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Professoressa Loredana Chines Petrarca a dialogo fra antichi e moderni L’esperienza delle antologie scolastiche è sempre fondamentale per uno studioso di letteratura; Ezio Raimondi, maestro eccellente, ha sempre abituato i suoi allievi ad interrogarsi sui testi e soprattutto a capire quanto i testi possano parlare ai giovani di oggi. Ma un autore come Petrarca cosa può dire oggi ai nostri studenti? Come possiamo avvicinarli, soprattutto in un mondo in cui i supporti mediatici e i testi digitali rendono estremamente volatile e fluido il testo letterario? Sarà questo il nucleo della lezione di stasera, piuttosto che il canone delle letture petrarchesche – di cui si è parlato in passato – cioè il suggerimento su cosa leggere di Petrarca ai giorni nostri. Nei manuali scritti con Raimondi, Tempi e immagini della letteratura e Leggere come io l’intendo (il cui titolo trae spunto da una famosa frase di Alfieri), ci si interrogava proprio su questo: dare al momento della lettura un’importanza forte, come momento di interpretazione del testo. Quindi da sempre Raimondi e l’altro grande maestro, Gian Mario Anselmi, hanno abituato a riflettere e a far riflettere su questo. Quando si studia Petrarca si comincia sempre dal Canzoniere, ma forse lo stesso Petrarca non avrebbe iniziato da quest’opera, dovendo proporsi ai suoi lettori; sappiamo infatti che queste nugae, a cui lavora per tutta la vita, non erano il ritratto della sua anima, quella che lui chiamava la sua animi effigies; questa è piuttosto un’opera che noi oggi non leggiamo più, cioè l’Africa. Quindi bisognerebbe anche abituare i nostri studenti a non attualizzare troppo, a guardare gli autori come essi volevano essere guardati. Noi infatti leggiamo un Petrarca che è stato consacrato dalle Prose della volgar lingua di Bembo nel 1525, e ancora prima dai commenti e dai lavori che Bembo ha fatto nelle edizioni aldine, proponendo il “petrarchino”, cioè un’edizione a stampa di piccolo formato del Canzoniere, agevole da leggere. Come si può proporre quindi un Petrarca “diverso”, che coniughi il canone delle liriche del Canzoniere (e che non siano sempre le stesse!) con le opere in latino? Loredana Chines – insieme all’amico Francisco Rico – ritiene che il Petrarca più attuale e originale sia quello che passa dalla sua scrittura latina, quella delle lettere, degli epistolari, dove riusciamo a scorgere la modernità dirompente dell’autore. Nel 2004, in occasione dei 700 anni dalla nascita del poeta, si faceva fatica a pubblicare le opere latine in edizione critica, come voleva

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Professoressa Loredana Chines

Petrarca a dialogo fra antichi e moderniL’esperienza delle antologie scolastiche è sempre fondamentale per uno studioso di letteratura; Ezio Raimondi, maestro eccellente, ha sempre abituato i suoi allievi ad interrogarsi sui testi e soprattutto a capire quanto i testi possano parlare ai giovani di oggi.Ma un autore come Petrarca cosa può dire oggi ai nostri studenti? Come possiamo avvicinarli, soprattutto in un mondo in cui i supporti mediatici e i testi digitali rendono estremamente volatile e fluido il testo letterario?Sarà questo il nucleo della lezione di stasera, piuttosto che il canone delle letture petrarchesche – di cui si è parlato in passato – cioè il suggerimento su cosa leggere di Petrarca ai giorni nostri. Nei manuali scritti con Raimondi, Tempi e immagini della letteratura e Leggere come io l’intendo (il cui titolo trae spunto da una famosa frase di Alfieri), ci si interrogava proprio su questo: dare al momento della lettura un’importanza forte, come momento di interpretazione del testo. Quindi da sempre Raimondi e l’altro grande maestro, Gian Mario Anselmi, hanno abituato a riflettere e a far riflettere su questo.

Quando si studia Petrarca si comincia sempre dal Canzoniere, ma forse lo stesso Petrarca non avrebbe iniziato da quest’opera, dovendo proporsi ai suoi lettori; sappiamo infatti che queste nugae, a cui lavora per tutta la vita, non erano il ritratto della sua anima, quella che lui chiamava la sua animi effigies; questa è piuttosto un’opera che noi oggi non leggiamo più, cioè l’Africa.Quindi bisognerebbe anche abituare i nostri studenti a non attualizzare troppo, a guardare gli autori come essi volevano essere guardati.Noi infatti leggiamo un Petrarca che è stato consacrato dalle Prose della volgar lingua di Bembo nel 1525, e ancora prima dai commenti e dai lavori che Bembo ha fatto nelle edizioni aldine, proponendo il “petrarchino”, cioè un’edizione a stampa di piccolo formato del Canzoniere, agevole da leggere.Come si può proporre quindi un Petrarca “diverso”, che coniughi il canone delle liriche del Canzoniere (e che non siano sempre le stesse!) con le opere in latino?Loredana Chines – insieme all’amico Francisco Rico – ritiene che il Petrarca più attuale e originale sia quello che passa dalla sua scrittura latina, quella delle lettere, degli epistolari, dove riusciamo a scorgere la modernità dirompente dell’autore.Nel 2004, in occasione dei 700 anni dalla nascita del poeta, si faceva fatica a pubblicare le opere latine in edizione critica, come voleva Michele Feo, presidente dell’Edizione Nazionale delle opere di Petrarca. C’è infatti una sorta di elefantiasi della filologia, che non riesce agevolmente a pubblicare i testi e, quando lo fa, spesso questi non sono corredati da commenti adeguati e quindi non sono realmente accessibili.Proprio nel 2004 la professoressa Chines, con un’operazione quasi “piratesca”, ha fatto una selezione antologica di lettere latine del Petrarca in prosa e in versi, proponendole secondo un taglio tematico e intitolando la pubblicazione Le lettere dell’inquietudine, per far capire fin dal titolo che cosa è moderno in Petrarca.Infatti l’inquietudine è proprio il sentimento che oggi riesce a “parlare” di più ai nostri studenti: l’inquietudine intellettuale, il leggere e lo scrivere come atti esistenziali. In tante lettere, delle Familiari e delle Senili, Petrarca scrive “io sono vivo, finché scrivo e finché leggo”. C’è una lettera straordinaria dove il poeta dice di raddoppiare il proprio tempo terreno (e per un cristiano il tempo terreno dovrebbe essere annullato in una dimensione ultraterrena) scrivendo e leggendo. Per lui dunque la temporalità terrena,

