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Table of ContentsIndicePrologoCapitolo ICapitolo IICapitolo IIICapitolo IVCapitolo VCapitolo VICapitolo VIICapitolo VIIICapitolo IXCapitolo XCapitolo XICapitolo XIICapitolo XIIICapitolo XIVCapitolo XVCapitolo XVICapitolo XVIICapitolo XVIIICapitolo XIXCapitolo XXCapitolo XXICapitolo XXIICapitolo XXIIICapitolo XXIVCapitolo XXVEPILOGORingraziamentiAutore

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ANTONIO LANZETTA

WarriorLA VENDETTA DEL GUERRIERO

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A Rosaria,che mi ha insegnato a credere.

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“Allena il tuo Cuore.Se saprai controllarlo,

sconfiggerai l’avversario.Questa è la disciplina del Guerriero.”

Morihei Ueshiba (1883-1969)

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PROLOGOKod McDrauw annaspò nell’acqua bassa. Non riusciva a tenere gli

occhi aperti, pioveva a dirotto e le gocce gli sferzavano il viso come schegge di vetro. Perse l’equilibrio e crollò in avanti, sollevando schizzi che si persero nella corrente. Il gelo gli tolse il respiro, penetrò gli indumenti fino alle ossa.«In piedi, ragazzo.»Honerice lo sostenne per un braccio, le sue dita gli strinsero il

gomito. Con un grugnito il vecchio anduriano piantò l’asta della lancia nel terreno friabile e fece leva sulle gambe per tirare entrambi fuori dal fiume. Si inerpicarono sulla sponda melmosa fino agli alberi. La foresta si dilatava davanti ai suoi occhi come un labirinto di legno e resina.«Ci siamo, forza. Non fermarti» ruggì il lanciere, il volto striato dal

sudiciume.Kod riprese a correre, gli occhi piantati sulla corazza rigata dalla

pioggia, mentre le foglie e i rami gli frustavano le braccia, gli graffiavano il viso. Ignorò le fitte lancinanti che gli dilaniavano i muscoli. Poteva sentire le grida alle sue spalle, l’eco di quelle voci rabbiose che squarciavano la notte e rimbalzavano contro le rovine nella Città Morta, sempre più vicine.Non avevano smesso di braccarli.Il ragazzo strinse i denti e cercò di tenere il passo del lanciere, ma

vedeva la distanza tra loro aumentare sempre più a ogni falcata. Il suo respiro era un rantolo soffocato, i polmoni erano diventati delle sacche vuote.«Hon… Honerice, aspetta» provò ad attirare l’attenzione del

compagno, ma venne colto da un improvviso conato di vomito che gli soffocò le parole in gola.Crollò al suolo, esausto, e picchiò la testa contro una radice

sporgente. Sentì il calore del proprio sangue sulla faccia. La testa gli

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pulsava e quando provò a rialzarsi ebbe un capogiro. Si mise a sedere, poggiando la schiena contro un tronco. La vista gli si era annebbiata e l’intera foresta iniziò a muoversi, a ruotare davanti ai suoi occhi.Una forma scura emerse dal fogliame.«Honerice, sei tu?» Kod serrò le palpebre per mettere a fuoco, si

deterse il volto con una mano.Il suo inseguitore sbuffò come un toro in procinto di caricare.

Pronunciò alcune parole in una lingua aspra, che lui non conosceva, poi un lampo sventrò l’oscurità, fece luce sul torso nudo, sui muscoli granitici bagnati dalla pioggia e sulla pelle rossa come il fuoco. Occhi gialli si inchiodarono nei suoi, poi l’essere sollevò un braccio e Kod colse il baluginìo del metallo. Vide un tubo di ferro brandito come una mazza. Altre sagome emersero dalle ombre, corpi massicci che si muovevano lentamente tra gli alberi e lo accerchiavano.McDrauw fece guizzare gli occhi da un capo all’altro della boscaglia,

mentre il battito del cuore si fece assordante. Si rimise in piedi, puntellando la schiena contro la corteccia. Le gambe gli tremavano. Era solo, disarmato, e stava piangendo come un fottuto codardo. Maledisse il giorno in cui aveva deciso di imbarcarsi sul sottomarino.Quel vecchio bastardo di Anareth l’aveva fregato.Aveva fregato tutti loro.Il pelle rossa scattò, la mazza descrisse un arco nell’aria, poi lo

schianto.Qualcuno si frappose tra il tubo di ferro e la sua testa, una sagoma

dal cranio rasato e dal corpo bardato d’acciaio.Honerice.L’anduriano sollevò la lancia sopra il capo con entrambe le mani,

bloccò il colpo, fronteggiando il pelle rossa per un istante che parve infinito. Ruppe la stasi, sferrando una ginocchiata allo stomaco del selvaggio, che si piegò in avanti, gli occhi fuori dalle orbite, e staccò

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una mano dall’impugnatura dell’arma, snudando con un gesto fulmineo il pugnale che portava alla cintura.Il bruto cadde al suolo con la lama conficcata nella faccia fino al

manico.Kod vide il compagno scavalcare il cadavere, roteare la lancia e

mettersi in posizione, il peso del corpo distribuito sulle gambe e i muscoli tesi come corde di un arco.Honerice era pronto allo scontro.I selvaggi erano in cinque. Si scambiarono rapide occhiate,

perplessi. Spostavano lo sguardo dal corpo del compagno al volto del guerriero che avevano davanti, poi uno di loro ruggì e insieme si lanciarono all’attacco.L’anduriano schivò un fendente diretto alla testa, ruotò su se stesso

affondando la lancia nel petto di un avversario che lo stava assalendo alle spalle. La cuspide gli sbucò tra le scapole, per poi ritrarsi, scivolando fuori dal corpo in un sibilo viscido. Honerice piantò l’estremità non appuntita nella gola di un altro pelle rossa con una torsione del busto, poi lo colpì con un calcio rotante in pieno petto, mandandolo a infilzarsi su un tronco scheggiato.McDrauw assisteva alla scena pietrificato, gli occhi sbarrati. Gli

attacchi del veterano di Andurian erano fluidi come lo scorrere dell’acqua, il volto contratto in un’espressione feroce.Il guerriero balzò con un piede su un masso ricoperto dal muschio e

i lampi che squarciavano la foresta illuminarono la sua figura sospesa a mezz’aria mentre scagliava la lancia contro un nemico. La punta sfondò il torace del pelle rossa sbattendolo all’indietro, poi Honerice atterrò con una capriola, raccolse da terra una mazza e la sbatté sulla testa di un selvaggio. Kod udì lo schianto secco delle ossa che si spaccavano, poi la giungla rigurgitò altri nemici. Erano in due, sbucarono dai cespugli e si avventarono contro l’anduriano mentre questi stava recuperando la lancia da un cadavere.Honerice fermò la corsa di un pugnale con una manata, ma non poté

nulla contro la sbarra di ferro che gli calò sul ginocchio. La gamba si

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piegò in modo innaturale e il lanciere ruggì come un orso ferito. Afferrò per le spalle il bruto che aveva di fronte e lo tirò a sé, assestandogli una testata in pieno volto. Riuscì in qualche modo a strappargli la lama dalle mani e a piantargliela nella gola. Il pelle rossa barcollò, sputando sangue, e rovinò all’indietro con un tonfo sordo.Kod non poté fare altro che gridare quando il secondo selvaggio

colpì ancora. La sbarra falciò l’aria, impattò contro la faccia del lanciere e il guerriero cadde al suolo. Il bruto infierì su di lui, gli occhi pervasi dalla furia omicida. L’arma si alzava e abbassava, seguita da schizzi di sangue e dal crepitare delle ossa maciullate.McDrauw sentì la collera montargli nel petto, simile a una

fiammata. Non conosceva Honerice, era solo un altro membro di quella spedizione maledetta, un sopravvissuto alla strage proprio come lui, ma era tornato indietro per aiutarlo. Stava morendo per lui.«Bastardo!» La sorpresa fu grande quando capì che quell’urlo era il

suo.Ritrovò il coraggio che pensava di non aver mai avuto, la rabbia per

lanciarsi in avanti. Raggiunse il cadavere di un indigeno, serrò le mani intorno all’asta della lancia di Honerice e la estrasse dalla carne. Il pelle rossa era curvo sul vecchio lanciere, così preso dal massacrarlo che si accorse di lui solo quando gli trapassò la schiena con l’arma.«Muori, cane. Muori!» il ragazzo continuò a spingere la punta a

fondo, e la presa divenne scivolosa a causa del sangue.Il selvaggio rovinò con la faccia al suolo trascinando con sé

McDrauw che rotolò sul fianco e rimase a osservare il volto privo di vita del pelle rossa, paralizzato. Lottò per non vomitare, era la prima volta che uccideva. Lui era solo un marinaio.«Ragazzo… ragazzo, vieni qui» sussurrò l’anduriano.Honerice respirava ancora, la faccia ridotta a una poltiglia

sanguinolenta.

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Kod strisciò fino al compagno, gli cinse le spalle con un braccio, lo sorresse.«Ce la puoi fare, vecchio. Adesso ti porto al sottomarino, ce ne

andiamo via da questo posto. Io e te insieme, vedrai. La spiaggia non è distante, lo senti anche tu il rumore del mare?» disse, ma l’anduriano gli serrò il polso con forza, lo costrinse a guardarlo negli occhi.«Per me non c’è nulla da fare. Prendi il taccuino… sotto il corpetto…

Anareth. Devi portarlo alla Torre del Sole. Ragazzo, porta il taccuino all’Accademia. Loro devono sapere.»Il giovane sentì la stretta allentarsi lentamente, poi lo sguardo di

Honerice si immobilizzò, gli occhi puntati verso il vuoto. McDrauw rimase in quella posizione per alcuni istanti, stringendo il corpo del lanciere tra le braccia e osservando i cadaveri dei selvaggi sparsi al suolo. Sbatté le palpebre e sollevò il capo al cielo. Finalmente aveva smesso di piovere.Udì un corno in lontananza, un suono profondo che echeggiò nella

foresta riportandolo alla realtà. Scosse la testa. Presto ne sarebbero arrivati degli altri, molti altri. Non avrebbero smesso di cercarlo. Le parole di Honerice gli balenarono nella testa: il taccuino.Prese a frugare sul corpo del vecchio, infilò le dita sotto il pettorale

della corazza, reso viscido dal sangue, fino a quando non sfiorò qualcosa tra gli strati di cuoio e ferro. Ritrasse il braccio, stringendo un libro di pelle scura tra le mani.Voci. Si voltò di scatto in direzione della boscaglia alle sue spalle.

Era certo d’aver sentito il rumore di passi, di foglie smosse e rami spezzati. Non doveva perdere tempo.Strinse gli appunti di Anareth con tale forza che le unghie

sbiancarono e si lanciò in corsa.La spiaggia non era lontana.

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Principe Neerim,a nome dell’intero Senato Accademico vi comunico che la vostra

richiesta d’ammissione alla Torre del Sole è stata respinta in maniera irrevocabile.Il vostro studio sui cicli fisiologici è ambizioso, quanto crudele. Siamo

inorriditi dal disprezzo che avete dimostrato per la vita con gli esperimenti condotti su esseri umani. L’innesto di impianti biomeccanici sulle cavie ha confermato che l’alimentazione degli organi vitali con il Celion ne congela il naturale invecchiamento. Le scorie rilasciate nell’organismo ne compromettono la stabilità, avvelenano il sangue degli ospiti. Il risultato di questo processo ha implicazioni etiche che potrebbero portare alla deriva il tessuto morale che abbiamo da sempre intrecciato con i nostri studi.Vi esortiamo da subito a porre fine a tale efferatezza, altrimenti

saremo costretti a prendere duri provvedimenti.Quella che voi praticate non è scienza, ma follia.Nessun uomo può sostituirsi al Creatore.

Anareth TendravCustode del Sapere

Andurian

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IDarius inspirò a fatica, l’aria gli congelava i polmoni. Per tutto il

tempo del processo aveva temuto quell’istante, l’attimo che gli sarebbe rimasto per sempre impresso nella mente, quello in cui incrociò lo sguardo della prigioniera. Gli occhi di sua madre.Strinse i pugni.Le aveva detto di allontanarsi da Andurian, di prendere il mare e

sparire, ma non gli aveva dato ascolto. Il Senato Accademico si era arreso, aveva ordinato di deporre le armi e fatto i nomi dei cospiratori. Poco alla volta i capi della Colomba Bianca erano stati snidati e dati in pasto alle fiamme. Lei non gli dava mai ascolto e, anche ora che portava sul volto i segni dell’interrogatorio, anche ora che le lingue di fuoco della pira si levavano minacciose contro il cielo, non aveva perso la fierezza. Il senso del dovere verso il suo popolo era diventato un macigno che le gravava sulle spalle. Una condanna a morte.«Senatrice Leyna.»La voce del console azzittì gli anduriani radunati ai piedi della Torre

del Sole, rimbalzando contro le pareti degli edifici che circondavano la piazza. La donna, sorvegliata da due centurioni in armatura cerimoniale, rispose con un battito di ciglia al suono del proprio nome. Una folata di vento improvvisa agitò le fiamme, donando loro vigore.«Le prove raccolte nei vostri confronti sono inconfutabili e vi

collegano al movimento insurrezionalista che si fa chiamare Colomba Bianca.» L’imperiale prese una pausa, sollevò per un istante gli occhi dal foglio che stringeva tra le mani e fissò la folla. «Attentare alla vita dell’Impero è un crimine che va pagato con la vita. È con i pieni poteri conferitimi da sua Maestà, Caio Settimo, che vi condanno al rogo.»«Bastardi!»

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Un grido di protesta si levò dalla massa.«Maledetti oppressori.»I legionari disposti lungo il perimetro della piazza si scambiarono

rapide occhiate, serrarono i ranghi. Darius avvertì la pressione della calca alle sue spalle, venne spinto in avanti e rischiò di perdere l’equilibrio. Stava accadendo tutto troppo in fretta, e lui non riusciva a farsene una ragione. Mani guantate afferrarono le braccia di sua madre, la strattonarono, mentre un uomo dal volto coperto da una maschera di cuoio le svuotava una bottiglia di un liquido rosso sulla testa.Leyna gridò. Cercò di liberarsi, sferrando un calcio allo stinco del

boia, che scagliò il recipiente verso la folla e la colpì con un pugno allo stomaco, facendola piegare in due.Darius spalancò gli occhi quando sua madre venne lanciata di peso

sulla pira infuocata. Le urla della donna erano come spilli che gli si conficcavano nella testa, gli squarciavano i timpani. Leyna si agitava in preda alle convulsioni sul letto di fiamme che era stato costruito per lei dai cani di Caio Settimo. Rotolò sul marmo del palco, un tempo usato dagli accademici come teatro dei loro dibattiti scientifici, e si rimise in piedi. Non vi era più nulla di umano in lei, era diventata una torcia urlante.Poi Andurian esplose.Una pietra centrò in pieno volto un imperiale e questi cadde

all’indietro, sparendo dietro la falange di scudi che circondava la piazza. Gli anduriani ruggirono, si abbatterono contro gli oppressori come onde del mare su una scogliera. Mani nude si scontrarono con l’acciaio. La voce di un ufficiale tuonò al di sopra delle urla, gli scudi si spostarono. Un movimento fulmineo. Lame balenarono alla luce del sole, squarciarono petti e recisero arti, tranciando l’impeto dei ribelli.Darius era immobile, lo sguardo inchiodato sul volto in fiamme di

sua madre. Leyna aveva smesso di contorcersi. Il fuoco sbucava dalle orbite, e divorava la carne annerita come una bestia famelica.

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La raffica spianò il lastricato.Canne di fucile emersero dalle finestre degli edifici, vomitando

piombo sulla folla in un ruggito assordante. Darius si ritrovò con la faccia sul selciato, colse le sagome dei tiratori imperiali appostati sui palazzi e prese a strisciare. Una donna piangeva e chiedeva aiuto, una mano provò a trattenerlo per la tunica mentre lui lottava per venire fuori da quel labirinto di corpi. Da qualche parte alle sue spalle si stava ancora combattendo, poteva udire il sibilo delle spade che falciavano l’aria, il tonfo dei corpi che crollavano al suolo. Non si voltò a guardare. Le grida di Leyna gli rimbombavano ancora nella testa.Affondò i denti nel labbro e il sapore metallico del sangue gli riempì

la bocca.L’avevano uccisa. L’Impero aveva ucciso sua madre.Balzò in piedi mentre una seconda scarica falciava la piazza. Le

pallottole vaganti fischiarono tutto intorno a lui mentre correva. Un legionario gli si parò contro, la spada levata, gli occhi ebbri per la brama di sangue ardevano dietro le feritoie dell’elmo.L’urlo di Darius sovrastò il clangore delle armi e scosse le

costruzioni di Andurian dalle fondamenta. La rabbia, l’odio e la frustrazione erano combustibile per la furia che dilagava nel suo petto. Caricò a testa bassa l’avversario, sprezzante della lama che vorticò diretta al suo collo. Gli affondò una spalla nel ventre e lo sollevò di peso per poi abbatterlo al suolo in un tonfo sordo. L’uomo sputò fuori l’aria dai polmoni, perse l’elmo nell’impatto, ma reagì tentando un affondo con l’arma ancora stretta nel pugno. Darius intercettò l’attacco, gli bloccò il polso. Rimasero lì per alcuni istanti, i corpi avvinghiati in una lotta per la sopravvivenza, poi il ribelle ruppe la stasi, colse l’attimo per sferrare una gomitata e il setto nasale dell’imperiale andò in frantumi.Darius strappò la spada dalle mani del soldato, soffocò il suo grido

di dolore piantandogliela nella gola. L’anduriano si rimise in piedi, riprese a correre.

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Il cuore gli martellava nel petto, il respiro era ridotto a un sibilo asfittico. Attraversò la strada maestra, che collegava la parte alta della città al porto, si lanciò in un vicolo e fu costretto a farsi largo a spallate tra i gruppi di anduriani armati che scivolano fuori da tombini e scantinati.Uno strido.Sollevò il capo. Il sole era una sfera di luce pallida che proiettava

ombre assassine sulle pareti color onice degli edifici. I sauri di Caio Settimo, a decine, si erano levati in volo dalle basi occupate. Le ali nere dei rettili fendevano l’aria come lame mentre calavano in picchiata sui tetti della città. Dalle fauci spalancate, vortici di fuoco zaffiro si abbattevano sui rivoltosi.Un uomo si dimenava al suolo, le fiamme che gli risalivano lungo le

gambe come rampicanti e gli avvolgevano il torso. Un ragazzino scalzo accorse in suo aiuto brandendo un mantello, lottando per estinguere l’incendio. Darius passò oltre, lo sguardo fisso in avanti. Poco alla volta i suoni della sommossa si attutirono, si confusero con lo sciabordare del mare. Svoltò un angolo, per poi lanciarsi lungo una rampa di scale intagliata nella pietra. Una casa dalle mura divorate dalla salsedine era incastonata nella scogliera.Quando lo videro arrivare, i due uomini che sedevano all’ingresso

scattarono in piedi.«Hastarte, dove sono?» Darius si rivolse al più anziano tra loro.«Dentro, comandante.» Il veterano gli strinse l’avambraccio in

segno di saluto. Aveva una lancia corta sistemata di traverso dietro le spalle. Linee di inchiostro nero gli solcavano il viso segnato da cicatrici. Era il sole di Andurian, un simbolo d’onore, un marchio che legava l’antico ordine militare dei Lancieri alla difesa della loro patria, fino alla fine.«L’hanno bruciata viva. Il console…» Darius cercò di rallentare il

respiro, stava tremando. Le sue mani sporche di sangue stavano tremando. «Hanno ucciso mia madre. Il popolo ha reagito… ma non era ancora arrivato il momento. Non siamo pronti.»

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L’uomo annuì, poi sollevò il mento verso il cielo infestato dai sauri e sbuffò: «Che facciamo adesso?»Un cigolio, rumore di cardini non oliati. La porta della casa si aprì e

una donna dai lunghi capelli biondi apparve sull’uscio. Reggeva un bambino di poche settimane tra le braccia.Darius ne incrociò lo sguardo e una fitta gli strinse il petto. Voltò di

scatto il capo verso il vecchio lanciere.«Devo portarli via da qui, alla svelta. Arriveranno anche a loro, è

solo una questione di tempo. Sono tutto quello che resta della mia famiglia.»«Ci penserà il mio ragazzo a loro.»L’altro anduriano, un giovane robusto dalla testa rasata a zero e un

sole tatuato sul collo, irrigidì la schiena. Nonostante gli occhi induriti e l’espressione determinata sul volto, non dimostrava più di sedici anni.«La navetta è pronta, comandante» affermò il figlio di Hastarte

gonfiando il petto.«Darius?» La donna cullò il piccolo che si agitava tra le sue braccia

stretto in una coperta di lana.«Devi partire, Gaalen. Abbiamo atteso troppo, Andurian non è più

sicura. Non posso permettere che prendano anche voi» le sussurrò Darius all’orecchio, accogliendola tra le braccia e accarezzandole la nuca.«Ti prego, non lasciarci. Vieni anche tu.»La voce di Gaalen era smorzata dai singhiozzi, mentre affondava il

viso rigato dalle lacrime nel suo petto.Darius chiuse gli occhi. Poteva sentire il battito del proprio cuore

fondersi con quello della moglie e del figlio, diventare un’unica essenza pulsante, vitale. La sua famiglia. Cosa era disposto a fare pur di proteggerli? Quanto in là poteva spingersi? Sua madre questo lo sapeva, l’aveva sempre saputo, e non si era mai tirata indietro.Sfiorò le labbra salate di Galeen con le sue, poi baciò la fronte del

suo bambino, Antioch.

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Sciolse l’abbraccio e qualcosa dentro di lui parve rompersi.«Non chiedermelo» le rispose con un filo di voce. Mai parole erano

state più difficile da dire. «Sai che non posso venire.»«Quanto a lungo vorrai continuare a combattere questa guerra già

persa? Pensa a noi, Darius. Pensa a tuo figlio.»Lo sto facendo.«Verrò a prendervi quando tutto sarà finito. Lo prometto.»L’eco di un’esplosione irruppe con violenza nel cielo di Andurian.

Colonne di fumo si levarono al di sopra dei tetti, condensandosi in nubi presto diradate dal vento.«Jul, ragazzo, tocca a te adesso. Datti da fare» ruggì Hastarte,

volgendosi verso il figlio.Il giovane non se lo fece ripetere due volte. Annuì risoluto, prese

una breve rincorsa e superò la scogliera con un tuffo, scomparendo nelle acque scure.Darius incontrò gli occhi verdi di Galeen, un ultimo istante, poi si

volse verso Hastarte, che parve leggere nei suoi pensieri.«Tranquillo, sa quello che fa.»Un rumore, simile a un ronzio, provenne dal mare. Un vortice si

formò sullo specchio dell’acqua, poi un’esplosione di spuma e schizzi gelidi. Il veicolo, una capsula metallica dalla forma bombata, emerse dal suo nascondiglio subacqueo. Dai vetri neri dell’abitacolo, Darius colse il volto concentrato di Jul. Le quattro turbine alimentate a celion, poste sui fianchi della navetta, le permettevano di restare sospesa a mezz’aria simile a un insetto.Il figlio di Hastarte accostò il veicolo alla scogliera, scese di quota e

un pannello nel fasciame si mosse, piegandosi in avanti e formando una passerella. Darius tornò da Galeen e Antioch e li strinse a sé, questa volta con maggiore intensità. Il bambino piangeva, e lei gli stava mormorando qualcosa, ma lui non riuscì ad afferrarne le parole, la voce era coperta dal rombo dei motori. La baciò di nuovo, poi la sollevò, aiutandola a salire a bordo del veicolo e Jul richiamò il portellone.

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Darius rimase a fissare la nave prendere lentamente quota, come incantato, e ci volle la solida stretta di Hastarte sulla spalla per riportarlo alla realtà. In qualche punto della città vicino alla loro posizione c’era stata una seconda esplosione.«La tua lancia, comandante.»Fissò per un istante l’arma, la punta di metallo lucente, l’asta

istoriata. La impugnò con entrambe le mani e un brivido gli percorse la spina dorsale.Non ci sarebbe stato mai un posto sicuro al mondo per suo figlio, se

lui avesse smesso di combattere.«Jul li porterà in salvo, Darius, vedrai.»Hastarte osservò orgoglioso il veicolo allontanarsi dalla costa

radendo lo specchio d’acqua, poi si girò di scatto.Passi pesanti risuonarono nell’aria, stivali che percuotevano il

lastricato.Darius si voltò giusto in tempo per trovarsi faccia a faccia con le

figure che piombarono giù dalla scalinata. Armature schizzate di sangue, mantelli color porpora ed elmi piumati.Imperiali.«Darius!» Il centurione che era a capo del gruppo gridò il suo nome

come se fosse stato un insulto. «Quello è Darius. Prendetelo vivo, il Console lo vuole vivo!»I soldati di Caio Settimo gli piombarono addosso in un istante.Hastarte scattò in avanti, deviò un assalto di spada con la coda della

lancia, poi roteò l’arma e l’affondò nel ventre di un nemico. La punta sfondò la piastra toracica e gli sbucò tra le scapole. Il guerriero dal volto tatuato liberò l’arma con un calcio, scavalcò il cadavere e si lanciò verso i legionari.Darius si mosse per seguirlo, poi qualcosa attirò la sua attenzione.

Un movimento appena percettibile, il battito di ali, il sole oscurato per un istante. Si volse verso il mare e vide il mantello rosso di un cavaliere alato contorcersi al vento. Colse la figura massiccia del

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sauro che montava lanciarsi a tutta velocità verso lo specchio dell’acqua.Un predatore di scaglie e zanne braccava il veicolo che portava in

salvo la sua famiglia.La lancia vibrò a contatto con il suolo, quando Darius lasciò andare

la presa sull’impugnatura. I suoni dello scontro, il ruggito di Hastarte e il cozzare delle armi sparirono, sommersi da un unico grido angosciato. Il suo.Corse verso la scogliera, pochi passi che parvero infiniti. Si fermò in

bilico sul ciglio, gli occhi sbarrati. In quel momento una lingua di fuoco azzurro raggiunse la capsula e avvolse il fasciame tramutando la navetta in una palla infuocata. Il veicolo sfiorò con il ventre la cresta del mare e si risollevò per un attimo.A Darius mancò il respiro. La sua famiglia era in quella capsula,

tutto quello che aveva era in quella capsula, tutto quello per cui valeva la pena di vivere, respirare, combattere. La lingua di fuoco divoró anche la sua anima e sentì come se qualcosa si rompesse e i frammenti lo trafiggessero dall’interno.Una fitta lancinante lo costrinse a serrare le palpebre.L’elsa di una spada gli affondò nella schiena.«In ginocchio, cane. Non muoverti. Ti ho detto fermo…» l’anduriano

provò a divincolarsi ma il legionario gli assestò un pugno alla tempia che lo mandò a sbattere al suolo.«Venite qui, l’ho preso!»Altri soldati accorsero, lo accerchiarono, strattonandolo e

costringendolo a girarsi sul dorso. Hastarte giaceva al suolo in una chiazza rossa. Girò il capo di lato, guardò verso il mare attraverso le gambe dei suoi nemici. Le ali del sauro sbattevano sull’acqua, sollevando vortici di spuma. La capsula era sparita.Impatto. La punta di uno stivale gli lacerò uno zigomo. Un uomo si

fece largo a spallate tra i soldati, e sollevò la visiera del copricapo.

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«Finalmente sei nostro.» Un sorriso si allargò sulla faccia barbuta. «La tua cattura mi frutterà una promozione, ne sono certo, e forse anche qualche pezzo d’oro. Che dite voi ragazzi?»Risate.Darius fissava il cielo. Le nuvole parvero assumere sfumature di

grigio, contorni di volti che lui conosceva, che lui amava.Leyna. Galeen. Antioch.Le lacrime gli incendiarono il volto tumefatto. Le sue labbra si

muovevano come un riflesso incontrollato. Una litania appena sussurrata, continua.«Che stai dicendo?» Il tenente imperiale si chinò su di lui, incontrò i

suoi occhi.«Vi ucciderò. Vi ucciderò tutti.»

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IIDarius sputò sangue sulle foglie appena cadute. Il silenzio della

foresta aveva inghiottito il clangore delle armi, l’eco dell’esplosione e le urla degli schiavi terrorizzati.Ora c’erano soltanto lui e la libertà.Una fitta alla spalla lo fece vacillare. Serrò le palpebre per il dolore e

si appoggiò contro un tronco per riprendere fiato. Lanciò uno sguardo alle sue spalle per capire quanto si fosse allontanato dalla strada. La deflagrazione aveva dilaniato in un ruggito il cargo degli Imperiali in cui erano ammassati i prigionieri diretti ai campi di concentramento sulle montagne di Emperia. Darius era andato a sbattere contro gli altri uomini, mentre il mondo si capovolgeva. Quando una lama di luce aveva trafitto la penombra del vagone, aveva fatto appello a tutto il suo istinto di sopravvivenza per lanciarsi fuori dal veicolo attraverso la breccia. Era piombato giù dal crinale come un masso staccatosi da un costone roccioso, rotolando sul terreno, urtando contro i tronchi. Le sue mani avevano annaspato nel vuoto tentando di rallentare la caduta.L’eco improvviso di alcune voci in lontananza lo fece scattare in

piedi. Strinse i denti e puntò verso la direzione in cui la boscaglia sembrava infittirsi. Sopra la sua testa le fronde degli alberi intessevano un manto che teneva il sole lontano dal sottobosco.Darius corse senza voltarsi, lottando con la vegetazione che gli

sferzava braccia e gambe. Poi il terreno prese a digradare e il tappeto di foglie e il groviglio di rami cedettero il passo a gruppi di rocce coperti dal muschio. Un corso d’acqua sbucava da una collina sul versante opposto del crinale per gettarsi a capofitto sulle rocce sottostanti in una pioggia di schizzi.Si guardò intorno. I suoi occhi balenarono da un capo all’altro

dell’insenatura, cogliendo una rientranza nella parete rocciosa coperta dal muro d’acqua della cascata. Iniziò la discesa aiutandosi

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con le mani. Aveva perso un sandalo. Cadde sul fianco già dolorante quando il piede nudo scivolò su una roccia. Una scarica di dolore percosse il suo corpo. Darius trattenne a stento un gemito mentre si rimetteva in piedi.«Fermo lì!» Una voce affannata, aspra, proruppe dal fogliame

smosso. Un uomo dal dorso ricoperto di pellicce e la barba sistemata in trecce che gli ricadevano sul petto brandiva un’ascia bipenne. «Non fare un altro passo, o ti giuro che ti stacco un braccio e incasso la ricompensa per metà!»Un predone, pensò Darius puntando gli occhi in quelli del suo

inseguitore. Un fottuto trafficante di schiavi.«Mi hai fatto correre per tutta la maledetta foresta, bastardo» il

bruto aumentò la pressione sul manico dell’arma e le nocche sbiancarono. Studiò Darius per un istante, poi il suo volto si increspò in un sorriso «Cosa c’è? Sei ferito? Tranquillo, ai padroni piace il sangue. Ci pagheranno davvero bene per il tuo. Adesso non fare stupidaggini e vieni qui, abbiamo perso fin troppo tempo».«Crepa» Darius si voltò di scatto e riprese a scendere, questa volta

senza badare a dove metteva i piedi.Saltò dal pendio ed entrò nell’acqua. Era gelida e gli arrivava quasi

alle ginocchia. Aumentò la falcata, sollevando schizzi, quando l’uomo gli fu addosso. Il piatto dell’ascia picchiò contro la sua schiena, smorzandogli il respiro e scagliandolo contro una cresta di massi sporgenti.«Ti avevo detto di fermarti» la sagoma del predone oscurava il sole

proiettando la sua ombra sulle lastre di pietra. Darius si girò sul dorso. Il dolore gli offuscò i sensi per qualche secondo. Quando si riebbe, l’acqua si stava macchiando del sangue che gli colava da un taglio sulla fronte.Osservò l’uomo armeggiare con la cintura dalla quale sganciò un

paio di catene per i polsi. Il bruto le sollevò quasi all’altezza del viso e le fece oscillare in un gesto plateale, per poi lanciarle nella sua direzione.

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«Tieni, mettile da solo». Darius non accennò a muoversi e questo gli costò un calcio nel fianco. «Ubbidisci!»Gli occhi di Darius erano ipnotizzati dal baluginio delle catene sul

fondo del torrente. Il tempo parve cristallizzarsi e la sua mente corse rapida al centro di smistamento in cui l’Imperatore Caio Settimo ammassava tutti i nuovi prigionieri. Volti scarni e sguardi spenti di uomini, donne e bambini adunati nel piazzale polveroso.Fantasmi in attesa di essere destinati ai campi d’estrazione del

celion.La sua rabbia si tramutò in un pugno di ferro che attanagliò il cuore

in una morsa, talmente stretta che il muscolo fu sul punto di esplodere.Il ruggito di Darius sovrastò il fragore della cascata. Con un balzò si

scagliò contro l’avversario, incurante dei colpi con cui gli martoriava la schiena, e lo scagliò nell’acqua. Le mani dell’uomo provarono ad afferrare la sua gola, ma Darius gli montò con un ginocchio sul petto e iniziò a colpirlo con la furia di un animale ferito. Schiantò i pugni sul volto del barbaro fino a quando il suo respirò mutò in un rantolo soffocato e il predone sparì inghiottito dai flutti ormai color cremisi del torrente.Darius arretrò di qualche passo, le nocche delle mani scorticate e

imbrattate di sangue. Si lasciò cadere sulla riva, fissando i volti scolpiti nelle nuvole dal vento. Il suo corpo era martoriato dai lividi, le forze erano scivolate via eppure non poteva fermarsi. Piegò il capo di lato e osservò l’ingresso alla caverna celato dalla cascata. Forse poteva rimanere nascosto in quella grotta per un giorno o due. Doveva rimettersi in sesto, in quelle condizioni non avrebbe fatto molta strada. Sbuffò nel tirarsi in piedi, le piante poggiate per intero al suolo quasi volesse saggiare la propria stabilità.Era spossato. La stanchezza si prese gioco di lui, privandolo della

lucidità. Si accorse di non essere più solo alla cascata quando udì il sibilo della cerbottana. I suoi occhi colsero la figura inginocchiata sul pendio, le braccia ancora tese per il tiro. Il dardo sibilò nell’aria e

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affondò nella sua carne. Darius barcollò, la mano sfiorò l’impennaggio del proiettile che gli sporgeva dalla spalla, poi le sue palpebre divennero pesanti come blocchi di celion e tutto divenne buio.La brezza primaverile sfiorò il prato come una mano invisibile. Una

ciocca di capelli biondi sfuggì al controllo di Galeen, coprendole il volto arrossato. Darius le ravviò il ciuffo, per poi sfiorarle lo zigomo con le dita. Lei gli sorrise, uno di quei sorrisi che aveva visto così tante volte ma dei quali non era mai sazio, poi gli prese la mano e la guidò fino al ventre.«Il nostro Antioch» gli sussurrò, e il volto le si illuminò come il sole di

Andurian.«Ti amo.»Era un guerriero esperto, aveva calcato diversi campi di battaglia,

affrontato la morsa gelida della paura, eppure si sentiva sempre impotente dinanzi a quelle parole così forti da scalfire il pettorale della sua corazza come una lama.Dischiuse le labbra, la gola resa arida dall’emozione. Quando provò a

parlare però le corde vocali non produssero alcun suono e i suoi pensieri si persero in un sospiro.Svegliati.Darius distolse lo sguardo dagli occhi verdi di lei, rapito dalle forme

scure apparse nel cielo sopra Andurian. Le nuvole parvero ritrarsi intimorite dall’avanzata delle macchine volanti. Vessilli color porpora oscurarono il sole. Imperiali.Svegliati, maledizione.Urla. A migliaia le voci irruppero nella sua testa. Darius si afferrò il

cranio, serrando la mascella nel tentativo di opporre resistenza. Le orecchie presero a sanguinare quando quella cacofonia si trasformò in un clamore distorto.Galeen si aggrappò al suo avambraccio. Lo scosse.Darius ne incrociò lo sguardo, e il volto di lei prese a sgretolarsi e a

diventare sabbia.

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Sabbia spazzata via dal vento.Darius si destò di colpo. Il sole filtrava attraverso le sbarre della

gabbia e i fasci di luce respingevano le ombre negli angoli bui della cella. A migliaia le grida riempivano l’aria, assordanti e pregne di esaltazione.Gli occhi color cenere dell’anduriano si soffermarono sul bracciale

arrugginito che gli serrava il polso per poi risalire, anello per anello, fino all’altra estremità legata a quello di un altro uomo.«Finalmente sei sveglio, pensavo fossi morto.» Il volto del

prigioniero era celato dall’oscurità, gli occhi erano due fuochi fatui che vorticavano nelle orbite. «Tra poco tocca a noi, li senti? Senti quei bastardi come ci acclamano? Non vedono l’ora di vederci nella fossa. Che siano maledetti, per il Creatore!»L’uomo si mosse verso la grata, emergendo dall’oscurità. Il suo

corpo era ossuto, uno spettro coperto di stracci.Darius si mise a sedere, la faccia segnata da una smorfia di dolore.

Era ancora intontito a causa del sonnifero usato dal cacciatore di schiavi. Doveva aver vomitato quando non era cosciente poiché un grumo acido gli riempiva la bocca mescolandosi alla saliva ogni volta che deglutiva.«Cosa è questa catena?» La sua voce era un sussurro. Portò la mano

libera al ferro che gli stringeva il polso e provò a sfilare il braccio con poca convinzione.All’esterno continuava il delirio della folla.«Questa?» La catena che univa i due prigionieri tintinnò quando

l’uomo che divideva lo spazio angusto della cella con Darius sollevò il proprio braccio. «Ci legano a coppie per vederci morire insieme».«Dove siamo?»L’anduriano puntellò la schiena contro la parete e si rimise

lentamente in piedi. Le gambe erano intorpidite, come se un esercito di formiche stesse scivolando nei muscoli attraverso i pori della pelle. Uno scatto metallico seguì un braccio di luce arancione che piombò alle loro spalle dal fondo della cella. Un volto si materializzò

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dietro la parete divisoria che separava la gabbia dal resto della struttura.«Preparatevi! Kalessania attende il vostro sacrificio».Quella voce era fredda, priva di alcuna musicalità.Darius si volse di scatto verso la grata che dava all’esterno, quando

questa prese lentamente a salire in un cigolio di cardini non oliati. Il sole scivolò sotto di essa illuminando la punta del piede scalzo. Il compagno di cella arretrò di qualche passo, rifugiandosi dalla

luce. Parve essere scosso da un tremito febbrile quando si volse a guardare Darius.“Kalessania… Kalessania…” la mente dell’anduriano combatteva

contro la coltre di nebbia, lascito della droga che gli era stata somministrata. “Kalessania… l’arena…”Poi capì.«Siamo a Xendria.»

