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Dispense 2018-19 PARTE I Che cos’è la filosofia? Di solito, quando si parla di “filosofia”, si pensa a quella materia scolastica o accademica che presenta, in maniera cronologicamente ordinata, le visioni del mondo (in tedesco Weltanschauungen) dei principali pensatori dell’occidente. Questa idea della filosofia come una sorta di storia del pensiero umano, di esposizione sistematica delle concezioni del mondo dei principali filosofi, considerati all’interno del rispettivo contesto storico- culturale, nasconde, però, il vero significato del termine “filosofia”. Filosofare, infatti, significa originariamente e propriamente interrogare, “porre delle domande”, “porsi delle domande”. Ricordiamo alcune delle domande tipicamente filosofiche che tutti prima o poi si pongono: Perché c’è qualcosa e non piuttosto il niente? Qual è il senso dell’esistenza? Che cos’è l’uomo? Come devo rapportarmi all’altro? Mi è lecito fare tutto ciò che sono in grado di fare? Sono libero di autodeterminarmi? O sono il mio corpo, la mia psiche, il mio ambiente a decidere per me? Che cos’è il vero? Che cos’è il bene? Che cos’è il bello? Che cos’è il giusto? La storia ha un significato? Che cosa c’è dopo la morte? Esiste Dio? Chi si pone questo genere di domande, fa filosofia. Questo è il significato originario di “filosofia”. In questo senso fare filosofia è qualcosa che (hanno fatto e) fanno tutti gli uomini, quando si pongono delle domande circa il mondo o la realtà che li circonda. Fare filosofia non è quindi niente di eccezionale: non è qualcosa di riservato a pochi che studiano a scuola o all’università (a una élite). Filosofare (interrogare, porsi domande) è proprio dell’uomo, è una dimensione universalmente umana. L’origine del filosofare Ma perché gli uomini ad un certo punto (o magari fin da bambini) si pongono delle domande? Gli uomini cominciano a porsi delle domande anzitutto di fronte alla enigmaticità, incomprensibilità e complessità della realtà, del mondo, dell’universo. Non a caso, già secondo Platone e Aristotele (i due principali pensatori greci del IV secolo a.C.), alla base del

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Dispense 2018-19

PARTE I

Che cos’è la filosofia?

Di solito, quando si parla di “filosofia”, si pensa a quella materia scolastica o accademica che presenta, in maniera cronologicamente ordinata, le visioni del mondo (in tedesco Weltanschauungen) dei principali pensatori dell’occidente. Questa idea della filosofia come una sorta di storia del pensiero umano, di esposizione sistematica delle concezioni del mondo dei principali filosofi, considerati all’interno del rispettivo contesto storico-culturale, nasconde, però, il vero significato del termine “filosofia”. Filosofare, infatti, significa originariamente e propriamente interrogare, “porre delle domande”, “porsi delle domande”.

Ricordiamo alcune delle domande tipicamente filosofiche che tutti prima o poi si pongono: Perché c’è qualcosa e non piuttosto il niente? Qual è il senso dell’esistenza? Che cos’è l’uomo? Come devo rapportarmi all’altro? Mi è lecito fare tutto ciò che sono in grado di fare? Sono libero di autodeterminarmi? O sono il mio corpo, la mia psiche, il mio ambiente a decidere per me? Che cos’è il vero? Che cos’è il bene? Che cos’è il bello? Che cos’è il giusto? La storia ha un significato? Che cosa c’è dopo la morte? Esiste Dio?

Chi si pone questo genere di domande, fa filosofia. Questo è il significato originario di “filosofia”. In questo senso fare filosofia è qualcosa che (hanno fatto e) fanno tutti gli uomini, quando si pongono delle domande circa il mondo o la realtà che li circonda. Fare filosofia non è quindi niente di eccezionale: non è qualcosa di riservato a pochi che studiano a scuola o all’università (a una élite). Filosofare (interrogare, porsi domande) è proprio dell’uomo, è una dimensione universalmente umana.

L’origine del filosofare

Ma perché gli uomini ad un certo punto (o magari fin da bambini) si pongono delle domande? Gli uomini cominciano a porsi delle domande anzitutto di fronte alla enigmaticità,

incomprensibilità e complessità della realtà, del mondo, dell’universo. Non a caso, già secondo Platone e Aristotele (i due principali pensatori greci del IV secolo a.C.), alla base del filosofare vi è il meravigliarsi, lo stupirsi (in greco thaumázein). L’uomo prova stupore di fronte al mondo così com’è e si interroga circa la sua ragione e il suo fondamento: “perché c’è in generale qualcosa? Che cosa c’è dietro i fenomeni? Perché viviamo?”

Gli uomini tuttavia, in secondo luogo, si pongono delle domande quando il mondo in cui si sono ritrovati ad esistere diventa problematico; quando il modo di concepire la vita (da loro tradizionalmente accettato come qualcosa di ovvio e scontato) appare scosso nelle sue fondamenta; quando entrano in crisi le certezze scientifiche, le fedi religiose, i valori morali, le norme sociali vigenti e dominanti nell’ambiente in cui vivono e sono cresciuti: certezze, fedi, valori e norme che li hanno in qualche modo sorretti e sostenuti fin dall’infanzia. In questo caso ciò che muove il filosofare è il dubbio (cfr. Cartesio) e, quindi, far filosofia equivale a problematizzare, mettere in dubbio, porre in discussione (in greco aporeĩn: dubitare).

Alla base del filosofare vi può essere però, in terzo luogo, anche la coscienza o l’esperienza inquietante e tragica della sofferenza o della morte. La sofferenza e la morte sono esperienze-limite che scuotono l’esistenza nella sua apparente e consueta aproblematicità e spingono a riflettere su se stessi (cfr. Arthur Schopenhauer). Esse fanno nascere la domanda circa ciò che può dare senso alla vita e circa quello che nella vita deve essere visto come essenziale.

Un impulso decisivo a filosofare viene infine dalla necessità che ogni uomo ha di sopperire alla sua costitutiva “carenza istintuale” (Arnold Gehlen). Noi non siamo mossi e determinati dagli istinti, come gli animali, per cui dobbiamo decidere in maniera libera come comportarci, facendoci

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guidare dall’esperienza e dalla ragione. La libertà di autodeterminazione, cioè la minore presenza di comportamenti istintualmente indotti, implica infatti una maggiore elasticità nel modo di configurare l’esistenza. L’uomo, essere istintualmente non determinato, ha quindi bisogno di riflettere costantemente in modo razionale su quale sia il comportamento (giusto o utile) da tenere nelle varie situazioni della vita “ tanto più che l’uomo è un essere che tende a volere raggiungere sempre più di quel sarebbe giusto raggiungere.

La filosofia e il suo metodo

Comunque: sia che alla base del filosofare vi sia l’esperienza dell’enigmaticità, dell’incomprensibilità, della complessità del reale, o la crisi delle certezze, delle fedi, delle convinzioni e dei valori tradizionali, o l’esperienza inquietante del soffrire e del morire, o la necessità di rimediare alla propria carenza istintuale, il filosofare è in ogni caso un andare in cerca di risposte (in greco zêteĩn: ricercare; sképtesthai: indagare). Non a caso filosofia significa etimologicamente amore della sapienza (in greco sophía: sapienza; phileĩn: amare).

Ma in che cosa sta la sapienza? Nel riuscire a comprendere la realtà. Ciò che caratterizza il filosofo (cioè colui che ama la sapienza) è dunque lo sforzo di far chiarezza o su se stesso o su un determinato aspetto della realtà o sulla realtà in quanto tale. Questo impegno per cercare di far chiarezza sull’uomo e sul mondo (che è ciò che caratterizza il filosofo) è il compito primario non solo di ogni individuo, ma anche di ogni epoca storica. Come tale il filosofare è un processo che non avrà mai fine.

Per filosofare, bisogna però seguire un metodo ben preciso, una via ben precisa (dal greco metá + hodós = via). Bisogna anzitutto osservare la realtà, rifarsi all’esperienza (in greco empeiría); in secondo luogo bisogna riflettere sulla realtà, ragionare, pensare (in greco dianoeĩn); in terzo luogo bisogna saper argomentare, cioè addurre argomenti pro o contro una certa tesi (in ciò consiste la dialettica, il “dialogare”: dialégesthai); in quarto luogo bisogna utilizzare il lógos, cioè il linguaggio quotidiano.

La tradizione filosofica

Porsi delle domande è qualcosa che tutti fanno (o possono fare). Certo: molti chiudono gli occhi di fronte ai problemi che pone la realtà, preferendo non porsi tante questioni. In questo caso si attengono a quello che pensano i più, conformandosi ai valori e alle convinzioni dominanti. Tuttavia porsi delle domande è qualcosa di pressoché ineludibile. L’uomo è, per così dire, condannato per natura a filosofare, a far filosofia.

Il fatto che ognuno sia in grado di porsi (e arrivi anche prima o poi a porsi) determinate questioni fa però sì che egli si senta anche legittimato a dire la propria in base alla sua esperienza. E in effetti il modo di essere (ovvero di configurare la sua vita) di ciascuno di noi dipende anche dal modo in cui rispondiamo a determinate domande. Noi non siamo solo spettatori, ma anche attori della nostra vita.

Tuttavia, quando uno si pone un certo problema, non è certo il primo a porselo. Non solo vi sono talune persone che sono esercitate a far filosofia, ma vi sono anche persone che si sono già poste prima di noi (in passato) certe questioni. Il filosofare ha dietro di sé una tradizione. E attraverso quello che altri uomini prima di noi hanno pensato, si crea una coscienza dei problemi che può servire da criterio di misura per il nostro interrogare. Ne consegue che, anche se ognuno di noi è competente a filosofare, far filosofia presenta livelli differenti di competenza: esiste un filosofare buono o cattivo, ingenuo o riflesso. Quindi, se è vero che ognuno può porre determinate domande e cercare di darvi una risposta, è però anche vero che è estremamente utile dialogare non solo con gli altri uomini in generale, ma soprattutto con gli addetti ai lavori (con i pensatori del presente e del passato).

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Ora il dialogo con gli addetti ai lavori del presente (quelli che certi problemi hanno già studiato) può avvenire sul piano della oralità, mentre il dialogo con i pensatori del passato non può svolgersi che tramite la lettura di quello che essi ci hanno lasciato scritto. Si può insomma imparare a filosofare, entrando in dialogo con quello che altri nella storia dell’occidente hanno detto o scritto circa i problemi che ci poniamo. E a questo serve appunto lo studio della filosofia: a entrare in dialogo con quello che altri hanno detto circa i problemi che ci poniamo; a ritrovare nei filosofi del passato i problemi che ci poniamo al giorno d’oggi.

Lo scopo della filosofia

La filosofia, da un lato, mira a comprendere la realtà. In questo senso la filosofa è contemplazione, teoresi (in greco theôría: osservazione, contemplazione), come in Aristotele e in Hegel.

La filosofia, d’altro lato, mira anche a dare indicazioni su come vivere (su come condurre una vita buona), ovvero a dare risposta ai problemi esistenziali, quelli concernenti il senso dell’esistenza. In questo senso la filosofia è saggezza di vita (in greco phrónêsis; sôphrosýne: saggezza), edificazione, come in Socrate e in Kierkegaard.

La filosofia connette però spesso i due aspetti: essa cioè osserva e studia la realtà per dare indicazioni su come vivere nel modo migliore possibile. In questo modo la sapienza è fonte di saggezza e la saggezza si fonda sulla sapienza.