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in ottica moderna, si dilata e si protrae in virtù del rovello intellettuale, del leggere e dello scrivere. Petrarca è anche il primo intellettuale moderno che ci lascia un elenco di sua mano di una biblioteca. Pensiamo che tra Dante e Petrarca passa poco più di una generazione, infatti i due si erano incontrati quando Petrarca era bambino, perché suo padre era un guelfo bianco, come Dante esule da Firenze. Eppure tra i due letterati c’è un abisso riguardo al segno materiale che ci lasciano del loro lavoro intellettuale. Non abbiamo un autografo di Dante, mentre abbiamo più autografi di Petrarca; non sappiamo niente dei libri di Dante, possiamo ricostruirne la biblioteca solo virtualmente (c’è un bellissimo testo di Trifone Gargano sulla biblioteca di Dante e su dove lui potesse aver trovato i libri durante la composizione delle sue opere, tra Firenze e Bologna, i luoghi della sua formazione), invece siamo in grado di ricostruire perfettamente la biblioteca di Petrarca che ci rimane oggi in molti codici; ed è l’autore stesso a redigere nello stesso tempo il “Codice degli abbozzi” e poi il “Vaticano latino 3195”, a cui affida la stesura definitiva del Canzoniere. Quindi, benché sia passata solo una generazione, il senso di sé che ha Petrarca attraverso la volontà di lasciare visibile traccia del suo lavoro intellettuale ci rivela che siamo in un’altra dimensione: c’è un forte senso di responsabilità di quanto viene fatto.

Di Petrarca abbiamo la prima lista dei libri di Valchiusa e gli autografi del Canzoniere. È importante oggi farli vedere ai nostri studenti, perché i codici Vaticani e il “Codice degli abbozzi” sono in rete e, grazie alle aule informatiche presenti ormai in tutte le scuole, possiamo rendere l’impressione del tratto vivo di un autore attraverso la grafia. Niente resta impresso in uno studente più della scrittura di un autore, che è il segno reale del suo essere nel tempo e nella storia, quindi la dimensione della grafia riesce ad ancorare gli studenti alla diacronia, grafia che si perde nelle edizioni a stampa, ma ancora di più nel testo fluido del mondo digitale. I ragazzi restano molto sorpresi, per esempio, di scoprire che i sonetti non erano scritti come adesso, con la suddivisione in due quartine e due terzine, ma dislocati in altro modo. La materialità del testo ha pertanto una importanza fondamentale. Bisogna usare gli strumenti della simultaneità e della sincronia, quali sono quelli digitali, per sviluppare negli studenti il senso della diacronia, della storia.Quali elementi quindi possono essere sviluppati a tal fine?

L’autografia e le scritture

- la grafia come elemento vivo e palpitante- il confronto con Dante (di lui non abbiamo autografi; Leonardo Bruni ci dice

che Dante aveva una grafia sottile, molto allungata; di Petrarca invece abbiamo non una, ma quattro grafie)

- 4 scritture del Petrarca (4 scritture che sono differenti a seconda del tipo e della finalità del documento):a) semigotica libraria (la magnifica scrittura del Vaticano latino 3195, che anticipa la grafia umanistica);b) minuscola cancelleresca; c) corsiva usuale (che usa nel Codice degli abbozzi, cioè il suo diario di lavoro);d) scrittura di glossa – notularis (le glosse conservano l’aspetto più affascinante, perché sono le note personali dell’autore, sempre e rigorosamente in latino).

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Per Petrarca il volgare era la lingua dell’artificio letterario, del modello che proponeva ai posteri per la poesia, non era certo la sua lingua materna; lui infatti era cresciuto in Francia, anche se da genitori toscani. Il latino era invece la lingua dell’anima, e anche quando scrive le note sul Codice degli abbozzi, che è il codice di lavoro del Canzoniere, lo fa sempre in latino. Sono note straordinarie, da leggere nell’edizione che ha curato Laura Paolino per i Meridiani Mondadori (nella stessa edizione il Canzoniere è commentato da Marco Santagata); esse rappresentano la dimensione privata dell’autore, una finestra sulla sua vita quotidiana, dove egli scrive, per esempio, che deve interrompere la copiatura del suo testo perché lo chiamano a cena. Tutte queste, note rigorosamente in latino, esprimono anche una vocazione diaristica, la volontà di lasciare continuamente un segno nel tempo del lavoro intellettuale, e questo è un tratto straordinariamente moderno, che allontana Petrarca da Dante e lo avvicina, piuttosto, ad alcuni autori del Novecento. Leggere queste note a margine dei sonetti, per esempio il 77 e il 78, che egli scrive nel dialogo con gli artisti, per Simone Martini, note in cui troviamo puntualmente come, dove e quando i testi furono trascritti, con la classica “griffatura”, cioè la cancellatura in diagonale che indicava che il testo era stato ricopiato in ordine e quindi il lavoro poteva proseguire, rende partecipi gli studenti del processo creativo, dando il senso della vita del testo che si compone, del suo divenire.Quindi il latino per Petrarca è la lingua dell’anima, e lo si vede non solo dalle note a corredo dei suoi codici, i libri della sua biblioteca, ma anche dal fatto che sul Codice degli abbozzi, cioè il codice della sua opera in volgare, le postille sono in latino.Questa straordinaria varietà di stile e di lingua nella scrittura latina di Petrarca, questo plurilinguismo e pluristilismo non li troviamo nel Canzoniere, dove si lavora per una continua ricerca di una lingua “sospesa”, pura, diafana in un certo senso, come è quella che poi, senza corruzione, sarà la lingua della poesia per i secoli successivi. Far vedere le grafie di Petrarca, anche nei diversi documenti, significa proprio avvicinare gli studenti all’autore in un altro modo, che non sia, per esempio, quello canonico della lettura del sonetto proemiale del Canzoniere. È sicuramente giusto leggere un testo esemplare come questo, ma contemporaneamente bisognerebbe leggere anche il proemio delle Familiari, cioè la prima delle epistole dedicata a Ludovico di Beringen, il proemio delle Epistole in versi e le epistole a Barbato da Sulmona, perché nascono nello stesso contesto, nello stesso arco cronologico, nella stessa temperie, cioè dopo l’annus horribilis del 1348, in cui Petrarca sente l’esigenza di sistemare la propria opera, di dare un senso compiuto al proprio percorso esistenziale e di letterato. In tutti questi testi ricorrono gli stessi temi, come il motivo dei fragmenta e l’esigenza di voler raccogliere e dare un senso a queste carte “sparse” nel suo scrittoio volgare e nel suo scrittoio latino.A proposito della “scrittura notularis”, secondo Armando Petrucci, lo studioso più raffinato della scrittura di Petrarca, l’esempio più bello è quello della “nota di Laura” sul Virgilio Ambrosiano: la nota ricorda la morte di Laura e tutto quello che sappiamo di lei proviene da essa. Pertanto, insieme al racconto tradizionale dell’incontro tra Laura e Petrarca e della loro storia d’amore, è affascinante per gli studenti vedere quello che il poeta scrive di suo pugno su un foglio di guardia del Virgilio Ambrosiano, dove ci racconta, tra realtà e finzione, della morte di Laura (finge sicuramente quando fa coincidere le date in nome della simbologia numerica; a tal proposito cfr. F. Rico, I venerdì del Petrarca, Adelphi, libro molto interessante, dove confluisce la versione maior della voce biografica di Petrarca, scritta con Luca Marcozzi per il Dizionario Biografico Treccani).Le scritture di Petrarca sono ben evidenti sul sito della Biblioteca Vaticana.