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III«Dovreste essere lieti per l’onore che vi viene concesso oggi.» Gli

occhi del carceriere stregavano Darius dall’apertura nella parete. Rubini incastonati nel volto affilato del daelish. «Sua maestà la regina assisterà ai giochi…»«Me ne fotto della tua regina, io non ci vado là fuori!» il compagno

di cella sollevò il pugno facendo tintinnare la catena.Quel suono risvegliò nell’anduriano la consapevolezza che, per

quanto si sforzasse, la sua vita continuava a essere appesa a un filo. Un filo prossimo a spezzarsi.Darius lesse l’irritazione sul volto antracite del daelish. Le fiamme

che ardevano nelle orbite si estinsero quando questi chiuse per un istante le palpebre.«Non mi date scelta, allora».La voce si incupì, mutando in un fruscio confuso dalle urla della

folla che attendeva impaziente all’esterno. Il carceriere armeggiò con la parete che separava la cella dal resto della costruzione. Uno scatto metallico fu seguito dal rumore di chiavistelli e il pannello divisore scivolò di lato, sparendo alla vista di Darius come se non fosse mai esistito. Il daelish fece un passo all’interno della cella. Indossava un elegante completo color fuliggine. I contorni della figura slanciata erano delineati dal bagliore dei cristalli luminosi incassati nelle mura. Questi sollevò un braccio in un gesto svogliato e due umani emersero dal corridoio alle sue spalle.Darius si irrigidì quando colse l’acciaio delle loro lame, snudate dai

foderi legati alla cintura. Un’espressione tutt’altro che amichevole segnava i volti barbuti. Si guardò intorno, mettendo a fuoco le sue alternative. Lo spazio era troppo angusto per azzardare una qualsiasi mossa. Quel giorno avrebbe trovato la morte, pensò, ma di certo non per mano di due schiavi, non in quel buco di cella.

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Deglutì e si mosse all’indietro con cautela, imitato dal compagno, fino a quando il calore del sole non gli sfiorò la schiena e l’aria si liberò dal carico umido della muffa.Le sbarre calarono davanti ai loro nasi come una ghigliottina,

alzando una nuvola di polvere a contatto con il suolo. L’anduriano sollevò il mento verso gli spalti e incrociò gli occhi color cremisi di migliaia di daelish esultanti. Le braccia protese verso l’alto, la pelle grigia come la grafite. Percorse con lo sguardo gli anelli dell’anfiteatro e rimase a bocca aperta, schiacciato dalla maestosità dell’arena.«Per il Creatore!» esclamò l’uomo al suo fianco.«È una follia…» disse Darius. Altre figure facevano il loro ingresso

sul polveroso palcoscenico di Xendria, emergendo dalle prigioni sotterranee disposte lungo il perimetro della struttura. Tutti i prigionieri erano divisi in coppie, i polsi uniti da una catena.Dal cuore della tribuna si ergeva una statua, scolpita in una

materiale che Darius stentava a riconoscere, raffigurante una donna nuda con ali di pipistrello dispiegate e lo sguardo severo, fisso sugli uomini nella fossa.Ai suoi piedi vi era una vasca di roccia e qualche gradino più in

basso una fila di scranni color onice. Una femmina daelish sedeva al centro. La corona posata sul capo fermava la massa di lunghi capelli bianchi pettinati all’indietro. La regina si alzò in piedi e sollevò un braccio. Un silenzio surreale avvolse l’arena.«Maledette sanguisughe!» Sotto la luce del sole il suo compagno di

catene sembrava un essere tornato dall’oltretomba. Le cicatrici e le escoriazioni trasformavano il suo volto in una maschera senza età.Darius lo fissò per un istante e provò pietà per lui.«Non ci sono armi.»«Come?»«Non ci sono armi» ripeté l’anduriano, allargando un braccio per

mostrare all’altro l’arena. C’era stato un tempo in cui aveva letto libri e studiato per diventare un ufficiale dell’esercito al servizio

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della sua patria. Conosceva la storia, le religioni e le usanze dei popoli che abitavano il mondo. Compresi i daelish, signori delle ombre, adoratori del sangue. «Qual è il tuo nome, amico?»«O-Oterige» balbettò il prigioniero.«Io non vedo armi con cui combattere qui, Oterige. Solo polvere e

carne da macello.» sussurrò Darius, per poi rivolgere il capo in direzione del trono.«Figli di Kalessania!» la voce della regina risuonò tra gli anelli

dell’anfiteatro. Le sue braccia erano protese, quasi volesse cingere in un abbraccio l’intera arena. «Nuvole oscure minacciano il sole di Xendria. Le voci dall’est sono giunte alle mie orecchie sospinte dal vento. Gli uomini delle pianure ci osservano, bramano la nostra energia, i nostri segreti.»Darius rimase in ascolto. La schiena dritta sotto la luce del giorno,

incurante delle ferite. Si sentiva spezzato, le ossa frantumate. Mentre era incosciente qualcuno aveva provato a ricucirgli lo squarcio che gli segnava la fronte. Il dolore fisico però era niente rispetto allo strazio che gli dilaniava il cuore. Continuava a sentire l’eco delle urla di sua madre nella testa, non poteva smettere di pensare a Galeen e Antioch braccati dai sauri, la capsula che spariva nei vortici di fuoco blu. Immagini indelebili, che non gli davano tregua.«Siamo qui riuniti per offrire alla nostra Madre il nettare della

Terra. Immoliamo questi uomini oggi affinché la Dea ci dia la forza per sconfiggere il nemico e vivere in eterno. Che la stagione della mattanza abbia inizio!»La donna completò il discorso con un grido che infiammò

l’anfiteatro. La folla rispose con un ruggito che spinse l’anduriano verso un abisso denso di terrore.Darius poteva sentire i denti di Oterige battere e la puzza dell’urina

impregnare gli stracci che aveva indosso.Il corno suonò e le porte dell’arena si spalancarono.Un ferodonte varcò l’ampio arco di marmo, spronato dal gladiatore

che lo montava sul dorso. Le scaglie amaranto del maestoso rettile

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riflettevano la luce del sole e le fasce muscolari al di sotto della pelle scattarono in risposta al colpo di stivali che il cavaliere diede all’improvviso.Il panico dilagato tra i prigionieri sul palcoscenico della mattanza si

contrappose al delirio del pubblico. I daelish accolsero il loro campione applaudendo, gridando e incitandolo quando questi compì un giro completo della pista.Darius osservò il guerriero: era un umano, a prima vista un nordico.

La barba era raccolta in una treccia bionda che gli frustava il petto nudo, sbucando dall’elmo a testa di toro. Al posto del braccio destro, un arto metallico si congiungeva all’articolazione della spalla. Alla sua estremità una lama seghettata era in attesa di dilaniare carne e seminare morte.«No!» Darius si sentì trascinare all’indietro. Oterige si era avventato

contro la grata della cella alle loro spalle e tentava di sollevare le sbarre con fare goffo e disperato. «Non voglio morire, no… aiutami! Noi… noi dobbiamo fuggire. Vieni qui, presto!»L’anduriano ignorò le suppliche dell’uomo e rivolse lo sguardo

verso il centro dell’arena.Il ferodonte ruggiva mentre il cavaliere aveva dato inizio allo

spettacolo, calando il suo artiglio artificiale sui prigionieri in fuga. La lama si abbatteva sulle schiene inermi degli uomini, tranciava gli arti, descrivendo volte color porpora nell’aria.Il sangue che usciva dai corpi mutilati si raccoglieva in sottili canali

che percorrevano la superficie dell’arena, fili di una ragnatela cremisi. La statua della Dea fu avvolta da un alone rosso, che cresceva d’intensità ogni volta che un uomo perdeva la vita. Le sue braccia erano percorse da scanalature che convergevano sui palmi delle mani rivolti verso l’alto. Gocce di un liquido scuro, stillate dalla punta delle dita, precipitavano nella vasca ai piedi della Dea in un flusso cadenzato.Il rettile, su due zampe, si muoveva a una velocità impressionante

mentre caricava a testa bassa le sue prede. Un colpo della possente

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coda centrò in pieno petto un prigioniero, scagliandolo assieme al compagno contro il bordo dell’anello. Il pubblico esultò alla vista della macchia di sangue sulla parete di pietra. Uno dei due uomini si riprese dall’urto e provò ad arrampicarsi lungo il muro. Il gladiatore lasciò andare le redini ed estrasse una lama da lancio dalla cintura. Il pugnale fendette l’aria trapassando la nuca del fuggitivo, che cadde all’indietro.Il cavaliere spronò la cavalcatura sotto la statua della Dea

Kalessania, fece un cenno con il capo alla regina e alla sua corte, poi strattonò il ferodonte per le briglie. La creatura si volse verso il cuore dell’arena. Gli occhi color oro guizzarono alla ricerca di nuove prede, scontrandosi con quelli di Darius.«Ci ha visti! Ora verrà da noi!» Oterige si aggrappò al braccio

dell’anduriano così forte che le unghie gli si conficcarono nella carne. Il campo era ricoperto da un tappeto di corpi dilaniati e di feriti che urlavano per le mutilazioni subite. La terra e il sangue si erano mescolati come colori sulla tavolozza di un artista.«Lascia che venga…» sibilò Darius, incassando la testa tra le spalle.Era stanco. Stanco di fuggire, stanco di stringere i denti, stanco di

andare avanti, eppure c’era qualcosa dentro di lui che non voleva lasciarlo andare. Un fuoco che ardeva sfidando l’oscurità della fredda notte anduriana, senza avere paura di estinguersi.I daelish gridarono, accecati dalla vista del sangue, ammassati

contro i parapetti delle tribune, quando il gladiatore spronò il ferodonte verso i due prigionieri ancora in piedi.La catena ruppe la stasi. Oterige tirava nella sua direzione, urlando

frasi che si confusero con le grida dei daelish sugli spalti. Gli occhi di Darius incrociarono quelli del cavaliere, iridi azzurre celate dietro la visiera dell’elmo. Rimase immobile a pochi passi dalla parete e si curvò sulle gambe. I muscoli erano tesi, pronti all’azione.Il gladiatore diede un colpo di stivali e il ferodonte divorò il terreno

con ampie falcate, il corpo massiccio piegato in avanti per lo slancio.

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Il braccio metallico del guerriero si levò minaccioso contro il cielo, oscurando il sole.Darius sentì l’alito fetido del rettile quando fu abbastanza vicino per

agire. La lama calò sopra la sua testa. Rapida, ma non abbastanza per il lanciere di Andurian. Aggrappatosi a ogni briciolo di energia che gli era rimasto in corpo, scattò di lato e strattonò la catena.Il grido di Oterige echeggiò nell’arena. L’avambraccio era stato

reciso dal colpo del gladiatore in uno spruzzo purpureo. Libero, l’anduriano rotolò nella polvere per alcuni istanti per poi rimettersi in piedi. La ferita sulla fronte si era riaperta e il sangue caldo gli bagnava la faccia.Le fauci del ferodonte si chiusero sulla gamba di Oterige. I denti

affondarono nella carne e lacerarono pelle e muscoli. L’uomo venne sollevato e sbattuto al suolo, mentre l’artiglio del cavaliere calò su di lui, squarciandogli il petto, strappandogli la vita.Poi Darius attaccò.Uno scatto improvviso e la mascella del rettile schioccò,

addentando l’aria. La lama del cavaliere sibilò di poco vicino all’orecchio quando l’anduriano scivolò sul fianco dell’animale. Con una mano afferrò i finimenti di cuoio della sella e si diede lo slancio per balzare in corsa in groppa alla bestia, proprio alle spalle del nordico. La folla ammutolì.Darius arpionò la nuca del gladiatore, facendo scivolare un braccio

sotto l’ascella dell’arto che reggeva le redini e strinse per evitare d’essere colpito al volto da una testata. L’artiglio meccanico roteava nell’aria, nel vano tentativo di uccidere. Il ferodonte, ormai fuori controllo, si dimenò rischiando di disarcionare gli uomini. L’anduriano allungò la mano libera verso la cintura dell’avversario e le sue dita si serrarono intorno al manico dell’ultimo coltellaccio da lancio ancora legato a essa.Un “ohhhhhhhh” corale e carico d’angoscia del pubblico seguì la

caduta del rettile al suolo, quando Darius gli piantò la lama nella giugulare. I due uomini vennero scagliati in avanti, proprio sotto il

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trono della regina, rotolarono nella polvere e ripresero a fronteggiarsi.Il gladiatore menò un rovescio con il braccio artificiale. Darius

arretrò di un passo, mandando a vuoto il fendente, e lanciò la terra che aveva raccolto in un pugno contro la faccia di toro impressa sull’elmo dell’avversario. Questi grugnì, scuotendo il capo, e attaccò alla cieca. L’anduriano gli sferrò un calcio alla gamba d’appoggio e il ginocchio cedette, poi scivolò alle sue spalle e utilizzò il lembo di catena che gli penzolava dal braccio per fare un cappio intorno al collo del rivale. Piantò un ginocchio nella schiena del nordico e strinse. Le sue braccia si gonfiarono per lo sforzo, mentre il gladiatore si dimenava, colpiva il vuoto e cercava di liberarsi. Darius non allentò la presa, sollevò lo sguardo verso gli spalti e i suoi occhi da lupo fulminarono i daelish quando spezzò il collo del loro campione.Il corpo del gladiatore si afflosciò ai suoi piedi in una posa contorta.

L’anduriano fece un passo indietro e riprese fiato. L’aura che avvolgeva la statua si fece intensa, e Kalessania divenne fuoco. Darius guardò la regina e allargò lentamente le braccia in segno di sfida.

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IV«Non hai un bell’aspetto, amico.» Darius sbatté le palpebre. Sfere di

luce bianca danzavano davanti ai suoi occhi. Lentamente riuscì a mettere a fuoco i lineamenti marcati di un volto scavato, segnato dal tempo. «Ho fatto del mio meglio per ripulire la ferita, ma è infetta… mi senti?»L’anduriano seguì il movimento di tre dita ossute sventolategli

davanti alla faccia. La gola era secca, deglutì e gli parve d’ingoiare una lametta.«Ho sete…» sussurrò.«Tieni, prendi. Attento a non strozzarti.»Il vecchio gli avvicinò una ciotola di metallo alle labbra. Darius

chiuse le palpebre mentre mandava giù l’acqua. Provò a sollevarsi su un gomito, ma era come se un blocco di granito gli stesse schiacciando il petto. Roteò gli occhi e si lasciò andare sul giaciglio.Un cristallo luminoso incastonato nella parete della stanza

proiettava l’ombra di quell’individuo sul pavimento. L’ambiente in cui era stato trascinato non aveva l’aria di una cella. All’ingresso non vi erano sbarre e la porta che dava sul corridoio era aperta. Lo spazio era limitato ma accogliente. Un tavolino occupava un angolo e su uno sgabello vicino al letto erano stati posti degli indumenti piegati.«Avevi due costole rotte e hai comunque ucciso quel bastardo di

Krumaag. Con una catena poi… davvero notevole…» l’uomo sorrise e aguzzò la vista incuriosito. Sfiorò con le dita il collo di Darius, dove la sporcizia e il sangue avevano provato a oscurare il tatuaggio del sole di Andurian. «Un lanciere. Dovevo aspettarmelo… avete combattuto fino alla fine, non è vero?»Il vecchio parve riflettere per un istante, rapito dalle linee

d’inchiostro che marchiavano la pelle di Darius. Poi scattò in piedi e una scintilla attraversò i suoi occhi azzurri come il cielo d’estate. La

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sua figura torreggiava nelle vesti nere. I capelli grigi erano raccolti in un codino che si perdeva tra le pieghe del mantello.L’anduriano lo osservò dirigersi verso l’ingresso della camera e

lanciare uno sguardo da falco all’esterno. L’uomo si voltò soddisfatto e chiuse la porta. Infilò una mano sotto la cappa, mentre si riavvicinava alla branda.Darius corrugò la fronte quando una fiala si materializzò tra le dita

del vecchio. Il liquido rosso scuro contenuto al suo interno si increspò e divenne fuoco esposto alla luce del cristallo.«Chi sei?» chiese con un filo di voce.«Sono un amico» rispose l’anziano, rimuovendo il tappo di sughero

dal contenitore di vetro «e adesso bevi!»Darius tossì e lottò per non vomitare. Quel liquido denso e dal

sapore aspro, ferroso, gli riempì la bocca. Si contorse, inchiodato al pagliericcio dalle mani del vecchio. Provò a parlare ma la mascella era paralizzata e ciò che uscì dalla sua bocca fu solo un sibilo. Il cuore prese a palpitare con forza, il battito iniziò a martellargli nelle orecchie. Poi arrivò il freddo.La morsa del gelo risalì lungo le gambe per propagarsi al resto del

corpo. Il respiro rallentò. Darius tremò mentre la luce all’interno della stanza divenne sempre più scura, assumendo sfumature blu. L’uomo al suo fianco lo coprì con una coperta e gli sussurrò cose che non riuscì ad afferrare. I lineamenti di quel volto si fecero sempre meno definiti e la figura si confuse nel velo d’oscurità che la avvolse.Una strada, una scia di polvere e pietra basaltica che attraversava la

radura fino alle piste di decollo. Una strada, era tutto ciò che rimaneva mentre il resto di Andurian andava a fuoco. Darius seguì con lo sguardo le evoluzioni del sauro nell’aria, le ali che squarciavano le nuvole come lame. Le trombe risuonarono e la falange imperiale emerse dalla coltre di fumo nero che avvolgeva le mura della città. Alle sue spalle il pianto dei bambini aggrappati alle gonne delle madri, le urla concitate dei soldati che esortavano i civili a restare in riga, a non spingere per salire a bordo delle macchine volanti.

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«Tenete la linea!» Darius ruggì, piantando i sandali nel terreno. Cercò i volti dei compagni al suo fianco, i tratti induriti dalla determinazione.Le strida del sauro laceravano i timpani, attanagliavano il cuore in

una morsa gelida per poi farlo a pezzi. La creatura scese in picchiata sui lancieri di Andurian e il sole si offuscò. Darius colse la figura del cavaliere alato seduto sul dorso della bestia, il volto coperto dalla maschera per respirare e il mantello color porpora che si contorceva al vento, poi arrivò il fuoco e la determinazione lasciò il posto al terrore.Il sauro spalancò le fauci e un inferno azzurro si abbatté sugli scudi

istoriati. Darius venne scagliato all’indietro come un albero sradicato dalla furia di un uragano. Urtò contro i compagni alle sue spalle e perse la presa sulla sua lancia, perduta in un groviglio di corpi. Annaspò per rimettersi in piedi, il braccio ancora infilato nei passanti dello scudo. Alcuni dei suoi soldati si contorcevano sulla strada ridotti in torce umane. La puzza della carne bruciata divenne più aspra dell’odore della paura.La terra tremò per l’avanzata della Legione dell’Aquila. Gli stivali

battevano sul lastricato e le spade venivano percosse contro gli scudi, mentre i mantelli color porpora guadagnavano terreno.«In… in piedi… riformare la falange!» Darius raccolse una lancia dal

suolo e fece qualche passo, imitato da altri lancieri. Gli alberi, le colline e tutto ciò che lo circondava ora ardeva, divorato dalle fiamme. L’aria era irrespirabile. Si strappò l’elmo dal capo e sollevò lo sguardo verso il cielo al grido del sauro. La corazza di scaglie della creatura parve risplendere al bagliore del fuoco. Le fauci si spalancarono e un vortice azzurro si abbatté sulla strada.«Noooo!» Darius si destò dal sonno, madido di sudore. Si guardò

intorno, gli occhi sbarrati, in preda alla confusione. Respirò a fondo con il cuore che gli batteva all’impazzata.«Tranquillo». Una ragazza emerse dalle ombre della stanza. Lunghi

capelli neri le incorniciavano il viso. La sua pelle era pallida, di un

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candore estremo. Avanzò a piccoli passi, una caraffa stretta tra le mani. «Era solo un sogno. Tieni… bevi. Ti sentirai meglio».«Che roba è?» grugnì l’anduriano, sedendosi al centro del giaciglio.

Si sostenne la testa rasata tra le mani. Una fasciatura gli avvolgeva la fronte.«Acqua» rispose la giovane, porgendogli da bere. Il tono della sua

voce era gentile. Darius le lanciò un rapido sguardo mentre prendeva il recipiente. Non dimostrava più di diciassette anni, pensò, prima di ingollare lunghe sorsate. Bevve con avidità, bagnandosi il petto nudo.La ragazza sorrise. Il suo sguardo aveva qualcosa di strano. Gli

occhi, privi dell’iride, erano bianchi e fissi su un punto della parete, distanti.«I tuoi occhi… sei cieca…» Darius non completò la frase.Il vecchio spalancò la porta della camera e si precipitò all’interno in

un fruscio di vesti.Un sorriso era impresso sul suo volto.«Sei sveglio! Lo sapevo… lo sapevo che avrebbe funzionato!»

L’uomo afferrò uno sgabello in un angolo della stanzetta e si sedette di fronte a un Darius titubante. «Ho sentito la tua voce. Hai dormito per quanto, quattro giorni? La ferita si è rimarginata!»L’anduriano provò a respingere le mani di quell’individuo mentre

gli scopriva la fronte dal bendaggio.«Che cosa era quella robaccia che mi hai fatto bere, vecchio? Dove

mi trovo?»«Shhh… abbassa la voce, o ti sentiranno. Loro non devono sapere.»

L’uomo si portò un dito alla bocca e i suoi occhi guizzarono vivaci in direzione della ragazza. «Alatea, da brava, vai a chiamare il padrone. Digli che il nostro amico si è svegliato.»«Si, maestro.» Darius seguì con lo sguardo la giovane mentre usciva

dalla stanza. Si muoveva con passo sicuro, nonostante la cecità.«Siamo a Xendria, regno dei daelish» disse il vecchio, rimettendosi

in piedi e tormentando con le dita la barba che gli ricopriva il mento.

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«Questo lo so già.» Osservò Darius massaggiandosi il collo. «Devo chiamarti anche io maestro, oppure hai un nome?»«Clemio» l’uomo si diede un buffetto sulla fronte come se si volesse

rimproverare per la sua sbadataggine «chiamami Clemio. Ci troviamo nei sotterranei su cui sorge la tenuta del principe Morrein. Noi siamo i suoi servitori. Il tuo spettacolo è stato… incredibile! Hai ucciso Krumaag sotto gli occhi della regina e quando hanno provato a prenderti ci sono volute ben dieci guardie! Fantastico!»Darius non gli prestò ascolto. Posò i piedi nudi sul pavimento e si

alzò. Era stato lavato e ricucito, indossava solo delle corte brache di lino. Fece qualche passo nella stanza, guardandosi intorno ancora intontito.«Come si esce di qui?» chiese, incrociando gli occhi del vecchio.«Uscire?» l’uomo corrugò la fronte confuso.«Devo andarmene da questo posto» l’anduriano si avviò verso la

porta ma Clemio lo trattenne per un braccio. Le dita gli cinsero il polso in una morsa d’acciaio.«Lasciami…» La voce del guerriero si indurì e le nuvole che

velavano la sua vista vennero soffiate via dal vento. Voltò il capo in direzione del servo, che sostenne il suo sguardo, inamovibile.«Dove credi d’andare, lanciere?» Clemio gonfiò il petto e il suo volto

si fece minaccioso. «Oltre le mura di questa stanza c’è una città piena di daelish. Quanto lontano pensi di poter arrivare? Vuoi farti ammazzare? Il principe ha già salvato la tua vita una volta, non essere stupido.»«Lanciere?» Darius sciolse i muscoli delle spalle e la tensione parve

scivolare oltre la soglia della stanza.Clemio lasciò la presa e sorrise. Armeggiò con i lacci che chiudevano

la camicia e si scoprì il petto. Un sole d’inchiostro fiammeggiava all’altezza del cuore.«Il mondo è piccolo, anduriano.»Un rumore di passi nel corridoio interruppe la loro conversazione.

Darius arretrò, lo sguardo fisso sulla porta aperta. Due daelish in

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armatura entrarono nella stanza e si disposero ai lati della porta. Gli occhi color cremisi ardevano sotto le visiere degli elmi. Un terzo pelle grigia scivolò nella stanza, il mento alto e le mani incrociate dietro la schiena. Indossava un corpetto di cuoio nero e pantaloni aderenti che ne slanciavano la figura.«E così il nostro guerriero si è ripreso, bene.» Il daelish si fermò

davanti a Darius e i due si fissarono per un istante che parve infinito. «Io sono Morrein, principe di Xendria ed erede al Trono del Sangue. Hai reso uno splendido servigio alla Madre Kalessania. Sua Maestà la regina è rimasta senza parole, in tutta la mia vita non avevo mai visto un’aura così intensa avvolgere la statua. Questo ti fa onore, sarai un ottimo servitore. Come ti chiami?»L’anduriano non rispose. Lanciò una breve occhiata al suo fianco,

dove Clemio era arretrato di un passo e aveva chinato il capo in modo reverenziale, poi posò lo sguardo sul viso del principe. Una cresta di capelli bianchi gli solcava il cranio e la pelle aveva sfumature di grigio che rendevano i lineamenti impercettibili.Morrein sorrise, il sorriso freddo e distaccato di colui che sa di

poter avere tutto.Alla vista di quei denti così bianchi e perfetti, Darius venne

percorso da un brivido. Una scarica gelida risalì lungo la spina dorsale fino alla nuca. Serrò i pugni con tale veemenza che le nocche sussultarono.Aveva lottato e graffiato come una bestia in gabbia, aggrappandosi

alla vita poiché era tutto ciò che gli restava. Qualcosa però si era insinuato nella sua testa, aveva strappato le ragnatele e scoperchiato le bare in cui erano sepolti i ricordi, il dolore incolmabile per le sue perdite.La vita senza la sua famiglia non era altro che una manciata di

sabbia, stretta nel palmo di un nuovo oppressore. Sabbia in attesa di essere soffiata via dal vento.Osservò Morrein e il tempo parve cristallizzarsi.«Il mio nome è Darius e non sarò mai il tuo fottutissimo schiavo.»

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VNessuno può controllare il tempo. Può essere rapido, spingere gli

uomini verso il baratro senza dare loro la possibilità di risalire, oppure scorrere lento, così lento che a volte gli attimi durano quanto interi anni e alla fine non restano altro che i ricordi.Darius era rimasto lì, in quella stanza senza finestre, con la sola luce

del cristallo a guidarlo nel labirinto della sua memoria. Aveva atteso a lungo, consumato senza appetito pasti che gli erano stati portati da Alatea, e sognato il volto di Galeen, il suono della sua risata. Aveva visto se stesso in piedi sulla scogliera di Andurian, stringere tra le braccia Antioch mentre il mare ruggiva, il vento ululava tra le rocce e sfiorava le vallate sempre verdi.Aveva atteso fino a quando il cigolio dei cardini della porta e il

rumore dei passi nella stanza fecero irruzione nei suoi pensieri.«In piedi.» La guardia lo fissò con occhi gelidi. Un secondo soldato

attendeva nel corridoio. Le loro armature sembravano assorbire il bagliore dei cristalli luminosi per poi deviare la luce verso gli angoli bui della stanza.Darius sbuffò e si alzò, senza degnare gli armigeri di uno sguardo.

Calzò i sandali e si lasciò condurre lungo la fitta rete di corridoi che si estendeva nel sottosuolo. Figure rimbalzavano da un capo all’altro, lo sguardo basso, confondendosi tra le ombre.«Da questa parte.» Uno dei daelish lo spinse verso una rampa di

scale sulla sinistra. Salirono i gradini e l’eco dei loro passi si perse tra i tunnel del sotterraneo. L’anduriano sentì il profumo dell’aria fresca diventare più forte, pizzicargli le narici e farsi largo nei polmoni mentre saliva di gradino in gradino. Con una mano si fece scudo dalla luce solare quando raggiunse il vertice della scalinata. Lottò contro il chiarore del giorno per alcuni istanti, poi i suoi occhi si abituarono. Spinto da una delle guardie, varcò un arco che fungeva da accesso ai sotterranei ritrovandosi in un ampio cortile alberato.

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Il principe dei daelish era lì ad attenderlo, seduto su una panchina di marmo a osservare lo zampillo cristallino di una fontana. Alla vista di Darius si mise in piedi, austero e perfetto nel suo completo di pelle nera, e gli andò incontro.«Spero che il soggiorno nella mia tenuta sia di tuo gradimento,

anduriano.»«Sono stato in fogne peggiori» Darius avvertiva il peso degli sguardi

dei due soldati alle spalle trafiggergli la nuca «Perché mi hai mandato a chiamare? Vuoi mostrarmi il resto della casa? Oppure vuoi che ti ripulisca il fondo della fontana, padrone?» aggiunse il lanciere, indicando con un dito la vasca al centro del cortile.Lo scrosciare dell’acqua rimbalzava da una parte all’altra del cortile,

mentre il sole di mezzogiorno cadeva a picco sulle loro teste.Il principe Morrein fece una smorfia e gli camminò intorno. Il

daelish era alto, la figura slanciata e atletica.«Ti sottovaluti» il principe si fermò alle sue spalle e la voce assunse

un tono mellifluo. «Ti ho visto nell’Arena. La statua della Madre trasudava energia. Hai un talento innato per la strage, sarebbe uno spreco usarti per spazzare le foglie secche dal mio cortile.»Il daelish riprese a muoversi intorno a Darius. Morrein inspirò a

pieni polmoni, assaporò l’aria, poi sorrise snudando denti color avorio. La pelle era grigia come la pietra e una ragnatela di capillari blu affiorava sotto di essa. «Amo la primavera, è la mia stagione preferita. La più bella, non trovi? Parlami di Andurian, come è la tua terra in questo periodo dell’anno?»Darius si strinse nelle spalle. «La primavera? Verde… dove vuoi

arrivare, sanguisuga?»«Ah, hai ragione. Perché sprecarsi in chiacchiere quando il tempo a

nostra disposizione non è poi così tanto?» Morrein si accarezzò il mento, affilato come una daga. «Sai che cos’è il Trionfo degli Dei?»Darius si morse il labbro e annuì, gli occhi fissi in quelli del principe.«Bene.» Il daelish fece un cenno e le guardie si affiancarono

all’anduriano. «Alla prossima edizione dei giochi io avrò il mio asso

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nella manica. Tu guiderai la mia squadra alla vittoria e mi darai la gloria e tutto il reiv che mi spetta! Ah sì, caro anduriano, tu sarai il mio campione.»Prima che Darius potesse dire o fare qualcosa, Morrein gli aveva già

voltato le spalle. Il mantello oscillò mentre si dirigeva verso il porticato che avvolgeva il cortile.«Conducetelo subito al campo di addestramento, la competizione

inizia tra dieci giorni.»Darius venne scortato all’esterno della tenuta, tra i vicoli e le strade

in lastricato che dominavano Xendria. Gli edifici erano spessi blocchi di pietra e metallo che si stagliavano contro il cielo, simili a giganti monolitici. Freddi come gli abitanti della città. I daelish si muovevano in quel labirinto urbano senza prestargli attenzione. I capelli bianchi raccolti in trecce, la pelle del colore della grafite.Camminarono per alcuni minuti, tempo che Darius sfruttò per

memorizzare la strada e imprimere nella testa più particolari possibili di quel luogo a lui sconosciuto. Le guardie erano ombre ai suoi fianchi, i volti celati dalle visiere degli elmi. Uno dei due soldati lo strattonò per un braccio e i tre imboccarono una strada che si faceva largo tra la massa di costruzioni. Il lastricato cedette il posto a una superficie ciottolosa e irregolare, e l’eco del cozzare delle armi riempì l’aria.Una melodia che Darius conosceva molto bene.Al termine dello stradone, limitato da alberi dai tronchi neri e dalle

foglie acuminate, si ergeva un muro assediato dai rampicanti. Il lanciere e i suoi accompagnatori varcarono l’ingresso, una mastodontica volta di granito, al di là del quale uno spiazzo si allargava a vista d’occhio, circondato da portici mal ridotti e colonne di pietra. A decine, i gladiatori si allenavano sotto un sole impietoso, le schiene sudate e i muscoli gonfi, mentre le lame smussate balenavano e si incrociavano tra loro.«Verremo a prenderti al tramonto» la guardia gli lasciò andare il

braccio e il sangue riprese a scorrere dove era stato frenato dalla

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morsa del guanto d’acciaio «Cerca di non creare problemi, o te ne pentirai».I soldati si allontanarono dal campo di addestramento, ripresero la

strada da cui erano giunti, lasciando Darius lì, gli occhi fissi su quelle scene che lo riportavano con la memoria ai tempi dell’Accademia. Era confuso, disorientato, poi il suono profondo, gutturale, di qualcosa che aveva la pretesa d’essere una voce lo riportò alla realtà.L’essere avanzò a passi larghi nella sua direzione. Il petto nudo e

ampio rivelava muscoli esplosivi, prigionieri di una corazza di scaglie e pelle ruvida come la corteccia di un albero. La testa, più piccola rispetto al resto del corpo, era incassata nelle spalle e il volto non aveva nulla di umano. Occhi giallo oro, dalle iridi nere ed ellittiche, incrociarono quelli di Darius.Uno skaar.«Sei sordo o stupido?» Le fauci del gladiatore si mossero, snudando

denti che avrebbero potuto staccare il braccio di un uomo con un solo morso. «Sei tu il nuovo arrivato? Il tizio che ha ammazzato quel cane di Krumaag?»«Penso di sì» rispose Darius.Aveva sentito parlare degli uomini rettile, razza che popolava le

roventi lande del sud, della loro società divisa in clan in costante guerra tra loro e della loro ferocia in battaglia, ma era la prima volta che si trovava al cospetto di uno di essi e non poté fare a meno di sentirsi come un bambino ai piedi di un gigante.Lo skaar studiò l’anduriano, poi tese la mano a tre dita. «Ti facevo

più grosso. Io sono Teero e sono quello che comanda qui.»«Non avevo dubbi» Darius esitò, poi ricambiò la stretta.Tirò un sospiro di sollievo nell’avere indietro la mano.«Bene» lo skaar annuì e si fece di lato allargando un braccio. «ho

solo dieci giorni per fare di te un vero guerriero. Mettiamoci a lav…»«Tu!» un grido sovrastò il clangore delle armi. I gladiatori

interruppero l’allenamento e le teste si voltarono all’unisono in direzione della voce.

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Un uomo sbucò da un’uscita posta all’estremo opposto dello spiazzo, seguito da una schiera di altre figure. Una cascata di capelli color oro gli ricadeva sulle spalle nerborute e il rumore di stivali e ferraglia scandiva i passi pesanti mentre puntava diritto contro Darius.«Non voglio problemi nel mio campo, Korvald» Teero si mosse, ma

l’uomo lo ignorò. Gli occhi azzurri incrociarono quelli del lanciere, occhi che lui aveva la sensazione di conoscere già.«Io ti sbudello, figlio di puttana» Korvald accelerò il passo,

sollevando nuvole di terra sotto gli stivali. Evitò una manata dello skaar e si avventò contro Darius.L’anduriano scattò un istante prima che la daga apparisse nella

mano del suo aggressore. I muscoli reagirono all’adrenalina dilagata nel corpo, rapidi come il battito del cuore. Fece un passo di lato, evitando l’affondo che sventrò l’aria, e bloccò un secondo attacco diretto alla sua gola. Cinse le dita intorno al polso di Korvald e gli torse il braccio proiettandolo in aria.Il nordico si sfracellò al suolo come una bambola di pezza.Darius afferrò la massa di capelli biondi e strattonò il capo

dell’avversario. Fece scivolare la daga, che nel frattempo era finita nell’altra sua mano, sotto il mento barbuto di Korvald e ringhiò, pronto a sgozzarlo, quando Teero intervenne.«Fermo!» Dita squamose arpionarono il braccio di Darius in una

morsa che lo fece desistere. «Basta così, gli hai dato una bella lezione.»Il lanciere fece qualche passo indietro, il cuore gli batteva

all’impazzata.Lo skaar si girò verso Korvald, sollevando minaccioso un pugno. Il

bicipite parve sul punto di esplodere.«Quanto a te… non azzardarti mai più a mettere piede nel mio

campo o ti stacco la testa. Intesi?»Il nordico si rimise in piedi, aiutato dai compagni accorsi al suo

fianco. Si reggeva il braccio dolorante con l’altra mano.

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«Non finisce qui» sibilò, il volto paonazzo per la collera.Darius osservò il gruppo di uomini voltargli le spalle e allontanarsi,

poi lo skaar gli assestò una pacca sulla spalla.«Chi è quel tizio?» chiese, porgendo la daga per il manico all’uomo

lucertola.«Korvald» grugnì Teero, mentre le spade d’allenamento

riprendevano a cozzare e incrociarsi alle loro spalle «Il bastardo che hai ucciso nell’arena era suo figlio. Ti sei fatto ufficialmente un nemico.»«Dovevi lasciare che lo finissi, allora.»«Non oggi, anduriano. Non oggi.»

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VILa tunica era intrisa di sudore e polvere. Sussultò a ogni passo, i

muscoli indolenziti e dilaniati dalla stanchezza. “A domani, novellino” la voce gutturale di Teero riecheggiò nella sua testa mentre percorreva il viale alberato che dal campo di allenamento portava al labirinto di mattoni e metallo della città. Le guardie daelish erano ombre d’acciaio al suo fianco.Darius si lasciò cingere dal tiepido abbraccio del tramonto. Il sole

era una sfera distorta di luce che declinava verso le creste delle torri e degli edifici, riflettendosi sui vetri e trasformando Xendria in un bastione infuocato.Rosso, come il sangue così bramato dai suoi abitanti.L’anduriano imboccò la via lastricata che risaliva la città fino alla

tenuta del principe. Le insegne di locande e botteghe, i lampioni di celion ancora assopiti e le panchine di marmo, dettagli di quei luoghi memorizzati durante il tragitto d’andata, ora riaffioravano nella sua testa, diventando certezza. Considerò la posizione del sole, la sagoma delle montagne color lavanda in lontananza e ipotizzò di trovarsi nella parte nord di Xendria.Le mura che circondavano la dimora del principe Morrein si

stagliavano nel cuore della città con i loro mattoni scuri e le colonne levigate. Il palazzo si ergeva in tutta la sua imponenza contro un cielo sfumato di rosa e arancione. All’interno del cortile, figure silenziose si apprestavano a ultimare le proprie faccende, incalzate dal calar del sole.«Fai ritorno al tuo alloggio» la voce del soldato era un sibilo gelido e

distaccato che filtrava attraverso le fenditure dell’elmo.Darius annuì.Stretti nelle loro armature, i daelish assomigliavano a statue che

trasudavano fierezza.

