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Dottorando Marco VacircaTutor: Mario SavinoTitolo provvisorio: L’evoluzione dal “need to know” al “right to know” nella riforma del diritto di accesso ed il controllo diffuso sulla legittimità dell’attività amministrativa: Primo anno, Ciclo XXXI

Reaction paper – “Le regole della fiducia”, E. Resta

Il saggio preso in esame - “Le regole della fiducia”, di Eligio Resta - elegge a focus della trattazione un sentimento - per l’appunto, la fiducia - che, come “una sorta di cuore segreto [...] anima molte dimensioni della vita collettiva” (cit., p. 4). In particolare, l’Autore, passando attraverso numerosi sforzi definitori, richiami storici e complesse indagini etimologiche (in ordine al sentimento in parola, così come a quelli che gravitano attorno ad esso: confidenza, diffidenza, speranza, e così via), intende la fiducia, anzitutto, quale ineliminabile componente della condizione umana, colta sia nella sua dimensione individuale che intersoggettiva.

Malgrado quanto suggerito dal titolo del saggio, il lavoro esaminato non si concentra affatto su quali siano le regole cui tener fede, nel vivere associato o semplicemente a fronte di qualsiasi interlocutore, per meritare e/o preservare la fiducia riposta od ottenuta. Piuttosto, quel che l’Autore sembra voler tracciare e ribadire a più riprese (in un costante intreccio con assai complesse digressioni storiche, filosofiche, filologiche e socio-economiche), è una sorta di “fenomenologia della fiducia” nella sua “commistione” con il diritto.

Il sentimento indagato, infatti, viene analizzato dalla sua più remota genesi (contestuale alla nascita dell'umanità stessa) fino alla sua “giuridificazione”, che suggerisce come la fiducia, di fatto, non esista più nella sua autentica e più genuina essenza. Questo è perlomeno ciò che, a parere di chi scrive, sembra stagliarsi sullo sfondo di una riflessione laboriosamente articolata, pregevolissima nelle immagini richiamate e nelle approfondite indagini che la impreziosiscono ma, a onor del vero, non sempre di lineare ed immediata comprensione.

In via di estrema sintesi, il messaggio veicolato dall’elaborato pare il seguente: la fiducia è un sentimento nobile e trainante, connaturato alla stessa condizione di essere umano inserito in una comunità.

Essa rappresenta, da sempre, lo slancio costituente la fonte ed il collante di molti rapporti intersoggettivi, ed il diritto, che “tradurrà costantemente il vocabolario della vita quotidiana nei suoi codici” (cit., p. 62), non potrà che incorporarla nelle sue categorie.

In particolare – riducendo ai minimi termini il pensiero dell’Autore – l’impronta del diritto conferisce rigore scientifico ed offre strumenti tutelanti alle relazioni suggellate in nome della fiducia, e, più nello specifico, permette di neutralizzare o contenere le conseguenze negative di una “fiducia tradita”. Tuttavia, a ben vedere, la necessità di provvedere all’apposizione di rimedi e garanzie (quelle, appunto, offerte dal diritto), comprova la sostanziale assenza di fiducia tra consociati.

Così, volendo tentare un’esemplificazione, il locatore concede in godimento l’immobile confidando nella corresponsione del canone da parte del suo conduttore: è la fiducia che sospinge verso l’accordo e lo sorregge, ma quando tale fiducia viene smentita, a

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fronte dell’inadempimento del contraente (risultato, invero, inaffidabile), il diritto offre strumenti per “ricucire la smagliatura” della delusione sofferta. L’elemento fiduciario è allora sottinteso (in quanto, per così dire, presupposto antropologico e sociale) nel negozio e risulta, dunque, implicitamente “incorporato”, nella fisionomia giuridica del contratto di locazione (ma lo stesso potrebbe dirsi per una compravendita, un mandato, un patto fiduciario, un mutuo, nella costituzione di una società, e così via). Le norme codicistiche, in particolare, offrono strumenti di salvaguardia per le vicende di inadempimento (ossia, di fiducia malriposta).

