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Canto I D. afferma che materia del suo canto sarà la visione del paradiso, o almeno ciò che la memoria può ricordarne. Perciò occorre invocare l'intervento di Apollo, affinché aggiunga il suo aiuto a quello delle Muse, che hanno soccorso D. nella composizione dell'Inferno e del Purgatorio. Solo così egli cingerà un giorno la corona di poeta, consapevole di aprire una strada sulla quale lo potranno seguire anche miglior voci. E' l'alba quando D. imita Beatrice e guarda verso il sole. Poi torna ad osservare la donna: in questo momento si opera il trasumanar, cioè il suo innalzarsi oltre ogni limite umano, poiché inizia l'ascesa verso i cieli attraverso la sfera dell'aria e del fuoco. Le sfere celesti, ruotando, provocano un suono armonioso, che stupisce il poeta, già meravigliato dal bagliore del sole, più luminoso del solito. Beatrice gli rivela che stanno salendo verso i cieli. Tuttavia, un dubbio tormenta D.: come il suo corpo può passare attraverso le regioni dell'aria e del fuoco? Beatrice esamina la presenza, in ogni essere creato, di un'inclinazione naturale che lo porta a tendere ad una meta: fine ultimo dell'uomo è raggiungere l'Empireo, verso cui sale, dopo aver rimosso l'ostacolo del peccato. Canto II D. ammonisce i suoi lettori: solo chi è dotato di intelligenza e di cultura lo potrà seguire. Sale al cielo della Luna. La superficie lunare appare luminosa, ma D. sa che è cosparsa di macchie. Beatrice nega ogni valore alla credenza popolare che vedeva, in quelle macchie, la figura di Caino gravato da un fascio di spine. In seguito, dimostra che non è valida la teoria scientifica secondo cui causa di quelle zone oscure è la maggiore o minore densità della materia costituente la luna. Dopo aver convinto D. che la ragione umana, se non sorretta dalla fede, è limitata, Beatrice spiega che le zone più o meno scure sulla superficie degli astri dipendono dall'influenza dei cori angelici. Infatti, ad una maggiore o minore letizia dell'intelligenza angelica corrisponde, nel cielo che da essa riceve le sue qualità, una maggiore o minore luminosità. Canto III

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Canto I

D. afferma che materia del suo canto sarà la visione del paradiso, o almeno ciò che la memoria può ricordarne. Perciò occorre invocare l'intervento di Apollo, affinché aggiunga il suo aiuto a quello delle Muse, che hanno soccorso D. nella composizione dell'Inferno e del Purgatorio. Solo così egli cingerà un giorno la corona di poeta, consapevole di aprire una strada sulla quale lo potranno seguire anche miglior voci. E' l'alba quando D. imita Beatrice e guarda verso il sole. Poi torna ad osservare la donna: in questo momento si opera il trasumanar, cioè il suo innalzarsi oltre ogni limite umano, poiché inizia l'ascesa verso i cieli attraverso la sfera dell'aria e del fuoco. Le sfere celesti, ruotando, provocano un suono armonioso, che stupisce il poeta, già meravigliato dal bagliore del sole, più luminoso del solito. Beatrice gli rivela che stanno salendo verso i cieli. Tuttavia, un dubbio tormenta D.: come il suo corpo può passare attraverso le regioni dell'aria e del fuoco? Beatrice esamina la presenza, in ogni essere creato, di un'inclinazione naturale che lo porta a tendere ad una meta: fine ultimo dell'uomo è raggiungere l'Empireo, verso cui sale, dopo aver rimosso l'ostacolo del peccato.

Canto II

D. ammonisce i suoi lettori: solo chi è dotato di intelligenza e di cultura lo potrà seguire. Sale al cielo della Luna. La superficie lunare appare luminosa, ma D. sa che è cosparsa di macchie. Beatrice nega ogni valore alla credenza popolare che vedeva, in quelle macchie, la figura di Caino gravato da un fascio di spine. In seguito, dimostra che non è valida la teoria scientifica secondo cui causa di quelle zone oscure è la maggiore o minore densità della materia costituente la luna.

Dopo aver convinto D. che la ragione umana, se non sorretta dalla fede, è limitata, Beatrice spiega che le zone più o meno scure sulla superficie degli astri dipendono dall'influenza dei cori angelici. Infatti, ad una maggiore o minore letizia dell'intelligenza angelica corrisponde, nel cielo che da essa riceve le sue qualità, una maggiore o minore luminosità.