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Inoltre, nelle canzoni in sestine, particolarmente significative per Petrarca, perché il sei è il numero simbolico delle date dell’incontro con Laura e della morte della donna, la sestina viene sempre trascritta senza stravolgimento, con un ordine particolare che non ne alteri la struttura.

Il ritratto e i volti dell’autore

Un altro modo per presentare l’autore è quello di proporre i suoi ritratti.

Anonimo, Francesco Petrarca nello studium, affresco murale, ultimo quarto del secolo XIV, Reggia Carrarese, Sala dei Giganti, Padova.

Petrarca ha passato tutta la sua vita letteraria a lasciare di sé dei ritratti, cioè delle descrizioni di ciò che era o voleva apparire; dice, per esempio, di non aver più toccato una donna dopo i quarant’anni e di non esserne stato tentato, mentre sappiamo che il figlio nacque quando lui aveva all’incirca quell’età; dice di aver privilegiato, dopo i quarant’anni, le letture dei Padri della Chiesa e delle Sacre Scritture, tralasciando sullo sfondo i classici pagani, ma sono tutte finzioni volte alla costruzione letteraria di un ritratto ideale di sé, di uomo saggio e sapiente, che vuole lasciare un itinerarium del proprio percorso letterario ed esistenziale senza macchia.

Altichiero, Ritratto di Francesco Petrarca (in primo piano), Oratorio di San Giorgio, 1376, Padova

Laura incorona Petrarca, miniatura da un codice del Canzoniere databile al XV secolo

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- Ritratto di Altichiero: dove Petrarca è in mezzo ad altri letterati;- Petrarca con l’alloro;- Petrarca con Cupido che sta lanciando la sua freccia d’amore, e sullo sfondo c’è il lauro dafneo, che ricorda il mito ovidiano. Il rapporto con questo poeta latino è interessante, perché Ovidio è molto presente nei testi di Petrarca, ma non c’è nella sua biblioteca, di cui abbiamo l’elenco dei manoscritti: questo ci fa pensare che Petrarca, ad un certo punto, abbia voluto eliminare le tracce delle “favole pagane”; infatti la canzone 23 del Canzoniere, la cosiddetta “canzone delle metamorfosi”, che è stata una delle sue prime invenzioni, è tutta ritmata dai miti ovidiani, e poi Ovidio è largamente presente nell’opera di Petrarca, per esempio nella terza ecloga del Bucolicum Carmen, dove compaiono Dafne e Stupeus (uno degli eteronimi del poeta)- Petrarca umanista nello studiolo: un po’ sul modello di san Girolamo, in cui il poeta è raffigurato mentre dialoga con i libri (e questo è un tema di una modernità straordinaria). Per Petrarca i libri sono “comites latentes”, compagni nascosti, con cui poter parlare come si fa con le persone vive. Leon Battista Alberti, nato 100 anni dopo Petrarca, raffigurerà lo studiolo dell’umanista “poliedrico”, in cui ci sono i libri ma anche gli strumenti di calcolo e di misurazione, usati dal genio umanistico.

Gli eteronimi prima di Pessoa

Francesco / Silvanus (Bucol. Carmen, X, nelle postille)

Quando Petrarca parla con se stesso si chiama Silvanus. Lo sappiamo dalle note che ci lascia sui margini delle pagine dei suoi libri: “Audi, Silvane!” – mentre lui legge i suoi testi e dialoga con essi, scrive delle note per se stesso. Silvanus ama la solitudine delle selve, lontano dai rumori e dalla corruzione di Avignone; sceglie piuttosto per sé luoghi solitari e tranquilli, come Valchiusa, una valle di estrema bellezza paesaggistica, sul cui fondo scorre il Sorga, con acque dal colore caraibico, oppure Arquà, altro luogo ameno.Di solito a scuola il Bucolicum Carmen non si legge, eppure la fortuna della bucolica, che sarà ininterrotta nei secoli, fino alla Pastorale americana, genera una trasversalità nel tempo che fa riflettere. E la modernità di Petrarca sta anche in questo, perché lui utilizza la bucolica, cioè il genere dell’egloga, rinnovandola nel profondo e piegandola al racconto della macrostoria del suo tempo e della propria microstoria.

Francesco / Stupeus (Bucol. Carmen, III)

La III egloga del Bucolicum Carmen, che sarà pubblicata a breve con traduzione e commento a cura di Enrico Fenzi, riserva molte sorprese a chi non la conosce. In essa Petrarca si definisce con un altro eteronimo, Stupeus. Cosa significhi ce lo dicono i commentatori antichi, infatti, mentre ancora Petrarca era in vita, alla fine degli anni settanta e negli anni ottanta del Trecento, il Bucolicum Carmen era un classico del tempo, veniva letto e commentato all’Università di Bologna da Pietro da Moglio e Benvenuto da Imola, che si avvicinano a questo testo come facevano con i testi di Virgilio. Stupeus - ci dicono i commentatori - vuol dire “che prende fuoco come la stoppa”, la stupa, per le fiamme d’amore. È chiara l’idea di ardere, di prendere fuoco come fa la stoppa con la fiamma. Eppure ai commentatori antichi sfuggiva qualcosa di molto moderno racchiuso nel nome Stupeus. Infatti, leggendo l’egloga, vi ricorre il verbo stupēre, che significa “contemplare a bocca aperta”. Al commentatore medievale sfuggiva dunque una polisemia intrinseca della poesia, perché la parola

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poetica crea sempre una “vertigine di senso”, come dice Adelia Noferi con una definizione bellissima e, quindi, nell’eteronimo Stupeus coesistono i due significati: “prendere fuoco”, ma anche “contemplare a bocca aperta”.Nella canzone 23 del Canzoniere, al v. 153, troviamo l’espressione stetti a mirarla, cioè “rimasi fermo a guardare” Laura, e stetti a mirarla è proprio la traduzione di stupui, “rimasi a contemplarla a bocca aperta”.Questi eteronimi fanno di Petrarca un autore che anticipa certi elementi della modernità.Silvanus = chi si isola nelle selve per sfuggire al consorzio umano.Stupeus = chi prende fuoco per la fiamma d’amore, ma anche chi contempla a bocca aperta l’amata.L’uso degli eteronimi in Petrarca di solito è taciuto nella manualistica tradizionale, invece, attraverso essi, percepiamo un’altra dimensione dell’autore, straordinariamente attuale.