La filosofia e le singole scienze

In origine il filosofo era una persona che si poneva i problemi più diversi e affrontava le questioni più diverse. Ad esempio, Aristotele (IV secolo a.C.) era al contempo un logico, un fisico, un biologo, un ontologo, uno psicologo, un teologo. Tuttavia l’aumento della quantità delle conoscenze ha portato, col tempo, alla necessità di avere specialisti per i singoli ambiti di studio. Gli specialisti sono, infatti, persone che si occupano solo di un ben preciso e determinato ambito conoscitivo. Si può quindi dire che le singole scienze siano nate per gemmazione dalla filosofia, cioè si siano rese autonome dalla filosofia quando l’aumento della quantità delle conoscenze ha reso necessaria una specializzazione della ricerca.

Oggetto, metodo e suddivisione delle scienze

Le scienze hanno per oggetto un determinato aspetto o ambito del reale: la medicina si occupa del corpo umano; l’astronomia dei corpi celesti; la fisica delle leggi meccaniche, elettriche, termodinamiche; la chimica degli elementi e dei composti chimici.

Le scienze hanno inoltre un metodo loro proprio, fatto di analisi empirica (esperimenti) e di riduzione del qualitativo al quantitativo (matematizzazione del reale).

Le scienze si suddividono in: scienze formali (logica, matematica), scienze naturali (fisica, chimica, astronomia, medicina, biologia, ecc.) e scienze della cultura. Queste ultime si suddividono a loro volta in scienze dello spirito (che hanno per oggetto la storia, la religione, il linguaggio, l’arte) e scienze sociali ed economiche (che hanno per oggetto le strutture sociali ed economiche).

Rapporto tra la filosofia e le scienze

Che rapporto c’è fra filosofia e scienze?Le scienze si occupano prevalentemente di un determinato ambito o settore della realtà, finendo

spesso per frantumarlo in ambiti e settori sempre più particolari e specifici, al fine di conseguire conoscenze sempre più precise e puntuali.

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La filosofia, pur non potendo ignorare i risultati delle scienze (pena una caduta nell’astrattezza o nell’insensatezza), tende a sintetizzarli, superando la riduzione tematica e metodologica delle scienze: l’antropologia filosofica novecentesca (Max Scheler, Helmuth Plessner, Arnold Gehlen) mira a ricomporre ad unità i risultati delle scienze umane, cioè mira a dare una visione unitaria dell’uomo a partire dai risultati delle scienze umane, che si occupano di aspetti particolari della realtà umana. La realtà infatti non è riducibile a quello che di essa ci dicono la fisica o la chimica o la biologia, ecc., cioè a quello che di essa ci dicono le singole scienze, ma è qualcosa che va al di là di quello che le singole scienze ci possono dire di essa.

Inoltre la filosofia risponde alle questioni cui le scienze, in quanto scienze, non possono rispondere (bene e male, giusto e ingiusto, senso della vita, felicità, esistenza di Dio, ecc.).

Le discipline filosofiche

Numerosi sono i temi (o gli aspetti del reale) di cui si occupa la filosofia. Si spiega così l’esistenza di una molteplicità di discipline filosofiche. Ricordiamo le principali.

La metafisica (dal greco tà metà tà physiká: ciò che sta al di là della natura, della phýsis) si occupa di ciò che costituisce l’essenza prima (o ultima) del reale, delle strutture prime (o ultime) del reale, dei principi primi (o ultimi) del reale. Tali principi sono “primi”, se li si considera “dal punto di vista della realtà”, dal punto di vista cioè che nella tradizione si chiama l’ordo essendi (l’ordine dell’essere), mentre sono “ultimi”, se li si considera dal punto di vista del conoscere, dal punto di vista cioè che nella tradizione si chiama l’ordo cognoscendi (l’ordine del conoscere). Essi, infatti, sono i principi che nella conoscenza vengono colti per ultimi (perché stanno dietro le realtà sensibili e fenomeniche), mentre nella realtà vengono prima di tutti gli altri (perché stanno alla base della realtà, sono le strutture portanti della realtà). Non a caso Aristotele parlava (a proposito di quella che dopo di lui verrà chiamata metafisica) di filosofia prima.

La metafisica (o filosofia prima) nella misura in cui si occupa dei principi primi (o ultimi) del reale (dell’essere) si chiama ontologia (da tò ón, toữ óntos: l’essente, l’ente = participio presente del verbo eĩnai: essere); nella misura in cui si occupa del principio primo (o ultimo) del reale, cioè dell’essere sommo, si chiama teologia (theós: dio).

Fino al Settecento si parlava di una metaphysica generalis “ che si occupava dell’essere in generale “ e di una metaphysica specialis “ che si occupava dell’anima umana (psicologia), del mondo in quanto insieme degli esseri (cosmologia) e di Dio (teologia).

L’antropologia (dal greco ánthrôpos: uomo) filosofica ha come oggetto la natura dell’uomo. Cercare di determinare ciò che è essenzialmente e universalmente umano (ciò che inerisce essenzialmente e universalmente all’essere-uomo) serve non solo a chiarire la posizione dell’uomo all’interno del mondo (nei suoi rapporti, ad esempio, con il resto della natura vivente), ma anche a indirizzare la prassi umana. La concezione che si ha dell’uomo è infatti decisiva per cercare di dare una risposta non solo al problema di come possa l’individuo realizzare sensatamente la sua esistenza, ma anche al problema di come debba essere strutturata e configurata la società per essere degna dell’uomo.

La teologia (dal greco theós: dio) filosofica si occupa del problema di Dio, così come è afferrabile dalla ragione.

L’etica (dal greco ễthos: costume, tradizione) “ o filosofia morale (dal latino mos, moris: costume, tradizione) “ si occupa del comportamento umano e delle norme che dovrebbero regolare l’agire degli uomini. Il suo scopo è indicare i fondamenti capaci di garantire un agire giusto, razionale e sensato (nonché una convivenza sociale giusta, razionale e sensata). Per questo essa si pone in rapporto critico rispetto alla morale vigente in una società. I principi fondativi dell’etica non possono però rifarsi ad autorità esterne alla ragione, ma devono essere universalmente validi e razionalmente persuasivi.

L’estetica (dal greco aísthêsis: sensazione) si occupa del bello di natura e del bello artistico (e quindi dell’arte). Essa mira a determinare in generale l’idea del bello e le forme che esso assume

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nelle arti e nella natura, come pure dell’effetto del bello sul fruitore. A seconda dell’impostazione, essa procede in maniera puramente descrittivo-funzionale o in maniera prescrittivo-normativa. Accanto ad una teoria delle arti, vengono discusse le questioni del giudizio estetico e delle forme del sentire e dell’esperire estetico.

La logica (dal greco lógos: discorso, ma anche pensiero) si occupa del funzionamento del pensiero (di come proceda il pensiero corretto, ordinato e conseguente). La logica formale classica era divisa in due parti: la dottrina degli elementi (in cui si studiavano i tre elementi-base del pensare: concetto, giudizio, sillogismo) e la dottrina del metodo (in cui si analizzava il procedimento di ricerca e di dimostrazione). La logica moderna tende a formalizzare e matematizzare il più possibile i procedimenti del pensare e, a tal fine, si serve di un sistema di segni (simboli) che si possono connettere tra loro sulla base di determinate regole operative.

La gnoseologia (dal greco gnỗsis: conoscenza) si occupa del problema della conoscenza, ovvero dell’essenza e dei limiti della conoscenza.

L’epistemologia (dal greco epistếmê: scienza) si occupa del problema della conoscenza scientifica, sottoponendo ad un esame critico i metodi, i fondamenti, i concetti e gli scopi delle singole scienze.

La filosofia del linguaggio analizza l’origine, lo sviluppo, il significato e la funzione della lingua. La filosofia del linguaggio oggi predominante (che si rifà a Wittgenstein) si suddivide in due correnti: la corrente del “linguaggio ideale” cerca di creare un linguaggio formalizzato di alta precisione logica, che risponda alle esigenze della scienza esatta. La corrente del “linguaggio ordinario” analizza, invece, il linguaggio quotidiano nei suoi usi e nelle sue valenze.

La filosofia della storia analizza essenza e significato dello sviluppo storico, per cercare di comprendere la storicità dell’uomo.

La filosofia della religione s’interroga sull’essenza del fenomeno religioso e ne analizza il significato e la funzione per l’uomo e all’interno della società.

La filosofia del diritto si occupa del problema della fondazione del diritto e, in particolare, del problema se ci sia una norma sovraordinata da cui si possa dedurre l’intero diritto (come nel caso, ad esempio, del diritto naturale).

La filosofia sociale e la filosofia politica analizzano struttura, funzione e significato della società e dello stato. In esse l’uomo viene visto come essere sociale che realizza se stesso nella comunità. Oggigiorno questo implica anche una critica delle condizioni di vita nelle moderne società industriali.

Filosofia e religione

La filosofia nasce in Grecia in dialogo critico con le interpretazioni mitico-religiose del mondo.Che cos’è la religione? Una religione nasce dall’incontro dell’uomo con il fondamento ultimo della realtà (lo si chiami

Dio, Assoluto, Trascendenza, Sacro, ecc.). Come fenomeno storico, una religione implica un’interpretazione complessiva del mondo (e della vita dell’uomo al suo interno), un’etica (o una precettistica), atta a indirizzare e regolare il comportamento degli uomini, una serie di riti (dalla preghiera privata e pubblica al culto comunitario) e una promessa “escatologica” (cioè alla fine dei tempi; éschaton: fine) di redenzione (o liberazione) dal male, in una dimensione (aldilà o aldiquà) radicalmente diversa dall’attuale. Non a caso religione deriva etimologicamente o dal latino relegere (“ripetere”, iterare gli atti di culto) o dal latino religare (“legame col divino”).

Che differenza c’è tra filosofia e religione?La religione si fonda su una rivelazione (o manifestazione) di Dio (qualunque sia poi il nome

con cui si denomina questo Dio). Oltre che di rivelazione di Dio, si parla anche di esperienza di Dio da parte dell’uomo o di illuminazione dell’uomo da parte di Dio. In tutti i casi Dio rappresenta il polo attivo dell’incontro e l’uomo il polo passivo dell’incontro.

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La rivelazione di Dio può coincidere con un evento storico puntuale e unico: la promulgazione di una legge, come nella tradizione ebraica, in cui il Dio Jahvé si rivela a Mosè sul monte Sinai e gli consegna le tavole della legge, della Torah; le vicende di una persona, come nella tradizione cristiana, in cui Dio si rivela nell’uomo Gesù di Nazareth; la dettatura di un libro, come nella tradizione musulmana o islamica, in cui Dio si rivela dettando a Maometto il Corano. In altre religioni, invece, la rivelazione di Dio non è legata a un evento storico unico e puntuale, ma si ripete nel tempo (come nella tradizione induista, dove le successive rivelazioni di Dio agli uomini si sono depositate nei libri sacri, che contengono racconti mitici di vicende avvenute in tempi remoti, insegnamenti dottrinali e sapienziali, disposizioni cerimoniali e cultuali).

Oltre che fondarsi su una rivelazione divina, la religione si avvale, però, anche della riflessione razionale (che dà vita a varie forme di “teologia” o “filosofia”) e fa perno su una tradizione, cioè su quello che la comunità dei credenti, la riflessione dei sapienti o i commenti dei maestri hanno fissato e tramandato come verità nel corso dei secoli.

La filosofia muove, al contrario, dall’esperienza quotidiana del mondo, si fonda sul ragionamento, sull’argomentazione razionale e sul dialogo con gli altri (a livello orale e scritto), senza rifarsi ad alcuna autorità esterna (divina, rivelata, convenzionale o tradizionale).

La filosofia come critica dell’ideologia

La filosofia ha sempre svolto la funzione di analisi critica delle certezze e delle convinzioni religiose, morali, politiche e giuridiche tradizionali. Come tale, oggigiorno essa ha assunto anche la funzione di critica dell’ideologia.

