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Chiesa e rivoluzione nel Salento: vescovi e clero nel 1799 Mario Spedicato Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli indica il coinvolgimento di almeno quaranta vescovi regnicoli che durante la breve esperienza repubblicana del 1799 si segnalano come filofrancesi o comun- que si mostrano favorevoli al nuovo corso politico'. La segnalazione resta generica e fumosa, ma si può ipotizzare che il Cuoco abbia voluto offrire solo un ordine di grandezza numerico che nella sua evidente approssimazio- ne potesse in qualche modo riferire la partecipazione dell'alto clero meri- dionale all'evento rivoluzionario. Anche a dare credito a siffatte cifre si trat- ta tuttavia di una minoranza, inglobando appena cioè un terzo dei vescovi titolari delle 131 diocesi napoletane 2 . Il Cuoco, quindi, conferma sia pure indirettamente che la stragrande maggioranza dei presuli meridionali resta- no in quella drammatica congiuntura di fine secolo fedeli alla corona borbo- nica, favorendo la reazione sanfedista e il ripristino del vecchio regime. Non diverso si presenta il discorso per il basso clero, quello secolare delle cattedrali, delle collegiate e delle parrocchie come pure quello rego- lare delle diverse comunità religiose. Anche in questo caso non si hanno rlevazioni numeriche attendibili, sebbene il coinvolgimento dallo stesso Cuoco sia stato considerato quantitativamente non trascurabile. Qualche riferimento più preciso si può desumere dall'elenco degli inforcati a Napoli nei mesi successivi la fine della repubblica. Tra l'agosto del 1799 e i primi mesi del 1800 su 119 persone condannate e inviate al patibolo 18 (vale a dire il 15% del totale) risultano uomini di chiesa e precisamen- I Dell'opera del Cuoco sono disponibili diverse edizioni, l'ultima delle quali curata da Antonino De Francesco per l'editore Lacaita di Manduria (1998); in questa sede l'e- dizione di riferimento è quella curata da Pasquale Villani, Milano 1999. 2 Bisogna dire tuttavia che non tutte le sedi nel 1799 erano provviste di un titolare. Se il calcolo tiene conto di questo dato si può ipotizzare che -sempre secondo il Cuoco- i vescovi filorepubblicani siano poco meno della metà o comunque una cifra che si avvi- cina al 40% degli eletti. Una circostanza che allo stato della ricerca può risultare poco attendibile, se non proprio inverosimile. 65 Provincia di Lecce - Mediateca - Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina) a cura di MAGO - Lecce

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Chiesa e rivoluzione nel Salento: vescovi e clero nel 1799

Mario Spedicato

Vincenzo Cuoco nel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli indica ilcoinvolgimento di almeno quaranta vescovi regnicoli che durante la breveesperienza repubblicana del 1799 si segnalano come filofrancesi o comun-que si mostrano favorevoli al nuovo corso politico'. La segnalazione restagenerica e fumosa, ma si può ipotizzare che il Cuoco abbia voluto offriresolo un ordine di grandezza numerico che nella sua evidente approssimazio-ne potesse in qualche modo riferire la partecipazione dell'alto clero meri-dionale all'evento rivoluzionario. Anche a dare credito a siffatte cifre si trat-ta tuttavia di una minoranza, inglobando appena cioè un terzo dei vescovititolari delle 131 diocesi napoletane 2 . Il Cuoco, quindi, conferma sia pureindirettamente che la stragrande maggioranza dei presuli meridionali resta-no in quella drammatica congiuntura di fine secolo fedeli alla corona borbo-nica, favorendo la reazione sanfedista e il ripristino del vecchio regime.

Non diverso si presenta il discorso per il basso clero, quello secolaredelle cattedrali, delle collegiate e delle parrocchie come pure quello rego-lare delle diverse comunità religiose. Anche in questo caso non si hannorlevazioni numeriche attendibili, sebbene il coinvolgimento dallo stessoCuoco sia stato considerato quantitativamente non trascurabile. Qualcheriferimento più preciso si può desumere dall'elenco degli inforcati aNapoli nei mesi successivi la fine della repubblica. Tra l'agosto del 1799e i primi mesi del 1800 su 119 persone condannate e inviate al patibolo18 (vale a dire il 15% del totale) risultano uomini di chiesa e precisamen-

I Dell'opera del Cuoco sono disponibili diverse edizioni, l'ultima delle quali curatada Antonino De Francesco per l'editore Lacaita di Manduria (1998); in questa sede l'e-dizione di riferimento è quella curata da Pasquale Villani, Milano 1999.

2 Bisogna dire tuttavia che non tutte le sedi nel 1799 erano provviste di un titolare.Se il calcolo tiene conto di questo dato si può ipotizzare che -sempre secondo il Cuoco-i vescovi filorepubblicani siano poco meno della metà o comunque una cifra che si avvi-cina al 40% degli eletti. Una circostanza che allo stato della ricerca può risultare pocoattendibile, se non proprio inverosimile.

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te 12 preti secolari e 6 frati. Tra questi si rintraccia un solo pugliese, ilsacerdote salentino Ignazio Falconieri di Monteroni, giù professore di elo-quenza all'università di Napoli 3 .

Senza, quindi, azzardare cifre al momento non verificabili si può direche l'adesione e la partecipazione degli ecclesiastici meridionali al movi-mento giacobino siano state numericamente contenute, ma non insignifi-canti, non proprio molte, ma neppure poche. Resta tuttavia da accertare sei vescovi e il clero che si schierano nella congiuntura di fine '700 tra lefile del partito repubblicano accettino tutti convintamente l'ideologiarivoluzionaria oppure parte o molti di essi scelgano di appoggiare (maforse è meglio dire non contrastare) il nuovo governo eclusivamente inbase a ragioni di opportunismo o convenienza politica. Per i vescovi que-sto atteggiamento di forte ambiguità viene prima o poi fuori, ad eccezio-ne naturalmente dei presuli che sin dall'inizio mostrano senza alcun ten-tennamento la loro decisa opposizione al nuovo corso politico; per il cle-ro secolare, soprattutto quello dei capitoli delle cattedrali e delle collegia-te, invece, il discorso si fa più sottile e l'appartenenza a questo o a quelloschieramento spesso è legata all'evoluzione delle vicende interne dell'i-stituzione di cui fanno parte e, più in particolare, agli esiti della lotta perfazioni che si consuma per il controllo del governo locale 4 . Per le comu-nità più piccole le dinamiche di adesione rispondono ad altre logiche, tracui quelle che rinviano ai permanenti conflitti tra le istituzioni (parroc-chia-università-feudalità), con i parroci (o meglio le famiglie che espri-mono in massima parte il clero autoctono) in prima linea a rappresentareuna parte in causa 5 . Non rientrano in questo schema di lettura altri preti

3 cfr. G. Pisanò, lgnazio Falconieri, letterato e giacobino nella rivoluzione napole-tana del 1799, Manduria 1996.

4 Per Lecce si veda M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d'Otrantotra medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 298 sg.; F. Gaudioso, Lecce in etàmoderna. Società, amministrazione e potere locale, Galatina 1996 e M. Spedicato, Lalupa sotto il pallio. Religione e politica a Lecce in antico regime, Bari 1996.

