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Dottrina n. 7 - 2016 [5398] GUIDO CLEMENTE DI SAN LUCA Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in materia ambientale Sommario:( ⃰ ) 1. Premessa. – Parte prima: breve ricognizione delle ipotesi in cui scienza e tecnica possono essere richiamate dalla norma giuridica. – 2. Il mero accertamento tecnico. – 3. La discrezionalità tecnica. – 4. La discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. – 5. Gli strumenti processuali per consentire il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: la verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio. Parte seconda: rassegna ragionata della più recente giurisprudenza sulle valutazioni tecniche della P.A. in materia ambientale. – 6. Le sentenze in cui si sindaca la valutazione tecnico-scientifica compiuta per verificare la sussistenza dei presupposti dell’azione amministrativa (discrezionalità tecnica). – 7. Le sentenze in cui si sindaca la valutazione tecnico-scientifica compiuta in funzione della scelta del contenuto provvedimentale (discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico). Parte terza: alcune considerazioni critiche e brevi osservazioni conclusive. 8. Il fenomeno del cd. ‘scivolamento’ della discrezionalità tecnica in discrezionalità amministrativa. – 9. La presunta neutralità della scienza e della tecnica e la insindacabilità del merito amministrativo se non per i profili dell’eccesso di potere. – 10. Brevi conclusioni in forma di domande e risposte.

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Dottrina

n. 7 - 2016   [5398]GUIDO CLEMENTE DI SAN LUCAIl sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in materia ambientale

Sommario:( ⃰ ) 1. Premessa. – Parte prima: breve ricognizione delle ipotesi in cui scienza e tecnica possono essere richiamate dalla norma giuridica. – 2. Il mero accertamento tecnico. – 3. La discrezionalità tecnica. – 4. La discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. – 5. Gli strumenti processuali per consentire il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: la verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio. Parte seconda: rassegna ragionata della più recente giurisprudenza sulle valutazioni tecniche della P.A. in materia ambientale. – 6. Le sentenze in cui si sindaca la valutazione tecnico-scientifica compiuta per verificare la sussistenza dei presupposti dell’azione amministrativa (discrezionalità tecnica). – 7. Le sentenze in cui si sindaca la valutazione tecnico-scientifica compiuta in funzione della scelta del contenuto provvedimentale (discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico). Parte terza: alcune considerazioni critiche e brevi osservazioni conclusive. 8. Il fenomeno del cd. ‘scivolamento’ della discrezionalità tecnica in discrezionalità amministrativa. – 9. La presunta neutralità della scienza e della tecnica e la insindacabilità del merito amministrativo se non per i profili dell’eccesso di potere. – 10. Brevi conclusioni in forma di domande e risposte.

1. Premessa

Obiettivo di questa riflessione è provare a tracciare i limiti della sindacabilità giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in materia ambientale. In realtà si tratta di ragionare su quella parte del merito amministrativo che va sotto il nome, per un verso, di discrezionalità tecnica, e, per un altro, di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico[1].

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Il ragionamento, perciò, si articolerà in tre parti. Nella prima si proporrà una sintetica ricognizione delle due tipologie della discrezionalità sotto il profilo teorico-concettuale. Nella seconda si passerà in rassegna la giurisprudenza che si è espressa su di esse (segnatamente in fattispecie concernenti questioni ambientali), così da offrire una lettura critica dei suoi diversi orientamenti, fra sindacato ‘estrinseco’ ed ‘intrinseco’, e/o fra sindacato ‘debole’ e ‘forte’. Nella terza, infine, verranno espresse due considerazioni critiche e svolte alcune brevi osservazioni conclusive, verificando la tenuta degli orientamenti giurisprudenziali alla luce della teoria generale e della logica giuridica.

Come è ben noto, nelle attività della P.A. è spesso, quasi sempre, indispensabile ricorrere alla scienza e alla tecnica, e lo è specialmente in una materia come la tutela dell’ambiente. A richiamarle è, di volta in volta, la norma giuridica attributiva del potere amministrativo. Tuttavia, la norma non sempre richiama scienza e tecnica allo stesso modo, e soprattutto non sempre lo fa con le stesse conseguenze giuridiche.

Si vedrà come e perché. Occorre però, preliminarmente, fare chiarezza sul lessico che si adopera, e quindi precisare il significato che si attribuisce ad alcune locuzioni di uso assai frequente nella materia de qua. In particolare le seguenti: scienze ‘esatte’ e scienze ‘non esatte’; sindacato ‘estrinseco’ e sindacato ‘intrinseco’; sindacato ‘debole’ e sindacato ‘forte’.

Non sembra corretto classificare le scienze in esatte e non esatte. Tuttalpiù si può distinguere fra scienze dure e scienze sociali, ma la distinzione assume comunque un valore puramente descrittivo, con essa volendosi spiegare il minore o maggiore grado di opinabilità dei risultati cui la scienza, per sue caratteristiche intrinseche, è in grado di pervenire. In ogni disciplina scientifica, invero, (in quelle sociali meno che in quelle dure) esistono alcuni risultati che vengono considerati certi e indiscutibili, ed altri che, ancorché conseguiti attraverso un protocollo di ricerca scientificamente adeguato, vengono considerati (proprio ontologicamente) opinabili[2].

Secondo un diffuso modo di ritenere, per sindacato ‘estrinseco’ s’intende quello “tramite il quale il giudice si limita a verificare se la valutazione tecnica operata dalla p.a. sia affetta o meno dai sintomi dell’eccesso di potere”[3]. Il giudice, mediante questo tipo di sindacato, non potrebbe verificare l’attendibilità del criterio tecnico-scientifico assunto dalla P.A., né la sua corretta applicazione[4]. Diversamente, laddove gli si riconosce la capacità di svolgere un sindacato ‘intrinseco’, il giudice “non è tenuto a limitarsi al rilievo degli indici sintomatici dell’eccesso di potere”[5], potendo spingersi fino a verificare, anche mediante l’ausilio di una consulenza tecnica, se la valutazione compiuta dalla P.A. sia attendibile, oppur no. Come se un siffatto operare non esitasse comunque nel rilevare, dalla osservazione dell’atto, e dell’iter procedimentale che è stato seguito per emanarlo, la sussistenza di una delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere[6].

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A questa distinzione viene aggiunta quella fra sindacato ‘debole’ e sindacato ‘forte’, due diverse intensità in cui si manifesterebbe il sindacato intrinseco. Mentre, attraverso il primo, il giudice, pur ‘ripercorrendo il cammino’ compiuto dalla P.A. per esprimere la valutazione tecnica, dovrebbe fermarsi alla verifica della attendibilità di detta valutazione; mediante il secondo, invece, egli potrebbe arrivare a concludere che la valutazione compiuta dalla P.A., sebbene scientificamente plausibile, sia da non condividersi, e perciò ‘sostituibile’ con quella resa dal C.T.U., così annullandosi il provvedimento impugnato per il semplice fatto di considerare la valutazione espressa da questi ‘migliore’ di quella effettuata dalla P.A.

Anche questa distinzione è da considerarsi priva di senso: l’unico sindacato coerente con il principio di separazione delle funzioni resta quello basato sul vizio dell’eccesso di potere. E tale vizio – una volta essendo stato acquisito che può risolversi, oltre che nella forma del mero sviamento, pure in quella fondata sulla rilevazione delle figure sintomatiche – ben può rivelarsi sussistente anche laddove la valutazione compiuta dalla P.A., alla verifica della sua attendibilità tecnico-scientifica, risulti superficiale, incongrua, irragionevole, inadeguata, ecc. Il che, evidentemente, non può che integrare una delle varie figure sintomatiche progressivamente elaborate, in un tempo ormai assai lungo, dalla giurisprudenza amministrativa: non diversamente da quanto accade con riguardo alla valutazione che la P.A. compie in funzione della scelta del contenuto provvedimentale.

Detto più chiaramente: il sindacato giurisdizionale sulla legittimità della valutazione tecnica compiuta in funzione dell’acclaramento dei presupposti non è qualitativamente diverso da quello sulla legittimità della valutazione tecnica compiuta in funzione della vera e propria scelta di composizione degli interessi in gioco finalizzata a determinare in concreto l’interesse pubblico. Si tratta, con ogni evidenza, di una differenza essenzialmente quantitativa, l’esercizio del merito avente ad oggetto la verifica della sussistenza dei presupposti essendo assai meno ‘libero’ di quello avente ad oggetto la scelta su come configurare l’interesse pubblico nel caso concreto.

Ancora in sede preliminare, appare infine necessaria una ulteriore precisazione, relativamente alla materia sulla quale va ‘commisurata’ la riflessione concernente i limiti del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche della P.A. Nella materia ambientale, scienza e tecnica sono chiamate in gioco (può ben dirsi:) fisiologicamente dalla disciplina giuridica, le disposizioni della quale, in via prevalente, prevedono l’attribuzione e la regolazione di poteri autorizzatori, in varie e numerose fattispecie[7].

In tali fattispecie la norma assegna alla P.A., per un verso, il compito di verificare se sussistono, nel caso concreto, i presupposti tecnico-scientifici (che essa stessa ha fissato in astratto), affinché si possa assentire lo svolgimento di un’attività rilevante sotto il profilo, a dir così, ‘ecologico’[8];

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oppure, per altro verso, il compito di valutare la compatibilità con l’interesse ambientale degli altri interessi con esso interagenti, allo scopo di trovare la migliore soluzione per il conseguimento della tutela ambientale, ovvero di delineare le prospettive programmatiche del governo di un dato territorio coerenti, o almeno non contrastanti, con il detto conseguimento[9], compito che – come si intuisce facilmente – merita una qualificazione giuridica diversa dall’altro: mentre il primo si risolve nell’esercizio di discrezionalità tecnica, il secondo consiste nell’esercizio di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. Su tali nozioni occorre brevemente soffermarsi, in modo da chiarire, quanto meno, il lessico che si adopera.

Parte prima

Breve ricognizione delle ipotesi in cui scienza e tecnica

possono essere richiamate dalla norma giuridica

In via generale, mette conto di precisare che, al fine di catalogare le differenti ipotesi nelle quali scienza e tecnica vengono ‘trattate’ dalla norma giuridica, bisogna aver riguardo a due elementi. Da un lato, la fase procedimentale cui si riferisce la disciplina dell’azione amministrativa, e perciò se si versi nella fase istruttoria, ovvero nella fase decisoria. Dall’altro, l’oggetto dell’azione amministrativa considerato dalla norma, e dunque se si tratti della verifica della sussistenza dei presupposti dell’azione, ovvero della realizzazione in concreto dell’interesse pubblico specifico attraverso la composizione degli interessi secondari in gioco nella data vicenda amministrativa, e cioè – dicendolo più semplicemente – se l’azione della P.A. verta sui presupposti dell’azione o sugli interessi in gioco.

2. Il mero accertamento tecnico

La prima ipotesi di cui si deve riferire, ma solo per soddisfare un’esigenza di compiutezza definitoria – giacché, con ogni evidenza, riferirne serve soltanto per escluderla dalla presente riflessione, l’attività amministrativa non consistendo in una valutazione – è quella che va sotto il nome di ‘accertamento tecnico’.

Si parla di mero accertamento tecnico, e quindi di un’attività amministrativa vincolata, laddove la fattispecie normativa prevede che la P.A. sia tenuta ad acclarare la sussistenza di uno o più presupposti tecnico-scientifici, posti dalla legge a fondamento imprescindibile della sua azione, e l’esito della operazione

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da compiere sia certo ed inopinabile (ad esempio, la rilevazione della composizione chimica di una sostanza).

Nell’ipotesi di accertamento tecnico – va sottolineato – ad azzerare lo spazio valutativo della P.A. non è in sé la morfologia della norma, bensì il criterio tecnico-scientifico espressamente richiamato da questa, criterio la cui applicazione offre risposte non discutibili[10].

3. La discrezionalità tecnica

Diversa da quella di mero accertamento tecnico è l’ipotesi della ‘discrezionalità tecnica’. Contrariamente a quanto spesso si mostra di ritenere, la discrezionalità tecnica non consiste semplicemente nel disporre di uno spazio di scelta caratterizzato dalla presenza della scienza e della tecnica. L’ipotesi della discrezionalità tecnica, invero, deve essere tenuta distinta da quella della discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, l’una e l’altra dovendo essere ricondotte a differenti modelli strutturali della previsione normativa che regola la fattispecie.

Il modello della discrezionalità tecnica si può così sintetizzare schematicamente: non diversamente dal caso dell’accertamento tecnico, la norma giuridica richiede alla P.A. di acclarare la sussistenza di uno o più presupposti tecnico-scientifici, imprescindibili per la sua azione, ma il verificare tale sussistenza si presenta di controversa accertabilità. In altre parole, affinché possa assumere il provvedimento, la legge lascia alla P.A. uno spazio discrezionale concernente la verifica della sussistenza dei presupposti tecnico-scientifici di opinabile rilevabilità.

A dire il vero, l’appena riferita definizione di discrezionalità tecnica non è pacifica. Una parte significativa della dottrina fa rientrare in essa tutte le ipotesi in cui la legge dispone che la P.A. faccia ricorso alla scienza e alla tecnica: a prescindere dal fatto che la valutazione (che la legge richiede di compiere) inerisca all’acclaramento dei presupposti dell’azione, ovvero preluda e partecipi alla scelta del contenuto provvedimentale[11].

È necessario, perciò, chiarire perché – diversamente dalla dottrina appena richiamata – sia preferibile intendere per ‘discrezionalità tecnica’ solo quella relativa al caso testé descritto, e non anche quella relativa al caso in cui la tecnica entri nella scelta del contenuto provvedimentale.

La prima soluzione appare più convincente, giacché non si palesano argomenti ragionevoli che impediscano di condividere l’interpretazione che si accoglie. Il fatto che la legge richieda alla P.A. di utilizzare informazioni scientifiche e/o tecniche per poter effettuare la scelta del contenuto provvedimentale non sembra sufficiente per cambiare nome alla discrezionalità amministrativa, che

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può e deve correttamente definirsi – come meglio si chiarirà subito a seguire – ‘discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico’.

A quest’ultima non è omogenea la fattispecie normativa che vede la P.A. chiamata a verificare la sussistenza di uno o più presupposti tecnico-scientifici (posti dalla legge – non diversamente dal caso dell’accertamento tecnico – a fondamento inderogabile della sua azione) quantunque di opinabile rilevabilità. Laddove infatti una tale operazione non può avere esiti certi (la risposta scientifica non essendo univoca), per qualificare la fattispecie diventa indispensabile far ricorso ad una nozione diversa. Dal momento che risulta non classificabile entro le categorie del mero ‘accertamento tecnico’ o della ‘discrezionalità amministrativa’, la fattispecie merita una qualificazione autonoma. Insomma, si presenta logico, e perciò convincente, ricorrere alla differente nozione di ‘discrezionalità tecnica’, perché appare in grado di spiegare la peculiarità del caso, consentendo di contrassegnarlo in modo da restituire la evidente differenza con gli altri due.

A ben riflettere, del resto, il caso in esame non può definirsi come la espressione di una somma delle fattispecie di accertamento tecnico e di discrezionalità amministrativa (nella qual circostanza, evidentemente, non si renderebbe necessaria una sua specifica categorizzazione teorica), rappresentando invece una situazione affatto peculiare rispetto ad esse.

In altre parole, non v’è dubbio che il caso sia, in un certo senso, assimilabile a ciascuna delle due ipotesi per un diverso profilo: a quella dell’accertamento tecnico, dacché comunque si tratta di acclarare la sussistenza di un presupposto, e dunque si verte, temporalmente e logicamente, in un momento anteriore alla scelta del contenuto del provvedimento; a quella della discrezionalità amministrativa, (non per la fase procedimentale in cui ricorre, bensì) perché si tratta pur sempre di scegliere (sebbene al diverso fine di verificare la sussistenza dei presupposti dell’azione) fra i vari criteri tecnico-scientifici maturati nel seno della disciplina cui la norma giuridica rinvia. Tuttavia, proprio perché rappresenta la sintesi di aspetti parziali delle altre due, sotto il profilo concettuale l’ipotesi si propone quale fattispecie del tutto autonoma[12].

D’altra parte, va sottolineato che, sebbene discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa si possano (e perciò si debbano) tenere concettualmente distinte, spesso, sul piano pratico, finiscono per assimilarsi, restando differenziabili su tale piano soltanto per gli effetti giurisdizionali, visto che il sindacato ad opera del giudice amministrativo, nel caso di quella ‘tecnica’, pur restando qualitativamente identico, si fa più penetrante, in maniera direttamente proporzionale alla maggior quantità di limiti che gravano sull’esercizio concreto della discrezionalità[13].

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Ciò nondimeno, non sembra potersi discutere che, nel momento preliminare all’adozione del provvedimento, spesso la P.A., in ragione della incertezza definitoria connaturata alla materia cui di volta in volta afferisce la valutazione sulla ricorrenza o meno dei presupposti del suo agire (opinabilità della disciplina scientifica o tecnica di riferimento), è titolare di un potere diverso da quello di cui dispone laddove la legge le assegni una discrezionalità amministrativa, giacché la scelta ha ad oggetto soltanto la selezione del criterio tecnico-scientifico in applicazione del quale procedere alla verifica della sussistenza dei presupposti dell’azione.

Si può dire che in tali casi la norma contiene una fattispecie ‘aperta’, perché richiama un ‘concetto giuridico indeterminato’ (secondo la locuzione derivata dalla dottrina tedesca): essa, a dir così, ‘fagocita’ nella fattispecie giuridica una disciplina non giuridica. Insomma, laddove assegna alla P.A. il compito di acclarare la sussistenza di un presupposto tecnico-scientifico di incerta ed opinabile rilevabilità, la norma apre lo spazio ad un’attività discrezionale, la scelta relativa avendo, però, un oggetto diverso da quello della discrezionalità amministrativa: non gli interessi, bensì i criteri tecnico-scientifici per l’accertamento dei presupposti. In buona sostanza, la legge, nel riconoscere ad una disciplina non giuridica un ruolo decisivo nella fase istruttoria del procedimento, affida alla P.A. la responsabilità di assumere uno dei criteri tecnico-scientifici idonei ad effettuare la verificazione della sussistenza dei presupposti dell’azione amministrativa[14].

Per fare un esempio in materia ambientale, si pensi alla fattispecie prevista dall’art. 272 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (recante “Norme in materia ambientale”, il cd. Codice dell’ambiente), secondo cui l’”adesione” alla autorizzazione “di carattere generale” (emanata per regolare le “emissioni in atmosfera” di alcune categorie di impianti allo scopo di prevenire l’inquinamento atmosferico) può essere negata dalla P.A., fra l’altro, “in presenza di particolari situazioni di rischio sanitario o di zone che richiedono una particolare tutela ambientale”. La questione – come si intuisce facilmente – non è risolvibile attraverso opzioni che investano il profilo della opportunità o della convenienza della scelta provvedimentale. La P.A., infatti, è chiamata (non a comporre interessi, ma soltanto) a decidere se la tale emissione in atmosfera possa o no compromettere, o solo deteriorare, la “particolare situazione di rischio sanitario”, oppure la “particolare tutela ambientale” richiesta nella zona interessata, circostanze che, però, non possono ritenersi di sicura, obiettiva, rilevabilità, e delle quali la legge, proprio per questo, rimette alla P.A. di valutare in concreto la sussistenza[15].

4. La discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico

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Il secondo tipo di morfologia normativa in cui gioca un ruolo la componente tecnico-scientifica concerne la fase decisoria ed ha ad oggetto la composizione degli interessi in gioco nella determinazione in concreto dell’interesse pubblico specifico: acclarata la sussistenza del presupposto (a prescindere dal fatto che la relativa operazione conduca o meno ad una sua sicura rilevabilità), la P.A., in sede di concreta definizione del contenuto del provvedimento, deve scegliere, fra le diverse soluzioni tecnico-scientifiche, quella che reputa più idonea alla migliore realizzazione dell’interesse pubblico specifico. È questo il caso in cui si (può e si) deve parlare di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico.

La struttura della norma in nulla si differenzia da quella che regola l’agire puramente discrezionale. Ed infatti, sempre che, in una data fattispecie concreta, sia stata chiarita la equivalenza, sotto il profilo scientifico, delle soluzioni tecniche possibili (ciò, peraltro, non significa che sarebbero necessariamente equivalenti le conseguenze che ciascuna di esse, una volta sussunta nella decisione, sarebbe in grado di produrre nella vicenda di amministrazione), la valutazione che dovrà orientare la scelta di una di queste dovrà tener conto degli interessi secondari sui quali in concreto il provvedimento finirà per incidere, o comunque influire[16].

In definitiva, volendo riassumere il ruolo giocato dalla componente tecnico-scientifica nell’azione amministrativa, la norma giuridica può contemplare due distinte fattispecie astratte, in larga misura corrispondenti alle due fasi principali del procedimento amministrativo: la prima si riferisce alla fase preparatoria (o istruttoria che dir si voglia), di accertamento della sussistenza dei presupposti (tanto che sia indiscutibile, tanto che sia opinabile, l’esito di tale verifica); la seconda alla fase costitutiva (o decisoria che dir si voglia), di scelta del contenuto del provvedimento. Una cosa, infatti, è il ruolo della scienza e della tecnica nella verifica della sussistenza dei presupposti che la legge ha stabilito esser necessari per adottare un provvedimento. Altra cosa è il ruolo della scienza e della tecnica nella scelta del contenuto provvedimentale[17].

Ciò nondimeno, sebbene scienza e tecnica, sul piano rigorosamente teorico, dovrebbero restare fuori dal merito amministrativo, appare condivisibile il prevalente – quasi unanime – orientamento della giurisprudenza amministrativa[18], che non è di questo avviso laddove la norma assegni alla P.A. il compito di valutare discrezionalmente quale criterio tecnico scegliere – fra quelli che, pur se opinabili, sono scientificamente assumibili –, che si tratti sia di verificare la effettiva sussistenza di un presupposto dell’azione, sia di definire il contenuto provvedimentale.

È ovvio, infine, che una stessa previsione normativa possa contemplare tanto discrezionalità tecnica quanto discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: anzi sovente esse vengono dalla legge combinate fra loro. In queste

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circostanze si suole parlare di discrezionalità mista, ma impropriamente[19]: le due species, infatti, non possono essere confuse, restando distinte e perciò, almeno sotto il profilo concettuale, perfettamente distinguibili, sebbene nella realtà delle vicende amministrative la loro contemporanea ricorrenza renda assai difficile tenerle separate, soprattutto per quel che concerne le conseguenze giuridiche proprie del loro rispettivo esercizio[20].

5. Gli strumenti processuali per consentire il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: la verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio

Affinché il giudice amministrativo possa sindacare le valutazioni tecniche compiute dalla P.A., il Codice del processo amministrativo (d’ora in poi C.P.A.) dispone due diversi mezzi istruttori: la verificazione e la consulenza tecnica d’ufficio. Non si presenta del tutto chiara, però, la funzionalizzazione di tali due mezzi.

Alla verificazione (ma – lo si vedrà subito a seguire – anche alla consulenza tecnica) il C.P.A. riserva una considerazione specifica, sia pur dedicandovi una disciplina succinta, almeno quanto alle ragioni della sua previsione. L’art. 66, infatti, si limita a prescrivere che “Il collegio, quando dispone la verificazione, con ordinanza individua l’organismo che deve provvedervi, formula i quesiti e fissa un termine per il suo compimento e per il deposito della relazione conclusiva”, aggiungendo che “Il capo dell’organismo verificatore, o il suo delegato se il giudice ha autorizzato la delega, è responsabile del compimento di tutte le operazioni” (co. 1); e che la detta ordinanza va “comunicata dalla segreteria all’organismo verificatore” (co. 2); per il resto regolando soltanto il compenso di quest’ultimo[21].

