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MORTI & FERITI – GENNAIO/FEBBRAIO 2014 In memoria di Stefano Delli Ponti, operaio Ilva «Se chiuderò gli occhi...». Stefano Delli Ponti non diceva mai «se morirò». Quasi che quella parola -- morte -- per lui non esistesse. «Può capitare che io chiuda gli occhi» aveva confidato all'amico Francesco una sera di qualche mese fa. «E se capitasse... quando ci penso il dolore più grande non è per me che non ci sarò più ma è per la mia famiglia. Come farà mia moglie con due bambini piccoli? Che succederà ai miei figli?». Stefano aveva un bimbetto di 8 anni e una piccolina di 3, operaio all'Ilva di Taranto dal 1999, anni e anni al reparto acciaieria finché, nel 2011, un tumore l'ha costretto a cambiare settore, vita, aspettative. Ha «chiuso gli occhi» ieri, a 39 anni. Ora: chi non ha mai sentito o vissuto da vicino la storia di qualcuno malato di cancro? Chi non ha un dolore da raccontare legato alla propria o all'altrui malattia incurabile? Eppure quella di Stefano è una storia speciale. Che si porta dietro migliaia di altre piccole storie e ciascuna ha il nome e il cognome di un operaio dell'acciaieria più grande d'Europa. Stefano è diventato il simbolo del buon cuore della gente comune, lavoratori come lui che un bel giorno hanno deciso di regalargli il loro tempo: ore di ferie o di lavoro per aiutarlo a far fronte alla malattia che richiedeva viaggi continui a Milano e medicine costosissime. Loro hanno messo sul piatto le ore che potevano, l'Ilva le ha trasformate in soldi e accrediti per Stefano. Era stata l'Unione sindacale di base a proporre quella strana forma di solidarietà. Alla fine tutti i sindacati avevano sottoscritto un documento per donare novemila ore lavorate o di ferie al collega in difficoltà. Sulle prime un gruppo di lavoratori aveva dovuto occupare una saletta nella direzione dello stabilimento per convincere l'azienda ad autorizzare la colletta ma alla fine i nodi si erano sciolti e il metodo era passato. «Da maggio ad ora abbiamo raccolto per lui più di 60 mila euro» racconta in lacrime Francesco Rizzo, Usb. «Doveva andare in America a farsi curare ma poi ha scoperto che le stesse cure erano possibili in Italia e ha fatto la spola fra Milano e Taranto per provare a salvarsi. Per noi era diventato un orgoglio poterlo aiutare e adesso proporremo subito una raccolta di fondi per i suoi figli. All'Ilva siamo più di 11 mila, bastano poche ore a testa e si può fare tantissimo per quei due bambini». Gli amici raccontano che Stefano si vergognava di accettare quei soldi, perché sapeva bene che ciascun'ora regalata era un sacrificio, una rinuncia per uno dei suoi compagni di lavoro. Un giorno un amico gli disse: «Chiedimi che cosa farei io al posto tuo». Stefano glielo chiese e lui rispose: «Pretenderei di essere aiutato perché avere colleghi che vogliono farlo non può essere tradotto in un' umiliazione. E perché io al

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MORTI & FERITI – GENNAIO/FEBBRAIO 2014

In memoria di Stefano Delli Ponti, operaio Ilva

«Se chiuderò gli occhi...». Stefano Delli Ponti non diceva mai «se morirò». Quasi che quella parola -- morte -- per lui non esistesse. «Può capitare che io chiuda gli occhi» aveva confidato all'amico Francesco una sera di qualche mese fa. «E se capitasse... quando ci penso il dolore più grande non è per me che non ci sarò più ma è per la mia famiglia. Come farà mia moglie con due bambini piccoli? Che succederà ai miei figli?». Stefano aveva un bimbetto di 8 anni e una piccolina di 3, operaio all'Ilva di Taranto dal 1999, anni e anni al reparto acciaieria finché, nel 2011, un tumore l'ha costretto a cambiare settore, vita, aspettative. Ha «chiuso gli occhi» ieri, a 39 anni.Ora: chi non ha mai sentito o vissuto da vicino la storia di qualcuno malato di cancro? Chi non ha un dolore da raccontare legato alla propria o all'altrui malattia incurabile? Eppure quella di Stefano è una storia speciale. Che si porta dietro migliaia di altre piccole storie e ciascuna ha il nome e il cognome di un operaio dell'acciaieria più grande d'Europa.Stefano è diventato il simbolo del buon cuore della gente comune, lavoratori come lui che un bel giorno hanno deciso di regalargli il loro tempo: ore di ferie o di lavoro per aiutarlo a far fronte alla malattia che richiedeva viaggi continui a Milano e medicine costosissime. Loro hanno messo sul piatto le ore che potevano, l'Ilva le ha trasformate in soldi e accrediti per Stefano.Era stata l'Unione sindacale di base a proporre quella strana forma di solidarietà. Alla fine tutti i sindacati avevano sottoscritto un documento per donare novemila ore lavorate o di ferie al collega in difficoltà. Sulle prime un gruppo di lavoratori aveva dovuto occupare una saletta nella direzione dello stabilimento per convincere l'azienda ad autorizzare la colletta ma alla fine i nodi si erano sciolti e il metodo era passato. «Da maggio ad ora abbiamo raccolto per lui più di 60 mila  euro» racconta in lacrime Francesco Rizzo, Usb. «Doveva andare in America a farsi curare ma poi ha scoperto che le stesse cure erano possibili in Italia e ha fatto la spola fra Milano e Taranto per provare a salvarsi. Per noi era diventato un orgoglio poterlo aiutare e adesso proporremo subito una raccolta di fondi per i suoi figli. All'Ilva siamo più di 11 mila, bastano poche ore a testa e si può fare tantissimo per quei due bambini».Gli amici raccontano che Stefano si vergognava di accettare quei soldi, perché sapeva bene che ciascun'ora regalata era un sacrificio, una rinuncia per uno dei suoi compagni di lavoro. Un giorno un amico gli disse: «Chiedimi che cosa farei io al posto tuo». Stefano glielo chiese e lui rispose: «Pretenderei di essere aiutato perché avere colleghi che vogliono farlo non può essere tradotto in un' umiliazione. E perché io al posto tuo lo vorrei per i figli». Fu quella volta che si convinse ad accettare gli accrediti.E comunque ha lavorato fino all'ultimo granello di energia, finché ha potuto arrivare con le sue forze al suo posto di lavoro, fra i suoi compagni. Francesco ha gli occhi lucidi quando racconta che ogni tanto compariva sull'uscio dell'Usb e che domenica sera ha detto ai suoi: «Per favore preparatemi la sedia a rotelle, domattina. Vorrei andare in sede».

Contropiano – 1 gennaio 2014

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Niente rischio amianto, ex operaio restituisce 62mila euro all'InpsIl giudice Riverso: "Accade per colpa della politica. Basterebbe una leggina"

di Carlo Raggi

Ravenna: l'ex operaio Anich-Enichem, Nazareno Tarquini (Foto Zani)

Ravenna, 4 gennaio 2014 - Nazareno Tarquini l’aveva detto, che non avrebbe mai fatto ricorso contro la decisione dell’Inps di dar corso alla sentenza d’appello e chiedere all’ex lavoratore dell’Anic-Enichem la restituzione dei 62mila euro di benefici erogati a cominciare dal 1993, quando Tarquini andò in pensione. Ovvero quei benefici riconosciutigli in primo grado dal giudice del lavoro Roberto Riverso quale lavoratore esposto all’amianto per oltre dieci anni. Tarquini ha fatto di più. E’ andato in banca, ha raccolto tutti i suoi risparmi, ha chiesto un grosso aiuto al fratello e ha fatto un bonifico all’Inps per 62mila euro.Spiega Tarquini: "Non volevo aver più nulla a che fare con questa vicenda, non mi andava di vedere la pensione decurtata ogni mese di quasi quattrocento euro. Oltretutto l’Inps, che aveva comunicato di dar corso alla rateizzazione del rimborso a cominciare dal primo gennaio 2014, ha invece anticipato la trattenuta già da dicembre. Basta, io voglio vivere tranquillo. Piano piano restituirò tutto a mio fratello, ma almeno resta una cosa in famiglia".Tarquini però non ha certo esaurito la vena combattiva e, in attesa dell’esito del ricorso in Cassazione, sta cercando di capire se esiste una quale strada legale per portare in giudizio il perito bolognese che nel breve volgere di pochi mesi e su richiesta, inspiegata, del giudice, modificò del tutto la conclusione della prima perizia in cui aveva riconosciuto Tarquini esposto al rischio amianto per oltre dieci anni, affermando invece, apoditticamente, che il lavoratore, a differenza dei compagni di lavoro, non era stato esposto a quel rischio. L’avvocato di Tarquini chiese al collegio di sentire il perito per chiedere chiarimenti, ma i giudici non ritennero di aderire alla richiesta e annullarono la decisione del giudice Riverso, a danno di Tarquini."Com’è possibile che la politica ravennate non comprenda che è suo dovere intervenire per bloccare le richieste dell’Inps a lavoratori che per anni hanno operato in ambienti pieni di amianto e che ora devono restituire decine di migliaia di euro a causa di sentenze d’appello emesse da giudici ostaggi dei periti?"Il giudice del lavoro Roberto Riverso, fra i massimi esperti italiani sul fronte dell’amianto, non ha

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peli sulla lingua su questo drammatico tema che coinvolge numerosi pensionati ravennati cui lui stesso, in primo grado, aveva riconosciuto.Quale il compito dei nostri parlamentari?"Impedire che questi lavoratori vengano offesi per una terza volta attraverso la coltivazione di una semplice proposta di legge già sperimentata anni fa su iniziativa del deputato Casson. Una norma che sani queste incongrue posizioni e in modo permanente. Un modo anche per restituire pari dignità e diritti a lavoratori che hanno lavorato gomito a gomito con altri che quei benefici hanno mantenuto".Come si è giunto a tanto?"Intanto una premessa. Ritengo incostituzionale la legge del 2003 che ha subordinato il riconoscimento dei benefici a chi ha lavorato in ambienti con oltre cento fibre per litro. Con l’amianto conta solo la durata dell’esposizione. I benefici previdenziali sono provvidenze con funzione riparatoria, perchè gli imprenditori non applicarono la legislazione sulle polveri e perchè lo Stato non vigilò. Per questo l’Italia è stata condannata in sede comunitaria".Poi ci sono le decisioni contraddittorie dei giudici d’appello."Già, giudici ostaggi di periti che a volte dicono tutto e il contrario di tutto. E’ irragionevole per un giudice ritenere che un perito possa valutare quante fibre potevano esserci anni prima in un certo ambiente di lavoro. E ancora, quale ragionevolezza c’è nelle decisioni che riconoscono il diritto ad alcuni lavoratori e li disconoscono ai loro compagni?"Insomma a giudicare è il perito, non il giudice."La gestione della legge nel 2003 è diventata un affare per i periti di ogni foggia, ingegneri, chimici, medici legali, anatomo-patologi, anche carabinieri. La perizia è diventata un arbitrio e l’esito è sempre aleatorio".E l’Inps richiede le somme."La normativa italiana già conosce la categoria dell’indebito pensionistico, non soggetto a restituzione. Non possono essere restituite le pensioni sulla base di sentenze poi riformate. Per questo occorre, e subito, una norma analoga anche per i benefici per l’amianto".

Il Resto del Carlino – 4 gennaio 2014

Mangiare l’amianto…

Michele e Antonio hanno cinquanta e cinquantuno anni, avevano vent’anni quando hanno comin-ciato a lavorare nella Isochimica di Graziano. Prima di allora qualche esperienza in lavori stagionali e dopo il terremoto del 1980 la possibilità di intraprendere una attività lavorativa che garantiva cer-tezza di occupazione.Antonio fu il terzo degli assunti nel settembre del 1982, segnalato da un tecnico delle FF.SS. e insieme ad altri quattro compagni di lavoro iniziò l’attività di smontaggio e scoibentazione delle vet-ture. L’azienda non era ancora costituita e le prime due vetture furono smontate nella stazione di Avellino, a pochi passi dai passeggeri. Misero in piedi un sistema e un processo di lavorazione sul quale si costruì il modello dell’attività. Li chiamavano «ingiarmatori», ma la loro esperienza di tecni-che di lavorazione costituì la base di partenza del lavoro della Isochimica. Le carrozze erano state montate tutte a mano, non ce n’era una uguale all’altra, il procedimento di smontaggio doveva tener conto di questo. Tutte le carrozze delle Ferrovie dello Stato erano state coibentate con l’amianto, si trattava adesso, da quando era stata accertata la sua pericolosità, di smontarle e rimuoverlo. Nelle officine di Genova, Torino, Firenze, Castellamare fiutarono i pericoli di questa operazione e si rifiutarono di farlo. Toccava trovare una soluzione, e la soluzione la trovò Graziano: c’era un’area del paese depressa, un territorio devastato dal terremoto, nessuno ci avrebbe fatto caso. Isochimica nasce così. Quattro mesi di lavoro nero per mettere a punto le tecniche di lavora-zione e si parte.«Allora d’accordo, per adesso lavoriamo all’aperto, ma vedete laggiù… appena saranno ultimati quei capannoni sarete al coperto».Attrezzi da lavoro: giravite, pinze, seghe, spatola. Per la polvere, una mascherina di carta. L’organizzazione del lavoro prevedeva gruppi di sette operai e un capo squadra per ogni singola vettura.

