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VENEZIA, LA FABBRICA DELLA CULTURA Fabio Isman Marsilio Editori 1998

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VENEZIA, LA FABBRICA DELLA CULTURA

Fabio Isman

Marsilio Editori1998

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4.1) Interi quartieri e paesi senza nemmeno un cinema

Oggi, in un luogo dove, oltre a tutto, circolare, specie per gli anziani, non è propriamente facilissimo (anche perché, come se il resto non bastasse, «le calli veneziane sono poco – e male – illuminate: non so se per accrescerne il fascino, per risparmio, o per incuria» 16), interi quartieri sono privi di una qualunque sala da cinema: così Castello, San Polo, parte di Dorsoduro, l’intera Giudecca; o, in terraferma, Favaro, o Pellestrina e Ca’ Savio. E in terraferma, quanto esiste è soprattutto insediato a Mestre: anche grazie alla capacità e al dinamismo di un gestore privato, anzi di una famiglia che si tramanda quest’attività di padre in figlio. Perché, e non è soltanto un bisticcio di parole, l’antica città del cinema è rimasta senza i cinema. E stiamo parlando del luogo di spettacolo che era il più diffuso, il più popolare, presso la gente di ogni ceto e livello sociale; che non richiede nemmeno abiti particolari (come invece una soirée a teatro, o a un concerto); che, al contrario d’altre forme di intrattenimento, fondate su una rappresentazione soltanto, cui bisogna assistere spaccando il minuto, permette, tra i diversi orari, di scegliere quello più confacente alle private esigenze individuali.Ma Venezia è invecchiata; e gli anziani stentano, specie di notte, perfino ad avventurarsi oltre le mura domestiche: «Nessuno in giro, tanto per cambiare, alle otto di sera», annota ancora Paolo Barbaro 17. E aggiunge: «“La sera a Venezia”, mi chiedono al telefono gli amici milanesi, “cosa si fa la sera a Venezia? Festival Biennale, mostre, teatro: sarete sempre in giro”. In certi periodi, ammetto, c’è anche troppo da fare, da uscire, da vedere; ma sono periodi brevi, casuali. Il resto dell’anno, poco o niente: i cinema sono un disastro, i trasporti difficili» 18. L’editore Cesare De Michelis, nei panni del “testimone del tempo”, dice: «Le sale sono diventate, quasi tutte, dei supermercati; soltanto qualcuna è adibita ad altri usi culturali. C’è stata una moria progressiva; e i pochi locali rimasti, spesso sono assai poco invitanti: malmessi, con sistemi di proiezione cui ormai il progresso tecnologico ci ha da tempo disabituato. Se a Mestre esiste un bravo imprenditore, nel centro storico di Venezia è rimasto quasi soltanto il Comune» 19.Ne riparleremo. Perché prima è forse il caso di occuparsi di una tra le maggiori glorie veneziane, la cui fama è oggi affidata soltanto al passato ed al ricordo: anche quello dell’evento assolutamente terribile che l’ha fatta perire. Mentre il presente rischia invece di trasformarsi in un grave scandalo nazionale. Ed il cui futuro, purtroppo, appare rimesso più alle mani degli dei, che a quelle dell’uomo. Logicamente, stiamo parlando del Teatro (anzi, “Gran Teatro”) La Fenice, pressoché totalmente bruciato nella bruttissima notte tra il 29 ed il 30 gennaio 1996. Dopo 204 anni di onoratissima attività, ed a 129 e poco più di un mese da un altro incendio, dal quale però risorse in un solo anno (era il 1837, e in soli sette mesi provvidero alla ricostruzione gli ingegneri Tommaso e Giambattista Meduna). E stavolta, invece, rimasto, da allora, soltanto un lodevole progetto di ricostruzione “dove era e come era”, per citare il fortunato slogan che, allora accompagnato anche dall’emissione di uno speciale francobollo, anche divenuto – con il tempo – abbastanza raro, nel decennio tra il 1903 e il 1912 fu alla base della riedificazione del campanile di San Marco, crollato la mattina del 14 luglio 1902.E in questo suo attuale disastro, la Fenice, ahinoi, non è certamente sola: anzi, è in ottima e numerosa compagnia. Il nostro paese è infatti ben disseminato di, diciamo così, croci e lapidi teatrali. Un “qui sorgeva” (e non è stato ancora ricostruito), che fa davvero stringere il cuore. A Bari, il Petruzzelli è andato in fiamme ormai una decina di anni fa, il 27 ottobre 1991, e non è ancora stato restituito; come, ad Ancona, il Teatro delle Muse, colpito da una bomba durante l’ultima guerra. A Milano versa, o giace, in analoghe condizioni, e sempre dopo essere stato bombardato in tempi bellici, il Dal Verme. Palermo, invece, ha più o meno riavuto il proprio Teatro Massimo; ma per questo, ha dovuto attendere circa un quarto di secolo; mentre invece, a Genova, per il Carlo Felice ce n’è voluto quasi mezzo. E, a Roma, anche la costruzione dell’Auditorium di Renzo Piano è in ritardo di un paio d’anni e imbarazza la Giunta Rutelli che ha dovuto rescindere i contratti con le imprese. Per carità, evitiamo la caccia al colpevole: già Franz Kafka (1883-1924) scriveva che «i ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata». Deve essere assolutamente vero, almeno per il nostro paese: perché, in Spagna, Barcellona ha ricostruito il suo Liceu, analogamente combusto, dopo soli cinque anni e mezzo dacché, il 31 gennaio 1994, era andato letteralmente in fumo per la scintilla di un saldatore.La Fenice, invece no. E l’impasse del suo cantiere, mentre scriviamo ormai fermo da mesi e mesi, è quasi emblematica di un certo immobilismo veneziano; dei tempi lunghi che la città

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possiede. Forse, da sempre e un po’ in tutto, come talora capita alle “città d’acqua”, dove il passo del pedone non cambia di velocità con il progredire della tecnica. Sta di fatto che una prima aggiudicazione del concorso, secondo il progetto di ricostruzione messo a punto da Gae Aulenti, è stata revocata quando già il cantiere era entrato in funzione; il secondo classificato, che a quel punto è diventato il primo, era il progetto di un architetto che, purtroppo, se ne era da poco andato, Aldo Rossi; e il tutto si è impantanato nei ricorsi e controricorsi alla giustizia amministrativa da parte delle tre ditte interessate ad eseguire i lavori 20.Eppure, a Venezia il proprio teatro è assolutamente indispensabile; come stia cercando di surrogarlo finché attende di riaverlo, lo esamineremo più avanti; ma “quel” teatro è pedina fondamentale e irrinunciabile per una città che non è certamente la più indicata ad ospitare fabbriche ed attività comunque materiali; e che senza il teatro ben difficilmente potrebbe aspirare a diventare non soltanto, ancor più che lo sia oggi, una capitale perfino europea della cultura; ma addirittura un grande “capoluogo dell’immateriale”. Cioè, appunto, anche dello spettacolo; e ancor più, perché nessun altro luogo al mondo può forse offrire, quanto questa città, un contesto e uno scenario altrettanto unici ed appetiti. Del resto, questo è anche il trend della stessa economia cittadina che, percentualmente e nel decennio tra il 1981 e il 1991, ha visto contrarsi dal 37,71 al 30,64 per cento i settori della produzione materiale (la parte del leone è costituita dalle attività manifatturiere, passate dal 29,68 al 22,89 per cento); e, per converso, dilatarsi invece dal 62,29 al 69,36 21 quelli della produzione immateriale: il commercio segna invece percentuali positive attorno al 25 per cento; gli alberghi e i ristoranti attorno al 15.Quindi, l’industria dello spettacolo, di cui sicuramente beneficiano i cittadini residenti, ma che è anche in grado di attirare il segmento migliore del turismo, quello d’élite, più colto, che più spende e più a lungo soggiorna, può ancora costituire una valida risorsa per la città: purché venga, con qualche celerità e secondo i criteri più opportuni, debitamente rivitalizzata. Non è certamente ipotizzabile un ritorno ai tempi gloriosi in cui il Carnevale durava per sei mesi (e monsieur François-Marie Arouet, detto Voltaire, fa incontrare il suo Candide con un’intera tavolata di re, venuti appunto a Venezia per trascorrervi questa festa: perché già nel 1640 lo scrittore inglese John Evelyn, il cui Diario di viaggio in Francia e in Italia fu però pubblicato solo nel 1818, aveva annotato che «il mondo intero si rifugia a Venezia per vedere le stravaganze e le follie del Carnevale»); ma in qualcosa si può comunque, e soprattutto si deve, sperare.Se, da un lato, le istituzioni della città che si occupano, di cultura e spettacolo, vanno sicuramente rivitalizzate, dall’altro, va organizzata, e forse maggiormente ripensata e coordinata, una “politica degli eventi”, che pur potendosi giovare di quell’innegabile “teatro” (e non soltanto “quinta”) che la città lagunare è, non lo riduca a puro sfondo. Infine, un occhio di particolare riguardo lo meritano certamente i servizi e le nuove tecnologie – come la “multimedialità”, ma non soltanto – che costituiscono gli scenari di un domani ormai nemmeno più troppo futuribile. Per limitarci soltanto a un piccolo esempio, oggi, Venezia, dove (racconta sempre Roberto Ellero, che con passione le raccoglie nella cineteca intitolata a Francesco Pasinetti) «sono state girate oltre mille pellicole cinematografiche», non ha addirittura neppure la possibilità tecnica di svilupparne una.

16 Paolo Barbaro, Venezia, l’anno del mare felice, Bologna, Il Mulino, 1995 (Intersezioni).17 Barbaro, La città ritrovata, cit.18 Ivi.19 Colloquio con l’autore, febbraio 1999.20 Si veda, ad esempio, Alessandra Carini, Rinasce il Liceu di Barcellona, ma per la Fenice ancora si litiga, «La

Repubblica», 8.10.1999.21 Musu, Ramieri, Cogo, Indicatori di sostenibilità, cit.

4.2) Una “politica degli eventi”; ma con tanta saggezza

Infine, un discorso a parte meritano gli eventi veneziani. Per essi, la città, un tempo, andava famosa. Famosissima. Era rinomata in tutto il mondo e, allora almeno da tutta l’Europa, le sue solennità e le sue feste attiravano i viaggiatori ed i turisti. Oggi, lo vedremo, molto di meno. Eppure, piaccia o non piaccia, i nostri tempi sono ormai assai pervasi di spettacolarizzazione. «Negli ultimi dieci anni, un fenomeno sembra caratterizzare la scena urbanistica internazionale: la concentrazione, temporale, spaziale e tematica, degli sforzi delle politiche municipali su

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happenings, su grandi eventi. Progetti o azioni, cioè, basati su un grande concorso di folla. Richiamata da occasioni tra loro diversissime»: questo era l’incipit di un volume ormai già vecchio di sei anni 22. E così, il nostro paese ha giocato, e indubbiamente perso, la partita dei mondiali di calcio nel 1990 (investimenti per oltre seimila miliardi 23, che hanno lasciato una scia di problemi, non solo giudiziari: dalle stazioni ferroviarie inagibili a Roma, agli stadi in cui piove, o dalla gestione troppo costosa), ed ora si misura con il Giubileo, dopo aver tentato in due casi, e in uno perduto, perfino la carta delle Olimpiadi.Gli eventi, almeno quelli di cultura e di spettacolo, possono essere ripartiti in due grandi categorie di massima: quelli una tantum, e quelli ripetibili, perfino periodici. Ma si possono anche catalogare a seconda dei benefici che recano, o dei pesi che infliggono; per il grado maggiore, o minore, di integrazione con alcune caratteristiche del luogo stesso dove avvengono; per la quantità d’interesse e di concorso popolare che, verosimilmente, sono in grado di calamitare. Il medesimo evento, trasferito di luogo, non sarà mai lo stesso: potrà anche clamorosamente fallire, o essere del tutto incompatibile; portare cioè più danni che non vantaggi.Venezia ha sicuramente bisogno di eventi, per coinvolgere (o, ancor meglio, attirare) il grande turismo. Quindi, deve riuscire a produrre episodi, fatti, spettacoli assolutamente memorabili, o per il loro valore intrinseco, o per la cornice, irripetibile, in cui sono inseriti: nessuno si sposta per vedere ciò di cui già dispone sotto casa; soltanto le occasioni eccezionali attirano ormai il pubblico. E forse solo così la città può sperare di accrescere la platea che offre agli impresari di spettacolo; soltanto così aumentare il suo appeal: ricordandosi che, prima ancora di un luogo in crisi demografica, è un gran teatro del mondo. Irrobustire le sue istituzioni che presiedono agli spettacoli, e di questo si curano, è certamente doveroso, per le difficoltà non da poco con cui numerose di esse sono costrette a misurarsi; ma, comunque, non sarebbe sufficiente a mutare il volto del centro storico. Anche un’efficace “politica degli eventi”, da sola forse non basterebbe; ma, certamente, almeno aiuterebbe un po’.C’è un caso recente che, per quanto può essere paradigmatico, vale forse la pena di sviscerare: nel marzo 1999, l’ente lirico di Cagliari, che dei 13 riconosciuti come nazionali è certamente il più periferico e il più piccolo, almeno per quanti contributi riceve dallo Stato (e di gran lunga: 12 miliardi all’anno, e, subito dietro lui, c’è l’Accademia nazionale di Santa Cecilia, che tuttavia è un ente sinfonico; non deve cioè sopportare i costi degli allestimenti), ha realizzato, per le capacità e l’impegno del sovrintendente Mauro Meli, due concerti di colui che oggi è ritenuto il massimo direttore d’orchestra, Carlo Kleiber, il quale, per giunta, usa esibirsi davvero assai di rado. Ebbene, il nome del teatro e della città sono finiti in tutti i notiziari, anche internazionali, specializzati e non; a Cagliari sono perfino appositamente giunti una cinquantina di spettatori dal Giappone (dove Kleiber è assolutamente osannato: in Internet, una ventina di siti giapponesi gli sono dedicati); un centinaio da tutt’Europa; più altre centinaia da fuori città e dal continente. È stato, appunto, un grande evento musicale. Che se Venezia avesse avuto la forza e la possibilità di organizzare, sarebbe forse stato perfino ancor più “epocale”.Invece, nell’ex Serenissima, parlare di eventi significa essere subito guardati, comunque, con immenso sospetto. Forse perché, negli ultimi anni, alcuni di quelli programmati, o realizzati in laguna, sono stati molto pubblicizzati (hanno cioè ottenuto l’effetto su cui contavano); ma, certamente, ancor più discussi o criticati. Dalla (mancata) Esposizione universale, al celebre concerto dei Pink Floyd ormai undici anni or sono (15 luglio 1989). Altri, invece, sono stati guardati sicuramente con miglior favore: dal ritorno in grande stile del Carnevale, fino alla recente recita, in diretta tv, del Milione di Marco Paolini all’Arsenale. E poi, ci sono i festival e le esposizioni della Biennale, che costituiscono, essi stessi, sempre e comunque altrettanti eventi; nonché le feste tradizionali legate alla città, e le manifestazioni, folkloristiche o sportive, che ospita ormai con continuità.Cominciamo proprio dai due casi che maggiormente hanno fatto discutere, cioè l’Expo, programmata per il 2000 e mai realizzata, e il concerto in laguna del complesso rock più famoso, o quasi, del momento. Intanto, diciamo subito che, negli ultimi dieci anni, non soltanto Venezia ha in pratica rifiutato l’Expo, ma anche Parigi e Vienna 24. E che Venezia difficilmente è in grado di reggere ad assalti del turismo ancor più pronunciati di quanti, già ora nei giorni topici, subisce. Ma diciamo anche che l’idea originaria, di un’esposizione diffusa nell’hinterland, magari accompagnata da severi calmieri per ridurre l’accesso al centro storico della città (ma quali? Finora, non ne sono mai stati adottati), forse non è stata abbastanza spiegata, oppure capita. E che, in più, il progetto scontava sicuramente l’immagine negativa recatagli da un personale

