'incastellamento,processo di costruzione del castello, ebbe quindi effetto diverso sui caratteri insediativi nelle diversezone del nord. Tuttavia, per la maggior parte, specialmente in pianura, i nuovi castelli erano soltantoun'aggiunta allo schema del villaggio concentrato o disperso di ogni zona. Raramente si sostituironoai centri delle precedenti popolazioni; talora erano costituiti soltanto da nuove mura poste attorno atali centri. I castelli continuarono ad essere costruiti nei secoli XI e XII, raramente conl'approvazione del re, divenendo un aspetto comune nella struttura sociale di ogni regione. Moltovari erano i legami di potere locale che essi istituirono e ridessero, come si vedrà nella partesuccessiva.

Il punto chiave delle concessioni di Berengario era che non si poteva fare più affidamento sulleresponsabilità pubbliche collettive degli abitanti del regno. Ciò spiega ampiamente l'indifferenza diquesti verso le tradizioni ideologiche carolingie; non avevano più grande significato. Di fronte aduna minaccia militare reale ed imprevedibile, e all'impopolarità di Berengario tra l'aristocrazia, tuttal'egemonia di cui tradizionalmente godevano i re d'Italia andò in frantumi. Le più note concessionidi Berengario sono gli atti di incastellamento, con la loro dimostrazione di debolezza militare e levaste immunità giudiziarie che nella campagna spezzarono la coerenza della giurisdizione comitale;inoltre egli alienò ampie parti del fisco, la cui entità era forse pari ad un terzo di tutti i beneficifiscali noti dell'intero periodo dal 700 al 1000, almeno in Lombardia e Piemonte8. Berengario, per laprima volta in Italia, ebbe la necessità di fare donazioni sistematiche onde ottenere e mantenerel'appoggio dei notabili del regno. E un aspetto di queste concessioni è particolarmente chiaro: granparte di esse andava a favore della Chiesa, soprattutto a favore dei vescovi. Ciò è congruo all'usanzacarolingia di equilibrare il potere di conti e vescovi, in quanto i conti controllavano le clientelemilitari sulle quali Berengario aveva perduto autorità. Tuttavia i vescovi non erano più debolipoliticamente, con il loro seguito di affittuari e vassalli e i loro vasti territori. Le concessioni diBerengario e quelle dei suoi successori spostarono l'equilibrio in modo deciso e permanente afavore dei vescovi.

Ciò era più facilmente riconoscibile nelle città. Si cominciavano a concedere ai vescovi entro le lorocittà pieni poteri comitali, limitando quelli dei conti alla campagna. Guido nell'891 concesse questipoteri al vescovo di Modena, e Lodovico III a quello di Reggio nel 900. Berengario aggiunseBergamo e Cremona; ne seguirono molti altri. Dopo il 962, Ottone I e i suoi successori concesseropoteri comitali ad alcuni vescovi anche in aree fino a cinque miglia attorno alla cinta muraria9.Verso la fine del secolo, i vescovi dominavano nella maggior parte delle città dell'Emilia e delVeneto, e in molte di quelle della Lombardia. Solo quelle del Piemonte e della Toscana rimaseroprevalentemente laiche. I1 contesto di queste concessioni era spesso esplicito. Nel 904 al vescovo diBergamo furono concesse le mura di Bergamo, ed il diritto di ricostruirle con l'aiuto dei cittadini e

7 Un'eccezione significativa si trova in D.B.I 76, dove ventinove proprietari di Novara o aree limitrofe si uniscono percostruire un castello sulle loro proprietà e per abitarvi insieme.8 Dalmstadter (B3-b), pp. 5, 26-31.9 V. Fumagalli, Vescovi e conti nell'Emilia occidentale (B3-d); Rossetti, Formazione, cit., pp. 286-305; Keller,Gerichisort (B3-c), pp. 32ss.

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dei rifugiati scappati agli Ungari, assieme ai pieni diritti comitali nella città; Bergamo aveva appenafatto fronte, con difficoltà, ad un assedio da parte degli Ungari. Berengario citava « la grandeincursione dei selvaggi Ungari » quale motivo delle sue concessioni, ma anche, con pari peso « lanotevole pressione del conte e dei suoi funzionari »10. D'allora in poi i re presero quasi sempre leparti dei vescovi nelle dispute fra conti e vescovi. I vescovi sembrava fossero meno partigianipoliticamente, e quindi meno pericolosi, dei conti. In genere provenivano da famiglie nobili ecomitali, ma le loro cariche non erano ereditarie, e a differenza dei conti non erano caratterizzatidalle loro responsabilità militari. Col procedere del secolo, tutta la struttura del potere comitalenell'Italia del nord era stata trasferita. Le città erano in mano ai vescovi. Anche in campagnal'autorità comitale fu scalzata dalle immunità, a favore dei territori della Chiesa, e sempre piu, deicastelli che si stavano trasformando in basi autonome di concentrazioni del tutto nuove di autorità epotere. Re quali Berengario, e dopo di lui Ugo, sembra abbiano trattato le grandi famiglie comitalicome i loro principali nemici e si siano dati da fare in modo abbastanza consistente per scalzarne ilpotere.

Gli effetti di questo trasferimento di autorità furono complessi e a lungo termine pericolosi per lostato, man mano che la società diveniva sempre più localizzata. I re del X secolo certamente furonoconsci di tutto ciò, ma consideravano che valesse la pena tentare: tramite concessioni potevanoottenere la fedeltà dei nuovi poteri locali. Di certo Berengario e i suoi successori impedirono unparticolare fenomeno: l'emorragia del pubblico potere nelle mani dell'aristocrazia laica, comeavvenne in Francia e Benevento. E' vero che, con l'XI secolo, la carica di conte era ormai assimilataalla proprietà privata di famiglie comitali e spesso fu concessa in beneficio dai re. Tuttavia daquell'epoca i poteri ufficiali dei conti furono ben più deboli. Città e castelli erano i nodi indipendentidell'autorità pubblica, quantunque nei castelli questa autorità venisse privatizzandosi nelle mani diproprietari laici. I1 potere nella campagna fu quindi troppo frammentato per offrire una alternativaal potere che il vescovo aveva nella città. Ai re, avendo questi dato tale potere ai vescovi, venivaspesso chiesto di confermarlo nei regni successivi; la loro autorità veniva ancora riconosciuta. Puòdarsi che Berengario non abbia potuto impedire il crollo dell'autorità dello stato, ma almeno poté,tramite le sue concessioni, decidere in quali mani dovesse passare la propria autorità, ed ottenereadeguati riconoscimenti dai suoi protetti. Sotto questo aspetto i vescovi erano senza dubbio piùdegni di fiducia dei conti.

Come si è visto, le città erano i centri che più tutelavano la sopravvivenza dei legami pubblici dellasocietà libera. Per la maggior parte i vescovi non furono capaci di conservare una egemonia privatasulla società cittadina del nord, sotto l'aspetto socio economico ciò era troppo complesso, e lí lefonti del potere erano troppo forti. Essi non potevano far altro che assumersi ruoli di patrocinatoreed arbitro giudiziario, e sperare di sopravvivere senza che il loro potere venisse contestato. Ma ciònon era dovuto al governo episcopale. E' dubbio che una città sufficientemente fiorente (come loerano quasi tutte le città del nord) avesse potuto diventare passivamente possesso privato di unafamiglia laica come avveniva nel sud, anche se i conti avessero mantenuto il controllo sulle lorocittà. Nel 1014 i cittadini di Mantova ottennero da Enrico II un diploma che riconosceva i loro dirittipubblici e le loro proprietà dando loro l'immunità contro tutti i funzionari laici e i vescovi. Mantovanon era una città che avesse mai ricevuto una immunità episcopale, ed i suoi conti erano membridella casa di Canossa, la famiglia più influente del regno, che usava la città come base. Tuttavia isuoi cittadini avevano mantenuto abbastanza senso di coerenza da opporsi ai Canossa ed ottenerequesto diploma di immunità, ed anche erano sufficientemente coscienti della loro posizionepubblica da autodefinirsi arimanni11. Altrove la concessione di diritti ai vescovi aveva invece potuto 10 D.B.I 47.

11 MGH Dip. Heinrici II, n. 278, cir. Tabacco, Liberi del re (B4), pp. 167-82. Fu alquanto difficile per i Mantovaniresistere a Bonifacio di Canossa, ma cfr. anche Dip. Heinrici, III, n. 356.

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far sorgere il problema della separazione politica della campagna dalla città, in quanto larelegazione dei conti alla campagna e la frammentazione dell'autorità rurale crearono una fortearistocrazia rurale con diritti giudiziari per la prima volta in Italia. I 'conti rurali' che i comuniurbani del XII secolo dovettero conquistare, uno ad uno, avevano solo due secoli.

Altre conseguenze di queste concessioni reali furono meno ambigue. I poteri ufficiali dei conti,quantunque esercitati in modo da non ispirare fiducia, erano almeno poteri pubblici concessi lorodai re, e per principio potevano essere revocati, o concedendoli via via ai vescovi, o spodestando lafamiglia che li esercitava. Tuttavia una volta concessi ai vescovi, i poteri erano decisamente perduti.Talvolta i re potevano reclamare terre che avevano dato alla Chiesa, ma quando lo stato avevaceduto la sua autorità su di un territorio tramite un diploma che dava immunità giudiziaria, esso nonpoteva più rientrarne in possesso. Una città comitale aveva ancora al suo interno il vescovo comecontrappeso indipendente; nella città episcopale non vi era alcuna forza equilibrante. D'allora in poilo stato era direttamente dipendente dalla benevolenza dei vescovi. I re che tentarono di sottrarsi aquesta dipendenza, come fece il capo della 'reazione feudale', Arduino d'Ivrea (1002-15), caddero. Ela relativa neutralità politica dei vescovi, tanto rassicurante per i re in difficoltà, non andava tutta avantaggio di quest'ultimi. I vescovi erano funzionari appartenenti ad una gerarchia diversa; se lostato cadeva, il loro incarico avrebbe mantenuto lo stesso status. I1 loro potere era diverso da quellodelle grandi famiglie laiche del IX secolo quali i Supponidi, che avevano terre sparse in tutta lapianura Padana. Le proprietà episcopali raramente si estendevano oltre i confini della diocesi stessa,e non avevano bisogno della protezione di uno stato forte. Da allora, anche la proprietà laica, conqualche notevole eccezione, era limitata ad aree geografiche più piccole. I problemi politicidivennero più localizzati. Man mano che ciò avveniva l'esistenza stessa dello stato divenne a poco apoco sempre più marginale. Le conseguenze politiche non tardarono a mostrarsi.

Berengario aveva governato per oltre quindici anni senza opposizioni mentre si avviavano questisviluppi. Il suo secondo successore, Ugo di Arles (926-47) si accorse che essi erano ormaiirreversibili. La sua assunzione al trono segnò un nuovo passo nei cambiamenti politici italiani.Berengario nel 920 aveva introdotto mercenari ungari per rafforzare le proprie forze militariindebolite, ma ciò spinse i potenti del nord-ovest a sfidarlo, invitando Rodolfo II, re di Burgundia(922-6). Nel 923 Berengario fu sconfitto a Fiorenzuola e si ritirò a Verona; nel 924 gli Ungariincendiarono Pavia, e poco dopo, forse in conseguenza di ciò, Berengario fu assassinato. Tuttavia,nel 925, gli italici si ribellarono anche contro Rodolfo e lo sconfissero, offrendo la corona a Ugoconte di Provenza, che s'instaurò nel 926. I1 periodo che va dal 922 al 924 è l'ultimo in cui si puòvedere il nord diviso per fasce geografiche. Fino alla sua morte Berengario continuò ad essereappoggiato in Emilia e nel Veneto. Ugo iniziò il suo regno con forti sostegni, tuttavia prestoriscontrò che nessuno di questi appoggi era incondizionato. I1 regno di Ugo segna l'inizio di unacrisi generale nell'egemonia reale. Egli poteva fare affidamento su troppo poche forze.

Ugo volle esser un monarca attivo. Un attivo re carolingio legiferava e tentava di verificare se leleggi erano osservate, si sforzava di controllare se vi fosse uso illecito del potere dei suoi funzionari.Ciò però non era più possibile. Un re non poteva intervenire direttamente in questioni locali senzache questo intervento si tramutasse in un'impresa politica. Le attività di Ugo sembra si sianopiuttosto limitate al patrocinio o alla distruzione di particolari individui e famiglie nel tentativo dirafforzare la base di fedeltà del suo potere. Anche se siamo in possesso di una descrizione storicadel regno di Ugo—la massima parte dell'Antapodosis di Liutprando da Cremona—sembra chequesti non abbia fatto altro, e sembra che neanche Liutprando si aspettasse qualcosa di diverso. Loscopo più evidente di Ugo fu di porre sotto il suo più stretto controllo le marche italiane, come nonlo erano mai state fin dall'875. Durante il regno di Berengario il Friuli aveva cessato di esistere, ma

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Toscana e Spoleto erano totalmente autonome; anche Ivrea, creata da Guido, era diventata una forzapotente. Nel 931 Ugo depose il suo fratellastro Lamberto di Toscana e lo fece accecare. I1 verofratello di Ugo, Bosone, divenne marchese, solo per essere poi a propria volta destituito da Ugo nel936, e sostituito dal figlio illegittimo di quest'ultimo, Uberto. Nel 928 egli nominò suo nipoteTeobaldo marchese di Spoleto e nel 932 tentò di estendere il proprio controllo su Roma sposandocolei che vi esercitava il dominio, la senatrix Marozia, ma in questo caso Alberico, figlio diMarozia, lo cacciò e stabilì una propria egemonia. Nel 936, alla morte di Teobaldo, Ugo impose aSpoleto Anscario II d'Ivrea, e il conte di Milano Berengario, fratello di Anscario, divenne marchesed'Ivrea. Tuttavia, nel 940, mutò la sua politica verso la casa di Ivrea e rovesciò Anscario. Nel 941Berengario d'Ivrea fuggì presso Ottone I in Germania e Ugo ne abolì la marca.

Da questo semplice schema risulta assolutamente chiaro che la soluzione abitualmente scelta daUgo in merito al problema della fedeltà consisteva nel dare cariche ai membri della sua stessafamiglia. Bosone e successivamente Uberto governarono la Toscana; nel 943 ad Uberto fu dataanche Spoleto; Bosone fratello di Uberto divenne vescovo di Piacenza e arcicancelliere; al cugino diUgo Manasse, arcivescovo di Arles, furono date le diocesi di Verona, Mantova e Trento, oltre allanuova marca di Trento. Quest'ultima donazione somma in sé una notevole gamma di cariche(Liutprando dedicò un intero capitolo alla presa in giro di Manasse che le aveva accettate tutte,contro il diritto canonico)12, ma sottolinea la preoccupazione di Ugo di far fronte al principalepericolo esterno, l'invasione dalla Germania. La nomina di Manasse nel 935 segui all'incursionefallita di Arnolfo di Bavaria nel 934, su richiesta del conte e del vescovo di Verona, Milone eRaterio. Milone rimase in carica come conte, ma Raterio fu deposto ed imprigionato a Pavia, ovescrisse il suo primo importante lavoro letterario, i Praeloquia, per giustificare le proprie azioni(ritornò a Verona come vescovo negli anni 946-8, e poi ancora negli anni 962-8). Ugo avvertìchiaramente che tale tradimento dimostrava come solo i suoi congiunti fossero sostenitori fidati; laviolenza e l'aggressività di Ugo nel reclamare i propri diritti di re senza dubbio eliminò dall'areadell'aristocrazia laica potenziali sostenitori. In risposta Ugo li penalizzò ancor più. Negli ultimi annidel suo regno, ad esempio, sembra non vi siano stati conti in Emilia. Lì Ugo faceva affidamentosolo sui vescovi, quantunque almeno uno, Guido da Modena (circa 943-67), diventasse anch'egli unacerrimo nemico13. Quando Berengario d'Ivrea varcò le Alpi nel 945 con un piccolo esercitogermanico, Ugo perse i suoi sostenitori. Milone e Manasse, i difensori di frontiera, immediatamentesi schierarono con Berengario (a Manasse fu promesso l'arcivescovado di Milano), e tuttal'aristocrazia del Nord, per lo più nominata da Ugo, lo seguì o rimase neutrale. Berengario prese ilpotere e assunse il titolo di summus consiliarius, sommo consigliere, e attese la morte di Ugo, cheavvenne nel 947. Lotario figlio di Ugo, già associato al regno, morì improvvisamente nel 950, eBerengario si fece incoronare re.