5 La ricerca in questa direzione resta ancora da fare; vi sono tuttavia sufficienti indi-zi, a partire da quelli raccolti negli studi di storia locale e nelle poche e lacunose indagi-ni di tipo prosopografico, per mettere in relazione gli avvenimenti del 1799 con l'ina-sprimento dei contrasti tra i poteri forti, contrasti che investono direttamente il possessoe la gestione dei demani.

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secolari, individuabili in parroci di campagna o in chierici provvisti degliordini maggiori, che si distinguono per essere stati promotori nel pianta-re l'albero della libertà nei loro centri d'origine, come pure valenti uomi-ni di studio e di insegnamento che operano nei seminari diocesani, doveè più facile "simpatizzare" sul piano più propriamente culturale con leidee rivoluzionarie 6 . Articolata si presenta anche la lettura sul coinvolgi-mento del clero regolare: tranne i pochi casi in cui è l'intera comunità reli-giosa che aderisce compattamente al nuovo corso politico e di cui bisognarintracciare le ragioni nell'ambiente specifico, si tratta quasi sempre dielementi soli ed isolati, ormai del tutto sganciati dalle loro residenze con-ventuali e monastiche, segnalati dalle Cronache del tempo per il loroardore nelle orazioni pubbliche 7 . Senza voler generalizzare il fenomeno,essi tendono a testimoniare un disagio più esistenziale che politico, unrifiuto anarcoide dello status quo, una pregressa emarginazione soffertaall'interno delle famiglie religiose di provenienza. Anche se solo perpochi di essi i fatti del 1799 diventano l'occasione per emergere ed occu-pare un posto non secondario sulla scena politica, per molti, invece, i lorovolti restano confusi ed indistinti nel marasma generale, senza poterlasciare alcuna significativa traccia della loro presenza. La situazionesalentina non appare diversa da quella delle altre province regnicole, seriflette una partecipazione regolare complessivamente frammentata edimprovvisata, non certamente univoca dal momento che tiene insieme, sia

6 cfr. A. Lucarelli, La Puglia nella rivoluzione napoletana del 1799. Storia docu-mentata, Il edizione a cura di Mario Proto, Manduria 1998; non mancano tuttavia alcu-ne eccezioni, come il seminario di Oria, dove l'opposizione antifrancese si presenta trail corpo docente abbastanza diffusa: sul ruolo svolto dai seminari salentini in questoperiodo si rinvia a S. Palese, Seminari di Terra d'Otranto tra rivoluzione e restaurazio-ne, in Aa. Vv., Terra d'Otranto in età moderna. Fonti e ricerche di storia religiosa esociale, a cura di Bruno Pellegrino, Galatina 1984, pp. 107-88.

7 Come per esempio il padre Arcangelo Carbonelli, benedettino cassinese, che tenne"un sermone sulla libertà e sull'uguaglianza" nella cattedrale di Lecce il 9 febbraio 1799,giorno della proclamazione della repubblica: cfr. E. Buccarelli, Le cronache leccesi(1711-1807), a cura di Nicola Vacca, Lecce 1934, p. 13; si veda anche N. Vacca, I rei distato salentini del 1799, Trani 1944, pp. 31 e 42. Per una valutazione complessiva sulcoinvolgimento regolare si rinvia a A. Lucarelli, La Puglia nella rivoluzione napoletanadel 1799, cit., passim.

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pure per brevissimo tempo, tanti personaggi che per sensibilità umana,per formazione e per cultura si rivelano tra loro molto distanti.

1. Premesso ciò torniamo ad analizzare più da vicino il comportamen-to dei vescovi salentini di fronte l'evento rivoluzionario del 1799. Il qua-dro della provincia otrantina risulta ben chiaro sin dall'inizio: la stragran-de maggioranza dell'episcopato, a parte il Capecelatro, si guarda benedall'esporsi pubblicamente nell'appoggiare il governo repubblicano diNapoli 8 . Anche se alcuni presuli soprattutto nei primi mesi della rivolu-zione mostrano qualche debolezza dovuta alle forti pressioni della piazza,nel loro insieme confermano in pubblico e in privato la fedeltà allamonarchia borbonica, di cui si ergono a convinti paladini. In prima fila,nella difesa della causa legittimista, si segnalano per il loro attivismo anti-francese i vescovi di Oria, Fabrizio Cimino e di Ugento, Corrado Panzini.Prudente, ma inequivocabilmente filo-borbonico risulta il comportamen-to del vescovo di Gallipoli, Giovanni Giuseppe Danisi 9 ; più defilato appa-re, invece, l'atteggiamento di Vincenzo Maria Morelli, arcivescovo diOtranto, sebbene nelle corrispondenze epistolari e in altri non occasiona-li episodi manifesti un solido attaccamento al vecchio regime" ) , mentre ilvescovo Francesco Antonio Duca (o del Duca), titolare di Castro si espo-ne in favore della Repubblica, mostrando in più circostanze un'interessa-

8 Per un quadro d'insieme relativo alle provincie pugliesi si rinvia a M. Spedicato, Lachiesa pugliese di fronte alla rivoluzione del 1799, in "Atti del Convegno di Studio suIgnazio Ciaia e la rivoluzione del 1799 (Fasano 17-18 marzo 1999)", in corso di stampaed a S. Palese, Rivoluzione e chiese pugliesi, in Aa. Vv., La chiesa e la rivoluzione fran-cese, Roma 1989, pp. 45-57.

9 Del Cimino ci occuperemo più avanti; per quanto riguarda il Panzini e soprattuttoil Danisi si rinvia al lavoro di Palese già segnalato e a quello di M. Spedicato, La pauradella rivoluzione. I vescovi del basso Salento tra legittimismo borbonico e moderatismopolitico nella congiuntura del 1799, in Atti del Convegno di Studi su "FrancescoAntonio Astore: l'intellettuale e il patriota (Casarano 30 settembre - 2 ottobre 1999)" incorso di stampa.

li) /vi; questo prelato esprime più di altri le difficoltà del momento, cercando di con-ciliare la fedeltà alla corona e la necessità di non compromettere la pace sociale. Ancheallorquando decide di assicurare una certa collaborazione con il governo francese diNapoli, come durante il Decennio, non arriva mai a manifestare un'adesione piena e con-vinta all'ideologia giacobina.

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ta partecipazione per il nuovo corso politicol 1 . Su una posizione di silen-zioso attendismo, si collocano anche i vescovi di Mottola, MichelePalmieri, e di N essano, Gaetano Paolo Miceli, nonostante il primo restiintimamente e si riveli pubblicamente, dopo la prima tormentata faserivoluzionaria, uno strenuo difensore della causa borbonical 2 . Ambiguo epalesemente opportunistico risulta pure il comportamento del vescovo diCastellaneta, Vincenzo Maria Castro, che all'atto della proclamazionedella Repubblica partenopea si ritrova a fianco del Capecelatro nel difen-dere il nuovo corso politico, ma all'approssimarsi della vittoria sanfedistaritratta tutto diventando un sostenitore del vecchio regime tanto da meri-tare da parte dell'arcivescovo di Taranto lo sprezzante appellativo di"Iscariota" 13 . In un mondo a parte sembra vivere il colto arcivescovo diBrindisi, Annibale de Leo, preoccupato dapprima di non farsi coinvolge-re in astratte dispute ideologiche e più tardi a mediare nella fase più acu-ta della congiuntura rivoluzionaria di fine secolo. A questo vescovo inte-ressa non solo favorire la pace sociale, ma anche garantire la piena fun-zionalità della sua chiesa, pur nel rispetto dei poteri costituiti. Un com-portamento che sul piano più propriamente politico non è esente da uncerto opportunismo (in maniera sotterranea continua a mantenere i con-tatti con il partito monarchico, mentre sul piano pubblico si guarda benedal prendere nettamente posizione in favore dell'una o dell'altra forma digoverno), sebbene ispirato da inderogabili necessità pastoralim. Sono fuo-ri da questo quadro le sedi di Lecce, Ostuni e Nardò perchè prive nel 1799di un titolare, ma con i rispettivi capitoli egualmente sotto pressione acausa della esasperata conflittualità che la vacanza episcopale prima e la

Il/vi. Sul comportamento di questo vescovo nei fatti del 1799 si veda anche N. Vacca,I rei di stato salentini del 1799, cit. , pp. 113 -15.