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politico già in quel periodo abbondantemente discusso e sicuramente non troppo amato.Diverso, invece, il concerto in laguna dei Pink Floyd, soprattutto perché non è stato soltanto progettato, ma anche realizzato. Oggi, un osservatore attento dei fenomeni cittadini come Cesare De Michelis, dice che «forse, poteva perfino essere compatibile con la città; certo è stato malamente organizzato, e da qui sono nati molti dei problemi». E Piero Rosa Salva, assessore al turismo, rincara la dose: «È stato un problema di tipo organizzativo; a Venezia, volendo, si può fare di tutto: riusciamo anche a far correre una maratona. Ma, in quel caso, furono commessi parecchi errori; anche se ora basta: è un infarto lontano, guardiamo al futuro» 25. All’inizio, nonostante le polemiche delle associazioni ambientali e di difesa della città alla sua vigilia, il concerto dal pontone in Bacino, davanti a San Marco (come abbiamo visto, non certo un inedito: già nel Cinquecento v’erano stati teatri simili, e ancora Cesare De Michelis ricorda d’aver assistito ad una performance di danza negli anni ottanta) ebbe un’accoglienza assolutamente positiva. Titoli come: «Un sogno nell’acqua, una scenografia da primi nel mondo», o «Venezia si tinge di rock» 26. Ma dopo, quando si vide che la città aveva retto abbastanza male all’invasione di 150 mila turisti, per nulla (o quasi) organizzati, incanalati, perfino accuditi o serviti, cominciarono i guai. Perfino il manager del gruppo inglese, Steve O’ Rourke, ebbe da ridire sull’«abbandono degli organi pubblici preposti alla gestione della città e di ogni elementare servizio di sicurezza, igienico e sanitario» 27; e l’evento divenne un caso di scuola, su cosa si deve evitare per non «ferire i centri storici» 28. Assurse, insomma, ad emblema dell’evento sbagliato.

22 Grandi eventi, la festivalizzazione della politica urbana, a cura di Marco Venturi, Venezia, Il Cardo, 1994 (Saggi).23 Ivi.24 Vittorio Gregotti, La città europea oggi, in Principi e forme della città, Milano, Libri Scheiwiller (Garzanti per il Credito

Italiano), 1993.25 Al dibattito su Lo spettacolo a Venezia, cit.26 «Il Messaggero», 15 e 16.7.1989, p. 19. Il quotidiano, all’epoca, apparteneva a Raul Gardini, che aveva grandi idee e

mire sulla «Venezia degli eventi», come del resto dimostrò la stessa vicenda del Moro di Venezia.27 Vedi notiziario Ansa, nn. 415/0B e 430/0B del 16.7.1989.28 «Panorama» n. 1215, 30.7.1989, p. 38, servizio di Maria Laura Rodotà.

4.3) Tante feste, e per tutti i gusti (ma con meno pubblico)

Eppure, quel 15 luglio di dieci anni fa non era soltanto il giorno dei Pink Floyd; ma anche quello del Redentore. Cioè di una tra le più antiche e sentite feste veneziane, che celebra la fine della terribile peste del 1577. In quel giorno, la Giudecca cessa di essere un’isola, grazie a un ponte di barche fino alla chiesa, appunto, del Redentore: la prima volta, accadde nel 1578, con la partecipazione del doge in testa. Perché quella delle feste è un’antichissima tradizione veneziana; ogni occasione era buona per celebrarne una. Alcune sono sopravvissute ancora oggi, e spesso sono buone perfino per i turisti, oltre che magari sentite e vissute dai cittadini. Così, per esempio, si comincia con la Regata delle Befane, la prima dell’anno in Canal Grande, con tutti i gareggianti, logicamente, travestiti come occasione impone. Poi, a febbraio, è la volta del (ritrovato) Carnevale, di cui parleremo più esaurientemente tra breve. A maggio, la Vogalonga, che forse non ha radici né rituali né antichissime, ma è ormai diventata un “classico”: trenta chilometri, in città e in laguna. Nel medesimo mese, la Sensa, cioè l’Ascensione, la più antica di tutte poiché risale all’anno 998, al ritorno vittorioso delle navi partite per conquistare la Dalmazia, e centomila persone invadono la città (già nel Settecento, quando Venezia era la Ville lumière dell’Europa intera, ne soggiornavano trentamila, e allora il turismo “mordi e fuggi” non esisteva ancora).Precede dunque il Mille la tradizione per cui il doge, che assisteva all’apertura delle celebrazioni in Basilica (esposti pala d’oro e tesoro) dallo stesso pergamo su cui Enrico Dandolo aveva arringato i Crociati nel 1204 (ma quanti simbolismi e quanti ritorni), si recava sul Bucintoro fino a San Nicolò del Lido, per gettarvi in mare l’anello che simbolizza – come vogliono molti studiosi – il dominio sul mare. Oggi, invece del doge, provvedono a sposare la città con il mare sindaco e patriarca: le autorità laica e religiosa della città. E un veneziano doc, come Sandro Cappelletto, dissente 29 dall’interpretazione: «Non “ti domino”: questa è una lettura tutta ottocentesca, borghese e falsa della festività. La festa della Sensa è la riconciliazione con il vero signore della città, e cioè con l’acqua, con il mare, e non l’affermazione di un dominio. Il gesto non è

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equivocabile se non ideologicamente: io ti ridono l’oro, ti ridono l’anello; come nel Ring di Wagner, nel prologo dell’Oro del Reno: quello che Alberich ha strappato al fiume».Ma andiamo avanti con il calendario: da giugno a settembre, la Biennale. Sempre a settembre, la Regata storica, la più importante delle cento che si svolgono in città e in laguna, Bucintoro in testa nella sfilata per ricordare l’arrivo di Caterina Cornaro, regina di Cipro, 1489, in cui per la prima volta si celebrò l’evento. Poi, le caorline e i gondolini a due remi, i “pupparini”, tutte le imbarcazioni immaginabili e possibili, impegnate in competizioni che terminano alla machina, davanti a Ca’ Foscari. A ottobre, la Festa del mostro, nell’isola di Sant’Erasmo; ma soprattutto l’affascinante percorso lungo il Brenta e le sue ville fino in Piazza San Marco, della Venice Marathon, “classica” di 42 chilometri e rotti, che anche New York possiede (e nessuno, finora, ce l’ha fatta a eguagliarla), ed ormai pure Roma e tante altre città: ma il “contesto”, come avrebbe detto Leonardo Sciascia, qui è assolutamente irripetibile. Il 21 novembre, tocca invece alla Madonna della Salute (1630: un’altra peste, un altro ponte di barche, un’altra processione da San Marco). Ma poi, Su e zo per i ponti, un’altra kermesse podistica per la città, ad aprile la festa patronale di San Marco con il tradizionale bocolo, scambio di bocciolo di rosa 30, e tanti altri eventi o manifestazioni ancora.Per i più, tuttavia, Venezia e la festa, Venezia e lo spettacolo popolare, significano assolutamente Carnevale. Celebrazione, abbiamo visto, antica; il cui nome deriva forse da carnem levare, abbandonare la carne, poiché nella Serenissima, dal 26 dicembre fino al martedì grasso, era lecito qualsiasi travestimento, e la “bautta” (tricorno nero, mantella e maschera) veniva indossata, indifferentemente, da uomini e donne; nei giorni di festa e, dal 5 ottobre al 16 dicembre, soltanto di pomeriggio. Insomma, era Carnevale per ben «sei mesi: tutti, anche i preti, i guardiani dei cappuccini, le suore, i piccoli, la gente che va al mercato, portano la maschera; si vedono passare delle processioni di gente travestita in costumi da francesi, da avvocati, da gondolieri, da calabresi, da soldati spagnoli, con danze e strumenti di musica; il popolo le segue, applaude o fischia, libertà totale» 31. Pietro Longhi, ritraendoli, ci ricorda che venivano anche portati in città, ed esposti per essere ammirati dalla gente che lui infatti immortala in maschera, perfino elefanti e rinoceronti. «La maschera era un capo d’abbigliamento quotidiano, il rito teatrale occupava un posto la cui importanza era riconosciuta anche dalle autorità ecclesiastiche» 32.E, anche qui, la festa ha un ben solido legame con la storia della città: «L’importanza del Carnevale veneziano deriva da una sua precisa connotazione ufficiale. Il giovedì grasso, che ne è il momento centrale, è dedicato alla commemorazione della vittoria del doge Vitale Michiel ii sul patriarca Ulrico di Aquileja, che aveva assalito Grado nel 1162» 33. Catturato con 12 dei suoi canonici; e da allora, arrivavano come tributo, venendo sgozzati mentre il doge abbatteva modellini di chiese e fortezze, un toro e dodici maiali; poi, i castelli friulani (ormai diventati tutti veneziani) furono risparmiati; ma il toro, invece, no: continuò a lungo, ogni anno, ad essere decapitato. Forse è proprio questo legame con la storiografia ufficiale che consigliò Napoleone di abolire la festa: verrà ripristinata soltanto nel 1970, e troverà la sua consacrazione dopo la memorabile edizione organizzata da Maurizio Scaparro nel 1980. Ricorda il regista: «Il successo fu determinato da molteplici fattori. Era anche il periodo del terrorismo, e riprendersi la piazza con una festa aveva qualche significato. Rammento che, prima d’allora, gli alberghi, in quella stagione, erano quasi tutti chiusi; e i motoscafisti emigravano, o svernavano, a Monaco. Il segreto di quel successo? Unire tre piccole parole, ciascuna delle quali, presa in sé è normalissima e anzi quasi “sdata”, e creare un trinomio: Carnevale, Venezia, Teatro. Senza una delle tre, il gioco non regge; se si mettono insieme soltanto Carnevale e Venezia, si pensa a Paganini; Carnevale e Teatro, da sole non bastano». In più, spiega sempre il regista, «c’erano tutti gli ingredienti che, da sempre, hanno fatto sia il Carnevale, che il Teatro: la parola, il gesto, il trucco, eccetera». E, evento nell’evento, il Gran Teatro del Mondo di Aldo Rossi, galleggiante, «che salutammo mentre partiva per andare fino a Dubrovnik, l’antica Ragusa» 34.Scaparro ha anche spiegato in un libro 35 le ragioni di questo suo Carnevale: «Per il teatro, la Biennale aveva a disposizione appena duecento milioni, il costo di qualunque festival di provincia»; ora, ribadisce che «qualsiasi evento deve riguardare le radici del luogo che lo ospita, non può esserne avulso»; e gli piace sottolineare che a Parigi, al suo nuovo “teatro degli Italiani” ha voluto ricostruire il modellino e ricomporre i progetti del galleggiante teatro dell’ormai scomparso Aldo Rossi. Un tributo, e un ricordo, forse una nostalgia. Rileggiamo Zorzi 36: la festa prevedeva perfino «lo svolo del Turco ed elaborate momarie», giostre, cacce, figuranti, fuochi d’artificio, gioco d’azzardo, teatro: ce n’è un’abbondante casistica. Ed era poi la stagione dei balli:

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un diarista notava amareggiato che non si rinunciava a festeggiare «con tanta allegria e bagordo» nemmeno nei giorni più difficili della guerra contro la Lega di Cambrai.E adesso? Ormai, l’esperimento Scaparro ha fatto decollare di nuovo la festa; nei giorni di Carnevale, non si trova un posto in albergo; ogni fine settimana sono almeno centomila persone, feste nei palazzi, sensi unici per i pedoni nelle calli principali e più affollate; ancor più negli ultimi anni, oltre ai mille spettacoli grandi e meno grandi, e alle mille esibizioni (a cominciare dalla “Festa delle Marie” che apre le celebrazioni partendo da San Pietro a Castello, luogo del primo rilevante insediamento veneziano, e anzi sua antica basilica), anche tante feste nei quartieri (assai più spontanee), e per la prima volta due anni fa, «un nuovo terminal, uno in più per i turisti, alla stazione marittima, che ha mostrato tutta la sua validità; perfino troppi i bagni pubblici predisposti», nota l’assessore Rumiz. E spera, in futuro, di poter contare «anche sull’intervento della Biennale»: ne riparleremo.È vero, come dice Cesare De Michelis, che «in assenza del teatro, l’unico prodotto che il Carnevale lascia è l’artigianato delle maschere»; e che «a Campalto ci sono perfino i carri, come a Viareggio; qui non vengono forse soltanto perché ci sono i ponti, e non riuscirebbero»; ma ormai, la festa è diventata un appuntamento cui sarebbe impossibile rinunciare. Forse, organizzarlo di più, farlo diventare qualcosa di più “alto”. Dice un altro regista che ama molto Venezia, Marco Paolini 37, che gli ingredienti irrinunciabili di un evento sono tre: uno spettacolo preparato per tempo e con cura; un contesto, e lui ha scelto l’Arsenale, «luogo misterioso e potente»; e la festa: cioè i contributi volontaristici di organizzazioni e privati, che diventano co-artefici dell’evento stesso; per lui, è l’“indotto”, cioè un corollario di relazioni, che decide, o meno «l’appartenenza a una città». E a questo indotto bisognerebbe dare maggior spazio.Piero Rosa Salva è d’accordo sulla tipicità dell’evento veneziano: «Se Venezia, come dice De Rita, è vittima del suo essere speciale, questa caratteristica va ancor più esasperata. Il centro storico è un laboratorio in cui inserire le politiche; non ha senso immaginare la gestione, degli eventi o del teatro, come viene fatta nelle altre città. A Venezia, e non solo nel suo centro storico, vanno immaginati eventi che non siano la scopiazzatura di format provenienti da altri luoghi. Ci stiamo provando anche con il Salone dei beni culturali, riqualifichiamo spazi dimenticati, dall’Arsenale al Porto. Forse, occorrerebbero più sinergie tra i tre Carnevali di Venezia: quello teatrale, quello di strada e quello evento. L’importante è tener conto che, per ogni location, lo spettacolo, l’evento, deve essere adeguato al luogo» 38.Dunque, Venezia ha bisogno di eventi: grandi spettacoli che utilizzino il suo scenario naturale e il suo estremo appeal (ci fosse stata ancora la sala della Fenice, e la città, soprattutto, fosse stata capace di organizzarlo, un concerto di Kleiber in laguna avrebbe certamente ottenuto ancora maggior riscontro di quanto, ed è stato sicuramente tanto, non ne abbia avuto a Cagliari); eventi che abbiano relazioni strette e diremmo quasi intime con la città stessa. Da questo punto di vista, il Milione di Paolini all’Arsenale è stato sicuramente un esempio che rasenta la perfezione degli ingredienti; e lo stesso Arsenale, luogo fin troppo dimenticato, può diventare un luogo in grado di ospitare non uno soltanto, ma mille possibili occasioni. Quella di Paolini è stata soltanto una delle tante, delle infinite idee possibili, come infiniti, a Venezia, possono essere i luoghi. E quasi tutti, luoghi ed eventi possibili, ancora da esplorare.

29 Nel dibattito Lo spettacolo a Venezia, cit.30 Carlo Autiero, Guida alle feste popolari in Italia, Roma, Datanews, 1990.31 Hippolyte-Adolphe Taine, Viaggio in Italia (1866), in Hersant, Italies, cit.32 Sforza, Grandi teatri italiani, cit.33 Zorzi, La vita quotidiana a Venezia, cit.34 Colloquio con l’autore, gennaio 1999.35 Paolo Emilio Poesio, Maurizio Scaparro, l’utopia teatrale (1987), Venezia, Marsilio, 1995 (I giorni).36 La vita quotidiana a Venezia, cit.37 Comunicazione inviata al dibattito su Lo spettacolo a Venezia, cit.38 Nel dibattito su Lo spettacolo a Venezia, cit.

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5) CINQUE MODI DI “DIVERTIRSI”. TEATRI, ARTE, CINEMA, SPORT E TV: QUANTO SI SPENDE A VENEZIAQuella dell’industria dello spettacolo è una crisi italiana, e forse non solo: Venezia ne è particolarmente colpita, ma coinvolge l’intera penisola. Pochi dati per confermarlo: nell’ultimo mezzo secolo, l’incidenza della spesa per gli spettacoli sul prodotto interno lordo, calcolata in lire correnti, è passata dall’un per cento ad un misero 0,38 1. Negli anni cinquanta, assorbiva un quarto (e anche più) di tutti i consumi ricreativi e culturali; mentre oggi supera a stento la quota del sette per cento di essi 2. Dall’1,39 per cento delle spese di ogni famiglia, si è più che dimezzata, riducendosi allo 0,60.Dal 1970, calcolandolo in lire 1990, il prodotto interno lordo in Italia si è raddoppiato 3; i consumi sono lievitati ancora di più 4; le spese per le attività ricreative e culturali, aumentate del 165,7 per cento 5. Ma quelle per gli spettacoli sono invece cresciute appena di un terzo 6. Cioè, registrano una notevole perdita relativa: una grave recessione, che, per giunta, non dà segni di ripresa. Il settore è maturato fino a metà anni settanta; poi, una serie di esercizi negativi; una nuova impennata, all’inizio anche sensibile, nella seconda metà degli anni ottanta; infine, di nuovo crisi, statistiche e rilevamenti di segno negativo, anche un paio di punti all’anno.Sempre valutando i dati in termini reali, cioè a lire costanti, il comparto più penalizzato, dei cinque in cui si suddivide il settore dello spettacolo (attività teatrali e musicali; cinema; sport; trattenimenti vari; abbonamenti radio-tv), è quello del “grande schermo”. Dal 1950 ad oggi, la spesa del pubblico per il cinema si è infatti pressoché dimezzata: da 1.222 a 709,5 miliardi (ma nel 1996, era scesa perfino a 658 7).Quella per il teatro e per la musica è invece passata da 140 a 515 miliardi: una crescita inferiore ad altri comparti. Frattanto, infatti, le erogazioni per gli abbonamenti alla radio e alla tv si sono più che decuplicate (da 147 a 1.875,8 miliardi); e se negli anni cinquanta il video era più una speranza che una realtà, solo dal 1970 al ’97 gli introiti da abbonamento sono lievitati da 1.153 a 1.875,8 miliardi 8. Oggi, gli italiani dedicano al cinema una fetta delle loro entrate non molto superiore a quella per la musica ed il teatro, e per lo sport; ma è poco più di un terzo di quella destinata invece ai “trattenimenti vari” (flippers e videogiochi, ballo, mostre e fiere, feste in piazza ecc.), oppure agli abbonamenti radiotelevisivi. E questo, solo perché nel ’97 c’è stato un certo miglioramento: nel 1996, infatti, era ancor peggio.È impressionante notare, come – sempre stando alle statistiche della Società italiana autori ed editori – se dal lontano 1936 le spese pro capite per musica e teatro si sono quasi quadruplicate, quelle per lo sport sono cresciute addirittura di quasi 14 volte, e perfino di oltre 17 quelle per “trattenimenti vari”, invece l’esborso medio di un cittadino italiano per il cinema è aumentato, in ben 60 anni, nemmeno del dieci per cento; cioè, in pratica, non è mutato, perdendo abbondantemente consistenza 9.Eppure, l’Italia degli anni cinquanta spendeva per il cinema più di tre volte rispetto a oggi. Nel ’55, ognuno di noi, in media, destinava al “grande schermo” ben 37.709 lire all’anno; nel 1974, primato dall’anteguerra in poi, addirittura 37.269. Contro le appena 12.348 del 1997; le 11.479 del ’96; e perfino le 10.175 del 1988: cioè dell’anno peggiore, se si escludono quelli bellici (che, tuttavia, non si collocavano a livelli poi così malvagi: 3.134 lire nel 1944, ma ancora 9.351 l’anno prima). Insomma, in tre quarti di secolo, lo sport, che nel 1936 non introitava nemmeno il sei per cento degli incassi cinematografici, è arrivato ai suoi stessi livelli, e talora, attorno al 1990, li ha perfino superati. Una tale crisi non poteva che implicare anche un’enorme riduzione delle sale di proiezione: dal 1980 al ’97, in Italia si sono più che dimezzate 10: una riduzione del 58,3 per cento in soli 12 anni: una corsa verso il baratro, che soltanto di recente, negli ultimi cinque esercizi, ha cominciato a mostrare una netta inversione di tendenza, con aumenti, abbastanza significativi, di circa duecento sale e locali all’anno.

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Perché, tra gli spettacoli “fuori casa”, il cinema, pur tanto in grave crisi, resta sempre il preferito. Lo dicono le statistiche 11: nel 1998, ha interessato il 47,3 per cento della popolazione (un aumento di tre punti rispetto all’anno precedente), contro le mostre ed i musei, visitati da poco più di un italiano su quattro (il 26,7 per cento), lo sport (il 26,5), le sale da ballo e le discoteche (il 25 per cento). In cinque anni, i concerti di musica leggera sono passati dal coinvolgimento del 14,4 per cento della popolazione a interessarne il 17,8; il teatro si colloca al 16 per cento, la musica classica ancora solo al 7,9. Ma la tv, invece, la guardano più di 95 italiani su cento (e il 62 per cento ascolta anche la radio). La crisi del cinema forse nasce proprio da qui.Più complesso è certamente il discorso per la musica e il teatro. Dal 1970 al ’97, i concerti di musica classica sono aumentati (un autentico boom) del 427 per cento; le rappresentazioni di prosa, del 342; e quelle di balletto, del 335. Mentre appena del 181 per cento è la crescita dei concerti e spettacoli di musica leggera e “arte varia”. Per converso, però, il numero dei biglietti venduti nei teatri s’è incrementato del 261,5 per cento; del 243 quelli dei concerti di musica

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classica; del 239 quelli della musica leggera; ma l’aumento è appena del 175,8 per cento nella lirica e nei balletti. Il quadro d’insieme denota un’evidente, progressiva disaffezione del pubblico: più rappresentazioni, è vero, ma ciascuna con meno spettatori.Anche un altro parametro offre la consistenza del malessere del teatro: il successo di pubblico, infatti, è mantenuto grazie a un abbattimento notevole dei prezzi. Perché se il costo dei biglietti per la musica leggera è passato (in valuta 1990) dalle 9.215 lire del 1970 alle 17.751 del ’97, quello dei concerti classici da 8.400 a 14.029, e quello della lirica dalle 20.655 alle 36.462, un posto in teatro, che nel 1970 costava in media 12.683 lire, oggi richiede un esborso quasi analogo: 13.612 lire in tutto. Cioè, contro rincari medi tra il 92 (musica leggera) e il 61 per cento (lirica), il teatro registra un aumento di appena il 7,3 per cento.Infine, lo stesso numero di rappresentazioni conferma l’impasse del settore: tra il 1951 e il ’96, la “quantità” annua di concerti classici è passata da 4.663 a 17.746 (+ 280,5 per cento); le opere e i balletti, da 2.054 a 5.836 (+ 184 per cento); i concerti di musica leggera, da 7.188 a 17.551 (+ 144 per cento). Ma le serate (o le matinées) di prosa, da 39.226 sono diventate appena 65.381: con un esiguo incremento soltanto del 66,6 per cento 12. Tuttavia, i tempi più difficili ormai sono forse alle spalle: negli anni sessanta, infatti, il numero delle recite era calato a livelli impressionanti: un terzo circa di quelle del 1951. Il picco negativo risale al 1964: appena 14.369 in tutt’Italia. Da allora, è iniziata una risalita (e nel 1978, gli spettacoli messi in scena erano quasi altrettanti di trent’anni prima), il cui trend positivo ancora perdura.Non molto difforme, infine, l’andamento della lirica, scesa anch’essa al livello minimo di rappresentazioni (1.338 nel 1964) più o meno nel medesimo periodo, e da allora sempre (non c’è forse termine altrettanto idoneo) in crescendo. Più recente è invece il vero e proprio boom dei concerti classici: dal ’78 ad oggi, ne è raddoppiata l’offerta; al contrario di quella di musica leggera che, dopo una flessione nella prima metà degli anni sessanta, dalla seconda metà dei settanta in poi ha fatto registrare solo lenti e non univoci miglioramenti.Insomma, la “spesa degli italiani” per lo spettacolo è connotata dall’aumento quasi vertiginoso di due suoi comparti: la tv (assai più che la radio), che attorno al ’60 non era ancora pari nemmeno a un quarto del totale, ormai da vent’anni si è stabilizzata su una quota che ne costituisce oltre una terza parte. E gl’intrattenimenti vari, dai luoghi di ballo fino ai flippers e ai videogiochi, sono in continua e costante ascesa: nemmeno un quinto del totale nel ’70; quasi un quarto nel 1980; ormai oltre un terzo nel 1996. Nel paese vige sempre più l’abitudine allo spettacolo “casalingo”, o “iper leggero”; di pura evasione, o intrattenimento. Ed è in questo quadro nazionale che si inseriscono le debolezze di una Regione e, soprattutto, le carenze di Venezia, specificatamente della sua parte più antica.

1 Siae, Società italiana degli autori ed editori, Lo spettacolo in Italia. Statistiche 1997, Roma, Pubblicazioni Siae, 1999.2 Ivi.3 Da 738.415 miliardi, ai 1.439.602 del 1997: ivi.4 Da 407.152, a 903.055 miliardi: ivi.5 Da 28.696, a 76.249 miliardi: ivi.6 Da 4.068,6 miliardi, a 5.404,4: ivi.7 Siae, Lo spettacolo in Italia. Statistiche 1996 e Statistiche 1997, Roma, Pubblicazioni Siae, 1998 e 1999.8 Ivi.9 In lire/1990, nel 1936 erano 11.254 di media, e nel ’97, 12.348: ivi.10 Da 8.453, a 4.206; ma erano soltanto 4.004 l’anno prima, e nel 1992, 3.522 in tutto: ivi.11 Sistema statistico nazionale, Annuario, cit.12 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit.