Che cosa s’intende per ideologia? Vi sono almeno tre concetti di ideologia: un concetto marxista di ideologia, un concetto positivista di ideologia e un concetto sociologico di ideologia.

Per il marxismo ideologia è ogni teoria che tenda a legittimare e stabilizzare i rapporti di dominio esistenti.

Per il neopositivismo ideologia è ogni teoria che, pur non essendo empiricamente verificabile, pretenda di spiegare la realtà nella sua totalità e di prevedere il futuro.

Per la sociologia ideologia è ogni concezione religiosa, morale, politica o culturale, socialmente condivisa, che sia in grado di condizionare la libera riflessione e autodeterminazione degli individui.

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PARTE II

Come insegna la biologia1 (una scienza che, negli ultimi due secoli, ha fatto enormi progressi 2), la vita si distingue dalla materia morta, inorganica, per alcune importanti caratteristiche.

Anzitutto essa si manifesta in individui (organismi), cioè in esseri viventi singoli e unici, che hanno la capacità di trasformarsi in maniera autonoma, sia internamente che esternamente, grazie al metabolismo, frutto della respirazione (scambio dei due gas ossigeno e anidride carbonica, al fine di liberare energia) e dell’alimentazione (assunzione di cibo, digestione, evacuazione).

A caratterizzare gli esseri viventi sono, inoltre, la capacità di rispondere con determinate reazioni a influssi esterni, provenienti dall’ambiente circostante (eccitabilità), la capacità di crescere a partire da un nucleo iniziale (crescita) e la capacità di moltiplicarsi (riproduzione).

Ogni essere vivente infine si sviluppa irreversibilmente da un momento iniziale (nascita) a un momento finale (morte).

Nella biologia odierna si è imposta in genere la teoria evoluzionistica di Charles Darwin3, secondo cui

a) tutte le specie viventi possono mutare (mutabilità delle specie, contro costanza delle specie di Linneo); e

b) tutte le specie viventi si sono sviluppate da forme inferiori a forme superiori, da forme più semplici a forme più complesse (evoluzione progressiva delle specie)4.

A costituire il motore dell’evoluzione, che procede in maniera “casuale”, non-teleologica, sono le mutazioni, cioè i cambiamenti casuali nei genotipi, mentre a fungere da legge dell’evoluzione è la selezione tra i nuovi esseri viventi, per cui, nella lotta per la sopravvivenza (struggle for life) che costituisce la legge di fondo della natura, a imporsi sono gli individui più resistenti e più forti, ovvero quelli meglio attrezzati per adattarsi alle condizioni dell’ambiente (survival of the fittest)5.

L’uomo appartiene alla classe dei mammiferi e, tra i mammiferi, all’ordine dei Primati, che comprende le proscimmie (lemuri-formi, tarsi-formi, lorisi-formi), le scimmie (catarrine o «del vecchio mondo» e platirrine o «del nuovo mondo») e gli Ominoidi (grandi scimmie o scimmie antropomorfe).

Questa superfamiglia si divide nelle famiglie degli Ilobatidi (gibboni) e degli Ominidi, che, a loro volta, comprendono i Pongini (oranghi), i Gorillini (gorilla) e gli Ominini, in cui rientrano i Pan (bonobo e scimpanzé), gli australopitechi, nonché i vari tipi di Homo: Homo habilis; Homo erectus; Homo neanderthalensis; Homo sapiens.

I gorilla, i bonobo e gli scimpanzé sono i nostri parenti più prossimi, come appare evidente dalla forma corporea, dallo sviluppo embrionale, dalla composizione sanguigna e dalla struttura genetica. Questo non significa, però, che le scimmie attualmente esistenti siano gli antenati diretti degli uomini. Le scimmie e gli ominoidi sono, infatti, rami autonomi della linea dei primati, che si è divisa circa 25 milioni di anni fa.

1 La biologia si divide tradizionalmente in quattro settori: la microbiologia, che si occupa dei microrganismi come batteri o virus, la botanica, che si occupa delle piante, la zoologia, che si occupa degli animali, e l’antropologia, che si occupa degli uomini.

2 La biologia studia trasversalmente diversi aspetti della vita: a studiare le forme e le regole di costruzione degli esseri viventi e delle loro parti costitutive è la morfologia, suddivisa in anatomia (parti costitutive), organologia (organi), istologia (tessuti), citologia (cellule); a studiare i processi vitali, cioè le attività e le leggi degli organi, dei tessuti e delle cellule, è la fisiologia; a studiare le leggi dell’ereditarietà, i caratteri ereditari (geni) e i portatori dell’ereditarietà (cromosomi) è la genetica; a studiare l’evoluzione dei singoli esseri viventi e delle specie sono rispettivamente l’ontogenesi e la filogenesi; a studiare la preistoria degli esseri viventi è la paleontologia. A queste si aggiungono l’ecologia, come scienza delle relazioni reciproche tra gli organismi e il loro ambiente, e l’etologia, quale scienza del comportamento di animali e uomini.

3 Cfr. Ch. Darwin, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, 1859 (L’origine delle specie), e Id., The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, 1871 (L’origine dell’uomo).

4 Le principali tappe del processo evolutivo che ha portato all’uomo sono: organismi unicellulari, piante, pesci, anfibi, rettili, uccelli, mammiferi, uomo.

5 Darwin utilizzava l’espressione «lotta per l’esistenza» in senso ampio e figurato, comprendendovi non solo la competizione con gli altri individui, ma anche la risposta alle sfide dell’ambiente naturale nel suo complesso; ma teneva a chiarire malthusianamente che, «siccome nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli individui della stessa specie sia tra quelli di specie differenti oppure con le stesse condizioni materiali di vita» (Ch. Darwin, L’origine delle specie, Roma 1974, p. 112).

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Nonostante la sua discendenza dal regno animale, tuttavia, l’uomo resta un essere particolare e unico. Egli non è solo il mammifero più sviluppato, ma è qualcosa di essenzialmente nuovo. Biologicamente le principali differenze tra uomo e animale sono o differenze graduali (quantitative), che costituiscono il presupposto per ciò che è specificamente umano, o differenze essenziali (qualitative), che fanno dell’uomo appunto un uomo.

Le differenze graduali, che mostrano come l’uomo si collochi su un gradino del tutto peculiare dell’evoluzione e che costituiscono al contempo il fondamento della sua essenziale diversità, si riferiscono: a) alla costituzione corporea; b) al suo comportamento e c) al suo sviluppo.

Per quanto concerne le differenze nella costituzione corporea, il tratto esteriore più vistoso è la postura eretta, che è il presupposto fondamentale per avere una visione complessiva del mondo circostante e un rapporto distanziato con l’ambiente, nonché l’andatura bipede, che ha consentito di liberare le mani dalla deambulazione e trasformarle in strumento fondamentale per adempiere funzioni specificamente umane (produzione di attrezzi e opere d’arte).

Una seconda caratteristica che diversifica l’uomo dalle scimmie antropomorfe, è la presa di precisione, cioè la capacità che solo l’uomo ha di toccare con il polpastrello del pollice i polpastrelli di tutte le altre dita e quindi di poter eseguire gesti delicatissimi (cucire, plasmare, lavorare ‘di fino’).

Una terza caratteristica esteriore peculiare dell’uomo è la sua rada peluria (il «mammifero senza pelo» o la «scimmia nuda»6), ovvero la sua pelle nuda e liscia che lo costringe a fabbricare e a indossare dei vestiti per scaldarsi, ma gli consente altresì di manifestare una particolare forma di affettuosità: l’accarezzarsi.

In quarto luogo gli organi esterni dell’uomo mostrano una minore specializzazione rispetto a quelli degli animali, determinando la sua inferiorità. L’uomo non ha organi di combattimento (dentatura da rapace, corna, zoccoli), mentre i suoi organi di senso sono deboli e il suo movimento è lento e pesante. Per questo Arnold Gehlen lo ha definito l’«essere carente» 7. Ma queste carenze sono appunto il presupposto perché egli faccia opera di adattamento e di compensazione tramite la tecnica.

In quinto luogo, per quanto concerne gli organi interni, a distinguere in particolare l’uomo dall’animale è la laringe, ovvero il suo abbassamento con il conseguente collegamento tra le vie respiratorie e quelle alimentari. Ciò ha permesso che si sviluppasse una cavità faringea liberamente deformabile, che è il presupposto perché l’uomo emetta suoni articolati e sviluppi il suo linguaggio verbale.

Ciò che distingue in maniera decisiva gli uomini dagli animali, per quanto concerne gli organi interni, è però il cervello, che è tre volte più grande (circa 1400 cm3), più pesante (circa 1300 gr) e più differenziato (100 miliardi di neuroni e sinapsi) rispetto a quello di uno scimpanzé, la scimmia più intelligente e più vicina all’uomo. Il cervello, che è l’organo più sviluppato dell’intera natura organica, è infatti il presupposto per ciò che di più alto l’uomo possiede: lo spirito, con tutte le sue facoltà intellettuali.

Per quanto concerne le differenze comportamentali rispetto all’animale, l’uomo non ha un legame istintuale con l’ambiente. Mentre l’animale reagisce istintivamente a un ambiente circoscritto, l’uomo si caratterizza per un’insicurezza istintuale e quindi per un comportamento istintualmente non determinato. In questo senso è stato detto che l’uomo è un essere «aperto al mondo» (Max Scheler), «eccentrico» (Helmuth Plessner), capace di auto-trascendersi. Questa sua eccentricità o apertura è, d’altra parte, il presupposto per qualcosa che soltanto l’uomo possiede: una ragione capace di rivolgere il suo interesse a qualsiasi cosa.

In secondo luogo l’uomo si distingue dagli animali perché non ha blocchi istintuali, ovvero perché i suoi istinti non vengono regolati o impediti dall’istinto. Non a caso manca di misura

6 D. Morris, The Naked Ape. A Zoologist’s Study of the Human Animal, 1967; La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo Milano 2003.

7 A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, 1940; L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1990.

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nell’appagamento del piacere (mangiare e bere; sessualità) e nell’aggressività (distruzione pianificata di esseri della stessa specie e distruzione pianificata di se stesso). La mancanza di limiti pulsionali istintuali è, tuttavia, a sua volta il presupposto per qualcosa che soltanto l’uomo possiede: la libertà d’azione.

Un terzo tratto comportamentale che distingue l’uomo dall’animale è la sua capacità di ridere e piangere. Il riso e il pianto sono «reazioni-limite» (Helmuth Plessner) proprie solo dell’uomo, in cui trovano espressione corporea moti o eccitazioni interiori. Questa capacità di reazione corporea è però il presupposto per la vita sentimentale specificamente umana.

Per quanto concerne le differenze nello sviluppo, l’uomo si distingue da altri mammiferi a lui simili per la totale mancanza di autonomia nel primo anno di vita: si può dire che l’uomo lasci prematuramente (circa un anno in anticipo) il corpo della madre, ovvero viva una «primavera extrauterina» (Adolf Portmann). In quanto non può né muoversi, né trovare alimenti da solo, il lattante, nella sua impotenza, non può fare a meno, per sopravvivere, della madre (o di una persona sostitutiva). Questo «anno di utero sociale» si evolve, però, in un «contatto sociale obbligatorio»: dopo aver imparato a stare seduto, a stare in piedi e a camminare, il bambino ha infatti bisogno del rapporto con altri uomini per appropriarsi del linguaggio tipicamente umano. Tutto ciò mostra che l’uomo è un essere sociale, il quale ha bisogno di amore e dedizione.