Canto III

Nel cielo della Luna appaiono i primi beati: i loro lineamenti sono così tenui che D. pensa di trovarsi di fronte a immagini riflesse. Queste anime godono del grado di beatitudine più basso, perché non hanno adempiuto completamente i voti offerti a Dio. Il poeta si rivolge a uno spirito che sembra desideroso di parlare con lui e chiede di conoscere il suo nome e la condizione in cui si trovano le altre anime. Risponde Piccarda Donati, che spiega che ogni spirito beato è perfettamente felice, poiché la letizia che Dio infonde è proporzionata alla capacità di godere di ciascuna anima. Se i beati del cielo della Luna desiderassero trovarsi in una sfera superiore, questo loro desiderio contrasterebbe con la volontà di Dio. Ma la beatitudine non è altro che volere ciò che Dio vuole. Poi Piccarda accenna alla propria vita e indica un’altra anima costretta, come lei, ad abbandonare il chiostro: è Costanza d’Altavilla, moglie

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di Enrico VI e madre di Federico II. Dopo che Piccarda, cantando "Ave, Maria", scompare, D. si volge verso Beatrice.

Canto IV

Beatrice chiarisce due dubbi di D. Il primo riguarda le anime che non hanno adempiuto completamente i voti: se esse hanno dovuto cedere alla violenza altrui, come possono essere considerate responsabili? Il secondo dubbio nasce dalla presenza dei beati nei singoli cieli: le anime tornano nel cielo da cui sono venute, come afferma Platone? Beatrice affronta per primo questo dubbio, perché lo ritiene più dannoso. La vera sede dei beati è l’Empireo: essi appaiono nei diversi cieli, affinché Dante possa avere una prova sensibile dei loro gradi di beatitudine. Per spiegare la responsabilità delle anime che hanno mancato ai loro voti, Beatrice distingue una volontà assoluta e una volontà relativa. La prima non vuole in alcun modo il male, la seconda si piega ad un male per evitarne uno peggiore: così fecero gli spiriti del primo cielo. Dopo aver lodato Beatrice, D. le rivolge una nuova domanda.

Canto V

Beatrice risponde alla domanda di D. sulla possibilità di compensare i voti non adempiuti con altre opere buone. Con il voto l’uomo sacrifica a Dio il dono più grande, il libero arbitrio. Non può, dunque, usare nuovamente della libertà che egli ha offerto a Dio. Per prevenire una nuova domanda di D. (perché, allora, la Chiesa può dispensare dal voto?), Beatrice distingue nel voto la materia e il patto. La prima può essere mutata, ma solo con il permesso della Chiesa e solo se la nuova offerta è superiore. Il secondo non può essere cancellato se non quando il voto è stato adempiuto. Da qui deriva la necessità, per i cristiani, di riflettere prima di offrire voti. Beatrice e D. ascendono poi al cielo di Mercurio. Uno spirito si rivolge al poeta, dichiarandosi pronto a soddisfare ogni domanda. D. gli chiede il nome e il motivo per cui è in questo cielo.

Canto VI

Giustiniano, dopo aver raccontato la sua vita, rievoca l’epos di Roma e del suo impero. La narrazione inizia da quando Pallante, figlio di Evandro re del Lazio, morì combattendo in aiuto di Enea. Prosegue con le vicende del periodo dei sette re e dell’età repubblicana, quando Roma estese le sue conquiste. Dopo aver accennato alle guerre civili, Giustiniano presenta Cesare, che diede a Roma il dominio del mondo. La terra, unita e pacificata, ricevette, sotto Tiberio, la venuta del Messia. L'imperatore Tito poi vendicò la morte dell’Uomo-Dio, distruggendo Gerusalemme. Il segno dell’aquila in mano a Carlo Magno difese la Chiesa di fronte ai Longobardi.

Giustiniano termina ammonendo i guelfi e i ghibellini a non asservire ai propri interessi l’aquila. Dopo aver spiegato che nel cielo di Mercurio si trova chi desiderò

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conseguire la fama nel mondo, indica Romeo di Villanova, ministro di Berengario IV conte di Provenza, costretto all’esilio dalle accuse di invidiosi.

Canto VII

Giustiniano si allontana cantando, seguito dagli altri beati, mentre D. è tormentato da un dubbio: perché Dio ha scelto la morte del Figlio per riscattare l'umanità dal peccato? E perché questa morte, se serviva per cancellare la colpa dell'uomo, fu vendicata con la distruzione di Gerusalemme? Beatrice comprende anche senza parole e cerca di spiegargli.