L’effigie dell’animo

Un altro aspetto su cui varrebbe la pena soffermarsi è quello del senso che oggi abbiamo degli autori. Cominciamo spesso le nostre lezioni dal Canzoniere, ma Petrarca, se avesse potuto scegliere, per presentarsi al suo pubblico, avrebbe probabilmente iniziato da un altro testo, cioè dall’Africa. Questa è per noi un’opera sicuramente più complessa, oltre che più difficilmente reperibile, ma bisognerebbe far riflettere i nostri studenti su come ogni autore si considerava e autorappresentava, sul senso che aveva di sé, che non coincide sempre con il modo in cui lo vediamo o lo leggiamo oggi, anzi c’è spesso una differenza di prospettiva tra l’interpretazione moderna dell’autore e della sua opera e l’interpretazione che l’autore al suo tempo voleva dare di sé.

Fam., I 1 37 ( “ma se un giorno riuscirò a dare l’ultima mano all’effigie del mio animo”)

- Secretum ?- Posteritati ?- Africa

Questa lettera costituisce il già citato proemio del corpus delle Familiares, ed andrebbe letta insieme al sonetto proemiale del Canzoniere e alla prima epistola metrica, in quanto si tratta di testi composti nello stesso periodo.Nel testo, ad un certo punto, Petrarca parla della sua animi effigies, cioè del “ritratto della sua anima”, che è un’occasione straordinaria per cercare di avvicinarci all’autore. Qual è dunque questo ritratto dell’anima? Qual è quest’opera a cui dice di stare lavorando e che spera di finire, perché così, concludendola, avrà completato il ritratto della sua anima?Francisco Rico nel 1974 sosteneva che questa animi effigies fosse il Secretum, l’opera più intima di Petrarca, non destinata alla pubblicazione. Per alcuni studiosi si tratta invece del ritratto che l’autore affida ai posteri, la Posteritati.Nel 2001, in occasione di un convegno organizzato a Bologna, in preparazione delle celebrazioni del 2004, Francisco Rico, come accade a tutti i grandi studiosi, ha detto di aver avuto un ripensamento e, tornando sull’animi effigies, dopo quasi trent’anni di studi, ha rivisto la propria interpretazione del 1974, sostenendo che non si tratta né del Secretum né della Posteritati, ma dell’Africa, opera che oggi non si legge più, ma

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che per Petrarca era la rappresentazione del suo sapere poetico e letterario più alto, che lo aveva condotto alla gloria poetica.Rico afferma che si era pensato al Secretum o alla Posteritati perché siamo stati suggestionati nel primo caso da una concezione romantica della letteratura, mentre nel secondo caso abbiamo tentato di darne un’interpretazione psicoanalitica. Ma Petrarca non era figlio del Romanticismo né tanto meno della psicoanalisi. Per un uomo del Medioevo la dimensione dell’interiorità è costituita dal suo sapere, quindi Petrarca “è” quello che “sa” e la sua animi effigies è l’Africa.Questo serve ad aprire una riflessione, perché talvolta tendiamo ad attualizzare ciò che non deve essere attualizzato, quindi, se dobbiamo mostrare ai nostri studenti quegli aspetti “moderni” che rendono un autore a noi vicino, questo non vuol dire attualizzarlo sempre o interpretarlo sempre con le categorie appartenenti alla nostra epoca.

Il dialogo con i libri

Uno degli aspetti più importanti di Petrarca è quello del dialogo con i libri, tema che compare anche in testi di altri autori famosi, come la Lettera a Francesco Vettori del 1513 di Machiavelli.

George Steiner, in un breve saggio intitolato Una lettura ben fatta (in Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1996. Traduzione di C. Beguin, Garzanti editore, Milano 1997), analizza questo quadro di Chardin, che rende benissimo il dialogo con i libri iniziato con Petrarca.Il filosofo è illuminato da una luce che entra da una finestra che noi non vediamo, collocata alla sua destra; questa luce inonda trasversalmente il volto del filosofo e il libro che egli sta leggendo, come per sottolineare che il lettore viene “illuminato” dal libro e scopre di sé, attraverso la lettura, cose che non sapeva, ma illumina il libro a sua volta, lo porta alla luce. Inoltre il filosofo, pur trovandosi in una dimensione privata, dentro il suo studiolo, non è in négligé, cioè in abiti trascurati, bensì indossa i “panni curiali”, allo stesso modo di Machiavelli, come se il libro fosse un ospite

d’onore. Questo abbigliamento dà l’idea della “cortesia”, parola che, fin dai tempi del lessico stilnovistico, ha un

significato differente da quello che le diamo oggi; è un atto di magnanimità intellettuale, come diceva Petrarca parlando di Simone Martini. Accanto al filosofo troviamo il calamus, cioè la penna con cui egli risponde al libro, con cui prende note durante la lettura (Ezio Raimondi ha parlato di “responsabilità della lettura”, nel senso etimologico del termine, cioè necessità di “rispondere” al libro e agli stimoli che esso fornisce), quindi il calamus è l’aspetto visibile di questa risposta, di questa lettura responsabile; inoltre sul tavolo c’è una clessidra, che segna il tempo. Steiner dice che si tratta di un tempo doppio: il tempo eterno del libro e il tempo finito della lettura, che dura finché si legge, ma se non ci fosse il lettore ad aprirlo, il tempo eterno del libro non tornerebbe più. Steiner fa riferimento all’angoscia che sentiamo entrando, per esempio, nelle grandi biblioteche inglesi, nella British Library, dove percepiamo il peso dei libri mai aperti, che incombono su di noi, senza che noi riusciamo a dargli vita.Petrarca ha questa ossessione: aprire i libri per ridare vita alle voci degli antichi, facendoli rivivere tra di noi. Quindi il quadro di Steiner è fondamentale per capire che

Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Le philosophe lisant, 1734 - Louvre

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cos’è il dialogo con i libri a partire proprio da Petrarca, e questa sarà la lezione che egli consegnerà agli umanisti.