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«Più che una vettura sembrava un tunnel buio — dice Antonio, –le finestre erano coperte da lastre di metallo, entrava poca luce, e noi avevamo soltanto una piccola lampadina. Appena comincia-vamo a smontare il sottotetto veniva giù una polvere di carbone e amianto. Cominciavamo la spen-nellatura con le spatole e la pioggia s’infittiva. Nei vagoni si formava uno strato di nebbia grigia con venature di azzurro nella quale eravamo immersi per tutto il turno di lavoro. I capelli era pregni di polvere. L’amianto si depositava dappertutto, anche sulle cose che mangiavamo: respiravamo e mangiavamo amianto. La consapevolezza del pericolo c’è stata subito, ma ci dicevano che quelle polveri non erano pericolose. Poi nel 1983 mi mandarono a Firenze perché alcune vetture non erano state ripulite bene dall’amianto. Le vetture erano isolate e prima che cominciassimo la lavo-razione furono spostate all’aperto, in un luogo lontano dall’officina. Nella pausa pranzo mi accorsi che gli operai mi evitavano, li tranquillizzai dicendo loro che mi sarei fermato lì soltanto per pochi giorni. Fu allora che uno di loro mi prese per braccio e mi portò in un corridoio le cui pareti erano ricoperte da articoli di giornale nei quali si parlava della pericolosità dell’amianto. Lì cominciò il pro-blema e cominciai ad informarmi. Senza successo cercai di convincere anche i miei compagni di lavoro. Me ne sono andato alla fine del 1984, dopo due anni e mezzo di immersione nell’amianto, nessuno mi seguì. Nessuno si salverà. Sono stato sano come un pesce fino al 2011 quando la tak ha evidenziato placche pleuriche, tipico della contaminazione da amianto. Sono malato… insuffi-cienza respiratoria, affaticamento fisico e del cuore. Questa azienda ha avuto vita facile in una zona disastrata… si è calpestato tutto… persone senza scrupolo. Sfruttamento intensivo… distru-zione di una generazione… eravamo in 333, tutti giovani».Michele fu assunto nel 1983, aveva 19 anni e 10 mesi.«L’amianto veniva sotterrato in un terrapieno, poi furono scavate delle apposite buche, larghe e profonde. Non doveva uscire fuori che lavoravamo l’amianto. Le prime discussioni sulla pericolo-sità dell’amianto ricordo che iniziarono nel maggio del 1985 dopo le nostre denunce e uno studio dell’Università La Cattolica di Roma. La percezione della pericolosità l’ho avuta nel 1986. Nel frat-tempo si era passato dalle mascherine di carta alle maschere multi filtro che ricoprivano tutta la faccia e le tute monouso, dalle quali però filtrava tutto, fibre d’amianto comprese. Dove si svilup-pava la polvere non c’era scampo. Me ne sono andato il 15 gennaio del 1989. In quell’anno ho vinto un concorso nella polizia municipale di Salerno, e sono contento e soddisfatto. Ma qualche preoccupazione continuava ad agitarsi nel cervello quando sentivo notizie giornalistiche sull’amianto, le orecchie mi si drizzano. Per non sentire cose cattive ho voluto dimenticare, fino a quando non ho fatto la spirometria (1996). Nella respirazione forzata, inconsciamente, avevo pre-parato la mia respirazione perché potesse dare il massimo nella speranza di superare l’esame e farmi dire che non avevo niente. Da quella volta ho fatto parecchie notti insonni pensando al fatto che l’amianto avrebbe potuto uccidermi, poi mi sono quietato da solo senza parlare mai con la famiglia. Con chi ne devi parlarne di questo, diventa difficile. Parli con la moglie della paura che hai di morire? Non mi pare proprio un argomento sano. Angosce che non puoi scaricare sugli altri e non sai con chi sfogarti. Questa situazione e durata per molto tempo. Poi un giorno mi hanno chia-mato Carlo e Nicola, due ex compagni di lavoro di Avellino, era il 2006, mi hanno chiesto se avevo conservato materiale della Isochimica. E’ stata la prima mazzata in fronte. Anche se erano passati 15 anni avevo ancora tutto: carte chiuse in una busta mai buttate via (un segno!). Forse riusciamo a fare qualcosa mi dissero, c’era bisogno di manifestare per noi e per il Borgo Ferrovia. Ho comin-ciato a non dormire più. Ricordo una frase nuda e cruda di Carlo: guarda che il male o c’è o non c’è. A cambiare non possiamo cambiare niente, quello che possiamo fare è guardare al futuro e dare una speranza alle nostre famiglie. E lì mi è scattata la molla di cacciare la testa da sotto la sabbia, nascondere a se stessi il problema non serve a niente, la situazione va affrontata, e ho ricominciato a frequentare i compagni di Avellino. A casa di tutto questo non ho mai parlato, e ancora oggi evito di parlarne. Ho sempre sostenuto che la casa è un rifugio personale. Tenere fuori tutti i problemi, gli acciacchi. Fuori da questa brutta storia. Il male c’è o non c’è, vivere con dignità, lottare con dignità, e trasmettere dignità ai figli, e fare in modo che anche loro si educhino alla dignità». Anselmo Botte 

Il Manifesto – 05 gennaio 2014

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Cade e la mandria lo travolge. Muore allevatore di Bisacquino

Gioacchino Lo Grande, 74 anni, era uscito per portare il bestiame al pascolo nel pomeriggio senza poi fare ritorno a casa. E' stato trovato con i segni di un colpo di zoccolo alla testa Un allevatore è stato trovato morto nelle campagne di Bisacquino, in contrada San Ciro, nel Palermitano. Gioacchino Lo Grande, 74 anni, secondoquanto ricostruito era uscito per portare il bestiame al pascolo nel pomeriggio senza poi fare ritorno a casa. I parenti, dopo una breve ricerca, l'hanno trovato in un terreno con una evidente lesione alla testa. Sul posto i carabinieri della Stazione di Bisacquino e della Compagnia di Corleone, coordinati dalla Procura di Termini Imerese. A seguito di una prima ispezione del medico legale, il pastore sarebbe morto a causa di una caduta con trascinamento e un colpo di zoccolo alla testa.

La Repubblica – 6 gennaio 2014

Agricoltore travolto e ucciso dal trattore in un calancoÈ successo a Roncofreddo, nel Cesenate, per cause ancora da accertare. L'allarme è stato dato dai figli. Il 63enne è morto sul colpo

CESENA - Un agricoltore di 63 anni, Bruno Brigliadori, residente non distante dal suo podere dove è avvenuta la tragedia a Villaventi di Roncofreddo, ha perso la vita nel primo pomeriggio rovesciandosi, per cause ancora in corso di accertamento, con il trattore, finendovi sotto in un calanco e morendo sul colpo. I figli, non vedendolo ritornare, lo hanno cercato nel podere di famiglia poco distante e lo hanno trovato senza vita. Indagano i carabinieri.

La Repubblica – 7 gennaio 2014

Amianto all’Ilva, due operai morti per mesoteliomaL’associazione Contramianto si è costituita parte civile nel processo penale per 31 morti da mesotelioma e altri tumori contratti dagli operai venuti a contatto con l’amianto e con le altre sostanze tossiche

All’Ilva di Taranto non sono soltanto le emissioni di polveri e fumi a uccidere: c’è anche l’amianto, il materiale utilizzato su larga scala, per decenni, dall’industria italiana e che ora presenta il conto un po’ ovunque. Due operai di 57 e 69 anni che avevano lavorato nello stabilimento tarantino fra il 1970 e la metà degli anni Novanta come manutentori elettricisti e addetti alla colata continua dell’Acciaieria dell’Ilva di Taranto sono morti per mesotelioma pleurico.A dare la notizia è stato Luciano Carleo, presidente dell’associazione Contramianto onlus che ha fatto presente come siano ormai “centinaia i casi di mesotelioma e patologie asbesto-correlate registrati nel personale Italsider-Ilva di Taranto”. Fra questi c’erano anche i due operai deceduti che avevano ottenuto il riconoscimento dell’esposizione all’amianto. Una situazione definita “prevedibile” da Carleo, visto “l’uso di amianto fatto all’interno dello stabilimento siderurgico”.I dati, purtroppo, sono inequivocabili e dicono che fino alla fine degli anni Novanta la presenza di amianto in azienda era massiccia. Contramianto aveva già avviato le procedure di riconoscimento di malattia professionale in attesa dei necessari approfondimenti su eventuali responsabilità sull’esposizione all’amianto e l’inalazione di fibre cancerogene nel corso dell’attività lavorativa. L’associazione si è costituita parte civile nel processo penale per 31 morti da mesotelioma e altri tumori contratti dagli operai venuti a contatto con l’amianto e con le altre sostanze tossiche nella fabbrica pugliese.

http://www.ecoblog.it - 8 gennaio 2014

Cade da un traliccio. Grave operaio nell'aretino

L'incidente a Ortignano Raggiolo in provincia di Arezzo. L'uomo, caduto da 4 metri di altezza, è stato portato in elisoccorso all'ospedale di Careggi in codice rosso

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(fotogramma)Un operaio di una ditta impegnata nella manutenzione delle linee telefonichesi è ferito gravemente cadendo da un palo di sostegno della linea a Ortigiano Raggiolo, nell'aretino. L'uomo, 53 anni, residente ad Arezzo, è caduto da un'altezza di circa 4 metri riportando un trauma facciale, la frattura dei polsi e una sospetta frattura vertebrale. Soccorso dal 118 è stato trasportato in elisoccorso a Careggi in codice rosso. Sul posto sono intervenuti anche i tecnici del servizio di prevenzione nei luoghi di lavoro e i carabinieri per le indagini.

La Repubblica – 9 gennaio 2014

Muore schiacciato dal trattore mentre lavora nel campoTempestivi ma inutili i soccorsi. E' intervenuto anche un elicottero del 118Firenze, 10 gennaio 2013 - Tragedia in campagna in provincia di Firenze. Un uomo di 58 anni e' morto nel pomeriggio nel territorio di Barberino di Mugello, rimanendo schiacciato da un trattore in un terreno presso localita' Ariano. L'incidente e' avvenuto intorno alle 15.30. Sul posto i sanitari del 118, la cui centrale operativa ha anche inviato un elicottero, ma l'agricoltore era ormai deceduto. Intervenuti nel soccorso anche vigili del fuoco e carabinieri, che hanno svolto accertamenti sull'episodio. L'uomo, di origine romena, stava effettuando lavori per conto di una ditta agricola della zona. Gli inquirenti sono al lavoro per ricostruire la dinamica dell'incidente. Al vaglio anche la posizione di lavoro dell'operaio.

La Nazione – 10 gennaio 2014-03-06

Operaio al lavoro sul tetto cade dalla scala e muore

L'uomo, 48 anni, ha perso l'equilibrio ed è precipitato da un'altezza di circa tre metri. La polizia sta svolgendo accertamenti Stava lavorando al tetto di un capannone quando ha perso l'equilibrio ed è caduto dalla scala. Così è morto a Frosinone un operaio di 48 anni, precipitato da un'altezza di circa tre metri.Era arrivato all'ospedale Spaziani in gravi condizioni ma è deceduto poco dopo. La polizia sta svolgendo accertamenti.

La Repubblica – 12 gennaio 2014

I parenti delle vittime del rogo a Chinatown: “Aiutateci, fateci lavorare qui a Prato”

PRATO - La casa dove vivono da qualche settimana, vicino al centro storico di Prato, è come loro: spoglia, provvisoria, senza niente. Niente mobili, solo letti distesi a terra e coperte e un tavolo fatto di scatole di cartone rovesciate. «Siamo soli: ci aiutate?». E’ un appello lanciato dall’isola di Chinatown, da parte dei parenti delle vittime del rogo al Macrolotto 1. Sette croci dentro il capannone, all’alba del 1 dicembre, quattro feriti, mille domande sulla sicurezza, sul lavoro nero, sui controlli e su chi sfrutta certe povertà.I parenti di quegli operai vivono in un piccolo appartamento non lontano da via Pistoiese, con i loro lutti, sconosciuti a chi abita nella porta accanto. Pagano 900 euro di affitto per due stanze senza riscaldamento, "a sinistra gli uomini a destra le donne" fa strada un ragazzo. "Costava 750 euro, ma ce l'hanno aumentato". I vicini si sono lamentati, c'era un inquilino cinese lì dentro, oggi è un via vai: abitano in quattordici e molti piangono anche di notte. "Vengono a bussare e ci gridano: basta! basta!". Ma il dolore non rispetta il fuso orario, le lacrime arrivano senza preavviso e trovano sempre una strada."Non abbiamo più niente" si dispera Jin, la vedova Jian Rao Zhang, 43 anni, padre di due bambini. Il lavoro di Jian mandava avanti la famiglia in Cina, bastava a mantenere anche i vecchi genitori. E' uno dei sette morti fra le fiamme che si sono alzate altissime e hanno fatto crollare il tetto della fabbrica "Teresa Moda". Jian era addetto alla stiratura dei vestiti, lavorava a cottimo, come molti altri, guadagnando dai mille ai duemila euro quando c'erano le commesse e niente ad agosto quando il lavoro scarseggiava: "Diceva che andava tutto bene per non preoccuparci, dal 2005 non vedeva i bambini perché era clandestino e se lasciava l'Italia non poteva rientrare".

