Isabelle (dimmi che non speri) - Flavio Toccafondi

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Poco tempo fa, discutendo con un esponente della cultura “alta”, mi sentii raccontare che dopo Campana, non c’era più stata poesia. Saltando a piè pari quel che penso di chi fa un’affermazione del genere mi accontento di sottolineare che è molto improbabile che risponda a verità. Noi del-la Biblioteca Clandestina Errabonda siamo con-vinti che, dal 1932, anno in cui Campana morì, a oggi, un po’ di Poesia (la maiuscola non è un re-fuso) sia stata scritta. E anche un buon quanti-tativo di prosa di livello. Ma è vero che, proba-bilmente, tu non l’hai letta. E con te la gran parte dei lettori. Nessun complotto. Non c’è nes-suno che tenta di tenere nascosta la buona lette-ratura contemporanea. Semplicemente le leve del controllo stanno nelle mani (anche giustamente, ci mancherebbe) di persone che si sono degnamente formate su Dino Campana. E che non saprebbero riconoscere qualcosa di nuovo (che tutti i grandi autori sono stati nuovi una volta). Poi c’è la lo-gica del mercato e delle vendite e chi me lo fa fare di pubblicare un ignoto che non è nemmeno caldeggiato da qualcuno che conta quando posso pubblicare un bel libro di un comico o di un can-tautore che perlomeno sono sicuro che vende. E dovendoci, il nostro personaggio, in termini pro-saici, mangiare, chi può dar lui torto. Per cui è tutto un gioco perverso, in cui noi, lettori, ci perdiamo la possibilità di scoprire se c’è qualco-sa di bello in giro. Questo non lo possiamo fare, dirvi se c’è qualcosa di bello in giro intendo. Ma possiamo provare a mostrarvi qualcosa di nuovo. Poi è tutta una que-stione di gusto. E quello è un problema tuo. Samiszdat è questo: una collana di roba nuova (che poi a noi piace altrimenti mica la pubbli-cheremmo). Il nome ha dettato anche la veste grafica e lo stile. Realizzeremo i nostri libri, che potrete comprare in rete o cercandoci su www.bceparma.splinder.com/.

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Samiszdat

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Flavio Toccafondi

Isabelle

(dimmi che non speri)

copyright © dell’autore

Collana Samiszdat

Prima edizione

Grafica, elaborazione e impaginazione

Biblioteca Clandestina Errabonda Parma

Ndr. Per esigenze editoriali il libro non

è stato stampato con la copertina che

l’autore aveva pensato per lui. Ma ogni

parte di un’opera è importante. Abbiamo

così pensato di recuperarla e di renderla

disponibile, in una versione animata, qui

http://www.youtube.com/watch?v=ZUZDhNJJCrM

La riproduzione anche solo parziale, di

questo testo, a mezzo di copie fotostatiche

o con altri strumenti, senza l’esplicita

autorizzazione dell’Autore, costituisce

reato e come tale sarà perseguito

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I libri mentono

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PREFAZIONE Chiunque si appresti a studiare la letteratura italiana, prima o poi si imbatterà in qualcosa che a un certo punto i poeti si misero a fa-re, senza avvertire nessuno e pro-babilmente divertendosi un mondo a farlo. A un certo punto della sto-ria, i poeti decisero che sarebbe stato utile frustrare il lettore. Tutta quella faccenda delle rime baciate, degli endecasillabi per-fetti, delle parole che finivano nello stesso identico modo (cuore-amore, amare-sognare, oppure il Petrarca che si divertiva a fare i sonetti con le rime talmente ba-ciate da finire con le stesse paro-le cambiandone solo il significato: “quand’io son tutto volto in quella parte/ i’ che temo del cor che mi si parte”), aveva fatto il suo tempo e aveva forse annoiato i poeti. Iniziò così la deriva verso l’anarchia totale del verso, con la

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frustrazione del povero letto-re/ascoltatore che, dopo un paio di endecasillabi perfetti, si aspetta la rima baciata, non vede l’ora che arrivi, e invece no, il poeta non gliela manda più. La rima è fru-strata, si dice in gergo. Da lì in poi, tutto è poesia e nien-te lo è più. La musica delle parole la decide il poeta, o lo scrittore, e tu lettore non puoi anticipare proprio niente nella tua testa, perché non hai i-dea di cosa verrà dopo. Non ti ri-mane che affidarti completamente alle parole che stai leggendo e sperare di scoprire un’altra musi-ca, un significato nascosto. Legge-re Toccafondi significa questo, perché quando scrive si nutre del-la tua frustrazione. Lui scrive poesie ma non le mette in versi. Scrive prosa ma non ti racconta una storia. Eppure i suoi “romanzi” sono romanzi d’amore, quindi la

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forma più semplice di narrativa che esista sulla terra. Le sue storie sono riassumibili in dieci righe, quando hai la fortuna di afferrare e poter mettere in fila le schegge di plot che ti sparge nelle pagine. Un’ambientazione, descritta a flash fotografici privi di presenze uma-ne ma ricchi di architetture e a-nimali, un protagonista narrante, una donna amata, abbandonata, ri-voluta, ripresa con la forza del pensiero, e con l’aiuto di un eser-cito di lumache talmente fatali e potenti che in confronto la tarta-ruga di Achille non è più un para-dosso. E un figlio, perché nella scrittura di Flavio Toccafondi un figlio c’è sempre, anche se si fa fatica a vederlo, questo bambino, perché lui non te lo mostra mai, ti fa sempre intuire la sua presenza, e ti devi accontentare di questo. Ti chiede tanto, Toccafondi.

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Ti chiede di seguirlo nei suoi percorsi mentali, ti trascina in un vorticare di prosa poetica che ti afferra e non ti molla neanche se provi a staccare gli occhi da quelle parole. Un esempio? Provate, se ci riuscite, a frenare su questo passaggio, provate a interrompere la lettura a metà, è una sfida ve-ra: Sei l’equilibrio e la distanza, la dichiarazione d’intenti, la guerra e la pace, sei l’armistizio, il delitto perfetto, la prova schiacciante, sei l’arma del delit-to, sei bordura di rose, bordura di lavanda, siepe di bosco, cancello d’ingresso, sei la calce, il gesso, il collante di ogni frattura, sei la paura, il timore, l’espressione del dolore, sei un giorno appeso al vento fuori casa passeggiando sot-to il sole, sei peggio di un crimi-ne e in quanto delitto strappi il cuore, il tuo amore è assassino, amputa gli arti, si prende gli ab-bracci, e mi lasci a metà. Capito? Tante volte vi foste dimenticati chi comanda, nelle pagine di Toc-

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cafondi, e chi è l’unico che ha il potere di lasciare a metà qualcosa. Eppure, è anche pietoso nei vostri confronti, perché subito dopo in-fila nel suo scritto un pezzo di prosa piana: Vedi Pa’, ricordo quando telefonandoti da quel cazzo di paese intuivo la tua incertezza sul mio gesto, pensavi fosse l’ennesimo formalismo indotto da mia madre ma così non era, anche se solo oggi lo riesco a capire; in situazioni analoghe anche io avrei pensato la stessa cosa, chissà. Un pezzo perfettamente “comprensibi-le”, fatto di un classico dialogo figlio - padre, condito con lin-guaggio triviale, quasi a voler farti tirare il fiato, quasi a vo-lerti dare una pausa, quasi a vo-lerti tener lì, vien da dire, se non fosse che Toccafondi è l’autore più lontano dalla ruffianeria nei confronti del lettore che mai vi capiterà di leggere.

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Eppure, vale la pena di farsi mal-trattare e frustrare, non vi pen-tirete di dovervi arrabbiare per le frenate improvvise su un elenco interminabile di nomi di lumache, non vi spaventerete di esser tra-scinati in gorghi di parole inca-tenate. Alla fine, chiuderete il libro e avrete la consapevolezza di aver letto due storie d’amore al prezzo di una: quella narrata nel libro, mendace per dichiarazione programmatica, e quella tra lo scrittore e le sue parole, vera perché i libri mentono, ma i veri autori non possono farlo.

Valeria Coiante

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PRIMO

Mi inghiottivi folle ed era diver-tente oppure osceno il tuo sussur-rare rigido e male (tu, trasparente contro sole, ripetevi “ho un tacco in bilico e decisioni da prendere, mi terresti con te questa notte?”). Così dimagrita Isabelle spensiera-ta occupavi con sospiri spazi nel materasso oppure isolata la sera rintanata in qualche pensiero stu-pido poi, affatto morbida, cullavi l’ipotetica te lasciandoti avvol-gere dal vapore affettuoso di un bagno caldo, come dire, per non pensarci più; ogni sera, cosìnnuda, ti benedicevi nella fonte battesi-male. Ogni sera, cosìnnuda, per non pensarci più. Poi dimagrivi o dimagristi, passato un mese dal nostro ultimo incontro, Firenze sventolava bandiere arco-baleno; un giapponese smarrito mi confuse domandandomi della stazio-

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ne – I cannot, I cannot – risposi - I’m running away – così il lungar-no riprese a frizionare immagini in moviola opaca e tu eri un seme di melograno – decisi – e io e io e io, dopo un girovagare mutilato immenso trovai in affitto una stanza piena di cinesi - rimasto solo, chiusa la porta alle spalle, scrissi una poesia bruttissima prima di scivolare lento tra le lenzuola. Era giorno era sera era scuro, un colpo di sonno e fu tutto chiaro. Tu avevi trent’anni, io trentatre. Non scrivevo più una riga da sei anni e non me ne dolevo.