In secondo luogo l’uomo si distingue dall’animale, perché ha un periodo di maturazione molto più lungo. Il suo complessivo processo di sviluppo è infatti molto lento: diventa sessualmente maturo molto tardi (13-16 anni) e raggiunge la sua forma corporea definitiva solo dopo il periodo della pubertà (16-18 anni), che ha solo lui. In particolare, però, sviluppa le sue tipiche facoltà psichiche e spirituali solo gradualmente e solo con l’aiuto di altri uomini. Questo processo di formazione mostra che l’uomo ha bisogno di educazione e insegnamento e, quindi, di essere guidato e diretto dall’esterno. In terzo luogo l’uomo si distingue dagli altri mammiferi a lui simili per la sua longevità, in quanto ha una durata di vita che è circa il doppio di quella delle grandi scimmie. Per quanto il declino fisico dell’uomo sia simile a quello delle scimmie, l’uomo anziano presenta dei tratti affatto particolari: sul piano spirituale mostra un’individualità più accentuata, una personalità più spiccata, nonché una saggezza e una posatezza che gli derivano dal tesoro di esperienze fatte e più volte messe alla prova durante la vita. L’uomo è cioè un essere personale che vive di tradizioni e quindi ha bisogno di un contatto tra le generazioni.

Sulla base dei più recenti risultati della biologia i confini tra animale e uomo si fanno però sempre più labili, anzi sembrano addirittura scomparire: ciò che prima era considerato puramente umano, lo si ritrova in nuce anche negli animali; ciò che prima era considerato meramente animale, lo si ritrova adesso in nuce anche negli uomini. Si pone dunque il problema se esistano delle differenze qualitative o essenziali tra uomini e animali.

Secondo Adolf Portmann, tre cose distinguono l’uomo dall’animale («triade umana»): lo stare in piedi, il parlare e il pensare. Dato che però lo stare in piedi può essere considerata una differenza graduale, si può dire che a segnare la fondamentale differenza dell’uomo dagli animali sia soprattutto la sua spiritualità, che si manifesta nella razionalità (intellezione e autocoscienza), nella volontà libera (decisione e responsabilità), nel linguaggio verbale, nonché nella cultura e nella religione.

L’intellezione, come comprensione di nessi sensati, si ritrova in nuce anche negli animali (uso degli strumenti da parte degli scimpanzé). Peculiare dell’uomo è però la facoltà di riflettere su di sé, cioè di spostare l’attenzione dagli oggetti del mondo esterno all’Io e alla sua attività e, quindi, di interrogarsi su se stesso e di prendere distanza da se stesso. L’uomo è autocoscienza. Al contempo, però, l’uomo non è istintualmente vincolato alle sue pulsioni, ma può, a suo piacere o a suo arbitrio, seguirle o contravvenire coscientemente ad esse. Inoltre può scegliere tra diverse sollecitazioni, mentre l’animale segue solo la sollecitazione più vicina o più forte. L’uomo è volontà libera.

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La spiritualità umana si manifesta, poi, esteriormente nel linguaggio verbale o concettuale. Anche gli animali comunicano tramite dei suoni (gli scimpanzé, ad esempio, dispongono di 23 suoni), ma si tratta solo di suoni istintuali fissi (gridi d’allarme o di richiamo) che rappresentano sempre delle reazioni a (o indicazioni circa) qualcosa di presente e reale. Già quanto ai suoni, invece, il linguaggio umano è un insieme unico di consonanti e vocali che gli scimpanzé, nonostante numerosi esperimenti, fanno fatica a imitare. L’elemento che distingue gli uomini dagli animali è, però, soprattutto l’uso di parole che traducono concetti astratti in una serie di suoni. Tali parole, infatti, sono dei segni (o simboli), che fanno astrazione da una determinata situazione ambientale o dalla presenza diretta dell’oggetto significato, per cui non solo sono sempre disponibili, ma possono indicare anche qualcosa di assente, di passato o di futuro. La capacità di parlare una determinata lingua non è, però, un dato istintivo e innato, bensì è il risultato della sua trasmissione da parte di un gruppo sociale. In questo senso l’uomo è anche un essere che vive di tradizioni. Infine, dato che il linguaggio verbale rende possibile la mediazione di capacità, esperienze e saperi, ogni uomo può fare da maestro ad altri. L’uomo è quindi anche un essere che insegna e che impara. Dato che l’uomo può memorizzare, tramite concetti, cose ed esperienze non più presenti, l’uomo è anche un essere che ricorda.

La spiritualità dell’uomo si oggettiva infine nella cultura e nella religione. Mentre l’animale riesce a manipolare la materia solo in misura limitata e istintualmente

determinata (costruzione del nido, costruzione del favo), l’uomo, grazie alla sua ragione e alla sua libertà, è in grado di modellare la materia in modi sempre nuovi, nonché di trasformare radicalmente l’ambiente circostante, producendo quella che chiamiamo una «cultura». «L’uomo è per natura un essere culturale» (Gehlen). Si pensi a tutto quello che l’uomo è in grado di fare a differenza degli animali: non c’è animale che usi il fuoco; che progetti o utilizzi delle armi artificiali; che si dia al commercio; che inventi e costruisca delle macchine, che dipinga e scolpisca; che componga o faccia musica con degli strumenti; che scriva o abbia dei libri, che vada a scuola, che faccia scienza, che abbia tribunali giudicanti, che sviluppi medicine in grado di curare i suoi simili.

Un’ultima caratteristica che distingue l’uomo dagli animali è la sua religiosità, cioè il fatto che egli coltivi (o affermi di coltivare) un rapporto con potenze spirituali più alte, con qualcosa di Divino o con Dio. È quanto dimostrano già molti reperti risalenti alla preistoria: oggetti di culto, tracce di offerte votive o di riti sacrificali, pitture parietali, come pure i libri di preghiere stesi dopo la scoperta della scrittura. L’uomo è un essere religioso. Inoltre, mentre gli animali non si occupano della morte di altri esemplari della loro specie, l’uomo fin dalla preistoria seppellisce i defunti. Infine mentre l’animale ha un orizzonte istintualmente vincolato all’ambiente immediatamente circostante, l’uomo ha la capacità, grazie al suo spirito infinitamente aperto, di andare col pensiero addirittura al di là di tutto ciò che è visibile. Il fatto che gli uomini (già nella preistoria) deponessero nelle tombe accanto al morto determinati oggetti (cibi, ornamenti, attrezzi, armi) dimostra chiaramente come gli uomini abbiano sempre creduto a una vita dopo la morte.

PARTE III

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Forme della felicità

C’è una felicità episodica (cioè momentanea, fugace) e c’è una felicità periodica (cioè più persistente e duratura).

……………….

La felicità episodica può essere 1) il frutto di un colpo di fortuna, come a) vincere alla lotteria o b) sopravvivere ad un grave incidente.

1a: vincere alla lotteria. Questa è in genere una felicità casuale, “aleatoria” (nel senso etimologico del termine = àlea: dado, rischio), che ci capita per lo più immeritatamente e inaspettatamente, senza nostro intervento o a prescindere dai nostri sforzi – seppur è innegabile che a volte possa essere (almeno in parte) il prodotto di un fiuto particolare nel sapere riconoscere un’occasione propizia e quindi nel saper approntare opportuni strumenti atti a consentire di cogliere tale kairós (luck is where opportunity meets preparation). E, in effetti, un’esperienza è tanto più entusiasmante quanto più è frutto di una grande fatica, di un notevole sforzo, mentre è fonte di minor felicità se non ha comportato impegno alcuno.

1b: sopravvivere a un grave incidente. C’è infatti anche una «fortuna nella sfortuna». In realtà questa idea positiva della “fortuna” è propriamente moderna: se infatti nella modernità la parola «fortuna» viene sempre più spesso a indicare una coincidenza fortunata, cioè l’accadere di qualcosa di desiderato, nell’antichità essa aveva una valenza ancora sostanzialmente neutra, in quanto poteva indicare una coincidenza sia di senso positivo che di senso negativo per l’individuo. Per questo forse era venerata e temuta come una dea: Týchê, fortuna (da fors = caso), che può essere prospera o adversa.

La felicità episodica può essere anche 2) il prodotto di un’esperienza a) sconvolgente (innamorarsi), b) appagante (vincere un’importante sfida, raggiungere una nuova conoscenza, fare un’interessante scoperta, sperimentare una nuova occupazione), c) piacevole (gustare il sapore e il profumo di un buon caffè, vedersi un bel film, conversare amabilmente con l’amata o l’amico).

…………….

La felicità periodica può essere 1) il risultato dell’immersione a) in un oggetto d’interesse o b) in un’attività pratica

Secondo M. Csikszentmihalyi (= pron. “chicks send me high”) la parola “flow” (“essere”nella”corrente”) indica quell’esperienza umana profondamente appagante per cui un individuo si abbandona completamente a un’attività. Il “flow” lo ritroviamo nelle arti figurative, nelle competizioni sportive, nella prassi spirituale o in un compito avvincente e appassionante e descrive il forte impulso, che si ritrova soltanto nell’uomo, a crescere oltre se stessi, a trionfare sui propri limiti, ad andare al di là del puro interesse personale e a vedersi come parte di qualcosa di più grande.

La felicità periodica può essere anche 2) il risultato dell’identificazione istintiva e profonda con la corrente della vita (l’eúroia bíou) da cui lasciarsi cullare e trasportare

«Indubbiamente dobbiamo desiderare la felicità di coloro che amiamo, ma non quale alternativa alla nostra felicità. Infatti l’antitesi tra il proprio io e il resto del mondo, implicita nella dottrina della negazione di sé, scompare non appena abbiamo un interesse genuino per persone o cose al di fuori di noi. Grazie a simili interessi un uomo riesce a sentirsi parte della corrente di vita […] È in

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questa profonda unione istintiva con la corrente della vita che si trova la massima gioia» (B. RUSSELL)

La felicità periodica può essere infine 3) il portato di una forma di vita, lucidamente scelta e perseguita, capace di garantire senso e pienezza all’esistenza e quindi serenità e armonia interiore (eudaimonía).

«All’anima appartengono la felicità e l’infelicità […] La felicità (eudaimonía) non risiede né negli armenti né nell’oro; l’anima (psychế) è la dimora del demone (daímôn)» (DEMOCRITO, 68 A 170”171).

……………………………..

Gradi della felicità

Per quanto riguarda la gradazione, la felicità può manifestarsi 1) in un sentimento improvviso, intenso, impetuoso, quasi violento, che ci assale in maniera

inattesa che può a volte apparire paradossale (come nel caso di un’euforia improvvisa per cui, come si

dice, «non so cosa mi stia capitando») o può a volte risultare irritante (come nel caso del senso di trionfo alla notizia della sconfitta o

della morte di un rivale);

2) in un sentimento (forse meno intenso, ma più profondo) di coinvolgente «ben-essere» che dura e si mantiene più o meno costante per un certo lasso di tempo.

Comunque in tutti i casi, in virtù del carattere olistico della natura umana, la felicità è uno stato affettivo che coinvolge tutti i lati della persona, per cui implica sempre anche una sensazione di piacere fisico.

Dolore (álgos, dolor, pain, doleur, Schmerz) e piacere (hêdonế, voluptas, plaisure, plaisir, Lust) sono termini che indicano soprattutto due esperienze fisiche, mentre sofferenza (lýpê, páthêma, thlĩpsis, labor, sorrow, grief, malheur, Leiden) e felicità (eudaimonía, makariótês, makaría, felicitas, happiness, bonheur, Glück) indicano soprattutto esperienze psichiche, anche se questa distinzione è meramente formale, in quanto la visione olistica dell’uomo presuppone una complementarietà e una coimplicanza costante di questi due aspetti della conditio humana. Cfr. J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano (1689), II, 21, 43: «La felicità nella sua piena estensione è il massimo piacere di cui siamo capaci e l’infelicità è il massimo dolore; e il grado più basso di ciò che può essere chiamato felicità è quel tanto di sollievo dal dolore e quel tanto di piacere attuale senza i quali nessuno può essere contento».