Come già evidenziato, non vi è chi non veda come l’incorporazione giuridica della fiducia finisca col tradirne l’autentica e primordiale essenza, e dunque, in definitiva, a snaturarla. La fiducia “garantita” dagli strumenti del diritto, invero, non è più incondizionata: è semmai il frutto di un prudente apprezzamento, pur sempre “rassicurato” dal diritto per l’eventualità di un esperimento fallimentare. Per dirlo con le parole dell’Autore, come per “effetto di una metamorfosi, la fiducia (la pìstis aristotelica) incorporata nel diritto e ‘giuridificata’, diventerà dispositivo, criterio di orientamento interpretativo, principio generale del rapporto obbligatorio, ma smetterà di essere fiducia [...] giocherà con la sanzione e la sua coercitività, ma smetterà di essere fiducia. Costituirà la chiave di volta del rapporto obbligatorio, del contratto e delle dimensioni giuridiche della responsabilità; sarà il nodo della dimensione giuridica intersoggettiva (e non soltanto), ma proprio per questo, nella sua ‘normatività’ giuridica, smetterà di essere fiducia” (cit., p. 63).

La constatazione appena richiamata - sia pure con la sintesi e la concisione imposte dalla necessità di procedere con una più attenta e critica disamina del saggio - può dunque eleggersi a fil rouge dell’intera trattazione, di cui si è così anticipata la conclusione o, se vogliamo, la “morale”. Più nello specifico, come accennato, la riflessione si dipana tra complesse indagini storico-filologiche, che si prefiggono di cogliere l’essenza ultima ed autentica della fiducia. Ne vengono dunque menzionati, incidentalmente, taluni “risvolti giuridici”, analizzando più o meno approfonditamente gli istituti che, costitutivamente o solo nominalmente, appaiono riconducibili al sentimento della fiducia ed alle dinamiche che essa è in grado di sospingere e plasmare. Ricorrenti i riferimenti alle rinvenute analogie tra il giuridico ed il religioso, sempre alla luce di presupposti ed implicazioni dello slancio fideistico.

È così che, sin dagli esordi, l’Autore allude ad una sorta di “parabola oscillatoria”, che sembra in effetti scandire il nostro vivere quotidiano: un moto che contrappone, da un lato, l’ubi consistam della fiducia stessa (ovverosia, la vocazione che intimamente ogni uomo nutre per adesioni fideistiche, sorrette da slanci spesso irrazionali, se non del tutto acritici) e la “razionalizzazione” del fenomeno, che ha talvolta indotto ad “imbrigliarne” le manifestazioni entro ben più rigidi argini normativi.

Una tra le considerazioni introduttive riguarda il c.d. moral panics, anglicismo che, seppure non propriamente familiare al nostro repertorio, identifica un fenomeno ricorrente, anzi, pressoché costante. Il termine allude ad un fenomeno che può essere così sintetizzato: i mass-media “eleggono” un tema cruciale, dal potenziale destabilizzante, e lo ripropongono con toni emergenziali ed altisonanti fino all’insorgenza di un “allarme” successivo, ossia fino a che non si scorge, contiguamente, un nuovo catalizzatore di attenzione, angoscia ed isteria collettiva. Il terreno resta così sempre fertile per il consenso politico, poiché è noto che si registri maggiore sostegno ed adesione – sospinti da fiducia, che è qui aggettivata,

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non casualmente, come “cieca” – laddove le sensazioni di incertezza, timore e instabilità siano disperanti e costantemente alimentate.

Il primo capitolo prosegue passando attraverso esemplificazioni delle diverse sedi entro cui la fiducia si risolve in elemento-chiave e trainante: vengono menzionati i mercati, le cornici processuali, i meccanismi alla base dell’investitura elettorale. Si riflette ancora, per questa via, sull’autentica essenza del sentimento indagato.