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*** “Dovrebbero vietare i motori e-sterni dei condizionatori” - pensai alzandomi sconcio, pestato - “im-polverati i filtri logori di notte sfrigolano, scalpitano; non sono abituato a dormire in posti con troppa luce, i rumori sfrigolano, scalpitano e poi i bagni e le misu-re perimetrali sconosciute, la lon-tananza inibisce, mi confonde non avere punti di riferimento, è che in verità mi sento solo e lontano” – confessai la mattina alla ragaz-za che mischiava miscele di tè verde al bar qui sotto di Pechino. Lei sorrise, ignorandomi. Fuori Firenze era fiori e farfal-le, una mezza stagione, odore di tessuti, velluto e terracotta, strade turistiche, turiste assola-te, addobbate addobbati, portieri d’albergo in attesa di dollari o giapanisyen; torturato procedevo procedevamo senza scuse, solo il ronzio degli split dell’aria condi-

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zionata sopra le serrande dei ri-storanti indiani. Fuori Firenze era fiori e farfal-le, in mano l’indirizzo scritto male su un volantino di un negozio di scarpe coreano. Mi si accelera il battito quando corro, l’affanno, a-spiro a un passo di lentezza, un passo che inganni, che sembri che non, che sembri che, in definitiva, l’ansia di non incontrarti più. Così da un balcone una genziana perde o perdeva o perse petali; la donna alla finestra tira tirava tirò a sé i panni e arrotolando il filo sembrava, sembrerebbe o sembrò pescare, ricamare una danza osti-natamente quotidiana. Inerme, petali di genziana sul capo ricevo e sto.

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*** Oppure una mattina dodici anni fa a Belgrado, le calze rosse, le guance pallide, la canzone sussur-rata miagolata come vapore da un braciere – un ponte ci accolse me-scolati ad altri, solo più cauti solo, meno zoppi – tua madre per pranzo sfasciò un vecchio maglione di lana cucinandoci un gomitolo nuovo, lo lanciò nel cortile e sor-ridenti assistemmo alla scena del gatto impazzito, curioso e slavo. Non portavo guanti di lana allora e mi nutrivo solo delle minestre di tua madre, spezziate come l’acre o-dore di tabacco della casa di mio zio, lui ancor giovane al telefono con le prostitute per sentirne le promesse e rimanerne impressiona-to, il dito puntato sul labbro, il pensiero meravigliato e porco. Ecco, ricordo bene, nelle feritoie dei demoni notturni mi nutrivo di te lanciandoti briciole e t’amavo così tanto che il successivo set-tembre monolitico passò talmente

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rapido che una cosa ancora mi vie-ne da aggiungere, che il pesce Razza, se lo accarezzi, sorride.

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*** Poi ti persi una mattina uscendo da Belgrado faceva freddo avevo perso un treno mi ero appena libe-rato della punteggiatura ti chia-mai da lontano ma rauco o troppo lontana o allontanata ti eri per farti scalfire da una voce e solo l’annuncio di un binario coperse il secondo tentativo e pensai al caso o ai segni del caso e ti lasciai andare ti persi ti ho persa ti per-derò per sempre amore mio Agli accapo non sapevo ancora ri-nunciare eppure mi impiegai lo stesso in una ditta che serviva pasti sui treni, partivo la mattina alle quattro, a La Spezia davo il cambio fino a Genova, mi avevano lasciato la tratta in curva, dovevo camminare al contrario rasando gli scompartimenti con la spalla sinistra, vendendo cose e per le cose venivo pagato, ero catalogante e attento al listino, imparavo i nomi delle fermate intermedie e quando li seppi tutti mi pensai en-ciclopedico e mi licenziai.

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*** Poi una mattina, ieri o sette anni fa, mi svegliai circondato da for-miche su un tavolo ghiacciato, in una cucina verde. La casa scivolava su un parquet verde olivo, c’erano piccoli comò sparsi in ogni stanza, cornici bianche con dentro intonaco inton-so e trascinavo i piedi sul lenzuo-lo, avvolto dentro ero dove, pulivo lucidavo passavo e fissavo le cose sui muri e per terra, ero dove. La collega amaranto-gilet piegò la testa da uno dei punti geometrici del salone e sentii profumo di pane fresco, provai uno smarrito senso di caldo addosso prima di spegner-mi in un angolo a ticchettare con le dita ritmi disordinati. Rimasi quattro ore muto e non sa-pendo cos’altro fare mi pensai va-so, mi finsi ragno e mi intelai.

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*** Mi ricordai di me a giugno dell’anno dopo, ti seppi andalusa e viaggiante, mangiavo pochissimo, desideravo bacche, il miele, il miele, le bacche, il miele. Mi im-piegai in una ditta di spedizioni ittiche, lavoravo quattro ore in un centralino, potevo sfogliare le ri-viste e le mappe, seguire col dito le rotte delle tue apparizioni. Affittai una casa e per un mese intero diventai vegetariano.

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*** La nuova casa non aveva senso, gi-rava quadrata su se stessa. Per armadio decisi di utilizzare le maniglie dorate delle porte. Il concetto di ante mi annoiava. Poi una mattina mi diressi al cen-tro della stanza e ci piantai un albero. Lo collocai ben distante dai termo-sifoni. I rami non avrebbero dovu-to toccare i muri; una luce di sbieco lo avrebbe irradiato la mattina presto per un massimo di due ore. Lo avrei annaffiato pa-zientemente, puntuale e coerente con il concetto di impegno botanico che da quel momento decisi di assu-mere. Poi, sospinto da una forza che non mi sarei mai attribuito, presi una scheggia di corteccia, la infilai profonda nella terra e, attento a non sporcare le fughe bianche, mi diressi verso il muro vergine dove scrissi

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SIAMO TUTTI CECOSLOVACCHI e di seguito LA CORTECCIA NON FA BRECCIA e ancora A PANAMA FINGONO DI NON VEDERE e ancora MI DIVENTI DI COLPO NEMICA e di seguito, calcando il tratto L’ACQUA ESCE DAPPERTUTTO. Avevo occupato quasi tutta la su-perficie bianca del muro così deci-si di voltarmi per proseguire dal-la parte opposta. CAROTE ALLA JULIENNE e da basso, raso allo zoccoletto,

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IL LAVORO E’ UNA TRUFFA CHE DURA BEN PIU’ DI 8 ORE. Sapevo che ormai non avrebbe avuto alcun senso fermarsi così decisi di continuare UN RAGNO MI HA ABBRACCIATO. MAMMA, SAPRO’ RESISTERGLI? poi mi accucciai vicino all’albero cercando altro inchiostro tra la terra madre. CONFLITTI INTELLETTUALI, SOPRAT-TUTTO GARANTISCO IO e di nuovo NIENTE DI PIU’ FACILE, NIENTE DI PIU’ TERRIFICANTE. Poi mi stancai o la noia mi colpì e andai a stendermi sul letto, nudo.

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Non spensi la luce, essendo la lam-padina da immemore tempo fulmina-ta.

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*** Poi la scena non cambia o non cam-biò, ero o sono lì, nudo sul letto, dimentico di tutto, nessuno mi sve-glia, nessuno mi ha svegliato, nes-suno mai sveglierà. Ero o sono scomparso.

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*** Un mese dopo sono nella stessa stanza, mi acceco di vino, dato il tempo passato non, travasato, ossigenato, bevuto sul colpo, malandrino, il vino come insanguinato una mattina di ghiaccio, meno tre, meno sette, decantato, meno cento gradi, fiori e dentro Poi come tutti la fila da Carre-four, lì il due per cento, lo scon-to, le cose, i detersivi, la fila, il carrello, le cose e tutti lenti o al contrario veloci, i nuovi parali-tici della dottrina che si chiama pay per view, da bravi! a fare la spesa, LA SPESA! e le etichette raffrontate, all’attacco, ALL’ATTACCO! che si attacca coi terzini, ma che non ve l’hanno re-galato il libro “Scuola di calcio secondo Giacinto Facchetti?”, coi terzini, coi terzini! razza di debo-sciati, di insulsi, brutti giocatori di racchettoni, mi vergogno di al-lenarvi, vi mando in tribuna, TUT-TI IN TRIBUNA e le mamme la dome-

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nica a preparare il ragù! maledet-ta domenica, specie di bolliti, i-gnoranti caproni, a lavorare!

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*** Poi apro un quaderno con duecen-tottantotto pagine senza senso, a-spiro a questo, come del resto vor-rei una mattina svegliarmi e sa-permi distante, vivere lo strippo del fenicottero, drogarmi delle co-se con cui ti droghi tu, se non ti droghi più. Oppure sapermi calmo e lento, improvvisamente senza sforzo oppure sceso tra gli uomini o partorito dopo una messinscena e ti vorrei così, a tua volta partorita e primitiva, stanca delle cose, teiera o tisaniera come quelle sbeccate di certi film cecoslovacchi oppure saputa abbandonata, masticata su una chiesa da una madre genuflessa, gladiolo infagottato per volermi bene, per amarmi per sempre, amore mio e allora ciao bella ciao, una mattina e tutto il resto, solo che mi sento isolato, lasciato stare, ho

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questa frase in testa, più che una convinzione, lasciato stare. ma sì, lasciami stare, ti sto lasciando stare, lasciami, stare, lasciami stare, lasciandomi stare, stare, starei, lanciandomi stare sarei, linciandomi sarei, saprei, lynch andomi, lynch and o me. Esempio: se stessi bene non scriverei = If I... stessi ... cado su stessi, mi viene “if i was fine” o al limite good ma se fossi stato bene non avrei scritto, non avrei descritto, un ritto, un rutto, ora rutto e sto.