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«Sei in grado di trovare la strada da solo domani?» domandò il pelle grigia.L’anduriano scrollò le spalle, celando le proprie emozioni dietro

una maschera di indifferenza e impassibilità.«Sua Maestà il principe ritiene che tu sia meritevole di fiducia»

continuò il daelish, la schiena dritta contro l’orizzonte «potrai muoverti liberamente per la città, ma dovrai far ritorno a palazzo dopo gli allenamenti. Ogni sera una pattuglia verrà a controllarti. Rispetta le disposizioni e non avrai problemi.»Darius fece un rapido cenno d’assenso e si voltò, diretto verso

l’ingresso del sotterraneo.Varcò la soglia e le sue labbra si dischiusero in un ghigno. Sfiorò il

corrimano di legno mentre scendeva le scale, seguendo la scia dei cristalli luminosi incastonati nelle pareti. L’odore di vecchio e di muffa lo investì appena raggiunse il livello inferiore.Si addentrò nella fitta rete di corridoi, diretto verso la sua camera,

quando avvertì l’eco di passi alle sue spalle. Una figura scura si mosse nel tunnel e occhi blu danzarono nella penombra come fuochi fatui.«Come va la tua ferita, lanciere?» Clemio sorrise, il volto scavato

ricoperto da una curata barba bianca.«Noi due dobbiamo parlare» Darius mise da parte l’indolenzimento

che gli segnava il corpo e l’esigenza di ripulirsi e gettarsi sul giaciglio. La sua mente era torturata da dubbi che non riusciva a sciogliere.«Parlare?» il vecchio assunse un’espressione interrogativa «Perché

mai dovrei sprecare il mio tempo con un caprone come te?»«Senti…» Darius fece un passo in avanti e afferrò il braccio di

Clemio.«Che c’è? Non ti è bastata la giornata al campo di addestramento?»

L’uomo non parve intimorito, le labbra si contrassero in una smorfia e gli occhi baluginarono di una strana luce. «Non farti ingannare

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dalle apparenze. Potrei prendere a calci il tuo sedere per tutto il sotterraneo.»«Scusa» l’anduriano lasciò andare la presa e abbassò lo sguardo. Si

grattò la testa con una mano e sospirò. «Non so che cosa mi è preso, ma devo capire. Quando mi hanno portato qui dall’arena io ero messo male, tu… tu mi hai fatto bere quell’intruglio. Che roba era?»Clemio si guardò alle spalle, poi prese Darius per un braccio e disse:

«Vieni, seguimi, ti faccio vedere una cosa.»Gradini logorati dal tempo scendevano verso il livello più profondo

del sotterraneo. I cristalli luminosi lasciarono il posto all’oscurità, e lo squittio dei topi che popolavano le crepe nelle pareti si fece insistente. Una porta di metallo divorata dalla ruggine concludeva la discesa. Clemio scelse una chiave dal mazzo legato alla cintura e la infilò nella toppa. Due giri completi e la serratura scattò.«Ahh… casa dolce casa» esclamò il vecchio, spalancando il battente

e invitando Darius ad accomodarsi.«Non mi dire che vivi in questa topaia» l’anduriano guardò

perplesso l’uomo prima di varcare la soglia.L’alloggio di Clemio era buio e, quando questi richiuse la porta alle

loro spalle, l’oscurità divenne ancora più impenetrabile.«Almeno qui nessuno viene a impicciarsi degli affari miei» sbuffò

l’altro.Clemio armeggiò alla cieca con qualcosa di metallico all’ingresso. Lo

scatto di una leva e il cigolio di ingranaggi arrugginiti anticiparono l’esplosione di luce all’interno della stanza.Darius rimase senza parole.Le pareti erano tappezzate da pergamene consunte e ricoperte

d’inchiostro. Mappe, disegni e parole, centinaia di migliaia di indecifrabili parole, scagliarono il lanciere verso una dimensione surreale in cui il tempo parve essersi fermato.Darius si accostò a un muro, rapito da quelle iscrizioni sbiadite. La

scrittura era fitta, non concedeva spazi, e la grafia, precisa e

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ordinata, gli ricordava i testi di storia e geografia studiati all’Accademia.«Non toccare niente» ringhiò Clemio.Il vecchio si avvicinò al camino incassato nella parete e accese un

fuoco con la scintilla di un acciarino di magnesio. Versò dell’acqua in un pentolino e lo pose sulla fiamma, poi frugò in una tasca del mantello ed estrasse delle foglie color amaranto. Le frantumò tra le dita e lasciò cadere i pezzi nel bollitore.«Gradisce dell’infuso di smerling, signore?»Darius osservò l’espressione ironica sul volto del padrone di casa e

sorrise, declinando l’offerta con il capo. Provò una sorta di indolenzimento alla guance quando queste si incresparono. Aveva perso l’abitudine a sorridere e si meravigliò di se stesso nel sapere che era ancora in grado di farlo.«Eri uno studioso della Torre del Sole?» chiese, avvicinandosi al

fuoco.L’acqua all’interno del pentolino gorgogliò e tentacoli di fumo

marrone si levarono verso l’alto.«Clemio O’Rednar, Consigliere del Senato Accademico di Andurian,

al tuo servizio.» rispose l’altro, togliendo l’infuso dal fuoco e versandosene una tazza.Darius prese uno sgabello di legno e si accomodò. «Cosa ti è

successo? Come hai fatto a finire in queste… queste…»«…condizioni?» il volto di Clemio si increspò in un sorriso carico

d’amarezza. Soffiò sopra il liquido scuro e poi ne trasse un sorso. «La ricerca della verità. Ho abbandonato la nostra terra più di vent’anni fa ormai. Per anni ho studiato le scienze, la medicina, la storia… una vita dedicata alla ricerca e all’odore delle pagine ingiallite dei libri. Il sapere era diventato per me un’ossessione, così come lo era stato per il mio maestro. Li avevo avvertiti. Io l’avevo detto al Consiglio che Caio Settimo non avrebbe tardato a colpire anche noi, che ci sarebbe piombato addosso con tutto il suo esercito, ma non mi hanno dato ascolto. Dovevamo trovare un modo per fermarlo, per

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salvare la nostra gente, la nostra terra. Hanno detto che ero un folle e che i miei studi erano visionari. Miti e leggende che non ci avrebbero fatto vincere la guerra contro l’Impero. Non hanno fatto altro che consegnarci all’Impero. Le mani del Senato sono sporche del sangue di Andurian.»Darius sorrise con amarezza. «Ho già sentito queste parole.»Clemio corrugò la fronte.«Mia madre era membro del Consiglio. L’unica donna eletta al

Senato di Andurian.»«Tu… tu sei il figlio di Leyna?»Il lanciere annuì, passandosi una mano sul cranio rasato.«Una donna d’acciaio, forte… molto più forte dei tanti burocrati

della Torre» il vecchio sbarrò gli occhi. «Un momento… era? Cosa le è accaduto?»«Quando Caio Settimo ha iniziato a deportare la nostra gente, lei ha

radunato tutti i dissidenti e guidato la lotta. La Colomba Bianca ha resistito.» Darius sollevò il mento, incontrando lo sguardo dell’accademico. «È morta, Clemio. Morta senza che io potessi fare nulla. L’hanno processata e bruciata viva ai piedi della Torre del Sole.»O’Rednar si alzò di scatto, le vesti nere frusciarono quando solcò a

grandi passi la stanza. Darius lo vide frugare tra le pile di pergamene e cianfrusaglie ammassate sui tavoli.Lo studioso afferrò un oggetto e lo sollevò all’altezza della faccia, gli

occhi sbarrati e vibranti di collera. Un frammento di roccia, nero come la morte che cala sugli uomini e rende la terra sterile.Celion.«Lo vedi? È per questo che noi moriamo. Un minerale… un semplice

frammento come questo ha più valore della vita di cento persone. L’Imperatore lo vuole, è disposto a tutto per controllare ogni miniera, ogni singolo buco sulla faccia della terra che gli permetta di estrarre celion.» O’Rednar si accarezzò la barba, scosse il capo. «L’uomo è stato sempre schiavo delle risorse: legno, carbone, fino al

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petrolio, l’oro nero. Il pianeta venne spremuto come un limone, i giacimenti di petrolio andarono lentamente esaurendosi, e questo ebbe conseguenze gravissime…»«La Caduta…» sussurrò Darius.L’accademico annuì, rassegnato. «Le alleanze crollarono, le grandi

nazioni si mossero guerra l’una contro l’altra, e milioni di persone morirono. Un cataclisma di proporzioni infinite. Ma proprio mentre tutto sembrava volgere al termine, proprio mentre l’esaurimento dei pozzi d’oro nero poteva riportare la pace, arrivò il celion. Gli stessi strati di roccia porosa che per milioni di anni avevano contenuto il petrolio si erano alterati, le pareti di pietra nei giacimenti erano diventate nere. E preziose.» Il vecchio strinse la pietra nel pugno con forza, contrasse la mascella «Non è cambiato nulla, Darius. Celion significa energia, ed energia vuol dire potere.»Clemio scagliò con rabbia il minerale contro la parete sopra il

camino. Il frammento scalfì i mattoni, ma non si ruppe. Rimbalzò sul pavimento in un tintinnio metallico fino a toccare le punte dei sandali di Darius.Il lanciere fissò la pietra, nera come un pozzo senza fondo in cui

ebbe la sensazione di precipitare.«Cosa accadrà poi?» sussurrò nel raccogliere il frammento. Lo

sollevò contro luce, stretto tra l’indice e il pollice. «Cosa accadrà quando non ce ne sarà più? Quando l’Impero avrà attinto fino all’ultimo giacimento? Non dimenticherò mai quello che Caio Settimo ha fatto agli anduriani, quello che ha fatto alla mia famiglia. Mia moglie, mio figlio…» Darius chinò il capo. Strinse i pugni, costringendosi a ricacciare indietro il dolore. «L’Impero si è preso tutto. Ero insieme ad altri prigionieri, ci stavano trasportando verso un campo di concentramento quando i predoni hanno attaccato il convoglio. Ho visto donne e bambini con le mani distrutte, le dita martoriate da vesciche a furia di scavare.»«Anareth, il mio maestro, aveva ragione.» Clemio strappò una carta

dalla parete e si inginocchiò al cospetto di Darius. Il vecchio

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sembrava totalmente folle, eppure i suoi occhi cercavano approvazione, condivisione. «La storia si ripete… i cicli sono continui, l’uomo nasce, cresce e vive per farsi la guerra, per piegare i più deboli. Il nostro tempo sorge dalle ceneri del passato. Guarda, riesci a leggere questa mappa?»Darius annuì.«Noi ci troviamo qui.» Lo studioso puntò il dito calloso su una

macchia d’inchiostro che rappresentava le terre occidentali e lo mosse sulla cartina, tracciando una linea retta. L’unghia grattò la pergamena. «I daelish l’avevano promesso… dovevo guidarli dall’altra parte del Grande Mare alla ricerca del nostro passato. Mostrai a re Xvrin gli appunti di Anareth che avevo portato con me da Andurian, e lui mi diede la sua parola.»«Di che stai parlando?» allo sguardo delirante di O’Rednar, Darius

corrugò la fronte e si allungò sullo sgabello, scuotendo il capo, frastornato.«Anareth raccolse fondi per una spedizione segreta. All’epoca io ero

troppo giovane per imbarcarmi sul sottomarino che partì dal porto di Lydra alla volta del Grande Mare. Vi erano trenta uomini a bordo, ma solo uno di loro fece ritorno. Il superstite portava con sé questo.»Clemio infilò una mano nella tunica, estrasse un taccuino dalla

copertina di pelle nera e gli angoli consunti. Lo posò sul tavolo, proprio sotto il naso di Darius, poi prese un altro sorso di infuso e si schiarì la voce.«Gli era stato dato da Anareth affinché io vedessi, affinché io

continuassi a cercare. La Torre del Sole non avrebbe mai appoggiato i miei studi… conosciamo entrambi il Senato Accademico e il mondo di certezze che si sono illusi di costruire. Il taccuino è la chiave per leggere il passato dell’umanità, e io avevo il dovere di proteggerlo. Cosa sarebbe accaduto se fosse finito nelle mani di Caio Settimo? Ben presto compresi che dovevo allontanarmi dalla Torre. Iniziai a scrivere lettere al sovrano dei daelish. Re Xvrin aveva studiato all’Accademia, aveva trascorso dieci anni della sua gioventù ad

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Andurian. Accettai il suo invito e venni a Xendria con un nuovo spirito, ma quando una notte il cuore del sovrano smise di battere, mi ritrovai a pulire i pavimenti come uno schiavo. La regina è diversa, lei vive per il reiv…»«La loro società si fonda sul consumo di una droga e sul sacrificio

umano» affermò Darius, ma Clemio agitò le mani interrompendolo.«Non una droga, di più. Tu l’hai provato… te l’ho fatto bere, non

pensavo producesse gli stessi effetti sull’uomo e invece sei guarito. I tuoi tessuti si sono rigenerati. Serve il sangue umano per ricavarlo. L’hai visto con i tuoi stessi occhi, l’arena è solcata da canali che fanno affluire il plasma alla statua. Non so spiegarti come, non mi hanno mai permesso di avvicinarmi a essa così tanto da poterla studiare, ma una cosa è certa: non viene dal nostro mondo. La pietra in cui è stata scolpita la Dea Kalessania cadde sul nostro pianeta quando i daelish vivevano ancora sottoterra e avevano paura del sole.»«Un meteorite?»Clemio fece un lento cenno d’assenso e disse: «Un frammento, ciò

che resta di un corpo celeste che ha attraversato l’universo e terminato il suo viaggio nella nostra atmosfera. Alla Torre del Sole avrei avuto l’occorrente per analizzare gli strati di quella roccia, qui invece…»Darius si sfregò la fronte, le dita sfiorarono la cicatrice. L’immagine

della scultura di Kalessania avvolta dall’aura purpurea lo riportò con la mente all’arena.«Morrein vuole farmi combattere al Trionfo degli Dei.»Clemio annuì e tornò a sedersi vicino al camino. Le emozioni che

avevano pervaso il vecchio si erano dissolte, lasciando il posto a un volto segnato dal tempo.«Se vuoi uscirne vivo, allora dovrai colpire più forte degli altri,

lanciere. Il Trionfo degli Dei è un massacro.»«Io non combatto per loro, non mi faccio ammazzare per dare

spettacolo.» Darius serrò i pugni e le nocche divennero bianche.

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I due anduriani rimasero in silenzio, il peso delle loro esistenze che gravava sulle spalle come una montagna. L’aria nella stanza si fece opprimente e pervasa dalla sofferenza causata dai ricordi.«Cosa è successo alla tua famiglia?»Darius scosse il capo. Porse il frammento di celion a Clemio e si

alzò, dirigendosi verso l’uscita. Afferrò la maniglia arrugginita e attese per un istante prima di aprire i battenti.«Devo andarmene da questa città» sussurrò, lo sguardo fisso sulle

crepe che percorrevano la porta.«È impossibile fuggire.»«Ci deve essere un modo» Darius fu inghiottito dalle ombre del

tunnel quando varcò la soglia della stanza. La porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo che echeggiò a lungo nel sotterraneo.Clemio O’Rednar rimase immobile con lo sguardo inchiodato sui

battenti arrugginiti, incapace di parlare, di pensare, di respirare. Era pietrificato, nient’altro che una statua impolverata e ricoperta di muffa ad arricchire l’arredamento cadente del suo alloggio. Le parole di Darius erano un’eco lontana nella testa, un suono che rimbalzava da una parte all’altra risvegliando ricordi smarriti negli angoli bui della mente. Rivide se stesso in un tempo lontano, nascosto nella stiva di una navetta di contrabbandieri e diretto a Xendria. Era un giovane studioso all’epoca, armato solo della speranza, e del taccuino.Sbatté le palpebre, abbassò con lentezza il capo.In una mano stringeva ancora il pezzo di celion, nell’altra gli

appunti di viaggio del suo maestro. Anareth, Custode del Sapere di Andurian, uomo di fede e di scienza. Un giusto che aveva dato la sua vita in difesa dei più deboli. Anareth Tendrav, il padre della Colomba Bianca.Clemio si voltò di scatto, scagliò celion e taccuino verso il tavolo, e

attraversò la stanza fino a una parete tappezzata di fogli ingialliti. Si piegò sulle ginocchia e strappò con furia le carte affisse, liberando un mosaico di mattoni vecchi e corrosi dall’umidità. L’anduriano

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fece scorrere i polpastrelli sulla superficie ruvida fino a un punto in cui la pietra traballò. Trattenne il respiro e si guardò alle spalle, quasi ad accertarsi di essere davvero solo, poi infilò le dita nelle crepe del muro, estrasse il mattone e lo depose sul pavimento. Uno squarcio buio segnava la parete, largo a sufficienza per infilare un braccio, per custodire il suo segreto.L’accademico srotolò l’involucro di stoffe sbiadite che ora stringeva

tra le mani. Un oggetto di metallo dalla forma prismatica gli scivolò sul palmo, e il freddo gli penetrò nella pelle, gli attanagliò le ossa risalendo fino al gomito e causandogli un fremito. Clemio si rimise in piedi, camminò da un capo all’altro della stanza fissando l’oggetto nel pugno e grattandosi la barba, poi si arrestò, afferrò una sedia per la spalliera e si mise a sedere.Non funzionerà, si disse, non può funzionare.Pigiò un bottone nero posto alla base del trasmettitore e una spia

luminosa si accese, emanando una vivida luce azzurra, simile al pulsare di una stella nel cielo d’inverno. Il display impolverato segnava una sola tacca d’energia. Adagiò con cura il comunicatore sul tavolo e da piccoli fori, posti a ciascun lato della periferica, fuoriuscirono delle antenne che si allungarono verso l’alto.In un istante l’alloggio di O’Rednar si riempì di un suono graffiante,

un ronzio metallico. L’accademico armeggiò con una piccola manopola circolare, la ruotò prima in un verso, poi nell’altro, le orecchie tese alla ricerca della frequenza giusta, fino a quando il rumore di sottofondo tacque.Clemio si lasciò andare sulla sedia, dischiuse le labbra e parlò al

ricevitore: «C’è qualcuno in ascolto?»Attesa, poi silenzio.«Mi sentite? Siete in ascolto?»Un sibilo anticipò la voce: «Codice identificativo.»Parole secche, dirette, che strapparono un sorriso sul volto

dell’anduriano.«Conoscenza» si affrettò a rispondere.

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Ancora silenzio.«Clemio O’Rednar?» la voce dall’altra parte parve esitare.Il vecchio si strinse le ginocchia.«Ho un messaggio… un messaggio importante. Dite a chi comanda

ora che il progetto Titan continua. Ripeto: Titan non è morto.

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VIIDarius arrestò la corsa della lama con lo scudo. La spada a due mani

del suo avversario vibrò contro il bordo del disco di bronzo in una pioggia di scintille. L’urto fu così violento che una scarica di dolore risalì dal polso al resto del braccio. L’anduriano strinse i denti e continuò a muoversi, pronto a far guizzare la sua daga come un fulmine in pieno giorno.Dopo nove intere giornate trascorse sul campo di addestramento

del principe Morrein a sudare e sanguinare insieme agli altri gladiatori, aveva imparato a conoscere i punti di forza e debolezza dei compagni di squadra. Omyang, il combattente che ora aveva davanti, era un energumeno dell’est alto più di sei piedi. Le braccia erano così forti che avrebbero potuto spezzare la schiena di un orso con un abbraccio. Gli affondi di Omyang erano potenti, toglievano il respiro ogni volta che la lama cozzava con lo scudo, ma erano lenti e prevedibili. Il gladiatore dagli occhi a mandorla si concentrava solo sulla forza bruta, penalizzando la resistenza.Darius lo sapeva e per questo si divertì a farlo danzare.Si muoveva intorno all’avversario con agilità, offrendogli una parte

del corpo da colpire e parando poi l’attacco.Gli altri schiavi si erano disposti in cerchio per assistere allo

scontro. Urlavano e si sbracciavano, incitando una volta l’uno e una volta l’altro duellante. Teero era una statua di scaglie e muscoli. Le braccia incrociate sul petto e gli occhi da rettile fissi sui suoi uomini.«Forza, Om! Che aspetti a finirlo? Non vedi che è cotto?» Gridò

qualcuno tra i gladiatori.Sotto l’elmo la fronte di Darius era madida di sudore, le gocce

scivolavano lungo il volto rimanendo impigliate alla barba. La schiena nuda era battuta dal sole di Xendria che incendiava l’aria.L’anduriano studiava il suo avversario, ne percepiva la stanchezza,

l’affaticamento che cresceva a ogni affondo. I fendenti poco alla volta

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persero di potenza e il respiro di Omyang si fece pesante, affannato. Un toro che aveva provato a lungo incornare un bersaglio invisibile. Il gladiatore sollevò nuovamente la spada a due mani per colpire.Adesso, pensò Darius.Si piegò sulle ginocchia e la lama del rivale passò poco sopra il

rostro del suo elmo. Colpì Omyang in pieno petto con lo scudo, costringendolo ad arretrare di un passo, poi ruotò la daga nell’aria e gli piantò il manico nella faccia.Un crack a cui seguì il fiotto di sangue sulla cotta di maglia.«Pezzo di merda, mi hai rotto il naso!» l’energumeno lasciò cadere

l’arma e si portò le mani al volto.I gladiatori che assistevano al duello proruppero in una fragorosa

risata corale.«Andiamo» esclamò Darius, nel riprendere fiato «è solo un

graffio…»Sorrise, poi i suoi occhi colsero la figura spettrale di Clemio al

margine del campo. La sagoma stretta nella lunga tunica nera era un’ombra contro le mura di cinta.«Io finisco qui per oggi» l’anduriano slacciò lo scudo, tolse l’elmo e

lo porse a Teero.«Dove credi di andare? Non è ancora calato il sole! Torna indietro,

domani c’è il Trionfo degli Dei!» gli urlò dietro l’uomo rettile, ma lui non gli diede ascolto.Deterse il sudore dalla fronte con un braccio e raggiunse a passi

lunghi il vecchio accademico che nel frattempo si era mosso verso l’ingresso della struttura.«Che ci fai da queste parti?» chiese il lanciere.«Ho pensato a quello che ci siamo detti alcuni giorni fa» rispose

Clemio. Due canali neri sotto gli occhi segnavano il volto già scavato. «Vieni, camminiamo insieme.»Darius affiancò l’anduriano lungo lo stradone acciottolato,

lasciandosi alle spalle il campo d’addestramento e le urla di Teero. Il cielo era così limpido che si poteva cogliere una macchina volante

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sparire al di sopra delle vette delle montagne che circondavano Xendria.«Allora?»«C’è un tizio all’arena» l’accademico increspò la barba che gli

ricopriva il mento, lo sguardo fisso sulla strada «uno che sembra fare proprio al caso nostro.»«Fare al caso nostro per cosa? Non ti seguo, vecchio.»«Non eri tu quello che voleva andarsene da questo posto?» chiese

O’Rednar a muso duro. «Non mi sembra che tu abbia fatto progressi al riguardo. Puzzi di sudore come tutti gli altri gladiatori, io invece mi sono dato da fare.»«Va’ avanti» lo incalzò Darius. Il sangue gli andò alla testa, ed ebbe

un fremito che gli incrinò la voce. Forse c’era davvero un modo.«Il Trionfo degli Dei è la nostra occasione. Domani tutti gli occhi di

Xendria saranno puntati sull’arena. I daelish attendono questo momento da un anno intero. La squadra vincente dona al suo padrone il sangue degli avversari, e questo vuole dire solo una cosa: reiv. Non c’è giorno migliore per colpire.»«I giochi si terranno in pieno giorno e, scusami se te lo ricordo, io

sarò sul campo a sputare sangue mentre migliaia di daelish incitano la mia morte. Come pensi che possa allontanarmi dall’anfiteatro senza essere visto?»Il sorriso di Darius gli morì sulle labbra quando vide la serietà

impressa sul volto dell’anduriano.«Cosa pensi accadrebbe se qualcosa andasse storto? La regina e

tutto il suo popolo che fremono per vedere la statua di Kalessania infiammarsi e trasudare reiv, mentre un branco di bestie si fa a pezzi nella fossa. Cosa credi che potrebbe accadere nell’arena se la Dea restasse indifferente al massacro? Se tutto ciò in cui i daelish hanno creduto venisse meno?»Darius non lo disse ad alta voce, eppure una parola echeggiò nella

sua mente: caos.

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«Esatto» Clemio gli diede un colpetto sulla spalla, come se gli avesse letto nella mente. «Proprio quello che stai pensando, e io so come fare. Per il momento non ti occorre sapere altro. Quando la luna sarà alta sopra le nostre teste, il mio amico ci guiderà nei livelli sotterranei dell’arena. Passeremo attraverso le fognature, faremo ciò che deve essere fatto e poi via, senza voltarci.»«Quanto è affidabile questo tizio?»«Garantisco io per lui. Lavora alla manutenzione delle condutture,

sua moglie era schiava della regina. Si era ammalata di febbre rossa e le tremavano di continuo le mani. Un giorno, mentre serviva a cena, le cadde un vassoio e sua Maestà andò su tutte le furie. Ricordo ancora la testa della donna infilzata sul braccio meccanico di Krumaag il giorno successivo nell’arena. Per un semplice servizio di porcellana, capisci? Il palazzo ne era pieno…»Gli occhi di Clemio luccicarono, i capillari erano lesioni che

minacciavano le iridi azzurre.«I daelish non rispettano gli altri esseri viventi. Siamo tutti pedine

nelle loro mani, dei giocattoli da rompere a loro piacimento» affermò Darius, con voce cupa. Nella testa gli balenarono le immagini di Andurian dopo la caduta. Le facce dei prigionieri, gli occhi privati dell’anima mentre attendevano in riga di essere deportati nei campi di lavoro a Emperia. I daelish non erano i soli che si arrogavano il diritto di spezzare i deboli.I due si addentrarono nei vicoli della periferia di Xendria. Un

daelish ubriaco, dalla testa solcata da una cresta di capelli blu, uscì di corsa da una locanda. Andò a sbattere contro Clemio e franò all’indietro sul lastricato.L’accademico piegò il capo in segno di scusa. La voce tremolante e

sommessa, mentre il pelle grigia gli inveiva contro, i capillari scuri che affioravano sulla faccia.Quando furono abbastanza lontani per non essere visti, Clemio

sputò a terra e bestemmiò tra i denti.«Sì, sarà un inferno…»

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«Lo spero.» Darius contrasse la mascella, poi posò una mano sulla spalla del compagno. I tetti di metallo della tenuta del principe Morrein erano specchi che riflettevano la luce solare al di sopra della città.«Ho fatto una promessa, vecchio. A me stesso, alla mia famiglia.

Sono disposto a rischiare tutto pur di mantenerla. Non mi resta altro che quella. Tu invece… sei uno schiavo, certo, ma almeno a Xendria sei al sicuro dall’Impero. All’esterno il mondo sta scivolando nell’oblio. Perché rischiare? Perché fuggire?»O’Rednar sorrise. Uno di quei sorrisi pervasi dalla profonda e

inconfutabile certezza che, nonostante ci si sforzi di ingoiare le delusioni e andare avanti, la vita si è già presa tutto quello che avevamo.«Lo faccio per Alatea» replicò l’accademico. «Suo padre era un mio

amico, l’amico migliore che io abbia mai avuto. Pardem il grande, il dominatore dell’arena. La sua fama valicava le montagne che cingono Xendria. In punto di morte mi fece promettere che mi sarei occupato della sua bambina. La ragazza non è come gli altri, Darius, lei… ha un dono, lei è speciale.»Clemio si fermò di colpo, scosse il capo. «Sono vecchio,

terribilmente vecchio. Cosa ne sarà di lei quando non ci sarò più io a prendermene cura? Un’altra serva da sacrificare nell’arena? Alatea viene con noi domani, comandante. Non la lascio qui.»Caio Settimo scrutava Xendria dall’alto di una montagna. Immobile,

al limitare di una spianata rocciosa, con il mantello scosso dal vento e lo sguardo ipnotizzato dalla prepotenza delle costruzioni daelish. Le torri si ergevano contro un cielo animato da una moltitudine di stelle, e i tetti di pietra e acciaio erano lambiti dalla luce argentea della luna. Da quella prospettiva gli sarebbe bastato allargare le braccia per cingere l’intera città con un unico e mortale abbraccio.Xendria e i suoi giacimenti di celion, i più ricchi nelle terre

occidentali. Gli ultimi per assicurarsi il dominio incontrastato.

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L’Imperatore inspirò e la brezza notturna filtrò attraverso gli inalatori della maschera di metallo, vorticando all’interno del casco. Socchiuse gli occhi, risollevato dalla carezza dell’aria sulla pelle livida, e tese le orecchie per ascoltare il silenzio della vallata. Nonostante lo sfavillare delle luci arancioni e blu che punteggiavano gli edifici in lontananza, la città sembrava essere scivolata in un sonno profondo, ignara della lama che premeva contro la sua gola.«Imperatore!» Caio Settimo si voltò verso il crinale alle sue spalle.

Lingue di fuoco si contorcevano nella notte, proiettando il loro bagliore contro la parete rocciosa. Due pretoriani avanzavano lungo il passo, solidi e impacciati nelle armature pesanti, come statue di metallo scese dal loro piedistallo.«Maestà…» uno dei pretoriani perse l’equilibrio e restò in piedi solo

grazie all’aiuto del commilitone alle sue spalle. Il respiro affannato del soldato si condensò in una nuvola di vapore davanti alla faccia. «Il daelish è arrivato. Vi attende al campo.»Caio Settimo si lasciò alle spalle Xendria, superò i pretoriani e iniziò

la discesa. Seguì il sentiero senza fatica o necessità di una torcia. Era nato e cresciuto sulle montagne, e sapeva dove mettere i piedi.Il cuore pompava sangue alle estremità del suo corpo. Poteva

sentire il suono delle leve meccaniche, lo scatto dei distributori energetici a ogni impulso vitale. Sotto le piastre di uranio, l’impianto cardiaco in celion continuava instancabile la propria mansione. Gocce di minerale fuso si mescolavano al sangue, mutandone il colore, rendendolo più aspro e consistente del metallo.Una foresta di pini si estendeva a perdita d’occhio, simile a una

falange le cui lance fossero puntate contro il ventre del cielo. Caio prese lo slancio e fece un balzo. La sua gamba artificiale produsse un tonfo secco e pesante quando toccò terra a piedi uniti.L’avamposto della fanteria si allargava per ettari nella foresta. Molti

alberi erano stati abbattuti per fare spazio alle tende da campo. Le sue navi da sbarco avevano attraversato le lande occidentali, volando fino a sud, indisturbate. I sistemi di occultamento sviluppati

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dai suoi ingegneri erano perfetti. Nessun radar, nessun esploratore avrebbe mai potuto individuare i cargo che solcavano il cielo.Caio Settimo aveva condotto la Legione dell’Aquila fino alle porte di

Xendria e nessuno si era accorto della sua presenza. Avrebbe potuto scendere a valle e prendere le mura della città ora, nel cuore della notte. Lacerare le gole dei daelish mentre questi erano ancora prigionieri del sonno e bruciare il Trono del Sangue al sorgere del sole.Nel corso della sua vita però aveva imparato ad aspettare. La

pazienza può portare a grandi risultati.Non ricambiò il saluto dei legionari che, tutti, scattarono sull’attenti

quando lo videro attraversare con passo deciso il labirinto di tende e fuochi. I suoi quartieri si ergevano nel cuore dell’avamposto.Incrociò gli occhi del generale Traio, quando questi gli venne

incontro. Il pettorale dell’armatura del primo ufficiale sembrava attrarre il bagliore delle torce piantate nel terreno. Le fiamme si contorsero al soffio del vento e le tende si gonfiarono come le vele di una nave.«Il pelle grigia è dentro, Imperatore.»«Accertati che nessuno venga a disturbarci» sussurrò Caio con voce

metallica. Fece un rapido cenno del capo in direzione del suo comandante e passò oltre.Non vi era un tappeto a segnare l’accesso alla tenda o dei vessilli

per distinguere il suo ricovero da quello della legione. Solo una picca, sormontata da un’aquila di metallo, era piantata nel terreno davanti all’ingresso.Settimo strattonò i lembi di lana e si portò all’interno della tenda.

Un daelish era seduto vicino al lungo tavolo di legno su cui erano state stese le mappe tracciate dagli esploratori. Alla vista dell’Imperatore il daelish balzò in piedi, rovesciando sul tavolo il calice che reggeva in mano. Il vino si propagò sulla mappa disegnando continenti inaspettati.

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«Restate comodo, senatore Khoir.» Caio sollevò la mano in un gesto rassicurante e si mosse intorno al tavolo. «Grazie per essere venuto qui stasera, comprendo i rischi a cui vi sto sottoponendo.»«Grazie a voi, Imperatore, per avermi accolto.» Il senatore di

Xendria fece un lieve inchino.Caio Settimo osservò il daelish nei suoi abiti eleganti da

aristocratico, nella sua bellezza senza età e provò un profondo disgusto. Avrebbe spazzato via Xendria da tutte le mappe, risucchiato tutto il celion dalle miniere sotto la città e ridotto i daelish superstiti in schiavi da letto.«Il mio popolo attendeva con gioia di essere liberato» continuò

Khoir, versandosi un’altra coppa di vino. «Grazie alla Legione dell’Aquila rovesceremo il Trono del Sangue. Siamo stanchi del dominio della regina.»«Il vostro popolo è stanco di non poter annegare nel sangue degli

schiavi come vorrebbe» la voce di Caio Settimo non aveva nulla di rassicurante. L’Imperatore fiutò la paura del daelish e ciò gli diede piacere «Ma la cosa mi sta bene. Attendo che facciate la vostra parte, il resto non mi interessa, senatore.»«Al vostro servizio» Khoir piegò nuovamente il capo in un gesto

reverenziale.L’Imperatore afferrò una sedia per la spalliera e si accomodò, gli

occhi vitrei fissi sul volto del pelle grigia. Sì, pensò, li avrebbe piegati tutti.Darius cenò con gli altri schiavi nella sala adibita a refettorio sotto il

palazzo del principe Morrein. Non cercò con lo sguardo Clemio per tutta la durata del pasto, eppure sapeva che era lì. Un volto tra tanti nella moltitudine di umani al servizio dell’aristocratico daelish.Vide però Alatea. La ragazza aveva la pelle di porcellana, il volto

incorniciato da lunghi e ondulati capelli neri che le ricadevano sulle spalle. L’aveva notata mentre era in fila e reggeva il piatto in attesa d’essere servita. Gli occhi bianchi fissi in avanti e il viso triste.

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Le parole del vecchio della Torre del Sole riecheggiarono nella sua testa: “Non la lascio.”Una motivazione più che valida, pensò.Valida al punto da mettere a rischio la propria vita.Dove erano finite le sue motivazioni? Cosa lo spingeva a

sopravvivere, a trascinarsi avanti in quel mondo alla rovina quando ormai aveva già perso tutto?Io sono il sole che protegge i deboli dall’oscurità della notte. Io sono la

lancia di Andurian.Sfiorò con le dita le linee d’inchiostro impresse sul collo. Il

giuramento. Il giorno in cui aveva impugnato la lancia e indossato l’armatura, aveva sollevato lo sguardo verso il cielo sgombro di nuvole e giurato al sole che avrebbe fatto tutto il possibile per difendere la sua gente, per proteggere la sua famiglia.I giuramenti si spezzano solo con la morte, pensò, e lui non era

ancora morto.Lasciò il piatto sporco sul tavolo e uscì dal refettorio, lanciandosi

lungo i corridoi del sotterraneo. Cercò di non pensare a ciò che l’avrebbe atteso nella notte. L’ansia si tramutava in un cappio che gli stringeva la gola fino a farla sanguinare.Venne sfiorato dall’idea di recarsi nel proprio alloggio e riposare

fino al momento dell’appuntamento, ma la sua mente era un vortice di pensieri ed emozioni che lo spinsero a vagare per i sotterranei. In quei corridoi non era solo: i volti di Galeen e Antioch facevano capolino nella sua testa, e se chiudeva gli occhi e tendeva l’orecchio riusciva quasi a udirne le voci. Lei gli aveva chiesto di non abbandonarla, ma lui l’aveva fatto.Difendere i deboli dall’oscurità.Seguì le indicazioni che gli erano state date dal vecchio anduriano e

scese fino alle profondità del sotterraneo. I cristalli luminosi annegarono nel buio più profondo. Poi una torcia balenò e il volto barbuto di Clemio fece capolino dalle ombre.«Sei in ritardo» grugnì lo studioso mentre faceva strada.

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Avanzarono in un tunnel fino a una botola. Darius si piegò e fece forza sulle gambe per scoperchiare l’accesso alla rete fognaria.«Questi pelle grigia sono lo scarto dell’evoluzione umana» sbottò,

coprendosi il naso con un braccio per il forte tanfo.«Ti sbagli» la voce di O’Rednar era un sussurro. «I daelish sono una

delle razze più antiche di questo pianeta. Non si sono mutati geneticamente dopo la Caduta, come gli skaar, i rodrenari o gli altri umanoidi. I daelish sono sempre esistiti. Loro vivevano sottoterra. Sono creature delle tenebre, hai mai visto cosa sono in grado di fare? Io sì. Dominano l’oscurità, si nutrono di essa e la sfruttano a proprio favore. I loro occhi erano troppo sensibili al sole e temevano di restare ciechi. Un giorno però un gruppo di coraggiosi decise di spostarsi in superficie. Fondarono Xendria e iniziarono con il tempo ad adattarsi: si sono evoluti, senza perdere le loro doti innate.»Darius trattenne il respiro mentre scendeva con cautela la scala

metallica che li conduceva verso il basso. L’aria era stagnante, e lo scrosciare degli scarichi d’acqua e lo squittio dei roditori erano gli unici suoni che riecheggiavano all’interno dei tunnel. Si spinsero in avanti per così tanto tempo che il fuoco della torcia cominciò ad affievolirsi.«Quanto ci vuole ancora?» chiese Darius, il braccio davanti alla

faccia per difendersi dall’odore nauseabondo che impregnava l’aria.«Siamo quasi arrivati.»Deviarono il percorso diverse volte, tanto che il lanciere ebbe la

sensazione che si fossero persi, poi la fiamma illuminò una scala arrugginita che risaliva la parete.Darius andò per primo. Le esalazioni della fognatura andavano

scemando mentre si inerpicava lungo la parete. Raggiunta la sommità della scala, spinse la botola verso l’alto, quel che bastava per guardare all’esterno.L’aria fredda della notte gli inondò i polmoni, donando sollievo. La

via sembrava libera.

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Spostò la copertura di metallo e uscì in superficie. Xendria era avvolta dalle tenebre. Davanti ai suoi occhi gli spalti dell’arena si stagliavano verso l’alto come le mura di un bastione. Aiutò Clemio a venire fuori dalla conduttura e insieme ne richiusero l’accesso.Il vecchio si guardò intorno con occhi che scandagliavano l’oscurità.«Dove si è cacciato?» O’Rednar fece un segno al lanciere e i due si

spostarono dalla strada, acquattandosi contro una parete esterna dell’arena.«Che c’è?» bisbigliò Darius cogliendo la preoccupazione nella voce

del compagno.Il lanciere ebbe la sensazione che qualcosa si fosse mosso alle loro

spalle, così rapido e silenzioso da essere appena percettibile. Si volse e tirò un sospiro di sollievo nel vedere gli occhi scintillanti di un gatto. L’animale girò il capo di scatto in direzione di un vicolo e rizzò la coda. Gonfiò il pelo sul dorso e snudò i denti aguzzi per qualche secondo, per poi dileguarsi dinanzi agli occhi rossi che squarciarono l’oscurità.«E così volevate scappare?» il principe Morrein fece un passo in

avanti e la luce lunare sfiorò il suo volto glabro. Proruppe in una risata tagliente come la lama di coltello.A decine, i soldati emersero dall’immobilità della notte, armi in

pugno.Clemio scattò in piedi e allargò le braccia, prima che Darius potesse

trattenerlo.«Vostra Maestà, non è come sembra.»«Fai silenzio, vecchio, o ti taglio le vene e ti appendo a testa in giù»

sibilò Morrein, poi si volse verso i suoi armigeri e disse: «Prendeteli, sono stanco di giocare.»Difendere i deboli dall’oscurità.Le parole del giuramento turbinarono nella testa di Darius come un

fiume in piena che aveva rotto gli argini e ora travolgeva tutto ciò che si frapponeva alla sua corsa. Vide le spade balenare e serrò la mascella.

