Werner Elizabeth - Il Fiore della Felicità

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E. WERNER

IL FIORE DELLA FELICITÀ ROMANZO.

FIRENZE ADRIANO SALANI, EDITORE

Viale dei Mille.

La presente edizione, della quale è proprietario l'editore ADRIANO SALANI, è posta sotto la tutela delle vigenti leggi.

STABILIMENTO A. SALANI, 1924 - PRINTED IN ITALY.

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IL FIORE DELLA FELICITÀ.

T.

Mira quel fior, che dalla roccia pende ! La dia Felicità v'è confinata: Ella contra il dolor pugna, e difende Chi lo colga nell’ora a ciò segnata. Dov’è la rupe e il fior noto si rende, Se la parola arcana hai pronunciata. Coglilo arditamente, ovunque ei sta, Che v’è dentro la dia Felicità.

Il giovane che aveva letto questi versi, lasciò cadere il giornale e disse con comica solennità: — Dunque, signori e signore, sono sufficientemente informati: ora non si tratta che di trovare fra mille e mille fiori

quello buono. Quanto a me, mi metto subito a cercarlo, non appena questo lunatico maggio l’avrà fatta finita co' suoi temporali, co' suoi nubifragi.

Erano infatti gli ultimi giorni di maggio, ma non avevan recato che quelle giornatacce primaverili sì, ma fredde, e nel giorno, a cui si riferisce il nostro racconto, la pioggia batteva ne' vetri delle finestre, e i monti si profilavano appena appena di mezzo alla nebbia co' loro contorni cinerei, per dileguarsi un momento dopo.

Quanto più cattivo era il tempo fuori, tanto più confortevole era lo starsene nella sala di quella villa, la quale era situata nel più bel punto della valle.

Essa, mobiliata con gusto ed eleganza, co' suoi quadri, libri e tappeti, faceva alla torbida luce di quel giorno piovoso un'impressione singolarmente casalinga e gradita. Certo i suoi possessori dovevano esser ricchi, poiché si potevano permettere di mobiliare a quel modo una villa, destinata a un breve soggiorno durante l’estate.

Le poche persone, che vi si trovavano riunite, stavano adesso intorno al caminetto, in cui, ad onta della stagione primaverile, fiammeggiava un buon fuoco. In una sedia a bracciuoli era adagiata una signora di figura snella e delicata, che mostrava manifesti segni di sofferenza. Il suo volto di donna giovane presentava dei lineamenti morbidi e graziosi, ma vi posava su un pallore profondo, quasi diafano. La bruna sua chioma adornava, leggermente increspata, la candida fronte, e pendeva in massicce trecce dietro le spalle. Tutto quanto il suo portamento aveva qualche cosa di stanco, d'affranto; e quella stessa stanchezza si vedeva anche negli occhi bruni, che di quando in quando si aprivano sotto le lunghe ciglia. Ad onta di tuttociò in quella delicata e infermiccia persona c’era una grazia singolare, e sembrava che se ne accorgesse anche il giovane che stava accanto alla poltrona, poiché non levava mai gli occhi da dosso alla sua vicina.

Dirimpetto a quei due, dall’altra parte del caminetto, sedeva un signore vecchio, coi capelli grigi e in cravatta bianca, il cui esteriore rivelava l'impiegato grave e distinto. Egli leggeva placidamente il suo giornale, ma di quando in quando interrompeva la lettura per dare un' occhiata di soddisfazione alla giovane coppia che completava la piccola riunione.

Accanto al lettore, che teneva ancora in mano il giornale, si vedeva la bionda testina d’una fanciulletta, con un graziosissimo visino che veniva fuori da una capigliatura corta e ricciuta, un visino di bambina, con un sorriso malizioso intorno alle labbra e due vezzose pozzette nelle rosee gotine. La fanciullina guardava ansiosamente nel giornale e do-mandava:

— E’ tua quella poesia, Enzo ? — No, proprio, no ! — rispose Enzo sorridendo. — Non ho fatto altro che tradurre in lingua pura quei versi, che il

vecchio Ambrogio mi aveva dati nel genuino dialetto montanino, per farli intendere a te e alla signora Rehfeld. Guido mi ha una volta per sempre proibito di far versi originali, appena che ne ha veduto il primo saggio.

— Davvero ? Io non sapevo che Enzo Kroneck si occupasse qualche volta di poesia — disse la signora Rehfeld, e in quella esile e placida vocina c’era una punta di beffa.

— Una volta soltanto ho perpetrato un simil delitto, illustrissima signora, e ne sono stato immediatamente punito. Guido, a cui domandai un parere, condannò quella infelice ballata, di cui mi ero reso reo, ad una immediata esecuzione, ed io eseguii la sentenza, gittandola di mia propria mano nelle fiamme.

— E da quel tempo egli è guarito — soggiunse il giovane, che manteneva ancora il suo posto accanto alla poltrona. — Noi siamo amici, caro Enzo, e fra amici bisogna soprattutto esser sinceri. Tu sei un eccellente compagno, amabilissimo,

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fornito di tutte le migliori qualità, ma bisogna che tu smetta di verseggiare. Non sei nato per la poesia, credimelo; te lo dice Guido Hellmar.

— Il celebre poeta ! — completò Enzo, parodiando l'autorevole accento dell’amico. — Tu lo vedi, io m'inchino alla tua sentenza d’oracolo, perché tu non metterai in conto di misfatto poetico questa traduzioncella in buona lingua. Che ne dici tu, Caterina, vogliamo metterci insieme in viaggio alla ricerca del misterioso fiore ? Qualche cosa di romantico e d’av-venturoso ci sarà di certo in quella nostra ricerca, poiché bisognerà viaggiare sotto l’azzurro per monti e rupi; ma, bada, io mi metto a tua disposizione come cavaliere e protettore.

— In questo viaggio alla ricerca della felicità ? Ci sto ! — esclamò la fanciullina, rendendo scherzo per ischerzo. — Ma tu non hai veramente bisogno di cercarla la fortuna — disse Hellmar. — Tu hai l'invidiabile abilità di sentirti

dappertutto sempre fortunata e felice. Ch, chi potesse nuotare leggiero ed allegro alla superficie della vita, senza mai toccarne le tenebrose profondità ! Ma un simile talento non è dato a tutti.

— Ah, sei veramente cortese, con cotesto tuo complimento sulla mia leggerezza e superficialità — osservò seccamente Enzo. — Ecco qui, illustrissima, la leggenda che desiderate.

Si era alzato e porgeva con un leggiero inchino, alquanto freddo però, il giornale alla signora Rehfeld, la quale lo prese con un «grazie» altrettanto freddo, mentre Enzo si appressava all'amico.

I due giovani avevano circa la medesima età, ma non si somigliavano punto nel loro esteriore. Guido Hellmar aveva infatti una vera testa di poeta. Quel suo volto pallido, ma nobile e regolare, con quegli occhi bruni pieni di fantastica malinconia, possedeva in primissima misura l’attrattiva rara e spesso pericolosa dell’“essere interessante”, e la sua lunga chioma nera, cadente giù per le tempie fin quasi sulle spalle, rendeva ancor più possente l'attrattiva di quella testa, che faceva interamente dimenticare la sua poco appariscente persona, che raggiungeva appena la mezzana statura. Ciò nondimeno quella figura si presentava in un atteggiamento estremamente poetico. Egli teneva leggermente appoggiato il braccio destro sull’alta spalliera della poltrona, mentre la sua mano sinistra giocava con un fiore, che aveva tolto dal vaso. Anche la sua foggia di vestire aveva un certo che d'artistico.

Enzo Kroneck al contrario, alto e snello, superava di tutta la testa il suo celebre amico, e non possedeva traccia della di lui interessante malinconia. Traspariva manifesto da' suoi occhi neri, scintillanti e vivaci, l’ardire, anzi la tracotanza della vita, e la sua bruna chioma folta e ricciuta, che di quando in quando gli spioveva sulla fronte, veniva spesso gittata indietro con un movimento d'impazienza, tutt’altro che artistico.

Il braccio destro del giovane posava in una leggiera fascia nera; ma che il male non era affatto grave, lo attestava il di lui volto, i cui lineamenti graziosi, aperti portavano l'impronta della più gran freschezza giovanile e della salute.

— Eppure è degno d'ammirazione, che Enzo abbia imparato sì presto il dialetto della nostra contrada — disse Caterina. — Dopo nemmeno quindici giorni, lo parla e lo intende perfettamente. Io e la mamma, nell’estate passata, siamo state qui per dei mesi e abbiamo sempre durato fatica ad intendere i paesani e farci intendere.

— Perché non li avete mai avvicinati. Non conversate che con la vostra servitù di città, e non parlate quasi mai con quelli che son nati qui. Ho fatto i miei studi nelle case e per le aie dei contadini, ed ora che ho ottenuto la protezione del vecchio Ambrogio, son considerato da questi paesani quasi come un loro simile.

— Quanto a me, grazie tante di codesta protezione — disse il vecchio, prendendo parte al discorso mentre ripiegava il giornale. — Io non capisco proprio, come tu possa divertirti a chiacchierare con un vecchio contadino ignorante, come quell’Ambrogio. E poi quel tuo pericoloso arrampicarti su per i monti, col tuo braccio non ancora guarito ! Vuoi forse trovarti a qualche altra disgrazia, come ti è accaduto non è molto nella tua cavalcata.?

— Ella ha molta ragione.... signor consigliere.... quello sfrenato cavalcare ! — disse Hellmar con accento beffardo, e accompagnando le parole con uno sguardo parimente beffardo al braccio leso dell’amico.

Ma Enzo rispose vivamente: — Non dir male d'Ambrogio, babbo; anche tu devi farne la conoscenza ! È un tipo originalissimo, quali se ne trovano

soltanto nella solitudine dei monti. — Lasciami in pace co' tuoi originali — disse Kroneck di malumore. — Non è che ieri l’altro, che ho fatto la

conoscenza d’uno di cotesti esemplari e non ho desiderio di fare altre prove. Lei lo sa, Evelina — disse voltandosi alla signora — ieri l’altro fui a far visita al dottore Eberardo, che si è stabilito qui vicino a noi. Seppi per caso alla capitale che ha grande riputazione nel mondo medico, ed ho voluto profittare della sua presenza qui, perché ci dica qualche cosa intorno alle sue sofferenze. Ma ne sono stato ricevuto e rimandato in una maniera affatto villana, e non ebbi neppur tempo di dirgli il suo nome. Appena che gli ebbi detto dello scopo della mia visita, quel rabbioso signore balzò su come un gallo battagliero, dicendo: “Pare impossibile che neppur qui abbia da trovare un po' di quiete ! Ho da anni cessato ogni cura; per me, dei

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malati se ne occupi il diavolo, se gli piace ! Si rivolga al medico di condotta, se crede; io non ho ne tempo né voglia d'in-traprender cure di sorta e neppure di veder malati....” E con altre simili gentilezze mi mise alla porta.

La collera del vecchio signore era sì comica, che i giovani diedero in una gran risata, e neppure Evelina potè trattenere un sorriso.

— Ho già udito parlare — diss’ella — di cotesto dottore Eberardo e delle sue meravigliose abitudini. Sembra che sia un cervello veramente balzano.

— E di quelli della più spiacevole qualità ! — confermò Kroneck. — Io non lo riavvicino più dicerto, ne può star sicuro.

— Ma, zio Kroneck, io mi penso che cotesto mostro di dottore potrebbe far del bene alla mia povera mamma — soggiunse Caterina. — Se lei non ha ottenuto niente, ci andrò da me e tanto farò e dirò, che mi deve promettere, voglia o non voglia, di venire a farle visita.

Essa alle ultime parole si era accostata ad Evelina, e le aveva gittato carezzevolmente un braccio al collo. Era cosa curiosa, vedere le due donne parlarsi come figlia a madre, stante la poca differenza d'età, che passava fra loro. La signora poteva avere tutt’al più ventitre o ventiquattro anni, mentre la sua figliastra ne aveva appena sedici. Tuttavia si trattavano con la massima confidenza ed intimità; Evelina passò affettuosamente la mano fra i biondi ricci della fanciulla e rispose:

— No, figlia mia, tu ti esporresti ad una seconda e anche più dura ripulsa, e a quale scopo? Tanto, non può farmi niente !

— Ch, mamma, non devi parlar così ! — riprese Caterina in suon di rimprovero e s'inginocchiò sul cuscino ai piedi della signora.

Allora anche Guido Hellmar s'inginocchiò e disse, abbassando la voce ad un tenero bisbiglio: — Si sente peggio, illustrissima signora ? Temo ch’ella abbia fatto troppo presto a venirsene via dal mezzogiorno. Il

maggio è ancor troppo rigido e tempestoso su questi monti, e una complessione delicata come la sua ha bisogno di sole. — Di sole ? — ripetè la giovine signora con mal repressa amarezza. — Chi non lo desidera ! Ma la vita non ci dà

sempre, ciò che ci sarebbe necessario e formerebbe la nostra felicità ! — E vero ! Che sono infatti la vita e la felicità ?... ombre ! — dichiarò Guido, cupamente, mentre i suoi occhi cercarono

e trovarono quelli di Evelina. — Peccato ch’io non sappia disegnare — disse, beffando, Enzo Kroneck. — Caterina ai suoi piedi, illustrissima....

Guido pittorescamente chino su lei.... un gruppo così commovente, che proprio meriterebbe d’esser messo in un quadro. Hellmar aggrottò le ciglia ed anche fra quelle della giovine signora parve formarsi una ruga, quando rispose: — Tanto, per lei vale lo stesso quel che commove e quel che fa ridere. — Niente affatto! Le poesie di Guido, per esempio, sono molto toccanti ed io non ardirei davvero di trovarle comiche. Hellmar dette una crollatina di spalle, e con un sorriso di compassione gli rispose: — Non t'incomodare ! Lo so bene, mio buon Enzo, che talvolta hai la debolezza di fare il critico

e quindi di criticare anche me. Oh, ma non me l’ho a male. Il mio amico d'infanzia e compagno d'università si può permettere simili scherzi.

— Non trovi dunque meravigliosamente bella la lirica del signor Hellmar ? — domandò Caterina con ingenuo stupore.

— Bellissima! Ma oramai ho un'antipatia contro le rose che languidamente appassiscono, contro gli usignuoli beatamente morenti, e contro i cigni che partono con la freccia nel cuore. Guido, al contrario, tratta volentieri questi dolorosi generi di morte, e se n' è formato una specialità.

Hellmar si morse il labbro inferiore. Il dovere della sincerità fra gli amici, accentuato da lui poco fa, adesso sembrò diventargli incomodo; ma ebbe la soddisfazione di vedere, che tutti quanti i presenti raccolsero in favor suo il guanto di sfida.

— Enzo, tu vai troppo in là ! — esclamò indignato il consigliere. E Caterina lasciò andare adirata l'esclamazione: “Orribile !” e persino negli occhi della giovane signora apparve un

lampo di collera. — Sappiamo già tutti che lei è uno spietato beffatore, Enrico — diss’ella agitata. — Ma il genio poetico del suo amico

dovrebbe almeno esserle sacro! — Per l’amor di Dio; ma questa è una sollevazione contro di me ! — esclamò Enzo ridendo. — Tutti ricolmano il

festeggiato poeta della loro ammirazione, e condannano il malfattore che ha osato di assalirlo. Domando umilmente perdono, non lo farò più!

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Non gli riuscì completamente di volgere la cosa in celia. Hellmar era visibilmente offeso, e fra tutte quelle persone regnava un certo malumore, quando per fortuna sopraggiunse un' interruzione. Entrò un servitore ed aprì la porta, che metteva nella sala da pranzo attigua. Era l'ora che si soleva andare a pranzo, e questa volta fu salutata da tutti con un sospiro di sollievo.

Hellmar si appressò subito alla signora e le offerse il braccio; egli soleva considerar ciò come un suo inviolabil diritto, e la soffrente non poteva davvero esser sostenuta e accompagnata con più affettuosa e premurosa cura, che da lui. Caterina infilò, senz'altri complimenti il braccio del giovane Kroneck, o il vecchio signore seguì gli altri con stizza mal dissimulata, a proposito della mancanza di riguardo del suo figliuolo, che per la prima volta lo metteva in un grandissimo imbarazzo. Nei quindici, giorni in cui egli ed Enzo si trovavano ospiti alla villa, questa cosa era accaduta spesso.

Il consigliere Kroneck e il defunto signor Kehfeld erano stati cugini, e quantunque vivessero in luoghi diversi e si vedessero di rado, mantenevano per altro fra loro un attivo commercio epistolare. Mentre Kroneck saliva lentamente i gradini della carriera dell’impiegato ed occupava alla fine un posto ragguardevole alla capitale nel ministero, il suo cugino con fortunate speculazioni commerciali erasi fatto ricco, e finalmente si era ritirato dagli affari con una considerevolissima fortuna.

Non si era risoluto ad ammogliarsi che negli anni più maturi, e quando dopo dieci anni del matrimonio gli fu morta la moglie, si prese in casa una lontana parente della defunta, per dare alla sua unica figlia, che allora era bambina, una istitutrice, e nello stesso tempo una compagna. Ma all’epoca della cessazione dell'anno di lutto, la giovane parente diventò la padrona di casa. Con l’amore della figlia, che le ai era affezionata con tutto il cuore, ella si cattivò anche l’affetto del padre, il quale le offrì la mano. Quella fanciulla, di diciotto anni, non era partito conveniente per quell’uomo, certo stimabilissimo, ma oramai attempato e co' capelli grigi, e il “sì” dovette esserle stato, ad onta di tutto, malagevole a pronunziare; ma l’orfana, la cui sorte era la dipendenza, e che non aveva ancora altro affetto nel cuore, scelse alla fin fine, ciò che la ragione le consigliava: Evelina divenne la sposa di Rehfeld.

Il suo matrimonio non durò che breve tempo; dopo tre anni era già vedova, ma il sacrifizio, col quale essa aveva curato il suo marito nella sua malattia, durata parecchi mesi, senza darsi nò tregua, ne pace, sembrò esserle stato fatale, a causa della sua troppo delicata complessione.

Il soggiorno ripetuto nei paesi meridionali non avevano arrecato alcun miglioramento alla malattia di petto, acquistata durante la malattia del marito, e ora la giovine signora era più malata che mai tornata dall'Italia, dove aveva passato l'inverno in compagnia della sua figliastra.

La visita del consigliere Kroneck, questa volta, non era da mettersi soltanto in conto del riguardo parentale. Egli aveva condotto seco suo figlio, il quale solo in questa occasione imparava a conoscere la vedova di suo zio; ma la sua presenza, per altro, si riguardava come un omaggio alla sua piccola cugina, che da parecchi anni egli non aveva veduta. Si trattava qui d’un desiderio accarezzato dal defunto Rehfeld, che Kroneck aveva col più grande zelo afferrato e tenuto fermo, riguardo al progetto d'una unione fra i due figli respettivi. E difatti Enzo e Caterina si volevano bene assai. Ridevano e facevano pazzie insieme, si bisticciavano e riconciliavano e cercavano di sopraffarsi a vicenda con le loro beffe e con le loro pungenti burle. Era difficile trovare un' altra coppia, che si convenisse come loro due.

Il pranzo era finito, ed Enzo stava alla finestra della sua camera al piano superiore della villa e guardava innanzi a sè, quantunque la nebbia fosse sì folta, da non esser possibile discernere neppure gli alberi più vicini. Il signorino aveva certamente motivo di voltare così ostinatamente le spalle alla camera, poiché in quel momento egli era obbligato ad ascoltare una severa predica paterna, che veniva solennemente sciorinata su di lui.

In mezzo alla stanza c’era il consigliere e teneva al suo rampollo un discorso, che durava già da un pezzo e non veniva mai a fine. Parlava d'una leggerezza inaudita, d’una mancanza di riguardi parimente inaudita, di bricconate che erano veramente imperdonabili.... insomma un vero catalogo di colpe, recitato al malcapitato figlio da cima a fondo, senza fare, purtroppo, la benché minima impressione su di lui.

Finalmente il padre irato concluse: — Per anni interi ho prodigato invano precetti, esempi, esortazioni; tu, la leggerezza l’hai nel sangue, ma non deve

dirsi che io ho tirato su il mio figliuolo un buon a nulla; te l'ho detto un' altra volta, Enrico, la mia pazienza è al suo termine.... bisogna che tutto ciò si cambi.

— Babbo.... Veramente hai ragione. — Ah, lo vedi ? Ebbene, rispondi di grazia a questa domanda: che cosa vuoi essere; che cosa vuoi diventare ? — Lo sa Iddio, quel che diventerò ! So per altro ciò che non diventerò mai.... un consigliere esemplare, come te. A ciò,

purtroppo, non ho la minima inclinazione.

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— O piuttosto la minima voglia. Bisogna sudare per tenerti fermo al lavoro, e appena che l’ore del servizio son finite, tu scappi a fare il diavolo e peggio. Credi tu che a cotesto modo si faccia carriera ? Tu sei al ministero l'impiegato più giovine, con uno stipendio, che tu scialaqui come una miseria per i sigari, e ch’io non ho patrimonio lo sai pure. Che cosa sarebbe di te, se Rehfeld ed io non avessimo formato il felice- pensiero di fare di te e di Caterina una coppia ed un paio?

— Avrei fatto come tant’altri, mi sarei aperto al mondo una strada da me. — Tu ? No, caro figlio mio, tu non sei nato per aprirti una strada da te, e ringrazia Iddio che possiedi un padre, che

ha provveduto in tempo al tuo avvenire. Questo matrimonio, infatti, è l'unica mia speranza, anche sotto un altro punto di vista. Forse alla Caterina potrebbe riuscire di far di te un uomo di giudizio, poiché tu l’ami ed essa ti ama.

— Per lo meno siam buoni compagni — disse Enzo. — Ma tutto questo, caro babbo, è contro il fissato. Fino all’anno prossimo, io doveva godermi la mia libertà ed avevamo fissato così; ora a un tratto mi ti scaraventi addosso con la sposa e con lo sposalizio.

Kroneck levò disperato le mani al cielo. — Ma sentite un po' che modo d’esprimersi. Se ti udisse Evelina ! Lei, che prima ancora che noi fossimo arrivati

disse: “Il mio unico desiderio è quello di mettere la mia Caterina nelle braccia forti e gagliarde d'un uomo, che le sia un rifugio e una difesa per tutta la sua vita.”

— Ha inciampato proprio nel suo ! — rispose senza scrollarsi Enzo. Ma la pazienza di suo padre era bell’ esaurita davvero, poiché proruppe: — Dunque non puoi esser serio per un solo minuto almeno ? E questa la tua risposta all’ansie dell’amor materno ? — Dio mio, babbo; io credeva che la risposta dovessi farla tu. Tu vai proclamando tutti i giorni ch’io sono un buon a

nulla, e ora tutto a un tratto debbo essere il rifugio e la difesa per tutta la vita! Kroneck sprigionò un gran sospiro. — Sì, Dio sa qual responsabilità mi assumo in faccia al mio defunto cugino e ad Evelina, col mettere l’avvenire della

loro creatura in simili mani ! Il giovane, punto sul vivo e arrossendo, rispose piuttosto risentitamente: — Par proprio ch’io sia il figliuol prodigo della bibbia a sentirti ! In fondo, in fondo, vediamo quali sono le mie colpe !

Un paio di notti trascorse fuori di casa, un paio di pazzie, quali nella gioventù sono assolutamente inevitabili, qualche debituccio, di cui umilmente ho domandato perdono !

— E non ti par forse che basti ? Sei tu giunto a tale da riguardarle come bagattelle coteste ? Enrico, bisogna ch’io te lo dica, sei sulla diretta via verso la rovina, e anche Hellmar è del mio parere....

— Guido ? — lo interruppe vivamente il giovane. — Anche lui dunque si unirebbe nella tua condanna ? — No, al contrario, egli ha preso parte per te e ti ha scusato, amabilmente, come sempre. E tu, non c’è dubbio, lo

rimeriti mancandogli affatto di riguardo, e metti in ridicolo lui e quello che fa. Non ti pesa mai sulla coscienza, che Hellmar è già un poeta illustre e che tu non sei che un giovanotto, ch’egli onora della sua amicizia, di cui dovresti andare superbo ?

Enzo gittò addietro il capo con un gesto quasi di disprezzo. — In questo caso mi ha onorato persino della sua compagnia, che non avevo neppur chiesta. Appena che ebbe saputo

del nostro viaggio, ecco che gli venne la voglia di fare anche lui un' escursione sui monti, e scappò fuori qui fra noi pochi giorni dopo il nostro arrivo per farmi visita, accettò senz’altro l'ospitalità offertagli, e ora non accenna punto ad andarsene. Invece si sviluppa un' amicizia spirituale del più alto romanticismo fra lui e la signora Evelina, e fra loro è un andirivieni di languidi sguardi, un sospirare continuo su rose appassite, su usignuoli morti d'amore, un tenero, poetico omaggio de' più toccanti del cantore innamorato alla medioevale, che non si stacca più dal fianco della sua dama... tant'è, non posso resistere, e non posso stare a sentire quelle eterne sentimentalità, quelle esagerate espansioni !

Egli aveva parlato con crescente veemenza. Il consigliere guardò stupefatto il suo figlio, di cui le guance eran di fuoco, e che alle ultime parole si era dimenticato a segno, da battere rabbiosamente i piedi.

— Ebbene, e se anche ciò fosse ? Che c’entri tu ? Il giovane si morse il labbro inferiore e tornò alla finestra. — Certo.... che c’entro io ? — Precisamente, era ciò che ti domandavo. Se quegli omaggi fossero fatti a Caterina, allora avresti motivo d'esserne

irritato.... ma ad Evelina ! Invidi tu alla misera l’ultimo raggio di sole che illumina la sua cadente vita per quell’affettuoso omaggio d'un poeta? Sai bene che i giorni della sua vita sono contati. E in questa occasione debbo anzi dirti, che anche il tuo contegno verso Evelina lascia molto a desiderare del resto. A che quel freddo tono, come di persona estranea, che tu usi con lei, lasciando anche vedere che lo fai apposta ? Perché le dai sempre dell’illustrissima ?

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— Debbo forse chiamarla zia Evelina ? — domandò Enzo, senza voltarsi, ma nella sua voce vibrava ancora la irritazione di poc’anzi.

— Perché no ? Ella certo ha tre anni meno di te, ma è la vedova di tuo zio e fra poco tempo diventerà tua suocera. — Suocera ? Enzo si riscosse, come se gli fosse stato tirato uno schiaffo in piena guancia, e suo padre si trasse atterrito indietro un

passo e poi lo guardò crollando il capo, come se dubitasse di non avere inteso. — Precisamente; è cosa deliberata e stabilita da tanto tempo, e tu stesso n' eri di pieno accordo, quando venimmo qui.

Ma che cos’hai, santo Iddio ? Il giovane diede in una risata, ma vi si sentiva lo sforzo. — Oh, niente ! Penso soltanto che è stato un fatale errore, quando tu e la signora Evelina avete affidato alla piccola

Caterina l’alta missione di correggermi. Io non obbedirò di certo al freno. Alle corte, babbo: ho riflettuto meglio su questo affare, e ho pensato che la mia libertà è tanto cara per me, tanto preziosa che.... per ora non ho affatto l'intenzione di pigliar moglie !

Questa breve e definitiva risposta fece uscire fuor di sé il vecchio consigliere. Egli tenne al figliuolo una seconda e più lunga predica, non risparmiando né rimproveri né minacce; ma non produsse il minimo effetto. Enzo non ascoltava nemmeno; batteva una marcia sui vetri della finestra e guardava fuori più ostinato che mai.

— Ma, signor consigliere, perché si riscalda a cotesto modo ? — tuonò una mite e chiara voce; e la bella testa di poeta di Guido Hellmar si affacciò alla porta. — Che cosa ha mai fatto il mio povero Enzo, ch’ella gli sta innanzi con cotesto atteggiamento da Giove tonante ? Io intercedo umilmente per lui; e la prego di far grazia, anziché esercitare il suo diritto.

— Ti ringrazio, con mio padre m’accomodo da me senza bisogno d'intercessioni — rispose Enzo freddamente. Ma presso il consigliere sembrò che la intercessione avesse gran peso; poiché signoreggiò subito la sua irritazione e si

voltò in modo quasi rispettoso al giovane poeta. — Ho dovuto di nuovo fare una predica al mio figliuolo. Lei già conosce i suoi capricci, Guido ! Egli è, e rimane

incorreggibile. — E per questo debbo alla lesta entrare nell'istituto de' corrigendi del matrimonio — soggiunse Enzo — ma non se ne

fa nulla, babbo. Non me ne sento ancora abbastanza degno; e nella coscienza di questa mia indegnità, mi ribello con le mani e coi piedi.

Il vecchio stava per prorompere di nuovo, ma Guido gli posò, calmandolo, la mano sulla spalla e poi si volse all’amico: — E tu su questo fai molto male. Io sono interamente della opinione di tuo padre. Non avresti potuto fare una scelta

migliore, di quella ch’egli ha fatto per te. Caterina Rehfeld è un' amabilissima e graziosissima fanciulla, e oltreacciò un ricchissimo partito.... essa è l’erede di ben la metà della sostanza paterna, non è vero ?

— No, d’una parte soltanto — rettificò Kroneck — ma la sua eredità, anche con quella limitazione, è sempre considerevole. Ad erede universale il mio defunto cugino ha nominato sua moglie. Probabilmente in segno di riconoscenza per l'infinita devozione e per i sacrifici da lei fatti durante la di lui malattia.

— Probabilmente ! E la signora Rehfeld può liberamente disporre del patrimonio ? — T’interessa di saperlo ? — domandò Enzo. — Certo — rispose Hellmar, ridendo. — Tutto ciò che ti riguarda, m'interessa, e qui si tratta della tua famiglia

avvenire. — Evelina è padrona assoluta del suo patrimonio

— dichiarò Kroneck. — Così dispone il testamento; ora però questa disposizione resta senza valore, e Caterina ha fondata speranza di diventare una delle più ricche eredi. Dio sa, se rinunzierei volentieri a tutte quelle splendide prospettive, che si aprono nell’avvenire ad Enzo, se così potessi salvare la vita a quella povera signora! Chi avrebbe mai creduto, che così giovine sarebbe stata vittima di quella insidiosa malattia ! Il suo male in quest’ultimo tempo ha fatto passi giganteschi; mi spaventai, quando la rividi. Forse è ancor possibile che si riabbia per qualche tempo, e lo speravo dalla cura del dottore Eberardo, che è uno specialista per simili malattie.... guarigione completa, mai. I begli occhi bruni di Hellmar si velarono con l’espressione del più profondo dolore.

— Un destino veramente tragico ! E straziante, il vedere quel soave fiore destinato alla tomba, inalzare mestamente il capo anche una volta, per poi appassire sotto gli stessi raggi del sole. Il vecchio ascoltava commosso. Il “soave fiore destinato alla tomba”, gl' imponeva straordinariamente; ma purtroppo saltò su il suo figliuolo con la sua brutale mancanza di riguardo.

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— Caro Guido, le tue immagini poetiche sono molto belle, ma logiche no di certo. Appassire sotto gli stessi raggi del sole ! Non è molto chiaro, e non lo fanno i fiori per il solito; al contrario, per lo più fioriscono sotto i tepidi raggi del sole.

— E incredibilmente insensibile; scherzare su simili cose ! — proruppe Hellmar. — La signora Rehfeld ha ragione, per te non v’è niente di sacro. Credo che saresti capace di burlare anche in presenza della morte.

— Forse! Ma io non faccio calcoli in presenza della morte. In quella espressione quasi minacciosa, c’era più che abbastanza per risentirsi, ma Hellmar parve non aver voglia di

riattaccarla col motteggiatore; e stringendosi nelle spalle si voltò altrove; infilò il braccio del consigliere, dicendo: — Tenga, signor consigliere, con Enzo oggi non mi ragiona, è in umore d’opposizione e perciò non me la prendo. Prese amichevolmente il di lui braccio ed uscirono insieme. — Sì, Guido, ella è sempre indulgente e pieno di riguardi ! — sospirò Kroneck, scendendo la scala. — Che non darei,

se mio figlio le somigliasse ! Quante volte gliel’ho portato per esempio, ma invano. Egli, una natura ideale come la sua, non la capisce neppure. Tante volte ammiro la pazienza, che ella ha con lui.

Hellmar sorrise e fece come un gesto di diniego. — Non sia così severo, babbo Kroneck ! Enzo ha i suoi difetti, anche grossi, se vogliamo, ma con un amico non si sta

con l’arme alla mano. Egli mi è caro, ad onta di tutte le sue debolezze. E ciò dicendo trascinò seco il consigliere, tutto contento di sentirsi chiamare “babbo Kroneck” dalle labbra del famoso

poeta.

II.

Il mattino seguente recò un gran cambiamento nel tempo. La campagna che il giorno prima era triste e fosca di nebbia, oggi era come tuffata in un bagno dorato di sole, e le colossali cime de' monti mostravansi tutto all’intorno nella più serena chiarezza.

Il parco della villa di Rehfeld, che nell’alta e magnifica sua posizione dominava tutta la valle ed era disegnato addirittura sullo stile d’una gran villa signorile, stendevasi fino alle prossime colline, e immediatamente dietro eravi adiacente il bosco, in cui un sentiero, da principio assai comodo, conduceva per parecchie tortuosità sull’altura.

Da questa scendeva appunto Enzo Kroneck, che tornava da una sua escursione sui monti. La giornata erasi fatta calda, come se il sole volesse ricompensare ciò che aveva fatto di male con la sua prolungata assenza, e anche la serata era mite e quasi calda, come in piena estate.

Il giovane del resto non era solo; al suo fianco camminava una fanciulla nel costume pittoresco del paese, col cappello alla birichina sulle bionde trecce, messo in modo che adombrava un volto sorridente dalle guance rosse e dagli occhi lucenti. Lo sciallotto di seta a vari colori, che le copriva il collo e le spalle, e il grembiule di velluto a catenelle d’argento tornavano a maraviglia a quella fresca e giovanile figurina. Essa aveva in braccio un paniere e sembrava non esser per nulla contrariata dall’accompagnatura, che le si era unita, poiché di quando in quando si voltava e rideva sonoramente di qualche innervazione del suo compagno. Anch’egli era di umore allegrissimo, cicalava e scherzava vivamente con la fanciulla, e si vedeva bene che era contento della sua compagna, come la sua compagna lo era di lui.

- Dunque l'hai notato, che adesso ci capito più di rado nell'Osteria della Valle — diss'egli, mentre ambedue scendevano con passi svelti il poggio. — K tu mi vi hai forse desiderato ? — domandò a dondola.

Essa atteggiò a broncio le sue rosse labbra. — Gua, di molto inquieta non ne sono per l'appunto stata. Chi non vuol venire da noi, vuol dire che ne sta lontano.

Tanto ora ho pur sempre della compagnia. . — Te lo credo ! Si sa per lungo e per largo che bella figliuola ha l’oste della valle, e non s’andrà molto in lungo, che

alla trattoria si festeggeranno le nozze. Non hai che da scegliere fra tutti i giovinotti del paese. — Forse anche fra i signori della città ! — rispose, beffando, la fanciulla. — Davvero ? Dunque anche un cittadino ti ha già offerto il cuore e la mano? Si può sapere il nome del felice mortale,

che deve aver dicerto la massima speranza d’esser preferito, poiché rappresenta la civiltà ? — Gua, il signor Enzo Kroneck non è dicerto ! — disse ridendo, Gondela. — Lui sta più volentieri nella capanna

presso il vecchio Ambrogio e perde il tempo a guardare i monti. Son giunta persino a credere, ch’ei non troverebbe più la strada dell’Osteria della Valle.

— E tu sei d’opinione che farei meglio a guardare Gondela, che i monti, non è vero ? In fondo hai ragione, ma oramai ho una debolezza, una predilezione per quel vecchio lassù. Sei forse gelosa d'Ambrogio ?

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Gondela non rispose a quest’ultima provocazione, ma la sua. voce si fece più grave, quando domandò: — È egli vero che presto ella vuole salire con lui sul Picco della neve? — Certo, appena che il tempo ce lo permetterà. — Ebbene.... io non lo farei ! — Perché? Hai qualche cosa contro il vecchio? — No.... ma non me ne fido. — D'Ambrogio Berghofer? Egli gode dappertutto la migliore riputazione. — Può essere, ma la sua vicinanza mi è sinistra ! Non vorrei aver che fare con lui per tutto l'oro del mondo. — Neppur' io — disse Enzo ridendo. — Per lo meno, quando fosse il caso, starei in guardia; ma non hai bisogno di

stare inquieta, poiché io ed Ambrogio siamo i migliori amici, e ad ogni modo non potrei trovare una guida migliore di lui. Gondela teneva gli occhi bassi e strappucchiava i nastri del suo grembiule. — Può essere ! Ma non m’è mai voluto uscir di monte quel che il babbo raccontò una volta di lui. Egli ha conosciuto

bene Ambrogio nella sua gioventù, quando era ancora guida. Certo sarà stato la guida migliore e più ricercata per lungo e per largo. Ma una volta salì sul Picco della neve con un forestiero e per la via furon sorpresi da un temporale; non son potuti più andare innanzi, hanno smarrito la strada e finalmente....

— E finalmente ?... — Ambrogio si è rifugiato solo nelle capanne di ricovero, e lo straniero.... è stato ritrovato morto fra la neve. — Certo, è un fatto triste, ma non dovette certamente esser colpa della guida, se accadde una disgrazia. — Ma non avrebbe dovuto accadere, osservava mio padre, perché se in quel caso Ambrogio non avesse perduto la

testa e non avesse badato troppo alla propria vita, l’avrebbero scampata tutti e due; il temporale non era stato troppo cattivo, ed essi erano già giunti sotto, dove la strada non presenta più pericoli. Non fu bella per Ambrogio di lasciar lì il povero forestiero.

— Gondela, tuo padre in questo s'inganna — disse recisamente Enzo. — Ambrogio Berghofer non è capace di lasciare una persona in caso di bisogno; egli non ha paura dei pericoli; li va piuttosto a cercare, ed io ne ho le prove.

— Ma in quella occasione ebbe paura — insisté la fanciulla. — Se ne stette sicuro nella capanna, mentre lo straniero capitò nelle forre in mezzo alla neve e vi lasciò finalmente la vita; si son fatte tante chiacchiere in quel tempo, che gli hanno fatto del male e di molto. Non è stato cercato più da nessuno, e da quel tempo in poi ha dovuto cessare di far da guida.

— Che vuol dire ? Bisogna considerare diversamente la cosa ! Nessuno può pretendere da una guida pagata, che cimenti la propria vita per amore d'uno straniero; tuttavia accade quasi sempre, che quella gente se ne fa un punto d’onore. E il vecchio Ambrogio, quella natura di ferro, familiare e pratico di tutti gli orrori delle Alpi, sarebbe vigliaccamente fuggito e avrebbe abbandonato alla morte una persona incapace d’aiutarsi ? questo non lo credo.

— Allora, se lei lo vuol sapere meglio di me, ci ho piacere ! — disse Gondela, alquanto offesa di quella decisa contraddizione. — Ma non ci vada sul Picco della neve con Ambrogio; potrebbe accaderne un' altra delle disgrazie.

— E che te ne importa, se anche mi accadesse qualche cosa ? — rispose, pungendola, Enzo. — Ne avresti forse dispiacere? Davvero bisognerebbe ch'io lo facessi, per vedere se Gondela stesse in pensiero per me. Che cosa mi dai se ti porto dalla montagna un bel mazzo di edelweiss?

Così dicendo egli aveva ripreso il suo solito spirito tracotante, ed anche Gondela parve averci più gusto che nel ragionamento troppo serio che avevano intavolato; ella rifiutò ridendo la promessa del ricambio, ma sembrò che udisse volentieri i motteggi del suo compagno, e che non si lasciasse morire le parole in bocca nel rispondergli.

Giunsero così sull’ultimo pendìo del monte, dove finiva il bosco e cominciava il parco della villa di Rehfeld. Essi uscivano appunto fuori degli alberi, e Gondela stava per scoppiare dalle risa per una amena osservazione del suo compagno, quando vide, che ad un tratto egli fece un balzo indietro. Per un momento sembrò quasi ch’egli volesse tornare indietro, e lei, seguendo la direzione del suo sguardo, scorse la giovine signora di Rehfeld che sedeva sopra un muscoso frammento di rupe, su cui aveva disteso il mio mantelletto scozzese.

Era stato proprio un caso eccezionale, che Evelina, la quale non saliva che mediocrissime alture, in quel giorno, senza aiuto, fosse ascesa fin lassù, poiché vicino a lei non si vedeva alcuno. Ma nel silenzio che regnava all'intorno, ella doveva aver sentita l'allegra conversazione e riconosciuta la voce del suo giovine parente, poiché i suoi lineamenti portavano l’espressione d’una severità, che non le era abituale.

Enzo si era involontariamente fermato, ma poi s’avanzò vivamente e si avvicinò alla signora, osservando la consueta fredda cortesia.

— Lei qui, illustrissima ? E sola sola ? Evelina ricambiò con un leggiero cenno del capo

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il suo saluto, e poi squadrò da capo a piedi la giovinetta che gli stava al fianco. Ella conosceva la graziosa figlia del trattore della valle, la quale la salutò con disinvoltura, proferendo, inchinandosi, il solito “Buon giorno !”

La giovane signora era abitualmente affabile verso tutti, ma questa volta chinò il capo con fredda alterezza e rispose: — Grazie, ragazza ! Non interrompa la sua conversazione, Enzo; m'immagino che accompagnerà a casa Gondela. Il giovane arrossì fino agli orecchi, comprese il senso pungente di quelle parole, e apparentemente tranquillo, ma con

accentuazione notevole rispose: — Ella è in errore, illustrissima; ci siamo incontrati per caso, e qui è il punto della nostra separazione. Buona notte,

Gondela, e salutami il babbo!

— Dunque l'hai notato, che adesso ci capito più di rado nell’Osteria della Valle — diss’egli, mentre ambedue scendevano con passi svelti il poggio. (Pag. 27.)

Gondela che non aveva la più lontana idea, di quanto in quel momento fosse penosa la sua presenza al suo giovine

compagno, col quale infatti orasi incontrata per caso, trovò naturalissimo quel commiato, tanto più che erano giunti in vicinanza del parco, e di lì la via scendeva verso la valle. Ella fece un cenno di saluto confidenziale ad Enzo e rispose:

— Presenterò, e ritorni presto all’Osteria della Valle, signor Kroneck.... la riverisco, illustrissima! Evelina non rispose, ma seguì cogli occhi la fanciulla, la quale si voltò di nuovo con quel suo bel viso sorridente, e poi

tutt’allegra e con piede snello e sicuro scese giù per la china. Per alcuni minuti regnò profondo silenzio fra i due rimasti su; finalmente Enzo, a cui quel silenzio cominciava a divenir molesto, riprese:

— Non le farà male il fresco della sera, illustrissima ? Il sole è già tramontato ! — Oggi è proprio un caldo da estate, e poi ho preso meco un mantello assai grave — rispose Evelina, additandolo. —

Sembra ch'ella sia molto familiare con Gondela, ed il signor Hellmar mi aveva già detto, che frequenta spesso l'Osteria della Valle, non è vero?