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*** In verità vi dico, sostenni una volta da ubriaco, che maneggiare denaro comporta un’adolescenza dell’anima, una cattiveria da sogno o comunque un segno premonitore. Contare soldi per contarli non ha senso. Rubiamo l’anima alle lumache, ecco cosa auspico, imitiamone la lentez-za, la fatica di modificare o in-terrompere ogni scelta, l’insensatezza di tornare indietro. Smettiamola di fissarci i polsi quasi non sapessimo fare altro che imitare il nostro corpo, scegliamo l’educazione del non sorriso, il parallelepipedo della noncuranza, aboliamo l’idea di credo, di princi-pi e di ideali, abbracciamo la ba-nalità del non avere frasi pronte all’evenienza, sposiamo l’incompetenza e l’illuminismo di un uovo alla coque, la fragilità apparente di un merlo che si posa sul balcone e che, di tutto il ro-manticismo che vi aspettate, non

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lascia altra traccia se non il se-gno non lavabile dello sterco bianco e grigio. Dimenticatevi per un attimo di voi, fatelo nelle sere d’inverno quando l’acqua non necessita di un frigo e il vostro corpo d’essere asciugato. Fatelo fingendo di non saperlo fa-re e rammendate i vostri bulbi o-culari mediante il collage di se-dici pagine di giornale, tagliate i titoli con le vostre mani e unite le frasi senza senso quindi impa-ratele a memoria come fosse la poesia delle elementari. E poi uscite, una sera qualunque, non importa l’ora e recitate il vo-stro testo folle, in maiuscolo e grassetto “APPROVATO delitto in pieno centro, L’EMBLEMA DELL’ARTE è un gioco scorretto. CHI COPRIRA’ I BUCHI DELLO STATO? Colla Keracoll in of-ferta a € 10,99 al chilo, supermer-cato Lidl”.

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Fatevi una ragione degli altri e soprattutto datevi una motivazione per voi. Spegnete le candele nelle chiese, chi prega ha bisogno del buio, chi è morto ha già lasciato in eredità la luce perpetua. Fregiatevi di un titolo nobiliare che vi soddisfi, fatevelo calzare addosso aderente al tema della vo-stra debolezza: Duca Di Sinusite, Contessa Di Endometriosi oppure o al contempo, nutrite un cucciolo di animale non mirando esclusivamen-te alla sua pelliccia, amatelo sim-metricamente alla fiducia che ri-pone in voi, relegatevi in un ruolo di appartenenza e non acquistate più, per carità del cielo, cibo pre-confezionato. Infine datevi un’arte, gestite i vostri resti, fondate una casa edi-trice clandestina e richiamatevi al rigore della memoria che vi consiglia di fissare su carta le idee malsane che vi passano per la testa. E soprattutto, sposatevi con una ragazza che non concepisca il vo-stro bisogno di poesia, che dia una

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parvenza di quotidiana normalità alla vostra vita mentre voi, nella stanza accanto, vi sentite Dio.

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SECONDO

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Belgrado, file di marionette e di mollette bicolore, cambi di stagio-ne nell’armadio, nell’umore solfeg-giavi ambarabacciccìcoccò tre vecchiette col trumò che facevano all’amore col nipote del dottore, che facevano l’amore col ricordo biondo del dottore, ambarabacciccì-coccò tre vecchiette col trumò

E una mattina da tua madre seppi che Belgrado in sei mesi era stata miracolosamente ricostruita, così strinsi gli occhi, stinsi gli occhi e ti rividi dondolante e impazzita nel cerchio che girava centrifugo e stomacante.

Sfidandoti sfidavi l’idea di sfida e ogni sera salivi le scale popola-

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ri e in una di queste, sera come altre, confidasti il segreto del ventre al cuscino consolatorio, senza neppure saperti spiata da ventose di orecchie nascoste dietro intercapedini, quindi giudicata poi braccata e con solo due cose da fare – c’erano o ci sarebbero state,

pensavi o pensasti-

- metterti a letto a riposare (pensiero automatico)

oppure

- METTITI A LETTO E RIPOSA!

sgridato comandato da tua madre, soluzione facile eppure comoda da eseguire ma in fondo desideravi

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desiderasti desidereresti solo una banale e confortante rassicurazio-ne, qualcuno che ti dicesse

- Vieni qui, che ti faccio una doccia di abbracci, che ti cucino il sonno.

Ma fuori Belgrado era diecimila fiori e una decisione da prendere.

Così, quella sera tardi, scendesti nel piccolo giardino statale e, per dimenticare, cominciasti a spinge-re, con tutta la forza di pianto che avevi dentro, il cerchio di giostra sverniciata

forte sempre più forte

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che tutto gira, che tutto si dimen-tica; forte sempre più forte, che tutto passa, che tutto è forte

sempre più forte.

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TRE DIVAGAZIONI

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CONSIDERAZIONI SULL’AMORE, INTESO COME (manca definizione)

Ti ho per gesti, per frasi, per at-timi chiamata e persa con altri nomi; sei stata l’amante, le amanti, le donne, il carico di dolore, senti che pretesa! le gioie, sei stata una mattina e una sera e un discorso diametralmente opposto oppure una sera a una festa, sei stata una fe-sta, una farsa, ti ho misurata rincorsa odiata persa, vista o svi-sta oscena al cambio di scena, opa-ca, giovane e invecchiata, invec-chiare matura maturata snaturata quarantenne o ventenne o trenten-ne, ti ho sognata idealizzata ri-cordata profumata nel ricordo tin-ta, nella tinta blu, che solo le mie iridi a-mareggiate dedicano a te.

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E ti ho amata, vista dalla strada sui balconi alle fermate alla ra-dio la tua voce, vista distratta attraversavi la strada la sera la mattina a pasqua nelle festività, vista vestita bene o poco e male, coperta abbronzata pallida nel do-po ciclo, vista la mattina presto stendere o stirare, ritirare o ap-pendere o in fila a una cassa o guidare o guidata o a spasso con un cane o delusa, sconfitta e dolce a cucinare o a cucinarti addosso o a cucinare per cene per feste per sabati sera nei palazzi di festa, gli amici, il resto, le bottiglie lo spumante le pastarelle, i dettagli, curare i dettagli! I tovaglioli rossi sono volgari, bianchi sanno d’ospedale, le tovaglie, le tovaglie! Nascondere la biancheria sporca dal bagno, eliminarla, io e te sia-mo perfetti, non sudiamo non sudi,

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non puzziamo non puzzi, non per-diamo liquidi non,

vista o distratta da un telo nasco-sta, mia, per sempre mia, mia tu sola e basta.

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Sei l’equilibrio e la distanza, la dichiarazione d’intenti, la guerra e la pace, sei l’armistizio, il de-litto perfetto, la prova schiac-ciante, sei l’arma del delitto, sei bordura di rose, bordura di lavan-da, siepe di bosco, cancello d’ingresso, sei la calce, il gesso, il collante di ogni frattura, sei la paura, il timore, l’espressione del dolore, sei un giorno appeso al vento fuori casa passeggiando sot-to il sole, sei peggio di un crimi-ne e in quanto delitto strappi il cuore, il tuo amore è assassino, amputa gli arti, si prende gli ab-bracci e mi lasci a metà.

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Vedi Pa’, ricordo quando telefonan-doti

da quel cazzo di paese intuivo la tua

incertezza sul mio gesto, pensavi

fosse l’ennesimo formalismo indotto

da mia madre ma così non era, an-

che se solo oggi lo riesco a capire;

in situazioni analoghe an-che io a-

vrei pensato la stessa cosa, chissà.

Ciò che più mi rende triste è il non

riuscire a ricordare un solo giorno

in cui compiesti gli anni e io c'ero,

forse perché quando avrei potuto farti

gli auguri ero troppo piccolo e troppo

attento ad altro; ciò che conta è il

pensiero, lo so, è l'affetto che mai

verrà a mancare e anche se l’evidenza

sembra mo-strarci che sto parlando o

scri-vendo al muro, mi piace pensare

che in questa tua morte vi sia un mo-

do attraverso il quale tu possa avere

coscienza del mio sentire: per cui

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Tanti Auguri Papà, cento di questi

giorni.

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***

Poi una mattina il tempo cento gradi - guardavo sciogliersi l’asfalto - ero un fiore, “sono un fiore, una farfalla, sono un fiore e una farfalla e del resto non mi importa”, dicevo con addosso una maglietta arancione e spinsi o spensi il muso fuori dal portone –

Trieste sgocciolava stanca palazzi maestosi e bianchi – la professione

ancora una volta una qualunque, vendere ritratti trattare ritratti tratteggiare su fogli bianchi ri-tratti, seduto di schiena a pastel-lare lineamenti protestanti, cari-chi di tempo, delle passanti ingle-si.