5.1) Come si diverte il veneto, e come invece Venezia

Nel Veneto, secondo l’ultimo censimento, vive il 7,685 per cento della popolazione italiana; ma dei 996 teatri della penisola, la Regione ne ospita soltanto 46, cioè il 4,6 per cento 13. È invece allineata alla media nazionale nel numero dei cinema: nel 1997, quelli italiani erano in tutto 1.736, e il Veneto, che ne conta 131, si situa a una quota (7,6 per cento) pressoché analoga a quella demografica. Altri dati, tuttavia, completano il quadro di crisi: nel primo semestre ’98, ad esempio, gli incassi teatrali hanno subito una forte contrazione rispetto all’anno precedente (– 14,83 per

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cento), in netta controtendenza con il dato nazionale (+ 3,98) e con quello di quasi tutte le altre aree del Nord 14; solo Emilia, Toscana e Umbria (ma questa per intuibili e particolarissime ragioni, legate al sisma che l’ha messa a dura prova) hanno vissuto dei cali d’incasso, tuttavia assai contenuti: dell’ordine di appena qualche punto percentuale; e l’unica zona d’Italia che tiene compagnia al Veneto, anzi le garantisce di non occupare l’ultimo posto, è il Lazio, dove gl’incassi si sono ridotti del 22,38 per cento.Ma, nel teatro, la Regione non brilla nemmeno per la spesa e gli investimenti. L’Osservatorio dello spettacolo, che fa capo all’omonimo Dipartimento del Ministero per i beni e le attività culturali, rileva infatti nel suo ultimo rapporto 15 che, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, il Veneto era al secondo posto, dopo l’Emilia, per quantità di spesa destinata allo spettacolo dalle Regioni a statuto ordinario; a metà anni novanta, era invece già scivolato al quinto, superato da Toscana, Lombardia e Marche. Non solo: ma era perfino finito sotto la media nazionale; e nella graduatoria delle spese produttive, quelle in conto capitale, si collocava addirittura all’ottavo posto.Disaggregando spese ed investimenti nei diversi settori d’intervento, il rapporto, coordinato da Carla Bodo, colloca il Veneto al quinto posto (sempre tra le Regioni a statuto ordinario: quelle a statuto speciale godono di criteri totalmente diversi), per le erogazioni alla musica e al cinema; e al sesto, invece, per gli investimenti in campo teatrale. Nella graduatoria del volume di spesa rapportato al numero degli abitanti (ma l’indagine non separa lo spettacolo dalla cultura), il Veneto, sia nel 1990, sia nel ’95, non raggiungeva la media nazionale, rispettivamente con 7.556 e 8.351 lire contro 7.992 e 10.157. Così, se nel ’90 si classificava appena all’ottavo posto tra le Regioni a statuto ordinario, cinque anni dopo ne aveva già perso un altro, ed era nona, anche se quarta per volume delle erogazioni.L’indagine nota, tuttavia, un incremento negli investimenti (dal 12 al 46 per cento del totale, sempre conglobando cultura e spettacolo), nonché un netto miglioramento nella capacità di spesa. L’incidenza dei pagamenti sugli impegni è passata infatti dal 42 al 64 per cento: meglio che nella media delle altre Regioni a statuto ordinario, e con una diminuzione netta (55 per cento) anche dei residui passivi. Tuttavia, proporzionalmente, la spesa del Veneto per la cultura e gli spettacoli, nel ’95 è nettamente diminuita (dallo 0,31, allo 0,11 per cento del bilancio), «facendola slittare agli ultimi posti nella graduatoria per abitante delle Regioni a statuto ordinario» 16.Nel medesimo periodo, si è anche «invertito il rapporto di spesa tra spettacolo e beni culturali, a svantaggio dello spettacolo»17: se nel ’90 il Veneto era al secondo posto per le erogazioni destinate a questo comparto, nel 1995 si ritrova appena all’undicesimo. Stabile, quantunque tenda a diminuire (1,6 miliardi nel 1990; ma 1,3 nel 1995) la disponibilità per la musica; aumentati del 60 per cento i fondi erogati al teatro (e oltre la metà delle risorse sono destinate allo Stabile della Regione); quasi invariata, nella sua perfino pressoché irrisoria pochezza, la quota per il cinema (da 300 a 200 milioni); un’assoluta contrazione, invece, per i contributi ad enti e istituzioni, e perfino per quelli destinati ad iniziative della Regione in campo musicale, teatrale e cinematografico.Per divertirsi ed acculturarsi, l’abitante del Veneto spende più della normalità dei cittadini italiani. Infatti, se si considerano le risorse destinate a tutti i tipi di spettacolo, la Regione si colloca abbondantemente sopra la media nazionale. Anziché i 556,5 miliardi all’anno, pari al 7,6 per cento della spesa globale che le spetterebbero in base alla popolazione, nel 1997 ne ha infatti dispensati ben 728, cioè il 9,94 per cento. Ogni cittadino del Veneto dedica in media alla propria “ricreazione” (dati 1997) 163.559 lire, contro una media italiana di 127.445. Elevate in particolare, le spese per “intrattenimenti vari” (il 13,2 per cento del totale italiano) e per la musica e il teatro (11,55). Ma per il cinema (7,57) si adegua perfettamente alla media italiana. Sempre nel 1997 (pur dopo la riduzione dei prezzi imposta al Teatro La Fenice dalla sua provvisoria, ma ormai fin troppo procrastinata, ubicazione), il costo dei biglietti per musica e teatri, risultava, nel Veneto, superiore alla media nazionale18: non tanto per la prosa (16.540 lire, contro una media di 18.445), e per la musica leggera (21.819, contro 24.053), quanto certamente per la lirica e i balletti (65.227, contro 49.407), nonché per i concerti di musica classica (23.368, contro una media/paese di 19.009).

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Superiore alla media italiana risultava anche la spesa globale pro capite (18.110 contro 12.147), con un significativo picco nella lirica, dove la Regione era quella in cui, mediamente, i cittadini spendevano in misura maggiore: 9.893 lire a testa, contro 2.633 (e nel 1996 arrivava perfino a quota 11.077), seguita dalla Liguria con 3.834 lire, dal Friuli-Venezia Giulia con 3.496, dalla Lombardia con 3.431 e, dalle Marche con 3.391 19. Superiore alla media, ma di poco, anche la spesa per i concerti classici (1.645 contro 1.361; ma l’Italia settentrionale si colloca a 1.673 lire). Inferiori, invece, quelle per la prosa (4.035 contro una media nazionale di 4.767, e l’Italia settentrionale a 5.829 lire), e la musica leggera (2.266, a fronte di 3.178 in tutt’Italia, e perfino a 4.342 in quella del Nord). Infine, il numero di biglietti per ogni tipo d’attività teatrale e musicale nella Regione era di 164 ogni cento abitanti, con una diminuzione del 5,7 per cento rispetto all’anno precedente (116 la media italiana, 141 quella del Nord). La morale è che, pur non poco penalizzati dalla scarsità di strutture a disposizione, i veneti amano lo spettacolo, frequentano i teatri.Invece, assai meno i cinema: infatti, se nel ’97, per ogni italiano, sono stati venduti 1,79 biglietti all’anno (ma 2,11 nel Nord; e addirittura 2,47 nel Centro del paese), nel Veneto la percentuale è di un’inezia superiore: l’1,81, anche se l’anno precedente era di due centesimi di punto inferiore alla media nazionale. Va meglio in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia (record assoluto: 2,95 biglietti a testa), Toscana, Lazio. Ma oltre al numero dei biglietti, un’altra componente per misurare lo stato di salute del settore è la spesa per abitante; e quella del Veneto è inferiore alle medie: 16.360 lire all’anno per ogni cittadino, contro le 16.731 della media/paese e le ben 20.317 dell’Italia settentrionale. Del resto, il Veneto non raggiunge neppure la metà di sale da cinema “normali” (quelle classificate come “industriali”) della Lombardia; e, su 138 che ne possiede, gliene mancano addirittura 78 per raggiungere il livello del Lazio 20.Insomma, ce n’è sicuramente quanto basta per affermare che la Regione capofila del «ricco Nord Est» non tiene certamente in debito conto le esigenze della cultura, e tanto meno quelle dello

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spettacolo. Infatti, nella percentuale delle risorse a disposizione è abbondantemente sopravanzata non soltanto da aree del paese che hanno certamente assai meno da tutelare, proteggere, difendere (specie il passato: davvero assai meno “importante”); ma anche da altre Regioni, a statuto ordinario, che magari sono perfino alle prese con i terribili problemi – per citarne uno – dei senza lavoro, in misura assai maggiore di quanto non li viva questa zona d’Italia, dove ormai molte lavorazioni sono affidate a immigrati (perché sgradite agli italiani), e la piena occupazione non è solo un mito. E, purtroppo, il trend che si può individuare nella spesa del Veneto (anche se l’indagine dell’Osservatorio dello spettacolo si arresta al ’95) non è certo positivo.Esaminati i “divertimenti” della Regione, passiamo a quelli della città che ne è il capoluogo. Il veneziano ama la televisione (o, comunque, ne paga l’abbonamento) più della media degli italiani. Nel ’97, 344 abbonati ogni mille abitanti, contro i 278 in Italia (e i 318 di quanti vivano nei capoluoghi di provincia) 21. Spende decisamente molto per andare a ballare, ma soprattutto per i videogiochi, le mostre e le fiere: 66.474 lire a testa in un anno (ma erano 73.031 nel 1996), cioè quasi 20 miliardi in totale (di cui tre per il ballo, 4,4 per mostre e fiere, 4,8 per il resto)  22. La media italiana pro capite è oltre un terzo in meno, 41.605 lire. E ben inferiore (56.771) anche quella delle Regioni settentrionali, nonché quella (54.731) delle stesse città capoluogo nel Nord. Le 66.474 lire all’anno per ciascun veneziano (ma bisogna sicuramente considerare l’elevata incidenza dei turisti: specie di quelli balneari) sono una cifra tra le più elevate nel paese. Come si dice in gergo sportivo, vengono a ruota del “divertimentificio” di Rimini (addirittura 345.675 lire per abitante); dell’altro capoluogo della riviera romagnola che è Ravenna (199.670 lire); e dopo Mantova, Cremona, Bologna, Firenze, Pisa, Reggio Emilia, Modena e Pordenone. Ma assai prima, comunque, di tutte le altre città, comprese Roma e Milano.

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Andiamo avanti: al veneziano piace invece assai poco lo sport. Alle sue manifestazioni, infatti, nel ’97 ha dedicato in media appena 10.327 lire all’anno (ma nel ’96, erano soltanto 7.974). Cioè assai meno che in altri capoluoghi della sua stessa Regione; un terzo della media del Veneto e di tutti i capoluoghi di provincia; ben sotto il dato dell’Italia settentrionale, e anche dell’intero paese, compreso il più dimenticato, o periferico piccolo centro dell’interno montagnoso 23. In questo, Venezia si pone (ma talora, nemmeno) allo stesso livello di Vercelli, Novara, L’Aquila, Chieti, Massa Carrara; è sopravanzata, per citarne solo alcune, anche da Catanzaro, Rieti, Lecco, Alessandria, Biella, Trieste, Teramo, Ascoli, Benevento, Enna 24.

13 Ivi.14 Piemonte +12,42; Lombardia +15,75; Trentino-Alto Adige +17,59; Friuli-Venezia Giulia +31,73; Liguria +22,98: ivi.15 Ministero per i beni e le attività culturali, Dipartimento dello spettacolo, Osservatorio dello spettacolo, La spesa

pubblica per la cultura e lo spettacolo in Italia nella prima metà degli Anni ’90, Rapporto coordinato da Carla Bodo, Roma, ciclostilato, 1998.

16 Ivi.17 Ivi.18 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit.19 Ivi.20 Ivi.21 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit.

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22 Ivi.23 La media dell’Italia del Nord è di 16.861 lire, quella nazionale di 12.726; a livelli inferiori di quelli veneziani, nel Veneto

si situano soltanto Belluno, con 3.652 lire, e Rovigo, con 5.928: ivi.24 Ivi.

