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LA DIREZIONE SPIRITUALE di Adelio don Brambilla Intervento tenuto ai sacerdoti della diocesi di Crema in merito alla formazione permanente del clero nell’anno pastorale 1994-1995 Tra le modalità con cui il presbitero si premura di custodire la fede dei discepoli del Signore Gesù, ritroviamo la forma della direzione spirituale. Parleremo della direzione spirituale in due momenti. In un primo approccio metteremo in evidenza la «grandezza» e la "miseria" della direzione spirituale. In un secondo tempo cercheremo di introdurre al tema arduo ma essenziale del contesto in cui esercitare il ministero della direzione spirituale: il contesto della capacità di discernimento. 1. Grandezza e ‘miseria’ della direzione spirituale. Bisognerà ricordarlo: la direzione spirituale è una forma della "comunicazione della fede" . Fuori dalla fede essa non comunica nella sua specificità. Fuori dalla complementarietà delle varie forme di comunicazione della fede, essa rischia di gonfiarsi in modo cancerogeno. Non si può, infatti, eludere gli interrogativi radicali e non andare periodicamente a riproporseli, sia da parte di chi chiede la direzione spirituale sia da parte di chi ne svolge il ministero di guida: che cosa è propriamente la direzione spirituale come forma di comunicazione cristiana? Qual è la sua specificità sia in rapporto al le generiche forme della comunicazione amicale, sia in rapporto alle altre forme di comunicazione cristiana della fede? L'elemento interpersonale, che sembra caratterizzarla, quale specifica valenza cristiana deve assumere? Esiste un modello unico di direzione spirituale, oppure la sua figura concreta deriva, di volta in volta, da un delicato intreccio di coordinate in parte costanti e in parte variabili? Spesso, nella risposte, emerge costante un'opera di "dilettantismo cristiano", vale a dire non si pesa veramente l'incidenza dell'elemento cristiano, che è la fede in Gesù Cristo. Inevitabilmente allora la direzione spirituale risulterà "occupata"

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LA DIREZIONE SPIRITUALEdi Adelio don Brambilla

Intervento tenuto ai sacerdoti della diocesi di Crema in merito alla formazione permanente del clero nell’anno pastorale 1994-1995

Tra le modalità con cui il presbitero si premura di custodire la fede dei discepoli del Signore Gesù, ritroviamo la forma della direzione spirituale. Parleremo della direzione spirituale in due momenti. In un primo approccio metteremo in evidenza la «grandezza» e la "miseria" della direzione spirituale. In un secondo tempo cercheremo di introdurre al tema arduo ma essenziale del contesto in cui esercitare il ministero della direzione spirituale: il contesto della capacità di discernimento.

1. Grandezza e ‘miseria’ della direzione spirituale.

Bisognerà ricordarlo: la direzione spirituale è una forma della "comunicazione della fede". Fuori dalla fede essa non comunica nella sua specificità. Fuori dalla complementarietà delle varie forme di comunicazione della fede, essa rischia di gonfiarsi in modo cancerogeno. Non si può, infatti, eludere gli interrogativi radicali e non andare periodicamente a riproporseli, sia da parte di chi chiede la direzione spirituale sia da parte di chi ne svolge il ministero di guida: che cosa è propriamente la direzione spirituale come forma di comunicazione cristiana? Qual è la sua specificità sia in rapporto al le generiche forme della comunicazione amicale, sia in rapporto alle altre forme di comunicazione cristiana della fede? L'elemento interpersonale, che sembra caratterizzarla, quale specifica valenza cristiana deve assumere? Esiste un modello unico di direzione spirituale, oppure la sua figura concreta deriva, di volta in volta, da un delicato intreccio di coordinate in parte costanti e in parte variabili?

Spesso, nella risposte, emerge costante un'opera di "dilettantismo cristiano", vale a dire non si pesa veramente l'incidenza dell'elemento cristiano, che è la fede in Gesù Cristo. Inevitabilmente allora la direzione spirituale risulterà "occupata" da motivazioni secondarie che soffocano il manifestarsi dello Spirito e la crescita nella comprensione singolare della volontà di Dio.