L'uomo poteva ottenere il perdono dopo il peccato originale o per azione di Dio o propria. Poiché l'offesa fatta a Dio era infinita, l'uomo, da solo, non avrebbe potuto riparare. Dio avrebbe potuto perdonarlo solo per misericordia: invece, volle offrire in sacrificio suo Figlio. Dunque nella natura umana di Cristo fu punita tutta l'umanità, ma gli uomini che alzarono la mano contro la natura divina commisero empietà: perciò la distruzione di Gerusalemme fu giusta. Beatrice, infine, spiega la corruttibilità degli elementi generati da cause seconde e l'incorruttibilità di ciò che è creato da Dio.

Canto VIII

D. e Beatrice ascendono al cielo di Venere, dove è chi in vita sentì intensamente l’impulso amoroso. Si fa avanti il figlio di Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, amico di D. Il principe parla delle terre di cui sarebbe diventato sovrano, se non fosse morto giovane: la Provenza e il Napoletano. Anche la Sicilia sarebbe stata sua, se la casata angioina non avesse provocato la rivolta dei Vespri Siciliani. Accenna, infine, al rapace governo esercitato a Napoli dal fratello Roberto. Dante gli chiede come i figli possano essere di indole diversa da quella dei padri. I cieli - spiega Carlo Martello - influiscono sugli uomini secondo fini preordinati da Dio, tuttavia diffondono la loro virtù a caso. Altrimenti, le indoli umane sarebbero tutte uguali; essendo l’uomo creato per vivere in un organismo sociale, dove i compiti sono molteplici, occorre che ciascuno sappia ricoprire il proprio ufficio. Carlo Martello rimprovera il mondo che non rispetta le attitudini naturali dei singoli.

Canto IX

Si conclude l’incontro con Carlo Martello, che preannuncia le sciagure che colpiranno la casa angioina. S'avanza verso D. Cunizza da Romano, sorella di Ezzelino III, tiranno della Marca Trivigiana. Cunizza accenna alla corruzione della regione trevigiana e prevede che Padova, Treviso, Feltre pagheranno le loro colpe. Quando riprende con i beati la danza, D. si rivolge ad un’anima presentatagli dalla donna: è il trovatore Folco da Marsiglia, che divenne vescovo di Tolosa e partecipò alla crociata contro gli Albigesi. Egli rivela che è nel terzo cielo anche Raab, la meretrice di Gerico la quale aiutò il condottiero ebraico Giosuè nella conquista della città. Folco chiude

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con un’invettiva contro Firenze, rea di aver coniato la moneta d’oro, e contro la Chiesa.

Canto X

D. e Beatrice ascendono al cielo del Sole. Dodici spiriti sapienti, danzando, si dispongono a corona intorno al poeta e alla sua guida. Da una luce si alza una voce che si dichiara pronta a soddisfare ogni desiderio del poeta. E' il domenicano san Tommaso d’Aquino, che condanna la corruzione del proprio ordine. Egli rivela i nomi dei suoi dodici compagni. La rassegna comincia con il teologo tedesco Alberto Magno e si chiude con Sigieri di Brabante, pensatore averroistico, accusato di eresia.

Canto XI

San Tommaso chiarisce un dubbio sorto in D. per una sua affermazione: "u’ ben s’impingua se non si vaneggia" (X 96). Spiega che Dio dispose due guide, Francesco e Domenico, fondatori dei due ordini monastici del secolo XII. Tommaso celebra Francesco d’Assisi. Ricorda come Francesco rinunci ai beni terreni, come a Roma ottenga l’approvazione del proprio ordine da Innocenzo III e poi da Onorio III, come in Oriente cerchi di diffondere la parola di Cristo, come sul monte della Verna riceva, due anni prima di morire, le stimmate. Tommaso termina con una rampogna all’ordine domenicano, che ha dimenticato il suo voto di povertà.

Canto XII

Dopo che san Tommaso ha terminato, la corona di spiriti sapienti riprende a ruotare intorno a D. e a Beatrice. Prima che essa abbia completato il suo giro, sopraggiunge una seconda corona, che si dispone intorno alla prima. Da essa si alza la voce del francescano san Bonaventura, che celebra Domenico. Ricorda la nascita e i primi prodigi che accompagnarono la vita di Domenico, che fu spinto a studi filosofici e teologici per combattere le eresie. Bonaventura constata che i francescani sono tormentati da discordie. Infine, ricorda i nomi dei dodici spiriti della seconda corona.

