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Hannah Arendt: breve antologia tratta da Le origini del totalitarismo (1951) Hanna Arendt rappresenta una delle figure intellettuali più significative e controverse della cultura del Novecento. La sua opera è difficilmente riconducibile a una tradizione culturale definita: non si inserisce in nessuno degli «ismi» di cui è particolarmente ricca la filosofia del Novecento. Peraltro, va detto, la nostra autrice rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa. Preferì che la sua opera fosse descritta come teoria politica, invece che come filosofia politica. Il suo accostamento alla teoria politica avviene dal desiderio di comprendere gli eventi della storia contemporanea che, per la loro imponenza, avevano minato la libertà dell’agire politico nell’orizzonte della società di massa. La sua produzione è ampia e spazia dalla critica letteraria ai penetranti saggi di teoria politica, fino alle riflessioni sulla tragedia della Shoah in testi fondamentali come La banalità del Male. Heichman a Gerusalemme e Le origini del totalitarismo. Hanna nacque nel 1906 in una località vicina ad Hannover da una famiglia ebrea. Cresciuta prima a Konigsberg (città natale del suo ammirato Immanuel Kant) e poi a Berlino, la Arendt fu studentessa di filosofia di Martin Heidegger all’Università di Marburgo. Con Heidegger ebbe una relazione che sarebbe durata circa mezzo secolo. Quella che nacque come una storia d’amore appassionata, conobbe nel corso degli anni diverse trasformazioni. Dal 1925 al 1930 i due furono amanti. Dai primi anni Trenta la relazione si interrompe per l’adesione di Heidegger al partito nazista. Dal 1950 la loro relazione riprese una forma nuova. Seguendo le indicazioni di Heidegger, si spostò all'Università di Heidelberg, dove portò a termine nel 1929 la ricerca di dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin” (“Il concetto di amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, sotto la guida di Karl Jaspers. 1

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Hannah Arendt: breve antologia tratta da Le origini del totalitarismo (1951)

Hanna Arendt rappresenta una delle figure intellettuali più significative e controverse della cultura del Novecento. La sua opera è difficilmente riconducibile a una tradizione culturale definita: non si inserisce in nessuno degli «ismi» di cui è particolarmente ricca la filosofia del Novecento. Peraltro, va detto, la nostra autrice rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa. Preferì che la sua opera fosse descritta come teoria politica, invece che come filosofia politica. Il suo accostamento alla teoria politica avviene dal desiderio di comprendere gli eventi della storia contemporanea che, per la loro imponenza, avevano minato la libertà dell’agire politico nell’orizzonte della società di massa. La sua produzione è ampia e spazia dalla critica letteraria ai penetranti saggi di teoria politica, fino alle riflessioni sulla tragedia della Shoah in testi fondamentali come La banalità del Male. Heichman a Gerusalemme e Le origini del totalitarismo.

Hanna nacque nel 1906 in una località vicina ad Hannover da una famiglia ebrea. Cresciuta prima a Konigsberg (città natale del suo ammirato Immanuel Kant) e poi a Berlino, la Arendt fu studentessa di filosofia di Martin Heidegger all’Università di Marburgo. Con Heidegger ebbe una relazione che sarebbe durata circa mezzo secolo. Quella che nacque come una storia d’amore appassionata, conobbe nel corso degli anni diverse trasformazioni. Dal 1925 al 1930 i due furono amanti. Dai primi anni Trenta la relazione si interrompe per l’adesione di Heidegger al partito nazista. Dal 1950 la loro relazione riprese una forma nuova.

Seguendo le indicazioni di Heidegger, si spostò all'Università di Heidelberg, dove portò a termine nel 1929 la ricerca di dottorato “Der Liebensbegriff bei Augustin” (“Il concetto di amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, sotto la guida di Karl Jaspers.