Si osserva quindi come la scelta individuale scaturisca non tanto da un monolitico “atto di fede”, quanto, molto più di frequente, dalla fisiologica e dicotomica alternanza tra fiducia e diffidenza. L’essere umano è diffidente per natura, allorché chiamato a tutelare i propri interessi o a studiarne la migliore composizione possibile nel vivere associato; parimenti, difficile è resistere alla tentazione di affidarsi, accettando la finitezza del singolo e la sua ineludibile interazione con i consociati.

Un delicato gioco di contrappesi tra fiducia e diffidenza viene nuovamente evidenziato – nel prosieguo della riflessione, v. Cap. III – come alla base di un atto di “conferimento di potere”, che è ciò in cui il rapporto tra “garante” ed “affidato” si risolve: colui che “si affida” accorda infatti, a colui che viene “eletto” come meritevole depositario delle sue più favorevoli aspettative, un potere commisurato al grado della stessa fiducia nutrita (che è appunto la risultante della composizione tra i confliggenti sentimenti di affidamento e diffidenza intercorrenti tra gli interlocutori).

Così, secondo l’Autore, “La diffidenza è nel mondo moderno esattamente equivalente, simmetrica e contraria, al gioco della fiducia [...] [e] quasi ogni pratica della fiducia [...] [determina] quote di potere nelle mani di qualcuno da cui discende automaticamente garanzia”, cit. p. 26). In via di estrema sintesi, “i punti rilevanti del discorso sono sostanzialmente questi: la dimensione della relazione di scambio tra chi investe fiducia e chi ne è investito, la natura del rapporto di potere contro protezione, e, infine, il suo fondamento fideistico” (cit. p. 29).

Una dinamica che può dunque essere così ripercorsa e scandita: la fisiologica vocazione verso lo slancio fiduciario, che sospinge ciascuno a riporre la gestione di taluni interessi nelle mani altrui, è controbilanciata da una altrettanto naturale inclinazione all’auto-preservazione ed al contenimento del rischio, appunto sotto forma di istinto di diffidenza, dal sano potenziale razionalizzante ed inibitorio (“l’esperienza della diffidenza ha visto affinare progressivamente tecniche di vera e propria immunizzazione dai rischi”, cit. p. 28). Tuttavia, una volta accordata ad altri la predetta fiducia (rectius, il potere di disporre ed aver cura, in diversa misura ed a svariato titolo, degli interessi altrui), può ritenersi instaurato un vero e proprio rapporto di interdipendenza e garanzia, in cui l’affidato, risolto il conflitto tra spinte contrapposte, pretende dall’affidatario una prestazione commisurata al potere conferitogli. Paradigmatico resta, in tal senso, il credo, ossia la fiducia negli dèi che sembra suggellare la pattuizione sinallagmatica tra la cieca devozione (attributiva di potere) e la pretesa salvifica.

Dalla primordiale essenza della fiducia, pertanto, germina “l’aspettativa della restituzione [...] una singolare ‘normativizzazione’ delle aspettative fondate sulla reciprocità” (cit. p. 32), e dunque garanzie, nonché commisurate pretese, spesso (ed è per questa via che si giunge al cuore della questione) giuridicamente rilevanti.

Si approda così alla nozione laicizzata di “credito”: quello testé descritto, infatti, “è lo stesso meccanismo che entra in azione, sia per una fede propriamente religiosa sia per la fiducia in un uomo, per l’impegno di parole, promesse o denaro. Del resto, un’espressione del senso comune ce lo racconta meglio di ogni altra cosa: ‘dammi credito!’ [...]. Credito si

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dice credito non a caso. [...] Ancora una volta le pratiche ‘razionali’ che sottintendono scambi, strategie, calcoli, si fondano su un più o meno visibile ‘linguaggio dei sentimenti’. La fiducia, con la sua ambivalente dimensione [...] di investimento emotivo e di regola dello scambio, di unilateralità e di reciprocità, ne è al centro” (cit. p. 31). Queste considerazioni sarebbero confermate sul piano della semantica: creditor è colui che crede (“un attore che investe le sue aspettative sulla base della fiducia accordata a qualcuno”, in cui l’Autore rimanda al pensiero di Carlo Augusto Cannata, p. 63).