Canto XIII

Le due corone danzano intorno a D. e a Beatrice, elevando un inno di lode alla Trinità. Dopo, riprende a parlare Tommaso, che risolve il secondo dubbio di Dante, relativo alle parole da lui pronunciate per presentare Salomone: "a veder tanto non surse il secondo" (X 114). Affermando che nessuno ha uguagliato la sapienza di Salomone, Tommaso intendeva riferirsi alla saggezza nel governare secondo giustizia. Solo in Adamo e in Cristo fu infusa tutta la sapienza che la natura umana poteva possedere. Sono perfette solo le creature generate da Dio direttamente (come Adamo e Cristo), non quelle che Dio produce attraverso i cieli. Chi si stupisce di veder salvo Salomone, dopo che nella Bibbia fu rimproverato per i suoi peccati,

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sbaglia, perché pretende di sostituirsi al giudizio di Dio. Gli uomini - conclude Tommaso - dovrebbero essere più cauti nel formulare giudizi, perché vedono solo le azioni esteriori, mentre Dio conosce ciò che è nascosto nel cuore.

Canto XIV

Beatrice chiede agli spiriti sapienti di risolvere un dubbio di D. sulla luminosità dei beati dopo la risurrezione della carne. Salomone afferma che non solo essi conserveranno la luce che li fascia ora, ma che i loro occhi corporei potranno sopportare tale splendore. Intorno alle due corone appare una terza ghirlanda, che abbaglia D. Quando risolleverà gli occhi, si accorgerà di essere giunto con Beatrice nel cielo di Marte. Gli spiriti di chi ha combattuto per la fede sono disposti su due liste luminose, che formano una croce greca. Le anime si muovono lungo i bracci della croce, scintillando con maggiore o minore intensità. Dalla croce esce un canto: D. ne percepisce la dolcezza, non il significato. Le uniche parole che giungono al suo orecchio, "Resurgi" e "Vinci", indicano che gli spiriti stanno esaltando Cristo come trionfatore sulla morte e sul peccato.

Canto XV

I beati interrompono il canto perché Dante possa indirizzare loro le sue domande. Intanto una luce scende ai piedi della croce e si rivolge al poeta con tono affettuoso: è Cacciaguida, trisavolo di D., il quale non riesce ad afferrare il senso delle sue parole. Solo poi il discorso di Cacciaguida si chiarisce. Poiché D. gli ha chiesto di conoscere il suo nome, l’anima glielo rivela. Subito dopo descrive l’antica Firenze, opponendovi la Firenze attuale, corrosa dall’immoralità. Cacciaguida ricorda i retti costumi dei Fiorentini antichi. Dopo aver ricordato i fratelli, Moronto ed Eliseo, e la moglie, parla della propria vita: entrò al servizio dell’imperatore Corrado III, dal quale fu fatto cavaliere; lo seguì nella seconda crociata e morì combattendo contro i Saraceni.

Canto XVI

D. rivolge a Cacciaguida alcune domande: chi furono i comuni antenati, in quale periodo il trisavolo visse, quali furono le caratteristiche di Firenze antica e quali le famiglie più ragguardevoli. Cacciaguida rivela di essere nato alla fine del secolo XI, aggiungendo che le case della sua famiglia si trovavano dentro la prima cerchia di mura. La popolazione fiorentina era meno numerosa, ma di sangue più puro. Ora, è contaminata da famiglie venute dal contado. Molti feudatari sono stati costretti a trasferirsi in città. Origine di questi sconvolgimenti è l’intervento della Chiesa a danno dell’lmpero. Questa mescolanza di famiglie porterà ad un aumento delle lotte civili e alla decadenza delle città. Infine, Cacciaguida enumera molte famiglie della Firenze antica e ricorda gli Adimari e i Buondelmonti, il cui dissidio causò le prime divisioni della città.