5.2) Si spende poco per il cinema, e pochissimo per lo sport

Né le va poi molto meglio (e dopo quanto abbiamo visto, appare perfino scontato) nel settore del cinema: ogni veneziano, che peraltro ha a disposizione meno sale – per esempio – di chi vive a Padova, nel ’97 ha destinato agli spettacoli cinematografici solo 34.414 lire: circa quanto un abitante di Belluno (31.176), un po’ più di un rodigino (29.433), ma assai meno di qualsiasi altro veneto che viva in un capoluogo di provincia. In media, i veneziani vanno al cinema nemmeno quattro volte all’anno (3,72) 25, contro le sei e mezzo di un bergamasco o di un varesino; le oltre sette di un trevisano; le oltre cinque di chi vive a Pordenone; le quasi sette di chi sta ad Udine. In questo, Venezia è davvero quasi in fondo alla classifica: per esemplificare, si situa, s’intende non geograficamente, tra Latina e Frosinone.Assai diverse sono invece, e per fortuna, le statistiche della prosa, della lirica (e siamo nel ’97: quando la Fenice, ormai già da un anno non esisteva più), e dei concerti. Infatti, con 31.721 lire di spesa in media nel ’97 (quindi, musica e teatri sono sul livello del cinema), il veneziano occupa un rango di rispetto. Superiore agli altri capoluoghi veneti (se si esclude Verona, che però beneficia dell’Arena, e ha speso 187.807 lire pro capite, ma l’anno precedente oltre 200 mila: è abbondantemente il primato assoluto nel paese); non solo un po’ oltre la media delle città capoluogo (30.435 lire), ma ad un livello che è quasi il triplo del dato nazionale (12.147). Tuttavia, Venezia si arresta a un gradino pur sempre inferiore rispetto alla media dei capoluoghi del Nord, attestati a 42.599 lire 26. Per ogni cento abitanti, nella città vengono venduti ogni anno 116 biglietti d’ingresso ai teatri (anche qui, va messa in conto l’incidenza del turismo): qualcuno in meno, tuttavia, di Treviso, che si attesta, ma con livelli di spesa assai inferiori, a quota 131. Comunque, siamo ben sopra la media nazionale (che è di appena 56 biglietti ogni cento persone: circa mezzo a testa all’anno); sopra quella dei capoluoghi italiani (ferma a quota 113); ma sotto quella delle città capoluogo nel Settentrione (152).Certo, nel 1997, a Venezia 27, sono state messe in scena 484 rappresentazioni di prosa (516 l’anno precedente) e 48 opere liriche (come nel 1996). Eseguiti 838 concerti di musica classica (768 nel 1996) e 64 di danza (contro 82). Realizzati nove balletti (erano otto), ed allestite otto operette (erano state due soltanto). Vi si sono svolte 17 recite dialettali; è stato possibile assistere a 30 tra riviste e commedie musicali; a 72 concerti di musica leggera; 30 spettacoli di burattini o marionette (che, l’anno prima, erano stati soltanto dieci in tutto) e 17 saggi culturali. Un totale di ben 1.617 rappresentazioni (erano 1.574): in media, quattro e mezzo al giorno.L’offerta, cioè, non manca davvero: è stata pari circa a un terzo di quella dell’intera Regione (4.664 rappresentazioni nel ’97); e, tra le grandi città, inferiore soltanto a quelle dell’attivissima Torino (3.457 eventi), della grande Milano (8.657), di Genova (1.799), Bologna (2.487), Firenze (2.084), Roma (ben 16.867), Napoli (3.729) e Palermo (1.921). Non tutto, evidentemente, è sempre andato come da speranze degli organizzatori: per esempio, ogni spettacolo di burattini ha totalizzato, in media, appena cento spettatori; nemmeno 500 a serata le riviste e le commedie musicali, e le operette; mentre, per ogni concerto classico sono stati venduti soltanto 126,47 biglietti: davvero un po’ pochini 28.Tutto un altro discorso si può invece fare per quanto riguarda, sempre a Venezia, il costo dei biglietti. Ad esempio, 32.230 lire, in media, per assistere a un concerto di musica classica sono un dato sicuramente abbastanza elevato: ben superiore alla stessa media italiana, che è di 21.200 lire. Mentre, dopo il forzoso trasferimento della Fenice dalla sua sede bruciata, il costo di un posto (e non un palco) all’opera, dalle quasi 57 mila lire del ’96 è calato ad appena 36 mila (contro una media italiana di 70 mila). Comunque, globalmente, gli spettacoli teatrali e musicali della laguna, nel ’97, hanno incassato quasi nove miliardi e mezzo: 400 milioni meno dell’anno prima. E quelli per tutti gli spettacoli, d’ogni tipo e fattura (le statistiche vi includono però anche il costo degli abbonamenti radio-tv), hanno determinato entrate per 58 miliardi e mezzo (ma erano 60 l’anno precedente). Non sono davvero cifre immense; perciò, forse non c’è molto da scialare. E, quindi, nemmeno da gioire.

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25 Ivi26 Ivi.27 Lo spettacolo in Italia, 1997, cit.28 Ivi.

5.3) I musei? non troppi, ma davvero molto frequentati

La Regione italiana che, in assoluto, possiede più musei, è la Toscana: ne vanta ben 394; 13 più della Lombardia (che è al secondo posto), 28 più dell’Emilia (terza), e ben 82 più del Lazio (anche tenendo conto di entrambe le rive del Tevere). Soltanto queste quattro Regioni dispongono, ciascuna, di almeno trecento musei; il Veneto rientra nella seconda fascia: ne vanta, infatti, 230; meno del Piemonte (284), per esempio, ma più delle Marche (205) 29. Tra le grandi città, invece, Roma, Firenze, Milano e Bologna precedono Venezia nella graduatoria del numero di istituti. Infatti, ne possono vantare rispettivamente 158 (compresi quelli in Vaticano), 87, 60 (Milano), e 53; mentre la Serenissima ne può offrire 40 in tutto, almeno stando al censimento più affidabile ed esauriente oggi disponibile, che è ancora quello curato nel ’91 da Daniela Primicerio. L’aggiornamento di quei dati, mentre per esempio migliora non poco l’offerta di Roma, non muta in misura sensibile quella veneziana, che, per numero, quasi monopolizza l’intera provincia: oltre a quelli in città, infatti, sono censiti, in tutto, soltanto altri 13 musei, e nessuno, a parte forse Villa Pisani di Stra affrescata dal Tiepolo, di prima grandezza.Non solo: già alla data della rilevazione, la provincia di Venezia deteneva, con quella di Gorizia, il primato nella percentuale di istituti regolarmente visitabili, cioè non aperti soltanto “a richiesta”, o perfino totalmente chiusi: erano addirittura l’85 per cento del totale (contro l’86 di Gorizia, che tuttavia ne possedeva 14 in tutto). Una quantità di gran lunga superiore a quel 51,90 per cento (nel frattempo, tuttavia, sicuramente aumentato) che, all’epoca, costituiva la media del paese. Da allora, tuttavia, Venezia, avviando una campagna di restauri delle proprie strutture, e soprattutto di adeguamento alle prescrizioni di sicurezza, ha dovuto provvisoriamente interdire al pubblico, interamente o in parte, alcuni dei propri istituti: dal Museo di storia naturale, a Palazzo Fortuny, da Ca’ Pesaro a parte di Ca’ Rezzonico.Tuttavia, l’offerta veneziana non è certo di ridotte dimensioni, né (anzi) di scarsa qualità: le strutture di cui la città dispone sono indubbiamente numerose, ed anche abbastanza variegate. C’è forse, è vero, una carenza di istituti di stampo scientifico e naturalistico; ma bisogna anche considerare che essi, purtroppo, sono ancora quelli che, nel nostro paese, attirano il minor numero di frequentatori. Certo, però, a Venezia non fanno difetto le grandi quadrerie (le Gallerie

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dell’Accademia offrono la più vasta panoramica dell’arte che fiorì in città tra il xiii e il xviii secolo); o i musei in grado di raccontare l’intera storia della Serenissima (il Correr); i palazzi pubblici (quello Ducale), o un tempo privati (dal Fortuny, a quello Mocenigo). Non le mancano le raccolte contemporanee (la Guggenheim), o quelle antiche, collezionate da privati su suggerimento spesso illuminato dei migliori consulenti dell’epoca (la Cini); le istituzioni più specializzate, come quelle dedicate al vetro (a Murano), al merletto (a Burano), o all’arte navale (ai limitari dell’Arsenale). Ha la sua indiscussa importanza il Museo ebraico, e il circuito delle chiese è tutt’altro che ripetitivo e scevro di vasti interessi. Si susseguono le manifestazioni di grande richiamo, come la Biennale, le esposizioni di gusto assai fine (come spesso quelle della Fondazione Cini a San Giorgio), o quelle che sono perfino (Palazzo Grassi) tra le più importanti e visitate in tutt’Italia.In più, bisogna sicuramente considerare che nessun’altra città può essere, altrettanto che Venezia, un museo di se stessa. Anche se il dettaglio sfugge a tantissimi tra i turisti, che se ne vanno dall’ex Serenissima con il ricordo di davvero molto poche tra le sue “emergenze”, avendo percorso soltanto qualcuno dei suoi 411 ponti; ammirato qualche briciola dei 177 rii e canali; visitato solo alcune delle 118 isole, delle 153 chiese e dei 127 campi; essendo perfino transitati, verosimilmente, in assai meno delle 38 parrocchie che la città possiede e può vantare.Comunque, anche per quanto riguarda l’assetto proprietario, i musei veneziani presentano una situazione assai pluralistica: a quelli dello Stato (le Gallerie dell’Accademia, la Ca’ d’Oro, il Museo Orientale e quello Archeologico: non d’estrema rilevanza, ma certamente meno noto e più misconosciuto che non meriti), si affianca il circuito comunale (Correr, Ca’ Pesaro, Ca’ Rezzonico, Palazzo Fortuny, Burano e Murano, Casa Goldoni, Palazzo Mocenigo; ma, soprattutto, Palazzo Ducale che per l’amministrazione locale equivale a un vero e proprio tesoro di redditività).

I musei di veneziaEcco l’elenco dei musei veneziani, riportato nell’indagine L’Italia dei musei, 1991; tra parentesi, lo status della proprietà ed eventuali limitazioni di apertura.

 1. Acquario (comunale) 2. Archivio storico della Biennale (privato, della Biennale) 3. Casa Goldoni (comunale) 4. Centro studi di storia del tessuto e del costume (privato) 5. Collezione Ca’ del Duca (privato) 6. Collezione Peggy Guggenheim (privato) 7. Fondazione Bevilacqua La Masa (privato) 8. Fondazione Cini (privato) 9. Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro (statale)10. Galleria int. d’arte moderna Ca’ Pesaro (comunale, chiusa per restauri)11. Gallerie dell’Accademia (statale)12. Museo della terraferma veneziana, a Mestre (comunale)13. Mostra cimeli della Biblioteca nazionale Marciana (statale)14. Museo V. Fano della Comunità israelitica (privato, della Comunità)15. Museo archeologico nazionale (statale)16. Museo del grammofono Giorgio Grandi (privato, chiuso)17. Museo del merletto, a Burano (comunale)18. Museo del Risorgimento (comunale)19. Museo del ’700 veneziano a Ca’ Rezzonico (comunale, parz. in restauro)20. Museo dell’estuario, a Torcello (provinciale)21. Museo dell’Istituto ellenico di studi bizantini (privato)22. Museo della Fondazione Querini-Stampalia (privato)23. Museo della Scuola dalmata di San Giorgio (ecclesiastico)24. Museo della Scuola grande del Carmine (ecclesiastico)25. Museo della Scuola grande di San Giovanni Evangelista (ecclesiastico)26. Museo della Scuola grande di San Rocco (ecclesiastico)27. Museo d’arte orientale (statale)28. Museo di Palazzo Fortuny (comunale, chiuso per restauro)29. Museo di Palazzo Grassi (privato, proprietà della Fiat)

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30. Museo di Palazzo Mocenigo (comunale)31. Museo di Palazzo Ducale (comunale)32. Museo di storia naturale (comunale, chiuso per restauri)33. Museo diocesano di Santa Apollonia (ecclesiastico)34. Museo e pinacoteca Correr (comunale)35. Museo e tesoro della Basilica di San Marco (ecclesiastico)36. Museo parrocchiale di San Pietro Martire a Murano (ecclesiastico)37. Museo storico navale (statale)38. Museo vetrario antico e moderno, Murano (comunale)39. Pinacoteca e museo San Lazzaro degli Armeni (ecclesiastico)40. Pinac. Manfrediniana e seminario patriarcale (ecclesiastico, aperto a rich.)

Il museo censito a Mestre, la Fondazione Bevilacqua La Masa e Palazzo Grassi ospitano solo esposizioni temporanee; e il Museo del Risorgimento è ormai integrato con il Correr.

Vi sono poi numerose istituzioni private, anche di altissimo livello, dalle già ricordate Palazzo Grassi, Fondazione Cini e Guggenheim, alla Fondazione Querini-Stampalia, nonché a quelle che fanno capo ad enti ecclesiastici. E, oltre ai musei, numerosi altri luoghi d’arte e cultura che sono comunque talora perfino assai importanti, e spesso degni, comunque, d’essere ammirati. Giusto per limitarci ad alcuni casi, Palazzo Labia, che ospita la sede della Rai-tv, e i cui affreschi di Tiepolo sono visitabili a richiesta (che importante frammento di patrimonio sprecato, o, comunque, non debitamente valorizzato), le dodici chiese del centro storico cui si può accedere pagando un davvero modico biglietto d’ingresso; i campanili delle isole di San Giorgio Maggiore e di Torcello, lo stesso, già citato, Oratorio dei Crociferi, il convento di San Francesco del deserto, l’Archivio di Stato, la scala Contarini del Bovolo e la Sala della musica Ospedaletto. Per non dire, poi, delle gallerie e delle associazioni e fondazioni che svolgono attività legate comunque alla cultura: il solo vademecum dedicato agli ospiti della città, e diffuso nei maggiori alberghi, ne elenca ben 32, oltre ad altri 31 tra studi e gallerie d’arte. Insomma, Venezia offre, a chi lo voglia, ben più di quanto è possibile visitare nei nemmeno tre giorni che costituiscono, ancor oggi, la media dei soggiorni in città.Qualche osservazione è comunque doverosa: la terraferma risulta troppo sguarnita; nel circuito veneziano continua a mancare qualcosa specificatamente dedicato all’architettura e all’archeologia industriale; quanto si ispira al mare è in numero sicuramente esiguo. Ma l’offerta museale, indubbiamente ricca, risente, anche e pesantemente, di alcuni fattori abbastanza perniciosi. Intanto, gli orari, assolutamente non “normalizzati”: gli istituti fanno capo a proprietà e gestioni diverse; tra loro non esiste praticamente alcun raccordo; spesso, ognuno apre quando vuole: o più verosimilmente, quando può. Così, per limitarci a pochi esempi, l’Oratorio dei Crociferi a Cannaregio, con un rilevante ciclo pittorico di Palma il Giovane, apre soltanto tre ore al giorno durante i fine-settimana; il Museo diocesano, due ore di mattina; alcuni osservano l’orario spezzato, altri quello continuato, ed assai variabili sono anche gli stessi orari di chiusura serale. Il che, si sa, certo non invoglia i visitatori, né semplifica i loro tour.Ma, ancora, i musei veneziani, specie quelli minori, patiscono anche l’assenza di una politica unitaria di promozione: quelli nelle aree più centrali, beneficiano del passaggio, spesso anche casuale, dei turisti; quelli più periferici, bisogna invece andare quasi a cercarseli con il lanternino, o almeno con in mano un baedeker. E ancor più il discorso vale per le chiese: ce ne sono alcune, anche non certo secondarie, che pagano a caro prezzo di non essere inserite nel normale circuito turistico; sarebbe interessante promuovere un sondaggio per appurare quanti tra coloro che visitano Venezia (di sicuro sarebbero assai pochi) sanno che San Pietro di Castello era l’antica sede patriarcale, e vi si possono ancora ammirare, per esempio, una cappella ideata da Baldassarre Longhena, una pala di Luca Giordano, un San Pietro di Marco Basaiti, un Veronese e quant’altro.In generale, si può ben dire che per i musei veneziani non esiste alcuna politica: non possiedono se non sporadici raccordi tra loro (a parte il recente accordo per l’area Marciana, di cui diremo), assolutamente casuali e dovuti, di solito, ai prestiti per mostre temporanee; parecchi non cercano in alcun modo di farsi conoscere, o di promuovere la propria attività; sembrano quasi delle belle addormentate, ben consapevoli però, ed anzi anche fin troppo, che, prima o poi, qualche principe, o meglio qualche turista, comunque arriverà anche da loro. Un caso dei più clamorosi è