L'insieme degli interrogativi sopra enunciati è in grado di raccogliere e di interpretare la variegata fenomenologia con cui si presenta la domanda e, in talune situazioni ecclesiali, addirittura un certo "obbligo" di accedere alla direzione spirituale e la conseguente "soddisfazione" di essa.

Ne sono esempio le richieste in termini di terapia, a motivo del diffuso disagio psicologico avvertito dalle persone nel nostro contesto epocale; oppure i tentativi, soprattutto in situazioni dove la direzione spirituale è esigita, di passare per essa uscendone indenni, avendo salvaguardato quel progetto (vocazionale) di sé, che si ha paura a verificare. In casi come questi nella direzione spirituale non si entra per la porta della fede. Nel primo caso, propriamente, perché la fede non costituisce neppure l'orizzonte della domanda; nel secondo caso perché, nonostante la facciata, il cuore è lontano dal sentire della fede, la quale richiede, innanzi a tutto, di disporsi con sollecita gratuità (Ignazio, nei suoi Esercizi Spirituali, direbbe: "con indifferenza") nella ricerca della volontà di Dio.

Che cosa è, dunque, la direzione spirituale come forma della comunicazione di fede? Suggeriamo una definizione che riprendiamo, con linguaggi tra loro molto diversificati, da due testi che vanno indicati tra la bibliografia essenziale.

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«La direzione spirituale ... (è) quel modo di comunicazione della fede che fa riferimento al vissuto personale cristiano ed esige come suo contesto significativo il contesto della interpersonalità libera e gratuita... Si tratta evidentemente di un vissuto che non può essere analizzato nelle sue profondità soltanto ascoltando una predica o facendo scambio di esperienze in un gruppo. n vissuto personale, infatti, ha certi aspetti di intimità e di segretezza che possono manifestarsi solo in quel contesto di gratuità che è determinato dalla libera apertura di una persona a un'altra persona» (Serenthà - Moioli - Corti, "La direzione spirituale oggi", Editrice Ancora). «Definiamo la direzione spirituale cristiana come l'aiuto che un cristiano dà ad un altro cristiano per renderlo attento nei confronti di Dio che gli parla personalmente, per disporlo a rispondergli, e diventare capace di crescere nell'intimità con Lui e di assumersi le conseguenze di questa relazione» (W. A. Barry - W. J. Connolly, "Pratica della direzione spirituale", Edizioni O.R.).

Essa dovrà restare una "passione". Poiché è un'opera di «ingresso nella fantasia di Dio», saprà andar oltre una sua configurazione "standardizzata", come se si trattasse di introdurre solamente (o per lo più) a delle leggi generali della vita cristiana (insegnare a pregare, a esercitarsi nelle diverse forme della preghiera cristiana, a praticare le virtù, ecc.: tutte cose queste che, per altro, costituiscono momenti di direzione spirituale).

L'esistenza cristiana non andrà mai configurata ad una specie di entrata nelle regole del gioco, ma ad un'audizione dell'inedita musica di Dio per ciascuno. E' certamente questo lo squisito sapore della pagina autobiografica dl Teresa di Lisieux, dove discretamente ricorda di non aver potuto trovare un direttore spirituale per la sua esperienza di fede, se non Gesù stesso!

«Per fortuna queste cose le scrivo a te - osserva in una lettera alla sorella Celina - perché altre persone non sarebbero in grado di capire il nostro linguaggio, e confesso che vale solo per un numero molto ristretto di anime. In realtà, i direttori di spirito portano avanti nella perfezione facendo fare un gran numero di atti di virtù, e hanno ragione; ma il mio direttore, che è Gesù, non m'insegna a contare gli atti, mi insegna a fare tutto per amore, a non rifiutargli nulla, ad essere contenta quando mi dà un'occasione di dimostrar gli che lo amo, ma tutto questo nella pace, nell'abbandono. E' Gesù che fa tutto, io non faccio niente» (Teresa di Lisieux, "Lettera 121" in: "Gli Scritti", Ed. Postulazione Generale Carmelitani Scalzi).