Come leggeva Petrarca

Anche il modo in cui un autore leggeva è importante per comprenderlo meglio. Oggi i nostri studenti leggono dai cellulari, dai video di tablet o pc, probabilmente leggono anche i libri stampati ma, in generale, questi radicali cambiamenti nel modo di leggere hanno condizionato le modalità della lettura stessa. A tal proposito citiamo G. Cavallo – R. Chartier, Storia della lettura, Laterza, su come cambia la tecnica della lettura nei secoli; e potremmo aggiungere a quest’opera un nuovo capitolo su come si legge nell’epoca digitale.A proposito del modo in cui leggeva Petrarca, c’è una lettera emblematica, da presentare ai nostri studenti, che ci racconta anche del rapporto tra Petrarca e Boccaccio, rapporto intenso ma complesso, fatto di luci e di ombre.

Familiares, XXII 2 11-13 [1359] a Giovanni Boccaccio

Questa lettera ha un titolo, come tutte le lettere petrarchesche, che sono quasi dei trattatelli; infatti l’epistolario di Petrarca è composto ad arte ed ha una fase lunghissima di elaborazione (questo ha reso l’edizione critica dell’epistolario, a cura di Vittorio Rossi, particolarmente difficoltosa, in quanto Petrarca torna ripetutamente sulle proprie lettere, per costruire un grande monumento da consegnare ai posteri); la lettera in questione è stata scritta per Boccaccio nel 1359 (ma la data è congetturale) e si intitola De imitandi lege (Sulla legge dell’imitazione). Infatti, durante una delle visite di Boccaccio a Petrarca, quest’ultimo aveva consegnato all’amico un esemplare del Bucolicum carmen che stava componendo; dopo che Boccaccio era già partito, Petrarca si era accorto che nel codice c’era un verso che troppo esplicitamente rivelava l’autore che vi era sotteso, cioè l’ipotesto, una sorta di reminiscenza troppo palese e diretta. Allora avrebbe voluto fermare Boccaccio, affinché non diffondesse quel manoscritto, che andava emendato, perché non fosse così evidente la citazione in esso contenuta (già altre volte egli aveva affermato che gli autori vanno ripresi, ma non in maniera troppo marcatamente visibile). Dunque in questa lettera straordinaria Petrarca ci racconta come sia stato possibile che gli sia sfuggita una citazione così palese e ci parla del suo rapporto con gli autori e con i libri:“Legi semel apud Ennium, apud Plautum, apud Felicem Capellam, apud Apuleium, et legi raptim, propere, nullam nisi ut alienis in finibus moram trahens. Sic pretereunti, multa contigit ut viderem, pauca decerperem, pauciora reponerem […] [12] Legi apud Virgilium apud Flaccum apud Severinum apud Tullium; nec semel legi sed milies, nec cucurri sed incubui, et totis ingenii nisibus immoratus sum; mane comedi quod sero digererem, hausi puer quod senior ruminarem. [13] Hec se michi tam familiariter ingessere et non modo memorie sed medullis affixa sunt unumque cum ingenio facta sunt meo, ut etsi per omnem vitam amplius non legantur, ipsa quidem hereant, actis in intima animi parte radicibus, sed interdum obliviscar auctorem, quippe qui longo usu et possessione continua quasi illa prescripserim diuque pro meis habuerim, et turba talium obsessus, nec cuius sint certe nec aliena meminerim.” (“Io ho letto un volta sola Ennio, Plauto, Felice Capella, Apuleio, e li ho letti in fretta, in essi soffermandomi come in un territorio altrui, così scorrendo molte cose vidi, poche, pochissime ritenni. […] Ho letto Virgilio, Orazio, Boezio, Cicerone, non una volta ma mille, né li ho scorsi, ma meditati e studiati con gran cura; li divorai la mattina per digerirli la sera, li inghiottii da giovane per ruminarli da vecchio. Ed essi entrarono in me con tanta familiarità che, se anche in avvenire più non li leggessi, resterebbero in me, avendo gettato le radici nella parte più intima dell’anima mia. Ma talvolta io dimentico l’autore, poiché per il lungo uso e

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continuo possesso (qui si riecheggia il linguaggio giuridico, che Petrarca aveva acquisito prima a Montpellier poi a Bologna, quando studiava diritto) per prescrizione essi sono divenuti come miei e da così gran turba circondato io non ricordo più se sono miei o di altri.” - trad. di E. Bianchi).Harold Bloom avrebbe detto “L’angoscia dell’influenza”, qualcosa che abbiamo assimilato a tal punto da non riconoscere più la nostra voce tra quella degli altri autori.Tuttavia in questa lettera compare, e non casualmente, un riferimento alla ruminatio. Nel Medioevo si leggeva infatti sostanzialmente in tre modi: in silenzio (in una lettera successiva indirizzata al fratello Gherardo, Petrarca dice di avere letto in silenzio, con gli occhi, un’operetta che il fratello gli aveva mandato); a bassa voce, cioè praticando la ruminatio, per memorizzare i testi, e, infine a voce alta. Ma la cosa straordinaria è che la ruminatio si faceva con le sacre scritture, non con i classici, quindi Petrarca attua una sorta di rivoluzione, perché applica ai classici ciò che di solito si praticava con i testi sacri. Dietro al verbo ruminarem si apre dunque un varco che ci fa capire come questo intellettuale sia già rivolto verso una modernità straordinaria.

“In silentio”

Familiares, XVII 1 1-2 [7 novembre 1353] al fratello Gherardo

“Religiosi cuiusdam viri manibus religiosior michi libellus tuus allatus est. Aperui lecturus eum in crastinum; erat enim pars diei ultima. "Ipse michi blanditus est", ut ait Seneca; itaque non ante deposui quam totum in silentio perlegissem; ita cena corporis in noctem dilata, splendide interim cenatus animus cibis suis suaviterque refectus est.Delectatus sum, germane unice, plusquam dici potest, intelligens non modo propositi sancti constantiam speratam semper ex te aut contemptum rerum fugacium ab olim michi notissimum, sed insperatam et inopinam hanc copiam literarum, quarum expers religionem illam Deo gratissimam, ac pene nudus intrasti.” (“Dalle mani di un religioso ricevetti il tuo anche più religioso libretto. Lo aprii per leggerlo il giorno dopo; poiché era ormai sera. Ma esso mi ammaliò, come dice Seneca; e non lo posai se non quando tutto silenziosamente l'ebbi letto; così, rimandata alla notte la cura del corpo, l'anima frattanto splendidamente cenò e si riebbe cibandosi di esso.O mio unico fratello, io ne provai un diletto più grande che dir non si possa, perché potei rendermi conto non solo della fermezza del tuo proposito, che in te avevo sempre sperato, e del tuo disprezzo delle cose caduche da un pezzo a me notissimo, ma anche della insperata e improvvisa tua abilità nelle cose letterarie, delle quali ignaro e quasi nudo entrasti in codesto santo ordine così caro a Dio.”) 