— Non più di lui; poiché ci va così spesso, come me.

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— Lo so, fa degli studi fra quei contadini e cacciatori, che vanno di preferenza colà; ma mi ha appunto confessato che quella gente tanto decantata non gli va a genio, e lo capisco. Una delicata e nobile natura di poeta come la sua, deve sentirsi respinta dalla rozzezza, che purtroppo è inerente al carattere di simil gente.

— Così appunto la pensa Guido ! Brutali non li ho trovati che in rarissimi casi, ma certo son vivaci, e nel loro modo di vivere e di sentire c’è un che d'antico e di sano e di gagliardo insieme, da cui noi potremmo bene imparare qualche cosa.

— E lei infatti impara, a quello che ho sentito teste — rispose Evelina aspramente — e sa anche cogliere il tono che si addice con una bella montanina.... Del resto ognuno ha i suoi gusti.

— Naturalmente, con Gondela non potevo tenere un linguaggio scelto; e se voglio parlar con lei, bisogna bene che mi adatti al tono, che le è abituale — rispose Enzo, sfogando la sua impazienza di questo esame col levarsi il cappello e portarsi indietro i bruni capelli ricciuti, mentre Evelina gli guardava il braccio.

— Non ha più la fascia — osservò essa. — E guarito della ferita che si era fatta ? — Non fu che una bagattella ! Una sgraffiatura insignificante, che mi ha impedito per qualche tempo di scrivere, a

cui devo che mi sia stato permesso di accompagnare il babbo a questo suo soggiorno primaverile; altrimenti sarebbe stato difficile che m’avessero tolto da catena!

— Da catena ? Vuole alludere al suo impiego ? Altri pagherebbero e molto per lavorare alla sua età nel ministero ed avere un padre, che le spiana passo per passo la carriera.

E qui ricominciò il tono e l'andamento della predica e della reprimenda, che Evelina usava volentieri col suo giovine parente e che aveva per effetto di metterlo in aperta opposizione; infatti, come se volesse apposta provocare i rimproveri, egli rispose:

— Ha dunque molta fiducia, illustrissima, nella mia carriera? Io no. Il babbo mi racconta ogni giorno, ch’io non farò carriera, e sono perfettamente della sua opinione. Non son punto fatto pel servile lavoro degli uffici, io.

— Se chiama cosi un' occupazione seria e piena di responsabilità, certamente, no — osservò freddamente la giovane signora.

— Seria ? Piena di responsabilità ? Dio mio, a noi impiegati giovani e giovanissimi non è ancora permesso, purtroppo, di prender parte a un lavoro, quale ella dice, illustrissima; bisogna che ci rassegniamo al mestiere degli amanuensi, e questo è qualcosa di noiosissimo. Ella non ha un' idea, quanto Manchevole, quanto micidiale per lo spirito sia quell’eterna monotona vita da orologio a pendolo, che si mena negli uffici, dove uno, inchiodato alla sua scrivania, non può avere un pensiero proprio ! E perciò minto la smania irresistibile d’uscire all’aperto !

— E là cavalcare a scavezzacollo, ferirsi le mani.... almeno così si dà ad intendere. Il giovine trasalì ed inarcò le ciglia, meravigliato. — Sembra che lei non ci creda. — Appunto, perché mi è stato detto che Enzo Kroneck, quattro settimane fa, ha avuto un duello alla capitale e ch’è

rimasto ferito. — Da chi lo ha udito dire ? Evelina tacque. — Già non c’è bisogno di domandarglielo.... non può essere stato che Guido. — Egli ne è pienamente informato. — Senza dubbio, poiché mi fece da padrino. Ma io non avrei mai creduto, ch’egli ne avrebbe chiacchierato, e per

l’avvenire mi guarderò bene di metterlo a confidenza intorno a simili questioni d'onore. — Per l'avvenire ? — ripeté inorridita la signora. — Dunque queste questioni d’onore sono abituali in lei ! Non avrei

creduto ch’ella fosse un simile attaccabrighe, quantunque sappia da un pezzo, quanto poco sul serio ella prenda la vita. Lei se n' offende, Enzo, lo vedo, ma non potevo risparmiarle questa spiegazione. In quest'ultimo tempo mi sono orientata intorno a certe cose, le quali mi costringono a parlarle una buona volta francamente, poiché si tratta dell’avvenire d'una creatura, che forma ciò ch’io ho di più caro sulla terra.

Ella sembrò aspettare una risposta; ma Enzo le domandò invece tranquillamente: — Cotesto orribile quadro di me glielo ha fatto Guido ? Un lieve rossore passò sul volto di Evelina, ma ella dominò rapidamente il suo imbarazzo e rispose: — Guido Hellmar ? Ella non crederà.... — Che è lui che le ha dato coteste informazioni su me ! Precisamente, è quello ch’io credo. — Sia pure.... ma lei può dare una smentita al suo amico ? — I fatti possono esser veri, il colorito è falso. Di più non posso dirle, poiché odio le denunzie. Le ultime parole sonarono incisive, ma la signora a quel rimprovero proruppe veemente:

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— Ella è in errore, se stima capace d'una tale bassezza Guido Hellmar. Involontariamente e senza intenzione, parlando del più e del meno, gli sfuggì dotto qualche cosa, e soltanto con gran riluttanza e per la .mia insistenza mi diede certi schiarimenti, che io esigeva. Checché per altro fosse costretto a dire, trovò sempre qualche scusa per lei, qualche di-fesa. Principalmente in questa occasione ho imparato a conoscere tutta la schiettezza del suo carattere e del suo modo di considerare la vita; la personalità di quell'uomo non è che l'incarnazione delle sue opere.

— E se io le dicessi, per esempio, che cotesta personalità non è così pura e ideale, com'ella crede? — Risponderei che tutto ciò che ha qualche valore trova sempre i suoi nemici, ha sempre chi lo invidia e denigra. Enzo trasalì leggermente a quelle aspre parole, poi freddamente rispose: — Una vera e perfetta sentenza ! Ma noi siamo usciti dal nostro tema. Io aspetto tutto umile la predica. Evelina rimase visibilmente offesa; si alzò e rispose con mal frenato risentimento: — Non ho l'intenzione di farle alcuna predica, che sarebbe del resto affatto inutile, ma bisogna ch'io le dica per altro,

che dai nostri rapporti personali io mi era aspettata un altro risultato. Il desiderio del mio defunto consorte mi è un sacro legato, ma son pienamente conscia della responsabilità, ch’egli mi ha addossata insieme con la cura di sua figlia. Io temo per l’avvenire di Caterina al suo fianco, e non ardisco più offrir la mano a stringere un nodo, che potrebbe formare la sua infelicità.

— Ebbene, illustrissima, lo sciolga questo legame, prima che sia stretto. Io mi vi adatterò. Evelina guardò attonita il suo giovine parente. Ella si aspettava delle scuse e delle preghiere, qualche promessa di

emenda, mentre egli sembrò dispostissimo a rinunziare per sentimento di ribellione e di suscettibilità alla sposa, e in pari tempo alle splendide prospettive, che gli si sarebbero per mezzo di questa unione aperte.

— Io credeva che lei amasse Caterina ! — diss'ella lentamente. — Le costa dunque così poco, l’abbandonarla ? — Quando vedo che lo si desidera, allora io son pronto sull’istante.... — Riverisco ! — disse una voce, interrompendo ciò che stava per dire il giovine. Egli si voltò, e anche Evelina guardò meravigliata lo sconosciuto, che ad un tratto scomparve nella sinuosità del monte

e poi ricomparve innanzi ad essi. Era un vecchio vestito alla montanara: la sua figura magra, nervosa, alta sosteneva dritta il peso degli anni, e i capelli

grigi, che apparivano di sotto al cappello, erano ancor folti. I suoi lineamenti, coloriti dalle intemperie, avevano un che di ferreo; si vedeva che li avevan temprati il sole e la pioggia, come tutto l’uomo, e di sotto alle ciglia folte e bianche scintillavano di un fuoco quasi giovanile due occhi grigiastri. Le sue vesti non erano affatto meschine, ma rivelavano d’aver sostenuto parecchie tempeste. Con le pesanti scarpe, guarnite di chiodi, col bastone alpestre in mano, quel vecchio appariva tanto rubizzo e fiero da sfidare qualunque giovine.

— Ah, siete voi, Ambrogio ! — disse Enzo, — Mi avete forse cercato alla villa ? — Sì, signor Enzo — rispose il montanaro, levandosi il cappello innanzi alla signora. — Ero venuto a dirle che non se

ne fa niente domani del salire un Picco della neve.... la via non è ancora praticabile. — Me l’ero immaginato ! I continui acquazzoni hanno reso impraticabile tutta la montagna.... È Ambrogio Berghofer,

illustrissima, di cui le ho già parlato, e che mi ha fatto conoscere tutti quanti i tesori di questo paese. Per mezzo di lui ho imparato a conoscere tutti gli spiriti di questi monti, nani fatali e spettri del mondo alpino, ma purtroppo nelle sue leggende soltanto, perché finora non ne ho incontrato alcuno di persona.

— Sì, il signorino ne ride, mentre son cose vere o lo proverà ! — rispose Ambrogio, volgendosi alla signora, alla quale, stante l'irritazione sorta fra loro, non era riuscita mal gradita quella interruzione, quantunque non avesse potuto ritrovare, come Enzo, la consueta disinvoltura del conversare.

Oltreacciò quella figura di vecchio, assai strana, la interessò; e molto più affabilmente, che non aveva fatto con Gondela, gli domandò:

— Ha mai veduto qualche cosa di simile ? — Veduto.... precisamente no; ma non ce n' è bisogno, perché si sente. E lo sentirà anche il signor Enzo, se vi si

troverà vicino, e un giorno o l’altro vi si troverà. Chi guarda nel mondo con quegli occhi, vede più d’un altro. Me ne sono accorto il primo giorno, che ci siamo incontrati.

— Ella vede, illustrissima, che c’è almeno un uomo al mondo, che non mi stima un buon a nulla affatto — soggiunse Enzo un po' malignamente. — Sono nelle buone grazie d’Ambrogio, e questo è pur qualche cosa, perché egli non è già accessibile a chiunque.

Evelina credette bene di passar sopra alle parole del vecchio, ma notò con meraviglia che quel modo aspro e duro d'esprimersi di lui diveniva singolarmente appassionato e caldo, quando parlava del giovine, e che quegli occhi suoi grigiastri si affiggevano in esso con un' espressione di tenerezza. Si vedeva insomma che Enzo ne aveva fatta la conquista.

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— Abitate solo solo nella solitaria casupola là sul monte ? — gli domandò. — Mi pare che sia appunto situata sulla via che mena sul Picco della neve, non è vero ?

— Ci ho una vecchia fantesca per le faccende di casa e un garzone per badare alle bestie, e niun altro, dacché mi è morta la moglie. Certo la casa è assai solitaria e alta; è la più alta della montagna, ma a me piace così, e ci ho il mio da fare, non dubiti !

— Sta bene; e nell’estate vi si può stare, ma noli' inverno, quando soffiano le tormente e la neve ricopre ogni cosa, dev’esser terribile trovarsi su quell'altura; vi parrà come d’esservi sepolto vivo, quando è sbarrata la strada che mena a valle; e nell’inverno passato una valanga ha appunto seppellita e rovinata una di coteste case montane. Non minaccia anche voi di quando in quando un simile pericolo ? Fa spavento il pensare di poter morire da un momento all’altro in mezzo alla neve, abbandonato da tutti, senza vicinanza né aiuto di creature umane....

Ella troncò a mezzo le parole e si trasse involontariamente un passo indietro. Ambrogio stava immobile, e nella sua ferrea faccia si scorgeva una contrazione; ma gli occhi ardevano così sinistri e minacciosi nella giovine signora, ch’ella ammutì; quello sguardo l’aveva agghiacciata.

— Morire dobbiamo tutti una volta! — rispose ruvidamente il montanaro. — O che uno muoia in un modo, o in un altro, alla fin fine è lo stesso.

— Dunque, signor Enzo, domani non si sale sul Picco della neve; forse fra due o tre giorni, se il tempo si mantiene. — Conoscete bene quella strada? — domandò Enzo, ricordandosi del racconto di Gondela. — Mi dicono che sia

molto scabrosa, e per chi non è pratico, anche pericolosa, se per caso uno capita nelle forre della neve. Ambrogio die col suo bastone alpino un sì violento colpo sul suolo, che la punta si cacciò tutta quanta nella terra,

mentr' egli lasciò andare una sonora risata di scherno. — Avrebbe forse paura ? Allora certo, sarebbe più prudente di lasciarlo in pace il Picco della neve. Io mi era

immaginato ch’ella fosse ben diverso da questi signori cittadini, nel vederla aggirarsi sì arditamente per questi monti, come se non ci fossero i dirupi e i burroni. Ma per me non fa nulla, non mi ficco mica innanzi, perché mi prendano per guida. Riveriti !

Ciò dicendo, voltò sdegnoso le spalle e cominciò a salire l’erta. — Salute, Ambrogio.... a voi e alla vostra villania — gli gridò dietro Enzo, ridendo. Ma Evelina, quasi impaurita, disse: — Uno strano uomo, costui ! Davvero non capisco, Enzo, come mai si possa trovar piacere nel bazzicare simil gente.

Non l'ha dunque visto quello sguardo sinistro col quale mi ha squadrata, ad un'osservazione tanto innocente ? Che diavolo aveva quell’uomo ?

Enzo crollò le spalle. — Nulla di particolare; uno di quegli strani capricci che da quell’originale bisogna tollerare, se si vuol metterglisi a

contatto. Certo, Ambrogio non è amabile; nemmeno le rupi alle cui spalle egli alberga son più ispide ed aspre di lui, e confesso anch’io che in quell’essere c’è qualche cosa d'enigmatico e di sinistro. Ma siffatte nature, affatto eccezionali, perché tali, appunto m'interessano; in esse bisogna ricercare e indovinare che cos’hanno, soprattutto che cosa nascondono nel loro profondo.

— La giovine signora doveva essere d'un' altra opinione, perché non rispose: così che vi fu qualche minuto di silenzio. Ambedue sentivano che il discorso poc’anzi interrotto bisognava riprenderlo, ed erano ciò nonpertanto in imbarazzo per trovarne la nota giusta. Enzo profittò di quella pausa per raccogliere il cappello, che aveva gettato poc'anzi sbadatamente sur una pietra, e fermarvi il mazzo di fiori alpestri 'che s’era allentato, ed Evelina, volta altrove, guardava il paese circostante.

La villa col suo parco era situata dietro l'altura, od anche le gigantesche cime delle Alpi coperte di neve, che chiudevan la valle, di lì non erano visibili: non si vedeva che una quieta solitudine montana e boscagliosa. Lontan lontano luccicava lo specchio d’un laghetto agli ultimi raggi vespertini, che risplendevano rossastri di dietro ai monti. Le leggiere nubi che coprivano più qua e più là il cielo, facevano risaltare il suo cupo azzurro, e di mezzo a loro veniva fuori in tutto il suo chiarore la falce della luna.

La primavera quell’anno era giunta assai tardi fra i monti. Era l'ultimo giorno di maggio e il paese si presentava ancora nel suo primo lucido verde, che si andava tessendo come un trasparente velo intorno agli alberi e alle macchie. Qua le fronde non mostravano ancora che i bottoni chiusi e verdastri, là sbocciavano appena ricciuti e folti con una delicata tinta d’un bruno rossastro; ma le siepi fiorivano già bianche e porpora, e il suolo era come seminato d'una innumerevole varietà di fiorellini olezzanti, precursori della primavera, i quali sotto gli ardenti raggi del sole appassivano e morivano.

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Enzo era tuttavia occupato intorno al suo mazzetto, ma ciò facendo mandava obliquamente sguardi verso la signora, e quasi inconsciamente rimaneva fisso nel suo sembiante. Ella in attitudine stanca era appoggiata al tronco d’un albero e sembrava assorta nella contemplazione della natura. Di sotto il leggiero velo bianco, che si era gettata sul capo, usciva furtivamente, in brune anella, la ricca chioma, e faceva viemaggiormente risaltare il pallore diafano del suo volto. Le delicate linee di profilo, in quella posizione, presentavansi certo nella loro più squisita grazia e soavità, e gli occhi bruni eran fissi con la espressione d’un doloroso sogno nel vuoto. Il melo selvatico che le pendeva sul capo, non aveva ancor messo foglie, ma era come cosparso di fiori bianchi come la neve e i suoi rami chinavansi giù sulla di lei snella creatura, che appariva sì tenera e passeggiera, come quei fiori, ai quali non era data che la breve vita d’un giorno primaverile.

Evelina dovette sentire lo sguardo che posava immobile e fisso su lei, poiché a un tratto si volse, e i suoi occhi s’imbatterono infatti sul bel mazzo, che il giovane aveva in quel momento finito di fermare al cappello.

— Che rari fiori, che ha lei costì ! — diss’ella. — Non ne ho ancora veduti di simili. — Neppur io; e sì che conosco assai bene la fiora delle Alpi. Posso offrirle la mia raccolta, che ho fatta errando per

questi monti. Per lo meno ha il pregio d’essere stata fatta col rischio della vita. Ciò dicendo Enzo aveva sfilato il ramoscello carico di fiori che stava in mezzo al mazzo e glie lo aveva offerto. Infatti

era un fiore specialissimo di maravigliosa bellezza. Il sottile stelo portava una quantità di fiori dell'azzurro profondo e favoloso della genziana, ma di un'altra forma e specie, poiché il calice mostrava al contrario uno splendido color di porpora, e in fondo al calice una ghirlanda di delirati pistilli color d’oro, foggiati a mo' d'una coroncina d'oro, e ne emanava un profumo lieve lieve, ma inebriante, delicato e forte ad un tempo, come alito balsamico di primavera, che soffi sfiorando la mi perfide dei prati fioriti.

Evelina indugiò un momento, ma nella voce del giovane si sentiva l'accento della preghiera, ed essa quasi involontariamente stese la mano.

— Con pericolo della vita ? — ripeté ella. — Fu tanto difficile arrivare questo fiore ? — Veramente, sì; egli era sbocciato sur una rupe quasi inaccessibile, proprio in cima ad un baratro profondo ed

isolato, dalle cui fratte sgorgava spumando impetuoso un torrente. Mi son dovuto arrampicare come un camoscio, aggrappandomi ai cespugli e alle sporgenze della parete della roccia, e qualche volta mi son proprio tirato su inerpicandomi a forza di piedi e di mani dove non v’era spazio quanto è largo un piede, mentre il torrente anch'esso contribuiva ad impacciarmi la salita. Finalmente ho trovato un abete nano, che mi ha offerto sostegno ed appoggio per il piede e il braccio sinistro, e con la destra stesa a più potere ho afferrato lo stelo e sradicato questa ritrosa bellezza alpestre dalla sua balza natia.... volevo possederla ad ogni costo!

— E tutto questo per amor d'un fiore! — disse Evelina sommessamente. — Che pazzia, rischiar la vita per un fiore ! — E perché no ? E una meta come ogni altra, e una meta dev’esser raggiunta. Mi creda, c’è la sua voluttà nel

cimentare la vita; allora si prova veramente, quale e quanto è il valore della vita ! Ad onta di tutto è stato un bel momento, quando mi son trovato per metà arrampicato e sospeso sul baratro, circondato da rigide punte, e sopra a me il cielo raggiante nell’azzurro, col suo splendore di sole; sotto, notte cupa e crepuscolare d’abeti. Un istante di vertigine, di paura ed io sarei stato perduto ! Per giunta, la candida spuma del torrente mi spruzzava la calda fronte, mentre il suo scroscio mi faceva alle orecchie l’effetto di canne d’organo sonate tutte insieme, e sopra a me ammicavami e adescavami questa bella Fata delle Alpi con la sua magia da novella.... credo che se anche fossi precipitato, non l’avrei lasciata andare !

Egli aveva parlato con tutto il calore, che gli suscitava in seno il ricordo della scena, e quella descrizione sulle sue labbra era divenuta sì appassionata e seducente, che ne risorgeva su viva l’angosciosa e bella scena dell'audace impresa e del trionfante successo. I grandi occhi bruni di Evelina eran fissi su lui, dapprima attoniti e meravigliati, poi quasi impauriti, come se si fosse disvelato loro qualche cosa d’affatto sconosciuto.

— Così non l’ho mai sentita parlare, Enzo — disse finalmente Evelina. — Pareva una poesia ! Un vivo rossore ritornò sulle guance del giovine, quasi che, come poc’anzi, fosse stato sorpreso in qualche cosa di

sconveniente, quindi, ricadendo nel suo abituale accento beffardo, rispose: — Oh no, non è stato che un momento d'estro.... niente altro ! Il poetare appartiene a Guido; non oserei mai di

guastargli il mestiere, e il guastamestieri troverebbe anche in lei, illustrissima, un severo giudice.... son pochi minuti infatti che è stato sgridato come uno scolaretto !

— Io parlava da madre ! — rispose seria Evelina. — Da madre! — ripeté egli; ma la parola sonò acerba e quasi schernitrice sulle sue labbra. — Certamente ! Benché a regola d'anni io e Caterina potessimo esser sorelle, pure ella mi sta molto a cuore, e ad ogni

modo ho su di lei dei diritti materni. Non capisce, dunque, ch’io penso al di lei avvenire? — Ebbene, da questo pensiero speravo di liberarla, illustrissima. Io voleva....

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— Per alterezza e suscettibilità pronunziare una parola, di cui si pentirebbe subito dopo ! Renderei a lei e a Caterina un cattivo servigio, se la raccogliessi, poiché essa le è affezionata con tutto il suo piccolo cuore; e lei, Enzo ? Diceva da senno, con quella parola ? Poiché allora, certo, tutto sarebbe finito fra noi!

Enzo tacque. Il giorno innanzi si era scatenato sì veementemente contro il giogo matrimoniale, a cui suo padre voleva sottoporlo, e ora gli sarebbe bastato un solo “sì” per ricuperare la sua libertà. Perché non lo pronunziava ? Perché era rimasto colpito a quel modo dalla naturalissima dichiarazione, che fra le due famiglie allora sarebbe stata finita ? “Fra noi !” Quella parola cacciava via alterezza e suscettibilità; lo sguardo del giovane volò di nuovo su quella delicata figura col velo bianco sul capo, ed esitante, incerto finalmente rispose:

— Io credeva ch’ella desiderasse, ch’io mi ritirassi. — Allora, ella mi ha frainteso. Io non voleva che ammonire, avvertire, e questo diritto, almeno lei, non può

negarmelo. Caterina è ancora sì giovine, né io ho mai pensato di legarla subito, anche con un semplice fidanzamento. Evelina non aveva osservato il respiro affannoso del giovine, a cui pareva che quelle parole togliessero un grave peso

di sul petto, e continuò tranquillamente: — Ma io volevo almeno conoscere l’uomo, che un giorno dovrà condurre nella vita la mia bambina, e nella prossima

primavera potrei non averne più il tempo. — Coteste sono immaginazioni da ammalata — continuò Enzo, quasi irato. — E per giunta dannose immaginazioni,

poiché non fanno altro che peggiorare il suo male. La signora scosse il capo e soggiunse con piena convinzione: — Tutti coloro che mi circondano, cercano d'ingannarmi intorno al mio stato, lo so, e mi sono lasciata illudere assai

lungo tempo, ma finalmente bisogna pure aprire gli occhi alla verità. Oggi ho voluto mettere a prova le mie forze, e perciò sono uscita sola; esse non son più neppure sufficienti per questa breve salita, e ci sono arrivata esausta a segno, da sentirmi venir meno.

— Ma chi le ha detto, che il suo male sia senza speranza? I medici.... — Scrollano le spalle, e mi consolano con l'estate, col clima meridionale.... so io, ciò che voglion dire. Certo non è bello

il morire, quando siamo ancora giovani e non abbiamo ancora goduto della felicità. Non si vuol capire, né rassegnarsi a questo, che soltanto a uno vien tolta la vita, mentre a tanti altri è dato di godere dell’esistenza. Anch’io ho sostenuta questa pugna; adesso son vinta e mi piego al mio fato.

Il giovine voleva rispondere, ma ella lo interruppe alla prima parola: — No, Enzo, non c’è bisogno ch’ella trovi argomenti di conforto per me; la vita è un prezioso bene, troppo prezioso,

per gettarla via, e lei la gitta via in capricciosi, sfrenati strapazzi, che è impossibile che la soddisfacciano. Ella possiede giovinezza e salute, e strabocchevole vivacità ed ardore.... per cotesti ardimenti, per coteste temerarie lotte non v’è dunque scopo migliore che il capriccio d'un momento, come quello per il quale oggi ella ha cimentato la vita ? Il suo coraggio, la sua energia esiston soltanto in lei per un fiore, che le è piaciuto d’arrampicarsi a strappare dal cretto d’una roccia ? non esiste dunque per lei qualche cosa di più elevato, a cui consacrarsi ? Finora lei, a bella posta, si è studiato, e precisamente innanzi a me, di mostrarsi leggiero e superficiale. Forse non fu che un capriccio.... adesso quasi quasi ci credo.

Anche questa in fondo era una ramanzina, che si faceva al giovane, ma aveva un altro e ben diverso accento, da quelle che prorompevano dalle labbra del padre, ed ebbe anche un altro effetto. In quella voce esile e dolce, non c’era nulla di reprimenda, ma sì una grave preghiera piena di rimproveri, e il temerario capriccioso stava lì, con gli occhi fissi al suolo, e pazientemente ascoltava ciò che gli veniva detto.

— Tanto, per mio padre e per tutti gli altri è fermo e sicuro, ch’io non sono che uno scapestrato incorreggibile ! — rispose egli finalmente a bassa voce. — Finora non ho osato di dargli il crollo a cotesto domina. Crede lei che valga la pena, ch’io tenti di far di me qualche cosa di meglio ?

— Fin da oggi.... certamente! — rispose Evelina. Ed ella sentì due labbra ardenti sì fortemente

e lungamente impresse sulla sua mano, che, quasi imbarazzata voleva ritrarla; ma invano. Enzo la tenne ferma, e mandando dagli occhi bruni un vivido lampo le disse:

— Tenterò ! — Ed io — rispose ella — tengo questo fiore come pegno della sua promessa. Chi sa; forse è il fiore della felicità,

ch’ella oggi ha conquistato. — E che lei ha nelle sue mani ! — soggiunse il giovine con tale impeto di passione, che la giovine signora ritirò con

rapido movimento la sua dalla di lui mano. — Comincia già ad imbrunire — diss’ella. — Bisogna pensare al ritorno, andiamo.

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Enzo raccolse di sul macigno il mantello e voleva metterglielo sulle spalle, ed ella con un gesto accennò di no; ma il braccio ch’egli le offerse, non potè rifiutarlo, poiché aveva bisogno di qualche sostegno, tanto era debole. Essi scendevano lentamente giù dalla collinetta in mezzo al silenzio misterioso della sera, alla fragranza, alla vita della primavera. In tutta quanta la natura si agitava come un soffio d’arcane speranze, d’ardenti aspettative, e nel molle crepuscolo, che avvolgeva ora i monti e le valli, sembrava che tutti gli spiriti della primavera si animassero e movessero con la loro silenziosa ed amabile operosità, ed aleggiassero bisbigliando anche nell’olezzo del fiore, che la giovine signora portava in mano.

“Chi nell’ora fatal l'abbia trovato, “Una vita felice ha conquistato !

III.

A mezz'ora dalla villa di Rehfeld, dall’altro lato della valle, sorgeva una villetta di modesta apparenza. Era costruita alla maniera svizzera, circondata da un giardinetto, e veniva affittata a stranieri, poiché il proprietario, già da lungo tempo, non l’abitava più.

In quell’anno era stata affittata assai presto. Un signore, vecchio, e di cui non si sapeva altro, se non ch’egli era un dottore di medicina, vi era arrivato con un giovine assistente, un vecchio servitore e una quantità di libri. Egli viveva molto ritirato in compagnia di quei due, ma già era venuto in fama d’essere un uomo strano, villano di modi sino alla brutalità, poiché aveva cacciato via alcuni contadini, che lo avevan cercato per aiuto, con quella medesima drastica cortesia, con la quale aveva messo alla porta il consigliere Kroneck; e la vecchia massaia, che attendeva alla casa e che ora serviva da cuoca a quei forestieri, si faceva il segno della croce, tutte le volte che aveva bisogno di avvicinarsegli.

La stanza più grande della villetta era stata ordinata a uso di studio e biblioteca per il dottore. Era una stanza grande a tre finestre, con una gigantesca stufa di terra cotta e dei mobili antichi, che facevano l'impressione, se non d'eleganza, ma di comodità, quanta se ne fosse desiderata. Ora essa era, naturalmente, piena zeppa di libri, che riempivano ogni spazio disponibile, e giacevano ammonticchiati sugli armadi e sulle tavole, mentre lo scrittoio era sovraccarico d'ogni sorta di manoscritti e di opere mediche.

Erano le ore antimeridiane, e un servitore dalla faccia rugosa e dai capelli grigi si affaccendava appunto a mettere in ordine i bicchieri, le fiale e gl'istrumenti che ingombravano la tavola grande, situata accanto alla finestra, e si vedeva che servivano ad esperienze chimiche, mentre il padrone stava alla finestra e guardava i monti pieni di luce e di sole.

Il dottore Eberardo, che doveva essere un uomo di cinquant’anni sonati, era una figura appariscente, ma senz'alcun'attrattiva. Il volto presentava lineamenti di persona ricca d'intelligenza ed avvezza ad adoprarla, ma intorno alle sottili labbra increspavasi un tratto d’acerba ironia, che troppo spesso degenerava in ischerno offensivo; e il suo portamento, non che il modo di parlare alla gente, rivelavano tutta la cruda rozzezza d’un uomo, che è abituato a fare in tutto e per tutto la sua volontà e il suo comodo, o che non trova mai, in coloro che lo circondano, la minima opposizione.

— Martino — disse egli, senza voltarsi — appena che la persona che si è fatta annunziare, arriva, introducila da me. — Qui ? In biblioteca ? — domandò Martino, alzandosi. — Ma che ? Si capisce, nella stanza da ricevere. — S'intende! — brontolò il vecchio servitore. — Sarebbe la prima volta, che una signora entra nella nostra biblioteca.

Se sapessi almeno, che cosa viene a cercare a casa nostra.... questa signora ! — Me lo immagino, io ! — grugnì il dottore. — La villa si vende; il proprietario l'ha offerta anche a me, e

probabilmente questa persona.... come si chiama? Ah, Caterina Rehfeld.... viene a visitarla, ma non se ne fa niente. Ho preso in affitto tutto quanto il possesso fino alla primavera dell’anno avvenire; quindi, fino a quell’epoca, ne sono padrone dispotico, e sbatacchiò la porta sul naso ai signori ospiti non invitati e mal capitati.

— Sicuro, sul naso ! — ripeté Martino, a cui questo modo di procedere sembrava piacere singolarmente. — I possessori della villa grande lassù si chiamano Rehfeld; credo che sia una vedova e la sua figliuola.

— Per me sia pure una nonna con sei nipotini ! Che me ne importa ? Ricevere, bisogna che la riceva, potrebbe forse aver comprato alla chetichella la casa e voler cominciare a fabbricare; ma non le lascio muovere una sola pietra, fino a tanto che ci sono io. La rimanderò, precisamente come ho fatto ieri l'altro con quel noioso consigliere, che si pensava d'impormi coi suoi titoli e coi suoi ordini cavallereschi.

— Colui non torna di certo ! — soggiunse Martino. — Ella fu terribilmente sgarbato, signor dottore, anche più sgarbato del solito.

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S'intendeva bene ch’egli voleva così fare un complimento al suo padrone, ed infatti questi lo prese per tale, poiché strinse l’occhio in segno della più grande soddisfazione.

— Oh, sì, me ne intendo del levarmi d'intorno la gente, che viene ad importunarmi ! Ora vai e chiamami il dottor Gilberto.

Martino obbedì, ma nell’uscire brontolò a mezza voce: — Comprar la casa.... cacciarci via di qui.... ci si deve provare la.... signora! La visitatrice aspettata con sentimenti sì ostili non si era ancora fatta viva, e il dottore passeggiava di pessimo umore

in su e in giù per la stanza, quando entrò il dottor Gilberto. Era un giovane di circa ventiquattro anni, di figura slanciata, ma debole, con una faccia molto piacevole, ma assai pallida, e con lineamenti molli e quasi virginei, nei quali leggevasi ma-nifesta la espressione della timidezza. Egli salutò il dottore con un accento d’umiltà, a cui questi rispose appena con un cenno del capo.

— Ho piacere che sia venuto, Gilberto! Voglio tentare l’esperienza, di cui le ho parlato stamani mattina. Ha fatto la sua passeggiata ?

— Oggi non ho avuto tempo — rispose Gilberto — e il lavoro che ho appunto per le mani....

— Ma a passeggiare bisogna che ella ci vada — disse Eberardo. — La vita sedentaria le ha guastato i nervi; lei ha bisogno di aria e di moto. Ella lui una gran brutta cera !

— Ho lavorato un po' troppo, è vero. Il mio osarne.... — È riuscito splendido ! E la sua dissertazione è stata sì bella, che ha fatto chiasso. I miei signori colleghi si

arrabbieranno non poco, pensando che è un mio scolaro, che pubblica un simile lavoro. La loro stizza, se la tengano. Ma ora ella ha bisogno di riposarsi; non può continuare ad essere un uomo così meschino; la prego di stare per l’avvenire a tutte le mie prescrizioni, ma appuntino !

II giovine assistente sembrava avvezzo a quel tono di comando; non rispose, se n' andò alla tavola, dov’erano gli apparati, ed Eberardo ve lo seguì, brontolando fra i denti, mentre si metteva a sedere:

— Speriamo di non essere disturbati. Ad ogni modo, la visita che aspetto è per più tardi. — Chi deve venire, il medico di condotta ? — — domandò Gilberto. — Egli c’era già stato e se torna, certo

s'interesserà delle esperienze, che noi.... — Ma che ? Si tratta d’una donna ! — lo interruppe il dottore. — Una donna ! — esclamò l’assistente, spalancando tanto d’occhi dalla maraviglia. — Che non può interessarle affatto ! — soggiunse Eberardo. — Non s'immagini che sia una signorina; è una nonna

con sei nipotini ! — E vengon tutti e sei qui ? — domandò Gilberto, quasi inorridito, poiché conosceva il suo maestro per nemico dei

ragazzi. — No — brontolò egli, che si era tanto ingolfato nelle sue supposizioni, che ora le prendeva per realtà. — La vecchia

vien sola; si chiama Caterina Rehfeld, e vuol visitare la casa per comprarla, ma io le mostrerò la via per andarsene ! Ora ella è informato; mettiamoci al lavoro.

E cominciarono infatti le esperienze, e cosi il maestro come lo scolaro erano sì intenti all’operazione, che non udirono affatto il fermarsi d’una carrozza innanzi alla porta del giardino. Eberardo stava appunto esaminando attentissimamente un precipitato che stava formandosi, mentre il suo assistente teneva in mano un piatto di cristallo, che umettava d'un fluido, quando tutt’a un tratto risonò alle sue orecchie uno strano accento. Era una risata, sì giovanile, sì argentina e franca, quale poteva prorompere soltanto dalle labbra d’un fanciullo, o d'una fanciullina. Gilberto si mise ad ascoltare tutto intento.

— La signora.... la nonna co' suoi sei nipotini — osservò egli, volto al dottore.

— Non ci mancherebbe altro in questo momento ! — esclamò questi.

In quell’istante Martino aprì la porta ed annunziò: — Signor dottore.... Egli non poté proseguire, poiché già gli era passata innanzi una leggiera figurina graziosa, e prima che il vecchio

avesse avuto tempo d'andare in collera su questa irruzione nel santuario della scienza del suo padrone, seguì un giovine signore, che entrò anch'esso nella biblioteca. Quei due, certo, dovevano aver considerato la porta aperta come un invito ad

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entrare, e la incuora, che era in una leggiera toeletta chiara, elegantissima, da primavera, si volse con un grazioso inchino al dottore Eberardo.

— Spero che non disturberemo, signor dottore; di siamo già fatti annunziare, ed io sono Caterina Rehfeld. Ella fu interrotta da un limpido scricchiolìo. Il piatto di cristallo era sfuggito di mano all'assistente, e ciò ch’egli aveva

diligentemente preparato, andò a finire sull'impiantito, dove il piatto stesso era andato in mille pezzi; ma il giovane era là, come una statua, e guardava con occhi spalancati e fissi la vaga creatura, che, simile ad una splendida farfalla, erasi introdotta svolazzando nella biblioteca. Caterina, resa attenta da quello scricchiolìo, voltò la sua bionda testa, coperta appena da un cappellino adorno di bottoni di rose, verso quella parte, ed un sorriso apparve sul suo volto, in cui vezzosamente disegnaronsi le due naturali pozzette. Per quanto questa figlia d'Eva fosse giovine, si accòrse benissimo che la cagione di quel che era accaduto al povero assistente, era lei.

Ma se n' era accorto anche il signor Eberardo, e se qualche cosa poteva aumentare il suo malumore, era appunto questa osservazione. Egli fece un movimento col capo, che probabilmente doveva essere il ricambio del saluto, e poi disse in tono di comando:

— Gilberto, vada a spasso ! — Subito, subito ? — domandò questi confuso. — Sull'istante ! Egli è assolutamente necessario per la sua salute. Non ritorni prima d'un'ora buona ! Per disgrazia nulla c'era da opporre a quest'ordine, e Gilberto obbedì; ma, giunto sulla soglia della porta, si fermò e

lanciò indietro una lunga occhiata. Allora egli incontrò di nuovo quello sguardo azzurro e petulante, e quel visino color di rosa, su cui in quel momento guizzava mal frenato un risolino malizioso; ma Martino sbatacchiò sul naso al giovine as-sistente la porta.

— Martino — domandò premurosamente il giovane — caro Martino, chi sono quei signori, e che vuole in casa nostra quella signorina ?

Martino aggrinzò la fronte già rugosa e diede una strana e severa occhiata a colui che lo interrogava; poi, in cambio di risposta, disse in tono cupo e grave d’ammonizione:

— Signor dottore, stia in guardia ! — Io? Contro chi? — Contro il folletto. — Contro il folletto ! ? Volete dire contro la signorina ? — È un folletto, e non una signorina ! — proruppe Martino, furibondo. — Eccotela in carrozza. Salta a terra, come

una cavalletta, mi porge una carta, su cui è stampato: “Caterina Rehfeld”. Certo, debbo aver fatto un curioso viso, poiché ella ha cominciato a un tratto a ridere di me, signor dottore ! Ha riso proprio di me, e lui, l’accompagnatore, s'è accordato con lei. Deve già averlo sentito quel pazzo, quell’insensato ridere.

— Io, no; eravamo occupati ! — disse, mentendo, Gilberto, a cui quella risata argentina squillava ancora nelle orecchie, come una musica.

— Ma ora essi sono dal dottore, e passerà a costoro la voglia di ridere! — continuò con maligna soddisfazione Martino. — In questa casa non si ride !

— Ah, sì, è vero, Iddio lo sa, se è vero ! — rispose Gilberto sospirando, mentre il vecchio servitore, squadrandolo con un' occhiata da annientarlo, disse energicamente:

— Vada a passeggiare, signor dottore, e si guardi bene, perché quello è un folletto e di genere femminile ! Con siffatto esauriente argomento, si ritirò, e al giovane non restò altro, che adempire al desiderio, sì variamente

esternatogli, d'andare a fare una passeggiata. Egli, per altro, preferì per la passeggiata comandatagli, il giardino, e mentre appunto vi passeggiava, non perdeva però di vista l'ingresso della casa, dove finalmente la signorina, quella graziosa figura, avrebbe dovuto farsi rivedere.

Il giovine medico non s'era trovato che poco o punto a contatto con donne, eccettuato la vecchia massaia di casa del suo maestro, che egli soleva regolarmente cambiare ogni tre mesi, perché con nessuna si trovava d’accordo. Il dottore Eberardo era di quegli uomini, che accompagnato ad un gran talento aveva anche un carattere così difficile ed aspro, e un temperamento sì bilioso, da non potere affatto reggere in qualunque compagnia. Alla capitale aveva voluto formarsi una clientela, e in seguito ad una cura veramente straordinaria, e che aveva fatto gran chiasso, gli si erano affollati intorno infermi, ma se ne fuggivano via quasi tutti quanti, non potendo tollerare la villania, quasi brutale, di questo Esculapio. Aveva occupato una cattedra in una università, ma fin dal prim’anno aveva attaccato briga con tutti quanti i suoi colleghi per modo, che alla fine aveva voltato le spalle alla città. E d’allora in poi viveva, permettendogli il suo patrimonio una vita

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indipendente, da dotto privato, e scriveva opere scientifiche, le quali erano state tanto più prontamente riconosciute d'alto merito, quanto meno si correva pericolo di dover personalmente aver che fare con l'autore, il quale si era affatto segregato dal mondo.

Gilberto era figlio d’un amico di gioventù e compagno di studi del dottore, che il padre aveva lasciato orfano e senza mezzi, ma era stato raccomandato prima di morire dal padre stesso al dottore Eberardo, il quale aveva accondisceso a prendersi in casa il giovanetto, che aveva recentemente lasciato la scuola, e a provvedere per lui; ma quell’apparente generosità non era stata in fondo che un espediente del suo egoismo, poiché egli aveva avuto nei suoi assistenti la stessa sfortuna, che aveva avuto nelle sue massaie di casa. L’ultimo infatti se n' era andato in piena ribellione, ed egli aveva ad ogni modo bisogno d’uno schiavo domestico provvisto di sufficiente cultura scientifica, a cui egli potesse imporre ogni cosa, e che fosse in tutto e per tutto da lui dipendente.

Al dottore non riuscì difficile il soggiogare interamente quel temperamento timido e malleabile. Mentre da un lato egli provvedeva largamente ai bisogni del giovane e promuoveva così i di lui studi, lo aveva segregato da ogni umano consorzio; cosa tanto più facile a farsi, in quanto che né lui né Gilberto esercitavano la professione, né si erano formata una clientela. Quel che rimaneva al giovine dottore d'indipendenza, l’annientava Martino, che esercitava di seconda mano la sua tirannia sul compagno di casa, cosicché ben presto la povera vittima era divenuta incapace di qualsiasi resistenza.

Né questo stato di cose cambiò, quando il giovine medico ebbe finiti i suoi studi e presa la laurea. Eberardo gli annunziò che indi in poi percepirebbe un salario, e trovò del resto affatto naturale, che tutto dovesse procedere come prima. Gilberto anch’esso non trovò da obiettar nulla; egli si sentiva per tutta la vita obbligato all’uomo, che per tanti anni gli aveva dato tetto e mantenimento, e che in cambio lo aveva sfruttato quanto più e meglio aveva potuto. Martino accondiscese, certo, a dare al suo compagno di casa il titolo che gli spettava, ma ciò non toglieva, ch’ei non maltrattasse a tempo e luogo il signor dottore, come aveva già fatto al giovine studente, e questi non faceva il minimo tentativo di spezzare la catena, alla cui stretta erasi oramai a poco a poco abituato.