Sono espressioni che alludono alla sua "piccola via" dell'amore in tutte le azioni compiute (da mia vocazione è l'amore), scrive nella sua Autobiografia: "piccola", appunto, rispetto a quella dei "grandi santi" che le venivano proposti come modelli riconosciuti, ma pur tuttavia "la sua via", quella preparata per lei («nella casa del Padre mio d sono molti posti», ama spesso ripetere)!

L'esercizio del discernimento spirituale è l'orizzonte dentro cui collocare l’"attuazione” di quella passione che è la direzione spirituale. In sé, come è noto, il tema del discernimento spirituale è più vasto e articolato del tema della direzione spirituale. Tuttavia la direzione spirituale può e deve essere considerata come un esercizio o un momento caratteristico di discernimento spirituale. Si tratterà, dunque, di imparare a entrare nelle regole del discernimento cristiano. Tema affascinante e liberante, il solo capace di far uscire dall'impressione di agire certo con buona volontà, ma sempre un po' da "rudes".

Ci affidiamo, per provocare il personale recupero di qualche ulteriore considerazione, ad alcune espressioni del card. C. M. Martini:

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«Cercare la volontà di Dio nella propria vita ... Essa non si conosce normalmente di colpo, e neanche istintivamente, lasciando che le cose vadano avanti per conto loro; non la si conosce nel corso spesso ambiguo della vita quotidiana (“andando avanti vedrò”)». Occorre, per conoscerla, una libera decisione di entrare in una situazione di discernimento spirituale... Mettersi in situazione di discernimento spirituale significa vivere tre momenti capitali.

In primo luogo bisogna cercare la massima purificazione e il massimo allontanamento possibile da ogni peccato personale attuale, da ogni inclinazione sbagliata, da ogni affetto egoistico o narcisistico, da ogni illusione o falsa aspettativa. Il discernimento spirituale, infatti, è ordinariamente impedito da tutti i peccati che ci appesantiscono, dalle inclinazioni sbagliate che ci giocano, dagli affetti egoistici che ci chiudono, da forme di mondanità che ci dissipano, da illusioni o false aspettative che ci fanno rincorrere miraggi.

Il secondo momento, concomitante al primo, è la lectio, ossia la meditazione e la contemplazione prolungata del progetto di Dio sulla storia dell'uomo, così come ci è comunicato dalla rivelazione ed è contenuto nelle Scritture. La lectio divina è il terreno più appropriato per il discernimento spirituale. Mentre il primo momento era lo sgombero del terreno, questo secondo ci fa entrare nel mondo di Dio, dei suoi progetti; mettendoci in sintonia con il mistero di Dio, con gli atteggiamenti progettuali di Cristo nel Vangelo, noi a poco a poco ci rendiamo sensibili al nostro progetto, a quello che noi siamo chiamati creativamente a produrre, al nostro posto, alle coordinate progettuali vere della nostra vita.

Il terzo momento è l'attento scrutinio (uso la parola in senso psicologico) degli eventi interiori spirituali. Qui il discernimento si fa riflessione su di sé. Non soltanto riflessione psichica, bensì riflessione complessiva sul mio vissuto interiore (notare, per esempio, l'avvicendarsi in me di entusiasmi e tristezze, di gioie e ripugnanze, di attrattive e di paure). Da questo insieme, posso gradualmente leggere le inclinazioni più profonde della mia autenticità, cosi da vedermi autenticamente davanti a Dio” (C.M. Martini e collaboratori, "Il Vangelo per la tua libertà", Ancora).

Da qualche anno a questa parte, i libri sulla vita spirituale abbondano. Alcuni riferiscono e descrivono delle esperienze. L'esperienza spirituale dei santi (e, in genere, delle cosiddette "figure spirituali") è sempre stata un terreno ospitale per cogliere e comprendere l'esperienza personale, almeno alcune stagioni di essa o alcune consonanze spirituali. Il sapore di una direzione spirituale è dato dalla reciproca capacità di comunicare l'esperienza (il "vissuto" spirituale), di esserne ... pratici. Anche qui il terreno è vasto, capace di richiamare tante aree di interesse e problemi legati alla direzione spirituale. capirsi non è facile, in ogni ambito. Ma la direzione spirituale resta un capire il «vissuto» di fede. Tra l'altro: ci si ricorderà che è il necessario tempo perché si dia l'esperienza nella fede (la si avvii, sia sostenuta e incoraggiata, confrontata e consolidata), a determinare anche il modo più adeguato per rispondere alla questione del tempo che deve intercorrere tra una direzione spirituale e l'altra.