12 cfr. M. Spedicato, La paura della rivoluzione, cit.13 cfr. P. Stella, Capecelatro, cit.; V. De Marco, Taranto e monsignor Capecelatro, in

Aa. Vv., Più tiranno alcun non v'ha... Le rivoluzioni del 1799 nel territorio di Taranto,a cura di Francesco Terzulli, Mottola 1999, dove sono ospitati altri saggi che aiutano afare luce sul ruolo della chiesa locale durante la repubblica giacobina.

14 Su l De Leo si veda R. Jurlaro, Annibale De Leo nella storia della storiografia ita-liana, in "Ricerche e Studi", a cura di Gabriele Marzano, Fasano 1964; G. Perrino,Annibale De Leo teologo, storico, pastore, in "Brundisii res", VII, 1975, Galatina 1977;e soprattutto S. Palese, Seminari di Terra d'Otranto, cit., pp. 121 sg.

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rivoluzione dopo procurano sugli incerti equilibri di potere istituzionale.In definitiva, nell'estrema provincia pugliese la presenza di un episcopa-to dalle nitide connotazioni filoborboniche risulta più visibile rispetto allealtre due province pugliesi. Di fronte cioè ad un diffuso atteggiamento dicautela registrato in Terra di Bari e in Capitanata 15 , in Terra d'Otrantol'affiliazione alla causa lealista è palesemente rivendicata da un numerosempre crescente di vescovi. Pesano, al riguardo, sedimentazioni storichequali la tradizionale fisionomia aristocratica della quasi totalità dell'altoclero e, di conseguenza, il radicarsi di scelte marcatamente conservatriciche finiscono per connotare da lungo tempo i gruppi dirigenti dell'estre-ma provincia otrantina rispetto a quelli delle altre due province pugliesilò.Ma non solo questo. Le ragioni nuove che spingono l'episcopato ad assu-mere quasi compattamente un netto rifiuto del regime repubblicano van-no rintracciate nei processi di maturazione di una chiesa nazionale che nelregno di Napoli arrivano a conclusione solo nella seconda metà delSettecento. Il punto d'arrivo più evidente di questo lungo percorso è laconcessione nel 1791 da parte del pontefice Pio VI al sovrano borbonicoFerdinando IV di nominare i vescovi in tutte le diocesi del regno. Un tra-sferimento di competenze che per un verso attesta l'avvenuta statalizza-zione della chiesa meridionale sul modello gallicano di un secolo prima,e per l'altro favorisce la diffusa consapevolezza soprattutto nell'alto cle-ro di appartenere alla nazione napoletana, cioè ad uno Stato con un'iden-tità propria che si identifica totalmente nella monarchia borbonica 17 .Vincoli giurisdizionali e cultura patriottica sono, dunque, gli elementi checondizionano ed ispirano le scelte dell'episcopato nella rivoluzione gia-cobina del 1799, vissuta dai più come un attentato alla appena nata nazio-ne napoletana e per ciò stesso considerata una conquista da difendere adogni costo. Il destino della monarchia borbonica viene in questo modo a

15 M. Spedicato, La chiesa pugliese di fronte alla rivoluzione del 1799, cit.16 Al riguardo si veda M. Rosa, Diocesi e vescovi del Mezzogiorno. Capitanata, Terra

di Bari e Terra d'Otranto dal 1545 al 1714, in Aa. Vv., Studi storici in onore di GabrielePepe, Bari 1969, pp. 532-95.

17 In merito si veda M. Rosa, Politica ecclesiastica e riformismo religioso in Italiaalla fine dell'antico regime, in Aa. Vv., Chiesa italiana e rivoluzione francese, a cura diDaniele Menozzi, Bologna 1990. pp. 17-45.

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coincidere non solo con quello personale dei singoli vescovi, ma anchecon quello più generale della salvaguardia di un'identità statale faticosa-mente raggiunta

2. Vi sono, quindi, ragioni poco congiunturali che spiegano il rifiuto ol'indifferenza dei vescovi regnicoli ad appoggiare il governo filofrancesedi Napoli. Del resto un episcopato, come quello meridionale, quale diret-ta espressione della monarchia borbonica non può che rivelarsi organica-mente fedele all'autorità da cui riceve piena legittimazione. Essendo cioèi vescovi, tutti i vescovi, scelti dal sovrano non possono tradire la fiduciariposta in loro dalla corona. Il meccanismo stesso che presiede alla sele-zione episcopale impone il rispetto di un patto di reciproco soccorso tratrono e altare in funzione del consolidamento del vecchio regime minac-ciato dagli impeti rivoluzionari. Non è un caso se la paura prodotta dallarivoluzione francese del 1789 spinga il re napoletano e il pontefice a supe-rare i vecchi conflitti giurisdizionali e a ritrovare un accordo sulle que-stioni più controverse. La svolta si concretizza, come già accennato, nelcorso del 1791, allorquando si decide di provvedere tutte le diocesi vacan-ti con soggetti direttamente indicati dal sovrano napoletanol 8 . In quellacircostanza si accetta il riconoscimento di un diritto, quello della pienacompetenza del sovrano sulle nomine episcopali, da tempo richiesto dalmovimento riformatore meridionale e ostinatamente rifiutato, fino allarottura diplomatica, da parte della chiesa romana. Il "cedimento" del pon-tefice va, quindi, interpretato alla luce dei drammatici fatti del 1789 comeuna concessione politica inevitabile 19 . Solo pacificando e rinsaldando irapporti tra i due Stati l'emergenza rivoluzionaria può essere affrontata egestita con la massima efficacia.

In Terra d'Otranto, come nelle altre province regnicole, tra la fine del1791 e l'inizio del 1792 si pone rapidamente mano alla provvista dellediocesi vacanti, chiudendo una lunga fase di anarchia istituzionale.Tranne che nelle due metropolie di Taranto e Brindisi e nella diocesi diOria, il cui governo pastorale non subisce alcuna interruzione per la pre-

18 In merito si rinvia a F. Scaduto, Stato e chiesa nel regno delle Due Sicilie, edizio-ne della regione siciliana, Palermo 1969, passim.

l" M. Rosa, Politica ecclesiastica e riformismo religioso, cit.