Anche la pena, del resto, rappresenta, sul terreno penalistico, una risposta punitiva che un debitore (i.e., il reo che ha tradito un’aspettativa di legalità e sicurezza condivise, inadempiente a fronte di una siffatta obbligazione) deve alla comunità a fronte di una fiducia malriposta (cfr. Cap. IV).

Le ordinarie pratiche di scambio (e non solo), normativizzate dal diritto antico e moderno, richiedono e presuppongono pertanto, costitutivamente, un sentimento fiduciario.

La stessa lettura, che vede legate a doppio filo il linguaggio delle pratiche e quello dei sentimenti, viene dall’Autore attribuita anche alle grammatiche nietzschiane e kantiane (v. Cap. IV), ove si aggiungono, nello sforzo definitorio condotto intorno alla nozione di fiducia, delle componenti temporali (chi accorda fiducia lo fa poiché confida in un certo epilogo, “gioca d’anticipo” in ordine all’esito delle sue scelte) e di subiettivizzazione (la promessa implica obblighi e responsabilità, che il primo dei filosofi tedeschi menzionati categorizza nella “memoria della volontà” dell’individuo “uguale a se stesso”, ossia fedele alla parola data).

Ancora, trasmigrando su di un terreno più propriamente giuridico, viene rimarcato lo scarto sostanziale tra fiducia e buona fede (già proprio dell’insegnamento aristotelico), dove la seconda costituisce lo sviluppo della prima (individuandone, più nello specifico, lo spettro di tutele predisposto dal sistema). Si osserva infine come il diritto, a ben vedere, conosca un solo modo di incentivare, negli individui, l’atto di fiducia (ciò a cui coscienziosamente si approda con cautela, atteso il rischio ontologicamente insito nello stesso): il legislatore, in particolare, sceglie di oleare gli ingranaggi dell’interazione economica, nell’obiettivo di garantire un andamento florido ed il più possibile dinamico dei mercati, contenendo le riverberazioni negative della delusione, ossia della “fiducia tradita”. Vengono quindi contemplate garanzie per i portatori di un legittimo affidamento rimasto disatteso, nonché comminate sanzioni per i contraenti di mala fede; il diritto, quindi, “rimane il luogo privilegiato del disincanto e della neutralizzazione della delusione” (cit., p. 11).

Del resto, “il rapporto obbligatorio – scrive Resta citando Bretone – è sorretto dalla ‘buona fede’, dalla persuasione che occorre rispettare lealmente le regole del gioco, ed è la buona fede che determina e giustifica la tutela giurisdizionale” (cit., p. 64).

Storicamente, “L’affidamento, con tutto il suo universo di aspettative, fu talmente normativizzato che, ricorda Bretone, fu proprio la buona fede a determinare e giustificare la tutela giurisdizionale. Quella fiducia che altrove era rischio non controllato, a Roma non rimase senza tutela e se il praetor peregrinus consolidava il principio iudicii bonae fidei, era perché, vista la natura dei rapporti tutelati, occorreva uno strumento elastico, equitativo perché si potesse reimmettere proporzione e giustizia nelle utilità mai formalizzate”. L’Autore sottolinea quindi “un accoppiamento strutturale tra la fiducia e l’equità. L’equità richiesta è qualcosa che deve riequilibrare il gioco spontaneo della correttezza dei rapporti; è un elemento ulteriore, rimesso al giudice e agito in giudizio, per recuperare l’equilibrio perduto delle utilità [...] Nella tradizione romanistica si afferma giustamente

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che la ‘buona fede’ è la regola di conformità a un comportamento che assicuri, a chi ha affidato ad altri una cosa (nasce dal deposito), di poterla riottenere. La chiave è qui: la conformità può essere delusa nei fatti, e, proprio per contenere la delusione cognitiva, va ribadita (e agita) normativamente, ma quando diventa una norma coercibile smette di essere fiducia” (p. 66).