Va tuttavia sottolineato che (al momento, o più precisamente) nel luogo della sua previsione, e cioè nell’art. 63, co. 4, vengono puntualizzati i casi in cui essa può essere disposta, stabilendosi che la “esecuzione di una verificazione” è ordinata dal G.A. laddove questi “reputi necessario l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche”.

Non pare privo di significato, peraltro, che allo stesso scopo al giudice è consentito altresì di “disporre una consulenza tecnica”, ma solo ove lo ritenga “indispensabile” (artt. 19, co. 1, e 63, co. 4). Diventa quindi necessario provare a capire dal dettato normativo in che consista la verificazione, se ed in che cosa si differenzi dalla consulenza tecnica, ed infine se ed entro quali limiti il giudice è libero di scegliere di disporre l’uno o l’altro mezzo istruttorio.

A dire il vero, stando alla lettera del co. 4 dell’art. 63 sembra doversi ritenere che la verificazione possa e debba essere disposta dal giudice laddove si tratti

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di accertare fatti che presentino una connotazione tecnico-scientifica il cui acclaramento dia luogo, però, a risultati certi ed indubbi (diversamente il giudice dovendo adoperare il mezzo della consulenza tecnica d’ufficio quando si tratti di acclarare soltanto la plausibilità – e non la veridicità – della scelta tecnico-scientifica compiuta dalla P.A., giacché la disciplina scientifica sussunta nella fattispecie normativa non offre sul punto una risposta certa ed inopinabile, esistendo più di un criterio per effettuare siffatta scelta).

È di immediata intuizione che la previsione normativa di questo mezzo istruttorio costituisce – unitamente a quella della consulenza tecnica d’ufficio – un significativo passo avanti nella strada della effettiva sindacabilità del merito amministrativo, quando questo versi, appunto, su questioni tecnico-scientifiche caratterizzanti il contenuto dell’atto impugnato. La ovvia naturale incapacità di intelligere le dette questioni, invero, un tempo costringeva di fatto il G.A. a fermarsi dinanzi alla loro soluzione adottata dalla P.A. convenuta in giudizio, egli potendo chiedere di effettuare la verificazione soltanto a quest’ultima. Secondo la disciplina del C.P.A. oggi vigente, invece, il giudice “può farsi assistere” da un verificatore ‘neutrale’ per l’accertamento della veridicità di quanto assunto dalla P.A. nel definire gli aspetti tecnico-scientifici dell’atto impugnato[22].

Giusta l’art. 19 C.P.A. – occorre infatti precisare – “Il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più verificatori” (co. 1, nel quale è stabilito anche che può farsi assistere pure “da uno o più consulenti”, ma soltanto laddove ciò sia “indispensabile”). A seguire, la disposizione prevede, per un verso, che “La verificazione è affidata a un organismo pubblico, estraneo alle parti del giudizio, munito di specifiche competenze tecniche” (co. 2)[23].

Per altro verso, essa prevede che il verificatore (non diversamente dal consulente tecnico) deve compiere le indagini affidategli dal giudice, al quale può fornire “anche oralmente i chiarimenti richiesti” (co. 3). Alla stessa stregua, il verificatore ha l’obbligo di prestare il proprio “ufficio, tranne che il giudice riconosca l’esistenza di un giustificato motivo” (art. 20, co. 1, secondo il quale la prescrizione vale pure, ancora una volta, per il consulente tecnico, nel caso quest’ultimo venga “scelto tra i dipendenti pubblici o tra gli iscritti negli albi di cui all’articolo 13 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile”).

D’altra parte, il verificatore (così come il consulente) “può essere ricusato dalle parti per i motivi indicati nell’articolo 51 del codice di procedura civile”, ed il giudice competente alla ricusazione è lo stesso “che l’ha nominato” (art. 20, co. 2). V’è chi ritiene – ma, stando al dettato letterale della norma, l’opinione può ritenersi discutibile – che, in analogia, valga anche per il verificatore quanto è disposto per il consulente tecnico relativamente al corrispondente dovere di astensione (lo si vedrà subito a seguire)[24].

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Appena più articolata è la disciplina dedicata alla consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.), che pure viene disposta con ordinanza del giudice, epperò soltanto laddove questi lo ritenga “indispensabile” (artt. 19, co. 1, e 63, co. 4, C.P.A.): come si capisce facilmente, risulta fondamentale la definizione della ‘indispensabilità’, questo essendo l’indefettibile presupposto fissato dalla legge affinché il G.A. possa ricorrere al mezzo istruttorio in esame. Sul punto si tornerà di qui a poco, dopo aver dato conto in breve della disciplina procedurale dell’istituto.

Nel nominarlo, il collegio “formula i quesiti e fissa il termine entro cui il consulente incaricato deve comparire dinanzi al magistrato a tal fine delegato per assumere l’incarico e prestare giuramento” (art. 67, co. 1), secondo le modalità stabilite dall’art. 193 c.p.c. (co. 4).

La C.T.U. deve essere assegnata ad un perito che si trovi in una condizione di terzietà rispetto alle parti: il co. 2 dell’art. 19, infatti, stabilisce che “L’incarico di consulenza può essere affidato a dipendenti pubblici, professionisti iscritti negli albi di cui all’articolo 13 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, o altri soggetti aventi particolare competenza tecnica. Non possono essere nominati coloro che prestano attività in favore delle parti del giudizio”. A garanzia della terzietà le parti possono proporre “istanze di astensione e ricusazione” nei confronti del consulente (art. 67, co. 2). Come si è riferito in precedenza, poi, (analogamente al verificatore) il C.T.U. che sia stato “scelto tra i dipendenti pubblici o tra gli iscritti negli albi di cui all’articolo 13 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile” – e non anche quello che sia semplicemente un soggetto avente “particolare competenza tecnica” – è tenuto a prestare l’ufficio richiestogli (rendere la perizia), a meno che il G.A. non “riconosca l’esistenza di un giustificato motivo” (art. 20, co. 1)[25].

Sebbene il C.P.A. lo faccia nel corpo di una disposizione – l’art. 67, co. 3 – destinata (almeno a prima vista) alla regolazione dei “termini successivi” (prorogabili ai sensi dell’art. 154 c.p.c.) che, con l’ordinanza di nomina, il collegio può assegnare per una serie di adempimenti, è molto rilevante la previsione della possibilità di “eventuale nomina, con dichiarazione ricevuta dal segretario, di consulenti tecnici delle parti, i quali, oltre a poter assistere alle operazioni del consulente del giudice e a interloquire con questo, possono partecipare all’udienza e alla camera di consiglio ogni volta che è presente il consulente del giudice per chiarire e svolgere, con l’autorizzazione del presidente, le loro osservazioni sui risultati delle indagini tecniche” (lett. b, il corsivo è di chi scrive). Alle parti, ovvero ai consulenti tecnici di queste, il C.T.U. deve trasmettere “uno schema della propria relazione” (lett. c), relativamente al quale ai consulenti di parte è consentito formulare “eventuali osservazioni e conclusioni” che vanno a loro volta trasmesse al C.T.U. (lett. d). Questi, infine, nella sua “relazione finale”, da depositare in segreteria, deve

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dar “conto delle osservazioni e delle conclusioni dei consulenti di parte”, su queste dovendo prendere “specificamente posizione” (lett. e)[26].

È di tutta evidenza che la disciplina appena riportata, benché si presenti concepita come per disciplinare la fissazione di termini ad opera del giudice, segni un passo avanti assai significativo per la introduzione a pieno titolo, anche nella fase istruttoria, del principio del contraddittorio[27].

Venendo alla questione della definizione della ‘indispensabilità’, come si è riferito poc’anzi, il giudice può disporre la consulenza tecnica d’ufficio soltanto se lo ritiene “indispensabile” (artt. 19, co. 1, e 63, co. 4). Ciò sembra voler dire che egli debba quanto meno ‘preferirgli’ la verificazione[28].

Del resto, solo quest’ultima – lo si è chiarito – appare in sé vocata all’accertamento di un fatto la cui rilevazione è scientificamente incontrovertibile. Il giudice, invece, dovrebbe poter ricorrere alla C.T.U. soltanto laddove sia chiamato a decidere sulla sussistenza di un fatto, ovvero sulla correttezza di una decisione amministrativa, la cui rilevazione, o assunzione, presentano margini (più o meno ampi) di opinabilità tecnico-scientifica: in tali casi, infatti, il mezzo istruttorio dovrebbe corrispondere alla sola esigenza di ‘illuminarlo’ su una disciplina estranea alla sua cognizione professionale, al solo scopo, per ciò, di consentirgli la (altrimenti impossibile) intelligenza della plausibilità tecnico-scientifica del criterio assunto dalla P.A. per acclarare la sussistenza del fatto presupposto, ovvero per definire il contenuto, del provvedimento impugnato[29].

Per il vero, il dettato normativo non si presenta di univoca lettura, offrendosi a diverse possibili interpretazioni. Al fine di capirne le ragioni, bisogna procedere con ordine. Per farlo occorre richiamare nel ragionamento la ‘morfologia’ della norma che disciplina la fattispecie concreta dedotta in giudizio, di cui si è fatto parola poc’anzi. Non sembra revocabile in dubbio, infatti, che sia cosa diversa se tale norma contempli (e disciplini) una ipotesi di mero accertamento tecnico, ovvero di discrezionalità tecnica, ovvero ancora di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico.

Si è visto che, nel primo caso, la norma giuridica assegna alla P.A. il compito di acclarare la sussistenza di un presupposto tecnico-scientifico dell’azione la cui rilevazione non è opinabile; nel secondo caso, invece, la rilevazione del presupposto tecnico-scientifico presenta incertezze nella stessa disciplina scientifica sussunta nella fattispecie normativa; nel terzo caso, infine, non si tratta di acclarare la sussistenza di un presupposto tecnico-scientifico dell’azione, e tuttavia la P.A. si trova comunque nella condizione di dover valutare elementi tecnico-scientifici in funzione della scelta che la norma le rimette di effettuare allo scopo di assumere la decisione amministrativa.

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Orbene, se così è, il pur non lineare testo del co. 4 dell’art. 63 (ma il ragionamento può estendersi naturalmente anche al co. 1 dell’art. 19) sembra doversi intendere nel senso che segue. Laddove “l’accertamento di fatti o l’acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche” – la ‘necessarietà’ dei quali è dalla disposizione affidata comunque all’apprezzamento del giudice – abbiano ad oggetto un’attività vincolata della P.A., questi “può ordinare l’esecuzione di una verificazione”. Laddove, invece, abbiano ad oggetto un’attività discrezionale (sia essa di discrezionalità tecnica, ovvero di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, non cambia), “può disporre una consulenza tecnica”, sempre che però lo ritenga “indispensabile”: ed una siffatta ‘indispensabilità’ pare ragionevolmente doversi rinvenire nella sua difficoltà/incapacità di comprensione della questione tecnico-scientifica sottesa alla scelta amministrativa[30].

Un ulteriore argomento a favore della interpretazione avanzata si rinviene nella previsione solo per la C.T.U. della necessità che la relativa procedura si svolga in contraddittorio: ciò avvalora l’ipotesi del possibile ricorso ad essa soltanto quando la fattispecie dedotta in giudizio presenti margini di opinabilità tecnico-scientifica ed il giudice debba potersi far supportare dall’avviso di un perito al fine di intelligere adeguatamente la questione in causa[31].

In definitiva, a ben riflettere, pare proprio che la richiesta di consulenza tecnica possa ricorrere soltanto nelle ipotesi in cui la disposizione normativa regolativa della vicenda dedotta in giudizio contempli una fattispecie di discrezionalità tecnica o di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, e non di mero accertamento tecnico, per il qual caso il G.A. dovrebbe ricorrere alla verificazione. Ed invero, mentre, quando dispone quest’ultima, il risultato che il giudice ottiene si configura come una prova vera e propria, altrettanto non si può dire quando egli ordina una consulenza tecnica, il risultato che consegue risolvendosi in una ‘chiarificazione’ necessaria a valutare la fondatezza, o meno, della valutazione tecnico-scientifica effettuata dalla P.A.

Insomma, un conto è considerare il risultato della C.T.U. come una vera e propria prova; altro e ben diverso conto è ritenere – come pare più corretto – che l’esito della C.T.U. in sé non costituisce una prova, bensì una ‘indicazione’ che il giudice può e deve utilizzare al fine di capire se e fino a che punto la scelta tecnico-scientifica effettuata dalla P.A. risulti plausibile: nel rispetto del principio di separazione dei poteri, infatti, la sua attività non può spingersi fino al punto di ‘sostituire’ la valutazione tecnico-scientifica della P.A. con quella resa dal C.T.U. che egli ha nominato; quest’ultima, cioè, deve limitarsi ad ‘illuminare’ il giudice nella valutazione che l’ordinamento gli rimette di compiere relativamente alla attendibilità tecnico-scientifica della scelta amministrativa.

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Si può allora concludere con due osservazioni: per un verso, appare indiscutibile che con la codificazione della C.T.U. (oltre che con la modifica della disciplina della verificazione) si sia realizzato un significativo ampliamento della sindacabilità giurisdizionale del merito tecnico-scientifico di ogni scelta amministrativa; per altro verso, tuttavia, siffatta sindacabilità non può che restare nell’ambito della rilevazione di un eventuale vizio di eccesso di potere (la rilevabilità della sussistenza del quale, peraltro, è oggi notevolmente incrementata rispetto al passato).

Pertanto, laddove la valutazione compiuta dalla P.A. non si riveli plausibile sotto il profilo tecnico-scientifico, il G.A. – la legge ormai permettendogli di poterlo capire attraverso la C.T.U. – dovrà concludere che l’atto fondato su di essa è illegittimo per eccesso di potere. Epperò, dal momento che gli è consentito di indagare sul merito, ma non fino al punto di entrare nel merito, al giudice resta preclusa la possibilità di sostituire l’apprezzamento manifestato dal C.T.U. all’apprezzamento effettuato dalla P.A. nel caso in cui quest’ultimo (quand’anche non fosse condiviso dal C.T.U.) si presenti non inverosimile (e dunque legittimo), ciò rendendo l’atto generato sulla sua base esente dal vizio di eccesso di potere[32].

Parte seconda

Rassegna ragionata della più recente giurisprudenza

sulle valutazioni tecniche della P.A. in materia ambientale

Nell’introdurre la rassegna di giurisprudenza sulle valutazioni tecniche della P.A. in materia ambientale, occorre preliminarmente precisare che, in generale e non solo nella materia de qua, i giudici non sono soliti distinguere le valutazioni tecnico-scientifiche, che la P.A. è dalla legge chiamata a compiere, a seconda che la relativa attività sia dalla norma configurata come di discrezionalità tecnica o di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. Essi, invero, usano per lo più la locuzione ‘discrezionalità tecnica’, che la valutazione sia funzionale tanto alla verifica di un presupposto dell’azione, quanto alla scelta del contenuto provvedimentale.

Come si è visto, la distinzione in parola deriva dalla morfologia della norma che disciplina l’esercizio del potere amministrativo. Pertanto, al fine di catalogare le sentenze differenziandole in base al tipo di attività discrezionale di volta in volta oggetto di sindacato giurisdizionale (solo così potendosi capire se, ed eventualmente in che misura, l’orientamento giurisprudenziale è comune ad entrambe le ipotesi, oppure si diversifichi), non si può fare affidamento sulla locuzione adoperata dal giudice, ma occorre risalire alla

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norma di cui si fa applicazione nella vicenda procedimentale tradotta in giudizio.

Sicché, nel leggere gli arresti giurisdizionali che vengono qui di seguito riportati, è necessario prescindere dalla locuzione espressamente adoperata nella sentenza – quasi sempre, come riferito, ‘discrezionalità tecnica’ –, dovendosi invece aver riguardo al fatto che il giudice, in tutti i casi di entrambe le specie, a prescindere dalla teleologia cui la valutazione è funzionalizzata, si esprime individuando i propri limiti circa la verificabilità di una valutazione tecnico-scientifica affidata alla P.A. dalla legge.

Dall’analisi delle sentenze emerge nitidamente che il G.A., in maniera abbastanza pacifica, considera sindacabili le valutazioni tecnico-scientifiche compiute dalla P.A. entro i limiti propri della verifica della sussistenza nell’atto del vizio di eccesso di potere. Naturalmente, diversi sono i casi in cui si tratta, non di valutazioni, ma di meri accertamenti tecnici, per decidere sulla correttezza della effettuazione dei quali il G.A. può disporre una verificazione, il cui esito costituisce prova della loro conformità, o meno, alla legge[33].

6. Le sentenze in cui si sindaca la valutazione tecnico-scientifica compiuta per verificare la sussistenza dei presupposti dell’azione amministrativa (discrezionalità tecnica)

Ad un’attenta osservazione, non sono molte le fattispecie normative contemplanti casi di sola discrezionalità tecnica sulle quali il G.A. ha avuto modo di esprimersi.

Lo è, ad esempio, quella prevista dall’art. 244 (rubricato “Ordinanze”) del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’ambiente), che così recita: “Le pubbliche amministrazioni che nell’esercizio delle proprie funzioni individuano siti nei quali accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla regione, alla provincia e al comune competenti” (co. 1). “La provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo” (co. 2). Laddove “il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250” (co. 4).

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Come appare evidente, la fattispecie normativa contempla l’attribuzione di potere amministrativo relativamente a due diversi tipi di attività: in primo luogo, la P.A. (segnatamente le “pubbliche amministrazioni che nell’esercizio delle proprie funzioni individuano siti” contaminati) è tenuta ad effettuare un mero accertamento tecnico con riguardo alla verifica del superamento dei “valori di concentrazione soglia di contaminazione”; a seguire, essa (segnatamente la “provincia”) è tenuta ad “identificare il responsabile dell’evento di superamento”, e cioè a valutare se ed in che misura l’accertata contaminazione del sito sia attribuibile alla responsabilità di un determinato soggetto, diffidandolo, “sentito il comune”, con “ordinanza motivata” a realizzare “gli interventi che risultassero necessari”.

Nel caso deciso da T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Trieste, Sez. I, 9/4/2013, n. 227, si fa applicazione della disposizione con riferimento a questa seconda attività, verificandosi la effettività della sussistenza della responsabilità quale presupposto per imporre le misure di bonifica. Il G.A. così si esprime: “La mancanza di una adeguata motivazione in relazione a provvedimenti in materia ambientale non può ritenersi giustificata dall’ampia discrezionalità tecnica che spetterebbe all’Amministrazione in detta materia, poiché la censurabilità della discrezionalità tecnica, che non può arrivare alla sostituzione del giudice all’Amministrazione, può consistere nel controllo “ab externo” dell’esattezza e correttezza dei parametri della scienza utilizzati. In altri termini, laddove l’Amministrazione non provi che l’inquinamento riscontrabile nel sito sia imputabile alla società, a quest’ultima non può essere imposto alcun obbligo di adottare misure di bonifica in un’ottica di recupero del sito”.

Anche Cons. Stato, Sez. V, 22/5/2015, n. 2569, decide in riferimento alla stessa disposizione (art. 244, D.Lgs. 152/2006) e con riguardo alla medesima attività (di identificazione del “responsabile dell’evento di superamento”). Il Supremo Collegio amministrativo – dopo aver chiarito che “non può seriamente dubitarsi” dell’accertamento della sussistenza della contaminazione del sito compiuto dalla P.A., che giudica quindi effettuato legittimamente (sebbene esprimendosi in maniera imprecisa, sembrando confondere un accertamento tecnico con una attività di discrezionalità tecnica, laddove afferma che “la valutazione degli esiti delle analisi del campione prelevato […] per dar conto dell’effettiva sussistenza della contaminazione […], in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, tranne le ipotesi della manifesta irragionevolezza, illogicità, irrazionalità, arbitrarietà o travisamento dei fatti, di cui non vi è traccia nel caso di specie, non essendo per contro sufficiente l’eventuale opinabilità di tale valutazione”) – respinge l’appello della società ricorrente, decidendo che “nessun adeguato elemento probatorio, inequivoco ed oggettivo, è stato fornito dall’appellante per escludere la correttezza e la coerenza della comparazione svolta dall’ARPA tra

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i dati delle analisi del campione di liquido prelevato e le concentrazioni delle sostanze rilevate nei piezometri di ENI”, e perciò riconoscendo la legittimità della scelta della P.A. che fa “conseguire, del tutto logicamente, secondo l’id quod plerumque accidit, la riferibilità di quella contaminazione esclusivamente all’attività svolta proprio” dalla società ricorrente.

In particolare, il G.A. (una volta ribadito che le valutazioni dell’ARPA “sono espressione di discrezionalità tecnica e come tali non sono di norma passibili di sindacato giurisdizionale, neppure quando siano opinabili – salve le ipotesi di irragionevolezza, irrazionalità, illogicità, arbitrarietà o travisamento di fatti, che non si rinvengono nel caso di specie”) sentenzia che “i rilievi dell’appellante, ancorché consacrati in perizie di parte, che si atteggiano a mere inammissibili opinioni dissenzienti dall’operato dell’amministrazione”, non sono idonei a smentire le conclusioni dell’ARPA, dovendosi escludere che la responsabilità della società ricorrente “per la predetta contaminazione sia stata ricollegata al mero fatto della sola proprietà dell’impianto e dell’area su cui esso insiste”. L’ordinanza impugnata, pertanto, è da ritenersi legittima.

Fra le fattispecie di discrezionalità tecnica è da annoverarsi anche quella prevista dall’art. 21 (rubricato “Definizione dei contenuti dello studio di impatto ambientale”), D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’Ambiente), per il quale “Sulla base del progetto preliminare, dello studio preliminare ambientale e di una relazione che, sulla base degli impatti ambientali attesi, illustra il piano di lavoro per la redazione dello studio di impatto ambientale, il proponente ha la facoltà di richiedere una fase di consultazione con l’autorità competente e i soggetti competenti in materia ambientale al fine di definire la portata delle informazioni da includere, il relativo livello di dettaglio e le metodologie da adottare. La documentazione presentata dal proponente in formato elettronico, ovvero nei casi di particolare difficoltà di ordine tecnico, anche su supporto cartaceo, include l’elenco delle autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, nulla osta e assensi comunque denominati necessari alla realizzazione ed esercizio del progetto” (co. 1). “L’autorità competente all’esito delle attività di cui al comma 1: a) si pronuncia sulle condizioni per l’elaborazione del progetto e dello studio di impatto ambientale; b) esamina le principali alternative, compresa l’alternativa zero; c) sulla base della documentazione disponibile, verifica, anche con riferimento alla localizzazione prevista dal progetto, l’esistenza di eventuali elementi di incompatibilità; d) in carenza di tali elementi, indica le condizioni per ottenere, in sede di presentazione del progetto definitivo, i necessari atti di consenso, senza che ciò pregiudichi la definizione del successivo procedimento” (co. 2). “Le informazioni richieste tengono conto della possibilità per il proponente di raccogliere i dati richiesti e delle conoscenze e dei metodi di valutazioni disponibili” (co. 3). “La fase di consultazione di cui al comma 1 si conclude entro sessanta giorni e, allo scadere di tale termine, si passa alla fase successiva” (co. 4).

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Ne fa applicazione Cons. Stato, Sez. V, 9/4/2015, n. 1805, che, nel valutare l’ammissibilità dell’ampliamento di una discarica – dopo aver chiarito che “deve escludersi la sussistenza del vizio denunciato, anche con riferimento alla pretesa omessa valutazione di soluzioni alternative da parte del provvedimento impugnato col ricorso di primo grado”, ritenendo che la circostanza per la quale, “nel caso di specie, secondo l’amministrazione, tali alternative non fossero neppure ipotizzabili o non fossero utilmente perseguibili è questione che attiene al merito delle scelte discrezionali dell’amministrazione, che come tale si sottrae al sindacato di legittimità, salve le ipotesi di manifesta illogicità, irrazionalità, irragionevolezza e/o travisamento dei fatti che tuttavia non si rinvengono” – afferma che “la valutazione dell’ammissibilità dell’ampliamento della discarica, sia pur con il rispetto di puntuali prescrizioni in fase di esecuzione del progetto, costituisce espressione di discrezionalità tecnica, come tale non sindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi di manifesta irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà, illogicità e/o travisamento di fatti, non provate dall’appellante”[34].