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Io sono un lanciere di Andurian, gridò la voce nella sua testa.Scattò in avanti con l’agilità di un felino, avventandosi contro un

daelish.Prima che questi potesse capire cosa stava accadendo, Darius gli

aveva già strappato la spada di mano e piantata tra la gorgiera e il pettorale della corazza fino all’elsa. Liberò l’arma dal cadavere giusto in tempo per parare un affondo e rispose con un pugno. Le nocche nude si infransero contro il volto dell’aggressore, frantumandogli la mascella.«Lo voglio vivo! Lo voglio vivo!» Gridò Morrein in direzione delle

guardie.Darius sputò fuori la propria rabbia quando staccò la testa di un

terzo daelish con un violentissimo fendente alla base del collo. Alle sue spalle Clemio era un demone armato di pugnale. Le urla seguivano i suoi attacchi, il volto era una maschera di sangue e odio. Il vecchio schivò una stoccata e fece guizzare la sua arma. La lama del pugnale rischiò di spezzarsi quando sfondò la visiera dell’elmo del guerriero e fuoriuscì dalla nuca.Darius non ebbe il tempo di ragionare che due daelish gli si

avventarono contro, le spade levate al cielo. L’anduriano incassò la testa tra le spalle e si lanciò contro di loro, sbattendoli sul lastricato. Perse l’arma nell’impatto ma non si preoccupò di procurarsene un’altra.I suoi occhi erano tutti per Morrein.«Sei mio» disse il gladiatore tra i denti e in un attimo fu addosso al

principe.Il daelish non estrasse la scimitarra che portava alla cintura, ma

attese.L’anduriano sferrò un pugno che andò a vuoto. Morrein non era più

davanti a lui. Darius si girò di scatto, avvertì lo spostamento d’aria sopra la testa mentre il principe si portava alle sue spalle con una capriola. Quando si voltò per fronteggiare l’avversario, la scarica energetica lo centrò in pieno petto.

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Il respiro gli si mozzò in gola. Cadde sul lastricato, la tunica fumante e il cuore che batteva all’impazzata. Gli fischiavano le orecchie e il clangore delle armi sulla strada era un’eco lontana e distorta. L’ombra di Morrein incombeva su di lui, il volto si allargò in un sorriso, perfetto. Stretta nel palmo di una mano, una pietra syreana pulsava ancora di un’incandescente luce viola.Darius provò a rimettersi in piedi, ma non riusciva più a sentire

gambe e braccia. Il volto era intorpidito e la testa pesante, troppo pesante per essere sollevata.Rimase sulla strada e attese che il cuore smettesse di battere.

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VIIi«Si sta svegliando?» una voce si insinuò nella sua testa,

riportandolo indietro dalla dimensione senza spazio né tempo in cui era scivolato. Riprese i sensi.«Sembra di sì» mani dure come l’acciaio lo scossero per le spalle.

Aprì lentamente le palpebre e oscurità e vuoto lasciarono il posto ai volti segnati dalle cicatrici dei gladiatori del principe Morrein. «In piedi, brutto bastardo. Coraggio!»Darius puntellò la schiena contro la parete, aiutandosi con un

braccio per mettersi a sedere. Il corpo era dilaniato da dolori, le fitte attraversavano i muscoli scuotendogli le ossa. La tunica era imbrattata da una chiazza di vomito.Tossì e respinse un conato quando fiutò il suo stesso nauseabondo

odore.«Puzzi come il peggiore degli ubriaconi.»Gli occhi dorati di Teero scintillavano al di sotto della celata che gli

ricopriva il capo. Lo skaar snudò zanne ferali in quello che aveva la pretesa d’essere un sorriso e fece un cenno d’assenso con il capo. Diede un pacca sulla spalla dell’anduriano e si levò sul ginocchio su cui si era piegato, in un rumore di ferraglia.Darius osservò l’ambiente in cui si trovava, la luce fioca di un

cristallo, le pareti divorate dalle crepe e le sagome dei gladiatori in attesa. La sala era separata dall’esterno da uno spesso pannello di metallo. Il ruggito della folla si infrangeva contro di esso come le onde del mare in tempesta.Aveva già vissuto questo momento.«Ci risiamo» sbuffò, massaggiandosi la testa. La cicatrice che gli

solcava la fronte pulsava al battito del cuore. Le nocche della mano destra erano livide e ricoperte da sangue secco.Omyang gli rifilò un calcio al piede. «Che intenzioni hai? Vuoi

rimanere sul pavimento a poltrire, oppure vieni fuori con noi?»

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Il guerriero dagli occhi a mandorla portava sul volto i segni dell’allenamento del giorno precedente, il naso era livido e gli zigomi gonfi. Indossava un corpetto di metallo sopra la cotta di maglia, e schinieri di bronzo gli proteggevano le gambe. Il manico dello spadone spuntava da dietro le spalle massicce, e la punta sfiorava il pavimento. L’uomo dell’est gli porse una mano e Darius la strinse, accettando l’aiuto per rialzarsi.Una volta in piedi, l’anduriano vacillò e si portò una mano al petto.

Un’ustione chiazzava la pelle sopra lo sterno, proprio dove la pietra syreana aveva bruciato la tunica. Si sforzò di ricordare ciò che era accaduto la notte precedente, l’odore delle fognature di Xendria, il silenzio che avvolgeva l’arena, lo scontro con Morrein e i suoi soldati.Clemio.Trattenne il respiro e il cuore sembrò arrestarsi di colpo quando

pensò all’amico. L’ultimo ricordo che aveva era del vecchio che combatteva al suo fianco all’esterno dell’anfiteatro. L’eco delle sue grida mentre brandiva un pugnale e invitava i daelish a farsi avanti. Sperò che l’accademico fosse ancora in vita, magari rinchiuso da qualche parte nei sotterranei del principe. “Quando tutto ciò sarà finito, verrò a cercarti” si ripromise, digrignando i denti.«Darius» grugnì Teero, impegnato a distribuire tra i compagni una

fascia di stoffa blu da legare al braccio. Lo skaar era ricoperto da un’armatura di piastre segnata dal tempo e dagli innumerevoli scontri. «Su quella panca trovi il tuo equipaggiamento. Sbrigati a indossarlo, non ci resta molto tempo. Senti i tamburi?»Il tonfo sordo delle percussioni penetrava le vecchie mura della

costruzione, facendo vibrare la terra sotto i suoi piedi al ritmo incalzante scandito dai daelish.L’anduriano abbassò lo sguardo verso uno scintillio metallico alla

sua destra. Si curvò, quasi per inerzia, e raccolse un corpetto di corazza lamellare di pelle e acciaio. Lo indossò, insieme ai bracciali e agli schinieri, e legò alla vita un cinturone, da cui penzolava un

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fodero vuoto. Era ancora frastornato quando infilò l’elmo e ne allacciò i fermi sotto il mento barbuto. Un compagno gli passò una daga, che fece subito scivolare nel fodero.«Anduriano, ho un regalo per te.» Teero, che continuava a muoversi

e controllare i gladiatori come un vero sergente di fanteria, emerse dal fondo della sala, stringendo in una mano una lancia corta e nell’altra uno scudo ricurvo. La luce del cristallo si oscurò quando lo skaar si avvicinò a Darius e gli passò bruscamente le armi.«Li ho trovati nell’armeria del principe. Non sono il massimo, ma

sono certo che sai come usarli» continuò l’uomo rettile, per poi volgersi verso gli altri guerrieri nella stanza. Serrò una mano in un pugno di ferro ed esclamò: «Cinque squadre da dieci membri ognuna, questo è il Trionfo degli Dei. Non vi chiedo di vincere per i pelle grigia, che si fottano! Io vi chiedo di vincere per voi stessi. Ci prepariamo a questo giorno da un anno. Vogliono mandarci al macello come schiavi, dimostriamogli che se dobbiamo morire lo faremo da guerrieri!»Teero si fece largo tra i compagni. La sua arma pendeva di traverso

dietro le spalle. Serrò le dita intorno al manico e la strappò via il fodero. La lama seghettata dello spadone vibrò nell’aria, pronta a sventrare gli avversari.Darius percepì la veemenza del compagno, lo spirito guerriero degli

skaar, e sentì un calore improvviso propagarsi dal petto fino al volto. La gola divenne arida e una morsa gli attanagliò il cuore, come ogni volta prima di andare in battaglia. Infilò un braccio nei sostegni dello scudo e soppesò la lancia nella mano libera, in un gesto meccanico che lo riportò indietro con la mente ai tempi di Andurian. La porta di ferro sussultò, strattonata verso l’alto in un rumore di leve e ingranaggi. Darius si volse verso l’ingresso e strinse l’impugnatura della lancia.C’è un vincolo che impedisce all’uomo di vivere pienamente la

propria vita. Una catena che stringe caviglie e polsi. Si chiama paura.Paura di amare. Di vivere. Di morire.

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Solo quando si ammette di non avere più nulla da perdere, è possibile liberarsi dalla paura e vivere. E nell’istante che anticipò lo scontro i guerrieri tornarono alla vita.«Restate uniti, puntiamo verso il centro.»Le urla di acclamazione della folla non coprirono la voce di Teero.Darius intercettò con lo scudo un dardo vagante e continuò ad

avanzare, piegandosi sulle gambe per non offrire un bersaglio facile ai tiratori. Sfidò con lo sguardo il sole di mezzogiorno, lame di luce calavano sui gladiatori costringendoli a serrare le palpebre, e cercò invano il volto di Clemio nella calca degli spettatori.Gli spalti erano gremiti a tal punto che l’arena sarebbe potuta

implodere da un momento all’altro. Il pubblico era in delirio per le cinque formazioni di gladiatori che si contendevano il palcoscenico sotto lo sguardo immobile della Dea Kalessania. La regina sedeva sullo scranno in uno scintillante vestito color oro, gli occhi vibranti di piacere. Un po’ più in basso, il principe Morrein aveva un’espressione tesa in volto, le mani attaccate saldamente al corrimano della tribuna.«I Corvi di Korvald!» Uno dei suoi compagni di squadra lanciò

l’avvertimento alla vista del gruppo guidato dal nordico. Mantelli neri erano drappeggiati sulle spalle dei rivali, e le lame balenavano, aprendo sanguinosi varchi nella mischia.«Lasciate che si ammazzino tra loro, non fermatevi. Prendiamo il

centro e teniamolo.» Lo skaar tuonò sopra le teste dei suoi uomini, la pesante spada stretta tra le mani senza mostrare fatica.Davanti a loro un gruppo di guerrieri dal volto dipinto di rosso si

lanciò verso il cuore dell’arena, urlando. Gli occhi iniettati di sangue, le armi levate verso l’alto.Darius accelerò il passo e incrociò lo sguardo del suo bersaglio

prima di colpire. L’anduriano trattenne il respiro e scagliò la lancia, quando i Volti Rossi erano ancora a dieci piedi di distanza. L’arma sibilò nell’aria, piantandosi nella gola dell’uomo che guidava l’avanzata e strappandogli l’urlo di guerra dalle labbra. Il

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combattente venne sbattuto all’indietro dalla forza del tiro. Omyang emerse dalla formazione e descrisse un arco con la spada a due mani, tingendo l’aria di rosso con il sangue dei nemici. Darius non estrasse la daga, ma schivò un affondo e ruotò intorno al suo avversario, lasciando che fosse Teero ad abbatterlo. Implacabile, lo skaar tagliò in due il gladiatore con un brutale colpo verticale.L’anduriano strappò la lancia dal cadavere dell’avversario e si mise

in posizione, giusto in tempo per respingere un altro dardo. Un rodrenario, la pelle viola ricoperta da branchie e una maschera di piccoli tentacoli di cartilagine al posto della bocca, avanzò ricaricando la balestra. Darius caricò il braccio indietro per scagliare la lancia, ma un coltello roteò nell’aria per poi conficcarsi nel volto del balestriere. Il rodrenario crollò al suolo con un tonfo sordo.Darius ringraziò con un cenno del capo il compagno che aveva

eseguito il tiro, un ragazzo dalle guance appena sfiorate da una peluria bionda. Il giovane sorrise, poi il suo volto mutò in una maschera contorta quando una lama nemica gli spuntò dal petto. L’anduriano gridò in preda alla rabbia e scaraventò la sua arma senza prendere la mira. La punta sfondò la piastra del pettorale del gladiatore avversario e gli trapassò il cuore.Nell’arena il sangue si stava mescolando alla polvere, affluendo in

rivoli scarlatti all’interno della rete di sottili canali che attraversava il teatro della battaglia. Il clangore delle armi e le urla dei contendenti facevano da sottofondo alla danza di luce rossa che avvolgeva la statua della Dea Kalessania.«Restate uniti, arrivano i Corvi.» Teero affiancò Darius, tenendo la

spada protesa in avanti. La lama grondava sangue così come le piastre della corazza, screziate da schizzi purpurei.Spalla contro spalla, Darius e compagni formarono una linea pronti

ad arginare la carica dei rivali. Il lanciere di Andurian incrociò gli occhi di ghiaccio di Korvald, quando questi estrasse la propria ascia dal cranio frantumato di un uomo.

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Il nordico sorrise da sotto l’elmo cornuto, poi sollevò l’ascia al cielo e incitò i suoi all’assalto. Darius sguainò la daga dal fodero e assunse una posizione di guardia, il peso del corpo bilanciato sulla gamba d’appoggio e la spalla contro lo scudo.Era pronto. Pronto a decidere della propria vita in quel fazzoletto di

terreno, quando colse con la coda dell’occhio qualcosa di strano sugli spalti.Voltò il capo verso la tribuna proprio nell’istante in cui la regina

sprofondò nello scranno, le vesti dorate rigate dal colore del suo stesso sangue. La sovrana si portò le mani alla gola da cui spuntava la verga di un dardo.Intorno alla statua della Dea dilagò il caos.Le lame balenarono alla luce ardente del sole e i daelish iniziarono a

combattere tra loro, infilzando e calpestando la gente in fuga. Darius vide Morrein gridare sconvolto, impugnare la spada contro i suoi stessi soldati e poi sparire nella moltitudine di corpi e volti grigi.Kalessania fu avvolta da un’aura così intensa da ferire gli occhi.Nell’arena i gladiatori continuavano a dare spettacolo, ignari di ciò

che stava accadendo sulle tribune. Alcuni daelish si lanciarono dalle gradinate, nel tentativo di sfuggire alla pressione della calca, scavalcarono i corrimano e precipitarono sugli anelli inferiori. Gli spettatori presenti sul livello più basso degli spalti invasero il campo di battaglia e si lanciarono verso i varchi sigillati.Korvald staccò la testa dal collo di un daelish che gli passò davanti e

allungò la falcata. Darius sapeva che il nordico voleva la sua morte, ma lui non gli avrebbe concesso l’opportunità di vendicare il figlio.«Che facciamo, Teero?» chiese Omyang, serrando la presa sulla

spada.Lo skaar esitò dinanzi a quel caos. Poi le sirene di Xendria

suonarono. Lente, strazianti, annunciando l’arrivo dei sauri.Le ali dei rettili volanti dell’Impero fendettero le nuvole e

oscurarono il sole. Le loro strida lacerarono i timpani, e il fuoco blu si abbatté su edifici e strade, gettando la città nella devastazione.

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«Via di qui. Subito!» ruggì Darius, strappandosi lo scudo dal braccio.«Da questa parte.» Teero si lanciò in avanti, conducendo i compagni

fuori dalla mischia. Lenti, troppo lenti per evitare le lame dei Corvi Neri.«Anduriano, dove credi di andare?» Korvald calò l’ascia, staccando

il braccio di un compagno di Darius, che si era voltato per affrontarlo. L’uomo cadde al suolo e il sangue schizzò dal moncone, lordando il volto del nordico.I gladiatori del principe Morrein incrociarono le spade con i

mantelli neri e i colori delle due squadre si confusero nella violenza dello scontro.Omyang trapassò un avversario con la spada, prima di essere

colpito a sua volta alle spalle e cadere in ginocchio, le mani sull’addome dilaniato.Darius si piegò d’istinto, il tanto che bastava per mandare a vuoto

l’attacco di Korvald. La lama descrisse un arco, sfiorandogli il mento. L’anduriano raccolse tutte le forze che gli restavano e scattò in avanti. La daga guizzò, scalfendo gli anelli della cotta di maglia del nordico e mordendo la carne sopra le costole.Il gladiatore grugnì per il dolore e sferrò un calcio che centrò Darius

in pieno petto.Il lanciere di Andurian venne sbilanciato e inciampò in un cadavere,

rovinando pesantemente all’indietro. Batté la testa sul terreno e perse la presa sulla daga. L’arma rotolò via nel groviglio di gambe e combattenti. Darius cercò di rimettersi in piedi, ma Korvald incombeva su di lui, l’ascia levata sopra la testa e un ghigno sul volto barbuto.I muscoli del collo del nordico si contrassero quando questi sferrò il

colpo e Darius chiuse gli occhi, pronto a ricongiungersi con la sua famiglia, con il suo amore perduto.Un grido primordiale, animalesco, sovrastò il caos divampato

nell’arena quando Teero partì alla carica.

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La lama dello skaar falciò l’aria portando con sé tutto ciò che incontrò lungo la traiettoria. La punta seghettata ignorò lo strato di acciaio e cuoio della corazza e affondò nel ventre di Korvald. L’ascia del gladiatore cadde all’indietro e questi barcollò per alcuni secondi prima di cadere in ginocchio ai piedi di Teero.L’uomo rettile tirò indietro il corpo e mulinò la sua spada,

mandando la testa di Korvald a sbattere contro le mura di cinta dell’arena. Il colosso delle terre del sud si piazzò davanti a Darius inerme e ruggì in segno di sfida in direzione degli altri Corvi Neri. Il volto ricoperto di scaglie e cicatrici era una maschera di brutalità e odio.Gli uomini di Korvald fecero lentamente qualche passo indietro,

voltarono le spalle e svanirono nella tempesta che infuriava sull’arena.Darius si rimise in piedi e rivolse un cenno del capo allo skaar.«Grazie.»«Non ringraziarmi, anduriano.»Il lanciere sollevò il capo oltre gli spalti. Le scie infuocate delle

contraeree solcavano l’aria in risposta all’attacco alato dell’Impero. Una delle torri della regina ardeva, avvolta da lingue purpuree. Il fuoco dei sauri era penetrato nelle fondamenta e ora la costruzione sembrava essere sul punto di crollare su se stessa.Darius si guardò intorno alla ricerca dei compagni insieme ai quali

aveva sudato e sanguinato al campo di addestramento. Trovò solo Omyang, riverso sul dorso e con lo sguardo immobile, puntato contro il cielo in fiamme.«Dove sono gli altri?»«Siamo rimasti solo noi due.»L’anduriano raccolse una daga dal terreno e la ripose nel fodero. Il

tanfo della morte e il colore delle fiamme lo riportarono ad Andurian, nel giorno della sua caduta.

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Uno dei varchi d’accesso sotto gli anelli dell’anfiteatro era stato forzato. Schiavi e daelish sgattaiolavano all’interno di esso per poi sparire nei sotterranei dell’arena.Una via d’uscita da quella trappola mortale, una strada per

ritrovare Clemio e Alatea.Incrociò gli occhi da rettile di Teero e disse: «Da questa parte,

seguimi.»Un sauro calò in picchiata sull’arena e un muro di fuoco azzurro si

abbatté sugli spalti ancora gremiti, trasformando i fuggitivi in torce viventi. Il suo cavaliere alato stringeva in una mano la carabina, il calcio premuto contro la spalla. Gli spari del fucile erano seguiti da una secca deflagrazione e dalle urla soffocate delle vittime di quello spietato tiro al bersaglio.La creatura sputò fuoco sulla tribuna, avvolgendo la statua della

Dea Kalessania in un vortice. La scultura tremò sul piedistallo, poi il cavaliere lanciò la bestia in picchiata e le zampe ne artigliarono la testa, spingendo la Dea giù per gli spalti.Darius si voltò giusto in tempo per osservare Kalessania rovinare,

simile a un masso in caduta libera, lungo le gradinate e infrangersi contro il muro di cinta del campo di battaglia, sfondandolo. Il velo di luce rossa che la avvolgeva si affievolì fino a spegnersi come una stella morta.

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iX«Giù per le scale!» gridò Darius nell’imboccare una rampa che

scendeva nei sotterranei dell’arena. Teero lo seguiva, rallentato dal peso dell’armatura. Il respiro era rauco, affannato, e il volto una maschera di scaglie e cicatrici.L’anduriano si voltò per accertarsi che il compagno fosse ancora

alle sue spalle.«Coraggio, ci siamo quasi.»«Per quanto ancora hai intenzione di correre? Fammi riprendere

fiato» chiese lo skaar.L’eco delle grida e il cozzare delle armi divennero uno spettro senza

volto, che li inseguiva attraversando le pareti e vorticando in quei vecchi tunnel dominati dalle ombre.«I daelish vivevano nel sottosuolo.» Darius rallentò il passo fino a

fermarsi, le mani contro le ginocchia, piegato in due dallo sforzo. Si tolse l’elmo dal capo e lo lasciò rimbalzare sui gradini. I racconti di Clemio sulla storia dei pelle grigia gli balenarono nella testa.«Sotto i nostri piedi ci sono sale e cunicoli, ora usati come

fognature, che percorrono l’intera Xendria. Io li ho visti, ci sono stato. Dobbiamo raggiungere il palazzo del principe, devo salvare i miei amici.»Lo skaar poggiò la pesante spada contro una spalla. «Spero che tu

sappia quello che stai facendo.»I gladiatori ripresero la discesa, gradino dopo gradino, fino a

quando le ombre si infittirono e la temperatura precipitò. Darius sbatté ripetutamente le palpebre, sforzandosi di penetrare il muro di tenebre che sbarrava loro il passaggio. Si maledisse per non avere con sé un acciarino.«Perché ti sei fermato?» grugnì Teero.«Non vedo un accidenti, dannazione. Devo tornare indietro e

cercare un…»

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«Fatti da parte, umano.» Darius avvertì il peso della mano del compagno sulla spalla. «Sai quale è il lato positivo d’avere una brutta faccia come la mia?» continuò Teero mentre i suoi passi rimbombavano sulla scalinata «È che noi skaar sappiamo adattarci.»L’anduriano trattenne il respiro quando incrociò lo sguardo

dell’amico. Gli occhi dell’uomo rettile erano mutati, le pupille erano abissi che risucchiavano il giallo oro delle iridi. Il muso squamoso di Teero si increspò, scoprendo due file di zanne: «Riesci a starmi dietro, o vuoi che ti dia la mano?»Il sangue incrostava il volto di Clemio. L’accademico della Torre del

Sole si era destato sul freddo pavimento, la tunica strappata e chiazzata di rosso. Era debole, sfiancato dall’emorragia e dal dolore.Strinse i denti e provò a rialzarsi, attratto dalla lama di luce che

filtrava da sotto la porta. Crollò sui gomiti. I soldati del principe Morrein l’avevano pestato a sangue e gli avevano cavato un occhio come punizione per il suo affronto, per poi lasciarlo lì in attesa che la morte portasse a termine il lavoro.Gridò contro il soffitto, mettendo in fuga le ombre che si

annidavano su di esso.Non poteva mollare, non ora che aveva ritrovato la speranza per

andare fino in fondo. Il progetto Titan, la ricerca della salvezza attraverso la verità. Nel passato c’era la forza per sovvertire il mondo, per fermare Caio Settimo.Aveva fatto una promessa. Alatea.Le lacrime gli incendiarono il volto tumefatto.«Darius… ti prego, Creatore. Fa’ che sia ancora vivo. Aiutalo a

portarla via da questo posto» disse con voce strozzata dai singhiozzi, poi avvertì una pressione alla nuca, come se uno spillo gli stesse trafiggendo il cranio. Le orecchie gli fischiarono e una voce di donna risuonò nella sua testa.Maestro.L’accademico sussultò. «Alatea? Figlia mia sei tu?»Maestro, mi senti? Ti ho trovato, non temere, sto venendo da te.

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«No… no, ferma, non farlo. È troppo pericoloso» rispose tra sé, certo che la ragazza non avrebbe potuto sentirlo.Clemio adagiò la fronte contro il pavimento, respirando a fatica,

quando un boato improvviso lo scosse. Le pareti della stanza vibrarono e alcuni calcinacci gli piovvero sulla testa.Cosa era stato? Tese l’orecchio e rimase in ascolto. Silenzio.L’occhio ancora sano era fisso sulla porta. Ebbe la sensazione che

qualcuno si stesse muovendo dietro di essa, poi colse l’ombra di piedi da sotto il battente. La serratura scattò e la maniglia si abbassò lentamente.La luce dei cristalli luminosi incastonati nelle pareti del corridoio

delineò i contorni di una figura in piedi sulla soglia.«Maestro!» Alatea entrò nella stanza, lo sguardo perso nel vuoto.«Non dovevi venire a cercarmi. Dove sono le guardie? Cos’era quel

rumore?»«Dobbiamo andare via, sta accadendo qualcosa di brutto in città.

Sono venuti dei daelish, cercavano il principe. Ho sentito le urla giù in magazzino.» La ragazza avanzò nella stanza, le mani protese in avanti e i palmi rivolti verso il basso, quasi a tastare l’aria in quel suo stupefacente modo che le permetteva di sentire il mondo intorno sé, invece che vederlo.«Sono qui, aiutami.» Si lamentò Clemio.Le dita di Alatea gli sfiorarono il volto con delicatezza.«Cosa vi hanno fatto?»«Un graffio, piccola mia. Soltanto un graffio.»«Ho le chiavi» la giovane prese a frugarsi in una delle tasche della

veste e una piccola chiave di bronzo apparve stretta tra l’indice e il pollice.«Dove l’hai presa?» chiese stupito il vecchio accademico.«L’ho rubata... nessun daelish può immaginare quello che una

ragazza cieca è in grado di fare. Soprattutto se incaricata di servire il pasto alle guardie.»

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Senza perdersi d’animo, Alatea fece scivolare le dita lungo gli anelli della catena, dai polsi fino al lucchetto. Armeggiò alla ricerca della fessura in cui infilare la chiave. O’Rednar aspettava in silenzio, la fronte imperlata da un sudore gelido.Lo scatto del lucchetto anticipò il gemito dell’anduriano.«Appoggiatevi a me, Maestro.»Clemio provò pena per se stesso, quando si vide costretto a mettere

un braccio intorno al collo della figlia di Pardem. Era come se le sue ossa si fossero liquefatte all’interno del corpo. La stanza girò sottosopra quando si rimise in piedi, e per alcuni istanti rischiarono di cadere entrambi.Se anche Alatea era spaventata, non ne diede dimostrazione. Clemio

ne osservò il volto, una pallida maschera di determinazione, mentre insieme si addentravano negli opachi corridoi del sotterraneo.«Usciamo in cortile, aiutami a salire le scale.» L’anduriano serrò le

dita intorno al corrimano, gemendo a ogni gradino.Una volta raggiunta la sommità della rampa, la porta che dava

all’esterno si aprì di colpo e un uomo al servizio di Morrein entrò barcollando. Fece alcuni passi, il volto deturpato dal terrore, e cadde al suolo con un tonfo sordo.Il manico di un pugnale gli spuntava dalla schiena.Un daelish varcò la soglia, gli occhi erano rubini ardenti, in una

mano reggeva una spada con l’irruenza di chi ha voglia di trafiggere il mondo. Sussultò, quasi sorpreso di trovarli sulle scale, poi il suo volto si indurì: «Dove è il vostro padrone?»O’Rednar sentì che Alatea lo stringeva più forte. La giovane gli si

avvinghiò contro e fece un piccolo passo indietro. Allora lo studioso della Torre del Sole trasse un rapido respiro e cercò di tenere ferma la voce: «Non sappiamo dove si trovi il principe, signore. Siamo semplici servitori…»Non riuscì a completare la frase.Il daelish scattò, strappandogli Alatea da sotto il braccio e

trascinandola in cortile. Clemio sentì mancare l’appoggio e perse

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l’equilibrio. Artigliò la parete come un arrampicatore alla ricerca di un appiglio.La ragazza gridò, sgomitò per liberarsi, poi il daelish l’afferrò per i

capelli e la costrinse a inginocchiarsi. Da dietro le mura del palazzo, colonne di fumo nero si stagliavano verso l’alto, intessendo una cappa impenetrabile sopra Xendria.Clemio si trascinò verso l’esterno, la testa gli pulsava come se

avesse avuto una spada piantata nel cranio. Respinse un conato di vomito quando vide l’arma del daelish premere contro la gola di Alatea.«Vecchio, te lo chiedo per l’ultima volta: dove è Morrein? Non

mentire o te l’ammazzo sotto il naso.»«Pietà signore, ve lo giuro… non so dove si trovi il principe. Lei non

centra, non vedete? È solo una ragazza cieca! Pietà!»Nel frattempo altri due daelish uscirono dal deposito che si

affacciava sul cortile e sorrisero nell’assistere alla scena. Non indossavano vessilli che identificassero la loro appartenenza a una delle casate di Xendria, avevano tutta l’aria d’essere semplici cittadini. I loro volti però erano feroci, come cani aizzati contro il loro stesso padrone.«Morte agli usurpatori!» proclamò il rivoltoso, tirando indietro il

capo della ragazza.O’Rednar colse il freddo luccichio della lama e gridò il nome di

Alatea, come se ciò potesse arrestare il tempo.Un pugnale fendette l’aria e si conficcò nella tempia del daelish. La

spada cadde davanti alle ginocchia della ragazza, tintinnando sul lastricato.Clemio girò il capo di scatto giusto in tempo per cogliere, dal lato

opposto del cortile, una sagoma enorme lanciarsi sui pelle grigia, roteando sopra la testa la spada più grande che avesse mai visto prima d’allora.Uno dei daelish si girò per fronteggiare l’assalitore ma venne

decapitato da un unico fendente che gli mandò la testa a rotolare sul

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selciato. L’ultimo dei ribelli lanciò uno sguardo ai cadaveri dei compagni e indietreggiò di qualche passo, per poi fuggire oltre le mura lasciando la giovane ai piedi del gigante.Clemio si sollevò sui gomiti e rivolse un cenno del capo a Darius,

quando questi emerse dalle ombre del porticato e raggiunse Alatea.Il lanciere le prese la mano e l’aiutò a rimettersi in piedi. Alle sue

spalle torreggiava un nerboruto guerriero skaar.«È un piacere rivederti, comandante» sussurrò O’Rednar, poi la sua

palpebra si fece pesante, la fontana, le colonne e le sagome nel cortile sfumarono e tutto divenne buio.Darius e compagni si appiattirono contro la parete di un edificio

quando le strida di un sauro imperiale lacerarono i loro timpani. Il suono ritmico delle contraeree era cessato da tempo e ora il cielo era scosso dal rombo delle navi da sbarco apparse come per magia sopra i tetti degli edifici.Gli artigli della Legione dell’Aquila erano calati su Xendria.«Anduriano, il vecchio ha bisogno di cure» affermò Teero,

sorreggendo Clemio tra le braccia. L’accademico aveva perso i sensi.Il lanciere guardò prima lo studioso, il volto deturpato e la pelle

pallida, poi lo skaar e annuì. Ce l’avevano quasi fatta, O’Rednar doveva resistere.Afferrò la mano di Alatea e voltò il capo in direzione della strada.

Sopra i tetti in fiamme di Xendria, la massa di nuvole nere era animata dal vento, dando vita a figure mostruose.Continuarono a correre, il respiro tagliato in due dalla fatica e i volti

madidi di sudore. Darius voleva seguire il piano di fuga concordato con Clemio il giorno precedente al Trionfo degli Dei. Non erano riusciti a sabotare l’arena, ma le carte in tavola erano volte improvvisamente in loro favore. Non potevano lasciarsi sfuggire quell’occasione.«Ci siamo, forza» ringhiò, più per dare coraggio a se stesso che ai

compagni.

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Seguirono le vie secondarie che attraversavano i quartieri sotto la giurisdizione di Morrein, evitando daelish e gruppi sbandati di altri schiavi, vaganti in quel labirinto di mattoni e metallo.Il rimbombo di stivali che martellavano il lastricato attirò

l’attenzione del lanciere.Darius riconosceva quel suono cadenzato. Si sporse da un muro,

vide ranghi di soldati attraversare la strada come un torrente ingrossato, e una vampata di calore gli infiammò il volto. Chiuse gli occhi e immaginò se stesso correre nel vicolo, lanciarsi nel mezzo del plotone imperiale mulinando la spada. Ucciderli, ucciderli tutti.Alatea gli strinse la mano con forza. «Darius?»L’anduriano scrollò il capo, cercando di mantenere la

concentrazione, di ricordare le indicazioni di O’Rednar. Guardò i compagni e comprese che le loro vite dipendevano dalla sua.«Andiamo» sussurrò, e ripresero a muoversi.Trovarono la via d’accesso alla pista di lancio del principe. I cancelli

erano stati sfondati. Guidò i compagni oltre il varco, imboccando un sentiero disseminato di cadaveri di daelish. Così tanti che era impossibile intuire per quale fazione avessero impugnato l’acciaio. Alatea si teneva aggrappata al suo braccio, a volte incespicava per poi rimettersi rapidamente in piedi, senza mai lamentarsi.Darius trattenne l’esultanza quando colse le scintillanti ali di titanio

di due veicoli fermi sulla pista. A pochi passi dalle navette infuriava uno scontro, scandito dal fragore degli spari.Morrein era tenuto sotto scacco dal tiro dei rivoltosi.Il lanciere colse la cresta di capelli del principe, mentre rispondeva

al fuoco, riparato dietro serbatoi di celion liquido. I proiettili avevano trapassato in più punti i contenitori e pozze di combustile si allargavano al suolo.L’anduriano fece un rapido cenno a Teero e insieme sgattaiolarono

dietro la parete di un deposito, trascinando con loro Alatea. Darius si sporse con il capo, gli occhi fissi sulla pista. Nessuno sembrava averli notati.

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Si ritrasse, poggiando la nuca contro il muro e trasse un profondo respiro.«Che facciamo?» lo incalzò lo skaar. Darius aveva strappato una

manica della tunica di Alatea e l’aveva usata per bendare il capo del vecchio.«Non ho scelta» rispose il lanciere con voce grave. Lasciò andare la

mano della ragazza e il sangue parve riaffluire nell’arto, fino alla punta delle dita. Incrociò lo sguardo dell’uomo rettile e disse: «Resta qui con loro. Raggiungimi quando la via sarà libera.»Darius sfoderò la daga legata alla vita, brandì un pugnale nell’altra

mano, e uscì allo scoperto senza guardarsi indietro. Sentì il vento sfiorargli la faccia mentre puntava verso il daelish più vicino. Il fragore delle armi riempiva l’aria, copriva i suoi passi.Una pallottola di Morrein gli sibilò a breve distanza dall’orecchio.Occhio a dove spari, bastardo. Sto per farti un favore.Il primo dei pelle grigia era troppo concentrato nel ricaricare la sua

arma per accorgersi del pericolo che sopraggiungeva alle spalle. Darius gli piantò il coltello nella nuca, senza nemmeno concedergli la possibilità di emettere un suono, poi roteò sulla gamba d’appoggio, scagliando la lama, ancora intrisa dal sangue della prima vittima, contro un secondo daelish. Questi colse il balenio dell’arma indirizzata alla sua testa, e tentò di abbassarsi un istante prima d’essere colpito.L’anduriano allungò la falcata quando vide le canne dei fucili

puntare nella sua direzione. Poi Morrein fece il resto.Il principe approfittò del diversivo per uscire allo scoperto. Il fuoco

del nobile impegnò l’ultimo tiratore ribelle ancora in piedi, dando il tempo a Darius di piantargli la spada fino all’elsa nella schiena.L’anduriano estrasse con rapidità la lama dal cadavere e i suoi occhi

incontrarono quelli di Morrein. L’arroganza nel principe sembrava aver lasciato il posto alla sofferenza. Il daelish era ricoperto di tagli ed escoriazioni, il sangue scorreva copioso da una ferita alla spalla.

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«Togliti dai piedi» tuonò Darius. «Non ci interessi, è il veicolo che vogliamo.»«Impossibile.» La voce del daelish era tremula, tossì e si piegò in

avanti sputando sangue. «Solo una delle navi ha carburante a sufficienza per lasciare Xendria, e quella è mia.»Darius incassò la testa tra le spalle e i suoi occhi grigi si fecero duri

come la pietra. Le nocche sbiancarono, quando serrò le mani intorno alla spada. Tese i muscoli del corpo, pronto a scattare come la corda di un arco, e sibilò: «Questo è tutto da vedere.»«Abbiamo trovato il senatore Khoir, Imperatore» Caio Settimo si

voltò in direzione del suo primo ufficiale, Traio. L’uomo aveva un portamento elegante nell’armatura istoriata, il mantello drappeggiato sulle spalle e l’elmo sorretto in una mano.La Legione dell’Aquila era penetrata come un pugnale fino al cuore

di Xendria. Non era stato necessario assaltare le mura, i ribelli li avevano invitati a entrare dalla porta principale. I daelish insorti avevano pugnalato alle spalle i propri fratelli, piegato la resistenza e cancellato ogni traccia della stirpe che sedeva sul Trono del Sangue, proprio come era stato stabilito dagli accordi.Un patto è ciò che vincola due parti al raggiungimento di un comune

scopo, ma Caio Settimo non era mai sceso a compromessi con nessuno.L’Imperatore camminò sulle macerie del palazzo reale, riducendo in

polvere i detriti sotto gli stivali. Il cielo era una cappa di nubi scure che attanagliava il sole in una morsa. Amava quelle sfumature di grigio prodotte dalle colonne di fumo. Simboleggiavano vittoria, rinascita, affermazione. Aprì il mantello con un colpo della mano e i suoi occhi si posarono sul volto del daelish.I due legionari che tenevano il senatore Khoir in custodia

scattarono sull’attenti e indietreggiarono. Caio assaporò l’odore della paura che impregnava gli indumenti del traditore. Lo sentì filtrare attraverso gli inalatori della maschera, quando trasse un profondo respiro. Il volto del daelish era sconvolto dal pentimento,

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dal dubbio di essersi fidato della persona sbagliata, e ciò gli diede piacere.«Perché?» gli gridò il senatore di Xendria quando lo vide arrivare.