Questa volta, per altro, il giovine medico erasi certamente reso colpevole d'una indiretta disobbedienza, perché invece di camminare un' ora, come il suo tiranno gli aveva comandato, fece tortuosamente il giro molteplice della casa, serpeggiando in mille guise e trovò, che quel moto aveva contribuito moltissimo alla sua salute. Il colloquio in casa non durò molto infatti; dopo appena dieci minuti la signorina ricomparve sulla porta, ma sola, senza colui che la aveva accompagnata, e si scorgeva a prima vista che la consultazione medica non aveva avuto lo sperato successo.

Il visino di Caterina era diventato dalla emozione d'un rosso cupo, le pozzette nelle sue gotine erano scomparse, non meno che il sorriso, invece del quale intorno alla sua bocchina erasi formata un'amara espressione. Gli occhi che poc’anzi lanciavano sguardi sì birichini, ora sfavillavano pieni di collera; e tempestosamente, come se si trattasse di scampare a un pericolo personale, la signorina, senza guardare né a destra né a sinistra, corse alla carrozza, che aspettava sulla strada.

Ma ad un tratto ella s'imbatté in Gilberto, che le attraversò la via. Questo naturalmente dovè apparire affatto casuale, ma l'infelice si condusse sì inabilmente, che ad un tratto si fermò come un albero innanzi alla signorina e le ingombrò completamente la via, così che ella con un grido di spavento e d'indignazione balzò indietro:

— Signore !... — Signorina ! — balbettò egli, con tanta angoscia ed umiltà che la collera di Caterina cominciò a dileguarsi; ma la

sua voce sonava sempre irritata, quando domandò: — Signore, è forse figlio di quel.... di quel dottore Eberardo ? — No, non sono che il suo assistente. — Me ne rallegro per lei ! Sarebbe assai triste, so ella avesse quel mostro per padre ! — Oh, signorina.... il signor dottore è un luminare della scienza ! Ma Caterina disse con accento di disprezzo: — Allora deploro la scienza, e la compiango d'aver bisogno del contributo di persone simili. Il suo signor dottore è un

orso, che ingollerebbe volentieri la gente in carne e in ossa, quando andassero a chiedergli il suo consiglio di medico, ed avrebbe ingollato anche me, se non fosse intervenuto Enzo. A quel modo non sono stata in vita mia trattata mai.... uh, ma è una cosa abominevole !

E a questo punto le sgorgarono copiose dagli occhi azzurri le lacrime, e continuò a singhiozzare forte forte dalla collera e dal turbamento.

Gilberto conosceva naturalmente l'immensa ruvidezza del suo maestro, che non aveva rispetto né a sesso né ad età; egli finora non aveva osato mai di criticarnelo, ma quando vide quell’angelica creatura piangere sì amaramente, prese per la prima volta partito contro di lui e ripeté anch’esso indignato:

— È una cosa abominevole !

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Quelle parole valsero a frenare le lacrime della fanciulla; ella si asciugò gli occhi, ed esaminò con più attenzione il signor assistente.

— Dunque anche lei è medico, signor.... ? — Dottor Gilberto ! — rispose egli. — Signor dottor Gilberto.... io ho fiducia in lei ! Il giovane s'inchinò. Quella dichiarazione gli fu molto lusinghiera, quantunque gli riuscisse in certo modo

sorprendente, ma spalancò atterrito gli occhi, quando Caterina continuò: — Le piacerebbe d’assumere la cura della mia povera mamma? — Io ? ma finora non ho mai esercitato la professione. — Non fa niente; ad ogni modo, se ne intenderà sempre più che quel mostro lassù ! — disse la signorina, lanciando

uno sguardo fulminante verso le finestre. Poi dopo una pausa aggiunse: — Resta tutta l’estate qui, lei ? Gilberto rispose di sì, e cominciò fra loro una viva conversazione, cioè, viva da una parte, ma molto imbarazzata e

piena di ma e di se dall’altra; in fondo, per altro, se ne trovarono soddisfatti ambedue. Enzo intanto era rimasto nella caverna dell'orso, e per vero dire con la intenzione di domarne l'abitatore, compito

tutt’altro che facile. Infatti, appena che il dottore ebbe conosciuto lo scopo della visita, ripeté la scena del giorno innanzi col consigliere. Non lo commosse né la giovinezza né la grazia né l'amabilità di colei che pregava, e sfrenò la sua villania di modo, che Enzo offrì il braccio alla povera Caterina, tutta confusa, e la condusse fuori. Egli la pregò d'aspettarlo in carrozza, poi rientrò nella stanza, chiuse la porta dietro di sé, e disse calmo calmo:

— Ora, dottore, mi permetta di scambiare con lei due parole ragionevoli ! Eberardo che teneva trionfante il campo, lo guardò con estremo stupore. — Ebbene, che cosa vuole ? — Gliel’ho già detto, scambiar con lei quattro parole ragionevoli. Io ho dovuto mettere al riparo dalla sua brutale

villania la signorina; ma quanto a me la sosterrò, perché ho già saputo ch’ella è un uomo originale, da cui non v’è da pigliarsi per male nulla, ed ho tanto piacere di fare la conoscenza di simili tipi.

— Signore, crede forse che io sia qui per il suo piacere? — esclamò il dottore, andando di nuovo in collera. — E chi è lei ? Forse il fratello di quella Caterina Rehfeld ?

— No, soltanto parente, e mi chiamo Enzo Kroneck. Il dottore balzò in piedi, ma il giovane continuò tranquillamente: — Ma siccome mio padre aveva già ieri l’altro fatto il saggio della sua cortesia, stimai meglio che la mia cugina le si

annunziasse da sola. Me, stante il mio nome, probabilmente non mi avrebbe ricevuto. — E si è apposto ! Dunque lei è il figlio di quel talentaccio di consigliere pieno di decorazioni ! Non glie lo ha

raccontato suo padre, com’io lo misi alla porta ? — Certamente, e fu appunto questo che destò in me la voglia di fare la sua personale conoscenza. Eberardo guardò colui che parlava, come se dubitasse della propria ragione. Egli sapeva che a causa delle sue

maniere, villane all’eccesso, e della mancanza d’ogni riguardo in faccia a chicchessia, tutti lo temevano e fuggivano, e ne andava orgoglioso; ma che qualcuno venisse a cercarlo appunto per queste sue qualità, gli era nuovo, e gì' imponeva, e quando Enzo, con la maggior disinvoltura del mondo continuò:

— Ed ora permetta che io mi segga un momento, eh ? Egli mandò una specie di grugnito, il quale ad ogni modo poteva anche essere interpretato per un “s’accomodi”. Il giovane si mise senz’altro a sedere e diede intanto un' occhiata alla stanza. — È mirabile, signor dottore, ch’ella viva in tanta solitudine. Eppure ella gode nel mondo scientifico fama d'una

autorità; si parla anche ora alla capitale della sua prima cura, il cui successo parve piuttosto un miracolo, che una cosa naturale. Certo i suoi colleghi tutti quanti vanno dicendo dovunque, che lei è un cervello balzano, incorreggibile, ed un misantropo.

— Davvero ? Ci ho tanto piacere ! — disse Eberardo che al complimento solo, probabilmente avrebbe risposto con una villania, ma che era stato in certo qual modo riconciliato dall’appendice. — Mi saluti tanto i miei signori colleghi, quando tornerà alla capitale ! Del resto nel mio modo di vivere e d’agire nessuno ha diritto d'impacciarsi.

— Sì, signor dottore, l'umanità sofferente ha cotesto diritto, poiché ha bisogno del suo aiuto. — Diritto ! Aiuto ! Oh, oh ! — esclamò cinicamente il dottore. — La signora umanità deve farmi la gentilezza di

lasciarmi in pace; è già un bel pezzo che non mi occupo più di lei. — Ma in passato ella se n' è occupata. Perché non vuole più saperne, ora ?

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La domanda gli fu fatta con un tono sì inquisitoriale, ed Eberardo era così sbalordito della temerità di quel giovane di parlargli a quel modo, che dimenticò persino d’andare in collera. Al contrario mitrò allora in conversazione con lui, rispondendo:

— Perché ? Glielo dirò io, signorino ! Perché son sazio d'udir sempre e continuamente miserevoli storie di malattie, e di porre in opra tutta la mia scienza per mantenere una così meschina cosa, qual è l'esistenza. Tutti i malati s'immaginano che quel pochino di vita loro, sia il centro dell’universo, e che bisogni mettere a soqquadro per essa cielo e terra. Nulla, nulla affatto vale la vita, e quanto prima ne siam liberi, tanto meglio per noi ! E gli uomini non sono affatto meritevoli, che si alzi per loro neppure un dito. Tutti i santi giorni si ode e si legge di bei discorsi d'ideale, di filantropia, di devozione, d'abne-gazione, di sagrifìzio; e poi, se si dà un'occhiata intorno al mondo, non vi si vede altro che menzogne, inganni, infamie d’ogni genere, ipocrisia ed egoismo. L'uno si oppone all’altro, e se potesse, non gli concederebbe nemmeno quel tanto d’aria che è necessario per respirare, e tutto questo lo chiamano filantropia !

— Ma, signor dottore.... — obiettò il giovane. Eberardo non lo lasciò parlare, e continuò più

veementemente che mai: — Sì, probabilmente anche lei avrà piena la testa d'ideali, e si figurerà, che i paradisi si trovino per la strada a ogni

pie sospinto. Mi pare che ne abbia la cera; ma aspetti d'essere stato illuso, truffato, ingannato una dozzina di volte dai suoi buoni amici, dal suo caro prossimo, e vedrà che giungerà al punto, dove son giunto io. Io non voglio mentire a me stesso ed agli altri con sciocche frasi, e dico alla bella diritta a chiunque lo vuol sapere, che m'infischio dell’umanità e della filantropia. Faccio quello che mi piace, e se mi si para innanzi qualcuno a sbarrarmi la via, gli do uno spintone e lo mando da parte; ecco ciò che c’è di veramente ragionevole nella vita ! Ora lei ne sa abbastanza, e con questo.... addio !

Egli aveva parlato con veemenza sempre crescente, vomitando tutta la bile e l'amarezza accumulate nella sua solitudine, e ciò facendo aveva guardato con occhi così furibondi il suo giovine uditore, come se alla prima contraddizione lo avesse voluto afferrare alla gola. Ma Enzo fece col capo dei segni d’approvazione e poi, fattosi serio serio, rispose:

— In fondo, lei ha ragione! Ho veduto chiaramente anch’io che la vita è una ben misera cosa, e gli uomini, una società che non vai niente. Sono perfettamente d'accordo con lei.

— Hum, ella è ancora troppo giovine ! — brontolò Eberardo, il quale, dopo questa approvazione sembrò piuttosto pronto a indignarsi che a rallegrarsi.

— Non è mai troppo presto per imparare a conoscer la vita ! Siamo arrivati proprio al punto, in grazia del quale io le ho voluto fare questa visita. Dopo le spiegazioni, che ella mi ha favorite, riguardo al suo modo di pensare, non ho da temere d’esser frainteso da lei; ma la prego del più assoluto silenzio, poiché è una confidenza, ch’io le faccio.

— Silenzio ? Perbacco, dove vuol dunque andare a parare ? — Non abbia timore ch’io voglia annoiarla con qualche miseranda storia di malattia. Si tratta, è vero, d’un caso di

malattia, ma vi son di mezzo importantissimi interessi. La signorina, ch’ella ha veduto un momento fa, m’è stata destinata in isposa. Essa è l’unica erede d’un considerevole patrimonio, che per adesso si trova ancora nelle mani della sua matrigna. Disgraziatamente quella signora è malata, tanto malata, che c’è da temere il peggio.

— Con suo grande rammarico! — aggiunse sorridendo cinicamente il dottore. — Naturalmente, con nostro grande rammarico, ma dobbiamo, purtroppo, rassegnarci all’inevitabile sorte. La

signora Rehfeld è ancora giovanissima, ma i medici affermano che il suo stato è disperato, e che la prossima primavera non la troverà in vita. Probabilmente anche lei sarà della medesima opinione dei suoi colleghi, frattanto....

— Io son sempre d’opinione diversa da quella de' miei colleghi ! — interruppe il dottore, alzandosi. — Sì, quei signori sono infallibili e vi assegnano l’ora e il momento della morte.... mentre spesso il malato dà di frego al loro calcolo e vive altri venti anni.

— Certo, e appunto per questo vorrei pregarla del suo giudizio. Ella capisce bene, che desidero.... — Di beccare quanto più presto è possibile l'eredità, lo capisco ! — Prego, non m'interpetri sì male ! — contraddisse Enzo, che si era anch’esso alzato e seguiva ogni movimento

dell’uomo agitato, mentre intorno alle sue labbra s'increspava una singolare espressione. — Io deploro immensamente il caso, ma dal momento che sembra ineluttabile, e che, come le ho detto, ci son di mezzo gravissimi interessi, vorrei almeno avere una certezza. È vero che il professor Mertens.... credo ch’ell'abbia contro di lui un' implacabile animosità, almeno da quanto ho sentito dire, ma ella dovrà ad ogni modo ammettere, che egli è un' autorità di prim'ordine e un decoro della scienza.... dunque, il professor Mertens ha dichiarato che la sua arte medica non ci può fare più niente.

Eberardo, che non si accorgeva affatto, con quanta maestria veniva a bella posta aizzato, diede un pugno sulla tavola, così formidabile, che essa scricchiolò in tutte le sue commettiture.

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— Ah, questo ha detto Mertens ? Dunque cotesta grande autorità, cotesto decoro della scienza è all’estremo di tutta la sua sapienza nel caso ? Bisognerebbe vederla un po' la sua signora suocera !

Negli occhi del giovane guizzò un lampo di trionfo, ma rispose con tutta flemma: — Volevamo appunto pregarnela, signor dottore. Certo, quando un uomo come il professor Mertens.... — Si cheti col suo professor Mertens.... domani sarò da lei ! — urlò il dottore, furibondo. — Le ne sarò gratissimo, ma ancora una cosa, lo ho la sua parola, che tutto quello che abbiam discorso qui a quattr'

occhi resta fra noi, non è vero ? — Sì, sì, resta fra noi ! — ripeté Eberardo. — Ma proprio qui fra noi, a quattr' occhi, anche a lei vorrei dire, che è un

vero e magnifico esemplare di genero! Ella si spingerà molto avanti nella sua scienza della vita ! — Ma, signor dottore, questa non è che la semplice conseguenza legittima delle idee, che un momento fa mi ha

dichiarate per sue — rispose Enzo, tenendogli fissi in faccia gli occhi. L'osservazione colpì sì giusto, che il dottore non rispose; egli aveva afferrato un libro e percuoteva con esso la tavola,

guardando intanto fìsso fìsso il giovane, come se volesse leggerne i pensieri. — Ma quanti anni ha, dunque ? — Ventisette. — Per cotesta età, certo lei la sa molto lunga. Io, alla sua, ero un semplicione bonario, che credeva a tutti i possibili

ideali. Ma lei ha perfettamente ragione, e mi fa piacere, d’aver di nuovo proferito sugli uomini un giudizio esatto, mi fa tanto piacere ! Addio, signor Enzo Kroneck !

Il commiato non fu de' più cortesi, ma sembrò che Enzo non se ne accorgesse, poiché si congedò con la più amabile gentilezza. Appena che fu uscito, il dottore scagliò il libro lontano da sé.

— E’ un calcolo infame bello e buono ! E costui non si è vergognato ad accennarmelo apertamente ! E dire che ha un volto e certi occhi, che uno ci si riscalda a guardarvi dentro ! Ma, grazie a Dio, se nella signora suocera c’è ancora un raggio di speranza, voglio ristabilirla in salute, quant'anche ci dovessi faticare intorno un anno ! E tu, signor genero, dovrai aspettarla l’eredità !

Intanto Enzo scendeva le scale. Egli trattenne a stento le risa, perché di sopra c’era Martino, che lo seguiva con gli occhi, ma mormorò sommessamente:

— Ti ci ho preso, vecchio misantropo ! Ci sei caduto nella trappola ! Quindi uscì da quella casa e rimase sorpreso di non trovare Caterina in carrozza, come aveva fissato. Essa era nel

giardino e si trovava in compagnia del giovine medico, che poc’anzi era nella biblioteca del dottore e che era stato mandato sì repentinamente a spasso. Al comparire del suo cugino, ella si voltò ed esclamò:

— Finalmente sei venuto, Enzo ! Non so donde tu abbia attinto il coraggio di restar per tanto tempo con quell’orso. — L'orso è ammansito ! — disse Enzo, sorridendo. — Ha promesso la sua visita medica per domani. — Impossibile! Come hai fatto ad ottener questo? — II dottore Eberardo le ha promesso una sua visita ? — domandò anche Gilberto, pieno di stupore. — Sicuro, e son convinto, che mi manterrà la parola. — Il signor Gilberto, assistente di quel.... di quel signore lassù — disse Caterina, presentandoglielo. — E come ciò

combini, non lo capisco neppur' io, poiché mi ha già concesso, che il suo maestro è addirittura un orso. — Oh, no, signorina, questo non l’ho concesso

— contraddisse Gilberto. — Io ho trovato soltanto imperdonabile, che egli abbia trattato in tal maniera anche lei. Ed accentuò quest’ultime parole in modo, che Enzo trasalì e li guardò fissamente ambedue. — Ebbene, proveremo insieme ad addomesticarlo

— rispose egli. — Lei accompagnerà pure il suo maestro, quando viene alla villa Rehfeld, non è vero ? — Naturalmente, lo accompagnerà — soggiunse con gran convinzione Caterina. — Come le ho detto, signor dottore,

io ho fiducia in lei, gran fiducia, e le raccomando la mamma; non è vero, Enzo ? Anche Enzo sembrò a un tratto preso da una gran fiducia, poiché prese la mano del giovine medico e la strinse

amichevolmente. — Ella sarà il benvenuto a casa nostra. Ma ora andiamo; Caterina, bisogna incamminarsi verso casa. Le offrì il braccio e la condusse alla carrozza. Gilberto che non era avvezzo alle debiti attenzioni verso le signore, non

pensò ad accompagnarla fin là, ma restò come radicato al suolo. La signorina mise su un po' di broncio per quella scortesia e salì ratta in carrozza. Ma quando volse di nuovo lo sguardo fuori dello sportello e vide il giovine là fermo in pieno oblìo d’ogni cosa, con gli occhi fissi verso di lei, ricomparve su quel suo visetto quel vezzoso risolino malizioso, e un leggiero cenno della sua testina mostrò all’inesperto, che non se l’era avuto a male.

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Enzo aveva esattissimamente notato tutto ciò, ma fece cenno al cocchiere di partire, mentre aggiungeva con la massima indifferenza:

— Una piacevole figura, quel dottor Gilberto ! — Pare anche a te ? — domandò tutta contenta Caterina. — Certo, mi sembra modesto ed amabile, forse troverete in lui una gradita conversazione, poiché quando saremo

partiti io e Guido, la villa diventerà molto solitaria. Sarei proprio contento di sapere, che tu, qualche volta almeno avresti della compagnia.

— Tu sei tanto buono, Enzo ! — disse Caterina con accento di gratitudine, mettendo di nuovo il capo fuori del finestrino.

Ma Enzo diede in uno scoppio sfrenato di risa. — Naturalmente, io sono il più buono e disinteressato di tutti gli uomini; domandane al dottore Eberardo, che te lo

confermerà. Ma in fondo, ha ragione, nel mondo tutti siamo egoisti !

IV.

La partenza di Kroneck e di suo figlio era decisamente fissata per i primi della settimana seguente, e Hellmar non poteva, naturalmente, continuare solo ad essere ospite della signora Evelina, quantunque ne avesse gran voglia. Anche lui dunque si preparò a prender commiato. Era nelle ore antimeridiane, e nella sala si erano abbassate le cortine ed aperta per metà soltanto la porta, che metteva sul balcone, cosicché vi regnava una mite penombra. La signora Rehfeld stava peggio del solito; ella aveva dovuto scontare la sua passeggiata fino in cima alla collina e l’essersi troppo a lungo trattenuta all’aria della sera, con un giorno di sofferenze, e non si era lasciata vedere a nessuno dei suoi ospiti. Oggi ella giaceva languente sul sofà, e accanto a lei sedeva Hellmar, che solo era rimasto al suo posto, mentre tutti gli altri, per lasciare in quiete la malata, dopo la colazione, si erano ritirati.

Egli parlava con voce tenera e sommessa del male che aveva fatto anche a lui il suo peggioramento, dell’inquietudine che lo divorava, della felicità di averla potuta rivedere, e finalmente venne al tema del commiato, che gli amareggiava la gioia di trovarsi in sua presenza. La giovane signora ascoltava con un languido sorriso, ma Guido si accòrse subito che era distratta. Il di lei occhio errava sempre fuori per il giardino, da cui giungeva fin li un rumore lontano di voci. Infatti sul prato grande Enzo e Caterina giocavano alla palla, e, come di solito, si punzecchiavano e gridavano. Hellmar fece ancora alcuni tentativi per incatenare l'attenzione della signora, e non riuscendogli, troncò le parole, si alzò e chiuse la porta del balcone.

— Ecco un' altra mancanza di riguardo da parte di Enzo! — esclamò. — Egli lo sa, quanto ella soffre, e ciò nondimeno fa qui sotto tutto quel chiasso.

Le voci non erano per l'appunto lì sotto, né producevano un chiasso, perché la lontananza le attutiva considerevolmente; ma, ad onta di ciò, la signora parve esserne molestata, e rispose con manifesta amarezza:

— Lo lasci fare ! A lui il commiato non riuscirà così doloroso, come a lei, eppure Caterina rimane qui. Hellmar crollò le spalle con un certo suo sorriso che diceva tanto. — Enzo è una farfalla da cui non si può esigere altro, che un leggiero e capriccioso svolazzare. Lei sa, quanto egli mi

è caro, e quanto volentieri ne scuso i difetti, ma qui non si tratta punto d’un difetto, bensì d’un' assoluta mancanza nel suo carattere. È impossibile ch’egli senta seriamente e profondamente.

— Io credo, che se vuole, lo può — disse Evelina sommessamente. — Ma egli sbeffa e deride ogni sentimento serio e profondo, come se se ne vergognasse.

Era la prima volta ch’ella prendeva parte per il suo giovine parente, e Guido sembrò rimanerne sorpreso, ma rispose con la più grande amabilità:

— Forse ella ha ragione, illustrissima signora ! Io non conosco certamente Enzo da cotesto lato, benché mi sembri di conoscerlo perfettamente; ma le donne sogliono penetrare col loro acuto sguardo più a dentro assai in simili cose. Sarei davvero felicissimo, s’ella avesse veduto questa volta meglio di me. Ella non può immaginare, quanto mi pesi di dover essere per l'appunto io, costretto a rivelarle cose, che volentieri avrei taciute, e che del resto non sono d'alcuna importanza! Si tratta soltanto in questo caso di leggerezza giovanile. Ma ella volle assolutamente tutta intera la verità, e non mi fu permesso di tacergliela.... e tuttavia mi pesa d'aver dovuto così gettare un' ombra sul mio caro Enzo.

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— Ma ella fece tutto il suo possibile per disgravarlo, tanto che non avrebbe potuto trovare un migliore avvocato — disse Evelina. — Del resto sono disposta a darle ragione, dacché....

Ella s’interruppe a un tratto. Avrebbe voluto far menzione del colloquio che aveva avuto con Enzo sulla collina e della promessa fattale. Era tanto naturale, che Hellmar, che aveva dato occasione a quel discorso ne sapesse anche l’esito, ma ciò nonostante la signora non se ne lasciò sfuggire neppure una sillaba. Il ricordo di quella sera di primavera le era rimasto nel" anima come un sogno, come qualche cosa d'inaccessibile; ella aveva dentro di sé un confuso presentimento, come se le si dileguasse un olezzante sogno primaverile, se avesse osato toccarlo anche con una sola parola.

Hellmar non aveva questa volta badato al suo improvviso silenzio; egli aveva per la mente altri pensieri. Un' occhiata ch’ei gittò a traverso al giardino gli mostrò che Enzo e Caterina erano ancora tutti intenti al loro giuoco, e siccome il consigliere trovavasi nella sua stanza a scriver lettere, non v’era da temere d’altra parte qualche importuno disturbo. Il giovine poeta che non a caso aveva ricercato questo colloquio, trasse fuori un manoscritto e chiese ad Evelina il permesso di leggerle una poesia ch’egli aveva composta il giorno avanti.... giorno di sofferenza per l'ammalata.

I languidi lineamenti della signora si animarono; una poesia di Guido Hellmar aveva sempre diritto al suo interesse e si drizzò a sedere, quando egli cominciò la lettura. Erano bei versi, senza mende, quantunque la loro bellezza fosse più di parole, che di sostanza, ma recitati da quella voce dolce, melodiosa, essi, accarezzavano l’orecchio come una musica; il tenero e mesto sentimento ch'essi esprimevano, trovava un' eco nel cuore della giovine donna. Ella ascoltava con una limpida lacrima negli occhi, e

Evelina trasalì spaventata, quando egli ad un tratto le cadde ai piedi in ginocchio, e cominciò una dichiarazione d'amore..., (Pag. 84.)

quegli occhi eran fissi sur un vaso di fiori che stava vicino a lei sul caminetto. Non vi era dentro che un unico ramoscello carico di fiori, il quale, quantunque fosse stato colto il giorno innanzi, aveva pur conservato tutta la sua freschezza. I fiori azzurri col calice purpureo e la coroncina d’oro nel centro, erano pienamente sbocciati, e pendevano giù inchinandosi, come per salutare, il pallido e delicato viso che li guardava.

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Guido leggeva con crescente emozione. Egli aveva trattato molto poeticamente l'argomento del crisantema, che si volge al sole, ed aveva dato nella sua lirica, a se stesso, la parte del sole. Quand'ebbe finito, piegò il foglio, che portava la soprascritta: “A una rosa, che appassisce”, e lo consegnò alla giovine signora, i cui occhi bruni, inondati di lacrime, incon-trarono i suoi.

— L’ho compreso — disse sommessa — e anche lei m'intenda interamente ! Ella solo comprende, che mi fa male, quando quelli che mi circondano, tentano d'illudermi ancora con delle speranze.... io la ringrazio.

Essa gli porse la mano, che egli si recò alle labbra, premendovele sopra con ardente trasporto. — Oh, no, illustrissima signora ! S’ella sapesse che cosa è stata per me la sua vicinanza, il suo aspetto, intenderebbe

che son io che debbo ringraziarla, non lei ! Evelina gli lasciò senza resistere la mano. “L'omaggio del cantore d’amore” come diceva beffando Enzo, le faceva

immensamente bene, ed ella lo accettò ingenuamente. Quel vincolo d'amicizia col giovine poeta era sì ideale, sì puro, che non vi aveva luogo neppure l’ombra d’un desiderio terreno. Hellmar sapeva così bene come lei che i suoi giorni erano contati, e che il suo delirio d'amore aveva per oggetto una morente. Ma ella trasalì spaventata, quando egli ad un tratto le cadde ai piedi in ginocchio, e cominciò una dichiarazione d'amore in stile alto, romantico, appassionato, e in pari tempo con l'accento della certezza della vittoria, come se egli fosse sicuro di essere eletto e prediletto, e finì con una formale domanda della sua mano.

— Hellmar, per l'amor di Dio, che è questo mai ? — esclamò la povera signora, padroneggiando a stento il proprio turbamento. — Lei parla d'amore, di felicità, d’unione, e sa pure che tutto ciò è per me finito, che' mi son dati forse alcuni altri mesi....

— Che m'importa ? — la interruppe Guido, tempestosamente. — Non so niente, non voglio saper niente, se non ch’io l’amo, Evelina, e che lei dev’esser mia, fosse anche in presenza della morte ! Che cosa è mai una vita intera di tormenti, d'in-quieto desìo in paragone della felicità d'un solo anno, in cui si avvera il sogno di questa vita ? E se realmente ci venisse concesso un anno di simile felicità, noi ad ogni modo lo avremmo goduto ! Io voglio custodire il mio delicato fiore da ogni soffio di vento, voglio portarlo sulle mie braccia per l’esistenza, o breve o lunga che ci sia destinata. Pronunzi il desiato “sì” Evelina, diventi mia moglie e mi renda il più felice degli uomini !

Evelina lo udiva stordita, confusa; non avrebbe mai potuto immaginare che Hellmar potesse amarla a quel modo, sfidando anche il fato, che le sovrastava. Ella diceva a sé stessa che quello era delirio, temerità, eppure la coscienza d’essere amata sì ardentemente la ammaliava con tutto il suo pericoloso fascino. Ella non aveva mai conosciuto amore e felicità; dopo una gioventù di tristezza e d'abnegazione, il suo matrimonio come compagna e infermiera del vecchio Rehfeld, non era stato che una nuova catena di gravi doveri, e quando la morte del marito le rese in piena giovinezza la libertà, le sopraggiunse anche a lei la fatale ammonizione di prender congedo dalla vita, che soltanto allora cominciava ad aprirsele innanzi. Doveva ella dunque respinger da sé l’ultima felicità, che le si offriva sì tardi veramente, ma sì lusinghiera?

Ella tentò bene di schermirsi, di negare, ma la sua voce era soffocata dalle lacrime e dai singhiozzi, e a traverso al velo del suo pianto vedeva i belli occhi neri di Guido, che scintillavano d’amore verso di lei, ne udiva la tenera, supplichevole voce. La sua resistenza cominciò a cedere a quelle ardenti preghiere e proteste d’amore eterno, e lentamente, esitando si chinò sul giovane inginocchiato per alzarlo, e già le spuntava sulle labbra il decisivo “sì”.

A un tratto qualche cosa le sfiorò la fronte, leggiero e freddo, come il tocco della mano d’uno spirito, e un olezzante ramoscello adorno di fiori le cadde nulle ginocchia. I fiori pienamente sbocciati dovevano col loro peso aver tirato giù il tenero stelo naturalmente, ma agli occhi d’Evelina quel cupo azzurro dei fiori scintillò come un' ammonizione, come un avvertimento.... come un rimprovero.

Hellmar volle rapidamente impadronirsi del ramoscello, per annodare al caso qualche gentile espressione poetica, ma la mano della giovine signora si strinse con un moto quasi angoscioso intorno al ramo, e mandando un profondo sospiro si alzò in piedi.

— No, Hellmar, sarebbe temerità ! — disse allora. — Sarebbe un accoppiare la vita alla morte ! Se lei perde il senno, tocca a me ad averlo per ambedue.... è impossibile !

— Non sia sì crudele, Evelina ! — supplicava Guido ancora in ginocchio. — Veda, il destino è più pietoso di lei, cotesto segno parlò per noi. Mi dia questo fiore come pegno della mia felicità.

Egli tentò di nuovo di prenderlo, ma Evelina fece un gesto d'assoluto diniego. Cosa strana! Quel velo di sentimentalismo e di romanticismo insieme, in cui il giovine poeta aveva sì maestrevolmente saputo avvolgere i suoi sentimenti, sembrò a un tratto squarciato, e la di lei voce sonò tranquilla, quasi fredda, quando rispose:

— Ho interpetrato il segno altrimenti. Un' unione, come ella richiede, vien conchiusa per la vita, e questa, io non ho più da poterla dare. Ella un giorno mi sarà riconoscente dell’averle ora detto un irrevocabile “no !”

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Sul volto di Guido si dipinse un amaro disinganno, mentre lentamente si alzava. — Ella ha pronunziato la mia sentenza di morte! — disse tragicamente. Ma neppur queste parole fecero l’effetto sperato; Evelina sembrò ad un tratto divenuta assolutamente inaccessibile a

simile linguaggio. — Lei vincerà il suo dolore — rispose affettuosamente, ma recisamente. — Un uomo come lei appartiene al mondo,

alla vita e non al capezzale di un' ammalata, d'una moglie che sta morendo. Restiamo amici come finora; questo è l’unico legame possibile fra noi.

Guido tacque, non meno offeso che sorpreso dall’esito. Egli per vero non dubitava della propria irresistibilità, ma ad ogni modo vide chiaramente, che aveva trovato da rodere un osso assai più duro di quello che s’era sognato nella certezza della vittoria. Per il momento non c’era da insistere oltre, poiché entrò Kroneck e ancor sulla soglia esclamò:

— Quell’Enzo è un vero mago ! Ho visto già dalla finestra la carrozza del dottore Eberardo, che viene a questa volta. Evelina si alzò sorpresa; sebbene la visita medica le fosse già stata annunziata, essa aveva continuato a dubitarne; ma

in quel momento saltò nella stanza anche Caterina. — Davvero, Enzo ha potuto ottenerlo; ecco il dottore Eberardo.... col suo assistente — annunziò in aria di trionfo. —

Ma, cara mamma, bisogna che ti prepari a sopportare i suoi modi villani. Certo ti risparmierà, perché sei malata, ma temo che la sua natura d’orso s’abbia a far conoscere.

Enzo intanto aveva ricevuto in giardino il temuto e pur tanto desiderato dottore, e lo accompagnò nella sala. Il dottore del resto fece tutto onore alla sua fama. Egli fece sì una specie di saluto, ma poi non si curò né punto né poco degli astanti, s'impadronì immediatamente della malata e anche con essa non si perde in preamboli, e dopo le prime domande generiche, disse in tono di comando:

— Ora prego questi signori di ritirarsi. Lei, Gilberto, resti, e anche la piccina può trattenersi. Caterina fece il viso di porpora dalla collera; per fortuna i suoi occhi incontrarono quelli del dottor Gilberto, e vi lesse

che anche lui sentiva lo scandalo di simile offesa “anche la piccina !» e ciò consolò alquanto la signorina. Ella si contentò d'un tacito disprezzo e si mise rassegnata al fianco di sua madre.

I signori si erano intanto ritirati in una delle altre stanze. Il consigliere e Hellmar passeggiavano in su e in giù chiacchierando, mentre Enzo stava alla finestra e teneva in mano un foglio, che aveva raccolto poc’anzi sul pavimento della sala. Esso era sdrucciolato sul tappeto ed era rimasto lì inavvertito, ma il giovane l’aveva veduto, ed ora le sue labbra si con-traevano ad un riso beffardo, mentre leggeva.

— Daccapo, una “rosa che appassisce !” E con quanta insinuazione le si vuol fare intendere ch’ella si volga: “al raggio del sole”, che naturalmente è Guido Hellmar in persona ! Oh, oh; si fa sempre più commovente, e la chiusa nuota già in un mare di lacrime ! S’ella non fosse ammalata e sovreccitata.... davvero non comprendo, come potrebbe resistere a simile guaito !

— Che cos’hai ? — domandò Guido, che si era avvicinato alla finestra e che per sua fortuna non sapeva che in quell’istante era stato commesso il delitto d’aver chiamato quella sua poesia “guaito !”

— Una delle tue poesie.... probabilmente essa è destinata alla signora Evelina — disse Enzo, porgendogli il foglio, che Hellmar si affrettò a prendere.

— Certo, ma essa era destinata a lei sola — rispose indignato. — Mi pare che sia una gran mancanza di riguardo, l’aver senz’altro presa questa poesia dal suo tavolino.

— Prego, l’ho raccolta dal pavimento. Essa era là sul tappeto, ed era anche possibile che il dottore Eberardo così prosaico, calpestasse il tuo parto e lo lacerasse.

Guido si morse il labbro e ripose in tasca il foglio, quando a un tratto comparve Caterina, che tutta agitata, piangendo e singhiozzando si gettò su una sedia.

— Oh, Enzo, che abbiamo mai fatto ! Oh, se tu non avessi mai avuta l'idea di costringere quell'Eberardo a una visita! La povera mamma giace là quasi in convulsione, e quel mostro pare che ci goda.

— Che cosa c’è ? Che cos’è stato ? — domandarono Kroneck e Hellmar contemporaneamente. — Quello è un pazzo furioso ! Quello è un vandalo, a quello che fa ! Ha alzato tutte quante le cortine, spalancato le

finestre, ad onta che la mamma gli avesse dichiarato che non poteva sopportare la vivida luce del sole e l’aria pungente. E siccome essa dallo spavento e dall’agitazione ha cominciato a piangere ed io con lei, ci ha gridato che simili scempiataggini non le voleva, e che non era venuto per mettere in azione le nostre glandule lacrimali. Poi mi ha mandato via, e ora la povera mamma si trova sola nelle sue mani. Se non vi fosse il dottor Gilberto, in cui io ho pienissima fiducia, temerei qualche cosa di terribile.

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— C’era da aspettarselo ! — proruppe Guido, a cui non parve vero di coglier l'occasione per sfogare la sua bile. —1 Fin di principio sono stato contrario a chiamar qua quell’uomo, che per la sua brutalità si è reso impossibile così per l’esercizio, come per la cattedra, e ad affidargli una malata così delicata e bisognosa di riguardi. Ma Enzo non ha voluto darmi ascolto e ha voluto fare di suo capriccio !

— Sì, anch’io, che avevo già imparato a conoscere la sua brutalità, ero contrario a che se ne facesse una seconda prova ! — aggiunse Kroneck. — Tu hai precipitato, Enzo, ed hai fatto male !

Enzo che invece di ringraziamenti per una missione sì felicemente riuscita, riceveva soltanto rimproveri, prese la cosa con molta calma.

— Lo sapevamo di già che avevamo che fare con un originale, e che dovevamo esser preparati a tutto — rispose egli. — Sembra proprio ch’egli riprenda per i capelli i suoi malati all’ultimo tuffo. Aspettiamo intanto l’esito di questa visita.

— Per i capelli all’ultimo tuffo ! Che espressione da far drizzare i capelli ! — osservò Guido con l'intenzione di pungere. — Sembra proprio che tu sia un po' parente di quel signor dottor Eberardo.

Caterina al contrario preferì d’aspettare l’esito della visita in giardino. Forse nutriva la segreta speranza che il giovane assistente sarebbe stato mandato a spasso anche lui, ma questa volta non accadde; invece le si accompagnò Enzo; ma egli era sì taciturno e distratto, che la conversazione non riusciva a farsi strada.

Il dottore Eberardo, a quanto sembrava, aveva preso molto a cuore e molto sul serio la cosa, poiché la visita durò quasi un' ora.

Quando finalmente lasciò la malata, erano ad aspettarlo nell’anticamera il consigliere e Guido. Quest’ultimo se gli fece incontro con tutta quanta la consapevolezza dell’uomo celebre, che è avvezzo a trovar per tutto attenzione e rispetto. Il suo nome era stato poc’anzi proferito nella presentazione; dunque si doveva certo conoscere il poeta Hellmar.

— Ella ci ha messi ad una dura prova, signor dottore — diss’egli. — Ci struggevamo quasi dalla impazienza e dalla inquietudine. Ci dica, ci dica, come sta la cara signora? Che ci dà da sperare o da temere?

Eberardo non rispose sillaba; squadrò l'interrogante dal capo a' piedi, e non gl'impose né la bella testa, né l'abbondante zazzera, né la melliflua voce; anzi il portamento presuntuoso del signorino finì per inasprirlo completamente. Egli rispose, finalmente, sbuffando in faccia al celebre poeta, come a un mortale qualunque, che gli fosse capitato fra i piedi ad importunarlo.

— Ciò riguarda me, e niente affatto lei ! Crede forse, ch’io soglia legare al naso del primo che mi capita il risultato delle mie osservazioni ? La “cara signora” soffre di nervi, ecco tutto, e bisogna prima d’ogni cosa raddrizzarle la testa. Oggi le ho dato la prima dose di ragione; il resto verrà dopo.

E ciò dicendo, lasciò lì Hellmar tutto sbalordito, e si volse al consigliere, evidentemente con la intenzione di pigliarsela anche con lui. Ma il vecchio ne era oramai sì impaurito, che ebbe appena il coraggio di fargli un inchino, traendosi però tre passi indietro. Quest’atto mitigò alquanto il dottore, che vide con soddisfazione, quanto era diventato umile al suo cospetto l’uomo dai ciondoli. Perciò lo degnò con un gentile accenno del capo e passò oltre, mentre Gilberto si studiò di rimediare in qualche modo alla zotichezza del suo maestro con un inchino infinitamente cortese.

In giardino Enzo si fece incontro al terribile Esculapio, su i lineamenti del quale era dipinta e palese una gioia, una soddisfazione indicibile, quando scòrse il giovinotto.

— Ah, è qui lei, signor Enzo Kroneck ! Dev'esser senza dubbio in grandissima curiosità, lei, di sapere il risultato della mia visita, non è vero ?

— Sì e no — rispose Enzo, accostandosegli. — In fondo, in fondo, posso facilmente immaginarmi, che lei è dell'opinione del suo collega, e che per lo meno su questo punto si trova d'accordo col professore Mertens.

— Lei crede, eh ! ? — rispose Eberardo, digrignando i denti dal piacere. — Non faccio cosi presto io a sbrigarmela co' miei pareri, come il signor collega Mertens, la grande autorità ! Uno stato molto complicato.... soggetto sommamente interessante per la scienza.... e lo studierò a fondo. Mi assumo la cura della signora Rehfeld.

Negli occhi del giovane guizzò un lampo, come quando gli venne assicurata la visita, ma rispose con un accento, in cui quasi sentivasi la punta del dispiacere:

— Oh, è troppo più di quello che ci potevamo aspettare. Non vogliamo né possiamo osare d'usurparle il suo preziosissimo tempo.

— Ne usi pure liberamente ! — si affrettò a rispondere il dottore, i cui occhi brillavano di maligna contentezza. — Fra tre giorni son qui di nuovo, e tutti i giorni, se è necessario, semplicemente per farle piacere. Gilberto, che diavolo ha ella da cercare colassù ?

Infatti Gilberto aveva profittato del colloquio dei due signori per fare innocentissimamente una giratina, e siccome Caterina dal canto suo si avviava parimente verso casa facendo però un giretto un po' più ampio, stavano per incontrarsi,

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quando intervenne il dottore con la sua voce altitonante. Il giovane si spaventò e corse al fianco del suo maestro. Ma questi, alla cui memoria doveva essersi riaffacciato il piatto di cristallo andato in frantumi il giorno prima, lanciò a Caterina un'occhiata furibonda, quindi afferrò rapidamente per il braccio il suo assistente, e non lo lasciò andare, finché non furono tutti e due in carrozza. Enzo si accomiatò da loro con la più grande cortesia, ma quando fu rientrato in casa, disse trionfando:

— C’è speranza.... lo sapevo ! Intanto in sala tutto era sottosopra. Si vedeva a prima vista che c’era stato quella razza di dottore, e che aveva lasciato

manifeste tracce di sé. Quel piacevole crepuscolo romantico era sparito, e con esso certo anche l’aria cupa e pesante. Per le finestre spalancate inondava ogni cosa la piena luce del sole, e insiem con tutto questo Evelina giaceva quasi svenuta sul sofà, mentre la cameriera le rinfrescava a furia di pezzette la fronte e le tempie. Guido, che non poteva dimenticare d'essere stato chiamato il migliore, il primo degli amici, giurò e spergiurò altamente che non soffrirebbe, che un cotal uomo ponesse di nuovo il piede sulla soglia di quella casa. Il consigliere lo appoggiava con tutte le sue forze, e in quel momento comparve anche Caterina, che raccontò la tremenda storia, come quel pazzo furioso di dottore aveva acciuffato il suo assistente, quel modesto ed amabile giovane, e trascinato come una vittima a traverso al giardino.... soltanto perché egli si era allontanato d'alcuni passi da lui.