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senza nelle prime due sin dal 1778 del Capecelatro e del Rivellini e nellaterza dal 1781 del Calefati, in tutte le altre sedi episcopali viene norma-lizzata la vita istituzionale con la nomina di un nuovo titolare 2°. AdOtranto va ad insediarsi il leccese Vincenzo Maria Morelli, un teatino dinobile estrazione sociale, di fedeltà borbonica, ma molto stimato anchedal governo francese del Decennio 21 ; a Lecce il sovrano promuove ilnapoletano Salvatore Spinelli, personaggio inquieto che già all'indomanidel suo insediamento briga per ottenere una diocesi più ambita lasciandoanzitempo vacante la sede leccese per occupare quella di Salerno'' 2 ; aNardò viene eletto il noto teologo Carmine Fimiani, ma con poche possi-bilità di assicurare stabilmente la residenza in diocesi per la sua malfermasalute23 ; per la sede di Gallipoli la scelta cade sull'agostiniano GiovanniGiuseppe Danisi, soggetto dal temperamento forte e dall'accentuata incli-nazione al conflitto 24; per quella di Castro, invece, viene privilegiata lacandidatura dell'alessanese, di nobile famiglia, Francesco Antonio Duca(o del Duca), definita durante il Decennio "persona mite e discreta" 25 ; adUgento e ad Alessano vengono promossi rispettivamente il molfetteseGiuseppe Corrado Panzini e il calabrese Gaetano Paolo Miceli, entrambicon alle spalle una spiccata formazione giuridica e con esperienze digoverno maturate in altre diocesi in qualità di vicari generali 26 . Più movi-mentati risultano gli avvicendamenti episcopali nelle restanti diocesi diTerra d'Otranto. A Mottola nell'arco di pochi anni vengono promossi duesoggetti originari di Monopoli: Agostino Andrian i che regge la diocesi dal1792 al 95 e, dopo un breve periodo di vacanza, Michele Palmieri, titola-re dal 1798 al 1804; analoga situazione si riscontra a Castellaneta, dove

20 cfr., Hierarchia Catholica, vol. VI, ad annum.21 In una nota informativa del 1806 il presule viene definito "un dotto e santo uomo":

cfr. M. Spedicato, L'episcopato pugliese durante il Decennio francese, in "Quadernidell'Istituto di Scienze Storico-politiche della Facolta di Magistero dell'Università degliStudi di Bari", 1, 1980, pp. 409 sg.

22 cfr. M. Spedicato,La lupa sotto il pallio, cit., pp. 162 sg.23 E. Mazzarella, Nardò sacra, Galatina 1999, pp. 278 sg.24 Hierarchia Catholica, vol. VI, ad vocem.25 Più precisamente "molto vecchio ed acciaccoso, ma buono soggetto": cfr. M.

Spedicato, L'episcopato pugliese durante il Decennio francese, cit., p. 409.26 Hierarchia Catholica, vol. VI, ad diocesim.

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nel 1792 la scelta del sovrano cade sull'abruzzese Gioacchino Vassetta,che muore però quasi subito e, dopo qualche anno, rimpiazzato nel 1797da Vincenzo Maria Castro; anche la sede di Oria sconta all'indomani del-la morte del Calefati avvenuta nel 1793 un non breve periodo di vacanzaepiscopale colmato solo nel 1798 con la nomina del salernitano FabrizioCimino; al 1798 risale pure la nomina del de Leo a Brindisi, rimasta sen-za titolare dal 1795 per la morte del Rivellini; un avvicendamento, inve-ce, che non si riproduce ad Ostuni, dove alla morte nel 1794 del napole-tano Giovanni Battista Brancaccio si registra una lunga vacanza conclu-sasi nel 1818 con la soppressione della diocesi e il suo accorpamento allametropolia brindisina27 .

Il quadro degli avvicendamenti di fine '700 fin qui descritto, oltre adoffrire elementi indiretti sulla situazione pastorale delle singole diocesi,consente di fare qualche breve anticipazione sulla fisionomia episcopaledella provincia ecclesiastica otrantina. Nella congiuntura rivoluzionaria ilsovrano borbonico sceglie per il governo delle chiese periferiche sogget-ti politicamente affidabili, vicini non solo alla corona, ma graditi anchealla chiesa romana per i requisiti intellettuali e pastorali di cui dispongo-no. Come abbiamo accennato si tratta in larga parte di un personale chevanta già esperienze di governo 28 , con una formazione culturale preva-lentemente giuridica anche se la monarchia non trascura di premiare,come nel passato, alcuni elementi provenienti dalle file degli Ordini rego-lari con alle spalle incarichi direttivi di un certo peso nelle famiglie reli-giose di provenienza29 . Più in generale l'episcopato otrantino di fineSettecento resta l'espressione di un nuovo patto tra la corona borbonica ei ceti sociali più rappresentativi del regno, un'alleanza trono-altare che sifonda sulla incondizionata lealtà al sovrano e sulla difesa dell'ordinecostituito che impegna direttamente i vescovi eletti, assegnando loro unruolo politico oltre modo scontato. L'opposizione, talvolta chiara e talal-tra velata, al regime francese manifestata nel corso della congiuntura rivo-luzionaria del 1799 non è altro che la conseguenza di una selezione epi-scopale mirata alla conservazione dello status quo e nello stesso tempo il

27 Ivi.28 M. Spedicato, L'episcopato pugliese, cit.2)

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riconoscimento della monarchia borbonica come l'unica fonte di legitti-mazione del potere vescovile 30 .

3. In Terra d'Otranto il solo presule che si distingue, oltre che per l'ap-poggio al governo repubblicano di Napoli, per una diversa concezionedella funzione vescovile risulta, come è noto, il metropolita tarantino,Giuseppe Capecelatro. Nel 1799 prende parte attiva agli avvenimentilegati alla ''democratizzazione" della città ionica 31 . Un protagonismo cheappare inusuale, ma che serve ad orientare le masse popolari e a rassicu-rare gli indecisi ceti dirigenti locali. Il Capecelatro non fa parte dell'in-fornata di vescovi eletti nella congiuntura del 1791-92, essendo statochiamato alla guida della chiesa di Taranto molti anni prima, nel 1778, asoli 34 anni. La sua nomina, sebbene promossa dal sovrano (la sedemetropolitana cade nella giurisdizione regia sin dal 1529) 32 , è facilitatadalla presenza in famiglia di uno zio (per parte materna) cardinale, NicolaPerrelli, che lo aiuta dapprima a intraprendere la carriera curiale e ad otte-nere poi la mitra episcopale ancora in giovane età 33 . Non si sente per que-sto debitore verso la corona della sua carica, rivelando sin dai primi attipastorali una concezione febronista ed episcopalista del ruolo rivestito,che soprattutto negli anni di maggiore contrasto tra governo borbonico eS. Sede assume il chiaro sapore di una "diminuitio" del potere papale avantaggio di quello dei responsabili delle chiese locali 34 . In occasione del-la proclamazione della Repubblica partenopea si fa promotore a Tarantodi un comitato cittadino, dove trovano posto il governatore della città, ilcomandante del castello e i rappresentanti dei diversi ceti sociali. Unadecisione questa affatto coerente con l'atteggiamento precedente del pre-sule, il quale aveva dato sempre prova di fedeltà alla corona borbonica.

30 M. Spedicato, La chiesa pugliese di fronte alla rivoluzione del 1799, cit.31 Si veda in particolare P. Stella, Capecelatro, cit: V. De Marco, Taranto e monsi-

gnor Capecelatro, cit., che rivedono in parte le notizie offerte al riguardo dai collabora-tori dell'arcivescovo, come il Candia e lo Sgura, ma anche dai suoi maggiori detrattoricome l'Auletta.