7. Le sentenze in cui si sindaca la valutazione tecnico-scientifica compiuta in funzione della scelta del contenuto provvedimentale (discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico)

Nella maggior parte dei casi, le sentenze aventi ad oggetto valutazioni tecniche della P.A. decidono su controversie in cui la fattispecie normativa richiamata (nonostante il giudice sovente le attribuisca la diversa qualificazione di discrezionalità tecnica) contempla ipotesi di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. Vi rientrano senz’altro tutte le vicende amministrative in cui la P.A. è richiesta di un provvedimento autorizzatorio per rilasciare il quale è necessaria una previa valutazione di impatto ambientale.

Un primo esempio delle fattispecie normative in parola si rinviene nel combinato disposto dell’art. 24 (rubricato “Consultazione”), D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’ambiente), il co. 5 del quale stabilisce che “Il provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale deve tenere in conto le osservazioni pervenute, considerandole contestualmente, singolarmente o per gruppi”, e dell’art. 11 (rubricato “Giudizio di compatibilità ambientale”) della L.r. Marche 14 aprile 2004, n. 7 (recante “Disciplina della procedura di valutazione di impatto ambientale”), secondo cui “L’autorità competente pronuncia il giudizio di compatibilità ambientale sul progetto esprimendosi contestualmente sulle osservazioni e sulle controdeduzioni presentate” (co. 1).

Fa applicazione della fattispecie in parola Cons. Stato, Sez. V, 2/10/2014, n. 4928, che conferma la sentenza del T.A.R. Marche, la quale aveva respinto il

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ricorso per l’annullamento di due decreti dirigenziali della Regione Marche, con cui si era statuito l’esito negativo del procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.), e conseguentemente non assentito il rilascio della Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.), con riferimento al progetto di realizzazione di una discarica per rifiuti non pericolosi.

Il Consiglio di Stato respinge il ricorso in appello presentato dalla società ricorrente, affermando, per quanto qui è di specifico interesse, che “La valutazione d’impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa l’astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio-economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione-zero; in particolare, la natura schiettamente discrezionale della decisione finale e della preliminare verifica di assoggettabilità, sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende fisiologico che si pervenga ad una soluzione negativa ove l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa; da qui la possibilità di bocciare progetti che arrechino vulnus non giustificato da esigenze produttive, ma suscettibile di venir meno, per il tramite di soluzioni meno impattanti in conformità al criterio dello sviluppo sostenibile e alla logica della proporzionalità tra consumazione delle risorse naturali e benefici per la collettività che deve governare il bilanciamento di istanze antagoniste”.

Un secondo esempio di fattispecie normative che contemplano l’attribuzione alla P.A. di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico è nella L. prov. Bolzano 5 aprile 2007, n. 2 (recante “Valutazione ambientale per piani e progetti”), il cui art. 1 (rubricato “Finalità”) dispone che “Sono sottoposti a valutazione ambientale tutti i programmi, piani e progetti che possono avere rilevanti ripercussioni ambientali” (co. 1), e che “In particolare con la valutazione ambientale si individuano, descrivono e valutano, per ciascun caso particolare, gli effetti diretti ed indiretti dell’adozione di un piano o programma e della realizzazione di un progetto sui seguenti fattori: a) uomo, fauna e flora; b) suolo, acqua, aria, clima e paesaggio; c) patrimonio ambientale, storico e culturale; d) interazione tra i fattori di cui alle lettere a), b) e c)” (co. 2).

Segnatamente, l’art. 15 (rubricato “Procedura VIA”) stabilisce che “Entro il termine di 90 giorni dalla data dell’ultima pubblicazione, il Comitato ambientale esamina il progetto e il relativo SIA [Studio di Impatto Ambientale] ed emette un parere motivato sul suo prevedibile impatto ambientale, tenendo conto delle osservazioni presentate e del verbale di cui al comma 9. Il committente ha diritto di essere ascoltato dal Comitato ambientale prima che venga rilasciato il parere. Il parere può contenere anche indicazioni su

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interventi idonei ad evitare, limitare o compensare le conseguenze negative e su misure di controllo da adottarsi in fase di realizzazione del progetto” (co. 11); e, a seguire, che “La Giunta provinciale si pronuncia sulla compatibilità ambientale del progetto entro 30 giorni dalla ricezione del parere del Comitato ambientale, tenendo conto delle osservazioni di cui al comma 6 e del verbale di cui al comma 9” (co. 12).

Sull’applicazione di questa disciplina si pronuncia in appello Cons. Stato, Sez. VI, 22/9/2014, n. 4775, confermando la sentenza del T.A.R. Bolzano che aveva accolto i ricorsi avverso la deliberazione della Giunta provinciale di Bolzano – la quale si era espressa favorevolmente sulla valutazione d’impatto ambientale, approvando il progetto per la realizzazione di un parco eolico –, riconoscendo sussistente il vizio di eccesso di potere sotto i profili di travisamento di fatto e di insufficienza e contraddittorietà motivazionali ed istruttorie, giacché la Giunta non aveva tenuto in debita considerazione i pareri e le osservazioni formulate da vari soggetti ed organi pubblici e privati (italiani e austriaci) che avevano partecipato al procedimento.

Nel ricorso avverso la sentenza del T.A.R. Bolzano, la società appellante lamenta che il giudice di primo grado non aveva adeguatamente considerato il fatto che la valutazione di impatto ambientale non costituisce “un mero giudizio tecnico, suscettibile in quanto tale di verificazione sulla base di oggettivi criteri di misurazione”, presentando “profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo”, sicché il correlativo potere discrezionale riservato alla P.A. non poteva ridursi ad un mero rinvio ai pareri resi dagli organi tecnici consultivi.

Sul punto, in appello, il Consiglio di Stato affronta il tema del sindacato del G.A. sulla V.I.A. In particolare, il Supremo Collegio rileva che, proprio perché l’autorità competente, pur concludendo positivamente il procedimento di V.I.A., aveva dichiarato sussistenti notevoli criticità, risulta carente la motivazione, giacché, per superare dette criticità, essa avrebbe dovuto essere ampia ed esauriente. Nel confermare perciò i vizi del provvedimento già riscontrati dal giudice di prime cure, così si esprime: “Sebbene la valutazione di impatto ambientale del progetto di realizzazione di un impianto eolico sia improntata ad ampia discrezionalità, sia tecnica che amministrativa, la successiva cognizione del giudice amministrativo non è limitata alla logicità, congruità e completezza dell’istruttoria, ma si estende anche alla valutazione dell’eventuale erroneità dell’apprezzamento dell’amministrazione”. In modo specifico, il Supremo Collegio significativamente aggiunge che, anche se “la valutazione di impatto ambientale del progetto di realizzazione di un impianto eolico, per la pluralità, ampiezza e varietà degli interessi pubblici coinvolti, in parte tra di loro confliggenti, sia improntata ad ampia discrezionalità, sia tecnica che amministrativa, deve tuttavia rilevarsi che, in ordine a detto

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apprezzamento – insindacabile nel merito – la successiva cognizione del giudice amministrativo deve ritenersi piena, nel senso che, pur non potendo il giudice sostituirsi alla amministrazione (in quanto siffatto potere è proprio soltanto della giurisdizione di merito), deve ritenersi ammissibile non più soltanto un esame estrinseco della valutazione discrezionale, secondo i noti parametri di logicità, congruità e completezza dell’istruttoria, estendendosi invece l’oggetto del giudizio anche alla esatta valutazione del fatto, secondo i parametri della disciplina nella fattispecie rilevante, ove in concreto verificabile”.

Nel medesimo senso (e anzi addirittura con le stesse parole, che la sentenza appena richiamata riprende quasi integralmente) il Consiglio di Stato si era già espresso in precedenza, con riguardo ad altre due non dissimili fattispecie normative.

La prima di esse è contemplata dal Regolamento della Regione Calabria 4 agosto 2008, n. 3 (“Regolamento regionale delle procedure di Valutazione di Impatto ambientale, di Valutazione ambientale strategica e delle procedure di rilascio delle Autorizzazioni Integrate Ambientali”), e segnatamente dall’art. 1, che enuncia “Oggetto e finalità” della disciplina – chiarendo che “La valutazione ambientale di piani, programmi e progetti ha la finalità di assicurare che l’attività antropica sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile, e quindi nel rispetto della capacità rigenerativa degli ecosistemi e delle risorse, della salvaguardia della biodiversità e di un’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica. Per mezzo della stessa si affronta la determinazione della valutazione preventiva integrata degli impatti ambientali nello svolgimento delle attività normative e amministrative, di informazione ambientale, di pianificazione e programmazione”; precisando, a seguire, che “a) la valutazione ambientale di piani e programmi che possono avere un impatto significativo sull’ambiente ha la finalità di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e contribuire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione, dell’adozione e approvazione di detti piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile”, e che “b) la valutazione ambientale dei progetti ha la finalità di proteggere la salute umana, contribuire con un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie e conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale per la vita. A questo scopo, essa individua, descrive e valuta, in modo appropriato per ciascun caso particolare e secondo le disposizioni del presente regolamento, gli impatti diretti e indiretti di un progetto sui seguenti fattori: 1) l’uomo, la fauna e la flora; 2) il suolo, l’acqua, l’aria e il clima; 3) i beni materiali ed il patrimonio culturale; 4) l’interazione tra i fattori di cui sopra” (co. 2); e che “La prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento hanno lo scopo di evitare, oppure, qualora non sia possibile, di ridurre le emissioni

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nell’aria, nell’acqua e nel suolo, i rifiuti od il consumo delle risorse al fine di conseguire un elevato livello di protezione della salute umana e dell’ambiente nel suo complesso” (co. 3) –, e dall’art. 11 (rubricato “Valutazione dello studio di impatto ambientale e degli esiti della consultazione”), secondo cui “Le attività di istruttoria tecnica per la valutazione d’impatto ambientale sono svolte dal Nucleo VIA-VAS-IPPC di cui all’art. 3” (co. 1) e “L’autorità competente acquisisce e valuta tutta la documentazione presentata, le osservazioni, obiezioni e suggerimenti inoltrati ai sensi dell’articolo 10” (co. 2).

In sede di appello, Cons. Stato, Sez. V, 27/3/2013, n. 1783, nel riformare la sentenza con la quale il T.A.R. Calabria aveva annullato il decreto dirigenziale (del Dipartimento Politiche dell’Ambiente della Regione Calabria) di recepimento del parere negativo di compatibilità ambientale espresso dal Nucleo VIA sul progetto di un parco eolico, afferma che “L’Amministrazione, nel rendere il giudizio di valutazione ambientale, esercita un’amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale sulla determinazione finale emessa”.

La seconda delle due fattispecie normative si rinviene nella legislazione della Regione Sardegna, e precisamente nell’insieme di due disposizioni, contenute l’una nella L.r. 12 giugno 2006, n. 9 (recante “Conferimento di funzioni e compiti agli enti locali”), e l’altra nella L.r. 18 gennaio 1999, n. 1 (recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della regione – legge finanziaria 1999”).

Segnatamente, l’art. 48, L.r. 9/2006 (rubricato “Valutazione ambientale strategica e valutazione di impatto ambientale. Funzioni della Regione”) stabilisce che “In materia di valutazione ambientale strategica spettano alla Regione le funzioni amministrative non ritenute di livello nazionale relative alla valutazione di piani e programmi di livello regionale o provinciale. In materia di valutazione di impatto ambientale spettano alla Regione tutte le funzioni amministrative non ritenute di rilievo nazionale ai sensi dell’articolo 71 del decreto legislativo n. 112 del 1998 e non attribuite agli enti locali dalla presente legge” (co. 1); che “In particolare spettano alla Regione i seguenti compiti: a) predisposizione di direttive nell’ambito previsto dalle normative statali; b) formulazione di linee guida di indirizzo tecnico-amministrativo in materia di valutazione ambientale; c) svolgimento della valutazione ambientale strategica di piani e programmi di livello regionale o provinciale; d) svolgimento delle valutazioni di impatto ambientale dei progetti, delle opere e interventi che interessano i territori di più province o che rivestono un

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interesse regionale sul piano ambientale, programmatico, economico e sociale” (co. 2); e che “Le procedure relative alla verifica di assoggettabilità e alla valutazione di impatto ambientale, si concludono, sulla base dell’attività istruttoria, con atto deliberativo assunto dalla Giunta regionale, su proposta dell’Assessore regionale della difesa dell’ambiente” (co. 3).

L’art. 31, L.r. 1/1999 (rubricato “Norma transitoria in materia di valutazione di impatto ambientale”), invece, così recita: “Per i progetti di infrastrutture, di cui all’allegato B del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 1996, ammessi a finanziamento nell’ambito del POP Sardegna 1994-1999, che non ricadono all’interno di aree naturali protette, come definite al comma 1, lettera a), si dispone che: a) la Regione, sentiti i Comuni nei cui territori sono realizzate le opere e previa opportuna verifica, decide, entro trenta giorni dall’annuncio di cui alla successiva lettera b), se le caratteristiche del progetto non richiedono lo svolgimento della procedura di valutazione di impatto ambientale, individuando eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti e il monitoraggio degli interventi; in caso contrario si applica la procedura di cui al comma 1 […]; c) qualora la verifica di cui alla lettera a) si concluda con un giudizio di esclusione dalla procedura di valutazione di impatto ambientale, il soggetto attuatore provvede a darne annuncio secondo le modalità di cui alla lettera b)” (co. 2).

In applicazione della normativa richiamata, nel 2010 la Giunta Regionale della Sardegna aveva espresso giudizio positivo, con prescrizioni, sulla compatibilità ambientale di un intervento. Di tale deliberazione veniva chiesto l’annullamento al T.A.R. Sardegna. In sede di appello, Cons. Stato, Sez. V, 31/5/2012, n. 3254, nel confermare la sentenza di primo grado, così si esprime: “Alla stregua dei principi comunitari e nazionali, oltre che delle sue stesse peculiari finalità, la valutazione di impatto ambientale non si sostanzia in una mera verifica di natura tecnica circa l’astratta compatibilità ambientale dell’opera, ma implica una complessa e approfondita analisi comparativa tesa a valutare il sacrificio ambientale imposto rispetto all’utilità socio-economica, tenuto conto anche delle alternative possibili e dei riflessi sulla stessa c.d. opzione-zero; inoltre la natura schiettamente discrezionale della decisione finale (e della preliminare verifica di assoggettabilità), sul versante tecnico ed anche amministrativo, rende allora fisiologico ed obbediente alla ratio su evidenziata che si pervenga ad una soluzione negativa ove l’intervento proposto cagioni un sacrificio ambientale superiore a quello necessario per il soddisfacimento dell’interesse diverso sotteso all’iniziativa”.

Non si presenta diversa la giurisprudenza del giudice di prime cure, come dimostrano le sentenze qui di seguito richiamate.

Prevede l’attività della P.A. come discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico la fattispecie normativa prevista dall’art. 12 (rubricato “Razionalizzazione e semplificazione delle procedure autorizzative”) del D.Lgs.

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29 dicembre 2003, n. 387 (recante “Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”), secondo il quale “La costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, gli interventi di modifica, potenziamento, rifacimento totale o parziale e riattivazione, come definiti dalla normativa vigente, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all’esercizio degli impianti stessi, sono soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dalla regione o dalle province delegate dalla regione, ovvero, per impianti con potenza termica installata pari o superiore ai 300 MW, dal Ministero dello sviluppo economico, nel rispetto delle normative vigenti in materia di tutela dell’ambiente, di tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, che costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico. A tal fine la Conferenza dei servizi è convocata dalla regione o dal Ministero dello sviluppo economico entro trenta giorni dal ricevimento della domanda di autorizzazione […]. Per gli impianti offshore l’autorizzazione è rilasciata dal Ministero dei trasporti, sentiti il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, con le modalità di cui al comma 4 e previa concessione d’uso del demanio marittimo da parte della competente autorità marittima” (co. 3). La norma prosegue disponendo che l’autorizzazione de qua “è rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano tutte le Amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità stabilite dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e integrazioni” (co. 4). Quanto, infine, alla procedura, il co. 10 stabilisce che “In Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3. Tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti. Le regioni adeguano le rispettive discipline entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore delle linee guida. In caso di mancato adeguamento entro il predetto termine, si applicano le linee guida nazionali”.

Di tale disciplina normativa fa applicazione T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 1/8/2014, n. 695, per decidere il ricorso con il quale era stato impugnato il provvedimento del Direttore del Servizio Sostenibilità Ambientale, Valutazione Impatti e Sistemi Informativi Ambientali (S.A.V.I.) della Regione Sardegna, provvedimento che dichiarava l’inammissibilità del progetto di un impianto eolico e delle relative opere e infrastrutture connesse. La società ricorrente aveva dedotto la illegittimità del detto provvedimento, lamentando che esso

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sarebbe stato assunto avendo riguardo unicamente ai criteri di localizzazione stabiliti dalla Regione prima ed indipendentemente dalla emanazione delle linee guida nazionali, così violandosi l’art. 12 del D.Lgs. 387/2003 (in particolare contravvenendo la prescrizione di cui al co. 10), nonché l’art. 117, co. 2, lett. s), Cost., che assegna allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia ambientale.

Il G.A., nel decidere sul punto, chiarisce che “Ancorché le linee guida per la localizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili costituiscano esercizio di un potere caratterizzato da ampia discrezionalità amministrativa e tecnica (analogamente a quanto avviene in sede di pianificazione urbanistica generale), sono comunque illegittimi dei criteri di localizzazione che si traducano in una individuazione delle aree non idonee in modo del tutto generico e attraverso l’utilizzo di categorie generali di beni da tutelare, senza alcuna concreta istruttoria alla base dello studio per l’individuazione delle aree non ammissibili”.

L’orientamento della giurisprudenza dei giudici di primo grado può ben definirsi costante. Le sentenze dei Tribunali regionali, infatti, pur se talvolta con diverse sfumature nel lessico adoperato, convergono nell’esprimere la medesima convinzione.

Secondo T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 24/10/2014, n. 427, ad esempio, “Le valutazioni di compatibilità ambientale sono espressione della discrezionalità tecnica della Pubblica amministrazione non suscettibile di sindacato in sede di legittimità in assenza di incongruenze istruttorie e motivazionali; l’Amministrazione, infatti, nell’ambito della valutazione d’impatto ambientale, esercita un’amplissima discrezionalità, che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con conseguenti limiti al sindacato giurisdizionale sulla determinazione finale emessa; tali valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall’opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono infatti in via generale al sindacato del giudice amministrativo, non potendo questo sostituire una propria opinabile valutazione a quella dell’Amministrazione, salvo che non sia manifestamente illogica, irrazionale, arbitraria ovvero fondata su un palese e manifesto travisamento dei fatti o sia inficiata da macroscopiche contraddittorietà o incongruenze”.

Sebbene la massima non si segnali per la precisione dei termini utilizzati dal giudice – solo un mero accertamento tecnico, invero, e mai un “giudizio tecnico”, può essere “suscettibile di verificazione sulla base di oggettivi criteri

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di misurazione” – il principio appena riportato risulta perfettamente coerente con quello espresso dagli altri Tribunali regionali.

Per averne conferma si può richiamare T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 15/7/2013, n. 6997, che, esprimendosi con riguardo alla valutazione resa dalla Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale, afferma che “Le valutazioni di compatibilità ambientale costituiscono espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica della P.A. non suscettibile di sindacato in sede di legittimità in assenza di incongruenze istruttorie e motivazionali. Nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale e nell’effettuare la verifica preliminare, l’Amministrazione, infatti, esercita un’amplissima discrezionalità tecnica, censurabile solo in presenza di macroscopici vizi logici o di travisamento dei presupposti. In ogni caso, la valutazione ambientale non costituisce un mero giudizio tecnico, suscettibile in quanto tale di verificazione sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa, sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse all’esecuzione dell’opera. Apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata, o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione”[35].

Analogamente, si può menzionare anche T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 8/3/2013, n. 627, che, nel giudicare della legittimità dell’atto di approvazione del progetto preliminare e definitivo di un’autostrada, così si esprime: “Il provvedimento finale della v.i.a.s. ha una duplice natura, tanto di esercizio di discrezionalità tecnica, quanto di manifestazione di discrezionalità amministrativa. Questa duplice natura è confermata dalla conformazione del procedimento, che si compone, oltre che dell’esame tecnico, di confronto con norme tecniche, che si esprime in particolare nello studio di impatto ambientale (Sia), di un altro atto, che non è di carattere tecnico, ma è di tenore discrezionale, cioè riguarda la valutazione che deve essere svolta dall’autorità pubblica sulla base dei dati tecnici raccolti e che si esprime nell’autonoma valutazione del Ministro, che segue quella della Commissione tecnica”.

Ancora una volta, nonostante appaia non del tutto corretta la descrizione della fattispecie – non sembra trattarsi, infatti, di una ipotesi di ‘discrezionalità mista’ (come parrebbe ricavarsi dalle parole usate dal giudice), bensì di una ipotesi, appunto, di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico –, ai presenti fini, sembra doversi prendere atto della piena coerenza della decisione con il consolidato orientamento giurisprudenziale.

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Può utilmente richiamarsi, da ultimo, la più risalente T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Trieste, Sez. I, 15/12/2011, n. 560, secondo cui “L’attività mediante la quale l’Amministrazione provvede alle valutazioni poste alla base della verifica di assoggettabilità a v.i.a. è connotata da discrezionalità tecnica e, quindi, può essere sindacata in sede giurisdizionale di legittimità nei limiti del non corretto esercizio del potere sotto il profilo del difetto di motivazione, dell’illogicità manifesta, dell’erroneità dei presupposti di fatto e di incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti, fermo restando che le illegittimità e incongruenze debbono essere “macroscopiche” e “manifeste”“.

Non sono, però, soltanto quelli concernenti valutazioni d’impatto ambientale i casi di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico vagliati dal G.A.

Con riguardo ad una fattispecie concernente la perimetrazione di un parco naturale, ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 8/3/2012, n. 1330, nel sindacare la legittimità del relativo provvedimento, conferma che “appaiono ravvisabili […] i vizi ritenuti sussistenti nella sentenza appellata, per non corretta formazione dell’apprezzamento discrezionale, eccesso di potere per omessa rappresentazione di fatti rilevanti e contraddittorietà nelle valutazioni, riferite alla conclusiva perimetrazione del Parco”. Il G.A. spiega che, “Per quanto riguarda infatti, in particolare, la segnalata insindacabilità nel merito di apprezzamenti discrezionali, come quelli sottesi alla perimetrazione di un Parco naturale, sembra opportuno ricordare come la predetta insindacabilità abbia subito nel tempo una significativa evoluzione, in linea con i principi costituzionali e comunitari del “giusto processo” – inscindibile dalla effettività della tutela – e del “giusto procedimento amministrativo”, che vede la pubblica autorità chiamata a rendere conto in modo sempre più incisivo – e con accresciute modalità di partecipazione e di verifica dei diretti interessati – della razionalità delle proprie determinazioni. Le vecchie formule, che limitavano il sindacato giurisdizionale di legittimità sugli atti discrezionali all’esatta rappresentazione dei fatti ed alla congruità dell’iter logico, seguito dall’Autorità emanante il provvedimento, debbono ormai ritenersi superate dai parametri di attendibilità della valutazione, che sia frutto di discrezionalità tecnica, e di non arbitrarietà della scelta, ove sia stata esercitata una discrezionalità amministrativa. Sotto il primo profilo, è infatti, ormai, pacificamente censurabile la valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di esattezza o attendibilità, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura, ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata, o di dottrina dominante in materia”.