V.

Il poderetto al monte, possesso del vecchio Ambrogio, corrispondeva al suo nome, poiché era situato nella montagna. Ci volevano quasi due ore per salirvi; esso non era del tutto misero, ma nemmeno discreto. Ad ogni modo il possessore vi campava, e dacché gli era morta la moglie, abitava nella casupola insiem con una vecchia fantesca e con un garzone addetto al bestiame. Che ogni rapporto con la valle diventava limitatissimo e cessava affatto nell'inverno per qualche tempo, appariva naturale, vista l’ubicazione del podere, e nessuno ne sapeva male al montanaro, se viveva colassù quasi come un eremita, e se soltanto le domeniche scendeva alla chiesa e si lasciava vedere all’Osteria della Valle. Egli non vi era troppo ben visto, a causa della sua natura aspra e selvaggia, ma ciascuno lo rispettava, perché passava per il migliore alpinista di quei dintorni; e se c’era qualche gita pericolosa, che venisse intrapresa, c’era anche immancabilmente Ambrogio.

Egli stava, al punto del nostro racconto, in casa a chiacchierare con un contadinotto, che col suo bastone alpino in mano ed il sacco sulle spalle, pareva pronto e preparato a qualche gita. Era un vigoroso giovanotto, dagli occhi peraltro assai foschi; egli diede un' occhiata al sole già cadente e disse laconicamente:

— Addio! bisogna, ch'io parta. — Hai tanta fretta ? — domandò Ambrogio. — Non ti sei ancora riposato; trattienti ancora un momento. — Non posso! Bisogna che prima di notte sia nella valle, l’ho promesso. — Certo dalla Gondela dell’oste della valle ! E come va, Vincenzo, fra voi due ? Vincenzo si voltò, e il suo viso si fece anche più fosco, mentre a mezza voce rispondeva: — Che lo so ? C’è entrato qualche cosa di mezzo ! — Che ? Io credeva che foste perfettamente d’accordo fra voialtri. — Me lo credevo anch’io, ma è capitato un altro ad attraversarmi la strada. Un mascalzone, che non è nemmeno de'

nostri posti ! S’è avvicinato alla ragazza, e con le sue chiacchiere, con le sue moine, le ha fatto girar la testa, già da qualche settimana. E io.... — e batté violentemente il piede in terra, mandando una terribile imprecazione — me ne stavo intanto lassù a casa e non sapevo nulla della storia. L'ho saputo domenica passata alla chiesa da de' compagni.

— Ma con Gondela ci hai parlato ? — Certo; ma non m’ha risposto a tono. E affatto cambiata; v’è mancato poco, che non mi abbia confessato ogni cosa.

Ma badi bene a quello che fa ! Da semplicione non voglio passare, e suo padre è dalla mia. — Lo credo io — rispose Ambrogio. — All'oste garberà sempre più il figlio del ricco contadino, Vincenzo Ortler, che

un vagabondo di questi monti pieno di miseria. Lo hai veduto già costui ? — Una sola volta e da lontano, ma tanto da riconoscerlo però. Se lo trovo con lei, Dio l’abbia in grazia, e si raccomandi

a lui. — Tu fa' bene! — disse il montanaro. — Mandalo a casa sua, e fa' vedere alla ragazza chi tu sei. Bisogna agir così con

le donne. Addio, Vincenzo. Si separarono; il giovanotto prese la china per la valle, ed era circa un quarto d’ora che scendeva, quando si fermò ad

un tratto e ficcò gli occhi giù per il sentiero della rupe, che serpeggiava per l'erta dirimpetto a lui. Egli scòrse un viaggiatore,

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svelto, dall’aspetto signorile, vestito da alpinista. Esso saliva con un passo così svelto e leggiero, come se l’erta gli fosse un giuoco, e appunto in quell’istante guardò su verso l’altura, su cui era situata la casa del montanaro.

Vincenzo stava là come un cacciatore che trattiene persino il respiro, quando ha scorto la selvaggina. Per un minuto sembrò incerto, ma poi una feroce soddisfazione gli si dipinse sul volto, e si piantò in mezzo alla via, su cui precisamente si avvicinava lo straniero.

Enzo Kroneck infatti andava al podere a monte a trovare il vecchio montanaro. Aveva fissato per l'indomani, ultimo giorno che gli rimaneva, la salita sul Picco della neve con Ambrogio e voleva pernottare in casa sua, per partire la mattina all’alba con la sua guida.

Egli guardava con una certa meraviglia il contadino, che gli sbarrava la strada, ma non poteva immaginare nello sconosciuto un' intenzione ostile contro di lui.

— Salute ! — diss’egli serenamente, e si fermò, come per aspettare che Vincenzo sgombrasse; ma questi restò fermo al suo posto e domandò con occhi biechi:

— Dove va, signore ? — Alla casa al monte. — Ne vengo ora. — Ah, sì; e Ambrogio c'è ? — Sicuro, e anche la vecchia Crescenzia c’è. Se il signore vuol vederla.... ma non franca la fatica. Enzo diede in uno scoppio di risa. — No, davvero, che non vale la fatica. Del resto io la stimo molto la vecchia Crescenzia, poiché sa cuocere

un'eccellente focaccia. “Per guardare” mi cerco proprio di meglio; ma ora fate posto e lasciatemi passare ! Vincenzo si appoggiò al suo bastone alpino e guardò torvo il giovane che rideva. — Ha tanta fretta ? Prima ho bisogno di scambiare due paroline con lei, signore ! — Con me ? — Sì ! Non mi conosce ? ma io conosco bene lei! — Mi fa piacere — disse Enzo, che cominciava a divertirsi alle spalle di quel villano. — E chi siete ? — Mi chiamo Vincenzo Ortler e ho da sbrigare qualche cosa con lei. Conosce lei la Gondela dell’Osteria della Valle ? — Chi non la conosce la graziosa figliuola dell’oste della valle ? — rispose Enzo, senza un sospetto al mondo. — E’

forse lei, che vi manda da me ? — La Gondela ? Come ? E forse con essa al punto, che le mandi dell'ambasciate? — replicò quello, quasi furibondo. Si appressò, ciò dicendo, al giovane, con gesto minaccioso; ma egli restò lì calmo, e incrociando le braccia, disse con

tutto sangue freddo: — Badate, Vincenzo Ortler! Voi mi venite troppo vicino con cotesto bastone, e ciò non mi fa piacere. Quel freddo accento ponderato e superiore ebbe il suo effetto; il contadino si morse il labbro e si trasse lentamente

indietro. — Ebbene, che cosa volevate dirmi ? — domandò Enzo dopo un breve silenzio. Vincenzo non rispose subito; squadrò muto il suo avversario, come se volesse calcolarne la forza. — Io voglio bene a quella ragazza.

Bene ! E che altro ? — Che altro ? Io non tollero, ch’ella chiacchieri coi signori di città e faccia la bella. — Proibiteglielo. Vincenzo rise amaramente. — Se giovasse ! Gondela fa quello che vuole, e quando sa, che una cosa mi dispiace, allora sì che la fa! — Oh, è un bell'amore codesto! — rispose Enzo in tono beffardo. — Ma, dopo tutto, che diritto avete su quella

ragazza ? È vostra promessa sposa ? — Se non fosse venuto intorno lei — rispose ferocemente Vincenzo — a quest’ora lo sarebbe stata da un pezzo; ma da

quel tempo in qua, non se ne fa più niente; alle corte, a che punto è lei con Gondela ? La domanda, specialmente fatta in quel modo, avrebbe meritato una scrollata di spalle, e di piantar lì senz’altro il

villano; ma Enzo al contrario prese interesse per lui, e con un certo suo risolino rispose: — Vincenzo Ortler, è una grande sfacciataggine la vostra, sorprendermi senz'altro qui in mezzo della via e venirmi

fuori con le vostre storie; ma per quanto il vostro modo d'agire sia strano, pure mi restate simpatico. — Che me ne importa ? Mi vuol rispondere o no? — No, se mi domandate a cotesto modo, e mi pigliate contro pelo.

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— Ci pensi, signore; perché se non ci accomodiamo fra noi qui con le buone, allora.... — Allora, che cosa? — Potrebbe accader del male ! — Perché cotesta minaccia ? Io non son uomo da lasciarmi imporre da voi ! Vincenzo brandì con ambedue le mani il bastone, con l'atto di chi vuol menare un gran colpo; nonio fece, ma la sua

voce diventò più cupa e feroce. — Non ce n' è più bisogno.... vedo bene, come sta la cosa. Son due giorni che l’ho veduto co' miei propri occhi, quando

lei veniva con Gondela dal monte della chiesa; il vostro ridere, il vostro chiacchierare pareva non volesse finir mai. Quel giorno non ero bene alla luce, ma l’ho subito riconosciuto appena che l’ho visto. Se lo ritrovo con la ragazza, è finita. Sappia che a un bisogno so cogliere anche qualcos’altro che la selvaggina.... Si rammenti di Vincenzo Ortler !

E senza dar tempo al giovane di rispondere, se n' andò, passandogli di rasente. Enzo scosse il capo, e gli guardò dietro. — Me l’ha detto chiaro e tondo! — diss'egli. — Quel ragazzo è idrofobo ! Non gl'impone per nulla la nostra aria di

signori cittadini; ti viene incontro alla bella diritta e ti domanda ragione come a un suo pari. Se sapessi almeno, che cosa ha voluto dire ! Basta, ne domanderò a Gondela.

E senza darsi alcun pensiero della minaccia, come se fosse stata fatta per ischerzo, andò oltre e giunse presto alla casa al monte.

Ambrogio stava seduto innanzi alla porta di casa, mettendo un manico nuovo alla sua accetta, e quando vide il suo giovane ospite, quel suo volto rugoso e tetro fu illuminato da un lampo di gioia. Enzo in quattro salti arrivò là e gli stese amichevolmente la mano.

— Eccomi qua ! Spero che domani avremo una bella giornata per la nostra gita. — Lo credo anch’io — rispose Ambrogio, guardando con occhio esperto il cielo. — Sarebbe un peccato, se il giorno

non fosse sereno, perché la via è cattiva. Appena che abbiamo valicato quel poggio, bisogna camminare per delle ore fra burroni e in mezzo al ghiaccio e alla neve. Con un altro non mi arrischierei, ma con lei sì, signor Enzo. Non si crederebbe, a vederlo arrampicarsi su per questi monti, ch’ella non sia un montanaro.

— Già, ho un po' della natura del camoscio ! — disse Enzo, ridendo. — E per questo non resisto alla monotona vita di scrivano là nel mio ufficio. Sa Iddio, Ambrogio, quanto mi piacerebbe di star quassù con voi e imparare a maneggiare abilmente l'accetta !

— Si figuri a me, se mi piacerebbe — rispose il vecchio, dando un' occhiata alla snella e vigorosa figura del giovanotto. — Ma la vita del contadino in questi monti non le si confarebbe, lo creda a me, specialmente nell’inverno.

— Può essere ! Il mondo ci tiene con tanti legami, e forse mi tirerebbe di nuovo verso gli uomini, se fossi quassù. Ma continuate pure il vostro lavoro, Ambrogio; non vedo l’ora che venga il tramonto, che è veramente magnifico a vederlo da quest’altezza.

Ciò dicendo, Enzo si mise a sedere sulla rozza panca, che era innanzi alla casa. Ambrogio riprese tranquillamente il suo lavoro. Era avvezzo a non mettersi in soggezione col suo ospite, e fece conto

che fosse di casa. Dal giorno in cui Enzo, che tornava da una lunga escursione, si affacciò stanco e affamato a quella casa e fu accolto dal

proprietario cordialmente, fra loro due era nata un' amicizia, che forse aveva appunto radice nella loro infinita differenza. Quel vecchio e tetro contadino che concedeva appena la parola a uno che non avesse conosciuto, e che anche co' pari suoi era ruvido ed inaccessibile, si era sentito preso da una decisa affezione per quel giovane cittadino cosi libero e gioviale, il quale riconciliava tutti con quel suo modo di fare franco ed amabile. Pareva che qualche cosa di simile ad un raggio di sole ema-nasse da tutta quanta la persona del giovane, e lo illuminasse e riscaldasse. Il signor Enzo lo aveva stregato, soleva dire Ambrogio, e poteva permettersi oramai tutto con lui.

La casa al monte era situata sopra un verde altipiano, a pie di quella cima colossale, che quasi per tutto l’anno era coperta di neve, e perciò ne portava anche il nome. Spaccata nel bel mezzo, essa sporgeva scabra e manifestamente impervia, e da quell’enorme spacco luccicava fin lassù un ampio piano di ghiaccio, le forre della neve, con un vivido splendore. La casa bassa con le piccole finestre e il tetto carico di lastre di pietra appariva assai povera e meschina in mezzo a quel gigantesco dintorno, e ciò nondimeno essa era forte abbastanza, che nessuna nevicata o bufera poteva recarle danno. Ad onta delle molte procelle che vi eran passate di sopra, essa era sempre là grigia e indurita alle intemperie, come il suo padrone, che gli anni e la vecchiaia non eran riusciti a domare.

In quella solitudine, alta al di sopra di tutte le selve ed i pascoli, al di sopra di tutte le valli ed i burroni, in cui il crepuscolo già cominciava a gittare le sue molteplici ombre, per poi confonderle tutte nella fitta tenebra, lo spettacolo che si presentava era bello. Ma lì alla casa era ancora tutto luce e splendore; e sul verde altipiano stendevansi dorati gli ultimi

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raggi del morente sole. Dal cielo luminoso sembrava piover giù misterioso e cheto il crepuscolo vespertino, mentre rossi vapori infocavano tutto all’intorno le alpestri cime. Non si udiva altro che il mormorio e il sussurro dei ruscelli, che il tepore primaverile degli ultimi giorni aveva sciolti, i quali dal Picco della neve sgorgavano giù per convertirsi in torrenti sfrenati e precipitare nelle valli, e fra mezzo, di quando in quando, i campanacci dei greggi dei pascoli vicini.

Enzo sedeva in silenzio, assorto nello spettacolo di quel mondo alpestre. Egli trasalì, come uscendo da un sogno, quando Ambrogio dopo alquanto tempo gli diresse la parola:

— Dunque fra tre giorni, via, eh ? E quando torna fra noi ? — Probabilmente l’anno prossimo. Fino a quell’epoca si tratta d'aver pazienza.... e chi sa quante volte mi prenderà la

smania d’esser qui con voi. — Gua', come ne avessero colpa i monti ! — rispose il vecchio un po' sdegnoso. — Son quasi per credere ch’ella ci abbia

il suo calduccino laggiù, non è vero ? Ha una cera.... Sulle gote del giovane si affacciò un fiotto di rossore traditore, ma scosse sorridendo il capo. — Che mai vi viene in mente, Ambrogio ! Volete anche voi chiedermi conto di qualche cosa, come quel pazzerello di

Vincenzo Ortler, che mi si è piantato in mezzo alla via e mi ha scaraventato in faccia, ch’io sono innamorato della sua Gondela ?

— Chi, chi è stato ? — domandò Ambrogio, divenuto più attento. — Un giovinotto che ho veduto per la prima volta in vita mia dianzi, quando l’ho incontrato là sotto. Vincenzo Ortler

si chiama, ve l’ho già nominato. Dovete conoscerlo voi, perché ha detto che veniva di qui appunto. Il volto del vecchio si rannuvolò, e sospese a un tratto il suo lavoro. — Vincenzo Ortler ! Sì, c’è stato ! Dunque ha alluso a lei dianzi co' suoi discorsi. Signor Enzo, la consiglio per suo

bene, la finisca con Gondela, la lasci in pace; con l’Ortler non si scherza. — Ma che io voglio togliergli la sua ragazza ? Non ci penso nemmen per sogno ! — Sta bene; ma se non ci pensa lei, è Gondela che ci pensa. Quel Vincenzo è furibondo, perché essa è stata sul punto

di disdirgli l’amore. — Per amor mio forse ? — Per amor d’un altro che la pedina e fa il galante con lei.... non è dunque lei quello ? Ma le ripeto, la finisca con

quella ragazza, altrimenti accade del male ! Creda a me, la non va a finir bene! Nella voce del vecchio brontolava la collera, mentre egli esprimeva quell’avvertimento, ma Enzo non ne capiva un'

acca. Se non che ad un tratto parve affacciargli alla mente un pensiero, e un' espressione di disprezzo si dipinse su i suoi lineamenti.

— Ah, sì — mormorò egli. — Ora comincio a capire ! Ecco perché c’è chi studia la vita e i costumi di questo popolo nella Osteria della Valle e si trova “contrariato” da quei rudi elementi. Non mi guardate così bieco, Ambrogio, voi siete in errore. Conosco di certo la vezzosa Gondela, e con lei qualche volta là nell’osteria ho ciarlato e riso, come fanno i frequentatori. Alcuni giorni fa l’ho incontrata per caso per la strada e l’ho accompagnata, e quell’Otello in scarpe da montanaro deve averci veduti; ora intendo le sue minacce e il suo furore contro di me. Ma deve farmi il piacere di rivolgersi ad un altro, qui c’è semplicemente scambio di persona. Vi do la mia parola d’onore che fra me e quella ragazza non ci corre né ci è corso la minima confidenza.

Queste parole eran così recise ed avevano un'impronta di sincerità tale, che il fosco volto del vecchio Ambrogio, in cui il giovane guardava fisso, si rasserenò.

— Quando lo dice lei, sarà così — rispose. — Ma allora, faccia una cosa, glielo faccia sapere a Vincenzo, ch’egli è in errore. Altrimenti potrebbe accadere qualche cosa di male.

— Ah, dunque debbo corrergli dietro e pregarlo a credere.... E poi quel ragazzaccio è stato troppo villano. Se la gelosia lo fa cieco e pazzo a segno da slanciarsi addosso al primo che gli capita, senza neppure verificare se è quello o no, ne porti lui le conseguenze. Se non gli spiega come stanno le cose Gondela stessa, io non lo faccio davvero.

Ciò detto, il giovane si voltò, e rivolse di nuovo la sua attenzione ai monti. Le vicine alture erano in quel momento nel loro pieno incendio vespertino. Il piano di ghiaccio nello spacco del colosso alpestre, simile ad un torrente irrigidito in mezzo al suo corso, mentre stava per precipitarsi a valle, come se una potenza ineluttabile gli avesse comandato l'alto ! scintillava d’uno splendore roseo, ma ad ogni istante i colori facevansi sempre più foschi.

Il vecchio montanaro aveva ripreso il suo lavoro, ma scoteva il capo. — Vincenzo l’ha minacciata ? Vuol dire, che bisogna ch’ella stia in guardia. Quello non minaccia solamente.... tira ! — Sta bene; si accorgerà che non si scherza neppure con me. Finora la cosa m’ha divertito, non sapendo affatto che

diavol diceva e pensava. Ma se mi capita di nuovo e non vuole intender ragione, gli mostrerò che io non ho paura.

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— Se ne avrà tempo !... — obiettò Ambrogio. — Una palla può essere al posto, prima che lei lo abbia visto in viso. — Come? credete, dunque, che sia capace d'appostarmi e tirarmi alle spalle ? — Perché no ? Sarebbe nel suo diritto. — Nel suo diritto ? ! — rispose scattando il giovane. — Ambrogio, avete la testa al posto ? — Gua', contro di lei, signor Enzo, no, si capisce, ma contro un altro, per esempio, che tentasse rapirgli l’amore

della ragazza. S’egli l’uccidesse ? — Sarebbe anche quello un omicidio, un assassinio !... Ambrogio lasciò andare una rauca risatina. — Una vendetta sarebbe; nient’altro — disse con spietata durezza il vecchio — e non mi adirerei per questo con

Vincenzo. Che altro, dunque, si deve fare, quando la ragazza non vuol metter giudizio e' corre ad occhi aperti alla sua rovina e rifiuta e respinge un amore onesto ? !

— In quel caso si combatte onestamente per il suo amore — dichiarò Enzo. — E quand’anche uno dovesse lasciare libero il campo a un altro molto peggiore, ebbene, Tuoi dire che la più bella, la più cara non vale la pena d'addolorarsi per lei, e bisogna metter l’animo in pace.

— Ah, sì, eh ? bisogna ! ? — proruppe il vecchio con amaro scherno. — Vuole che glielo dica ? L’animo in pace non si mette, e non e' è bisogno di metterlo. La ragazza s’arrende, quand’ha trovato il suo uomo, e quell’altro non c’è più. Ma bisogna levarlo di mezzo, altrimenti non c’è pace.

Enzo lo guardò sbalordito; egli scòrse per la prima volta nella faccia del montanaro quella strana espressione, quel tratto di fredda, feroce, implacabile crudeltà. Le bianche sopracciglia s’eran raggiunte minacciose, e il bruno pugno nerboruto brandiva forte il manico dell’accetta, come se quella fosse un'arma. Certo, que' montanari in parecchi punti erano ancora gente greggia, indomita, e le loro idee di diritto e torto confondevansi spesso in pericolosa maniera. Ambrogio trovava evidentemente naturalissimo il toglier di mezzo il rivale, quand’anche occorresse un buon colpo di pistola.

— Voi parlate, come se voi stesso aveste provata la gelosia — disse finalmente il giovane. — Nella vostra gioventù avete provato che cos’è amore e passione ?

Ambrogio rise, rise di nuovo. Era lo stesso rauco tono, che sonava così sinistro. — Gua', la passione non è andata in lungo — rispose egli. — Ho fatto festa a tempo. Quando rigiravo intorno a mia

moglie ed eravamo già promessi sposi, capitò anche a me un mascalzone che con le sue chiacchiere e i suoi intrighi fece voltar la testa alla ragazza. I signori cittadini lo sanno a perfezione quel mestiere; era un forestiero.

Enzo trasalì e si alzò rapidamente. — Un forestiero ! — ripeté egli guardandolo fisso. — Porse un signore di quelli che vengono nell’estate in questa

valle ? — Sì, ma io lo mandai a casa così bene, che s’è dimenticato di tornare ! Il giovane fece un balzo indietro. Non era pauroso, ma diventò freddo come ghiaccio sotto il sinistro sguardo, che

accompagnò quelle parole; v’era dentro la satollata sete di sangue d'una belva, e quel tratto di ferocia, d'implacabile crudeltà ricomparve sulla di lui faccia con sì terribile realtà, che la rese deforme.

— E dove lo avete mandato ? — domandò Enzo, dopo una pausa. — Dove? gua', a casa.... dove dovevo mandarlo? — brontolò Ambrogio. Enzo tacque, ma involontariamente i suoi occhi si drizzaron su al Picco della neve, che ancora rosseggiava cupamente,

mentre i monti all’intorno cominciavano ad impallidire. Il mare di ghiaccio delle forre nevose, luceva color rosso sangue fra le scabrose pareti delle sue cime. Era uno spettacolo sinistramente bello.

— Guardate un po' lassù quella strana illuminazione — disse il giovane finalmente, interrompendo il lungo silenzio, che era intervenuto. — Proprio pare che dalle forre della neve grondi giù a valle un torrente di sangue.... guardate un po', Ambrogio, guardate !

Ma il vecchio non alzò gli occhi; egli continuò a dar colpi d’ascia al manico dell'accetta e rispose ruvidamente. — E il riflesso ! Lassù sangue non ce n' è; non c’è che neve e ghiaccio ! — Certo, ma anche quello, secondo le circostanze, può dar la morte. Non vi morì un uomo lassù nelle forre della neve? Ambrogio si chinò più che mai sul suo lavoro, ma la sua voce sonò fredda e ferma, quando rispose: — No. Qui in questa contrada non è accaduto nulla da trent’anni. Sarà stato in qualche altro luogo. — Io parlo però d'un' antica storia, quasi dimenticata, di molto tempo fa. Saranno, sicuro, cinquant’anni dacché

accadde. Il forestiero, che volle in quell’epoca far l'ascensione del Picco della neve, fu sorpreso dalla tormenta, abbandonato dalla sua guida, e allora ruzzolò, raccontano, nelle forre della neve, dove trovò la morte.

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Questa volta Ambrogio non rispose; brandì l’accetta e, come per provarla, tirò un potente colpo di taglio in terra. Nelle braccia di quel vecchio c’era ancora una forza di ferro, poiché tutto quanto il suolo ne tremò.

— Una orribile fine ! — continuò Enzo. — Chi sa come gridava “aiuto” quell’infelice. Probabilmente egli avrà errato per delle ore fra quei deserti di ghiaccio, prima di precipitare nell’abisso. Davvero, piuttosto una palla che ti colpisca nel bel mezzo del cuore; essa sarebbe più pietosa che quella terribile infinita lotta con la morte, per poi sfracellarsi nel fondo di qualche precipizio.... In quell’epoca, voi, Ambrogio, dovevate avere una ventina d’anni: non vi ricordate per filo e per segno del fatto ?

Ambrogio trasalì a quella domanda. Gli sembrò chiaro allora, che non il mero caso aveva messo sulle labbra del giovane quelle parole. Egli alzò lentamente gli occhi, e quello sguardo avrebbe dovuto avvertire il giovane, poiché vi traspariva una sinistra minaccia. Ma anche quegli occhi bruni e limpidi sapevano guardare terribilmente, e non si volsero un istante dalla faccia del vecchio, che parve non poterli sostenere, poiché si voltò dall’altra parte.

— Che m'importa a me.... non ne so niente — brontolò impazientito. — Ma lei non ha bisogno di temer nulla, signor Enzo; non capiteremo davvero noi nelle forre della neve, e lei ritornerà sano e fresco a casa, a questo ci penso io.

— Vi ringrazio — rispose il giovane, riprendendo il cappello, calcandoselo su i ricciuti capelli neri e prendendo il suo bastone alpino. — Ma ho pensato meglio.... dell’ascensione non ne fo più nulla.

Ambrogio balzò indietro, come se avesse ricevuto un colpo. — Come ? Non vuol più salire sul Picco della neve ? — No.... buona notte, Ambrogio. — Allora, pernotti qui, com’era di combinato. — Nemmeno. Voglio tornarmene subito già nella Valle.... buona notte ! Pece l’atto di partire, ma il montanaro lo trattenne e prese un' attitudine minacciosa. — Non conviene, signor Enzo; io non lo permetto. Fra una mezz’ora è buio, e potrebbe facilmente cascare.... potrebbe

incontrar Vincenzo.... resti qui, soltanto sino a domani mattina. — Sotto il vostro tetto ? ! Giammai ! — esclamò il giovane, drizzandosi con la massima risolutezza. — Lasciatemi

andare, Ambrogio, e non datevi alcun pensiero di Vincenzo. Sono avvertito e con lui nelle forre della neve non ci vado ! L'incauta parola gli era sfuggita oramai, e dal petto del montanaro eruppe un grido così roco e feroce, come quello d’un

avvoltoio. L’accetta lampeggiò nella sua mano e si alzò al colpo mortale, ma ratto come un fulmine Enzo era balzato indietro e teneva puntato il suo bastone alpino, come una lancia. Il colpo non percosse che il legno e questo scricchiando andò in schegge.

Il fatto repentino sembrò far tornare in sé il montanaro. Egli non ripeté l’assalto, ma lanciò sul giovane un terribile sguardo, quando anelante fissò il suo avversario, che era rimasto disarmato. Ma Enzo istintivamente sentì d'aver un'arme negli occhi, che sola in questo frangente poteva salvarlo. Grande ed impavido guardò, senza parlare, senza moversi, il fu-ribondo. Stettero così per alcuni secondi, gli occhi fissi negli occhi, poi l’accetta calò giù con pesante e cupa caduta al suolo, ed Ambrogio abbassò il capo, muto e timido, come una belva che lo sguardo del domatore ha soggiogata.

Seguì una lunga e grave pausa, dopo la quale il giovane disse con una calma, che certo era sforzata: — E ora lasciatemi andare, Ambrogio, non temete di niente ! Ciò che oggi è accaduto fra noi, resta fra noi; sulle mie

labbra non ne verrà mai una parola, quantunque sarà difficile che ci rivediamo mai più. Dal petto dei montanaro sfuggì un gemito. Egli aveva voluto stender morto il suo giovane ospite, giacche era mancato

un capello che non lo avesse mortalmente colpito, ma sembrava che ora non potesse sopportare il disprezzo che esprimevano quelle parole.

— Signor Enzo — mormorò, e nella sua voce vibrava un amaro dolore — vuol’andarsene via da me in cotesto modo ? Enzo guardò il vecchio, che un minuto prima era sì terribile, e che ora gli stava innanzi oppresso ed affranto. — Addio, Ambrogio ! — disse sommessamente. Il vecchio stese con lentezza, esitando, la mano,

ma in quel movimento c’era qualche cosa di supplichevole, e ne' suoi lineamenti profondamente commossi e' era ancor di più; ma il giovane, che era rimasto sì imperterrito nell’assalto dato alla sua vita stessa, si ritrasse e non prese quella mano.

— Addio ! — ripeté, e rapidamente voltandosi, traversò l’altipiano, senza volgersi addietro. Ambrogio restò lì immobile, seguendo con lo sguardo la svelta figura che si allontanava sempre più, e poi alla voltata

della via, Io vide dileguarsi. Sopraggiunse tosto il crepuscolo; anche il sinistro rossore di sangue del Picco della neve era già scomparso, e su

quell’altissima cima durava ancora un languido bagliore rossastro. Finalmente si spense anche questo, e fredde e bianche luccicarono le forre della neve nello spacco della rupe.... in quel deserto di ghiaccio, che nessun raggio più riscaldava.

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VI.

Il giorno della partenza era venuto; gli ospiti della villa di Rehfeld dovevano recarsi in carrozza alla stazione e di là tornare l'indomani alla capitale. Il consigliere Kroneck era alquanto avvilito; egli aveva sperato con tutta fiducia che il suo figliuolo sarebbe partito da promesso sposo di Caterina, ma questa speranza non si era realizzata. Evelina gli aveva amichevolmente, ma recisamente dichiarato, che sua figlia era ancor troppo giovane per legarsi fin d’ora con un fidanzamento, e che bisognava lasciarle tempo fino all’anno prossimo. Kroneck non poteva obiettar niente ad una tale ragione, poiché infatti la signorina aveva appena sedici anni; ma ciò che gli diede un poco a pensare, fu questo: che mentre Evelina era da principio disposta ad affrettare la cosa, ora era lei che cercava dilazioni, e di ciò attribuì la colpa unicamente al figliuolo.

Quell’Enzo, quello scapestrato, era capace di mandare a monte anche un così splendido partito; e in verità, ad onta di tutti gli ammonimenti fattigli, pareva che lo facesse apposta alla villa per mostrarsi incostante, capriccioso e leggiero, e ora ritornando alla capitale, v’era da aspettarsi che avrebbe ricominciato la solita vita. La futura suocera sembrava avesse saputo, Dio sa per qual via, qualche cosa, e se si fosse informata più particolarmente, tutto quanto il progetto poteva naufragare. Ad Enzo, gli era stato detto, ripetuto e dimostrato con più e lunghissime prediche, senza il minimo risultato. Egli aveva quasi ridotto suo padre alla disperazione con la sua ostinata opposizione al “giogo matrimoniale”.

Era infatti inesplicabile, come ad un uomo sì esatto e coscienzioso quale il consigliere, ad un impiegato che passava per modello, fosse toccato questo rampollo così degenere e mal riuscito, il quale, di sicuro, consigliere non sarebbe diventato mai. Sì; Guido Hellmar, quello era un giovane, quello era un figlio ideale, e benedetto quel padre che aveva avuto la fortuna di possederlo ! Il vecchio signore faceva spesso dentro di sé questo confronto, e lo chiudeva regolarmente con un sospiro sulla ingiustizia della sorte.

Erano tutti riuniti nella sala della villa Rehfeld per accomiatarsi. Enzo diede di nuovo a conoscere la sua assoluta mancanza di cuore, poiché, nella imminenza della separazione, scherzava senza un pensiero al mondo con Caterina, la quale dal canto suo parimente si rassegnava di leggieri al distacco, e si mostrava del medesimo umore d’Enzo.

Tanto più triste e dolente era il gruppo intorno alla poltrona d'Evelina. Il consigliere era serio e accigliato; in quell’ora si arretravano tutti i calcoli egoistici, che aveva nel suo segreto fatti le mille volte, innanzi al pensiero, che difficilmente egli avrebbe riveduta la giovine signora. Ella senza dubbio non avrebbe passato l’estate, epoca in cui avevano progettato di rivedersi; bastava guardarla in viso, il quale specialmente quel giorno era infinitamente pallido e sofferente. Ella per vero cercava di spiegarlo col dire che aveva passata la notte insonne, ma si scorgevano evidenti le tracce delle lacrime versate, che non le era riuscito di cancellare.

Hellmar aveva scorto con gran soddisfazione quelle tracce, le quali naturalmente avevano avuto per cagione la sua partenza. Il “no” che aveva ricevuto, non lo aveva sgomentato minimamente. Evelina ad ogni modo aveva dichiarato, che poneva lui e la sua fama di poeta troppo alto, per incatenarlo al capezzale d’una sposa inferma e morente. Ella anteponeva la di lui felicità alla propria, e con lo strazio nel cuore volgeva gli occhi dal “raggio di sole”. Ma questi non aveva affatto l'intenzione di rinunziare a lei. Egli aveva appunto già manifestata l'intenzione di ritornare fra qualche mese nella valle a lui tanto cara, e prendervi una più lunga dimora. Era per altro notevole, che neppur ciò rasserenava la giovine signora; ella sorrise, sì, fuggevolmente, ma il suo occhio rimaneva triste e girava di quando in quando, con espressione di rimprovero, intorno alla giovine coppia che stava alla finestra a ridere e scherzare.

Hellmar, naturalmente, aveva manifestati i suoi caldi sentimenti del momento dell’addio in una lirica, che altrettanto naturalmente lesse, prima di consegnarla alla giovine signora di Rehfeld, e a questo punto anche Caterina lasciò la finestra per prender parte alla commozione generale. Enzo, al contrario, senz'ombra di riguardo, appena che il poeta trasse fuori il suo manoscritto, si scusò dicendo di dovere andare in camera, per metter nel baule qualche cosa, ch’egli aveva dimenticato; del resto conosceva quei versi, poiché Guido glieli aveva già letti la sera innanzi.

— Come se non si potesse sentir due volte una poesia simile ! — esclamò il consigliere, stizzito, del dispetto che gli si faceva dal figliuolo anche nell’ultimo momento; ma Guido gli posò calmandolo la mano sul braccio.

— Lo lasci fare, babbo Kroneck ! Tanto non ha senso per la poesia, e non ci ha davvero colpa lui ! — E sembra che non l’abbia neppure per questi momenti d’addio ! — esclamò Evelina con mal celata amarezza. —

Credo, che non veda l'ora di trovarsi in carrozza. Enzo era già da un pezzo uscito; e Guido cominciò a leggere ai suoi devoti uditori quei versi, che riboccavano di dolore

profondo, incommensurabile per la separazione fatale, e dagli occhi delle signore scaturirono a quattro a quattro le lacrime; persino il consigliere trasse fuori il fazzoletto per asciugarsi il pianto, e il poeta stesso n'ebbe gli occhi umidi.

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Enzo non doveva aver molta fretta col suo baule, poiché invece di recarsi nella camera dei forestieri, traversò un corridoio e in fondo a quello aperse una porta.

La stanza in cui il giovane entrò, era piccoletta ed appartata. L’unica finestra ampia non offriva in vero una larga veduta, come quelle della sala e della terrazza; ma soltanto la quieta solitudine del bosco e del monte. Si scopriva in lontananza lo specchio del lago, che oggi splendeva in pieno sole, mentre sulle cime verdi degli alberi brillava la chiara luce aurea del mezzogiorno.

Ma nella cameretta al contrario e' era ombra e frescura. I colori dei tappeti languidi e temperati, la stoffa di seta verde dei mobili e delle cortine, e i fiori che stavano nei vasi sulla finestra, davano a quella camera un che di straordinariamente casalingo. Sul sofà pendeva un ritratto, un ritratto di bambina graziosissima; Enzo conosceva quella vezzosa creaturina nel suo vestitino bianco, coi capelli ricciuti e corti, che anche oggi guardava con quegli occhietti furbi e rideva cordialmente come allora; ma lo sguardo del giovane scivolò alla sfuggita su quella immagine della sua futura sposa, e rimase fisso sur un acquerello, che aveva avuto il suo posto immediatamente al di sotto.

Era la giovine matrigna, dipinta precisamente in quel tempo, in cui ella porse la mano al padre di Caterina. La fanciulla snella, diciottenne era stata appena più graziosa ed amabile della signora a ventitré anni; non vi mancava che l’espressione della sofferenza in quel delicato viso; e quei grandi occhi cupi, che ora apparivano sì velati e stanchi, avevano tutta quella romantica fantasticheria della giovinezza. Perché non potrebbe tornare a guardar di nuovo come nel ritratto ! ?

Il giovane era assorto nella muta contemplazione dell’immagine che aveva innanzi, ma ad un tratto si drizzò con un movimento quasi indignato.

— Io divento affatto un sognatore; invece bisogna che profitti del tempo, mentre Guido nuota nel mare delle lacrime dell’addio. Ieri non mi fu assolutamente possibile portar via la preda; forse mi riuscirà adesso !

Egli si avvicinò alla scrivania, situata presso la finestra, e diede rapidamente un' occhiata agli eleganti oggetti e ai libri.

Le liriche di Guido Hellmar, rilegate magnificamente, con fini incisioni e dedica di proprio pugno, occupavano, si capisce, il posto d’onore, ed Enzo le cacciò stizzosamente da parte.

— Ringrazio Iddio che la mia bella Fata delle Alpi non ha qui trovato il suo luogo di riposo — diss’egli beffando. — C’era un altro libro, qualche avanzo del diluvio universale, dalle pagine ingiallite. Dov’è andato ? Ah, eccolo qua !

Ciò dicendo, trasse fuori un libro vecchio, di meschina apparenza, che evidentemente era stato adoperato come pressa piante, perché, quando il giovane lo aperse, gli brillò sotto gli occhi l'azzurro cupo della sua Fata delle Alpi, sulla carta ingiallita.

Il fiore era stato evidentemente seccato con somma diligenza e premura, e né il colore né la forma ne avevan sofferto; soltanto la porpora del calice era divenuta violacea, ma l'aurea coroncina mostrava ancora tale e quale la sua graziosa figura. Accanto vi era un foglio, su cui Enzo riconobbe il proprio carattere, il motto, che conteneva l'antica leggenda del fiore della felicità.

— Veramente questo è un furto — mormorò Enzo irresoluto. — Bah, in fondo non faccio che rubare la mia proprietà; ciò ch'io dono lo posso anche ripigliare, ed io ho assai più bisogno di lei di questo pegno.

Egli stese la mano ed era in procinto di togliere il fiore dal libro, quando una voce dietro a lui esclamò: — Enzo.... lei qui? Enzo trasalì, come se realmente fosse stato colto sul furto. Egli rimase lì come un ladro sorpreso, col volto in fiamme,

mentre Evelina con la più estrema meraviglia soggiungeva: — Io credeva che fosse su nella camera dei forestieri. — E ora naturalmente lei domanda che cosa ha da cercare l'intruso nel suo gabinetto e alla sua scrivania ! — rispose

Enzo, subito padroneggiandosi. La giovane signora tacque, ma la domanda le si leggeva nello sguardo; ella non sapeva spiegarsi in niun modo, com’egli

si trovasse lì. — Ebbene.... io voleva rubare! — Rubare ? — Sì, purtroppo, non posso negarlo, poiché qui è il corpo del delitto, ed ella deve aver veduto ch’io stava già per

stendervi sopra la mano. — Voleva prender quel fiore? Perché piuttosto non richiese liberamente la sua proprietà ? Ella lo aveva pur

conquistato a rischio della vita.

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— Non è per questo che io ci do tanta importanza; ne avrò fatte cento di quelle escursioni, e cento volte mi sarò esposto a simili pericoli. Ma volevo.... sì, volevo un ricordo di quella sera, in cui mi fu fatta quella efficace ramanzina, e mi vergognavo di dirlo.

Infatti sembrava che confessasse un torto. Evelina si era lentamente avvicinata, e nella sua voce sonava un rimprovero, quando rispose:

— E perché dunque mi lasciò credere d’esser di lieto umore, anzi faceto nell’ora stessa dell’addio ? La sua indifferenza nel momento della nostra separazione mi ha fatto molto male.

— Ma poté notarla ? Ella era sì preoccupata del suo poeta, che pareva ch’io per lei non vi fossi nemmeno. Evelina non rispose; là nella sala aveva trionfato il poeta, perché nella chiusa, che esprimeva un doloroso e tenero

addio, ella era rapidamente uscita con gli occhi inondati di lacrime. Certo quelle lacrime eran state causate da un addio, eppure adesso eran già asciugate, e un lieve sorriso sfiorava le sue pallide guance.

— Enzo.... — cominciò ella. Ma il giovane repentinamente la interruppe. — Oh, illustrissima signora, quanto mi fa bene cotesto familiare Enzo in questo momento! Mi suona così caro, come

se nel nome vibrasse una nota affettuosa; ne la ringrazio, specialmente in questo momento. La signora era presa come da un leggiero tremito ed esitava a rispondere; ma finalmente disse: — Talvolta ella mi diventa affatto incomprensibile, Enzo. Ebbene, prenda quel fiore, ed io mi terrò la sua promessa. — Finché l'abbia mantenuta, è per lei — rispose il giovane col volto acceso. — Per me ? Per Caterina deve mantenerla; io, io chi sa se avrò tempo di vederla mantenuta. — Ella si sente peggio da alcuni giorni, lo so, ma spero molto, spero tutto dalla cura del dottor Eberardo. Mio padre e

Guido me ne fanno certo un rimprovero d'aver chiamato quel medico senza riguardi. Me ne sa male anche lei ? — No, Enzo, no; so che l'ha fatto per mio bene e ne la ringrazio, ma ella non vorrà ch’io mi assogetti alla cura d’un

uomo, la cui rozzezza, anzi brutalità mi ha cagionato questo attacco nervoso, di cui soffro ancora. — Come, non accetta il dottor Eberardo per suo medico curante ? — No, mai ! Ne ho avuto abbastanza della sua prima visita e della prova del suo metodo per guarirmi, che mi

darebbe in otto giorni la morte. — E se invece della morte le rendesse la vita? Se il premio della sua pazienza fosse la sua salvezza? Evelina lo guardò stupefatta, ma con cera d'incredulità. — Le ha egli veramente data qualche speranza riguardo alla mia salute ? — Oh, se ne guarderà bene ! Se mai, sarò l'ultimo ad entrare nelle sue confidenze; ma fra me e il dottore passa una

specie di frammassoneria, e c'intendiamo per semplici segni; so per certissimo ch’egli ha speranza. Questo vecchio egoista, che vive in guerra con tutto il mondo medico, e si ribella con le mani e coi piedi contro l’esercizio della sua professione, non accetterebbe a nessun prezzo una cura senza speranza, e un malato che non fosse guaribile non avrebbe mai ottenuto l'onore d'essere curato dal professor Eberardo. Ma il poter un giorno svergognare la diagnosi de' suoi signori colleghi, dimo-strare al professor Mertens che ha preso un grosso marrone, e procurare con la trionfante esposizione del caso a tutti quei signori una bile unica, questo è ciò che lo rapisce, che è secondo il suo gusto. Egli si è volontariamente offerto di prendere la sua cura, di guarirla, e sia pur convinta e persuasa, che egli ci adoprerà tutto il suo sapere e tutta la sua energia.