Professione alchemica la mia, pit-tore che con l’attimo preciso del tratto ferma per sempre il tempo, fissando un pasto di carne, in-chiodandovi per sempre alla giovi-nezza.

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Io, solo io, in un lampo fermo il metronomo della vostra vecchiaia regalandovi l’eternità; io, solo io, se solo potessi inseminerei di va-nità l’intonaco delle vostre case che, pregno di egocentrismo, parto-rirebbe infine altre mille voi, co-stringendovi a odiare l’immagine duplicata che avrete scelto a eter-na esposizione, a eterna ostinazio-ne e la casa sarà una follia di continue voi che non riconoscerete più, quando vecchie, le immagini di ieri vi tortureranno e tutto si trasformerà in un pazzo circo co-lorato con te buffona, te domatri-ce, te contorsionista e il ballo gi-rerà attorno mischiandosi, sovrap-ponendosi

- Le potete vedere le luci? (è il ballo che gira su sé)

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bene, è la musica che impazza, e tutto gira, tutto valza1, ogni cosa ronda in movimento sismico qui al-la festa della vostra superbia, della vostra vanagloria ed è chiasso, frastuono, gli oggetti si animano, le bomboniere si scartano, i doni d’argento si fondono, si pla-smano, divengono stalattiti e la vetrinetta esplode, i libri si scambiano le pagine, Cervantes da 98 a 130 passa a Sartre e La Nau-sea diventa un capitolo di Romeo e Giulietta e Jacopo Ortis si trova a sua insaputa in Patagonia con Se-pulveda e Alvaro Mutis e il suo Gabbiere diventano serial killer insieme a Donato Bilancia.

Questo vi dovevo.

Sparpagliarvi le basi, mischiarvi le certezze, sbilanciare l’oscenità delle vostre regole, uccidere per sempre ogni concezione di tempo e catalogazione, per imprigionarvi in altre messinscene ben più irre-ali.

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Guardatevi e fatevi pena, stravol-te e sfatte dopo il ballo folle nella vostra stanza, sdraiate mezze morte di sudore sul divano, il ri-tratto a farvi il verso da sopra il muro mentre voi, piangenti, di-strutte, afflitte, ancora sperate che l’immagine sorrida a qualcun altro dietro di voi.

1 neologismo: “valza”, tutto va a tempo di valzer

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***

Poi una sera di maggio - ma certa-mente lo sogno - un imbrunire ti accoglie castana, lo sguardo basso e a qualcuno che non ti conosce affatto verrebbe da chiederti

– Che hai, sei triste?

– (no, sono stanca) No, sono stanca

e per lasciarti perdere avresti perso o nascosta ti saresti, spari-ta, mangiata, annullata affettata

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in-concepita come affatto ti ac-cetti o non accetta niente di te lo specchio questo mese, anche il nero ti fa grassa e i commenti, i com-menti, tutti in fila, troppo è tol-lerarli, sopportare le battute i-nopportune sul tuo seno, su come il seno e il tuo umore e la mattina svegliarti e non averne voglia, lavare spazzolare indossare sciac-quare deglutire tapparellare chiamare salire timbrare salutare sorridere congratulare accettare sopportare aspettare controllare invidiare maledire pausare man-giare bere ripartire sopportare controllare aspettare timbrare sa-lutare spesare cucinare lavare de-glutire assaporare (assaporare?) pigiamare struccare sciacquare intorpidire alveare,

alveare,

alveare,

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alveare.

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***

Torno di nuovo a Firenze, spoglia-ta e mattutina, nelle case gente che si lava, ascensori che fanno scendere cani, donne che pisciano figli di corsa aggrappati stril-lanti piangenti strattonati e im-provvisamente ho il pensiero più preciso della mia vita: vorrei un figlio onesto che mi capisse, un figlio che capisse tutte le mie e-sigenze, dormire, riprodurmi, per-dere tempo, un figlio che mi voles-se vedere realizzato, non il con-trario.

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***

Così capisco che nei posti non ci so stare e dopo sei giorni mi trasfe-risco a Liverpool; scendo da una scala, alle spalle un aereo, addosso una maglietta rossa con su scritto 1983 demodè ma elasticamente comoda e perdo una coincidenza e ne perdo un’altra e non sapendo affatto dove andare, perdo o persi o perdevo per ore coincidenze che non sapevo di perdere e questo mi fece pensare a un me per la prima volta ovunque, parte di un tutto.

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***

Fu dunque questa, dopo sei anni che non ti vedevo, la situazione mentale con la quale comiciai a progettare il tuo sequestro.

Non importava dove o come o quando, quel che contava era che cominciai ad a(r)marmi, affittai una casa, acquistai del pesce fresco – so-

gliole di Dover, s’intende – e mati-

te, matite per tracciare rotte, rette, appuntare nomi di persone e strade necessarie per la fuga.

Mi caricai drogandomi con dell’erba intervallata a xanax e con un coltellino svizzero mi ta-tuai sul petto per sempre il motto

NON IMPORTA

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se per anni o quarti di vita o fisso ammaliato dal pendolo dovrò aspettarti per vent’anni, bene amore mio, io ti aspetterò.

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***

La lettera la ricevo due mesi prima di questa partenza da tua madre e parla di Liverpool e a Liverpool sono, amore, per proteggerti, per riportarti a casa.

Così mi apposto nella stanza, mi faccio carta da parati e inizio a pianificare il progetto concreto di un esercito, un esercito di lu-mache: le raccolgo dagli scoli dei canali, salgo saliamo con l’ascensore, l’esercito non deve fa-re sforzi inutili, le dispongo or-dinate nella loro teca, individuo il Generale, colei che saggia già marciava in balcone ancor prima che il progetto venisse addirittu-ra pensato, un precursore; con l’uniposca la fregio di verde, non vedi Amore, ho formato l’esercito delle lumache per conquistarti, per riportarti a casa, tesoro mio.

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E poi seziono piccole foglie di lattuga per il rancio dell’Esercito delle Lumache da qui in avanti, per comodità, rinominato EDL.

Attorno a me osservo le pareti ri-coperte con carta da regalo nata-lizia, questa piccola casa inglese piena di renne. Poi la stanchezza o lo xanax o l’erbetta medica mi fa effetto e vedo le renne partire, sgambare, stirare gli stinchi, scalciare e cominciare a correre attorno alla stanza doppiandosi, raggiungendosi, sovrapponendosi e tutto mi crolla addosso, sento un profumo di muschio e l’angosciante ululare del vento.

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Sento un aereo che plana, immagino un atterraggio d’emergenza, sento le grida di centellinate mamme fuori, immagino UN bambino e UNA bambina che si tengono per mano, vanno in direzione opposta al ri-chiamo, ho paura di star solo ho paura del ragno ho paura di di-menticarmi per sempre il tuo pro-filo, sono una lumaca e come tutte le lumache ho paura di attraver-sare qualsiasi cosa, senza rima-nerne schiacciato.

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***

L’EDL, proclamo, dovrà mantenersi da solo; di comune accordo dovranno gestirsi, mangiare poco o meno, sostenersi, allenarsi, prepararsi all’attacco e, soprattutto, non chiedermi mai niente.

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***

Ma poi il ricordo torna a te, partoriente bianca in ospedale, la suora le suore tutte le suore, sguardi di controllo severi, luce bianca nella camera da letto, i fiori la domenica, la cena più tardi, ogni cosa sottintesa malinconica e di troppo

e poi ricordo una gran luce e solo i miei pensieri a farmi ombra, la stanza grigia come grigie le stanze

– se fuori è così buio allora questa stanza deve per forza essere l’ultimo ripa-ro –

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***

e poi ricordo il bambino e tu che non lo volevi vedere e ognuno i-diota a dirti cose, a trovare nasi somiglianti, assonanze, convergen-ze, lineamenti, confluenze e tutti idioti a dirti un nome, cerca un nome, come se la cosa ti riguardas-se, come se la cosa ti potesse coin-volgere.

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Il delirio della partoriente

Strani oerchL poio ke gambe riesci a nyiberle, le sentoi eancje jk resto, senrti ka testa pesanbetm dura, non riesco af aprire flj icnnki, giramri mi cksfa, le fambe lòe sento e jul resto

(strano perché poi le gambe riesco a muoverle, le sento e anche il re-sto, sento la testa pesante, dura, non riesco ad aprire gli occhi, gi-rarmi mi costa, le gambe le sento e il resto)

e allia mi biene da crfedere che magari srk morendi, magari tra yn oip di miunurti op rjutti finirto elaoota devik svrigarnmi afer tutti i oensieru belli, miva poreà morire con idede ewuslisosi

(e allora mi viene da credere che magari sto morendo, magari tra un po’ di minuti è tutto finito e

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allora devo sbrigarmi a fare tutti i pensieri belli, mica potrò morire con idee qualsiasi)

che disdfatta, che figuta, morire cisò, in un letti come tutti, le miyanse sporche il smfo domfkdio, che fifuta, damorfa nikn oitersoi giustidicare, e una zanzarea mi attende sukl urio, che dsifstaa non potele soptaccucuere

(che disfatta, che figura, morire così, in un letto come tutti, le mutande sporche, il seno gonfio, che figura, da morta non potermi giustificare, e una zanzara mi attende sul muro, che disfatta non poterle sopravvivere)

e alogta sak ak nonkha, faccio la riclizkolme, i rito si, tra poxo mki alzo ebao in badno, la pipi in qiesyo è definiriba, spuitga

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ekimjnz esoelld tossieimd doloei garnaxi asparadi; senro ance le ampaem, domiuniva, nobe undici o mezzofiornmo, l’ora della messa, pobnreebe essikew una si qujesta ore, nobe undicix o mezzofjiono

(e allora sai la novità? faccio la rivoluzione, mi tiro su, tra poco mi alzo e vado in bagno, la pipì in questo è definitiva, spurga elimina espelle tossine dolori farmaci a-sparagi; sento anche le campane, domenica, nove undici o mezzogior-no, l’ora della messa, potrebbe es-sere una di queste ore, nove undici o mezzogiorno)

e tjtkt i fatti fibentan tiaranni, si sposca dpa e a la nebbia e snrii la stanxhezza addosso; oea mi metto in soidapege e tossosco un0altalejma dik penigense; tutti ingatii doibentanio roiabnbi; orfni baita di vita diversa dalla mia soddiava in un fitorondo.