Anche fra le sentenze dei giudici di prime cure si rinvengono vicende aventi ad oggetto casi di discrezionalità amministrativa a contento tecnico differenti da quelli concernenti valutazioni di impatto ambientale. Proprio di recente T.R.G.A. Trento, 14/1/2016, n. 17, con riguardo ad una fattispecie di diverso tipo – si trattava di giudicare della legittimità di un provvedimento di riesame

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del piano regolatore generale, da parte della commissione edilizia, richiesto dal ricorrente sulla base di una indagine geologica, unitamente alla revoca dei provvedimenti sino allora emessi nella sua attuazione –, nel ritenere che “in sé l’approvazione di uno strumento urbanistico, pur attuativo, non determina direttamente situazioni di rischio, che semmai potrebbero attualizzarsi nella fase esecutiva del piano, né queste possono comunque essere senz’altro desunte dalle affermazioni del consulente di parte”, si è così espresso: “Il Collegio deve poi convenire con l’Amministrazione resistente, dove questa afferma che le osservazioni tecniche critiche, presentate nel corso del procedimento dal consulente tecnico dei ricorrenti, non possono avere un valore preminente sul contenuto del piano, da una parte, e sulle repliche dei professionisti che lo avevano redatto dall’altra: e che la preferenza accordata dall’Amministrazione all’una o all’altra posizione rientra certamente nell’ambito della sua discrezionalità tecnica”.

E in proposito il T.R.G.A. Trento ricorda che, “secondo la condivisibile giurisprudenza, gli atti amministrativi, espressione di valutazioni tecniche (e tale è evidentemente l’approvazione in questione) “sono suscettibili di sindacato giurisdizionale esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione abbia effettuato scelte che si pongono in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica, aggiungendosi che non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire – in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri – proprie valutazioni a quelle effettuate dall’autorità pubblica” (C.d.S. VI, 28 maggio 2015, n. 2682): infatti, “la discrezionalità tecnica risulta, secondo i principi generali, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizi macroscopici di razionalità, evidente illogicità, contraddittorietà, ingiustizia manifesta, arbitrarietà o irragionevolezza della determinazione e dei modi di adozione della stessa” (id. III, 3 marzo 2015, n. 1051)”.

Anche T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 22/7/2015, n. 3883, decide sul ricorso proposto da un’associazione ambientalista per l’annullamento di un decreto dirigenziale della Regione Campania avente ad oggetto il rinnovo/riesame della Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) di un termovalorizzatore, affrontando, fra l’altro, il profilo di illegittimità concernente l’altezza dei camini (110 metri) di questo, altezza “che non garantirebbe una efficace dispersione nell’atmosfera delle sostanze inquinanti risultanti dalla combustione, con conseguente pregiudizio della salute dei residenti”.

Dopo aver chiarito che la disposizione di cui all’art. 8 (rubricato “Condizioni di esercizio degli impianti di incenerimento e di coincenerimento”) del D.Lgs. 11 maggio 2005, n. 133 (recante “Attuazione della direttiva 2000/76/CE, in materia di incenerimento dei rifiuti”)[36] considera in generale le condizioni di esercizio degli impianti di incenerimento e di coincenerimento, attività

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concretamente svolte dagli impianti una volta realizzati ed autorizzati, evidenziando il rapporto di correlazione tra le relative caratteristiche progettuali e modalità di gestione, da un lato, e la necessità di limitarne emissioni ed odori, dall’altro” – il T.A.R. Napoli afferma che “Si tratta dunque di una disposizione di carattere generale che, al fine di evitare conseguenze pregiudizievoli per l’ambiente, prescrive l’emissione degli effluenti gassosi attraverso camini di “altezza adeguata” per consentire una efficace dispersione nell’atmosfera, senza tuttavia fissare l’altezza minima. È evidente che tale adeguatezza – non previamente definita in sede legislativa – va valutata alla stregua della c.d. “migliore tecnologia disponibile”, richiamata a sua volta dal primo comma dell’art. 8, espressione utilizzata dal legislatore per contemperare gli interessi di tutela ambientale con quelli dello sviluppo economico prevedendo, senza che ne sia ovviamente possibile la preventiva individuazione, l’adozione, in maniera progressiva, di tecniche sempre più avanzate con costi sopportabili. Tale adeguatezza è infine rimessa alla valutazione tecnico-discrezionale dei competenti organi tecnici dell’Autorità amministrativa procedente ai quali spetta, da un lato, la ponderazione degli ulteriori fattori che possono incidere sulla ricaduta dei residui della combustione (velocità dei fumi e loro consistenza, temperatura e pressione dell’ambiente, direzione e forza prevalente dei venti) e, dall’altro, la sintesi degli ulteriori interessi pubblici coinvolti dall’innalzamento dei camini, quali l’impatto visivo, le eventuali difficoltà costruttive e geologiche, i relativi costi”.

Il giudice conclude che – avendo la P.A. ritenuto che l’altezza dei camini fosse “adeguata e coerente con il vigente quadro normativo” sulla base del parere espresso dalla Commissione V.I.A. presso il Ministero dell’Ambiente – “Le motivazioni addotte dall’amministrazione nei richiamati pareri favorevoli appaiono, nel loro complesso, immuni da palesi profili di irragionevolezza ed illogicità, unici ambiti entro i quali può dispiegarsi il sindacato di questo T.A.R., in quanto coerenti con gli esiti degli approfondimenti istruttori attuati con il contributo di organi tecnici”.

È opportuno segnalare, infine, che l’orientamento riferito è seguito anche dalla giurisprudenza europea. Il Tribunale di I grado U.E., Sez. VII, 14/11/2013, n. 456, ad esempio, sostiene che, “Per perseguire in modo efficace un elevato livello di protezione della salute e dell’ambiente, in un contesto tecnico complesso ed evolutivo, come nel caso dei danni provocati dal cadmio (CAS 7440-43-9), le autorità dell’Unione dispongono di un ampio potere discrezionale per determinare la portata delle misure che adottano, in particolare riguardo alla valutazione di elementi in fatto altamente complessi di ordine scientifico e tecnico. Il sindacato del giudice dell’Unione deve limitarsi ad esaminare se l’esercizio di tale potere non sia viziato da errore manifesto o da sviamento di potere o se tali autorità non abbiano manifestamente oltrepassato i limiti del potere discrezionale. In un contesto di questo tipo, il giudice dell’Unione non può sostituire la sua valutazione degli

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elementi di fatto di ordine scientifico e tecnico a quella delle istituzioni cui il Trattato FUE ha assegnato in via esclusiva tale compito”.

In definitiva, volendo esprimere un giudizio sulla giurisprudenza rapidamente passata in rassegna, sembra potersi dire, con piena cognizione di causa, che il G.A. – sebbene adoperi un lessico frequentemente impreciso e soprattutto, anche per questo, poco coerente –, in ordine alla sindacabilità giurisdizionale delle valutazioni tecniche compiute dalla P.A., manifesta un orientamento che può dirsi pacificamente consolidato. Quand’anche i margini di valutazione ad essa assegnati dalla legge siano amplissimi, e a prescindere che si tratti di discrezionalità tecnica ovvero di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, la delibazione del G.A. non deve ritenersi circoscritta ad una mera osservazione del rispetto della procedura, il giudice ben essendo in grado di verificare la ragionevolezza, la plausibilità, l’attendibilità della valutazione, e così, quindi, scrutinare il merito di quest’ultima, pur senza potersi spingere fino ad impingere in esso[37].

Parte terza

Alcune considerazioni critiche e brevi osservazioni conclusive

Dopo aver passato in rassegna la giurisprudenza sulle valutazioni tecniche in materia ambientale, e prima di esprimere alcune brevi osservazioni conclusive, è opportuno svolgere due considerazioni critiche: la prima su un fenomeno che in dottrina non è stato da altri rilevato in quanto tale, quello che può definirsi dello ‘scivolamento’ della discrezionalità tecnica in discrezionalità amministrativa; la seconda sulla discutibilità dell’assunto secondo cui la scienza sarebbe neutrale.

8. Il fenomeno del cd. ‘scivolamento’ della discrezionalità tecnica in discrezionalità amministrativa

Nel caso in cui la morfologia della norma non contempli ‘discrezionalità mista’, e segnatamente preveda discrezionalità solo tecnica e non anche amministrativa – la fase decisoria essendo disciplinata in modo vincolato –, può verificarsi il fenomeno del cd. ‘scivolamento’ della discrezionalità tecnica in discrezionalità amministrativa[38].

La rilevazione di questo fenomeno deriva dall’analisi della giurisprudenza amministrativa, studiando la quale ci si accorge del frequente utilizzo, da parte dei giudici, dei principi di imparzialità e buon andamento quali parametri di legittimità valevoli anche per ipotesi che, dal modo in cui è

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configurata la struttura della norma, si qualificano come di discrezionalità tecnica.

La circostanza impone di interrogarsi sulle ragioni di un siffatto operare dei giudici, stante il fatto che la distinzione concettuale fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica che si è illustrata dovrebbe escludere, almeno in linea teorica, che i principi dell’art. 97 Cost., i quali fungono da paradigma per la discrezionalità amministrativa (avente ad oggetto gli interessi in gioco), possano essere considerati paradigmatici anche della discrezionalità tecnica (avente ad oggetto, invece, i criteri tecnico-scientifici per l’acclaramento dei presupposti dell’azione). Si tratta, in altre parole, di domandarsi se i due principi siano, o meno, applicabili anche all’attività della P.A. preordinata alla scelta, in sede istruttoria, dell’orientamento scientifico da prediligere per la verifica della sussistenza degli elementi stabiliti dalla legge come condizioni dell’azione[39].

Una volta chiarito perché sembra preferibile la tesi della sussistenza della categoria ‘discrezionalità tecnica’ e della sua identificazione con l’attività di acclaramento dei presupposti dell’azione che non siano di certa e inopinabile rilevabilità, dunque, si deve ragionare sull’applicabilità a questo tipo di attività dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, i quali, per definizione, si riferiscono – lo si è appena ribadito – agli interessi ed al modo in cui questi devono essere ‘trattati’ dalla P.A.: il che dovrebbe escluderne l’applicazione ad un’attività che ha ad oggetto la scelta dei criteri tecnico-scientifici per acclarare la effettiva sussistenza dei presupposti dell’azione.

Ciò nondimeno, ad una più attenta riflessione, sembra più che plausibile riconoscere che, laddove la norma lasci margini di scelta soltanto in relazione ai criteri tecnico-scientifici da utilizzare per la verifica della sussistenza dei presupposti, la P.A. sia portata – tutto sommato comprensibilmente – a prefigurarsi gli scenari conseguenti all’adozione del (ed a valutare gli effetti prodotti dal) provvedimento che la legge ha definito in modo vincolato, e dunque di fatto a prendere in considerazione anche gli interessi coinvolti in concreto (ciò che, versandosi nella fase istruttoria del procedimento, dovrebbe esserle precluso)[40].

Detto più chiaramente: una volta chiamata a scegliere se accogliere l’una o l’altra interpretazione del fatto/presupposto tecnico dell’azione amministrativa, nel caso in cui la rilevazione della sua sussistenza sia incerta, è più che naturale (verrebbe quasi di dire: umano) immaginare che la P.A. valuti le conseguenze che il riconoscere tale sussistenza potrà produrre sugli interessi compresenti quando, cioè, per effetto di detto riconoscimento, avrà emanato il provvedimento. Il che equivale a dire che, in ultima istanza, sarà l’apprezzamento del pubblico interesse a condurre alla scelta di assumere l’una o l’altra valutazione tecnica per l’acclaramento del presupposto[41].

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Insomma, se la norma assegna alla P.A., per la verifica della sussistenza dei presupposti dell’agire, un ruolo non meramente ‘esecutivo’, bensì, per così dire, ‘creativo’, nel senso che ad essa spetta – bene o male – la ‘scelta’ di aderire ad una, anziché un’altra, corrente di pensiero per la interpretazione scientifica di fatti che vanno acclarati prima ed in funzione della decisione (già predisposta dalla legge) da assumere, si capisce perché la scelta della P.A. possa in concreto ‘scivolare’ dalla discrezionalità tecnica a quella amministrativa. Se ne ricava che, proprio per questo, trova spiegazione l’orientamento dei giudici ad applicare i principi dell’art. 97 Cost. a fattispecie qualificabili come di sola discrezionalità tecnica.

Tuttavia, non può essere sottovalutato che in questo caso il ruolo che la tecnica gioca all’interno della fattispecie giuridica è più rilevante di quanto sia nelle ipotesi di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: è indubbio, infatti, che si amplia il ‘reticolato’ (che diventa così giuridicamente significativo) entro cui la P.A. deve operare e, per conseguenza, più penetrante ed efficace si fa il sindacato giurisdizionale[42].

Si può dire, quindi, che la ‘qualità’ dell’operazione che la P.A. compie nelle ipotesi di discrezionalità tecnica, sul piano concreto, sembra in qualche modo assimilarsi a quella dell’operazione che compie in sede di esercizio di discrezionalità amministrativa.

Naturalmente, anche se è evidente, va sottolineato che l’autorità, nel motivare la sua attività funzionalizzata alla verifica della sussistenza del presupposto, non potrà in ogni caso formalmente utilizzare ragioni concernenti la scelta del contenuto provvedimentale, senza rischiare di incorrere nel sindacato del giudice amministrativo per eccesso di potere. Nel caso di discrezionalità tecnica, infatti, la scelta della P.A. concerne i diversi criteri tecnico-scientifici utilizzabili per rilevare la sussistenza del presupposto. Se, ai fini di detta scelta, la P.A. valuta gli interessi (che comunque vengono) coinvolti dalla sua azione, essa opera in modo illegittimo.

In altre parole, laddove la fattispecie normativa sia costruita in maniera tale da comportare esercizio soltanto di discrezionalità tecnica, la P.A. non può effettuare una scelta comparativa tra gli interessi, perché tale scelta, in qualche modo e/o misura, è stata già fatta dalla legge nel momento in cui ha disposto di provvedere in modo vincolato. La valutazione della P.A., pertanto, deve aver riguardo esclusivamente al criterio tecnico/scientifico (incerto ed opinabile) che dovrà adottare per la verifica della sussistenza dei presupposti che la legge le ha rimesso di accertare in funzione della emanazione del provvedimento (vincolato). Altrimenti, visto che ciò costituisce il sintomo di un eccesso di potere, il giudice eventualmente adito potrà convincersi che v’è stata una deviazione dal corso naturale del potere, giacché, oggettivamente, una parte della motivazione del provvedimento rivela che la scelta è stata effettuata in funzione degli interessi e non della verifica dei presupposti.

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Se così è, dunque, sembra corretto derivarne che, di fatto, l’esercizio di discrezionalità tecnica può ‘scivolare’ in esercizio di discrezionalità amministrativa; ed il fenomeno – quantunque integri, laddove effettivamente rilevato dal giudice, un vizio di legittimità del provvedimento – appare idoneo a spiegare perché, nella giurisprudenza amministrativa, vengano ritenuti applicabili i principi dell’art. 97 Cost. ad entrambe le species di discrezionalità, tanto l’una quanto l’altra essendo diffusamente fatte rientrare nel merito amministrativo[43].

La conclusione che i principi dell’art. 97 Cost. sono applicabili anche alla discrezionalità tecnica vale evidentemente anche, ed anzi a maggior ragione, ove si qualifichi come discrezionalità tecnica pure l’attività di scelta fra le possibili soluzioni tecnico-scientifiche del (o di parte del) contenuto provvedimentale.

Ed infatti, anche laddove – sposando un’opinione diversa da quella qui sostenuta – si accolga questa più ampia nozione della discrezionalità tecnica, considerando in essa inclusa anche quella ‘parte’ della discrezionalità amministrativa che qui si è ritenuto meglio qualificabile come a contenuto tecnico –, l’art. 97 Cost. non può che trovare applicazione con maggior ragione[44].

Ad ogni modo, quale che sia la tesi che si preferisce, non sembra si possano sollevare dubbi sulla idoneità paradigmatica dei principi costituzionali ex art. 97 anche nei confronti della discrezionalità tecnica; e, con ogni evidenza, ancor più nei confronti di quella che (secondo molti è una sua parte, ma che invece) qui si è definita discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico[45].

Considerare applicabili i principi dell’art. 97 Cost. alla discrezionalità tecnica – deve esser chiaro – non significa affatto indulgere all’arbitrio della P.A. Ed invero, riconoscere che, sul piano della effettività, la discrezionalità possa esser fatta scivolare dalla fase istruttoria a quella decisoria del procedimento, per niente implica una riduzione del sindacato di ragionevolezza, restringendosi invece i margini di possibili abusi della P.A. In questo modo, infatti, il giudice amministrativo, dotato di ulteriori elementi di valutazione, avrà a disposizione strumenti più penetranti ed efficaci per verificare se la P.A. abbia usato arbitrariamente il proprio potere, giacché, essendo quello discrezionale addirittura ‘plasmato’ dai principi di imparzialità e buon andamento, considerare tale qualificazione estesa anche all’attività tecnica (che presenti margini di opinabilità scientifica) consente comunque di ‘incanalare’ l’esercizio di quest’ultima entro più rigorosi binari di razionalità.

La P.A. dovrà pertanto più attentamente motivare il suo provvedimento, potendo discostarsi da una soluzione per abbracciarne un’altra solo avendone adeguatamente e razionalmente dimostrato il perché (e questo, tanto che si

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tratti di accertare la ricorrenza di un presupposto tecnico-scientifico dell’azione, tanto che si tratti di scegliere la migliore soluzione tecnico-scientifica per la realizzazione dell’interesse pubblico specifico).

Oltre il sindacato sull’eccesso di potere, però, non pare proprio che il G.A. possa andare: la sua verifica può sì spingersi fino a scandagliare l’area del merito, ma soltanto per eventualmente rilevarvi una illegittimità, e mai per discutere la scelta della P.A., ciò essendogli radicalmente precluso. In altre parole, potrà indagare sul merito, ma mai entrare nel merito. È questo un limite che appare invalicabile, a meno di non voler stravolgere fin nel suo intimo l’impianto dell’intero sistema istituzionale[46].

Nella realtà, dunque, benché la diversa morfologia della norma suggerirebbe il contrario, risulta in molti casi quasi impossibile distinguere la discrezionalità tecnica da quella cd. ‘pura’: lo dimostra la stessa giurisprudenza amministrativa – quella già passata in rassegna e quella che verrà riportata subito a seguire –, che le omologa per i profili di sindacato sull’eccesso di potere[47].

Ciò non implica – lo si è appena affermato – un ampliamento del raggio di azione nella scelta; comporta, invece, una sua restrizione, perché di fatto non si potrà giustificare la scelta amministrativa in base ad asserzioni di principio, essendo la P.A. costretta a motivarla adeguatamente al fine di illustrare tecnicamente il ragionamento ‘critico’ svolto. Più aumentano, insomma, i parametri di valutazione – o meglio la loro giuridicizzazione (o giuridicizzabilità che dir si voglia) –, più si riducono i margini di discrezionalità, crescendo conseguentemente le chances di sindacato giurisdizionale[48].

Ad una sua attenta analisi, quanto si è appena sostenuto, sebbene con esiti opposti, sembra trovare riscontro anche in una recente giurisprudenza amministrativa. Pur se concerne una materia diversa da quella trattata in questa sede, invero, si può citare Cons. Stato, Sez. VI, 8/2/2016, n. 506, la quale conferma T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III bis, 23/3/2015, n. 4462, che aveva rigettato il ricorso proposto per l’annullamento della graduatoria nazionale del concorso per l’accesso alle Scuole di Specializzazione Mediche, in ragione della illegittimità della procedura di gara nella parte in cui la Commissione, accertata la presenza di quesiti relativi ad un settore specialistico diverso rispetto a quello oggetto dell’esame, decideva di ‘neutralizzare’ due di questi e di convalidare la procedura. In buona sostanza, nonostante fosse stata riscontrata nelle prove una evidente irregolarità dovuta alla inversione dei quesiti, la P.A. ha ritenuto di poter confermare i risultati della procedura espletata[49].

In primo grado, il T.A.R. Lazio aveva respinto il ricorso, nella motivazione della decisione 4462/2015 richiamandosi quanto la stessa Sezione aveva già

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affermato nella sentenza 9/3/2015, n. 3926, la quale ultima così si era espressa: “l’inversione dei quesiti, pur erroneamente effettuata, non può essere ritenuta radicalmente inficiante l’intera procedura in base alla dedotta violazione del principio di cd. “competenza specifica”, proprio per essere le domande ab origine riferite comunque a materie che, ancorché inserite in tre Aree differenti, non avrebbero potuto che essere ricondotte a tutti i settori scientifico disciplinari fondamentali in sede di valutazione dei dati clinici, diagnostici e analitici”; asserendo, inoltre, che “La ritenuta inosservanza delle norme di salvaguardia della regolarità nello svolgimento delle prove non acquista il carattere lesivo ritenuto dai ricorrenti, poiché non viene posto in evidenza alcun nesso causale preciso e concordante tra le irregolarità riferite e l’esito negativo degli esami, introducendo piuttosto i ricorrenti una sorta di azione popolare sulla regolarità delle prove d’esame che non può trovare albergo nel giudizio di legittimità, a meno di non ricadere in termini di violazione del principio dell’anonimato, che comporterebbe quella sì la caducazione dell’intera procedura ed il suo rinnovo (cfr. C. Stato Adunanze Plenarie, numeri 26 – 28 del 2013) o quanto meno l’adozione di una pronuncia risarcitoria ai sensi dell’art. 30, comma 2 c.p.a. pure richiesta dai ricorrenti anche in fase cautelare e come estrinsecantesi nell’ammissione con riserva ed in soprannumero alla Scuola di Specializzazione di prima opzione”.

In appello il Supremo Collegio amministrativo sentenzia che “la scelta, fatta, per dir così, “a monte”, di quali quesiti d’area sottoporre ai candidati e la decisione su validazione e neutralizzazioni, appartengono senz’altro a una sfera di discrezionalità dell’amministrazione estremamente ampia, e sindacabile in via esclusiva entro i limiti esterni, assai angusti, individuati dalla giurisprudenza in consimili giudizi”. E, a seguire, aggiunge che “le relative censure (sulla scelta di quali quesiti sottoporre ai candidati e sulla decisione di validazione/neutralizzazione) impingono nel merito di valutazioni tecniche, e sono come tali inammissibili poiché sollecitano il giudice amministrativo a esercitare un sindacato sostitutivo, al di fuori dei tassativi casi sanciti dall’art. 134 del cod. proc. amm., fatto salvo il limite – qui non valicato – della abnormità della scelta tecnica”. Il G.A. significativamente precisa che “la ricorrente/appellante sembra in effetti avere chiesto al giudice amministrativo una completa sovrapposizione all’operato di validazione della commissione, una non consentita sostituzione del giudice a valutazioni compiute dalla commissione e, in definitiva, un’ingerenza – non consentita – nell’alveo di conoscenze e di valutazioni tecnico-scientifico-professionali, tipiche della scienza medica, senza che emergano a colpo d’occhio errori conclamati”.