La signora, aveva ascoltato in silenzio; quindi scosse tranquillamente, ma risoluta, il capo. — Ella s'inganna, o piuttosto ripone una cieca fiducia in quell'Eberardo. Io no; io mi attengo invece al parere dei suoi

colleghi. Se egli fosse davvero una grande autorità, non vivrebbe qui in questa solitudine, come fosse condannato a confine. — Perché è un cervello originale che non se la dice con nessuno de' suoi colleghi, né li tollera, un misantropo.... — E appunto per ciò non voglio affidarmegli. Se realmente ritorna, lo farò cortesemente ringraziare delle sue visite.

Suo padre è dalla mia parte e Hellmar l’ha assolutamente voluto; anch’egli trova insensato, ch’io mi lasci di nuovo malmenare dai capricci d’un medico, che invece di mezzi di guarigione, non ha per i suoi malati che villanie.

Tutta la nervosa irritabilità dell'ammalata vibrava nelle sue parole; si vedeva bene che il dottor Eberardo questa volta con la sua rozzezza brutale aveva fatto mal giuoco. Enzo tacque. Prese il fiore e lo ripose premurosamente fra le carte del suo portafoglio; poi si riavvicinò alla giovine signora, che si era voltata, come se volesse por fine al colloquio.

— Evelina ! Ella trasalì e un vivo rossore le salì lentamente sul volto. Era la prima volta ch’ella udiva pronunciare il suo nome

dalle labbra del giovine. — Guido esige ch’ella lo respinga — continuò egli — ed io la prego d’affidarsi al dottor Eberardo. La pregherò invano? Il rossore si fece anche più cupo sulle guance della signora, ma fece un gesto di diniego.

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— No, Enzo, non posso ! Non me ne preghi ! Tutta quanta la mia natura si ribella contro i modi di quell’uomo; eppoi non ho in lui nessuna fiducia.

— Ebbene, allora lo faccia.... per amor mio ! La signora tacque; ella era alla finestra e premeva la fronte contro i vetri, ma Enzo si chinò verso lei, e

sommessamente, con voce velata dalla commozione ripeté: — Evelina.... per amor mio ! Ella finalmente alzò gli occhi e li fissò per alcuni istanti in quelli del giovine, poi gli porse la mano ed egli se la portò

alle labbra. La promessa, come il ringraziamento furono muti. Il giovane teneva la di lei mano nella sua, e così stavano l’uno al fianco dell’altra guardando la pianura indorata dal

sole; quanto stettero così, non lo seppero neppur essi, finché dal corridoio risonò la voce del consigliere: — Enzo, dove ti sei ficcato ? La carrozza è pronta, bisogna partire ! E Hellmar aggiunse: — Sì, quell’Enzo non ha l'abitudine d'esser puntuale ! Il chiamato balzò su. Lasciò libera l’esile mano che posava ancora nella sua, leggermente tremando. — Conto sulla sua promessa, e lei conti pure sulla mia.... Addio, Evelina! Un minuto dopo era uscito, e traversando le stanze attigue erasi recato in sala. La giovine signora rimase sola; npa

subito dopo comparve Caterina e le annunziò: — Mamma, il signor Hellmar desidera di parlarti per un altro momento. Vorrebbe dirti di nuovo addio. Evelina alzò gli occhi, come se fosse stata ad un tratto destata da un sogno. — Perché ? Ce lo siam già detto addio ! — Non vuoi vederlo ? — No; digli che mi sento male e che ho bisogno d’assoluta quiete. La fanciulla si allontanò, obbedendo. Hellmar ricevette la risposta con rincrescimento, ma pure con segreta

soddisfazione. Egli scorgeva in quella recrudescenza di sofferenze soltanto l'effetto profondo della sua lirica e del suo addio. Oh, s’egli avesse presentito che neppur uno di quei versi, belli, teneri, commoventi, era rimasto nella memoria della

giovane signora! Tutta la poesia, ch’egli aveva versato con vena di torrente al fondersi delle nevi, tutti gli omaggi e persino la romantica dichiarazione d’amore erano già dimenticati e spenti in virtù d’una sola paroletta, che un altro aveva pronunziato:

— Evelina.... per amor mio !

VII.

Era già passato un anno, maggio aveva fatto ritorno, ma questa volta recando calore e sole; e la bella primavera aveva attirati molti forestieri nelle montagne.

Il dottore Eberardo abitava ancora la villettina, che adesso aveva comprata, solo per poter cacciar via gli ospiti non invitati, come egli medesimo dichiarava. Il possesso nel corso dell’estate era stato visitato da diversi compratori, o piuttosto n'era stato fatto il tentativo, poiché Martino per ordine del padrone sbatacchiava la porta sul naso a tutti. Ma quando intervenne finalmente il proprietario, che energicamente insisté sul suo diritto, la fin del salmo fu che il dottore comprò per disperato la casa, al fine d’aver pace una buona volta. Ora almeno era libero da ogni importunità. Il modo, col quale aveva mandato a spasso i vogliosi di comprare, non era rimasto un segreto e lo proteggeva dalle visite di qualsiasi straniero; e dei vicini nessuno oramai si arrischiava più a picchiare alla sua porta. Quella quiete gli piacque tanto, che risolvette di passare ivi tutto l'inverno, tanto più ch'egli aveva per le mani una grande opera scientifica. Martino, che era non meno misantropo del suo padrone, e per questa sua qualità appunto in grandissimo favore presso di lui, era su di ciò perfettamente d’accordo. Il dottor Gilberto non aveva davvero voce in capitolo in quella casa, ma se ne mostrava contento, tanto più che Evelina per espresso comando di Eberardo aveva abbandonata l'idea di un viaggio in Italia per l'autunno prossimo, ed era rimasta alla sua villa. In fondo, per la giovane signora, che da due anni cercava miglioramento al suo stato, soltanto sotto il mite cielo meridionale, era un bell'ardire, quello di restare in montagna, in mezzo al ghiaccio e alla neve, ma il suo medico esigeva assoluta obbedienza, ed ella obbediva.

D'altra parte egli si occupava della sua ammalata col massimo zelo. Ne' primi tempi la visitava ogni giorno, per maltrattare la “povera mamma”, come diceva Caterina, che spesso incitava la matrigna, ma invano, a ribellarsi. Evelina, la

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nervosa, l'irritabile E velina, che aveva avvezzato male con gli eccessivi riguardi che esigeva, coloro che la circondavano, dava adesso prova d’una sì paziente docilità, d’una sì illimitata obbedienza, che persino il dottore ne risentiva un senso di compassione e cominciava a trattare quel suo “obietto scientifico” un po' più delicatamente. Fra lui e la sua cliente si era a poco a poco formata una relazione assai tollerabile, mentre con Caterina era rimasto sempre sul piede di guerra.

Di qualsiasi altro rapporto non v’era neppure da parlarne; e la speranza che Enzo aveva espressa, che le signore avrebbero trovato nel dottor Gilberto una gradita conversazione, non erasi confermata. Eberardo ci capitava sempre in carrozza, tempestoso come la bufera, e come questa percorreva la sala tempestando di domande, di comandi, di prescrizioni, di ricette, e se ne andava via nello stesso modo. Non conduceva quasi mai seco l’assistente, e quando ciò accadeva, non gli permetteva di scostarsi un momento dal suo fianco, cosicché il giovane, la cui timidezza lo condannava per lo più alla parte di persona muta, rimase a riguardo delle signore, estraneo, come al principio della conoscenza.

Era verso le dieci del mattino. Eberardo sedeva al suo scrittoio, interamente sepolto ne' suoi libri e manoscritti, quando entrò Martino per prendere in consegna la corrispondenza, ch’egli per lo più sbrigava su quell’ora. Il suo padrone gli porse alcune lettere e gli domandò:

— E tornato il dottor Gilberto ? — No, è ancora fuori ! — Va bene, almeno in questo è diventato puntuale — disse il dottore — ma quel giovane mi dà per altro molto

pensiero. Egli afferma continuamente, che non ha niente; e con tutto ciò, ha la cera d'una fanciulla clorotica, una vera faccia da camposanto. E stato quell’esame; da quello in poi, non si è più riavuto. Temo che il suo cervello non sia in perfetto ordine.

— Meno male, se si trattasse del cervello ! — osservò il servitore stizzito. — Che cosa intendi dire? Ti ripeto ch'egli presenta dei sintomi d'una malattia incipiente al cervello. Egli è affatto

ottuso e indifferente alle più interessanti elucubrazioni scientifiche, qualche volta non capisce neppure le mie domande e mi dà delle risposte a rovescio; alle esperienze mi fa una sciocchezza dopo un' altra, ed io son costretto a strappargli gli oggetti dalle mani, e poc’anzi, dettandogli un trattato sulle malattie d'infezione, ha scritto giù roba senza senso, cosicché il manoscritto rimase completamente inservibile. Bisognerà che lo dispensi affatto dal lavoro, e lo mandi a pigliar aria.

— Non ce n' è bisogno — brontolò Martino. — Egli passa le mezze giornate a girare intorno alla villa Rehfeld.

— Intorno alla villa Rehfeld ? Che ci va a fare? — Io non lo so, ma da molte settimane, nelle sue cosiddette passeggiate, non prende altra via che quella che conduce

difilato alla villa Rehfeld, contempla le finestre, gira tre volte intorno al parco e poi se ne viene diritto diritto a casa. *

— Ecco, ecco, ci siamo ! E il principio d’una fissazione ! C’è manifestamente un' alterazione del cervello. — Secondo.... potrebbe anche essere alterazione amorosa.

Il dottore balzò su dalla sedia e guardò fisso il vecchio Martino, quasi non credesse alle proprie orecchie. — Martino, credo che anche tu abbia perduto il senno. Il mio assistente.... — Il nostro assistente, sì, signor dottore ! E innamorato fin sopra agli orecchi. L'avevo detto io che con la donnetta

veniva in casa nostra il peggiore dei malanni; glielo ho subito letto in faccia a quel folletto di signorina, che entrò nella nostra biblioteca senza chieder permesso.

— Che cosa? — gridò il dottore, furibondo. — Quella Caterina Rehfeld ? Quella meschina creatura ? Quella cosina, che appartiene ancora al numero delle bambine da bambola ?

— Quel focherello fatuo, precisamente, che mi rise sul muso — gridò Martino, altrettanto furibondo. — Sì, è uno scandalo che grida al cielo.

Il dottore spinse indietro la sedia e si diede a passeggiare su e giù, come un leone nella gabbia. Egli aveva cominciato a concepire qualche sospetto, quando Gilberto aveva lasciato cadere il piatto di cristallo, e lo aveva in conseguenza di ciò sorvegliato come un argo; ma secondo il suo credere, questo era bastato a prevenire il male e non ci aveva pensato più. Quindi la rivelazione del vecchio suo confidente sul genere della malattia cerebrale del giovane, aveva colpito il padrone, come uno scoppio di fulmine; tuttavia, ne dubitava ancora.

— È impossibile! Semplicemente impossibile! — andava ripetendo ad alta voce. — Gilberto è un uomo di giudizio. — Non serve a nulla — obiettò Martino. — Appena che entra in ballo la donnetta, tutti gli uomini, quanti sono,

impazziscono, e il nostro dottor Gilberto è appunto in età da impazzire. — Ma se l’ha appena appena veduta e non le ha neppur parlato. Non gli ho mai permesso di scostarsi dal mio fianco;

come può egli essersene innamorato ? — Gua', per aria ! — osservò il servitore, a cui ripassavano per la mente le sue avventure di gioventù. — Uno ne vien

colto allo stesso modo, che ci colgono le malattie infettive, e non c’è rimedio; chi l’ha beccata, se la tiene.

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— Non ne avrà l'ardire! — proruppe il dottore con sempre maggior veemenza. — E allora a che mi sarei rilevato in casa costui ? Doveva essere mio assistente e basta; ma d’un innamorato non so più che cosa farmene. Gli torco il collo a lui e alla sua Caterina.

— Non serve a nulla, signor dottore — si ostinò a sentenziare Martino. — E specialmente riguardo al nostro assistente, non serve a nulla. Egli n'è ubriaco; fa persino dei versi.

— Che cosa fa? — proruppe Eberardo, passando da una sorpresa all’altra. Martino tirò fuori un foglio, e lo porse al padrone. — L’ho trovato poc’anzi sulla sua scrivania. E il trattato.... il suo trattato, signor dottore! Guardi il rovescio delle

pagine, e vedrà quel che aveva per il capo, mentre scriveva. Era infatti il trattato sulle malattie infettive. Il giovane medico aveva adoperato il di dietro del manoscritto, divenuto

inservibile, per un suo attentato poetico, che per dir vero in quanto a rime e misura di versi lasciava assai a desiderare, anzi troppo, ma senza dubbio la intenzione era quella di comporre una lirica, e per soprassello vi campeggiava tre volte il nome di Caterina.

— Eh, non c’è dubbio ! Son versi ! — disse Eberardo annichilito. — E finita ! — Bell’e finita ! — confermò Martino. Il dottore sembrava disposto a stracciare il trattato per fare insieme in pezzi l'appendice poetica, quando gli si affacciò

l'idea di servirsene come materiale d’accusa; lo gettò sulla scrivania e diede in un orribile scoppio di risa. — Or'ora, la vedremo ! Appena che il signorino entra in casa, conducilo da me. Lo voglio un po' confessare, e se tu hai,

come sembra, ragione, Dio l'abbia nella sua santa grazia; stai sicuro che m'imparerà a conoscere ! — Sicuro, c’imparerà a conoscere ! — ripeté Martino, lasciando trionfante la stanza, e brontolando: — Innamorarsi,

fidanzarsi e fors’anche ammogliarsi.... Glielo daremo noi l'innamoramento, il fidanzamento e il matrimonio ! C’imparerà a conoscere !

Il dottor Gilberto non poteva avere il più lontano presentimento del temporale, che gli si adunava sul capo; egli era alla sua consueta passeggiata, che è quanto dire in giro attorno alla villa Rehfeld, con una costanza e regolarità, che davvero avrebbe fatto credere ad una fissazione. Per fortuna il giardino e il parco erano tanto estesi, che il girarvi intorno poteva passare per una passeggiata fatta a posta per godere il panorama della valle.

Quel giorno per altro il giovane dottore doveva avere qualche progetto in mente, perché aveva preso posto sul di dietro del parco ed osservava cupidamente una pergoletta, che si appoggiava alla grata del cancello e che era già vestita dei verdi viluppi di piante rampicanti. Quella pergoletta nel momento era vuota, ma un panierino da lavoro, che si trovava sul tavolino, e un ricamo gettatovi sopra, rivelavano che v'era stato qualcuno e che questo qualcuno probabilmente sarebbe tornato.

Accanto al lavoro c’era un grazioso volumetto filettato d'oro, le nuove rime di Guido Hellmar, si capisce, che eran venute poco tempo prima alla luce, e che esso stesso aveva recato dalla capitale, poiché la villa albergava già da alcune settimane l’ospite illustre. Egli non aveva potuto mantenere la sua promessa di tornare in autunno, a causa di lavori ur-genti, come aveva scritto alla signora di Rehfeld, ed era in cambio venuto adesso ed aveva occupato come l’anno scorso, quale amico di casa e qual “cantore d’amore” il suo posto incontrastato e familiare.

Il dottor Gilberto spiava cautamente e ansiosamente intorno, e siccome non vedeva comparire anima vivente, cominciò a fare ogni sorta d'esperimenti. Prima di tutto tirò fuori un foglio di carta, che egli doveva aver portato sul cuore, poi tentò d'infilare il braccio fra le sbarre del cancello e porro il detto foglio nel panierino da lavoro, ma invano. Per quanto egli si voltasse e rivoltasse, il panierino restava sempre troppo distante, e la cosa era impossibile a farsi, se non entrava nella pergola.

Per alcuni minuti il giovane restò perplesso, ma poi sembrò prendere una risoluzione, gittò ancora una timida occhiata innanzi a sé, e si preparò a scavalcare il cancello.

— Fermo là ! Non è così, che s’entra nei giardini altrui ! — proruppe dietro a lui una voce, e nello stesso tempo un braccio robusto lo afferrò per le spalle.

Gilberto si spaventò in modo, che sdrucciolò giù a corpo morto, ma nello scivolare gli sfuggì di mano il foglio, che svolazzando andò a cadere sul suolo. Il povero giovane era lì confuso e guardava ad occhi spalancati il suo assalitore, il quale diede a un tratto in una gran risata.

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— Signor dottor Gilberto ! È lei ? — Signor Kroneck ! — balbettò Gilberto nel massimo imbarazzo. — Mi rallegro tanto.... di far la sua conoscenza, per

questa via....

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— Già, per questa via l’avevo per l’appunto preso per un vagabondo ! — lo interruppe Enzo. — Le domando scusa, ma a che fine simili esercizi ginnastici ? Lei poteva servirsi della porta d'ingresso; perché non lo ha fatto ?

Gilberto cercava invano una risposta, e altrettanto invano il suo foglio, della cui perdita s’era allora allora avvisto. Enzo, che lo aveva ai piedi, lo raccolse senz’altro, vi gittò su un' occhiata, trasalì e fece alcuni passi indietro.

— È mio.... prego ! — esclamò il dottore ansiosamente e stese la mano per prenderlo. Ma il giovane Kroneck rispose con tutta calma: — Mi permetta un momento; mi sembra di non esserci affatto disinteressato. E ciò dicendo, cominciò a leggere. Gilberto stava lì, come annichilito. Era la copia di quella poesia, che aveva messo sulle furie il suo maestro; essa

portava la dedica: “A Caterina !” E quell’infelice foglio era andato per l'appunto a cadere nelle mani dell’uomo, a cui Caterina era sposa promessa. Terribile sorte !

Lo sposo offeso, per vero, non si mostrò lì per lì molto tremendo; anzi pareva che lottasse con un irresistibile solletico di riso, e per quanto combattesse, finalmente la vinse il solletico, e la risata proruppe squillante e sonora.

— Ah, dunque lei è anche poeta, signor dottore ? Davvero, ella fa concorrenza al nostro celeberrimo Hellmar ! Che versi !

— Signor Kroneck — disse Gilberto con voce tremante — lei è offeso.... e con ragione.... ma cotesto scherno.... — Dio me ne guardi ! — esclamò Enzo, continuando a ridere. — Io non sono niente affatto offeso, al contrario ! Se

avessi saputo la ragione per la quale lei tentava, con tal disprezzo della morte, di scavalcare il cancello, certo non lo avrei disturbato.

— Signore ! — e Gilberto si drizzò di tutta quanta la persona in un accesso d’eroismo. — Sembra che lei mi prenda per un vigliacco, che si possa impunemente beffare e schernire, ma lei sbaglia. Accetto la sua sfida.... noi ci batteremo !

— Volentieri, se le fa piacere ! Ma prima di tutto io non l’ho sfidato, e secondariamente lei ne toccherebbe, perché maneggio le armi molto meglio di lei. Venga via, signor dottore, fra noi dobbiamo accomodar la cosa amichevolmente. Anch’io sono qui in incognito, come lei, volendo fare una sorpresa. Dunque, scavalchiamo tutti e due il cancello e mettiamoci a sedere sotto la pergola; il resto verrà da sé.

Gilberto guardava ancor mezzo stordito il giovane, il quale infatti era venuto a piedi in abito di viaggiatore, con una leggiera borsa pendente dalla spalla. Egli fece svelto il suo bravo volteggio e fu di là, poi ritornò in appoggio e stese la mano a Gilberto per aiutarlo.

— E dovrei.... — domandò questi esitando. — Venir di qua, certo! Badi alle punte delle lance ! Su, su da bravo; ci siamo ! Infatti si trovarono nel parco ed entrarono nella pergola, dove Enzo tranquillo tranquillo si mise a sedere. — Ed ora, mio ottimo dottore e rivale, spieghiamoci in tutto e su tutto. Dunque lei ama Caterina Rehfeld ? — Sì ! — rispose sospirando Gilberto — con tutto il cuore. Ma so purtroppo in qual rapporto lei sta con la signorina,

e.... — Le do la mia benedizione ! — lo interruppe Enzo solennemente. Il volto del giovane medico cominciò proprio a risplendere. — Come ? Non ama Caterina ? — Le voglio tanto bene a quella mia cuginetta e le auguro ogni possibile felicità; ma quanto a sposarla, no, e siccome

è probabile ch’ella se lo prenda a male, non mi par vero di trovare uno che mi sostituisca e prenda il mio posto. Ella vede bene, dunque, che non abbiamo alcun motivo d’esser nemici.

— Nemici ! ? Oh, dobbiamo essere amici, amici per l'eternità ! — esclamò, fuor di sé dalla contentezza, il buon Gilberto.

— Perché no ? Questo ad ogni modo è meglio, che scambiarci delle pistolettate; ma veniamo all'argomento principale! A che punto è con Caterina ? Gilberto si turbò a questa domanda e dovette rispondere:

— Io ? veramente a nessun punto, — Vuol dire che la fanciulla non ricambia il suo amore ? — Dio mio; ella non ne sa niente ! Non ho osato finora di rivelarle i miei sentimenti. Oggi per la prima volta volevo

tentare di dirle con questo foglio, che è da un anno ch’io l’adoro in silenzio e.... disperatamente ! — Per tutto un anno lei ha adorato alla lontana ? Io con la miglior volontà del mondo non ci sarei riuscito. Oh, perché

non ha dato più presto l’assalto alla cittadella, e cercato d’espugnarla ?

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— Ah, non ho ancora espugnato nulla a viva forza — confessò il dottore, tutto compunto. — Quante volte ho pensato di cercare un colloquio a solo con Caterina, ed ascoltare la mia sentenza dalle sue labbra; ma la mia disgraziata timidezza me ne ha sempre impedito ! Non ho mai avuto il coraggio d’aprir bocca.

— Ebbene, lo trovi oggi questo coraggio! Mandi innanzi come esploratore, la sua lirica, e poi, a battaglia cominciata, corra in aiuto.

— I miei versi ? — domandò ansiosamente Gilberto. — È il mio primo tentativo, e credo di non averci il bernoccolo, e che siano molto cattivi !

— Ad ogni modo, c’è dentro la buona intenzione — disse Enzo, consolandolo. — Per una ragazza di diciassette anni, basta un poeta, comunque esso sia. Del resto la sua poesia può piacere.... dunque coraggio e avanti !

— Sì, ella ha ragione ! — esclamò il giovane medico. — Ad una spiegazione bisogna ben venirci una volta. Aspetterò qui Caterina, le parlerò e le dirò.... per l’amor di Dio, eccola ! Mi lasci andare, signor Kroneck !

— Ma dove ? — esclamò Enzo, afferrando il fuggitivo per le falde del soprabito e tenendolo fermo a fatica. — Via ! Non posso.... davvero, non posso ! — Niente affatto ! Lei resterà, e farà la sua brava dichiarazione a Caterina; ed io intanto starò a guardia, perché non

siano disturbati.... — E inutile ! Non mi verrà sulle labbra una sola parola.... — disse Gilberto, in suon di lamento. — Avanti ! All’assalto ! — comandò Enzo, spingendo il timido, e costringendolo a restar seduto sulla panca, mentre

gli rimetteva in mano il foglio con la poesia, e spariva ratto dietro il boschetto. Era tempo; un momento dopo, Caterina, traversato il praticello, si trovava nella pergola. Il giovane, che con sì toccante abnegazione stava a guardia, affinché un altro potesse, senza essere disturbato, fare

una dichiarazione alla sua promessa sposa, aveva scelto il suo posto d'osservazione ad una discreta distanza. Egli non poteva né vedere né udire ciò che accadeva sotto la pergola, e colà sembrava almeno che si parlassero molto sommessamente. Dopo forse dieci minuti ricomparve Gilberto, ma con una cera poco adatta ad uno sposo felice. Esso corse in tutta frotta dall’altra parte del parco,. dov’era l’uscita, quando Enzo lo acchiappò.

— Ebbene ? Com’è andata ? Che viso è cotesto, ch’ella fa ? Ha fatto fiasco ? — No, no ! — balbettò il dottore, correndo innanzi a passo di carica, talché Enzo stentava a seguirlo. — Allora è stato un “si” parli, almeno ! — Non ci sono arrivato ! — esclamò Gilberto, disperato. — Oh, Dio, credo che non ci arriverò mai! — E, infatti, pare anche a me ! E la sua poesia non ha fatto effetto ? — Essa è nelle mani di Caterina; sta leggendola ! — Coraggio ! questo è un progresso. Non vuol nemmeno aspettar l’esito ? — Per l’amor di Dio, no ! Ma lei, signor Kroneck, se ne intende molto meglio di me di simili cose. Se volesse farmi un

piacere da amico e s'incaricasse di.... — Di una dichiarazione per procura ? — domandò Enzo, ridendo. — No, signor dottore, ciò non va. Bisogna ch’essa

senta la dichiarazione dalle labbra stesse dell’innamorato e a un bisogno lo veda inginocchiarsi a' suoi piedi. Io conosco la mia cuginetta; e lei non mi faccia cotesto viso da sconsolato, forse quest’altra volta andrà meglio.

— Sì, un' altra volta ! — ripeté egli respirando, poiché avevan raggiunto il portone del parco, e gli era aperta la ritirata.

Ma poté ben leggere nella fisonomia del suo compagno qualche cosa che lo offendeva, poiché ad un tratto si fermò: — Non pensi male di me, signor Kroneck. Non sono un vigliacco, certo no. Sono stato col professor Eberardo, durante

l'epidemia, delle giornate intere alla capitale, dove ogni respiro era infetto, e sarei venuto con le armi anche incontro a lei, signor Enzo, se ci fossimo dovuti battere; ma fare una dichiarazione d’amore, questo è superiore al mio coraggio; non ci arrivo.

Egli aveva un viso sì costernato e supplichevole, che Enzo represse tutta la sua voglia di beffarlo e gli strinse cordialmente la mano.

— Ebbene, imparerà, imparerà. Credo che lo abbiano sulla loro coscienza il professor Eberardo e il suo factotum. E bisognerà ch’ella venga a una piccola ribellione, contro costoro, quando si sarà inteso con Caterina. A rivederci, dunque !

Gilberto si accomiatò, un poco consolato, ed Enzo prese la via che conduceva a casa, mormorando fra i denti: — Che fatica ci vuole, per fidanzare ad un altro la sua sposa promessa ! Speriamo che i versi del mio rivale facciano

in questa bisogna il debito loro, quantunque dal punto di vista dell’arte poetica facciano rizzare i capelli ! Infatti non s'ingannava. Caterina sedeva con le guance infocate sotto la pergola e leggeva e leggeva, fino a saperne a

memoria ciascuna parola. Che cos’erano tutte quante le opere di Guido Hellmar, con tutti quanti gl'irreprensibili versi e le

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maravigliose rime loro a paragone di quella lirica: “A Caterina !” Un sentimento tenero, profondo agitava il petto della signorina; ella aveva anche lei, adesso, il suo poeta, come la mamma il suo cantore ! Era pur cosa che elevava, l’esser cantata anche lei in quel modo.

La vetrata della sala era spalancata, vi sedeva Evelina e rimpetto a lei Hellmar, che le leggeva un libro, il quale, questa volta, per eccezione, non era di Guido Hellmar, ma di Federigo Schiller. Il giovane poeta prediligeva per leggere agli altri o le sue o le opere classiche, cosa che per lui era lo stesso, ma leggeva bene ed efficacemente e sulle sue labbra le parole del poeta acquistavano tutto quanto il loro valore. Evelina Rehfeld lo sentiva, poiché ascoltava con la massima attenzione, mentre riuniva in un mazzo alcuni fiori, che erano sulla tavola innanzi a lei.

— Vi saluto ! — disse a un tratto una chiara voce.

E subito una figura slanciata, inondata dall’aureo sole meridiano, comparve sulla porta, che metteva sul balcone. — Enzo.... donde mai vieni ? — esclamò Hellmar, lasciando dalla sorpresa cadere il libro; ma quella sorpresa non

sembrò essergli molto gradita. Enzo non rispose, poiché tutta la sua attenzione era rivolta da un' altra parte. Egli aveva chiaramente veduto che

Evelina al suono della sua voce aveva trasalito e, che un vivo rossore le si era diffuso sul volto ancor tanto pallido. Ella alzò gli occhi ed incontrò quelli del giovane, lucenti dalla gioia di rivederla. Il rossore divenne vie più acceso sul volto della giovine signora; si curvò smarrita su i suoi fiori, ma questi le scivolavano dalle mani e cadevano al suolo. Hellmar si chinò vivamente a raccoglierli, ma Enzo lo aveva già prevenuto.

— Prego, Guido.... ci ho avuto colpa io ! — disse egli rapidamente. — Un augurio che promette felicità, questo ! — Che tu devi semplicemente alla paura improvvisa della illustrissima signora — soggiunse Hellmar. — A un tratto

mi sono impaurito anch'io. Tu sei sorto su all'improvviso come da una buca, cosicché si poteva credere di vedere uno spettro. Caro Enzo, possibile che tu non debba capire che vi sono creature umane, le quali hanno i nervi ?

Queste parole volevano essere pronunziate in scherzo, ma vi si sentiva dentro un certo risentimento, a cui Enzo non badò, ma si volse ad Evelina.

— Le ho davvero fatto paura, illustrissima signora? Se mai, le domando perdono. — No, non son rimasta che sorpresa — rispose Evelina, che subito si era rimessa. — Ma pare che lei l’abbia voluta

questa sorpresa, non è vero ? Il suo sguardo incontrò quello del giovane con l'espressione d'un rimprovero, ed egli le rispose con un raggiante

sorriso: — Sì, l’ho fatto apposta, e ci sono riuscito ! Hellmar chiuse il libro e si alzò un po' rumorosamente. Pensò soltanto allora ad esternare la gioia di rivedere

inaspettatamente il suo caro Enzo; ma si vedeva bene, che questa volta il suo caro Enzo gli era sopraggiunto molto inopportunamente.

VIII.

Era stata apparecchiata la tavola per la colazione, sulla terrazza, e la piccola comitiva vi si trovava riunita intorno. La cura del dottor Eberardo non era stata del tutto inefficace, poiché Evelina aveva ripreso le sue funzioni ed il suo ufficio di padrona di casa. Essa non riposava più sulla solita sedia a bracciuoli, quasi sepolta fra le coperte e i cuscini, e difesa con la massima cura da qualsiasi alito di vento, da qualsiasi raggio di luce. Ella sedeva mollemente appoggiata alla spalliera, e pareva non sentire neppure la pungente aria balsamica dei monti.

La giovine signora era senza dubbio ancora delicata, smilza e pallida come un giglio, ma non era più l’affranta, la morente dell’anno passato, quando faceva pena il vederla. Il volto non appariva più così smorto; mostrava perfino un leggiero rossore delle guance, e gli occhi suoi bruni avevano perduto quell’espressione di stanchezza, che li rendeva sì melanconici. Anche i moti della persona non rivelavano più il mortale languore d'una volta; sola era rimasta ne'suoi lineamenti sì vaghi l'antica mestizia, senza accenno a desiderio, a gioia di vivere.

Era stato parlato appunto del dottore Eberardo e della sua cura medica, e Hellmar, che non poteva dimenticare l’offesa fattagli col non secondare il suo desiderio di respingere il brutale, disse:

— Sì, non si può negare che egli in questo caso ha colto nel segno, ma ad onta di ciò ammiro l'eroico coraggio della illustrissima signora, di sottoporsi a qualunque costo a una cura simile. Io non lo avrei fatto, neppure se mi avesse dovuto fruttare il ricupero della salute.

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— E se sapesse, come ha tormentato la povera mamma ! — soggiunse Caterina. — Egli cominciò prima di tutto col mandare al diavolo la cura degli altri medici e ordinò tutto il contrario, e guai a noi se non avessimo obbedito a puntino i suoi ordini ! Ci penso ancora con raccapriccio alla scena dell’autunno scorso, quando la mamma insisteva d’andare in Italia, mentre egli esigeva ch’ella restasse qui. Essa lo pregò con le lacrime agli occhi di non imporle le sofferenze, che l'inverno nel nostro clima reca immancabilmente a tutti i malati di petto, ed egli le gridò: “Non è malata di petto, lei; lei soffre di nervi, e mi farà il piacere di non recarsi in quel forno, che è l'Italia, per ammalarsi più che mai ! Lei resterà qui, e quando ci sarà la neve alta, e un bel ghiaccio andrà a passeggiare!” E difatti ci cacciava tutti i giorni fuori, in carrozza o slitta, e soltanto nei giorni di bufera ci era permesso di restare in casa. Spesso mi disperavo, ma la mamma sopportava tutto con angelica pazienza, come se avesse fatto voto di lasciarsi maltrattare senza opporre la minima resistenza.

Sul volto d'Evelina a queste ultime parole ricomparve il rossore. Ella non alzò gli occhi, poiché sapeva e sentiva lo sguardo che posava in quell’istante su lei, ma si affrettò a rispondere:

— No, no, Caterina; fino dalle prime settimane mi accorsi che la cura del dottor Eberardo mi faceva bene, e perciò mi rassegnavo ai suoi ordini, certo tirannici, e ora mi son quasi assuefatta al suo modo di fare e di curarmi, cosicché siamo fra noi in buonissima armonia.

— Ebbene, noi no ! — dichiarò Caterina in tono dittatorio. — Egli ed io siamo e resteremo nemici giurati. La comparsa del servitore con la corrispondenza interruppe la conversazione. Erano arrivate parecchie lettere e

giornali, che attirarono l'attenzione di tutti. Evelina aveva ricevuto una lettera del consigliere Kroneck, che lesse, e poi guardò meravigliata suo figlio.

— Pare che suo padre non ne sappia niente che ella è qui, Enzo. Mi scrive dai bagni, che la sua cura sarà terminata nella settimana prossima, e che verrà a farci una visitina. Lei al contrario riceverà il suo permesso a luglio. Come si combina tutto ciò?

— Molto semplicemente — dichiarò il giovane con tutta calma. — Io non mi son dato un pensiero al mondo delle sapientissime disposizioni ministeriali, e me ne son venuto via.

— Ti sarà a carico — disse Hellmar, alzando gli occhi dal giornale che aveva in mano. — Ti può costare la posizione, e tuo padre, nel caso, non ne sarà molto edificato. Davvero, caro Enzo, trovo che non c’è coscienza nel tuo subordinare spensieratamente a' tuoi piaceri personali il tuo dovere, e metterti a rischio di veder troncata la tua carriera, per un momentaneo capriccio.

— Non mi fare il maestro, Guido; tu sei quello, fra tutti, che ne ha meno diritto. Quando le tue prime poesie ebbero successo, non solamente non prendesti il permesso, ma te ne venisti via dal tuo direttore senza volere ascoltar ragione. Egli ti pregò insistentemente d'aspettare almeno, finché fosse pronto il sostituto, ma tu gli dichiarasti che era al di sotto della tua dignità continuare a fare scuola ai figli dei borghesi, e che d’allora in poi non ti saresti più occupato che di corone di lauro e di gloria.

Il volto di Guido si rannuvolò, tanto più perché non gradiva che gli si rammentasse il tempo, in cui era un maestruccio spiantato, insegnante in un ginnasio; e in un tono, che voleva essere di compassione, ma che in realtà non era che di superbia, rispose:

— Ti prego, Enzo, come puoi tu tirare in campo un simile confronto ? Un genio ha il diritto, anzi il dovere d’abbattere gli ostacoli che lo angustiano, e slanciarsi nella sua vera sfera, e spero che non vorrai concedere a tutti l'indubitabile diritto del genio! A te è prescritta la tua carriera, e bisogna che tu rimanga in quella carreggiata.

— Sì, carissimo; ma questa è altra cosa ! — rispose canzonandolo Enzo. — Non mi guardi, illustrissima, con quegli occhi severi; la cosa non è così cattiva, come pare; s'io son venuto qui, l’ho fatto con l’approvazione di Sua Eccellenza il Ministro, che mi ha personalmente accordato il permesso, e presa sopra di sé la responsabilità. Egli mi ha persino promesso di parteciparlo esso stesso a papà, andando anch’egli a far la sua cura ai bagni di Wildbad.

— Sei in cosi buoni termini col Ministro ? — domandò Guido sorpreso. — Sua Eccellenza è di solito sì inaccessibile, e persino il consigliere non può vantare alcuna familiarità con esso.

— Sì, la mia amabilità abbatte tutte le barriere, precisamente come il tuo genio ! — rispose Enzo, beffandolo. — Tu vedi bene, che questa volta la mia carriera non corre alcun pericolo. Posso chiederti per un momento il giornale ? Che cosa si scrive dalla capitale ?

Hellmar gli porse il giornale. — Niente di particolare ! Pare che non si vogliano dar pace intorno al nuovo genio drammatico che è stato scoperto

recentemente, o che dev’essere scoperto, poiché egli si ostina a nascondersi sotto un pseudonimo. E davvero è ridicolo l’udire quanto chiasso ha sollevato la stampa in generale per una produzione, che tutt’al più può passare per mediocre. Ne ho già parlato, illustrissima signora, con lei.

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— Vuol parlare della Fata delle Alpi ? — domandò Evelina. — Che cosa ne dice lei, Enzo ! Ella avrà certamente veduto la produzione.

— Certo, ma io subordino il mio giudizio a quello del mio celebre amico, e, almeno a' suoi occhi, la Fata delle Alpi non è stata favorevolmente accolta; tanto è vero ch’egli rompe il bastone sovr'essa.

— Dio mio, io non dico che il lavoro manchi affatto di talento — disse Hellmar con accento di superiorità. — Una certa tensione, certi effettacci non gli si posson negare, ma tutto vi si precipita, vi si accavalla, si slancia innanzi, come un corsiero selvaggio, senza freno e senza briglia, senza misura ne meta; così rovescia tutto ciò che gli attraversa la via e tiene gli uditori anelanti dal primo fino all'ultimo atto. È un lavoro affatto immaturo, e con tutto ciò ha avuto un successo incredibile ! Il pubblico si è lasciato assolutamente imporre fino dalla prima rappresentazione, e ci ha perduto il senno, e il giorno dopo, la stampa ha fatto squillare la tromba delle lodi e festeggiato il nuovo genio sorgente. Del resto è il colmo della réclame il dare ad indovinare al pubblico stesso e alla stampa un enimma simile. Son tre settimane già, che tutta la capitale si discervella, ora indicando a questa, ora a quella celebrità, ed è possibilissimo che l'autore sia invece un uomo affatto sconosciuto nella letteratura.

— Aspettiamo, dunque.... — disse Enzo, volgendosi ad Evelina. — Vuol forse leggerlo quel dramma, illustrissima signora ? L’ho portato meco per caso insieme con gli altri libri,

perché prevedevo che Caterina se ne sarebbe interessata. — Oh, certamente — rispose Caterina, che sapeva appena di che si trattava, assorta com’era in tutt’altro. Infatti che cosa le importava d’un nuovo poema? giacche i pregi della lirica “A Caterina”, non potevano esser raggiunti

di certo. Evelina in quel momento si alzò; gli altri ne seguirono l’esempio. Caterina dichiarò di dover finire al più presto il suo

ricamo, naturalmente ,sotto la pergola, che il giorno innanzi le era stata sì ricca di eventi. Enzo andò a prendere il cappello, perché voleva fare una passeggiata, e soltanto Hellmar seguì la giovane signora in sala.

Era infatti inaudito che si levasse tanto al cielo uno sconosciuto, mentre lui, Guido Hellmar, aveva già fatto vari tentativi inutili per conquistare la scena. Il pubblico e la stampa lo avevano più o meno fischiato, facendogli per quella via intendere che non aveva talento, se non per la lirica, e che si doveva limitare alle sue rose e ai suoi usignuoli.

Il soggiorno nella villa Rehfeld, dove erasi ritirato a smaltire la sua stizza, non aveva realizzato neppure le speranze, che il giovine poeta vi aveva fondate, perché fino dal primo giorno dovette accorgersi che fra lui e la signora c’era entrato qualche cosa, che non era possibile nominare, ma che si sentiva, e tutti i suoi sforzi per ristabilire la primiera romantica familiarità sentimentale fallivano al mite, ma deciso rifiuto della giovine signora. Essa era affabile e benigna verso di lui e mostrava ancora l'antico interesse per le sue liriche e per i suoi successi, ma scòrse bene com’ella intendeva di non permettergli di varcare i confini della semplice amicizia; e quando faceva l'atto di ripetere la dichiarazione d'amore dell'anno scorso, non lo lasciava neppur cominciare, ma con tranquilla fermezza gli dichiarava che non si considerava guarita e che perciò non intendeva di far progetti intorno all’avvenire.

Quel giorno dovette fare anche l'osservazione, che Evelina era sommamente distratta, e ciò lo indisponeva vie più. Non era avvezzo a vedere che ne' suoi tentativi di conversazione si pensasse ad altre cose, e dopo dieci minuti appena si accomiatò col pretesto di dover mandar via alcune lettere di gran premura.

La giovane signora si ritirò nel suo salottino dalle cortine verdi. Si affacciò alla finestra, e stendeva sognando lo sguardo su quel mare di boschi, quando una voce dalla porta domandò:

— Posso entrare ? Evelina si voltò; sulla soglia c’era Enzo, pronto per la sua passeggiata. Egli non aspettò la risposta; il minuto appresso

le fu accanto, e continuò: — Io voleva ringraziarla. — Ringraziarmi ? Di che ? — domandò Evelina. — Per la promessa sì bravamente mantenuta. Non era cosa facile, lo so dalle lettere di Caterina; il dottore Eberardo

è un salvatore di vite, alquanto molesto. — Non si faccia illusioni, Enzo — rispose la giovane signora, seria. — Salvatore della vita ? Son grata al dottore

d'avermi liberato da sofferenze, spesso gravi, e reso possibile ancora un tratto di vita, ma so che non è che breve, e che un po' più presto o un po' più tardi sarà decorso, e non m'illudo nep- pur' ora intorno al mio stato.

— Ma è mai possibile che ella, in presenza d'un simile risultato formi ancora pensieri di morte ? — la interruppe Enzo, in collera. — Non crede dunque ancora alla vita ?

— No ! — rispose ella recisamente. — Ebbene, ci credo io, e vado subito dal dottore Eberardo, perché me ne dia la certezza.

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— Egli farà con lei, come con me, tacerà; e quel suo silenzio è appunto la base della mia convinzione. Egli non mi ha dato mai una speranza precisa, non mi ha mai parlato della mia guarigione; e ad onta delle sue stranezze, è troppo onesto per ingannare.

— O troppo ostinato nel suo proposito di non voler parlare un minuto prima di quello che piace a lui. Ma io so, come debbo trattare quella natura bisbetica, a me risponderà; né verrò via, finché non mi abbia risposto. Ecco, signora, i libri, che ho portati dalla capitale; ne abbiamo già parlato poc’anzi.