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Canto XVII

D. chiede al trisavolo quale sorte gli riserverà il futuro: già molte volte, ha udito oscure profezie che gli annunciavano dolore ed esilio. Così risponde Cacciaguida: D. dovrà abbandonare Firenze a causa di Bonifacio VIII. La colpa delle discordie che dilaniano Firenze sarà attribuita al partito vinto, ma presto il castigo divino si abbatterà sui Neri e sul pontefice. D. proverà i dolori della povertà e di una vita randagia e perché abbandonerà i suoi compagni d’esilio, incapaci e infidi. Troverà rifugio a Verona: Bartolomeo e Cangrande della Scala diventeranno suoi protettori.

D., allora, confessa una sua incertezza: se racconterà ciò che ha visto nell’inferno e nel purgatorio, molti gli diventeranno nemici. Ma - risponde Cacciaguida - non dovrà temere, perché i suoi versi costituiranno per tutti un vital nutrimento. Perché gli uomini credono più facilmente agli esempi e alle argomentazioni evidenti, sono state mostrate a D. le anime di personaggi famosi.

Canto XVIII

Beatrice esorta D. a non pensare all’esilio e a sperare nella giustizia divina; poi, lo invita a rivolgere l’attenzione a Cacciaguida, che gli presenta Giosuè e Giuda Maccabeo, Carlo Magno e il paladino Orlando, Guglielmo d’Orange e lo scudiero Renoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo. Dopo che Cacciaguida ha ripreso il suo posto nella croce, D. e Beatrice ascendono al cielo di Giove. Le anime di chi perseguì la giustizia, disponendosi come lettere alfabetiche, scrivono la frase: "Diligite iustitiam qui iudicatis terram". Altri spiriti scendono a disporsi nell’ultima M della scritta e la lettera si trasforma in aquila, simbolo dell’Impero. Il canto termina con un'invettiva di D. contro la cupidigia degli uomini di Chiesa.

Canto XIX

Alle anime che hanno osservato sulla terra la giustizia e la misericordia, D. chiede del mistero della predestinazione. L’aquila dichiara l’imperscrutabilità dei decreti divini. Perché sono condannati alla dannazione coloro che, non per colpa propria, non hanno mai conosciuto la fede e sono morti senza battesimo? La risposta è una sola: Dio non può volere il male e l’ingiustizia. Gli uomini devono essere paghi di questa verità: ciò che Dio decide avviene secondo giustizia e amore: è più facile che entri nel regno dei cieli un pagano che visse secondo natura e ragione che non un cristiano che non ubbidì ai comandamenti. Infine, D. leva un'invettiva contro i malvagi reggitori d’Europa. Nel giorno del Giudizio Universale la loro disonestà e la loro corruzione appariranno scritte a piene lettere nel libro della giustizia divina.

Canto XX

Le anime riprendono i loro canti, finché dal collo dell’aquila sale un mormorio. Essa indica a D. gli spiriti che formano il suo occhio e che godono del più alto grado di beatitudine: Davide, l’autore dei Salmi; Traiano; il re ebraico Ezechia che, in punto di

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morte, ottenne da Dio di vivere per altri quindici anni; Costantino, che trasferì la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio; nella parte bassa dell’arco sopracciliare Guglielmo II, re di Sicilia e di Puglia; infine il guerriero troiano Rifeo. A Dante, stupito nel vedere due pagani (Traiano e Rifeo), l’aquila spiega che il primo fu salvato dalle preghiere di san Gregorio Magno e il secondo perché ricevette da Dio il dono di conoscere la futura redenzione.

Canto XXI

L’ascesa al cielo di Saturno avviene dopo che l’aquila ha terminato il discorso. Per la prima volta Beatrice non rivela con il sorriso il passaggio, perché la potenza di tale sorriso avrebbe abbagliato D. Appare una scala luminosa: le anime scendono e salgono con ritmo incessante; una invita D. a parlare. Il poeta vuol sapere perché proprio questo spirito si è fermato accanto a lui e perché in questo cielo i beati non cantano. L'anima che rivelerà d'essere san Pier Damiano sostiene che non solo nessuna mente umana, ma nessuna anima né i Serafini potranno mai spiegare i motivi che guidano il Creatore. Nessuno, quindi, potrà mai sapere perché solo date anime sono destinate a parlare con D. I beati di questo cielo tacciono per non sopraffare le deboli facoltà di D. Il santo, infine, parla della propria vita, che trascorse nella solitudine nell’eremo camaldolese di Fonte Avellana, finché fu nominato cardinale. Contro la decadenza degli ordini monastici e la corruzione della Chiesa lancia un'invettiva, alla quale i beati rispondono con un grido.