Nel 1929, trasferitasi a Berlino, ottenne una borsa di studio per una ricerca sul romanticismo dedicata alla figura di Rahel Varnhagen (“Rahel Varnahagen. Storia di un'ebrea”). Nello stesso anno sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a Marburg. Dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo e l'inizio delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche, Hannah abbandona la Germania nel 1933 e giunge a Parigi, dove conosce e frequenta, tra gli altri, lo scrittore Walter Benjamin, Raymond Aron, il filosofo e storico della scienza Alexander Koiré e il drammaturgo Bertold Brecht. Nel 1940 si sposa per la seconda volta, con Heinrich Blücher. Gli sviluppi storici del secondo conflitto mondiale portano Hannah Arendt a doversi

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allontanare anche dal suolo francese: internata nel campo di Gurs dal governo Vichy in quanto "straniera sospetta" e poi rilasciata, dopo varie peripezie, riesce a salpare dal porto di Marsiglia alla volta di New York, che raggiunge insieme al coniuge nel maggio 1941. Fino al 1951, anno in cui le verrà concessa la cittadinanza statunitense, rimane priva di diritti politici. Ebrea, profuga, esule fino all’età di cinquant’anni, ella si definì costantemente come un’apolide, una sradicata, un pariah sia della politica che della cultura intrecciando tre culture, quella tedesca, quella ebraica e quella americana, senza identificarsi con nessuna di esse.

In America ha modo di creare nuove amicizie e di scrivere opere importanti, che le permettono di acquisire autorevolezza e notorietà come intellettuale e pensatrice politica. Nella sua intensa attività, Hannah Arendt è costantemente supportata da una particolare famigliarità con la scrittura: possiede infatti il talento non comune di unire, con fluidità, il pensiero alla penna. In modo più o meno marcato ma sempre indelebile, tale capacità può essere vista come un segno distintivo, presente in tutti i suoi scritti. Le riflessioni vengono proposte attraverso uno stile personale, rigoroso e discorsivo al tempo stesso: in quanto scrittrice avversa al dogmatismo culturale, Hannah Arendt non vuole la passività del lettore, ma al contrario ricerca e richiede un suo coinvolgimento attivo, attento, dialogico. La figura e l'opera di questa pensatrice possono costituire una esempio eloquente della possibilità di un felice connubio fra pensiero e parola, contemplazione e azione, tradizione e innovazione.

In una serie di interventi nell’immediato dopoguerra, la Arendt sostenne la tesi che la pace in Medio Oriente e la sopravvivenza di Israele richiedevano la costituzione di uno stato non confessionale capace di offrire l cittadinanza politica agli arabi. Queste posizioni provocarono sovente critiche, incomprensioni e proteste da parte di Israele e di larghi settori della comunità ebraica internazionale.

Nel 1951 pubblica il fondamentale “The Origins of Totalitarianism” (“Le origini del totalitarismo”), frutto di un’accurata indagine storica e filosofica. In tale contesto, particolarmente interessante risulta essere l'analisi della cosiddetta "ideologia", intesa come uso indebito della facoltà razionale umana e perciò crogiolo potenziale di ogni dinamica totalitaria. La mente gioca con se stessa: l'atteggiamento ideologico, privo di un vero ideale, assolutizza la facoltà logica facendola esorbitare dai suoi limiti costitutivi, in modo tale da costruire una pseudo-realtà, impermeabile all'esperienza della realtà autentica, al cui interno vige la pretesa di spiegazione totale che nega, di fatto, la vocazione della natura umana alla libertà di iniziativa. Dal 1957 comincia la carriera accademica vera e propria: ottiene insegnamenti presso le Università di

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Berkeley, Columbia, Princeton e, dal 1967 fino alla morte, anche alla New School for Social Research di New York Nel 1961, in qualità di inviata del settimanale "New Yorker", assiste al processo contro il gerarca nazista Eichmann. Il resoconto di questa esperienza viene inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista newyorkese e successivamente proposto in forma unitaria nel 1963, con il libro “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil” (“La banalità del male. Eichmann in Gerusalemme”). La figura di Eichman costituisce nella sua atroce normalità l’espressione più inquietante del nazismo. Il tipo sociale caratteristico del totalitarismo, più che nel demagogo senza scupoli o nell’avventuriero, è rappresentato dall’individuo atomizzato della società di massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia in un’organizzazione che ne annulla il giudizio. Nel totalitarismo questi individui possono anche divenire gli ingranaggi di una macchina di sterminio.