Nelle odierne società opulente, che alcuni sociologici hanno definito «società delle emozioni o delle sensazioni forti» e che tendono a rimuovere completamente il dolore fisico e psichico (anestetizzazione e ospedalizzazione del dolore)

La favola del paese di Bengodi descrive una società opulenta che non ha il problema della carenza di risorse, tanto che tutti, nessuno escluso (nessuno è privilegiato o danneggiato), possono soddisfare pienamente i loro desideri. La vita consiste in un interrotto godimento. La felicità di questa vita sta quindi totalmente nel consumare e nel digerire, senza che sia necessario alcuno sforzo per conservare questo stato di cose (infatti non bisogna né lavorare né preparare da mangiare). Le conseguenze di un tale stile di vita e di un tale concetto di felicità, però, le conosciamo, visto che la nostra società è abbastanza simile al paese di Bengodi: noia e danni alla

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salute, che possono accorciare la vita. Anche la felicità di Bengodi quindi ha il suo prezzo (salute del singolo).

Vi sono tuttavia numerose persone che non si accontentano di quei «picchi» di felicità che nascono da emozioni improvvise e sconvolgenti o da casi fortunati ed inaspettati, ovvero di quel «ben-essere» che nasce da esperienze appaganti e piacevoli o dall’immersione in un oggetto d’interesse o in un’attività pratica, ma identificano la felicità con la possibilità di divertirsi a più non posso, con il provare le più diverse forme di piacere, con il vivere quante più sensazioni coinvolgenti e sconvolgenti possibile, quasi a voler con ciò compensare le rinunce, rimuovere le angosce e combattere le sensazioni di disagio, di vuoto e di noia che inquietano la loro quotidianità.

Tuttavia questa ricerca «isterica» della felicità finisce spesso per rendere infelici gli individui. Non è forse vero che una certa infelicità diffusa dipende proprio dal fatto che non pochi individui sono convinti di dover per forza essere sempre felici?

Inoltre gli uomini, come ha messo molto bene in evidenza Sigmund Freud parlando del cosiddetto principio di realtà (Il disagio della civiltà, 1930), amano in genere più la sicurezza e la tranquillità che non le sensazioni forti e preferiscono sostanzialmente una vita sicura e tranquilla più che felice: non a caso essi rinunciano a soddisfare parte delle loro pulsioni (cosa che produrrebbe felicità) pur di godere di una sostanziale sicurezza nei rapporti con la natura (pericoli naturali), con il proprio corpo (malattie) e con gli altri (crimini). Ciò cui mira la società è costruire una vita fondamentalmente sicura, che impedisca i dolori, anche se questo non consente di soddisfare tutti gli appetiti.

In fondo, a ben vedere, l’aspetto paradossale della felicità sta proprio nel fatto che essa si sottrae ad ogni ricerca intenzionale, che resta irraggiungibile per chi voglia puntarci direttamente; si può solo confidare di poterla raggiungere tramite il perseguimento di scopi indipendenti. La felicità si dà solo ex-post e senza garanzie: «È per la felicità come per la verità: non la si “ha”, ma ci si “è”. Felicità non è che l’essere circondati, l’“essere dentro”, come un tempo nel grembo della madre. Ecco perché nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, dovrebbe uscirne: e sarebbe come chi è già nato. Chi dice di essere felice mente, in quanto evoca la felicità, e pecca contro di essa. Fedele alla felicità è solo chi dice di “essere stato” felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile» (TH.W. ADORNO)

Lo dimostra e contrario il fatto che, quando abbiamo ottenuto qualcosa di agognato, spesso s’insinua in noi un sentimento che ci suggerisce che quel che veramente desideravamo non lo abbiamo tuttavia raggiunto: il che mostra che evidentemente in ciò che volevamo e mediante esso, desideravamo anche qualcos’altro. La propria felicità non può costituire un motivo sensato per l’agire, in quanto essa resta «sul retro» degli atti (M. Scheler).

Ogni società ha comunque i suoi esperti della felicità, pronti a dispensare consigli, con un linguaggio di volta in volta diverso, sul modo migliore per raggiungere rapidamente la felicità. Ci sono gli esperti della felicità della testa (i filosofi e i teologi), che puntano sulle gioie spirituali che nascono dalla meditazione, dalla riflessione, dallo studio, dalla preghiera, come ci sono gli esperti della felicità del cuore (i poeti e gli scrittori), che mettono in scena in maniera coinvolgente le più diverse esperienze d’amore, per non parlare poi degli esperti della felicità del basso ventre (i cuochi, i libertini e i pornografi), che esaltano le gioie della gola e del sesso. Di felicità si occupano però con assiduità anche gli psicologi, i sociologi e gli economisti, tutti intesi a proporre programmi dettagliati e precisi per far sentire bene le persone – persone che devono soprattutto preoccuparsi di vivere in un ambiente sociale stabile, devono pensare non in maniera

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orientata ai problemi ma alle soluzioni, devono essere coscienti dell’importanza del fare sport (fitness) e devono lasciare di tanto in tanto la propria zona confortevole di vita per affrontare dei rischi e provare qualcosa di nuovo. Con la felicità, infine, fanno affari gli astrologi, gli indovini, i maghi, i cartomanti (ancora così diffusi in una società apparentemente razionalizzata e secolarizzata come la nostra), nonché i padroni delle sale-giochi e gli organizzatori di lotterie, che promuovono la ricerca della droga felicità, contribuendo a riempire le casse vuote dell’erario.

…………..

La vita come «periodo intermedio»

Ovviamente la vita non è fatta solo di momenti di forte dolore o d’intensa felicità . Anzi tali stati affettivi dirompenti, che rappresentano un po’ i due estremi fra i quali oscilla l’esistenza umana, non possono che essere fuggevoli, transitori,

in quanto l’uomo per sua costituzione non solo non è in grado di sopportare una condizione continuativa di forte dolore (in questi casi, se non interviene la morte, egli perde ineluttabilmente coscienza,8 a meno che non ceda alla tentazione del suicidio9), ma può fare esperienza della felicità solo se si tratta di un’esperienza non-duratura, frammentaria (infatti l’ebbrezza permanente si ottiene solo al prezzo di un completo esaurimento, mentre una felicità piena, senza più desideri, è foriera di noia per un essere strutturalmente manchevole e quindi costantemente desiderante come l’uomo).

È vero che i momenti d’intensa felicità li vorremmo per così dire «fermare», «eternizzare» («Fermati, attimo, ché sei così bello»: J.W. Goethe), ma essi sono destinati ineluttabilmente a svanire, a tramontare. E non c’è la possibilità di ripeterli, anche se esiste la possibilità di pregustarli (il che a volte procura più felicità dello stesso godimento).

La vita è in genere piuttosto una sorta di periodo intermedio dal carattere «andante», in cui le forti sensazioni di dolore e/o le impetuose esperienze di felicità restano delle eccezioni, degli «acuti», dei «picchi», i quali possono sì avere una durata più o meno lunga (a seconda della soglia di sopportazione degli individui o del grado d’intensità dell’esperienza appagante), ma non possono mai trasformarsi in costanti.

Questo però non toglie che la nostra esistenza, seppur parca di «acuti», trascorra in genere nel tentativo (spesso vano) di evitare o combattere il dolore e al contempo di raggiungere o conquistare la felicità.

Il fatto è che essa è segnata da una serie innumerevole di esperienze dolorose (magari più lievi, ma altrettanto fastidiose, a volte ricorrenti o addirittura croniche), legate non solo ai disturbi che colpiscono di tanto in tanto il nostro corpo, ma anche ai bisogni e alle preoccupazioni, agli ostacoli e ai conflitti che inquietano pressoché costantemente la nostra esistenza.

Se poi, quando parliamo con gli altri dei nostri problemi, ci riferiamo soprattutto alle esperienze di dolore intenso e profondo, legate a lutti, incidenti, malattie, disgrazie, è perché siamo soliti accettare, senza lamentarci particolarmente, quelle numerose sofferenze quotidiane che ci sembrano un elemento indisgiungibile dalla vita.

E parimenti se, quando parliamo con gli altri della nostra felicità, tendiamo a pensare soprattutto ai momenti di grande, intensa, impetuosa gioia, legati a una vincita al gioco, a un’esperienza d’amore, a un successo sul lavoro, è perché siamo soliti non apprezzare adeguatamente nella loro

8 L’abilità dei torturatori è sempre stata quella di non far perdere coscienza ai torturati, di procrastinare al massimo la morte e di impedire il suicidio.

9 In situazioni di forte dolore fisico o psichico l’uomo dispone, come meccanismi di difesa, non solo dello svenimento, ma anche del suicidio, che è «un’estrema grazia della natura» (Drewermann) per uscire da situazioni ormai (apparentemente?) prive di vie d’uscita.

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positività i piccoli momenti di felicità (magari meno intensi e meno sconvolgenti, ma non meno appaganti) che costellano la nostra vita quotidiana:

«Nel mondo si trova molta più felicità di quanto non ne vedano gli occhi intorbidati; se cioè […] solo non si dimenticano tutti quei momenti piacevoli di cui ogni giornata è ricca, per ogni vita, anche quella più tribolata». (F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878), I, § 49: «Benevolenza»).

……………………..

Felicità negativa

Comunque nella vita dolore e felicità si implicano a vicenda, tanto che molti hanno pensato la felicità (o per lo meno quella sua componente fisica che è il piacere) esclusivamente come la conseguenza della fine di uno stato di sofferenza (= felicità negativa).

Cfr. la descrizione della prigionia di Pyotr “Pierre” Kirilovich Bezukhov in Guerra e pace (1863”69) di L. Tolstoi: «Pierre imparò per la prima volta veramente il piacere del mangiare solo ora che aveva fame, il piacere del bere solo ora che aveva sete, il piacere del dormire solo ora che era stanco, il piacere del caldo solo ora che tremava di freddo, il piacere del dialogo con un’altra persona solo ora che aveva bisogno di parlare con qualcuno e ascoltare una voce umana. L’appagamento dei bisogni (buona alimentazione, pulizia, libertà) gli appariva adesso, che doveva fare a meno di tutte queste cose, come la perfetta felicità».

Cfr. anche A. Schopenhauer: «Ogni godimento e ogni felicità sono di natura negativa, mentre il dolore è di natura positiva […] Se tutto il corpo è sano, ad eccezione di un punticino che ha una ferita o è comunque dolorante, il buon stato di salute complessivo non è più avvertito dalla coscienza, bensì l’attenzione è costantemente rivolta al dolore della parte offesa e la sensazione di benessere generale risulta annullata. Allo stesso modo, se tutti i nostri affari vanno secondo i nostri desideri, ad eccezione di uno solo che si svolge contrariamente alle nostre intenzioni, sarà quest’ultimo a ritornarci sempre in mente, anche nel caso che sia di scarsa importanza: noi rivolgiamo spesso il nostro pensiero ad esso e poco invece a tutte quelle altre cose più importanti che procedono secondo le nostre intenzioni» (A. SCHOPENHAUER, Aforismi per una vita saggia).

In quest’ottica la felicità della vita non sta tanto nelle sue gioie e nei suoi piaceri, ma nel venire meno e nell’assenza del dolore quale elemento positivo.

………………………………

Felicità positiva

A questo punto bisogna però chiedersi se questo sia vero o se invece la felicità non sia piuttosto legata ad esperienze di segno positivo (= felicità positiva).

In effetti, se guardiamo alla figura del principe Gautama, detto il Buddha, bisogna riconoscere che sono state due le esperienze che lo hanno reso «felice», come suona uno dei suoi attributi.