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possibile leggerlo nell’evoluzione di Palazzo Fortuny, attualmente in restauro; anni fa, nel periodo di un solo quinquennio ospitò ben 22 rassegne temporanee: ed alcune non erano, francamente, nemmeno clamorose. Ebbene: nel periodo in cui vi si svolgevano le mostre, i visitatori raggiungevano anche la quota di cinquemila al mese; e quando invece il museo non ospitava alcuna rassegna, magari perfino durante i mesi di alta stagione e maggiormente frequentati, non varcavano la sua soglia che poche decine di persone.Insomma, molti musei, ma spesso assai poco valorizzati. Che attirano il pubblico, talora, solo quando organizzano mostre temporanee, meglio se importanti e di grido. Ma una assoluta carenza di iniziative (se si eccettua Palazzo Grassi e, in parte, le Fondazioni Cini e Guggenheim e il Correr) atte a farsi conoscere, a calamitare i visitatori, a promuovere la propria rispettiva immagine. Come vedremo più oltre, qualcosa è stato tentato negli ultimi tempi, specie sotto il profilo didattico, o nel periodo estivo; ma con tante difficoltà, alcune delle quali si sono mostrate finora perfino insuperabili.E dall’offerta museale, passiamo alla domanda, anzi alla sete, di arte e di cultura. La città vive, essenzialmente, di una chiesa (s’intende, la Basilica di San Marco); di un palazzo da sempre pubblico (quello Ducale); di un grande museo d’arte antica (le Gallerie dell’Accademia); di un’importante collezione d’arte moderna e contemporanea (la Guggenheim); delle mostre temporanee organizzate sia da Palazzo Grassi che dalla stessa Guggenheim e (ma anche se scientificamente assai valide, più raramente ottengono un analogo consenso) dalla Fondazione Cini. In second’ordine, vengono alcuni altri musei: come il Correr, quello ebraico, la Ca’ d’Oro, e il circuito delle chiese, di recente costituzione (una tra le non molte novità di un panorama davvero troppo statico). Infine, e se fossimo al cinema verrebbe da dire nelle ultimissime file, tutte le altre strutture espositive: alcune anche di ottimo rango e non piccolo interesse, che però raccolgono un numero di solito ridotto, e talora davvero striminzito, di presenze.Vediamo, dunque, questa singolare situazione: di una città che ha moltissimo da offrire, ma dove poi i visitatori si accalcano sempre nella stessa, affollatissima mezza dozzina di luoghi. Il primato delle presenze è equamente diviso tra la Basilica di San Marco ed una struttura espositiva non già statale, come di solito avviene poiché è proprio al Ministero dei beni culturali ed ambientali che fanno capo i maggiori musei del paese, bensì comunale, e precisamente Palazzo Ducale. Calcolare esattamente quante persone varchino la soglia della Basilica, è pressoché impossibile: vi sono inseriti tre luoghi a pagamento (la Pala d’oro e il tesoro; la Galleria, con il museo che comprende anche la Quadriga dei cavalli bronzei; il Campanile), cui si può accedere pagando, per tutti insieme, quello che costerebbe un normale museo statale; ma, per il resto, è forse impossibile individuare dei confini tra la curiosità, la cultura e la pratica religiosa. Comunque sia, la Procuratoria della Basilica offre queste cifre: 1.380.000 visitatori sia nel 1995, sia nel 1996, con una «media di stranieri prossima al 60 per cento del totale». Cioè, più o meno quanti Palazzo Ducale, che, con il suo milione e 400 mila visitatori all’anno, distacca sensibilmente tutti gli altri istituti veneziani, e non solo. Infatti, si colloca subito dopo quelli Vaticani, che, nella penisola, sono in assoluto i più frequentati (attorno ai tre milioni di presenze all’anno), e dopo gli scavi di Pompei, che (anche per merito del vicino santuario) costituiscono il più frequentato luogo di cultura italiano. L’ex palazzo dei dogi e del Maggior Consiglio se la batte per il terzo posto con gli Uffizi: un anno ha vinto Firenze; l’anno precedente, invece, Venezia.Proprio Palazzo Ducale sorregge l’economia della cultura, almeno per quanto riguarda il Comune veneziano: infatti, garantisce un incasso davvero non indifferente (21 miliardi e 600 milioni nel ’98), superiore alle stesse spese comunali per la cultura (fissate, sempre per il 1998, in 20.171.504.000 lire). Un surplus che, dice l’assessore alla cultura Mara Rumiz, in certi casi è stato anche di tre miliardi; ma «un reddito non disponibile per la cultura, poiché finisce nel grande calderone delle entrate comunali». In questo, Venezia è ancora più arretrata dello stesso Stato: infatti, per una recente riforma voluta da Walter Veltroni quando era ministro, i proventi dei musei statali restano, almeno, ai beni culturali, e non vanno a sovvenzionare altri settori. Comunque, «il sistema dei musei civici veneziani», dice Giandomenico Romanelli che li dirige, «è forse l’unico, in tutt’Italia, che si autofinanzia».Palazzo Ducale, però, sorregge quasi da solo l’economia comunale della cultura. Il Museo Correr, infatti, raccoglie all’incirca 50 mila visitatori all’anno. Quello del Vetro a Murano, dove di solito il pubblico arriva in comitive organizzate, circa 80 mila (ma nel 1997 ha vissuto un’incredibile crisi). Ca’ Rezzonico, un luogo davvero ideale per il Sette e l’Ottocento veneziano, è da tempo in parziale restauro: in occasione d’importanti mostre si comporta assai bene; negli

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anni 1991 e 1992 arrivava anche a 270 mila visitatori in dodici mesi: ma negli ultimi tempi langue in misura sensibile, e soltanto dal 1998 sembra essersi alquanto rianimato, promettendo almeno 70 mila frequenze. Per gli altri musei comunali, a parte i due chiusi per restauri ed adeguamenti alla normativa di sicurezza (Ca’ Pesaro e quello di storia naturale), restano soltanto gli spiccioli: nemmeno 15 mila visitatori all’anno a Palazzo Mocenigo; neppure cinquemila al Museo del merletto di Burano. Così, il grosso degli incassi è garantito appunto da Palazzo Ducale, per il quale dal giugno 1996 esiste un biglietto comulativo con il Museo Correr, e dall’anno scorso, grazie a un accordo con lo Stato che Venezia è stata la prima a stipulare, il circuito è stato esteso anche a quello archeologico e alla sezione storica della Biblioteca Marciana.Ma indicative sono anche altre cifre, sempre relative all’affluenza del pubblico nelle strutture espositive della città. Le Gallerie dell’Accademia che, lo vedremo, non possono accogliere contemporaneamente più d’un certo numero di visitatori, si fermano a circa 300 mila presenze all’anno, garantendo tuttavia un incasso di quasi tre miliardi; mentre altri musei, anche tra quelli statali, e qualche chiesa («se si vogliono ammirare le pale più importanti di Tiziano bisogna andare proprio nelle chiese», dice la soprintendente ai beni artistici e storici Giovanna Nepi Scirè), in dodici mesi non calamitano che poche migliaia di persone. Un po’ più sotto, a quota 200 mila, si arresta invece la Guggenheim. Viceversa, alcune mostre, specie quelle organizzate da Palazzo Grassi, attraggono molte centinaia di migliaia di persone, che talora valgono autentici primati.Interessanti, a Venezia, sono anche le variazioni mensili nelle stesse presenze: le Gallerie dell’Accademia sono giunte, al massimo, a quota 40 mila: ma in aprile, in cui numerose sono le gite scolastiche, tanto che abbondano i visitatori esentati dal biglietto (in quel caso, sono arrivati perfino al 60,11 per cento del totale). Tuttavia, anche agosto, che la Venezia del turismo considera tradizionalmente un mese “debole”, almeno nei maggiori musei non fa notare flessioni sensibili; ma i mesi più “forti”, si intende, restano pur sempre, con quelli primaverili, settembre ed ottobre.Invece, ci sono fasi del periodo invernale in cui anche le istituzioni importanti, ad esempio lo stesso museo Correr, non raccolgono che una media di soli tre visitatori al giorno: davvero una desolazione. Ed è ben triste pensare che il Museo del merletto, a Burano, riceve in tutto una media di 400 visitatori al mese; che Palazzo Mocenigo viaggia su una valore di 40 utenti al giorno, e che nemmeno il doppio sono quelli di Ca’ Rezzonico. Si tratta, evidentemente, dei frutti di un’“offerta brada”: non sistematizzata; che non prevede percorsi alternativi, e soprattutto non sa immaginarli; che non si ingegna a trovare, per ognuno di questi musei nemmeno troppo minori (e ciascuno, sicuramente, ne possiede qualcuno) uno slogan, un motivo da “spendere” presso il pubblico per invogliarlo alle visite; insomma, sono anche il risultato della più completa e assoluta carenza di marketing, forse giustificata con il fatto che, comunque, globalmente l’affluenza va bene, così come – di conseguenza – vanno bene anche gli affari. Perché poi, a Venezia, sembra che sia soprattutto questo a contare.

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29 Daniela Primicerio, L’Italia dei Musei. Indagine su un patrimonio sommerso, introduzione di Andrea Emiliani, Milano, Electa, 1991, aggiornato con i dati rilevati da Guida Touring. Musei d’Italia, Milano, Touring, 1998.

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6) CINQUE “CASI DIFFICILI”. ACCADEMIA, ORIENTALE, ORARI, TOUR OPERATOR, MOSTRE DI CORSA«Uno degli aspetti più stupefacenti del popolo di Venezia, in qualsiasi età, è stata la sua capacità di cimentarsi in quasi tutte le attività umane, e di riuscirci superbamente. Marinai, i veneziani sono già assai richiesti dal vi secolo [...]. Teorici della politica, mettono a punto un sistema di governo unico [...]. Per quanto riguarda le arti visive, gli stati di servizio di Venezia sono ancora più abbaglianti [...]. Per quanto poi concerne la musica, il passato di Venezia, ancora una volta, fa mozzare il fiato»: così esordisce un bel libro 1 dedicato all’ex Serenissima. E forse, il suo assunto di partenza è invece degno di qualche emendamento. Perché c’è almeno un settore in cui Venezia lascia sicuramente non poco a desiderare, ed è la messa in valore degli immensi tesori che essa possiede. Senza la cui valorizzazione, ogni aspirazione a divenire sia la «capitale della cultura» auspicata da Braudel, sia quella «dell’immateriale» propugnata da De Rita, non possono che venire assolutamente vanificate in partenza. Per carità: la gestione e la promozione oggi costituiscono davvero la “nuova frontiera” con cui il ricchissimo patrimonio storico ed artistico del paese è costretto a misurarsi. I musei italiani sono quasi 3.500, tra piccoli e grandi, pubblici e privati, archeologici, storici o scientifici; ma spesso attirano assai pochi visitatori, non si sanno “vendere”: le lacune (e non le lagune) sono abbastanza generalizzate, e diffuse; si spargono abbondantemente per la penisola, nei suoi quattro punti cardinali. L’arte (o la scienza?) del marketing museale, e culturale in genere, non è certamente semplice: da qualche tempo, in tutto il mondo s’infittiscono le opere e gli studi ad essa dedicati (mentre, purtroppo, in Italia sono ancora assai carenti i corsi superiori di studio che lo hanno per argomento). Uno dei più recenti 2, ancor prima di esaminare l’andamento dei musei americani («secondo un’indagine del 1989, 8.200 autonomi e indipendenti; se si includono le succursali e le residenze e i siti storici, il loro numero sale oltre le 15 mila unità»), avverte che «visitando Venezia, alcuni hanno concluso che la città intera è un museo, non solo i singoli edifici che si propongono come tali» 3. Ma anche limitandoci ai musei propriamente detti, oltre che alle altre istituzioni deputate alla cultura, in laguna le carenze sono forse ancor più evidenti e macroscopiche che altrove; ben più numerosi gli sprechi e le occasioni mancate. Molti derivano da pastoie burocratiche, da antiche inadempienze, da pronunciate insensibilità, e maledettissimi accidenti, che certamente non hanno origine in città, ed è anzi un dovere sottolinearlo; ma il risultato complessivo non cambia: Venezia non riesce proprio a giovarsi, ricordate la parabola evangelica?, dei talenti di cui, in tutti i sensi, dispone.Forse, si può cominciare proprio dalle Gallerie dell’Accademia, che non soltanto costituiscono il più importante dei musei statali a Venezia, ma raccolgono anche un panorama unico, tanto ingente quanto importante, di un periodo tra i più “alti” del dipingere e, l’abbiamo già sottolineato, dell’arte occidentale in genere. Ebbene, anche soltanto collegandosi al sito Internet del Ministero dei beni e delle attività culturali 4 si può misurare l’andamento di una pinacoteca tra le primissime in Italia per ciò che conserva, ma non certo per quanto espone, né per il numero di chi la frequenta. Infatti, perfino tra i musei statali (e, come abbiamo visto parlando di Palazzo Ducale, ve ne sono anche di non statali con “numeri” e risultati ben maggiori), quello veneziano è appena il 16° per numero di visitatori 5: era al 14° posto nel 1997, e al 13° nel 1996 (ma resta al settimo per volume di incassi: oltre tre miliardi all’anno). Dunque, non migliora: anzi, tutt’altro.E c’è anche di più: mentre infatti l’insieme dei venti musei statali più visitati nella penisola ha fatto registrare, sempre nel 1998, un incremento di pubblico del 13 per cento 6, la massima galleria veneziana deve accontentarsi di due modestissimi punti percentuali, e il suo miglioramento non tiene nemmeno il passo di quello medio (+ 4,91 per cento tra il 1997 e il ’98) di tutti gli istituti che dipendono dallo Stato. Il fenomeno, oltre a tutto, non è assolutamente sporadico: s’è infatti verificato anche nel 1997, quando le Gallerie dell’Accademia fecero registrare un aumento appena dell’un per cento sull’anno precedente, contro il + 4,10 per cento di tutti i musei statali, e del dieci per cento tra i top 20; e non era nemmeno puntualmente mancato perfino nell’anno precedente. Insomma, man mano che passa il tempo, ogni anno di più, il “sacrario” della pittura veneta e veneziana dei “secoli d’oro” perde velocità e competitività rispetto agli altri musei; il suo “gradimento” non cresce certo con la loro medesima proporzione. In un anno, le Gallerie dell’Accademia accolgono appena un quarto circa di quanti varcano invece il portone degli Uffizi

