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Dimmi che pasta mangi e ti dirò chi sei Tatonno e Tatore, pastai e marinai torresi da “Gente del VesuvioUmberto Vitiello Vadim

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Dimmi che pasta mangi e ti dirò chi sei

Tatonno e Tatore, pastai e marinai torresi

da “Gente del Vesuvio”

Umberto Vitiello Vadim

G. DF. S. A. per www.vesuvioweb.com

Umberto Vitiello - Dimmi che pasta mangi

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Sono Tatonno Centrella, pastaio e marinaio, da parecchi anni ormai in pensione. La mia vita, come quella di tutti, ma forse ancora di più perché ho lavorato a terra ma ho anche navigato e sono stato molti anni all’estero, non manca certo di avventure, belle e anche brutte, ma nessuna o quasi, credetemi, insignificante o incolore.

Dalla nascita e fino a che non sono salito a bordo di una nave, la mia casa o, per essere più esatto, la casa dei miei genitori era in mezzo alla campagna, tra via Pagliarone e Via Prota, ai confini tra Torre del Greco, la mia città, e Torre Annunziata.

Ricordo che quando andavo a scuola me ne salivo fino alla Nazionale per via Pagliarone, percorrevo poi la Nazionale, pure questa in salita, e se non pioveva o tirava vento arrivavo a Leopardi in non più di un quarto d’ora.

Quando invece dovevo andare a fare qualche servizio a Torre Annunziata, per arrivare alla Nazionale me ne salivo da Via Prota.

La nostra casa, in mezzo alla campagna, come dicevo, e a poca distanza dal mare, era collegata da una stradina di terra battuta con la via Pagliarone e con un’altra stradina, quasi identica, che sbucava dalla parte opposta, in via Prota.

Era un mucchio di macerie quando mio padre, cavatore, la comprò con la modesta dote di mia madre. E la rimise su con l’aiuto di suo cugino, anche lui cavatore e di Branete, nell’Avellinese, un paesino a due passi da Tufo, terra famosa per la pietra vulcanica che porta questo nome, per la miniera di zolfo e il Greco di Tufo, il vino bianco tra i migliori della Campania e d’Italia.

Mia madre era di Suozzi, un altro paesino della terra di Tufo, e ci raccontò che aveva incontrato mio padre alla festa di San Paolo la prima volta che c’era andata da sola. Se n’era innamorata e, appurato ch’era un uomo serio e un gran lavoratore, con il consenso di suo padre gli disse di sì.

Mia madre e mio padre se ne vennero sotto il Vesuvio e a due passi dal mare subito dopo essersi sposati, invogliati dal cugino di mio padre, che vi si era trasferito già da qualche anno, quando il lavoro nelle cave di Tufo cominciava a scarseggiare.

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A scuola ci andai per tutti gli anni dell’obbligo, che allora era fino alla quinta elementare, e mi licenziai con buoni voti. Tanto che mio padre mi disse: - Tatò, sei stato bravo e hai studiato, perciò ti meriti di fare una vita diversa dalla mia e da quella di Filuccio, tuo fratello.

Mio padre faceva il cavatore, come credo di avere già detto, faticava assai e guadagnava poco. Filuccio, di tre anni più grande di me, era apprendista scalpellino e guadagnava poco pure lui, ma diventato poi bravo la paga sua aumentò e si sposò con Nunziatina, una brava figliola di Trecase.

Era a lui, a mio fratello, che guardavo, perché sapevo che fare lo scalpellino era meno faticoso e più redditizio che fare il cavatore, come mio padre.

Ma lui, mio padre, mi convinse, anzi mi obbligò di non mettere mai piede in una cava, neppure per imparare a scalpellare la pietra per farne basoli, gradini e cornicioni, se non addirittura pietre levigate e piccole statuine per le tombe, come già cominciava a provare mio fratello.