Nella controversia decisa dalla sentenza 506/2016 (così come in quella di cui alla sentenza 4432/2015 in essa richiamata quale precedente) sembra potersi rinvenire un caso di ‘scivolamento’, giacché l’attività concretamente posta in essere, benché paia configurarsi come discrezionalità tecnica, viene dalla P.A.,

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a dir così, ‘trasformata’ in discrezionalità amministrativa. A ben vedere, infatti, la volontà di convalidare i risultati della procedura nonostante l’accertata sussistenza di irregolarità appare eccedere il piano (ed i limiti) della discrezionalità tecnica, per spostarsi su un piano ponderativo e valutativo degli interessi in gioco, che è proprio, non della fase preparatoria, di acclaramento dei presupposti, bensì di quella decisoria, di definizione del contenuto provvedimentale.

Va sottolineato, tuttavia, che i giudici tanto di primo quanto di secondo grado riconoscono come legittimo il provvedimento impugnato, di fatto finendo per non considerare sussistente lo ‘scivolamento’. Secondo il loro avviso, la scelta della P.A. è infatti legittima, perché correttamente finalizzata a soddisfare, nel miglior modo possibile, gli interessi di tutti i partecipanti alla procedura di gara, e dunque chiaramente votata alla soddisfazione dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost., come si rileva expressis verbis nella motivazione della sentenza del Consiglio di Stato, laddove il giudice afferma, appunto, che “validazione, neutralizzazione e abbuono non hanno danneggiato i princìpi di buon andamento e d’imparzialità dell’azione amministrativa, perché […] è stata garantita la “par condicio” a tutti i concorrenti”, significativamente aggiungendo che “il fatto che – sia pure entro il quadro, di oggettiva grave anomalia, dovuto all’inversione dei quesiti, sopra descritto – non sia intervenuta nessuna modifica strutturale del test, ma che la “variazione” effettiva sia risultata in definitiva circoscritta a una neutralizzazione di quesiti “di valore minimo”, con contestuale abbuono generalizzato del corrispondente punteggio, consente di poter affermare come non sia venuta meno una situazione di “par condicio”“. Il che sembra, francamente, destare una certa qual perplessità.

9. La presunta neutralità della scienza e della tecnica e la insindacabilità del merito amministrativo se non per i profili dell’eccesso di potere

Prima di concludere, bisogna chiedersi se sia corretto trincerarsi dietro la neutralità della scienza e della tecnica per escludere la ricorribilità di un esercizio sostanziale di discrezionalità amministrativa anche nelle ipotesi in cui le disposizioni normative contemplino l’attribuzione alla P.A. soltanto di discrezionalità tecnica[50]. E al riguardo sembra doveroso riconoscere, con onestà intellettuale, che la scienza non sempre è neutra, e anzi spesso non lo è[51].

Dall’assunto si inferisce la necessità di mantenere la libertà saldamente assicurata alla democrazia. Ciò che implica la necessità di riconoscere all’autorità (investita del potere mediante il metodo democratico) la capacità di scelta per la comunità, naturalmente con i limiti derivanti dall’esercizio

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delle libertà, anche positive, fondamentali (se ed in quanto funzionali all’esercizio del metodo). È all’autorità rappresentativa del popolo, direttamente o indirettamente (perché comunque derivante dal circuito democratico, e perciò legittimamente sovrana giacché liberamente scelta), dunque, che spetta di esprimere i giudizi di valore in nome di tutti e così ‘realizzare’ la libertà più giusta[52].

Del resto, se per un verso è ormai consentito ritenere acclarata la non neutralità della scienza, per altro verso bisogna serenamente prendere atto che i valori sono sempre più plurali, ciò rendendo indispensabile la ricerca di soluzioni che consentano una loro possibile coesistenza[53].

In definitiva, si può dire che, le valutazioni scientifiche e tecniche influendo sull’azione amministrativa in due modi diversi, quelli della discrezionalità tecnica e della discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, le due discrezionalità si presentano caratterizzate entrambe dall’assegnazione normativa alla P.A. di una capacità di scelta (la scelta avendo ad oggetto, nel primo caso, l’accertamento dei presupposti, e, nel secondo, la composizione degli interessi).

Una scelta, quindi, c’è sempre; e la scelta in quanto tale, secondo la giurisprudenza, è parte del merito amministrativo[54], che, in sé, è sottratto al sindacato del giudice, al quale però è rimesso di verificare se esso sia stato esercitato in modo legittimo: il che rende non revocabile in dubbio che l’unico sindacato possibile resta quello volto a rinvenire nell’atto il vizio di eccesso di potere.

10. Brevi conclusioni in forma di domande e risposte

Si può finalmente concludere. E la maniera forse più efficace per farlo sta nel proporre alcune sintetiche osservazioni in forma di domande e risposte.

1) Qual è la funzione del giudice quando ha a che fare con atti e/o comportamenti della P.A.? Il giudice deve giudicare se, nel caso sottopostogli, sia stata rispettata o violata la legge. In particolare, nei confronti degli atti e/o dei comportamenti della P.A., egli deve verificare che questi siano o meno legittimi, e cioè se abbiano o no rispettato la legge.

2) La verifica della legittimità degli atti amministrativi ricorre anche laddove la norma giuridica attribuisca alla P.A. uno spazio di valutazione tecnica, quando cioè la norma non disciplini l’attività amministrativa come vincolata? Naturalmente sì. Non è però pacifico quali siano i limiti del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche compiute dalla P.A. in esercizio del relativo potere attribuitole dalla legge.

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3) Ha senso distinguere il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche in ‘estrinseco’ ed ‘intrinseco’ e in ‘debole’ e ‘forte’? Tali distinzioni hanno, con ogni evidenza, una valenza meramente descrittiva della intensità del sindacato. Non della sua qualità, giacché, in ogni caso, il sindacato giurisdizionale sulle attività non vincolate della P.A., sotto il profilo tecnico-giuridico, si può concepire soltanto nella forma della rilevazione del vizio di eccesso di potere. Come è noto, fra le figure sintomatiche vanno fatte rientrare la irragionevolezza, la mancanza di proporzionalità, la inadeguatezza, la inattendibilità, ecc., della motivazione.

Nella motivazione del provvedimento devono essere, a dir così, ‘travasate’, proprio per spiegare le ragioni della scelta della P.A., le valutazioni tecniche da questa compiute (incluse quelle in materia ambientale) – siano esse funzionali al cd. ‘acclaramento’ della sussistenza dei presupposti dell’azione (discrezionalità tecnica), ovvero alla scelta del contenuto provvedimentale, volta a comporre l’interesse pubblico specifico con gli interessi secondari pubblici e privati (con quello interagenti nella fattispecie concreta).

Non v’è dubbio che tale scelta è dall’ordinamento attribuita in via riservata alla P.A. Ma lo è altrettanto che questa debba compierla legittimamente. Il fatto che la valutazione sia opinabile non implica che possa essere anche non attendibile. La scelta del criterio tecnico-scientifico per compiere la valutazione non può essere arbitraria, deve essere adeguata.

4) Ma se la scelta compiuta nella valutazione è riservata alla P.A., come fa il giudice a valutare la sua legittimità senza entrare nel merito di questa? Il giudice non può entrare nel merito, nel senso che non può sostituire la sua valutazione a quella effettuata dalla P.A., altrimenti violerebbe il principio di separazione delle funzioni e dei poteri. Può però indagare sul modo in cui il merito è stato esercitato dalla P.A.: senza entrare nel merito, egli può – e deve – indagare sul merito, al fine di rilevare se questo sia stato esercitato in maniera legittima. E ciò fa mediante quel sindacato che si risolve nel rilevare, attraverso le figure sintomatiche, il vizio di eccesso di potere.

Tale rilevazione, ovviamente, dipende dal grado di approfondimento della indagine compiuta dal giudice. La quale, però, per quanto approfondita, non può arrivare fino al punto di affermare la preferenza del criterio suggerito dalla C.T.U. rispetto a quello assunto dalla P.A.

5) In che cosa effettivamente consiste, allora, il sindacato sulle valutazioni tecniche? Detto altrimenti, qual è il parametro su cui valutare la legittimità delle valutazioni tecniche compiute dalla P.A.? Non è revocabile in dubbio che, nei casi di cui si è ragionato, la valutazione sia affidata alla P.A. dalla norma giuridica. Ciò significa che l’ordinamento, in attuazione del principio di separazione delle funzioni, ha assegnato quel compito alla P.A.; questa, però,

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deve svolgerlo in maniera legittima, in maniera cioè non arbitraria, ma conforme alla legge.

Tuttavia, la violazione della legge – laddove l’attività amministrativa non sia stata compiutamente disciplinata dalle sue disposizioni in modo da risultare integralmente vincolata – può consistere anche nel ‘tradimento’ del fine per realizzare il quale il potere è stato assegnato: l’interesse pubblico specifico.

Il problema, perciò, diventa quello di capire come si fa, di volta in volta, nel singolo caso concreto, a stabilire se l’interesse pubblico specifico sia stato realizzato, oppur no. E, nel caso risulti che non sia stato realizzato, l’atto sarà illegittimo per non aver perseguito la finalità prevista dalla legge.

Il parametro per stabilire se il fine sia stato o no raggiunto resta, in primo luogo, la norma giuridica (che ben può disporre sui profili tecnici: la tecnica figura nel seno della struttura della norma giuridica). Ma, in secondo luogo, è parametro di legittimità concernente la finalità perseguita dall’atto anche la norma tecnica cui la norma giuridica sovente rinvia (attraverso l’assunzione in essa dei ccdd. ‘concetti giuridici indeterminati’).

In realtà, più precisamente, quel che la norma giuridica fa è sussumere in essa un concetto che richiede d’esser riempito di contenuto dalla disciplina tecnico-scientifica cui tale concetto fa capo: l’inquinamento, la capacità terapeutica di una sostanza, la nocività di un impianto industriale, la efficacia/produttività e la salubrità di una fonte energetica, l’interesse culturale di un bene, e così via.

Nella misura in cui la disciplina richiamata presenti, a quel riguardo, indirizzi tecnico-scientifici non unanimi, il criterio che la P.A. dovrà assumere, per effettuare la valutazione tecnica che le compete, non potrà essere che uno di quelli, pur opinabili, riconosciuti scientificamente propri.

Al G.A. spetta di verificare, anche ricorrendo ad una C.T.U., se la scelta assunta dalla P.A. non sia arbitraria, e cioè scientificamente inadeguata, inattendibile, non plausibile. La inattendibilità, la inadeguatezza, la improprietà o implausibilità del criterio assunto dalla P.A. nella valutazione tecnica consentono di ritenere che il potere attribuitole dalla legge è stato esercitato in maniera illegittima, l’atto essendo viziato da eccesso di potere, avendo in concreto ‘tradito’ il fine per il quale quel potere (di valutazione tecnica) era stato attribuito alla P.A.

Come si capisce, lo schema logico-concettuale del sindacato giurisdizionale non è diverso se trattasi di discrezionalità tecnica o di discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: in entrambi i casi si tratta di verificare, mediante lo strumento delle figure sintomatiche, se l’atto sia o no legittimo per quanto attiene all’effettivo conseguimento dell’interesse pubblico per realizzare il quale la legge ha attribuito il potere alla P.A. (sia esso potere di

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acclaramento della sussistenza dei presupposti, ovvero di scelta del contenuto provvedimentale).

Perciò la giurisprudenza, quasi alla unanimità, include nel merito anche la discrezionalità tecnica, e cioè tutte le ipotesi – non solo quelle di discrezionalità amministrativa – in cui, per la sua stessa attuazione, la legge attribuisce alla P.A. un margine, più o meno ampio, di ‘creatività’[55].

( ⃰ ) Testo rivisto, elaborato e corredato di note della lezione tenuta il 14 aprile 2016, presso il Dipartimento di Scienze politiche, Università di Roma ‘La Sapienza’, nell’ambito del dottorato in “Diritto pubblico, comparato e internazionale – curriculum di Diritto amministrativo europeo dell’ambiente”.

[1] La bibliografia sul tema è assai copiosa. Senza alcuna pretesa di completezza si possono ricordare almeno i seguenti contributi: F. Cammeo, La competenza di legittimità della IV Sezione e l’apprezzamento dei fatti valutabili secondo criteri tecnici, in Giur. it., III, pp. 1902 ss.; E. Presutti, Discrezionalità pura e discrezionalità tecnica, in Giur. it., 1910, pp. 16 ss.; C. Mortati, Note sul potere discrezionale, in Studi dell’Istituto di diritto pubblico e legislazione sociale dell’Università di Roma, 1936, ora in Scritti giuridici, III, Giuffrè Milano, 1972, pp. 997 ss.; C. Mortati, Norme giuridiche e merito amministrativo, in Stato e diritto, 1941, pp. 136 ss.; M.S. Giannini, Il potere discrezionale nella pubblica amministrazione: concetto e problemi, Giuffrè, Milano, 1939; P. Virga, Appunti sulla c.d. discrezionalità tecnica, in Jus, 1957, pp. 95 ss.; A. Piras, Discrezionalità amministrativa, in Enc. Dir., vol. XIII, Milano, 1964, pp. 64 ss.; V. Bachelet, L’attività tecnica della pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1967; C. Mortati, Voce Discrezionalità, in Nss. Dig. It., vol. V, Torino, 1968, pp. 1108 ss.; P. Virga, La limitazione della discrezionalità amministrativa per l’attuazione della imparzialità amministrativa, in Studi in onore di Gioacchino Scaduto, vol. V, Cedam, Padova, 1970, pp. 163 ss. ; V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Dir. Proc. Amm., 1984, pp. 463 ss.; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Giuffrè, Milano, 1985; F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull’amministrazione pubblica, in Studi in onore di Vittorio Bachelet, vol. II, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 247 ss.; V. Ottaviano, Giudice ordinario e giudice amministrativo di fronte agli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione, in Studi in memoria di Vittorio Bachelet cit., pp. 405 ss.; G. Pastori, Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Foro amm., 1987, pp. 3165 ss.; G. Azzariti, Discrezionalità, merito e regole non giuridiche nel pensiero di Costantino Mortati, in Politica del diritto, 1989, 2, pp. 347 ss.; C. Calabrò, La discrezionalità amministrativa nella realtà d’oggi. L’evoluzione nel sindacato

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giurisdizionale sull’eccesso di potere, in C. di St., 1992, pp. 1565 ss.; G. Pelagatti, Valutazioni tecniche dell’amministrazione pubblica e sindacato giudiziario: un’analisi critica dei recenti sviluppi della dottrina giuspubblicista, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 1992, 1, pp. 158 ss.; F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica, in Dir. Proc. Amm., 1992, 4, pp. 685 ss.; D. de Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Cedam, Padova, 1995; L. Perfetti, Il sindacato giudiziale sulla discrezionalità tecnica (Nota a T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. III, 12 maggio 1997, n. 586, Istituto autonomo case popolari c. IACP di Milano, Impresa Pessina), in Foro amm., 1997, 6, pp. 1727 ss.; D. de Pretis, Discrezionalità tecnica e incisività del controllo giurisdizionale, in Giorn. dir. amm., 1999, pp. 1179 ss.; M. E. Schinaia, Il controllo del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità della pubblica amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 1999, pp. 1101 ss.; M. Delsignore, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche: nuovi orientamenti del Consiglio di Stato, in Dir. Proc. Amm., 2000, pp. 185 ss.; P. Lazzara, “Discrezionalità tecnica” e situazioni giuridiche soggettive, in Dir. Proc. Amm., 2000, 1, pp. 212 ss.; N. Paolantonio, Discrezionalità tecnica e giurisprudenza pratica, in Foro amm.-C.d.S., 2002, pp. 2587 ss.; S. Spinelli, Discrezionalità tecnica e mancato esperimento di consulenza tecnica in giudizio: un vulnus alla tutela sostanziale del privato?, in Foro amm.-Tar, 2002, pp. 3272 ss.; S. Tarullo, Discrezionalità tecnica e sindacato giurisdizionale: l’ottica comunitaria ed i profili evolutivi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2002, pp. 1385 ss.; A. Milone, Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, in Riv. giur. edilizia, 2003, 5, pp. 1342 ss.; C. Videtta, Il sindacato sulla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione nella giurisprudenza successiva alla decisione 9 aprile 1999 n. 601 della quarta sezione del Consiglio di Stato, in Foro amm.-Tar, 2003, pp. 1185 ss.; F. Cintioli, Tecnica e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2004, pp. 983 ss.; A. Travi, Il giudice amministrativo e le questioni tecnico-scientifiche: formule nuove e vecchie soluzioni, in Dir. pubb., 2004, pp. 439-60 ss.; F. Cintioli, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Potere tecnico e “giurisdizionalizzazione”, Giuffrè, Milano, 2005; G. D’Angelo, Giudice amministrativo e valutazioni tecniche dopo la L. 21 luglio 2000 N. 205, in Dir. Amm., 2005, pp. 659 ss.; C. Videtta, Le valutazioni tecniche ambientali tra riserva procedimentale e self-restraint del giudice amministrativo, in Foro amm.-Tar, 2005, pp. 1359 ss.; C. Faliti, Recenti orientamenti giurisprudenziali sulla discrezionalità tecnica con particolare riferimento al sindacato giurisdizionale in materia di valutazione dell’anomalia dell’offerta nelle gare d’appalto, in Giur. merito, 2007, pp. 1141 ss.; A. Giusti, Contributo allo studio di un concetto ancora indeterminato. La discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007; F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell’atto amministrativo, in Dir. Amm., 2008, pp. 791 ss.; P. Ciriaco, Discrezionalità tecnica e sindacato del giudice amministrativo, in

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Giur. merito, 2010, pp. 823 ss.; A. Prontera, L’agire discrezionale dell’Amministrazione. Tra “vuoti” e “pieni” normativi, in Dir. Proc. Amm., 2010, pp. 278 ss.; G.C. Spattini, Le decisioni tecniche dell’amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in Dir. Proc. Amm., 2011, pp. 133 ss.; P. Carpentieri, Azione di adempimento e discrezionalità tecnica (alla luce del processo amministrativo), in Dir. Proc. Amm., 2013, pp. 385 ss.; G. De Rosa, La discrezionalità tecnica: natura e sindacabilità da parte del giudice amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2013, pp. 513 ss.; F. Volpe, Eccesso di potere giurisdizionale e limiti al sindacato della discrezionalità tecnica, in Giur. It., 2013, pp. 694 ss.; G. Sigismondi, Il sindacato sulle valutazioni tecniche nella pratica delle Corti, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 2015, pp. 705 ss.

[2] Non appare condivisibile, dunque, ritenere che esistano “regole tecniche (cui la norma giuridica rinvia) che appartengano a scienze non esatte”, ovvero “regole delle scienze esatte”: così si esprime G. De Rosa, La discrezionalità tecnica cit., p. 521. Un criterio tecnico-scientifico, pur restando tale, ben può, nella sua applicazione concreta, condurre ad esiti scientificamente e tecnicamente opinabili. Non si può parlare, pertanto, di “criterio tecnico tratto dalla scienza opinabile”, bensì di criterio tecnico-scientifico opinabile: non è la scienza in sé ad essere opinabile, ma alcuni dei criteri che in seno ad essa vengono assunti.

[3] G. De Rosa, La discrezionalità tecnica cit., p. 527.

[4] Secondo G. De Rosa, La discrezionalità tecnica cit., p. 528, “Non potrebbe, in altre parole, verificare se essa sia attendibile, controllando anche: (i) l’adeguatezza del criterio tecnico tratto dalla scienza opinabile di volta in volta utilizzata; (ii) la correttezza del procedimento applicativo di tale criterio”.

[5] Sono, ancora una volta, le parole di G. De Rosa, La discrezionalità tecnica cit., p. 528.

[6] Sempre ad avviso di G. De Rosa, La discrezionalità tecnica cit., p. 519, il giudice “Può senz’altro ripetere la valutazione tecnica della p.a., mediante lo strumento della c.t.u., e verificare così se essa sia attendibile, e cioè se: (a) il criterio tecnico adottato sia “sufficiente” ed “adeguato”; (b) se il procedimento applicativo di detto criterio sia stato posto in essere correttamente”.

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[7] “L’Amministrazione è a tal fine titolare di una serie di poteri, tra i quali rilievo notevole assumono quelli autorizzatori, che consentono di valutare la sostenibilità sotto il profilo ambientale di ogni attività umana in grado di incidere sulle risorse ambientali e, di conseguenza, di permettere oppure negare lo svolgimento della stessa”: così afferma P. Portaluri, Tutela dell’ambiente e poteri amministrativi, relazione tenuta all’incontro di studio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano il 16 giugno 2014 su “La tutela dell’ambiente tra regolamentazione amministrativa e intervento penale. L’esperienza italiana e statunitense a confronto – Environmental protection through law: comparative approaches. Administrative regulation and criminal justice” (gli atti dell’incontro sono in corso di pubblicazione su un numero monografico di Jus, 2016).

[8] Al riguardo si può utilmente adottare la “ipotesi di classificazione” proposta da P. Portaluri, Tutela dell’ambiente e poteri amministrativi cit., il quale distingue “due differenti tipologie di assensi ambientali”. Da un lato, v’è la tipologia che si sostanzia in un provvedimento di assenso: “Nella prima, l’esercizio del potere autorizzatorio costituisce l’esito di un procedimento proprio preordinato al perseguimento dell’interesse ecologico da parte della p.A. procedente e dunque concluso con il rilascio di un apposito assenso ambientale” (p. 4 del dattiloscritto). Ne sono esempi: 1) le “autorizzazioni puntuali, ossia quelle che abilitano allo svolgimento di una singola attività”; 2) le “autorizzazioni generali, che sono invece quelle concernenti un’intera categoria di attività, per le quali si ha la predisposizione di un atto generale di autorizzazione da parte della p.A., mentre il conseguimento del titolo avviene dopo la presentazione da parte dell’interessato della “domanda di adesione” all’autorizzazione generale e, soprattutto, all’esito della verifica sia del rispetto dei requisiti previsti nell’autorizzazione generale medesima sia della mancanza di altri motivi (tra quelli tassativamente individuati) di esclusione”; 3) le “autorizzazioni integrate ovvero uniche”, fra le quali è la “autorizzazione integrata ambientale (a.i.a.)”, che, secondo quanto dispone l’art. 4, co. 4, lett. c, del Codice, ha per oggetto “la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento proveniente dalle attività […] e prevede misure intese a evitare, ove possibile, o a ridurre le emissioni nell’aria, nell’acqua e nel suolo, comprese le misure relative ai rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente”; 4) la “autorizzazione in deroga” (o “dispensa”), “che è il provvedimento di assenso con cui la p.A. – a fronte di un divieto o obbligo avente carattere generale – consente l’inosservanza di quel precetto” (per esempio, l’art. 187 del Codice, il quale – dopo aver sancito che “è vietato miscelare rifiuti pericolosi aventi differenti caratteristiche di pericolosità ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi” – consente, in deroga al

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predetto divieto e purché sussistano determinate condizioni, “la miscelazione dei rifiuti pericolosi che non presentino la stessa caratteristica di pericolosità, tra loro o con altri rifiuti, sostanze o materiali”); 5) la “abilitazione, che permette al soggetto interessato lo svolgimento di una determinata attività previo accertamento dell’idoneità tecnica dello stesso [cfr. l’art. 287 del Codice, relativo al patentino di abilitazione alla conduzione di impianti termici]” (pp. 5-8).