Nel 945 Berengario d'Ivrea spinse con il suo operato l'aristocrazia italiana a rifiutare l'unico tipo dire autoritario che il sistema politico italiano consentiva ancora. Ugo era violento e interferiva, maciò avveniva solo perché la società lo aveva già tanto emarginato che qualsiasi intervento dall'altosembrava una interferenza, e ogni rimozione di conte o vescovo dalla carica sembrava un gesto diarbitrio da parte sua. Non solo l'Italia era diventata un sistema di signorie private, anche il poterepubblico si era evoluto a favore dei poteri locali, isolando il re. Nel 945, Ugo non era debole. La suaproprietà fiscale era ancora vasta, malgrado le concessioni fatte da Berengario I (o da lui stesso), ela sua proprietà personale era notevole. In un mondo 'feudalizzato' più privato come quello dellaFrancia del X secolo, Ugo paradossalmente avrebbe potuto trovarsi in posizione migliore pergovernare di quanto non fosse in Italia. Ma i potenti schierati con Ugo non avevano per la maggior

12 Liutprando, Antap., 4. 6-7.13 Fumagalli, Vescovi, cit., pp. 182-9

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parte ottenuto le terre da lui e gli unici legami nei suoi riguardi erano legami privati di fedeltàpersonale. Questi erano diventati ora inadeguati.

Quando Ugo si trovò in difficoltà, tutti i suoi sostenitori sparirono, Berengario Il fu lasciato solo alcomando di una struttura di potere politico in pratica priva di valore. Berengario fece una solaazione in linea con le tradizioni pubbliche del regno, un gesto appropriato a questo periodo noneroico, quando tassò tutto il regno con una tassa in denaro testatica, per la prima e ultima voltadall'invasione longobarda, per evitare un attacco ungherese nel 947. Questa tassa, nella stessatradizione del tributo danese di Carlo il Calvo nell'877 in Francia, e del danegeld anglosassone dellafine del X secolo, finì per lo più nel tesoro personale di Berengario (se si può credere alle cronachedi Liutprando), ma Berengario non aveva peso politico sufficiente per tentare di esigerla ancora, edil gesto si fermò lì14.

Berengario II governò sotto la minaccia dell'invasione germanica anche più di quanto non avessefatto Desiderio, due secoli prima. Ottone I, stabilito il controllo sul suo impero germanico,comparve in Italia negli anni 951-2, e si autoproclamò re. Berengario dovette recarsi in Germaniaper venir riconosciuto re sotto la protezione di Ottone, mantenne tale rango fino agli anni 961-2,quando Ottone finalmente si annesse l'Italia e fu incoronato imperatore. Ma lo stato di Berengarioera allora diverso da quello di Desiderio. Qualunque azione Berengario intraprendesse perrafforzare il proprio potere sollevava nuove opposizioni, in particolare da parte della Chiesa. ComeUgo, egli si accorse che l'unica risorsa efficace era l'aggressione. Le tradizionali risorse del regno siridussero rapidamente, il polo più importante dell'autorità pubblica, il tribunale comitale, sembra siatotalmente sparito durante il regno di Berengario. Dopo il 922, la zona in cui gli atti ufficialigiudiziari avevano avuto luogo si era già ristretta fino a comprendere poco più che le zone centralidella pianura Padana, l'Emilia occidentale e la Lombardia orientale. Fra il 945 e il 962 non ve ne èmenzionato alcuno15. Verso il 962 il regno indipendente d'Italia di fatto era caduto.

Ottone I tentò una restaurazione temporanea che per lo più venne accettata dalle popolazioniitaliche. Dopo tutto, Ottone fu per lo meno politicamente neutrale verso i potenti d'Italia rivali fraloro. Ma, elemento assai più importante, aveva un esercito forte che l'infedeltà italiana non potevaintaccare, ed era militarmente invincibile, non solo al Nord, ma anche a Roma (ove rovesciò papiostili, il figlio di Alberico, Giovanni XII nel 963, e Giovanni XIII nel 972) e a Capua-Benevento16,Ottone elevò varie nuove famiglie alla nobiltà, come gli Obertenghi e i Canossa. Reinstaurò contee,(ma anche concesse maggiori poteri ai vescovi) e insediò nuovamente le corti giudicanti. Nel 967promulgò anche leggi, quantunque le popolazioni fossero meno entusiaste riguardo ciò, ma lo statodi Ottone era un qualche cosa di artificiale, sostenuto solo dalla sua forza militare esterna. Quando isovrani della Germania, dopo la sua morte nel 973, restarono fuori dall'Italia fino al 996,l'amministrazione centrale non poté continuare nella sua attività come aveva fatto sotto i primiCarolingi. Sotto Ottone I, i tributi statali descritti nelle Honorantiae Civitatis Papiae venivanoancora riscossi da Gisolfo, ciambellano di re Ugo. Alla fine degli anni 980, suo nipote fu rimossodalla carica ed i beni dello stato cominciarono ad essere venduti o dati via. Può darsi che questoprocesso si sia arrestato mentre Ottone III governava a Roma (996-1002), ma riprese con i suoisuccessori. L'abbandono dei diritti fiscali del governo centrale da parte dello stato dopo circa il 990è concorde col lento diminuire del controllo pubblico sul governo locale fin da circa il 900. Spiegaanche l'incendio del palazzo di Pavia da parte della popolazione nel 1024, in quanto anche la gente

14 Liutprando, Antap., 5. 33. Gli Ottoniani raccoglievano il fodrum, un equivalente in denaro al diritto di ospitalità regia,ma è discutibile che si possa definirlo una vera e propria tassa: cEr. F.G.S., pp. 534-77.

15 Manaresi, 132-44; ne avvengono solo 140-1 a Lucca (alla presenza di Ugo) e 137 ad Asti.16 Per la storia dopo il 962, in generale: Hartmann (B1), IV; Mor (B1); per quella successiva al 1002: C. Violante inStoria d'Italia, I (B3-d).

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di Pavia, a lungo privilegiata da esenzioni, non sentiva che lo stato fosse più di alcun vantaggio17.Enrico II (1004-24) fu ancora abbastanza influente da distruggere senza combattere il re chel'aristocrazia italiana aveva incoronato nel 1002 per opporglielo, Arduino d'Ivrea, non trovandonecessario di doversi recare in Italia. Dopo il suo regno, tuttavia, la forza militare degli imperatorigermanici non fu accompagnata da una significativa risposta positiva di alcuna parte dei sudditiitaliani; lo stato era ormai diventato una istituzione irrilevante. I seguaci di Corrado II (1024-39) edei suoi successori furono potenti (e più tardi città) che chiedevano un aiuto esterno germanico perrealizzare i propri interessi privati locali, piuttosto che seguaci armati sostenitori delle tradizioni delregno. I sovrani successivi al 1024 regnarono nel vuoto; la storia d'Italia si faceva altrove.

La nuova aristocrazia e la crescita dell'autonomia urbana

Ben poche delle famiglie aristocratiche importanti del 1000 lo erano state anche un secolo prima.Gli Arduinici di Torino, gli Aleramici del Piemonte meridionale, gli Obertenghi degli Appenninidel nord ovest, i Gisalbertingi di Bergamo, i Canossa delle paludi del Po, le famiglie comitali diToscana (Guidi, Cadolingi, Gherardeschi) erano nuovi arrivati, i protetti di Ugo e di Ottone I. Diqueste le prime due erano famiglie di recente immigrate dal nord, tutte le altre erano longobarde. Legrandi famiglie franche del periodo carolingio erano pressoché totalmente scomparse, nerimanevano solo poche, che governavano su singole contee, come i Bernardingi a Parma, oconcentrate in zone limitate, come i Berardenghi ad est di Siena. Le famiglie 'nuove', quantunque inmolti luoghi da lungo tempo insediate nelle rispettive località, in precedenza non avevano legamicon lo stato, né ricordo delle ambizioni carolingie. Chiunque avesse voluto ricreare l'autorità dellostato carolingio avrebbe avuto da loro poco appoggio. Ciò tuttavia fu meno significativo di quantonon sembri. Gli interessi locali di queste famiglie erano conseguenza non tanto della loro visioneideologica, ma dell'organizzazione della loro proprietà terriera. Per la maggior parte essi eranomembri dei ranghi inferiori della nobiltà tardo e post carolingia che avevano fatto strada, vassalli eaffittuari di vescovi e potenti carolingi, le cui basi fondiarie originali erano state la distribuzione deicontratti d'affitto e le conseguenti clientele. Non erano proprietari di grandi tenute sparse, ma diterreni concentrati all'interno di aree più piccole, ove i più vasti interessi del regno erano menovisibili. Anche quando erano oggetto di ampia protezione reale, come lo erano, sembra, gliObertenghi sotto Ottone I, le loro terre rimasero fortemente concentrate in una sola regione, esebbene coprissero cariche pubbliche il loro potere per lo più non era per nulla basato sulle lorocariche. Di certo le cariche portavano con sé terreni, come era sempre avvenuto, ma non davanogrande accesso all'autorità pubblica, in quanto, come si è visto, i poteri pubblici dei conti erano oradecisamente frammentati e ridotti e il titolo di conte o di marchese dopo il 1000 divenne poco più diun attributo allo status personale18. Queste variazioni possono essere viste meglio tramite esempi:primo, l'Emilia, una terra abbastanza tipica del Nord Italia, e oggetto di notevoli studi recenti, inparticolare di Vito Fumagalli; secondo, la Toscana, esterna al flusso principale degli sviluppidelineati in questo capitolo, regione ove la forza dello stato durò più a lungo.

La famiglia dominante nell'Emilia carolingia fu quella dei Supponidi, precedentemente legata, comesi è visto, ai destini di Brescia. Sotto molti aspetti furono l'archetipo di una famiglia di uomini del renel secolo IX, e durante le guerre civili rimasero del tutto fedeli a Berengario I loro parente.Tuttavia ad un certo punto ruppero con lui; Bosone (probabilmente conte di Parma) nel 913 siribellò, e suo fratello Vilfredo di Piacenza nel 922 poté essere dalla parte di Rodolfo II. Dopo il 925si sente parlare poco di loro. L'ultimo membro della famiglia di cui si abbia notizia, Suppone IVconte di Modena, viene citato per l'ultima volta nel 942. Sembra siano spariti, e di per sé ciò non 17 Cfr. F.G.S., pp. 502-14.18 II Piemonte, roccaforte dell'aristocrazia laica irredentista, può aver costituito una eccezione, ma anche lì il poterepubblico ebbe a declinare; cfr. G. Sergi (B3-f).

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deve sorprendere; abbastanza spesso le famiglie nobili si estinguono, se sono vincolate alladiscendenza maschile. Ma per un lungo periodo la loro ampia base di potere deve essere statadifficile da mantenere, attraverso vari decenni di guerra civile e suddivisioni temporanee del regno.Esse dipendevano strettamente dal potere associato all'esercizio di cariche pubbliche, potere cheaveva cominciato a dissolversi man mano che Berengario aveva iniziato ad alienarlo. Inoltrel'ostilità di Berengario può averle indebolite in modo più diretto. All'epoca del regno di Ugo, gliultimi membri della famiglia sembra abbiano cominciato a concentrarsi in una sola provincia, quelladi Modena, ove Ardingo zio di Suppone IV era anche vescovo. Come sempre Ugo era diffidente neiloro riguardi, e li forzò anche a concedergli terreni. Chiaramente il loro potere era in declino benprima che fisicamente sparissero19.

In Emilia Berengario aveva tuttavia altri protetti, e queste famiglie cominciarono ad ottenerevescovadi e contee nei primi decenni del secolo. Erano tutti del luogo. La famiglia longobarda 'daGorgo' (dal nome del nuovo castello di Gorgo vicino al Po) sotto Berengario diede un vescovo edun conte a Piacenza e un vescovo a Reggio. Fu nel territorio del vescovo Guido di Piacenza cheBerengario combatté la sua ultima battaglia di Fiorenzuola nel 923. E’ possibile che Ugo sia statodiffidente anche nei riguardi dei da Gorgo (nei suoi ultimi anni non c'erano conti di Piacenza)tuttavia la famiglia sopravvisse e, collegata ad altre famiglie simili quali quella franca deiGandolfingi, dominò l'Emilia occidentale verso la fine del X secolo, con la protezione degli Ottoni.I da Gorgo e i Gandolfingi in origine erano piccole famiglie di vassalli e funzionari della campagnaemiliana, lontanissimi dai Supponidi come si può immaginare, ma già sotto Berengario stavanoassumendo uno status equivalente al loro, ed in media sopravvissero più a lungo di loro. E’importante il fatto che molti membri siano poi stati nominati vescovi. Le cariche episcopale ecomitale, quantunque istituzionalmente in opposizione, erano diventate alternative parimenti valideper le ambizioni della famiglia (sebbene, ovviamente, le famiglie longobarde si fossero rivolteall'episcopato almeno fin dal secolo VIII). Durante il regno di Berengario delle due la caricaepiscopale era anche la più stabile. Malgrado nella città di Piacenza continuassero a governareconti, il vescovo Guido era una figura ben più importante di suo fratello Raginero conte, e la figurapiù potente dell'Emilia a metà del secolo di certo fu Guido vescovo di Modena e abate diNonantola, prima traditore di Ugo, poi di Berengario II (del quale era stato arcicancelliere), infine,con meno successo, traditore di Ottone I.

Solo una delle più importanti famiglie dell'Emilia—la casata dei Canossa—scelse di basare il suopotere sulla detenzione della carica comitale20. La storia dei Canossa, breve ma drammatica (la lorodiscendenza maschile si estinse nel 1055, e quella femminile nel 1115) dimostra quali cambiamentiuna famiglia intraprendente potesse operare all'interno del nuovo ordine sociale. I1 loro capostipitefu Adalberto-Atto, membro di una famiglia longobarda della piccola nobiltà, forse dei confiniappenninici del territorio di Lucca, e oppositore attivo di Berengario II. Ottone I lo ricompensò conle contee deboli di Reggio e Modena, e più tardi di Mantova. Sembra che Adalberto-Atto abbiatrascorso il periodo 960-970 riunendo vasti lotti di terreno nelle paludi del Po, spesso scambiandolicon tenute più piccole e sparpagliate nelle zone della pianura da tempo disboscate. Le paludidivennero il centro di potere dei Canossa. Gli Appennini (ove è situata Canossa stessa) erano un po'meno importanti, e la pianura, centro di proprietà terriera altrui, ancora meno. I Canossa capironoche il dissodamento e un potere stabile e coerente (o signoria, per usare il tipico termine italiano)erano una via sicura verso il potere politico, e già nei primi decenni del secolo XI l'avevanoconseguito in modo palese. Da allora il nipote di Adalberto-Atto, il feroce Bonifacio, (marchesecirca del 1013-52) esercitò gran parte del potere derivante dalla proprietà da Cremona e Mantova 19 Per l'Emilia: Fumagalli, Vescovi, cit., e Terra e Società (B3-f), pp. 80-123. I diplomi di Ugo e di Lotario (a cura di L.Schiaparelli, Roma, 1924), n. 78 (945) per le donazioni fatte al re.20 Fumagalli, Le origini di una grande dinastia fendale (B3-f); R. Schumann (A3-f), pp. 55-8. Per gli Obertenghi, casomolto simile alla periferia dell'Emilia, manca uno studio moderno; cfr. Schumann, pp. 60-4.

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fino ai confini della Toscana, e il patronato del re aumentò ancora tale potere. Ereditò dal padre iltitolo di marchese, titolo che sembra non abbia portato con sé status ufficiale, ma Bonifacio era inposizione favorevole per essere fatto marchese di Toscana da Corrado II nel 1027.