Per alcuni, svariati incontri di direzione spirituale nello svolgersi di molti anni, non riescono mai a consistere nella necessaria "lettura", nella fede, dell'esperienza. Il rischio è particolarmente diffuso in chi si trova a fare direzione spirituale per dovere di... "stato di vita". Vi intervengono cause diverse, dalle (spesso presunte e quindi falsanti) distanze di "sensibilità spirituale" complessiva a qualche ricerca di un livello improprio di relazione. E questo benché esista una certa consapevolezza del motivo di fede in cui la relazione si svolge. In una relazione di direzione spirituale, però, si capisce subito se avviene un incontro di esperienze, oppure se una delle due parti dice cose di circostanza, riferisce per sentito dire, oppure anche ripete una qualche lezione ... di vita spirituale.

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Richiamiamo, dentro questa complessità, una circostanza, per citare un altro piccolo libretto che merita di essere conosciuto:

«Vogliamo dunque ricordare quella forma di direzione spirituale in cui il maestro, camminando con i discepoli, li mette a parte delle proprie esperienze. Se il maestro accetta un rapporto di amicizia, l'amicizia spirituale, ancor più di qualsiasi altra amicizia, è un dono. Non si è amici con chi si vuole e non si diventa necessariamente amici di una persona. Molti cercano invano di stringere rapporti di amicizia col loro direttore spirituale e non ci riescono ... In questo rapporto che sboccia nell'amicizia è sempre presente una terza persona, il Cristo. Ciascuno dei due è ben deciso a rimanere fedele al suo Signore. li loro rapporto è nato e si è sviluppato in questa prospettiva» (Y. Raguin, "Maestro e discepolo. La direzione spirituale", Edizioni Dehoniane Bologna).

Santa Teresa d'Avila diceva di preferire un direttore più istruito ma meno virtuoso, piuttosto che un direttore più santo ma ignorante. In altri termini, non basta che uno sia un sant'uomo perché sia anche un buon direttore. Questa "osservazione" (che, evidentemente, neppure santa Teresa assolutizzava) offre l'appiglio per una considerazione sulle "capacità" del direttore spirituale. Quando, all'inizio, ci si poneva, nella serie di domande, quella sull'elemento interpersonale, che - si annotava - "sembra caratterizzare" la direzione spirituale, l'esperienza di riferimento potrebbe anche essere tutta quella concernente le dinamiche psicologiche, oggi certo capaci di entrare di gran peso nella determinazione della "figura" concreta della direzione spirituale. Non già perché il direttore spirituale debba assumere ruoli non suoi, ma perché - appunto - ne abbia "istruzione". Per lo meno nel la consapevolezza che a essere diretta è pur sempre una libertà, con i suoi blocchi nella psiche e le sue ferite umane, e non semplicemente «un'anima generosa» (se lo è) o, al contrario, «non disposta alla fiducia». Fa parte della delineazione spirituale del direttore (forse qui, dire padre spirituale è termine che la tradizione cristiana ci consegna con più perspicacia) la finezza dell'intuito di questi blocchi e di queste ferite, il loro intrecciarsi con i desideri più veri di una libertà cristiana e l'eventuale necessità di dover fare riferimento a un aiuto psicologico specifico.