La Arendt dovette subire per quasi due anni in Israele,, in Germania e negli Stati Uniti, una vera e propria campagna diffamatoria, confortata dalla solidarietà degli amici e di K. Jaspers.

Sempre nel 1963 pubblica “On Revolution” (“Sulla rivoluzione”), saggio politologico dalle cui pagine emergono giudizi negativi sia sulla Rivoluzione francese sia su quella russa. L'assunto principale dell'opera, il punto fisso su cui fa leva il discorso dell'autrice, è l'intelligenza della correlazione presente fra libertà e politica: la politica infatti è vista, essenzialmente, come l'attività che preserva, cura e garantisce lo spazio all'esercizio concreto della libertà in tutte le sue forme di attuazione. Nel 1972 viene invitata a tenere le Gifford Lectures all'Università scozzese di Aberdeen, che già in passato aveva ospitato pensatori di prestigio come Bergson, Gilson e Marcel. Due anni più tardi, durante il secondo ciclo delle "Gifford", subisce il primo infarto. Altre opere significative sono “The Human Condition” del 1958 (“Vita activa. La condizione umana”) e il volume teoretico “The Life of the Mind” (“La vita della mente”), uscito postumo nel 1978, attraverso cui Hannah, sulla scia originaria della migliore filosofia greca, riporta al centro dell'esistenza umana la "meraviglia" (il thaumazein). Tale "stupore" metafisico non è uno stato psicologico, bensì un elemento costitutivo della capacità dell'essere umano di conoscere, pensare e vivere in modo costruttivo, come persona in comunione con altre persone. Il 4 dicembre 1975 muore a causa di un secondo arresto cardiaco, nel suo appartamento di Riverside Drive a New York.

La differenza tra totalitarismo e altre forme di dispotismo.

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“La differenza fondamentale tra le forme totalitarie e quelle tiranniche tradizionali è che il terrore non viene più usato principalmente come un mezzo per intimidire e liquidare gli avversari, ma come uno strumento permanente con cui governare masse assolutamente obbedienti. Il terrore moderno non aspetta, per colpire, la provocazione degli oppositori, e le sue vittime sono perfettamente innocenti anche dal punto di vista del persecutore. Se ne è avuta la prova in Germania nel caso degli ebrei, che sono stati perseguitati senza che ci si curasse delle loro opinioni o azioni. Qualcosa di analogo si è potuto osservare in Russia, ma la situazione era più confusa. Da un lato il regime staliniano, a differenza dei nazisti, non ha mai ammesso che le epurazioni si svolgessero in base a percentuali predeterminate e avessero ben poco a che fare con la condotta dei colpiti; ciò può apparire ipocrisia, ma i nazisti, fatto caratteristico, non l'hanno mai ritenuta necessaria. Dall'altro, la prassi staliniana si è spinta un po' più in là: l'arbitrarietà della scelta delle persone da colpire non era limitata nemmeno dalle considerazioni razziali, mentre le vecchie differenze di classe erano di fatto state eliminate, di modo che chiunque poteva d'improvviso diventare vittima del terrore poliziesco. Non ci occupiamo qui delle conseguenze di tali metodi, per cui nessuno, neppure l'esecutore, può esser libero dalla paura, bensì soltanto dall'arbitrarietà con cui vengono scelte le vittime; a questo riguardo è decisivo che obiettivamente, anche dal punto di vista del persecutore, esse siano innocenti, che la loro sorte non abbia alcun rapporto con quanto possono aver pensato, fatto od omesso di fare”.