— La ringrazio — rispose Evelina, sorpresa di quella affrettata interruzione della conversazione. Ella gettò un' occhiata fuggitiva su i libri che il giovane aveva deposti sul tavolino, e ne prese uno, rilegato, e

semplicemente adorno, dal titolo ch’ella lesse: — La Fata delle Alpi ! Ah, il nuovo dramma che Hellmar giudica sì sfavorevolmente ! Finora non mi ha attirato che il

titolo. Si ricorda, Enzo ? Ella diede questo nome a quel bel fiore azzurro, che colse con rischio della vita dalla rupe. — Lo chiamai così ? — domandò egli con indifferenza, chinandosi a mettere in ordine i libri. —

Ebbene, il nome è antico e volgare, lo avevo dimenticato. — Dimenticato ? — ripeté Evelina, fissandogli in faccia gli occhi con espressione di rimprovero. — E allora ha ella

dimenticato anche la promessa che in cambio ne ricevei ? In quel tempo credetti che mi fosse fatta sul serio da lei, ma probabilmente sarà rimasta allo stato di prova.

Enzo si alzò, si trasse indietro, impaziente, la ricciuta chioma, e forse perché era stato alquanto curvo doveva essergli salito del sangue alla testa, poiché essa era accesa.

— Debbo subire oggi stesso l’esame ? — do- mandò egli. — Mi conceda almeno alcuni giorni per prepararmi. — Vuol dire, in altre parole, che non ha la coscienza tranquilla. Egli rise sonoramente come al solito. — No, in questo momento ho persino una pessima coscienza, specialmente riguardo a lei. Ma sul serio, le chiedo

ancora alcuni giorni di respiro; almeno fino all’arrivo del babbo. Tanto, la mia sentenza l'udrò sempre troppo presto. Ora però bisogna ch'io mi rechi alla tana dell’orso, per ossequiarne l’abitatore. Vi sarà di nuovo fra me e il dottore un' allegra baruffa, ma lo costringerò a parlare ! A rivederci, illustrissima signora!

Egli uscì. Evelina rimase sola, afflitta, e un poco offesa. Era dunque quello stesso Enzo, che quel giorno l’aveva sì teneramente supplicata, a cui pareva star tanto a cuore la

sua guarigione ? Ora aveva troncato il discorso in proposito, per parlare di cose affatto indifferenti, di libri. La sua domanda serissima egli l'aveva elusa con uno scherzo, ed ora andava dal dottore Eberardo, principalmente per divertircisi ed accapigliarsi con quell’originale. Qual differenza fra lui e Hellmar ! Enzo era e sarebbe rimasto sempre quel medesimo incorreggibile scapestrato, volubile e leggiero, inetto a diventare qualche cosa, e forse alla capitale doveva aver menata la solita vita e peggio; in lui non v’era da sperare alcun sentimento forte e profondo.

Ella gittò da una parte con un movimento impetuoso i libri. Aveva ben ragione d’essere indignata, poiché come madre doveva pensare a tutelare l’avvenire della sua figliuola. Non era quistione che di Caterina, lei non ci entrava; tanto era già lungo tempo che l’aveva finita con l’esistenza. Mentre si andava ripetendo seco medesima tutto ciò, le si riaffacciò alla immaginazione l'istante della sera prima quando si rividero, quando quegli occhi bruni, lucenti di gioia si fissarono sui suoi, quando ne scòrse il muto saluto, così eloquente, che le parole non vi sarebbero potute arrivare, e che gli occhi avevano sì ineffabilmente espresso, e in questo ricordo l’amarezza e l’accusa non reggevano.

Enzo intanto s’era recato alla casa del dottore Eberardo. Traversò il giardino, dove non scòrse alcuno, ed era per sonare il campanello, quando si aperse la porta e comparve sulla soglia il dottor Gilberto.

— Signor Kroneck, sia ringraziato Iddio, ch’io la vedo qui ! L'ho veduto traversare il giardino e son corso ad aprire. — Che cosa c’è ? E accaduto qualche cosa ? — domandò Enzo, con uno sguardo indagatore sul pallido viso sconvolto

del giovane medico. — Zitto ! — bisbigliò questi, volgendo un' occhiata di paura verso la scala. — Entri nella mia stanza; là nessuno ci

disturba ! Ciò dicendo, s'impadronì del visitatore e lo trasse nel suo piccolo studio situato a pianterreno accanto all’ingresso.

Chiuse cautamente la porta e si volse al suo ospite. — L’ha scoperto ! — disse egli. — Che cosa ? Il suo romanzo ? — domandò Enzo, che comprese subito la faccenda. — Sì, quella disgraziata poesia ha rivelato tutto; ne avevo gettato il primo abbozzo sul rovescio delle pagine d'un

trattato di medicina; Martino lo trovò e lo portò al suo padrone, e la sera quando tornai a casa, accadde una scena tremenda.

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— Bravo ! Abbiamo dunque un principio di rivoluzione, la quale ad ogni modo è necessaria. Spero però ch’ella avrà tenuto testa al suo maestro ?

Questa supposizione non si avverava, perché Gilberto abbassò gli occhi, e la sua voce passò a poco a poco dalla commozione all’indignazione, quando continuò:

— Dovetti sostenere un esame, un interrogatorio in piena regola; fui interrogato minutamente, e si volle ch’io rispondessi a puntino. Dio mio, ma è poi un delitto l’amare ?

— Al cospetto del suo tiranno, certamente. Ma la scena dev’essere stata comicissima; peccato, che non ci sia stato anch’io !

Gilberto ammirò il coraggio del giovane amico, ma quanto a sé, si affrettò a rispondere: — Non vorrei ritrovarmici un'altra volta per tutto l’oro del mondo. Il dottore minacciò, strepitò, e Martino era lì ad

aiutarlo. Sono stato trattato da tutti e due peggio d’uno scolaretto ! — E non ha reagito ? — domandò Enzo, che si era intanto adagiato sul sofà. — Che dovevo io fare ? — Che doveva fare ? A che ci sono le porte ? Doveva uscire, e non tornar più. Il giovane medico sembrò colpito da queste parole; evidentemente a questo espediente non ci aveva pensato. — Ella dunque pensa, che avrei dovuto o debbo.... — Venir via ! — confermò Enzo. — E se pretendessero di trattenerlo, sfondare finestre e usci, e fare al signor dottore

precisamente una scena simile a quella, ch'egli ha fatto a lei; e allora, non dubiti, la rispetterebbe. — Impossibile ! Eberardo è il mio benefattore, è lui che mi ha reso possibile di studiare; a lui debbo il mio progresso

nella scienza. — E in contraccambio egli l'ha tenuta per anni in una vera e propria schiavitù. Quel vecchio egoista s'è fatto pagare

cento volte il doppio, quello che le è costato. — Porse.... ma ad ogni modo io non posso.... non ho il coraggio.... — E allora lasci stare ! — lo interruppe Enzo, impazientito — e rinunzi a Caterina ! A che mi guarda così inorridito ?

Ella ad ogni modo bisogna che si persuada, che cotesta separazione è necessaria, se vuole sposare sul serio quella fanciulla. Intenderebbe forse di portarla in casa del dottore, come una specie di figlia adottiva ?

— Per l'amor di Dio, no ! — rispose, raccapricciando, Gilberto. — Ci sarebbero in casa delle tragedie tutti i giorni. — Probabilmente, poiché la mia piccola cugina non si farebbe maltrattare con tanta rassegnazione, come fa lei;

eppoi non seguirebbe mai un uomo, a cui mancasse il coraggio di scuotere il giogo d’una simile tutela. La gratitudine è una bella cosa ! Ma è una irragionevole ed assurda enormità il pretendere per se tutta la vita, tutto l’avvenire d’un giovane, per la ragione che lo si è beneficato. Bisogna farlo capire al signor dottor Eberardo.

— Sì, bisogna farglielo capire ! — accordò Gilberto. Egli s'interruppe ed origliò verso la scala. — Ecco Martino, probabilmente ha visto ch'ella è entrata qui e viene per ispiare. Non c’è dubbio, mi tengon qui come

un prigioniero, e non c’è ragazzo a cui non si conceda maggior libertà, che a me. — Grazie a Dio — esclamò Enzo — sento un po' di furore nell’accento delle sue parole ! Ebbene, si rifaccia da Martino

e gli dichiari che non ha niente da cercare né da vedere nella sua stanza, e che se ne vada al diavolo ! Eccolo qua, questo magnifico esemplare di servitore !

Infatti si aprì l’uscio e comparve sulla soglia, grande e terribile, Martino. — Signor dottore, venga immediatamente su dal padrone — disse con accento, che spinse il sangue sulle guance del

giovane. Quantunque gli mancasse il coraggio d'affermare la sua indipendenza, pure quel modo di trattare in presenza d’altri

non era disposto a tollerarlo. — Voi vedete che ho qui il signore — rispose. — Diteglielo al signor dottore. E Martino ripeté imperturbabile: — Il signor dottore ha detto, che venga su subito. — Ebbene, ditegli che non vengo ! Il vecchio servitore spalancò tanto d'occhi, e credeva di non aver capito; quindi tornò a domandare: — Non vuol venire ! ? — No ! E ora andatevene, Martino; ci disturbate. Martino ora guardava Gilberto ora Enzo; non

proferì per altro una sillaba, voltò le spalle, e un minuto dopo fu sentito salire a saltelloni la scala.

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— Il principio non è stato cattivo ! — esclamò Enzo, lodando l’amico. — Ma ora comincia la battaglia grossa col dottore, e data la sua brutalità, si vien dicerto ad una rottura. E pronto lei, in caso estremo ad abbandonare questa casa ?

— Se non c'è altro rimedio.... sì! — rispose Gilberto con un profondo sospiro. — Ma dove andrò? — Per ora all’Osteria della Valle. Là vi sarà intanto bene accolto; e poi, bisognerà ch’ella faccia dei passi per cercare

di rendersi indipendente. La sua dissertazione ha fatto chiasso, ed è stato per anni assistente d'una vera autorità medica; ciò avrà il suo peso, quando chiederà o concorrerà ad un posto. Per il momento la mia cassa, certo modesta, è a sua disposizione.

— La ringrazio, signor Kroneck; ma non ne ho bisogno. Posseggo una certa somma, ricavata dalla vendita della biblioteca di mio padre, che fu venduta appunto dopo la sua morte. Non è molto; ma per il primo anno mi basterà.

— Tanto meglio ! Ma ora si armi, perché sento delle porte aprirsi e dei passi molto sospetti. Pare che il signor dottore s'incomodi a salire in persona, per amministrare al riottoso scolare la ferula. Sia forte; io resto qui e le copro le spalle. Pensi a Caterina !

— Sì, a Caterina ! — ripeté Gilberto. — Oh, se potessi un giorno dirla mia ! Enzo sorrise. Egli stimava la cosa beli' e fatta, e ne aveva motivi. Il vivo rossore della sua cugi- netta, quando la

mattina aveva condotto il discorso su Gilberto, e la parte che aveva preso ai motteggi contro il signor dottor Eberardo, gli avevan fatto capire come stavano le cose; ma per ogni ulteriore spiegazione adesso mancava il tempo, poiché si sentiva il furibondo passo del dottore, che saliva le scale. Subito dopo egli entrò, seguito da Martino, il quale credevasi autorizzato ad assistere all’esecuzione e come accusatore e come secondo tutore del giovane assistente.

— Buon giorno, signor dottore ! — disse Enzo, che stimò necessario di slanciarsi il primo sulla breccia. Eberardo, che naturalmente trovavasi informato della sua presenza, lo guardò sospettosamente; fiutò qualche cosa di

simile ad un complotto. — Signor Enzo Kroneck.... è qui anche lei ? Che cosa fa qui col mio assistente ? E come lo conosce ? — Il signor dottore l'accompagnò nella sua prima visita alla villa Rehfeld, e là lo vidi e ne feci la conoscenza — rispose

francamente Enzo. — Precisamente !... E subito dopo lei partì — brontolò Eberardo, che adesso cominciava a credere alla accidentalità di

quella visita, e a cui faceva molto comodo, che il giovane Kroneck fosse arrivato. Egli era il promesso sposo di Caterina Rehfeld, e quando avesse saputo ogni cosa, si sarebbe rivolto naturalmente

subito contro il rivale. Quindi il dottore non ebbe alcun riguardo nel prendere a testimone del colloquio il supposto alleato, poiché lo riguardava tanto da vicino.

— Che cos’è questo, Gilberto ? — cominciò il dottore in un tono, che prediceva il temporale. — Pare che Martino non abbia bene inteso. Che cos'ha da dirmi ?

Il giovane assistente aveva indietreggiato tre passi; per quanto avesse valorosamente sostenuta la sua indipendenza al cospetto di Martino, pure essa non resisteva all’avvicinategli del tiranno in corpo ed anima. Per fortuna, Enzo riconobbe ciò che di minaccioso aveva la situazione e gli si avvicinò alle spalle, cosa che sembrò incoraggiare il suo protetto, poiché assai fermamente rispose:

— Com’ella vede, signor dottore, ho delle visite; e Martino mi ha chiamato in una maniera, che era in sommo grado offensiva.

— E lei, allora, ha risposto di non voler venire ? — Sì, l’ho risposto ! — Questa è affatto nuova ! — proruppe Eberardo, assolutamente furibondo. — Prima lei si innamora senza il mio

permesso, e poi mi nega apertamente obbedienza. Crede forse, ch’io mi debba rassegnare ad un simile modo di agire ? — Signor dottore, la prego.... Gilberto s'imbrogliava; la voce gli rifiutava il suo ufficio, o dalla paura o per sentimento di ribellione; ma a quel punto,

Enzo gli sussurrò appena percettibilmente: — Che trattamento indegno ! — Che trattamento indegno ! — ripeté Gilberto ad alta voce. — Lei non ha da pregare né da chiedere — rispose Eberardo — venga su subito in biblioteca ! — No, signor dottore; e se lei continua su cotesto tono, non mi resta altro.... E si trovò di nuovo arrenato. — Che andarmene — gli soffiò di dietro Enzo. — Che andarmene — dichiarò il giovane medico, e questa volta energicamente. — Non ci si provi ! — saltò su il dottore, dando un sì terribile pugno sulla tavola, che questa scricchiolò. — E ora lei batta sulla sedia ! — comandò Enzo, che fu sorpreso, di trovar pronta obbedienza.

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Gilberto infatti lasciò andare un pugno sì violento sulla sedia, che questa traballò rumorosamente e cadde. Ciò produsse il suo effetto, poiché allora fu il dottore che retrocedette tre passi.

— Gilberto, credo che lei abbia perso il cervello ! — proruppe il dottore, con voce rauca per la collera. — No ! — rispose il giovine medico — io non sono che compreso della mia dignità ! E accompagnò questa dichiarazione con una pedata, che fece rotolare la sedia per alquanti passi nella stanza. Eberardo lo guardò fisso alcuni secondi, poi si volse al suo Martino, che a buon conto si era rifugiato accanto alla porta. — Non le lo avevo detto ? Malattia cerebrale ! Tutta quella storia d'amore non era che un sintomo, ora siamo allo

sviluppo. — Prego, non mi offenda con le sue supposizioni ! — esclamò Gilberto. — Ho sopportato per anni la sua tirannia

pazientemente, perché ella era il mio benefattore, ma ogni cosa ha i suoi limiti. La gratitudine è una gran bella cosa ! Ma è un' iniqua enormità d'usurpare tutta la vita, tutto l'avvenire d’un giovane, perché lo si è beneficato !

— Bene ! — esclamò Enzo sottovoce — ben ricordato ! — Ma ora — continuò Gilberto — ora difenderò la mia libertà, e se volesse trattenermi, sfondo finestre e porte, come

fossero di vetro ! — Signor dottore, venga via; la cosa comincia a diventar pericolosa — pregò Martino, cercando di trascinare il suo

padrone. Ma questi non riusciva a spiegarsi l'improvviso cambiamento del suo dolce e timido assistente, e siccome sapeva, come

medico, in qual modo dovevano essere trattati dei malati simili, cambiò tono e disse con quanta maggior mitezza potè: — Gilberto, sia ragionevole; tutto si accomoderà. Vada a letto; le prescriverò qualche calmante e Martino.... — Che Martino non si accosti più a me, e in quanto alle ricette me le faccio da me stesso! — esclamò Gilberto, affatto

fuor di sé, quando si accòrse che veniva trattato come un irresponsabile. Quando uomini timidi e paurosi hanno qualche accesso di eroismo, di solito vanno all’estremo opposto; e anche qui era

il caso. Tutto ciò che il giovane aveva patito d'umiliazioni e sottomissioni, d'oppressione e di schiavitù negli anni passati, sembrò sfogarsi tutto ad un tratto, così ch’egli lo disse in faccia ai suoi tormentatori.

Martino, che era tirannico soltanto contro chi non si difendeva, lo guardava raccapricciato. Eberardo tentò alcune volte d'intervenire, ma anch’esso aveva perduto la bussola, dopo aver udito il suo assistente che lo sopraffaceva e sgridava per l’ultimo.

— Signor dottore, ora basta ! Ora cèssi, altrimenti chi sa mai che cosa accade — disse Enzo, prendendo per un braccio l’assistente al parossismo della rabbia.

La sua voce fece ritornare alquanto in sé Gilberto, il quale, per altro, bramoso di combattere ancora, domandò: — Crede veramente, che basti ? — Assolutamente ! E ora — ed Enzo abbassò la voce — via subito di casa ! La riscossa non si farà aspettare;

abbandoni il campo, ma da vincitore. Gilberto seguì il consiglio dell’amico, prese il cappello, che era sul tavolino, e s'incamminò verso la porta. — Addio, signor dottore ! Non mi darò riposo nè pace fino a tanto che non l’avrò ricompensato di tutto ciò che ha fatto

per aiutarmi a mantenermi agli studi. Amore non ho bisogno di ricambiarne, perché non ne ho mai avuto da lei; addio ! — Martino, non lasciarlo! — esclamò il dottore, accortosi allora che il giovane faceva sul serio. Ma Martino si era nascosto nell'andito e non si mosse; e in quel momento Enzo stesso trattenne il dottore,

sbarrandogli la via e coprendo la ritirata del suo protetto. — Ma, caro signor dottore, non può trattenere a forza il suo assistente, se vuole andarsene — diss’egli efficacemente.

— Egli a buon conto non è un affisso della sua casa, inventariato, a cui non sia permesso di muoversi dal posto. — Vuol forse prender la sua parte ? — esclamò in collera il dottore. — Certo ella non sa affatto di che si tratta, e di

chi specialmente si tratta. Ella non s'immagina a mille miglia che.... che.... quella Caterina Rehfeld è appunto la persona di cui si è innamorato Gilberto, e se lei lo lascia fare, perderà la sposa, l’eredità, ogni cosa !

— Si calmi, si calmi, signor dottore ! Accomoderò io tutto, si fidi di me. — Sì, lei è l'uomo, l’unico che può recare rimedio. Sposi alla lesta quella giovanetta, mi dia ascolto, la sposi subito ! E

poi se la porti alla capitale. Quando Gilberto non ne saprà più niente, ritornerà certo alla ragione. La sposerà ? — domandò con aria minacciosa al giovine.

Ma Enzo gli rispose con un sorriso: — Certo ! Non son venuto qua che per questo. — Sia laudato Iddio ! — esclamò Eberardo respirando, scorgendo la possibilità di tener chiuso il suo assistente,

almeno finché il matrimonio fosse un fatto compiuto, e così passato il pericolo. — Martino, codardo, vuoi uscir fuori dal tuo nascondiglio ? credevo che tu te la fossi data a gambe !

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Martino comparve sulla porta, ma disse tutto tremante di paura: — Oh, signor dottore, è stata una scena terribile ! — Sì, quel Gilberto ha coraggio ! Chi lo avrebbe creduto ? Era quasi quasi fiero e brutale come me — disse il dottore

con un misto di collera e d’ammirazione. — Ma ora lasciaci soli; ho bisogno di parlare di qualche cosa d'importante col signore.

Martino, ch’era diventato piccin piccino, obbedì senza contraddire. Eberardo trasse fuori il fazzoletto e si asciugò la fronte, poi emettendo un profondo respiro, si abbandonò sopra una sedia e ricominciò a parlare:

— Dunque bisogna bene ch’ella si sposi in tutti i modi; lo vede da sé ! Quando vuol celebrare il matrimonio ? — Appena che mi sarà possibile ! Ma ora anche a me permetta una domanda. Lei si ricorderà del colloquio, che

tenemmo l’anno passato nella sua biblioteca. Ella allora mi promise di farsi un concetto chiaro dello stato della signora di Rehfeld, ed ebbe persino la bontà d'assumerne in persona la cura. Ella capisce bene, qual è il mio desiderio; quello cioè di sapere adesso qualche cosa di preciso.

Gli occhi del dottore brillarono maliziosamente, come a significare “ho bell'e inteso; ma, caro generino, questa volta l’hai fatta bassa!”

— Ah, ah, per quei reali interessi ! Capisco, capisco perfettamente ! La sposi, la cuginetta, in nome di Dio, la sposi, e non si lasci illudere dall’apparente miglioramento della signora. È l’ultimo guizzo della lucerna della vita !... accade spesso nei tisici.... e sono sintomi, che siamo proprio agli sgoccioli. Il caso, fin di principio, lei lo sa, non presentava speranza, cosa che naturalmente ella deplora.... c’intendiamo, non è vero ?

— Perfettamente! — disse Enzo, che se l'aspettava questa risposta e teneva pronte le sue armi. — Ecco dunque che su questo punto lei è costretto a dare ragione al professor Mertens. — Che ? Al Mertens ? Non gli do mai ragione a costui ! — esclamò Eberardo, uscendo da' gangheri appena che ebbe

udito pronunziare quel nome. — Sicuro, ella ha dichiarato che è un caso senza speranza, e il professor Mertens dichiarò lo stesso un anno fa. Del

resto egli adesso riprenderà la cura, se la signora ritornerà alla capitale. Il dottore balzò su, come se fosse stato punto da una serpe. — Alla capitale ? E deve cadere nelle mani di quel Mertens ? Non se ne fa niente, non lo tollero, lo proibisco ! — Non c'è rimedio; bisogna che la signora si rechi alla capitale per affari importantissimi — disse Enzo, mentendo —

e siccome lei colà non può curare la signora, è naturale che la riprenda in cura il suo primo medico. — Sarebbe proprio una bella storia ! — proruppe Eberardo, passeggiando furibondo in su e in giù per la stanza. —

Dunque dopo che mi sono affaticato per un anno intero, e ho adoperato tutto il mio sapere e la mia esperienza nella cura di questa malata, il signor Mertens dovrebbe carpirmi di sotto il naso il successo? Ora, che il pericolo è rimosso, dovrebbe lui terminar la cura e strombazzare al mondo che ha trovato la pietra filosofale, che ha fatto il prodigio di rendere la salute ad una inferma spacciata per morta ? Ma I' hanno da far con me ! No, non se ne fa niente le ripeto.

— Ma, scusi — insisté Enzo — ha detto un momento fa.... Il dottore non lo lasciò finire. — Ciò che ho detto, è una fiaba ! Non volevo prematuramente far noto il risultato, ecco tutto ! non volevo.... insomma,

la signora Rehfeld non è più in pericolo di vita e ritornerà perfettamente sana; sana come me e lei ! Enzo si era alzato anch’esso, e con una superiorità comica riuscitagli maestrevolmente, rispose: — Signor dottore, non mi riputerà sul serio tanto gonzo da credere a coteste sue parole, dopo che un momento fa mi

ha dichiarato il contrario. Capisco che l’intervento del professore Mertens debba riuscirle mal gradito, tanto più che ora deve applicare un suo nuovo metodo di cura. Se, ad onta di tutto, egli mira con esso ad ottenere un trionfo, questo è affar suo; quanto a me vorrà ben permettermi d’attenermi alla sua prima dichiarazione.

Il giovane aveva ben calcolato; l'idea, che l'aborrito rivale potesse raccogliere il frutto delle sue fatiche e farsene bello, fece sul professore l’effetto del panno rosso, tenuto innanzi ad un toro. Egli diventò cieco dalla rabbia, e proruppe con violenza inaudita:

— Ebbene, sappia, cacciatore di patrimoni, che con lei ho precisamente rappresentato una commedia! Mi sono assunto quella cura soltanto per dar di frego al suo calcolo infame, e ora le do la mia parola d'onore come medico e come uomo, che la signora Rehfeld non è stata mai etica. Colla mia diagnosi, fin di principio stabilii che si trattava d’una nevralgia, che per alquanto tempo, certo, ha gravemente minacciato la vita della sofferente; ma ora non c'è più pericolo, la crisi è superata, e quel che le resta di debolezza, saprò toglierla pure. Oggi stesso dichiarerò alla signora, che garantisco la sua piena guarigione, e che, per quanto posso prevedere, ella vivrà altri cinquant’anni.... eppoi, vedremo, s’ella andrà di nuovo a farsi curare dal Mertens !

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Egli trionfava del supposto cacciatore d’eredità, a cui credeva d’avere ammenato il colpo di grazia; ma il volto del giovane s'irradiò ad un tratto d’una gioia indicibile, tanto che proruppe giubbilando:

— E dunque vero ? Sì, alla sua parola d'onore ci credo ! Evelina è salva.... Dio ne sia ringraziato ! — Evelina ? Come ? Che vuol significar ciò ? — domandò Eberardo rannuvolato. Ma Enzo continuò con gioia irrefrenabile: — E ora, signor dottore, infurii e tempesti pure, mi getti fuori della porta, faccia di me quello che vuole, non me ne

importa. Lei mi ha salvata Evelina, ed io debbo dal profondo del cuore ringraziarla, mille e mille volte ringraziarla ! E ciò dicendo si strinse impetuosamente al petto il dottore, invano recalcitrante. Eberardo non sapeva come spiegarsi la cosa, e per trovarne la chiave disse: — Ah, lei se ne rallegra ? Ma l’eredità le sfugge di mano e..,. Dio del Cielo, tutta quanta la. storia mi si fa chiara di

luce meridiana ! Ho capito ! Lei è innamorato d’Evelina ! Enzo tacque e abbassò gli occhi: al dottore quel silenzio bastò; cadde sur una sedia, e si batté la fronte esclamando: — Asino che sono stato ! Seguì una pausa imbarazzante; indi il giovane si avvicinò al dottore e la sua voce sonò grave e quasi di rimprovero. — Perdoni, signor dottore, se io ho scelto questo mezzo, ma lei non me ne aveva lasciati altri. Tutta la mia speranza

l’avevo riposta in lei, poiché sapevo che anni fa aveva trattato con incredibile risultato un simile caso. Ad una preghiera per quanto calda e cordiale, lei non sarebbe stato accessibile, e ne fecero l’esperienza mio padre e la mia cugina, e allora io, mi perdoni, ho speculato sulla sua misantropia. Sapevo che non si sarebbe fatta sfuggire l'occasione di preparare al supposto cacciatore di patrimoni una sensibile stizza ed altrettanta al suo rivale nella scienza, e il risultato mi ha dato ragione.

La fronte del dottore si era tutta rannuvolata; e con la sua abituale amarezza e brutalità rispose: — Ebbene, signor Kroneck, ciò ch’ella mi dice non è troppo lusinghiero. Dunque ella ha speculato sulla mia

malignità, ha fatto di me il suo giuoco e ora ride dello scimunito, che è caduto ciecamente nella sua trappola. — Ma non dell’uomo che ha salvato una vita, a me cento volte più preziosa della mia stessa, signor dottore ! Per

quest’uomo sento nel cuore la più profonda gratitudine; quest’uomo può chiedermi tutto, tutto può esigere da me, e spero di dimostrargli che nel mondo c’è, oltre all’egoismo e alla speculazione, anche qualche altra cosa. Non deve adirarsi meco, no, dottore, non deve adirarsi, poiché mi ha reso il più felice dei mortali!

Egli gli porse la mano con un sorriso di gioia sì ineffabile, sì raggiante, che ebbe virtù di sgombrare la nuvola di sulla fronte dello scienziato, il quale la prese e la strinse cordialmente e fortemente.

— Bisogna, affè, ch'io lo confessi! In fondo, lei ha ragione; per altra via non sarebbe riuscito ad avermi come medico. Briccone ! Briccone ! con cotesti occhi furbi. Ma chi le ha insegnato a cotesta età a penetrare ne' cuori degli uomini sì facilmente e profondamente da dar molti punti a noi, barbe grige ? Ho tanto, ma tanto piacere che cotesti occhi limpidi e cotesta faccia aperta non abbiano mentito ! Non voleva andarmi giù, che vi dovesse esser dietro un birbante, e mi stizzivo tutte le volte che ci pensavo!

Ciò dicendo continuava a scuotere e stringere la mano del giovane, e sembrava tutto contento del tiro che aveva saputo fargli.

Disgraziatamente quella contentezza non durò a lungo, perché a un tratto si affacciò alla mente del dottore l’enorme danno, che ne veniva a' suoi interessi da tutto questo complesso di fatti.

— Ma della bambina che ne sarà ? — esclamò egli. — Eppure dovrà ad ogni modo maritarsi ! — Certo — rispose Enzo con calma — ella probabilmente sposerà il dottore Gilberto. Non torni ad arrovellarsi, signor

dottore; bisognerà ch’ella si familiarizzi con questo pensiero, poiché non ha alcun diritto d’opporsi. E ora mi permetta d’andarmene; bisogna che raggiunga il fuggitivo, altrimenti nell'eccesso della sua nuova dignità d’uomo me ne fa qualcuna, che non vorrei.

Il giovane partì, e il dottore salì furibondo la scala, in cima alla quale incontrò Martino. — Se 1l’è andato il signor Kroneck? — domandò il vecchio servitore. — Sì, Martino. Eberardo in mancanza d'una tavola diede minaccioso un colpo sulla balaustrata della scala. — Ma anche lui è innamorato; e per giunta della sua suocera ! — Dio ci abbia nella sua santa grazia ! — esclamò il vecchio Martino inorridito. — Un caso simile non è mai

avvenuto! Ma io gliel’avevo detto, signor dottore, quando c’entra di mezzo la donnetta, tutti gli uomini diventan pazzi !

IX.

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Gilberto aveva intanto seguito il consiglio dell’amico e si era recato all’Osteria della Valle, dove incontrò la curiosità dell’oste, il quale naturalmente rimase molto meravigliato, che l’assistente e compagno inseparabile del dottore Eberardo volesse a un tratto albergare presso di lui. Per fortuna comparve subito dopo Enzo, che accomodò la cosa. Egli inventò lì per lì un pretesto, che certamente non fu creduto che per metà! ma il giovane medico ebbe, ad onta di tutto, la camera migliore; fu mandato un garzone a prendere le cose più indispensabili lasciate in casa del dottore, ed Enzo poté senz’altro pensiero lasciar lì il suo protetto.

Ora voleva tornare a casa e scelse la via più corta a traverso al giardino, che veniva frequentato soltanto dai forestieri, poiché i contadini e i montanari preferivano di trattenersi nell’osteria. Il giovane rimase quindi sorpreso, quando scòrse un giovanotto in carniera di panno greggio e cappello alla montanara, che stava seduto solo solo sotto un gran melo. Egli aveva il suo boccale di birra ancora intatto dinanzi e guardava con cupa espressione verso la via provinciale, che di lì si vedeva e che si dominava quasi tutta quanta. All’apparire del forestiero, si fece attento, e balzò a un tratto in piedi, facendosegli innanzi.

Enzo trasalì; egli non aveva veduto che una sola volta quell'uomo, e per giunta in sul crepuscolo; ma subito lo riconobbe e si mise in guardia.

— Siete voi, Vincenzo Ortler ? ! Mi volete anche qui sbarrare la strada, e siete bramoso di attaccar briga, come quel giorno ?

Il cupo volto del giovanotto non si rasserenò, ma scrollò il capo. — No, signor Enzo, ora so meglio, come stanno le cose. L’altra volta ho sbagliato.... non per male.... ma ho sbagliato. Era una scusa.... quasi una preghiera; così che il giovane sorrise. — Gua', quando si ragiona, possiamo continuare a spiegarci. Quella volta foste troppo villano, perché io mi prendessi

la cura di farvi persuaso; ma deve averlo fatto, suppongo, la Gondela. — No, fu Ambrogio ! — Ah, Ambrogio, il montanaro ! — disse Enzo. — Sì; me ne ha dette delle crude e delle cotte, quando gli ho parlato nel mio ritorno al suo podere. “Il signor Enzo, mi

ha detto, non fa di queste cose; ci metterei la mano sul fuoco”; e poi che ero un asino e che dovevo guardar meglio, per non isbagliare. Certo ora lo so anch’io, che si chiama Hellmar, non Kroneck. Sì, Ambrogio le vuol tanto bene; non vuol arrivarci al podere a monte ?

— Porse; se ne avrò tempo — disse il giovane, evasivamente; e mutando subito argomento, continuò: — Ma come va con voialtri innamorati ? Non ho ancor veduto Gondela; non c’era, quando ci son passato; così mi ha detto suo padre.

— Lo credo io; essa aspetta il suo tesoro — disse ridendo — e per ciò non può trattenersi con gli ospiti. C’è tornato il mascalzone, il signorino, e ora fra loro due le cose vanno a maraviglia.

Enzo aggrottò le ciglia e le sue labbra s'incresparono ad un ghigno di disprezzo. — Ha egli dunque ricominciato il suo solito giuoco ? lo credeva che la cosa fosse morta e seppellita. — Anch’io lo aveva creduto e non ho potuto capire, che Gondela, si ritrosa ed onesta, siasi messa a fare la principessa,

e non guardi più nessuno. Ora se ne sa la ragione; le ha promesso di sposarla ! — Alla figlia dell’oste della valle ? Guido Hellmar ! ? — Precisamente lui ! Ma non lo deve sapere nessun altro; egli ha dato parola alla fanciulla e fatto giuramento,

dicendo che prima bisognava che accomodasse la cosa con la sua nobile famiglia; la Gondela ha quindi taciuto, e neppure il padre ne sa nulla; ma poc'anzi, avendo voluto sapere a ogni costo ogni cosa, e per l’ultima volta avendo voluto sciogliermi “sì, o no” è saltato fuori l'enimma. Fra qualche giorno egli parlerà con l'oste, e poi la condurrà seco in città e diventerà la illustrissima signora Hellmar.

— E la Gondela lo crede ? — E lei non lo crede ? — domandò il giovanotto. — Eppure, verrà bene in chiaro, perché fra me e il signorino abbiamo

da scambiare alcune parole. L’aspetto qui, e questa volta non isbaglio ! — Vincenzo, non facciamo prepotenze ! Si può accomodar la cosa in tutt’altra maniera — disse Enzo. —

Promettetemi di lasciare andare in pace quella persona; vi do la mia parola che Gondela lo rimanderà oggi stesso con lo scorno e la vergogna.

Vincenzo spalancò gli occhi a quella promessa, il cui adempimento gli sembrava impossibile. — Sì.... e come vuol mai fare ? — domandò cupamente. — Questo è affar mio. Vado a trovare la fanciulla, le apro gli occhi.... ma vi ripeto.... non voglio vie di fatto; posso

fidarmene ?

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Vincenzo accennò soltanto col capo di sì. Il giovine signore aveva una risolutezza, che bisognava credergli ad ogni costo; forse era una specie di mago, perché senza l’uso della magia non avrebbe potuto con tanta sicurezza garantire il cambiamento d'opinione di Gondela.

Il giovanotto, dopo un po' d'esitazione, tornò al suo posto, di cui si serviva come di luogo d’osservazione. Dopo un quarto d'ora circa, comparve infatti l'odiato rivale in elegante e pittoresco costume d'alpinista, su per la via provinciale; salutò l'oste della valle, che gli venne incontro, ed entrò nell’osteria. Vincenzo si dominò, costringendosi a restare al suo posto, quantunque gli si chiudessero le pugna; egli voleva prima vedere, se il signor Enzo manteneva la parola.

Questi intanto aveva una grande difficoltà da superare per mantenere la parola data a Vincenzo. Egli aveva fatto chiamare Gondela in una delle stanze più appartate, dov'egli si trovò da solo a sola; e a prima vista si scorgeva che il colloquio sarebbe stato tempestoso. Le guance della fanciulla ardevano, gli occhi le fiammeggiavano e la voce tremava della più violenta agitazione.

— Non è vero ! Non è vero ! Me lo ha promesso cento volte; me ne ha data parola e giuramento; glielo domanderò, quando viene.

— Ci guadagnerai poco — rispose Enzo — ti aggiungerà un nuovo giuramento a quell’altro; e saranno tutte menzogne!

— Non è vero ! — persisteva 'Gondela. — Io ho mantenuta la mia parola; ho taciuto; non è stata una cosa facile per me, quando mio padre voleva che sposassi Vincenzo. Ma il signor Hellmar ha voluto così, ed io gli ho obbedito.

— Perché hai respinto Vincenzo ? — domandò Enzo, in tono di rimprovero. — Quello ti amava per isposarti da giovane onesto, e credo che ti ami ancora, per quanto tu abbia agito tanto male verso di lui.

Intorno alle labbra della fanciulla guizzò come una mal repressa voglia di piangere, poi proruppe: — Egli ha i suoi capricci ed io ho i miei; sarebbe un cattivo matrimonio. Giacché mi ha tormentata tanto con le sue

gelosie, come se non dovessi guardare mai altri che lui, ora gliel’ho fatta ! — Dunque per dispetto e capriccio sei corsa nelle braccia d’un altro.... vergognati, Gondela ! La fanciulla volse il capo con un impetuoso movimento. — Mi lasci in pace, signor Kroneck; oramai con Vincenzo è finita.... Sarò moglie del signor Hellmar, diventerò una

gentildonna, avrò casa e servitù; avrò carrozza. Egli me lo ha promesso ! ma bisogna che aspetti ancora un poco di tempo; perché egli ha genitori sì crudelmente superbi, che non possono soffrire, ch’egli sposi una campagnuola.

— Ed io ti dico che Hellmar, prima di tutto, non ha più i genitori, poi che non è di famiglia nobile, né possiede ricchezze, come ti ha dato ad intendere. Del resto egli è pienamente libero e padrone di se, e poteva condurti all'altare fin dall'anno passato, se avesse fatto sul serio. Ma nello stesso tempo ha fatto la corte ad un' altra, ad una nobile signora....

— No ! No ! — proruppe Gondela diventando spaventevolmente pallida. — Non lo credo.... non credo a nessuno nel mondo.... non credo che a lui, a lui solo.

— Va bene; e allora lo saprai dalle sue stesse labbra ! Certo non ricorro volentieri a questo mezzo, ma qui si tratta d’evitare una sventura, e non c’è altra via per convincerti.

Gittò uno sguardo intorno alla stanza, e quindi si rivolse alla fanciulla. — Ecco il tuo sposo ! Io lo farò parlare, e tu starai ad ascoltare, testimone non vista. Vai nella stanza accanto; di lì

puoi udire parola per parola, ma non devi tradirti neppure con un accento, finche non sarai persuasa e convinta del suo tradimento.

Era una cosa strana, il vedere quale ascendente esercitava Enzo, di solito sì placido, sugli altri, quando faceva da senno. Come aveva signoreggiato il caparbio Vincenzo, così ora aveva ridotta all’obbedienza Gondela; ella quasi macchinalmente obbedì ed entrò nella stanza attigua, chiudendo la porta dietro di sé. Dopo pochi minuti Hellmar saliva la scala.

— Buon giorno, Enzo — diss’egli entrando. — L'oste mi disse che eri di sopra e con Gondela. Dov’è mai andata ? — È stata chiamata e a quest’ora sarà in chiesa — Meglio così, mi sarebbe riuscito noioso di trovarla qui. Ma pare che tu abbia avuto un colloquio proprio intimo con

la ragazza; vuoi forse attraversarmi la strada ? — Oh, no, ma vorrei farti una domanda. È egli vero, che hai promesso a Gondela di sposarla ? — Che ha chiacchierato forse quella stupida ?

— rispose vivamente Hellmar. — Eppure io aveva voluto la sua parola, che avrebbe taciuto, e credevo che l’avrebbe mantenuta.... perché....

— Perché tu hai genitori sì superbi che non consentono una simile unione. Tu lo vedi, so tutto.

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— Ebbene, sì; con che cosa si può chiuder la bocca a una zotica simile ? — disse stizzito Hellmar. — Ella avrebbe senza dubbio millantato il suo matrimonio co' suoi pari, se non le avessi dato ad intendere che allora il matrimonio sarebbe andato all'aria. Ma va a fidarti di questi villanacci ! A faccia tua per altro non avrà taciuto, perché sa, che siamo amici, e forse credette che tu sapessi la cosa. In questo caso non ci sarebbe nulla di male.

— Ad ogni modo tu devi aver dato alla ragazza delle assicurazioni formalissime, poiché ella si riferisce a quelle con una sicurezza, che io stesso avevo cominciato a crederci. Tuoi tu forse tradurre in realtà uno dei tuoi idilli e sposare una villanella ?

Hellmar diede in uno scroscio di risa. — Ma, Enzo, ti prego ! Hai tu perduto il senno, O Gondela ti ha fatto vedere la luna nel pozzo ? Io, Guido Hellmar,

sposare una contadinotta ! ! La figlia dell’oste della valle, che porta i boccali della birra a tutti questi villani, presentarla nei salotti delle mie ammiratrici nella capitale.... sarebbe, davvero, uno scherzo de' più piccanti !

Egli ricominciò a ridere, ma Enzo non si associò al suo buon umore, guardò la porta, che restava ancor chiusa, e domandò:

— Ebbene, se non avevi buone intenzioni, perché hai messo in iscena tutta questa commedia ? — Perché ? Mio Dio, perché non c’era altra via per ottener qualche cosa. La Gondela ride e scherza con tutti, ma se si

cerca di avvicinarla un po' più di quel che non le garba, diventa una gatta selvatica. La cosa cominciava a diventarmi noiosa, e bisognava che ne venissi a capo.

— Lei poteva risparmiarsi la fatica ! — tuonò improvvisamente la voce di Gondela, e si spalancò la porta e si presentò sulla soglia la ragazza.

Pareva che tutto il sangue le fosse sparito di sulle guance, ma le mani erano strette a pugno e gli occhi fiammeggiavano minacciosi, quando comparve innanzi a Hellmar, che repentinamente si ritrasse fino alla parete.

— Poteva risparmiarsi la fatica ! — ripeté ella, quasi soffocata dalla collera e dalla vergogna. — La stupida contadinotta ci pone fine ella stessa, e quantunque il matrimonio possa riuscirle più povero, non sarà mai così cattivo e sozzo, come se avesse sposato un Guido Hellmar, un mascalzone !

— Gondela, tu ? — balbettò il miserabile. — Come puoi.... non ho parlato che in ischerzo con l’amico.... — Sì, ma io faccio sul serio, io, e sarà serio anche per te; imparerai a conoscere la gatta selvatica ! — proruppe

ferocemente la ragazza. Hellmar non seppe trovare altro rimedio, che quello di nascondersi dietro le spalle di Enzo. — Per l'amor di Dio, tienla lontana e impedisci lo scandalo ! — gli mormorò. E abilmente profittando del momento in cui Enzo si frapponeva fra lui e lei, strisciò rasente alla parete, guadagnò la

porta e se la diede a gambe. Gondela voleva slanciarsegli dietro e vendicarsi all’istante, ma Enzo l’afferrò per un braccio e la trattenne. — Sii savia, ragazza ! — disse a mezza voce, ma energicamente. — A che tutto questo chiasso ? Non nuoce che a te.