- Tu hai studiato, figlio mio, e devi fare lavori più puliti – mi disse un giorno. - Quando avrai l’età giusta, puoi presentare la domanda al Comune per un impiego o, se vuoi, ti puoi arruolare nella polizia o fare il carabiniere.

- E nel frattempo? - Nel frattempo vai a lavorare come apprendista in uno dei due pastifici sulla

Nazionale, a due passi da casa nostra. Ho parlato di te al ragioniere Pietro Bianchi e mi ha detto che presto mi farà sapere qualcosa.

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Il ragioniere, un vero gentiluomo, fu di parola e una o due settimane dopo mi mandò a chiamare, mi fece entrare nel suo ufficio e mi disse che, se volevo, potevo cominciare fin dal giorno dopo a lavorare come apprendista pastaio e che sarei stato messo in regola appena avrei compiuto quattordici anni. Capì però la mia delusione e mi confidò che il principale non gli aveva concesso neppure questa volta di avere un apprendista contabile.

- Registri dei bilanci e della contabilità, fatture, bolle di accompagnamento e bolle di spedizione li possiamo trattare solo io, tu e mio figlio, mi ha ripetuto il principale anche in questa occasione – mi confidò il ragioniere.

Il giorno dopo cominciai dunque a fare il pastaio. Un mestiere che a dire il vero mi è subito piaciuto, anche se all’inizio mi facevano fare solo il garzone. La fatica più grossa era portare e andare a prendere la pasta che veniva essiccata lentamente e a temperatura bassa nei locali in alto, quelli del sottotetto. La pasta lunga veniva portata appesa sopra un canna robusta, io avanti quando si andava su per la scala, ma dietro quando si scendeva, perché ero il più piccolo d’età e il più corto di tutti

Per mesi e mesi ricordo che ero incantato dalle grandi trafile circolari di bronzo lucido. Appese a una grande parete quelle meno usate, appoggiate su scaffalature solide le altre, me le guardavo una a una come fossero enormi medaglioni trapuntati.

E non passò un anno che presi parte anch’io alla ricerca di una nuova frase da far stampare al posto di quella che propagandava i nostri maccheroni ormai da decenni: Dimmi che pasta mangi e ti dirò chi sei!

Un concorso voluto dalla moglie del principale, si diceva, perché ormai stufa di quelle parole che “non dicevano più nulla a nessuno”.

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Il ragioniere che andai a consultare mi consigliò di partire da un proverbio, come aveva fatto il proprietario quando aveva creato la frase pubblicitaria che ora s’intendeva sostituire.

“Dimmi con chi te la fai e ti dirò chi sei” ha dato “Dimmi che pasta mangi ecc. ecc. “ e tu, per facilitarti il compito, usa la stessa procedura.

Provai e riprovai per giorni coi pochi proverbi che conoscevo, ma non mi veniva nessun risultato: “Paese che vai, usanza che trovi”, “Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Dio!”, “Rosso di sera bel tempo si spera”…

Poi una sera mi ricordai “Chi trova un amico trova un tesoro” e “Il cuore non invecchia mai”. Mi soffermai su questi due proverbi e li trasformai in ”Chi mangia la nostra pasta sa d’aver trovato un tesoro” e “Non invecchia mai chi mangia la pasta da noi prodotta” e li portai al ragioniere.

Lui li lesse e li ripeté ad alta voce un paio di volte prima di dirmi che l’uno valeva l’altro, perciò mi consigliò di presentarli entrambi al concorso. Così feci e ne ricavai un premio di consolazione: dieci pacchi da un chilo ciascuno di pasta di vari formati che portai a casa come un trofeo.

Il premio, quello vero, lo vinse manco a dirlo il figlio del padrone. Ma la frase da lui inventata non venne adottata e scomparve del tutto anche quella resistita tanti anni. Nessuna propaganda della nostra pasta, dunque, come voleva in quegli anni il regime fascista, perché la pasta era insufficiente e, per limitare le importazioni di frumento, bisognava incoraggiare il consumo di riso, che invece era in sovrabbondanza1.