Bonifacio dai castelli rurali governò le sue terre con fermezza (solo nella città di Mantova aveva unpalazzo). Suo zio e suo fratello erano vescovi, ma l'influenza dei Canossa sulla maggior parte dellecittà avveniva dall'esterno. Questo controllo rurale può essere stato lo sfondo di una grossa rivoltacontro Bonifacio da parte, sembra, dei cittadini e della piccola nobiltà della valle Padana, che eglidovette sconfiggere in una battaglia campale nel 1021. Certamente i Canossa ebbero un destinoeccezionale, solo gli Obertenghi e gli Aldobrandeschi nella Toscana meridionale erano altrettantoattivi nelle zone rurali. Essi dimostrarono che era possibile un potere rurale indipendente, se questosi basava su zone non urbanizzate come le paludi e le montagne, anche nell'Italia del nord. ICanossa, tuttavia, non avrebbero potuto ottenere lo stesso risultato sotto i Carolingi. I1 rifiuto dellacittà poteva avvenire solo fra la fine dell'amministrazione carolingia, che si basava sulla città, el'inizio del potere dei comuni urbani. Anche allora ciò ebbe luogo ad opera di poche famiglieimportanti. L'incastellamento e quanto restava delle cariche poterono essere la base di un veropotere rurale, ma le dignità più importanti, l'episcopato ed il suo sistema di patronato, rimasero sottoil controllo delle città.

La Toscana ebbe uno sviluppo abbastanza diverso21. Si è visto Adalberto Il restare estraneo alleguerre civili del nord ed evitare qualsiasi ostilità da parte dei re, dopo una fuga fortunosa nell'898quando, senza successo, provocò una rivolta contro Lamberto. Adalberto governò la marca toscanain modo autonomo come aveva fatto suo padre, con propria capitale a Lucca. Ben pochi dei diplomidi Berengario hanno per oggetto la Toscana, e nessuno di essi tratta l'incastellamento. Adalbertotenne i poteri pubblici della marca sotto il proprio controllo, ma il crescere d'importanza di famiglieminori continuò a Lucca nelle terre fiscali ed episcopali. E anche prima della morte di Adalberto nel915 cominciarono ad apparire castelli privati, senza diplomi o minacce di Ungari che ligiustificassero. I castelli del primo periodo furono episcopali; i vescovi erano molto potenti, ancheall'interno del forte dominio laico della Toscana. I vescovi di Lucca avevano un castello a S. Mariaa Monte, a sud-est di Lucca, fin dal 906, ed uno a Moriano a nord dal 915. Presto ne seguirono altri.Essi, per la maggior parte, erano baluardi del vescovo per proteggere ed amministrare le sueproprietà e non erano ancora associati ad immunità giurisdizionale; solo attorno al 1070 Morianoappare negli atti come centro di giurisdizione civile esercitata dal vescovo sulla zona circostante22.

Dal 915 l'erede di Adalberto fu un minore, Guido (915-30). Berengario I, per la prima voltainfluente in Toscana, fu forse responsabile di un nuovo sviluppo a partire dal 920; con l'istituzionedei conti nelle città della Toscana, creava dei rivali o delle forze equilibranti il potere dei marchesi: iCadolingi e i Guidi a Pistoia, seguiti attorno al 940 dai Gherardeschi a Pisa e, più tardi, a Volterra.Queste famiglie erano longobarde, e apparentemente orientate verso la città. Sembra siano stati tra ivassalli del re e dei marchesi quelli di maggior successo, e presto si stabilirono come famigliedominanti della regione, subito dopo i marchesi. Tuttavia i loro possedimenti non eranovisibilmente concentrati nei territori di una sola città (territori che erano più piccoli di quelli delNord), ma fra loro collegati in tutto il Nord della Toscana. Solo dopo la fine del secolo Xapparirono famiglie ben più piccole e più localizzate. Queste erano per lo più rurali e basate sucastelli.

La coerenza politica della Toscana tenne più a lungo che al Nord, sebbene fossero già presenti lebasi della sua caduta. Re Ugo, che rovesciò Lamberto fratello di Guido e ristabilì le cariche reali, 21 Schwarzmaier (B3-f), pp. 193-261, e articoli di Schwarzmaier, Keller, Rossetti in 5° Congresso, cit.; la marca toscanaincludeva la Toscana settentrionale e centrale soltanto.22 Barsocchini, 1098, 1161; F. Bertini, Memoric e documenti, IV Appendice, n. 84.

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non distrusse la marca. Uberto figlio di Ugo (936-circa 969) fu lasciato a capo della marca, e suofiglio Ugo (969-1001), acceso sostenitore degli Ottoni, ristabilì la Toscana come unità organizzata,ampliando effettivamente i suoi poteri di marchese, e sforzandosi, secondo Pietro Damiani, digovernare giustamente23. La Toscana evitò lo sfacelo soprattutto perché evitò la maggior parte delleinterferenze dal nord. I marchesi governarono dalle ricche città della valle dell'Arno, e conservaronovaste tenute fondiarie, come dimostrano alla fine del secolo le donazioni di Ugo, che non avevaprole, ai monasteri. Ma alla morte di Ugo, il suo stato presto scomparve. I Canossa, marchesi neglianni 1027-1115, ereditarono solo il suo titolo come nel nord, il loro potere era per lo più ristrettoalle loro proprietà terriere. L'egemonia del marchese sparì, Lucca e Pisa combatterono una guerranel 1004, i Cadolingi iniziarono a creare una signoria rurale fuori Pistoia, ed altri li seguirono.Presto la Toscana si assimilò al nord. I Lucchesi odiavano Bonifacio di Canossa quanto lo odiavanogli Emiliani, e nel 1081, ad opera di Enrico IV, riuscirono ad eliminare le sue 'perverseconsuetudini' e quanto restava del marchesato e della infrastruttura reale all'interno della città24.L'esempio della Toscana dimostra come una piccola parte del regno d'Italia potesse, in modo deltutto adeguato, assumersi i poteri tenuti prima dallo stato senza indebolirli; anzi, secondo gli schemidel X secolo, rafforzandoli. La marca toscana era concentrata su zone fortemente urbanizzate, e ciòdeve spiegarne la sopravvivenza. Nessuna altra parte del regno ebbe una storia simile, per quanto èpossibile vedere oggi.

Le famiglie aristocratiche nell'Italia del nord e in Toscana mutarono ben poco la loro struttura allacaduta dello stato, particolarmente quando le si consideri in paragone agli evidenti mutamenti nellastruttura familiare della Francia e della Germania nei secoli X e XI. Ad esempio queste ebberosempre struttura patrilineare, e a ciò si attennero anche le famiglie franche, come dimostrò Winigisconte di Siena quando nel1'867 fondò il monastero di Fontebona e lo annesse in modo perpetuo allapropria discendenza per linea maschile. L'accresciuta importanza della discendenza per lineamaschile che si nota nel resto d'Europa non sarebbe stata molto visibile in Italia25. Di conseguenzanon ci si dovrebbe aspettare che la struttura della famiglia cambiasse molto alla caduta dello stato.La base dell'aristocrazia era e rimase la terra, ed il modo in cui distribuiva il suo potere terriero eratanto importante per essa nell'800 quanto nel 1100. Le famiglie nobili spartivano l'eredità nel1'800,e continuarono a farlo anche nell'XI secolo. Le strategie della proprietà terriera non cambiarono, e,come s'è visto si estesero anche al possesso per affitto ed ai benefici. Unica novità fu un senso viavia più sviluppato che i membri della famiglia ebbero della coerenza ed identità della propria stirpe.I cognomi fecero la loro comparsa nell'ultimo decennio del X secolo in Toscana, e con la metàdell'XI secolo erano diffusi, sebbene nel nord fossero ancora inconsueti. Gli uomini interessati alpassato cominciarono quando era possibile a far risalire le proprie origini fino ad antenati carolingi.

Questa base concettuale fu rafforzata dalla nuova tendenza al formarsi di nuclei farniliari, attorno amonasteri patrimoniali, pievi e castelli. Questi erano punti fissi, più di quanto non lo fossero letenute. Un monastero patrimoniale, o una pieve potevano essere sotto il controllo di un gruppo diconsanguinei vasto quanto tutto un lignaggio, se necessario. Non occorreva suddividere la proprietà,quantunque ciò potesse accadere. La terra donata alle chiese da singoli membri di famiglie non erasoggetta a divisione, e poteva essere anche aumentata con donazioni da parte di estranei qualora laChiesa avesse prestigio religioso sufficiente. I1 controllo familiare sulle pievi fu una evoluzione delX secolo; i monasteri in mano di una famiglia iniziarono ad essere comuni ai primi anni dell'XI

23 Ugo: cfr. nota 21, e A. Falce, Il Marchese Ugo (B3-fl; Pietro Damiani, De Principis Opificio, ıı, 3-5, in Migne, P.L,145 cc. 827-30.24 MGH Dip. Heinrici, IV, n. 334.25 Cartulario della Berardenga, a cura di E. Casanova (Siena, 1927), n. 53; cfr. P. Cammarosano (B3-f). La migliorpanoramica analitica di questi sviluppi si trova in C. Violante, Quelques caractéristiques des structures familiarles...,Famille et Parenté (B41, pp. 87-151, in contrasto con tutta una scuola di storici influenzati da K. Schmid, in particolareZur Problematik von Familie, Sippe u. Geschlecht.... Zeitsch. f.d. Gesch. des Oberrbeins, 105 (1957), pp. 1-62.

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secolo, dopo una interruzione quasi assoluta di due secoli26. Ma i castelli, nuovo sviluppocaratteristico di questo periodo, erano i punti focali. Come elementi di proprietà essi erano soggettia divisione; tuttavia, come basi di giurisdizione territoriale, avevano solidità maggiore. Nel IXsecolo, come si è visto, i proprietari terrieri cominciarono ad acquisire giurisdizione privata per reatiminori e diritto di causa sui loro affittuari. Coi castelli dei secoli X e XI, tale giurisdizione fu estesaa tutto il territorio sotto l'autorità del castello, che questo territorio fosse o meno proprietà di chiteneva il castello. In particolare, famiglie meno importanti iniziarono verso la fine del X secolo abasare interamente il loro potere territoriale su tale controllo, e tentarono di fondare i diritti giuridicidei castelli, con il possesso su tutto il territorio del castello, per creare una stabile signoriaterritoriale, similmente a quanto avveniva nella stessa epoca nel nord della Francia. Anche alloraperò vigevano le regole dell'eredità divisibile, queste signorie, una volta stabilitesi, cominciaronoanch'esse a spaccarsi. Fu in risposta a ciò che le famiglie presero ad unirsi tramite contratti formaliin consortia che controllavano il nucleo centrale, almeno, della proprietà in loro possesso, il castelloin campagna e sempre più la casa turrita in città. Ciò produsse una certa stabilità. L'interazione frala forza dell'eredità divisibile e il contratto di consortium continuò a caratterizzare i legami dellafamiglia nobile fino alla fine del Medio Evo.

Non tutte le grandi famiglie aristocratiche né i ricchi potenti ecclesiastici cercarono di legare a sé leproprietà fondiarie e i castelli, tanto saldamente quanto fecero i loro vassalli ed affittuari, nobiltàinferiore. Come risultato, alcuni di loro iniziarono, attorno al 1000, a perdere controllo sulle loroterre a vantaggio dei vassalli27. Si è visto come il clero attivo della fine del X secolo si accorse che ipropri affittuari avevano iniziato ad insediarsi sulle proprietà della Chiesa fino ad escluderne di fattol'autorità. Le clientele militari dell'inizio del X secolo cominciarono sotto gli Ottoni ad esserericonosciute come strato distinto dell'aristocrazia, con interessi diversi da quelli dei grandiproprietari terrieri, e con denominazioni diverse, che variavano da luogo a luogo: secundi militesnel Nord, lambardi in Toscana; a Milano, ove immenso era il potere conferito dalla proprietàterriera dell'arcivescovo, vi erano due categorie, i capitanei (con le pievi come loro centri) e i lorovassalli, i valvassores. Anche i loro castelli erano diversi. I castelli dell'inizio del X secolo furonofondati in zone ove la proprietà fondiaria era complessa, e tale rimase. I castelli erano relativamentegrandi, e alcuni proprietari di castelli persino sfruttarono la popolarità di lotti edificabili all'internodelle mura barattandoli e vendendoli a prezzi elevati28. I castelli del secolo successivo, baluardidella piccola nobiltà, spesso erano molto più piccoli e per lo più servivano da sede familiare. Eranoi punti focali di politiche molto più aggressive di organizzazioni proprietarie. Anche alcuni deinuovi nobili più importanti erano aggressivi (i Gandolfingi ne furono un esempio); altri ne subironole conseguenze. Così avvenne per i contadini. Come all'epoca della crescita del sistema feudale, icontadini iniziarono ad opporre resistenza, talora con successo.

Si è visto che il sistema curtense si era pressoché disintegrato, attorno al 1000; il mutamento andavadal versamento di canoni in denaro, all'abbandono della prestazione obbligatoria di lavoro, allagraduale scomparsa della schiavitù. Spesso gli affittuari avevano il diritto di vendere terreni loroaffittati, e molti erano anche diretti proprietari29. I contadini proprietari indipendenti non avevanocessato di esistere (in realtà, alcuni dei più intraprendenti riuscirono a raggiungere i gradi dellapiccola nobiltà). Quantunque i proprietari terrieri non avessero per nulla perduto la loro autorità, fuuna società contadina sempre più aperta quella che i proprietari dei castelli tentavano di controllaretramite il potere locale dato dalle nuove unità di giurisdizione. L'entità delle tasse pretese da alcuni 26 Per esempio, per la Toscana, W. Kurze, Monasteri e nobilta nella Tuscia altomedievale, 5° Congresso, cit., pp. 339-62. Soltanto i maggiori aristocratici franchi, quali Adalberto I e Winigis, fondarono monasteri nel IX secolo in Toscana.27 Cfr. Ie opere di Violante in bibliografia, particolarmente Storia d'Italia, I, pp. 80-628 Come, per esempio, nel castello di Brivio nelle vicinanze di Bergamo, nel 968 (Porro, 706).29 Per un esempio, E. Conti (B3-f), pp. 1546.

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proprietari di castelli fu davvero considerevoIe, e gli obblighi ricacciarono molti coltivatori in unostato di dipendenza. Altri, al contrario, sembra abbiano goduto di indipendenza ed unità tali da nonessere assoggettati, specialmente in zone ove le giurisdizioni del castello minacciavano la proprietàterriera di altri aristocratici, come anche l'indipendenza dei contadini. Un particolare menoimportante è che si può osservare questa coesione in una serie di diplomi imperiali che confermanoi diritti dei contadini; forse lo stato avvertiva quanto i contadini la minaccia di un potere privato noncontrollato. Nel 970 Ottone I concesse esenzioni daziarie agli affittuari di S. Maria in Organo, nelvillaggio di Zago nel Veronese. Nel 983 i contadini (che possedevano terre) di Lazise sul lago diGarda ricevettero da Ottone II diritti di pesca. Gli schiavi del monastero di S. Ambrogio a Bellagio,vicino a Limonta, ottennero da Ottone III diritti di pascolo nel 998. A quindici schiavi di S.Antonino in Piacenza, dei quali si conosce il nome, fu concessa nello stesso anno l'immunitàdaziaria. In questi casi i contadini avevano garantiti dallo stato diritti pubblici, anche se per lo piùdipendevano da proprietari monastici: alcuni monasteri si reggevano ancora saldamente sulle loroproprietà, e i documenti che li riguardano sono più numerosi di quelli relativi alla nobiltà laica.Simili diritti collettivi, sebbene piccola parte dell'economia contadina, furono la base su cui sicostituì la possibilità di agire collettivamente da parte di una comunità che poteva essere davverosparsa. Come nel IX secolo, la resistenza contadina fu dapprima meglio organizzata ai margini dellasocietà italiana ma, quando nel 1058 I'abbazia di Nonantola concesse in un atto agli abitanti delcastello di Nonantola la libertà da fitti eccessivi e da ogni aggressione (eccetto che nell'esercizio deisuoi diritti giudiziari), fu aperta la via verso il comune rurale dei secoli XII-XIII 30.