[9] Dall’altro lato, P. Portaluri, Tutela dell’ambiente e poteri amministrativi cit., rileva la tipologia che si sostanzia in un atto, a dir così, ‘intermedio’, giacché idoneo a definire un sub-procedimento: “Del tutto diversi sono invece i casi in cui l’assenso ambientale non è conclusivo […] dell’apposito procedimento finalizzato proprio al suo rilascio, ma definisce un sub-procedimento, o comunque una fase procedimentale, che si colloca all’interno di un più ampio procedimento preordinato a stabilire la generale assentibilità di una determinata attività umana o di un dato piano e/o programma. Qui l’interesse ecologico non è, come detto, l’interesse pubblico primario la cui cura è avuta di mira dall’Amministrazione procedente, ma è specificamente considerato all’interno della predetta fase che si innesta nel procedimento finalizzato all’approvazione dell’impianto o del piano/programma. In questa categoria di assensi ambientali si possono far rientrare sia i nullaosta, sia le valutazioni” (p. 8 del dattiloscritto). 1) Il nullaosta “è previsto quando l’ordinamento qualifica l’interesse tutelato da un Ente (nella specie quello ambientale) diverso dalla p.A. procedente di importanza tale che non può comunque essere pregiudicato: e così la realizzazione dell’interesse pubblico primario è subordinata all’assenso di quell’Ente, il quale si limita a verificare la compatibilità dell’altrui attività amministrativa con l’interesse pubblico alla cui cura è preposto” (pp. 8-9). Ne è esempio l’art. 13, L. 394/1991 (sulla protezione della natura), secondo cui “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco” (che è “immediatamente impugnabile”) avente ad oggetto la verifica di “conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento” (p. 9). 2) Le valutazioni sono, invece, “atti di assenso necessari per l’approvazione del progetto o piano/programma proposto dal soggetto interessato e la loro pretermissione comporta l’illegittimità dell’approvazione medesima. Le figure più importanti sono la valutazione d’impatto ambientale (v.i.a.) e la valutazione ambientale strategica (v.a.s.)”. La V.I.A. “consiste nel “procedimento mediante il quale vengono preventivamente individuati gli effetti sull’ambiente di un progetto […] ai fini dell’individuazione delle soluzioni più idonee al perseguimento degli obiettivi” di tutela ambientale e si conclude con il rilascio di un provvedimento, “presupposto o parte integrante del procedimento di autorizzazione o approvazione” [Art. 29 del Codice], “obbligatorio e vincolante

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che sostituisce o coordina, tutte le autorizzazioni, le intese, le concessioni, le licenze, i pareri, i nulla osta e gli assensi comunque denominati in materia ambientale e di patrimonio culturale” [Art. 5, comma 1, lett. b) e o) del Codice])” (pp. 9-10). Anche nel caso della V.A.S. “l’atto conclusivo assume la forma di un parere motivato che [Ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. m-ter del Codice] costituisce “provvedimento obbligatorio” contenente “eventuali osservazioni e condizioni”“, avente “la “finalità di […] contribuire all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione, dell’adozione e approvazione di […] piani e programmi assicurando che siano coerenti e contribuiscano alle condizioni per uno sviluppo sostenibile” [Art. 4, comma 4, lett. a) del Codice]” (p. 10). L’A. richiama in proposito la giurisprudenza amministrativa, secondo cui la V.A.S. “si caratterizza “per essere un processo sistematico di valutazione delle conseguenze ambientali di proposte pianificatorie generali, non di progetti concreti” [Tar Puglia, Bari, I, 22 aprile 2015, n. 623]. A differenza della v.i.a. – finalizzata alla verifica dell’entità dell’impatto ambientale del singolo progetto, onde individuare soluzioni mitigative da valutare secondo il principio dello sviluppo sostenibile (sino all’opzione “zero”, qualora l’impatto non sia evitabile neanche con l’adozione di cautele) – la v.a.s. concerne “la pianificazione e la programmazione alle quali l’amministrazione è obbligata, ed è concomitante alla stessa così da favorire l’emersione e l’evidenziazione dell’interesse ambientale di modo che esso venga in via prioritaria considerato dall’amministrazione” [Cons. Stato, II, 26 febbraio 2015, n. 975]. Pertanto, la v.a.s. permette un’anticipazione della valutazione della compatibilità ambientale dal momento dell’approvazione del singolo progetto a quello dell’approvazione dell’intero piano o programma, consentendo di cogliere gli effetti derivanti all’ambiente dall’insieme delle attività assentite in un determinato ambito territoriale [Ex multis v., tra le più recenti, Tar Lombardia, Milano, II, 27 febbraio 2015, n. 576]” (pp. 10-11). A queste l’A. ritiene che si debba aggiungere la valutazione di incidenza ambientale (v.inc.a.), la quale, peraltro, “ha oggi minore importanza rispetto alle valutazioni di v.i.a. e di v.a.s. perché è ormai assorbita in queste procedure”.

[10] Quando si parla di ‘accertamenti tecnici’ – per esser chiari – si fa riferimento a quelle operazioni che non danno luogo ad incertezza sugli esiti dell’acclaramento. Di fronte agli accertamenti tecnici la situazione giuridica soggettiva di cui si rivendica la lesione è (o meglio, dovrebbe essere) un diritto soggettivo, perché si tratta di attività vincolata, ed il relativo sindacato, discutendosi non dell’uso illegittimo di un potere, bensì della stessa sussistenza di questo, è (dovrebbe essere) di competenza del giudice ordinario: come chiarisce V. Ottaviano, Giudice ordinario e giudice amministrativo cit., p. 443, “L’attribuzione al giudice ordinario significa che l’ordinamento non riconosce all’amministrazione un potere e ciò rende

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possibile una tutela piena del diritto soggettivo”. Viceversa, laddove la norma assegni alla P.A. attività discrezionale, e cioè un potere, il frontista vanta (certamente) un interesse legittimo.

[11] Una cospicua parte della dottrina – si è riferito – non riconosce dignità di esistenza scientifica alla categoria della ‘discrezionalità tecnica’. Fra gli altri, si v. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1976, pp. 239-240, a parere del quale “Impropriamente […] si parla di una ‘discrezionalità tecnica’ con riferimento ai casi in cui l’agente, per potere esplicare un’attività a lui imposta, deve procedere preventivamente all’accertamento di situazioni di fatto tali da richiedere valutazioni le quali sono da attingere a discipline tecniche. Infatti in tali casi fa difetto l’elemento caratterizzante della discrezionalità e cioè la determinazione di ciò che è più opportuno fare per soddisfare un pubblico interesse”; P. Virga, Appunti sulla c.d. discrezionalità tecnica cit., p. 98, il quale ritiene che, o ci si trova “di fronte ad un accertamento tecnico di un presupposto e non già di fronte ad una discrezionalità tecnica, giacché l’atto emanato sulla base della sussistenza di quei presupposti, a sua volta, potrà essere discrezionale o vincolato”, ovvero ci si trova “di fronte ad un provvedimento discrezionale, che sia nell’emanazione che nel contenuto non è influenzato esclusivamente da considerazioni di carattere tecnico”; pertanto “può bensì individuarsi un momento tecnico nell’iter logico della formazione della volontà dell’agente, ma non può contrapporsi una discrezionalità tecnica come tale alla discrezionalità amministrativa” (p. 99); e V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità amministrativa cit., p. 489, secondo cui “la nozione di discrezionalità tecnica non è mai stata teorizzata dalla dottrina in maniera soddisfacente e consapevole”. Né si può sottacere che – come riferisce C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche cit., p. 39 – “la dottrina è nel senso di negare fondamento e utilità al concetto di discrezionalità tecnica”; e neppure che, ad avviso di alcuni, la nozione venisse, addirittura, “unanimemente respinta”, ovvero che almeno vi fosse “unanimità nel ritenerla un’espressione impropria”: l’affermazione (che sembra non potersi condividere) è di G. Pelagatti, Valutazioni tecniche dell’amministrazione pubblica cit., p. 163. L’A. osserva più avanti (p. 166) che “la moderna negazione dell’autonomia concettuale della discrezionalità tecnica ha lasciato irrisolto il nodo del trattamento giuridico delle valutazioni tecniche”, ciò che rende esplicito, oltre ogni possibile equivoco, che la questione è essenzialmente terminologica. Viceversa, da parte di alcuni (ad esempio A.M. Sandulli, Manuale di Diritto Amministrativo, Jovene, Napoli, 1989, pp. 593-594) si ritiene che la categoria abbia senso e vada riferita alla fase di preparazione del provvedimento quando l’acclaramento di un presupposto tecnico non sia di unanime rilevabilità. Altri, infine, ritengono che si tratti di una discrezionalità che si ‘nutra’ contenutisticamente di conoscenze tecniche:

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secondo V. Ottaviano, Giudice ordinario e giudice amministrativo cit., p. 428, “La cd. discrezionalità tecnica è, certamente, nettamente diversa da quella amministrativa in quanto non importa valutazioni relative al modo di curare un interesse pubblico e difatti, se gli accertamenti tecnici coinvolgessero valutazioni siffatte, darebbero luogo a discrezionalità amministrativa”; ad avviso di F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica cit., p. 707, si può dire, appunto, che “le ‘valutazioni tecniche di tipo operativo’ – a differenza degli ‘acclaramenti’ prima considerati – non si pongono in una posizione di assoluta neutralità rispetto al gioco degli interessi. Dette valutazioni, infatti, oltre a poter subire tutti quei condizionamenti esterni indicati […] presentano anche dal punto di vista strutturale spiccate analogie con la discrezionalità, nel senso che in esse è presente – ed è fisiologica – quella tensione alla composizione di interessi che è tipica dell’agire discrezionale”. Sul tema fece definitivamente chiarezza D. de Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica cit., passim.

[12] Anche V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità cit., pp. 488-489, il quale pure afferma che la nozione di discrezionalità tecnica non ha “alcun fondamento” e risulta “anzi in contrasto con il fondamentale principio di legalità dell’azione amministrativa”, riconosce che “come nozione meramente descrittiva, pur carica comunque di ambiguità e di confusione terminologica, non dà preoccupazioni”. Lo stesso A., in Lineamenti del Diritto Amministrativo, Giappichelli, Torino, 2008, p. 280, rileva che quando si parla di discrezionalità tecnica si adopera una “espressione imprecisa […], ma ormai entrata nell’uso. L’espressione è giustificata dal fatto che anche in tali casi si tratta della scelta tra più soluzioni possibili (sul piano tecnico). Tuttavia in questi casi la scelta tra di esse va stabilita, appunto, con riferimento a discipline tecniche (in principio sulla base di dati oggettivi) e non sulla base di una valutazione degli interessi in gioco”. In maniera più efficace D. Sorace, Diritto delle Amministrazioni pubbliche. Una introduzione, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 273, osserva che, sebbene l’espressione discrezionalità tecnica sia suscettibile di critiche, si può ricorrere ad essa “quando occorre fare delle scelte per dare soluzione ad una questione sulla base di regole o criteri tecnico-scientifici, in mancanza di consenso universale della comunità di riferimento – scientifica […] o professionale […] – sulle regole o i criteri da applicare o sul risultato esatto dato dalla loro applicazione […]. L’esistenza di un’incertezza tecnico-scientifica, che si ha quando nella pertinente comunità scientifica o professionale vengono ritenute plausibili opinioni diverse su una questione, è essenziale perché si possa parlare di discrezionalità: altrimenti, ove fosse sicuro quali regole applicare e certe le soluzioni derivanti, non vi sarebbe alcuna scelta da fare ma si dovrebbe più semplicemente svolgere un’attività tecnica, cioè accertare le soluzioni esatte, evitando di incorrere in errori”.

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[13] F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica cit., p. 691, rileva che la giurisprudenza amministrativa ammette sulla discrezionalità tecnica “un controllo limitato alla verifica della ‘ragionevolezza’ e alla congruità della motivazione che avvicina senza dubbio il tipo di tutela ammissibile a quella propria degli atti amministrativi discrezionali”. Anche F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario cit., p. 300, nota che “la distinzione tra giudizi tecnici e determinazioni propriamente discrezionali è percepita dalla giurisprudenza: ed in rapporto alle questioni tecniche il giudice amministrativo avverte spesso l’esigenza di un più rigoroso sindacato, specie per quanto attiene alla completezza dell’attività istruttoria e alla coerenza del ragionamento svolto per giustificare una certa scelta dell’amministrazione”. Del resto – avvertiva V. Bachelet, L’attività tecnica della pubblica amministrazione cit., pp. 51-52 – “il rinvio esplicito o implicito a criteri tecnici di apprezzamento potrebbe anche essere considerato come un modo per circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione; mentre infatti l’analogo e universale rinvio ai generici criteri di buona amministrazione non rende sindacabile l’atto se non attraverso una rivalutazione del suo contenuto in relazione alla ponderazione dei pubblici interessi da realizzare e quindi supera il limite della legittimità, il rinvio ad apprezzamenti tecnici cioè a criteri, nonostante tutto, sufficientemente obiettivizzati, comporta per l’amministrazione una riduzione, per quanto talvolta alquanto elastica, dell’ambito della sua discrezionalità”.

[14] Secondo G. Barone, voce Discrezionalità. I) Diritto Amministrativo, in Enc. Giur. Treccani, vol. IX, 1989, p. 8, “può parlarsi di discrezionalità tecnica allorché l’amministrazione giunga alla decisione impiegando categorie tecniche o – come altri dice – cognizioni specialistiche, cognizioni cioè che non siano proprie della generalità dei soggetti di una comunità”. La migliore definizione, peraltro, resta a tutt’oggi quella data da A.M. Sandulli, Manuale cit., pp. 593-594, nell’opinione del quale la discrezionalità tecnica “non implica valutazione e ponderazione di interessi, né possibilità di scelta (in ordine all’agire) alla stregua di esse. Nei casi in questione la scelta (del comportamento da tenere) alla stregua degli interessi pubblici fu eseguita a priori una volta per tutte, e in modo vincolante, dal legislatore; e all’Amministrazione è rimessa semplicemente una valutazione (dei fatti posti dalla legge a presupposto dell’operare) alla stregua di conoscenze (e perciò di regole) tecniche, quali quelle della medicina, dell’estetica, dell’economia, dell’agraria, ecc.”. L’A. prosegue ulteriormente chiarendo che “La c.d. discrezionalità tecnica […] importa che l’autorità, una volta valutata alla stregua di criteri tecnici una data situazione, è inderogabilmente tenuta ad agire in un certo modo. Ciò significa che la valutazione qui sussiste soltanto in

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un momento anteriore rispetto a quello della determinazione attinente all’atto da adottare, mentre in ordine a questo l’autorità è rigidamente vincolata” (pp. 594-595).

[15] Il concetto sembra finalmente acquisito anche all’intelligenza del giudice amministrativo, sugli orientamenti del quale si rinvia ai successivi paragrafi 6 e 7.

[16] In dottrina – lo si è ricordato – è frequente l’opinione secondo cui per discrezionalità tecnica si deve intendere anche la discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. Così facendo, però, si incorre in un errore e si genera confusione concettuale. Se è vero che il giurista deve spiegare gli istituti sul piano logico-giuridico, non si può qualificare come discrezionalità tecnica una fattispecie che, sul piano della morfologia normativa, si presenta identica a quella di discrezionalità amministrativa. Tutt’al più si può e si deve riconoscere che essa ha un contenuto tecnico tutte le volte (quasi sempre peraltro) che gli interessi da valutare e comporre si connotano tecnicamente.

[17] Secondo l’autorevole insegnamento di P. Virga, Appunti sulla c.d. discrezionalità tecnica cit., p. 98, infatti, non ci si può sottrarre ad un dilemma: “o l’impiego delle cognizioni tecniche è circoscritto al solo accertamento dei presupposti nella fase preparatoria o istruttoria del procedimento […]; ovvero l’impiego delle cognizioni tecniche contribuisce ad illuminare l’autorità nel momento della determinazione volitiva circa la preferenza da accordare all’una soluzione piuttosto che all’altra”. F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica cit., p. 701, ritiene in proposito che “per cogliere più compiutamente la struttura e la dinamica dei fenomeni in discussione sia necessario distinguere, nell’ambito dell’attività conoscitiva tecnica dell’amministrazione, le due seguenti figure: – acclaramenti tecnici: diretti ad accertare o valutare determinati fatti, la cui conoscenza è essenziale all’organo di amministrazione attiva per l’assunzione delle sue decisioni; – valutazioni tecniche di tipo operativo: che tendono invece a stabilire i criteri e i mezzi per risolvere problemi pratici, anche attraverso una composizione operativa dei diversi interessi coinvolti nell’azione pubblica” (corsivi sono di chi scrive).

[18] Del quale si dà conto nei paragrafi 6 e 7.

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[19] A.M. Sandulli, Manuale cit., p. 595, in proposito spiega che “Non mancano tuttavia casi in cui, oltre a disporre di una discrezionalità tecnica, l’autorità dispone di una discrezionalità amministrativa […]. Nelle ipotesi di tal genere – nelle quali impropriamente si suole parlare di discrezionalità mista – la discrezionalità tecnica e quella amministrativa rimangono – come a esse è naturale – su due piani assolutamente diversi: la prima attiene alla constatazione della effettiva presenza della fattispecie prevista dal legislatore perché l’autorità possa legittimamente adottare certi provvedimenti in ordine alla soddisfazione dell’interesse pubblico affidato alle sue cure (e cioè attiene al giudizio preliminare); la seconda attiene alla scelta del miglior modo di realizzare l’interesse pubblico nella situazione di fatto valutata alla stregua dei criteri tecnici (e cioè attiene alla scelta del provvedimento)”.

[20] Come si chiarisce nei paragrafi 6 e 7, infatti, il sindacato giurisdizionale sull’una e sull’altra, anche se qualitativamente non dissimile – risolvendosi nella rilevazione del vizio di eccesso di potere derivante dalla ricorrenza di una o più figure sintomatiche –, si presenta quantitativamente diverso, potendo essere ben più penetrante nelle ipotesi di discrezionalità tecnica, i margini della scelta amministrativa configurandosi, di regola, assai più circoscritti.

[21] Ed invero, secondo il co. 3, “il collegio può disporre che venga corrisposto all’organismo verificatore, o al suo delegato, un anticipo sul compenso”; nonché, secondo il co. 4, “Terminata la verificazione, su istanza dell’organismo o del suo delegato, il presidente liquida con decreto il compenso complessivamente spettante al verificatore, ponendolo provvisoriamente a carico di una delle parti”.

[22] In proposito A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 267-268, – dopo aver riferito che “Le verificazioni (cfr. art. 66 c.p.a.) possono avere contenuti molto ampi e in particolare, secondo la giurisprudenza, possono riguardare anche l’accertamento di fatti o di situazioni complesse. Il giudice può acquisire in questo modo anche gli elementi tecnici che sono necessari per un apprezzamento dei fatti, analogamente a quanto si verifica con la consulenza tecnica (art. 63, 4° comma)” – ricorda che “Prima del codice, la verificazione era demandata esclusivamente all’amministrazione: molto spesso si trattava della stessa amministrazione resistente”, sicché l’istituto era “oggetto di critiche vivaci, perché comportava il riconoscimento all’amministrazione di un ruolo preminente nell’istruttoria, in contrasto con il principio della parità delle

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parti”. Non diversamente si esprime L. Giani, La fase istruttoria, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Giappichelli, Torino, 2013, Parte 5, Dinamica del processo, pp. 364 ss., 385, ad avviso della quale “La verificazione è un mezzo istruttorio tipico del processo amministrativo che consiste essenzialmente nella richiesta, presentata dal giudice, inizialmente alla sola amministrazione che aveva emanato l’atto oggetto del giudizio, di effettuare letteralmente una verifica su alcuni profili dell’atto. Essa si caratterizza proprio per la sua poliedricità, potendo comportare attività diverse quali ispezioni, sopralluoghi, esperimenti, esami tecnici e qualsiasi altra operazione necessaria per rispondere ai quesiti formulati dal giudice. L’origine di tale mezzo istruttorio va certamente ricercata nella ritenuta impossibilità per il giudice, in sede di legittimità, di avere una cognizione autonoma dei fatti oggetto del giudizio, potendoli conoscere […] solo attraverso le rappresentazioni ad esso fornite dalla stessa amministrazione parte in causa”.

[23] Al riguardo L. Giani, La fase istruttoria cit., p. 387, osserva che “Viene così confermato l’orientamento già espresso dalla giurisprudenza di affidare la verificazione ad una autorità diversa da quella parte del giudizio, a garanzia della terzietà ed imparzialità del verificatore che, a differenza della previgente disciplina, è, dunque, un esperto terzo, e non un organo della stessa amministrazione dalla quale proviene l’atto impugnato, assimilabile in qualche modo al perito ex art. 31, r.d. n. 642/1907. Si tratta di una previsione che costituisce puntuale applicazione del principio di imparzialità dell’istruttoria e garantisce la compatibilità con il principio del giusto processo”. Analogamente si esprime E. Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, Giuffré, Milano, 2012, p. 890, secondo cui “La verificazione è affidata a un organismo pubblico, munito di specifiche competenze tecniche ed estraneo alle parti del giudizio. Non dovrebbe trattarsi, dunque, della stessa amministrazione, come invece accadeva nella vigenza del precedente regime. Il concetto di estraneità, in senso proprio, non esclude che il soggetto operi a favore dell’amministrazione, riferendosi piuttosto alla necessità che esso non sia parte di quell’organizzazione”. L’A., a seguire (p. 891), precisa inoltre che “Non è previsto l’intervento delle parti, anche se, onde rispettare il principio del contraddittorio – garantito nel sistema previgente – sarebbe preferibile applicare la norma (art. 68, c.p.a.) secondo cui, appunto, alle parti devono essere comunicati, almeno cinque giorni prima, il giorno, l’ora e il luogo delle operazioni”. Non del tutto concorde sembra essere A. Travi, Lezioni cit., pp. 267-268, il quale, dopo aver osservato che, diversamente dal passato, “il codice ha valorizzato la figura del funzionario o del tecnico incaricato di eseguirla, il c.d. verificatore, dandogli specifico rilievo ed estendendo nei suoi confronti le cause di incompatibilità e di ricusazione previste dal codice di procedura civile per il consulente tecnico (art. 20, 2° comma, c.p.a.)”, afferma

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che “È dubbio, però, che ciò sia sufficiente perché l’istituto diventi del tutto appagante: in primo luogo, l’estensione dell’ambito dei soggetti (“organismi”) cui demandare la verificazione non impedisce che della verificazione possa essere incaricata un’amministrazione interessata al giudizio e, in secondo luogo, il richiamo al sistema delle cause di incompatibilità e di ricusazione non è decisivo, se si ammette ancora che ‘verificatore’ possa essere anche un dipendente di una parte in causa”.

[24] È questa l’opinione di L. Giani, La fase istruttoria cit., pp. 387-388, secondo la quale, “Sebbene non espressamente previsto, è da ritenere, in applicazione analogica della previsione relativa al consulente tecnico, che il verificatore debba astenersi nel caso in cui sussistano le summenzionate ragioni. A differenza della C.T.U., nella verificazione il funzionario incaricato dal giudice non è tenuto a prestare giuramento e gli esiti della sua attività, che consistono, secondo parte della giurisprudenza […], in un accertamento tecnico di natura non valutativa, possono essere disattesi dal giudice attraverso una valutazione critica dalla quale si evincano gli elementi di cui si è avvalso per discostarsi dal parere espresso dal verificatore”.

[25] Come afferma E. Casetta, Manuale cit., p. 890, “L’incarico di consulenza […] può essere affidato a dipendenti pubblici, a professionisti iscritti in appositi albi, o ad altri soggetti aventi particolare competenza tecnica. Qui si può scorgere un’ulteriore differenza rispetto alla verificazione, che parrebbe invece dover essere affidata impersonalmente a un organismo e non già a un soggetto specifico. Per espressa indicazione del c.p.a., poi, non possono essere nominati ctu coloro che prestano attività in favore delle parti del giudizio”. Sul punto L. Giani, La fase istruttoria cit., pp. 388-389, riferisce che “L’esperienza insegna che in concreto il consulente tecnico è stato individuato con riferimento a istituti od organismi specializzati, ovvero a una sede universitaria con riguardo ad una Facoltà, indicandone sovente nella persona del Preside il soggetto che potrà svolgere l’incarico direttamente oppure avvalendosi di un docente ritenuto particolarmente qualificato, seguendo uno schema già delineato per le verificazioni. Non si può sottacere, poi, la prassi instauratasi consistente nella formazione di elenchi di professionisti qualificati nei quali sono inseriti i nominativi di coloro i quali vengono via via nominati […]. A garanzia della indipendenza e terzietà del consulente, nello stesso comma (comma 2, art. 19) è previsto che non possano essere nominati consulenti coloro che prestano attività in favore delle parti del giudizio. Come per il verificatore il consulente è obbligato a prestare il proprio ufficio, ad eccezione dei casi in cui il giudice riconosca la sussistenza di un giustificato motivo (art. 20, comma 1) e può essere ricusato dalle parti per i motivi di cui

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all’art. 51 c.p.c. (art. 20, comma 2) […], e per gli stessi motivi ha l’obbligo di astenersi e può fornire oralmente i chiarimenti richiesti (art. 19, comma 3)”.