Una parola, da ultimo, su un aspetto per altro capace magari di sconcertare la considerazione dell' esperienza della direzione spirituale: l’"autorevolezza". «L'autorevolezza cristiana ha delle forme espressive che non possono essere semplicemente ridotte a quelle dell'autorità in una società ... (Nella direzione spirituale) si attua una autorevole presentazione dell'evento cristiano la quale ha sue caratteristiche proprie e originali. Tra queste caratteristiche si può annoverare il suo speciale rapporto con la libertà ... Nel caso della speciale autorevolezza (nella direzione spirituale), la libertà gioca un ruolo tutto particolare: la persona autorevole, i modi di comunicazione con essa, le forme di attuazione dei suoi pronunciamenti ecc., sono sottoposti ad un costante dinamismo di scelta, del dialogo, di reciprocità, in cui la libertà è continuamente chiamata in causa. Questo non vuol dire che è la libertà a concedere autorevolezza alla persona scelta come guida spirituale. La autorevolezza è concessa dall'autenticità cristiana presente in essa; ma il riconoscimento concreto di questa autorevolezza avviene in un concreto dispiegamento di atti di libertà, che sono diversi dagli atti che la libertà compie quando riconosce ed accoglie altri tipi di autorità cristiana. In certi casi poi si possono mescolare diversi tipi di autorevolezza. Si pensi alle forme, magari un po' ibride, ma storicamente comprensibili e legittime, di mescolanza tra un'autorevolezza del direttore spirituale, legata al dinamismo personale, e una autorevolezza in qualche modo garantita da certe leggi ecclesiastiche. Mi riferisco, ad esempio, al caso del direttore spirituale del Seminario, che è chiamato a valutare non sono la singola storia personale, ma anche le condizioni richieste per assunzione di responsabilità ecclesiale pubblica da parte della persona».

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Si impone la necessità di volgere a conclusione questo nostro primo punto. L'attenzione alla persona credente - la custodia della sua fede - perché maturi evangelicamente, conduce anche alla direzione spirituale come luogo singolare con cui accompagnare un'esperienza di fede perché sia aiutata a cogliere la sua originalità cristiana, a "entrare per la porta stretta": potremmo anche dire, con un modo tipico di san Paolo (cfr ad es. 2 Tim 2,8), a percepire il suo vangelo. Si tratta, chiaramente, dell'unico Vangelo di Gesù Cristo risuscitato dai morti, eppure è "il suo", quello che è per quella concretapersona. Come Paolo, ciascuno deve rivendicare un modo di intuire il momento storico-salvifico che è la sua esperienza, l'esperienza del momento e della intera vicenda personale come vocazione. La direzione spirituale ne è al servizio.

2. Il contesto della direzione spirituale: il discernimento.

Ci sentiamo subito rimandati a una domanda: che cos’è il discernimento?

Per rispondere, credo sia necessario rispondere a due domande: il "cosa" e il "come". Che cosa è il discernimento? E come si può discernete in modo fruttuoso? Nella mia esperienza personale il punto cruciale è il "cosa": in altre parole, per chi comprende in modo chiaro il significato (e i pre-requisiti) del discernimento, la meccanica del discernimento stesso non sarà poi troppo difficile da imparare.

Colui che discerne deve essere una persona che prega, che prende Dio seriamente e si interessa davvero all'incidenza che Egli ha sulla sua vita.

In secondo luogo deve essere in grado di operare alcune distinzioni fondamentali; ad esempio, tra il lavorare per Dio e il compiere l'opera di Dio, tra il discernere e il decidere, tra l'ascoltare i propri sentimenti e il contare sulla propria ragione; distinzioni che a mio avviso nella nostra vita non sono affatto facili da cogliere né da accettare.

Forse nessuno lo immaginerebbe, ma nel discernimento spirituale sono propriamente i sentimenti che si devono distinguere e valutare. Per questo è indispensabile essere in contatto con i propri sentimenti. Quanti di noi, tuttavia, lo sono realmente? Quanti sono in grado di definire chiaramente, di rivendicare, di guidare e di dominare i sentimenti che stanno dentro di noi, che sono la materia prima del discernimento? Sono giunto alla convinzione che l'ostacolo più grande al vero discernimento non è la conoscenza di Dio ma il fatto che non conosciamo sufficientemente noi stessi e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente.

Sono questi i fattori che rendono il discernimento un'arte relativamente rara. TI discernimento è un'arte, non una scienza: si apprende mettendola in pratica attraverso prove ed errori. Ed è, soprattutto, un dono: non il frutto del solo sforzo personale, ma il dono di Dio a chi Lo ama ed è da Lui amato.