Certamente egli riesce, ad un certo punto della sua vita, a liberarsi dal desiderio e quindi dal dolore, ma questa esperienza è solo la prima tappa per il raggiungimento di una condizione di completa felicità o beatitudine, in quanto vale anche per lui ciò che vale in generale per ogni altro uomo, e cioè che non si può godere per una vita intera soltanto della cessazione del dolore, ma questa può essere solo il presupposto per raggiungere qualcosa d’altro. Il Buddha viene quindi definito come «il felice», perché, oltre a essersi (per altro faticosamente) liberato dal desiderio e dal dolore, è riuscito a raggiungere il nirvana, cioè a godere di quella condizione di felicità che tutti i mistici (ma non solo i mistici10) conoscono.

10 «La mistica felicità del nirvana non è niente di misterioso. Ogni scalatore può farne esperienza. Egli si ferma ansimante sulla cima della montagna, viene improvvisamente riempito da un violento respiro che lo attraversa tutto, alla presenza di stelle e neve eterna – e gode (come Buddha) della beatitudine della redenzione» (L. MARCUSE, Die Philosophie des Glücks. Von Hiob bis Freud. Europa, Wien/Zürich 1949, Diogenes, Zürich 1972, p. 262).

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Si possono quindi distinguere due livelli nell’idea di felicità. Da un lato vi è senz’altro una felicità negativa, risultato della liberazione dalle preoccupazioni e

dalle sofferenze della vita. D’altra parte, però, vi è anche una felicità positiva frutto di esperienze in grado di donare senso

e significato all’esistenza.

………………….

Soggettivisti e oggettivisti

Un secondo problema è se l’esperienza positiva della felicità sia solo il portato di uno stato affettivo (sensazione, emozione, sentimento), e quindi solo qualcosa di interiore, o non abbia anche delle componenti esteriori; ovvero se la felicità sia solo in noi o non sia anche condizionata da ciò che è fuori di noi; o, ancora: se, per essere felici, sia sufficiente sentire di esserlo o siano invece anche necessari dei presupposti oggettivi e se quindi il raggiungimento della felicità possa essere impedito od ostacolato da condizioni di bisogno, disagio, povertà. È questa la questione che oggigiorno divide i cosiddetti soggettivisti (per cui la felicità dipende soltanto da una sensazione o valutazione soggettiva) dai cosiddetti oggettivisti (per cui la felicità presuppone degli elementi oggettivi).

……………………Soggettivisti:

La celebre fiaba dei fratelli Grimm intitolata La felicità di Gianni (Hans im Glück) viene spesso citata a sostegno della tesi dei soggettivisti.

«Gianni aveva prestato servizio dal suo padrone per sette anni, quando gli disse: “Padrone, ho terminato il tirocinio; ora vorrei tornare a casa da mia madre: datemi ciò che mi spetta”.

Il padrone rispose: “Mi hai servito bene e con fedeltà: il compenso sarà pari al tuo servizio”. E gli diede un pezzo d'oro grosso come la testa di Gianni. Gianni prese di tasca il fazzoletto, e vi avvolse l'oro, se lo

mise in spalla e s'incamminò verso casa. Mentre camminava, un passo dopo l'altro, vide un cavaliere che, fresco e giulivo, trottava su di un cavallo focoso. “Ah” disse Gianni ad alta voce “che bella cosa è cavalcare! Si sta seduti come su di una sedia; non si inciampa nei sassi, si risparmiano le scarpe e si va avanti senza accorgersene.”

Il cavaliere che lo aveva sentito, gli gridò: “Ehi, Gianni, perché tu vai a piedi?”. “Eh!” rispose Gianni “devo portare a casa questo peso: è vero che è oro, ma non posso tenere la testa diritta, mi preme sulle spalle.” “Sai un cosa?” disse il cavaliere. “Facciamo cambio, io ti do il mio cavallo e tu mi dai il tuo pezzo d’oro.” “Ben volentieri” disse Gianni “ma vi avverto che farete fatica a portarlo!” Il cavaliere smontò, prese l'oro e aiutò Gianni a salire a cavallo; gli diede le redini da tenere in mano, ben salde, e disse: “Se vuoi andare veloce, devi schioccare la lingua e gridare: ‘hop, hop!’”.

Gianni era felice di essere in groppa al suo cavallo e di poter cavalcare a briglia sciolta. Dopo un po' gli venne in mente di andare più veloce, si mise a schioccare la lingua e a gridare: “hop, hop!.” Il cavallo di mise a trottare forte e, in men che non si dica, Gianni fu sbalzato di sella e finì in un fosso che divideva i campi dalla strada. Il cavallo sarebbe scappato se non lo avesse fermato un contadino che veniva per la strada spingendo una mucca. Gianni si rimise in sesto e si alzò in piedi. Ma, indispettito, disse al contadino: “Bel divertimento andare a cavallo, soprattutto se ti capita un brocco come questo che inciampa e ti butta a terra rischiando di farti rompere l'osso del collo! Non ci salirò mai più! La vostra mucca invece sì che mi piace: uno se la tira dietro con tutto comodo, e, ogni giorno, latte, burro e formaggio sono assicurati. Cosa darei per avere una mucca simile!”. “Beh” disse il contadino “se vi piace tanto, cambierò la mucca con il vostro cavallo.” Gianni accettò tutto felice, e il contadino saltò in groppa al cavallo e corse via. Gianni menava ora la mucca tranquillamente davanti a sé pensando al buon affare: “Mi basta avere un pezzo di pane, e certamente non mi mancherà, e posso mangiare burro e formaggio finché ne ho voglia; se ho sete, mungo la mia mucca e bevo il latte. Cosa potrei desiderare di meglio?”.

Quando arrivò a un'osteria, si fermò, mangiò allegramente tutto ciò che aveva con sé, pranzo e cena e, con gli ultimi soldi che gli restavano, si fece portare un mezzo bicchiere di birra. Poi riprese a menare la sua mucca verso il villaggio di sua madre. Ma, verso mezzogiorno, il caldo si fece sempre più opprimente, e Gianni si trovava in una landa con un'ora di cammino davanti a sé. Aveva un caldo tale che, per la sete, la lingua gli si era incollata al palato. “Devo fare qualcosa” pensò Gianni. “Mi metterò a mungere la mucca e mi ristorerò con il latte.” La legò a un albero secco e ci mise sotto il suo berretto di cuoio, ma per quanto si desse da fare, non veniva neanche una goccia di latte. E siccome

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mungeva senza alcuna abilità, l'animale, impaziente, finì coll'assestargli un tale colpo alla testa con la zampa di dietro, ch'egli barcollò e cadde a terra; e per un bel po' non riuscì più a capire dove fosse.

Fortunatamente, proprio in quel momento si trovava a passare un macellaio che aveva un porcellino su di una carriola. “Che brutti scherzi!” esclamò, e aiutò il buon Gianni ad alzarsi. Gianni raccontò quel che gli era successo. Il macellaio gli allungò la sua fiaschetta e gli disse: “Bevete un sorso che vi renderà le forze. Questa mucca non vi darà mai latte: è vecchia, e va giusto bene come bestia da tiro o da macello”. “Ahi, ahi” disse Gianni, passandosi una mano fra i capelli “chi l'avrebbe mai detto! Certo è una bella cosa poter macellare una bestia simile in casa propria! Quanta carne! Ma io non me ne faccio un gran che della carne di mucca: non la trovo abbastanza saporita. Un così bel maialino invece ha tutt'un altro sapore, senza parlar delle salsicce!” “Sentite, Gianni” disse il macellaio “vi farò un piacere e in cambio della mucca vi lascerò il porcello.” “Dio ricompensi la vostra cortesia!” disse Gianni; gli diede la mucca, fece slegare il porcellino dalla carriola e si fece mettere in mano la corda che lo legava.

Gianni proseguì per la sua strada pensando come tutto gli andava bene: quando incappava in qualche contrattempo, subito riusciva a porvi rimedio. Poco dopo s'imbatté in un ragazzo che portava sotto il braccio una bell'oca bianca. Si salutarono e Gianni incominciò a raccontargli della sua fortuna, e degli scambi vantaggiosi che aveva fatto. Il ragazzo gli raccontò che portava l'oca a un pranzo di battesimo. “Provate un po' a sollevarla” soggiunse, afferrandola per le ali “com'è pesante ma è stata anche ingrassata per due mesi. A chi morde quest'arrosto, resterà la bocca unta!” “Sì” disse Gianni alzandola con una mano “è bella pesante, ma anche il mio maiale non scherza!” Il ragazzo prese allora a guardarsi attorno con aria pensierosa, e continuava a scuotere la testa. “Sentite” disse poi “per quel che riguarda il vostro maiale, deve esserci qualcosa sotto. Sono passato da un villaggio dove ne avevano appena rubato uno dalla stalla del sindaco. Temo proprio che si tratti di questo qui. Sarebbe un brutto affare se vi trovassero con l'animale come minimo vi ficcherebbero in gattabuia!” Il buon Gianni ebbe paura: “Ah, Dio” disse “aiutatemi a venirne fuori! Voi qui siete pratico della zona, prendetevi il maiale e lasciatemi la vostra oca.” “Certo è un bel rischio” rispose il ragazzo “ma non voglio che finiate nei guai per colpa mia.” Così prese in mano la corda e, in fretta, condusse via il maialino per una via traversa. Il buon Gianni, invece, liberato dalle sue preoccupazioni, proseguì il cammino verso casa con l'oca sotto il braccio. “A pensarci bene” diceva fra s‚ “ci ho guadagnato a fare cambio: per prima cosa c'è l'arrosto, poi tutto quell'unto che ne gocciolerà e darà grasso d'oca per tre mesi; e infine le belle piume bianche: con quelle ci farò imbottire il cuscino, così mi addormenterò senza bisogno di esser cullato. Come sarà contenta mia madre!”

Attraversato l'ultimo paese, Gianni trovò un arrotino con il suo carretto; facendo girare la ruota per affilare i coltelli, egli così cantava: “Faccio l'arrotino, son svelto con la mola, giro e rigiro come una banderuola.” Gianni si fermò a guardarlo; alla fine gli rivolse la parola dicendo: “Pare proprio che ve la passiate bene, dato che siete così allegro!”. “Sì” rispose l'arrotino. “Chi conosce un mestiere è un uomo fortunato. Un bravo arrotino, quando mette la mano in tasca, ci trova del denaro. Ma dove avete comprato quella bell'oca?” “Non l'ho comprata, l'ho avuta in cambio di un maiale.” “E il maiale?” “L'ho avuto in cambio di una mucca.” “E la mucca?” “L'ho avuta in cambio di un cavallo.” “E il cavallo?” “Per averlo ho dato un pezzo d'oro grande come la mia testa.” “E l'oro?” “Eh, era la somma che mi spettava per aver prestato servizio sette anni!” “Avete sempre saputo arrangiarvi” disse l'arrotino. “Se adesso riuscite a sentir tintinnare i soldi in tasca, quando vi alzate, sarebbe fatta la vostra fortuna.” “E come potrei fare?” disse Gianni. “Dovete diventare un arrotino come me; per questo non serve che una mola, il resto viene da sé. Ne ho qui una che è un po' rovinata, ma in cambio chiedo soltanto la vostra oca: siete d'accordo?” “E me lo chiedete?” rispose Gianni. “Diventerò l'uomo più fortunato di questa terra; se trovo del denaro ogni volta che infilo la mano in tasca, che cosa potrei desiderare di meglio?” e gli porse l'oca. “E ora” disse l'arrotino, raccogliendo una pietra qualunque che gli si trovava accanto “eccovi anche una bella pietra, su cui potrete picchiare per bene e raddrizzare i chiodi vecchi. Prendetela e serbatela con cura.” Gianni si caricò la pietra sulle spalle e proseguì il cammino con il cuore pieno di gioia; gli occhi gli luccicavano dalla contentezza, ed egli pensava fra sé: “Devo proprio essere nato con la camicia! Tutto quello che desidero si avvera come se fossi venuto al mondo di domenica.”