«Che senso aveva distruggere la statua, quando vi avevamo già dato tutto ciò che avevate chiesto? Per quale ragione, Imperatore?»Il gelo calò tra i legionari presenti, e il viso del generale Traio

assunse un’espressione tirata, a disagio. Caio Settimo scosse il capo come un padre amareggiato. Nelle orecchie il ronzio dei meccanismi che alimentavano gli organi vitali era un sottofondo ai suoi pensieri.«Senatore» la voce dell’Imperatore era roca, metallica «mi

meraviglio di voi. Dovreste acclamare il vostro liberatore, io vi ho salvati.»«Salvati?» Khoir si portò le mani alla testa, gli occhi sbarrati. «Voi

avete spinto il mio popolo verso il baratro. La Dea Kalessania aveva indicato la strada, rendendoci esseri superiori. Cosa ne sarà di noi senza il reiv?»Settimo si avvicinò al daelish, talmente vicino da coglierne il

pulsare dei capillari violacei che affioravano sulla pelle. Serrò la mano meccanica a pugno e affermò: «Voi eravate schiavi del reiv, io vi ho liberati. Gli dei non esistono, esiste solo l’uomo e la sua ambizione. Io vi ho dato uno scopo: quello di servirmi. Xendria risorgerà, ho grandi progetti per questa città. Sarà il più grande sito d’estrazione di celion del continente occidentale e voi tutti sarete artefici della rinascita.»L’Imperatore avvertì un fremito risalire lungo la spina dorsale.

Percepiva la presenza di celion intorno a sé, nelle profondità del pianeta fino al nucleo. Il cuore prese a battergli con una maggiore intensità, come se fosse stato risvegliato dal sentore che presto avrebbe avuto nuove scorte di energia. Caio aveva progettato il suo corpo da solo. Anni di ricerche e sacrifici, di esperimenti condotti sugli orfani e i barboni strappati alle strade di Emperia e fatti sparire nel nulla. Lui aveva bussato alle porte della Torre del Sole di

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Andurian con i risultati del suo lavoro, e il Consiglio Accademico si era rifiutato di riceverlo.Eretico, l’avevano chiamato.Ma il tempo ripaga gli uomini pazienti. Coloro che osarono

prendersi gioco di lui furono costretti a piegare il capo al suo passaggio.«Schiavi del reiv? Voi ci state rendendo schiavi ora, Imperatore!»

disse sconvolto il senatore. «Delirate… le vostre parole sono un’offesa al mio popolo. I daelish sono esseri superiori, prendiamo il potere dalle stelle e dal sangue. Avevamo un patto, mi avevate dato la vostra parola e invece? Cosa ci avete offerto in cambio? Chi siete voi per poterci soggiogare?»L’Imperatore proruppe in un’improvvisa risata che riempì l’aria,

simile al verso dei corvi. Posò una mano sulla spalla del prigioniero e colpì, rapido come il battito del cuore. Gli occhi del daelish fuoriuscirono dalle orbite, quando il suo pugno gli trapassò il ventre.Caio Settimo ritrasse l’arto e il corpo del senatore cadde ai suoi

piedi.Il sangue gli colava dalle dita metalliche.«Io sono la morte.»

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X«Sai come far decollare questo affare?» gli chiese Teero, entrando

nella cabina di comando.Darius non rispose. Si accomodò sulla poltrona e strinse incerto le

dita sulla cloche. Passò in rassegna la strumentazione. Era la prima volta che metteva piede su un veicolo daelish, e le apparecchiature di controllo erano diverse, lontane anni luce dalle navi anduriane.Abbassò una leva che spuntava dalla console di navigazione, ma

non ottenne alcuna risposta dal sistema di bordo. Il tempo a sua disposizione scorreva in fretta, scandito dal battito del cuore. Presto altri ribelli avrebbero raggiunto la pista e cercato tra i cadaveri quello di Morrein, e allora si sarebbero accorti della fuga.Si grattò la cicatrice che gli solcava la fronte e osservò con

attenzione i comandi.Nel frattempo Teero si era avvicinato ai vetri e scrutava il cielo

fuori dall’abitacolo.«Merda!» lo skaar si girò di scatto, il volto era un mosaico di scaglie

scure che parve animarsi.Darius non dovette guardare all’esterno per capire cosa stava

succedendo, gli bastava tendere l’orecchio.Le strida dei sauri gli gelarono il sangue nelle vene.Il lanciere di Andurian imprecò davanti alla console, poi colse

qualcosa di diverso nella scacchiera monocromatica dei comandi. Un disco, simile a una membrana incassata nei freddi pannelli di metallo. La sfiorò d’istinto con il palmo della mano e questa si illuminò di un’intensa luce gialla. I pulsanti presero vita, accendendosi in una danza di colori sotto il suo naso. Stretta nel pugno, la leva di comando prese a vibrare e gli alettoni sputarono una scia di fumo grigio. Le turbine si azionarono e la nave si risvegliò, sollevando il ventre dalla pista.

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Una goccia di sudore rigò il volto di Darius. Si fece coraggio e provò a ignorare il ruggito assordante delle bestie dell’Imperatore.Le creature volavano in cerchio, ali nere spiegate contro le nuvole,

come avvoltoi.«Via di qui, alla svelta» sibilò tra i denti, poi tirò indietro la cloche e

il veicolo fluttuò bruscamente. Lo skaar artigliò la spalliera della poltrona per non perdere l’equilibrio.«Pensi di poterli tenere a bada?» gridò Darius a Teero, senza

staccare gli occhi dai comandi.L’uomo rettile contrasse le narici e assestò un pugno contro il

palmo dell’altra mano, con uno schiocco secco.Il lanciere lo sentì poi correre fuori dalla cabina, lo sferragliare

dell’armatura e il suono dei suoi passi mentre raggiungeva la torretta difensiva installata in coda al veicolo.Un pulsante lampeggiò di rosso, richiamando la sua attenzione.

Trattenne il respiro e lo sfiorò. I motori esplosero in un boato, lanciando la nave contro le nuvole. Una sensazione di vuoto allo stomaco seguì l’improvviso moto ascensionale.Darius serrò entrambe le mani sulla cloche e cercò di tenere il

veicolo fuori dalla portata dei sauri. Lingue di fuoco azzurro incendiarono l’aria, e il rivestimento interno dello scafò vibrò.Un cavaliere alato spinse il proprio sauro verso il fianco sinistro

della nave daelish. La bestia planò sotto le ali metalliche, sottraendosi al vortice di fuoco sprigionato dalla mitragliatrice di Teero, e risalì le correnti d’aria posizionandosi in parallelo rispetto alla cabina di pilotaggio.Darius distolse gli occhi dalla rotta, quando uno stridio si abbatté

sui vetri dell’abitacolo, rischiando di ridurli in frantumi.Le fauci della creatura si dischiusero, e due file di denti affilati come

spade balenarono alla luce del sole. La testa era un ammasso di scaglie e placche ossee, nere come gli abissi di Hyvrea.L’anduriano si specchiò nel visore del cavaliere alato, quando questi

gli puntò la canna del fucile contro la faccia.

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L’imperiale non fece in tempo però a premere il grilletto.La torretta ruggì e una scarica di colpi dilaniò un’ala del rettile. La

bestia si contorse e vorticò su se stessa, sputando fuoco blu contro il vuoto. Il legionario rimase aggrappato alle briglie e il suo grido sovrastò il ruggito del rettile, quando questi si schiantò sui tetti della città.L’anduriano lanciò la nave verso le cime scintillanti di quelle

montagne così aguzze da perforare l’orizzonte. I reattori diedero potenza, bruciando il celion liquido contenuto nei serbatoi, e i fuggitivi evitarono gli artigli dell’Aquila Imperiale.Dietro la scia del veicolo, l’alito dei sauri era un artiglio color zaffiro

che cercava di scalfirne il rivestimento in titanio. Teero li teneva alla larga con raffiche di piombo, intervallate da grida di sfida e insulti che si perdevano nel vento.Sotto di loro, Xendria era immobile. Le torri, che prima si ergevano

fino a sfiorare le nuvole, erano collassate su loro stesse, seppellendo strade e palazzi. Gli incendi avevano preso il posto dei lampioni, e lingue cremisi si contorcevano, disegnando sulla terra i contorni di un serpente che strisciava tra i vicoli, infettando la città con il suo veleno.Darius apprese in fretta come comandare la nave daelish. Una

piccola sfera di mercurio ruotava all’interno di sostegni metallici, fungendo da bussola, mentre i quadri luminosi lo tenevano informato sui livelli di energia ancora a disposizione dei motori. Il veicolo aveva l’aspetto di una sinuosa farfalla di metallo, con ali piccole e schiacciate. Ideali per tagliare il vento.L’anduriano si era liberato del peso della corazza, scaraventando

sul pavimento il corpetto lamellare. Il petto era incrostato dalla polvere e le braccia ricoperte da chiazze di sangue secco e lividi.Si sporse sulla poltrona, lanciando lo sguardo oltre i vetri

dell’abitacolo. Avevano volato per quasi due ore, lasciandosi alle spalle i ripidi passi delle montagne Shyryan che assediavano le mura

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di Xendria. Erano risaliti verso nord, lambendo le vette più alte delle catene montuose del Huumran.Non avevano una meta, volevano soltanto sparire.La navetta sfiorò i costoni rocciosi, sferzando le correnti e

piombando a valle, dove il grigio delle alture aveva lasciato il posto ai colori della foresta. Chilometri e chilometri di alberi, un tappeto di fronde e rami che impediva di scorgere la terra. Le cime sussultarono e si piegarono al suo passaggio, mentre il sole calava lento verso l’orizzonte inondando la radura con un’esplosione di luce liquida.Un fruscio di passi leggeri lungo il ponte della nave, lo avvisò della

presenza di Alatea nella cabina.La ragazza posò una mano contro la parete. Appariva stanca, i

lunghi capelli erano un groviglio di nodi che le ricopriva le spalle. La veste era strappata all’altezza di un ginocchio, e un rivolo di sangue secco le rigava la gamba fino alla caviglia.«Come stanno i feriti?» chiese Darius, spostando lo sguardo dagli

occhi di lei alla console della nave.«Non bene» rispose la giovane con voce velata da una punta di

tristezza. «Il maestro ha ripreso a lamentarsi. Ho cambiato le bende, ma la ferita emana un cattivo odore. Teero ha trovato una cassetta medica in uno scomparto, e ho applicato degli oli per combattere l’infezione, ma la sua fronte scotta. Ha bisogno di un guaritore.»«Noi non abbiamo un guaritore» l’anduriano abbassò il capo.Non sapeva cosa fare. Le città erano tutte sotto il controllo

dell’Impero, sarebbe stata una follia atterrare in una di esse con una nave daelish. Non avevano cibo né acqua e, nonostante fossero distanti da Xendria, le strida dei sauri riecheggiavano ancora nella sua testa.La paura che Caio Settimo avesse dato l’ordine di inseguirli lo

paralizzò.

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«Anche il principe ha ripreso i sensi» continuò Alatea, strappandolo ai suoi pensieri. «Sta vaneggiando, continua a chiedere di dargli il reiv.»Al suono di quelle parole, Darius strinse la mano a pugno così forte

che le unghie gli si conficcarono nel palmo. Perché era stato tanto stupido da caricare Morrein a bordo? Non era suo amico. Il suo, di amico, stava morendo e lui non sapeva come aiutarlo. Doveva salvare Clemio. Rimase in silenzio, e davanti ai suoi occhi presero forma i ricordi della permanenza a Xendria, il volto di O’Rednar, le mani ossute intente a ricucirgli le ferite del corpo e dello spirito. Il vecchio accademico l’aveva aiutato a scavare a fondo nel suo cuore, a ritrovare ciò che il tempo e il dolore avevano cancellato. Se ora non era uno spettro che vagava imprigionato tra la terra e l’aldilà, era perché Clemio gli aveva ricordato chi era e in cosa credeva. E perché gli aveva salvato la vita.Darius deglutì e per un istante ebbe la sensazione che il reiv stesse

riempiendo la sua bocca con quel sapore metallico di sangue, proprio come il giorno in cui l’accademico si era preso cura di lui. Rivide la fiala emergere dalle pieghe della tunica del vecchio, la luce del cristallo filtrare attraverso di essa e donare lucentezza a quel liquido purpureo.Reiv.Era stata la prima cosa che Morrein aveva chiesto, appena

riacquistati i sensi.Una vampata di calore improvviso gli incendiò il viso e un sospetto

si insinuò nella sua mente. Si sporse in avanti e controllò la bussola, il lento movimento della sfera all’interno del quadro. I suoi occhi da falco infransero i vetri della cabina, piombarono sul paesaggio sottostante individuando un’insenatura sul fianco sinistro della vallata.Gruppi di colline verdeggianti si stagliavano al di sopra delle cime

degli alberi, offrendo protezione dagli sguardi famelici dell’Aquila Imperiale.

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«Torna di là e tieniti forte, stiamo per atterrare» ordinò Darius ad Alatea.La ragazza uscì dalla cabina, lasciandolo solo e concentrato sui

comandi.La nave ondeggiò e le ali vibrarono. Il gladiatore intervenne sulle

leve, riducendo la potenza dei motori e guidando la discesa verso il suolo. Gli alberi oscillarono in un vortice di rami e foglie e il manto erboso che ricopriva il suolo si aprì, rivelando la terra in cui gli arbusti avevano messo le loro radici.La navicella rimase sospesa a un passo dalla superficie. Darius

sfiorò la membrana traslucida installata nella console e le luci dei controlli di bordo si assopirono quando il veicolo toccò finalmente terra con uno scossone. L’anduriano sgusciò fuori dalla cabina e percorse lo stretto ponte. Il cuore gli batteva all’impazzata, riempiendo le orecchie con un ritmo assordante.Clemio e Morrein erano stati adagiati su due brande nella stiva.

Teero era seduto su una cassa e li fissava, le braccia incrociate sul petto nudo, libero dalle piastre d’acciaio della corazza. O’Rednar sembrava uno spettro che si aggrappava ostinato alla vita, le labbra erano livide e il volto esangue. Alatea era seduta al suo fianco e gli teneva una mano stretta tra le sue.Alla vista dell’amico, Darius si sentì paralizzare. Le gambe

divennero pesanti come blocchi di granito. Non poteva permettersi di perderlo, non era giusto.Dal suo giaciglio, Morrein si agitò. Un proiettile gli aveva trapassato

la spalla destra, e il ventre portava i segni di una lama. Gli indumenti erano strappati in più punti e inzuppati di sangue.Il principe daelish guardò Darius e farfugliò qualcosa: «Il r-reiv…

prendilo…»L’anduriano si avventò sul pelle grigia moribondo. Lo perquisì,

frugò nelle pieghe del corpetto, gli rivoltò le tasche, ma niente.

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«Il reiv» Morrein gli strinse la mano intorno al polso in una breve ma intensa morsa. L’erede al trono di Xendria piegò il capo di lato e i suoi occhi parvero indicare qualcosa.Darius seguì la direzione dello sguardo e balzò in piedi.«Aiutami a cercare» chiese a Teero, e insieme rovistarono negli

scomparti della stiva, aprirono gli armadietti di metallo e scoperchiarono le casse ammassate negli angoli della nave, trovando all’interno armi, coperte, frammenti di celion, indumenti e un otre vuoto.«Non c’è nulla» sentenziò lo skaar, sbattendo il coperchio di un

contenitore.Il lanciere non si arrese. Continuò a frugare tra le scorte in

dotazione della nave, convinto che i daelish, nella loro fredda smania di controllare tutto, fossero preparati a ogni evenienza e alla fine la perseveranza gli diede ragione.Le sue dita si cinsero intorno a un oggetto rettangolare. Uno

scrigno.Sollevò il cofanetto all’altezza della faccia e ne osservò per un breve

istante le rifiniture. Era di legno e sul coperchio era stato intagliato il volto della Dea Kalessania, gli occhi fissi nei suoi. Toccò un pulsante d’ottone inserito nella parte frontale dell’oggetto e il coperchio si sollevò, rivelando ciò che vi era custodito.Tre fiale giacevano su guanciali di velluto nero, lunghe e ripiene

fino all’orlo di quel liquido purpureo che aveva costituito per secoli il potere dei daelish. Il reiv.Darius ne prese una tra le mani e la osservò per un istante, poi

richiuse lo scrigno con uno scatto secco e lo posò su una cassa. Alatea si era rimessa in piedi e le mani stringevano un lembo della veste per il nervosismo.Una smorfia si fece largo sul volto di Morrein, ma l’anduriano la

ignorò.La sua attenzione era tutta concentrata su Clemio. Rimosse il tappo

di sughero con i denti e si avvicinò al compagno. Gli sollevò il capo

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con una mano e questi sussultò in preda a uno spasmo di dolore, una benda sporca di sangue celava i segni della punizione daelish.O’Rednar puntò l’occhio sano nei suoi, la pupilla arrossata dalle

lacrime e l’aria smarrita di chi non riusciva a comprendere cosa gli stava accadendo. Darius fece un cenno con il capo, avvicinò la fiala alla bocca del vecchio e il tempo nella stiva parve fermarsi.Alatea varcò il portale di sbarco della navetta, e la brezza notturna

la avvolse, increspandole la pelle sulle braccia scoperte. Inspirò il profumo della foresta, l’odore delle foglie e della resina che rigava i tronchi degli alberi, e un sorriso le si allargò sul volto.Ora capiva cosa significava essere liberi.Protese le braccia in avanti e rivolse i palmi delle mani verso il

basso. Poteva sentire gli influssi della terra vibrare nel suo corpo e tramutarsi in energia. Aveva imparato dove mettere i piedi fin da bambina. C’era stata una donna al palazzo del principe Morrein, schiava proprio come lei. Alatea non ricordava il suo nome, ma a volte poteva rivivere le emozioni provate quando, nel vederla in fila al refettorio, le aveva urlato contro, chiamandola demonio. Lei aveva pianto, affondato il volto nella tunica di Clemio fino a sparire tra le pieghe.“La stregoneria non esiste” le aveva detto il maestro nell’asciugarle

le lacrime “non dare ascolto a quella selvaggia, il tuo è un dono. I tuoi genitori vegliano su di te, è il loro amore che guida i tuoi passi.”I cespugli frusciarono al tocco della veste. Aveva trascorso le ultime

sei ore nella stiva della nave a prendersi cura dei feriti, senza concedersi pause e toccando solo un pezzo di carne di coniglio che Darius aveva cacciato nel bosco. Non si sentiva affamata.Annusò l’aria. La presenza dell’anduriano era riconoscibile anche a

dieci passi di distanza, un elemento alieno in quell’ambiente selvaggio. Quando lo raggiunse, lui brontolò qualcosa che le sembrò un saluto. Andava a schiarirsi le idee, aveva detto l’uomo a Teero prima di uscire dalla nave.

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Alatea riusciva a percepire il turbamento che angosciava il gladiatore. Fili d’energia che vibravano intorno a Darius fino a intrecciarsi in una cappa, una barriera che fece fatica a penetrare per insinuarsi nella sua mente. Sentì il dolore dell’anduriano, una voragine d’oscurità che le risucchiò all’improvviso tutte le energie, costringendola a interrompere la connessione.«La fiala ha fatto effetto» gli annunciò. Si piegò in avanti, tastando

una roccia con le dita e il muschio le solleticò i polpastrelli. Calcolò lo spazio che aveva a disposizione e si sedette.Darius rimase in silenzio, non le parve affatto sorpreso della notizia.Era questo il segreto dei daelish, allora? La spasmodica ossessione

per il sangue umano che li portava a sacrificare centinaia di vittime al cospetto della Dea Kalessania?La ferite di Clemio si erano rimarginate in brevissimo tempo, la

febbre era sparita e la sua carne non emanava più quel fetido odore di morte.«Ha chiesto del cibo. Non avevo fame e gli ho ceduto parte della mia

cena.»«Avresti dovuto mangiare di più anche tu» la voce dell’anduriano

era profonda, velata da una costante amarezza. «Potrebbe essere un viaggio lungo e non so quando potremo fermarci per trovare altro cibo.»«È la prima volta che esco da Xendria. Fino a questa mattina i

sotterranei del palazzo del principe erano tutto il mio mondo, ma ora… Dove pensi di andare, Darius? Per quanto ancora continueremo a fuggire?»«Non so» le rispose seccamente l’anduriano, e le sue parole si

persero come un sospiro nel vento.Alatea non aggiunse più nulla, rimase seduta sul masso ancora per

un istante. Cinse le ginocchia al petto con le braccia e tese le orecchie ad ascoltare la tranquillità della foresta. Se il maestro si era ripreso grazie al reiv, il principe invece giaceva ancora sul freddo pavimento della nave. Darius non aveva voluto somministrargli la pozione.

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Teero gli aveva cauterizzato le ferite con del liquore e una lama arroventata, ma poi era arrivata la febbre. La fronte del daelish era bollente e il battito del cuore sempre più debole. Ora era Morrein, il padrone, a puzzare di morte.«Che senso ha?» la domanda le venne fuori d’impulso e la sua voce

lacerò la coltre di silenzio che avvolgeva la piccola radura. «Perché portarlo a bordo, quando ti sarebbe bastato lasciarlo sulla pista a morire dissanguato? Non lo capisco, Darius.»L’anduriano sbuffò. Alatea lo sentì mentre si grattava la testa. Non

aspettò che le rispondesse, ma lo incalzò perché era la cosa giusta da fare.Ogni vita aveva il suo valore, anche quella del principe Morrein.«Dobbiamo dargli il reiv, o morirà prima dell’alba. Il suo spirito si

sta affievolendo, lo sento.»Darius scattò in piedi e le articolazioni schioccarono come fruste.«Come fai a provare pietà per lui? I daelish hanno ridotto la tua

famiglia in schiavitù. Hanno usato gli umani come vittime da asservire alla loro follia. Odio l’Impero più di qualsiasi altra cosa al mondo, si sono portati via la mia famiglia, la mia terra… tra tutte le città però, Xendria doveva cadere sotto gli artigli della Legione dell’Aquila. Che brucino, è questo quello che si meritano!»Alatea fu attraversata da un fremito, una vampata di calore

improvviso le accese il volto. Deglutì, cercando di contenere la collera.«Non osare nominare la mia famiglia. Tu non hai idea di quello che

io ho dovuto patire! Puoi lasciar morire il principe Morrein se vuoi, a te la scelta, ma sappi allora che tra te e i daelish non vi sarà più alcuna differenza. Come possiamo sperare in un mondo migliore, se non ci tendiamo la mano a vicenda? Non faremo molta strada, finché sarà solo l’odio a guidare i nostri passi.»Alatea riprese fiato. Il sangue le martellava nelle tempie, e nel

silenzio che seguì le sue parole il mondo vacillò.

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Darius aveva preso a camminarle intorno. Poteva distinguere il rumore dei sandali che calpestavano il terreno e si aspettava che da un momento all’altro lui le ordinasse di smetterla di infastidirlo e di tornare alla nave. E invece no. Sentì la mano ruvida e callosa dell’anduriano sfiorare le sue, il calore del contatto umano per un fugace istante, poi il tocco svanì e Alatea rimase immobile con una fiala di vetro stretta nel palmo.La luna era un disco bianco che indugiava in un cielo sfumato di

rosa, quando la nave dei daelish riprese il volo. Darius affondò nella poltrona, le mani strette sulla cloche. Era stata una notte insonne, dominata da dubbi e paure. Poggiò la testa contro lo schienale e salì di quota fino a quando le montagne, i boschi e le strade battute divennero semplici macchie di colore, tempere sulla tavolozza di un artista.I compagni di viaggio erano ombre che si annidavano negli angoli

della nave. Nessuno venne a disturbarlo fino a metà mattinata, quando Clemio entrò nella cabina di pilotaggio.Darius si girò. Il pallore cadaverico aveva abbandonato il volto

dell’accademico e una benda di stoffa grigia gli ricopriva l’orbita vuota. Indossava indumenti puliti, un’uniforme scura daelish presa in una delle scatole di rifornimenti, e i capelli erano ordinati in una treccia che scendeva dietro le spalle.Il vecchio avanzò fino alla console e sorrise, osservando il mondo

attraverso i vetri dell’abitacolo.«In un modo o nell’altro ce l’abbiamo fatta, comandante» esclamò

Clemio, lisciandosi il mento barbuto. «Lo skaar mi ha parlato della rivolta all’arena e dell’attacco dell’Impero. Hanno ucciso la regina…»«…e distrutto la statua» sussurrò il gladiatore, e le immagini della

fuga dall’anfiteatro ritornarono prepotenti nella sua mente. Rivide la pesante scultura rovinare giù per gli spalti e andare in pezzi, l’aura affievolire fino a spegnersi.

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«Kalessania?» l’accademico si portò una mano alla bocca e le rughe sul volto parvero accentuarsi, simili a solchi scavati nel terreno da un aratro.O’Rednar si staccò dai vetri e prese a muoversi intorno a Darius,

passando da un capo all’altro della cabina. Il gladiatore ne intuì i pensieri, erano gli stessi che lo assillavano da quando erano fuggiti da Xendria.«Il cielo è più grigio di quanto sembri» Clemio si riavvicinò ai vetri e

il suo sguardo si perse tra le nuvole e i pallidi raggi del sole. «Xendria era la fine, l’ultima città libera dell’occidente che non fosse ancora caduta nelle sue mani, l’unica potenza militare che avrebbe potuto tenergli testa. Con le miniere daelish si è assicurato il pieno controllo delle risorse energetiche di tutto il continente e il suo dominio sarà eterno, incontrastato.»«Eppure io non capisco» il lanciere scosse il capo, lo sguardo stanco

era fisso in avanti, «come ha fatto a portare i daelish dalla sua parte? Perché gli hanno permesso di prendere la città?»«Caio Settimo non è diventato un tiranno solo con la forza bruta. Lui

è astuto, malvagio e la sua sete di potere non ha limiti.» O’Rednar si passò una mano tra i capelli e trasse un profondo respiro. «C’era stato un tempo in cui l’erede al trono di Emperia aveva ambito a entrare alla Torre del Sole di Andurian. All’epoca si faceva chiamare con il suo vero nome, Neerim. Il mio maestro lo descrisse come un giovane cagionevole di salute, appassionato di medicina e ingegneria. Il giorno della prova di ammissione, presentò al Senato Accademico un esperimento che fece rabbrividire i membri del consiglio.«C’era un bambino, uno di quegli orfani pelle e ossa che vivono per

strada sniffando colla. Gli aveva impiantato un macchinario nel petto, un sistema di pompe e ingranaggi in grado di controllare il cuore, qualcosa di prodigioso, all’apparenza, ma che rivelava un fine distorto, folle, che trascendeva il vero significato della scienza. Non si può controllare il ciclo della vita, Darius. Nessuno può farlo. Si

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nasce, si cresce e si muore, questo è il punto, solo che il principe non riusciva a capirlo.»Darius distolse gli occhi dal volto segnato di Clemio e abbassò una

leva nella console, imprimendo maggiore potenza alle turbine. Il misuratore d’energia dei motori si abbassò di un’ulteriore tacca. Da quando erano partiti, i livelli di celion si erano ridotti della metà. La navetta non avrebbe volato all’infinito, non senza una meta.«Non c’è speranza.» La voce del lanciere subì un cambiamento

nell’inflessione. Nonostante si sforzasse di vedere la luce, nel suo cuore il sole aveva smesso di splendere. «Sto volando senza una direzione. Ho spinto la nave verso nord, pensavo che più mi fossi allontanato da Xendria e meglio sarebbe stato per tutti noi, ma ora? Non c’è più un posto tale da poter essere chiamato casa. Abbiamo lasciato che il mondo finisse in rovina. Siamo rimasti a guardare, mentre Caio Settimo ci rubava l’anima.»«Forse non è ancora finita» sussurrò O’Rednar, e un lampo

improvviso attraversò l’azzurro dell’iride, ravvivando quella fiamma che continuava ad ardere dentro di lui. Darius studiò il volto del compagno, in attesa, poi le labbra del vecchio si mossero e tutto gli fu chiaro: «Portaci a Lydra. C’è un tizio al porto che sa come aiutarci.»

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XIDarius si strinse nel mantello appesantito dalla pioggia. Il selciato

era ridotto a un pantano e il fango gli inzaccherava i sandali fino alle caviglie. Al suo fianco, Clemio era una sagoma che spariva tra le pieghe della cappa scura, il volto imperlato da gocce di diamante liquido.L’acqua veniva giù copiosa da un cielo color piombo, abbattendosi

su quell’ammasso di edifici omogenei vaiolati dalla salsedine. Lydra, l’antica città porto, fondata dai primi esploratori anduriani sbarcati sulle coste del continente occidentale. Lydra, città di nessuno, dove se non sai guardarti le spalle finisci con la faccia a terra e una lama piantata nella spina dorsale.Erano atterrati alle prime luci del giorno tra i boschi di querce a est

della baia. Alberi e distese verdeggianti si estendevano per miglia fino alla costa, terminando la propria corsa con un salto a picco sul mare. Tendaggi di pioggia si dilatavano sullo specchio d’acqua, e la spuma lambiva la spiaggia, per poi sparire risucchiata dalla sabbia.Da qualche parte oltre quel grigiore c’erano Andurian e la sua

scogliera.Avevano volato per tutta la notte, fino a prosciugare l’ultima scorta

di celion contenuta nei serbatoi. Quello, per loro, sarebbe stato un viaggio di sola andata.Darius aveva lasciato a Teero l’incarico di restare sul veicolo e

tenere d’occhio Alatea e il daelish. “Non sono una balia” aveva protestato lo skaar, sparendo in una delle cabine della navetta.Prima di prendere il sentiero per Lydra, Clemio si era avvicinato al

principe e i due avevano parlato per qualche istante. Il reiv aveva fatto effetto, le ferite si erano rimarginate lasciando solo delle sfumature scure sulla pelle grigia. Era diventato uno spettro che si annidava in un angolo della stiva, mangiando il necessario e parlando ancora meno. I suoi occhi erano fiamme opache che

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minacciavano di spegnersi. Qualcosa nell’animo di Morrein si era fratturato, oppure si era risvegliato in un incubo, proprio come ognuno di loro.I due anduriani camminarono per più di un miglio, piegati in avanti

a causa della pioggia e delle raffiche di vento che si portavano dietro l’odore del mare. La città non era cinta da mura, e le strutture sembravano emergere dal terreno come lapidi in un cimitero. Gli abitanti erano ombre di cenere che rimbalzavano da un vicolo all’altro. Darius poteva percepirne gli sguardi, gli occhi puntati sulla sua nuca. Serrò l’impugnatura della daga alla cintura. Il freddo acciaio premuto contro la mano, e quell’improvviso senso di disagio sparì.Si addentrarono nel labirinto di strade e mattoni, prestando

attenzione alle insegne sbiadite delle locande. Il Drago dei flutti.«Sei certo che sia ancora qui?» chiese Darius al compagno,

scrutando l’ambiente circostante da sotto il cappuccio di lana.«Lui non è andato da nessuna parte.» Clemio gli fece cenno di

seguirlo e insieme svoltarono a sinistra, penetrando in un vicolo in cui i tetti spioventi degli edifici parevano congiungersi, formando uno scudo contro la pioggia.L’odore di stufato di pesce e l’eco delle coppe sbattute sui tavoli si

fecero sempre più intensi mentre avanzavano. Una porta si spalancò e una lama di luce arancione perforò la penombra. Un ubriaco perse l’equilibrio e ruzzolò giù per la gradinata. Rise ad alta voce nel vano tentativo di rimettersi in piedi e, quando passarono oltre e salirono le scale di granito, chiese loro una moneta.Un drago di mare prendeva vita sull’ampio battente a forma d’arco

della porta. Il corpo allungato e le scaglie azzurre si perdevano tra le crepe che divoravano il legno. Darius tirò indietro il cappuccio e seguì l’amico.Il calore e il frastuono del locale li cinsero in un abbraccio.Il salone era ampio e disseminato di tavoli. Nonostante l’ora del

giorno, il Drago dei flutti era pieno fino a scoppiare. Le cameriere

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facevano fatica a muoversi in quel groviglio di persone, le braccia colme di boccali di birra e i vassoi sollevati al cielo.Un rumore di vetro infranto attirò l’attenzione di Darius. Un uomo

aveva allungato le mani verso il posteriore di un’inserviente, e questa non aveva esitato a fracassargli una bottiglia di liquore sulla testa, causando l’ilarità degli altri avventori seduti intorno al tavolo.«Avviciniamoci al bancone.» Clemio percorse la sala, lasciando una

scia bagnata sulle assi di legno del pavimento.L’oste era un uomo corpulento dai capelli ricci e le guance

infiammate dall’alcool. Era intento a spillare delle birre e a sbraitare ordini a un giovane barista rodrenario, quando O’Rednar gli rivolse la parola.«Cerchiamo Kod McDrauw.»L’uomo parve non dargli ascolto. Continuò il suo lavoro come se i

due anduriani fossero stati trasparenti. Pose i boccali pieni fino all’orlo su un vassoio e urlò in direzione di una cameriera, che scattò come una molla.Darius osservò per un istante la donna prendere le bevande e

immergersi nel caos assordante della sala.«Hai l’aria triste, tesoro. Cerchi compagnia?»Una prostituta dai capelli rossi e un sorriso sifilitico si materializzò

al fianco di Darius e gli premette il seno contro un braccio. L’anduriano la allontanò: «Non mi toccare.»«Cosa c’è, amore? Non ti piaccio? Mi hai vista bene?» La donna alzò

il tono della voce e proruppe in una risata che attirò gli sguardi di alcuni uomini seduti nelle prime file dei tavoli. «Preferisci gli uomini forse? O i vecchi, come questo storpio che ti porti dietro?»Il lanciere le voltò le spalle e i suoi occhi tornarono sul viso

rubicondo dell’oste.«È qui McDrauw?» ripeté Clemio con calma. «Sei sordo? Oppure

non parli la mia lingua?»«Amico, stai disprezzando la mia donna?» Un uomo dalla pelle color

ebano emerse da un angolo del Drago dei flutti. Era enorme,

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indossava solo un gilet di pelle nera sul torso nudo e peloso. Le assi di legno del pavimento gemettero sotto la sua mole, quando questi si portò alle spalle di Darius.«Guardami in faccia. È il potente Ubar che ti parla, pezzente!» Una

mano si posò sulla nuca del lanciere, e tozze dita gli cinsero il collo.Darius scattò con la rapidità di un felino. Assestò un pugno allo

stomaco dell’aggressore, con tale violenza che questi si piegò in avanti. Congiunse le mani dietro la testa di Ubar e gli sferrò una serie di ginocchiate al volto, fino a quando non udì il setto nasale andare in frantumi.Il silenzio calò nella sala, e le teste si voltarono all’unisono in

direzione del bancone.L’anduriano afferrò le spalle del gigante e, sotto gli sguardi attoniti

degli spettatori, gli fece sbattere con forza la faccia contro il bancone di marmo. Una, due volte, finché fu a corto di fiato.Ubar si accartocciò ai suoi piedi sputando sangue e denti.Il gladiatore allora sollevò il capo, il volto infuocato dalla collera, e

fulminò l’oste con lo sguardo: «Te lo ripetiamo per l’ultima volta: Kod McDrauw. Dove sta?»L’uomo arretrò di qualche passo, e le bottiglie di liquore

tintinnarono quando urtò gli scaffali con le spalle. Il viso sembrava aver perso qualche sfumatura di rosso, in favore di un pallore cadaverico, e la sua pelle emanava un tanfo di sudore e paura. Puntò un dito verso un tavolo in un angolo della sala.Avvolto da una nube cinerea di fumo, un uomo si godeva in silenzio

lo spettacolo.«Grazie» Clemio rivolse un sorriso cordiale al locandiere e assestò

una pacca sulla spalla di Darius.Il lanciere osservò per alcuni istanti il proprietario del locale, poi

annuì e seguì il compagno verso il tavolo di McDrauw.«Clemio O’Rednar» l’uomo levò un bicchiere in direzione del

vecchio accademico e lo svuotò tutto d’un fiato. Strinse le palpebre, poi colpì il tavolo con il fondo del nappo con uno schiocco secco. Si

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portò la pipa alla bocca, traendo un lungo tiro, e il volto abbronzato e segnato dal tempo scomparve in una nuvola grigia.«McDrauw» Clemio gli rivolse un cenno del capo e si accomodò al

tavolo. «È un piacere saperti ancora in vita.»Darius tirò indietro lo schienale di una sedia e si sedette, gli occhi

puntati in quelli del vecchio marinaio.«Il gentiluomo che vedi qui con me si chiama Darius, un

comandante dei gloriosi lancieri di Andurian.»«Andurian? Credevo che la vostra isola fosse sprofondata nella

merda di Caio Settimo» sbottò Kod, versandosi un altro bicchiere dalla bottiglia posata sul tavolo.Darius studiò quell’individuo. Una massa di capelli grigi e stopposi

gli ricopriva il capo, la barba era raccolta in una treccia adorna di anelli colorati che gli ricadeva sul petto. Le braccia erano ricoperte da linee d’inchiostro scuro che raffiguravano volti demoniaci, piovre e altre creature uscite da un incubo. Occhiaie di chi non dormiva da giorni, forse da mesi, gli scavavano il volto. Qualsiasi cosa Kod McDrauw fosse stato in una vita precedente, adesso era solo un relitto che scivolava lento verso i fondali di un mare color piombo.Dal bancone provenivano i grugniti degli uomini che sollevavano

Ubar dal pavimento. Il colosso d’ebano era ancora privo di sensi, la testa gli ciondolava sul petto e la faccia era ridotta in una poltiglia sanguinolenta. Da qualche parte della sala, la prostituta lo stava ancora insultando.Darius si lasciò avvolgere dalla penombra e dalla foschia emanate

dal tabacco, e quelle parole cariche di disprezzo sfumarono, confondendosi tra le risate, le voci e gli altri rumori del Drago dei flutti.«Come te la passi, McDrauw? Non hai una bella cera» chiese

O’Rednar.Kod increspò le labbra in un sorriso marcio e scosse il capo, prima

di ingollare un altro cicchetto.