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(e tutti i gatti diventano tiranni, mi sporca d’avena la nebbia e sento la stanchezza addosso; ora mi metto in disparte e tossisco un’altalena di penitenze: tutti i gatti diventano tiranni, ogni forma di vita diversa dalla mia soffoca in un girotondo).

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***

Poi tre mesi da tua madre e il mio lavoro stabile; ogni sera il rientro con te muta, distante dal bambino

- Piange, ha sonno, i denti, i denti, quando dovranno spuntare i denti? Mi sento strappare i capezzoli, non voglio nutrirlo di me, mi sento svuotata, mi sento andata via, ti prego, non lasciarmi sola

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e l’aiuto parlato sussurrato ogni giovedì pomeriggio, portarti da uno psicologo, tua madre ad acca-rezzarti il capo, io ad aspettarti con il caldo latte artificiale

- Non lasciarmi sola, per favo-re, ho troppe geometrie da risolvere, l’aritmetica non quadra

e i turni di notte per stare con te il giorno e la fame passata, e dimagrivi dimagristi Isabelle, così fissa sul vuoto, a costruire triangoli con gli angoli degli occhi.

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***

così mi evaporo mi stupido mi, as-sorbo lentamente, lenta mente os-sessionato dallo specchio, dallo stacco, la paura di non sapere più farti uscire da un’ipotenusa.

Vorrei baciarti sposa, chissà nella tua mente ora, se bianca o delusa, scivolata a mezzogiorno sul sagra-to di una chiesa, ritratta foto-montata incastrata in una rosa, sposa dolce sposa, dove sei ora che non (ti) basto.

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Se mi evidenzio catarifrangente nella posa dell’inadatto, saprai

ridere come un tempo, saprai scio-glierti dall’abbraccio dei cateti?

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Non so più amare, riesci a capirmi? So che mi perdonerai ma ho solo voglia di dormire. Porto via il bambino, ti scriveremo ogni sedici mesi; metterò in una busta le foto e le prime lettere dell’alfabeto che riuscirà a pronunciare. Vado perché so che con te posso farlo. Vado via perché è l’unico modo che ho per accettarmi. Ho bisogno di sapermi nuova, senza nome. Il bambino mi saprà aiutare, mi darà un’identità e un alibi perfetto. Ho una parte, adesso. Fammela recitare.

Vai via da Belgrado, ti prego, c’è solo dolore. Non hanno distrutto solamente i palazzi e i cortili. Ci hanno tolto la memoria. Cosa ricorderemo non passando più per la piazza? Come potremo più sorridere se l’indice si fletterà nell’indicare il viale davanti casa

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dove ci siamo baciati la prima volta? Ricordi come nevicava? Avevo le guance rosse e tu tremavi. Non faceva però così freddo. Vai via pure tu da Belgrado e se davvero mi ami, promettimi che non ci torneremo più.

Ora vado, so di poter andare. Mia madre sarà sempre informata dei posti nei quali vivrò. Ti prego, usa queste informazioni con parsimonia. Lasciale detto dove ti trovi. So che un giorno di questi, tra due mesi o tra nove anni, mi taglierò i capelli e ti passerò a prendere. Ti dirò: i gatti hanno smesso di essere tiranni. Mi vuoi prendere la mano?

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TERZO

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Qui collocato con le mie lumache, le zanzare ci guardano e le api ci spiano; pensiamo che il circostante sia tutto falso e invidioso così ce ne infischiamo dei microorganismi e costruiamo un plastico per essere più fedeli all’idea del sequestro: per entrare nella parte del sequestratore esigo te, accarez-zarti il collo per settantadue ore e se davvero mi ami esci, ti prego amore, esci dalla grotta qui in fondo al plastico e corri nuda sulla ferrovia, stupisci i passanti e i capotreni, non vietarti nulla, corri amore corri, ridi di te stessa, non prenderti sul serio, ridi di quei matti che aspettano il treno con una coppetta di gelato in mano, mangiagli la panna, corri amore corri, costruiamoci una casetta là in fondo al plastico, coi fiori e coi fiorai, coi medici e un battistero, non usciamo dal limite di bosco, sotto c’è un vuoto tremendo, il niente amore, lo capisci, il niente, rimaniamocene nel nostro plastico perfetto con

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questo tic tac d’orologio a scandire il tempo.

Perché quando mi manchi avrei vo-glia di cucinarti il sonno, di sor-ridere dei tuoi difetti.

E allora a presto, poche parole, non è un grido di dolore e forse non ha senso; immagino te riflessa su una vetrina, non mi affido alla vista diretta quando quel vedere non è il mio captare e non c'è co-raggio a dar forza a chi il corag-gio lo deve inventare, non c'è cer-tezza se non quella di sorriderti e di fatto sono cazzate forse ma chissenefrega, vivo legato al tuo ricordo da un secolo ed è vitale per me credere che sarai tu a sve-gliarmi. Non sentirsi spesso o sentirsi dopo anni, che differenza fa? è per questo che da te non mi aspetto ri-sposta, è semplicemente giunto il

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momento di incontrarci, giusto per me e magari sbagliato per te. Opportunismo? No, io non ti seque-stro per ricevere qualche cosa, né per ricevere qualcosa donata a me da me stesso. Non c’è liberazione, non c’è riscat-to, è un semplice messaggio che ti mando. Ciao, a presto, uno tra i tanti o pochi, ricordi tuoi.

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LE LUMACHE SI ORGANIZZANO

L’Esercito Delle Lumache è defini-to, posso ritenermi soddisfatto; hanno mostrato capacità di appren-dimento, tecniche di sopravvivenza superiori alle aspettative. Radunato l’esercito nel Quartiere Generale qui in salotto ho selezio-nato trentasei lumache tra le più cattive e le altre congedate. Mi sono impettito e medaglie e tar-ghe distribuito ho. Di seguito i nomi di battaglia del-le trentasei feroci combattenti: Ursula, Mannola, Demetra, Jessica Lange I, Jessica Lange II, Jessica Lange III, Kunkun, Hoga, Hena Na-ku, Hikwit, Ikenga, Nzambi, Kijo, Momotaro, Ganga, g-Nan, Jara, Ku-

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bera, Saccika, Rahu, O-Goncho, Ke-le, Yakshi, Tienma, Sambara, Kurma, Kitsune, Emusa, Kiyohime, Klu, Churel, Camunda, Bo, Baku (detta anche Shirokina Kami), Apsaras e Shozuka no Baba, la più cattiva di tutte, la più incazzata. Il piano è questo: Sambara si occu-perà di rintracciarti. Ha carta bianca. Di lei sappiamo che ha al-leanze atlantiche. Una sua parente fu presente a Yalta nel 1945. Di lei si suppongono diverse trame ma non si hanno conferme. Ricevuto l’incarico è sparita. Con sé ci sono Kitsune, Rahu, Tien-ma e Jara. Quest’ultima ha delega di allacciare rapporti con comandi internazionali per approvvigio-narsi armi speciali. Parliamo di bave, amore mio, bave speciali che incollano.

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Le lumache israeliane sono all’avanguardia in questo campo, hanno sviluppato nuove tecniche. Partiranno stasera stessa. Bo, Baku, Emusa e Klu si occupe-ranno del settore logistico: hanno attrezzato una centrale sotto il vaso della Passiflora, in balcone. Si manterranno in contatto con il gruppo di Sambara. Come, non è dato saperlo. L’Esercito è all’avanguardia. Nulla trapela. Le Jessica Lange I, II e III si oc-cuperanno del controspionaggio, qualora ti fossi premunita di un tuo esercito di bagarozzi, situa-zione che non possiamo escludere e che dobbiamo quindi prevedere.

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A Ursula, Mannola e Demetra viene affidato il ruolo di allestire i covi per la tua et di mio figlio permanenza durante il sequestro. Mannola si occuperà di allestire un bagno chimico, Demetra di tro-vare polistirolo e coperte per in-sonorizzare le stanze e Ursula, infine, sarà colei che scatterà la prima foto. Materiale occorrente: una Pola-roid. Apsaras, Camunda, Kunkun e Hoga avranno il delicato compito di al-lacciare contatti per il tuo tra-sporto, previsto probabilmente me-diante camion ortofrutticolo. L’Esercito è particolarmente adatto e propenso alla mimetizzazione tra le insalate di importazione, Cana-sta e Radicchio tardivo.