1 A tal fine la propaganda fascista condusse una violenta quanto assurda campagna denigratoria

contro spaghetti e maccheroni, propaganda che vide scendere in campo il futurista Filippo Tommaso Marinetti ormai in guerra contro la pastasciutta, incurante dei cortei popolari di protesta che si svolsero a Napoli e del dissenso del giornalista e scrittore Paolo Monelli che ebbe a definire la pasta “l’ideale vivanda dei combattenti”.

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Non molto dopo feci amicizia con Tatore Esposito, un mio coetaneo che, compiuti i quattordici anni, aveva cominciato a lavorare come apprendista nell’altro pastificio, quello del signor Dota.

Abitava in un vecchio palazzo della via Nazionale, a due passi dai pastifici, e un paio d’anni dopo esserci conosciuti mi portò un giorno a casa sua e mi presentò ai suoi due fratelli più grandi di lui, anche loro, come Tatore, innamorati del mare e della navigazione.

- Ma come – gli domandai quando uscimmo da casa sua – tu hai imparato finalmente bene un buon mestiere e pensi di abbandonarlo?

Lui non mi rispose subito, ma mi sorrise e aspettò che attraversassimo la strada. - A me piace l’arte del pastaio, ma come ogni vero torrese non posso fare a

meno di sognare di imbarcarmi appena possibile su una nave, una qualsiasi. Anche se nei primi anni mi piacerebbe che fosse una corallina, per lavorare sia da marinaio che da pescatore in mari non troppo lontani.

Gli dissi che non sapevo quasi nulla delle coralline, anche se forse un giorno ne avevo vista una nei pressi della Torre Scassata.

- Sono lance di dieci dodici metri – mi raccontò lui – costruite nei cantieri navali torresi da bravi maestri d’ascia. A bordo ci sono al massimo quattordici uomini, che come riparo hanno solo la cabina di pilotaggio, perché cabine e servizi igienici sono del tutto inesistenti.

Notò il mio stupore e mi disse che i suoi fratelli, che avevano fatto già quella esperienza, gli avevano detto che nessuno se ne era mai lamentato, perché la notte i marittimi di solito non la trascorrono a bordo.

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- Le coralline partono a fine marzo o in aprile dal porto di Torre del Greco – riprese a raccontarmi - dopo la benedizione del prete, il saluto delle autorità e gli abbracci, le lacrime e gli auguri dei familiari dei marittimi. Prima di allontanarsi costeggiano il cimitero, per un saluto ai defunti, nel rispetto di un’antica usanza torrese. Poi a forza di remi o con le vele, se c’è il vento, prendono la direzione di Ischia, continuano per Ventotene, le isole del Giglio e di Montecristo, attraversano lo stretto di Bonifacio tra la Corsica e la Sardegna e arrivano nei pressi di Alghero dopo sei sette giorni di navigazione, non allontanandosi mai troppo dalla costa delle varie isole per avere vicino un approdo in caso di emergenza e per trascorrervi la notte. Giunti a destinazione, la pesca a strascico e con il mare calmo, a sette otto miglia dalla costa, ha inizio all’alba e finisce al tramonto. Il corallo, molto rosso quello sardo, viene strappato da scogli sommersi a una cinquantina di metri. A bordo, tra una pesca e l’altra, l’addetto alla cucina prepara il pasto con gallette bagnate, cipolle, un filo d’olio e pesce appena pescato. La cena viene consumata a terra, dopo aver riempito i barili d’acqua e raccolto la legna per il fuoco. E così per tutta l’estate. Il ritorno a Torre è a settembre, quando i marittimi abbronzatissimi riabbracciano mogli o fidanzate.