Canto XXII

Beatrice spiega a D. che il grido delle anime è una preghiera per invocare la punizione divina sulla corruzione della Chiesa. Uno dei beati, san Benedetto da Norcia, fondatore del monachesimo occidentale nel VI secolo, dopo aver ricordato l'abbazia di Montecassino da lui fondata, indica a D. due monaci, Macario e Romualdo. Quando D. gli chiede di poterlo vedere nella sua figura umana, il beato risponde che ciò sarà possibile solo nell’Empireo. Inizia un'invettiva contro la corruzione dei suoi seguaci, che hanno abbandonato la regola. Dopo che i beati sono ascesi all’Empireo, Beatrice spinge D. a salire la scala. I due entrano così nel cielo delle stelle fisse e si fermano nella costellazione dei Gemelli, sotto il cui influsso D. è nato. Invocata la protezione di queste stelle, D., esortato da Beatrice, guarda verso il basso, per misurare il cammino compiuto. Gli appaiono così sette pianeti e, in fondo, poco più grande d’un punto, la terra.

Canto XXIII

Volta verso est, Beatrice si prepara ad assistere al trionfo di Cristo e dei santi. Cristo appare come un sole che illumina mille altri splendori. Abbagliato, il poeta cade in un mistico rapimento, dal quale lo riscuote Beatrice per invitarlo a guardarla in tutta la sua bellezza: ormai D. è abbastanza forte. Appare la Vergine Maria, circondata dagli apostoli. Mentre Cristo risale verso l’Empireo, una luce scende per disporsi, come

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cerchio, intorno alla Vergine. E’ l’arcangelo Gabriele, che innalza un inno di lode a Maria, imitato da tutti i beati. Anche la Vergine ascende all’Empireo, mentre la luce dei singoli beati si protende verso l’alto. Il "Regina coeli" chiude quest’ultima visione.

Canto XXIV

Alle anime Beatrice chiede di rivelare a D. una parte della sapienza divina che possiedono. Poiché san Pietro s'è fatto incontro ai due, Beatrice lo prega di interrogare D. intorno alla prima virtù teologale, la fede. Il poeta inizia l'esame, definendo la fede. Pietro lo esorta a dichiarare se possiede o meno la fede. Ottenuta una risposta affermativa, il Santo lo interroga intorno alle fonti dalle quali deriva la prima virtù teologale. Dopo che i beati hanno innalzato "Te Deum laudamus", san Pietro esige una solenne professione di fede, al termine della quale manifesta la propria soddisfazione, circondando per tre volte il poeta con la sua luce e benedicendolo.

Canto XXV

Dal gruppo dei beati esce san Giacomo apostolo, che interroga D. intorno alla speranza. Tre sono i quesiti che il Santo gli sottopone: che cos’è la speranza, in che misura la possiede, quali sono le fonti dalle quali l’ha ricevuta. Alla seconda domanda risponde Beatrice: nessun appartenente alla Chiesa militante spera con più intensità di D. Agli altri due quesiti risponde D.: ogni affermazione si fonda su salde conoscenze teologiche. Si sofferma su ciò che promette la seconda virtù: la risurrezione del corpo. Concluso il secondo esame, una voce dall’alto canta il versetto di un salmo davidico ("Sperent in te") e i beati rispondono in coro. Infine, appare l’apostolo san Giovanni, che interroga D. sulla carità. Prima, nega di trovarsi in paradiso anche con il corpo.

Canto XXVI

D. è interrogato da san Giovanni intorno alla carità. Principio e fine del suo amore - risponde il poeta - è Dio. L’uomo è portato, naturalmente, ad amare ciò che è buono e il suo amore è tanto più grande quanto più è perfetto il bene verso il quale è diretto. Dio è il bene supremo: dunque a Lui è dovuto ogni amore. Queste sono le conclusioni di Aristotele e questo è il comandamento della Bibbia. D. dichiara che la sua carità trova alimento anche dall’esistenza del mondo e delle creature, dal sacrificio di Cristo, dalla speranza della beatitudine eterna. Mentre tutti i beati intonano un inno di lode a Dio, D. riacquista la vista e si accorge che accanto a Pietro, Giacomo e Giovanni è comparso Adamo, la cui identità gli è rivelata da Beatrice. Egli risponde a quattro quesiti: quanto tempo è trascorso dalla creazione dell’uomo, per quanto egli è rimasto nel paradiso terrestre, quale è stata la natura del peccato d’origine, quale la lingua creata e usata dal primo uomo.