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I familiari delle vittime sono arrivati a Prato comprandosi il volo, "12mila yuan", circa 1.500 euro, una cifra altissima per chi viene dalle campagne cinesi. "Abbiamo fatto delle collette con amici e parenti per pagare il biglietto dell'aereo" racconta uno. Passano i giorni e non succede niente, non c'è nemmeno una data per i funerali. E loro non hanno neppure un pasto caldo gratis, non c'è un'associazione che si prenda cura di questa gente, spiega il mediatore linguistico, un giovane imprenditore cinese: "Aspettiamo un risarcimento" dicono. Qualcuno chiede un lavoro, un passaporto con un timbro, una possibilità per restare. Davanti al consolato di Firenze in via Della Robbia, qualche giorno, fa hanno steso uno striscione: "In nome di questi morti" e portato lì le sette fotografie e piccoli lumi, candele. Una manifestazione inedita per la comunità cinese, la prima del genere in Toscana. Del resto il dolore cambia le persone.Chiedevano la stessa cosa di ora: "Abbiamo bisogno di nuovi documenti perché i nostri visti stanno per scadere - è l'appello che lanciano i quattordici - Vogliamo incontrare la proprietaria del laboratorio, capire cosa può fare, alcuni di noi devono riprendere i soldi del lavoro svolto dai nostri parenti. E poi vorremmo rimanere a Prato perché il lavoro che facevano quelli che ci hanno lasciato mandava avanti le nostre famiglie in Cina". Le parole vengono tradotte da un mediatore perché questa gente non parla inglese, né mandarino. Si esprimono nella lingua delle campagne, dello Zejiang o del Fujian le grandi regioni del sud est della Cina da cui provengono.Si siedono su uno sgabello di plastica, ciascuno con la foto incorniciata di una madre, di un fratello, di una moglie, di un marito, di un padre, di quelli che hanno perso. Vogliono raccontare chi erano quegli operai uccisi dalle fiamme e dal fumo, uccisi dall'assenza delle più elementari norme di sicurezza. Lan, per esempio, racconta dell'ultima telefonata a Su Qifu, 44 anni, suo marito. Lui era fra quelli regolari, con permesso di soggiorno, meno regolare la sua busta paga: figurava 4 ore di lavoro al giorno, invece delle 10 o 12 o 16 che faceva. "L'ho chiamato intorno alle 6 del mattino del 1 dicembre, ha fatto in tempo a dire che dormivano tutti". Invece c'erano già le fiamme e il fumo dentro il laboratorio, forse quella bugia era per non preoccupare la moglie: è stato trovato in fondo al dormitorio, al piano terra, lontano dall'uscita, senza nessuna possibilità di fuga. Aveva il cellulare in mano quando il fuoco lo ha sorpreso. "Mio marito voleva andare via da "Teresa moda" ad agosto, ma siccome la titolare lo stimava molto lo ha convinto a restare". Il destino fa sempre la sua parte. "Abbiamo un figlio di 21 anni, aiutatemi a farlo venire in Italia per lavorare" aggiunge Lan mettendosi una mano vicino al cuore.Le storie di questi operai e delle loro famiglie sono vite declinate dal basso, un'immigrazione dura, fatta di fatica e sudore. Xiuping Zheng aveva compiuto 50 anni da poco, il suo corpo l'hanno trovato al piano superiore i vigili del fuoco. Era a Prato da appena dodici mesi, arrivata qui per raggiungere il marito. Adesso lui, Lin Hou Long e suo figlio Ze Wen guardano la foto di Xiuping e piangono: "Ci aveva chiamato alle 2 di quella notte, voleva sapere se stavamo bene e come andavano i preparativi per la festa di nozze". Il figlio stava per sposarsi. "Mia madre lavorava così tanto..." riesce a dire il ragazzo, poi la voce scompare nei singhiozzi.Avevamo forse già provato a girare pagina, avevamo preso un po' largo da quel 1 dicembre e dal suo odore acre di stoffe incendiate, di bottoni sparsi in terra, grucce di plastica colate dal fuoco, manodopera a basso costo, polemiche, allarmi e parole. Invece queste facce così segnate, ci riportano nel piazzale del Macrolotto, area industriale di Chinatown. "Avrei voluto esserci io là dentro e poter salvare mia moglie" dice il marito di Xiuping.Vivere e lavorare da clandestino significa vedere i figli crescere da lontano, guardarli attraverso le mail o nei collegamenti con we chat: "Mi hanno detto: tuo fratello è morto in fabbrica, a Prato. Ma io non ci credevo, lo avevamo sentito poche ore prima al telefono. - racconta Mingen, 43 anni. Guangxing Lin, 51, clandestino, è rimasto bloccato sul soppalco. "Era entrato in Italia dieci anni fa, con un visto turistico, poi era rimasto a Chinatown. Da tre anni lavorava da Teresa Moda, cuciva i bottoni e i soldi che guadagnava servivano a mantenere la famiglia, moglie e due figli. Uno studia in Giappone, ma ora dovrà lasciare l'università, chi può prendersi cura di lui? Io penso che la titolare del laboratorio debba venire a parlarci e a chiedere almeno scusa...". Basta guardare gli occhi di Hu, 21 anni o di suo fratello di 28 per capire cosa ha portato via quel rogo: la loro mamma, Whang Ciuntao, 46 anni, si occupava della pulizia e della cucina per mille euro al mese."Aveva raggiunto il marito a Prato ma non vivevano insieme perché lui era in un'altra fabbrica e l'imprenditore cinese si occupa di pagare vitto e alloggio agli operai - spiega il mediatore - così il marito dormiva in un altro appartamento".La sera Whang era l'ultima ad andare a letto, quando gli altri finivano di lavorare - e la notte del

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rogo erano andati avanti fino all'1,30 - lei doveva ripulire i locali. "Non si lamentava mai, diceva che andava sempre tutto bene" racconta il marito in lacrime e la figlia: "Dateci un lavoro, teneteci qua per favore. La mamma vorrebbe questo". Hanno bisogno di tutto queste persone, di cose da mangiare, da vestire, ma soprattutto hanno bisogno di giustizia e di solidarietà, hanno bisogno che non voltiamo pagina su quella tragedia. "La titolare di Teresa è ricca, deve risarcirci" dice uno dei familiari. La mamma di Xieqing Xue, 34 anni, racconta che gli aveva telefonato da poco per dire che non riusciva a mandare i soldi a casa: "C'erano troppi controlli alla West Union e lui era clandestino. Disse che ce li avrebbe mandati dopo il 6 gennaio".Mancano nella casa di Prato, i parenti di Dong Wenqui perché sono a Brescia per lavoro. "Ci costituiremo parte civile" promette l'avvocato Antonio Bové del foro di Bologna che segue il calvario di queste famiglie. Di lavoro il legale ne avrà parecchionei prossimi giorni per conquistare un prolungamento dei visti. Dopo l'inedita manifestazione davanti al consolato cinese, non è cambiato niente, anzi forse l'aria è peggiorata: "Hanno telefonato dagli uffici immigrazione della Cina per dire di non fare più queste cose" sussurra un altro cittadino cinese, che non abita in quella casa e che nemmeno vuole dire come si chiama. Anche per questo non possiamo allontanarci da quel piazzale di via Toscana.

La Repubblica – 12 gennaio 2014

Crisi, non riesce a trovare lavoro e si impicca a un albero nel Viterbese

La tragedia a Pescia Romana, frazione di Montalto di Castro. Al 50enne, operaio nella cartiera di Tuscania, gli era scaduta la cassa integrazione e ha deciso di farla finita. E' stata la moglie a scoprire il cadavere Gli era scaduta da circa un anno la copertura della cassa integrazione e non riusciva a trovare lavoro. E cos ieri sera un uomo di 50 anni, sposato e con due figli, ha deciso di farla finita impiccandosi a un albero. L'ennesima tragedia dellacrisi economica è avvenuta a Pescia Romana, frazione di Montalto di Castro, in provincia di Viterbo. A scoprire il cadavere dell'uomo è stata la moglie.Sul posto sono arrivati i sanitari del 118 e i carabinieri della stazione locale, ma per l'uomo ormai non c'era più nulla da fare. Pescia Romana, poco più di 2.500 abitanti, oggi è un paese sotto shock. L'uomo aveva lavorato come operaio nella cartiera di Tuscania, sempre in provincia di Viterbo.

La Repubblica – 13 gennaio 2014

Firenze, travolto dal treno a S.M.Novella. Operaio investito dalla motrice

L'incidente durante il tragitto dal deposito al binario 2 della stazione. L'uomo era alla guida del locomotore. E' sceso per azionare il sistema di via libera ma è stato colpito dalla carrozza che è poi deragliata per venti metri. Trenitalia: "Sistema di sicurezza inspiegabilmente non in funzione". La procura indaga per omicidio colposo. Sciopero dei sindacati: "Manca personale"di GERARDO ADINOLFI, LUCA SERRANO' e FRANCA SELVATICI

E' stato travolto dalla carrozza motrice durante le operazioni di spostamento di un treno  dal deposito al binario 2 della stazione di Santa Maria Novella, a Firenze. Fabrizio Fabbri, 34 anni, originario di Vicchio, è morto poco prima della mezzanotte in un incidente sul lavoro avvenuto nella stazione fiorentina. L'uomo lascia la moglie e un figlio piccolo.ondo la ricostruzione della polizia ferroviaria - gli accertamenrti andati avanti tutta la notte -l'uomo era alla guida del treno da solo. Durante il tragitto si è fermato per azionare il sistema che regola il via libera dei treni quando per motivi ancora da chiarire il mezzo si è mosso e lo ha travolto per poi deragliare. Vista la presenza del segnale rosso, il treno sarebbe stato automaticamente deviato su un binario morto, percorrendo ancora una ventina di metri fino a raggiungerne la conclusione e a uscire dallo stesso binarioGli accertamenti, condotti dal pm Filippo Focardi, si concentrano in queste ore per chiarire se la tragedia sia stata provocata da un malfunzionamento dei sistemi di sicurezza o dal mancato innesco del freno.  "Inspiegabilmente . spiega Trenitalia in una nota - 

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risulta che il Sistema di sicurezza, che avrebbe arrestato il movimento del treno (Scmt), non risultava inserito durante l'operazione di trasferimento del convoglio". L'azienda di trasporti ha espresso cordoglio per i familiari dell'uomo e ha avviato un'indagine per capire l'esatta dinamica dell'incidente.  Il locomotore è stato sequestrato. Il pm ha disposto l'acquisizione dei report e delle centraline sugli scambi, dei report di bordo e sulla manutenzione. Al momento non ci sono indagati e non è stata ancora disposta l'autopsia.  Iniziate le verifiche anche per capire se questo tipo di manovra potesse essere effettuata senza l'ausilio di un altro operaio."Questa notte a Firenze è morto un ferroviere di 34 anni. Un incidente sul lavoro - ha scritto il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi su Facebook -  E' deragliata una carrozza ad un treno che stavano assemblando in stazione. Davanti ad una tragedia come questa il mio impegno per un servizio ferroviario sicuro ed efficiente, per chi con i treni ci lavora e per chi ci viaggia, non può che crescere. Le mie più sincere condoglianze e un abbraccio alla moglie e al piccolo figlio di Fabrizio"."La sicurezza dei lavoratori, come dei viaggiatori - ha detto il sottosegretario ai trasporti Erasmo D'Angelis -  per noi non è solo una priorità ma è una variabile indipendente e così deve essere per tutti i soggetti impegnati nell'esercizio ferroviario. E' stata già avviata un'indagine da parte del ministero, che si aggiunge a quella aperta da Trenitalia, per chiarire la dinamica" dell'incidente avvenuto ieri sera alla stazione fiorentina di Santa Maria Novella e costato la vita a un ferroviere."Ho chiesto a Rfi e Trenitalia - ha aggiunto D'Angelis - di continuare a lavorare con la massima attenzione, vigilanza e rigore nel rispetto delle norme e delle procedure di sicurezza.Anche se i dati degli ultimi tre anni, grazie anche al lavoro svolto dai sindacati, indicano una diminuzione degli incidenti ferroviari occorre mantenere sempre alti i livelli di attenzione".LO SCIOPERO Due ore di sciopero, oggi, per i ferrovieri toscani dopo l'incidente in cui ha perso la vita un giovane manovratore di Trenitalia la notte scorsa a Firenze: lo hanno proclamato Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti-Uil, Ugl, Fast e Orsa. I sindacati chiedono "l'apertura immediata di tavoli di confronto volti ad analizzare le cause e cercare di trovare soluzioni o azioni positive per riportare la sicurezza sul lavoro a livelli di garanzia ottimali per gli agenti di tutti i settori ferroviari".Il personale degli impianti fissi si asterrà dalle ultime due ore della prestazione lavorativa, mentre il personale operante in attivitàlegate alla circolazione treni sciopera dalle 16 alle 17.59 di oggi. "Ancora una volta e in questa triste circostanza - si legge in una nota congiunta - vogliamo mettere in evidenza e segnalare a tutti, società, istituzioni, organi preposti e cittadinanza lo stato di difficoltà, dovuto principalmente alla mancanza di personale in cui versano gli impianti ferroviari toscani, e per la quale sono già in corso da tempo delle vertenze sindacali".