Pino adesso nessuno ha saputo nulla, fuori che io e Vincenzo, e nessuno deve saperlo. Noi taceremo; taci anche tu. Queste parole e la vergognosa ritirata del suo supposto sposo ridussero alla ragione Gondela. Ella rimase lì, e le sgorgò

dagli occhi un vero torrente di lacrime. Vincenzo intanto era rimasto al suo posto d’osservazione, ma con la tacita riserva di far uso dei suoi pugni, se la cosa

avesse durato un pezzo. Dopo nemmeno dieci minuti ricomparve il.... signorino.... ma visibilmente costernato, e correva, correva innanzi a più potere; subito dopo sopraggiunse anche Enzo, che entrò parimente nel giardino.

— Se n' è andato ! — esclamò Vincenzo. — Sì, e non ritornerà! La Gondela lo ha cacciato via di maniera, che gli è passata una volta per sempre la voglia di

metter più piede all’Osteria della Valle. — E Gondela? — Essa è là che piange, e per ora bisogna lasciarla sfogare. Più tardi le parlerete. — Signor Enzo, io credo ch’ella sappia ammaliare! — proruppe Vincenzo. — Signor Enzo, un giorno io voleva

ammazzarla.... cioè volevo ammazzar quell’altro.... ora però, mi comandi, e per lei mi getto nel fuoco, se occorre. Il giovane sorrise e batté sulla spalla all'Ortler. — Nel fuoco, no, non è necessario; ma se volete venir meco nella neve, vi prendo alla parola. Fra qualche giorno ho

l'intenzione di ascendere al Picco della neve e ho parlato stamani in proposito con Sebastiano, che mi deve far da guida. Egli però crede che sia meglio averne due delle guide, poiché l’ascensione fino in cima non si può fare che con le corde. Volete essere il secondo ?

— Certo ! Ma Ambrogio non lo prendiamo con noi ?

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— No — rispose Enzo — andremo soli. Da Sebastiano saprete il giorno e l’ora. Addio, Vincenzo! Egli partì e per la via mormorava seco stesso: — Finora ho fatto da santo protettore a due coppie d'innamorati.... ardua fatica davvero! Ora è tempo di pensare un

poco anche a me.

X.

Enzo Kroneck aveva una decisa avversione perla via maestra larga e comoda; egli, quando era appena possibile, preferiva i viottoli a traverso ai boschi e ai prati, dove all’occasione non gli facevano impedimento ne macchie né fossi. Anche quel giorno secondò questa simpatia e perciò non vide la ben nota figura, che camminava appunto per la via maestra. Non era Guido Hellmar, che si era rifugiato nella villa Rehfeld, ma il dottor Gilberto, che aveva la medesima meta.

Il giovane dottore dopo matura riflessione aveva risoluto d'interrogare il suo destino, poiché ad ogni modo bisognava che lo facesse. Il dottor Eberardo era per il momento onnipotente presso la signora di Rehfeld, e v’era da temere che abusasse di questa onnipotenza per annientare la felicità del suo assistente o disturbarla per lo meno; ed oltreacciò Gilberto aveva un confuso presentimento, che l’eroe, col quale egli aveva oggi vittoriosamente battuto le potenze nemiche, non continuerebbe troppo a lungo a stargli alle spalle. Si trattava dunque di profittare del tempo.

Egli naturalmente si diresse al lato posteriore del parco, verso la pergola, e questa volta la fortuna gli fu propizia. Sul tavolino c’era di nuovo il panierino da lavoro col ricamo, ma v'era anche accanto un foglio ben noto e sulla panca sedeva Caterina in persona.

Ella non leggeva più la poesia, per il semplice motivo, che la sapeva a memoria; ma si lambiccava il cervello per ispiegarsi, come mai l'autore, dopo avergliela consegnata, era fuggito via a precipizio. I versi non avevan bisogno certamente d'alcun commento, parlavan chiaro abbastanza, ma egli avrebbe potuto aspettare la risposta.

Caterina sapeva benissimo, che il cugino Enzo le era destinato per isposo, ed Enzo era senza dubbio molto bello ed amabile, assai brillante, e sempre pronto a scherzare colla sua cuginetta, quando essa ne mostrava voglia; ma ad onta di tutto questo, il mite e timido Gilberto aveva occupato il primo posto nel suo cuoricino. L’antica esperienza della simpatia, che spesso attrae l'una all'altra due nature differentissime, anche qui si affermò vera.

Del cugino Enzo la fanciulla non si dava alcun pensiero, poiché tanto egli non prendeva nulla sul serio, e neppure in amore; co' suoi capricci, con la sua sfrenatezza non poteva essere adattato a fare il marito; e la mamma.... Oh, quanto a lei, pigliandola per benino e dalla parte sensibile, si poteva ben vincerla. Caterina era da lungo tempo avvezza a vedere nella sua matrigna nient’altro, che un' amica con qualche anno di più.

— Signorina ! — esclamò a un tratto qualcuno con voce timida e sommessa. La fanciulla trasalì e si fece rossa in viso, ma rimase ferma a sedere. — Signorina! — ripeté la medesima voce. E allora si scoprì la figura di Gilberto di dietro al cancello del parco e alle fronde della pergola. — Signor dottore ! — rispose Caterina altrettanto timida. — Ha letto la mia poesia ? — domandò Gilberto di dietro all’inferriata. — Sì — rispose, a bassa voce, la fanciulla. — E lei.... lei se l’è avuta a male ? Caterina rispose col cenno del capo “no”, ed

il giovane intese, e stava per arrampicarsi senz'altro sul cancello. Ma Caterina, prevenendolo, gli disse: — Non passa dentro, signor dottore ? Ella naturalmente intendeva per la porta del parco, ma Gilberto scelse la via, che aveva fatto il giorno prima con Enzo,

e cominciò ad arrampicarsi su per le sbarre del cancello, con grandissima soddisfazione della fanciulla, che trovava veramente drammatico e romanticissimo, che l'amante andasse a lei per quella via. Essa sostituiva perfettamente la consueta scala di corda dei romanzi, e Gilberto anzi ci guadagnava infinitamente con quella scavalcatura pericolosa. Intanto l’aveva felicemente eseguita e si trovava nella pergola.

La fanciulla si rimise a sedere sulla panca, ed aspettava ad occhi bassi e col cuore palpitante la dichiarazione d'amore, che ora senza dubbio doveva venire. Ma il dottore si sedette sull’altra panca e, come lei, abbassò gli occhi. Il suo presentimento non l’aveva ingannato; il coraggio era scomparso, poiché al cospetto della fanciulla amata ritornava con forza duplicata l’antica timidezza, e non una sillaba si presentava sulle di lui labbra.

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Stettero così per un pezzo, seduti l’uno di fronte all’altra, senza fiatare; il tempo passava e quella pausa troppo lunga minacciava di diventar fatale. Intanto sulla strada maestra sentivasi il rumore della carrozza' del dottor Eberardo. Se faceva tanto d’arrivare, tutto correva rischio d’andare a monte; non c’era più un minuto da perdere. Gilberto balzò in piedi e col coraggio della disperazione proruppe:

— Signorina Caterina, io l’amo ! Ella respirò. Grazie a Dio, finalmente aveva parlato ! ed ella aspettava per lo meno una motivazione di quella

confessione, magari in versi, ma invece l'impetuoso pretendente continuò: — E le domando la mano ! La signorina rimase estremamente sorpresa della repentina precipitazione di questa domanda, dopoché essa si era

fatta tanto aspettare. Ma la cosa non poteva essere conclusa e sbrigata tanto alla lesta, e mostrandosi alquanto risentita rispose:

— Signor dottore, la sua domanda davvero mi giunge assai inaspettata. — Ed io l'amo da tanto tempo ! — rispose Gilberto. — È da un anno ch’io l’adoro, ma non ho mai ardito d’esprimerle

ciò che sentivo per lei ! Egli parlava come se dalla risposta si aspettasse la sentenza di vita o di morte. Allora sul volto della fanciulla apparve

quel suo malizioso sorriso, mentre pensava che era il caso di dovere aiutare il timido amante, e gli suggeriva, sebbene sommessamente:

— Mi chiamo Rina ! — Rinetta ! Rinetta mia ! — esclamò Gilberto, dimenticando ogni cosa al mondo. Bastò infatti quel diminutivo per isciogliergli completamente lo scilinguagnolo e per farlo diventare formidabilmente

eloquente. Egli diede sfogo all’ardente sentimento dell’amor suo con tale efficacia, che superò perfino l’aspettativa di Caterina.

Il rumore della carrozza, che aveva precipitato la catastrofe, ma che lasciava la villa, invece che avvicinarsele, morì lontan lontano, e sotto la pergola sedeva una coppia felice e suggellava col primo bacio la promessa d’unirsi per sempre. Enzo, intanto, era tornato, ma in casa non trovò nessuno. La illustrissima signora era andata mezz’ora prima sulla collina, come aveva riferito il servitore, e il signor Hellmar era parimente partito per il villaggio vicino. Egli aveva lasciato una lettera per il signor Kroneck, con la preghiera che gli fosse immediatamente consegnata. Enzo la prese e l'aperse, incamminandosi anch’esso verso la collina. Conteneva poche righe:

“Mio caro Enzo !

“Un affare urgente mi chiama per alcuni giorni “al villaggio. Spero che il doloroso incidente andrà “per sé stesso al suo termine, e conto sulla tua amicizia, perché tu faccia il possibile per evitarmi ulteriori spiacevoli conseguenze. Agisci pure come “meglio credi; te ne do la più ampia facoltà ! Alla “fine della settimana, credo, sarò di ritorno. Il tuo “vecchio amico.

“Guido.”

— Ma benone! — mormorò il giovane fra i denti, mentre stringeva il foglio nelle mani. — Egli se ne fugge, perché teme una vendetta da parte della fanciulla, e incarica me d'impedire la pubblicità e lo scandalo. Ma questo è oramai accaduto; Gondela ha fatto senno. “Tuo vecchio amico !” Sarebbe tempo che questa commedia d’amicizia finisse. Se è possibile, voglio risparmiare ad Evelina l'amaro disinganno di vedere il suo poeta precipitar giù dalla sognata altezza; se poi l’avesse già tratta nella rete, allora penserò io a romperne senza riguardo le maglie e le dirò tutta quanta la verità.

Evelina era infatti sulla collinetta. Ella sedeva sul macigno coperto di musco, sotto l’albero, e leggeva. Quello era diventato il suo posticino favorito, e dacché le sue forze cresciute le permettevano più lunghe passeggiate, ci andava più spesso che le era possibile.

La primavera aveva questa volta fatto il debito suo anche in montagna. Non era un germogliare serotino come nell'anno avanti, sempre in conflitto coi freddi acquazzoni e coi venti gelati; era un pieno risveglio della natura alla vita ricca di sole e di fiori. Il melo selvatico era già ricoperto di fitto fogliame; e le verdeggianti foreste, il lago che mandava di lontano il suo splendore metallico, le linee azzurre dei monti, tutto era inondato dalla chiara luce dorata del giorno, tutto spirava frescura e splendore di maggio.

— Perdono, se disturbo — disse Enzo, quando la giovane signora al suo apparire trasalì e balzò in piedi. — Ella era sì assorta, che non si è neppure accorta della mia venuta.

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Il volto d’Evelina portava infatti l’espressione della più profonda emozione; le guance erano ardenti, gli occhi scintillavano come rapiti in estasi; sembrava ch’ella avesse dimenticato tutto ciò che la circondava. Lo sguardo del giovane corse sul libro, ch’ella teneva nelle mani, e con mal frenata ansietà, domandò:

— Era ella affatto affascinata dalla Fata delle Alpi ? Veramente pare ch’io le sia sopraggiunto importuno. — Oh, no; stavo per la seconda volta leggendo questa creazione — disse Evelina rapidamente — ma essa mi ha

incatenata anche più potentemente della prima volta. — Davvero ? dunque ella non è d’accordo col giudizio di Guido ? Evelina chiuse il libro con un veemente movimento. — Io non capisco quell’Hellmar ! Ma che è cieco alle bellezze di questo lavoro, o vuol’esserlo ? Io temo, che la gelosia

del poeta verso uno più grande di lui abbia gran parte nel suo giudizio. — Terso uno più grande P Come ? Preferisce ella cotesta, bisogna pur dirlo, tempestosa poesia, alle poesie delicate e

gentili del suo “cantor d'amore?” — Lei beffa, coni' è sua abitudine — disse la signora in tono di rimprovero. — Come se mettessi a paragone due

nature poetiche così essenzialmente diverse ! La lirica di Hellmar, tenera, fantastica ha in sé qualche cosa del lume di luna; mentre in questo dramma fiammeggia, lampeggia e splende ogni verso, come raggio di sol nascente. Me lo sono anche rimproverato, ma non c’è rimedio. La poesia di Hellmar m'impallidisce innanzi a queste parole di fuoco, che mi rapiscono irresistibilmente. Temo, che almeno in un punto le sue beffe abbiano ragione, Enzo; l’ho sperimentato su me stessa. Non si ascolta più il liuto del cantore, quando risuona potente lo squillo della campana.

Ella parlava commossa, come sentiva, ed Enzo la guardava intanto inosservato, e gli brillava negli occhi la più superba soddisfazione; ma si padroneggiò e rispose scherzando:

— Badi che non la senta Guido ! Se ne chiamerebbe mortalmente offeso, poiché è sensibilissimo su questo tasto. — Sì, lo so; è una debolezza, forse l’unica di quell’uomo, che in tutto il resto è sì puro e ideale. È precisamente questo,

che gli assicura la mia ammirazione, ch’egli è così interamente lo specchio, l'incarnazione dell’opera sua. Ha sentito della "Bua partenza ?

— Sì — rispose laconicamente Enzo. — Ha dovuto assentarsi per alcuni giorni, per recarsi al capezzale d’un suo amico, che è malato. Il messaggiero col

dispaccio lo incontrò, mentre andava alla passeggiata, ed egli tornò subito indietro per accomiatarsi da me e ordinare la carrozza. Io temo, Enzo, ch’ella non abbia la debita stima per il merito del suo amico; egli dimostra ora una volta di più, fin dove è capace di spingere la sua abnegazione, quando si tratta di qualcuno, che gli è caro.

Enzo si appoggiò al tronco dell’albero e abbassò, tacendo, gli occhi sulla giovine signora, che difendeva sì ingenuamente ed eloquentemente l’“ideale poeta”. Che il di lei cuore dovesse davvero rimaner ferito, se le fosse tolta l'illusione ? Bisognava venirne in chiaro.

— Vorrei farle una domanda — cominciò egli. — Una domanda, a cui io non ho verun diritto e che le apparirà importuna, forse offensiva; eppure io ardisco fargliela, a rischio d'un rifiuto di rispondermi.... Guido le ha offerto la sua mano ?

— Enzo, questo è.... — rispose Evelina, abbassando gli occhi. — Indiscreto, estremamente indiscreto, lo so ! Ma a me preme immensamente d’averne certezza, e da lei.... Le ha egli

chiesta la mano ? — Sì ! — rispose ella sommessamente. — E fu.... respinto? — Fu l'anno passato — disse Evelina. — In quel tempo ero sull’orlo della fossa, e gli risposi ch’io non poteva più dare

né felicità né vita. — E se ora tornasse con la sua domanda ? E ritornerà ! Evelina, non si volti altrove, non si trinceri più dietro i

pensieri di morte; non presente quel che ci è in giuoco per me ? Se Guido un giorno tornerà a domandare la mano della guarita, della salvata.... sarà ella sua ?

— No ! — dichiarò con decisa fermezza la giovine signora. — Giammai ! Allora ella sentì due calde labbra sulla sua mano, che vi si premevano sopra con tanta passione, come un anno prima,

e come allora invano ella tentò di liberarsene; ma ora ella conosceva il pericolo, e la sua voce tremava, supplicandolo: — Enzo, per l’amor di Dio, non parli così, risparmi a sé e a me un' ora d'angoscia ! Ella sa ch’io non credo a quella

possibilità, che non mi stimo guarita, e forse mi è soltanto concesso un respiro....

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— Ebbene, se non vuol credere a me, creda alla dichiarazione del suo medico, e qual medico ! Ne vengo in questo momento; mi ci è voluto a far parlare quel caparbio, ma finalmente ha parlato. Io ho la sua parola d'onore, che non c’è più per la sua vita il minimo pericolo, e ch’egli garantisce la sua completa guarigione. Lo udrà dalla sua stessa bocca quest’oggi.

Evelina impallidì; la notizia, datale così improvvisamente, la stordì quasi. Ella non aveva creduto al risveglio della sua forza, e si era persino difesa contro la speranza, che in quest’ultimo tempo sì spesso e sì schiettamente si era affacciata, per téma d’una immancabile disillusione; ella voleva ostinarsi nella rassegnazione, a sì caro prezzo comprata, col pensiero che per lei era finita. Ed ora le veniva restituito ciò ch’ella aveva creduto irrevocabilmente perduto per sempre, il mondo nello splendore solare della primavera, la felicità.... ella si premette la mano sul cuore, che le cominciò a battere violentèmente, poiché la nuova luce, troppo viva sul primo momento, la fece restare abbarbagliata.

— Ma ora, io non taccio più! — proruppe Enzo appassionatamente. — Abbastanza ha durato fra noi quest’ombra minacciosa; ora si è dileguata, e deve regnare il sereno, la luce. Io l'ho amata, Evelina, fin dal primo momento, in cui la vidi, e se ho lasciato credere alla possibilità di un matrimonio fra Caterina e me, si fu perché ciò mi rendeva possibile di rimanere vicino a lei; e quando dovetti lottare per condurre Eberardo a salvarla, io combattei per la mia felicità.... Evelina, ti adiri tu contro il violento che non ti lascia neppure il tempo di riprendere la vita novamente acquistata, ma vuol tirarla a sé cotesta vita, come sua esclusiva proprietà ? Niente ti giova, egli non lascerà mai la sua preda !

— Non posso !... Non posso !... Non lo debbo fare ! — balbettò la signora, appena padrona ancora di sé. — Povera figlia mia.... povera Caterina !

— Caterina ce ne sarà grata, se le risparmieremo la necessità di darmi un rifiuto in piena regola. Io e lei siamo stati buoni compagni e lo siamo ancora, ma il suo cuore s'è da lungo tempo rivolto ad un altro, ed io mi riconosco colpevole d’avere a ciò cooperato con tutto il mio potere e per puro egoismo. No, Evelina, ora non più domande e spiegazioni; voglio prima che la mia sorte sia decisa ! Io non vengo a chiederti con poesie sdilinquenti; io non ti offro il nome e lo splendore di famoso poeta. Non è che il povero Enzo, con tutti i suoi difetti, a cui tu hai fatto tante prediche, e che ora sta innanzi a' tuoi piedi. Egli non ha da gettare nel piatto della bilancia altro che un amore ardente, profondo, una vita, di cui ogni respiro apparterrà a te. Vuoi tu affrontare con lui la vita ? Pensaci bene adesso, per non pentirtene poi dopo !

Egli era caduto in ginocchio innanzi a lei, e i suoi bruni occhi raggiavano di così piena estasi, come 13 il giorno innanzi, nel momento in cui si erano riveduti, poiché negli occhi di lei, prima ancora ch’ella parlasse, egli aveva letto la risposta. In quell’istante ella si chinò verso di lui, e tremando, ma con tutta l’espressione dell’amore, rispose all’amante rapito:

— Sì, cattivo!... voglio osare d'esser tua, e quantunque non abbia udito sulle tue labbra che beffe e motteggi, voglio credere al tuo cuore e al tuo amore!

Con un grido di giubbilo, egli balzò in piedi e se la strinse al petto, e allora traboccò la piena della sua tenerezza, della sua ardente passione, sulla donna amata con tanto ardore, con parole sì sentite e sì vive, ch’ella, quasi sorpresa, gli fissò gli occhi in faccia:

— Enzo, Enzo, ch, anche tu sei diventato poeta, e poeta sublime ! — Sì, ed ho anche trovato l’azzurro fiore della novella, che apre il magico regno dei sogni e dei romanzi ! — rispose

ridendo maliziosamente. — Tu mi dicesti già da quel giorno, in cui io ti descrissi come l’avevo conquistato: “Ma questa è poesia !”

— Lo hai ancora quel fiore ? — domandò sommessamente E velina. — Tu me lo riprendesti. Egli sorrise, trasse fuori il suo portafoglio e alzò la fodera di seta rossa. Nel posto destinato ad un ritratto, spiccava

sulla bianca carta il cupo azzurro del fiore alpestre, che anche allora, dopo lo spazio di un anno, era poco cambiato di colore e di forma, tanto era stato conservato con accuratezza.

— Tu lo vedi, quanto diligentemente ho costudito questo mio talismano — disse Enzo scherzando. — Lo porto sempre meco, ed è stato sempre sulla mia scrivania, mentre io lavorava. Spesso mi pareva che il fiore, il fiore stesso mi dettasse le parole, che scrivevo ! Una superstizione.... e ciò nonostante fu il “fiore della felicità” che io trovai, e ne ho provato l'incanto !

La giovine signora tacque; ella pensava al momento, in cui il ramoscello adorno de' suoi bei fiori le fregò la fronte e l’ammonì di non pronunziare il “sì” fatale, ad un altro. Oh, se ora fosse stata irrevocabilmente legata a Hellmar, con l'amore d'un altro nel cuore !

— Dunque questo fiore misterioso ti ha davvero dettate le parole, mentre scrivevi nel tuo ufficio i soliti aridi atti ? — domandò dopo una breve pausa. — Hai dunque lavorato, Enzo ? Ora siamo al temuto esame, a cui poco fa ti rifiutasti. Come va della tua promessa ?

Egli si curvò e raccolse il libro, che era caduto un momento prima per inavvertenza.

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— Puoi deciderne tu stessa, o piuttosto, ne hai già deciso. Ti ho sorpresa infatti rapita interamente dalla mia Fata delle Alpi.

Evelina trasalì, e i suoi occhi si fissarono interrogativamente, quasi spaventati su lui. — La tua Fata delle Alpi ? Che vuoi tu dire ? Che rapporto hai tu con questo lavoro ? — Una bagattella.... L'ho scritto io! Affè, Evelina, tu ti spaventi! Come mai il titolo non te l'ha fatto indovinare ? Io

credeva che ti avesse almeno rivelato il mio segreto, ma ora vedo bene, che non t’è venuto questo pensiero neppur lontanamente.

Gli occhi d'E velina, grandi e bruni, erano ancor fissi in parte increduli, in parte attoniti per maraviglia, sul volto del giovane, che a un tratto le era diventato sì grande.

— Enzo, è dunque vero ?... tu.... tu sei.... — Lo sconosciuto poeta, su cui tutta quanta la capitale si discervella, t che Hellmar onora di già della sua estrema

antipatia. Ebbene, non hai bisogno di rimanerne intimidita, Evelina, tu lo hai lodato con bastante entusiasmo lo sconosciuto.

— E tu hai avuto il coraggio di tacere anche quando mi confessavi il tuo amore ? — Io tacqui appunto, perché si trattava del mio amore, della mia felicità ! Il poeta che ti entusiasmava, a cui il mondo

porgeva già la sua prima corona di gloria, avrebbe avuto facile giuoco, Evelina, presso di te sì romantica; ma io non volevo avere un giuoco sì facile. Volevo sapere se il semplice Enzo, cui non circondavano ancora gli splendori e le aureole poetiche, cui sì spesso la calunnia aveva presso di te menomato, avrebbe potuto ottenere l'amor tuo. Dio sia ringraziato, egli lo ha conseguito; ed ora prenditi anche il poeta, tutt’e due ti appartengono.

Evelina se lo strinse al petto; ella lo guardava ancora con una certa timidezza, ma era la timidezza dell’ammirazione. — Enzo, tu hai vinto col tuo primo lavoro ! Lo hai scritto davvero in quest'anno? Non si diventa da oggi a domani

famosi poeti ! — No, Evelina non si diventa lì per lì — rispose egli sorridendo. — Anche in me questa forza ha fermentato e si è

agitata per anni, ma non intendevo me stesso. Tu la prima mi additasti la via, a cui fino a quel giorno avevo appena pensato, e mi togliesti la benda dagli occhi. Io tempestai con fiera baldanza giovanile nella vita fino all’ora, in cui la tua voce ammonitrice, severa, m'inalzò, quando ti promisi di diventare qualche cosa. Avevi ragione. La vita è un bene troppo prezioso per esser gittato via, e vi sono altri fini più elevati che quello di strappare un fiore dall’orlo di una rupe. Ebbene, mi scelsi un' altra Fata delle Alpi, che parimente troneggia alta sulla scabra sua rupe, per la quale tanti tentarono arrampicarsi, ma ben pochi riuscirono a superare. Io trovai il sentiero che mi condusse a lei, e trovai anche la parola magica che mi aperse i cuori degli uomini, e tu lo conosci, sì, il motto dell’antica leggenda:

“Dov’è la rupe e il fior noto si rende Se la parola arcana hai pronunciata.”

XI.

Un temporale sì impetuoso e devastatore, come da molti anni non si era veduto, erasi scaricato sulla valle. Dalle nuvole, nere e basse, lampeggiava incessantemente; il tuono rumoreggiava, ripercotendosi in cento e cento echi lungo le gole delle rupi, e la pioggia veniva giù a rovesci, come nei nubifragi. Le acque dei torrenti e dei fiumi infuriavano gonfie, sra-dicando alberi, portando via ponti, e continuava sulla valle un agglomeramento di foschi nuvoloni, dai quali pioveva acqua a diluvio.

Su i monti il temporale aveva fatto anche peggio, poiché erasi trasformato in tormenta, che bufava con una violenza distruggitrice, stendendosi dalle cime fino ai boschi ed ai pascoli. Anche i dintorni del podere a monte erano trasformati in paesaggio invernale; la neve copriva i verdi prati, e gravava sul tetto della vecchia casupola, che aveva resistito, come a tante altre, anche a questa delle tempeste. Essa erasi sfogata già da un pezzo, ma i fiocchi turbinavano continuamente fuor delle nuvole, che ondeggiavano in su e in giù per le cime dei monti, e la nebbia era a quando a quando sì folta, da non poter vedere a quattro passi di distanza.

Nella stanza principale della casa al monte, Ambrogio stava seduto a tavola co' suoi di casa. Il vecchio montanaro non era mutato; egli era grigio e ferrigno come gli anni passati; soltanto i lineamenti erano divenuti più duri e più cupi. Della bufera si era dato poco pensiero. Aveva fatto riporre al sicuro il bestiame, e sapeva che la casetta poteva resistere a qualunque temporale.

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— Questa sì ch’è stata una bufera! — disse la vecchia Crescenzia, facendosi per abitudine il segno della croce. — Temevo che questa volta neppure la casa al monte potesse resistere.

— A questa casa non le fa nulla, essa sta salda come il Picco della neve — rispose tranquillamente Ambrogio, seguitando a mangiare.

Ma il garzone, che sedeva accanto alla finestra, ed aveva per caso dato un' occhiata fuori, esclamò ad un tratto: — Guardate, Ambrogio, vien su della gente. — Con questo tempo ? — brontolò Ambrogio, che si era fatto attento e spiava con que' suoi occhi di falco verso la

china. Infatti s'udivano delle voci e si vedevano delle figure disegnarsi oscure di mezzo alla nebbia. Erano diversi uomini, che

si avanzavano difilato alla casa. — Dunque, questa è la casa al monte? — disse una voce sonora in pretto tedesco. — Si vede bene che è nel territorio

di quel maledetto Picco della neve, poiché tutt’all’intorno ogni cosa è bianco come nel cuor dell’inverno. Del resto è stata la più infame via; ch’io abbia percorsa in tutta la mia vita, e probabilmente invano. Vi dico, che a quest’ora sono tranquillamente a sedere là dentro presso il vecchio Ambrogio, e si ridono della gente che viene in loro soccorso per disseppellirli di sotto alla neve.

— Dio lo voglia, ma io non ci credo ! — rispondeva un'altra voce. Ambrogio allora aprì la porta della casa, poiché si era accorto che qualche cosa doveva essere accaduto. Egli riconobbe

primo l’oste della valle, e accanto a lui il dottor Eberardo e dietro a loro quattro o cinque uomini. — Ti saluto, Ambrogio — cominciò l’oste della valle. — Ti maravigli di vederci quassù oggi, non è vero ? Spero che tu

ci abbia in casa degli altri ospiti, non è vero ? — No, non ci ho nessuno; chi mai ci dovrebbe essere ? — domandò Ambrogio, ritirandosi per lasciar passare i venuti. — Un forestiero, che è salito con due guide sul Picco della neve. Credevamo, che fossero qui da te. Non hai veduto

proprio nessuno ? — Nemmeno un' anima, vi dico ! — rispose recisamente Ambrogio. — E allora, saranno lassù nella capanna di rifugio ! — esclamò il dottore, non senza lasciar trapelare una certa

inquietudine. — Ma la causa è sempre quella ! La insensata mania d'arrampicarsi per i monti e volerne ad ogni costo visitare le cime. Se uno si vuol rompere il collo, o non lo può fare anche in pianura ? Almeno si ha sotto i piedi terra ferma ! È una pazzia ! Ma gli uomini son sempre insensati, i giovani specialmente, quelli sì!

— Quello lì — bisbigliò l’oste della valle alle orecchie d’Ambrogio — è il famoso dottore che caccia di casa sua, chiunque gli si presenti. Ha bestemmiato per tutta la strada, ma ad ogni modo è venuto con noi di sua spontanea volontà ed è salito come un di noi al vento e alla pioggia.

Essi intanto erano entrati tutti nella stanza, dove Crescenzio e il garzone rimasero a bocca aperta alla vista di quegli ospiti inaspettati, i quali si sedettero per riposarsi; e nel discorrere, Ambrogio poté raccapezzare quello che era accaduto, cioè che il giorno innanzi un forestiero con due guide s’era partito a tempo bellissimo per ascendere il Picco della neve. Volevano passar la notte nella capanna di rifugio, e allo spuntar del giorno mettersi in cammino per arrivare in cima. E cosi di certo dovevano aver fatto, perché il mattino era sereno e splendeva un bel sole, e dovevano da un pezzo essere in via per tornare, quando scoppiò il temporale. Se li aveva colti all’aperto, c’era da temere qualche grosso guaio, e per questo tutti nella valle erano sottosopra.

I parenti del giovane forestiero avevan fatto di tutto per procacciarsi notizie, e a un bisogno, per recare aiuto; e si trovarono tosto uomini di buona volontà e pieni di coraggio, i quali, ad onta della pioggia torrenziale, si offrirono a salire il monte. L'oste della valle, che passava esso pure per un forte alpinista, s'era messo alla testa, e il dottore Eberardo si era volontariamente unito agli altri, con l'intenzione di domandar notizie alla casa al monte, se mai gli smarriti vi si fossero ricoverati, e poi spingersi, a un bisogno, fino alla capanna di rifugio.

— Ci arriveremo alla capanna di rifugio ? — domandò l'oste della valle. Ambrogio scosse il capo, e rispose: — Non lo credo ! Il temporale ha imperversato troppo qui sopra, e precisamente in quella direzione si è precipitata

una valanga, ed io l’ho udita rumoreggiare. Eppoi, sarebbe inutile. O essi sono beli' e salvi nella capanna, e allora non c’è nessun pericolo; essi possono tranquillamente restarvi fino a domani.... o essi non vi sono, e allora Iddio li abbia nella sua santa guardia ! Chè neanche col nostro soccorso possiamo aiutarli.

L'oste della valle ammiccò, approvando, e gli altri si guardarono in faccia tacendo. Ambrogio passava per nn' autorità in simili frangenti. Quando aveva dichiarato che non e' era rimedio, non c’era, e bisognava rassegnarsi. Solo il dottor Eberardo, il quale non riconosceva alcuna autorità, proruppe irato:

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— Dunque, ce ne staremo qui tranquillamente, mentre, forse in questo momento, quei tre si trovano sotto la valanga e rantolano l'ultima preghiera ? Sarà una bella scena, quando arriveremo giù con questa notizia ! Questa faccenda costerà la vita alla signora Evelina, è cosa certa. Almeno s’egl' avesse gridato e pianto ! Ma quel muto dolore senza lacrime, col quale mi guardò quando le diedi la parola e la mano di venir quassù anch’io, le dà la morte, e allora mi sarò tormentato per un anno intero inutilmente, e il professor Mertens affermerà trionfando che aveva avuto ragione, ed io dovrò tenere acqua in bocca ! Oh, se avessi fra le mani quell’Enzo Kroneck, gli vorrei dare una di quelle lezioni; gli vorrei insegnare, che cosa vuol dire tormentar la gente fino al sangue.

Ambrogio trasalì a quel nome, e si voltò con un repentino movimento. — Chi ha ella detto ? Chi c’è lassù ? — Il giovine signor Kroneck — rispose l’oste della valle. — Tu Io conosci bene, Ambrogio; c’è stato tante volte l'anno

scorso alla casa al monte. Sì, è lassù ed ha seco Vincenzo Ortler e Sebastiano. Sulla rugosa faccia del vecchio montanaro passò un lampo e vi si dipinse l'espressione d'una profonda angoscia. Egli

proruppe con voce mezza soffocata: — Ah, è tornato qua ? Non lo sapevo.... bisogna portargli soccorso, bisogna ! Si affacciò ritto alla finestra e guardò per un secondo fuori; gli altri aspettavano in ansioso silenzio. Finalmente l’oste

della valle domandò: — Come va ? Ci arriveremo fino alla capanna ? — Forse ! — rispose Ambrogio, voltandosi. — Forse — ripeté — ma si arrischia la vita. Rimanete qui, ci vado io solo! E ciò dicendo tolse dalla parete il suo mantello e il suo bastone da montagna. L'oste della valle cominciò a parlare a

bassa voce a' suoi compagni,- mentre il dottore Eberardo brontolava fra i denti: — Che fortuna, che ha quell'Enzo! Appena che si tratta di lui, la gente ci arrischia il capo e il collo. Pare che abbia

stregato tutti colui. Certo.... o io non ho fatto come gli altri ? Ambrogio intanto si era preparato, aveva impugnato il suo bastone alpino, e stava per uscire, quando l’oste della valle

gli si parò dinanzi e gli disse risolutamente: — Teniamo tutti ! In sei è più facile farci strada; il signor dottore però resterà qui. — Il signor dottore verrà con voi altri — dichiarò Eberardo, mettendosi energicamente al fianco dell’oste della valle. — Non può resisterla una gita simile — disse Ambrogio. — L’ha sentito, si rischia la vita ! — Questo riguarda me e non voi; e della mia vita son padrone di farne quel che voglio ! — esclamò il dottore in

collera. — E quanto a resistere, vi sfido tutti, quanti siete. Tengo anch’io, e basta ! Se li ritroviamo, il più necessario di tutti per loro è il dottore-

L'ultimo argomento era irrefutabile, e nessuno osò più opporsi; neppure Ambrogio. Si mise alla testa del drappello, che animosamente uscì fuori sotto la neve, che ancora fioccava e bufava.

La via per la capanna di rifugio, anche in tempi ordinari, non era scevra di pericoli persino per alpinisti esperti e pratici; ma quel giorno la nebbia, e la molta neve che era caduta, e cadeva, centuplicava il pericolo. Il precipizio era velato dalla nebbia folta, i burroni e i baratri erano mascherati dalla neve, ad ogni piè sospinto uno poteva precipitare nell’abisso, ad ogni passo era mestieri tentare il suolo; spesso il piede non trovava appoggio, e di quando in quando la nebbia raffittiva in modo, che non si discerneva neppure la salita. Ora bisognava tirarsi su dalla neve alta, dove uno era affondato fino a mezza vita, ora bisognava difendersi dai blocchi di ghiaccio, che rotolavano giù dalla cima. Una sola-di quelle valanghe poteva coprirli e travolgerli tutti e sei. Ambrogio aveva ragione; più d'una volta avevano già rischiata la vita in quella spaventosa ascènsione, e il tratto, relativamente breve fino alla capanna, sembrava non finisse mai.

Camminavano e camminavano all’erta, sempre avanti, sempre avanti, scambiandosi appena qualche parola. Eran gente avvezza, familiare coi pericoli de' loro monti, e non era la prima volta che intraprendevano una gita di soccorso. Ma guardavano con muta ammirazione il dottore Eberardo, che con giovanile gagliardia e con incredibile resistenza divideva le loro fatiche. Essi non lo conoscevano che come un misantropo, che fuggiva grugnando il genere umano; come un egoista che cacciava via tutti coloro che lo ricercavano d'aiuto, e ora volontariamente si era messo a quello sbaraglio per salvare uno straniero. Come di concerto, lo avevan preso in mezzo e facevano a gara a sorvegliare ogni suo passo, a rimuovere dalla sua via ogni impedimento. Sembravano considerarlo come un prezioso bene, della cui salvezza fossero tutti responsabili.

Finalmente avevano superato il passo, ascesa l'ultima cima, e, sfiatati dalla fatica, guardavano su il basso tetto della capanna di rifugio spuntare di mezzo . alla neve. Se i cercati vi erano, tutto andava bene; ma alle alte grida, che furono inalzate dal drappello, non succedette alcuna risposta, e quando furon giunti all'ingresso e lo apersero, trovarono la capanna vuota, senza traccia degli smarriti.

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Fu un' amara disillusione per i salvatori. Ora non restava che una speranza, quella di ritrovar vivi i tre. Se avessero realmente trovato rifugio in qualche grotta fra le rocce, essendo già da tre ore passata la tormenta, avrebbero potuti esser lì da un pezzo, poiché le due guide sapevano bene che una notte all'aperto sotto quella nevicata sarebbe stata mortale. Si riunirono dunque a consiglio per deliberare, se avessero dovuto trattenersi alquanto lì, o ritornare alla casa al monte. I pareri essendo discordi, Ambrogio diede il tratto alla bilancia:

— Tentiamo l’ultima prova ! — disse, risoluto. — La via conduce per un tratto verso il ghiacciaio, e ci possiamo spingere sino al cominciare del- l’erta. Se anche colà non troviamo traccia, allora per oggi non si può far altro e bisogna tornare indietro.

La proposta trovò unanime consenso, e dopo un breve riposo ripresero il cammino. Dalla capanna in su cominciavano i ghiacciai, e il sentiero conduceva infatti per un' altra mezz1 ora lungo l’orlo dei medesimi, prima di volgersi ripido e tortuoso all’erta. A tempo sereno, non e' era alcun pericolo; ma chi avesse perduto, o per la nebbia o per la bufera, la direzione, sarebbe immancabilmente capitato su quelle spianate e rupi di ghiaccio, e vi si sarebbe misera-mente smarrito.

A circa un quarto d’ora di là, mentre si avanzavano, finalmente i loro sforzi furono coronati da successo. Essi imbatteronsi in qualche cosa di scuro, che, mezzo sepolto nella neve, fu tosto riconosciuto per un corpo umano. Tutti allora furono immantinente all’opera, e dopo pochi minuti disseppellirono Vincenzo Ortler, irrigidito, svenuto, ma vivo ancora, come assicurò il dottore, che gli prestò le prime cure.

Mentr'egli si occupava del disgraziato, gli altri continuarono alacramente le loro ricerche, e a pochi passi di distanza fu trovata anche l’altra guida, Sebastiano, quasi interamente coperto dalla neve. Una delle innumerevoli valanghe doveva averli investiti e storditi; poiché se non avessero perduto i sensi, sarebbe stato loro possibile di farsi strada a traverso alla neve, sciolta com’era, e venir su. Sebastiano per altro non dava segno di vita, e il dottore crollava inquieto il capo, mentre lo visitava.

Ora si trattava di rintracciare il terzo, ma invano si cercò dappertutto Enzo Kroneck. Ambrogio s’arrischiò solo per un buon tratto, ma nemmeno lui trovò alcuna traccia. Era chiaro che il giovane non aveva condiviso la sorte de' suoi compagni; dunque non restava che una supposizione, ch’ei fosse prima o dopo di loro precipitato in qualche baratro e là scomparso.

Finalmente bisognò pensare al ritorno, per salvare almeno i ritrovati. Si caricarono de' loro corpi esanimi, e in quel momento sopraggiunse Ambrogio.

— Non hai trovato nulla neppur tu, non è vero? Me lo immaginavo — disse l'oste della valle. — Su, ragazzi, portiamo questi alla capanna.

Il vecchio guardò i due disgraziati, ma non fece alcun atto di prestare aiuto. — Di me non avete bisogno — diss’egli con calma. — Io resto qui a cercare il signor Enzo. —~ Ma che ? — gridaron tutti a una voce — tanto non lo trovi ! Chi sa dove mai, povero giovine, è sprofondato ! Tu vai

a rischio di perire senza scopo ! Ambrogio, vien con noi, dacci ascolto ! — Nelle forre della neve è.... sì, dev’esser là ! — rispose cupo, ma fermo il vecchio. — Gesummaria ! — esclamarono tutti inorriditi. Nelle forre della neve, voleva dire nel fondo di

orridi inaccessibili burroni; un salto nell’abisso. Soltanto il dottor Eberardo, che non abbracciava in tutta la sua estensione il pericolo, domandò:

— Come lo sapete ? — Ho trovato un segno, sicuro.... e vado dietro a quello. — Ambrogio, sei fuor di te ? — esclamò l’oste della valle. — Nelle forre della neve, con questo tempo ! Tu lo sai, ci si va,

ma non si ritorna ! Ambrogio era lì immobile, appoggiato a un macigno, e fissava gli occhi a traverso la nebbia che ondeggiava fitta, quasi

impenetrabile, stendendosi ampiamente sopra al ghiacciaio. — Lo so, sì ! — replicò il vecchio. — E ci vuoi andare ? Dunque vuoi proprio andare a morire ? Pensaci, Ambrogio ! E tutti gli altri unirono le loro proteste a quelle dell’oste della valle. Essi avevano tutti cimentata sino allora la loro

vita per salvare i perduti, ma avventurarsi nelle forre della neve, fra i ghiacci, in mezzo a quegli orrendi dirupi nessuno aveva il coraggio di farlo; era un tentare Iddio.

Allora il dottore Eberardo si appressò al vecchio, che sembrava non udirli, e gli domandò: — Ambrogio, è dunque possibile' quel che meditate ? I vostri compagni dicono di no. — Io non lo so, se è possibile.... ma bisogna che lo faccia, ecco — rispose, irremovibile, Ambrogio.

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L’oste della valle voleva di nuovo opporsi, ma il vecchio, allora, gli comandò recisamente: — Portate via cotesti due, e lasciatemi in pace. Io vado, vi dico, e se non ritorno, raccomandatemi a Dio. — Ebbene, lasciatelo andare ! — disse Eberardo. — Egli, alla fin fine, deve pur sapere quello che fa, e quello che

rischia. E ora portate alla capanna cotesti due, poiché qui in mezzo alla neve non posso prestar loro cure efficaci. Avanti, e Dio vi abbia in guardia, Ambrogio !

Intanto sulle forre della neve si addensavano sempre più fitte delle nuvole grigiastre, come se fossero attratte da quelle gole, ed ivi tenute prigioniere. Colaggiù dormiva una vita sinistra e silenziosa, e sui loro fianchi volavan via come spettri quei nuvoli e stendevano intorno le loro braccia, come ad afferrare sul loro passaggio qualche vittima.... e la vittima v’era e certa.