La riflessione procede analizzando, tangenzialmente, altri istituti conosciuti dal nostro attuale quadro ordinamentale, senz’altro eredità della stessa “metamorfosi giuridica” della fiducia. Non si manca, così, di sottolineare come la componente “irrazionale”, che normalmente anima lo slancio fiduciario, sembri tuttavia ridimensionarsi, per lasciare spazio a logiche tutt’altro che spontanee, in altri frangenti istituzionali, in cui pure la “fiducia” viene nominalmente invocata. Si allude ad un istituto assai noto già alle più risalenti tradizioni costituzionali (tra cui, naturalmente, quella italiana), il cui nomen juris è appunto quello della fiducia (necessariamente intercorrente tra Assemblea parlamentare e Governo). È noto, infatti, come i nostri equilibri inter-istituzionali conoscano una “fiducia genetica” (il Governo entrante necessita dell’iniziale fiducia accordata dal Parlamento) ed una “fiducia patologica”, ossia sintomatica di cedimenti transitori o di problematiche più radicate (si allude alla fiducia richiesta per impasse di un iter provvedimentale).

Così, “quando blinda il contenuto della singola decisione, la ‘fiducia’ sposta l’obbligo del confronto dialogante [...] sul confronto ‘muscolare’ dei numeri. [...] Sospende e preclude, la fiducia: sposta, disloca dal merito da decidere, alla riaffermazione identitaria della presenza di un soggetto. Conferisce legittimità quando un governo si presenta davanti alle Camere, anche se non sapremo mai se sia la fiducia a generare legittimità o la legittimità a generare fiducia [...] [la fiducia] neutralizza il ‘rischio’ della discussione” (cit., p. 27).

In altri termini, l’istituto in parola si risolve in un espediente procedurale atto a garantire che la progettualità del potere esecutivo sia sorretta, sin dall’insediamento e nel corso della legislatura, da una maggioranza parlamentare sufficientemente attendibile e coesa. Invero, la fiducia viene soprattutto invocata allorché si renda necessario saggiare la “tenuta” di quella maggioranza, soprattutto nell’eventualità di paralisi o fibrillazione nell’operare delle forze politiche. In questo caso, quindi, la fiducia, più che un sentimento che fonda e salda relazioni interpersonali (talvolta giuridicamente tutelate) sulla base di irrazionalità e spontaneità, “è rito e strategia” (cit., p. 29) che tradisce movimenti ondivaghi ed incertezze nella coalizione di maggioranza. La fiducia, quindi, invera qui una necessità di riaffermazione.

Quanto alle ricorrenti indagini filologiche, se ne menziona una tra tutte: quella che rinviene, nella fiducia, la solidità di un albero. Il parallelismo tracciato dall’Autore tra l’investimento fiduciario e la solidità di un fusto legnoso non vuole introdurre solo una suggestiva metafora arborea: il legame è invero semantico, atteso come le parole “trust” (dall’inglese) e “treue” (dal tedesco) derivino dal greco “drus” (letteralmente, la quercia). L’Autore non manca, poi, di tracciare distinzioni, sia semantiche che sostanziali, tra quelle che appaiono declinazioni della fiducia, ma che in verità vanno dalla stessa tenute ontologicamente distinte (tra tutte, la fedeltà, che alimenta, cementandola, la relazione fiduciaria, e la gratitudine, che interrompe la reciprocità, poiché di regola “chiude il cerchio” di un rapporto in cui non si sarà ulteriormente obbligati; sul punto, v. diffusamente Cap. V).