La Repubblica – 13 gennaio 2014

Firenze. Un ferroviere schiacciato da un treno

Un treno in manovra è deragliato alla stazione Santa Maria Novella di Firenze e ha travolto un operaio che è morto sul colpo. L’incidente è accaduto intorno alla mezzanotte e il binario della stazione coinvolto non sarebbe tra quelli dedicati al traffico, ma al servizio interno.Secondo una prima ricostruzione dei fatti, infatti, il treno era "in formazione"; in pratica si stavano  aggiungendo i vagoni per completare un normale convoglio passeggeri. Il treno ha divelto i respingenti di fine binario e una carrozza sarebbe deragliata. La carrozza, dopo un volo di una ventina di metri, ha travolto un operaio delle ferrovie.Immediatamente la società guidata da Mauro Moretti ha scaricato la colpa sull'operaio morto, diramando una nota secondo cui Fabrizio Fabbri, 34 anni, originario di Vicchio (Firenze), impegnato nelle operazioni di trasferimento del treno, sarebbe sceso sui binari e poi sarebbe stato investito dalla motrice. "Inspiegabilmente risulta che il sistema di sicurezza che avrebbe arrestato il movimento del treno (Scmt), non risultava inserito durante l'operazione di trasferimento del convoglio".Mai una volta che ammettano di aver deciso un'organizzzione del lavoro altamente pericolosa e fonte di decine di incidenti quotidiani, che solo fortunosamente non si trasformano tutti in tragedie come questa.

Contropiano – 13 gennaio 2014

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Velletri, muore un operaio. Finisce con la ruspa nel burrone

La ruspa che stava guidando è caduta in una scarpata e lui è morto sul colpo. E' successo a Velletri. Vittima un operaio che stava lavorando in via delle Cave, rimasto incastrato nel mezzo dopo che la pala meccanica si è ribaltata sbilanciandolo e facendolo finire nel burrone. Non c'è stato nulla da fare.

La Repubblica – 14 gennaio 2014

STRAGE BIANCA. DALLA PHILIPS ALLA FIAT, DALLA PIRELLI ALL’ILVA: LA GRANDE INDUSTRIA SOTTO ACCUSA PER LE MORTI OPERAIE

Mentre a Torino i giudici d’appello confermano le responsabilità di due ex dirigenti della Philips per le morti nello stabilimento di Alpignano, a Milano otto ex manager della Franco Tosi vanno a processo per i 33 operai uccisi dal mesotelioma pleurico, lo spietato tumore provocato dalle fibre di amianto. La decisione del GUP Luigi Gargiulo chiude una inchiesta che ha riguardato quasi vent’anni di lavoro quotidiano nella storica fabbrica di turbine, dai ’70 fino al 1992, quando, con criminale ritardo rispetto alle già comprovate evidenze ascientifiche, l’amianto fu messo al bando.Gli ex dirigenti della Franco Tosi, accusa il PM Maurizio Ascione, hanno violato le norme per la prevenzione di infortuni sul lavoro e malattie processionali. Gli imputati, fra i quali l’attuale numero uno di Italcementi, Giampiero Pesenti, si difendono: “Il materiale c’era solo nei disposi-tivi di protezione personale per i lavoratori impegnati nei processi di fusione metallurgica”. Al di là di quanto emergerà al dibattimento, la Franco Tosi si aggiunge a una lunga lista di aziende. Nomi di rilievo come Ilva, Pirelli, Fiat-Alfa Romeo, Anic-Enichem, Olivetti e Philips. Tutte sotto inchiesta, o già a processo, per non aver messo in pratica adeguati dispositivi di sicurezza con-tro il rischio mortale provocato dalle fibre e dalla polvere di amianto. Spesso senza neppure informare i lavoratori.Solo la determinazione di associazioni come Medicina Democratica, in parallelo al gran lavoro di magistrati come Beniamino Deidda e Raffaele Guariniello, ha permesso di fare luce su una “strage bianca” di dimensioni terribili. A causa dell’amianto muoiono duemila persone l’anno, stima ricavata dall’Inail sulla base dei dati del Registro nazionale dei mesoteliomi. Nel periodo 1993–2008 sono stati diagnosticati 15.845 casi, con altrettante diagnosi di tumore polmonare e prognosi infausta. Per giunta il numero delle patologie è andato crescendo negli ultimi cinque anni, e si stabilizzerà solo dal 2015.I PM allievi di Deidda e Guariniello fanno del loro meglio. A dicembre si è chiuso a Torino, con quattro condanne, il processo per i 14 morti e le malattie operaie nelle storiche Ferriere: “A loro va il nostro pensiero” - li ha ricordati Federico Bellomo della Fiom - “viste le ragioni, riconosciute dal tribunale, di quanti hanno lottato per la salute e la sicurezza in quel luogo, a iniziare da chi vi lavorava e che in molti casi ha pagato con la vita”. A Milano è in corso un processo contro la Pirelli (e un altro è in arrivo) per la contaminazione di 24 operai, in stabilimenti dove l’amianto era anche nel talco usato in alcune lavorazioni e nella mensa. Delle 24 “parti lese” solo quattro sono ancora vive. “Non abbiamo mai usato mascherine” – ha raccontato al giudice Antonio Dinetta — “e nessuno ci ha mai parlato dei pericoli derivanti dall’amianto”.Un altro processo si sta svolgendo a Taranto per le vittime all’Italsider-Ilva (31 morti da mesote-lioma e altri tumori da sostanze tossiche), e a Ravenna sono prossimi al rinvio a giudizio una ventina di ex dirigenti del polo chimicoo Anic-Enichem (75 fra lavoratori e loro familiari morti per amianto). Sempre a Milano è stato chiesto il processo dell’ex AD Paolo Cantarella e altri sei manager Fiat dell’epoca per 21 vittime da amianto all’Alfa Romeo di Arese, e nel torinese si sta indagando anche sulla Olivetti nel periodo 1978–92, quando era guidata da Carlo De Benedetti.Secondo una stima del CNR, nella penisola esistono ancora 2,5 miliardi di metri quadrati di coperture realizzate con materiali contenenti amianto, circa 32 milioni di tonnellate.E le prime vittime già segnalate nel settore delle ristrutturazioni edilizie non finiscono ancora nella cartina del Registro dei mesoteliomi, dove compaiono solo i disastri più eclatanti. Perfino la magistratura fa fatica: all’indomani del vittorioso processo per la strage all’Eternit di Casale Monferrato, Raffaele Guariniello ricordava a La Stampa: “Di indagini e processi se ne fanno

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pochini. Un collega di una delle aree più martoriate mi ha confidato: non ci segnalano i casi. Poi ha aggiunto: per fortuna, se lo facessero non sapremmo come fare”. Riccardo Chiari.

Il Manifesto – 17 gennaio 2014

Isochimica, i medici: «Ottanta operai contaminati dall’amianto. Dentro di loro un killer pronto ad entrare in azione»Lo studio del dottor Polverino conferma le accuse dei lavoratori. Nasce il comitato unico degli ex lavoratori di Avellino e Salerno

Avellino – «Il cento per cento degli operai salernitani dell’Isochimica di Avellino, che si sono sottoposti ai nostri accertamenti medici, sono risultati contaminati dall’amianto». Lo ha detto, nella sede dell’Ordine dei medici e degli odontoiatri della provincia di Salerno, il professor Mario Polverino, direttore del Polo pneumologico dell’ospedale “Scarlato” di Scafati, nel corso della presentazione dello studio da lui condotto in due anni. Parole che pesano come macigni sul futuro degli ex lavoratori. Parole che confermano quanto annunciato da altri esperti negli scorsi mesi dopo screening condotti anche sugli operai irpini. Quadri clinici seriamente compromessi, secondo gli esperti salernitani, che potrebbero ulteriormente complicarsi se i diretti interessati dovessero continuare ad essere impegnati in lavori “difficili”, come fabbriche o aziende in cui si è a contatto con ulteriori sostanze. Parole che pesano come macigni sul futuro degli ex lavoratori. Parole che confermano quanto annunciato da altri esperti negli scorsi mesi dopo screening condotti anche sugli operai irpini. Quadri clinici seriamente compromessi, secondo gli esperti salernitani, che potrebbero ulteriormente complicarsi se i diretti interessati dovessero continuare ad essere impegnati in lavori “difficili”, come fabbriche o aziende in cui si è a contatto con ulteriori sostanze. «L’amianto – ha spiegato – è pericoloso per la salute poiché le fibre che lo compongono, oltre mille volte più sottili di un capello umano, possono essere inalate e danneggiare le cellule mesoteliali, provocando, in alcuni casi, il cancro. Se si depositano nei polmoni, queste piccole fibre possono dare origine a varie malattie, come l’asbestosi o il tumore, come appunto il mesotelioma. É fondamentale che i lavoratori vengano controllati e monitorati per tutta la vita. All’interno del loro organismo hanno un killer pronto ad entrare in azione. É importante ricordare – ha ribadito Polverino – che vi può essere una latenza temporale particolarmente elevata, dai 15 ai 45 anni e che il rischio non diminuisce una volta eliminata completamente l’esposizione, ma rimane costante per tutta la vita». I dati non riguardano la totalità dei lavoratori, bensì solo di un’ottantina. Alcuni, frattanto, erano già morti, mentre altri non è stato possibile rintracciarli o si sono dimostrati irreperibili perché avevano paura di affrontare questa verità sulla propria salute. Ci sono, poi, tutta una serie di fattori di rischio che possono aumentare la percentuale di malattia. Infatti, un soggetto fumatore che in quel periodo è entrato in contatto con l’amianto, ha il 60 per cento di probabilità in più di ammalarsi rispetto ai suoi colleghi non fumatori. Durante l’incontro si è parlato anche della bonifica el sito di Borgo Ferrovia “dove – ha spiegato Carlo Sessa, operaio irpino presente all’incontro con una delegazione di ex colleghi – sorge anche un asilo nido e un campetto di calcio”, della possibilità di avviare uno stesso screening sul territorio avellinese e della modifica della Legge 257 del ’92. «Se altrove ci sono state omissioni da parte dei medici, non troveranno certo la solidarietà del nostro Ordine – ha rimarcato il presidente Bruno Ravera -». Intanto martedì tornerà a riunirsi il comitato degli ex lavoratori della fabbrica dei veleni di Salerno e Avellino. «Queste nuove dichiarazioni rese da uno dei massimi esperti fanno davvero tremare le gambe – spiega Carlo Sessa -. Sappiamo di essere con buona probabilità dei condannati a una morte precoce. Ci auguriamo che parta presto il processo, perchè chi ha sbagliato paghi, soprattutto quanti hanno saputo e mentito. Mentre i nostri politici, sindacati e referenti devono solo provare vergogna nel vedere che questa è l’ulteriore conferma che avrebbero dovuto fare molto di più».