32 M. Spedicato, 11 mercato della mitra. Episcopato regio e privilegio dell'alternati-va nel regno di Napoli in età spagnola (1529-1714), Bari 1997, passim.

33 P. Stella, Capecelatro, cit.34 /vi .

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Proprio negli anni di maggiore difficoltà del governo napoletano, gli annicosiddetti di guerra compresi tra il 1789-95, il Capecelatro, infatti, giusti-fica la contribuzione finanziaria straordinaria, invitando il clero a soste-nere con larghezza le necessità di cassa per le spese affrontate dal sovra-no nella difesa della nazione dalle armi francesi. Lui stesso dà il buonesempio, offrendo 2000 ducati alla causa borbonica e non opponendosiall'ipoteca dei beni ecclesiastici in quanto destinati "a pubblici bisogni" 35 .Si adopera inoltre nell'incoraggiare i giovani ad arruolarsi volontaria-mente nelle truppe regie, offrendo trenta carlini al mese a tutti coloro cherispondono in maniera positiva al suo invito. Pochi potevano ipotizzareche dietro un così preoccupato interesse per le sorti del regime borbonicosi potesse nascondere un atteggiamento contrastante, aperto anche asostenere soluzioni opposte.

Una spiegazione di tutto questo il Capecelatro tenta di renderla nota almomento in cui, scoppiata la rivoluzione, convoca il popolo davanti alpalazzo vescovile. In quella circostanza sottolinea che "i governi sono inmano del Signore" e che è necessario anche in periferia "seguire la nor-ma della capitale" 36 per non procurare gravi discordie nella popolazione.Invita pertanto a procedere all'elezione del nuovo governo cittadino consuffragio universale, mettendo però tutti in guardia che di fronte al mutardegli eventi si dovesse ritornare "docili sudditi" del sovrano borbonico.Un segnale quest'ultimo che può apparire ambiguo, ma che si rivela oltremodo coerente con la convinzione da parte del Capecelatro del rispettoche si deve ad ogni "forma di governo che domina nel paese", purchè"questa non si opponga alla fede professata" 37 . Nonostante promuova ilnuovo ordine di cose, l'arcivescovo tarantino tuttavia rifiuta qualsiasicarica pubblica, rinunciando dapprima alla presidenza della nuova muni-cipalità e subito dopo a membro del Corpo legislativo a Napoli con lamotivazione di dover attendere alla cura delle anime. Durante i convulsigiorni dell'insorgenza popolare non si sottrae però a mostrarsi nei luoghiin cui si consuma il passaggio dal vecchio al nuovo regime. Assiste all'i-nizio del febbraio 1799 alla piantagione dell'albero della libertà e prima

35 ivi .

3" Ivi.37 /vi.

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ancora guida un corteo popolare con coccarda tricolore per le vie cittadi-ne. Esattamente un mese dopo, ristabilito il vecchio governo, ripercorre lostesso tragitto, ma questa volta con una coccarda regia sul petto, predi-cando la necessità di "cospirare egualmente al buon ordine e alla pubbli-ca quiete"38 .

In poco meno di un mese, dunque, il Capecelatro passa da convintosostenitore della repubblica a strenuo difensore della monarchia. Ciò perònon lo mette al riparo da accuse infamanti e neppure dal carcere, chesconta per 5 lunghissimi mesi in Castenuovo a Napoli. Nell'istruzionedelle carte processuali i giudici borbonici della Giunta di Stato addebita-no all'arcivescovo di Taranto non solo l'adesione al nuovo corso politico,ma anche la collaborazione ad una graduale "educazione democratica delpopolo"39 . A tal riguardo segnalano diciassette lettere che il Capecelatroscrive nei giorni di maggiore coinvolgimento filofrancese, dove si ricava"la molesta impressione" di essere "persuaso, contento e cooperatore alfelice successo degl'invasori ed usurpatori della monarchia" 40 .Un'impressione che diventa una precisa accusa nel momento in cui sichiede espressamente al presule di rassegnare le dimissioni e di chiarirein quale modo si sarebbero dovuti comportare i vescovi in caso di cam-biamento di governo. Il Capecelatro però rifiuta di prendere in considera-zione la possibilità di dimettersi, costruendo la sua difesa sul rispetto chei pastori della chiesa devono al governo dominante e sulla distanza che glistessi devono segnare negli affari politici. In altri termini, insiste su unprincipio, quello dell'indifferenza per la forma di governo, che, come hasottilmente riconosciuto Pietro Stella, "poggia su una non sufficiente-mente chiarita teoria dello Stato e su una valutazione etico-politica deglieventi" 41 . Il Capecelatro dimostra di avere dello Stato una concezione di

38 Ivi.39 /li e soprattutto N. Vacca, I rei di stato salentini del 1799, cit., pp. 135 sg., oltre

che il datato, ma ancora utilissimo, lavoro di P. Pieri, Mons. Capecelatro a Taranto nel1799, in Idem, Scritti vari, Torino 1966

4" /l'i. Non bisogna tuttavia neppure trascurare il contributo sulla figura e sull'azionedell'arcivescovo tarantino offerto a suo tempo da B. Croce, L'arcivescovo di Taranto, inIdem, Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, pp. 158-81.

41 Ivi.

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fondo patrimoniale se arriva a considerare i Francesi non usurpatori, manuovi conquistatori. Il presule non vuole affatto legarsi a questa o a quel-la dinastia regnante in quanto prevale in lui "la concezione sociale e poli-tica di Antonio Genovesi, protesa genericamente alla «felicità dei popo-li» 42, insieme all'esperienza teologica" secondo la quale è necessario pri-ma di ogni altra cosa "espungere le questioni che possono creare divisio-ni nella comunità e diminuire la carità fraterna, cioè la coesione sociore-ligiosa"43 . In ultima analisi, egli nella sua azione pastorale mira, senzaforse valutare i risvolti politici, "ad assicurare il benessere della popola-zione e il minor danno durante il fluttuare dei «governi dominanti»" 44 .

Il caso Capecelatro rimane per lungo tempo irrisolto, nonostante ilgoverno borbonico investa direttamente della questione la Curia romana.Pur forzatamente lontano dalla sua diocesi, non rinuncia alla titolarità epi-scopale, continuando a seguirne le vicende attraverso il vicario generale,Antonio Tanza 45 . Anche durante il Decennio, quando cioè si registra lasua piena riabilitazione politica e viene chiamato ad occupare posti chia-ve nel governo francese mostra un particolare interesse per le sorti dellachiesa a lui affidata, aggredendo i problemi pastorali ancora aperti conprecise istruzioni ai suoi collaboratori per assicurare una rapida risoluzio-ne46 . Ritornati i Borboni, non subisce, al contrario di quanto temuto, alcu-na manifestazione ostile, anzi viene ripetutamente invitato dal governo arientrare a Taranto per guidare direttamente la sua diocesi. Ma ilCapecelatro, ormai ultrasettantenne, prende tempo e solo dopo aver otte-nuto una pingue pensione decide nel marzo del 1817 di dimettersi, chiu-dendo in questo modo una controversa stagione della sua lunga esisten-za47 .