Nel frattempo, siccome camminava dallo spuntar del giorno, incominciò a sentirsi stanco; inoltre lo tormentava la fame, poiché aveva divorato in un colpo tutte le provviste, per la gioia di aver ottenuto la mucca. Ora avanzava a stento e doveva fermarsi in continuazione; e per di più le pietre gli pesavano terribilmente, Gianni continuava a pensare come sarebbe stato bello se non avesse dovuto portarle proprio allora. Lento come una lumaca, riuscì a trascinarsi fino a una sorgente, dove voleva sostare e rinfrescarsi con un bel sorso d'acqua fresca. Ma per non rovinare le pietre sedendosi, le posò con cautela accanto a sé, sull'orlo della fonte. Poi si volse e si chinò per bere ma, per sbaglio, le urtò un poco e tutt'è due le pietre cascarono in acqua. Gianni, vedendole sprofondare, fece un salto di gioia e si inginocchiò a ringraziare Dio con le lacrime agli occhi per avergli concesso anche questa grazia: l'aveva liberato da quei pietroni in modo che egli non dovesse rimproverarsi nulla, era proprio quel che ci voleva per renderlo pienamente felice! “Felice come me” esclamò “non c'è davvero nessuno su questa terra!” A cuor leggero, e libero da ogni peso, corse via finché arrivò a casa da sua madre».

In questa favola ci viene presentato un individuo, Gianni appunto, che non cessa di essere felice, proprio perché non prende come criterio di misura della sua felicità il valore oggettivo delle cose di cui entra in possesso: ciò che gli interessa è solo in che misura esse soddisfino i suoi bisogni al momento. Ora questo racconto mostrerebbe che:

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1) l’uomo è veramente felice solo quando non c’è niente (neanche gli obblighi che il possesso porta con sé) in grado di opprimerlo e di vincolarlo (chi non ha nulla da cui dipendere, è felice; può andare dove vuole; niente lo lega a un posto; dipende solo da lui cosa fare della sua vita);

2) molte cose possono far felice una persona, ma nessun bene può farla felice sotto ogni rispetto;

3) una cosa, se può a volte rendere felice una persona, a volte non ci riesce, anzi all’occasione può renderla addirittura infelice;

4) si può essere felici anche senza motivo. La risposta alla domanda: che cos’è la felicità? non può quindi mai essere il rimando a un bene

determinato, in quanto la felicità sta in noi. Non a caso Gianni alla fine è ancora interiormente felice, pur avendo perso progressivamente tutto quel che aveva guadagnato (il pezzo d’oro, il cavallo, la mucca, il maiale, l’oca, la mola). A costituire la sua felicità è la sua capacità di vedere sempre il lato buono delle cose (looking at the bright side of life).

…………………

Gli oggettivisti

Gli oggettivisti, invece, ritengono (prendendo come modello l’eudaimonía aristotelica) che non vi possa essere felicità laddove manchino alcuni beni esteriori ed interiori (salute, sicurezza, integrazione sociale, rispetto di sé, intensità delle esperienze), ovvero che solo chi possiede questi beni possa essere felice.

Vista così, la felicità non è tanto una questione di sensazioni o valutazioni soggettive, quanto di possesso di determinati elementi oggettivi (cose, caratteristiche, condizioni), per cui può essere valutata più adeguatamente da una prospettiva esterna che non da una prospettiva interna.

Secondo Martha Nussbaum, ad esempio, una persona, per poter essere felice, come minimo 1) deve poter vivere fino alla fine una vita umana piena e degna di questo nome, senza morire

anzitempo, o deve poter morire prima che la vita sia così sminuita da non essere più degna di essere vissuta;

2) deve poter godere di buona salute, essere adeguatamente nutrita, avere un’abitazione adeguata, avere opportunità di appagamento sessuale, poter cambiare luogo; deve poter evitare dolori inutili e superflui e poter fare esperienze piacevoli;

3) deve poter usare i cinque sensi, poter fantasticare, pensare e trarre conclusioni; 4) deve poter intrattenere legami con cose e persone al di fuori di lei; poter amare quelli che la

amano e si occupano di lei e potersi dolere della loro assenza; poter amare e dolersi in generale, come pure poter provare nostalgia e riconoscenza;

5) deve potersi formare un’idea del bene e impegnare in considerazioni critiche circa la pianificazione della propria vita;

6) deve poter vivere per e con gli altri, poter mostrare interesse per altre persone, potersi impegnare in forme diverse di interazione familiare e sociale;

7) deve poter vivere partecipando a (e in rapporto con) il mondo degli animali, delle piante e della natura;

8) deve poter ridere, giocare e godere di attività rilassanti; 9) deve poter vivere la propria vita e non quella di qualcun altro; 10) deve poter vivere la propria vita nel proprio ambiente e nel proprio contesto.

Il limite di questa teoria, però, è che scambia i beni, che possono essere causa, fonte e oggetto di sentimenti e/o di giudizi di felicità, con questi stessi sentimenti e giudizi. In realtà si

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può solo presumere che chi possiede certi beni (salute, agiatezza, riconoscimento) sia felice, ma questa inferenza non è logicamente cogente o naturalmente necessaria.

Ad esempio, che la ricchezza non renda felici è un’affermazione proverbiale; e lo stesso vale per la salute.

In secondo luogo un paziente si sente spesso molto meglio (o molto peggio) di quel che dicono le sue condizioni oggettive di salute.

In terzo luogo, per alcune persone il fattore salute è meno importante di altri aspetti della vita (il rapporto con il partner, il bisogno d’assistenza, le condizioni abitative, la possibilità di movimento e di azione, la capacità comunicativa e lavorativa).

Infine, una certa fiducia nel mondo e in sé stessi, un atteggiamento positivo nei confronti della vita sembrano più importanti, al fine di essere felici, che non il destino esteriore. Non a caso, in tempi recenti, anche nella medicina s’è imposta sempre più una soggettivizzazione del concetto di qualità di vita, che ha per conseguenza l’individualizzazione delle indicazioni terapeutiche (contro l’opposta tendenza alla loro standardizzazione), nonché un maggiore coinvolgimento del paziente nei processi decisionali. Verifiche empiriche hanno, infatti, dimostrato che i giudizi sulla qualità di vita del paziente, espressi rispettivamente dal medico e dall’interessato, spesso divergono fortemente.

……………………….

La felicità come pienezza

Questa forma di felicità può essere assimilata alla eudaimonía o alla beatitudo o beatitas antica, nella misura in cui connota quella condizione di equilibrio interiore per cui l’individuo si sente in pace, in armonia, in sintonia con se stesso e con la natura, quella tranquillità o serenità dell’animo che mira sì a limitare o attenuare il dolore, ma non pretende di eliminarlo completamente, anzi lo riconosce lucidamente (e quindi lo accetta) come l’altro polo della vita.

Non a caso vale per essa quello che valeva già per le antiche concezioni eudemoniche, in cui il piacere, se anche non veniva svalutato (come poi sarebbe stato col cristianesimo), neanche veniva ricercato come tale: «non scegliamo ogni piacere», «non evitiamo ogni dolore», si legge nella Lettera a Meneceo di Epicuro.

Anzi, questa forma di felicità periodica (che va ben oltre la felicità episodica, anche se non la esclude) è in grado di mediare gli aspetti contrastanti dell’esistenza, ovvero a integrare i due poli (positivo e negativo) che la caratterizzano. Essa non dipende da eventi fortunati o da esperienze entusiasmanti e non ha niente di spettacolare, ma garantisce quella euthymía che, anche se non dovesse conservarsi per sempre, tuttavia ha la capacità di compenetrare durevolmente l’esistenza.

Il fatto è che questa forma di felicità è l’unica in grado di rispondere alla ben più decisiva questione del senso dell’esistenza. Essere felici significa, infatti, aver trovato un orizzonte di senso (Sinnhorizont) o una donazione di senso (Sinngebung) in grado di sostanziare il nostro vivere e il nostro agire.

Questo concetto di felicità come «pienezza di vita» (Glück der Fülle) va quindi ben oltre quel che comunemente s’intende per felicità, e cioè la «felicità casuale» (Zufallsglück) conseguente a un colpo di fortuna, la «felicità come ben-essere» (Wohlfühlsglück) conseguente a un’esperienza coinvolgente, appagante o piacevole o all’immersione in un’attività o in un’impresa, l’isteria della felicità (Glückshysterie) come estrema intensificazione di esperienze forti e divertenti.

La felicità come pienezza sta infatti ad indicare, sulla linea della eudaimonía antica, una vita buona/riuscita, all’interno della quale i singoli momenti di felicità costituiscono un elemento importante ma affatto particolare e limitato.

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In questa prospettiva porsi la questione dell’eudaimonía significa porsi anzitutto il problema, già richiamato da Platone, di «come si debba vivere», mentre rispondere alla questione dell’eudaimonía significa «scegliere» tra le molteplici forme di vita che ci si prospettano, quella che ci consente di vivere al meglio nelle condizioni date o quella che vorremmo augurare di vivere ai nostri figli e ai nostri nipoti. Nella questione della felicità ne va, infatti, della nostra vita nella sua interezza (non di un segmento di essa), per cui non possiamo fermarci a considerare solo la qualità di certi suoi momenti e di certe sue fasi.

Questa terza forma di felicità ha inoltre un carattere riflesso che la distingue nettamente dalle altre forme di felicità. Essa fissa infatti dei criteri precisi per individuare ciò che è degno di essere desiderato e ricercato, ovvero ciò cui il singolo deve attenersi – laddove la fonte di questi criteri può essere Dio, ma anche la ragione, oppure il consenso raggiunto da uomini saggi o ancora l’accordo frutto di un confronto democratico. Non è che in questo modo la questione della felicità finisca per non dipendere più in ultima analisi da istanze non”cognitive (sentimenti, desideri, volere della singola persona). Tuttavia tali istanze potranno essere accettate come criterio di una vita buona/riuscita solo se (in una sorta di “soggettivismo riflesso”) sapranno tenere testa a determinate obiezioni razionali di merito. Di qui l’importanza delle ragioni addotte a favore dell’uno o dell’altro stile di vita.

Una forma di vita buona (in quanto modo di esistere liberamente scelto) ha, ovviamente, all’inizio il valore di un progetto che, se dà sì all’esistenza del singolo una certa direzione, resta affatto provvisorio, tanto da poter essere costantemente rivisto alla luce delle esperienze successive. Alla fine, però, tale progetto di vita buona finisce per consolidarsi in un atteggiamento di base che fonda il carattere e l’identità di un individuo . A questo punto, per il bilancio del cammino di vita trascorso, la quantità dei momenti di felicità acuta vissuti non è decisiva. Infatti, se la forma di vita per cui ci si è decisi è in sé armonica, la mancanza di momenti di felicità attesi o sperati non è molto importante. Chi invece nelle sue aspettative si è reso completamente dipendente dal raggiungimento della felicità agognata e non possiede un progetto di vita il cui senso complessivo possa compensare i piccoli o grandi insuccessi, non potrà che lamentarsi, ad ogni fallimento, dell’insensatezza della vita nel suo complesso.

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PARTE IV

Mito (dal gr. μῦϑος «parola, discorso, racconto, favola, leggenda»). Già nell’antichità il termine mito indica un racconto fantastico che non prevede dimostrazione e,

in questo senso, è opposto al logos , al pensiero, all’argomentazione razionale (la dimostrazione ben fondata della verità)

Il mito della caverna

Il mito della caverna di Platone è raccontato all’inizio del libro settimo della Repubblica (514 b – 520 a).

Il mito immagina che dei prigionieri siano stati incatenati, fin dall’infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possono fissare solo il muro dinanzi a loro.