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Qualche mese dopo Tatore si iscrisse nella Gente di Mare e mi consigliò di fare altrettanto. Entrambi fummo inseriti nella categoria pescatori e per entrare a far parte della Marina Militare non dovevamo fare nessuna domanda.

Quando giunsi all’età della leva militare fui infatti mandato a Taranto, dove venni classificato “marinaio addetto ai servizi vari”, e molto più tardi, dopo infinite esercitazioni, diventai “mitragliere”. Esattamente come capitò a Tatore, imbarcato però su un’altra nave.

Durante la guerra io ero sulla torpediniera Procione che con le torpediniere Orsa e Pegaso e il cacciatorpediniere Freccia era di scorta al convoglio partito la mattina del 24 maggio 1941 da Napoli per l’Africa Settentrionale, convoglio formato da quattro navi cariche di soldati: Marco Polo, Victoria, Esperia e Conte Rosso. Quest’ultima aveva a bordo il Contrammiraglio Canzoneri e, come seppi solo anni dopo, anche il mio amico Tatore, come mitragliere.

Alle 15.15 circa il convoglio attraversava lo Stretto di Messina e a rinforzare la scorta furono fatte salpare da Messina le torpediniere Calliope, Perseo e Calatafimi.

Alle 16.00 furono allertati non solo gli idrovolanti e i caccia della base aerea di Augusta, ma anche gli incrociatori Bolzano e Trieste e i cacciatorpediniere Ascari, Corazziere e Lanciere.

Verso sera, al largo di Capo Murro di Porco, nonostante l’enorme scorta e l’attenta sorveglianza, dal sommergibile britannico Ulphoder partirono due siluri prodieri che colpirono il Conte Rosso nella fiancata sinistra. Lo scafo imbarcò subito acqua e dopo appena dieci minuti il Conte Rosso, con la poppa in alto e le eliche che giravano, si inabissava in perfetta verticalità.

I cacciatorpediniere Corazziere e Lanciere, le torpediniere Pegaso e Procione, su cui ero imbarcato io, vennero subito impegnati nelle operazioni di salvataggio, mentre il resto del convoglio proseguì per Tripoli, dove giunse il mattino dopo.

I giorni seguenti sulla banchina di Augusta furono adagiate le 239 salme recuperate sui 1297 uomini scomparsi in mare, la maggior parte dei quali non sapeva nuotare.

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Alla fine dell’estate dello stesso anno e nei due anni successivi presi parte a vari altri viaggi di scorta e fui impegnato poi come mitragliere con altri tre marinai in un rifugio-torretta di cemento armato sulla costa ad ovest di Tripoli, non lontano dalla Tunisia.

E fu lì che dopo l’8 settembre del 1943 tutt’e quattro fummo fatti prigionieri, trasferiti in un campo presso Tunisi e imbarcati una decina di giorni dopo per l’America, con meta finale il Texas, ed esattamente il Campo di Prigionia di Hereford, in mezzo al deserto.

Il Campo di Hereford, ufficialmente denominato "Military Reservation and Reception Center", ma detto poi anche "Fascists’ Criminal Camp", dopo l’8 settembre 1943 ospitò cinquemila dei cinquantamila soldati e ufficiali italiani prigionieri negli Stati Uniti d’America.

E tra questi cinquemila ci fu uno che, sentito il mio cognome all’appello, un mattino mi avvicinò e mi chiese se ero di Tufo, come lui.

- Della terra di Tufo sono i miei genitori – gli risposi, - io sono nato a Torre del Greco.

- Centrella è un cognome molto diffuso dalle nostre parti - tenne a precisarmi lui e aggiunse però che lui si chiamava Dante Troisi.

- Meglio, sì, mille volte meglio Troisi di Centrella – gli dissi io. E lui, stupito, mi chiese il perché.

- Troisi è un cognome serio, mentre fin da quando ero un ragazzino ho capito che Centrella è un cognome che fa ridere. Tant’è vero che per questo mio cognome tutti mi hanno sempre preso in giro, a scuola, sul lavoro e perfino sotto le armi.