42 cfr. G. Galasso, La filosofia in soccorso del governo. La cultura napoletana delSettecento, Napoli 1989.

43 P. Stella, Capecelatro, cit.44

45 Al riguardo si rinvia al carteggio raccolto in un volume da N. Vacca, Terrad'Otranto fine Settecento inizi Ottocento, Bari 1966.

46 cfr. V. De Marco, La diocesi di Taranto nel Settecento (1713-1816), Roma 1990,pp. 109 sg.

47 /Vi.

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Nelle tumultuose giornate della rivoluzione repubblicana del 1799 eglirimane il solo vescovo di Terra d'Otranto che si espone pubblicamente afavore del nuovo corso politico. Un coraggio singolare nel generalecamuffamento o ostilità della stragrande maggioranza dei presuli che gliprocura non poche traversie e amarezze. Osannato dai rivoluzionari dellaprima ora, il Capecelatro non diventa mai partigiano di questo o quelregime politico. Difende sempre le ragioni della sua chiesa e per questoobiettivo si sente organicamente impegnato. Al di là delle contrastanti dis-cussioni che ancora in vita si sviluppano sul suo comportamento politico,resta in lui profonda la convinzione nel privilegiare sempre il benesserepopolare rispetto ai regimi dominanti, che proprio perchè non fondati supresupposti teologici certi, vanno considerati transeunti. Da qui l'obbligoper ogni pastore di anime di accettare incondizionatamente i governi permeglio svolgere la missione evangelica.

4. La schiera dei vescovi di Terra d'Otranto che si oppongono inmaniera "silenziosa" ad una siffatta concezione (neutra e apolitica) delruolo episcopale risulta ben nutrita, mentre solo una minoranza durantequei primi difficili mesi del 1799 si dichiara apertamente (e rumorosa-mente) contro il regime repubblicano, dando testimonianza diretta di unsolido attaccamento alla monarchia borbonica. Tra tutti, i presuli diUgento e, soprattutto, di Oria (come del resto già segnalato) sono in pri-ma fila a difendere con i loro atti il vecchio regime. A questi se ne aggiun-geranno altri (i titolari di Gallipoli, di Otranto, ecc.), ma solo tardivamen-te, quando il pericolo rivoluzionario ormai è alla spalle, e senza mai spin-gersi su posizioni di non-ritorno, segnalandosi anche dopo (soprattutto ilmetropolita otrantino) per la moderazione e l'equilibrio dimostrati nelgoverno delle loro diocesi 48 . All'arrivo dei napoleonidi nel 1806 risultachiara l'affidabilità o l'inaffidabilità "politica" di questi presul i. In un rap-porto riservato, commissionato dal governo francese di Napoli, e redattomolto verosimimente all'inizio del 1807 il Morelli è considerato un pre-sule dalle ottime qualità umane, "ma non atto a governare" la diocesi";ancora più netti risultano i riferimenti ai vescovi Panzini, Danisi e

48 M. Spedicato, La paura della rivoluzione, cit.49 Idem, L'episcopato pugliese durante il Decennio francese, cit.

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Cimino, accomunati tra gli "irriducibili" filo -borbonici. Del vescovo diUgento si scrive che "manca da molto tempo dalla sua diocesi, ora però -si precisa- è ritornato; nelle passate vicende del 1799 -si aggiunge- fudestinato dal passato governo a dissacrare molti preti e frati che furonogiustiziati: la voce pubblica è che sia attaccatissimo al passato governo" 50 ;quello di Gallipoli viene presentato come soggetto "avaro, dispotico e dimala fede (che) vuole ingerirsi in tutto e (che) per la sua vanità è capacedi ogni eccesso" 5 I ; altrettanto duro risulta il giudizio sul vescovo di Oria,considerato "ipocrita, capriccioso ed ostinato, portato molto alla vendet-ta"52 . Dietro il frequente ricorso ad un'aggettivazione utilizzata per evi-denziare una negativa tipologia caratteriale si nasconde in realtà una valu-tazione "politica", che finisce per ispirare e per sostanziare la stessa notainformativa. In base ad una siffatta valutazione è possibile ricostruire leragioni che spingono questi vescovi a non venire a patti nè nel corso del1799 nè durante il Decennio con un regime che considerano ostile alpapato e contrario alla religione. Non quindi un'indifferenza verso ogniforma di governo, come teorizzata e praticata dal Capecelatro, ma piutto-sto una convinta ed energica "intromissione" nelle faccende politiche perdifendere la sopravvivenza della Chiesa e lo stesso magistero episcopale.

L'atteggiamento del vescovo di Oria, Fabrizio Cimino, può tornare, alriguardo, illuminante per comprendere quanto siano solidi i legami tratrono e altare espressi da alcuni vescovi di Terra d'Otranto nella congiun-tura di fine Settecento ed oltre. Il Cimino, uno dei primi discepoli di S.Alfonso dei Liguori, viene chiamato dal sovrano a guidare la diocesi diOria all'inizio del 1798 53 . Di origine campana (nasce a Gragnano nellacircoscrizione ecclesiastica di Lettere), arriva alla responsabilità episco-pale in età piuttosto adulta, a 63 anni, dopo essersi segnalato per l'attivi-tà pastorale svolta come canonico e parroco nella chiesa collegiata delluogo nativo 54 . La frequentazione con i liguorini lo mette nelle condizio-ne di maturare altre, importanti esperienze nel settore della predicazione

5" /Vi.

51 /Vi.

52 /Vi.53 cfr. C. Turrisi, La diocesi di Oria Nell'Ottocento, Università Gregoriana Editrice,

Fasano 1978.54 /Vi.

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missionaria se all'atto della nomina può vantare, oltre il titolo accademi-co di dottore in teologia, di essere fornito "di tutto il sapere che si richie-de in un vescovo per bene insegnare agli altri -55 . Profondamente ricono-scente al sovrano per il privile gio della mitria non perde occasione perricambiare la fiducia accordatagli. Si insedia ad Oria in un periodo parti-colarmente difficile per la corona borbonica e per la diocesi, rimasta dopola morte nel 1793 di Alessandro Calefati vacante per quasi 5 annue. Giànei suoi primi atti rivela un'indole decisionista ed una forte preoccupa-zione per le sorti della monarchia, minacciata non solo militarmente, maanche da ideologie -secondo il vescovo- incompatibili con la fede cattoli-ca. Nell'editto inviato nel maggio del 1798 ai parroci della diocesi perannunziare la sua prima visita pastorale alla diocesi il Cimino, "sapendodi esservi scandali", pretende che si segnalino segretamente "abbusi, cor-ruttele o pericoli prossimi di qualche anima: o che si disseminassero e sisostenessero dottrine erronee contro la purità della nostra S. Religione ocontro la tranquillità e sicurezza dello Stato (...) -57 . Il vescovo insiste nelpromettere ai responsabili delle parrocchie che su siffatte "confidenze"sarà mantenuto "uno stretto sugello di religioso secreto" e che utilizzeràtali informazioni solo "per rimediare alla salvezza delle anime con quel-li espedienti e con quella destrezza che giovi al prossimo senza cagiona-re ad altri il menomo pregiudizio" 58 . L'allarmismo del presule nei mesisuccessivi diventa parossistico soprattutto di fronte al precipitare deglieventi politici. Quando la minaccia di un'invasione delle truppe francesiè ormai imminente moltiplica gli sforzi, chiamando a raccolta tutto il cle-ro della diocesi per sostenere la monarchia in pericolo. Al pari degli altrivescovi regnicoli divulga con particolare zelo le ripetute circolari gover-native in favore dell'arruolamento volontario. Convinto della necessità dicreare presidi difensivi per garantire l'integrità dello Stato e la tutela delregime borbonico il Cimino offre in maniera diretta ed incondizionata ilsuo sostegno alla causa, mobilitando risorse umane ed economiche. Inquesta direzione si fa promotore di iniziative che mirano alla raccolta di

55 /Vi, p. 7.56 Hierarchia Caiholica, vol, VI, ad diocesirn.57 C. Turrisi, La diocesi di Oria nell'Ouocento, cit., p. 6.58 /vi .