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Canto XXVII

I beati innalzano un inno di lode alla Trinità. San Pietro, la cui luce rosseggia, inizia un'invettiva contro Bonifacio VIII, che ha trasformato Roma in una cloaca di vizi. La Chiesa non fu fondata con il sangue di Cristo e allevata con quello dei martiri per diventare uno strumento di arricchimento in mano a pontefici indegni, né per provocare lotte fra cristiani. Le chiavi pontificie devono essere simbolo dell’autorità spirituale del papato, non insegna degli eserciti papali. L’immagine di san Pietro impressa sui sigilli dei papi non può essere adoperata per sigillare privilegi e benefici acquistati con la simonia. Tuttavia, presto la Provvidenza porrà fine a questa situazione. I beati risalgono all’Empireo. D. e Beatrice ascendono al Primo Mobile, al di sopra del quale si trova l’Empireo. Dopo avere spiegato i caratteri di questa sfera, Beatrice rivolge un'invettiva contro l’umanità, che mira solo ai beni terreni, e preannuncia il prossimo rimedio alla corruzione.

Canto XXVIII

Nel Primo Mobile appare a D. un punto luminosissimo (Dio), intorno al quale si muovono nove cerchi concentrici (i cori angelici). Questi cerchi aumentano in grandezza e diminuiscono in splendore. Tale fatto suscita in lui un dubbio: i cieli, quanto più si allontanano dalla terra, tanto più appaiono vasti, mentre, nei cerchi angelici, quello più vicino a Dio è il più piccolo. Poiché dalle intelligenze angeliche è regolato il moto dei cieli, come può essere spiegata questa contraddizione? Nelle sfere fisiche - chiarisce Beatrice - la grandezza è in proporzione della potenza o "virtù" infusa in esse dalle intelligenze angeliche: perciò il cielo più grande è quello più dotato di virtù e, quindi, più capace di influssi salutari. Occorrerà che i cieli più vasti siano governati dalle intelligenze angeliche più dotate di virtù. Per questo al cielo più grande, il Primo Mobile, corrisponderà il cerchio angelico più vicino a Dio: quello dei Serafini, il più piccolo di tutti. Poi Beatrice enumera i nove cori angelici, raccogliendoli in tre gerarchie: Serafini - Cherubini - Troni, Dominazioni - Virtù - Potestà, Principati - Arcangeli - Angeli.

D. dichiara di accogliere, riguardo alle intelligenze celesti, la disposizione fissata da Dionigi l’Areopagita, respingendo quella di Gregorio Magno.

Canto XXIX

Beatrice espone i problemi riguardanti le gerarchie angeliche: dove, quando, come furono creati gli angeli; quando e perché alcuni si ribellarono; quale fu il premio per quelli rimasti fedeli; perché sbaglia chi attribuisce agli angeli le facoltà umane dell’intelligenza, volontà e memoria; il numero sterminato degli angeli e la diversa intensità con la quale godono la visione di Dio. La creazione degli angeli fu un atto gratuito dell’amore divino; le intelligenze angeliche, i cieli e la materia prima furono creati da Dio istantaneamente e simultaneamente. Poi, Beatrice diventa polemica contro i cattivi predicatori, che hanno sostituito alle verità della fede cristiana le loro inutili ciance, rappresentati dal frate che predica dal pulpito, mentre il diavolo si

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annida nel bacchetto del suo cappuccio. Il canto si chiude con la visione di Dio che, pur rispecchiandosi in migliaia di creature angeliche, conserva la sua eterna unità.

Canto XXX

Scomparsi alla vista il punto luminoso e i nove cerchi, D. guarda Beatrice, la cui bellezza è indescrivibile. Beatrice rivela che sono ascesi all’Empireo, dove ha la sua sede Dio e godono l’eterna beatitudine le due "milizie" del cielo, gli angeli e i beati, questi ultimi con lo stesso aspetto che avranno nel giorno del Giudizio Universale. D., riacquistando la vista, si accorge che ora è capace di sopportare anche la luce più fulgida. Dapprima osserva un fiume di luce tra due rive fiorite. Dal fiume escono faville che, posatesi su fiori, tornano nell'acqua. Questa visione - spiega Beatrice - è solo una anticipazione di ciò che è realmente. Quando il suo sguardo ha preso nuovo vigore, il poeta vede che quel fiume ha assunto una forma circolare e che i fiori sono i beati e le faville gli angeli. L’Empireo è ora un anfiteatro. Su un seggio vuoto D. scorge una corona: è il posto riservato ad Arrigo VII, l’imperatore che tenterà di porre termine alle lotte politiche che tormentano l’Italia e che troverà nel pontefice Clemente V il suo avversario.