[26] Per completezza bisogna ricordare che la lett. a) del co. 3 prevede la possibilità di “corresponsione al consulente tecnico di un anticipo sul suo compenso”.

[27] Al riguardo E. Casetta, Manuale cit., p. 891, chiarisce che “La disciplina procedurale della consulenza (art. 67, c.p.a., che non rinvia al c.p.c.) è maggiormente attenta alle esigenze del contraddittorio” e che “La norma disciplina poi […] la figura dei consulenti tecnici delle parti”.

[28] Sia pur in maniera e per ragioni parzialmente diverse, la considerazione (relativa alla preferenza da doversi accordare alla verificazione) è condivisa da A. Travi, Lezioni cit., pp. 268-269, ad avviso del quale, appunto, “Di regola […] il giudice deve dare la precedenza alla verificazione. Questa soluzione rappresenta uno dei profili maggiormente critici nella disciplina complessiva dell’istruttoria nel codice del processo amministrativo”. Tale scelta – a giudizio dell’A. – deriva con ogni probabilità da un ‘fraintendimento’ della natura della consulenza tecnica, che “non è normalmente un mezzo di prova: non dovrebbe servire a dimostrare la verità di un fatto storico, ma dovrebbe consentire di acquisire gli elementi tecnici necessari per comprendere il significato e il valore di quel fatto (per esempio, la consulenza tecnica non dovrebbe essere utilizzata per stabilire chi abbia realizzato una determinata costruzione, ma potrebbe essere utilizzata per capire se quella costruzione rispetti o meno certi parametri tecnici richiesti per la stabilità degli edifici)”. Nell’opinione dell’A., “Proprio per questi caratteri, l’introduzione della consulenza tecnica dovrebbe circoscrivere i margini di insindacabilità delle valutazioni tecniche dell’amministrazione: si tenga presente che in passato l’insindacabilità della c.d. discrezionalità tecnica spesso non aveva alcun fondamento sostanziale, ma rifletteva solo la circostanza che il giudice non disponeva di mezzi istruttori adeguati per un sindacato”. Questo – conclude l’A. – “non significa, però, che tutte le valutazioni tecniche effettuate dall’amministrazione possano essere riesaminate dal giudice attraverso una consulenza o una verificazione. La giurisprudenza successiva alla legge n. 205/2000 aveva insistito sul fatto che alcuni apprezzamenti di ordine tecnico dell’amministrazione manterrebbero un certo grado di insindacabilità […]. Nei confronti di tali apprezzamenti il sindacato del giudice sarebbe solo indiretto o limitato, secondo lo schema tipico dell’eccesso di potere […]. Questo indirizzo si è affermato soprattutto quando le valutazioni tecniche siano correlate a

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valutazioni di mera opportunità, oppure quando siano state effettuate da organi caratterizzati per una particolare qualificazione ed esperienza tecnica (come le Autorità indipendenti)”. Sembra dunque potersi dire che, come affermato nel testo, anche per Travi i due mezzi istruttori (verificazione e consulenza) non siano propriamente fungibili: per il chiaro A., però, tale infungibilità va declinata in termini più elastici, o – verrebbe di dire – di ‘preferibilità’, mentre qui si ritiene – per le ragioni che più chiaramente verranno illustate subito a seguire – che la distinzione degli ambiti nei quali sarebbe possibile utilizzare l’uno o l’altro mezzo istruttorio è da considerarsi netta: se la fattispecie normativa contempla un mero accertamento tecnico, il giudice deve ordinare la verificazione; se invece contempla una discrezionalità tecnica, ovvero una discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, egli deve disporre la consulenza tecnica. Sebbene alla fine del suo ragionamento pervenga a conclusioni diverse – lo si vedrà a breve – al riguardo L. Giani, La fase istruttoria cit., pp. 386-387, condivisibilmente sottolinea che, “A differenza del previgente sistema, nel quale, a seguito della introduzione della consulenza tecnica d’ufficio, parte della dottrina e la stessa giurisprudenza avevano riconosciuto una sostanziale equivalenza in termini di efficienza probatoria tra i due mezzi istruttori, delimitandone […] i rispettivi ambiti applicativi, nel Codice di fatto viene statuita una graduazione tra di essi. E ciò in contrasto con le acquisizioni proprie del sistema processuale civile nel quale non esiste una gerarchia in ordine alla efficacia delle prove che sono rimesse all’apprezzamento (prudente) del giudice. Mentre la verificazione può, infatti, essere disposta nella generalità dei casi, il giudice può fare ricorso alla consulenza tecnica soltanto qualora lo ritenga indispensabile”.

[29] Anche ad avviso di L. Giani, La fase istruttoria cit., p. 389, “Nel nuovo assetto normativo trova conferma la configurazione della consulenza tecnica non come un mezzo di prova propriamente detto, ma come un vero e proprio mezzo istruttorio a disposizione del giudice che, quando lo ritiene “indispensabile” (in questo una decisa e certamente discutibile differenza con la disciplina processualcivilistica), si avvale di un proprio ausiliario per acquisire nozioni della scienza o dell’arte delle quali sia sfornito o insufficientemente munito e, dunque, non uno strumento istruttorio per accertare la storicità o la verità di un fatto. Una differenza che, tra l’altro, oltre alla infelice formulazione letterale, non solo non si spiega alla luce anche dei pareri espressi dalle commissioni parlamentari e della scelta operata dallo stesso legislatore del codice di affidare la verificazione solo a soggetti diversi dall’amministrazione procedente, di fatto allontanandosi nettamente dallo schema tradizionale che vedeva la verificazione originariamente affidata alla stessa amministrazione; ma che suscita delle forti perplessità anche in ragione della tradizionale preclusione della verificazione in ordine a quei fatti rilevanti per la determinazione del danno risarcibile rispetto ai quali, oltre alla prova

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fornita dalla parte ex art. 2697 c.c., può risultare necessario l’apporto per il giudice di cognizioni tecniche non possedute. Sotto il profilo oggettivo si è ritenuto che la consulenza tecnica miri […], a differenza della verificazione, alla acquisizione di un giudizio tecnico, piuttosto che alla verificazione di un mero accertamento tecnico di natura non valutativa, ponendosi, così, la prima su un piano più propriamente valutativo, e la seconda su un piano conoscitivo, consistendo la verificazione, alla stessa stregua della perizia, in meri accertamenti effettuati per completare la conoscenza del fatto”. Non diversamente si esprime E. Casetta, Manuale cit., pp. 890-891: “Tradizionalmente, la consulenza non è considerata un mezzo di prova, avendo essa piuttosto la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze (ma, mediante consulenza, il giudice non può sostituirsi alla valutazione dell’amministrazione: così Cass., sez. un., n. 3712/2012, che peraltro ha deciso una fattispecie ancora regolata dalla vecchia normativa processuale). Di conseguenza, legittimamente il giudice la nega qualora la parte tenda con essa a supplire alle deficienze delle proprie allegazioni od offerte di prova oppure ancora a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi di fatto o circostanze non provati”.

[30] L’interpretazione del dato normativo trova ampia conferma nella giurisprudenza amministrativa, anche in quella precedente alla entrata in vigore del C.P.A. Si v., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 5/1/2015, n. 11, “La differenza tra verificazione e consulenza consiste, oltre che nella differenza del soggetto che la effettua, nel fatto che la prima non è diretta ad esprimere valutazioni e a fornire un giudizio tecnico, ma si limita alla natura di mero accertamento tecnico”. L’affermazione è ricorrente anche da tempo risalente: secondo Cons. Stato, Sez. VI, 12/2/2014, n. 682, “La verificazione consiste nell’essere un mero accertamento, disposto al fine di completare la conoscenza dei fatti che non siano desumibili dalle risultanze documentali; mentre la consulenza tecnica, nei limiti ammessi, si estrinseca in una valutazione tecnica di determinate situazioni da utilizzare ai fini della decisione, con una valenza non meramente ricognitiva e circoscritta ad un fatto specifico”; secondo Cons. Stato, Sez. IV, 20/9/2012, n. 5039, “La verificazione, che è istituto proprio del processo amministrativo, si differenzia dalla consulenza tecnica d’ufficio per essere rivolta all’effettuazione di un mero accertamento tecnico di natura non valutativa, e non anche all’acquisizione di un giudizio tecnico; infatti, detto istituto è un mezzo istruttorio del c.d. sindacato debole del giudice amministrativo che risponde all’esigenza di conoscere, in sede di giurisdizione di legittimità, soltanto se è effettivamente tale, nella sua consistenza, il presupposto accertato dall’Amministrazione, dal quale derivino effetti prefissati, non potendosi esprimere, in detta specifica sede giurisdizionale, alcun autonomo e definitivo

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giudizio tecnico, senza invadere illegittimamente la sfera di merito dell’Amministrazione” (confermata integralmente da Cons. Stato, Sez. IV, 30/9/2013, n. 4837). Prima dell’entrata in vigore del C.P.A., si v., ad esempio, Cons. Stato, Sez. IV, 18/1/2010, n. 138, “La verificazione è strumento probatorio che si differenzia dalla consulenza tecnica d’ufficio in quanto, piuttosto che all’acquisizione di un giudizio tecnico, mira all’effettuazione di un mero accertamento tecnico di natura non valutativa”. L’orientamento si riscontra anche nelle sentenze dei giudici di prime cure: si v., fra le tante, T.A.R. Umbria, Perugia, Sez. I, 27/1/2012, n. 12, “Obiettivo della verificazione è accertare se sussistano o non gli elementi di fatto considerati dall’Amministrazione nel determinare la sua azione, e non già acquisire considerazioni proprie del soggetto a ciò deputato, come avviene nella consulenza tecnica; ed infatti, diversamente da quest’ultima, che il giudice dispone anche al fine di integrare le sue conoscenze con quelle specifiche del consulente, oggetto di richiesta nella verificazione è solo l’accertamento di uno stato di fatto del quale il soggetto pubblico a ciò deputato deve limitarsi a riferire e chiarire al giudice, senza indulgere a considerazioni personali, irrilevanti ai fini del decidere”.

[31] Sul punto si v., di recente, T.A.R. Umbria, Perugia, Sez. I, 7/4/2015, n. 164: “La disciplina di cui all’art. 67 c.p.a., in tema di consulenza tecnica d’ufficio – connotata da un articolato contraddittorio tra consulente d’ufficio e consulenti di parte – non si applica all’istituto della verificazione, disciplinata dal precedente art. 66 c.p.a., attesa la diversità dei due istituti, non solo sul piano soggettivo, ma anche sul piano oggettivo e funzionale, consistendo la verificazione in un mero accertamento a funzione descrittiva ed illustrativa per completare la conoscenza dei fatti che non siano desumibili dalle risultanze documentali, mentre la consulenza tecnica d’ufficio si estrinseca in una vera e propria valutazione non meramente ricognitiva di questioni di fatto, la cui risoluzione presuppone specifiche cognizioni di ordine tecnico, da utilizzare ai fini della decisione; in sede di verificazione, pertanto, il contraddittorio tra verificatore e periti di parte ha mero carattere eventuale, potendosi ogni osservazione in merito alle operazioni e valutazioni effettuate in sede di verificazione essere effettuata dalle parti tramite le memorie da prodursi in vista dell’udienza di discussione nel merito, nel rispetto dei termini perentori di cui all’art. 73 c.p.a.”.

[32] Pur avendo posto premesse del ragionamento pienamente coerenti con quanto affermato nel testo, come preannunciato poc’anzi, sembra diversamente concludere L. Giani, La fase istruttoria cit., p. 390, secondo la quale “Per ciò che concerne l’ambito di applicazione della consulenza tecnica, se da un lato è pacifico il suo utilizzo nei casi in cui all’ausiliario del giudice è

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demandata l’effettuazione di accertamenti strettamente vincolati, ben più articolata e complessa è l’ipotesi concernente l’applicabilità in quei casi in cui la scelta sia appunto qualificabile in termini di discrezionalità tecnica. La questione si ricollega al problema della opinabilità dei risultati cui le regole tecniche applicate nel caso concreto dall’amministrazione conducono o, se si vuole, alla distinzione tra regole tendenzialmente esatte, la cui applicazione porta a un accertamento tecnico (di un fatto) da parte dell’amministrazione, e regole che per diverse ragioni sono prive di tale requisito (discrezionalità tecnica). Mentre nel primo caso l’ammissibilità della C.T.U. è stata riconosciuta da parte della giurisprudenza, sia pure con dei limiti richiamati in tema di verificazione, nel secondo, invece, la opinabilità del risultato conseguente alla applicazione della regola tecnica […] ha condotto ad una ritenuta inammissibilità della stessa, vista come una inopinata sostituzione del giudizio di un soggetto terzo a quello dell’amministrazione e, dunque, della discrezionalità della stessa. Ma in realtà, ove si rifletta sulla natura stessa della discrezionalità tecnica, intesa quale accertamento di un fatto alla luce di norme tecniche compiuto dall’amministrazione, così come lucidamente delineata dalla stessa giurisprudenza amministrativa, è evidente come il momento della opinabilità non tocchi in alcun modo il procedimento attraverso cui la valutazione (accertamento) del fatto viene condotta dall’amministrazione, né tanto meno attenga alla determinazione da parte di quest’ultima del parametro (tecnico) posto a base della stessa valutazione. Con riferimento a questi a due profili è possibile, infatti, individuare uno spazio di operatività della C.T.U., indipendentemente dalla considerazione della “esattezza” o meno della regola tecnica applicata. Spazio da individuarsi nella valutazione da parte del consulente di profili attinenti alla attualità del parametro (tecnico) applicato dall’amministrazione ed alla correttezza del procedimento applicativo, sempre nei limiti delle contestazioni mosse dalle parti. In questo senso, dunque, si è aperta la strada al sindacato della discrezionalità tecnica, non solo per i profili c.d. estrinseci, ma anche per la verifica dei profili appena richiamati (attendibilità delle operazioni tecniche, tanto sotto il profilo della correttezza, quanto in relazione al criterio prescelto ed al procedimento applicativo), ovviamente sempre nei limiti della domanda della parte. Una questione (quella sulla sindacabilità intrinseca della scelta compiuta dall’amministrazione) che si differenzia da quella concernente la sostituibilità della decisione del giudice fondata sull’esito della C.T.U. con quella resa dall’amministrazione. Tanto nel primo caso (sindacato intrinseco diretto, riferito cioè direttamente al criterio tecnico) quanto nel secondo (sindacato intrinseco indiretto, riferito al procedimento seguito dall’amministrazione e alla coerenza e correttezza dello stesso ragionamento seguito in base alle risultanze procedimentali) la sostituibilità (sindacato forte) può essere esclusa, limitando i poteri del giudice alla rilevazione della inosservanza della norma giuridica che impone la valutazione tecnica. In concreto, però, l’uso che la giurisprudenza ha fatto dello strumento della

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consulenza tecnica palesa un percorso non privo di esitazioni sul cammino del pieno accertamento del fatto da parte del giudice amministrativo”. Nel senso della interpretazione qui assunta si esprime la giurisprudenza: fra le altre, si v. Cons. Stato, Sez. VI, 4/9/2014, n. 4505, secondo cui “Gli atti amministrativi espressione di valutazioni tecniche sono suscettibili di sindacato giurisdizionale nei soli casi in cui l’amministrazione abbia effettuato scelte che si pongono in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica; non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile; il giudice amministrativo, infatti, non può sostituire – nel rispetto del principio di separazione dei poteri – sue valutazioni tecniche a quelle effettuate in sede propria dall’autorità pubblica; nell’effettuare tale sindacato può essere necessario ricorrere al giudizio di un tecnico nella forma della consulenza tecnica o della verificazione”; e Cons. Stato, Sez. VI, 4/7/2012, n. 3901, secondo cui “In tema di limiti del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecnico-discrezionali dell’amministrazione e, in particolare, delle autorità amministrative indipendenti, il giudice amministrativo può esercitare un sindacato non meramente estrinseco o formale – che avvenga cioè senza utilizzare le regole specialistiche impiegate dall’amministrazione, ma alla luce del comune buon senso, con la conseguenza di limitare il sindacato solo a quelle valutazioni che risultano palesemente inattendibili o illogiche anche agli occhi di un non addetto ai lavori – ma, nell’ottica dell’effettività della tutela giurisdizionale, può praticare un sindacato a carattere anche intrinseco, impiegando cioè, eventualmente anche con l’ausilio di conoscenze esterne fornite da verificazioni o consulenze tecniche, i parametri specialistici di cui si è avvalsa l’amministrazione, senza, però, dar luogo alla surrettizia sostituzione della stessa nell’esercizio della sua funzione di cura concreta dell’interesse pubblico”.

[33] Si è appena visto (cfr. le tre note precedenti), invero, come la più recente giurisprudenza amministrativa confermi che, a fronte di un’attività amministrativa consistente in un mero accertamento tecnico, il controllo del G.A. può svolgersi attraverso l’utilizzo dello strumento istruttorio della verificazione, diversamente da quanto accade nel controllo di un’attività amministrativa caratterizzata da profili di discrezionalità di tipo tecnico (tecnica o a contenuto tecnico che sia), nel qual caso lo strumento utilizzabile dal G.A. per intelligere l’operato della P.A. è la consulenza tecnica d’ufficio.

[34] La sentenza così prosegue: “d’altra parte, proprio in ragione della necessità di assicurare in concreto la stabilità del sito, non può essere considerata generica la prescrizione di adottare tutte le misure necessarie per evitare la riattivazione dei movimenti franosi, trattandosi invece di un obbligo di risultato ben più stringente, in quanto direttamente adeguato all’effettiva

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realtà dei fatti e del luogo, dell’individuazione di astratte misure tecnico-esecutive che potrebbero concretamente rivelarsi irrealizzabili ovvero inadatte, inefficienti ed inefficaci. Ciò esclude la rilevanza della asserita mancata diversa localizzabilità della discarica, trattandosi di questione direttamente legata alla non sussistente ipotesi di inutilizzabilità del sito; senza contare che, anche a voler prescindere dalla considerazione che si tratta dell’ampliamento di una discarica già esistente e non già di una nuova discarica e che anche la localizzazione dell’impianto è espressione di valutazione discrezionale propria dell’amministrazione, l’appellante non indica neppure quale sarebbe stato il sito alternativo eventualmente utilizzabile o idoneo, così che in definitiva le sue critiche si limitano ad esprimere un mero dissenso dall’operato dell’amministrazione”.

[35] La massima riprende quasi integralmente quella di T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 10/7/2012, n. 1395, che, nel giudicare della legittimità di una determina della Regione Puglia esprimente giudizio negativo sulla compatibilità ambientale del progetto di un impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica, si era espresso praticamente con le stesse parole: “Nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale e nell’effettuare la verifica preliminare, l’Amministrazione esercita un’amplissima discrezionalità tecnica, censurabile solo in presenza di macroscopici vizi logici o di travisamento dei presupposti. In ogni caso, la valutazione ambientale non costituisce un mero giudizio tecnico, suscettibile in quanto tale di verificazione sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa, sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all’interesse all’esecuzione dell’opera; apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l’istruttoria sia mancata, o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione”.

[36] L’art. 8 prevede al co. 1 che “Nell’esercizio dell’impianto di incenerimento o di coincenerimento devono essere adottate tutte le misure affinché le attrezzature utilizzate per la ricezione, gli stoccaggi, i pretrattamenti e la movimentazione dei rifiuti, nonché per la movimentazione o lo stoccaggio dei residui prodotti, siano progettate e gestite in modo da ridurre le emissioni e gli odori, secondo i criteri della migliore tecnologia disponibile”. Al co. 10 esso dispone altresì che “Gli effluenti gassosi degli impianti di incenerimento e coincenerimento devono essere emessi in modo controllato attraverso un camino di altezza adeguata e con velocità e contenuto entalpico tale da favorire una buona dispersione degli effluenti al

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fine di salvaguardare la salute umana e l’ambiente, con particolare riferimento alla normativa relativa alla qualità dell’aria”.

[37] Pur se non concerne una vicenda relativa alla materia ambientale, appare significativo riferire quanto afferma C.G.A., sez. giur., 12/12/2013, n. 929, che, per spiegare la differenza fra legittimità e merito, in maniera forse un po’ troppo tautologica, così si esprime: “la discrezionalità rimane “sul piano del merito”, senza peraltro “esaurirlo”, ogni qual volta non è sindacabile davanti al giudice amministrativo. In altri termini, nei limiti in cui la discrezionalità può essere oggetto di valutazione e sindacato da parte del giudice – quando l’attività amministrativa deborda nell’eccesso di potere (Cons. St., VI, 14 agosto 2013, n. 4174) ricavabile dall’illogicità, dalla contraddittorietà, dall’ingiustizia manifesta, dall’arbitrarietà o dall’irragionevolezza della determinazione (Cons. St., III, 3 luglio 2013 n. 3572; Cons. St., III, 15 aprile 2013, n. 2058) – verranno in rilievo aspetti afferenti alla legittimità dell’azione amministrativa; qualora l’esercizio della discrezionalità resti fuori dal sindacato giurisdizionale, l’attività discrezionale andrà a confluire nel “merito” dell’azione amministrativa (Cons. St., IV, 30 settembre 2013, n. 4872; Cons. St., III, 3 luglio 2013, n. 3572) unitamente agli altri aspetti concernenti l’opportunità, la convenienza e l’utilizzo delle regole di buona amministrazione. Così individuato il merito dell’azione amministrativa, risulta sufficientemente chiaro il confine con la legittimità dell’azione amministrativa anche se va precisato che questo confine, non sempre netto, nel tempo è stato fatto oggetto di modifiche onde accrescere gli spazi di tutela giurisdizionale”. Si tratterebbe, dunque, di legittimità nei casi di discrezionalità sindacabile da parte del G.A.: ma non viene detto chiaramente che cosa sia sindacabile, anzi. Si tratterebbe di merito, invece, nei casi di discrezionalità non sindacabile. Pertanto, tautologicamente appunto, sarebbe merito tutto ciò che non è legittimità, perché insindacabile. È poi interessante sottolineare che, secondo il giudice, “il sindacato sulla discrezionalità tecnica è ammesso non soltanto attraverso un controllo estrinseco, attuato mediante massime di esperienza […] ma anche attraverso un controllo intrinseco che, consentendo al giudice di avvalersi di regole e conoscenze tecniche appartenenti alla stessa scienza specialistica e ai modelli di giudizio applicati dall’Amministrazione, risulta volto a verificare direttamente l’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico e a procedimento applicativo. Non è, però, ammissibile un controllo definito di “tipo forte”, con il quale l’autorità giudiziaria sostituisce “sic et simpliciter”, avvalendosi eventualmente di un consulente tecnico, la valutazione tecnica svolta dall’Amministrazione con una propria e diversa determinazione. Questa operazione è impedita dal principio di separazione tra funzione amministrativa e funzione giurisdizionale”. Il G.A. ricorda in proposito che “Il controllo può, invece, essere “pieno” quando l’attività richiesta all’Amministrazione non

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presuppone la spendita di discrezionalità tecnica ma di meri accertamenti tecnici, che implicano la verifica di dati certi non suscettibili di apprezzamenti opinabili” (corsivi di chi scrive).