In questa lettera, già precedentemente citata, è sottolineata la differenza nella modalità di lettura: Petrarca dice di aver letto in silentio l’opera che il fratello gli aveva mandato e che lo aveva ammaliato; questo perché la lettura silenziosa, con i soli occhi, era più adatta per un’opera di argomento religioso.

I libri: “comites latentes”

Familiares, XV 3 14-15 (1353) a Zanobi da Strada

Il tema dei “libri come amici” torna in tante lettere; in questa, indirizzata a Zanobi da Strada, viene descritto lo straordinario scenario di Valchiusa, dove tutti gli “amici” vanno a trovare Petrarca.“Interea equidem hic michi Romam, hic Athenas, hic patriam ipsam mente constituo; hic omnes quos habeo amicos vel quos habui, nec tantum familiari convictu probatos et qui mecum vixerunt, sed qui multis ante me seculis obierunt, solo michi cognitos benificio literarum, quorum sive res gestas atque animum sive mores vitamque sive linguam et ingenium miror, ex omnibus locis atque omni evo in hanc exiguam vallem sepe contraho

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cupidiusque cum illis versor quam cum his qui sibi vivere videntur, quotiens rancidum nescio quid spirantes, gelido in aere sui halitus videre vestigium. [15] Sic liber ac securus vagor et talibus comitibus solus sum; ubi volo sum; quotiens possum mecum sum;  (“Frattanto qui ho posto la mia Roma, la mia Atene, la mia patria; qui tutti gli amici che ho e che ebbi, non solo quelli provati per familiar consorzio e vissuti con me, ma quelli anche che vissero or son molti secoli, che io conosco soltanto per il tramite delle lettere, che ammiro per le loro imprese, per l’indole, i costumi, la lingua, l’ingegno, qui, venuti in questa stretta valle da ogni luogo e da ogni età, io spesso raccolgo e più dolcemente con essi parlo che con quelli che credono di essere vivi perché, quando per respirare emettono il loro fiato pestifero, non ne vedono la nebbia nell’aria gelata (disprezzo di Petrarca per i suoi contemporanei; probabilmente è anche vero che lui non doveva avere un carattere particolarmente simpatico). Così libero e sicuro vado vagando e tra tali compagni sono solo; sto dove voglio; e più che posso sto con me stesso.” - trad. E. Bianchi)

Epystola I, 6

Questa è una delle Epistole metriche, inserita anche nella raccolta F. Petrarca, Lettere dell’inquietudine (a cura di L. Chines), Carocci, 2004. È un’epistola metrica in esametri, molto lunga ed articolata, con una parte dedicata al dialogo con i libri.

[…]Exhorrent nostrasque dapes, iamque, urbe magistra,Mollitiem didicere pati. Me dura professumDestituere pii comites servique fideles.Et siquos attraxit amor, ceu carcere vinctumSolantur, fugiuntque citi. Mirantur agrestesSpernere delitias ausum, quam pectore metamSupremi statuere boni, nec gaudia noruntNostra voluptatemque aliam, comitesque latentes,Quos michi de cuntis simul omnia secula terrisTransmittunt lingua, ingenio, belloque togaqueIllustres; nec difficiles, quibus angulus unusEdibus in modicis satis est; qui nulla recusentImperia, assidueque adsint et tedia nunquamUlla ferant, abeant iussi redeantque vocati.Nunc hos, nunc illos percontor, multa vicissimRespondent et multa canunt et multa loquuntur.[…]

Ci si può soffermare sui diversi verbi che usa Petrarca: quali sono i libri che ci “rispondono” (respondent)? Sono quelli di filosofia morale, quelli che rispondono ai quesiti ideologici, quelli che spiegano i segreti della natura; ci sono poi libri che raccontano le biografie e le storie degli uomini comuni e degli eroi. Petrarca usa verbi diversi: canere per le imprese dei grandi eroi e loqui per narrare le azioni degli uomini comuni; tutti i verbi corrispondono ad un genere letterario preciso e non sono usati casualmente, ogni libro ha la sua “voce” (cfr. E. Raimondi, Le voci dei libri, Il Mulino, 2012).

Il primo elenco autografo della biblioteca di un letterato

Il primo nucleo della Biblioteca di Valchiusa è un elenco stilato dallo stesso Petrarca.

Par. Lat. 2201, c. 58v. (codice)

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Si tratta di un codice conservato a Parigi che contiene in realtà tre elenchi di libri; alcuni autori importanti, come Seneca e Cicerone, si ripetono, perché gli elenchi seguono un doppio binario (del genere e dell’autore). Questo primo nucleo si sarebbe poi ingrandito a dismisura, man mano che vi entravano nuovi codici, i comites latentes, gli amici nascosti, come li ha definiti Petrarca nella Metrica I, 6. Questi libri costituiscono delle reti continue e le opere di alcuni autori permettono di scoprire e quindi reperire nuove opere di nuovi autori.In Familiares, III, 18, a Giovanni Anchiseo, Petrarca dice che tutti hanno dei vizi, lui ha quello di non riuscire a saziarsi di libri.Questi testi sono in gran parte confluiti nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Una trascrizione di questo elenco è stata fatta per prima dallo studioso francese Pierre de Nolhac, nel volume Pétrarque et l’humanisme, 1894, che però non è mai stato tradotto in Italia.Si tratta di una rivoluzione epocale rispetto a Dante, perché noi possiamo sapere esattamente quali libri leggeva Petrarca.Troviamo molti testi di Cicerone, come già detto, e di Seneca, anche il Seneca tragico. Le tragedie senecane vengono riutilizzate da Petrarca soprattutto nelle Sine nomine, cioè le lettere dal forte taglio politico che lui scrive contro la corruzione dei suoi tempi. C’è inoltre un’opera pseudo-senecana, i Remedia fortuitorum, letta anche da Dante come se fosse di Seneca (in una lettera scritta a Dante, Cino da Pistoia, anche lui esule, consiglia all’amico di leggere quest’opera perché vi avrebbe trovato consolazione per la sorte impostagli dall’esilio; si tratta in realtà di una specie di vademecum stoico-cristiano, che suggerisce come comportarsi di fronte alle avversità ma anche davanti alla buona sorte). Dai Remedia fortuitorum Petrarca trae il nucleo per il De remediis utriusque fortunae, cioè l’opera che lo consacra filosofo in tutta Europa. Noi siamo abituati a considerare Petrarca come poeta principalmente del Canzoniere, ma, come abbiamo detto, questo accade per la prima volta a partire da Bembo; per tutto il Quattrocento Petrarca è considerato soprattutto philosophus, maestro di filosofia morale, come si può leggere negli incunaboli della fine del XV secolo e nelle cinquecentine, cioè i libri a stampa del XVI secolo.Del De Remediis c’è una corposa edizione curata da Ugo Dotti per l’editore Nino Aragno e la professoressa Chines ha in mente di curarne un’antologia, perché quest’opera ha molto da raccontarci.Tra gli autori di poesia presenti negli elenchi di Valchiusa il primo posto è occupato da Virgilio, con il manoscritto più importante dell’intera biblioteca, cioè il Virgilio Ambrosiano, che Petrarca fa miniare da Simone Martini; a questo manoscritto affida la nota della morte di Laura e la nota della morte di suo figlio Giovanni. Oltre a Virgilio troviamo Lucano, Stazio, Orazio (praesertim in Odis, soprattutto quindi l’Orazio lirico), Ovidio (soprattutto le Metamorfosi), che poi sembrerà scomparire dall’elenco degli autori letti da Petrarca, ma che inizialmente è presente, altrimenti non potremmo spiegare la massiccia presenza dei miti ovidiani nella sua opera, a partire da quello di Apollo e Dafne con la metamorfosi dell’alloro dafneo, tant’è che il Canzoniere, in una certa fase della sua storia, cominciava con il sonetto 188 (Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo), che descrive il mito di Apollo e Dafne e di Laura associata al lauro, in quella polisemia che bene conosciamo; poi troviamo anche il mito “voyeuristico” di Diana e Atteone, che Petrarca interpreta in senso cristiano.Ci sono anche autori di storia negli elenchi di Valchiusa, da Tito Livio a Valerio Massimo.