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- Centrella, dal greco “kèntron”, significa chiodo e in napoletano è quello a borchia per chiodare le suole delle scarpe o per la tappezzeria. E basta questo per farlo diventare comico?

- Purtroppo non so darmi altra spiegazione di quella che i Centrella sono poco considerati perché di origine montanara.

- Esattamente come è successo a me quando studiavo al liceo classico di Parma, dove ho capito che non mi sarebbe mai stato perdonato di essere uno del sud. A meno che non fossi diventato una persona molto importante.

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E importante Dante Troisi (2) lo divenne davvero, ma solo anni dopo, quando tornato in Italia diventò magistrato e poi anche scrittore, autore di libri di provocazione e di successo.

Nel campo di Hereford c’erano altri personaggi importanti: scrittori, artisti, politici, che io non conobbi perché aderii presto all’ “Italian Service Unit” per non essere considerato un non cooperatore e passare per un fascista, come i soldati della Repubblica di Salò fatti prigionieri e inviati in quello stesso campo.

Trasferito altrove e inserito in un corso di addestramento per il mio reintegro nella Marina Militare d’Italia che dall’8 settembre 1943, giorno della proclamazione dell’armistizio, s’era schierata al fianco degli Alleati (3) , ebbi occasione di imparare la lingua inglese, di visitare alcune città degli Statati Uniti d’America e di conoscere tanti italo-americani, tra cui alcuni Centrella che, figli di emigranti, occupavano posti di non poca importanza.

E fu questa la gioia più grande che ho provato durante i quarantacinque e più anni trascorsi in America.

2 Dante Troisi (Tufo, Avellino 1920 - Roma 1989) ), frequentò il liceo classico a Parma, si laureò in

giurisprudenza a Bari e partì volontario per la guerra. In Tunisia fu fatto prigioniero nel 1943. Trasferito negli Usa, vi restò fino al 1946, rinchiuso nel campo di Hereford. Dal 1947 al 1974 fu magistrato a Cassino e poi a Roma e scrisse libri quasi sempre di argomento giudiziario, a cominciare dal Diario di un giudice, che suscitò enorme scandalo e gli valse una censura disciplinare per offesa alla magistratura. Il suo debutto era comunque avvenuto quattro anni prima con L'ulivo nella sabbia, più legato al mondo contadino delle sue origini. Troisi è stato due volte selezionato nella cinquina del premio Campiello, con I bianchi e neri e con il suo ultimo romanzo L'inquisitore dell'interno 16. Con L'odore dei cattolici (1963), che fu tra i finalisti del Premio Strega, vinse invece il Premio di Chianciano. Tra gli altri suoi libri si ricordano Voci di Vallea, uscito per Rizzoli nel 1969, La Sopravvivenza edita da Rusconi nel 1981 e alcuni testi teatrali pubblicati nel '72.

3 La Regia Marina, che era ancorata nei porti da circa un anno per penuria di carburante, dovette consegnarsi nelle mani degli Alleati a Malta. Successivamente, dopo la consegna, le navi maggiori furono internate nei Laghi Amari mentre il naviglio minore si unì alle flotte alleate per combattere contro il nuovo nemico. In seguito buona parte della flotta, in ottemperanza del trattato di Parigi del 1946, venne ceduta alle potenze vincitrici o demolita.

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In California, dove ero stato invitato da un connazionale che aveva da poco aperto un piccolo pastificio, ripresi a fare il pastaio.

- Ho letto la tua storia sul giornale e mi son detto che se volevo sfondare avevo bisogno di uno come te, che il mestiere l’ha imparato da quando era un ragazzino - mi confidò John A., un italo-americano di terza generazione che, come appresi poi, aveva pensato bene di darsi a un’attività non solo redditizia, ma anche legale, allontanandosi per sempre da New York e dintorni.