I campi di concentramento

“I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa di dominio assoluto sull'uomo. Rispetto a questo, tutti gli altri esperimenti (e tali laboratori sono stati usati per esperimenti d'ogni genere) rivestono un'importanza secondaria, non esclusi quelli compiuti nel campo della medicina, i cui orrori sono stati riferiti per esteso nei processi contro i medici del Terzo Reich. Il dominio totale, che mira a organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un'immutabile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali, la cui unica «libertà» consisterebbe nel «preservare la specie». Tale fine viene perseguito sia con l'indottrinamento ideologico delle formazioni d''élite sia col terrore assoluto dei Lager; e le atrocità, a cui le formazioni d'élite sono adibite senza riguardi, diventano, per così dire, l'applicazione pratica dell'indottrinamento ideologico, il suo banco di prova, mentre lo spaventoso spettacolo dei campi dovrebbe fungere da

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verifica «teorica» dell'ideologia”. “I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l'orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l'uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono; perché il cane di Pavlov che, com'è noto, era ammaestrato a mangiare, non quando aveva fame, ma quando suonava una campana, era un animale pervertito. In circostanze normali ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può mai essere interamente soffocata, connessa com'è non solo alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice rimaner vivo. Solo nei campi di concentramento un esperimento del genere diventa possibile; e perciò essi sono, oltre che «la société la plus totalitaire encore réalisée» (David Rousset), l'ideale sociale che guida il potere totalitario. Come la stabilità del regime dipende dall'isolamento del suo mondo fittizio dall'esterno, così l'esperimento di dominio totale nei campi richiede che questi siano ermeticamente chiusi agli sguardi del mondo di tutti gli altri, del mondo dei vivi in genere. Tale isolamento spiega la peculiare irrealtà e incredibilità che caratterizza tutti i resoconti su di essi e costituisce una delle principali difficoltà che si frappongono all'esatta comprensione del dominio totalitario, le cui sorti sono legate all'esistenza dei campi di concentramento e di sterminio; perché questi, per quanto inverosimile possa sembrare, sono la vera istituzione centrale del potere totalitario. I resoconti dei superstiti sono numerosi e sorprendentemente monotoni. Quanto più autentici sono, tanto meno cercano di comunicare cose che si sottraggono alla comprensione e all'esperienza umana, cioè sofferenze che trasformano gli uomini in «animali che non si lamentano». Nessuna di tali testimonianze ispira quelle passioni di indignata simpatia con cui gli uomini sono stati in ogni epoca mobilitati per la giustizia. Anzi, chi parla o scrive sui campi di concentramento è ancora considerato con sospetto; e se è decisamente ritornato al mondo dei vivi, egli stesso è talvolta assalito dai dubbi sulla sua veridicità, come se avesse scambiato un incubo per la realtà. Questi dubbi su se stessi e sulla realtà della propria esperienza rivelano semplicemente quello che i nazisti hanno sempre saputo: che, se si è decisi al delitto, conviene organizzarlo in grande, su scala enorme, inverosimile. Non solo perché ciò rende inadeguata e assurda ogni pena prevista dal sistema giuridico; ma anche perché l'enormità dei delitti fa sì che agli assassini, i quali proclamano la loro innocenza con ogni sorta di menzogne, si presti più fede che alle vittime, la cui verità ferisce il buon senso. I nazisti non ritennero neppure necessario tenere per sé tale scoperta. Hitler fece circolare milioni di copie del suo libro in cui affermava che per aver successo una menzogna deve essere enorme; il che non impedì alla gente di credere a lui e ai suoi

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seguaci quando ripetevano fino alla nausea che gli ebrei erano parassiti da sterminare”.

Il male radicale.