Non mancano riferimenti all’insegnamento di Aristotele, in cui l’Autore intravede conferme degli assunti cui è pervenuto. “Tra gli amici la fiducia [...] ha la funzione di un

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mediatore morale che lega reciprocamente l’uno all’altro e che riempie di contenuti lo spazio intermedio tra i due poli di riferimento [...] non c’è bisogno di nulla fin quando, a mediare, è la fiducia, e questo spiega l’assenza del diritto: dove c’è amicizia [...] non c’è bisogno di giustizia! [...] La naturale spontaneità della fiducia non aveva bisogno di altro, tantomeno di diritto e di giustizia, fin quando, dice Aristotele, non si sceglie l’utile e non subentra la diseguaglianza” (cit. pp. 46-47). In buona sostanza, sempre nel pensiero aristotelico, “la giustizia regola la recriminazione dell’utile e subentra quando l’amicizia ‘virtuosa’ viene meno” (cit., p. 62).

Sempre a proposito di “fiducia filosofica” (cit., p. 40), si sottolinea poi come la fiducia sia per vero alla base anche dell’adesione del discepolo al messaggio predicato dal maestro, da quest’ultimo offerto esemplarmente ai suoi adepti, in concreto, nell’esperienza di vita.

Altro passaggio cruciale, che testimonia ancora una volta l’odierna assenza di fiducia, attiene alla coercibilità. Infatti, “la vis indebolita chiede ri-medi ed è così che comincia ad essere accompagnata da sanzioni. I teorici generali del diritto parlerebbero di una doppia forza, quella della ‘norma’ e quella della sanzione; ma è chiaro che una forza da ribadire nasconde una debolezza. Quando la fiducia si indebolisce il diritto offre un rimedio, ma il rimedio stesso che si affaccia propone il diritto e tradisce il senso della fiducia” (cit. p. 60).

Inoltre, poiché una volta che la fiducia si è giuridificata “tutto si replicherà intorno a sé stessa”, la fiducia appare oggi “spersonalizzata”: invero, “soltanto nell’astrattezza delle relazioni della società contemporanea (quella dell’elezione fredda attraverso il denaro o altri codici comunicativi) ci si può affidare alla fiducia impersonale, funzionale. Ci dobbiamo fidare della fiducia che riponiamo senza sapere e ci fidiamo proprio grazie alla nostra ignoranza” (cit., p. 64).

Sempre nel passare in rassegna le sedi entro cui emerge patentemente lo sforzo fiduciario, si menziona finanche “la delega necessaria ed inevitabile della rappresentanza, per cui non potremo mai controllare nulla e non potremo far altro che affidarci, appunto, a qualcuno che ha i mezzi, la competenza, il potere che noi non abbiamo [...] Si tratta esattamente di quello che accade nei nostri sistemi politici, in cui deleghiamo i nostri rappresentanti a rappresentarci” (cit. p. 94).

In conclusione, fotografando le diverse sedi entro cui emerge il fenomeno dell’investimento fiduciario, ed assumendo il giurista come “custode della metamorfosi [giuridica]” (cit., p. 60) che la fiducia stessa conosce attraverso i secoli, l’Autore intravede e fissa delle costanti. Così, “la moneta, il gioco della protezione, lo scambio fiduciario si ritrovano in questo punto nodale che riemerge in mille forme: sempre uguale e sempre diverso. Fede e fiducia, talismani e loro effetti, valore e credenza, credere e credito si ritrovano in questo gioco materiale e mistico insieme, strategico e simbolico nello stesso tempo” (cit., p. 36). A fronte di tali premesse, la fiducia viene riconosciuta come “uno dei ‘valori comuni’ dell’esperienza giuridica [...] una sorta di ‘unificatore culturale’ intorno al quale si autoalimenta un complesso mondo di sapienza e di esperienza”, anche se, come a più riprese evidenziato, “richiamarla normativamente significa ribadirne l’assenza” (cit., p. 66).

Queste le “direttrici di massima” entro cui si dispiega il lavoro esaminato. Varrà a tal punto segnalare come la trattazione sembri, in verità, più che svilupparsi gradatamente, secondo snodi logicamente consequenziali, riproporre la stessa “architettura”, stilistica e concettuale, in ciascun capitolo: dopo un’ouverture di sapore storico (forte, come accennato,

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di suggestivi e finissimi richiami al mondo letterario e filosofico), il registro adoperato non risulta sempre di agevole decifrazione, sicché la comprensione del senso ultimo del testo, forse volutamente celato tra ricostruzioni complesse ed un frasario a tratti ermetico, appare spesso inutilmente dispendiosa.