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A Hena Naku, Hikwit, Ikenga, Nzam-bi, Kijo e Momotaro il delicato compito strategico di gestire il tutto. Saranno loro il cuore dell’ opera-zione. Ognuna supervisionerà i vari re-parti facendo in modo che gli stes-si non vengano a contatto tra loro. È fondamentale che le varie cellu-le non conoscano i dettagli dell’operazione. Riferiranno dati, sensazioni e fatti a Shozuka no Baba. Lei sola conoscerà la complessità dei movimenti. Lei sola conferirà con me. Lei sola. Infine Ganga, g-Nan, Kubera, Sac-cika, O-Goncho, Kele, Yakshi, Kur-ma, Kiyohime e Churel sono state addestrate a tecniche di lotta all’arma bianca e, pertanto, rap-presenteranno il fronte combatten-te armato, spietate quanto basta, determinate come le voglio.

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Per ora è tutto. L’appuntamento è per domattina, al mercato, alle no-ve. Sappiamo che lei va lì, la let-tera parla chiaro.

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Le domande non possono avere sem-pre una risposta. La composizione di un sano ragionamento richiede, segmento dopo segmento, parola per parola, la cura di eliminare le piccole ansie, la disordinata fila dei pensieri automatici negativi.

Isabelle è ancora molto giovane; piccole pieghe attorno agli occhi non ci confonderanno. Mani curate e occhi privi di annunci dimostre-ranno ancora una volta quanto il tempo sia monotono.

Parlare di progetti sarebbe a que-sto punto sconveniente. Con gli stivali neri, nascosti dal risvolto dei pantaloni, osserva di sbieco i riflessi provenienti da una vetri-na: una palla di vetro verde gira su se stessa illuminando, nella ro-

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teazione, piccoli campanelli ar-gentati. In questo microcosmo Isabelle con-cepisce come tutto sia rappresen-tazione e si sente rincuorata a tal punto che, seppur per un attimo, ha il pensiero folle di non voler staccare più lo sguardo da quella scena ipnotica.

Poi Rach la tira dal fondo della giacca, dice mamma, mamma e altre cose sulla mamma.

Checché se ne dica nel tempo non c’è affatto movimento. Viviamo nelle mani di una percentuale di persone e non c’è compromesso.

E adesso per Isabelle, immersa nel microcosmo, è come se fosse il pri-mo giorno di vita, re-impara tutto; è bella la sensazione di assenza, pensa. Sono vestita leggera e fan-

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tastico su profumi mentre dita in-dolenzite rivelano la temperatura serale.

Non ho freddo, pensa. Mi piaceva il freddo. A casa tirare giù la tappa-rella non aveva senso, tanto i gat-ti mi vedevano pure al buio.

Vita vita vita, come le filastroc-che ascoltate per sbaglio e per ad-dormentarsi guardare la mezza lu-na e immaginare gli alberi in fio-re, canticchiarsi la silenziosa te-atralità di un mondo che cresce muto.

La cosa peggiore è non essere più attesi. Il sonno è un’arma indi-spensabile per proteggersi da tutto questo.

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E tu da che parte stai? Da quella che sgancia bombe umanitarie o da quella che passeggia nelle piazze per la pace?

Vita vita vita, come in una fila-strocca a piedi uniti scavalcare cumuli e pozzanghere e trascinare sotto le suole il fango misto di frammenti di capannoni sventrati e il ferro fuso dal calore sprigio-nato dall’impatto del missile. Sca-vare a mani nude sotto l’alluvione che spazza via i resti di ponti di-strutti e starsene inermi a guar-dare la vita che brucia, il giorno del primo bombardamento.

Così, aspettando l’inverno, un gior-no era arrivato il primo acquazzo-ne dell’estate; cinque giorni di pioggia torrenziale a devastare intere regioni. I fiumi straripa-vano abbattendo gli ultimi ponti

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usciti indenni da tre mesi di bom-bardamenti.

Niente più raccolto, niente più racconto.

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***

Da ieri sera le lumache sono spa-rite da casa mia, sono strisciate via, si sono dileguate.

Che idea folle rincontrarti, mi rinnego, ti tradisco, come volessi rimpossessarmi di qualcosa un tem-po pensato: è il senso del possesso che distrugge tutto, lo sciorinare come cantilena quel che spetta perché è mio e quel che spetta per-ché è tuo.

Passata la sbornia mi mordicchio le unghie fissando l’opaco cucchia-ino del caffé pessimo e allungato, servito nel bar vaporoso.

E penso a questi ragni e graffio il fondo della tazzina mentre fuo-ri dalla finestra soffia un vento forte e le prime luci del giorno rimbalzano violente. Bere tutto questo vino non ha avu-to senso, se lo stordimento non è

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stato clamoroso, se ciò che volevo dimenticare si è infine rivelato ancor più denso.

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Viene da pensare che è stato tutto un geroglifico e che questo tempo malsano sia stato solo un incubo di casa difettosa immaginata prima bianca e poi piena di nodi, con se-die rovesciate e spazi occupati da riccioli di polvere.

Direi di me, di Rach e di questo tempo passato se solo avesse un senso, se questo girarsi attorno servisse almeno a trovarsi. Non potendo più essere me stessa sono stata l’altra, quella che fugge, quella che. Non potendo essere me stessa ho cancellato tutto – le

bombe in confronto, pane - sono diventata maglia di rete metallica, qualcosa di inutile e fermo, neu-tra.

Direi di me, di Rach, di te, se que-sto tempo malsano non escludesse i sepolti vivi e siamo noi, credimi, i claudicanti della memoria. Via Rach, via da qui - ripetuto in una

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saletta d’aspetto - via Rach, via da qui; febbricitante, invertita o scivolata, via da qui.

Come splendi sola, come conosci i dintorni, i via via via – ma che

sforzo - e non perdi niente se non hai un effetto, se la causa è solo un tuo pensiero aquilone, se sei poco più di un olmetto e come tale hai rami fragili e foglie piccole e ti neghi da sola, ti regali la disfatta mentre frughi le porzioni di vita andate via e la colonna allungata degli altri via via via – ma che sforzo.

E attraversare questa strada, li-quida o versata o sospesa nel cam-mino, le erbacce senza opinione al margine della strada con scale in bemolle esterne a palazzi e lunghi corridoi per eserciti di panni. Si vive di disinvolture, cadenti come smorfie, si è spine negli occhi e di un unico colore tutti quanti, ver-de, per disubbidire come già fanno certi rami storti. Tu, tu che eri

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una costante cosmica, aiutami a fuggire dal circostante, oggi che mi trovo così stanca nel mio acqua-rio limpido, oggi che mi porto in giro nascosta in un ventre sgon-fio, avvolta in un lenzuolo invece di starmene nella culla di un ri-svolto; come vorrei asserire in mo-do accurato che è questo il proble-ma, così, che questo è il problema. Posso mediamente osservarmi, di-stribuire ruoli e suoni col mio corpo, segmentarmi, rimanere nuda in attesa di baciarmi. Posso sor-prendermi, ciondolare, farmi alta-lena e dondolare, interpretarmi nella parte dell’alfabeto, compormi.

Eccomi, capelli castani dietro l’orecchio, a osservare le ferite rimarginarsi con questo senso di pace cucito addosso come certi an-goli della bocca -sei bambina - e mantieni il segreto e ti viene da ridere e hai urgenza di assolverti.

Mi verrebbe voglia di scrivere so-no Isabelle, sono Isabelle e non mi

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sento più l’acqua marcia dei sotto-vasi, sono Isabelle e sento estra-nea la sensazione di aver voglia di scoppiare a piangere. Sono Isa-belle spensierata sottovoce, Isa-belle meglio che non speri, Isabel-le che non rompi più nulla nell’istante in cui spegnerai lo sguardo sbagliato, arresa dai tuoi sì. E ti farai gelida, davvero in sottrazione, senza tempo da perde-re, programmata a scandire gesti effimeri grazie ai quali ogni giorno potrai non amare un po’ di più.