“In ogni caso l'immaginazione dell'angoscia ha il grande vantaggio di dissolvere le interpretazioni sofistico-dialettiche della politica, che sono tutte basate sulla superstizione secondo cui qualcosa di bene potrebbe scaturire dal male. Tali acrobazie dialettiche avevano almeno una parvenza di giustificazione finché il peggio che l'uomo poteva infliggere a un uomo era l'assassinio. Ma, come oggi sappiamo, l'assassinio è ancora un male limitato. L’assassino che uccide un uomo - un essere che in ogni caso deve morire - si muove ancora entro i confini del regno, a noi familiare, della vita e della morte; le due figure hanno invero una connessione necessaria, su cui si fonda la dialettica, anche se non ne è sempre consapevole. L’assassino lascia dietro di sé un cadavere e non pretende che la sua vittima non sia mai esistita; se ne cancella le tracce, sono le tracce della sua identità, e non il ricordo e il dolore delle persone che amavano la sua vittima; egli distrugge una vita, ma non distrugge il fatto dell'esistenza stessa. I nazisti, con la precisione ad essi peculiare, usavano registrare le loro operazioni nei Lager sotto la rubrica «Nacht und Nebel» (col favore della notte e della nebbia). La radicalità delle misure intese a trattare degli uomini come se non fossero mai esistiti, facendoli sparire nel senso letterale della parola, non è spesso avvertita a prima vista, perché il sistema nazista, come quello staliniano, non è uniforme, ma consiste di una serie di categorie in virtù delle quali le persone sono trattate in modo molto diverso. Nel caso dei nazisti queste diverse categorie si trovavano di solito nello stesso Lager, ma senza venire a contatto l'una con l'altra; spesso la separazione fra di loro era più rigorosa dell'isolamento dal mondo esterno. Così in Germania durante la guerra gli scandinavi, pur essendo nemici dichiarati del nazismo, erano trattati, in base a considerazioni razziali, in maniera completamente diversa dai membri di altri popoli. Quanto a questi, si distingueva fra quelli il cui «sterminio» doveva avvenire immediatamente, come gli ebrei, o in un prevedibile futuro, come i polacchi, i russi e gli ucraini, e quelli la cui sorte non era ancora contemplata dalle istruzioni su una simile «soluzione finale», come i francesi e i belgi. Nel regime staliniano si dovevano distinguere invece tre sistemi più o meno indipendenti. Anzitutto c'erano gli autentici gruppi di lavoro coatto che vivevano in relativa libertà ed erano condannati a periodi limitati di detenzione. Poi, c'erano i campi di concentramento in cui il materiale umano era sfruttato senza pietà e il tasso di mortalità era estremamente elevato, ma che erano organizzati essenzialmente per scopi di lavoro. E infine c'erano i campi di annientamento in cui gli internati venivano sistematicamente eliminati dalla