L'ultimo capitolo analizza le relazioni tra due categorie di soggetti: gli onesti ed i c.d. 'free riders'. L'autore evidenzia come la capacità stessa di operare dei 'furbi' presupponga l'esistenza dei 'polli', al punto che i primi vengono paradossalmente a dipendere dai secondi pur godendo, di fatto, di una posizione di primazia.

La sopravvivenza di tale sistema si fonda, infatti, sull'esistenza dei c.d. “polli” che, diversamente dai furbi, potrebbero ben fare a meno dell'altra categoria. I “polli” compongono un insieme eterogeneo di soggetti che scelgono di rispettare la fiducia altrui per intima convinzione nella correttezza di tale comportamento, oppure, talvolta, perché non hanno il coraggio e la determinazione necessari per agire da free-riders.

A conclusione della sua opera, l'Autore si interroga sul perché coloro che avrebbero la forza e la volontà sufficienti per agire da “furbi” rimangano, invece, dei polli. La soluzione di tale dilemma viene indicata nella scelta di tali soggetti (consapevoli dell'esistenza delle suesposte categorie) di non trasformarsi da sfruttati a sfruttatori essenzialmente per ragioni di interesse generale e per la consapevolezza che, altrimenti, il sistema crollerebbe.

Nell'ambito di tale ragionamento (illustrato, invero, con eccessiva sinteticità se si considera la complessità e la rilevanza delle questione), l'Autore sembra suggerire che detta scelta di onestà sia connessa proprio all'assenza di fiducia nei confronti della società da parte di chi la compie. Essa si spiegherebbe, infatti, alla luce di un atteggiamento disincantato (fondato sull'esperienza) secondo cui la presenza dei furbi sarebbe inevitabile e risulterebbe conseguentemente fisiologico il tradimento della fiducia individuale da parte di alcuni dei consociati.

A sommesso avviso di chi scrive, riconoscere l’inevitabilità che il mondo sia popolato anche da free riders (disonesti, profittatori, massimizzatori del proprio benessere e scarsamente sensibili ai valori della legalità) non vuol dire escludere del tutto ogni forma di fiducia, ma anzi significa comunque confidare nell'onestà della maggioranza dei consociati.

Appare pertanto eccessivo dipingere i “polli” come pavidi onesti, destinati a soccombere o comunque come soggetti relegati, più o meno consapevolmente, ad un ruolo ancillare e coessenziale al successo dei furbi. Salvare il sistema può infatti voler dire salvare anche gli altri onesti (oltre che i furbi).

A prescindere da considerazioni di merito su tale questione, poi, si ritiene di poter fare qualche ulteriore osservazione anche sulla tecnica espositiva utilizzata.

In buona sostanza, il saggio offre un’attenta disamina incentrata sull’evoluzione (nonché sull’indefettibilità) di una “razionalità collettiva”, che ha nel tempo partorito una regolamentazione (appunto, il diritto) in grado di supplire all’impossibilità di fidarsi e di ridurre il pregiudizio connesso alla delusione della fiducia. Considerazioni indubbiamente condivisibili, incastonate tra richiami di scenari storici e culturali che non possono non regalare al lettore preziosi spunti di riflessione, ma che “prestano il fianco” ad alcuni profili di criticità.

La resa dei concetti espressi, infatti, risulta per certi aspetti ridondante e, talvolta, inutilmente impegnativa, al punto da costringere il lettore, sia pure soltanto a tratti, ad interiorizzare l’articolato registro adoperato e, quindi, ad una “prosa preventiva” per poter metabolizzare le nozioni espresse.

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La lettura proposta ha dunque sortito l’effetto “sanzionatorio” auspicato inducendo, non senza qualche difficoltà, ad una riflessione sul valore costitutivo della fiducia e sui rischi cui essa si espone nel vivere contemporaneo.

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