Ora, alle spalle dei prigionieri è acceso un enorme fuoco. Tra il fuoco e i prigionieri corre una strada rialzata, lungo la quale è stato eretto un muricciolo. Sul muricciolo alcuni uomini portano forme di vari oggetti: animali, piante, persone. Le forme proiettano la propria ombra sul muro verso cui sono rivolti i prigionieri e questo attrae la loro attenzione. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un’eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che essi vedono passare sul muro.

I prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (ricordiamo che sono incatenati fin dall’infanzia), sono portati a pensare che le ombre «parlanti» siano oggetti, animali, piante e persone reali.

Supponiamo ora che un prigioniero venga liberato dalle catene e guardi verso l’uscita della caverna: i suoi occhi sarebbero anzitutto abbagliati dalla luce del sole ed egli proverebbe un forte dolore, ma, una volta che si fosse reso conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, provando per loro un senso di pietà.

Tuttavia, una volta tornato nella caverna dopo essere stato alla luce del sole, il prigioniero liberato avrebbe bisogno di tempo per riabituarsi all’oscurità e riuscire nuovamente a vedere nel fondo della caverna. Durante questo periodo, molto probabilmente, il prigioniero liberato verrebbe fatto oggetto di scherno da parte degli altri prigionieri, convinti che egli sia tornato nella caverna con «gli occhi rovinati». Inoltre se tentasse di liberarli e di portarli verso la luce, questo potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte. Speso si preferisce accettare per abitudine le cose che ci vengono dette, anche se non sono vere, piuttosto che sforzarsi di cercare la verità.

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Mito della biga alata

Il mito della biga alata viene narrato nel Fedro di Platone. Vi si racconta di un’ipotetica biga su cui si trova un auriga, personificazione della parte razionale o intellettiva dell’anima (logistikòn). La biga è trainata da una coppia di cavalli, uno bianco e uno nero: quello bianco raffigura la parte dell’anima dotata di sentimenti di carattere spirituale, nobile (thymoeidès), che tende verso l’Iperuranio; quello nero raffigura la parte dell’anima concupiscibile, rozza (epithymetikòn), che tende verso il mondo sensibile. I due cavalli sono tenuti per le briglie dall’auriga che, come detto, rappresenta la ragione: questa non si muove in modo autonomo, ma ha solo il compito di guidare. La biga deve volgere verso l’Iperuranio, un luogo metafisico a forma di anfiteatro dove risiedono le «Idee».

Lo scopo dell’anima, infatti, è contemplare il più possibile l’Iperuranio e assorbire la sapienza delle idee. L’auriga quindi deve riuscire a guidare i cavalli verso l’alto, tenendo a bada quello nero e spronando quello bianco, in modo da evitare o ritardare il più possibile il «precipitare» nella reincarnazione. Chi è precipitato subito, rinascerà come una persona ignorante o comunque lontana dalla saggezza filosofica, mentre coloro che sono riusciti a contemplare l’Iperuranio per un tempo più lungo rinasceranno come saggi e come filosofi.

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Il mito dell’androgino è narrato da Aristofane nel dialogo platonico Simposio.

Aristofane, il famoso poeta comico, sceglie il mito per veicolare la sua opinione su Eros. Tempo addietro non esistevano, come adesso, soltanto due sessi (il maschile e il femminile),

bensì tre. Oltre al sesso maschile e femminile, esisteva il sesso androgino, proprio di esseri che avevano in comune caratteristiche maschili e femminili. Tutti gli esseri umani avevano due teste,

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quattro braccia, quattro mani, quattro gambe e due organi sessuali ed erano tondi. Per via della loro potenza, gli esseri umani erano superbi e tentarono la scalata all’Olimpo per spodestare gli dei. Ma Zeus, che non poteva accettare un simile oltraggio, decise di intervenire e divise, a colpi di saetta, gli aggressori: «Credo di aver trovato il modo perché gli uomini possano continuare ad esistere, rinunciando però, una volta diventati più deboli, alle loro insolenze. Adesso li taglierò in due uno per uno e così si indeboliranno; inoltre, raddoppiando in numero, diventeranno più utili a noi. In questo modo gli esseri umani furono divisi e s’indebolirono. Da allora, secondo Aristofane, essi sono alla ricerca della loro altra metà con cui unirsi sessualmente per ritrovare la forza perduta. È da questa divisione in due parti che nasce, dunque, negli umani il desiderio di ricreare la primitiva unità, tanto che le “parti” non fanno altro che stringersi l’una all’altra. Zeus, per evitare che gli uomini si estinguano, manda nel mondo Eros, affinché, attraverso il ricongiungimento fisico, essi possano ricostruire “fittiziamente” l’unità perduta, così da provare piacere (e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere. Al desiderio e alla ricerca dell’intero si dà nome amore

Siccome i sessi erano tre, due sono oggi le tipologie d’amore: il rapporto omosessuale (se i due partner facevano parte in principio di un essere umano completamente maschile o completamente femminile) e il rapporto eterosessuale (se i due facevano parte di un essere androgino).

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Edipo (in greco antico Οἰδίπους/Oidípous che significa uomo dai piedi gonfi “ οἶδος (gonfiatura, rigonfiamento) + πούς (piede); pronuncia Edìpo o Èdipo (quest’ultima dal latino Oedĭpus)

Laio, marito di Giocasta e re di Tebe, era afflitto dalla mancanza di un erede. Crucciato per questa insospettabile infertilità, consultò in segreto l’oracolo di Delfi. Secondo l’oracolo la sua infertilità era in realtà una benedizione degli dèi, dato che il bambino destinato a nascere dall’unione con la moglie non soltanto l’avrebbe ucciso, ma avrebbe anche sposato la madre. Sarebbe stato, insomma, la causa di una serie spaventosa di disgrazie che avrebbero provocato la rovina della sua stirpe. Per salvarsi, Laio ripudiò la moglie, senza darle spiegazioni di sorta, ma Giocasta riuscì a giacere con lui per una notte, dopo averlo ubriacato.

Quando nove mesi dopo la donna partorì un bambino, Laio, per evitare che si compisse quanto profetizzato dall’oracolo, lo strappò dalle braccia della nutrice e lo consegnò a un suo servo pastore perché lo «esponesse», cioè lo lasciasse morire sui monti. Il pastore però non ebbe il coraggio di lasciare il bambino in pasto ai lupi e lo consegnò a un altro pastore che pascolava le greggi insieme a lui sui monti e che proveniva da Corinto. Questo pastore consegnò il bambino alla moglie del re di Corinto Polibo. Il bambino crebbe così alla corte di Polibo, credendo di essere il figlio del re di Corinto. Al bambino venne dato il nome di «Edipo», che in greco vuol dire «piede gonfio», a causa delle ferite che aveva nelle caviglie.

Anni dopo un suo nemico, per offenderlo, rivelò a Edipo che non era il figlio di Polibo, ma un trovatello. Turbato, Edipo decise di andare a interrogare l’oracolo di Delfi, per sapere chi fossero davvero i suoi genitori. Quando arrivò al santuario, la Pizia, inorridita, lo cacciò via dal santuario, predicendogli che avrebbe ucciso il padre e sposato sua madre. Atterrito dal vaticinio, Edipo, per evitare di uccidere quelli che lui credeva essere suo padre e sua madre, decise di non tornare mai più a Corinto e di recarsi invece a Tebe.

Durante il cammino, non lontano da Delfi, si imbatté in un cocchio guidato da Laio, che era diretto al santuario delfico per chiedere alla Pizia come avrebbe potuto liberare Tebe dalle calamità che la tormentavano. Infatti a Tebe una sfinge imponeva indovinelli a chi passava e, se l’interrogato non riusciva a rispondere, lo divorava. Vedendo il giovane sulla strada, il cocchiere di Laio gli ordinò di lasciare passare il re; ma poiché Edipo non si affrettava ad obbedire, infuriato, avanzò col carro, ammaccando un piede dell’eroe. Incollerito, Edipo balzò sul cocchiere, uccidendolo con la

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sua lancia. Poi uccise anche Laio che era rimasto incastrato nelle redini dei cavalli. In tal modo, la prima profezia dell’oracolo si era compiuta.

Alla notizia della morte di Laio, i tebani elessero re Creonte, fratello di Giocasta. Anche Creonte non sapeva come affrontare la sfinge e così fece annunciare che avrebbe ceduto il trono e dato in moglie Giocasta a colui che avesse risolto l’enigma della sfinge.

Edipo, in cammino verso Tebe, incontrò la Sfinge, che era un mostro con testa di donna, il corpo di leone, una coda di serpente e delle ali di rapace. Ad ogni passante la Sfinge poneva la stessa questione: «Qual è quell’essere che cammina dapprima a quattro zampe, poi a due e, infine, a tre?». Nessuno dei Tebani era mai riuscito a risolvere questa enigma. E la Sfinge li divorava uno dopo l’altro.

Edipo, dopo aver ascoltato la questione posta dalla Sfinge, comprese immediatamente qual era la risposta: l’uomo, perché egli cammina durante l’infanzia a quattro gambe, da grande a due e, da vecchio, si appoggia ad un bastone. La soluzione dell’indovinello provocò la morte del mostro. Infatti, indispettita, la Sfinge si precipitò dall’alto della roccia sulla quale era appollaiata.

Creonte, tenendo fede alla promessa fatta, cedette il trono ad Edipo, il quale sposò Giocasta. La profezia si era così avverata fino in fondo: il figlio aveva sposato la madre. Dalla loro unione nacquero due maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine, Antigone e Ismene.

Dopo un lungo e felice periodo di regno, però, la peste si abbatté sulla città di Tebe. Allora Edipo inviò Creonte a chiedere all’oracolo di Delfi la ragione di quel flagello. Creonte ritornò riportando la risposta della Pizia: la peste sarebbe cessata soltanto se la morte di Laio fosse stata vendicata. Edipo non solo maledisse l’autore di quel delitto, ma promise che l’avrebbe esiliato dalla città. Interrogò poi l’indovino Tiresia, per sapere chi fosse il colpevole. Tiresia, grazie alle sue facoltà divinatorie, conosceva la risposta, ma tentò di evitare di rispondere. Edipo allora cominciò a sospettare che Tiresia e Creonte fossero gli autori del delitto. Si accese così una disputa fra Edipo e Creonte. Giocasta ricordò però che Laio era stato ucciso dai briganti in un trivio. Alla parola «trivio» Edipo cominciò a sospettare di essere lui l’assassino di Laio. Si fece così descrivere Laio e la carovana che lo portava. Nello stesso tempo da Corinto arrivò un araldo, per informare Edipo della morte di Polibo, l’uomo che egli credeva fosse suo padre. L’araldo comunicò però anche ad Edipo che in realtà Polibo non era suo padre. A quel punto, chiaritasi la situazione, Giocasta si uccise impiccandosi alla trave della stanza matrimoniale e Edipo si cavò gli occhi con la spilla della moglie-madre.

Per qualche tempo Creonte, ridiventato re, tenne nascosta la vicenda, ma ben presto i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, scoperta la storia dell’incesto, chiesero al re di cacciare il padre da Tebe. Disgustato dal loro comportamento, Edipo li maledisse, predicendo loro che sarebbero morti l’uno per mano dell’altro. Così l’eroe, ormai cieco, cominciò a peregrinare per il paese chiedendo l’elemosina, accompagnato solo da Antigone e Ismene.

Dopo molti anni Edipo giunse in Attica a Colono (vicino a Atene). Qui incontrò Teseo, re di Atene, che lo accolse ospitalmente nella sua reggia. Dato che un oracolo aveva profetizzato che sarebbe stato benedetto dagli dei il paese disposto a dare sepoltura a Edipo, Creonte cercò di convincere Edipo a tornare a Tebe. Ma Edipo, che era stato accolto ospitalmente da Teseo, si rifiutò di tornare in patria e volle che le sue ceneri rimanessero in Attica.