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denutrizione e dalla mancanza di cure. II vero orrore dei campi di concentramento e di sterminio sta nel fatto che gli internati, anche se per caso riescono a rimanere in vita, sono tagliati fuori dal mondo dei vivi più efficacemente che se fossero morti, perché il terrore impone l'oblio. Qui l'omicidio è impersonale quanto lo schiacciamento di una zanzara. Può darsi che uno muoia perché soccombe alla torture sistematiche o alla fame o perché il campo è sovraffollato e richiede l'eliminazione del materiale umano in eccesso. Può anche darsi, per contro, che, venendo a mancare nuovi carichi umani, il Lager corra il pericolo di spopolarsi e che venga quindi impartito l'ordine di ridurre il tasso di mortalità ad ogni costo. David Rousset ha intitolato il suo resoconto sul periodo trascorso in un Lager tedesco Les Jours de Notre Mort, ed invero è come se ci fosse la possibilità di rendere permanente lo stesso morire e di ottenere con la forza una condizione in cui vengono impedite con altrettanta efficacia sia la morte che la vita. E’ la comparsa del male radicale, precedentemente sconosciuto, che pone fine alle evoluzioni e al trasformarsi di qualità. Qui non ci sono criteri politici, storici o semplicemente morali, ma tutt'al più la constatazione che nella politica moderna è in gioco qualcosa che non dovrebbe mai rientrare nella politica, come noi usiamo intenderla, che essa è al bivio fra tutto e niente: tutto, un'indeterminata infinità di forme di convivenza umana, o niente, la distruzione dell'uomo in seguito alla vittoria del sistema dei campi di concentramento, una distruzione altrettanto inesorabile di quella che l'impiego della bomba all'idrogeno riserverebbe alla razza umana. Non ci sono paralleli con la vita nei campi di concentramento. Il suo orrore non può mai essere interamente percepito dall’immaginazione, perché rimane al di fuori della vita e della morte. Esso non può mai essere pienamente descritto, perché il superstite ritorna al mondo dei vivi che gli impedisce di credere completamente nelle sue esperienze passate. E’ come se egli avesse da raccontare la storia di un altro pianeta, perché gli internati sono simili a individui mai nati nel mondo dei vivi, dove nessuno presumibilmente dovrebbe sapere se essi sono ancora in vita o già morti. Perciò ogni parallelo crea confusione e distrae l'attenzione da quanto è essenziale. Il lavoro forzato, la proscrizione, la schiavitù sembrano tutti offrire per un attimo la base per utili raffronti, ma a un esame più accurato si rivelano troppo lontani e diversi”. Quando sul futuro scende la notte “In confronto del folle risultato finale, la società dei campi di concentramento, il processo con cui gli individui sono preparati e adattati a tali condizioni è trasparente e logico. La folle produzione in massa di cadaveri è preceduta dalla preparazione, storicamente e politicamente intelligibile, di cadaveri viventi. L’impeto e, quel che più conta, il tacito consenso a condizioni così inaudite sono i prodotto di quegli avvenimenti che, in un periodo di disintegrazione politica, hanno improvvisamente fatto di centinaia di migliaia, e poi di milioni, di uomini degli

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individui senza patria, senza stato, al bando della legge, indesiderati, economicamente superflui, socialmente gravosi. Ciò è potuto avvenire perché i diritti dell'uomo, che non erano mai stati filosoficamente giustificati né politicamente garantiti, hanno perso ogni validità nella loro forma tradizionale. Il primo passo decisivo verso il dominio totale è l'uccisione del soggetto di diritto che è nell'uomo. Ciò è stato fatto, da un lato, ponendo certe categorie di persone fuori della protezione della legge e costringendo, mediante la snazionalizzazione, il mondo non totalitario a riconoscere l'illegalità; e, dall'altro, ponendo i Lager al di fuori del sistema penale ordinario, scegliendo gli internati contro qualsiasi regola della procedura normale, che stabilisce una pena per un reato commesso. Così i criminali, che per altre ragioni sono un elemento essenziale nella società dei campi di concentramento, sono di solito inviati in un Lager solo dopo avere scontato la loro condanna. In ogni caso il regime fa sì che le categorie internate - ebrei, portatori di malattie, esponenti delle classi in via di estinzione - abbiano già perso la loro capacità di azione, sia normale che delittuosa. Propagandisticamente ciò significa che la «custodia protettiva» viene trattata come una «misura preventiva di polizia», cioè come una misura che priva gli individui della possibilità di agire. Le deviazioni da tale norma nella Russia staliniana devono essere attribuite alla disastrosa scarsità di prigioni e forse anche al desiderio, rimasto irrealizzato, di trasformare l'intero sistema giudiziario in un sistema di campi di concentramento. [...] Il passo successivo nella preparazione di cadaveri viventi era l'uccisione della personalità morale. Ciò era ottenuto impedendo, per la prima volta nella storia, il martirio: «Quante persone qui credono ancora che una protesta abbia importanza storica? Questo scetticismo è il vero capolavoro delle SS. La loro grande realizzazione. Esse hanno corrotto ogni solidarietà umana. Qui la notte è scesa sul futuro. Quando non rimangono testimoni, non ci può essere testimonianza. Dimostrare quando la morte non può più essere rimandata è un tentativo di dare alla morte un senso, di agire oltre la propria morte. Per aver successo un gesto deve avere un significato sociale. Ci sono qui centinaia di migliaia di noi, tutti viventi in assoluta solitudine. Ecco perché siamo sottomessi, qualunque cosa accada». [...] A questo attacco contro la personalità morale avrebbe ancora potuto opporsi la co scienza dell'uomo, che gli diceva che era meglio morire da vittima piuttosto che vivere da burocrate dell'assassinio. Il terrore totalitario ottenne il suo più terribile trionfo quando riuscì a precludere alla personalità morale la via d'uscita individualistica e a rendere le decisioni della coscienza assolutamente problematiche e ambigue. Quando un uomo si trova di fronte all'alternativa di tradire gli amici condannandoli a essere uccisi o di abbandonare alla morte la moglie e i figli, per cui è in ogni senso responsabile, quando persine il suicidio significherebbe l'immediato assassinio della sua famiglia, come può