Anche quando si arriva a cogliere la differenza che c'è tra il discernere spiritualmente e il semplice prendere decisioni (e ciò di solito non avviene), spesso è difficile discernere bene e con buoni frutti. Non credo che il problema stia nel fatto che i principi del discernimento siano in se stessi difficoltosi o oscuri, ma piuttosto nel fatto che il clima necessario al discernimento (vale a dire la disposizione d'animo necessaria prima di poter discernere) è quello di abbandono totale al Signore.Ci sono infatti alcuni presupposti per il discernimento:

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1. Il desiderio di fare la volontà di Dio: il discernimento presuppone che una persona desideri veramente compiere le opere di Dio, nella confusione delle situazioni concrete della vita, vale a dire che a quella persona importa veramente ciò che vuole il Signore.

2. L'apertura a Dio: il discernimento presuppone inoltre che questa persona sia disponibile a essere istruita e condotta dal Signore. Questo è già implicato nel primo presupposto, ma credo. sia importante esplicitarlo, poiché molti di noi lavorano per Dio (cioè scelgono per Lui la cravatta che piace a loro e che vogliono che gli piaccia) piuttosto che essere veramente pronti a fare l'opera di Dio (cioè a scegliere per Lui la cravatta che piace a Lui o che vuole Lui). Desideriamo lavorare per Lui, Egli è importante per noi, ma non impariamo mai a lasciarlo fare (comandare). E' la semplicità di intenzione: era il problema dei farisei che non potevano propriamente discernere la persona di Gesù e la sua chiamata per loro, perché erano accecati dai loro attaccamenti. La maggior parte di noi (per esempio) sceglie prima di sposarsi e poi di servire nel matrimonio Dio nostro Signore, mentre il servire Dio è il fine (dice S. Ignazio, EE.SS.): ossia molta gente si sposa o prende gli ordini molto prima di arrivare a capire di aver trasformato i mezzi in fini, avendo scelto "Dio e» invece di "Dio soltanto".

3. La conoscenza di Dio: perché i primi due presupposti portino frutto, infine, il discernitore dovrà conoscere il Signore, nel senso biblico di una conoscenza vissuta, nata dall'amore. Si potrebbero avere dei buoni desideri senza alcuna solida conoscenza di Dio e della sue vie. Meno esperienza personale ho del Signore, più dovrò dipendere da qualcun altro che abbia questa esperienza vissuta; è questo il significato della direzione spirituale nella tradizione cristiana; il direttore spirituale non fa le mie scelte al mio posto; il direttore però può essere un ottimo interprete, un co-discernitore (è questo il termine che preferisco): per questo direi che la direzione spirituale è il contesto normale, anche se non essenziale, del discernimento .

L'essenza del discernimento è il punto di incontro tra preghiera e azione, dove la preghiera è intesa come rapporto d'amore tra l'anima e Dio. Sant'Ignazio lo chiama "discreta caritas", ossia amore che discerne, termine meraviglioso nel cogliere la verità essenziale: il discernimento dipende da un rapporto personale di amore con il Signore e, di solito, non può essere più profondo e solido di quanto sia il rapporto stesso. Il vero discernitore deve dunque essere una persona che prega-ama, che possiede una conoscenza matura e amorevole del Signore. Per questo il discernimento non è facile.

Un secondo motivo per cui il discernimento non è facile è che il diavolo appare come un "angelo di luce". In questo senso S. Ignazio dice (nella prefazione alle regole per la prima settimana degli ES, 313): «Regole per avvertire e conoscere in qualche modo i vari movimenti che avvengono nell'anima: per trattenere i buoni e per respingere i cattivi. Il nostro discernimento potrà avvenire soltanto in qualche modo: esso va a tentativi ed è correggibile, perché viene fatto nella fede e perché è legato a decisioni concrete, in situazioni in cui l'evidenza è conflittuale e ambivalente.

Le qualità del cuore essenziali per il discernimento.