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fondi "a beneficio della Real Corte" attraverso una contribuzione straor-dinaria da parte degli ecclesiastici. Alle chiese ed ai conventi della dioce-si viene altresì richiesto di mettere a disposizione del sovrano non solodenaro contante, ma tutte le suppellettili sacre "adatte alla coniazione"(cioè in oro ed argento) che non risultino indispensabili per le funzioni diculto. Una mobilitazione, quella auspicata dal Cimino, che non trovariscontri larghi, ma che sembra ispirare in maniera prevalente le iniziati-ve pastorali. Per il vescovo, in sostanza, andare in soccorso della coronarimane la preoccupazione predominante, tale da assorbire totalmente idoveri rivenienti dall'ufficio canonico. Ogni atto, dalla visita alle chiesealla circolare ai parroci, esperito nel secondo semestre del 1798 apparemosso dalla paura dell'invasione francese. Una paura che nel dicembre simaterializza con la fuga del sovrano in Sicilia, anche se la speranza di sal-vare la monarchia dal naufragio non è definitivamente persa.

Quello che avviene nei primi mesi del 1799 lo conferma ampiamente.11 Cimino si rifiuta di accettare e "benedire" il nuovo regime repubblica-no. Esclude qualsiasi partecipazione diretta in occasione dell'innalza-mento degli alberi della libertà, vietando le chiese alle rituali celebrazio-ni di ringraziamento del Te Deum 59 . Non solo si nega ad appoggiare talirichieste, ma rinuncia persino a farsi vedere in pubblico. Anzi, al fine dievitare condizionamenti e pressioni da parte delle diverse municipalità"democratizzate", si nasconde perchè la sua presenza non venga utilizza-ta strumentalmente in favore del nuovo corso politico. La sua avversionealla rivoluzione risulta netta e senza appello.

Lo stesso presule trova il modo di spiegare questo atteggiamento aicardinali della Sacra Congregazione del Concilio quando, passata la bufe-ra rivoluzionaria, si entra nella prima restaurazione borbonica. Nella rela-tio ad limina redatta nel 1802 il Cimino si sofferma a lungo sugli avveni-menti del 1799, offrendo una testimonianza del suo attaccamento allamonarchia e della sua fedeltà al papato. Ricorda di aver vissuto quei mesinel terrore e di aver deplorato "illa commotionum, convultionum ac ever-sionum tempora, quae alios, quae omnes una simul usquequoque miserri-me costernarunt". Si lamenta delle disgrazie subite e condanna gli ecces-si di un evento che ha scosso le coscienze, lasciando ferite ancora aperte.

59 /Vi.

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Con preoccupazione sottolinea: "Quot tum aerumnae, quot caedes, quotcalamitates, quot depredationes hoc in Regno, eiusque provinciis jam inmoerore ac tristitia jacentibus!" Infine auspica che "quid sacrum, quidsanctius, quid venerandum, quid humanius, quid legitimum, quid tandemdivinum, quod sacrilega, audaci, inhumaniori non pertentatum manu, nonconspurcatum, non violatum, non pollutum, non exauguratum fuit! Quaedivina, quae humana jura non permixta, non turbata!" 60 .

Il Cimino presenta la rivoluzione "giacobina" del 1799 come la causadi tutte le sventure patite. Si compiace del pericolo scampato, ma temeche siano stati prodotti danni irreparabili. Alla base delle sue considera-zioni negative si ritrovano preoccupazioni note e in larga parte scontate.Il vescovo considera, infatti, l'ideologia rivoluzionaria fonte di conflitti,contraria alla religione e negatrice dei diritti pubblici e privati. In lineacon il comportamento della maggioranza dei vescovi regnicoli e dellestesse gerarchie vaticane finisce per interpretare i fatti del 1799 come uncastigo divino, a cui bisogna riparare con atti di pentimento collettivi. Daqui il rilancio delle missioni popolari, che ad Oria si colora nei mesiimmediatamente successivi di un fervore religioso simbolicamente ine-quivocabile, diffusamente corale e dalla durata inconsueta 61 . In un climasuggestivo e teatrale i padri vincenziani si fanno carico di scuotere la dio-cesi dal torpore e dall'indifferenza in cui era caduta, favorendo la ripresadi un'evangelizzazione di massa (con catechesi per tutti, processionimirate, atti pubblici di pentimento, confessioni e comunioni collettive)per ben sei lunghi mesi. L'obiettivo principale -nelle intenzioni del presu-le- resta quello però di ricondurre la popolazione sulla "via della devo-zione al papa e della fedeltà al sovrano", smarrita durante i nefasti giornidella rivoluzione62 .

Il Cimino si mostra convinto che solo ripristinando la legge e il con-trollo della chiesa sulla società si possono garantire la quiete pubblica el'ordine costituito. Il suo protagonismo è indirizzato, quindi, a ricostruirele condizioni politico-religiose precedenti l'evento rivoluzionario. Si ado-pera per questo a rendere con i suoi atti episcopali la (prima) restaurazio-

60 ivi .

61

62 /vi .

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ne borbonica un processo solido ed irreversibile. Tra il 1800 e il 1806 ilprotagonismo pastorale del vescovo oritano sembra orientato a raggiun-gere un siffatto obiettivo. Non solo con le missioni popolari, ma anchecon le visite al clero e alle parrocchie della diocesi cerca in ogni modo di"riparare" ai danni del 1799, condannando le degenerazioni nei costumi enella pratica religiosa e richiamando al rispetto dei codici divini 63 . Versoil sovrano borbonico non perde occasione per dichiarare il suo filiale edincondizionato sostegno, fino ad identificare la missione di vescovo conil destino stesso della monarchia.

Gli eventi del 1806 con la nuova occupazione del regno da parte delletruppe francesi e l'instaurazione del governo dei napoleonidi getta nellosconforto più cupo il Cimino. La sua avversione al regime francese tornaad essere dura e netta, ma questa volta gli spazi per esercitarla sono mol-to più ristretti. Il vescovo, già noto alle nuove autorità per il suo radicatoattaccamento alla corona borbonica, viene subito contrastato nelle sue ini-ziative antigovernative. Subisce ripetute intimidazioni ed una serie di per-secuzioni da parte delle autorità periferiche. Si arriva persino ad attentare(almeno in due circostanze) alla sua vita 64 . Isolato e amareggiato ilCimino decide nel 1807 di allontanarsi dalla diocesi, non prima di averofferto al pontefice le dimissioni dall'incarico episcopale. Nella relatio adlimina del 1807 formalizza la richiesta di essere esonerato dalla caricaepiscopale, ma questa non viene accolta dalla S. Sede. Il vescovo nonritiene tuttavia di poter continuare ad esercitare i suoi compiti pastorali inquanto impedito nelle intenzioni e nei fatti. Rifiuta per questo qualsiasicompromesso, negandosi anche ad una collaborazione parziale con ilgoverno. Affida allora la diocesi al suo vicario e si ritira nel paese natio,dove cerca di guidare a distanza, fino a quando la responsabilità della dio-cesi non passa ufficialmente (1812) nelle mani dell'arcivescovo diBrindisi Annibale De Leo, la vita istituzionale e religiosa della circoscri-zione ecclesiastica 65 .