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«Ma guardati… sembri essere stato vomitato da uno squalo e vieni qui a farmi la predica? Il tuo, di aspetto, fa schifo. Cosa ti è accaduto all’occhio? Hai dato da mangiare al corvo sbagliato?»«Un incidente» tagliò corto l’accademico.Clemio allungò una mano, inchiodando sul tavolo la bottiglia

quando Kod la risollevò con il chiaro intento di svuotarsela in gola.Darius assistette in silenzio alla scena, la mascella contratta e le

spalle rigide come blocchi di marmo. Irritazione era ciò che provava in quel momento, verso quell’uomo, verso l’intera città. A Lydra il tempo sembrava essersi cristallizzato, e le persone che ne affollavano locande e strade non erano altro che anime condannate da un dio infame a rivivere in eterno la loro misera esistenza.«Cosa vuoi da me, O’Rednar?» l’uomo si accigliò, e gli occhi

divennero fessure. Serrò le dita della mano intorno al collo della bottiglia con tale forza che le nocche sbiancarono, e sputò veleno con alito etilico: «Sparisci e portati dietro quella specie di cane da guardia, non gradisco la vostra compagnia.»L’uomo aspirò dalla pipa e soffiò una nube di fumo che avvolse i due

anduriani.Darius sentì i peli sulla nuca rizzarsi. Un calore improvviso gli arse

le guance barbute, e il battito del cuore divenne assordante. Aprì la bocca ma le parole gli morirono sulle labbra quando Clemio gli sfiorò un braccio.«Ci serve il tuo aiuto, Kod» esclamò O’Rednar. «Siamo esuli, fuggiti

da Xendria. La Legione dell’Aquila ha preso la città e l’Imperatore ora controlla i giacimenti di celion dei daelish. Sai questo che significa?»McDrauw scrollò le spalle in silenzio, il volto inespressivo.«Te lo dico io, allora.» L’accademico si poggiò contro lo schienale

della sedia e il legno scricchiolò. «Significa annientamento, carestia, morte. L’ambizione di Caio Settimo è come un morbo che ti stringe la gola e ti succhia la vita dalle narici. Dove passa il suo esercito la terra muore, le acque diventano fetide e gli uomini schiavi. I suoi

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vessilli oscurano il sole. Ha infettato questo mondo con la follia e il celion l’ha reso invincibile.»Il vecchio anduriano prese una pausa, si lisciò la barba e sorrise.«Ma sappiamo entrambi che non è così. Caio Settimo può essere

fermato.»Kod McDrauw si agitò sulla sedia e sbarrò gli occhi iniettati di

sangue, come se qualcuno gli avesse piantato una lama dietro la schiena.«Io non ci torno là!»Darius sussultò quando il vecchio colpì il tavolo con un pugno.

Alcuni clienti seduti accanto si voltarono per un istante, prima di tornare a fissare i propri bicchieri senza fondo.«L’Imperatore può mozzarmi i piedi e darli in pasto ai pesci, io non

ci vado dall’altra parte, O’Rednar! Scordatelo!» La vena sulla fronte grinzosa del marinaio minacciò d’esplodere e uno spasmo ne deformò il volto.«Sei il solo che può farlo, conosci la rotta. Un altro marinaio si

perderebbe nella vastità del Grande Mare, navigherebbe per giorni, per settimane, ingannato dalle correnti, fino alla deriva. Ma non tu, Kod… non tu. All’epoca eri solo un ragazzo, giovane, troppo giovane per un’impresa di quella portata, e invece sei riuscito a tornare indietro.»«Uomini migliori di me hanno perso la vita, ho visto le loro budella

risplendere alla luce del sole. I demoni… i demoni ci prenderanno!» Kod si prese la testa tra le mani, la voce scossa dai singhiozzi.Darius allora capì. Quel vecchio non era altro che una vittima,

marchiata a vita dal passato. Voltò il capo, puntando gli occhi in quelli di Clemio. Aveva condotto uomini in battaglia abbastanza a lungo per saper distinguere un guerriero dalla carne per corvi, e McDrauw era carne per corvi.O’Rednar parve leggere i suoi pensieri e gli rivolse uno di quei cenni

con il capo che Darius aveva imparato a conoscere bene. L’amico era un calcolatore, uno scienziato, e aveva sempre un’alternativa pronta.

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«Kod, tu sei la nostra speranza.» Clemio sfiorò il braccio di McDrauw e la sua voce divenne rassicurante, melliflua. «La nostra unica speranza. Non potrei mai mettere a repentaglio la tua vita. Non ti sto chiedendo di andare a morire, ma di spingere il tuo sottomarino su quella che fu la rotta di Anareth Tendrav. Aiutaci, permettici di raggiungere i resti di quell’antica civiltà che ha dominato il mondo prima di noi. Nel passato c’è la chiave per salvare il futuro, ne sono certo.»«Quel vecchio bastardo di Tendrav ci ha fregati. No… non voglio

fare lo stesso sbaglio una seconda volta. Tu mi chiedi cose che non posso darti, anduriano.»«No, McDrauw.» Clemio scosse il capo. «Io ti chiedo di gettare

l’ancora al largo della costa e di concederci tre notti. Solo tre notti, poi potrai riprendere il mare.»Il silenzio seguì le parole dell’accademico, calando sulla sala del

Drago dei Flutti come un manto invisibile. Le voci degli avventori tacquero e i rumori della locanda cessarono, poi Kod McDrauw aspirò la pipa e il suo volto sparì in una nube di fumo grigio.«C’è un tempo per ogni cosa, O’Rednar. Un tempo per vivere e uno

per morire. Mi dispiace, non posso aiutarti.»Clemio trasse un profondo respiro e si tirò in piedi. «Capisco»

affermò con voce velata dalla delusione. «Hai fatto la tua scelta, spero sia quella giusta.»Darius scrollò il capo, frastornato, quando si accorse di essere

ancora al tavolo del marinaio. Seguì con lo sguardo l’accademico che attraversava il groviglio di tavoli e si affrettò a raggiungerlo. Urtò qualcuno mentre barcollava verso l’uscita, i suoi sensi erano annebbiati. Che cosa avrebbero fatto ora? Afferrò la maniglia e si volse per lanciare un’ultima occhiata alla sala.I due anduriani si immersero nelle vie fangose di Lydra senza

rivolgersi la parola. La pioggia era cessata e il cielo era ricoperto da un manto di nuvole scure che non lasciava trasparire la luce della luna. Darius ebbe la sensazione che la città si fosse svuotata,

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inghiottita da una foschia che sembrava infittirsi sempre di più a ogni passo.«Il vecchio ha parlato di demoni. A cosa si riferiva? Perché è così

spaventato?» disse all’improvviso, tirandosi il cappuccio sul capo.«Goliati» rispose O’Rednar con voce stanca. «Il mio maestro diede

questo nome alla razza che vive nelle rovine. I demoni non esistono, comandante. I goliati non sono altro che selvaggi. Un popolo, e dominano l’isola.»Darius rimase in silenzio per alcuni istanti, si morse il labbro. Non

poteva finire così.«Ci deve essere un altro modo.»Clemio si voltò di colpo, come destato dalle sue parole, e parlò tra i

denti: «No, Darius. McDrauw era il nostro uomo, lui conosce la rotta. Cercare ora un altro pilota significa perdere tempo e non possiamo permettercelo. Con che cosa poi avremmo pagato la traversata? Nessuno fa niente per niente, nessuno è disposto a rischiare. Sono stato uno stupido!»«Abbiamo sempre la nave dei daelish. Potremmo scambiarla per

un…»Darius non completò la frase. Si girò di scatto e la mano corse

all’impugnatura della daga.«Che c’è?» gli chiese Clemio. «Cosa hai sentito?»L’anduriano non rispose, serrò le palpebre in fessure cercando di

penetrare le maglie di nebbia che assediavano la strada. Per un istante gli era parso di sentire l’eco di stivali sul selciato, come se qualcuno li stesse rincorrendo. Tese l’orecchio, ma non udì nulla.«Allora?» lo incalzò il compagno, e lui scosse il capo.«Mi sono sbagliato. Torniamo alla nave.»Fecero per voltarsi, quando una figura all’improvviso squarciò la

cappa di bruma.«O’Rednar, vecchio bastardo! Mi farai scoppiare il cuore!»Un volto barbuto e segnato dal tempo prese forma tra i tentacoli

fumosi, si increspò in un sorriso marcio. Kod McDrauw.

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Darius osservò perplesso il marinaio mentre riprendeva fiato, poi incrociò lo sguardo di Clemio.«Cosa ti spinge a venirci dietro, McDrauw?» domandò l’accademico

a muso duro.«Avete ancora intenzione di partire?»

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XIITre giorni. Il tempo a bordo del sottomarino Shulzar scivolò via

lento. Solo un’altra notte di viaggio e sarebbero arrivati a destinazione, o almeno era ciò che continuava a ripetere quel vecchio pazzo chiamato McDrauw.Morrein era stanco, stanco di dividere lo spazio angusto dello scafo

con quell’accozzaglia di fuggiaschi, stanco di sentire i loro occhi puntati addosso. Prima di imbarcarsi a bordo del sommergibile, aveva avuto l’occasione di sparire, dileguarsi nella boscaglia e dimenticare il proprio passato, ma non l’aveva fatto. Aveva preferito attendere.«Siete libero di andare per la vostra strada, principe.» Gli aveva

sussurrato Clemio, il vecchio servo che si occupava della manutenzione al suo palazzo. I soldati gli avevano cavato un occhio, una punizione necessaria, esemplare. Ma non leggeva alcun risentimento sul volto dell’umano, solo indifferenza. «Non siete nostro prigioniero. Siamo atterrati vicino a Lydra, sulla costa nord. Potreste seguire le vie dei mercanti fino a Skroida, e magari imbarcarvi su una nave diretta in oriente, oppure…»«No» Morrein l’aveva interrotto bruscamente. «Io vengo con voi. Ho

capito che cosa avete in mente, e posso esservi d’aiuto.»Forse non tutto per lui era andato perduto.«Principe» Una voce sottile lo distolse dai suoi pensieri. «Vi ho

portato qualcosa da mangiare.»Alatea, questo doveva essere il suo nome, una schiava. Aveva

servito al suo palazzo, tuttavia lui non ricordava d’averla mai notata. Gli umani sono tutti uguali, pensò, eppure quella ragazza era diversa.La fissò mentre veniva avanti, il rumore dei passi coperto dal rollio

del ponte metallico. Era incuriosito dalla sicurezza con cui si

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muoveva, in una mano stringeva un piatto di latta, mentre l’altra era rivolta verso il basso, le dita distese ad afferrare il vuoto.Non le rispose. Rimase seduto sul pavimento nel fondo della stiva,

le spalle poggiate contro il fasciame, ma la ragazza riuscì lo stesso a individuarlo.«Riso» aggiunse la giovane, posando il piatto su una cassa di legno

di fronte a lui.La pelle era bianca, e le vene erano sottili ramificazioni di verde che

si arrampicavano lungo le braccia, sparendo tra le pieghe della veste. Tese l’orecchio e riuscì a separare il battito cardiaco della giovane dal ronzio delle turbine, dall’eco delle voci e dagli altri suoni che rendevano lo Shulzar vivo.I suoi occhi si posarono sul pasto quando la giovane gli voltò le

spalle e fece ritorno da dove era venuta. Allungò un braccio verso la cassa e afferrò il piatto. Quel cibo gli dava allo stomaco, puzzava. A Xendria avrebbe potuto mangiare le carni della più pregiata qualità, leccarsi le dita unte delle salse più raffinate… Xendria.Una fitta improvvisa gli attraversò il cranio. Serrò le palpebre per il

dolore e si artigliò la fronte. Gli sembrava d’avere chiodi piantati nella nuca, poteva sentirne le punte fare pressione proprio dietro gli occhi. I ricordi si erano tramutati in spasmi, mani invisibili che gli serravano la gola, strappandogli il respiro.Senatore Khoir. Gli bastava ripetere quel nome per tramutare la sua

rabbia in qualcosa di vivo, reale. Come aveva osato? Come avevano osato tutti? Aveva visto sua madre morire. Aveva dovuto impugnare l’acciaio per difendersi dai suoi stessi sudditi. L’avevano chiamato usurpatore, volevano il reiv. Reiv.Darius. Quel maledetto anduriano dagli occhi di ghiaccio aveva la

fiala. L’ultima fiala.Agguantò una manciata di riso e se la portò alla bocca, mandando

giù il boccone senza masticare. Doveva recuperare le forze. Aveva lottato, ignorato il dolore e ucciso per mettersi in salvo, ma era stato

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ferito a morte. L’emorragia l’aveva trascinato in un abisso, e la luce davanti ai suoi occhi si era affievolita fino a fondersi con le tenebre.Un’ombra poi si era staccata dall’oscurità, era strisciata fino a lui e

aveva sfiorato la sua fronte. Una voce lontana aveva invocato il suo nome, e il reiv gli aveva riempito la bocca, arso la gola. Si era risvegliato nella stiva della nave, e si era tastato il corpo trovando bende e abiti strappati, lordi di sangue.Non era stato un sogno, Xendria era caduta.Ripulì il piatto fino all’ultimo chicco di riso e poggiò la testa contro

la parete. Il rivestimento in acciaio dello scafo vibrava a causa della pressione idrostatica. Si chiese a che profondità stessero viaggiando. Aveva udito le conversazioni del vecchio Clemio. Un’arma sopravvissuta alla distruzione, lascito di un remoto passato, qualcosa di così importante per quegli umani da giustificare quella spedizione. Volevano muovere guerra all’Impero, fermare Caio Settimo.Sorrise.All’improvviso si rese conto che non gli importava più a che

profondità stessero viaggiando, o di dover sopportare per un altro giorno quel gruppo male assortito di fuggitivi. Avrebbe atteso, se ciò gli avesse dato l’opportunità di mettere le mani su quell’arma. Sarebbe tornato a prendersi ciò che gli apparteneva per diritto.Prima però doveva recuperare la fiala.Morrein schiuse le palpebre e rimase in ascolto. Silenzio.Si alzò con un movimento fluido, improvviso, e si diresse fuori dalla

stiva. Non c’era luce sul ponte del sottomarino, lo Shulzar stava dormendo.Il daelish lasciò che l’oscurità lo inghiottisse, che diventasse parte di

sé. Morrein era un’ombra, una macchia scura che scivolava lungo le pareti concave dello scafo senza produrre alcun suono. Gli occhi si adattarono e la visuale si accese di un viola incandescente. Emerse dal fondo dello Shulzar e raggiunse l’ingresso di una cabina, insinuandosi nello stretto corridoio, percorso su entrambi i lati da

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fasci di tubature arrugginite. Si arrestò a pochi passi dalla soglia quando udì un rumore provenire dall’interno del vano. Tese l’orecchio e i sensi si affinarono come lame di coltello. Un raspare lento, profondo, simile a due massi sfregati tra loro all’interno di una caverna. Russare. Si sporse da dietro la parete e mise a fuoco. Teero, lo skaar acquistato al mercato nel deserto di Sahanna, il guerriero che aveva comandato la sua squadra di gladiatori, ora giaceva sul pavimento ai piedi di una branda.Morrein sollevò il mento verso il lettino. Avvolta in una coperta, la

ragazza cieca sembrava essersi smarrita nei propri sogni. La osservò per alcuni istanti, i pugni stretti sotto il mento e la bocca socchiusa. Scosse il capo, e continuò a frugare nella cabina con lo sguardo. Dell’anduriano non c’era traccia.Fece un passo indietro e riprese ad avanzare. Deterse il viso con un

braccio, arrestando la corsa di una goccia di sudore che gli rigava lo zigomo. Le altre cabine, simili a caverne scavate nell’acciaio, erano vuote. Salì una rampa di scale, quando venne attraversato da un fremito. Le gambe si inchiodarono sulla passerella di metallo, rigide come sbarre di titanio, ed ebbe la sensazione che le tenebre lo stessero abbandonando, rigurgitandolo come un pezzo di carne mal digerito.Era ancora debole, il suo organismo aveva assorbito fino all’ultima

goccia di reiv che gli era rimasta in corpo. Attingere ai poteri ora gli stava costando molta, troppa energia. Un brivido risalì lungo la spina dorsale e la paura di fallire, d’essere scoperto, divenne vivida certezza. Strinse le palpebre e trasse un profondo respiro. Non poteva fallire.Il tunnel si allargava a imbuto nello Shulzar, terminando la propria

corsa nella testa bombata del sottomarino. Davanti ai suoi occhi, un arco tagliava la parete di metallo delineando l’accesso alla sala comandi. Colse le luci dei pannelli, macchie sfocate di bianco che balenavano nella sua visuale, e udì le voci, parole e discorsi che rivangavano un passato lontano. McDrauw e Clemio.

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Fece guizzare gli occhi da un capo all’altro del ponte, scandagliando le ombre che si contorcevano nell’oscurità. Sapeva che era lì, ne sentiva il richiamo. Si leccò le labbra secche e immaginò le gocce di reiv bagnargli la gola.L’anduriano sedeva in un angolo, riparato tra due casse. Le spalle

poggiate contro lo scafo e le gambe allungate sul pavimento. La testa rasata gli ciondolava sul petto e il suo respiro era cadenzato, stanco. Stava dormendo.Morrein inchiodò lo sguardo sull’ingresso alla cabina di comando e

si mosse, radendo la parete dello scafo. I muscoli tesi come la corda di una balestra pronta a scattare. La sua preda si fece sempre più vicina, passo dopo passo.Darius sussultò, e il cuore del daelish smise di battere.L’anduriano mosse le palpebre e fissò l’oscurità per un breve

istante. Scrollò il capo, si prese la fronte tra le mani e poggiò la nuca contro la parete, richiudendo gli occhi.Morrein sorrise, non l’aveva visto.Il principe si fuse con il buio, gli occhi incollati sul gladiatore, e

aspettò che l’uomo sprofondasse nel sonno, che il suo respiro tornasse a essere cadenzato. Il cuore del daelish prese a battere con forza, risvegliato dalla vicinanza del reiv. La cappa di ombre che avvolgeva Morrein, ancora una volta, fu sul punto di dissiparsi quando lui perse la concentrazione. Si strinse una mano al petto, cercando di attutire quel martellare incessante e piegò le ginocchia. Non aveva più tempo.Infilata di traverso nel cinturone di cuoio, la fiala emergeva tra le

pieghe degli indumenti. Al suo interno, l’elisir era pura energia intrappolata dal vetro e dal sughero, e attendeva di dare potere, di rendere invincibili.Morrein allungò un braccio e tentacoli d’oscurità si mossero con lui.

Trattenne il respiro. Le dita sfiorarono il recipiente, lo arpionarono, strappandolo dalle mani empie di un essere che non avrebbe mai

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compreso a pieno il potere donato ai suoi figli dalla Madre Kalessania. Un potere venuto dalle stelle.Non si voltò indietro. Si mosse con rapidità, lasciando un vessillo

oscuro alle sue spalle, e discese i gradini. Ripercorse il ponte con la fiala di reiv stretta in mano. La sua mente era lucida, sgombra da quei pensieri che l’avevano reso un debole. Deglutì, gustando il sapore della vittoria formarsi in gola.Entrò nella stiva posta in coda al sottomarino e fu accolto dal

rumore meccanico delle turbine. Nella sua mente il piano d’azione era cristallino, come l’acqua di quel mare che stava attraversando per afferrare la speranza. Si sedette nel suo angolo e osservò il liquido cremisi contenuto nella fiala, poi si tolse uno stivale e lo sollevò. Il frammento della pietra syreana gli rotolò sul palmo della mano.Sì, aveva un piano, e anche la forza per portarlo a termine.«Ci siamo.»Una mano gli serrò il braccio, scuotendolo. Darius piegò il capo in

avanti, e il mento quasi gli sfiorò il petto. Sbatté più volte le palpebre fino a quando i contorni di un volto divennero definiti.L’occhio di Clemio era una pozza di luce azzurra che risplendeva

nella penombra dello Shulzar. Escrescenze increspavano il tessuto della benda posta sull’orbita vuota, e la pelle dello zigomo era un intreccio di grinze e segni.Il lanciere di Andurian si massaggiò il collo intorpidito e annuì.«Stiamo risalendo» l’accademico si voltò per fare ritorno nella sala

comandi e il mantello fluttuò, descrivendo onde di stoffa nell’aria. «Prepara le tue cose, comandante. Sbarcheremo con una capsula di navigazione.»Darius si mosse. Raggiunse il ponte, attraversando lo stretto tunnel

di metallo e tubature del sottomarino. I segnalatori luminosi posti nella parte alta del corridoio pulsavano, emanando un bagliore verde che illuminava i suoi passi. Il suono delle pompe idrauliche

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divenne assordante. Il lento e profondo ruggito di una creatura degli abissi che emergeva alla ricerca d’aria.«Finalmente!» Teero sbucò dalla cabina, sistemandosi il pettorale

dell’armatura con fare impaziente. Il corpo massiccio sbarrava l’ingresso al vano e la luce sfiorava le scaglie donando loro una sfumatura amaranto. «Non ne posso più di starmene chiuso in questa scatola di latta.»«Fammi passare, bestione» l’anduriano sorrise e gli assestò una

pacca sulla spalla nerboruta. «Raggiungiamo la riva con una scialuppa. McDrauw si ferma qui.»«Vecchio fifone.» Sentenziò l’uomo rettile, contraendo le narici in

un gesto carico di disgusto.Darius scivolò all’interno della cabina e i suoi occhi frugarono tra le

brande alla ricerca della giovane. Alatea era seduta al centro di un lettino.«Anche tu dovresti fermarti qui, ragazzina» disse l’anduriano,

raccogliendo da un angolo del pavimento il corpetto della corazza lamellare. «Dovresti attendere sullo Shulzar il nostro ritorno, fare compagnia al vecchio e assicurarti che non gli venga l’idea di lasciarci qui.»«No, Darius.» Alatea scosse il capo. La sua voce era bassa e decisa.

«Io non resto indietro. McDrauw non ha bisogno di un guardiano, ha dato la sua parola.»Il lanciere strinse i fermi dell’armatura e fissò la ragazza, mentre

questa si rimetteva in piedi, e un calore improvviso gli infiammò il volto.«Non è un gioco, Alatea. Non sappiamo cosa ci aspetta dall’altra

parte, e tu potresti essere in pericolo. Noi tutti potremmo esserlo.»«Allora accetterò il mio destino» la giovane si drappeggiò un

mantello sulle spalle e la figura minuta svanì sotto le falde di lana. «Ho solo il maestro, e voi. La mia vita sarebbe finita in ogni caso nell’eventualità che non tornaste indietro. Non vi sarò d’intralcio.»«È un rischio che non possiamo correre.»

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Darius troncò la conversazione e con essa le speranze della giovane di prendere parte alla spedizione. Abbassò il capo e indossò gli schinieri, fece scivolare la daga nel fodero legato alla cintura. Le sue dita corsero d’istinto lungo la cinghia di cuoio, alla ricerca di qualcosa, poi una voce lo interruppe.«Non se ci sarò io a proteggerla.»I suoi occhi incontrarono quelli del daelish. Il volto color antracite

di Morrein si allargò in un sorriso d’avorio.«Chi ti ha detto di parlare, verme?» I muscoli del collo di Teero

scattarono, quando lo skaar si mosse per affrontare il principe di Xendria. Darius trattenne a stento il compagno per un braccio. L’aria divenne di piombo.«Shhh… quanta irruenza. Conserva la tua furia per i demoni,

gladiatore. L’hai sentito McDrauw? I demoni!» Morrein agitò le mani davanti alla faccia e scandì le ultime parole con enfasi, come se stesse pronunciando una misteriosa formula magica, poi il sorriso svanì senza lasciare traccia.«Avrete bisogno di qualcuno che copra la vostra ritirata, se ci sarà

da fuggire» continuò il principe. Darius sentiva il peso di quello sguardo, le pupille cremisi che gli scavavano dentro. Una sensazione che aveva già provato nel cortile del palazzo a Xendria. «Io rimarrò sulla scialuppa, terrò i motori caldi e baderò alla ragazzina.»La capsula venne espulsa, sparata fuori dallo Shulzar come una

palla di cannone.Il ventre dell’imbarcazione rimbalzò sull’acqua e l’equipaggio

sussultò.L’anduriano raggiunse la console. Si fece largo nel groviglio di

gambe che occupava il pavimento. Stipati nello spazio angusto del veicolo, Teero, Morrein e Alatea erano in silenzio. Espressioni indecifrabili erano impresse sui loro volti.Darius rimase senza fiato quando vide ciò che avevano davanti.Procedevano a elevata velocità in direzione di una baia. Miglia e

miglia di spiaggia si estendevano a perdita d’occhio, sabbia bianca

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come montagne di granito sgretolate e disseminate dal vento. Il sole era un disco di luce abbagliante che sovrastava la vegetazione. Alberi. Una legione intera di alberi, fusti lisci e allungati, soldati silenziosi che assediavano la costa in formazione compatta, le cime come lance puntate contro il cielo.«C’è una terra ancora da scoprire lì fuori, comandante.» Clemio

O’Rednar sorrise, e le rughe sul suo volto parvero dissiparsi per un breve istante.Darius non seppe cosa dire. Osservò intontito la terraferma

diventare sempre più vicina. Non erano leggende di marinai, storie da raccontare intorno a un fuoco. Il mondo non finiva tra i flutti del mare.«Prepariamoci allo sbarco, amici.» Il vecchio accademico parve

elettrizzato, la sua voce tratteneva a stento la gioia. Il lanciere ripensò alle mappe, alle pergamene e agli ammassi di carte che affollavano l’alloggio del compagno a Xendria.Anni di attesa, anni di studi, anni di speranza.La loro, di speranza, era il lascito di un mondo scomparso, sepolto

fra le ceneri del tempo e dimenticato dall’uomo. Un’arma che attendeva d’essere brandita ancora una volta, una tecnologia che avrebbe spezzato l’oppressione. Caio Settimo. Il conquistatore, l’uomo che con i suoi piani di dominio aveva schiacciato nazioni, cancellato il futuro dei popoli. Darius deglutì e sfiorò con la punta delle dita le linee d’inchiostro che gli solcavano il collo. Le parole del giuramento gli echeggiarono nella testa.Io sono il sole che protegge i deboli dall’oscurità della notte. Io sono la

lancia di Andurian.Quale prezzo era stato disposto a pagare pur di onorare la

promessa?Leyna. Galeen. Antioch.Aveva sacrificato per Andurian tutto quello che amava, eppure non

era stato sufficiente. La guerra contro l’Impero era eterna. Arrendersi ora avrebbe significato uccidere la sua famiglia per una

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seconda volta, e non poteva permetterlo. Solo la morte aveva il potere di fermarlo, e lui le stava andando incontro per dimostrarle che non l’avrebbe spezzato.La capsula raggiunse la riva, e le pale delle turbine scavarono solchi

nella sabbia. Scie inghiottite dall’avanzata del mare.Darius sbloccò il boccaporto e saltò fuori per primo, affondando i

piedi nella rena. L’aria era umida e in pochi istanti la fronte gli si imperlò di sudore. O’Rednar porse un braccio ad Alatea, aiutandola a scendere, poi le prese entrambe le spalle tra le mani e bisbigliò parole che il lanciere non riuscì a cogliere.L’accademico tirò a sé la ragazza e la cinse in un abbraccio, poi si

volse verso il principe Morrein e disse: «Sai quello che devi fare. Per te vale lo stesso termine stabilito con McDrauw. Se all’alba del terzo giorno non ci vedrai sbucare dalla foresta, prendi Alatea e fate ritorno insieme allo Shulzar. Non allontanatevi dalla spiaggia per alcun motivo al mondo, l’entroterra è pericoloso e popolato da ostili.»«Maestro…» Alatea fece per protestare, ma O’Rednar le accarezzò la

fronte.«Non ti preoccupare. Andrà tutto bene.»L’accademico si staccò dalla giovane e fissò nuovamente il daelish.«Ho la tua parola, principe di Xendria?»Il daelish annuì con un gesto solenne del capo, per poi sistemarsi il

lancia dardi fissato all’avambraccio sinistro. Portava una daga nel fodero, su un fianco, mentre una faretra con proiettili di metallo gli penzolava all’altro lato della cintura. “Se devo difendere il nostro unico mezzo di fuga, allora datemi delle armi”, questa era stata la richiesta del principe. Accolta, nonostante le proteste di Teero.Darius incrociò lo sguardo di Clemio, poi quello dello skaar.«Andiamo.»O’Rednar si mosse per primo, l’alta figura coperta dalla cappa scura,

poi Teero e la sua enorme lama portata di traverso sulle spalle. Darius li seguì, la mente sgombra da ogni pensiero. I tre puntarono

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verso la linea degli alberi, lasciandosi alle spalle la capsula da sbarco, Alatea e Morrein.«Questa storia non mi convince» grugnì Teero, voltandosi verso

l’anduriano. «Abbiamo sbagliato ad armarlo.»«Morrein ha perso tutto proprio come noi, e vuole vendicarsi»

affermò Clemio, detergendosi la fronte dal sudore con la manica del mantello. «Gli serviamo, lo so, non ho ancora capito a che scopo, ma gli serviamo. I suoi poteri sono eccezionali, e niente ci vieta di poterli usare a nostro favore.»L’uomo rettile scosse il capo e si arrestò al limitare della boscaglia. I

rami degli alberi intessevano trame impenetrabili, e sotto il fogliame il sole era un estraneo.«Probabile, vecchio. Ma io continuo a non fidarmi. Che ne pensi,

Darius?»Il lanciere non rispose, si fermò prima d’essere inghiottito dalla

vegetazione, voltandosi verso la spiaggia. Alatea era ancora lì, dove l’avevano lasciata, il capo chino e la veste leggermente scossa dalla brezza. A qualche passo di distanza, il daelish era immobile e li stava osservando. Una figura slanciata, stagliata contro il cielo.Non ne era certo, ma per un istante Darius ebbe la sensazione che

Morrein gli stesse sorridendo.L’ingegnere lo attendeva in cima alla scalinata. Mastro Gorlheck,

una figura esile in uniforme da lavoro, utensili legati al cinturone di cuoio e sguardo basso. Occhi sfuggenti che lottavano per non incontrare i suoi.Caio Settimo aveva imparato a riconoscere quel tipo di

atteggiamento nei sudditi, a fiutare l’odore della loro paura anche a dieci passi di distanza. Salì i gradini con lentezza.Una corrente gelida arrivava dalle montagne del nord. Raffiche

impetuose piegavano gli alberi, sibilavano tra gli edifici di metallo di Emperia costringendo i suoi abitanti ad avvolgersi nei pastrani.«B-benvenuto alla Centrale, Imperatore. Ci onorate con la vostra

presenza.»

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Gorlheck gli rivolse un rapido inchino, articolando parole con voce simile a uno squittio. Occhiaie violacee gli solcavano il volto. Aveva l’aria di uno che non dormiva da giorni, Mastro Gorlheck.Caio ignorò l’ingegnere e sollevò il capo verso le impalcature che

attanagliavano la costruzione alle sue spalle.La Centrale di Revisione avrebbe gestito la lavorazione di tutto il

celion estratto nei giacimenti delle terre occidentali. Dopo la conquista di Xendria, nessun altro centro di raffinazione sarebbe stato consentito. Nessuna nave si sarebbe più alzata in volo, nessuna macchina avrebbe più funzionato senza il suo consenso. Energia significava potere. La Centrale era il simulacro del suo potere, solo che ora appariva come un bastione incompleto in una valle battuta dal vento.«Cosa.» chiese l’Imperatore con un filo di voce metallica.Mastro Gorhleck sussultò come se qualcuno gli avesse piantato una

lama in petto. Fece un passo indietro, ebbe addirittura l’ardore di levare per un istante il capo e incrociare il suo sguardo.«Maestà? Avete detto qualcosa?»Caio allargò il mantello con un gesto secco delle braccia e si

avvicinò al capo cantiere. Gorlheck parve rimpicciolirsi, un uomo-ratto, e arretrò fino a urtare una transenna con la schiena. Sotto l’impalcatura vi era solo il vuoto, un salto di dieci piedi verso terra.«Cosa rallenta la tua opera, ingegnere? La Centrale doveva essere

già ultimata, e invece ciò che vedo non è altro che una struttura vuota. Dove sono le macchine di trasformazione del celion? Dove sono i miei schiavi?»«I-Imperatore, ciò che voi chiedete è impossibile. Serve più tempo,

gli uomini devono dormire…»Mastro Gorlheck non riuscì a completare la frase.Caio Settimo scattò. Allungò un braccio meccanico e le dita cinsero

il collo dell’uomo. Lo sollevò dal suolo come se fosse stato una bambola di pezza e ne osservò il volto diventare paonazzo, mentre

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scalciava il vuoto e gli artigliava l’avambraccio nel tentativo di liberarsi.«Gli uomini devono dormire?» Avvicinò la faccia dell’ingegnere alla

sua. Il tanfo della paura si insinuò all’interno della sua maschera. Un odore acre che si confondeva con quello delle brache umide. La vescica di Gorlheck non aveva retto.«I tuoi operai avranno tempo a sufficienza per riposare quando li

avrò uccisi tutti. Non vi tengo in vita per dormire, o mangiare. Vi è stato affidato un unico compito: completare la Centrale. Il resto non mi interessa. Mi comprendi adesso, ingegnere?»L’uomo cercò di divincolarsi. Piagnucolò qualcosa, frasi sconnesse,

squittii fastidiosi.«Imperatore!»Qualcuno lo chiamò, una voce che gli fece distogliere l’attenzione

dalla sua preda. Ai piedi della scalinata il generale Traio si ergeva come una statua dorata. Le piastre dell’armatura erano infiammate dai raggi del sole.«Maestà» riprese il primo ufficiale della Legione dell’Aquila, «ho

fatto trasferire il ribelle nella caserma dei pretoriani, così come avete ordinato. Attendiamo la vostra presenza per iniziare l’interrogatorio.»Il ribelle. Sì, la spia infiltrata. Frammenti di ricordi si ricomposero

nella sua memoria. Si facevano chiamare le Colombe Bianche, uccelli spennati che avevano commesso lo sbaglio di mettersi contro gli artigli dell’Aquila. Non erano altro che spine nel fianco, un gruppo di terroristi nato ad Andurian, portavano avanti una lotta impari e senza speranza da anni. Di recente si erano spinti fino al suo territorio, avevano compiuto attentati in alcuni dei campi d’estrazione. Volevano liberare gli schiavi, dare loro una speranza.Sotto la maschera il volto di Caio Settimo si increspò in un sorriso.

Scagliò Mastro Gorlheck contro una parete, poi discese le scale lasciando l’ingegnere privo di sensi al suolo. Il generale Traio si era

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messo sull’attenti. Lo superò senza ricambiare il saluto. Le Colombe Bianche avrebbero smesso di spargere merda sul suo dominio.

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XIIiPorte scorrevoli si richiusero dietro lo strascico del mantello. Il

rumore dei suoi passi era un rimbombo metallico nei corridoi della caserma. I pretoriani gli rivolsero saluti militari, cappe color porpora e armature finemente istoriate. Gli occhi erano fissi verso l’alto.Caio Settimo varcò l’ultimo accesso. La stanza era spoglia, nessun

mobile a eccezione di una sedia di legno posta esattamente al centro. Su di essa era stato legato un uomo, il volto ridotto a un mosaico di ecchimosi. Il sangue gli colava dalle narici sul petto nudo.Il prigioniero era bendato, e si destò quando avvertì la sua presenza

nella sala, agitandosi sulla sedia e gorgogliando parole senza senso.L’Imperatore passeggiò intorno al ribelle, per poi assestarsi a un

palmo dal suo volto.«Comprendi dove ti trovi?» sibilò all’improvviso, con voce simile al

suono di una spada che viene sguainata.L’uomo non rispose. Poteva avere poco più di venticinque anni,

osservò Settimo. Corporatura atletica, forse un soldato. Uno dei tanti guerrieri scampati alla distruzione, reduce di qualche falange sventrata dagli artigli dell’Aquila.Caio Settimo fece una pausa. Un silenzio studiato, durante il quale

non distolse gli occhi dal prigioniero. Le funi erano state strette con cura, i segni sul dorso e sulle braccia ne erano la prova. Questi erano i nemici, patetici involucri di carne e ossa accecati da pretese di libertà.«Colombe Bianche» esclamò Caio con voce alterata da una punta di

derisione. «E così vi siete messi in testa che è possibile sovvertire il mio dominio, levare le masse alla rivolta. Quanta audacia!»Il ribelle parve ignorarlo, il capo rivolto verso un angolo della

stanza e il respiro ridotto a un sibilo soffocato. Dovevano avergli rotto il setto nasale.

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«Chi vi comanda adesso? I vostri capi sono morti, bruciati vivi. Perché vi ostinate?»Ancora silenzio.L’Imperatore sorrise. Un osso duro, sarebbe stata una

conversazione molto interessante. Sollevò il casco con un gesto lento e lo adagiò sul pavimento. L’aria all’interno della stanza gli sfiorò il volto, filtrò attraverso le narici. Rivoli di celion affluivano nel suo corpo, dilagavano nelle vene, lo nutrivano.«Ora, soldato, tu risponderai alle mie domande. Ti farò ritornare la

voglia di parlare.» Le mani di Caio Settimo si mossero, sfiorò la testa del prigioniero con le dita metalliche e gli rimosse la benda annodata dietro la nuca.Gli occhi del ribelle erano un groviglio di capillari arrossati. La

faccia, una maschera pietrificata dal terrore.«Tu… tu, sei un mostro…» fu l’unica cosa che il militante della

Colomba Bianca riuscì a dire, prima di essere scaraventato all’indietro da un pugno in pieno volto.«Non è per nulla cortese insultarmi, soldato.»Caio Settimo fece una smorfia, quasi offeso. L’uomo giaceva sul

pavimento, le braccia legate alla spalliera della sedia e schiacciate sotto il peso del corpo. L’Imperatore si curvò in avanti, serrò le mani sulle spalle del ribelle e lo rimise a sedere. Il prigioniero piegò il capo di lato, la faccia ridotta in una poltiglia grondante, e vomitò sangue.«Coraggio.» Caio lo afferrò per i capelli, gli tenne la testa dritta in

modo da poter affondare gli occhi nei suoi «Vorresti forse farmi credere che ne hai già avuto abbastanza? È questa la forza dei dissidenti? Respira, soldato. Abbiamo appena iniziato.»«Abbiamo un’arma… noi abbiamo… una spedizione» farfugliò

l’uomo.«Che stai dicendo?» Settimo lo prese per la gola, lo scosse

costringendolo a tenere gli occhi aperti e le sue dita strinsero, sempre più forte.

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«In questo momento un nostro compagno è in viaggio. Esiste un’arma scampata alla distruzione del vecchio mondo. Presto sarà nostra. Ti sconfiggeremo… tu sei finito.»Al suono di quelle parole, il cuore dell’Imperatore prese a battere

all’impazzata, la pressione del sangue fu talmente forte da farlo vacillare. Lasciò andare la presa sul prigioniero e fece un passo indietro. No, non poteva essere. Non era possibile. Fissò il volto dell’eversivo, vide le labbra allargarsi in un sorriso, poi scattò. Protese le braccia in avanti. Crack.La testa del ribelle si piegò all’indietro, troppo pesante per il suo

collo spezzato.«Sei sicuro che questa sia la direzione giusta, vecchio?» Darius si

passò il palmo della mano sulla faccia, afferrando gocce di sudore impigliate alla barba.In quel paesaggio uniforme era come se il tempo si fosse fermato e

il mondo divenuto immobile. Massi coperti di muschio e radici sporgenti, aria intrisa di legno e pervasa dal cinguettio di uccelli invisibili. Un labirinto di cespugli e piante, di alberi così alti da sfidare il cielo, in cui l’uomo era un intruso, un profanatore.«Gli appunti del mio maestro sono molto dettagliati. Anareth si

preoccupò di annotare tutto, fece schizzi del percorso seguito» Clemio riprese fiato. Durante il tragitto si era liberato del mantello, e ora indossava solo l’uniforme presa sulla nave daelish. «Purtroppo non ho il taccuino qui con me, è rimasto a Xendria. Ma l’ho letto così tante volte da memorizzarne ogni singola virgola. Abbiamo camminato per più di un’ora, addentrandoci nella foresta e siamo risaliti verso nord. La spiaggia è alle nostre spalle» O’Rednar sollevò un braccio in direzione di un gruppo di piante basse dalle lunghe foglie piatte e appuntite, simili a cuspidi di lance. «Le vedete? Sono mangiatrici di insetti. Siamo sulla strada giusta. Poco più avanti dovremmo imbatterci in un fiume. Ne seguiremo il corso fino a valle, ed è lì che troveremo la Città Morta.»«Città Morta?» Darius corrugò la fronte, turbato.