Dato che la situazione discernitiva è ambivalente e le sue conseguenze sono ignote, e dato che il discernimento dipende dalla conoscenza vissuta di Dio, che rimane invisibile, saranno necessarie determinate qualità se si vuole essere dei veri discernitori. Una persona che discerne dovrà sempre essere:

1. Umile, perché le situazioni di fede sono oscure e perché il discernimento è sempre, in una certa misura, ostacolato dalla nostra peccaminosità. San Giovanni della Croce e l'imitazione di Cristo ci

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hanno detto che uno del segni più sicuri di crescita interiore è la consapevolezza crescente della propria peccaminosità. L'anima che discerne dovrebbe sempre essere caratterizzata da un sano dubitare di sè e da un'apertura a farsi guidare dal Signore attraverso gli altri.

2. Amorevole, perché in quanto orante maturo egli è ben conscio della propria debolezza, peccaminosità e capacità di autoingannarsi. Sarà dunque molto cauto nel giudicare aspramente gli altri perché vedono le cose in modo diverso dal suo (tra l'altro: ... do Spirito può di pìù»). Anche se il mio discernimento è autentico, ciò che io discerno è sempre la volontà di Dio per me qui e ora: non accade normalmente che io discerna per conto di altri, a meno che il Signore mi abbia reso co-discernitore. Neppure Pietro ha potuto scrutare i piani che Gesù aveva per Giovanni: quando ci ha provato, Gesù lo ha ... rimproverato: «Se voglio che egli rimanga finchè io venga, che importa te?» (Gv 21,22).

3. Coraggioso, vale a dire che il sano dubitare di sè, nel cuore del vero discernitore, non porta alla timidezza o alla paralisi psicologica, ma piuttosto al coraggio di rischiare. Egli deve anzi avere una certa sicurezza riguardo al la volontà del Signore su di lui. E' una certezza secondo la fede, non di argomentazione razionale, ed è pratica più che teoretica, il che vale a dire: io mi sento sicuro, dopo aver pregato ed essermi aperto alla direzione, di dover agire in questo modo qui ed ora e sono convinto che questo comportamento è l'unica cosa onesta ed amorevole che io debba fare, anche se posso non sapere definitivamente il perché. In effetti, posso sbagliarmi; ma, grazie a Dio, il Signore non ci chiede di essere sempre nel giusto. Ciò che egli ci chiede è di essere sempre onesti, sempre fedeli alla maggior comprensione della sua volontà a cui riusciamo a giungere.

Kierkegaard ha colto l'enorme differenza che esiste tra essere nel giusto ed essere onesti quando ha definito la verità religiosa come «un’incertezza obiettiva saldamente legata a un processo di appropriazione dell'interiorità più appassionata». Vale a dire che, dopo aver discreto appropriatamente che questo corso degli eventi è davvero la volontà di Dio per me, ne segue una convinzione soggettiva, persino appassionata. Di solito, però, c'è anche una incertezza obiettiva, In quanto non capiamo chiaramente perché il Signore voglia questo. Forse ci sorprenderà, ma i grandi uomini spirituali ci insegnano che questa incertezza obiettiva aumenterà, invece di diminuire, con la maturazione della vita di preghiera. Man mano, infatti, che si viene attirati a vivere totalmente nella notte oscura (la nube della non conoscenza) della fede, si capisce sempre meno il modo di agire del Signore (cfr. san Giovanni della Croce, "Salita del monte Carmelo", II,6,2).

A volte il nostro discernimento nella fede farà perfino violenza al nostro modo di intendere quello che è meglio fare. Un esempio classico, molto amato da Kierkegaard, è la chiamata fatta ad Abramo perché uccidesse Isacco, suo unico figlio, nonostante JHWH gli avesse promesso che egli sarebbe stato padre di una nazione grande (Gen 18,18). Rispondere a tale chiamata, una volta applicato il discernimento, appassionatamente e dal profondo di sé, de ve aver senz'altro richiesto un grande coraggio. Forse ci rendiamo così anche conto delle parole di Paolo quando dice che "l’uomo spirituale" sa «apprezzare (giudicare) ogni cosa, sebbene lui stesso non possa essere apprezzato da nessuno» (cfr 1 Cor 2,15).