Canto XXXI

Mentre gli eletti, seduti sui loro seggi, contemplano Dio, gli angeli volano tra i beati e Dio. Percorrendo i gradini dell’anfiteatro, D. scorge i volti dei beati, dignitosi e sereni. Volendo parlare a Beatrice, si volge verso di lei, ma trova san Bernardo da Chiaravalle. Il Santo gli spiega che Beatrice è tornata al suo seggio, il terzo, a partire dall’alto, dopo quello della Vergine e di Eva, accanto a quello di Rachele. Dopo che D. ha innalzato a Beatrice una preghiera di ringraziamento, san Bernardo lo invita a guardare di nuovo tutto l’Empireo, per prepararsi alla visione di Dio. D. contempla anzitutto la Vergine, nel punto più alto della candida rosa, circondata dagli angeli.

Canto XXXII

San Bernardo comincia a spiegare l’ordinamento della candida rosa e la disposizione dei beati. Il seggio più alto è occupato dalla Vergine, ai cui piedi si trova Eva. Nel terzo scanno siede Rachele con Beatrice. Seguono Sara, Rebecca, Giuditta, Rut e altre donne del Vecchio Testamento. Esse costituiscono così una lunga fila che taglia verticalmente l’anfiteatro celeste: a sinistra, dove tutti i seggi sono occupati, si trovano i credenti in Cristo venturo; a destra, dove appaiono ancora posti vuoti, sono i credenti in Cristo venuto. In alto, nella parte opposta al seggio della Vergine, siede san Giovanni Battista. Sotto di lui appaiono san Francesco, san Benedetto, sant’Agostino e altri teologi e fondatori di ordini. Le due parti dell’Empireo saranno occupate da uno stesso numero di beati. La candida rosa appare divisa orizzontalmente in due parti: mentre nella zona superiore appaiono le anime salve per merito proprio, in quella inferiore si trovano le anime dei bambini che morirono prima della maturazione. Essi, da Adamo ad Abramo, ricevettero la salvezza grazie

Page 11: Web viewCanto I. D. afferma che materia del suo canto sarà la visione del paradiso, o almeno ciò che la memoria può ricordarne. Perciò occorre invocare l

alla fede dei loro genitori; da Abramo a Gesù grazie alla circoncisione; dopo Cristo divenne necessario il battesimo. San Bernardo invita D. a guardare la Vergine, mentre l’arcangelo Gabriele ripete: "Ave Maria, gratia plena". Il Santo riprende poi a presentare i beati, indicando quelli che occupano i seggi più vicini a Maria. Infine, afferma che, prima di guardare Dio, occorre invocare l’aiuto della Vergine.

Canto XXXIII

San Bernardo innalza alla Vergine un’ardente preghiera, nella quale invoca la protezione per D. Questi, che ha potuto conoscere le diverse condizioni delle anime, è pronto a contemplare Dio, purché la Vergine lo liberi da ogni residuo impedimento terreno. San Bernardo conclude chiedendo a Maria di conservare la purezza di cuore che D. possiede, mentre i beati ne accompagnano le parole con le mani giunte. Gli occhi della Vergine, fissi sul Santo, dimostrano che la sua supplica è stata accolta. Poi si volgono verso Dio. San Bernardo, prima di scomparire, invita D. a guardare verso l’alto. Dopo aver affermato che non ricorda quasi nulla della visione, D. rivela di aver visto l’essenza divina come una luce intensa. Nel profondo di questa luce tutto ciò che è diviso nell’universo, appare fuso in unità. Pur riconoscendo che le sue parole non bastano ad esprimere quanto egli, in un attimo, ha potuto contemplare, descrive il momento in cui i suoi occhi videro, sotto forma di tre cerchi uguali, ma di colore diverso, il mistero della Trinità. Nel secondo cerchio - il Figlio - appare poi un’immagine umana, per significare il mistero dell’incarnazione. A questo punto la mente del Poeta, giunta alla soglia del mistero più grande e incapace di proseguire con le sole sue forze, è illuminata dalla grazia divina, che le concede l’intuizione del mistero dell’incarnazione.