[38] È soltanto in questi casi – lo si è poc’anzi accennato – che la differenza fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica mostra a pieno la sua pregnanza sul piano (non solo concettuale, ma anche) delle effettive conseguenze giuridiche, giacché, laddove esse ricorrano entrambe, la ‘forza espansiva’ del contenuto definitorio dell’una (la discrezionalità amministrativa) finisce per fare ombra a quello connotativo dell’altra (la discrezionalità tecnica), fino ad oscurarlo quasi del tutto.

[39] D’altra parte, giacché sovente accade che l’esito della verifica in parola sia incerto, è più che naturale chiedersi se esista un qualche meccanismo giuridicamente rilevante che consenta di garantire la scelta migliore tra le diverse possibili interpretazioni scientifiche.

[40] Del resto, non può sottovalutarsi quanto osserva F. Salvia, Attività amministrativa e discrezionalità tecnica cit., p. 710: “In sostanza, quando si manifestano nel mondo tecnico-scientifico indirizzi diversi o contrastanti in ordine all’interpretazione di certi fatti o alla previsione di certi eventi, sarà bene lasciare la possibilità all’organo politico o amministrativo di recepire indicazioni diverse (e talvolta più avanzate) di quelle fornite dagli organi interni dell’amministrazione (pluralismo degli apporti tecnici)”.

[41] Nel ricostruire assai chiaramente il pensiero di una parte della dottrina, C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche cit., p. 207, scrive: “la valutazione tecnica è una valutazione, cioè un giudizio che in qualche misura rimane opinabile. […] la valutazione tecnica non è autosufficiente nel senso che, dinanzi a soluzioni diverse ma tutte tecnicamente plausibili, non è, né può essere, per definizione, il profilo tecnico quel che può decidere intorno alla valutazione da accogliere. I criteri che operano come cause determinanti dell’adozione dell’una anziché dell’altra valutazione sono necessariamente di altro genere […]. È un apprezzamento del pubblico interesse quel che consente di assumere l’una anziché l’altra valutazione tecnica”. L’A. peraltro dichiara di non condividere le prospettazioni proposte in base al ragionamento appena riferito e, tra gli altri, cita un classico esempio di scuola: “non sembra possibile che un’epidemia sussista o non sussista in base ad un apprezzamento del pubblico interesse”. A prima vista, a nessuno ciò sembra possibile. Eppure,

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a ben riflettere, tenendo presente quel che accade nella realtà pratica dell’amministrazione, viene un dubbio. Si ponga in astratto che la legge affidi al Sindaco il compito di stabilire se sussista o meno un’epidemia animale, avendo disposto che, in caso positivo, dovranno essere abbattuti i capi affetti dal morbo. E si dia per ipotesi che il Sindaco di un piccolo Comune la cui economia è pressoché integralmente fondata sull’allevamento del bestiame, dovendosi esprimere sulla sussistenza o meno dell’epidemia e avendo verificato in concreto che è, ad esempio, affetto dal morbo il 20% dei capi presenti sul territorio comunale, si trovi in presenza di due indirizzi scientifici ugualmente autorevoli, dei quali, però, uno sostiene esservi epidemia ove sia affetto almeno il 15%, e l’altro, invece, almeno il 30% dei capi: viene di domandarsi se in questa situazione il Sindaco debba o no farsi orientare, nello scegliere una delle due tesi per giustificare il suo provvedimento, dalla considerazione della ‘situazione economica’ della comunità che amministra. In altre parole, ci si deve chiedere – e l’interrogativo è un evidente espediente retorico – se non sia, oltre che naturale, ragionevole – e non necessariamente anche condivisibile nel merito – che egli propenda per l’indirizzo che gli ‘consente’ di non abbattere i capi. L’interrogativo – beninteso – prescinde dalla circostanza resa nell’esempio, tant’è che esso varrebbe allo stesso modo se, per converso, il territorio comunale fosse in ipotesi caratterizzato (quasi all’opposto) da una notevole precarietà igienica generale e il Sindaco, lasciandosi orientare dall’interesse alla salvaguardia della salute pubblica, propendesse per l’indirizzo che gli ‘consente’ di abbattere i capi.

[42] È vero, infatti, che la discrezionalità si riferisce – come sostiene M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, Giuffré, Milano, 1993, vol. II, p. 494 – “ad una potestà, e implica giudizio e volontà insieme”, mentre, invece, “la discrezionalità tecnica si riferisce ad un momento conoscitivo, e implica solo giudizio: ciò che attiene alla volizione viene dopo, e può coinvolgere o non coinvolgere una separata valutazione discrezionale”. Ma occorre interrogarsi se, sul piano della effettività, il giudizio su un fatto di dubbia accertabilità non porti con sé intimamente (seppur non razionalmente) una valutazione degli effetti che potranno determinarsi a seconda che esso venga assunto in un modo o nell’altro. “Gli apprezzamenti di carattere tecnico non possono” – è invece l’opinione di F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario cit., p. 312 – “dissolversi nel merito”. Non pare dubitabile, del resto, quanto in generale nota G. Pastori, Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità cit., p. 3171, secondo il quale “Il mutamento qualitativo del sindacato di legittimità è evidente. Esso, più che assorbire il sindacato di merito, ne reinventa i caratteri in termini di valutazione delle reciproche posizioni dell’amministrazione e dei terzi (così da esser compatibile con il permanere pur sempre della discrezionalità)”.

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[43] Può darsi infatti – come opina V. Ottaviano, Giudice ordinario e giudice amministrativo cit., p. 429 – “che l’amministrazione operi la scelta fra più soluzioni possibili in base a considerazioni relative all’interesse pubblico”, ma in questo “caso essa agirà discrezionalmente anche se la discrezionalità sarà caratterizzata in tal caso dal doveroso riferimento a criteri tecnici”. Non è dello stesso avviso M.S. Giannini, Diritto Amministrativo cit., vol. II, p. 57, secondo il quale, “Malgrado il carattere fortemente valutativo che possiedono siffatti giudizi, essi rimangono nell’ambito dell’apprezzamento tecnico, e non debordano nella potestà discrezionale: abbiamo sempre dei giudizi tecnici, giuridicamente distinti dai giudizi di opportunità e dal momento decisionale”.

[44] In questo caso, infatti, è fisiologico, e addirittura doveroso, che, nella scelta tra le possibili opzioni tecnico-scientifiche prospettabili per la soluzione operativa, ad orientare la P.A. siano, in ultima istanza, le (maggiori) garanzie offerte da quella prescelta per ottenere la migliore sintesi possibile tra l’interesse pubblico specifico e gli interessi secondari coinvolti nella fattispecie concreta.

[45] Se lo ‘scivolamento’ è la ragione per cui la giurisprudenza amministrativa non distingue fra discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa, unificandole nel merito amministrativo (così da riconoscere, visto che il G.A. non può delibarlo, la sua incompetenza a giudicare dell’uso di entrambe), la conseguenza che essa ne trae è la paradigmaticità di imparzialità e buon andamento sia per l’una che per l’altra. Pertanto, se nel merito esercitato è rilevabile una illegittimità, nella specie del vizio di eccesso di potere, il G.A. riconosce senz’altro la sua capacità di intervenire: nella sua cognizione, dunque, il merito riguarda anche l’acclaramento dei presupposti, sempreché la disciplina richiamata dalla norma lasci alla P.A. uno spazio di manovra nella intelligibilità del fatto. Il fatto, insomma, non è acclarabile in modo certo, e per ciò deve essere interpretato; questo spazio è discrezionale, anche se l’oggetto non è lo stesso della discrezionalità amministrativa. Se ne consegue che ben possono utilizzarsi i canoni di imparzialità e buon andamento (e dunque anche della ragionevolezza): non perché si tratta di una decisione ‘politica’, giacché almeno formalmente è tecnica; ma perché aumentano, rispetto alla discrezionalità amministrativa, i ‘paletti di confine’ con riferimento ai quali il giudice può controllare il provvedimento allo scopo di rilevare gli eventuali sintomi di un esercizio distorto del potere. In buona sostanza, la giurisprudenza amministrativa ne fa una questione quantitativa: quando si tratta di discrezionalità tecnica i ‘paletti’ che circoscrivono i margini dell’azione sono maggiori.

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[46] Ormai non può più accogliersi la tesi di P. Virga, Appunti sulla c.d. discrezionalità tecnica cit., p. 102, il quale sosteneva, in maniera radicale, che “le valutazioni sia tecniche sia di mera opportunità amministrativa che riflettono la idoneità del mezzo per raggiungere il fine voluto e la entità della misura da adottare sono sottratte al sindacato di legittimità, non già perché implicano apprezzamenti tecnici, ma esclusivamente perché rientrano nella determinazione di merito dell’autorità amministrativa”. Ed invero, oggi è quasi un ventennio, M.S. Giannini, Diritto Amministrativo cit., vol. II, p. 54, fece al riguardo chiarezza: “che la potestà discrezionale si presti all’abuso politico è vero, e il rimedio contro tale evento patologico è quello della tutela giurisdizionale. Altro è però l’abuso altro l’uso della potestà discrezionale, e nell’uso la determinante politica – nel senso scientifico del termine – non solo interviene, ma deve intervenire”. D’altro canto, come avverte F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario cit., p. 308, “sembra difficile comprendere perché all’apprezzamento opinabile dell’amministrazione il giudice debba sostituire un proprio apprezzamento, non meno opinabile dell’altro”. Secondo G. Pelagatti, Valutazioni tecniche dell’amministrazione pubblica cit., p. 180, “La sottrazione della valutazione discrezionale al sindacato giurisdizionale (a parte i casi della giurisdizione di merito), per questo, può dirsi che sia imposta da principi costitutivi della forma dello Stato: il principio democratico esige che le decisioni inerenti alla gestione di interessi siano assunte da soggetti rappresentativi della volontà espressa dai portatori stessi di quegli interessi”. L’A., poco oltre, significativamente aggiunge: “deve ammettersi che, per un principio immanente alla logica del sistema, la pubblica amministrazione sia il soggetto maggiormente abilitato all’esercizio di questa attività di giudizio” (p. 183).

[47] È, di sicuro, in base ad un giudizio tecnico, ad esempio, che – aderendo all’una o all’altra corrente di ‘critica artistica’ – si potrà includere od escludere la tal opera d’arte dal novero di quelle meritevoli di tutela; ma la mancanza di una oggettiva riconoscibilità di detto giudizio rende la valutazione (persino ontologicamente) non distinguibile dalla scelta, sicché l’opzione finirà per essere determinata dalla ‘fede’ culturale che si professa, anziché da una valutazione tecnica oggettivabile. Nell’ipotesi astratta, ed efficacemente esemplificativa, di V. Cerulli Irelli, Note in tema di discrezionalità cit., pp. 493-495, “se una sovrintendenza ai monumenti […] decide di avviare una ‘politica’ di assoggettamento al vincolo di cui alla legge del 1939 dei beni immobili ad esempio di fine ottocento, liberty, etc., compie una scelta di politica culturale, scelta la cui competenza è affidata come propria a quella amministrazione. Non compie invero un apprezzamento tecnico: il giudizio tecnico (datazione dell’immobile, attribuzione ad un certo

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architetto anziché ad un altro, etc.) costituisce la base, e in concreto il presupposto, per l’esercizio del potere di scelta”. E si può star certi che “si troveranno studiosi seri e attendibili che sosterranno, sulla base di serie argomentazioni di ordine scientifico, l’erroneità delle scelte stesse, che si tratta di ingenuità culturali, etc. E questi studiosi riterranno di essere portatori dell’interesse culturale coinvolto dalla scelta dell’amministrazione quanto meno allo stesso titolo dell’amministrazione stessa”: in tali casi il problema dell’interprete è “stabilire se la legge ha inteso conferire all’amministrazione un vero e proprio potere discrezionale (di scelta di politica culturale o tecnologica, etc., nel settore che presenta propriamente quella determinata valenza) ovvero ha inteso semplicemente assegnare ad essa un’attività di adempimento che si estrinseca in accertamenti e connessi apprezzamenti di ordine tecnico”; e nell’interpretazione bisognerà “guardare alla norma istitutiva del potere, se e in quali limiti essa ha affidato all’autorità amministrativa in un caso concreto la cura di uno specifico interesse pubblico ovvero dei meri compiti di adempimento e di attuazione della legge”.

[48] Così opina V. Ottaviano, Giudice ordinario e giudice amministrativo cit., pp. 429-430: “Tuttavia anche se le valutazioni dell’amministrazione avvengano unicamente sulla scorta di criteri tecnici, non perciò il giudice potrà rifare le valutazioni già compiute dall’organo che ha agito […] ritenere che il giudice possa sostituire il suo giudizio a quello dell’amministrazione significherebbe non tenere conto delle norme che così dispongono. Poiché tuttavia non può ammettersi che questa attività rientri in una sfera riservata all’amministrazione, non potendo sussistere una sfera siffatta che sarebbe sottratta all’osservanza del diritto, e quindi al sindacato del giudice, debbono individuarsi le modalità del riscontro che questo deve esercitare, le quali debbono permettere di accertare la sua conformità al diritto, senza d’altro canto invadere il campo dell’amministrazione”.

[49] Al fine di una maggiore comprensione della vicenda fattuale si può vedere Cons. Stato, Sez. VI, 22/9/2015, n. 4432, relativa alla medesima vicenda oggetto della sentenza richiamata nel testo, ed espressamente citata nella motivazione di questa, laddove il G.A. dichiara di respingere i motivi di appello “anche alla luce dei principi recentemente espressi su analoga fattispecie da questa Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza 22 settembre 2015, n. 4432”. Nella sentenza il G.A. chiarisce che “La procedura d’ammissione era per titoli ed esami. La prova d’esame consisteva in una prova scritta che prevedeva la soluzione di 110 quesiti a risposta multipla, ciascun quesito con quattro possibili risposte, ed era divisa in due parti. La prima parte, generale, comprendeva 70 quesiti, era comune a tutte le tipologie di scuola ed era stata calendarizzata per il 28 ottobre 2014, in più sedi. La seconda parte – che qui

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interessa – comprendeva 40 quesiti, 30 dei quali comuni a tutte le tipologie di scuola appartenenti alla medesima area, ma differenziati a seconda dell’area prescelta (area medica, area chirurgica, area dei servizi clinici). Il bando per l’ammissione (DM n. 612/2014) aveva previsto lo svolgimento della seconda parte della prova, relativa ai 30 quesiti d’area, il 29 ottobre 2014 per le scuole di area medica, il 30 ottobre per le scuole di area chirurgica e il 31 ottobre per le scuole di area dei servizi clinici. Erano inoltre contemplati 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola. Il 31 ottobre 2014, a seguito dei controlli di ricognizione finali sullo svolgimento dei test, il MIUR rilevava che nella somministrazione delle prove sui quesiti d’area del 29 e del 31 ottobre riguardanti rispettivamente le scuole dell’area medica e quelle dell’area dei servizi clinici si era verificata l’inversione dei quesiti delle prove del 29 ottobre con quelli delle prove del 31. Ai candidati che si accingevano a sostenere la prova dell’area medica erano state somministrate le domande dell’area dei servizi clinici, e viceversa. Dopo avere in un primo tempo annunciato di voler annullare e ripetere le prove coinvolte nell’errore determinato dal CINECA, il MIUR stabiliva di procedere alla validazione dei quesiti inclusi nelle prove dell’area medica e dell’area dei servizi clinici, considerando i quesiti rispettivi pertinenti rispetto ai criteri stabiliti dal bando, anche alla luce dell’inversione delle prove delle due aree segnalata dal CINECA. Le due prove d’area del 29 e del 31 ottobre venivano ritenute scientificamente aderenti ai criteri fissati dal bando d’ammissione e riconducibili in via diretta all’area medica (la prova del 29 ottobre) e all’area dei servizi clinici (la prova del 31 ottobre), tranne che per due domande per area, considerate non pertinenti. Queste ultime domande venivano neutralizzate (cfr. verbale della riunione della commissione nazionale del 3 novembre 2014). Per la prova dell’area medica del 29 ottobre, e per la prova dell’area dei servizi clinici del 31 ottobre, erano dunque ritenuti pertinenti 28 quesiti su 30, e non pertinenti due quesiti per ciascuna delle due prove. Il bando per l’ammissione alle scuole, all’art. 6, prevedeva, per la prova relativa alla seconda parte specifica d’area, l’attribuzione di un punto per ogni risposta esatta, di 0 punti per ogni risposta non data e la decurtazione di 0,30 punti per ogni risposta errata. Secondo quanto riferisce l’appellante, per effetto della neutralizzazione, a ciascun candidato veniva attribuito un punteggio pari a + 1,30 per ciascuna delle domande eliminate (“i ricorrenti espongono che … ad ogni candidato (veniva) attribuito il punteggio di 2,60 per le domande eliminate” – p. 1.1. sent., pag. 4). In realtà, dagli atti di causa non risulta con chiarezza se l’abbuono di punteggio per le domande neutralizzate sia stato effettivamente di punti 1,3 per ognuna delle due domande (ossia, più ancora di quanto ciascun candidato avrebbe avuto se la risposta fosse stata corretta), o di +1 per ciascun quesito. Ad esempio, a pag. 6 della sentenza del Tar n. 3926/2015, resa su controversia analoga, si legge che quale conseguenza delle neutralizzazioni “ad ogni candidato è stato attribuito un punteggio pari a +1 per entrambe le domande”“.

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[50] La tesi della neutralità della tecnica – sostenuta, ad esempio, da G. Azzariti, Brevi note su tecnici, amministrazione e politica, in Giur. cost., 1990, I, pp. 2713 ss. – si presenta, in realtà, assai pericolosa: siffatta neutralità infatti è (e non può che essere) soltanto presunta. Del resto, come scrive C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche cit., p. 227, “la valutazione tecnica è il tramite dell’imposizione (o della prevalenza) di certi valori rispetto ad altri […] i valori espressi dall’amministrazione sono (in via generale qualificabili come) più rappresentativi dei valori complessivamente espressi dalla società perché essi sono filtrati e influenzati dai valori dell’indirizzo politico”.

[51] Si può pienamente condividere, infatti, l’affermazione di E. Agazzi, Il bene il male e la scienza, Rusconi, Milano, 1992, p. 11, secondo il quale “il progresso dell’umanità si è realizzato mediante l’introduzione di utili, sagge e opportune regolamentazioni in molti campi in cui la loro assenza aveva condotto ad abusi, ingiustizie e pericoli per gli individui e per la comunità”. Peraltro, sebbene appaia inaccettabile il dominio incontrastato della scienza, ciò non autorizza a spingere verso la ‘antiscienza’: “La nostra società sembra essere passata dallo scientismo all’antiscienza, cioè dalla sopravvalutazione della scienza (e della tecnologia) come qualcosa di assolutamente e incondizionatamente buono in sé, alla considerazione della stessa come qualcosa di intrinsecamente e insanabilmente cattivo. Entrambi questi atteggiamenti” – secondo l’A. – sono “essenzialmente irragionevoli” (p. 10).

[52] Su questo profilo, G. Pelagatti, Valutazioni tecniche dell’amministrazione pubblica cit., p. 183, – citando in proposito C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche cit., – afferma: “Contrariamente all’autorità giurisdizionale […] l’autorità amministrativa esprime valori, opzioni, che – sia pure in modo non immediato – sono riconducibili all’indirizzo politico formulato dagli organi costituzionali. I ‘valori’ espressi dall’amministrazione, cioè, in quanto ‘filtrati e influenzati dai valori dell’indirizzo politico’ appaiono maggiormente rappresentativi, e quindi l’ipotesi di un potere riservato di valutazione tecnica risulta in questo modo fondata sul principio di democrazia e di rappresentatività”. In altre parole, “deve ritenersi doveroso per il legislatore in base agli artt. 24 e 103 della Cost., adottare un sistema di giustizia amministrativa che renda effettiva la tutela delle situazioni soggettive dei cittadini”, come sostiene V. Ottaviano, Giudice ordinario e giudice amministrativo cit., p. 440, il quale aggiunge che “Deve però dubitarsi che le esigenze di una giustizia amministrativa che sia tale, possano venire soddisfatte cancellando la diversità dei ruoli che spettano all’amministrazione

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e al giudice, ciò che importerebbe, fra l’altro, l’adozione di determinazioni amministrative da un organo non responsabile”.

[53] Come avverte E. Agazzi, Il bene il male e la scienza cit., pp. 17-18, bisogna considerare la “esistenza di una pluralità di valori, nessuno dei quali può pretendere di essere ‘assoluto’, nel senso di essere totalmente disgiunto dagli altri e tale da dover essere perseguito in sé e per sé, indipendentemente dal rispetto dovuto agli altri (nessun ‘relativismo’, si badi, è dunque implicito in questa posizione)”. Che “la visione della scienza come attività produttiva di verità, di certezze assolute” sia “inaccettabile alla luce delle acquisizioni della epistemologia contemporanea, che riconosce il carattere non assoluto della conoscenza scientifica” viene affermato anche da G. Pelagatti, Valutazioni tecniche dell’amministrazione pubblica cit., p. 169, il quale cita a sostegno l’autorevolissimo e decisivo contributo offerto sul punto da Karl Popper. Se ne deve concludere che quando si opera, comunque lo si faccia, e specialmente se si opera in sede di amministrazione pubblica, “sono necessari ogni volta dei giudizi di valore per determinare il modo corretto di agire”; e non pare dubitabile che “la scienza non rappresenta un’eccezione a questa regola generale”, dovendo pertanto “esser guidata da scelte ispirate da giudizi di valore, che debbono prendere in considerazione la pluralità dei valori” (così ancora E. Agazzi, Il bene il male e la scienza cit., loco cit.). E l’unico modo per praticare nella società complessa contemporanea un siffatto assunto conclusivo pare proprio quello di affidarsi al soggetto esponenziale della comunità.

[54] Quando versi in situazioni siffatte, peraltro, la P.A. deve comunque scegliere rifacendosi a criteri tecnico-scientifici, sia che si trovi nella fase preliminare alla scelta (e cioè nella fase dell’accertamento dei presupposti), sia che si trovi nella fase finale avente ad oggetto la scelta della soluzione da adottare per il contenuto provvedimentale: nell’uno e nell’altro caso, la scelta deve necessariamente tener conto degli elementi tecnico-scientifici che connotano l’azione amministrativa, e in nessun modo può prescindere da essi.

[55] Sembra fare eccezione (ma a ben vedere non è proprio così, visto che, comunque, il giudice afferma sì la sindacabilità delle valutazioni tecniche compiute dalla P.A., ma in ordine alla verifica della loro attendibilità, e non alla loro condivisibilità) Cons. Stato, Sez. IV, 9/4/1999, n. 601, secondo cui “è ragionevole l’esistenza di una “riserva di amministrazione” in ordine al merito amministrativo, elemento specializzante della funzione amministrativa; non anche in ordine all’apprezzamento dei presupposti di fatto del provvedimento

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amministrativo, elemento attinente ai requisiti di legittimità e di cui è ragionevole, invece, la sindacabilità giurisdizionale. Il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici può svolgersi, allora, in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì invece alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo. Non è, quindi, l’opinabilità degli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione che ne determina la sostituzione con quelli del giudice, ma la loro inattendibilità per l’insufficienza del criterio o per il vizio del procedimento applicativo […]. Quando la tecnica è inserita nella struttura della norma giuridica, l’applicazione di un criterio tecnico inadeguato o il giudizio fondato su operazioni non corrette o insufficienti comportano un vizio di legittimità dell’atto di riconoscimento o di diniego”.