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(1.332.349 persone sempre nel 1998); il dieci per cento di quanti affollano i Musei Vaticani (oltre tre milioni); la metà di coloro che, sempre a Firenze, si ricreano nei Giardini di Boboli; un sesto di quanti s’aggirano per gli scavi di Pompei; e, dacché anche il suo pian terreno è a pagamento ed è quindi divenuto possibile contarne gli ospiti, un settimo di quanti, a Roma, ogni anno ammirano il Colosseo. Ma anche solo uno su quattro di coloro che, a Venezia, si recano nello stesso Palazzo Ducale.La sostanziale stasi nel numero dei visitatori ha tuttavia una spiegazione assolutamente valida: l’impossibilità di ospitare più di trecento persone per volta nelle sale, che deriva da motivi di sicurezza, legati alla precarietà delle uscite. Questo, da un lato permette a chi ha la fortuna di riuscire ad entrarvi, di ammirare senza un eccessivo affollamento capolavori fondamentali nella storia della pittura italiana e anzi del mondo, quali La tempesta e La vecchia di Giorgione, le Madonne di Giovanni Bellini, il San Girolamo di Piero della Francesca, il San Giorgio di Mantegna, il Gentiluomo di Lorenzo Lotto, i Tiziano, il Ciclo di Sant’Orsola di Vittore Carpaccio («sono, fisicamente e materialmente grandi, e bisogna percorrerle senza fretta, attraversarle in ogni direzione, soffermarsi su ogni figura, su ogni oggetto, su ogni centimetro quadrato di pittura» 7), la Deposizione del Tintoretto, i Tiepolo, i Bassano e quant’altro Venezia ha saputo produrre in pittura nel corso dei secoli (non c’è un luogo che ne conservi una summa altrettanto esaustiva anche se, per ammirare la vera pittura veneziana si deve forse entrare nelle chiese); ma, dall’altro, la limitazione penalizza davvero fortemente i visitatori.

Infatti, impone spesso defatiganti attese; crea un clima ed un contesto poco propizi alla stessa visita (non è certo facile soffermarsi magari anche davanti a dei capolavori, «percorrerli senza fretta e attraversarli in ogni direzione», come dice Augusto Gentili, quando si sa che ogni prolungamento della visita aumenterà l’attesa di altri); e, soprattutto, non permette nemmeno alle Gallerie d’incrementare i propri frequentatori, poiché l’orario d’apertura non si può certo protrarre all’infinito.

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Questa è una prima questione, di cui il maggior museo statale di Venezia subisce tutti i perniciosi effetti. L’altra, è quella dello spazio: finora tanto ridotto, che gli concede di esporre soltanto circa 350 opere nelle sale, oltre ad altre ottanta nella cosiddetta “quadreria”: una sorta di lungo corridoio, che costituisce l’unico ampliamento realizzato da moltissimi anni a questa parte, dove però, per accedere, occorre prenotarsi. Dunque, nemmeno 450 opere in tutto, su oltre duemila che le Gallerie possiedono: forse nessun altro importante museo del nostro paese ha una percentuale così limitata e ridotta di opere esposte, rispetto al numero di quelle di cui è invece il depositario. Sarà un paradosso, ma, almeno numericamente, è una verità: c’è più Accademia nei suoi depositi, che non nelle sue sale.«Tutto ciò, però, è destinato a finire, ed a finire in fretta», garantisce la soprintendente ai beni

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artistici e storici della città, Giovanna Nepi Scirè 8. Infatti, poco prima che iniziasse il nuovo secolo, sono finalmente cominciati anche i lavori per rendere “grandi” le Gallerie dell’Accademia. Un’impresa di cui, tuttavia, si parlava ormai almeno dal ’72: cioè da oltre un quarto di secolo. Alla fine, il museo raddoppierà gli spazi, dopo che l’Accademia, con cui divideva l’edificio, si sarà trasferita, prevedibilmente prima che termini il 2000, alle Zattere: nell’ex convento degli Incurabili, appositamente restaurato. Ma, almeno, «a Venezia, si è riusciti a fare ciò che non è stato possibile a Milano, cioè a Brera: separare la scuola dall’annessa Pinacoteca», aggiunge il soprintendente ai beni ambientali e architettonici Roberto Cecchi 9. Perché, dopo un quarto di secolo di discussioni e buone intenzioni, il progetto approdasse finalmente a un risultato, le istituzioni da sole non sono bastate: è stato necessario non poco impegno di uno speciale comitato promotore, composto da soggetti privati e non, diretto da Cesare Annibaldi, una vita ai vertici della Fiat, e, da settembre 1999, successore dello scomparso Feliciano Benvenuti alla presidenza di Palazzo Grassi.Così, le Gallerie dell’Accademia si propongono ora come un esempio assolutamente emblematico e quanto mai istruttivo, dal duplice valore e dal doppio significato. Da un lato, la penalizzante condizione in cui sono state troppo a lungo costrette testimonia in maniera assolutamente paradigmatica una défaillance tipicamente italiana, che si è trascinata per parecchi anni: cioè il “periodo della paralisi”, in cui le cure del patrimonio storico e artistico del paese venivano regolarmente affidate ai Facchiano o alle Bono Parrino di turno; in ossequio al “manuale Cencelli” (che mutua il nome dal sottosegretario che per primo codificò questi difficili equilibri), il Ministero dei beni culturali era considerato come l’ultimo dei “resti”, e quindi spettava al partito, o alla corrente meno significativa (assai spesso, è toccato ai socialdemocratici), cioè comunque a personaggi politicamente secondari, privi di vigore ed autorevolezza; la stagione, insomma, in cui ad occuparsi di quella che, probabilmente, è la maggior ricchezza di tutta la penisola, e cioè il suo patrimonio storico-artistico, era la “Cenerentola” di tutti i dicasteri. Sono stati anni, e anzi circa due decenni, in cui parecchi musei erano assai spesso chiusi (e proprio Roma, la Capitale, ha rappresentato un’acme di questa crisi); e gli altri, come appunto anche le Gallerie veneziane, erano aperti comunque assai poco; le loro giuste esigenze totalmente ignorate; e spesso quasi soltanto ridicole le dotazioni di uomini, mezzi e tecnologie di cui potevano disporre ed avvalersi.Ma dall’altro lato, la storia più recente delle medesime Gallerie veneziane costituisce un esempio di pianificazione urbana, assolutamente raro ed assai significativo; rappresenta un profondo sovvertimento delle normali impasse in cui, in Italia, eternamente si dibattono i progetti di rinnovamento urbano che possiedano qualche ambizione, specie quando riguardano più soggetti pubblici o più Ministeri, e ancor più quando prevedono il trasferimento di qualche istituzione dalla sede occupata in epoca storica; dimostra il molto di buono che è possibile realizzare, quando le indubbie capacità (ma anche le tradizionali lentezze) degli apparati statali vengono innervate dalla volontà politica e dall’attività degli Enti locali, ma soprattutto dalla stimolante presenza dei privati e delle loro associazioni. Reperire una sede decorosa per l’Accademia, e ristrutturarla riadattandola a questo scopo, perché così liberasse lo spazio necessario alle Gallerie per non continuare a soffocare, è stata davvero una grande impresa, rivelatasi finora impossibile in tante altre città. E il decollo di un progetto, che nell’ultimo triennio ha avuto fasi di notevole spinta, fa davvero ben sperare per il futuro delle Gallerie, anche se non ne cancella decenni di quasi criminale, e comunque colpevole, disattenzione da parte dello Stato. I primissimi lavori hanno riguardato, spiega ancora Giovanna Nepi Sciré, «la riapertura della scala del Palladio: quando si sarà concluso questo cantiere, al massimo all’inizio del 2000, non avremo più la necessità di limitare l’afflusso dei visitatori». Quindi, presumibilmente già la prossima estate porterà qualcosa di nuovo e, s’intende, di positivo. Ma, vale la pena di ripeterlo, a distanza d’un quarto di secolo da quando il progetto ha visto la luce. Tuttavia, anche l’iter di questo restauro non appare sicuramente né semplice, né breve; e, comunque, per un paio d’anni almeno, le Gallerie saranno ancora sacrificate, anche negli spazi dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”, cioè il punto vendita dove ottiene grande successo (ne parleremo tra poco) soprattutto la nuova “guida breve” della Pinacoteca. In futuro, la libreria e il punto vendita saranno collocati in quello che attualmente è il salone a piano terra proprio dell’istituto scolastico, l’ex Accademia; ma per ora, devono invece accontentarsi di una sistemazione davvero inadeguata e insoddisfacente, che certamente ne penalizza anche gli stessi affari e, per la ristrettezza degli spazi, provoca spesso un intasamento di visitatori in biglietteria, rallentando ulteriormente il loro

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afflusso. Come pure devono accontentarsi i custodi: che, finora, lavorano in condizioni assolutamente disagiate per la carenza di spazio, quasi con spogliatoi e servizi igienici di fortuna.A indicare quanto, troppo a lungo nel passato e in realtà fino a pochi mesi or sono, questa Galleria sia stata lasciata deperire, provvedono poi anche altri dettagli. Per esempio, è noto che, attraverso l’antica e per fortuna ormai dismessa pratica dei prestiti a lungo termine concessi a uffici ed enti pubblici (ma talora, anche a privati), nonché a comandi militari e ad altre organizzazioni, grosso modo dal 1920 in poi importanti collezioni pubbliche italiane sono state depauperate di non poche tra le loro opere. Magari, tele, di buona fattura, e di artisti insigni e famosi, del Seicento: allora un periodo dell’arte assai poco considerato, ed ora invece abbondantemente rivalutato. In misura maggiore o minore, è successo un po’ dappertutto: a Capodimonte, come a Palazzo Barberini; agli Uffizi, come alla Pinacoteca nazionale di Bologna. Soltanto circa tre anni fa, una speciale commissione, presieduta dallo storico dell’arte Giorgio De Marchis, quando Alberto Ronchey era ministro dei beni culturali e anche per l’impegno dello scomparso Federico Zeri, ha provveduto a redigere un inventario di questi “beni spariti”. E le sorprese, s’intende in negativo, non sono mancate. Non poche opere sono riemerse, quando erano state dichiarate per sempre disperse, magari in guerra (una, l’aveva vista perfino Roberto Longhi da un antiquario romano e ne aveva riferito su «Paragone»); ne sono state trovate anche in una dozzina di musei stranieri, a cominciare da quello di Hartford nel Connecticut, che a Palazzo Barberini di Roma ha restituito una Betsabea al bagno di Jacopo Zucchi, ufficialmente estinta sotto il bombardamento dell’Ambasciata italiana di Berlino.Ebbene, proprio le Gallerie dell’Accademia sono risultate uno dei musei italiani maggiormente colpito dal pernicioso fenomeno. Non solo: qualche tempo fa, risultavano presenti nei depositi 717 opere, di cui 391 tele, 165 tavole, 46 su rame, 94 su carta ed altri diversi supporti (perfino sette su osso e quattro su lavagna), sei affreschi e un’incisione su vetro; ma, oltre ai tremila disegni del Gabinetto delle Stampe, le Gallerie mostravano d’avere ben 352 opere in deposito esterno. Le 131 tele dell’Ottocento erano state, assai giustamente, concesse a Ca’ Pesaro; altre 62 di autori fiamminghi erano invece collocate alla Ca’ d’Oro; 52, in consegna alla Fondazione Cini; 28, al Conservatorio Benedetto Marcello. Ma anche 26 alla Prefettura; sette perfino a quella di Belluno; altre nove alla chiesa di Sant’Elena; sei al Patriarcato. E non basta: attraverso sopralluoghi casuali, altre sono state, a suo tempo, rintracciate in una chiesa del Bellunese; in un’altra del Vicentino; perfino nel Mantovano; due Scene di battaglia di Giuseppe Zais (1709-48), in un istituto romano, al quale erano state consegnate come opere di un autore minore.La “diaspora” veneziana è però ancora più ingente. Soppressa la Repubblica veneziana, Napoleone istituisce il «Demanio pubblico veneziano», riconfermato poi dagli austriaci, che – come si sa – succedono ai francesi. Le opere provenienti da chiese ed enti secolarizzati o soppressi, spesso finiscono proprio lì; e vengono inventariate con un numero, e la sigla dpv. Spesso, tuttavia, i restauri ottocenteschi hanno coperto queste indicazioni; e così «di recente, restaurando, abbiamo trovato, per esempio, un dipinto a Treviso; ma in giro ce ne sono sicuramente qualche centinaio. E riscontrarli, trovarli, identificarli, è davvero un’impresa improba», spiegava tempo fa una funzionaria della soprintendenza, Adriana Agusti 10. Il fenomeno, sicuramente, è non poco grave.Ma ormai è iniziata una sorta di inversione di tendenza, e, lentamente, le opere disperse cominciano a tornare. Perfino la Camera dei Deputati ha accettato di restituirne qualcuna, tra quelle (tantissime: quasi un migliaio) che deteneva; e sia Palazzo Barberini, sia per esempio Capodimonte, sono riusciti a tornare in possesso di opere che erano per loro importanti. «In certi casi, per riaverle noi proponiamo dei cambi, con altre tele che per noi hanno minor rilievo o significato», spiega Giovanna Nepi Scirè.E racconta che una decina di dipinti, già dispersi ai quattro venti, sono stati frattanto recuperati, anche la Cena a casa del fariseo di Charles Le Brun (1619-90), «che era tra le tele concesse al Conservatorio e, oltre ad essere un’opera importante in sé possiede anche una valenza simbolica assai forte» 11: è infatti l’opera d’arte con cui la Francia di Napoleone Bonaparte, e del primo direttore del Louvre Dominique Vivant Denon, “indennizzò” il nostro paese, e in particolare Venezia, per avere sottratto le immense, in tutti i sensi, Nozze di Cana del Veronese.In previsione del futuro ampliamento, la soprintendente già pensa a cosa esporvi: «Spero che riusciremo a raddoppiare il numero delle opere in mostra»; per esempio, mostrando «la ricostruzione del ciclo dei Camerlenghi», una magistratura finanziaria che aveva sede a Rialto, e i cui dipinti nel tempo sono stati dispersi: «Li stiamo restaurando là dove sono, e cercheremo di