L'altro punto focale dell'autonomia dopo la caduta del potere dello stato fu la città. Le città avevanoagito come collettività, per lo meno in modo informale, fin dalla fine del secolo VII, e i cittadini diMilano dall'879 ebbero un luogo per radunarsi di fronte alla loro cattedrale. Per vari secoli ilvescovo aveva agito, come si è visto, da fulcro della politica della città. La sua carica era lamaggiore carica urbana cui potessero aspirare le famiglie importanti della città. Quando i re del Xsecolo diedero ai vescovi diritti comitali nelle città, essi si ritirarono da una sfera politica che erastata sempre dominata dall'episcopato. Ma le prime responsabilità di ogni vescovo erano neiriguardi della sua Chiesa e della sua città, non verso lo stato, e quando lo stato cessò di far notare lasua presenza molti vescovi non lo seguirono, salvo i vescovi imperiali più ambiziosi, come quellogermanico elevato alla carica da Ottone III, Leone di Vercelli (998-1026), o, in modo più ambiguo,Ariberto II di Milano (1018-45). Le città cominciarono a sviluppare politiche molto più localizzate,e le rivalità fra città cominciarono ad essere più chiaramente visibili, a partire dalla guerra fra Pisa eLucca nel 100431.

E' chiaro che da un lato la cessione del governo della città ai vescovi era un passo logico nellosviluppo politico urbano, ma essa non era totalmente a vantaggio del vescovo. Le città non eranocollettività che potessero essere controllate facilmente, in specie le più importanti famiglie cittadineche erano, per lo più, anche i massimi proprietari terrieri rurali. Essendoci un unico vescovo daeleggere ogni volta, una sola famiglia lo poteva proporre. E se la gerarchia clericale funzionavasecondo propri schemi etici, come cominciò a diventare più comune nell'XI secolo, i vescovipotevano non essere scelti all'interno delle famiglie aristocratiche. Le famiglie della città nonavevano altro modo di raggiungere potere ufficiale e status, ora che le cariche dello stato si eranoallontanate dalle città. Sempre più intensa diventò la lotta fra fazioni, in assenza di simili sbocchi, e

30 MGH Dip. Ottonis I, 384, II, 291, III, 265, 268. Per Nonantola: L.A. Muratori, Antiquitates Italicae, III (Milano,1740), pp. 241-3. Cfr., in generale, Tabacco, La storia politica e sociale, pp. 153-67 e i riferimenti citati, L.A.Kotel'nikova, O formakh obscinnoy organizatzii severoital'yansbovo krest'yanstva v 9-12 vv, « Sredniye Veka », XVII(1960), pp. 11640 e altri riferimenti citati.31 Le guide migliori sono costituite dalle opere della Fasoli citate nella bibliografia (B4); danno informazioni su distintestorie di città.

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cominciò solo a trovar soluzione con lo sviluppo del governo comunale indipendente e quindi dellenuove cariche urbane alla fine dell'XI secolo. Questo sviluppo, rispetto al quale la storia precedentedell'Italia medievale è sembrata a troppi storici solo un preludio, non è oggetto del presente studio.Ma le complessità dell'autonomia urbana furono in gran parte il prodotto della fine dello stato, edalcune di esse sono di rilievo.

Le.signorie episcopali sulle città erano di per sé molto simili alle signorie private laiche basate suicastelli. Spesso i diplomi reali che le garantivano erano quasi identici. Anche l'elemento piùsimbolico delle città, le mura, talora veniva concesso un po' alla volta ai privati. Berengario I donòparte delle mura di Pavia al monastero di S; Maria Teodota nel 913, e Ottone II fece la stessa cosa aComo nei riguardi di un mercante urbano, Bariberto, nel 98332. Ma anche le città del nord Italia piùsoggette alle signorie mantennero alcune istituzioni pubbliche, come si è visto nel caso di Mantova,poiché erano troppo complesse per controllarle con qualsiasi altro mezzo. Il germe del comune erainsito in queste istituzioni e nei professionisti che le governavano, giudici e notai. Questi gruppierano già ben affermati nel secolo VIII, e con l'XI secolo erano diventati famiglie dominanti einfluenti collegate in modo inscindibile alle attività della burocrazia clericale e della nuova classedei mercanti proprietari terrieri. Anche l'aristocrazia urbana terriera reputava già necessario venirassociata a questi gruppi e diventa difficile parlarne separatamente. Essi divennero i cittadiniimportanti dei secoli X-XI, i cives, che in genere compaiono nei documenti pervenutici senzaalcuna altra descrizione. I cives assistevano il vescovo di Mantova nel funzionamento delle zeccheche gli erano state date nel 945 da Lotario; i cittadini di Genova erano i recettori di un atto di libertàda parte di Berengario II nel 958, primo atto pervenutoci che riguardi un corpo cittadino33. Talvoltai cittadini erano divisi in varie categorie sociali: maiores, mediocres, e minores, o (come a Cremonanel 996) « tutti i cittadini liberi di Cremona, ricchi e poveri ». Che preciso significato avesseroquesti strati sociali in termini economici e in questo periodo è del tutto oscuro; tuttavia i capi deicittadini appartennero sempre agli strati professionali e alla aristocrazia terriera. Parte diquest'ultima, talvolta, veniva distinta rispetto ai cittadini col termine di milites, vassalli episcopali,ma raramente si può vederli in opposizione rispetto alla loro controparte civile (Milano costituiscel'eccezione più chiara). E neppure erano le uniche persone che combattevano. Le sollevazioni dellecittà dell'XI secolo indicano che la gente comune era pronta a combattere e con ciò avevadimestichezza. Nel contesto urbano, partecipare attivamente alla lotta non era diventato un fattoristretto ad una elite, e, nell'affermazione dell'identità civica, i poveri erano per lo più ancora prontia seguire i ricchi.

Le sollevazioni non furono un preludio necessario o immediato al comune, ma più chiaramentemostrano la forza che l'identità civica cominciò ad assumere allorché le città divennero centripolitici autonomi. Dopo la metà del secolo X divennero ben più frequenti. Tutti i cittadini di Veronasi unirono per opporsi al vescovo Raterio nel 968. Nel 983 i Milanesi cacciarono l'arcivescovoLandolfo II dalla città, e per tornarvi egli dovette fare molte concessioni all'aristocrazia civica. ICremonesi nel 1037 (o prima) si ribellarono al vescovo, e, secondo le parole di Corrado II « locacciarono fuori dalla città con gran ignominia lo spogliarono dei suoi beni, e distrussero fino allefondamenta una torre del castello... Demolirono anche le mura della città vecchia fino allefondamenta, e costruirono un'altra cinta muraria, più grande, contro il Nostro stato ». I Cremonesierano stati in cattivi rapporti con i loro vescovi, specialmente in merito ai pedaggi fluviali per imercanti cremonesi, fin dall'852, ma col 996 le dispute erano già giunte a coinvolgere tutto il corpocittadino. Ottone III, raggirato da loro, emise un diploma che garantì loro diritti e completeimmunità, quantunque lo individuale. Forze più grandi come lo stato, almeno all'inizio, s'imposerosu ognuna di queste località dall'esterno. Per ciascuna forza autonoma dell'XI secolo esistevano 32 D.B.I, 90; Dip. Ottonis II, 312.33 Dip. Lotario, I (paragona con D.B.I, 12); Dip. Berengario II, 11 (edito nello stesso volume).

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lunghe tradizioni storiche; la solidarietà e coesione delle loro ideologie furono il prodotto dellacaduta dello stato, non la sua causa. L'idea di un unico popolo o di un singolo stato, la gensLangobardorum di Paolo Diacono, il regnum Italicum di Liutprando di Cremona, durò quanto lostato. E' solo dopo la caduta dello stato che fu sostituita, nelle menti delle classi dominanti italiane,dall'esplicito affermarsi delle fedeltà locali. Comunque, in un altro senso, almeno non devesorprendere che lo stato sia caduto di fronte a queste nuove forze locali. Lo stato longobardo equello carolingio furono monumenti alla forza dell'ideologia dell'Impero romano, per i quattrosecoli dopo la sua scomparsa verso la metà del VI secolo. I Longobardi e i Carolingi tentarono digovernare per mezzo di istituzioni pubbliche su vasta scala, senza l'appoggio economico del sistemafiscale dell'Impero che le aveva prodotte. Avevano origini radicate nella terra, in un mondo nuovonel quale la proprietà terriera era l'unica chiave di accesso al potere; e così era anche per i lorodelegati, duchi, conti e vescovi, e la terra dei loro delegati fu indipendente dall'autorità reale, opresto lo diventò. La forza più efficace che permise ai re di mantenere il controllo sul proprio regnofu semplicemente il consenso dell'aristocrazia all'ideale pubblico dello stato romano che i reusavano, e, come conseguenza di questo consenso, il fatto che le classi proprietarie terrierestrutturarono la loro azione politica attorno allo stato. I1 sistema di patrocinii dello stato fu, dopotutto, per loro estremamente vantaggioso. Malgrado ciò, le attività private di queste personeminarono lentamente il potere pubblico dello stato e ben poco poté fare lo stato per fermare questoprocesso. Lo stato poteva mantenere il consenso; ma il vero controllo, parte altrettanto importantedell'ideologia dell'Impero, era più difficile. Il fatto che lo stato sopravvisse solo con il consensodelle classi superiori fu riflesso, anche, nel fatto altrettanto importante che lo stato fece sempresemplicemente sentire la propria presenza in strati diversi di contadini, la fascia più ampia dellasocietà se non come forza coercitiva distante. La composizione politica dello stato longobardo-carolingio interessava solo l'aristocrazia, e non era importante per nessun'altra categoria sociale. Almassimo si potrebbe affermare che il controllo dello stato era più efficiente nel Nord Italia e inToscana che non nel Sud, o altrove in Europa, per lo più per la complessità delle città del NordItalia e delle proprietà terriere attorno ad esse, che consentiva allo stato di sfruttare le rivalità localie di intervenire, e diminuiva la possibilità di ogni singola famiglia di giungere al controllo locale edi rendersi autonoma dallo stato. Ma l'intervento locale richiedeva l'uso di una politica dellaproprietà terriera, e questa politica non era pubblica, ma privata. Lo stato sfruttò anche i legamiprivati di dipendenza, ma nel fare ciò li rafforzò. Al momento della crisi, all'inizio del X secolo,questi legami, saldamente basati sulla proprietà terriera, si dimostrarono più forti dell'ideologiapubblica dello stato. In questo senso il X secolo (o, nel Sud, il IX secolo) vede la vittoria dei poterilocali sullo stato, in quanto i legami privati di società, dipendenza personale, comunità, e lacoercizione dei contadini, erano a base locale. Anche le istituzioni pubbliche si decentrarono, incittà e castelli. L'ideologia dello stato unico venne sostituita dalla forza reale della società locale.L'Italia si frantumò. Le unità regionali seguirono vie diverse (quantunque spesso su linee parallele)rafforzate da un senso crescente della loro singola identità. Sarebbero occorse l'ideologia delnazionalismo romantico del XIX secolo e le trasformazioni socio-economiche della RivoluzioneIndustriale per costringerle a congiungersi di nuovo.

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BIBLIOGRAFIA

Abbreviazioni

A.S… Archivio StoricoBISI Bollettino dell'Istituto Storico Italiano per d Medio EvoMGH Monumenta Germaniae Historica (A.A.: Auetores Antiquissimi; S.S.:

Scriptores; S.R.L.: Scriptores rerum Langobardicarum; Dipl: Diplomata, o Carolingia (Kar.) o Germanica (distinta con il nome dell'im-peratore); Epp.: Epistolae)

Migne, PL J-P. Migne, Patrologia LatinaQF Quellen und Forsclungen aus italienischen Archiven und BibliotehenRSI Rivista Storica ItalianaSM Studi MedievaliSett. Settimane di Studi (Spoleto)

Nota introduttiva

La seguente bibliografia rispetta la divisione del volume originale in sezione inglese e sezione noninglese, con alcune modifiche per renderla meglio utilizzabile in Italia, anche a fini di studio e diricerca. Essa non è completa; una bibliografia completa esula dagli scopi di questo libro ed è quasiimpossibile da compilare, a causa della sorprendente varietà di riviste locali italiane e del lungointeresse per l'Italia mostrato dall'intero mondo accademico internazionale e in particolare, per ilnostro periodo, dai tedeschi.

Per facilitare la consultazione e i rinvii, sia la sezione inglese (A) sia quella non inglese (B) sonostate suddivise nelle parti seguenti:

1. Opere d'ordentamento e di carattere generale2. Storia politica

(a) Tarda Romanità e Ostrogoti(b) Italia Longobarda e Bizantina(c) Italia Carolingia(d) Italia Post-Carolingia e Impero Germanico(e) Italia Meridionale(f) Studi Locali

3. Storia sociale4. Storia economica

(a) Generale(b) Studi Urbani(c) Studi Rurali

5. Chiesa e cultura(a) Storia della Religione(b) Papato e Roma(c) Cultura

I riferimenti a sezioni diverse sono indicati in forma abbreviata, per esempio: (B3-d) anche nellenote i rimandi bibliografici sono fatti utilizzando la forma abbreviata.

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A. Bibliografia scelta di opere in inglese1. Note d'orientamento e di carattere generale

La maggior parte degli studi cospicui sull'Italia altomedievale non è di lingua inglese. Gli uniciargomenti per i quali gli studi di lingua inglese possono in qualche modo competere con i miglioristudi stranieri sono il periodo romano-ostrogoto, il papato e, recentemente, gli insediamenti umani ei ritrovamenti archeologici. Per altri aspetti, le lacune vanno colmate con analisi frammentariemediocri, o con brevi sezioni in opere dedicate ad altri argomenti. Le sole eccezioni a tale penuriasono le opere di Donald Bullough, che trattano principalrnente dell'Italia carolingia.

2. Storia politica

(a) Tarda Romanità e Ostrogoti

L'opera fondamentale, in qualsiasi lingua, su tale argomento è AX.M. Jones, The Later RomanEmpire, 3 voll. (Oxford, 1964). La narrazione più completa in inglese è J.B. Burv, History of theLater Roman Empire, 2 voll., II ed. (Londra, 1923), precedente a Stein (B3-a), ma di similicaratteristiche. Per la storia sociopolitica sino al 425 è basilare J. Matthews, Western Aristocraciesand the Imperial Court (Oxford, 1975). I volumi II e III di Prosopography of the Later RomanEmpire (Cambridge) costituiranno il più importante strumento di ricerca nei prossimi decenni. Per ilperiodo sino al 490, un'analisi prosopografica e testuale estremamente minuziosa sta producendoalcuni risultati: J. Matthews, Continuity in a Roman Family: the Rufii Festii ot Volsinii, «Historia»,XVI (1967), pp. 484-509; B.L. Twyman, Aetius and the Aristocrary, «Historia», XIX (1970), pp.480-503; FM. Claver, The Family and Early Career of Anicius Olybrius, « Historia », XXVII,(1978), pp. 169-96; M. McCormick, Odeacer, the Emperor Zeno, and the Rugian uictory legation,«Byzantion», XLVIl (1977), pp. 212-22.

Sul periodo ostrogoto vi è pure A.H.M. Jones, The constitutional position of Odoacer andTheoderic, « Journal of Roman Studies », LII (1962), pp. 126-30. Il governo di Teodorico vienediscusso da W.G. Sinnigen, Comites consistoriani in Ostrogothic Italy, «Classica et Mediaevalia»,XXIV (1963), pp. 158-65; Administrative shifts ot competence under Theoderic, « Traditio », xxr(1965), pp. 4Só-67. Cfr. anche Aó-c.

(b) Italia Longobarda e Bizantina

Sull'archeologia longobarda vi è oggi I. Kiszely, The Anthropology of Lombards (Londra, 1979).Buoni risultati sono dati dall'attento esame di un dettaglio della storia amministrativa longobarda:D.A. Bullongh, «The Writing-office of the dukes of Spoleto in the 8th century », in idem (a cura di),The Study of Mediaeval Records (Oxford, 1971), pp. 1-21.

Ravenna è studiata oggi in modo migliore, con importanti nuove opere di T.S. Brown, The churchof Ravenna and the imperial administration in the 7th century, «English Historical Review», XCIV(1979), pp. 1-28, e Gentlemen and officers. Imperial administration and aristocratic power inByzantine Italy 554-800 (Londra 1982).

(c) Italia Carolingia

Sull'amministrazione carolingia, cfr. D.A. Bullough, Baiuli in the Carolingian regnumLangobardorum and the career of abbot Waldo (1813), « English Historical Review », LXXVII(1962), pp. 625-37; idem, The counties of the regnum Italiae in the Carolingian period, 774-888: a

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topographical study. 1, « Papers of the British Schocl at Rome », XXIII (1955), pp. 148-68; K.F.Drew, The immunity in Carolingian Italy, « Speculum », XXXVII (1962), pp. 182-97.