Avellino 8 pagine – 19 gennaio 2014

Isochimica, uno studio medico choc Contaminati dall'amianto 80 operai

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«SIAMO morti che camminano».Carlo Sessa, ex operaio dell'Isochimica di Pianodardine (Avellino), la fabbrica dei veleni chiusa dal 1988 dove veniva eliminato l'amianto dalle carrozze ferroviarie, vive un dramma senza fine.Ha già visto morire undici compagni di lavoro, consumati negli anni dall'asbestosi che ti toglie il respiro giorno dopo giorno. E la paura aumenta ora che il professore Mario Polverino, direttore del Polo pneumologico dell'ospedale "Scarlato" di Scafati, ha certificato che il «100% degli operai salernitani dell'Isochimica che si sono sottoposti agli accertamenti medici sono risultati contaminati dall'amianto». Polverino ha presentato i dati di uno studio durato due anni su circa 80 dei 330 ex dipendenti della fabbrica. Come dire non c'è scampo. Molti hanno avuto persino paura di sottoporsi ai controlli. «Siamo destinati a morire», dice Nicola Abrate, un altro ex operaio a cui è stata riconosciuta la malattia professionale.Non lavora, ma neppure può sperare di andare in pensione perché la questione dei pre-pensionamenti si è arenata in Parlamento. «Nonostante le promesse su questa storia sono tutti assenti: sindacati e partiti», attacca Carlo Sessa, che parla di altri lavoratori che «stanno morendo nell'indifferenza». E il professore Polverino, ieri mattina, nella sede dell'Ordine dei medici di Salerno, ha denunciato la gravità della situazione. «É fondamentale chei lavoratori vengano controllatie monitorati per tutta la vita. All'interno del loro organismo - ha aggiunto Polverino - hanno un killer pronto ad entrare in azione: vi può essere una latenza temporale particolarmente elevata, dai 15 ai 45 anni e il rischio non diminuisce una volta eliminata completamente l'esposizione, ma rimane costante per tutta la vita». Eppure ci sono voluti più di 25 anni per capire la tragedia dell'Isochimica.«Per tanto tempo ci siamo battuti, ma tutti si sono girati dall'altra parte», accusa Tony Della Pia, segretario provinciale di Rifondazione comunista.Ora c'è, però, chi vuole vederci chiaro in questa scia di morti e veleni. Il procuratore di Avellino, Rosario Cantelmo ha già sequestrato la fabbrica, all'interno della quale sarebbero interrate ancora scorie di amianto, ed ha messo sotto inchiesta ventiquattro persone, tra cui il titolare della fabbrica, Elio Graziano, ex presidente dell'Avellino negli anni '80, ma anche politici e dirigenti dell'Asl.Si deve fare luce sulla morte degli operai che avevano lavorato l'amianto senza protezioni e sullo smaltimento illecito delle scorie velenose. «Non capisco come la città di Avellino abbia potuto tollerare la presenza di una bomba ecologica a pochi metri da una scuola elementare e da un campo di calcio», ha detto il procuratore Cantelmo, che ha spinto poi il sindaco di Avellino, Paolo Foti, ad accelerare per la bonifica del sito procedendo all'esproprio della fabbrica. Il monito del procuratore ha scosso le coscienze, dopo anni di silenzi e omissioni.A borgo Ferrovia, dov'è situata la fabbrica, è nato un comitato spontaneo che chiede all'Arpac e all'Asl uno screening ambientale e controlli sanitari sui residenti che temono di aver inalato negli anni fibre d'amianto. Ne fanno parte anche i medici di base della Valle del Sabato, che da mesi denunciano l'aumento di patologie tumorali tra gli abitanti della zona. Ma si sono mobilitati anche il parroco, don Luigi Di Biasi e le mamme dei bambini che frequentano la scuola del rione. E c'è un altro aspetto inquietante al centro dell'inchiesta: è stato già sentito un testimone chiave, Alessandro Manganiello, ex operaio anche lui ammalato, costretto a trasferirsi a Termoli per superare le crisi respiratorie che ormai lo tormentano. Ha raccontato di aver visto smaltire l'amianto persino nelle acque del fiume Sabato che attraversa i comuni dell'hinterland di Avellino. PIERLUIGI MELILLO

La Repubblica – Cronaca di Napoli - 19 gennaio 2014 

100% amianto! Isochimica, una brutta storia di sfruttamento, ricatti e criminalità

100% contaminati dall’amianto. Il risultato dellindagine a campione dei medici della provincia di Salerno lascia davvero senza parole. Ottanta analisi sugli ex operai della Isochimica (Avellino) hanno dato tutte lo stesso risultato. Lo studio, condotto dal dott. Mario Polverino, direttore del Polo Pneumologico dell'Ospedale "M. Scarlato" di Scafati negli ultimi due anni, pur non riguardando la totalità dei lavoratori, non lascia dubbi sull’entità del disastro provocato dall’azienda che dall’81 si è occupata di scoimbentare il “materiale rotabile” delle Ferrovie dello Stato.

Una brutta storia fatta di tangenti, mancanza assoluta di misure di sicurezza e latitanza delle

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istituzioni. "E' fondamentale che i lavoratori vengano controllati e monitorati per tutta la vita – sottolinea Plverino -. All'interno del loro organismo hanno un killer pronto ad entrare in azione. E' importante ricordare - rimarca Polverino - che vi puo' essere una latenza temporale particolarmente elevata, dai 15 ai 45 anni e che il rischio non diminuisce una volta eliminata completamente l'esposizione, ma rimane costante per tutta la vita".Ci sono, poi, tutta una serie di fattori di rischio che possono aumentare la percentuale di malattia. Infatti, un soggetto fumatore che in quel periodo e' entrato in contatto con l'amianto, ha il 60% di probabilita' in piu' di ammalarsi rispetto ai suoi colleghi non fumatori.Nel corso dell'incontro si e' discusso anche della bonifica dell'area dell'ex Isochimica, nel borgo ferrovia, alla periferia di Avellino, "dove – sottolineano gli operai presenti - sorge anche un asilo nido e un campetto di calcio", della possibilita' di avviare uno stesso screening sul territorio avellinese e della modifica della Legge 257 del '92. La stazione ferroviaria è a soli 200 metri dall'impianto."L'Ordine dei Medici di Salerno - spiega il presidente Bruno Ravera - continuera' sempre a sostenere iniziative come queste e tutto quello che e' in nostro potere verra' fatto. E' gia' operativa una Commissione Ambiente con la collaborazione dell'attuale Commissario Arpac e quindi siamo particolarmente sensibili a queste tematiche. Se altrove ci sono state omissioni da parte dei medici, non troveranno certo la solidarieta' del nostro Ordine".Le omissioni di cui parla Ravera riguarda il silenzio che per anni ha circondato l’attività di Isochimica. Elio Graziano è noto per la sponsorizzazione dell’Avellino calcio e per la vicenda delle lenzuola d’oro (più di cinque anni comminati dalla giustizia), vicenda che aprì, drammaticamente, la storià di tangentopoli.In cinque anni sono state scoimbentate 499 elettromotrici e 1.700 carrozze per un totale di ventimila chili di amianto. In pratica i lavoratori hanno lavorato a mani nude e senza alcuna protezione.Non solo in più occasioni l’amianto è stato sparso, accidentalmente o meno a contaminare il territorio.Le prime perizie risalgono all'85 a due anni dalle prime denunce. Secondo i tecnici "l'amianto si vede ad occhio nudo". Alcune rilevazioni accertarono valori di amianto superiori di 50 volte al limite imposto dall'Unione Europea in luoghi anche lontani dalla "produzione", come gli spogliatoi e le mense. L'attività dell'Isochimica continuò fino alla fine degli anni '80. E venne chiusa con un provvedimento della magistratura.Sulla reale entità del pericolo non c'è stata mai chiarezza. Aver accertato che il 100% delle analisi sul campione hanno dato riscontro positivo è già un punto a favore dell'opera di bonifica. La bonifica trascinata in venti anni di ritardi ed inerzie si è rivelata poco più di una farsa. Non si è riusciti nemmeno a stabilire il numero preciso dei cubi di calcestruzzo e amianto stoccati sul piazzate. Trecento, secondo una relazione del 2002. Ben 347, secondo un documento dell’Arpac di due anni dopo. Che diventano 489 in un censimento del 2007, poi 509 in una tabella riassuntiva e 525 nelle conclusioni. Addirittura 681 secondo il dato di un medico messo a verbale di una riunione al Comune di Avellino nel giugno 2010.

http://www.controlacrisi.org/ - 20 gennaio 2014

Isochimica, quei trecento morti che camminanoUna bomba di amianto, morti e malattie. Un vortice buio di compiacenze, silenzi e potere. Tutto in uno dei disastri più grandi della storia industriale italiana: quello dell'Isochimica di Avellino

Carmine Ranieri Guarino - AVELLINO - Hanno la faccia stanca e il fisico provato. Parlano con rabbia, scuotono la testa. Si agitano al ricordo di quegli anni maledetti. E tremano al pensiero di un destino che, purtroppo, è già scritto. "Siamo dei condannati a morte". Sono queste le prime parole che escono dalla bocca di Carlo Sessa e Francesco D'Argenio, due dei trecento operai dell'ex Isochimica di Borgo Ferrovia di Avellino: la fabbrica che - ne è convinta la Procura che a maggio ha sequestrato il sito e indagato ventiquattro persone - ha ucciso nel silenzio di tutti. Per quasi dieci anni Carlo e Francesco hanno scoibentato 360 carrozze all'anno dei treni di Ferrovie dello Stato. Per quasi dieci anni hanno respirato amianto, hanno vissuto nell'amianto, si sono ammalati d'amianto. Per trenta anni Carlo e Francesco hanno chiesto giustizia, hanno

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sperato che qualcuno riconoscesse il "sacrificio" loro e degli altri lavoratori. E per trenta anni hanno lottato contro il potere e contro l'indifferenza, "malattie" capaci di fare male quanto e più dell'amianto. Entrare nell'Isochimica oggi è come entrare in un inferno. Nei capannoni che una volta accoglievano le carrozze, la polvere di amianto ha cancellato i pavimenti. Le mura esterne non si vedono più, c'è una fila interminabile di cubi di cemento amianto: cinquecento, forse seicento. Gli spazi dove i lavoratori trascorrevano l'ora di pausa pranzo sono diventati un campo minato: fra lastre ricoperte d'amianto e rovi che riescono a nascondere altri cubi mortali. E nel disastro totale sembra ancora di vedere quei giovani operai che nell'82 - in un'Irpinia ancora devastata dal terremoto - cominciarono la loro "missione per lo Stato". "Eravamo tutti giovani - racconta Francesco D'argenio, affetto da asbestosi iniziale - ci presero quando eravamo ancora ragazzini per fare la scoibentazione quanto più velocemente possibile". Ed è proprio da qui, dal primo giorno di lavoro, che secondo i Pm comincia una serie interminabile di leggi ignorate e di punti interrogativi strazianti. "La legge diceva che per questo tipo di lavori bisognava assumere persone ultracinquantenni perché le malattie asbesto correlate hanno un periodo di incubazione di trenta anni e invece noi avevamo un'età media di ventidue anni. Facendo lavorare i giovani sapevano che avrebbero finito il lavoro prima, ma - dice con rabbia l'ex lavoratore - ci hanno fatto ammalare e ci hanno costretto a combattere la malattia in un'età in cui è impossibile vincere. Ci hanno ucciso due volte". Sì, perché - ne sono convinti gli ex dipendenti - è di omicidi che si tratta. Omicidi portati avanti  - dicono - da tutti coloro che oggi sono nei libri della Procura indagati a vario titolo: da Elio Graziano, che i lavoratori dipingono come il "potente proprietario della fabbrica"; dall'Asl di Avellino, che Carlo e Francesco dicono di non aver mai visto in quell'inferno che era l'Isochimica; dall'Inail che - attacca Antonio Amato, presidente della Commissione Regionale Bonifiche - "oggi non riconosce ai lavoratori i loro diritti"; da Ferrovie dello Stato che, gridano i lavoratori malati, "mai ha verificato le condizioni di lavoro". "Nell'82, quando la fabbrica ancora non esisteva, scoibentavamo sui binari: a cielo aperto - raccontano Carlo e Francesco - Poi nell'83 siamo entrati all'Isochimica e lavoravamo senza alcuna protezione. Non avevamo guanti, né mascherine e trattavamo l'amianto senza neanche bagnarlo, lo toglievamo con un raschietto. Per difenderci da quella che, da giovani inesperti, credevamo fosse polvere, usavamo dei fazzoletti bagnati". Quella, però, non era polvere. Era amianto. "Quando nell'84 abbiamo capito cosa stava succedendo - ricordano - abbiamo cominciato a protestare chiedendo la chiusura della fabbrica. Era ed è l'unico caso in Italia in cui sono stati i lavoratori a chiedere la chiusura". "Pochi mesi dopo le proteste, in fabbrica sono arrivati dei dottori dell'Università Sacro Cuore che si sono rifiutati di entrare nella struttura. Era evidente che quel posto fosse mortale". Evidente a tutti, ma non alle autorità o agli inquirenti avellinesi che secondo i lavoratori continuano a non ascoltare le loro grida. "Dopo poco sono arrivate le prime mascherine in plastica, poi quelle in gomma e negli ultimi due anni di lavoro ci hanno dato delle tute". Solo l'ennesima presa in giro. "Nell'88 - confessa Carlo Sessa - i dottori del Sacro Cuore sono tornati e sotto i caschi delle nostre tute hanno trovato una quantità di amianto quattrocento volte superiore al consentito". I caschi dei lavoratori "riciclavano" l'aria del capannone: "Quell'aria noi la respiravamo e per quell'aria oggi moriamo". Ma ancora una volta le perizie, i numeri spaventosi, non bastano. "Elio Graziano intanto è diventato presidente dell'Avellino della serie A e ha istituzioni e magistratura ai suoi pedi". Non quella di Firenze, però. E infatti nell'89 è il pretore di Firenze, Beniamino Deidda, a scrivere la parola fine. "L'ultimo anno noi le carrozze non le toccavamo più, eravamo esausti - dicono con sofferenza Carlo e Francesco - I collaudatori di Ferrovie dello Stato che lavoravano con noi all'interno dell'Isochimica facevano finta di nulla e rispedivano i vagoni a Firenze. In Toscana, però, i lavoratori si rifiutavano di 'operare' su quelle carrozze e quindi denunciarono anche loro". In pochi mesi Beniamo Deidda porta avanti le indagini e, inviando i carabinieri da Firenze, chiude l'Isochimica. Chiude, o almeno ci prova. Perché passano pochi mesi e "mentre trecento di noi erano in cassa integrazione, Elio Graziano chiama quattordici suoi dipendenti fedelissimi e continua a scoibentare per conto di Ferrovie dello Stato". Come è possibile? "Graziano - dicono sicuri i due ex operai - costruì la Elsid, una nuova azienda, che rilevò l'Isochimica e continuò le commesse che non erano