63

64 Ivi.65 Ivi ed anche S. Palese, Vicari capitolari e conventi soppressi: problemi della sto-

ria religiosa del Decennio in Terra d'Otranto, in Aa. Vv.,11 Decennio francese in Puglia(1806-1815), Atti del 2° Convegno di Studi sul Risorgimento in Puglia (Bari 12-14 otto-bre 1979), Bari 1981, pp. 260-67.

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5. Se per un verso la rigida chiusura del Cimino resta emblematica delrifiuto dei vescovi di orientamento borbonico a venire a patti con il gover-no francese, per l'altro le aperture del Capecelatro al nuovo regime risul-tano indicative di un moderatismo politico che, sebbene minoritario, ten-de a coinvolgere in maniera più estesa, di quello che si può desumere dauna prima lettura documentaria, l'alto clero regnicolo durante la congiun-tura del 1799. Più articolata e non sempre chiaramente leggibile si rivela,invece, l'adesione alla Repubblica di altri ecclesiastici allorquando la lot-ta politica si trasferisce all'interno dei capitoli e delle collegiate. Dietro loscontro per la conquista di uno stallo canonicale o per l'acquisizione di unbeneficio o per l'elezione di un vicario capitolare si nasconde spesso unlungo conflitto di potere tra fazioni contrapposte per il controllo dell'isti-tuzione religiosa. La rivoluzione del 1799 diventa in molti casi un'occa-sione per i gruppi marginali (preti mansionari soprattutto, ma anche cano-nici non investiti di alcuna dignità, le cui prebende vengono a decurtarsiper la grave crisi economica dell'ultimo decennio) di ribaltare i tradizio-nali rapporti di forza e proporsi come gruppo dominante. In questo con-testo l'opzione repubblicana di tanti canonici non può essere interpretatacome una convinta adesione al nuovo corso politico, ma rinvia per essereintelligibile a scelte non proprio ideologiche, legate più direttamenteall'evoluzione degli equilibri di potere dentro l'istituzione capitolare. Nonè possibile cioè trovare una ragione congiunturale di un conflitto cheaffonda le sue radici in un periodo lontano e nella stessa struttura oligar-chica del collegio canonicale (chiuso a significativi apporti dei ceti emer-genti), sebbene lo scontro tra vecchio e nuovo riesploda solo strumental-mente durante le convulse giornate della rivoluzione.

Sono note le vicende del capitolo di Lecce nella congiuntura di fineSettecento 66 . Esse tuttavia vanno lette non isolatamente, ma in un quadrostorico di lunga durata, come punto di arrivo (ma anche di partenza) diuna lotta di potere che le fazioni presenti all'interno dell'istituzione eccle-siastica alimentano in maniera ciclica. In questa sede sarebbe tropporischioso proporre una lettura riassuntiva. Si potrebbe offrire una rico-struzione eccessivamente disorganica di quei contrasti che non aiutereb-be a mettere in rilievo e a comprendere i concreti interessi in gioco. Se si

66 cfr. M. Spedicato, La lupa sotto il pallio, cit.

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vuole semplificare, i motivi che rendono nell'ultimo decennio del '700incandescente la vita capitolare vanno essenzialmente rintracciati nelladrammatica crisi finanziaria sofferta dall'istituzione che, impoverita del-le sue tradizionali risorse economiche, soffre l'acuirsi di lacerazioni e didivisioni mai sopite. Una conflittualità che raggiunge livelli altissimi nel1795 in occasione dell'assegnazione del legato Panzera per l'esclusionecoatta dal concorso di una consistente fetta di preti capitolari "mansiona-ri"67 . Il clima non migliora negli anni successivi, se l'istituzione diventaingovernabile all'indomani della traslazione del vescovo Spinelli aSalerno. Per l'elezione del nuovo vicario capitolare la lotta fazionante sifa ancora più accesa e il canonico prescelto, Federico Arigliani, deve usa-re il pugno duro per riportare l'ordine. Parte del capitolo però non sop-porta il decisionismo del vicario e cerca in ogni modo di delegittimarlo,preferendo di rispondere direttamente delle loro azioni al provicarioAndrioli. L'occasione per una definitiva resa di conti viene offerta dal-l'innalzamento a Lecce nel febbraio del 1799 dell'Albero della Libertà,circostanza durante la quale l'Arigliani si espone timidamente in favoredel nuovo corso politico 68 . Un'apparizione che appare quasi obbligata, mache finisce per procurargli tanti dissapori e umiliazioni. Appena restaura-to il vecchio regime, infatti, diventa il bersaglio privilegiato della fazionecontrapposta, che reclama una sua rapida destituzione. Questa avviene giànel luglio del 1799 per intervento diretto del governo che impone la nomi-na di Vito Strafino 69 . Nonostante l'Arigliani si opponga con determina-zione ad un siffatta decisione, la sua emarginazione appare inevitabile 70 .

67 /Vi.68 E. Buccarelli, Le cronache leccesi, cit.69 /Vi.

7() Per superare l'impasse nel settembre del 1806 il governo della diocesi leccese vie-ne affidato dai francesi al metropolita otrantino Vincenzo Maria Morelli, che tra nonpoche difficoltà riesce ad avviare il processo di normalizzazione istituzionale. La spac-catura nel capitolo della cattedrale che si era consumata precedentemente, allorquandola lotta tra le due fazioni, quella rappresentata dall'Arigliani (eletto vicario dal collegiodei canonici e confermato nella carica da un dispaccio reale) e l'altra dallo Strafino(nominato vicario direttamente dal vescovo di Gallipoli Giovanni Giuseppe Danisi suordine del cardinale Ruffo) diventa molto aspra. Il Morelli, che nell'occasione si muovedi concerto con l'arcivescovo brindisino Annibale De Leo, riesce a mettere fine ai vec-

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Pur rimanendo in sospeso ancora qualche conto che si regolerà tardiva-mente, durante il decennio, è innegabile che a Lecce, come in altri centridel Mezzogiorno, la rivoluzione giacobina del 1799 diventa non solo unpretesto per un redde rationem all'interno dei maggiori centri di poterecittadino, ma anche il punto di arrivo di processi di lunga durata, favo-rendo la scomposizione e la ricomposizione cetuale negli stessi collegicapitolari e prefigurando nuovi e più avanzati scenari nei tradizionaliequilibri di potere. Dopo il 1799 nulla sarà come prima.

chi contrasti e a stemperare le rivendicazioni di parte, favorendo un clima di riconcilia-zione, che troverà modo per consolidarsi con la nomina del vicario apostolico GiuseppeMaria Giovene: cfr. M. Spedicato, La lupa sotto il pulito, cit., pp. 173 sg.

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