Vi sono inoltre alcuni contributi storici di tipo più narrativo: T.F.X.. Noble, The Revolt of KingBernard of Italy, SM, XV (1974), pp. 315-26; C. Odegaard, The Empress Engelberge, « Speculum», XXVI (1951), pp. 77-103.

(d) Italia Post-Carolingia e Impero Germanico

Non c'è pressoché nulla di importante in questa sezione. C'è comunque qualche operaqualitativamente pregevole riguardante il periodo successivo al 1000; cfr. il libro di J.K. Hyde,Politics and society in communal Italy, 1000-1350 (Londra, 1975), trad. it. Bologna 1977.

(e) Italia Meridionale

Vi sono uno o due testi curati con introduzioni e commenti in inglese: U. Westerbergh, ChroniconSalernitanum (Lund, 1956), e idem, Beneventan 9th century poetry (Stoccolma, 1957) che includeutili commenti sulla storia del secolo IX; M. Salzman, The Chronicle of Ahimaaz (New York,1924).

Sulla Sicilia araba c'è anche A. Ahmad, A history of Islamic Sicily (Edimburgo, 1975). Cfr. ancheA5-b.

(f) Studi Locali

C'è uno studio locale su larga scala in inglese, R. Schumann, Auttority and the Commune. Parma833-1133 (Parma, 1973). Sulla Milano del secolo XI, alla fine del periodo da noi esaminato, cfr.H.E.J. Cowdrey, Archibishop Aribert of Milan, «History», LI (1966), pp. 1-15; The papacy, thePatarines, and the cturch of Milan, « Transactions of the Royal Historical Society », V serie, 18(1968), pp. 2S48. La storia vescovile di Lucca è discussa in E.G. Ranallo, The bisbops ot Luccafrom Gherard I to Gherard II (868-1003), 5° Congresso (B,), pp. 719-35.

3. Storia sociale

Mold udli rilievi sulla storia sociale dell'intero periodo sono fornid da CE. Boyd, Tithes andparishes in Mediaeval Italy (Ithaca, 1952).

Sul diritto, importand per una comprensione della storia legale italiana sono due studi sul dirittoaltomedievale in generale: il fondamentale E. Levy, West Roman Vulgar Law, The Law of Property(Filadelfia, 1951) e lo stimolante articolo di C.P. Wormald, Lex Scripta and Verbum regis, in EarlyMediaeval Ringship, a cura di P.H. Sawyer e IN. Wood (Leeds, 1977), pp. 105-38.

Sulla struttura della famiglia, cir. D. Herlihy, Family Solidarity in Mediaeval Italian History, inR.S. Lopez e V. Slessarev (curatori), Economy, Society and Government in Mediaeval Italy (Kent,Ohio, 1969), pp. 173-84; D.O. Hughes, Urban Growth and Family Structure in Mediaeval Genoa,«Past and Present», I.XVI (1975), pp. 3-28. Sulle donne, D. Herlihy, Land, Family and Women inContinental Europe 701-1200, «Traditio», XVIII (1962), pp. 89-120, rileva differenzeinternazionali.

4. Storia economica

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(a) Generale

Buone sono le introduzioni della Cambridge Economic History: P.J. Jones, « Italy » in I, 2. edizione(1966), pp. 340-431, sul secolo XIII ma con osservazioni preziose sulla storia deU'agricoltura intutto il Medio Evo; CE. Stevens, « Agriculture and rural life in the Later Roman Empire », ibid.,pp. 92-124; R.S. Lopez, « The Trade of Mediaeval Europe—the South », II (1952), pp. 257-354.

Su problemi dell'economia altomedievale in generale, cfr. P. Grierson, Commerce in the Dark Ages:a critique of the evidence, « Transacdons of the Royal Historical Society», v serie, 9 (1959), pp.12340. L'alquanto parziale B. Hindess e P.Q. Hirst, Precapitalist Modes of Production (Londra,1975) contiene importanti analisi.

(b) Studi Urbani

Su antiche città: AH.M. Jones (A3-a), completato dai propri articoli in The Roman Economy(Oxford, 1973), pp. 1-60. Su città altomedievali: D.A. Bullaugh, Social and Economic Structureand Topography in the Early Medieval City, Sett., XXI (1973), pp. 351-99; P-A. Février, Towns inthe Western Mediterranean, in M.W. Barley (curatore), European Towns (Londra, 1977), pp. 315-42. Si tratta di opere di carattere generale, che mettono in primo piano il materiale italiano. Analisispecifiche di aspetti della topografia urbana italiana sono M. Cagiano de Azavedo, Northern Italy,in Barley, pp. 475-84, e il fondamentale articolo di DA. Bullough, Urban change in EarlyMediaeval Italy; the example of Pavia, «Papers of the British Schocl at Rome», XXXIv (1966), pp.82-131. Per l'archeologia della città abbandonata di Luni, cfr. B. Ward-Perkins, Luni: the declineand abandonment of a Roman town in Blake (cfr. sotto, A5-r), pp. 313-21.

Sul commercio, oltre R.S. Lopez e I.W. Raymond, Mediaeval trade in the Mediterranean world(Londra, 1955) e Lopez (A5:a), c'è R.S. Lopez, An aristoaacy of money in the Early Middle Ages, «Speculum », XXVIII (1953), pp. 1-43 sugli zecchieri, e due articoli di A.O. Citarella su Amalfi, Therelations of Amalfi with the Arah world hefore the crusades, «Speculum», XLII (1967), pp. 299-312, e Patterns in Medieval Trade - The Commerce of Amalh before the Crusades, «Journal ofEconomic History», XXVIII (1968), pp. 531-55. Utile anche A.R. Lewis, Naval power and trade inthe Mediterranean, SOO-1100 (Princeton, 1951). Essenziale è A. Guillou, Production and profts inthe Byzantine province of Italy, « Dumbarton Oaks Papers », XXVIIl (1974), pp. 89-109.

(c) Studi Rurali

P.J. Jones, An Italian estate, 900-1200, «Economic History Review», VII (1954), pp. 18-32 trattadegli sviluppi nel territorio di Lucca. Idee interessanti si possono anche trovare in alcuni articoligenerali di D. Herlihy, Agrarian revolution in Southern France and Italy, 801-1150, « Speculum »,XXXIII (1958), pp. 2341; History of the rural seigneury in Italy, 751-1200, « Agricultural History», XXXIII (1959), pp. 58-71; Treasure hoards in the Italian economy, «Economic HistoryReview», x (1957), pp. 1-14.

L'archeologia medievale sta compiendo passi enormi in Italia oggi, e un contributo sostanzialeviene offerto dagli scavi e dalle ricognizioni sul campo da parte di archeologi britannici. Ingenerale, HM. Blake, T.W. Potter e DA. Whitohouse (curatori), Papers in Italian Archaeology, I(Londra, 1978), presenta recenti indagini, specialmente l'articolo importante di Blake, Mediaevalpottery: technical innovation or economic change?, pp. 435-73. Per ricerche sul campo, cfr. T.W.Potter, The changing landscape of South Etruria (Londra, 1979), C.J. Wickham, Historical andtopographical notes on Early Mediaeval South Etruria, «Papers of the British School at Rome»,

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XLVI (1978) pp. 132-79 e XLVII (1979) pp. 66-95, e G.W. Barker (curatore), A MediterraneanValley (Cambridge, 1983).

5. Chiesa e cultura

(a) Storia della Religione

La guida migliore in questo campo è Boyd (A4), pur se tratta solo una parte dell'argomento.

(b) Papato e Roma

Per Roma abbiamo in effetti sin troppe opere in lingua inglese da elencare Per esposizioni dicarattere generale, cEr. J. Richards, The popes and the papacy in the early middle ages, 476-752(Londra, 1979). La storia territoriale del papato è trattata in modo soddisfacente da P. Partuer, Thelands of St. Peter (l~ondra, 1972). Tutti questi libri contengono bibliografie. Per argomenti piùspecifici, cfr. P A. Llewellyn, The Roman Church in the 7th century, « Journal of EcclesiasticalHistory », xxv (1974), pp. 363-80; idem, Constans II and the Roman Church, «Byzantion», XLVI(1976), pp. 120-60; D.H.. Miller, The Roman Revolution of the 8th century, «Mediaeval Studies»,XXXVI (1974), pp. 79-133; J.T. Hallenbeck, The Lombard party in 8th century Rome, SM, XV(1974), pp. 951-66; B. Hamilton, Monastic revival in the 10th century Rome, « Studia Monastica »,IV (1962), pp. 35-68.

Come biografia, F. Homes Dudden, Gregory the Great, 2 voll. (Londra, 1905), non è stata ancoracompletamente superata.

(c) Cultura

Per il periodo ostrogoto, abbiamo A. Momigliano, Cassiodorus and the Italian culture of his time, «Proceedings of the British Academy », XLI (1955), pp. 207-45; se ne veda l'ampia bibliografia peraltre opere su questo periodo. Per la cultura precarolingia, cir. M.L.W. Laistner, Thonght andLetters in Western Europe 500-900 (Londra, 1957). Per un aspetto dell'ideologia urbana nel secoloVIII e di periodi successivi, cfr. J.K. Hyde, Medieval descrittions of cities, « Bulletin of the JohnRylands Library», XLVIII (1966), pp. 308-40. Per la cultura nel Meridione, cfr. Westerbergh (A3-e).

B. Bibliograia scelta di opere in altre lingue

1. Opere d'orientamento e di carattere generale

Gli Ítaliani sono più consapevoli dei propri presupposti ideologici di quanto non lo siano iBritannici. Di conseguenza, molti articoli e libri di questa bibliografia includono analisi di tradizionistoriografiche e di criteri metodologici. La recente opera storica collettiva, Einaudi Storia d’Italia(Torino, 1974), costituisce il contributo recente più evidente, e comprende anche le miglioriintroduzioni alla storia sociopolitica e sociocconomica altomedievale, G. Tabacco, «La storiapolitica e sociale », II, pp. 5-167, e P.J. Jones, « La storia economica », Ll, pp. 14691681. Altreesposizioni di carattere generale sono più interessate ad aspetti politici, soprattutto quella diVallardi; i volumi rilevanti sono G. Romano e A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia(Milano, 1940-5), oggi piuttosto superato, e C.G. Mor, L'età feudale (Milano, 1952). Una nuovaserie, pubblicata da UTET, con minori ambizioni ma pure comprendente indagini recenti, è anche incorso, e ne è apparso il volume Il, V. Fumagalli, Il regno italico (Torino, 1978), sui secoli IX e X.

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L'unica storia di carattere generale scritta da un solo autore e riguardante l'intero nostro periodo èLM. Hartrnann, Geschichte Italiens im Mittelalter, 4 voll. (Gotha, 1900-23), che resta un classico.Una panoramica introduttiva è quella di G.L. Barni e L. Fasoli, L'Italia nell'alto medioevo (Torino,1971). E. Sestan, Stato e nazione nell'alto medioevo (Napoli, 1952), contiene interessantiosservazioni sugli sviluppi italiani sino all'800 circa. Per le tendenze e le scuole moderne su questoperiodo, l'approccio più semplice consiste probabilmente nel seguire i riferimenti a importanti autoriquali Bognetti, Violante, Tabacco, Fumagalli, nella bibliografia che segue.

Sotto l'egida del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, si organizzano congressi annuali aSpoleto sull'alto medioevo europeo, i cui atti vengono pubblicati come Settimane di Studio. Sonoquesti i luoghi migliori ove cercare contributi recenti. Il Centro organizza anche altri congressimeno regolari sull'Italia, i Congressi Internazionali di Studio sull'Alto Medioevo; sono spesso diminor qualità, con l'eccezione del quinto congresso, dedicato alla Toscana altomedievale (Spoleto,1973).

Bibliografie: sulla storia economica, l'articolo di Jones, già citato, offre la bibliogrfia più completaimmaginabile; la serie dell'UTET offrirà bibliografie aggiornate di carattere generale.

2. Fonti

I Monumenta Germaniae Historica (MGH) offrono normalmente le migliori edizioni di fontitardoromane (Auctores Antiquissimi), di esposizioni storiche narrative (Scrittores), di editti diimperatori germanici e carolingi (Diplomata); lettere, poesie, ecc. Le Fonti per la storia d'Italia(Roma, 1887-), costituiscono l'equivalente italiano per quei testi che non trattano specificamente deiperiodi di dominazione transalpina, soprattutto gli editti dei re longobardi indigeni e di quellipostcarolingi, e altre collezioni nazionali di contratti e di casi giudiziari (U. Manaresi (curatore),Placiti [Roma, 1955-]). Per raccolte locali di documenti, cfr. I'elenco in Fumagalli (B,), pp. 306-7,in particolare la serie Regesta Chartarum Italiae (Roma, 1914-), G. Porro-Lambertenghi, CodexDiplomaticus Langobardiae (Torino, 1873), e D. Barsocchini, Memorie e documenti per servireall'istoria di Lucca, v (Lucca, 183741). Per i polittici l'edizione di base è ora Inventarialtomedievali di terre coloni e redditi, a cura di A. Castagnetti et al. (Roma 1979). A partire dalsecolo XI, la raccolta fondamentale di fonti si trova nella seconda vasta edizione di Muratori,Rerum Italicarum Scrittores (Bologna, 1900-).

3. Storia politica

Per un'introduzione generale, cfr. Tabacco e Hartmann (B1).

(a) Tarda Romanità e Ostrogoti

E. Stein, Histoire du Bas-Empire, 2 voll. (Bruges, 1949-59) resta l'esposizione migliore e piùdettagliata fino al 565. In particolare, il periodo antecedente al 476 manca di analisi più recenti, se sieccettua M.A. Wes, Das Ende des Kaisertums im Westen des romischen Reiches (L'Aia, 1967). Cfr.anche K.F. Stroheker, Der politische Zerfall der romischen Westens in Idem, Germanentum undSpatantike (Stoccarda, 1965), pp. 88-100. Per quanto concerne l'aristocrazia, sono basilari le operedi J. Sundwall, Westromische Studien (Berlino, 1915) e Abbandlungen zur Geschichte desausgehenden Romertums (Helsinki, 1919), con A. Chastagnol, Le Sénat romain scus le règned'Odoacre (Bonn, 1966). Sul 476, la guida più intelligente è A. Momigliano, La caduta senzarumore di un impero nel 476 d.C., RSI, LXXXV (1973), pp. 5-21.

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Per gli Ostrogoti, W. Ensslin, Theoderich der Grosse (Monaco, 1947) resta importante; chi conosceil russo potrebbe provare Z.V. Udal'tsova, Italiya i Vizantiya V. VI veke (Mosca, 1959), che,nonostante il titolo, riguarda quasi completamente il periodo ostrogoto. Sull'archeologia degliinsediamenti ostrogoti, cEr. V. Bierbrauer, Die ostgotischen Grab- und Schatzfunde in Italien(Spoleto, 1975). Sull'economia del periodo ostrogoto (e dei secoli IV e v), cfr. Ruggini (B~c).

(b) Italia Longobarda e Bizantina

Su tutta la storia politica post-romana: per le entrate dei monarchi, C.R. Brnhl,

Fodrum, Gùtum, Servitium Regis (Colonia, 1968); P. Darmstadter, Das Reichsgut in der Lombardeiund Piemont 568-1250 (Strasburgo, 1896); F. Schneider, Die Reichsvermaltung in Toscana (568-1268), I (Roma, 1914). Per le biografie politiche, il Dizionario Biograico degli Italiani (Roma,1960-) ha raggiunto solo il volume della lettera C, ma un numero sorprendentemente alto dipersonaggi politici altomedievali ha nomi che iniziano con le lettere A o B.

Sui Longobardi, lo storico classico è G.P. Bognetti, le cui opere sui Longobardi sono raccolte nellamaggior parte in L'Età Longobarda (4 voll., Milano, 1966~8). La raccolta comprende una vastagamma di articoli, specifici o generici; arguti o azardati; idee di prima, seconda e terza mano su variargomend; nel vol. Il, « S. Maria di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi », costituisceil testo principale; cfr. poi, come esposizioni introduttive, nel vol. I, « Longobardi e Romani » e « Ilgastaldato longobardo »; nel vol. IlI, « I ministri romani dei re longobardi», « Processo logico eintegrazioni delle fonti nella storiografia di Paolo Diacono », « I loca sanctorum », e « Tradizionelongobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto »; nel vol. IV, « La proprietàdella terra », « L'editto di Rotari come espediente politico », e « La continuità delle sedi episcopali».