Mi rivolgo a te ora, Cassiopea, ti ringrazio per non avermi mandato segnali, per non essere stata splendente ma piuttosto con aria sassaiola, per non essere stata accanto a me senza fretta; mi guardavi mentre ti pensavo sdraiata sul letto ed eri ferma, mi hai detto non alzarti subito, lasciami finire l’installazione, c’è un altro cielo anche sopra noi costellazioni. E ho annuito, salva mi sono detta, strizzando gli occhi

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per catturare la favola, per non crederci finalmente più. E non mi servono rughe e orizzonti per guardare verso te, come controluce mi faccio sbieca e non teorizzo più paralleli di costellazioni, vino al vino ti dico e so che finalmente non capirai ma almeno potrò smetterla con queste inutili teorie; ecco l’ho detto, la parola se d’ottone è inutile. Inutile come sorseggiare questo spaventato osceno ultimo sole, sai, mi rivolgo a te, Cassiopea, spegni sparisci sfornami qualcosa di lungimirante, donami ossa tiepide e muscoli non in tensione, vedi, ho attraversato briciole e condimenti malsani, mi sono fatta piega da stiro, piaga sarebbe scontato da dire e si son fatte le cinque e venti e sette e dodici secondi direbbe l’imprecisa con l’orologio a cucù nella pochette ma adesso è l’ora di un punto, grammaticale o di vista, perché ho perso quelle estati o perso l’estate d’agosto a

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Belgrado ed erano fiori e farfalle e un generale buonumore, quando tesa gli dissi che avevo un figlio da perdere e pensieri superlucenti e un’idea colorata – gialla,

pensavo pensai o avrei pensato –

così la nemmeno troppo improvvisa mattina mi colse divertita – di

colore gialla, avrei pensato e Belgrado oggi come allora è una maniglia da sistemare, un oggetto metallico giallo lento, come la sensazione che resta dopo che le orecchie si emozionano vedendo scendere senza tempo la notte o la vita. Era proprio questo quel che non trovavo e se devo amare mi sceglierò una storia da riascoltare, dandomi un limite oltre il quale si sprofonderà ridicolmente nella favola, nell’incertezza e in un alibi saprò caderci bene – che bene nelle pene

dell’amore si deve cadere – e non

c’è niente da amare in una notte immaginaria, nulla da capire ti potrei rispondere se fossi

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coraggiosa e avessi tempo da dedicarti. Questa notte immaginaria nella quale dovrei incontrarti se esistesse l’amore ma cado nello stesso identico errore, sì, ci possiamo innamorare solo se siamo distanti, se non ci chiediamo niente.

E domattina me ne andrò al merca-to, in mano l’indirizzo che mia ma-dre mi ha fatto avere – dove sei,

dove eri, eccoti – spensierata nel-

la galassia che canticchia, bello per una volta non vederla disinte-grarsi.

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GRAN FINALE

L’ATTACCO DELLE LUMACHE

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Dunque, - dice Shozuka no Baba il Generale – il piano è questo. Tu

Sambara, con Kitsune, Rahu, Tienma e Jara ve ne andrete al mercato. Ognuna di Voi dovrà portarsi die-tro altri sei elementi dell’esercito. Sarete Voi a coordi-nare l’attacco. Abbiamo ormai la certezza che l’Obiettivo si dirige lì il martedì e il giovedì mattina. Gli appostamenti continui di Apsa-ras, Camunda, Kunkun e Hoga hanno fornito le indicazioni necessarie: sappiamo di poterci muovere con un margine di errore prossimo al tre per cento.

Vorrete dettagli più precisi, im-magino e il Vostro Generale ve li fornirà: tu Sambara, con Kitsune, Rahu, Tienma e Jara avrete il ruo-lo delicato di infiltrarvi nella cassetta dell’ insalata là esposta. Attenzione, le segnalazioni ci in-dicano canasta e radicchio tardivo come preferenza. Siete cinque. Il compito di ognuna di Voi sarà quello di accedere al settore CN e

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RDC, che per noi da questo istante significheranno Canasta e Radic-chio, col numero di sei elementi per cespo. Schiereremo pertanto 30 combattenti. Un buon numero. Ci suddivideremo in siffatto modo:

Gruppo 1) Sambara con Kiyohime, Hena Naku, Kijo, Kele e Jessica Lange II.

Gruppo 2) Kitsune con g-Nan, Man-nola, Kubera, Ikenga e Saccika.

Gruppo 3) Rahu con Hikwit, Momota-ro, O-Goncho, Ursula e Baku alias Shirokina Kami

A tal proposito, approfittiamo dell’occasione per chiarire la tua preferenza: Baku o Shirokina Ka-mi? Mm? Shirokina Kami? Bene.

Gruppo 4) Tienma con Emusa, Bo, Kurma, Klu, e Jessica Lange III.

Gruppo 5) Jara con Demetra, Yakshi, Churel, Ganga e Nzambi.

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Jessica Lange I rimarrà con me fuori dal raggio di azione, saremo pronte a intervenire qualora qual-siasi cosa non andasse per il verso giusto. Ripeto: porre la massima attenzione nell’operazione di avvi-cinamento ai cespi. Siete state preparate fisicamente e mental-mente a tale intervento ma non smetterò mai di raccomandare la massima prudenza: perdere elementi in questa fase significherebbe compromettere l’esito positivo del piano. Dunque, attenzione. Coprite-vi il guscio l’una con le altre. At-tendete il posizionamento della compagna tra le foglie e solo allo-ra date inizio alla successiva a-scesa. Secondo punto: una volta ac-quisita la posizione dovrete ini-ziare a mangiare le foglie dei ce-spi nei quali non saremo posizio-nate. In tal modo l’Obiettivo li scarterà automaticamente andando a prediligere i sei cespi da noi controllati. Occorre una buona do-se di tempo e di fortuna ma conto sulle vostre capacità tecniche. Una

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volta effettuata tale operazione non ci sarà che d’attendere, celate tra le foglie. Appena uno dei cespi verrà prescelto avremo l’obiettivo in mano. A quel punto sarà tutto molto semplice. L’avremo sequestra-ta.

Certo, pensò Shozuka no Baba ri-flettendo tra se e se, il guaio sarà dopo, una volta che ci avrà portato a casa sua ma a questo penserò successivamente e come tutte le cose confuse che ti passano per la testa, meglio non comunicarle.

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***

Passeggiare contando le foglie ca-dute, chissà se hanno pace, se sta-ranno mai al caldo, se conoscono il dolore o il dormire; chissà se han-no comportamenti e problemi con le altre foglie, se si sanno far per-donare o capire, se gli basterà bersi un bicchiere di vino per si-stemare tutto. E finalmente, dopo quel continuo cadere, se sono anco-ra capaci di amare.

Passeggiare contemplando lo sguar-do di una moglie, chissà se avrà voce, se sentirà ancora il cuore caldo, quanto dolore avrà conosciu-to e se riuscirà ancora a dormire bene; se riesce ancora a mantenere comportamenti tolleranti, se ha smesso di avere problemi con le fi-glie, se ha saputo perdonare, se è stata capace di farsi capire: se le è bastato un bicchiere di vino per dimenticare tutto. E se dopo questo continuo girovagare, sente ancora la tentazione di amare.

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Passeggia, Isabelle, degustando lo scudo dell’insicurezza, di ogni sua più flebile incertezza. Non sa se ha ancora voce, se sente ancora freddo al cuore, se il dolore le è bastato e se così non fosse se mai basterà in questa esistenza piena di rabbia; non dorme più bene da diverso tempo, sogna gomitoli di lana verde e cose pronte da man-giare. Sa perdonare tutto non es-sendoci più nulla che valga la pe-na di essere giudicato. Stanca di pensare, offesa dalla sola idea di perdonare. Sente di avere poteri speciali come ogni donna e di poter ancora tentare di amare, nonostan-te la fila amara delle cicatrici.

Avanti! grida Kitsune a g-Nan, Mannola, Kubera, Ikenga e Sacci-ka, non c’è tempo da perdere, parti tu Mannola, dai cazzo, dai cazzo, su, su, sali, sali, dai, via, ora, via

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Ikenga e a seguire Kubera, poi tu Saccika e appresso g-Nan, dai, dai, ci siamo, dai, dai che salgo anche io, dai cazzo, dai cazzo, ci siamo, ci siamo! Ci siamo!!! Ok, fantastico, ci siamo tutte, merda merda merda, dai, gruppo due al completo, gruppo due al completo, Signore!!

Questo mentre il mercato vive il suo martedì mattina di scarti e di carrelli a intrecciarsi tra loro, mentre i foulard delle vecchie creano un arcobaleno cianotico e un cane annusa i rimasugli di una crosta di formaggio e, col primo tepore delle cose stantie, un vago odore di rancido finisce irrime-diabilmente per salire dal basso.

Allora ragazze - dice Rahu fissan-do nelle antenne le cinque guerri-gliere – inutile fare discorsi o grida di battaglia: c’è da fare

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questa cosa e la faremo nel miglior modo possibile. Hikwit, Momotaro, O-Goncho, Ursula e Shirokina Ka-mi, vai!

E così tutto l’esercito, una dopo l’altra, si va a posizionare tra i cespi. Sambara, Kiyohime, Hena Na-ku, Kijo, Kele, Jessica Lange II assieme a Tienma con Emusa, Bo, Kurma, Klu e Jessica Lange III e Jara con Demetra, Yakshi, Churel, Ganga e Nzambi. Senza troppe esi-tazioni cominciano a rosicchiare i cespi esposti, quelli più a portata di mano. Sono operazioni lampo: mangiano e si infilano velocemente nelle insalate di appartenenza, quelle che collegialmente in pre-cedenza erano state individuate come prescelte. Strano dirlo, ma tutto funziona per il meglio.

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Cadono le foglie e le strisce pedo-nali sono sempre meno visibili; I-sabelle cammina complessa nei suoi meccanismi, complessa mentre dice basta dolore, adesso non serve. Ca-dono le foglie, pronte a rialzarsi nonostante il cielo, sopra l’attuale rappresentazione, sembri chiuso o dia questa impressione. Per Isabel-le è tutta rappresentazione, la fi-la delle donne con le mani tese e troppa gente con unghie a puntare e nessuno le crederebbe, nessuno scommetterebbe che solo lei è inno-cente, che non c’entra niente con questo furore, che non ha calore e pace, solo senso di vuoto a perdere e non fa niente, si ripete nell’attimo di coscienza, da ora mi basto, da ora mi basto, da ora mi

Shozuka no Baba il Generale e Jes-sica Lange I se ne sono rimaste a debita distanza a controllare

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l’intero settore, valutando con piena soddisfazione come in questa prima fase non abbiano subito per-dite. Una volta appurata la per-fetta collocazione dell’EDL si van-no a posizionare all’uscita pedona-le del mercato.