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egli decidere? L’alternativa non è più fra bene e male, ma fra assassinio e assassinio. Chi potrebbe risolvere il dilemma morale della madre greca a cui i nazisti concessero di scegliere quale dei suoi tre figli doveva essere ucciso?”. L’uomo “amministrato” come una cosa “Dopo l'uccisione della persona morale e l'annientamento della persona giuridica, la distruzione dell'individualità riesce quasi sempre. Presumibilmente si troverà qualche legge della psicologia di massa capace di spiegare perché milioni di uomini si lasciarono portare incolonnati senza resistere nelle camere a gas, anche se tale legge non spiegherà altro che l'annullamento dell'individualità. È più significativo il fatto che anche quelli condannati individualmente a morte molto raramente tentarono di portare con sé uno dei loro carnefici, che non vi furono o quasi rivolte serie, che persino al momento della liberazione vi furono pochissimi massacri di SS. Perché distruggere l'individualità è distruggere la spontaneità, la capacità dell'uomo di dare inizio coi propri mezzi a qualcosa di nuovo che non si può spiegare con la reazione all'ambiente e agli avvenimenti. Allora non rimangono altro che sinistre marionette con volti umani, che si comportano tutte come il cane dell'esperimento di Pavlov, che reagiscono tutte con perfetta regolarità anche quando vanno incontro alla propria morte, e che si limitano a reagire. Questo è il vero trionfo del sistema: «Il trionfo SS esige che la vittima torturata si lasci condurre al capestro senza protestare... E non è per nulla. Non è gratuitamente, per puro sadismo, che le SS vogliono questa disfatta. Esse sanno che il sistema il quale riesce a distruggere la vittima prima che salga il patibolo... è incomparabilmente il migliore per tenere tutto un popolo in schiavitù. Nulla è più terribile di queste processioni di persone che vanno alla morte come manichini. Chi le vede si dice: per esser ridotti così, quale potenza deve nascondersi nelle mani dei padroni. E volta la testa, pieno d'amarezza, ma sconfitto» (Rousset). Se si prendono sul serio le ambizioni totalitarie e non ci si lascia ingannare dall'affermazione del buon senso che si tratta di utopie irrealizzabili, ci si accorge che la società di morenti instaurata nei campi è l'unica forma di società in cui sia possibile impadronirsi interamente dell'uomo. Quelli che aspirano al dominio totale devono liquidare ogni spontaneità, quale la mera esistenza dell'individualità continuerebbe a generare, e colpirla nelle sue manifestazioni più private, per quanto apolitiche e innocue queste possano sembrare. Il cane di Pavlov, l’esemplare umano ridotto alle reazioni più elementari, eliminabile o sostituibile in qualsiasi momento con altri fasci di reazioni che si comportano in modo identico, è il «cittadino» modello di uno stato totalitario, un cittadino che può essere prodotto solo imperfettamente fuori dei campi”. Una lucida follia “Il tentativo totalitario di rendere superflui gli uomini riflette l'esperienza delle masse moderne, costrette a constatare la loro superfluità su una terra sovrappopolata. La società dei morenti, in cui la punizione viene inflitta