Per i Longobardi precedentemente al 568: J. Werner, Die Langobarden in Pannonien (Monaco,1962). L'archeologia longobarda è discussa, regione per regione, in una serie di elenchi in SM, daXIV (1973) in poi. Per l'artigiano metallurgico in Italia dei Longobardi, cfr. S. Fuchs, DieLangobardùchen Goldblatthreaze (Berlino, 1938); S. Fuchs e J. Werner, Die langobardischenFibeln aus Italien (Berlino, 1950); per la cerarnica, O. von Hessen, Die langobardische Keramikaus Italien (Wiesbaden, 1968). Su alcuni dei principali siti archeologici: R. Mengarelli, Lanecropoli barbarica di Castel Trosino, « Monumenti Antichi », XII (1902), 145-380, e P. Pasqui eR. Paribeni, La necropoli barbarica di Nocera Umbra, « Monumenti Antichi», xxv, (1918),13~352; C. Fingerlin, J. Garbsch, J. Werner, Gli scavi nel castello longobardo di Ibligo-Invillino,«Aquileia Nostra», XXXIX (1968), 57-135. Per la toponomastica, E. Gamillscheg, RomaniaGermanica, II (Berlino, 1936) costituisce un punto d'inizio.

Un'esposizione storica narrativa si trova in Bognetti, « S. Maria», citato sopra; L. Schrnidt,Geschichte der deutschen Stamme: die Ostgermanen (2° edizione, Monaco, 1934), fino al 590; G.Fasoli, I Longobardi in Italia (Bologna, 196S). Per i Longobardi e il Papato, cfr. B.; comunquemolti preziosi articoli su tale aspetto e sulla storia religiosa longobarda in generale sono raccolti inO. Bertolini, Scritti scelti, 2 voll. (Livorno, 1968). I rapporti franco-longobardi sono discussi in G.Tangl, Die Passvorschrilt des Konigs Ratchis, QP, XXXVIII (1958), pp. 1-66; K. Schmid, ZurAblosung der Langobardenherrschalt durch die Franben, QP, LII (1972), pp. 1-35. Del ducato diBenevento fino al 744 si discute in F. Hirsch, Il ducato di Benevento sino alla caduta del regnolongobardo (tr. di un testo tedesco, Roma, 1890).

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Paolo Diacono è oggetto di una vasta storiografia, per lo più di cattiva qualità; le guide migliorisono Bognetti, Processo logico, citato sopra, ed E. Sestan, La storiografia dell'Italia longobarda:Paolo Diacono, Sett., XVII (1969), pp. 357-86.

Sullo stato longobardo, I'introduzione migliore è di C.R. Brahl, Zentral- und FinanzverwaNung imFranben und im Langobardenreich, Sett., xx (1972), pp. 6194. Cfr. anche Bognetti, passim; P.S.Leicht, Gli elementi romani nella costituzione longobarda, « A.S. Italiano », LXXXI (1923), pp. 5-24; C.G. Mor, I gastaldi con potere ducale nell'ordinamento pubblico longobardo, I Cong. Internaz.di Studi Longobardi (Spoleto, 1952), pp. 409-16; R. Schneider, Konigswahl und Konigserbebungim Frùhmittelalter (Stoccarda, 1972). Per l'amministrazione locale, cfr. sezione (c), qui sotto. Per laprosopografia, cfr. J. Jarnut, Prosopografische und sozialgeschichtliche Studien zumLangobardenreich in Italien (Bonn, 1972).

Per l'Italia bizantina: A. GuiDou, Régionalisme et indépendence dans l'empire byzantin au 7 siècle(Roma, 1969) per Ravenna, e A. Simonini, Autocefalia ed esarcato in Italia (Ravenna, 1969). PerAgnello, G. Fasoli, Rileggendo il Liber Pontificalis di Agnello Ravennate, Sett., XVII (1969), pp.457-95. Per tutta la documentazione ravennate e per altri materiali, J-O. Tjader, D i enichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens, I (Lund, 1955).

Per l'Umbria, S. Mochi Onory, Ricerche sui poteri civili dei vescovi nelle città umbre (Roma,1930); per Venezia, R. Cessi, Venezia Ducale (Venezia, 1940); per Roma, cEr. Bó-b.

(c) Italia Carolingia (Cfr. anche (f))

Introduzioni basilari sono E. Hlavvitschka, Franken, Alemannen, Bagern und Burgander inOberitalien 774-962 (Friburgo, 1960); J. Fischer, Konigium, Adel und Kirche im Kànigreich Italien774-875 (Bonn, 1965); P. Delogu, Strutture politiche e ideologia nel regno di Ludovico II, BISI,LXXX (1968), pp. 137-89.

Per il governo centrale, cfr.: D A. Bullough, Leo qui apud Hlottarium magni loci habebatur et legonvernement du Regnum Italiae à l'époque carolingienne, « Le Moyen Age », LXVII (1961), pp.22145; H. Keller, Zur Struktur der Kànigsherrschalt im karolingischen und nachiarolingischenItalien, QP, XLVII (1967), pp. 123-223; idem, Der Gerichtsort in oberitalienischen undtosianischen Stadten, QF, XLIX (1969), pp. 1-71; O. Bertolini, I vescovi del RegnumLangobardorum al tempo dei Carolingi, Vescovi e diocesi in Italia nel medioevo (Padova, 1964),pp. 1-26; F. Manacorda, Ricerche sugli inizi della dominazione dei Carolingi in Italia (Roma,1968), per lo più sui capitolari.

Per il governo locale, V. Fumagalli, Città e distretti minori nell'Italia Carolingia. Un esempio, RSI,IXXXI (1969), pp. 107-17; idem, L'amministrazione periferica dello stato nell'Emilia occidentalein età Carolingia, RSI, LXXXIII (1971), pp. 911-20; A. Castagnetti, Distretti fiscali autonomi osottoscrizioni della contea cittadina? La Gardesana veronese in epoca Carolingia, RSI, LXXXII(1970), pp. 73643; P. Delogu, L'istituzione comitale nell'Italia Carolingia, BISI, LXXIX (1968),pp. 53-114. Per i margravi, A. Hofmeister, Markgrafen und Marigralschaiten im italischenKonigreich , in « Mitteilungen des Instituts fùr osterreichische GeschichtforscLung,Erganzungsband», VII (1906), pp. 215435. Per la Toscana, cfr. sezione (f); per Spoleto, E. Taurino,L'organizzazione territoriale della contea di Fermo nei secoli 8-10, SM, XI (1970), pp. 659-710; E.Saracco Previdi, Lo sculdahis nel territorio longobardo di Rieti, SM, XIV (1973), pp. 627-76.

Per lo stato carolingio ed i suoi abitanti, cfr. Tabacco (B`).

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(d) Italia Post-Carolingia e Impero Germanico

Cfr. Mor (B,); Hlawitschka, Hofrneister, Keller (B3-c). Il testo più importante è S. Pivano, Stato echiesa da Berengario I ad Ardaino 888-1015 (Torino, 1908); anche G. Fasoli, I re d'ltalia 888-962(Firenze, 1949). Per la storia politica sino al 905, P. Delogu, Vescovi, conti, e sovrani nella crisi delregno italico, « Annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell'Università di Roma »,VIII (1968), pp. 3-72. Per il secolo XI, C Violante, L'età della riforma della chiesa in Italia, UTET,Storia d'Italia, I (Torino, 1959); e, per il movimento delle città all'indipendenza, F. Fasoli, Dalla«civitas» al comune nell'Italia settentrionale (Bologna, 1969), e W.W. Goetz, Le origini dei comuniitaliani (tr. di un testo tedesco, Milano, 1965), che sono le guide migliori ai problemi moltocomplessi.

Pivano ha individuato la tradizione della presa di possesso di città da parte di vescovi nel secolo X,e di questa si son fatte di recente varie buone analisi, soprattutto E. Dupré Theseider, Vescovi e cittànell'Italia precomunale, Vescovi e diocesi in Italia (Padova, 1964), pp. 55-109; V. Fumagalli,Vescovi e conti nell'Emilia occidentale da Berengario I a Ottone I, SM, XIV (1973), pp. 137-204;G. Rossetti, Formazione e caratteri delle signorie di castello e dei poteri territoriali dei vescovisulle città nella Langobardia del s. 10, «Aevum», XLVIII (1974), pp. 1-67; C. Manaresi, Alleorigini del potere dei vescovi sul territorio esterno delle città, BISI, LVIII ( 1944), pp. 221-328,consiglia cautela.

A. Solmi, L'amministrazione finanziaria del regno italico nell’alto medioevo (Pavia, 1932) e C.R.Brilhl, Das Palatium von Pavia und die Honorantiae Civitatis Papiae, 4° Cong. Int. di Studisull'Alto Medioevo (Spoleto, 1969), pp. 189-220, discutono del declino di Pavia come capitale; G.Tabacco, La dissoluzione medievale dello stato nella recente storiografia, SM, I (1960), pp. 397-446pone la frantumazione dell'Italia all'interno di un contesto internazionale.

La maggior parte delle analisi relative a questo periodo consiste di opere sulla storia locale, elencatenella sezione (f).

(e) Italia Meridionale

Per Bisanzio, I'opera panoramica più importante rimane ancora J. Gay, L'Italie méridionale etl'empire byzantin (Parigi, 1904). Per alcune analisi della società e delle istituzioni, cfr. V. vonFalkenhausen, Untersuchangen ùber die byzantinische Herrschalt in Suditalien (Wiesbaden, 1967);A. Guillou, Studies on Byzantine Italy (Londra, 1970), raccolta di articoli, per lo più in francese;idem, Italie méridionale byzantine ou Byzantins en Italie méridionale?, « Byzantion », XIIV(1974), pp. 152-90. C'è una traduzione italiana, di carattere devozionale, della vita greca di S. Nilo:G. Giovanelli, Vita di S. Nilo (Grottalerrata, 1966).

I territori bizantini indipendenti del sud hanno tutti trattazioni storiche, di vario pregio. Le migliorisono dovute a G. Cassandro e N. Cilento, nei loro contributi alla Storia di Napoli, II (Napoli, 1969),che costituisce il punto di partenza per la storia napoletana. Cfr. anche, per Gaeta, A. Leccese, Leorigini del ducato di Gaeta (Gubbio, 1941), e, per Amalti, M. Berza, Amalfi preducale, «Ephemeris Dacoromana», VIII (1938), pp. 349-444. Sulla Sardegna: E. Besta, La SardegnaMedioevale (2. edizione, Palermo, 1908-9). L'unica opera dedicata agli Arabi a Bari è G. Musca,L'emirato di Bari (Bari, 1964). La Sicilia prearaba viene discussa da M.I. Finley, Storia della Siciliaantica (Bari, 1979). L'opera fondamentale sulla Sicilia araba, comunque, è ormai un vero e proprioclassico: M. Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, 3 voll. 2° edizione (Catania, 1933-9).

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Sull'Italia meridionale longobarda, N. Cilento, Italia meridionale longobarda (2' edizione, Milano,1971) costituisce l'approccio iniziale migliore, e il suo Le origini della signoria capuana (Roma,1966), sulla Capua del IX secolo, costituisce pure il miglior studio recente riguardante una localitàdel sud. Benevento è oggetto di una pregevole analisi di R. Poupardin, Les institutions politiques etadminùtratives des principautés lombardes (Parigi, 1907), e praticamente da nessun altro da allora,comunque cfr. H. Belting, Studien zum beneventanischen Hof im 8. Jht, « Dumbarton Oaks Paperis», xvr (1962), pp. 141-93. Salerno è studiata in modo più esauriente; per una panoramica, cfr. M.Schipa, Storia del principato longobardo di Salerno (Napoli, 1887); per una storia socioreligiosa,R. Ruggiero, Principi, nobiltà e la chiesa nel Mezzogiorno longobardo (Napoli, 1973), che esaminaun solo monastero salernitano; per la città vera e propria, cEr. P. Delogu, Mito di una cittàmeridionale (Napo]i, 1977), testo davvero stimolante.

Per i rapporti tra nord e sud, cfr. O. Bertolini, I papi e le relazioni politiche con i ducati longobardidi Spoleto e di Benevento, « Rivista di storia della chiesa in Italia », VI (1952), pp. 1-46, VIII(1954), pp. 1-22, IX (1955), pp. 1-57 per. il periodo longobardo; idem, Carlomagno e Benevento, inH. Beumann (curatore), Karl der Grosse, I (Msseldorf, 1965), pp. 609-71; parecchi articoli in 3°Cong. Int. di Studi sull'Alto Medioevo (Spoleto, 1959); R. Ruggiero, Il ducato di Spoleto e i tentatividi penetrazione dei franchi nell'Italia meridionale, « A.S. per le province Napoletane, LXXXIV-EXXXV (1966-7), pp. 71-116. Il X secolo ha ricevuto attenzione assai minore; cfr. il 3° Congresso,succitato, e Mor (B'). Questo accade anche per la storia interna degli stad longobardi: per esempio,non c'è nessuna trattazione adeguata relativa a Pandulfo I; per l'inizio di un'analisi dellosmembramento di Capua-Benevento, cfr. F. Scandone, Il gastaldato d'Aquino dalla metà del s. 9alla fine del s. 10, « A.S. per le province Napoletane », XXXIII (1908), pp. 720-35, XXXIV (1909),pp. 49-77; A. de Francesco, Origini e sviluppo del feudalesimo nel Molise, ibid., XXXIV, pp. 432-60, 640-71; xxxv (1910), pp. 70-98, 273-307.

(f) Studi Locali

In questa categoria rientra la maggior parte della migliore storiografia italiana recente, riguardantein particolare il periodo posteriore al 900 ma anche, in maniera crescente, per il secolo IX. Questeopere riguardano in genere due o tre secoli, e molti aspetti della storia sociale, economica e politica,come pure della storia religiosa.

Parecchie opere storiche collettive su singole città contengono importanti studi del periodo da noitrattato: storia di Milano, II (Milano, 1954) e Storia di Brescia, I (Brescia, 1963) includono alcunedelle cose migliori di Bognetti; Verona ed il suo territorio, I-II (Verona, 1964) e Storia di Genova,II (Genova, 1941) presentano utili materiali.

Per il Piemonte, si è lavorato molto, recentemente, riprendendo la tradizione troppo trascurata deimaestri degli inizi del secolo, come Gabotto; a ciò ha contribuito sostanzialmente il periodico localetorinese, Bollettino storico-bibliografico subalpino (BSBS), dove sono apparsi per esempio variimportanti articoli su Asti, in BSBS, [XXIII (1975), una serie di preziosi articoli sugli insediamentiin Piemonte, di A.A. Settia, apparsi sin dall'inizio degli anni Settanta, R. Comba, La dinamicadell'insediamento umano nel Cuneese (sec. 10-13), BSBS, LXXII (1973), pp. 511-602.

Per l'insediamento alemanno ad Asti: R. Bordone, Un'attiva minoranza etnica nell'alto medioevo,QF, LIV (1974), pp. 1-57. Per la storia politica, cfr. G. Sergi, Una grande circoscrizione del regnoitalico: la marca aduinica di Torino, SM, XII (1971), pp. 637-712.

Per la Lombardia, la documentazione è maggiore e gli studi tendono ad essere più corposi. C.Violante, La società milanese nell'età precomunale (Bari, 1953) costituisce uno dei classici del

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settore; per uno studio locale paradigmatico, su Cologno Monzese, cfr. G. Rossetti, Società eistituzioni nel contado lombardo, I (Milano, 1968). Per Mantova: P. Torelli, Un comune cittadino interritorio ad economia agraria (2 voll. Mantova, 1930-52).

L'Emilia è al centro di molte opere di V. Fumagalli, in particolare Le origini di una grande dinastiafeudale. Adalberto-Atto di Canossa (Tubinga, 1971) e Terra e società nell'Italia padana (2^edizione, Torino, 1976) che inquadra la storiografia recente.