Tra i codici più celebri

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Il Virgilio Ambrosiano (A 79 inf.), che contiene:- Le note obituarie di Laura e Giovanni- Postille scritte durante tutta la vita (postille di Petrarca ai testi di Virgilio e di

Servio)

Dovendo fare comunque delle scelte, bisogna partire dai codici più importanti, in primis il Virgilio Ambrosiano. Nell’antologia curata dalla professoressa Chines e dal professor Ezio Raimondi, un posto rilevante è occupato dalla miniatura del Virgilio Ambrosiano commissionata a Simone Martini, come se fosse un testo, perché essa nasce per volontà di Petrarca sul libro più importante della sua biblioteca, cioè il codice di Virgilio con commento di Servio.Noi possiamo conoscere oggi le postille del Virgilio Ambrosiano grazie all’edizione curata da Marco Petoletti.

La “nota di Laura”

Tutto quello che sappiamo di Laura lo conosciamo da queste poche righe della nota del Virgilio Ambrosiano (Milano, Biblioteca Ambrosiana, A 79 inf. f. 1 v): Petrarca e la giovane si incontrarono per la prima volta il 6 aprile del 1327 (anche se nel Bucolicum Carmen è scritto diversamente). Secondo Armando Petrucci, il più grande studioso della scrittura di Petrarca, questa nota, che dà notizia dell’incontro con Laura e della morte della donna, fu composta con l’idea che venisse diffusa almeno tra gli amici del poeta, tant’è che ce ne sono riproduzioni anche nella Biblioteca Marciana, infatti Giovanni Dondi dall’Orologio, caro amico di Petrarca, ne trasse da qui direttamente una copia. La nota, come sappiamo, contiene delle forzature simboliche soprattutto nei numeri: Laura infatti muore il 6 aprile del 1348, nello stesso giorno dell’anno e alla stessa ora del primo incontro. Anche questa nota andrebbe letta insieme al sonetto proemiale del Canzoniere, alla prima lettera delle Familiares e alla prima delle Epistole metriche, testi composti tutti nello stesso momento, dopo la morte di Laura avvenuta nel 1348. La nota è scritta in latino, una lingua studiata con straordinaria efficacia, in cui trionfa l’ipotassi, e vi troviamo termini che sono l’esatta traduzione di espressioni contenute nel sonetto proemiale del Canzoniere:

- curas supervacuas: una volta morta Laura tutte le preoccupazioni sono inutili;- spes inanes: cioè le “vane speranze”.

Il codice Virgilio Ambrosiano

Inoltre troviamo sul Virgilio Ambrosiano anche altre note di grande interesse, sia per l’aspetto iconografico, sia per i contenuti.

Legittimare la poesia dei RVF Il dialogo con le arti: l’amicizia con Simone Martini (RVF 77 e 78) Carta Vat. Lat. 3196 f. 7 r

In una postilla del Virgilio Ambrosiano, per esempio, Petrarca vuole legittimare il Canzoniere: sta commentando un passaggio in cui Servio scrive che i poeti latini erano soliti comporre anche su base accentuativa, qualitativa, e non solo secondo i principi della metrica quantitativa:“[…] quod ad rythmum solum vulgares consuerunt” cioè “erano soliti comporre anche solo su base qualitativa” e su questa postilla si registra il valore della poesia volgare.

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Inoltre per Petrarca il dialogo con le arti è fondamentale. Se rileggiamo i sonetti 77 e 78 del Canzoniere, scritti per Simone Martini, possiamo accostarli alla miniatura del Virgilio Ambrosiano, facendo vedere la carta del Vaticano Latino 3196, per mostrare come questi due sonetti fossero già nel nucleo iniziale del Codice degli abbozzi, la cui nota a margine ci dice che poi sono stati ricopiati in ordine.

I tre cartigli all’interno della miniatura di Simone Martini costituiscono il programma iconografico voluto da Petrarca e suggerito al pittore. I distici contenuti nei cartigli sono stati scritti proprio dal poeta, quindi alla pittura di Simone si associa la scrittura autografa di Petrarca, le mani dell’artista e del poeta convivono nella stessa pagina.Virgilio è rappresentato come poeta ispirato, che guarda il cielo, ricercando platonicamente il furor divinus che influenza la sua scrittura; il boschetto su cui si appoggia è costituito da piante di alloro, il lauro; la figura che è vicina al poeta, all’auctor, cioè Virgilio, è Servio, il commentatore, l’interpres, che sta alzando il velamen, sta cioè svelando il significato nascosto dietro alla lettera del testo; Servio guarda negli occhi il primo personaggio che gli sta accanto, che è il vir, l’uomo in armi che simboleggia l’Eneide, mentre quest’ultimo, insieme all’agricola (le Georgiche) e al bukolos (le Bucoliche), ognuno dalla propria prospettiva, ha la traiettoria dello sguardo rivolta all’auctor. Questo era il modo in cui si imparava il latino nelle scuole, anche durante il Medioevo, attraverso la cosiddetta Rota Vergilii, che comprendeva i tre stili: quello alto, elevato ed illustre dell’Eneide, quello mediano delle Georgiche e quello umile delle Bucoliche.I distici che Petrarca scrive all’interno dei tre cartigli rimandano nel primo caso all’auctor, infatti vi si dice che la terra italica alimenta poeti, ma solo Virgilio è stato in grado di eguagliare le vette dei Greci e di Omero; nel secondo cartiglio si parla dell’interpres, cioè di Servio, che ha saputo svelare gli archana Maronis, cioè gli elementi nascosti della poesia di Virgilio; nel terzo distico, collocato al di fuori dei contorni dell’immagine, si parla invece di Simone Martini, che ha dipinto con il pennello quello che Virgilio ha saputo dire nel testo.