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«Sii paziente, comandante.» Il volto dell’accademico si increspò in un sorriso che sapeva di conoscenza e di verità non del tutto rivelate.«A che gioco stai giocando?»La ricerca delle tracce del passato e il misterioso insuccesso della

precedente spedizione divennero per Darius un peso. Cosa era successo agli uomini di Anareth? Perché McDrauw avrebbe preferito morire piuttosto che sbarcare nuovamente su quella spiaggia? Studiò il volto di O’Rednar per un breve istante, le rughe che gli increspavano la faccia, le labbra tirate sotto la barba, e fu attraversato da un fremito. Gli sfuggiva qualcosa. Fece nuovamente per parlare, ma le parole si persero in un sospiro.«O hai ragione da vendere, oppure sei completamente matto.»

Teero frustò un cespuglio con un colpo a mano aperta, interrompendo i suoi pensieri. «Sbrighiamoci a trovare il fiume, non ho intenzione di passare la notte in questa giungla.»Ripresero la marcia, Clemio in testa. Nonostante l’età, scandiva il

passo della compagnia con la sua lunga falcata e una resistenza degna di un guerriero di Andurian.Si fecero largo a fatica tra tronchi ricoperti di resina e piante dalle

foglie taglienti come coltelli per un tempo che parve infinito. Il terreno sotto i loro piedi prese a digradare, divenne scivoloso. Furono costretti a rallentare l’andatura. I loro movimenti erano accompagnati dal tintinnare dell’acciaio e dal fruscio dell’erba strappata. Teero imprecò, mentre O’Rednar li spronò a non fermarsi, a continuare ad avanzare. Poi un suono: lo scrosciare dell’acqua.Il fiume sbucò dal nulla, spaccando in due la foresta.I tre discesero un breve pendio, lasciando la copertura della

boscaglia, e si soffermarono sulla riva fangosa. Qualcosa tra i flutti attirò l’attenzione di Darius.«Guardate.»Una carcassa era impigliata in un groviglio di radici che sbucava

dalla terra, sull’altra sponda. Un corpo livido, gonfio d’acqua.

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Teero aguzzò la vista, sporgendosi sull’argine. «Un animale?»I demoni vi prenderanno.«No.» Darius scosse il capo, le palpebre serrate in fessure. Osservò il

colorito di pelle rossastro del cadavere poi si volse verso Clemio, e il vecchio annuì.«Quello è un goliata.»Alatea si sedette sulla sabbia, poggiando le spalle contro il metallo

dello scafo.Strinse una manciata di rena nel pugno, poi allentò la presa

lasciando che un rivolo fluisse via dalla mano, una clessidra che misurava lo scorrere del tempo.Il tempo. Le era sembrato non passare mai da quando erano

sbarcati, eppure il sole ora non scottava più, le sfiorava le spalle e il viso in un tocco tiepido, e l’aria profumava di salsedine e di tramonto. Girò il capo verso la riva, attratta dal canto del mare. Il lento sciabordare delle acque, nonostante tutto, le infondeva tranquillità. Dalla fuga da Xendria, la sua vita era cambiata in maniera così rapida da perderne il controllo. Non era più una serva, non era più nulla. Aveva ragione Darius, lei era un intralcio.Sfregò la mano contro la veste, ripulendosi dalla sabbia, poi tirò le

gambe al petto. Il mento posato sulle ginocchia. La brezza si alzò trascinando con sé il rumore delle foglie.«Che cosa è stato? Hai sentito anche tu?»La voce di Morrein la fece sussultare. Il principe era rimasto in

silenzio per così tanto tempo, che si era quasi dimenticata della sua presenza. Passo leggero, respiro impercettibile. Era come un soffio di vento che le scostava un ciocca di capelli dalla faccia. Alatea si morse il labbro. L’atteggiamento del daelish non le piaceva, la irritava. Si era prodigata per salvargli la vita, eppure aveva vissuto abbastanza con i pelle grigia da non fidarsi di loro.Morrein. Quanto avrebbe voluto scivolargli nella mente, leggere le

sue reali intenzioni, ma era impossibile. Aveva provato a insinuarsi nei pensieri del pelle grigia più volte da quando si erano imbarcati a

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bordo dello Shulzar, trovando solo il vuoto. La mente del daelish era per lei uno scrigno privo di serrature, un involucro impenetrabile. Il maestro le aveva detto che il suo dono, quella mutazione genetica che la rendeva unica, avrebbe funzionato solo se fosse riuscita a stabilire un contatto emotivo. Le onde telepatiche si nutrivano di dolore, di amore, di paura: sentimenti di cui il principe era privo.«Sì» rispose, sollevando il capo. Avvertì un movimento.Morrein doveva essersi messo in piedi, i suoi stivali erano affondati

nella sabbia.«Vado a dare un’occhiata. Non muoverti.»Alatea annuì, con la certezza che il principe le avesse già voltato le

spalle.Era un essere di ghiaccio, Morrein.Aveva speso tutta la sua vita a Xendria per capire i daelish. Troppo

arroganti, troppo pieni di sé e della loro superiorità per unirsi agli umani o alle altre razze. Voleva aiutare, il principe, essere parte del gruppo. Ma lei sentiva che non era così.Si era presa cura di lui, quando la sua aura era diventata così labile

da confondersi con i granelli di polvere. Aveva provato a curare le sue ferite, a guarirlo dalla febbre, e quando questo non era stato più sufficiente, aveva convinto Darius a dargli il reiv. Lei gli aveva salvato la vita. E se fosse stato uno sbaglio?Si morse il labbro.Poggiò la nuca contro il fasciame della capsula. Era spossata, e le

palpebre divennero improvvisamente pesanti. Sentì il bisogno di chiudere gli occhi, cullata dal suono del mare. Un istante dopo stava sognando.Era braccata. Correva, e i rami le frustavano braccia e gambe.

Sangue. Poteva sentirne i rivoli scorrere sulla pelle, vederne le scie purpuree macchiarle la tunica.Il mondo davanti a sé non era più fatto solo di suoni, ma aveva forme

e colori. Alberi dai tronchi ruvidi e foglie acuminate come spade che si facevano largo nella sua carne.

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Inciampò su un masso e finì al suolo, le braccia protese in avanti e il sapore della terra umida tra i denti. Si puntellò sui polsi per rimettersi in piedi e si guardò alle spalle.Ululati si levarono contro il cielo e gli uccelli abbandonarono i loro

nidi sugli alberi, in un vortice di ali e piume. Artigli squarciarono il legno, mandando in frantumi la corteccia, e corpi nodosi sventrarono i cespugli. Occhi iniettati di sangue erano puntati su di lei, famelici.Gridò. Riprese a fuggire.Il cuore le martellava nel petto a un ritmo così assordante da coprire

l’avanzata dei suoi inseguitori. Puntò nella direzione in cui la vegetazione si infittiva, perforò un muro di piante che le sbarrava la strada. La veste era lacera, il corpo madido di sudore. Lame argentee di luce lunare filtravano dalla cappa di fogliame sopra la sua testa, illuminando a tratti il sottobosco.“Corri da me, bambina. Presto”Una voce echeggiò nella sua testa. Un invito, parole pronunciate da

qualcuno che le sembrava di conoscere, poi il rumore dell’acqua. Sollevò lo sguardo.Si trovava sulla riva di un fiume, e Clemio era sulla sponda opposta. Il

viso pallido coperto dal cappuccio e un solo occhio che balenava nella notte.Alatea provò a urlare il suo nome, ma dalle labbra non uscì alcun

suono.Gli ululati parvero intensificarsi, divennero ogni istante più vicini.

Fissò la foresta alle sue spalle. Sentiva il loro respiro, i ruggiti famelici, l’alito fetido che impregnava l’aria con il tanfo rancido della morte.Si volse nuovamente verso il fiume, il maestro però era sparito.Il panico la paralizzò.Le ombre che si annidavano nel sottobosco si animarono, assumendo

forme striscianti. L’oscurità aveva artigli neri che si allungarono verso di lei, le strapparono la tunica, affondarono nella carne.Era in trappola.Un fruscio. Morrein era inginocchiato tra i cespugli quando lo udì.

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Sollevò lo sguardo e tese le orecchie. L’aria era pervasa dai suoni della foresta. Il canto degli uccelli, lo stormire delle foglie, il ronzare degli insetti. Scosse il capo, pensando d’essersi sbagliato, ed estrasse un proiettile dalla faretra, caricò il lancia dardi.Si portò d’impulso una mano al petto e strinse la stoffa della

casacca. Il reiv era ancora lì, in quella tasca interna, rinchiuso nella fiala di vetro. Poteva percepirne il richiamo, il calore, a contatto con lo sterno. Le tempie gli martellavano, una tentazione a cui non riusciva a resistere. Ma doveva farlo, il momento per bere il sidro della Madre Kalessania non era ancora arrivato.Ancora un rumore improvviso lacerò i suoi pensieri. Foglie

spostate, rami calpestati.Si piegò sulle gambe e gli occhi guizzarono da un lato all’altro.

Forme scure si staccarono dalla massa immobile delle ombre, presero a muoversi intorno a lui.Morrein si voltò di scatto, poi un sibilo. La vista gli si annebbiò, i

contorni degli alberi e del fogliame sfumarono diventando macchie informi di colore. Si tastò il collo e le dita incontrarono l’asta di legno di un dardo. Provò a parlare ma la mascella sembrava essersi di colpo pietrificata, allora provò a muoversi ma le gambe non ressero il peso del suo corpo. Crollò al suolo e tutto divenne buio.Alatea sussultò, il corpo fradicio di sudore.Riaprì gli occhi e puntellò la schiena contro lo scafo per rimettersi

in piedi. Il battito del cuore era accelerato, ma tutto intorno a lei era tornato alla normalità. Il mondo davanti ai suoi occhi era vuoto.Tirò un sospiro di sollievo.Protese le braccia in avanti, i palmi aperti rivolti verso il basso, e si

allungò fino alla riva. Lasciò che il mare le bagnasse la punta dei piedi. L’acqua tiepida le diede sollievo. Alzò il mento. Da qualche parte al largo della costa, lo Shulzar li stava aspettando.Si domandò quanto a lungo avesse dormito. Morrein non aveva

ancora fatto ritorno.

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Ritornò alla capsula e ne sfiorò con una mano il fasciame. Ebbe per un attimo la sensazione d’aver udito qualcosa, un rumore simile a un fruscio. Tese l’orecchio, ma le uniche cosa che sentì furono lo sciabordare del mare e il verso di qualche uccello in lontananza.Scosse il capo, rimproverandosi per essere diventata d’un tratto

così suscettibile. Allungò un braccio all’interno della navetta, tastandone il pavimento, e le sue dita si cinsero intorno a una borraccia. Bevve un sorso d’acqua che le purificò la gola dall’arsura.Si immobilizzò.«Principe?» chiese con voce tremolante, ottenendo solo silenzio in

risposta.La brezza marina si levò trascinando con sé gli odori della spiaggia.

Contrasse le narici, riconoscendo qualcosa di diverso nell’aria, un elemento che non aveva avvertito in precedenza. Un odore nauseante, di carne messa a marcire.Il cuore le smise di battere.«Chi c’è? Morrein, siete voi?»Stringeva ancora la borraccia in una mano quando la strattonarono.

Mani ruvide la afferrarono per un braccio. Alatea gridò, provò a opporre resistenza. Affondò le unghie nella carne del suo aggressore e questi grugnì, allentando per un istante la presa.Cadde in ginocchio nella sabbia, provò a rialzarsi e a correre. Le sue

urla furono coperte da risate gutturali. Lacrime le bagnavano il viso mentre fuggiva, poi qualcosa la colpì a una spalla e la mandò con la faccia nella rena.Provò a rimettersi in piedi, ma una fitta le dilaniò il braccio.Chiunque l’avesse aggredita, ora non si preoccupava più di celare la

sua presenza. Passi, diversi, a decine, e poi le voci, parole pronunciate in una lingua aspra che lei non comprendeva. Alatea supplicò i suoi aggressori quando l’afferrarono per i capelli e la sollevarono di peso. Un’ondata di alito fetido la investì in pieno volto e si trattenne per non vomitare. Qualcuno rise e una mano la prese

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per il mento, costringendola a girare la faccia prima da un lato e poi dall’altro.Era impotente, in balia di quegli individui, e gli avvertimenti di

Darius le rimbombarono nella testa come un tuono.«Che cosa volete da me?» singhiozzò Alatea.Scalciò in avanti in un ultimo spasmo di resistenza, e i suoi piedi

falciarono il vuoto.

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XiVUn grido squarciò la cappa di silenzio che avvolgeva la foresta.

Morrein riaprì gli occhi destato da un’eco lontana. Sbatté più volte le palpebre per mettere a fuoco. Giaceva tra i cespugli con il sapore della terra in bocca. Sputò un grumo di saliva e si sollevò sulle braccia. Fece fatica a rimettersi in piedi, il corpo era indolenzito, dilaniato da fitte che gli attraversavano i muscoli. Scrutò la foresta intorno a sé nel tentativo di ricordare come avesse fatto ad arrivarci, poi portò di riflesso la mano alla gola e allora imprecò.Si strappò il dardo dal collo e lo scagliò tra le foglie. La rabbia lo

travolse come un fiume in piena. Strinse le palpebre, mentre una vampata di calore gli incendiava il viso, e si lanciò verso la linea degli alberi che cedeva il passo alla spiaggia. La sua falcata era agile e in pochi minuti divorò lo spazio che lo separava dalla navetta. Si guardò intorno. Alatea era sparita lasciando una borraccia vuota in una pozza umida sulla rena e orme, troppe per poterle contare, che risalivano verso la foresta.«Maledizione» sibilò a denti stretti, scalciando sabbia.Lanciò un’occhiata all’interno della capsula, tutto sembrava essere

al proprio posto. Chi aveva portato via la ragazza non si era minimamente interessato al veicolo. Raggiunse la console di comando e si lasciò cadere sulla poltrona. Si dondolò all’indietro, le braccia incrociate dietro la nuca e le gambe protese sui pannelli di controllo.Quel cialtrone di McDrauw aveva ragione, pensò. Che cosa avrebbe

raccontato ora al vecchio? Scrollò le spalle. Non gli importava, li avrebbe comunque uccisi tutti una volta che fossero tornati indietro con l’arma, perché preoccuparsi? Avrebbe lasciato che altri si sporcassero le mani con il sangue della ragazza. Rimase in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto, poi infilò una mano sotto la casacca, sfiorandosi il petto nel punto in cui gli avevano estratto le pallottole.

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I polpastrelli saggiarono le increspature della pelle, cicatrici che non gli avevano segnato soltanto il corpo.È solo un’inutile schiava.Avvertì una stretta improvvisa alla testa, come se qualcuno gli

avesse cinto il capo con del filo spinato. Immagini confuse, ombre che si dilatavano davanti alle pupille fino a dissiparsi. Mani incerte, ma gentili, lo sfioravano, premevano contro le ferite tamponando l’emorragia. Occhi vuoti, bianchi come il latte, erano immersi nei suoi in un legame così intenso da farlo sentire vivo. Che cosa gli stava accadendo? Scosse la testa nel tentativo di ricacciare indietro quei pensieri, si vergognò di se stesso. Le emozioni erano lame che gli laceravano l’anima, svegliando sentimenti che non aveva mai provato.Morrein artigliò i braccioli della poltrona e balzò in piedi, adesso

capiva.Un istante dopo era in spiaggia, a seguire le tracce lasciate nella

sabbia.Darius si appiattì contro le rocce, e gli occhi scandagliarono lo

scenario circostante. Edifici sventrati, carcasse di ferro e pietra, muti testimoni di antichi fasti, che si stagliavano verso l’alto, vittime dell’assedio dei rampicanti. Strade disseminate di detriti, crocevia di spaccature e lesioni che dilaniavano le carreggiate. Crateri, così profondi che sembravano scendere fino al cuore del pianeta.Una necropoli pervasa da una morte antica, secolare.«La Città Morta.» L’occhio di Clemio era gonfio, e una lacrima gli

rigò lo zigomo impigliandosi alla barba bianca. La voce del vecchio era un sussurro sommerso dal vento. «Finalmente… dopo tutto questo tempo…»Poco più in là, Teero era una statua di scaglie e acciaio infuocata

dalla luce del tramonto. Si erano inerpicati lungo una collina frastagliata da rocce, uno scoglio nel mezzo di un mare verde, fatto di alberi e fitti cespugli. Una terrazza sulla devastazione.Darius pose una mano sulla spalla del compagno. «Ce l’hai fatta.»

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«No, noi ce l’abbiamo fatta.» O’Rednar sollevò il mento. «E ora cerchiamo l’accesso al laboratorio.»Il lanciere tornò a puntare lo sguardo sulle rovine e disse: «Spero

che sia ancora lì dove il tuo maestro affermava d’averlo trovato. Questo luogo sembra sul punto di collassare.»«Non dirlo.» Clemio sollevò il cappuccio e iniziò a strisciare verso il

basso. «È ancora lì, ne sono certo. La struttura sotterranea venne costruita dall’uomo per resistere alla guerra. Mai perdere la fiducia, comandante.»«Facciamo attenzione.» Teero si mosse all’indietro, artigliando i

massi per aiutarsi nella discesa, e Darius lo imitò.Aggirarono la collina e si insinuarono all’interno della città,

fiancheggiando ciò che restava di una strada. Si tennero bassi, spostandosi da una copertura all’altra, le orecchie vigili, pronte a intercettare ogni suono.Il vento si sollevò, sibilando tra i palazzi deformi e scuotendo le

erbacce che sbucavano dalle crepe. Nella Città Morta anche le pietre sembravano avere occhi.Darius e i suoi compagni erano pervasi dalla chiara certezza di non

essere soli.Si addentrarono per ore in quel labirinto di devastazione, rispettosi

della surreale cappa di silenzio che imprigionava le rovine, concedendosi solo una pausa per consumare le misere scorte di cibo che si erano portati dietro. Il sole era ormai scivolato dietro i tetti sbrecciati della città, cedendo il posto a una luna insanguinata.Ripararono all’interno di una struttura fatta di dischi di pietra

sovrapposti, sorretti da ampie colonne annerite. Il pavimento era inclinato, l’intera costruzione pendeva verso un lato. La terra sotto le fondamenta era sprofondata, generando una voragine che minacciava di ingoiare da un momento all’altro l’intero edificio. Relitti meccanici, scheletri arrugginiti simili a scatole accartocciate, erano ammassati contro le pareti in pile caotiche. Veicoli del

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passato, aveva osservato Clemio, mezzi con cui gli abitanti di quel luogo si spostavano con rapidità sulle strade.Darius sedette al suolo, le spalle poggiate contro un pilastro logoro.

Svitò il tappo e trasse un sorso d’acqua dalla borraccia che gli aveva passato Teero. Si incantò, esausto, a fissare il pavimento polveroso.«Avevo una moglie e un figlio» le parole gli vennero fuori

all’improvviso come un flusso che non riusciva a controllare. Non si voltò verso di loro, ma sapeva che gli sguardi dei compagni erano fissi su di lui. «Antioch… mio figlio si chiamava Antioch. Ricordo la notte in cui lo tenni tra le braccia la prima volta, in tutta la vita non mi ero mai sentito così vivo. Rinuncerei a tutto pur di tornare indietro a quella notte, pur di rimettere le cose a posto. Io… io dovevo portarli via da Andurian finché potevo, e invece...» chinò il capo. «Sono rimasto a guardare mentre bruciavano in quella navetta. Come ho potuto?»«Sei troppo duro con te stesso» la voce di O’Rednar fece irruzione

nei suoi pensieri. «La vita è crudele e ci mette di continuo alla prova. Avevi fatto un giuramento…»«Ho giurato di difendere una terra già morta» Darius sentì

un’esplosione di calore infiammargli il volto. «Guardati intorno, vecchio. Cosa pensi che sia accaduto in questo posto? Nessun giuramento potrà mai fermare la fame di distruzione dell’uomo. Nessun giuramento potrà restituirmi la mia famiglia.»«Io ti capisco.» Il lanciere voltò il capo in direzione dello skaar,

sorpreso da quell’affermazione.«Non avevo ancora ricevuto il battesimo di sangue, quando il clan

dei Krosnak attaccò il mio villaggio.» Teero si rimise in piedi, fece qualche passo in direzione di uno squarcio nella parete e si fermò a osservare le rovine illuminate dal chiarore della luna. «C’è sola una legge che governa il mio popolo: la violenza, e quel giorno io ho avuto modo di impararla. Ho visto mio padre morire nel tentativo di difendere la sua famiglia, mia madre e le mie sorelle stuprate a turno nella polvere. Non dimenticherò mai le loro urla.»

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Lo skaar si voltò, incrociando le braccia sul petto, e Darius incontrò i suoi occhi dorati. «Sono cresciuto nelle fosse da combattimento, imparando a uccidere per sopravvivere, venduto al miglior offerente come schiavo. La mia vita non ha mai avuto alcun valore fino alla nostra fuga da Xendria. Forse questa spedizione è una follia, forse il vecchio è completamente pazzo e noi stiamo solo sprecando tempo. Ma se in mezzo a quelle macerie c’è davvero la chiave per evitare che accada di nuovo, che altri bambini come il tuo Antioch siano costretti a soffrire, allora io dico basta parlare…»Il gladiatore non completò la frase, si girò di scatto verso la città.«Che cosa c’è?» Darius balzò in piedi, si avvicinò al compagno.Teero non rispose, si limitò a scuotere il capo, poi fissò Clemio

O’Rednar e disse: «Quanto pensi ci vorrà per trovare questo dannato laboratorio?»Il vecchio si prese la testa tra le mani, tamburellando le dita sulla

fronte. «Non lo so con esattezza. Purtroppo Anareth divenne criptico nell’ultima parte del taccuino. Era accaduto qualcosa che aveva compromesso la sua integrità mentale. Il risultato fu pagine e pagine di parole sconnesse.»Darius fece schioccare la mascella. «Che vuoi dire?»«La spedizione non era preparata a tutto ciò. La Torre del Sole non

aveva concesso i fondi necessari, e il mio maestro fu costretto a reclutare l’equipaggio nei bassifondi di Lydra.» Clemio abbassò lo sguardo sulle sue mani. «Alcuni degli uomini erano attratti dalla possibilità di ritrovare antichi tesori e quando videro ciò che la Città Morta riservava loro, si rivoltarono contro di lui. Forse era la disidratazione, ma le righe di Anareth divennero deliranti, la grafia irriconoscibile. Scrisse che con un gruppo di marinai erano sfuggiti ai guardiani, e avevano attraversato i giganti dormienti, trovando la porta verso la fine del mondo.»«Incoraggiante» affermò Darius. Guardò oltre i pilastri della

costruzione. Ombre si contorcevano nelle rovine. «Riprendiamo a

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spostarci, non ci resta molto tempo. Per quello che sappiamo, quello che cerchiamo potrebbe essere ovunque.»Poi la Città Morta tremò. Un ruggito improvviso, selvaggio, rimbalzò

contro le mura degli edifici sventrati, attraversò i vetri infranti e giunse fino a loro. In lontananza qualcosa prese a muoversi. Il silenzio che seguì quel verso fu subito spezzato da una serie di schianti. Rumore di roccia sgretolata, d’acciaio percosso e poi calpestato. Uno stormo di uccelli si levò dalle rovine in un battito frenetico di ali, e i tre fuggiti da Xendria rabbrividirono.Darius afferrò Clemio per un braccio, aiutandolo a rialzarsi, poi

sguainò la daga. Teero era già al suo fianco, spada in pugno, lama ricurva e seghettata levata contro l’oscurità.«Che cosa era quel rumore?» chiese lo skaar, senza schiodare lo

sguardo dalla strada.«Non ne ho idea» O’Rednar era pietrificato.Il lanciere di Andurian vide le tenebre addensarsi in una forma

massiccia che emerse dalle strutture. Occhi rossi accecati dalla furia e muscoli che scalfivano le costruzioni dell’uomo, polverizzandole. Pelle dello stesso colore della roccia ricopriva un groviglio di fasce muscolari e tendini. La testa incassata tra le spalle era ricoperta da placche ossee sovrapposte tra loro, che davano a quell’essere la forza di un ariete di pietra. Si spostava su quattro zampe, i movimenti rapidi erano paragonabili a quelli di un rettile.Solo che quella non era una lucertola.Il Guardiano ruggì, un’onda d’urto primordiale che fece tremare il

terreno, e si lanciò contro di loro. Darius si guardò intorno, cercò una via di fuga, ma il mostro avanzava troppo in fretta per poter trovare un riparo. Erano in trappola.La creatura piombò all’interno della costruzione, abbattendo una

colonna con una spallata e falciando l’aria con le zampe anteriori.L’anduriano vide gli artigli balenare nell’oscurità, riuscì a piegarsi

giusto in tempo per schivarne l’assalto, poi mise un piede in fallo e

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lottò per non perdere l’equilibrio, stringendo la daga nel pugno, pronto a battersi.Il Guardiano però non si interessò a lui.Clemio inciampò, cadde all’indietro e il mostro gli fu addosso. La

bestia si sollevò sugli arti posteriori, per poi abbattersi come una pioggia di massi in caduta sul vecchio. L’accademico rotolò sul fianco, si trascinò fuori dalla portata del mostro e le zampe, simili a tronchi d’albero, si schiantarono al suolo.Un grido.Teero si scagliò contro il Guardiano tracciando un arco con la spada

e la lama sferzò il fianco della creatura in un’esplosione di sangue che affrescò le pareti. Il mostro ululò, scrollò la testa soffiando aria dalle narici e snudando zanne affilate come coltelli.«Dobbiamo andare via di qui» urlò l’uomo rettile senza staccare gli

occhi dalla bestia, poi assestò un secondo fendente, ma questa volta il Guardiano non si fece cogliere impreparato.Balzò in avanti con rapidità disumana, frustò con una zampa Teero

e lo mandò a sbattere contro un pilastro. Lo skaar grugnì, il pettorale della corazza era ammaccato, ma non lasciò andare la presa sulla spada. Ringhiò mentre provava a rialzarsi, poi O’Rednar fu al suo fianco, lo sorresse.Il Guardiano teneva gli occhi fissi su di loro, dalle fauci spalancate

colavano rivoli di bava. Spostò il peso del corpo sulle zampe posteriori, i muscoli si agitarono sotto la pelle striata di grigio. Era pronto a caricare ancora.Darius urlò, lo costrinse a voltarsi verso di lui. La bestia girò di

scatto la testa.L’anduriano colse la furia omicida che dilagava negli occhi piccoli e

sporgenti. I compagni urlarono, le loro voci si fecero assordanti, gli stavano dicendo di scappare, ma lui non si mosse. Svuotò la mente da ogni pensiero, e una cappa di colori scuri avvolse il mondo intorno a sé, delimitò i confini invisibili di un’arena fatta di sangue e odio. Darius ascoltò il proprio respiro, lento e cadenzato, mentre

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fronteggiava il Guardiano. Tese i muscoli fino allo spasmo, poi il mostro gli si avventò contro.Veloce, ma non abbastanza per il lanciere di Andurian.Darius scivolò sotto l’attacco dell’avversario. Avvertì lo

spostamento d’aria sopra la testa quando gli artigli ghermirono il vuoto e colpì di taglio. La daga squarciò la carne e il sangue della bestia gli schizzò sulla faccia. Sentiva il cuore battergli all’impazzata, le vene pulsare nelle tempie e la gola diventargli asciutta. Conosceva questa sensazione, energia pura che lo spingeva a combattere, a non arrendersi.Prese lo slancio sulla gamba d’appoggio e balzò sulle spalle del

mostro come una tigre affamata, senza dargli il tempo di caricarlo. Si avvinghiò al collo, sollevò l’arma e la abbatté sulla nuca del Guardiano. Il mostro si dimenava come impazzito, cercava di afferrarlo, ma lui non lasciò andare la presa.Darius sputò fuori tutta la propria rabbia e colpì. La lama morse i

tessuti, affondò nel collo del mostro fino al manico. Il lanciere ritrasse la daga, colpì una seconda volta e poi un’altra ancora. La bestia ruggiva, si lanciava contro le pareti nel tentativo di schiacciarlo, di scrollarselo di dosso, poi l’anduriano avvertì dita nodose cingersi intorno al suo braccio, artigli ne dilaniarono il bicipite, uno strattone e il mondo si capovolse. Venne scagliato nel vuoto, urtò contro le carcasse arrugginite dei veicoli e crollò al suolo. La cicatrice sulla fronte doveva essersi riaperta, perché ora sentiva il suo di sangue ricoprirgli il volto. Cercò di rialzarsi ma cadde sulle ginocchia, la vista gli si annebbiò. Stava per morire, ne era certo. Chiuse gli occhi e attese per un istante che la bestia si avventasse su di lui e lo facesse a pezzi, ma questo non accadde.Teero caricò a testa bassa. Colpì dal basso verso l’alto e i denti della

sua spada morsero il Guardiano, scavarono un solco dal fianco fino al petto. La creatura vacillò, poi franò all’indietro sollevando una nube di polvere. Lo skaar fendette l’aria con un colpo secco, scolando il sangue dalla lama, e la ripose nel fodero sulle spalle. Un

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ghigno di soddisfazione gli si allargò sul muso, ma solo per un istante. Uno strido risuonò in lontananza tra gli scheletri degli edifici.Darius sentì mani invisibili serrargli la gola. Scosse il capo nel

rialzarsi e sputò un grumo di sangue a terra.«No, vi prego.» Clemio si staccò dalle ombre che si annidavano

nell’edificio. «Ditemi che non è vero.»Il silenzio piombò su di loro. Rimasero in ascolto, poi un nuovo

grido echeggiò nella Città Morta. Un suono lancinante che artigliò la notte e la fece brandelli. Darius osservò il corpo privo di vita del Guardiano ai suoi piedi, poi sollevò lo sguardo verso la strada. Quella creatura non era sola, non poteva essere sola.«Dobbiamo trovare il laboratorio, alla svelta.»

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XVArtigli. Estremità acuminate che dilaniavano il terreno a ogni

falcata. Il mostro era ancora lì, alle loro spalle, e non aveva smesso di braccarli.«Da questa parte!»Darius si lanciò in un vicolo che penetrava tra i palazzi come una

lama di coltello.Correvano a perdifiato, passando da un edificio all’altro, da una

strada all’altra, fino a perdere l’orientamento. La collera della bestia era un fiume d’odio che aveva rotto gli argini, travolgendo tutto ciò che incontrava sul proprio cammino. L’anduriano si guardò alle spalle, vide il predatore incalzarli, colse la muscolatura possente, il riflesso della luce lunare sulle placche ossee. Era enorme, molto più grande del primo essere con cui si erano scontrati, e caricava a testa bassa ruggendo contro la notte.«Non rallentate!» gridò ai compagni che lo seguivano, e la sua voce

si perse nel vuoto.I tre continuarono a muoversi, a sfuggire allo schianto delle mura

abbattute, fino a quando i suoni della furia si ridussero a echi lontani, coperti dal rumore dei loro passi. Ripararono all’interno di una costruzione di cemento e acciaio che si stagliava contro il cielo. Erano esausti, i muscoli delle gambe dilaniati dalle fitte e il respiro ridotto a un rantolo soffocato.Darius strisciò verso una breccia nell’edificio. Si sporse da dietro

una parete sventrata, da cui sbucavano fili metallici arrugginiti, simili a dardi conficcati nella struttura. Osservò quel labirinto di strade e costruzioni in rovina per alcuni istanti, poi si ritrasse. Il cuore gli martellava nel petto e il corpo era madido di sudore. Perdeva sangue dalle ferite, ma strinse i denti e ignorò il dolore.«Lo vedi?» gli domandò Teero, una mano stretta sull’impugnatura

della spada dietro le spalle, pronto ad estrarla.

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Darius scosse il capo in un gesto che parve costargli le ultime energie e posò lo sguardo su Clemio.«Stai bene?»Il vecchio accademico si affrettò ad annuire. Si stringeva il petto, e

la bocca aperta annaspava alla ricerca d’aria.«Non smetterà di cercarci» il lanciere si puntellò sui gomiti nel

mettersi a sedere. La cicatrice sulla fronte pulsava, segno dello scontro con il predone che voleva catturarlo. Sembrava essere trascorsa un’intera vita da quel giorno sulla riva del torrente, eppure la sua condizione non era cambiata. Era nuovamente in fuga, solo che questa volta non c’era un barbaro a cacciarlo, ma un mostro. Un Guardiano.«Dobbiamo continuare a spostarci» continuò Darius, incrociando lo

sguardo dei compagni. «Non abbiamo più cibo, né acqua. Le nostre scorte sono rimaste tra le carcasse di quei veicoli…»Il fragore di un crollo lo interruppe, pietra e calcinacci che si

abbattevano al suolo e scuotevano la Città Morta.«Bastardo» grugnì Teero, gli occhi dorati rivolti verso lo squarcio

nella parete. «Perché continuare a fuggire, anduriano? Non ha senso. Io dico di affrontarlo, noi due insieme. Ammazziamo quella bestia e riprendiamo la nostra strada.»Lo skaar sollevò un pugno all’altezza della faccia, le dita strette in

una morsa d’acciaio.«Tu sei un folle.» Clemio O’Rednar sollevò il capo di scatto. «Come

pensi di poter tenere testa a una creatura del genere? Vi farebbe a pezzi e tutto andrebbe a monte. Abbiamo una missione da portare a termine.»«No, vecchio. Il folle sei tu!» L’uomo rettile si voltò verso

l’accademico, ridusse le palpebre in fessure. «Gli skaar non scappano. Gli skaar combattono. Andate pure avanti voi, io non mi muovo di qui.»Un altro boato risuonò in lontananza, questa volta più forte.Teero balzò in piedi, snudò la spada.

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«Aspetta.» La voce di Darius era un sussurrò roco. Inchiodò le iridi in quelle del compagno. «Clemio ha ragione. In uno scontro corpo a corpo saremmo carne da macello. Non siamo più nell’arena di Xendria, Teero, e io non ho attraversato il mare per farmi mangiare da quella cosa.»«Allora cosa pensi di fare?»Il lanciere non ebbe il tempo di rispondere. Le pareti, il terreno e

tutta la Città Morta tremarono. Il muro di una costruzione vicina al loro nascondiglio andò in frantumi e la corporatura massiccia del Guardiano emerse dallo squarcio nella pietra. I suoi occhi fiammeggiarono in una nube di polvere. Si scrollò i detriti di dosso e scoprì le zanne in un sibilo che gelò il sangue di Darius nelle vene.L’anduriano sbatté le palpebre, incapace di pensare. Era pietrificato,

poi la creatura si mosse e un tonfo sordo seguì il balzo con cui questa ridusse la distanza tra loro. Darius portò d’istinto la mano alla cintura. Il fodero era vuoto. Contrasse la mascella quando comprese d’aver lasciato la daga nel corpo dell’altra bestia, poi un’esplosione.La struttura da cui il mostro era sbucato vacillò, le mura sventrate

tremarono e l’edificio collassò su se stesso. Crollò come un castello di carte colpito da una mano invisibile, si abbatté sul Guardiano senza lasciargli il tempo di sfuggire.Sei piani di pietra e acciaio lo seppellirono sotto gli occhi increduli

dell’anduriano.«Ti sta bene, bastardo!» Teero proruppe in una fragorosa risata.«Io non canterei vittoria troppo in fretta.» Clemio sollevò il braccio,

indicò un punto sotto la collina di macerie.Darius mise a fuoco: qualcosa si muoveva ancora.Le orme condussero Morrein fino a un fiume, un serpente d’acque

torbide che strisciava nella foresta. Si inginocchiò sulla riva e si guardò intorno. Il terreno era disseminato di impronte, piedi nudi impressi nel fango che risalivano verso nord, controcorrente. Sfiorò con la punta delle dita il solco lasciato nella melma da un tallone,

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annusò i polpastrelli e rimase in ascolto. Il ruggito del fiume era l’unico suono che riempiva la foresta, l’acqua sbatteva contro massi ricoperti di muschio scuro, sollevando schizzi che lambivano i suoi stivali. Strofinò il collo dove c’era il segno del dardo soporifero.Chi abitava quella terra dimenticata dal mondo? Perché prendersi

la ragazza?Si ritrovò a pensare ad Alatea, al volto pallido dai lineamenti

delicati. Sentì le sue dita sfiorargli la fronte ancora una volta e un fremito gli risalì lungo la spina dorsale. Fissò gli alberi. Nella sua vita non aveva mai avuto simili pulsioni, non si era mai preoccupato per qualcuno diverso da se stesso. Qualcosa dentro di lui prese a muoversi, il calore gli avvampò il volto, e quando si toccò il petto sentì che il cuore gli batteva all’impazzata.Doveva salvarla.Fece per rimettersi in piedi ma una fitta gli trapassò il cranio. Crollò

al suolo, tenendosi la testa fra le mani. Un fischio metallico gli lacerò i timpani, si dilatò nella sua mente, diventando un ronzio confuso, un suono lontano che non riuscì subito ad afferrare. Si sforzò di riacquistare il controllo, il respiro divenne lento, e allora udì il pianto. Un pianto di donna. Morrein rotolò sul fianco e scattò in piedi, la daga stretta nel pugno e gli occhi sbarrati che studiavano la foresta. Era solo.Il daelish scosse il capo e riprese ad avanzare, mentre il sole alle sue

spalle mutava in una sfera sanguinante. Costeggiò il fiume per quasi un’ora, respingendo i crampi allo stomaco e ignorando l’arsura alla gola. C’era dell’altro a dilaniarlo. Pensieri, schegge di ricordi che premevano nella testa come ferite pulsanti.Provò a fermarsi, ma quel pianto era sempre lì, nella sua testa, una

fitta costante dietro gli occhi. Morrein sapeva che non sarebbe cessato, che non avrebbe smesso di tormentarlo almeno fino a quando non avesse ritrovato Alatea.La luna era già alta nel cielo quando il principe raggiunse le rovine.

Sulla sponda opposta vide un groviglio di edifici contorti, pareti

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sventrate, pilastri abbattuti e strade inghiottite da voragini nel terreno. E in mezzo a quello scenario di distruzione vi era la statua di una donna. Una donna d’acciaio.Giaceva sul fianco, la testa sormontata da una corona appuntita e il

corpo ricoperto da una toga, divorata dalla ruggine e strappata in più punti da squarci simili a tagli di spada. Con un braccio reggeva un libro, mentre l’altro si era staccato e giaceva di traverso nel fiume. Le acque sciabordavano sopra di esso, formando rapide schiumose. Stretta nelle dita c’era una fiaccola, la fiamma di metallo era immobile e puntava nella direzione di Morrein.Il bagliore dei fuochi da campo proiettava le ombre contro i detriti.