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state portate a termine". Quella che può sembrare una "semplice" denuncia di due lavoratori è tragicamente confermata da un'interrogazione parlamentare del 12 settembre 1992. Antonio Parlato, Movimento Sociale Italiano, chiede ai "Ministri dell'interno, della sanità, dei trasporti, del lavoro e della previdenza sociale e di grazia e giustizia" di indagare per "sapere se risulti rispondente al vero che molti parenti ed amici di Elio Graziano, personaggio non proprio in odore di santità, facciano parte della compagine societaria della Elsid (ex Isochimica) di Pianodardine (Av) di proprietà dei fratelli Carrino di Napoli". E se risponde al vero che "quest'impresa, dopo aver rilevato l'Isochimica, - denuncia Parlato -  continui ad operare per conto delle Ferrovie dello Stato la scoibentazione di trentaquattro carrozze ferroviarie ancora giacenti nello stabilimento". Il parlamentare sottolinea anche che "le richieste inoltrate alla procura della Repubblica, all'ispettorato del lavoro ed alla Usl n. 4 per verificare che laElsid sia in possesso dei regolari permessi stabiliti dalla legge e la salubrità degli ambienti di lavoro, siano rimaste 'stranamente' inascoltate". Le richieste di Parlato, però, non sono le uniche ad essere inascoltate. Anzi. Anche le denunce di tanti dei lavoratori Isochimica non vengono mai prese in considerazione. I dipendenti, nel '94 prima e nel '98 poi, dicono chiaramente alla procura che "ogni giorno vedevamo camion carichi di amianto uscire dallo stabilimento. Ci sono tante deposizioni - spiega Carlo Sessa - di cittadini di Borgo Ferrovia che dai loro balconi vedevano tir che lasciavano sulle strade una lunga scia di amianto". "Nell'86 - ricorda D'Argenio - si era sparsa la voce che Graziano stava facendo scavare una piscina per noi operai. Il fosso, invece, serviva per sotterrare l'amianto che è stato 'nascosto' dappertutto: cave, fiumi, sotto gli stessi stabilimenti". Fino a qualche mese fa, fino all'intervento della procura a maggio scorso, nessuno ha visto nulla. "Due anni fa doveva arrivare ad Avellino Antonio Amato e tutta la commissione Bonifiche regionale per verificare lo stato del sito ex Isochimica. Noi - raccontano i lavoratori - eravamo entrati una settimana prima nella fabbrica e c'erano ancora trenta sacchi pieni di amianto. Il giorno del sopralluogo quei sacchi erano scomparsi". E, depositata in procura, c'è la denuncia di una signora di Borgo Ferrovia che ha chiaramente detto di avere visto nei giorni immediatamente precedenti all'arrivo della commissione numerosi camion carichi di sacchi lasciare l'ex Isochimica. Per venticinque anni, quindi, l'amianto era rimasto lì.

www.today.it – 21 gennaio 2014

Isochimica, "mio marito è morto d'amianto ma per l'Asl stava bene"Luigi Maiello è la decima vittima dell'Isochimica di Avellino, la fabbrica della morte. La moglie: "L'Asl continuava a dirci che eravamo fissati e l'Inail ci ha abbandonato"

Carmine Ranieri Guarino - 21 Gennaio 2014AVELLINO - Era la sua ultima volontà. Se la malattia non lo avesse ucciso non si sarebbe fermato fino all'ultimo dei suoi giorni. E lo stesso ha chiesto di fare ai suoi figli e a sua moglie Antonietta: "Non vi fermate, vi prego". Luigi Maiello è uno di quelli che ha dato tutto all'Isochimica. Tutto, anche la vita. Se n'è andato il 14 febbraio scorso, a 53 anni, e l'autopsia effettuata sul suo cadavere non ha lasciato spazio ai dubbi: morto per tumore polmonare asbesto correlato. Tradotto: Luigi Maiello è la decima vittima dell'amianto che ha respirato negli anni di lavoro all'Isochimica. Per questo, per avere un briciolo di giustizia, sua moglie non ha mai smesso di lottare. Proprio come gli aveva chiesto Luigi. Signora Antonietta cosa ricorda del lavoro di suo marito?Mio marito ha lavorato all'Isochimica dall'83 all'89 e ricordo che lavoravano con i fazzoletti sulla bocca per proteggersi perché non avevano null'altro. Lui e i suoi colleghi passavano tutta la giornata in quella fabbrica. Lì lavoravano, lì mangiavano, lì trascorrevano le pause: tutto nella stessa aria. Ma c'è una cosa che non dimenticherò mai: quando Luigi tornava a casa aveva i vestiti che brillavano di bianco. Sui panni da lavoro che portava a casa c'erano fibre di amianto chiarissime e all'epoca a casa nostra c'erano due bimbe. E' stato un disastro.Quando si è ammalato suo marito?Nel 2001 abbiamo scoperto che aveva delle placche pleuriche, ma la situazione è crollata quattro o cinque anni fa. Piano piano ha cominciato ad avere bisogno dell'ossigeno di giorno, poi anche di

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notte e poi non è riuscito neanche più a salire a dormire al piano di sopra. A luglio 2012 ha iniziato a perdere peso e in poco tempo se n'è andato.  L'Asl e l'Inail hanno da subito riconosciuto la malattia di suo marito?Assolutamente no. Fino a quando mio marito non ha cominciato a perdere peso in maniera evidente, un dirigente dell'Asl - ora indagato - continuava a dirci che era Luigi ad essere "fissato". Poi, gli hanno 'trovato' una bronchite ma non hanno mai ammesso la malattia di mio marito, fino a che la cosa è diventata evidente. Lo stesso è successo con l'Inail: nonostante avesse già le placche pleuriche dovute all'amianto, a Luigi davano 190 euro al mese perché aveva 'ottenuto' un'invalidità del 16%. Poco prima che morisse la percentuale è passata 'miracolosamente' all'80, ma lui non ha fatto in tempo neanche ad accorgersene. Lei ha denunciato Elio Graziano, proprietario dell'ex Isochimica, l'Asl e l'Inail. Cosa si aspetta?Mi aspetto solo giustizia. Io non ho intenzione di fermarmi: darò battaglia fino all'ultimo e fino all'ultimo sarò accanto ai colleghi di mio marito. Le ultime sue parole a me e ai figli furono "Non vi fermate" e io non lo farò. 

www.today.it – 21 gennaio 2014

Amianto, morto caporeparto delle Officine Grandi Riparazioni

Bologna, 21 gennaio 2014 - Dopo 37 anni di lavoro in anzienda, è morto, con un mesotelioma pleurico, un caporeparto tecnico delle Officine Grandi Riparazioni di Bologna che, esposto all’amianto, si era scoperto il tumore poco più di un anno fa. V. N., 65 anni, è una delle oltre 200 vittime in Ogr dell’amianto usato sui treni, cominciato a smaltire negli anni Settanta, bandito in Italia dal 1992, ma ancora prodotto in diversi Paesi, anche se dal 2005 c’è la Giornata mondiale delle vittime dell’amianto, che ricorre il 28 aprile.Il caporeparto - racconta Silvano De Matteo, coordinatore regionale dei ferrovieri Filt Cgil - ha lavorato fino a Natale, poi stava troppo male: il 30 dicembre è entrato in ospedale al Sant'Orsola di Bologna e domenica è morto in un hospice a Casalecchio, dove oggi sono stati celebrati i funerali. Nello stesso reparto al Sant'Orsola resta in fin di vita un suo collega di lavoro alle Ogr.Spesso passano molti anni prima della diagnosi ma, a quel punto, è difficile superare l’anno di vita. E non c’è una tutela univoca. Il sindacato segnala che “non sono ancora riconosciuti - spiega De Matteo - i benefici previdenziali del lavoro esposto all’amianto in Ogr. Per i deceduti, e alla diagnosi, scatta l’indennizzo, machi non è ancora ammalato non ha alcun riconoscimento: ora abbiamo vinto cinque cause pilota e siamo pronti con un’altra trentina. L’esposizione all’amianto deve essere riconosciuta, non si puo’ aspettare che ci si ammali, all’ultimo”.Per le Ogr di Bologna la dismissione è rinviata a fine 2016 e oggi i 330 dipendenti, e i circa 150 lavoratori dell’indotto trovano ancora ogni tanto piccole quantità di amianto, occultato in qualche vecchio magazzino o in qualche materiale acquistato all’estero dove ancora non è vietato.

Il Resto del Carlino – 21 gennaio 2014

Morti per amianto alla Pirelli: sentiti oggi come testimoni altri 8 lavoratori.Il processo contro i dirigenti Pirelli continua…e… gli operai continuano a morire.

Oggi 24 gennaio 2014 si è svolta un’altra udienza del 1° processo (giudice dott. Martorelli) che vede sul banco degli accusati 11 dirigenti della Pirelli di viale Sarca e via Ripamonti a Milano, accusati della morte di 24 operai.Alle ore 9,30 è cominciato nell’aula 6 del 3° piano del Palazzo di Giustizia di Milano l’interrogatorio dei 10 lavoratori chiamati a testimoniare: solo 8 erano presenti perchè nel frattempo due sono deceduti.  Il primo degli 8 ex lavoratori (classe 1943) chiamati dal P:M. Dott. Maurizio Ascione a descrivere le condizioni di lavoro nella fabbrica quando lavorava (dal 1972 al 1984) e le sostanze usate nel processo di produzione, ha descritto le condizioni di lavoro del reparto cinturati pesanti (gomme) e, a precise domande sull’amianto ha affermato: “eravamo circondati dall’amianto”, “l’amianto era presente su tutte le lavorazioni a caldo,  “sui macchinari”, “sui tubi” e “l’azienda non ci ha mai informato sui rischi che correvamo”, “lavoravamo in locali polverosi (nerofumo, ecc) e ho visto che i

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manutentori senza mezzi di protezione individuali coibentavano i tubi con le mani”. Alla domanda del P.M. se avesse contratto malattie, ha risposto: “Sì, ho un tumore alla prostata, uno alla vescica e mi hanno tolto un polmone”. 2° teste - Operaio manutentore elettricista classe 1946 in servizio dal 1968 al 1998.A domande del PM e degli avvocati ha risposto: “ l’azienda era piena di amianto”, “nessuno ci ha informato sui rischi” e c’erano “reparti infernali” come la “sala mescole”. Alla domanda del P.M. se avesse problemi di salute, ha risposto: “Ho un tumore al rene”.3° teste - classe 1930 in Pirelli dal 68’ all’85’, lavoratore addetto alla mensa e al reparto “cinturato” ha ribadito che sull’amianto non era stata data “nessuna informazione sui rischi” e che gli ambienti di lavoro “erano sempre insalubri” 4° teste - operaio manutentore delle caldaie dal 52’ all’84’ ha dichiarato che l’amianto era “ovunque nelle gallerie dove lavorava” 5° teste - operaio del reparto cavi, classe 1938, addetto alle trafile PVC e vulcanizzazione, “l’amianto c’era nei cavi intrecciati e nell’ambiente”. Alla domanda del P.M. su eventuali malattie ha risposto: ” Ho un tumore al rene e uno alla vescica”. 6° teste, operaio del reparto vulcanizzazione gomme (rep. 8691), (classe 1937), Si lavorava “con la carcassa della gomma riempita d’amianto” e “c’era nebbia in reparto per la polvere”, “i capi non davano mascherine”, “le ventole non aspiravano” e alla rituale domanda del P.M. ha risposto: “Operato alla vescica” 7° teste - operaio del reparto mescole dal 73’ all’81’, classe 1924, “non ci davano nessuna informazione sui rischi” e “non c’erano mascherine”. 8° teste - assistente di produzione alla copertura delle gomme, dipendente Pirelli dal 1969 al 1989 che ha dichiarato che dopo aver visto tutti i suoi amici andati in pensione morire poco dopo, anche lui subito dopo la pensione ha avuto “tumori alla vescica e al rene”.  Crediamo che la pura sintesi delle testimonianze esprima chiaramente cosa significa la ricerca del massimo profitto da parte d’industriali e dirigenti senza scrupoli, coperti da istituzioni complici e da politici e sindacalisti sul libro paga dei padroni, che ha portato alla morte decine di migliaia di persone.Lo sfruttamento degli esseri umani è un crimine contro l’umanità. Chi non rispetta la salute dei lavoratori e dei cittadini, condannandoli a morte per risparmiare sulle misure di sicurezza, è un criminale e come tale va perseguito.

Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio Sesto San Giovanni, 24 gennaio 2014 http://www.comitatodifesasalutessg.com/2014/01/24/udienza-processo-pirelli/

ENI DI GELA. Il "Reparto Killer" uccide ancora, muore Salvatore Mili "padre esemplare che ha combattuto con grande dignità"

Rosa Battaglia. Si è spento nella notte dopo una lunga battaglia Salvatore Mili, 67 anni, ex dipendente del reparto Clorosoda dello stabilimento Eni di Gela. L'uomo era ricoverato da qualche giorno nel reparto Hospice del Vittorio Emanuele di Gela. Soltanto qualche giorno fa,il figlio Orazio,  scriveva sulla sua pagina Facebook: "L'Ex Impianto Cloro Soda continuaa fare vittime, ma dov'è la Giustizia? Come mai si da Giustizia alla carrozzeria delle macchine e non si da Giustizia ai nostri padri che hanno sofferto per portare a casa un pezzo di pane pagato con la vita stessa? Continuo a stare vicino a mio papà agonizzante e mi viene voglia di gridare al mondo intero che dei killer ci hanno tolto la serenità , il mio pensiero va a tutte le famiglie di ex operai a tutti quei bimbi morti in tenera età e a tutti quei giovani  che continuano a lottare per la vita . Gela di certo non meriti questo. Sei stato  un grande papà che ha combattuto con dignità esemplare questa lunga battaglia". Salvatore Mili aveva denunciato l'esposizione a mani nude a elementipericolosissimi durante i turni di lavoro.Intanto la Procura di Gela ha avanzato la richiesta di incidente probatorio per indagare sulle dodici morti sospette legate al "Reparto Killer" rompendo definitivamente il silenzio che, in questi anni, ha accompagnato la vicenda legata al Clorosoda. È il segnale che lo Stato è presente e che vuole

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fare chiarezza una volta per tutte sul nesso di causalità che lega le attività che si svolgevano all’interno dell’impianto e le tante patologie tumorali che hannofalcidiato in questi anni gli operai che hanno lavorato lì dentro.La città tutta, il primo cittadino Angelo Fasulo, chiedono giustizia sulle  morti avvenute, sostegno per le loro famiglie ed i tanti altri operai che in questi anni hanno contratto patologie tumorali: è fondamentale che i responsabili di questa tragedia, una volta individuati, paghino per ciò che hanno fatto.Nella giornata della memoria, oggi 27 Gennaio, Gela conta un'altra morte in quella che sarà la sua personalissima memoria storica e civile per una battaglia con cui soltanto adesso inizia a fare i conti.

http://www.visionedioggi.it - 27 gennaio 2014

Clorosoda di Gela vittima numero 16

IL REPARTO Clorosoda del petrolchimico dell'Eni, conta la sua sedicesima vittima. È Salvatore Mili, 66 anni, ammalatosi e morto di tumore per le sostanze tossiche e cancerogene che secondo la magistratura si manipolavano all'interno del reparto: cloro, mercurio, dicloroetano, cloruro di vinile, e altro. L'Inail non gli ha riconosciuto la malattia professionale. Prima di lui altri 15 suoi colleghi sono morti per presunte patologie legate al ciclo produttivo del Clorosoda, un impianto chiuso e smantellato alla fine degli anni '90.

La Repubblica – 28 gennaio 2014

Osio Sopra(BG). Tre operai feriti in una esplosione in fabbrica

Tre operai sono rimasti feriti in una esplosione si è verificata questa mattina dopo le 8 allo stabilimento della Siad di Osio Sopra (Bergamo). I tre operai sono rimasti feriti, fortunatamente in modo non grave. Secondo una prima ricostruzione, i tre operai sono stati investiti dallo scoppio improvviso di una bombola carica di un gas. Subito soccorsi sono stati trasportati con le ambulanze al nuovo ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Le loro condizioni - al momento - non paiono destare preoccupazione.

Contropiano – 29 gennaio 2014

L'Eurotunnel avvelena 32 operai

Nel giro di due notti 32 operai, che stavano eseguendo lavori di manutenzione all’interno del tunnel sotto la Manica, sono stati ricoverati in ospedale per avvelenamento da monossido di carbonio. I primi diciannove la notte tra sabato e domenica scorsa. Una sessantina di operai si apprestava a cambiare i binari sulla linea Calais (Francia) e Folkestone (Regno Unito) quando, intorno alle 2.30 di domenica uno di loro si è sentito male ed è stato trasportato in ospedale a Calais dove gli è stato diagnosticato un grave avvelenamento da monossido di carbonio. L’uomo è stato poi trasferito in un ospedale di Lille, nel nord della Francia. Intanto altri diciotto lavoratori venivano colti da malore e venivano ricoveratati negli ospedali di Calais, Boulogne-sur-Mer e Dunkerque: stessa diagnosi: avvelenamento da monossido di carbonio. Gli altri quarantuno operai venivano fatti tornare a casa, i lavori si fermavano e veniva aperta un’inchiesta. E la notte dopo, sempre nella stessa tratta, altri tredici operai venivano ricoverati in ospedale per avvelenamento da monossido di carbonio, mentre tutti gli altri venivano fatti evacuare.“Stiamo cercando di capire che cosa sia successo” – aveva dichiarato alla stampa, subito dopo il primo “incidente”, un portavoce di Eurotunnel, società privata franco-britannica concessionaria del tunnel della Manica per 99 anni che la scorsa settimana ha annunciato il superamento del miliardo di dollari di ricavi. “I sensori nel tunnel non hanno segnalato livelli eccessivi di monossido di carbonio”, aveva aggiunto.Forse, con un mliardo di ricavi, qualche sensore per i gas si può anche installare..

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Contropiano – 31 gennaio 2014

ILVA, incidente nella fabbrica: operaio si ferisce per ribaltamento del muletto

Incidente all’Ilva di Taranto. L’acciaieria nel ciclone dopo le inchieste sull’inquinamento ambientale, registra un incidente sul lavoro che per fortuna non ha causato vittime. Un operaio è rimasto ferito mentre stava alle prese con  un muletto che si è ribaltato.Le ferite non sono lievi seppur non mettono in discussione la vita della vittima dell’incidente. L’operaio infatti, ha avuto problemi alle gambe rimaste entrambe schiacciate dal pesante peso della macchina.Ricoverato d’urgenza all’ospedale ‘Santissima Annunziata’ dovrà subire, probabilmente, un intervento chirurgico. Non è esclusa la possibilità dell’amputazione di uno degli altri.L’operaio rimasto vittima dell’incidente ha solo 22 anni ed è dipendente di una azienda che lavora nell’indotto dell’Ilva di Taranto.

http://www.puglia24news.it - 6 febbraio 2014

 IL SUICIDIO DEGLI OPERAI FANTASMA NEL REPARTO CONFINO DI NOLA

di Adriana Pollice, Lo hanno trovato ieri impiccato nella sua abitazione di Afragola. Giuseppe De Crescenzo, 43 anni, separato, due figli, si è suicidato senza lasciare un’ultima lettera con cui spiegare i motivi del gesto estremo. A Pomigliano d’Arco lo conoscevano tutti, era un attivista sindacale del Sl Cobas. Solo qualche giorno fa aveva partecipato a un’assemblea. I compagni lo ricordano in una delle tante foto ai picchetti fuori la fabbrica Fiat con il cartello «Operaio deportato al reparto confino di Nola grazie a un accordo sindacale».Pino, come lo chiamavano tutti, era in cassa integrazione a zero ore dal 2008, da quando lo trasferirono dall’allora fabbrica Alfa Romeo al reparto Wcl (mai entrato in funzione) all’interno dell’interporto di Nola. Si tratta di quello che tutti conoscono come il reparto confino: il Lingotto ci spedì 316 dipendenti, quelli con ridotte capacità lavorative o i più conflittuali, sulla carta per creare il polo della logistica, sul modello Toyota, per tutti gli stabilimenti del centrosud (Cassino, Melfi, Val di Sandro, Pomigliano…). Nei fatti nessun lavoratore della logistica è stato trasferito a Nola e ogni fabbrica ha tenuto la propria divisione. E’ evidente che per i lavoratori del Wcl non c’è nessun piano Fiat sul tavolo, solo un tirare a campare in attesa della dismissione, con la cig rinnovata di anno in anno. Ogni volta che si avvicina la scadenza scatta la paura di finire in mobilità e poi dritti per strada. La cig in corso termina a luglio, una manciata di mesi, per gente con un’età tra i 35 e i 60, che sopravvive da sei anni con 800 euro al mese e la quasi certezza di non trovare più un lavoro stabile.«Siamo allo stremo — racconta Mimmo Mignano, collega di Pino De Crescenzo e attivista del comitato Cassaintegrati e licenziati Fiat -, dieci giorni fa abbiamo occupato la sede della Uilm di Pomigliano, siamo saliti su un traliccio a 30 metri, poco distante dalla fabbrica, facciamo picchetti ai cancelli ma nessuno ci ascolta. Qui non è più questione di rinnovare la cig, il tema è che siamo praticamente per strada e non ce la facciamo più. Paghiamo affitti da 450 euro al mese per case fatiscenti, siamo alla miseria». Sgomenta la Fiom: «E’ insopportabile che una persona decida di farla finita per la disperazione di vivere un forte disagio sociale, aggravato da una lunga condizione di cassaintegrato — commenta Francesco Percuoco, responsabile provinciale del settore auto per la Fiom di Napoli -. Questa tragica morte non può passare inosservata, come avvenuto per altri tentativi di suicidio tra i lavoratori, che solo per pura fatalità non hanno avuto lo stesso drammatico epilogo». Il clima a Pomigliano è teso. Il cartello all’ingresso continua a recitare zero infortuni ma l’estate scorsa è morto un operaio nello stabilimento. Quindici giorni fa un addetto agli impianti si è fatto male e venerdì un operaio dello stampaggio si è squarciato la mano, stando alle voci che arrivano dal Giambattista Vico.Eppure nella fabbrica Fiat di Pomigliano nei piani alti tira aria di festa. Si sta preparando una grande kermesse per domani, c’è chi dice che arriverà persino Sergio Marchionne. Motivo, un incontro dei vertici aziendali o la riunione dei concessionari d’Italia (queste le indiscrezioni che girano), si dice pure che animerà la giornata Gigi D’Alessio. Intanto arrivano poltrone e maxischermi per allestire il set. Perché secondo il Lingotto lo stabilimento Vico è l’esempio riuscito

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della cura Marchionne: i sindacati conflittuali cacciati dalla fabbrica, il contratto rivisto al ribasso, gli operai terrorizzati sulle linee costretti a subire lavate di capo davanti al reparto. La chiamano efficienza e bassa conflittualità, hanno persino fatto venire i giapponesi a conferire la medaglia d’oro per il World class manufactoring, il processo industriale e organizzativo seguito per produrre la Panda. Che metà della forza lavoro non sia mai rientrata in fabbrica non è rilevante. «Attualmente — conclude Percuoco — è tornato al Vico una sola Rsa della Fiom nel reparto di logistica e non può raggiungere i colleghi sulle linee. Praticamente è marcato a vista dalla vigilanza. Tutti gli altri, me compreso, siamo in cassa integrazione nonostante le sentenze di reintegro».Il Manifesto - 6 febbraio 2014

Manaus. Un altro operaio muore nella costruzione dello stadio "mundial"

Quanti lavoratori dovranno morire ancora prima del fischietto di inizio della Coppa del mondo in Brasile? Risposta: giugno è praticamente alle porte e 5 dei 12 stadi che in Brasile ospiteranno la Coppa del Mondo sono ancora in costruzione, compreso quello di San Paolo dove dovrà essere giocata la partita d’inizioConclusione: di certo non sarà la sicurezza sul lavoro il primo punto all’ordine del giorno nelle agende ufficiali.Anzi. Ieri mattina ha perso la vita un altro operaio in Brasile, mentre lavorava al completamento di uno stadio dei Mondiali: Antonio José Pita Martins, edile portoghese di 55 anni che stava lavorando all’”Arena Amazonia” di Manaus. E’ stato colpito da un pezzo di calcestruzzo caduto da una gru ed è morto in ospedale dove era stato trasportato … neanche subito, visto che – secondo quanto riferito alla stampa da un altro operaio che ha voluto rimanere anonimo - l’ambulanza sarebbe arrivata dopo più di 40 minuti. I lavori dello stadio di Manaus (lo stadio nella foresta pluviale nella foresta amazzonica), dove fra l’altro il 14 giugno l’Italia affronterà l’Inghilterra, sarebbero dovuti terminare lo scorso dicembre e questo significa che “bisognava fare in fretta” e lavorare giorno e notte per rimontare i ritardi.Martins è il terzo operaio che muore nella costruzione di quello stadio. Il suo nome va ad aggiungersi infatti a quello di Raimundo Nonato Lima e Marcleudo Ferreira, altri due lavoratori morti a marzo e dicembre 2013 nel completamento dei lavori dell’Amazzonia Arena, mentre dall’inizio dei lavori per la costruzione dei 12 stadi per la Coppa del Mondo i lavoratori morti sono sette. A dicembre dopo la morte di Ferreira, almeno 1.800 operai – secondo il sindacato Sintracomec - avevano incrociato le braccia per rivendicare condizioni di sicurezza migliori e denunciare la pressione subita per l’accelerazione dei lavori nei cantieri. E nuovi scioperi, dopo l’ennesima morte sul lavoro nello stadio di Manaus, sono stati annunciati dal sindacato per i prossimi giorni.