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recuperarli tutti». Intanto, però, le Gallerie dell’Accademia possono soltanto continuare a fare quello che hanno fatto finora: misurarsi con problemi assai gravi e del tutto non risolvibili, che certamente non le permettono, ad esempio, la redditività che pur sarebbe possibile.Oltre a tutto, le Gallerie risentono dell’andamento assolutamente ondivago che è tipico del turismo veneziano: se nel giugno ’99, ad esempio, hanno totalizzato 27.443 visitatori, con un aumento secco del 50 per cento sul medesimo mese del ’98, e sono quindi state l’ottavo museo italiano più visitato 12, a gennaio erano soltanto al 14° posto per numero di biglietti staccati, con appena 13.609 visitatori in tutto: un’assurda media di circa 450 al giorno. Quindi, se a giugno le Gallerie hanno prodotto quasi mezzo miliardo d’incassi, a gennaio hanno introitato soltanto 140 milioni: cioè certamente assai meno di quanto perfino costasse la loro semplice gestione ordinaria. E questo, lo dicono le statistiche, è un malanno antichissimo; si ripete, cioè, puntualmente ad ogni anno.

1 Robbins Landon e Norwich, Five Centuries of Music, cit.2 Neil e Philip Kotler, Museum Strategy and Marketing. Designing Missions Buildings Audiences Generating Revenue

and Resources, San Francisco, Jossey-Bass, 1998; Marketing nei musei. Obiettivi, traguardi, risorse, a cura di Cesare Annibaldi, traduzione di Lorenza Chianura, Torino, Edizioni di Comunità, 1999 (Territori di Comunità).

3 Ivi.4 http://www.beniculturali.it.5 Preceduto, nel 1998, dal Colosseo, Pompei, gli Uffizi, il Palazzo reale e parco di Caserta, le Gallerie dell’Accademia e

il giardino di Boboli a Firenze, Villa d’Este a Tivoli, la Galleria Borghese e i Fori a Roma, Palazzo Pitti ancora a Firenze e Castel Sant’Angelo di nuovo nella capitale, l’Egizio di Torino, le Cappelle Medicee di Firenze, Paestum e Villa Adriana a Tivoli.

6 Da 12.562.147, a 14.221.100; complessivamente, i visitatori dei musei statali sono stati 27.334.681.7 Augusto Gentili, Le storie di Carpaccio. Venezia, i Turchi, gli Ebrei, Venezia, Marsilio, 1996 (Saggi. Storia dell’arte).8 Colloquio con l’autore, settembre 1999.9 Citato in Lidia Panzeri, Arrivano al raddoppio le «Grandi Gallerie» dell’Accademia, «Il Gazzettino», p. 19, 4.9.1999.10 Colloquio con l’autore, marzo 1997.11 Colloquio con l’autore, settembre 1998.12 Dati del Ministero per i beni e le attività culturali, Ufficio stampa.

6.1) Un caso unico: “il giorno più lungo” diventa il più corto

Ma le Gallerie dell’Accademia, oltre che dell’altalenante andamento del turismo veneziano, soffrono perfino per le sue gravi pecche. E lo dimostra un caso clamoroso, perfino quasi incredibile. Nella primavera-estate 1998, dal 7 aprile al 31 ottobre, il Ministero ha organizzato due esperimenti, mai tentati in precedenza almeno in questa forma ed in misura così estesa, denominati Il giorno è più lungo e Domenica al museo, che hanno riguardato alcune tra le maggiori istituzioni espositive statali del paese. L’orario d’apertura di sedici importanti musei statali è stato prolungato ogni sera fino alle 22 (tranne il lunedì per cinque di essi, che osservavano il turno di chiusura settimanale; ma compresa invece la domenica); mentre altri undici luoghi espositivi sono stati resi agibili non nelle serate feriali, ma nei pomeriggi domenicali, sempre fino alle 22, come di solito non accadeva.I dati dei due esperimenti (una volta tanto elaborati con lodevole celerità, ed anzi disponibili pressoché in tempi reali grazie al coordinamento della Direzione generale per gli affari generali, amministrativi e del personale del dicastero) mostrano che entrambi i progetti hanno reso, in termini economici, più di quanto avesse richiesto la spesa per attuarli. In media, il prolungamento d’orario ha portato un incremento pari al 17,67 per cento dei visitatori 13. Ma per le Gallerie dell’Accademia, questo surplus di frequentatori è stato assolutamente assai più ridotto: pari soltanto al 7,34 per cento delle normali presenze. Il gap si ripercuote, logicamente, anche sui costi dell’operazione: se, infatti, i 16 musei interessati all’esperimento, fino al 30 settembre avevano fatto globalmente registrare un’eccedenza degli incassi pari al 16.8 per cento di quanto avesse richiesto la spesa per prolungare gli orari (uscite per 4.671.696 lire; biglietti d’ingresso venduti per 5.459.116.000 lire), la medesima iniziativa, riferita alla pinacoteca veneziana, ha invece richiesto un esborso superiore addirittura del 60.23 per cento rispetto a quanto non abbia reso in termini, si intende, monetari (una spesa di 215.428.000 lire; incassi per 134.448.000 lire) 14.

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Anzi, se si eccettuano quelli del Museo e Galleria di Capodimonte a Napoli (forse, per i problemi di sicurezza posti dal parco attiguo, e per il timore della microcriminalità), e di Castel Sant’Angelo a Roma (la cui visita è strettamente collegata con quelle in Vaticano, che avvengono durante il giorno), il risultato della pinacoteca veneziana è, in assoluto, il più deludente in tutta la penisola. Assai meglio si sono “comportati” i frequentatori serali di tutti gli altri istituti: contro un aumento

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del 7,34 per cento a Venezia, sono stati perfino il 50,29 di quelli dell’intera giornata a Palazzo Altemps; il 46,73 al Museo nazionale archeologico al Palazzo ex Massimo, sempre a Roma; e il 35,76 alla Galleria Borghese (entrambi favoriti anche dal fatto di essere musei di recente apertura al pubblico); o il 28,16 per cento al Cenacolo Vinciano di Santa Maria delle Grazie a Milano (di cui non si era ancora nemmeno inaugurato il restauro), e il 22,28 alla Pinacoteca di Brera, sempre nel capoluogo lombardo; il 30,27 al Museo archeologico di Napoli; il 13,35 a Firenze, agli Uffizi, e così via 15.Lo stesso rilevamento della scansione oraria nell’affluenza alle Gallerie dell’Accademia mostra notevoli discrepanze, se paragonato con quello nei sedici maggiori musei italiani. Pressoché analoga (circa il 12 per cento) durante il primissimo periodo d’apertura, e cioè fino alle 10 antimeridiane, la presenza di pubblico resta sempre superiore di due e più punti percentuali alla media nazionale fino al rilevamento delle ore 13. Successivamente, fino alle 16 è ancora maggiore, ma di un solo punto percentuale; per poi decrescere però improvvisamente ed a ritmi sempre più ingenti, con una vera e propria progressione, man mano che trascorrono le ore. Già tra le quattro e le cinque del pomeriggio, fa registrare quasi un punto e mezzo percentuale in meno, rispetto agli altri grandi musei italiani; che, nonostante l’esiguità dei valori assoluti (in Italia, si va assai più raramente nelle pinacoteche di pomeriggio che non di mattina), diventano più di tre punti tra le 18 e le 19; quasi uno e mezzo tra le 19 e le 20; circa due tra le 20 e le 21. Insomma, quello che per tutto il resto d’Italia è diventato “il giorno più lungo”, per il principale museo statale di Venezia s’è invece dimostrato il “giorno più breve”.Le cause di questo singolare fenomeno sono forse duplici: da un lato, Venezia è città sicuramente faticosa per il turista; richiede lunghi spostamenti a piedi (per giunta, “su e giù per i ponti”), e quindi, il pomeriggio, quando la stanchezza comincia a farsi sentire, è sicuramente tra gli orari meno consoni per una visita museale. Attenzione, però, che essendo tuttora limitato il numero delle persone ammesse contemporaneamente nelle Gallerie, questo, specie durante i fine-settimana, è spesso foriero di lunghe code; il che, dunque, dovrebbe semmai invogliare ad una visita in orari meno congestionati, e non certo dissuaderla.Ma in realtà, questa sensibile differenza tra le abitudini dei visitatori dei musei veneziani e quelle dei loro colleghi nel resto d’Italia discende soprattutto dal tipo di turismo che frequenta Venezia: in gran parte, composto da “pendolari della visita culturale”, quasi da “gitanti”; i quali, quindi, di pomeriggio, e a maggior ragione di sera, pensano piuttosto a rientrare nelle loro sedi d’origine, che non a varcare la soglia di un museo. E analogamente si comportano quanti, certamente non attratti dall’elevato costo degli alberghi nel centro storico, decidono di dimorare in quelli sulla terraferma, o perfino nella provincia.Per contro, i turisti (come abbiamo visto, nella stragrande parte stranieri) che dedicano a Venezia qualche giorno di vacanza risiedendo negli alberghi del centro storico, hanno verosimilmente già messo in conto la visita all’Accademia e, magari non essendo informati dell’opportunità di una visita serale, anche perché l’iniziativa, sperimentale, era stata decisa quasi all’improvviso, l’avevano invece già pianificata nelle ore di normale apertura.

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Comunque, anche questa è un’occasione perduta; una fonte di redditività in buona misura sprecata. Ma la assoluta atipicità del turismo veneziano produce anche ben altri, e perfino maggiori, guasti. Ecco, per raccontarne una, che cosa è accaduto la prima volta in cui qualcuno ha pensato a una job creation nemmeno malvagia. L’idea era venuta, nell’estate 1998, proprio a chi si occupa delle Gallerie dell’Accademia: in previsione dell’apertura estesa anche alla sera, perché non unire l’utile al dilettevole, ed offrire una visita alla pinacoteca compiuta in gondola? Biglietto d’ingresso, visita guidata e transfer da San Marco all’Accademia, in un modo che più veneziano non si può: a 50 mila lire a testa per gruppi di almeno quattro persone sulla medesima gondola; o a 60, se con accompagnamento musicale (non il solito O’ sole mio, propinato agli ingenui e frettolosi turisti giapponesi, ma note rinascimentali: in tono con le opere che le stesse Gallerie conservano). Già preparata anche la locandina pubblicitaria: un dipinto di Francesco Guardi, che ritrae i gondolieri davanti a San Giorgio. Stipulato l’accordo tra museo e gondolieri, un ostacolo si è però frapposto tra l’idea e la sua realizzazione: alle agenzie di viaggio, infatti, restava un margine (il dieci per cento, 12 mila lire a gondola) ritenuto troppo esiguo. «Vero: il primo anno, l’iniziativa, proprio per questo, non ha riscosso i risultati sperati; è stata ben poco propagandata e venduta. Poi, l’abbiamo offerta all’estero, tramite i tour operator, ed è andata sensibilmente meglio: ma questo ha richiesto del tempo; e così, i primi risultati li abbiamo ottenuti soltanto dopo due anni», dice, in soprintendenza, Roberto Fontanari 16.

13 Giuseppe Proietti, I progetti «Il giorno è più lungo» e «Domenica al museo», in Ministero per i beni e le attività culturali, «Notiziario», a cura dell’Ufficio studi, xiii, 56-58, gennaio-dicembre 1998, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1999.

14 Come spiega il direttore generale per gli affari generali, amministrativi e del personale del Ministero per i beni e le attività culturali, Giuseppe Proietti: colloquio con l’autore, novembre 1998.

15 Proietti, I progetti, cit.16 Colloqui con l’autore: settembre 1998 e settembre 1999.