Per quei desolati ghiacciai errava un giovane viaggiatore, solo, senza guida, senza disegno, senza direzione. Era da più d’un' ora che errava intorno, dacché la valanga gli aveva sepolto i compagni, che si era affaticato invano di disseppellire. Aveva allora tentato d'indirizzarsi verso la casa al monte a cercarvi aiuto, e ciò facendo aveva smarrito la via ed era capitato nelle forre della neve. Intanto la nebbia lo aveva avvolto del suo fosco velo, e in mezzo a quella, silenziosa ed incessante fioccava la neve.

La sua volontà era forte, ma la natura era più forte della sua volontà. A poco a poco si sentì spossato, non potè più andare innanzi, né retrocedere, e si vide assolutamente perduto; insiem con le forze, lo aveva abbandonato anche il coraggio della vita. E ciò gli accadeva appunto nel momento in cui la vita gli si presentava felice, gloriosa, abbellita da un ridente avvenire, addolcita dalle ineffabili gioie d'un amore puro, profondo, ardentemente offerto, ardentemente ricambiato. La mattina, quand’egli stava sulla cima del monte, l’ampio mondo gli era ai piedi come un magico regno, il sole pareva brillargli più vicino e più lucente, ed il suo cuore batteva più forte, superbo della meta raggiunta, della cima superata. E ora?

Perduto in un deserto di ghiaccio ! Tutto all'intorno soltanto l’abbagliante lenzuolo bianco dei cadaveri, a cui la neve incessante tesseva e aggiungeva nuovo panno. Non un raggio di luce che penetrasse per quella grigia nebbia, per quell’infinito turbinare e fioccare di neve, non un suono in quel deserto spettrale; unico e solo l'orribile silenzio della morte. Fra lo smarrito e la bella terra fiorente erasi cacciato un mare di ghiaccio; non un accento poteva più giungergli, non un saluto da parte di coloro che aveva amato.

Enzo aveva raccolto disperatamente anche una volta le ultime sue forze per lottare contro la mortale stanchezza, contro l'assideramento che sentiva già già posargli intorno alle membra come una cappa di piombo e trarlo a terra. TJn passo ancora, e poi stramazzò sulla ghiacciata neve e tutto gli si confuse intorno in immagini rare e strane. Sull’abbagliante bianco che lo circondava, gli parve rilucere ad un tratto il cupo, favoloso azzurro della sua “Fata delle Alpi”, gli parve pendere come quel giorno sul precipizio, e di strappare il fiore dal crepaccio della rupe. Lo spruzzo spumoso del torrentello montano gli bagnava come allora la fronte, lo scroscio sonavagli nelle orecchie, come note d’organo, e sopra, il cielo rag-giante nell’azzurro. Poi gli parve che tutto ciò si fondesse e dileguasse, mentre si curvava su lui un delicato profilo d'un pallido volto con degli occhi grandi, bruni, e due labbra ardenti posavansi sulla sua fronte; mentre sentiva in pari tempo un gelido brivido insinuategli per le membra, ed ascendergli su su fino al cuore.

Silenziosa e fitta fioccava la neve, sempre più bassi calavano i nuvoli e vi passavano ombre accennanti e protendenti le braccia, quasi esclamassero: “Ora sei nostro e non ti rilasciamo !”

A un tratto risuona lontano per la neve e per la nebbia una nota, che si ripete a brevi intervalli. E una voce umana, che dapprima echeggia lontana lontana, poi sempre più vicina. Finalmente gli risuona all’orecchio il suo proprio nome e lo scuote e lo sveglia potentemente dal suo incipiente sopore di morte. Egli vorrebbe alzarsi, vorrebbe rispondere, ma le membra irrigidite rifiutano il loro servigio e non gli giunge alle labbra che un languido grido, quasi soffocato.

— Enzo, signor Enzo ! — egli ode gridare ancora lontano. Colui che lo cerca sembra abbandonarne la traccia e tornare indietro. Se la perde del tutto, allora lo smarrito è

condannato a morire in presenza della salvezza. Questo pensiero gli passa confuso per l’anima, e all’ultimo istante, con un ultimo sforzo del corpo e dello spirito, gli riesce di scuotere l’assideramento che lo paralizza, e di gridare disperatamente: “Aiuto !” e quel grido giunge alle orecchie del salvatore.

— Vengo, vengo !... Dove ? dove ? E queste grida giungono al giovane mezzo morto, ed ei si riscuote anche una volta e grida: — Aiuto ! Qua ! Il vecchio si è orizzontato, scende ansioso e nello stesso tempo cauto, e finalmente apparisce fuor della nebbia,

raggiunge il caduto e lo abbraccia. Senza pronunziare una parola, il vecchio trae fuori dalla tasca una bottiglia, l’appressa alle labbra del languente e gli bagna la fronte e le tempie. Per le membra irrigidite e per le gelide vene quella bevanda versa

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come un fuoco rianimatore; la plumbea oppressione cede e con un profondo respiro ritorna nel giovane la piena coscienza di sé. Ma Ambrogio non gli dà tempo di riaversi pienamente.

— Su, su ! Via ! — gli grida. — La nebbia raffittisce; fra un' ora è notte, e allora neanch’io ritroverei la direzione.... su, su, avanti!

Egli afferra il giovane per un braccio e lo trascina via, ma questa volta per portarlo in salvo. Infatti, faticosamente sì, ma la maggior parte della via è fatta. Se non che Enzo si ferma, senza fiato, esausto da morirne.

— Non ne posso più.... fatemi riposare.... un minuto, un minuto solo. — Questo minuto è la morte, dico ! — risponde il vecchio, di nuovo trascinandolo seco. — Bisogna resistere ! Questa volta è vana l’ammonizione; Enzo fa, è vero, un movimento istintivo per seguirlo, ma non gli riesce. Con

l’ultimo barlume della coscienza si aggrappa alla sua guida e piomba in terra. Ambrogio lo guarda appena alcuni secondi. Dove soccombe la giovane vita, resiste la ferrea forza del vecchio, che

sfidando ferocemente il destino e gli stessi elementi tenta al fine l'impossibile. Alza di peso quel corpo privo di sensi, se lo carica sulle spalle e si avanza a stento su per l’ultimo tratto della via.

Il dottore Eberardo e i suoi compagni si trovavano nella capanna di rifugio, dove i ritrovati erano stati messi nei letti, mentre nel focolare crepitava la fiamma, riscaldando la stanza. Il dottore, servendosi dei farmachi di cui si era provvisto, e adoperando tutti i mezzi che la scienza suggerisce in simili casi, era riuscito a richiamare ai sensi Vincenzo Ortler.

Questi raccontò che eran saliti sul Picco della neve con un tempo bellissimo, ed erano sulla via del ritorno quando furono colti dal temporale. Allora affrettarono la discesa, ma ad un tratto furono travolti da una valanga e non avevano più veduto Enzo Kroneck che fin' allora era stato presso di loro.

— Ah, poveretto ! — esclamò l'oste della valle — è andato purtroppo.... e anche Ambrogio. Ringraziamo Iddio che almeno tu, Vincenzo, l'hai scampata, altrimenti la mia figliuola ne sarebbe morta. Non ti voleva, sta bene; ma dal momento che ha saputo che tu ti trovavi in mezzo alla tormenta, non ti so raccontare quel che non ha fatto ! Mi s’è gettata in ginocchio, ha pregato, ha pianto, sembrava pazza.

Vincenzo aveva ascoltato tutto ciò senza ripigliar fiato; la sua faccia ancora sì pallida cominciò a diventare rossa, mentre mormorava, come parlando seco stesso:

— Lo sapevo già ! Mi ha sempre voluto bene; ora poi non mi stacco più da lei ! Signor dottore, come sta Sebastiano ? S'è riavuto ? La scamperà ?

— Per ora non dà segno di vita.... era finito.... non mi è riuscito svegliarlo per quanto abbia fatto; ma si riavrà, spero. — Dio la rimeriti, signor dottore — disse l'oste della valle. — È un povero diavolo, e se morisse, la sua moglie e i

figliuoli dovrebbero patire la fame.... cominciavano già a mancare del necessario; ha sette figliuoli. — Sette figliuoli ! — esclamò il dottore. — Non si vergogna ? Non ha pane bastante per sé, e mette al mondo sette

figli ! E un' indecenza ! E ciò dicendo, corse di nuovo al letto di Sebastiano e ricominciò a scuoterlo, a fargli fregagioni, a pizzicottarlo sì

furiosamente, che il sudore gli cascava giù dalla fronte. Finalmente, Sebastiano diede segno di vita. Intanto eran ritornati due degli uomini mandati a scoprire qualche cosa, ma erano ritornati mogi mogi, facendo

intendere con una scrollata di spalle, che non avevano trovato tracce d'Ambrogio e d'Enzo. A poco a poco anche Sebastiano aveva ripreso i sensi, ed era salvo. Il dottore che gli era intorno, si volse agli altri e

domandò ansiosamente: — Ma, dunque, gli altri due, non credete che torneranno ? Nessuno rispose. Finalmente l'oste della valle disse a mezza voce: — Temo di no, signor dottore. — E lo temo anch’io ! Ah, maledizione ! esclamò il dottore. — Mi sono arrampicato fin quassù per salvare Enzo, e per

l’appunto lui.... Egli non fini, si mise in ascolto e anche gli altri fecero ansiosamente lo stesso; era venuto dal difuori uno strano

rumore, come un calpestìo, e come un forte anelito di persona affaticata. L’oste della valle balzò fuori della porta, e in pari tempo un grido di terrore e di gioia proruppe dalle labbra di tutti.

— Gesummaria !... Ambrogio ! Era infatti il vecchio, che entrava a balzelloni dentro col caro peso addosso, di cui tutti accorsero ad alleviarlo. Il

dottore Eberardo s'impadronì dello svenuto ed esclamò: — Grazie a Dio, respira, e si muove ! Era uno svenimento di spossatezza, e niente altro. Non era stato, come gli altri due compagni, per delle ore nella neve,

e si riebbe per conseguenza più presto di loro. Pochi minuti dopo aperse gli occhi e il suo primo sguardo, la sua prima parola furono rivolti al suo salvatore.

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Mentre tutti erano affollati intorno ad Enzo, il povero Ambrogio era caduto sulla panca, dov’era rimasto immobile, abbandonato,,con la faccia d'un uomo che muore.

— Presto, presto, qua le gocce — gridò il dottore — sta male, sta peggio di tutti. Il dottore ebbe subito la bottiglia in mano e fece l'atto d'appressarla alle labbra del povero vecchio, il quale con un

cenno l’allontanò. — Lasciate.... sono alla fine !... Ah, vorrei rivedere ancora Enzo ! Il dottore con la destra teneva il polso del vecchio e con la sinistra gli reggeva la fronte; poi disse: — Si può alzare, Enzo ? Il povero Ambrogio non può venire fino a lei. Enzo, sostenuto da due uomini, si appressò al suo salvatore, e vide che su quel volto si dipingevano manifesti i segni

della morte. — Ambrogio, son qui.... ch, riavetevi ! Non è vero, signor dottore, è effetto di spossatezza ? — No, Enzo, no; è la morte ! — mormorò appena intelligibilmente il vecchio, e frugandosi in seno da dove tirò fuori

qualche cosa, aggiunse: — Prenda, questo mi ha servito di traccia.... era mezzo sepolto fra la neve.... senza questo non l’avrei più trovato.

Il piccolo oggetto scivolò dalle sue mani tremanti e cadde al suolo. Enzo non vi badò; egli stringeva con ambe le mani la destra del morente e la premeva alle labbra.

— No, no, Ambrogio, voi non morrete ! Deve dunque la mia salvezza essere riscattata colla vostra vita ? Lo sguardo del vecchio scintillò ancora una volta di gioia. Gli ultimi avanzi di vita parvero concentrarsi in quello

sguardo, e nella voce dominava un accento di trionfo. — Ora almeno mi porge la mano!... non è vero, signor Enrico ? Ora non mi volta più le spalle come l’anno scorso....

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Poi cadde pesantemente sulla panca, e pochi minuti dopo Ambrogio, il montanaro, era spirato. — E morto! — esclamò il dottore Eberardo addolorato, mentre gli altri lo circondavano in cupo silenzio. — Questo

maledetto ghiacciaio ci è pur costato una vittima ! L’oste toccò leggermente la mano del giovane Kroneck. — Questo oggetto le appartiene, signor Kroneck. Ha sentito da Ambrogio ch’esso gli dette la sua traccia, e senza di

esso non sarebbe più ritornato. Enzo stese la mano macchinalmente verso il piccolo oggetto che questi gli porgeva, umido di neve, ma custodito dalla

sua coperta di pelle. Solo la cerniera aveva sofferto; essa aveva ceduto, i fogli erano sparsi, e sopra un foglio bianco spiccava intatto un fiore azzurro.... la salvatrice “Fata delle Alpi”.

XII.

Una intera settimana era passata da quella tormenta; i monti brillavano aurei alla limpida luce del sole, e la vita aveva ripreso il consueto andamento.

Ambrogio era stato solennemente sepolto, come forse non era mai accaduto fra quei monti a memoria d'uomini. Da lontano e da vicino tutti erano accorsi per accompagnare il vecchio montanaro all’ultima dimora, e persino il dottor Eberardo si era recatoalla mesta cerimonia. Del resto egli era di pessimo umore, poiché il suo assistente, dal giorno in cui erasi allontanato dalla sua casa, non si era fatto più vivo.

Nella villa Rehfeld aspettavano l'arrivo del consigliere Kroneck, e contemporaneamente Hellmar aveva annunziato che sarebbe arrivato nel pomeriggio di quel giorno stesso. Il dottor Gilberto al contrario era ritornato da due giorni dall'università, dove si era recato per sollecitare l'esito d'una domanda, che aveva fatta per un posto. Cosi sembrava che il giovine dottore volesse assicurarsi a qualunque costo la propria indipendenza e l'avvenire. Egli aveva ottenuto, dopo il si di Caterina, anche il consenso della madre, naturalmente, e non seppe della catastrofe che aveva avuto luogo, che soltanto al suo arrivo.

Nella stanza del giovine Kroneck si trovava adesso questi col dottor Eberardo, che era venuto per visitare la sua malata. In Enzo il pericolo mortale, a cui era scampato, non aveva lasciato alcuna traccia. La sua elastica giovinezza superò subito le conseguenze dello spossamento, e tornò bianco e rosso come prima; ma ne' suoi lineamenti in quel momento erasi impressa una profonda mestizia, poiché avevan parlato d'Ambrogio il montanaro.

— Glielo dissi io.... era stata una lesione interna, prese a dire il dottore. — Quella via con un simile peso sulle spalle non si resiste anche a possedere una complessione da giganti, come Ambrogio. La fatica eccessiva gli cagionò la morte. Soltanto non capisco, com’egli abbia fatto a reggere fin lassù.

— In quel corpo di ferro, ci era anche una volontà di ferro — rispose Enzo. — Non c’era potenza al mondo, che lo avesse indotto a scendere a quel tempo nelle forre della neve, questo lo so ! Ma lui vi si calò per amor mio, e vi trovò me e la morte !

Eberardo si studiò d'interrompere quel tema, troppo doloroso. — Oramai non ci si fissi, non ci si tormenti più ! Si rallegri piuttosto che Evelina si è mostrata in questa occasione sì

valorosa. Dodici ore di simile angoscia mortale non sono una bagatella per una convalescente. Egli aveva trovato il vero argomento per deviarlo dal tristo pensiero della morte d'Ambrogio. — Sì — rispose — la sua predizione, signor dottore, si è confermata appuntino. S’ella fosse stata ancora malata,

quella angoscia poteva avere gravi conseguenze. Ma, mi permetta un' altra sola domanda, signor dottore.... Fu davvero per suo ordine che Martino cacciò via Vincenzo Ortler e Sebastiano, quando vennero per ringraziarla ?

— Naturalmente, lo comandai io ! — rispose tempestando Eberardo. — Debbono andare al diavolo coi loro ringraziamenti, Sebastiano specialmente con i suoi sette bambini !

— Cotesto è proprio il suo modo di fare, signor dottore — esclamò Enzo — e per ciò mi son guardato bene dall’esternarle la mia gratitudine. Ma se per avventura si desse l'occasione di dimostrargliela.... sarò sempre e poi sempre pronto.

— Davvero ? E se io la prendessi in parola ? — Tanto meglio ! Parli pure.

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Il dottore proruppe in un brontolìo inintelligibile; la risposta non voleva venirgli netta sulle labbra, ma finalmente si fece strada:

— Mi renda Gilberto ! Non posso vivere senza quel giovane ! — È un affare serio. Nel modo, com’egli ha lasciato la sua casa, non può tornare senza confessare una colpa che non

ha commessa. Non fece che difendere la sua indipendenza e il suo amore. — Non importa, ritorni. Se proprio non c’è altro rimedio, gua', gli permetterò.... d’amare la piccina. — Bisognerà che lei gli permetta di sposarla; son già sposi promessi ! Il dottore cercò con gli occhi un mobile su cui sfogare la sua collera; non trovandolo lì per lì, strinse le pugna. — Che ! Il mio assistente.... — Sposerà la mia cuginetta! Sì, signor dottore; oramai è cosa sistemata! — Me lo riporti o celibe o ammogliato ! — gridò il dottore. — Ella è stato della congiura, lo so ! Gilberto non l'avrebbe

mai osato, s’ella non gli fosse stato alle spalle. È lei il colpevole che ha perduto il mio assistente ! E ora me lo riporti, ripeto! Enzo poteva a stento trattenere le risa a quel disperato scoppio di collera e d’amarezza. — Gua', s’ella si adatta al matrimonio di lui con la mia cuginetta, posso tentare d'accomodar tutto. Certo, Gilberto,

dopo il trattamento che ha ricevuto da lei, il primo passo non lo fa; toccherebbe a lei a.... — A me ! Debbo forse chiedergli perdono al briccone ? — Questo no. Lei non deve far altro che congratularsi con lui del suo fidanzamento. In fin dei conti, lei gli è padre

adottivo, e son convinto che in lui e nella sposa, lei troverà due figli amorosi. — Ma non ne voglio dei figli io ! — esclamò il dottore furibondo. — Gliel’ho pur detto che non posso soffrire roba

simile. Ah, e me ne debbo anche congratulare ? Mi debbo congratulare col mio assistente del suo fidanzamento ?... Se lo sa Martino, gli viene un accidente.

— Nessuno vuol costringerla, e lei è padrone di fare quello che le pare e piace; ma ecco qua Gilberto.... — Come?... alla villa? — Certo, al fianco della sua sposa. Il dottore fece una smorfia, come se gli fosse stato fatto assaggiare qualche cosa d’amaro; ma Enzo vide bene che era

un ferro che si lasciava piegare, mentre era caldo, e soggiunse: — Sarebbe proprio la migliore occasione, forse l'unica. Una parola amichevole da parte sua, un breve augurio.... — Mi lasci — brontolò il dottore. Ma quando vide che il giovane non si dava per vinto e lo trascinava seco addirittura, non ricalcitrò, lo seguì fino a una

porta, ch’egli aperse, e vi fu spinto dentro. — Signor dottor Gilberto, cara Caterina, c'è qui qualcuno che vuol congratularsi con voi del vostro fidanzamento. Quando la giovine coppia ebbe veduto chi era colui che si voleva congratulare, si spaventò, e Caterina temeva, data

l’ostilità che passava fra lei e il dottore, che questi meditasse qualche seria opposizione; ma Gilberto, a cui rimordeva d'averlo lasciato a quel modo, dopo averne ricevuti tanti benefizi, si precipitò pieno di gioia verso il suo maestro, e a un tratto si fermò come incerto.

— Mi congratulo teco — proruppe questi, sbuffando. Enzo non udì altro; egli chiuse sorridendo la porta, poiché vedeva che non era affatto necessario, che intervenisse. Appena che il giovine fu entrato nel giardino, una carrozza si fermò fuori. Ne scese Guido Hellmar, e scorgendo il suo

amico, gli corse incontro a braccia aperte. — Mio caro Enzo, Dio sia ringraziato che io ti ritrovo ristabilito ! Che sorta di pericolo hai passato ! Non puoi credere

in quale angoscia sono stato. Enzo schivò l’amplesso e chiese freddamente: — Lo sapevi già ? — Dio mio, tutto il paese ne parla. Persino i giornali son pieni di particolari sulla tua avventura! Tu e Ambrogio siete

diventati gli eroi del Picco della neve e delle forre. Il vecchio ci ha rimesso la vita; ma meno male, che tu sei sano e salvo. E non me ne hai scritto nemmeno una riga. Sarei subito corso da te, se....

— Se tu non avessi dovuto sacrificarti al capezzale d'un amico — lo interruppe Enzo con amaro scherno; poi riprese: — A che questa commedia, Guido? Tu hai aspettato semplicemente che l'aria fosse qui per te respirabile.

Hellmar gettò un'occhiata per il giardino. Il giardiniere e il suo garzone sembravano essergli incomodi. — Vieni un momento nel padiglione del giardino

— diss’egli con amabile preghiera. — Vorrei sapere come va qui, poiché non me ne hai data alcuna notizia.

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Enzo si strinse nelle spalle, ma passò con lui nel padiglione, dove qualche volta avevano pranzato. Esso conteneva, oltre la stanza grande, una stanzetta attigua.

— Ebbene, che cosa hai fatto per me ? Gondela si è data pace ? Parla, parla ! — Gondela si sposa la domenica prossima con Vincenzo Ortler; e tu con le tue avventure hai fortuna davvero, come

di solito. Hellmar, voleva apparire indifferente, ma si vedeva che quella notizia gli aveva allargato il cuore; egli emise un

profondo respiro. — Certo la cosa mi diventava affatto incomoda

— soggiunse il poeta. — Quella ragazza era divenuta idrofoba contro di me. Dunque Vincenzo Ortler, che mi voleva accoppare, che ronzava continuamente intorno a lei, se la sposa !

— Sì! — esclamò Enzo, seccamente. — Questi montanari son di facile accontentatura. A loro basta il possesso; del cuore non se ne occupano.

— Lascia là — lo interruppe Guido. — Son felice che la faccenda sia terminata. Ma dimmi, e della signora Rehfeld come va? Le ho scritto due volte, e non ne ho ricevuto alcuna risposta.

— Evelina sta bene. Ma, Guido, come mai non ti sei vergognato a ricominciare, dopo il tuo scacco con Gondela;, il tuo vecchio giuoco con un' altra ?

Hellmar si morse il labbro e aggrottò le ciglia. — Qualche volta sei incredibilmente brutale nelle tue espressioni — rispose. — Il divertimento che uno si prende con

qualche contadinotta, non ha nulla che vedere con la corte, che si fa ad una signora. Spero che non dubiterai.... — Che tu abbia l'intenzione di far felice con la tua mano Evelina.... no, di questo non dubito punto, per il semplice

motivo ch’ella è ricca, e che tu sei uno spiantato in cerca di qualche ricca dote. — Enzo, ti prego, coteste critiche morali risparmiamele — disse Guido, alzando la voce. — Mi pare che tu dimentichi,

con chi parli. — Col celebre poeta Guido Hellmar, col delicato lirico delle signore, coli' uomo ideale, che è puro e schietto, come i

suoi versi. E, certo conosco un altro Hellmar, la cui amicizia spesso mi è riuscita fatale. Sei stato tu, e lo sai, che mi hai spesso ritrascinato nel vortice, quando stavo per uscirne a salvamento. Per mezzo tuo ho imparato a conoscere il fango della vita. Una cosa sola non m’è riuscito d'impararla da te, l'ipocrisia, con la quale hai potuto dappertutto passare per un modello di virtù, mentre a me è toccato a scontare le tue colpe. Io son passato per lo scapestrato, per l'incorreggibile, e ne ho fatte, lo confesso delle bricconate giovanili, ma non ho mai commesso ribalderie, neppur'una, simili a quelle, che tu giornalmente commetti.

Enzo, finalmente, si era sfogato; le parole gli erano sgorgate dalle labbra, scottanti come lava. Ma Guido Hellmar possedeva la proprietà di non sentirsi mai offeso, quando gli conveniva. Egli dunque incrociò tranquillamente le braccia, e assumendo una cera grave, quasi addolorata, rispose:

— Mio caro Enzo, tu vuoi fare sempre paragoni fra noi due, mentre devi convenire che ci esiste una differenza enorme. Voialtri uomini ordinari avete un tutt’altro codice morale, che noi. Io conosco bene questa profonda discordia che è nella mia natura, ma sono appunto due anime nel petto d'un poeta, le quali si combattono continuamente. È l'eterna pugna fra l'angelo e il demone, fra la sublimità dell’ideale e il bassissimo fondo del reale; e questa assidua lotta è appunto quella che contraddistingue il genio, così che anch’io....

— Guido, cessa; ora basta ! — lo interruppe Enzo, indignato. — Altrimenti torni a dimostrarmi di nuovo che per essere poeta è necessario d’essere prima di tutto un mascalzone. I traviamenti d’una natura creatrice li lascio passare, ma la volgarità, il calcolo.... questo, no.... e tu hai calcolato fino dal momento che hai messo il piede in questa villa. Appena che potesti sapere che la matrigna di Caterina era più ricca di lei, e che probabilmente sarebbe presto morta, risolvesti di sposarla, senza neppure averla veduta. Tu certo ora sposeresti anche la guarita, per renderla infinitamente infelice, tosto che ti avesse veduto nella tua vera sembianza. Ma in questo caso, certo, le avrei aperto gli occhi.

— Cosa, ch’io spero non farai in seguito. Bada bene, Enzo, allora.... — Tu mentiresti e inventeresti una infinità di calunnie a carico mio, poiché ne sei maestro. Ma in questo caso non

farebbero effetto, perché Evelina è mia promessa sposa, e si capisce ch’ella crede a me solo. Hellmar fece un balzo indietro. Questo colpo gli giunse sì improvviso e sì duro, che sulle prime ne uscì quasi fuor di

sé. Finalmente proruppe: — Tua.... tua sposa promessa ! Dunque c’era qualche cosa sotto a quella strana scena del vostro rivedervi ! Pare

che tu abbia eccellentemente profittato della mia assenza....

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— Che c'è? — domandò Enzo, appressandoglisi minaccioso. — Te ne senti forse offeso; son pronto a qualunque sorta di risposta.

— Io non sono un ammazzasette — dichiarò Hellmar. — Coteste brutali soddisfazioni le lasciò agli ' esseri inferiori. La nostra amicizia è finita.

— Era finita da un pezzo ! Tu sai con quanta franchezza ti ho fatto conoscere che volevo star lontano da te, ma ti è piaciuto di continuare la commedia dell’amicizia.

— Sì, lo so; fino dal maggio dell’anno passato, cambiasti affatto con me. Ebbene, ti auguro felicità e una vita virtuosa nel tuo matrimonio, al fianco d’Evelina. Per voi, uomini volgari, si sa, cotesto è e de- v’essere alla fine il partito migliore.

Gli Tolse con un gesto di sprezzo le spalle e se n' andò. Enzo si passò una mano sulla fronte; egli si era un po' riscaldato, e stava per uscire dal padiglione, quando un fruscio

lo fece voltare. — Evelina.... tu qui ? — esclamò, sorpreso. Sulla soglia della stanza attigua stava la giovane

signora, pallida, con gli occhi pregni di lacrime e una espressione di dolore sul viso. — Perdona, Enzo, non volevo origliare — disse con voce tremante. — Stavo per farmi vedere, quando entraste, ma le

vostre prime parole me lo impedirono e rimasi al mio posto. Ah, che cosa ho inteso ! — Volevo risparmiartelo — rispose il giovane. — Questa volta sono innocente di questa sconfitta di Guido. Ti ha

addolorata la perdita del tuo poeta, non è vero? Lo sapevo, e perciò tacqui. Egli le si era avvicinato e l'aveva ricinta del suo braccio. I suoi occhi erano ancora umidi, ma ella sorrise. — No, perché ne ho trovato un altro, e grazie a Dio, molto migliore ! — Credi tu ? Ebbene, quando ho tenuto Guido innanzi allo specchio delle sue colpe, ho confessato anche le mie, lo hai

sentito. Troverò almeno perdono ? — Di che ? Dello strapparti con tanta energia da sì malefico influsso ? Enzo, tu lo sai, ad onta di tutto, io ho creduto

a te. — Sì, lo hai fatto — diss’egli commosso — e ora non dobbiamo amareggiarci questo giorno col pensare a quella scena.

Tu sai che aspetto mio padre e che ho preparato una mina contro il dottore Eberardo, ed essa deve scoppiare oggi stesso. Tieni, Evelina, ti racconterò come ho fatto ad indurlo a congratularsi con Gilberto e con Caterina.

La congratulazione doveva ad ogni modo essere riuscita soddisfacente, poiché essi trovarono il dottore e gli sposi in piena pace fra loro. Fra il dottore e Caterina era intanto stato concluso, a quanto pareva, un armistizio, e Gilberto era evidentemente felice dell’avvenuta sua riconciliazione.

Si parlava già della città, dove il giovane medico si voleva stabilire, quella naturalmente dove stava Eberardo, e questi era diventato già così umano, che non si lasciò sfuggire se non un mite brontolìo, quando Evelina osservò, che la giovane coppia avrebbe avuto naturalmente casa propria. Parve che gli bastasse di avere Gilberto vicino.

— Ebbene, ti accomoderai all’orso ? — bisbigliò Enzo, punzecchiando la sua cuginetta. — Spero che, a poco a poco, riusciremo ad ammansarlo. — Una lodevole idea, cotesta; ma tieni bene gli occhi aperti, chè Gilberto non abbia a ricadere nella antica schiavitù. — Sta' tranquillo, Enzo, sarà pensier mio ! — rispose con un sorriso malizioso la damma, consapevole della sua forza. Il dottor Eberardo era d’ottimo umore, quando Enzo fece furtivamente un cenno alla sua sposa, la quale, naturalmente

d’intelligenza, si volse al dottore: — Sa, signor dottore, ch’ella ha guastato una grande gioia ai nostri valligiani ? Volevano farle una solenne

dimostrazione per ringraziarlo del coraggio e dell’abnegazione dimostrato là sui monti.... — Non oseranno già farlo ! — proruppe il dottore, subito rannuvolandosi. — Li faccio tutti cacciar via, e Martino ha

già i miei ordini, e sa come si fa. — Sì, purtroppo, ci è ammaestrato da anni — osservò Enzo. — Quella buona gente lo ha intravvisto, e perciò ci ha

incaricato di presentar noi i ringraziamenti per tutti. Ho accettato il mandato ed ora vorrei offerirle questo segno.... — Oh, oh, anche un indirizzo, un regalo ! — esclamò Eberardo, incominciando a montar sulle furie. — Prego, di

cotesta roba non ne voglio ! La s:etto fuori dalla finestra ! Glielo dica a costoro ! Enzo non si perde in proteste; era già uscito e dopo pochi minuti rientrò con in braccio un bambino di circa due anni,

con una graziosa testina bionda, vestito pulitamente, ma certo di poveri panni.

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— Non aver paura, Giannino, sai, se quel signore ti guarda male — diceva Enzo al piccino, ridendo. — Fa celia, è un buon uomo e sarà contentissimo di sentire la tua poesia.

Il piccino obbedì e balbettò certi versetti, che gli erano stati insegnati, coi quali ringraziava il dottore d’avergli salvato il babbo.

Eberardo ascoltò con un viso orribile e lasciò andare uno sbuffo di collera. Ma Giannino, credendo che facesse per celia, andò fino in fondo e sorrise tutto contento all’accigliato signore.

— Ebbene, signor dottore, vuol gettare anche questo fuor di finestra ? Lo prenda piuttosto un po' in collo — disse Enzo, mettendogli senza cerimonie il bambino in braccio.

— È uno dei sette ? — domandò il dottore, col marmocchio in collo. — Il minore, e fuori, ci sono gli altri sei col babbo e la mamma, e con Vincenzo, Gondela, e l'oste della valle.... non c’è

rimedio, li faccio entrare. — Ebbene, in nome del diavolo, avanti tutta la banda ! — esclamò il dottore. Il giovane non se lo fece dire due volte, spalancò la porta, e tutti entrarono e circondarono il dottore, fatto cosi centro

degli aborriti ringraziamenti. Il dottore sopportò, caso strano, tutta quanta la scena con incredibile rassegnazione. Non apostrofò né Sebastiano né

Vincenzo, quando proferirono i loro ringraziamenti, si lasciò presentare l’un dopo l’altro i fratellini e le sorelline di Giannino, e sopportò anche che l'oste della valle lo aggredisse con un discorso. A questo punto della cerimonia doveva esser tolto il marmocchio dalle braccia del dottore, ma egli vi stava volentieri, si ribellò e volle rimanervi.

Vincenzo e Gondela si presentarono alle signore, come promessi sposi; Enzo si mise a parlare con gli altri, e il dottore con Giannino in collo s'appressò a Gilberto.

— Il piccino non mi vuol lasciare ! — disse compiacendosene. — Non hai paura, non è vero, Giannino ? E il bambino s’avvinse colle sue piccole braccia al collo del dottore, e cominciò con le nude gambine a sgambettare. — Un magnifico bambino — disse Eberardo. — Senta, Gilberto, appena che avrà preso moglie, me ne deve fare uno

simile. Ebbene ? Che bisogno c’è di vergognarsi ? Non è naturalissimo e in perfetta regola in un matrimonio cristiano? Guardi Sebastiano; ne ha sette e non si vergogna. E ha ragione, costui, è proprio una piccola banda; un po' difficile a sfamare, come mi dice sua moglie, ma ci si penserà. Le ho promesso di passare di quando in quando a veder Giannino, e in quelle occasioni cascherà qualche cosa anche per gli altri sei.

Allora si fece innanzi la madre a ripigliare il bambino, cosa che non riuscì senza resistenza da parte di lui. Il dottore Eberardo era diventato tutto amore e nuotava nella contentezza. Egli strinse la mano a tutti e quando toccò a Sebastiano, gli disse accentuando l'espressione:

— Se vi se n'ammalasse qualcuno, venite da me, ve li guarisco tutti quanti. E di quando in quando, portatemi Giannino; mi piace cotesto bambinotto.

La deputazione si congedò; tutti erano entusiasmati dell’affabilità del dottore finora tanto temuto, e appena che se ne furono andati, comparve Hellmar.

Egli aveva profittato dell’intervallo per raggiungere prestamente la sua carrozza, che era già partita, e fare ricaricare il baule, poiché, come disse al servitore, il cocchiere aveva frainteso. Questa volta aveva voluto fare una breve visitina, ed aveva grandissima fretta. Quindi entrò con la più grande amabilità e disinvoltura in sala, contando sul silenzio d’Enzo.

— Perdoni, illustrissima signora, se questa volta arrivo e parto in tutta fretta — diss’egli. — Un dispaccio, che ho ricevuto in questo momento, mi richiama alla capitale. Si tratta d’un affare urgentissimo e non ho un minuto da perdere, ma non ho voluto passar di qui senza fermarmi. Il mio caro Enzo mi aveva già informato del fausto avvenimento, e l’augurio dell’amico non doveva né poteva mancare, lo esprimo con tutto il cuore.

— Ti ringrazio — rispose Enzo, avvezzo a simili commedie — anche a nome della mia sposa. Ma Evelina, a cui non riusciva fingere, ritirò involontariamente la mano, quando Hellmar gliela prese per recarsela

alle labbra. Egli diede un' altra interpetrazione a quell’atto, persuaso com’era di non essere ancora del tutto indifferente alla giovane signora, quantunque ne avesse preferito un altro. Mesto, dando al suo commiato un'espressione di doloroso rimprovero, egli alzò a lei gli occhi languidi e belli, quasi volesse domandarle, come aveva potuto bastarle 11 cuore d'abbandonare il suo poeta, per un uomo volgare. Enzo diventò rosso fino ai capelli a quel giuoco di sguardi, ch’egli soltanto troppo bene intendeva. Allora gettò da parte la pazienza e il riguardo, e gli disse severamente:

— Mi maraviglio soltanto d'una cosa, che non abbiamo veduto la tua carrozza. Eravamo poc’anzi nel padiglione; vi si trovava anche Evelina, che era a mia insaputa nella stanzina attigua, e di là si vede tutta la strada.

Hellmar trasalì; era la seconda volta che Enzo facevasi suo accusatore, e sul volto della sua signora scòrse l’espressione d’un mal celato disprezzo; su quel volto egli aveva potuto sì spesso godere il raggio dell’ammirazione, che un

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tempo ella aveva per lui, e sentì che anche presso di lei il suo giuoco era perduto. Ma sfrontato com'era, Guido Hellmar si rimise subito; si volse a Caterina per salutarla, seppe con lieta maraviglia del suo fidanzamento e anche con essa si congratulò; rivolse un complimento al dottore Eberardo a proposito della parte da lui presa al salvataggio, di cui tutti i giornali davano i particolari. Il dottore lo lasciò dire, e giunse intanto la carrozza che portava il consigliere Kroneck.

Enzo aveva già partecipato al padre il suo fidanzamento con Evelina, ed egli n' era rimasto infinitamente sorpreso, ma anche infinitamente lieto. Evelina era sempre stata la sua prediletta. A lei riconosceva un deciso influsso sul figlio; un influsso che, ben sapeva, non avrebbe mai esercitato su lui Caterina, e riguardo a dote il partito era anche più splendido di quello progettato in origine. Il vecchio consigliere, per la prima volta in vita sua, si trovava nella condizione di dovere approvare assolutamente e senza riserve ciò che di proprio moto aveva fatto il figliuolo. Egli dunque veniva a braccia aperte a salutare i suoi figli. Per altro aveva sul cuore anche un'altra cosa, e appena che fu in sala, tirò da parte il figlio e gli disse:

— Giovinotto mio ! Enzo mio ! Dovrei essere in collera teco, se non andassi tanto orgoglioso di te per poterlo essere. Perché hai taciuto a tuo padre, ciò che hai rivelato al Ministro ? Mi sono incontrato ai bagni con Sua Eccellenza; è venuto a trovarmi, lui, il capo autorevolissimo di tanti subordinati, per congratularsi meco e dirmi che io era un padre invidiabile e che aveva voluto esser lui il primo a felicitarmi. Dal Ministro ho dovuto saperlo !

— C’erano i suoi buoni motivi, babbo — rispose Enzo difendendosi. — Mi era impossibile resistere senza rivedere Evelina. Bisognava che ottenessi un permesso a qualunque costo, e siccome sapevo che per un impiegatuccio qualunque, eccezioni non se ne fanno, mi venne l'idea d’adoprarci la mia celebrità nuova di zecca. Avevo per caso saputo che il Ministro aveva giudicato il mio lavoro molto favorevolmente.

— Favorevolmente ?... Ne. è entusiasmato e ti promette il più splendido avvenire; mi ha poi detto tante mai cose lusinghiere, che veramente ero lì tutto rosso di vergogna. Cuore mio, orgoglio mio, gioia mia !

— Lo hai dimenticato dunque, babbo, il buon'a nulla, lo scapestrato, eh? — ricordò sorridendo il giovane. — In realtà mi dispiace di non sentirmi dar più quel titolo; oramai ci ero tanto avvezzo !

— E lei, signor Guido, che cosa ne dice ? — domandò il consigliere, desideroso che tutti prendessero parte alla sua gioia. — Lei è stato sempre l'intimo, il confidente, forse l'unico che lo sapeva, e anche lei ha taciuto ?

— Di che si tratta ? — domandi; Hellmar, col suo prevenente sorriso. — Pare che Enzo abbia ottenuto qualche successo diplomatico, di cui fa tuttora un segreto, e ch’egli avvolge nel più profondo mistero. Ha scritto forse qualche libro di scienza sociale, che gli dia speranza d'esser promosso a consigliere? Non ne so nulla affatto !

— Che ! Anche per lei è un segreto ? — esclamò stupefatto il consigliere. — Non lo sa dunque chi ò l’autore di quel dramma, che ha avuto un sì strepitoso successo, che il pubblico e la stampa hanno dichiarato addirittura un capolavoro ?

— Lei scherza, babbo Kroneck, il poeta della Fata delle Alpi ? — Ti sta dinanzi ! — soggiunse tranquillamente Enzo. Fu troppo. Egli aveva retto alla perdita della sposa, sulla quale faceva sicuro assegnamento, aveva retto alla sconfitta

sofferta un momento prima sotto i di lei occhi; ma il pensiero che Enzo gli sorgesse al fianco poeta, e lo superasse di tanto, quello non lo poteva tollerare. La sua costernazione fu tale, che non isfuggì a nessuno degli astanti. Egli restò lì senza fiatare, come insensato.

Per fortuna, il dottor Eberardo si cacciò in mezzo e riempì quella pausa con una tonante congratulazione al consigliere per l'immenso successo del figlio. 10 vecchio lo guardò commosso e grato, e si convinse fermamente che solo il fascino della Fata delle Alpi aveva umanizzato quel terribile misantropo.

Intanto Hellmar aveva cercato di riprendere la sua calma, ma non gli era completamente riuscito. — Enzo, hai avuto torto di tacere anche con me — disse volgendosi a lui. — Dunque avrò in te un fratello in Apollo ? — Ma con un' anima sola ! — gli rispose Enzo, gravemente. — Tu, per vero, pretendi ch’essa sia soltanto per gli

uomini volgari; ma io credo che infin de' conti, sia la cosa migliore anche per noi poeti. Hellmar si morse a sangue il labbro. Per noi poeti ! E doveva sentirselo dire da Enzo Kroneck, che un mese fa nessuno

conosceva, e che lo aveva con un solo slancio di genio raggiunto e sorpassato ! — Ebbene, porterò alla capitale la grande novità — diss’egli. — Ma adesso non posso più trattenermi davvero, se

voglio fare in tempo per profittare del treno celere. Le riverisco, signore ! Addio, babbo Kroneck ! Addio, Enzo ! Noi del resto rimarremo i vecchi amici !

E ciò dicendo batté in ritirata. — Ora se ne va a scrivere i più furibondi articoli, che non lasceranno sano nemmeno un capello alla mia povera Fata

delle Alpi — disse Enzo a bassa voce ad Evelina. — E in fe' mia, ci ho piacere, se d’ora in poi diventiamo aperti nemici.

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— Sì, quel signorino soffocava quasi dall’invidia e dalla bile, si vedeva bene — osservò il dottore. — Stia in guardia, Enzo, contro quell’invidioso ipocrita, le amareggerà la vita.

— C’è la stoffa in colui; né sarà il solo. La via che conduce sulle cime è sempre irta di formidabili macigni, e rotta da precipizi; e neppure a me saranno, lo so, risparmiati.

— E tu non temi di cadere ? — domandò sommessamente Evelina, stringendosi a lui. Enzo sorrise, e le sue brune pupille raggiarono di lieta fiducia. — No, Evelina ! Non ho temuto neppur quando mi arrampicai a cogliere la mia “Fata delle Alpi” dal crepaccio di

quella rupe. E in ricompensa, o l l a mi è rimasta fedele, e mi ha protetto nella battaglia per la gloria e per la felicità; come mi protesse nell'immenso deserto di ghiacci. Non esito innanzi alle spine, là dove “il fiore della felicità” mi si presenta nel suo pieno azzurro e mi manda incontro il suo inebriante profumo.

* Coglilo arditamente, ovunque ei sta, “Chè v'è dentro la dia Felicità.”