Per la Toscana, la miglior panoramica recente si trova nella raccolta di articoli in 5° Cong. Int. diStudi sull'Alto Medioevo (Spoleto, 1973), in particolare quelli di Keller, Schwarzmaier, Tabacco,Rossetti, Kurre, Belli Barsali. Sulla marca, poi, cfr. gli articoli in Dizionario Biografico degliItaliani, sotto le voci Adalberto, Bonifacio; e i libri di A. Falce, La formazione della marca diTuscia (Firenze, 1930), Il marchese Ugo di Toscana (Firenze, 1923) e Bonifacio di Canossa, I(Reggio, 1927). Su aree più ristrette, cfr. G. Volpe, Toscana medievale (Firenze, 1964) per Luni eVolterra; H.M. Schwarzmaier, Lucca und das Reich bis zum Ende des 11 ten Jhts (Tubingen, 1972),con la recensione (in italiano) di H. Jakobs in QF, LIV (1974), pp. 471-82; E. Conti, La formazionedella struttura agraria moderna nel contado fiorentino, I (Roma, 1965); P. Cammarosano, Lafamiglia dei Berardenghi (Spoleto, 1974); tutti questi studi sono di buona qualità.

Su Spoleto e i dintorni di Roma, cfr. P. Toubert, Feudalesimo mediterraneo. Le strutture del Laziomedievale (Milano 1980), uno dei libri più importanti e notevoli riguardanti la storia italiana apparsiin questi ultimi anni; cfr. le recensioni di H. Hoffmann in QF, LVII (1977), pp. 145 e di V.Fumagalli in RSI, LXXXVIII (1976), pp. 90-103.

Sul sud, si veda sopra (B3-e); su Roma, si veda sotto (B6-b).

4. Storia Sociale

Cfr., ancora una volta, Tabacco (B,). Ho indicato nella sezione precedente (B3-f) le analisi diregioni e località italiane; qui di seguito si troveranno trattazioni più generali. La storia socialeitaliana è stata tradizionalmente dominata da storici delle istituzioni legali, e per molto temporimase la storia delle istituzioni sociali, più che della struttura sociale. Le svolte decisive si ebberocon il libro di Violante su Milano (B3f) e con G. Tabacco, I liberi del re nell'Italia carolingia epost-carolingia (Spoleto, 1966) sulle prestazioni di servizio da parte dei liberi carolingi, che detterouna direzione nuova all'argomento. Le opere successive al 1953 nella sezione precedente e al 1966in questa sezione tendono a contenere riferimenti e terminologie più sofisticati da un punto di vistasociologico, pur se alcuni dei testi dedicati maggiormente alle istituzioni legali, soprattutto quelli di

P.S. Leicht e G. Salvioli, rimangono di grandissimo valore.

Come introduzioni, si possono indicare due opere che per molto tempo hanno costituito gli studifondamentali, P.S. Leicht, Studi sulla proprietà fondiaria nel medioevo, 2 voll. (Padova, 1903-7) eF. Schneider, Die Entstetung von Burg und Landgemeinde in Italien (Berlino, 1924).

Per il periodo longobardo, I'organizzazione militare è stata al centro degli studi storici. Opererecenti includono O. Bertolini, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia,Sett., xv (1967), pp. 429-629; P.M. Conti, Devotio e viri devoti in Italia da Diocleziano ai Carolingi(Padova, 1971); e, molto innovativo, G. Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitalidell'età longobarda, sm, x, 1 (1969), pp. 221-68; idem., La connessione tra potere e possesso nelregno franco e nel regno longobardo, Sett., xx (1972), pp. 133-68 e 207-28. Cfr. anche A.I.Nieussychin, Die Entstetung der abbangigen Banernschait (tr. dal russo, Berlino, 1961).

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Per i Carolingi, cfr. Tabacco, Liberi del re, cit. sopra, e idem, Il regno italico, 9-lls., Sett., xv(1967), pp. 763-90. Sul feudalesimo italiano, P.S. Leicht, Il feudo in Italia nell'età carolingia, Sett.,I (1953), pp. 71-107; per il declino dei liberi nel periodo carolingio, cfr. anche V. Fumagalli, Lemodificazioni politico-istituzionali in Italia sotto la dominazione carolingia, Sett., XXVII (1979)pp. 293-338.

Gli aspetti sociogiuridici dell'incastellamento godono di una vasta storiografia, a partire da P.Vaccari, La territorialità come base dell'ordinamento giuridico del contado nell'Italia medievale(1921; 2' edizione Milano, 1963). Cfr., in particolare, F. Cusin, Per la storia del castello medievale,RSI, I (1938), pp. 492-541; G. Fasoli, Castelli e signorie rurali, Sett., XIII (1965), pp. 531-67; G.P.Bognetti, Terrore e sicurezza sotto re nostrani e sotto re stranieri, in Storia di Milano, II (B3-fl, pp.80841. Cfr. anche (B3-f) per i castelli come elemento della storia locale, e (Bs-c) per i mutamentidell'insediamento.

Per la storia sociale della città, cfr. Fasoli e Goetz (B3-d) e due altri articoli di Fasoli, Che cosasappiamo delle città italiane nell'alto medioevo?, « Vierteljahrsschrift fur Sozial- undWirtschaftsgeschichte», XLVII (1960), pp. 289-305; (con R. Manselli e G. Tabacco) La strutturasociale delle città italiane dal 5 al 12 secolo « Vortrage und Forschungen », XI (1966), pp. 291-320. Come istituzioni legali, G. Mengozzi, La città italiana nell'alto medio evo, 2° edizione(Firenze, 1931).

Per la struttura familiare dell'aristocrazia, Famille et Parenté, a cura di G. Duby e J. Le Goff(Roma, 1977), costituisce oggi un punto di partenza, in particolare per l'articolo di Violante. Per ilconsortium in questo periodo, G. Salvioli, « Consortes e colliberti», Atti e memorie di storia patriaper le provincie modenesi e parmensi, III ser., 2 (1884), pp. 183-223. Per i monasteri familiari, cfr.Cammarosano (B3-f) e Kurze in 5° Congresso (B3-f) e gli altri articoli di Kurze sui monasteritoscani, particolarmente Der Adel und das Kloster S. Salvatore all'Isola, QF, XLVII (1967), pp.446-573.

Sul diritto, si vedano le panoramiche introduttive di P.S. Leicht, Il diritto italiano preirneriano(Bologna, 1933), e l'opera in molti volumi Storia del diritto italiano (ultime edizioni, Milano, 1941-50). F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all'ltalia, 4 voll., 28edizione (Roma, 1914), è ancora utile, pur se molto prolisso. Dopo un certo intervallo, I'analisidettagliata del testo legale del codice longobardo è ripresa: ad esempio, P.L. Falaschi, L asuccessione volontaria nella legislazione longobarda, « Annali della facoltà giuridica: Universitàdegli studi di Camerino», XXXIV (1968), pp. 197-300. Più fedele è l'analisi del rapporto fra dirittoe società: per un inizio in tal senso, cfr. F. Sinatti d'Amico, L'applicazione dell'edictum regnarnlangobardorum in Tuscia, in 5° Congresso (B3-f), pp. 745-81. Per una massa di idee su svariatiproblemi, P.S. Leicht, Scritti vari, 3 voll. (Milano, 1942-9).

5. Storia Economica

(a) Generale

Il punto di partenza è costituito da P.J. Jones (B,), con altri articoli nella stessa serie, in EinaudiStoria d'Italia, v e Annali, I (Torino, 1973, 1979). Molto materiale recente è apparso nelleSettimane di Studio, in particolare VI (la città), VIII (il denaro), XIII (I'agricoltura) e XXII (latopografia urbana). La miglior panoramica succinta si trova in G. Luzzatto, Storia economica

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d'Italia. Il Medio Evo (Firenze, 19672). Sui problemi dell'economia altomedievale in generale G.Duby, Le Origini dell'economia europea. Guerrieri e contadini nel medio evo (Bari, 1978).

Ci sono alcune panoramiche generali di storia economica sui singoli periodi che mettono inconnessione fra loro materiali urbani e rurali. Una delle migliori è P.S. Leicht, Operai, artigiani eagricoltori in Italia, 6-16ss. (Milano, 1946). F. Carli, ll mercato nell'alto medioevo (Padova, 1934)costituisce un classico nel suo genere e la migliore introduzione allo studio dei vari tipi di scambionel nostro periodo. Per il periodo romano-ostrogoto, ci sono Hannestad e Ruggini, che vanno piùgiustamente elencati in (B5-c), poiché danng particolare rilievo all'agricoltura; per il periodolongobardo, c'è Fasoli (B,-c) e E. Bernareggi, Il sistema economico e la monetazione deiLongobardi nell'Italia superiore (Milano, 1960). F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneonell'età di Filippo II (2 voll., Torino) è un testo cruciale per il Mediterraneo di qualsiasi epoca.

(b) Studi Urbani

Per singole città cfr. (B3-f). Per un'introduzione essenziale alla topografia, con riferimenti amateriali più specifici, cfr. P-A. Février, Permanence et kéritages de l'antiquité dans la topographiedes villes de l'occident durant le haute meyen age, Sett., XXI, pp. 41-138. Un modello di topografiaurbana si trova in I. Belli Barsali, La topografia di Lucca nei ss. 8-11, 5° Congresso (B3-fl, pp. 461-554. Per la storia economica delle città di una particolare regione, la Campania, cfr. I'importantearticolo di G. Galasso, Le città campane nell'alto medioevo, « A.S. per le pro. vincie Napoletane»,LXXVII (1959), pp. 9-42, LXXVII (1960), pp. 9-53; per altro materiale sulla Campania, cir. (B3-e).Per Venezia, cfr. le sezioni iniziali in G. Luzzatto, Storia economica di Venezia (Venezia, 1961).Tuttavia, è ancora difficile scrivere la storia economica di singole città e regioni, in quanto ladocumentazione relativa al nostro periodo è quasi assente.

Per la storia del commercio in senso stretto, assieme a Carli, si possono scegliere vari articoli diLM. Hartmann, Zur WirtschaltsgeschicAte Italiens im frùfen Mittelalter. Analehten (Gotha, 1904),in particolare per il commercio lungo il Po; e A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini delmediterraneo sino alla fine delle Crociate (tr. dal tedesco, Torino, 1915). Sull'industria, c'è l'articolofondamentale di U. Monneret de Villard, L'organizzazione industriale nell'Italia langobardadurante l'alto medioevo, « A.S. Lombardo », v ser., 46 (1919), pp. 1-83, con un'aggiunta suMagistri Commacini nel numero 47 (1920), pp. 1-14, argomento che ha suscitato una vastacontroversia: cir. Ia sintesi di M. Salmi, Magistri Comacini o Commàcini, Sett., XVIII (1970), pp.409-24. Sul denaro, vi è un'ampia e diffusa bibliograba tecnica, che inizia anche questa daMonneret de Villard; cfr. P. Grierson, Bibliographie numismatique (BruxeRes, 1966), pp. 76-78,104-110; tutta l'opera di Grierson sull'Italia (scritta in varie lingue) è raccolta oggi in Dark AgeNumismatics (Londraj, 1979).

(c) Studi Rurali

E’ interessante osservare come una gran percentuale delle migliori analisi sull'economia del nostroperiodo riguardi l'agricoltura e la vita rurale, mentre la storia agraria del periodo dei comuni epostcomunale italiano è molto più rada.

In generale, si veda la problematica posta in P.J. Jones, L'Italia agraria nelI'alto medioevo, Sett.,XIII (1965), pp. 57.92. G. Salvioli, Città e campagne prima e dopo il mille (Palermo, 1901) èancora sorprendentemente interessante. E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano (Bari,1961), in modo curioso, per l'allora responsabile del Partito Comunista Italiano per l'agricoltura, sibasa per lo più sulle arti e sulla letteratura. In tempi più recenti, una serie di articoli di V. Fumagallimostrano un interesse di carattere generale, pur se basati su prove empiriche provenienti dall'Emilia.

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Sul dissodamento e il riassetto delle terre: Note per una storia agraria alto medioevale, SM, IX(1968), pp. 359-78, Storia agraria e luoghi comuni, ibid., pp. 949-65, Colonizzazione einsediamenti agricoli nell'occidente alto-medioevale: la Valle Padana, « Quaderni Storici », XIV(1970), pp. 319-38, e parecchi altri articoli più dettagliati apparsi sull'importante rivistasull'agricoltura, « Rivista di storia dell'agricoltura » (RSA), soprattutto in VI (1966) e VII (1967);sugli affitti fondiari: Coloni e signori nell'ltalia superiore dal1'8 al 10 secolo, SM, X, 1 (1969), pp.42346, I patti colonici del’Italia centrosettentrionale nell'alto medioevo, SM, XII (1971), pp. 343-53, Precarietà dell'economia contadina e affermazione della grande azienda fondiaria nell'Italiasettentrionale dall'8° all'11° secolo, RSA, XV (1975), pp. 3-27.

Per il periodo tardo romano-ostrogoto: L.C. Ruggini, Economia e società nel l'Italia Annonaria:rapporti fra agricoltura e commercio dal 4° al 60 secolo d.C. (Milano, 1961), libro complesso eaffascinante ma non del tutto convincente; ne appare una buona sintesi in idem, Vicende ruralidell'Italia antica dall'età tetrarchica ai Longobardi, RSI' LXXVI (1964), pp. 261-86. Comealternativa, cfr. K. Hannestad, L'evolution des ressaurces agricotes de l'Italie du 4m. au 6m. sièclede notre ère (Copenhagen, 1962).

Per i Longobardi, cfr. Bernareggi (B~b); G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'Italiadel secolo 7°, Sett., v (1957), pp. 103-59; P. Toubert, L'Italie rurale aux 8'-9' siècles. Essai detypologie domaniale, Sett., xx (1972), pp. 95-132.

Per i Carolingi, cfr. G. Luzzatto, I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche dei secoli 9 e 10 (Pisa,1910), ristampato in Dai servi della gleba agli albori del capitalismo (Bari, 1966), e divenuto unclassico. Sugli affitti fondiari: P.S. Leicht, Livellario nomine (1905), ora in Scritti Vari, II, 2(Milano, 1949), pp. 89-146, pure fondamentale, da porre a fianco degli articoli di Fumagalli, citatisopra, e degli articoli su Lucca, citati sotto. Per Bobbio, alcuni materiali appaiono in Hartmann (Bs-b).

Sul periodo postcarolingio, ci sono meno opere di carattere generale, se si eccettuano gli articoli diFumagalli già citati; ma cfr. G. Luzzatto, Mutamenti nell'economia agraria italiana dalla cadutadei Carolingi al principio del s. 11, Sett., II (1954), pp. 601-22, G. Cherubini, Qualcheconsiderazione sulle campagne dell'Italia centro-settentrionale, RSI, LXXIX (1967), pp. 111-57, eL.A. Kotel'nikova, I contadini italiani nei ss. 10-13, RSA, XV (1975), pp. 29-80. Kotel'nikova hascritto vari articoli in russo, alcuni dei quali con sinossi in italiano, soprattutto in «Sredniye Veka» X(1957), pp. 81-100, XVII (1960), pp. 116~0; cfr. anche A. Lioublinskaia, Les travaux et lesproblèmes des médiévistes soviétiques, SM, IV (1963), in particolare pp. 73344.

Su singole regioni: per il nord, cfr. Comba e Fumagalli in (B~-f); A. Castagnetti, Dominico emassaricio a Limonta nei secoli 9 e 10, RSA, VIII (1968,~, pp. 3-20.

Sull'Italia centrale, cfr. Conti e Toubert in (B3-f); per Lucca, due importanti articoli sugli affittifondiari sono stati scritti da R. Endres, Das Kirchengut im Bistum Lucca von 8. bis Jbt,«Vierteljahrsschrift fur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte », XIV (1917), pp. 240-92; B. Andreolli,Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia dei secoli 8 e 9, SM, XIX (1978), pp. 69-158.