Contropiano – 8 febbraio 2014

Dhaka, arrestati proprietari della fabbrica incendiata

Due proprietari della fabbrica di abbigliamento del Bangladesh in cui morirono 112 lavoratori nel novembre del 2012, si sono costituiti oggi alle autorità e sono stati arrestati. Lo stabilimento Tazreen Fashions, in un sobborgo della capitale Dhaka, fu distrutto da un incendio e molti operai vi trovarono la morte anche perché i guardiani ignorarono il primo allarme e il fumo che saliva dalle scale, e ordinarono loro di restare al lavoro. I due proprietari, Delwar Hossain e sua moglie Mahmuda Akter, sono ora in galera; se condannati rischiano l'ergastolo – ma la folla che stamane ha assistito al loro arresto urlava “pena di morte”. Altre quattro persone sono ricercate in relazione all'incidente.Tragedie come quella della Tazreen Fashions sono purtroppo frequenti in Bangladesh, ma il livello di attenzione alle condizioni di lavoro nel tessile-abbigliamento si è un po' alzato dopo il crollo del Rana Plaza, edificio di 8 piani che ospitava diverse aziende, nell'aprile scorso: vi morirono oltre 1.130 persone. Il proprietario dell'edificio Mohamed Sohel Rana, fu arrestato pochi giorni dopo vicino al confine con l'India, mentre tentava di fuggire.

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Con un export annuo intorno ai 22 miliardi di dollari, il Bangladesh è il secondo esportatore mondiale di abiti confezionati dopo la Cina. In dicembre il governo ha alzato il salario minimo per i lavoratori del settore e ha legalizzato la formazione di sindacati.

 Pagina 99 – 9 febbraio 2014

ILVA, dopo l’incidente sul lavoro l’operaio subisce amputazione gamba

Perderà la gamba a causa dell’incidente ed ha solo 22 anni. Si tratta dell’operaio che lavora per un ditta dell’appalto Ilva e che venerdì scorso è rimasto schiacciato da un muletto che si è ribaltato. Il giovane, purtroppo, ha subito quello che si temeva inizialmente, ovvero l’amputazione della gamba sinistra. La dinamica dell’incidente è la seguente: l’operaio Andrea Incalza si trovava nello stabilimento siderurgico di Taranto e stava guidando il muletto. La strada era in salita e la macchina non è riuscita a sopportare il peso. Si è girata e si è ribaltata finendo sulla gamba del ragazzo. Trasportato di corsa all’ospedale Andrea ha subito poi l’intervento chirurgico reso necessario dalle condizioni drammatiche in cui versava l’arto.  La prognosi dell’operaio, al momento, è ancora riservata.

http://www.puglia24news.it - 10 febbraio 2014

Pieve Emanuele, giovane agricoltore muore schiacciato da una mucca contro un muro

E' accaduto a Cascina di Sotto. Stava pulendo la stalla quando è stato schiacciato contro una parete da una mucca di 500 chili. All'arrivo dei soccorsi per il giovane non c'era già più nulla da fare e i medici hanno solo potuto constatare il decesso.Un'ambulanza del 118 (Newpress) Pieve Emanuele, 12 febbraio 2014 - Tragico incidente ne Milanese. Un uomo di 33 anni. Johan Daniel,  è morto dopo essere stato incornato da un bovino, una grossa mucca. E' successo stamani a Pieve Emanuele, in località Cascina di Sotto. All'arrivo dei soccorsi per il giovane non c'era già più nulla da fare e i medici hanno solo potuto constatare il decesso.L'uomo era un lavorante romeno, secondo dalle prime informazioni stava pulendo la stalla quando e' stato schiacciato dall'animale, del peso di 500 chili. Quando sono arrivati sul posto i soccorritori presentava traumi ampi, da sfondamento toracico contro una parete sulla quale e' finito dopo essere stato trascinato prima col muso e poi col corpo dal bovino. E' deceduto sul posto a seguito di un arresto cardiaco.

Il Giorno – 12 febbraio 2014

Terni, nella galleria ‘Tescino’ piove veleno: «Lì dentro è cominciato il mio calvario»Alessandro Ridolfi lavorava alla realizzazione del tunnel e racconta: «Dopo essermi bagnato con il liquido che colava dall'alto mi sono ammalato gravemente»

di Marco Torricelli. Alessandro Ridolfi ha 41 anni e da quattro la sua vita è diventata un incubo. Da quel 18 marzo del 2009, quando – dentro la galleria ‘Tescino’, sulla superstrada Terni-Rieti, allora in fase di realizzazione e oggi al centro di un caso per le continue infiltrazioni sospette – finì sotto la ‘pioggia’ che scendeva dalla volta del tunnel. Una pioggia che lo avrebbe segnato. In tutti i sensi.Le piaghe Il liquido gli colò in faccia, racconta, «e già la sera, tornando a casa, mi accorsi di avere problemi alla vista (Alessandro ha già perso un occhio, in passato, a causa di un incidente; ndr) e, al mattino dopo, con orrore mi sono accorto di aver perso le ciglia e brandelli di pelle, che erano rimasti attaccati al cuscino».In ospedale La corsa in ospedale, le analisi e poi gli accertamenti più approfonditi «predisposti dall’Inail di Arezzo (Alessandro vive da quelle parti; ndr) presso le unità di medicina del lavoro di Siena, Pisa a Brescia» hanno portato ad una diagnosi terribile: «Sono affetto – racconta – da una polisensibilizzazione ad allergeni molteplici, come cromo e metalli pesanti, incurabile e con dermatite eczematosa diffusa in tutto il corpo».

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Il cromo Passato il primo periodo di crisi più acuta, racconta ancora Alessandro Ridolfi, «volli tornare al lavoro, ma non fui nemmeno in grado di avvicinarmi alla galleria, perché mi bastò passare accanto alle acciaierie perché si riacutizzassero immediatamente i fenomeni di eruzione cutanea». In sostanza si stabilì, poi, che il cromo che il suo organismo aveva assimilato «ha aggredito il mio sistema immunitario, mettendo a repentaglio tutto il mio organismo».La sentenza Del suo caso si sono occupati clinici illustri «come il professor Pietro Apostoli e il professor Antonio Cristando, specialisti in medicina del lavoro, che hanno riconosciuto il legame tra quell’episodio e la mia malattia, tanto che il tribunale di Arezzo ha accertato la presenza di un danno grave permanente ed eziologicamente connesso all’infortunio subito nella galleria ‘Tescino’». Scavata sotto una discarica e dentro la quale continua a piovere anche dopo i lavori fatti di recente dall’Anas.Vita rovinata Da allora la vita di Alessandro è diventata un calvario: «Semplicemente toccare un oggetto ‘sbagliato’ – non tutti lo sanno, ma in oltre 1.200 oggetti di uso comune sono contenuti metalli pesanti – mi provoca, piaghe, ulcere e la rottura dei capillari. Ulcere che mi si sono formate anche dentro l’occhio, provocandomi un glaucoma cronico». Il tutto aggravato dal fatto che «la mia patologia mi impedisce di assumere cortisone e mi permette cure molto blande, a base di iodopovidone (il Betadine; ndr) e con effetti decisamente scarsi». Tanto che in due anni è finito all’ospedale per oltre 60 volte.In montagna Sua moglie, Elisa, e la sua bambina di 9 anni sono costrette a fare molta attenzione anche nell’avere contatti con lui, per non fargli del male: «Sono venuto a vivere in montagna – racconta Alessandro – nel piccolo borgo dove vivono mio padre e pochissime altre persone, perché l’aria è più pulita. Devo usare detergenti specifici per l’igiene personale, perché i saponi tradizionali contengono metalli pesanti che per me sarebbero dannosi e per lo stesso motivo devo scegliere con estrema cura anche i capi da indossare».Il rischio Lui, che nella vita precedente o, meglio, quando ancora aveva una vita, era un tecnico esperto nella valutazione dei rischi – «ero il responsabile della sezione sicurezza in relazione all’uso degli esplosivi» – non aveva certo messo in preventivo ‘quel’ rischio a cui espose quel giorno: «E non fui il solo a farmi del male – racconta – perché quel liquido investì anche un operaio, ma solo alle mani e se la cavò con delle ustioni che guarirono in qualche mese».Il processo Ora, dice Alessandro Ridolfi, «la mia speranza è che le indagini che si stanno svolgendo sotto il coordinamento della procura della Repubblica di Terni, portino alla celebrazione di un processo e che in quella sede emergano tutte le responsabilità e che chi ha sbagliato sia costretto ad assumersi le proprie responsabilità. Perché io, da quel 18 marzo, sopravvivo con una misera pensione e con grandi sofferenze».

http://www.umbria24.it – 15 febbraio 2014

Vola dal tetto del capannone: operaio trentenne gravissimo. Infortunio in un'azienda agricola di Godega Sant'Urbano . Il giovane stava rimuovendo l'eternit ed era imbragato

GODEGA - Ha sfondato il tetto e ora si trova in prognosi riservata. Un operaio di 33 anni è ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale Ca' Foncello di Treviso dopo essere precipitato da un capannone a Godega di Sant’Urbano. Il grave infortunio sul lavoro, ieri nella tarda mattinata, all’interno di un’azienda avicola di via Palù.Il giovane operaio specializzato F.M. di origini albanesi, residente a San Martino di Lupari nel Padovano e dipendente della ditta Antares di Limena, stava rimuovendo eternit sul tetto da un’altezza di circa 5 metri. Per cause in corso di accertamento, il 33enne ha sfondato il tetto mentre stava camminando ed è piombato sul terreno sottostante.Un urto violentissimo che ha causato gravissimi traumi e ferite lacero contuse agli arti e al resto del corpo. L’uomo, cosciente, è stato dapprima soccorso da alcuni colleghi e personale della stessa azienda dove stava lavorando. L’allarme al 118 è stato immediato e così l’arrivo dei soccorsi. Le condizioni dello straniero ai medici e infermieri sono apparse subito gravissime. Da Treviso si è alzato in volo l’elisoccorso e sul posto sono giunti i paramedici del Suem 118 che hanno intubato il ferito. Si è così deciso per il trasporto in elicottero all'ospedale Ca' Foncello di Treviso. L’operaio di San Martino di Lupari è in prognosi riservata, ma non in pericolo di vita. La dinamica dell’infortunio è in corso di accertamento. Da una prima perizia e raccolta di informazioni sembra che il giovane

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albanese indossasse l’imbragatura per evitare incidenti nei cantieri di lavoro. E in particolare proprio come quello, invece, avvenuto nell’azienda di Godega di Sant’Urbano. Gli stessi tecnici dello Spisal e i carabinieri di Conegliano dovranno accertare se effettivamente la stessa imbragatura fosse stata utilizzata correttamente.

Il Gazzettino – 25 febbraio 2014Ilva: incidente area Coke,ferito operaio. E' caduto da un cestello riportando la frattura delle gambe

(ANSA) - TARANTO, 26 FEB - Un operaio di 28 anni, Gabriele Scialpi, dipendente della ditta Semat dell'appalto Ilva, è rimasto ferito in un incidente sul lavoro nello stabilimento di Taranto, riportando la frattura delle gambe. Il lavoratore, secondo fonti sindacali, è caduto mentre in un cestello eseguiva una manutenzione nella zona della 12/a batteria coke.Probabilmente a causa della rottura di una catena di sollevamento, il cestello si è piegato rimanendo sospeso nel vuoto e causando la caduta del lavoratore.

Ansa – 26 febbraio 2014

L'erbicida Roundup della Monsanto è responsabile di una grave patologia renale tra gli agricoltori

La grave patologia renale CKDu ha colpito 400000 agricoltori dello Sri Lanka, causando ventimila morti. La malattia insorge con esposizione all'erbicida glifosato (roundup) della Monsanto nelle persone che bevono acqua calcarea e sono esposte a metalli nefrotossiciSecondo uno studio appena pubblicato dell’università dello Sri Lanka, il glifosato, principio attivo dell’ erbicida Roundup della Monsanto è responsabile di una grave patologia renale che sta colpendo gli agricoltori singalesi dell’isola.La malattia, nota come CKDu (Chronic Kidney Disease of Unknown Etiology), ha colpito 400mila contadini, il 15% della popolazione della provincia srilankese del centro nord, causando circa 20 mila morti.La CKDu è una grave nefropatia che colpisce persone che non presentano i tipici fattori di rischio per le malattie, come il diabete mellito o l’ipertensione.Gli studiosi hanno invece trovato una correlazione significativa con tre fattori. Il primo è l’uso del glifosato, venduto da Monsanto con il nome commerciale di Roundup, le cui vendite in Sri Lanka sono cresciute del 150% da 800 a 1800 tonnellate in soli cinque anni dal 2000 al 2005. E’ una quantità enorme, pari a circa 1,6 kg per ogni ettaro di terra arabile, visto che in media in Asia si usa meno di mezzo kg per ettaro di pesticidi di ogni tipo. Nelle Americhe l’uso del Roundup è stato associato alla soia OGM; questo non ha fatto aumentare le rese, mentre ha fatto decollare il consumo di erbicida.Gli altri fattori di rischio sono il consumo di acqua dura, cioè calcarea, con concentrazioni superiori a 400 mg/L e l’esposizione a metalii nefrotossici come il Cadmio e l’Arsenico.La combinazione di questi fattori può sembrare improbabile, ma invece è esattamente ciò che è accaduto ai 400000 agricoltori singalesi e ciò che sta avvenendo in alte parti del mondo, visto che la patologia è laseconda causa di morte tra i maschi adulti in El Salvador e colpisce duramente anche in Nicaragua..

http://www.ecoblog.it – 27 febbraio 2014