Cammina, Isabelle, l’inquietudine se ne va e lascia solo cenere e un braccialetto che trova per terra, palline rosse e viola legate attor-no a uno spago bianco, le conta le conta le conta per non scordare più quel numero di palline colora-te. Fiori al mercato, è pieno di fiori e rimane fissa su un mazzet-to di margherite con un piccolo vuoto di lato, ne manca certamente una, le suggerisce il suo sentire bianco, ne manca certamente una. Avrebbe voglia di uscire dal mer-cato e di andare in un prato a raccoglierla per metterla lì, lì

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dove manca. Poi immagina che non cambierebbe niente e fa un ragio-namento sulle stagioni, le sembra-no quattro assi in un mazzo di carte mischiate e le viene da piangere – non cambia mai niente,

non cambia mai niente – e si ri-

trova di nuovo a fissarsi le gambe senza nemmeno aver gridato.

Ragazze la vedo, la vedo! dice Momotaro e fa segno alle altre di abbassare le antenne, di stare in tensione che tra poco si entra in azione e si avvicina davvero, Isa-belle, la mano a scartare le prime insalate – pensa se torno è per non

rimpiangere, è solo per bastarti –

e senza muri dovrà essere la nuova casa, mai più vuoti tra le marghe-rite, da domani dormire accanto a te e la sera mai e poi mai e poi mai lasciarti più. Non verserò stelle e idee banali nell’imbuto di questo tempo osceno, saremo per sempre tre cose belle e non ci al-

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zeremo da letto se fuori ci sarà pioggia o se cadranno mele, se ci sarà un temporale di scorze di li-mone, se tuoni di troppa civiltà ci sfiduceranno, non ci alzeremo su-bito, giuro amore, non faremo i se-ri, ce la vedremo con le galassie sconosciute, spiegheremo loro tut-to, racconteremo la favola dei no-stri silenzi, di queste spaventose distanze senza dimenticarci tutti gli inutili particolari che ci ap-

partengono. E scarta ancora – dai dai dai che ci siamo, dai che ci prende - si concentra Jessica Lange II – Isabelle è soprappen-

siero lì che scarta e con gesto ra-pido ripone nel sacchetto di carta

il primo cespo di canasta – caz-zooooooo!!!! cazzoooooo!!!! urla Hi-kwit rotolando verso il fondo della busta - Ci siamo, ci siamo! ragazze ci siete? Ci siamo, ci siamo! rispondono Rahu, Momota-ro, O-Goncho, Ursula e Shiroki-na Kami, ci siamo tutte, perdio – e continua a rovistare, Isabelle,

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mentre i pensieri si fanno sereni e un gatto le si strofina sullo stivale sinistro, si sente salva, in grado di promettere sorrisi sereni e lunghe passeggiate e mentre lo pensa fa scivolare una costola di

radicchio nella busta e – Wow che botta! dice Ganga cappottandosi, chiudendosi nella chioccia per proteggersi dalla caduta – e a Jara viene da ridere e il piano sta andando alla stragrande, sono già dodici, si dice, poi le viene un dubbio e chiama la conta dice: Ehi ci siete? e dice di sì Demetra e qui con me c’è pure Yakshi, non vedo Nzambi, ah no, eccola! e Churel sta lì in fondo – ci siamo, ci siamo, ci siamo tutte, che figata! – e Isa-belle incrocia le dita, le viene sempre da fare così, forse un gesto automatico, un tic, non se l’è mai chiesto e chiude la busta, la manda alla pesa, tira fuori dalla borsa una grandinata di spiccioli, ne seleziona alcuni, paga e l’ab-

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biamo, l’ab-biamo, l’ab-biamo se-que-stra-ta! l’ab-biamo, l’ab-biamo, l’ab-biamo se-que-stra-ta! cantano le deficienti nel sacchetto, si sono messe tutte nel fondo, sono uscite dalle coste, O-Goncho è su di giri, ritta sulla chioccia intona canti di festeggiamento - l’ab-biamo, l’ab-biamo, l’ab-biamo se-que-stra-ta! e Isabelle si incammina ignara del trambusto nella sua busta, con gli occhi benedice le erbacce agli angoli della strada, quattro buste di plastica bianca rotolano verso i margini del marciapiede. Svolta in Market street, supera Argyle street, pensa all’acqua che tra poco berrà, non alla strada che percor-re, si sente nuda, finalmente nuda e senza vergogna, senza più fretta – poi svolta in Albion street, la

percorre tenendosi sulla destra e –

ah ah ah ah!! Per l’esercito delle lumache hip hip? hurrà!!! – Chi è che non era capace a sequestrare un ostaggio eh? ah ah, l’abbiamo, l’abbiamo, l’abbiamo sequestrata!! Momotaro, Momotaro vieni qui! E per

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Momotaro hip hip? hurrà, hurrà, hurrà! E Momotaro è una brava ra-gazza, Momotaro è una brava ragaz-za, Momotaro è una brava ragazza e nessuno la vuol sposar!!! Ah ah! Shirokina passa pure a noi quella foglia di radicchio! Shirokina Shirokina non fare la sciocchina, Shirokina Shirokina non fare la sciocchina!

Poi Isabelle trova l’entrata aperta e salire le scale è un gesto sem-plice e finale che la conduce, dopo una rampa, davanti al suo portone.

Quando le apre, i capelli legger-mente disordinati, lei gli sorride, gli dice

“Ciao, i gatti hanno smesso di essere tiranni. Mi vuoi prendere la mano?”

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FINE

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Flavio Toccafondi è del 1974. Ha pubblicato “Scatto matto”, I fi-gli belli – 2004, “Vi tiravamo sas-si”, Marcovalerio – 2006, “Brahms fece il pianista in un bordello”, Liberodiscrivere – 2006, “Scolopen-dra”, con Alessandro Ansuini, Lulu - 2008, “Irraggiamento di spari e polvere” – Samiszdat – 2008. È il suo primo libro in un anno dispari.

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Ringraziamenti. A Valeria, per essere rispuntata come una lumaca dopo un acquazzone e per aver tentato di impormi il titolo. A Paolo Pierri per un paio di cose. A Marika per essersi sorbita la lettura del testo per telefono. A Lara e Cino. A Shozuka no Baba che, seppur per un giorno solo, è davvero esistita sul mio balcone.

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Per quando avrete finito di leggere questo libro

Ve lo scrivo adesso, perché è pur-troppo necessario che alcuni (la statistica è spaventosamente cru-dele) non terminino la lettura. Per i più svariati motivi: momento sba-gliato, incapacità ad arrendersi, propensione ai classici, vita. Qua-le che sia il motivo, voi che siete arrivati qui, fate parte di un circolo tremendamente ristretto. A voi dico: non fatevi convincere da tutta la propaganda che c’è in gi-ro. Non credeteci a quella storia della massificazione. Qualche anno fa, in una discussio-ne, una giovine scrittrice molto convinta dei suoi mezzi spese buona parte della sua virulenza verbale nei miei confronti per affermare che “Va dove ti porta il cuore” era un gran libro. Lo dimostravano i dati di vendita. Il suo assunto si-

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gnificava, a spanna, che se un mi-lione e passa di persone avevano comprato quel libro, allora era un libro buono, valido, che piaceva alla gente. E se un libro non piace alla gente non è un gran libro. Non sto a tediarvi con le argomen-tazioni che tirai fuori per confu-tare quella che, ancora oggi, giu-dico una teoria ridicola. Resta il fatto che più di un milio-ne di persone hanno letto quel li-bro. Noi siamo molti meno. Ma abbiamo, con grossa probabilità, più letture in comune. E, figli di quelle letture, siamo arrivati qui. E niente, lo so io e lo sapete voi, sarà più lo stesso. La letteratura, contrariamente a quanto si spaccia oggi, è un corpo vivo, in evoluzione. I suoi cicli sono oltremodo irregolari e diffi-cilmente classificabili. Ma sap-

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piamo che, ogni trenta, quaranta, cinquanta anni, arriva uno tsuna-mi che cambia il modo stesso di in-tendere la letteratura. Scendono i barbari, riprendendo l’ultimo lavo-ro di Baricco, e cambiano le cose. La reazione è solitamente violenta e crea fazioni contrapposte. Stavolta non andrà così. La logica del “libero” mercato, che non trova differenza tra un libro e un etto di mortadella e che per sua natura è conservatrice, utilizzando i mez-zi che la nostra società possiede, interviene giocando d’anticipo, raccontandoci che cosa è buono e cosa non lo è, producendo e caldeg-giando dei libri che niente sono più che fiction letterarie. E, facendosi forte dei milioni di lettori che rispondono alla chia-mata, nascondendo ciò che non si allinea. Ma, purtroppo per loro, non si al-linea l’atto creativo.

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Per quanto possano cercare di non vederlo, lo tsunami è passato. Flavio ne è decisamente parte.

Alessandro Cinelli

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