Un pastificio piccolo, uno dei primi sorti nei pressi di San Francisco, che aveva tante richieste e meritava di essere potenziato. La paga che John mi offrì era più che allettante e non mi sentii di rifiutarla, ben sapendo che tornato in Italia, un paese semidistrutto dalla guerra, era impossibile ottenere un’offerta come quella.

Mi rimboccai dunque le maniche, cominciai pian piano a riprendere dimestichezza con il mio passato lavoro e nel giro di qualche anno diventai, a detta di tutti, uno dei pastai super esperti d’America.

Contabile del pastificio era la figlia unica di John, Mary, con la quale mi fidanzai quando, grazie all’entusiasmo con cui avevo lavorato e innovato macchinari e procedure, il giro d’affari s’era più che raddoppiato.

Intanto avevo finalmente convinto i miei genitori a venirsene in America, ben sapendo ch’erano ormai rimasti soli. Mio fratello s’era trasferito con moglie e figli nel Trentino, come avevano fatto altri scalpellini.

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Il mio matrimonio fu celebrato nella bella Chiesa dei Santi Pietro e Paolo in Washington Square, il luogo di congregazione della comunità italiana. Era il 1954, l’anno che li andai a prendere e li portai a San Francisco.

La villetta che avevo acquistato nel quartiere North Beach dov’è la Little Italy, accanto a quella che John aveva fatta costruire per la figlia non appena s’era fidanzata con me, divenne la loro casa.

Nel quartiere North Beach era stata aperta da poco la libreria City Lights Bookstore fondata dal poeta Lawrence Ferlinghetti, non lontano dal Cafè Vesuvio.

Ed è in questo locale, il Cafè Vesuvio, che ho portato spesso i miei genitori per far loro smaltire con un buon caffè e una piacevole conversazione sul nostro passato la nostalgia per la terra che gli avevo fatto lasciare.

Furono loro a dirmi che Tatore aveva fatto naufragio sul Conte Rosso quando anch’io ero in viaggio per l’Africa, ma sulla torpediniera Procione.

- Ed era in Sicilia quando ci fu lo sbarco degli Alleati. Scampò fortunatamente anche quella volta alla morte – mi raccontò poi mio padre - e si trascinò a piedi fino a Messina, a casa d’un suo compariello, dove fu accolto e vestito con abiti civili mentre la guerra continuava. E lì, in quella casa, conobbe una ragazza con cui si fidanzò.

- E la sposò? - Sì, ma solo dopo sei lunghi anni. Prima dovette pensare a mettere qualche

soldo da parte. Rientrato a casa dopo un viaggio lunghissimo e quasi tutto a piedi, si era presentato alla Capitaneria di Porto di Torre del Greco, aveva ottenuto il congedo ed era tornato a lavorare nel pastificio Dota, dove è diventato capo pastaio.

Centrella Inn – Pacific Grove (California - USA)

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A Torre del Greco sono tornato con Mary e per sempre solo nel 1989. Non avevo ancora compiuto 70 anni e avevo ancora tanta voglia di realizzare un mio vecchio desiderio che mi aveva inculcato Tatore: imbarcarmi per andare a pescare almeno una volta il corallo. Ma proprio quell’anno, come seppi, l’ultima corallina era andata in disarmo.

Ho avuto però la soddisfazione di vedere dei Centrella diventare importanti anche in Italia e non poche persone ancora oggi mi chiedono se sono parente del sindacalista Giovanni Centrella o il proprietario di una famosa Azienda Centrella di vino Greco di Tufo. Mentre in America gli ultimi anni mi chiedevano se la dottoressa Joan M. Centrella della Nasa fosse mia figlia o se ero io il proprietario del Centrella Inn, l’albergo in stile vittoriano di Pacific Grove, un’amena cittadina costiera della California.

Una nota Azienda di Greco di Tufo

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