I disegni di Boccaccio

Un altro manoscritto importante, da non dimenticare, è sicuramente:

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Plinio di Petrarca con i disegni di Boccaccio - Par. Lat. 6082

Il codice ci è testimone di questo dialogo straordinario tra Petrarca e Boccaccio, tant’è che il primo permise al secondo di disegnare sul proprio manoscritto di Plinio. Petrarca annota queste parole in fondo alla pagina con la sua grafia, la notularis: “Transalpina solitudo mea iocudissima”, cioè “il mio piacevolissimo ritiro transalpino”, ovvero quello di Valchiusa. Il paesaggio disegnato da Boccaccio è simbolico, come ha fatto notare in anni recenti Francisco Rico; è una sorta di itinerarium mentis, un luogo sacro difficile da raggiungere, con una salita ripida, che ricorda l’ascesa al monte Ventoso; in basso vi è una caverna, da cui sgorga un fiume, che potrebbe rievocare le sorgenti del Sorga. Probabilmente Boccaccio reinterpretò queste immagini fantasiose di Valchiusa, facendosi ispirare dalla descrizione di quei luoghi a lui fatta da Petrarca. L’airone cinerino, infine, disegnato in primo piano, rappresenta lo stesso Petrarca nell’interpretazione che ne dà Boccaccio; infatti l’airone, nei bestiari medievali,

come il Physiologus, è il volatile prudentissimus, cioè molto sapiente ed accorto, che ha paura delle tempeste, sia quelle reali (e in effetti Petrarca le temeva molto), sia quelle simboliche, che si riferiscono alle passioni dell’anima; il pesce che l’airone ha in bocca ci rimanda all’abitudine più volte ricordata da Petrarca di cibarsi di pesce (lo dice spesso nelle Familiares). Come mai troviamo affiancati ai margini di questo codice la postilla di Petrarca e il disegno di Boccaccio? Perché nel libro XVII della Naturalis historia, trascritto nel codice, si fa menzione delle fonti del Sorga. C’è un errore del copista che viene corretto da Petrarca, lo notiamo nel margine destro della pagina, e da questa correzione scaturisce il disegno, in anni ormai lontani da quelli in cui l’autore risiedeva a Valchiusa, probabilmente dopo il 1353, quando Petrarca aveva lasciato definitivamente la Francia.Il fatto che Petrarca permetta a Boccaccio di disegnare sui propri codici dà agli studenti un senso vivissimo di quello che era il rapporto tra gli intellettuali, che dialogano dei libri, con i libri, scrivendo e disegnando su di essi.C’è ancora un disegno di Boccaccio su un manoscritto di Claudiano appartenuto a Petrarca (Par. Lat. 8082): si tratta di una piccola testa di poeta laureato, probabilmente Claudiano, e di una mano sottostante, che è la mano di Boccaccio stesso, che indica un punto particolare del testo, che però probabilmente è stato travisato; vi si parla infatti di un fiorentino e Boccaccio pensa che si tratti di Claudiano, ma si sbaglia. Tuttavia per Boccaccio Claudiano è stato comunque un grande poeta fiorentino e dopo di lui ce ne sono stati tanti altri, tra cui chiaramente Dante, Petrarca e Boccaccio stessi.Claudiano è un autore che oggi non si legge più, ma che in passato aveva avuto una straordinaria fortuna: di lui si conosceva soprattutto il De raptu Proserpinae, opera molto diffusa anche durante l’Umanesimo.

Par. Lat. 8082

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Claudiano diede a Petrarca un altro mito da reinterpretare: se le Metamorfosi di Ovidio avevano fornito lo spunto per il mito di Laura in vita con la rievocazione di Apollo e Dafne, Claudiano offre a Petrarca il mito del lauro divelto e sradicato, narrato a proposito di un sogno che fa Cerere, mentre è lontana dalla figlia durante il viaggio per la Frigia, quando le appare la visione onirica dell’albero del suo talamo nuziale sradicato da un fulmine. Nella canzone 323 del Canzoniere, la cosiddetta “canzone delle visioni”, è descritto il cielo che improvvisamente si oscura e un fulmine che colpisce il lauro e lo sradica: Petrarca è come la Cerere di cui parla Claudiano e Laura morta è come il lauro divelto, come Proserpina rapita negli Inferi (cfr. L. Chines, Per Petrarca e Claudiano, in “Quaderni petrarcheschi”, 11, 2001).

* * * *Scoperta recente fatta dalla professoressa Chines.Disegno di Ariosto, della cui biblioteca però non abbiamo nulla. Nel 2016, durante l’anniversario dell’edizione del 1516 del Furioso, è stata allestita una piccola mostra dentro l’archivio di Stato di Modena, dove è confluito quasi per intero l’archivio degli Este. In mostra c’erano diverse lettere autografe di Ariosto e anche il “Registro dei Balestrieri”, cioè il registro che egli teneva in Garfagnana tra il 1522 e il 1525, quando stipendiava i soldati a cavallo che erano alle sue dipendenze. Sul manoscritto c’è un disegno che, dalle analisi chimiche degli inchiostri, è risultato coevo alla stesura del registro: sulla sinistra c’è un’immagine stilizzata che ricorda da vicino il ritratto di Petrarca fatto da Altichiero, anche se la figura ha un sorriso ironico sulle labbra e potrebbe ricordare lo stesso Ariosto che, dopo i quarant’anni, come ci racconta egli stesso nelle Satire, era solito utilizzare un cuffiotto per nascondere la calvizie incipiente. Quindi questo disegno raffigura Petrarca ma, in generale, anche quella il poeta nelle vesti ironiche di Ariosto stesso. Egli ha in mano un fiore e lo offre simbolicamente al signore durante gli anni duri del soggiorno in Garfagnana; il fiore ha due boccioli: uno esce dalla bocca del poeta, l’altro viene offerto all’olfatto del signore. C’è una moneta, coniata nel 1502 per le nozze di Lucrezia Borgia e di Alfonso d’Este, che raffigura quest’ultimo con un copricapo come quello disegnato da Ariosto e supporta iconograficamente l’ipotesi della professoressa Chines.

Tatiana Severi