Sull'Italia meridionale, il punto di partenza è A. Lizier, L'economia rurale dell'età prenormannanell'Italia meridionale (Palermo, 1907), un capolavoro di sintesi, senza una parola di troppo; cfr.anche M. Del Treppo, La vita economica e sociale in una grande abbazia del Mezzogiorno: S.Vincenzo al Volturno nell'alto medioevo, « A.S. per le province Napoletane » LXXIV (1955), pp.31-110; Guillau (B3-e); e vari articoli in russo di M.L. Abramson, anche questi accompagnati di

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solito da sinossi in italiano, in «Vizantiyskiy Vremennik», n~ (1953), pp. 161~93, e « SredniyeVeka », XXVIII (1965), pp. 18-37, XXXI (1968), pp. 155-79, XXXII (1969), pp. 77-96.

Sull'alimentazione contadina, cfr. vari articoli recenti in «Studi medievali»: G. Pasquali, Olivi e olionella Lombardia prealpina, XIII (1972), pp. 257-65; A.I. Pini, La viticoltura italiana nel medioevo,xv (1974), pp. 795-884; M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'alto medioevo, XVII (1976),pp. 115-72; idem, Cereali e legami nell'alto medioevo, Italia del nord, secoli 9-10, RSI, LXXXVII(1975), pp. 439-92.

L'effetto dell'incastellamento sugli insediamenti è stato oggetto di importanti lavori negli anni piùrecenti; cfr. I'elenco già vecchio di C. KlapischZuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne,Einaudi Storia d'Italia, v (1973), pp. 311-64. Cfr. anche gli articoli in « Quaderni Storici », XXIV(1973); R. Francovich, Geografia storica delle sedi umane: i castelli del contado arentino nei ss. 12e 13 (Firenze, 1973); Settia, Conti e Toubert (B3-f); T. Mannoni et al., ll castello di Molassana,«Archeologia Medievale», I (1974), pp. 11-53; I. Ferrando Cabona, A. Giardini, T. Mannoni,Zignago I, « Archeologia Medievale », v (1978), pp. 273-374. L'archeologia medievale costituisceuna disciplina in rapida espansione in Italia, e in una forma o nell'altra quasi ogni lavoro confluiscein « Archeologia Medievale ». Per gli scavi di una importante cittadina del sud, cfr. CaputaquisMedievale, I, di P. Delogu et al. (Salerno, 1976), e i volumi in corso, su Capaccio Vecchia.

6. Chiesa e Cultura

(a) Storia della Religione

A questo proposito sono molto utili vari volumi delle Settimane di Studio: IV (1956) sulmonachesimo, VII (1959) sulla Chiesa fino all'800, XIV (1966) sulle conversioni, e XXIII (1975)sul simbolismo.

Gran parte della sezione (B3) riguarda anche la storia religiosa, in quanto 1'episcopato, inparticolare, ha sempre avuto in Italia un importante ruolo politico. Bognetti e Bertolini (B3-b) handato particolare peso alle questioni religiose e alle conversioni e riconversioni degli abitantidell'Italia. Gli studi più importanti degli effetti delle invasioni sulle istituzioni della Chiesa italianasono contenute in L. Duchesne, Les éuéches d'Italie et l'invasion lombarde, « Mélangesd'archéologie et d'histoire », XXIII (1903), pp. 83-116, XXV(1905), pp. 365-99; F. Lanzoni,Diocesi d'Italia al principio del s. 7 (Faenza, 1927). Quanto a un'epoca più tarda, l'episcopato èdiscusso durante il convegno su Vescovi e diocesi in Italia nel medioevo, s. 9-13 (Padova, 1964).Ultimamente, le pievi sono state analizzate in A. Castagnetti, La pieve rurale nell'Italia padana(Roma, 1976) che contiene una vasta guida bibliografica; cir. anche Toubert (B3-f).

(b) Papato e Roma

Per un'esposizione di carattere generale, cfr. P. Llewellyn, Roma nei secoli oscuri, (Bati, 1975).

Panoramiche basilari di carattere storico-politico sono O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e aiLongobardi (Bologna, 1941) e P. Brezzi, Roma e l'impero medioevale (Bologna, 1947), cheappartengono alla stessa collana e si dividono l'argomento nell'anno 774; E. Caspar, Geschichte desPapsstums, 2 voD. (Tubinga, 1930-3), con idem, Das Papsstum unter frankischer Herrschalt(Darmstadt, 1956).

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Per Roma e il Papato all'inizio del v secolo, cfr. il poderoso studio (in francese) di C. Pietti, RomaChristiana, 2 voll. (Roma, 1976). Sulla topografia urbana, in riguardo soprattutto ad epochesuccessive, cfr. F. Castagnoli et al., Topografia e Urbanistica di Roma (Roma, 1958).Sull'amministrazione di Roma, L. Halphen, Etudes sur l'administration de Rome au Moyen-age751-1252 (Parigi, 1907). Per uno studio della campagna romana, la base topografica è stata postamolto tempo fa da G. Tomassetti, La Campagna Romana, antica, medioevale e moderna, 4 voll.(Roma, 1913); cfr. anche, ancora una volta, Toubert (B3-f), che costituisce oggi anche lo studio piùaggiornato della politica territoriale papale dopo il 900. La storiografia relativa alla Chiesa Romanaè immensa; ma i libri citati sopra, assieme a quelli elencati nella parallela sezione di testi in linguainglese, offrono una buona introduzione, e posseggcno quasi tutti vaste bibliografie.

(c) Cultura

Per questo problema, la documentazione è più diffusa di quanto non accada di solito. Perun'introduzione, si veda Settimane di Studio, in particolare XXII (1974), sulla cultura in generale,ma anche X (1962) sulla Bibbia, XVII (1969) sulla storiografia, e XIX (1971) sull'istruzione.L'istruzione è anche l'argomento di un importante articolo di D.A. Bullough, Le scuole cattedrali ela cultura dell'Italia settentrionale prima dei comuni, in Vescovi e Diocesi (B6-a), pp. 111-43.

Sulla cultura letteraria, cfr. anche A. Petrucci, Scrittura e libro nell'Italia alto medievale, SM, X, 2(1969), pp. 157-213 per il secolo VI, assieme a A. Momigliano, Gli Anicii e la storiografia latinadel 6° s. d.C., « Rendiconti de D'Accad. Naz. del Lincei, classe di sc. morali, stor. e filol. », 8°, XI(1950), pp. 279~97, e, fra le molte opere su Boezio, P. Courcelle, La consolation de philosophiedans la tradition littéraire (Parigi, 1967); Tjader (B3-a) dà pure molti ragguagli su questo periodo.

La guida migliore all'intero periodo fino all'800 è P. Riché, Educazione e cultura nell'Occidentebarbarico (Roma 1966). Per Paolo Diacono, cEr. (B3-b). La cultura toscana è analizzata in A.Petrucci, Scrittura e libro nella Tuscia altomedievale, ss. 8-9, 5° Congresso (B3-f), pp. 627-43, checontiene una buona bibliografia relativa alla letteratura e agli scritti in generale del secolo VIII. Perla cultura del Napoletano, cfr. Cilento in Storia di Napoli (B3-e); per il Salernitano, cfr. Delogu(B3-e) e M. Oldoni, Interpretazione del Chronicon Salernitanum, SM, X, 2 (1969), pp. 3-154.

Importanti discussioni sull'arte e l'architettura si trovano in F.W. Deichmann, Ravenna, Haupstadtdes spatantiken Ahendlandes (Wiesbaden, 1969-); G.P. Bognetti et al., Santa Maria di Castelseprio(Milano, 1948), da cui ebbe origine anche l'importante opera di Bognetti sulla storia religiosa deiLongobardi (cfr. B3-h). Sull'insierne dei problemi relativi alla storia dell'arte italiana fra il 550 e1'800, la miglior panoramica è H. Belting, Probleme der Kunstgeschichte Italiens imFrèhmittelalter, «Frahmittelalterliche Studien», I (1967), pp. 94143, con biblio. grafia completa. Ilritrovarnento di una nave, affondata al largo della costa siciliana, che conteneva i pezziarchitettonici più importanti di una chiesa bizantina prefabbricata del VI secolo, è discusso in G.Agnello, Il ritrovamento subacqueo di una basilica bizantina prefabbricata, «Byzantion», XXXII(1963), pp. 1-9.

Nota supplementare (maggio 1962)

Non mi è stato possibile apporre cambiamenti se non minori al testo del libro per l'edizione italiana,né a quello della Bibliografia. Qui, però, mi sembra opportuno aggiornare la sezione bibliografica,

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che presento nello stesso formato e più o meno nello stesso ordine della bibliografia originale.Parecchie cose stanno avvenendo nella storia italiana dell'alto medioevo in questi anni, e non vogliopretendere di essere stato sistematico. Come prova di ciò, ho aggiunto alcuni saggi importanti cheavevo ignorato, oppure dimenticato di accludere nella bibliografia originale. Chiudo l'elencoall'inizio dd 1982 circa.

Tabacco (Bl) è adesso ottenibile separatamente in edizione tascabile, Egemonie sociali e strutturedel potere nel medioevo italiano (Torino, 1979), con una nuova introduzione storiografica. UTETStoria d'Italia I (Torino, 1980) è ora uscito, con saggi di P. Delogu sui longobardi, A. Guillausull'Esarcato, e G. Ortalli su Venezia, sulla stessa scia del vol. II (Bl), e con bibliografie ottime.

Un lavoro recente sulla tarda Antichità è quello di W. Goffart, Barbarians and Romans AD 418-584(Princeton, 1980), non convincente, specialmente sui longobardi, ma affascinante. C'è un nuovolibro sugli ostrogoti, T.S. Burns, The Ostrogoths (Historia: Einzelschrift, Wiesbaden, 1980).

I1 6° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo (Spoleto, 1980) è utile specialmentecome repertorio dell'archeologia longobarda recente, in modo notevole per i contributi diBierbraner, von Hessen, Broggiolo e Lusuardi, Mannoni e Messiga. Per i longobardi, si vedanoanche le nuove sintesi politiche in Delogu, sopra, e H. Frohlich, Studien zur langobardischenThronfolge (Tubingen, 1980). Una discussione di una delle poche zone ben documentate neiconfronti della storia locale precarolingia si trova in C.J. Wickham, « Economic and socialinstitutions in northern Tuscany in the 8th century» in idem et al., Istituzioni ecclesiastiche dellaToscana medioevale (Galatina, 1980), pp. 7-34.

Per il periodo postcarolingio, si vedano le discussioni importanti dell'economia, società, istituzionifeudali in Structures féadales et frodalisme dans l'occident méditerranéen (Roma, 1980) diTabacco, Bordone, Sergi, Nobili, Fumagalli, Fasoli.

Nuove analisi regionali includono tre libri sull'Italia settentrionale: H. Keller, Adelsterrschalt undstadtische Gesellschalt in Oberitalien (9-12 Jht.) (Tubingen, 1979), principalmente su Milano, chemostra come siano veramente complessi i cambiamenti sociali quando disponiano didocumentazione adeguata; J. Jaraut, Bergamo 568-1098 (Wiesbaden, 1979, o, in italiano ma piùdiflicile da ottenere, Bergamo, 1982); P. Racine, Plaisance du X à la fin du XIII siècle (Paris,1980).

Sulla Toscana il testo più recente sulle aristocrazie precomunali è I ceti dirigenti in Toscans nell'etàprecomunale (Pisa, 1981). Un'analisi utilissima della società carolingia e precarolingia nel Sabina-Rietino è R.R. Ring, The Lands of Farfa (Wisconsin, 1972). C.J. Wickham, Studi sulla società degliAppennini nell'alto medioevo (Bologna, 1982) dà informazioni sull'Abruzzo prenormanno. Di granlunga la migliore discussione dello smembramento di Capua-Beneventoè l'articolo di J.-M. Martinin Structures téodales sopra, pp. 553-86; vedasi anche l'articolo di Taviani su Salerno nello stessovolume.

Per la storia legale del periodo longobardo, devo segnalare il libro, importantissimo ma trascurato(almeno da me), di F. Sinatti d'Amico, Le prove giudiziarie nel diritto longobardo (Milano, 1968).Un'analisi eccellente della vendetta, con rilievo che va ben oltre il suo periodo e luogo, è J.Wormald, «Blood feud, kindred and government in Early Modern Scotland », Past and PresentLXXXVII (1980), pp. 5497.Sulla storia economica: gli articoli di P.J. Jones sono adesso riuniti (e quelli in inglese tradotti) inEconomia e società nell'Italia medievale (Torino, 1980). Pavia come città ha un'introduzionestorico-archeologica nuova, P. Hudson, Archeologia urbana e programmazione della ricerca:

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l'esempio di Pavia (Firenze, 1981). Sulla costruzione urbana nell'Italia tardo romana-altomedievalesi veda lo studio importante di B. Ward-Perkins, From Classical Antiquity to the Early MiddleAges: Urban Public Spending in Italy (di prossima pubblicazione). Una valida guida allo studio deiprocessi di scambio nelle città alla fine del nostro periodo sono gli articoli di G. Garzella e M.L.Ceccarelli Lemut nel loro Studi sugli strumenti di scambio a Pisa nel medioevo (Pisa, 1979).

La nuova base per capire la storia rurale dell'Italia si trova in Medioevo rurale, a cura di V.Fumagalli e G. Rossetti (Bologna, 1980), con un insieme di articoli cruciali su tutti gli aspetti deltema. I primi articoli di Fumagalli (B5-c) sono adesso per lo più riuniti in Coloni e signori nell'Italiasettentrionale, ss. VI-XI (Bologna, 1978); vedi anche il suo « Strutture materiali e funzioninell'azienda curtense», Archeologia medievale VII (1980) pp. 21-9, e G.F. Pasquali, «I problemidell'approvvigionamento alimentare nell'ambito del sistema curtense », Arch. med VIII (1981), pp.93-116, concentrato sull'organizzazione della produzione di S. Giulia di Brescia. Un bello studiocomparativo dell'organizzazione territoriale della Padania longobarda e ex-bizantina è A.Castagnetti, L'organizzazione del territorio rurale nel medioevo (Torino, 1979). Molto è statoscritto di recente sull'alimentazione, specialmente il vasto ampiamento di M. Montanari dei suoiarticoli precedenti (B5-c) in L'alimentazione contadina nell'alto medioevo (Napoli, 1979), cherimarrà a lungo 1'introduzione fondamentale all'argomento e pure, con il lavoro di Fumagalli, sullastoria agraria in generale; si vedano anche, sull'alimentazione, I'articolo di Montanari in Medioevorurale pp. 79-97, e 1'insieme di Archeologia medievale VIII (1981). Un articolo che ho trascuratonel 1979 è C.R. Whittaker, «Agri deserti», in M.I. Finley (a cura di), Studies in Roman Property(Cambridge, 1975), pp. 137-63, che si oppone, convincentemente, all'idea della loro importanza.

La storia e l'archeologia dell'habitat è ora oggetto di parecchio lavoro. Per sintesi, vedi A.A. Settiain Medioevo rurale, pp. 157-99, la migliore sintesi storica per il Nord; C.J. Wickham, La terra di S.Vincenzo al Volturno e il prob1ema dell'incastellamento in Italia centrale (di prossimapubblicazione), un'analisi per il Centro con bibliografia; e due convegni, Archaeology and ItalianSociety, a cura di G.W. Barker e R. Hodges (Oxford, 1981), e Convegno internazionale. Castelli:storia e archeologia, a cura di R. Comba, A.A. Settia (Firenze, 1982). Per scavi, vedi le notizie e leschede in Archeologia medievale.

Nel contesto della storia ecclesiastica, molto lavoro importante è stato pubblicato di recente sullepievi. I tre saggi più significativi sono C. Violante, « Pievi e parrocchie nell'Italia centro-settentrionale durante i secoli XI e XII » in Le istituzioni ecclesiastiche della «societas christiana»,la 6' settimana della Mendola (Milano, 1974), pp. 643-799, che infatti comincia nel X secolo eprima, il libro citato di Castagnetti; e Settimane di studio XXVIII (1980), specialmente i contributidi Violante, Fonseca, Settia. C'è una nuova biografia di Gregorio Magno: J. Richards, Consul ofGod (London, 1980).

Per finire, alcune traduzioni. Schneider (B3-g) è tradotto come L'ordinamento pubblico nellaToscana medievale (Firenze, 1975); Schneider (B3-g) come Le origini dei comuni rurali in Italia(Firenze, 1980); von Falkenhausen (B3-e) come La dominazione bizantina nell'Italia meridionaledal IX all’XI secolo (Bari, 1978).

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