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senza alcuna relazione con un reato, lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l'insensatezza. Eppure, nel contesto dell'ideologia totalitaria, nulla potrebbe essere più sensato e logico: se gli internati sono dei parassiti, è logico che vengano uccisi col gas; se sono dei degenerati, non si deve permettere che contaminino la popolazione; se hanno un'«anima da schiavi» (Himmler), non è il caso di sprecare il proprio tempo per cercare di rieducarli. Visti attraverso le lenti dell'ideologia, i campi hanno quasi il difetto di aver troppo senso, di attuare lo dottrina con troppa coerenza. Mentre distrugge tutte le connessioni di senso con cui normalmente si calcola e si agisce, il regime impone una specie di supersenso, che in realtà le ideologie avevano in mente quando pretendevano di aver scoperto la chiave della storia o la soluzione degli enigmi dell'universo. Al di sopra dell'insensatezza della società totalitaria è insediato, come su un trono, il ridicolo supersenso della sua superstizione ideologica. Le ideologie sono opinioni innocue, acritiche e arbitrarie solo finché nessuno vi crede sul serio. Una volta presa alla lettera la loro pretesa di validità totale, esse diventano il nucleo di sistemi logici in cui, come nei sistemi dei paranoici, ogni cosa deriva comprensibilmente e necessariamente, perché una prima premessa viene accettata in modo assiomatico. La follia di tali sistemi non consiste tanto nella prima premessa, quanto nella logicità con cui sono costruiti. La curiosa logicità di tutti gli ismi, la loro fede ingenua nell'efficacia redentrice della devozione caparbia senza alcun riguardo per i vari fattori specifici, racchiude già in sé i primi germi del disprezzo totalitario per la realtà e la fattualità. [...] L’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell'esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell'ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana che, così com' è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n'è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. E in gioco la natura umana in quanto tale; e anche se gli esperimenti compiuti, lungi dal cambiare l'uomo, sono riusciti soltanto a distruggerlo, non si devono dimenticare le limitazioni di tali esperimenti, che richiederebbero il controllo dell'intero globo terrestre per produrre risultati conclusivi. Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma, nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e

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che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire. Come le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell'oblio non sono più «umane» agli occhi dei loro carnefici, così questa nuova specie di criminali sono a di là persine della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana. E’ conforme alla nostra tradizione filosofica non poter concepire un «male radicale», e ciò vale tanto per la teologia cristiana, che ha concesso persine al demonio un'origine celeste, quanto per Kant, l’unico filosofo che, nella terminologia da lui coniata, deve avere perlomeno sospettato l'esistenza di questo male, benché l'abbia immediatamente razionalizzato nel concetto di malvolere pervertito, spiegabile con motivi intelligibili. Quindi non abbiamo nulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio da noi conosciuti. Un'unica cosa sembra certa: possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui. I governanti totalitari sono convinti della propria superfluità non meno di quella altrui; e i carnefici sono così pericolosi perché gli è indifferente vivere o morire, esser nati o non aver mai visto la luce. Il pericolo delle invenzioni totalitarie è che oggi, con la popolazione e lo sradicamento in rapido aumento dovunque, intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. E’ come se le tendenze politiche, sociali ed economiche dell'epoca congiurassero segretamente con gli strumenti escogitati per maneggiare gli uomini come cose superflue. La tentazione implicita è bene intesa dal buon senso utilitario delle masse, che nella maggior parte dei paesi sono troppo disperate per aver ancora paura della morte. C'è da temere che i campi di concentramento e le camere a gas, che rappresentano indubbiamente la soluzione più sbrigativa del problema del sovrappopolamento, della superfluità economica e dello sradicamento sociale, rimangano non solo di monito, ma anche di esempio. Le soluzioni totalitarie potrebbero sopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazioni destinate a ripresentarsi ogni qual volta appare impossibile alleviare la miseria politica, sociale od economica in maniera degna dell’uomo

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