Decine di figure si aggiravano tra le macerie. Erano enormi, a prima vista alti quanto uno skaar, schiene ricurve e pelle rossa, corpi brutali ricoperti solo in parte da stracci. Il vecchio anduriano l’aveva avvertito che le rovine erano abitate da ostili, e si sforzò di ricordare il nome che il maestro di O’Rednar aveva dato a quel popolo. Era certo d’aver sentito gli uomini parlarne a bordo dello Shulzar.Goliati.Morrein scivolò fuori dalla protezione degli alberi e si avvicinò il

più possibile alla riva. Nell’aria riecheggiava il suono di risate, di parole pronunciate in una lingua aspra, gutturale. Una leggera brezza scosse i cespugli, trasportando con sé l’odore di carne stufata, poi il villaggio si addormentò. Il daelish si distese sul terreno, nascondendosi tra i cespugli. Sbatté le palpebre, cercando di contrastare il senso di pesantezza che lo assaliva. Era esausto, ma il lamento nella sua testa gli impediva di dormire. La voce di quella donna gli gelava il sangue nelle vene. Stava impazzendo?Il principe trascorse la notte combattendo la sua battaglia. Un

nemico sconosciuto, una presenza immateriale che non poteva essere trafitta con l’acciaio. Dita invisibili gli serrarono la gola e lo tennero paralizzato tra i massi sporgenti della riva, costringendolo a vedere oltre le apparenze. I dogmi con i quali era stato allevato erano caduti.

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Menzogne. Xendria si ergeva solo sulle menzogne.Versare il sangue di innocenti per dare immortalità. Nessuna madre

avrebbe mai permesso ai propri figli di gioire per la morte. Non c’era nulla di bello nelle atrocità della sofferenza, nulla di sacro. La Dea Kalessania era il male, e il reiv soltanto un veleno che rendeva i daelish schiavi.Portò d’istinto la mano al petto, serrò la stoffa, strinse la fiala

nascosta sotto di essa. Un tocco breve che lo fece vacillare. Il cuore prese a martellargli nelle tempie. Un battito impetuoso, cadenzato. Percepì il richiamo, scosse il capo e infilò una mano sotto la casacca.La boccetta parve luccicare sotto la luce argentea della luna. Il

liquido sanguigno che era custodito al suo interno si contorse, quasi fosse dotato di vita propria. Morrein fu sul punto di gridare, serrò gli occhi in fessure e strinse la fiala con tale veemenza che le nocche si schiarirono. Era stato uno sbaglio sottrarla all’anduriano, era stato uno sbaglio venire sull’isola. Lui doveva essere morto, sepolto sotto le rovine di Xendria, e invece no. Gli stessi uomini che aveva pensato di uccidere, di pugnalare alle spalle, gli avevano salvato la vita.Espirò. Il braccio si abbassò con lentezza. Quando riaprì gli occhi la

fiala era ritornata nella tasca interna dell’uniforme e davanti a sé c’erano solo il volto inespressivo della donna di metallo e le rovine della città distrutta.Si mosse alle prime luci dell’alba. Attraversò il fiume con l’acqua che

gli arrivava alla cintura. C’era movimento tra i palazzi. Sentinelle. Strisciò sulla riva e si lanciò di corsa verso un ammasso di ferraglia corrosa. Il suo passo era leggero, furtivo.Poco più avanti alcuni goliati dormivano intorno ai resti

carbonizzati di un fuoco. Gli altri dovevano essersi ritirati negli edifici circostanti. Si sedette dietro un muro sbrecciato e armò il lancia dardi con cinque quadrelli estratti dalla faretra. Tolse uno stivale e lo rivoltò sul palmo aperto di una mano. La scheggia di pietra syreana balenò come un diamante. Strappò un pezzo dei pantaloni e ne ritagliò delle strisce sottili con la daga. Strinse il

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frammento di minerale nel pugno e lo fermò saldamente con la stoffa. Studiò la scultura distesa al suolo, poi sollevò il capo verso gli scheletri delle strutture che si stagliavano verso l’alto e un brivido gli percorse la spina dorsale. C’era qualcosa di familiare in quel luogo, un particolare nell’atmosfera che non lo rendeva dissimile dalla sua patria.Un rumore di passi lo distolse dai suoi pensieri.Volse il capo, vide una sagoma sbucare dagli edifici e venire verso di

lui, i contorni diventare definiti man mano che si avvicinava. Un goliata. Reggeva una sbarra di metallo con entrambe le mani e indossava solo delle brache strappate. Le spalle erano ampie, e il torso un groviglio di muscoli nodosi sotto la pelle rossa.La sentinella raggiunse la riva del fiume, si soffermò a osservare la

foresta sull’altra sponda, poi riprese a muoversi.Morrein tenne gli occhi incollati sul selvaggio mentre chiamava

rapidamente a sé il potere. Un’esplosione d’energia gli incendiò il petto, dilagò nelle vene, e le ombre si staccarono dalle pareti, strisciarono sul terreno come serpenti, avvolgendosi intorno alle sue gambe e risalendo fino al resto del corpo.Sorrise quando il bruto gli passò davanti senza accorgersi della sua

presenza, poi agì.Le tenebre lo avvilupparono, si mossero con lui fondendosi nella

notte in un’unica essenza. Morrein afferrò la faccia della sentinella, gli coprì la bocca con una mano impedendogli di gridare e colpì. Uno strappo secco e la daga si piantò nella spina dorsale del goliata, il corpo si accasciò ai suoi piedi in una posa contorta. Rinfoderò l’arma e si morse il labbro per lo sforzo mentre trascinava il cadavere in un edificio. Osservò il volto di quell’essere per un attimo, la fronte alta, gli zigomi sporgenti, e si sorprese nel constatare una vaga somiglianza con gli umani. Riprese fiato e tornò all’esterno.Le ombre si erano ormai dissipate quando iniziò ad addentrarsi tra

le rovine.

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Sbucarono dal loro nascondiglio quando l’alba tingeva il cielo con sfumature violacee. Il sole era una macchia distorta di luce rossa che emergeva dall’orizzonte. Lame di luce filtravano attraverso le brecce negli edifici, delineando i contorni delle strutture scheletriche. Niente più ruggiti o boati. Il guardiano sembrava essersi ritirato con le tenebre e ora un surreale silenzio accompagnava il risveglio della Città Morta.Darius condusse i compagni sulla strada disseminata di macerie e di

resti meccanici divorati dal tempo. Scavalcarono i pilastri abbattuti, aggirarono i crateri nella carreggiata. Camminarono per ore, le labbra secche e le gole arse dalla sete, quando lo scenario che li circondava subì un cambiamento. Strutture, a decine, emergevano dalla distruzione simili a torri d’avorio. Palazzi di ferro e pietra dalle forme squadrate su cui il sole si rifletteva come su uno specchio d’acqua. Giganti dormienti.Darius si girò verso i compagni e Clemio gli sorrise soddisfatto.«Sbrighiamoci» disse il lanciere, sempre più consapevole che ciò

che avrebbe cambiato le sorti del mondo era ormai a portata di mano.Fece per muoversi ma i sandali rimasero incollati al suolo.Un urlo profondo si levò contro il cielo. Un suono che avevano

imparato a conoscere, che li aveva privati del sonno e attanagliato i loro cuori in una morsa gelida.Il ruggito del Guardiano.I tre si lanciarono in avanti, ancora in corsa, nuovamente braccati.L’anduriano si voltò e colse la figura scura prorompere tra gli

edifici. Allungò la falcata, tallonato dai compagni, e si insinuò tra le ombre proiettate sulla strada dai palazzi. Lo skaar stava urlando qualcosa, parole che lui non riusciva ad afferrare. I suoi timpani erano dilaniati dalle grida del loro inseguitore. Si faceva sempre più vicino, e il raspare degli artigli sul terreno divenne assordante. Non avrebbero resistito a lungo, le sue gambe erano diventate di legno. Darius si guardò intorno alla ricerca di ogni minimo segnale che gli

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permettesse di orientarsi nell’omogeneità di quella devastazione. Gli edifici poco alla volta sparirono, lasciando il posto a colline di detriti e voragini nel terreno che sembravano essere state scavate da una pioggia di meteoriti.Poi Teero riuscì ad attirare la sua attenzione.«Da quella parte.» La voce del gladiatore era un suono gutturale, il

braccio era proteso in avanti e indicava qualcosa.Mura di metallo si stagliavano verso l’alto, un bastione

sopravvissuto alla furia dell’uomo. Crateri e lesioni correvano sulla terra fino a lambirle. In alcuni punti la muraglia era annerita da bruciature che erano penetrate nelle lamiere, fondendosi con la ruggine e diventando parte integrante della cromatura. Squarci dilaniavano la struttura, rivelando ciò che era custodito all’interno.Darius sentì un brivido risalirgli lungo la schiena.I tre si fecero avanti. Occhi attenti fissi sul terreno, gambe che

scavalcavano fossati.Tutto in quella valle sembrava sul punto di collassare e Darius ebbe

la sensazione che da un momento all’altro la terra potesse risvegliarsi per inghiottirli.Raggiunsero una breccia nelle mura, superarono postazioni di

contraerea e resti d’artiglieria. Le strutture meccaniche erano crollate su loro stesse, generando un groviglio di travi e pareti d’acciaio simile a cespugli di rovi. Si addentrarono nella base, tra i quartieri annientati e gli scheletri dei casermaggi. Le piste di decollo erano state tramutate dai bombardamenti in tracciati deformi, assediati dalle sterpaglie.«Cerchiamo un accesso.» Clemio si guardò intorno. «Un passaggio…

qualsiasi cosa ci permetta di scendere ai livelli inferiori. Il laboratorio deve trovarsi sotto i nostri piedi.»«Che ne dici di quello?» Darius stava osservando una cupola di

granito alta non più di sei piedi, che si ergeva tra le macerie. Pareti spesse, fatte per resistere.In un istante si ritrovarono tutti a correre verso quella costruzione.

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Teero si avventò sulla porta, fece forza sulla maniglia. «È bloccata!»Darius guardò nella direzione da cui erano giunti. Il Guardiano

avanzava ad ampie falcate, inarrestabile, e le placche ossee risplendevano sotto la luce del sole come piastre di metallo nero.«Aprila, Teero. Io lo tengo impegnato.»L’anduriano corse verso un ammasso di detriti e afferrò una sbarra

di ferro arrugginita, la soppesò tra le mani e osservò il mostro venire verso le mura. La creatura attraversò le fortificazioni, spazzò via con una zampata la carcassa di un veicolo e puntò dritto contro di lui.Il lanciere si morse il labbro, distribuì il peso del corpo su entrambe

le gambe e tirò indietro il braccio che reggeva l’asta. Torse il bacino e scagliò la sbarra come se fosse stata una lancia. Questa vibrò nell’aria e la punta penetrò nella spalla del mostro mentre caricava a testa bassa.Il Guardiano incassò il colpo, perse lo slancio e rovinò sul terreno in

un vortice di arti e muscoli. Provò subito a rialzarsi, per poi crollare di nuovo al suolo in un strido di dolore.Darius allora si girò verso l’entrata del sotterraneo, vide Teero

abbattere la porta con tutto il peso del corpo e cadere all’interno della cupola di granito, come se ne fosse stato inghiottito.«Dentro, alla svelta!» gli gridò Clemio, prima di seguire il gladiatore.L’anduriano corse verso la struttura, ne varcò la soglia. L’ambiente

era buio, i compagni erano spariti. Abbassò lo sguardo. Una botola scoperchiata si allargava al centro del pavimento, il diametro permetteva la discesa di un solo uomo per volta.Una bocca spalancata sulle viscere della terra.

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XViDarius sbatté più volte le palpebre fino a quando le pupille non si

adattarono alla semioscurità. I suoi occhi erano fissi in avanti. Un angusto corridoio si faceva largo nel sottosuolo, come la punta di una lancia. Cristalli luminosi verde smeraldo erano incassati nel soffitto, e il loro bagliore sembrava essere assorbito dalle spesse pareti di pietra. Aveva seguito i compagni, calandosi nel cunicolo da una scala arrugginita inchiodata al muro.«È morto?» gli domandò Teero, indicando con il capo la botola

sopra le loro teste.L’anduriano scosse il capo. Sapeva che il Guardiano non si sarebbe

fermato.«Fai strada, comandante» lo incitò Clemio. La voce del vecchio era

un sussurro che si perse tra le falde d’aria rarefatta.Darius si mosse. Orecchie tese a percepire anche la minima

alterazione nel velo di surreale silenzio che avvolgeva la struttura. Attraversarono un lungo corridoio seminato di detriti e poco alla volta il pavimento prese a digradare sotto i loro piedi. Il tunnel sfociava in un antro dalla forma ovale, come un corso d’acqua che si riversa in un lago di granito e acciaio. I cristalli luminosi mutarono di tonalità. Ventagli di luce rossa si dilatavano nella sala, rivelando varchi che perforavano le pareti. Altri corridoi si dipartivano da quell’ambiente, ramificazioni di una struttura che Darius immaginò si estendesse per miglia nel sottosuolo.Sbatté le palpebre e all’improvviso le ombre parvero staccarsi dalle

pareti, contorcersi fino ad assumere i contorni ben definiti dei militari, scienziati, persone che avevano portato avanti le loro ricerche in quel mondo sotterraneo, lontano dagli occhi del nemico. Spettri prigionieri del tempo.«Da che parte?» La voce di O’Rednar lo strappò ai fantasmi.

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Si ritrovò immobile al centro della sala con lo sguardo che indugiava sui diversi accessi ai tunnel. Un brivido gli percorse la spina dorsale. La temperatura era scesa notevolmente e la pelle gli si increspò sulle braccia.«Io dico di andare da quella parte.» Teero era rivolto verso destra,

lo sguardo immobile su una massa di stracci celata dai detriti.Al suo fianco Clemio si era mosso nella direzione indicata dallo

skaar.Il lanciere mise a fuoco. Uno scheletro giaceva al suolo ricoperto da

resti di indumenti.«Un membro della spedizione di Anareth?» chiese Darius, cercando

lo sguardo dell’accademico.«È probabile.»Il vecchio anduriano sollevò il capo. Darius lo vide oltrepassare i

resti e scivolare all’interno di un corridoio. Si affrettò a seguirlo, le dita serrate intorno all’impugnatura dell’arma. Anche Teero aveva snudato il suo acciaio, un sibilo gelido che echeggiò nella caverna. Un rapido incedere che li portò fino all’estremità del cunicolo. Si fermarono di colpo.Ferro e ossa.Una lastra di metallo sbucava dal soffitto, sbarrando il passaggio. Ai

suoi piedi vi era un tappeto di armi arrugginite e scheletri, prigionieri di abiti consunti. L’aria era gelida, impregnata dalla morte, e a Darius parve di trovarsi in una catacomba.Superò l’accademico, studiò la barriera. Non una lastra, ma una

porta. Il pannello era stato calato sul pavimento come una ghigliottina, isolando tutto ciò che si trovava dietro di esso dal resto della struttura. Sulla parete vi erano una pulsantiera e uno schermo ricoperto da una patina di polvere. L’anduriano osservò i tasti fregiati da caratteri in una lingua che non comprendeva, e la sua memoria corse ai sotterranei di Xendria. Era nell’alloggio di Clemio che aveva visto quelle scritte in una lingua sconosciuta, ne avevano tappezzato le pareti.

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Si voltò di scatto verso l’accademico e questi gli sorrise.«Codici binari.»«Cosa?» Teero contrasse il muso in una smorfia. «Che vai

blaterando, vecchio?»«Serve un sistema di codici numerici per sbloccarla.»O’Rednar si avvicinò alla tastiera, la osservò con attenzione. Poi un

boato risuonò nel tunnel, le pareti tremarono e alcuni calcinacci piovvero dal soffitto. La luce dei cristalli sfavillò per un istante.Il lanciere e i compagni voltarono le teste all’unisono verso il tunnel

alle loro spalle.«Tanto non può passare, è troppo stretto» affermò lo skaar con

voce velata dall’insicurezza.Darius fissò Clemio. «Aprila.»L’accademico non se lo fece ripetere due volte, le dita corsero

spedite sui pulsanti digitando combinazioni e sequenze scolpite nella sua mente. Un suono scandiva la pressione di ogni singolo tasto, e una riga di luce rossa si materializzava sul monitor.«Maledizione» il vecchio sbuffò, si grattò il mento barbuto con fare

nervoso.«Che succede?» domandò Darius, senza staccare lo sguardo dal

corridoio.«C’è qualcosa che non va… la stringa, è qui da qualche parte nella

mia testa. Ne sono certo, solo che non riesco a ricordarla per intero.»Un verso animalesco rimbombò all’interno del sotterraneo, seguito

da uno schianto, poi ritornò il silenzio.«Merda, vecchio, apri quella dannata porta!» ringhiò Teero,

sollevando la lama dello spadone davanti alla faccia.«Ci sto provando!» replicò O’Rednar, mentre le sue dita ripresero a

muoversi sulla tastiera, questa volta con più veemenza.«Concentrati, Clemio.» Darius provò a incoraggiare l’amico. Sapeva

che nulla avrebbe fermato il Guardiano. Quella creatura era nata per cacciare, presto avrebbe trovato un modo per raggiungerli e farli a pezzi.

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Artigli graffiarono la pietra. Il predatore della Città Morta non si era fatto attendere.Occhi rossi ardevano come fiamme in fondo al corridoio. Le fauci si

spalancarono in uno strido di collera che fece arretrare Darius e Teero verso la porta. La sbarra di ferro sporgeva dal corpo della bestia e una zampa era striata di sangue.«A che punto sei?» domandò Darius, senza voltarsi.«Ci sto lavorando… ci sono quasi.»«Sbrigati, o giuro che ti prendo a calci» ringhiò Teero.Venti passi.La bestia ruotò il capo di lato, sembrò studiare la situazione. Sibilò,

e Darius ebbe la sensazione che avesse compreso di averli finalmente messi con le spalle al muro.Il Guardiano piegò il corpo sugli arti posteriori e scattò in avanti, i

suoi movimenti erano seguiti da tonfi sordi che rimbombavano nelle orecchie dell’anduriano.Quindici passi.«Andiamo… andiamo» si ripeteva Clemio.«Arriva! Presto, sta arrivando!» gridò lo skaar.Dieci passi.Il mostro allungò la falcata, il corpo strusciò contro le pareti del

corridoio e brandelli di pelle si staccarono dalle spalle. Niente poteva fermarlo. Darius vide la morte venirgli incontro sotto forma di artigli e placche ossee, e deglutì.«Tutti dentro, ci sono! Ce l’ho fatta!» esclamò O’Rednar.Sullo schermo balenò una scritta verde, un scatto metallico seguì

l’ultima combinazione di tasti digitata dall’accademico. La lastra risalì le scanalature nelle pareti, venne risucchiata dal soffitto, e i tre si lanciarono oltre la soglia.Darius rotolò sul pavimento. Frammenti di visuale invasero i suoi

occhi: file di tavoli, macchinari dall’aspetto insolito, e un pulsante rosso incassato nel muro. Scattò in piedi, si avventò contro di esso quando ormai il Guardiano stava per raggiungere l’accesso, e il

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pannello calò al suolo. Un urto scosse il sotterraneo, la lastra assorbì l’impatto senza cedere. La bestia riempì il corridoio con strida attutite dalle pareti.Il lanciere crollò sulle ginocchia, la bocca spalancata alla ricerca

d’aria. Si guardò intorno.Erano in una sala immensa illuminata da bulbi che pendevano dal

soffitto. Enormi scatole metalliche erano accostate contro le pareti. Pulsanti e console ovunque, e un freddo che gelava il sangue nelle vene.Anareth sedeva contro una parete. Uno scheletro avvolto in lunghe

vesti grigie.«È così che te ne sei andato, allora. Hai difeso la tua scoperta fino

all’ultimo.»Darius osservò Clemio al cospetto del proprio maestro. Non c’era

tristezza nella voce del compagno. L’accademico non si abbandonò al cordoglio. La sua attenzione era già rivolta altrove.Il lanciere seguì lo sguardo dell’amico. Una struttura cilindrica alta

più di sei piedi si ergeva contro il soffitto. Lastre di vetro sigillate da un coperchio metallico. Uno scrigno rimasto ad attendere che la vita ritornasse a percorrere i corridoi del sotterraneo.Si avvicinò alla teca, vi poggiò il palmo di una mano mentre

all’esterno del laboratorio gli artigli del Guardiano stridevano contro la porta.Un liquido blu premeva dall’interno contro la vetrata, così denso da

oscurare ciò che essa custodiva. Una sagoma. Braccia, gambe, dettagli di una fisionomia umana scolpiti nel metallo.Frutto dell’evoluzione, strumento di annientamento.Darius colse il riflesso della propria immagine sovrapporsi alla

corazza del passato, la linea della mascella combaciare con il taglio dell’elmo. Spostò lo sguardo su Clemio, e il vecchio annuì. Un gesto impercettibile, appena abbozzato.Adesso capiva.

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Teero si piazzò di fronte alla teca. Le gambe leggermente divaricate e la spada sollevata sopra le spalle, impugnatura a due mani. I muscoli delle braccia erano talmente gonfi che minacciavano di esplodere.«Siete certi di quello che volete fare? Lasciatemi provare… ci deve

essere un altro modo» disse Clemio, mentre premeva i pulsanti di una console posta nelle vicinanze della vasca. Comandi morti, prigionieri della polvere.Darius lo ignorò, non c’era tempo. Il Guardiano non aveva smesso di

caricare la porta, il metallo del battente si era increspato, formando delle gobbe a ogni assalto.«Fatti da parte.» Lo skaar inspirò, il petto si dilatò, e per un istante

Darius ebbe la sensazione che le spalle del gladiatore fossero diventate più ampie.Teero tracciò un arco nell’aria con la spada. La lama vibrò, i denti

intagliati nel metallo morsero la lastra. Impercettibili lesioni si propagarono sui pannelli di vetro, corsero in tutte le direzioni.Lo skaar fece un passo indietro, si preparò a sferrare un secondo

fendente. Un fiotto di liquido blu zampillava dal punto di impatto. Il gladiatore torse il bacino, ruggì, e un’esplosione di cocci infranti e fluidi seguì il colpo brutale che dilaniò la vetrata.Il liquido era gelido. Darius lo sentì sul pavimento, contro le

caviglie, mentre la vasca si svuotava. Al suo interno l’armatura aspettava, agganciata a sostegni metallici.Era ricoperta da placche incastrate tra loro che creavano una

superficie compatta, impenetrabile. Nessun fregio, nessun simbolo era inciso su di esse. Solo metallo nero, dello stesso colore della notte, e imperlato da gocce diamantine. Le spalle, le braccia e le gambe erano rinforzate da blocchi sovrapposti, mentre una catena di anelli risaliva il dorso della corazza fino alla nuca, agganciandosi all’elmo. Nessuna feritoia o espressione era impressa nel casco che avvolgeva per intero il capo, solo uno scuro vetro orizzontale incassato nella visiera.

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«Stupefacente.» O’Rednar montò sul piedistallo, sormontato dalla teca infranta, e allungò un mano attraverso lo squarcio. Sfiorò l’armatura con un gesto incerto, deterse il liquido da una piastra con i polpastrelli. «Non credo di conoscere una lega simile. Una fusione, qualche forma primordiale di celion. Forza, datemi una mano. Tiriamola fuori!»Insieme sganciarono la corazza dai sostegni, la trascinarono sul

pavimento.Darius sentì il materiale tra le mani. Era gelido, e sembrava non

avere alcun peso. Arretrò, gli occhi sbarrati come in trance. Non era necessario alcun trespolo. L’armatura rimase in posa eretta, gli arti non oscillarono, l’elmo non si piegò in avanti.Una statua di metallo sopravvissuta all’annientamento del suo

tempo.«Il Titan.» Clemio girò intorno alla corazza, rapito. «C’era stato un

tempo, molto prima della caduta, prima di tutto questo… un tempo in cui uomini dalla forza straordinaria mossero guerra agli dei del passato. Il titano era un simbolo per gli antichi, l’ultimo difensore.»O’Rednar sollevò il capo e Darius incrociò il suo sguardo. Si girò,

anche Teero lo stava guardando.«Devi indossarla» esclamò l’accademico, serio in volto.Un’affermazione che attraversò Darius come una scarica d’energia.

Il lanciere sentì una stretta alla gola, la lingua gli si incollò al palato, le mani gli sudarono.Clemio parve leggergli dentro, si avvicinò e gli pose una mano sulla

spalla. Una stretta d’acciaio, dita che serravano l’articolazione e scavavano nella carne.«Io sono troppo vecchio per farlo, e Teero… beh, lui è

semplicemente troppo grosso. È stata realizzata per gli esseri umani.» Un sorriso increspò il volto del compagno sotto i fili di barba bianca. Indicò con il mento lo skaar, poi riportò lo sguardo su di lui. «Sei un soldato, Darius, e quello che abbiamo sotto il naso ora è forse lo strumento di guerra più potente che i nostri antenati

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abbiano mai concepito. Guardati intorno, cosa giustifica altrimenti tutta questa segretezza?» Clemio sollevò un braccio, un gesto circolare che parve avvolgere l’interno laboratorio.«Come fai a sapere che funzionerà? Questa cosa è rimasta qui

dentro per chissà quanto tempo. Chi ti dice che sia ancora possibile usarla?» Darius volse il capo alla sua destra.Era stato Teero a parlare. Il gladiatore aveva riposto la lama, il volto

da rettile era contratto in una smorfia e gli occhi dorati erano fissi su O’Rednar.«Non lo so, infatti. Ma dobbiamo provare!» L’accademico si irrigidì,

le vene affiorarono sulle tempie. «Ricorda il giuramento, Darius. Pensa a ciò che Caio Settimo ha fatto alla nostra gente, alla tua famiglia, al mondo intero. Deve essere fermato, noi abbiamo il dovere di farlo, a ogni costo! È per questo che siamo qui adesso, per dare un segnale. La popolazione ha bisogno di speranza…»Darius sentì il cuore martellargli nel petto, pompare sangue

all’impazzata. Il Guardiano non si era arreso, il suo tentativo di forzare l’ingresso al laboratorio era scandito da boati. Di colpo i suoni si attutirono, la voce di Clemio si distorse. Le parole divennero inafferrabili e la vista parve annebbiarsi. Tentacoli fumosi si contorcevano davanti agli occhi.Rivide il giorno del suo giuramento. Il sole di Andurian impresso

con ago e inchiostro nella carne, il sangue che gli bagnava la tunica, poi fuoco. Sentì le urla di terrore di sua madre, data al rogo ai piedi della Torre del Sole. Osservò ali nere da rettile dispiegarsi nel cielo, colse vortici di fuoco color zaffiro sventrare la nebbia e braccare la sua famiglia.Vendetta.Al suo fianco qualcuno gli stava ancora parlando, una voce

conosciuta. Clemio.«…saresti disposto a sacrificare la tua vita?»Darius si voltò, uno scatto del capo improvviso che paralizzò il

vecchio.

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«Sono vivo solo perché combatto, non avrò pace finché l’Impero non sarà distrutto. Devono morire, tutti.»Il tempo all’interno del laboratorio parve fermarsi. Granelli di

sabbia prigionieri di una clessidra. Agli occhi di Darius l’armatura restava un mistero. Non vi erano comandi, leve che permettessero di aprirla e indossarla. L’intera struttura restava inaccessibile, sigillata dall’interno.Clemio era uno spettro che si aggirava tra i macchinari del passato.

Schermi spenti, pannelli di metallo e tastiere ricoperte di polvere. Su alcuni tavoli avevano trovato pezzi di ricambio, ingranaggi, protezioni per gambe e braccia. Prove di assemblaggio.Forse, aveva ipotizzato l’accademico, gli scienziati avevano lottato

contro il tempo per portare a termine la loro scoperta. Ciò che era stato conservato all’interno della teca doveva essere stato il loro unico risultato.La guerra è come una bestia famelica, non sa aspettare. La guerra

divora tutto.«Ci deve essere un modo… è impossibile…» O’Rednar parlava tra sé.Darius lo vide riaccostarsi all’armatura, far scorrere le mani, ancora

una volta, sotto l’elmo, lungo le spalliere. Dita che esploravano, che non si arrendevano.«Da quanto tempo siamo qui sotto?» chiese il lanciere ai compagni.Teero scrollò le spalle. Lo skaar si era seduto contro una parete, le

braccia incrociate sul petto. Clemio non gli prestò attenzione.Darius pensò allo Shulzar. Tre giorni, poi Kod McDrauw sarebbe

partito lasciandoli sull’isola. Osservò il battente della porta, vide le lesioni allargarsi nelle mura a ogni impatto. Il Guardiano sarebbe entrato. Doveva fare qualcosa, non poteva finire così.Si avvicinò a uno dei tavoli ricoperto da componenti d’armatura e

prese un gambale. Lo rigirò nelle mani sotto la luce dei cristalli. Un pezzo di ferraglia logorato dal tempo e forgiato per proteggere muscoli e ossa. Introdusse una mano dall’apertura all’altezza del ginocchio e le dita ne tastarono il rivestimento. Qualcosa premette

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contro la sua carne, lacerò i tessuti. Darius ritrasse l’arto, un sorriso insanguinato si allargava sul palmo. Lasciò cadere il gambale e questo rimbalzò sul pavimento con un rumore di ferraglia vecchia. I suoi occhi si mossero dal taglio che si era procurato all’armatura. La rabbia gli montò nel petto, un’eruzione di collera e frustrazione che non riuscì a controllare. Strinse la mano ferita in un pugno e caricò. Le nocche si infransero contro la parte frontale dell’elmo. Una scarica di dolore gli risalì lungo l’arto fino alla spalla.Darius venne respinto all’indietro, rovinò sul tappeto di schegge.«Che hai fatto, lanciere? Sei impazzito?» gridò Clemio.Teero si fece avanti e lo aiutò a rialzarsi.Darius percepì qualcosa, un movimento che gli fece ingoiare il

dolore.Sollevò lo sguardo verso la corazza. Il suo sangue chiazzava le

piastre, gocce purpuree sul metallo nero.«Avete visto anche voi?»«Cosa?» rispose O’Rednar corrugando la fronte. «Di che stai

parlando?»«Una luce» rispose Darius, la mano dolorante stretta nell’altra.Le teste dei compagni scattarono in direzione della statua di

metallo. Il visore parve essersi animato di un tenue bagliore. Rumore di ingranaggi. Clemio sussultò, Teero snudò la spada. Darius si avvicinò alla corazza, allungò una mano.La parte frontale del casco si rovesciò all’indietro. Le placche del

petto, delle cosce e delle braccia scivolarono su scanalature invisibili, si sovrapposero tra loro, rivelando una struttura cava, fatta per ospitare un corpo, e in cui filamenti rossi si agitavano come vermi sbucati dal fango.L’anduriano lanciò un rapido sguardo verso i compagni, poi si

strappò di dosso indumenti e corazza. Girò su se stesso, passi lenti, e la schiena sfiorò il metallo. Un tocco stranamente caldo. Poggiò la nuca contro l’incavo del casco.Teero alzò un braccio. «Quei cosi si stanno muovendo!»

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Darius abbassò lo sguardo. I tentacoli strisciarono lungo le sue braccia, si avvolsero a esse. Filamenti organici di una pulsante luce rossa. Avvertì un calore umido dietro la testa. L’istinto lo portò a scattare in avanti, a uscire da quel sarcofago di metallo, ma l’armatura lo tenne a sé. I vermi stavano entrando dentro di lui, nella sua carne, alla base del collo.Gridò appena comprese cosa gli stava accadendo. Un urlo che lo

lasciò senza fiato. Clemio e Teero erano immobili, statue pietrificate dall’impotenza.Darius vide le piastre chiudersi ermeticamente sul suo corpo, la

pelle sparire sotto quelle piastre nere come la notte. Venne colto da un fremito, provò a divincolarsi ma i suoi arti erano rigidi. Era stato inghiottito dall’armatura, era diventato l’armatura!Qualcosa scavò nella sua nuca, si infilò nella gola, risalì verso l’alto.Darius eruttò sangue dalla bocca, i timpani erano dilaniati dalle sue

stesse grida.Sentì le palpebre diventargli pesanti. Le sagome dei compagni

davanti ai suoi occhi si sdoppiarono, sfumarono. Stava perdendo i sensi. Uno scatto lo fece sussultare, le piastre aderirono al corpo, spinsero le protuberanze a fondo nei muscoli, nella carne. Scariche risalirono lungo le ossa fino al cranio.Darius cadde in ginocchio, vomitò sul pavimento. Crepe nella pietra

si allargarono a seguito dell’impatto. Riuscì ad articolare poche parole, la bocca piena di fiele.«Che mi sta succedendo…»Teero fu al suo fianco, gli cinse le spalle corazzate con le braccia,

provò a rimetterlo in piedi.«Dimmi cosa senti» anche Clemio gli porse un braccio, aiutò lo

skaar a sorreggerlo.Darius vide il laboratorio capovolgersi, tavoli e macchinari

ruotarono. Sbatté più volte le palpebre, cercò di riprende il controllo di sé, di reprimere i conati di vomito. Il dolore era distruttivo, lo spinse a gridare. Sotto il metallo era come se il suo corpo si stesse

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smembrando. L’elmo si richiuse. La visiera gli piombò sulla faccia, e per un istante fu buio. Nessun suono, solo il raspare del respiro all’interno del casco. Agitò le braccia, i suoi movimenti erano leggeri, la forza fuori controllo, una forza che non gli era mai appartenuta. Sentì urla, poi rumore di schianto.La parete esplose. La lastra di metallo si abbatté al suolo e blocchi

di pietra vennero scagliati in ogni direzione all’interno del laboratorio, travolsero tavoli e macchinari.Teero tossì nel rimettersi in piedi, estrasse la spada senza riflettere.

Il sangue gli scorreva sulla faccia e una nube di polvere gli annebbiava la vista. Colse la figura di quel vecchio pazzo mentre correva all’interno del laboratorio, cercò Darius con lo sguardo quando qualcosa lo investì, sbattendolo al suolo.L’aria abbandonò i suoi polmoni, perse la presa sulla spada. Si

dimenò e le fauci del Guardiano scattarono addentando il vuoto.La bestia lo teneva inchiodato al pavimento, le zampe enormi

premevano contro il petto, schiacciando le piastre della corazza come una scatola di latta.Lo skaar non si diede per vinto. Riuscì a liberare un braccio e sferrò

un pugno. Le nocche si schiantarono contro il muso del predatore e questo ruggì. Avvertì l’alito caldo e marcio contro la faccia, la bava che colava dalle zanne bagnandogli lo zigomo. Teero gridò. Invocò il nome di Darius con tutto il fiato che gli restava.L’anduriano si afferrò il cranio. Fitte improvvise gli attraversarono

la testa. Immagini vorticarono davanti ai suoi occhi. Un uomo era curvo su di lui, lo osservava con interesse. Portava lenti sul naso e indossava strani indumenti, qualcosa di simile a una lunga tunica bianca. Una fila di bastoncini di legno era sistemata in una tasca sopra il cuore. Matite. Bulbi luminosi lo abbagliarono, sbatté le palpebre e mise a fuoco. Riconobbe il soffitto, roccia frastagliata, qualcosa che aveva già visto. Frammenti di una memoria che non era andata persa. Il laboratorio sotto la Città Morta. Una nuova fitta, questa volta più forte, e la visuale gli si distorse. Apparve un secondo

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uomo, la bocca e il naso erano coperti da una maschera azzurra. Darius lo vide incombere su di lui. Portava un oggetto appuntito con sé. Una fiamma blu ne scaturì.Gridò, un urlo primordiale, e le persone sparirono. Niente più luci

accecanti o strani indumenti. Davanti alla faccia ora turbinavano file di numeri e lettere. Caratteri a lui ignoti che scorrevano veloci, assumendo combinazioni differenti su uno schermo verde scuro. Digrignò i denti quando la pressione dietro la nuca si intensificò, sentì nuovamente le forze venirgli meno.Darius.Sentì chiamare il suo nome. Voltò il capo di scatto, il laboratorio era

distrutto. Teero giaceva al suolo. Una sagoma scura, enorme, lo sovrastava. Il Guardiano. L’amico stava lottando, si dimenava cercando di tenere le fauci del mostro lontane dalla sua faccia.Un grido.Clemio emerse dalle macerie reggendo una sbarra di ferro tra le

mani. Si scagliò contro la creatura, le abbatté quell’arma di fortuna sul dorso. Sollevò le braccia, pronto a colpire ancora, ma la bestia gli assestò un rovescio in pieno petto scagliandolo contro la parete, e il vecchio crollò al suolo come un sacco vuoto.Darius avvertì una strana energia dilagargli nel petto, un calore

improvviso che gli bruciava la carne. Abbassò lo sguardo sulla mano destra, il palmo rivolto verso l’alto. Aprì e richiuse le dita senza avvertire alcun dolore. Aveva sferrato un pugno con quella stessa mano, contro l’armatura, un colpo che gli aveva frantumato le nocche. Tutto era sparito, carne e sangue, sotto lo strato di metallo nero. Il vortice di lettere e numeri proiettato sui visori dell’elmo rallentò. Adesso quei caratteri sembravano assumere configurazioni comprensibili.Riconoscimento sistema di comunicazione ospite ultimato.Il tempo si cristallizzò. Darius ridusse le palpebre in fessure, mise a

fuoco le righe materializzatesi nell’angolo sinistro della sua visuale. L’armatura gli stava parlando.

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Ripristino dei sistemi organici completato. Amplificazione motoria: 100%.Si lanciò in avanti e coprì la distanza che lo separava dal mostro in

un attimo. Sferrò una ginocchiata contro il muso del Guardiano e questo grugnì, perse l’equilibrio. L’anduriano calciò dal basso verso l’alto e la creatura incassò il suo stinco nelle costole, si sollevò dal pavimento ribaltandosi sul dorso.«Va’ via» disse Darius a Teero, e lo skaar rotolò sul fianco, strisciò

lontano dallo scontro.Il Guardiano si sollevò sulle zampe posteriori, ruggì scoprendo le

zanne e gonfiando i muscoli del petto. Il lanciere scagliò via un tavolo con una manata e si portò davanti all’avversario.Livello propulsione: massimo. Cannone neurale carico e pronto

all’uso.Linee luminose si staccarono dagli angoli del visore, formarono un

cerchio davanti ai suoi occhi. Un mirino.Portò d’istinto il braccio destro dietro le spalle e serrò le dita

intorno a un’impugnatura situata sul blocco di metallo che gli fasciava il dorso. Diede uno strappo secco e un pezzo della corazza si staccò, filamenti organici emersero da esso, si avvolsero intorno all’avambraccio, scivolando all’interno di fori che apparvero sul metallo. Darius venne colto da un fremito quando questi gli scavarono nel braccio fino all’osso. Una scarica d’energia gli risalì lungo la spina dorsale fino alla testa.Una canna nera spuntò dal frammento e sotto di essa una lama.

Un’arma.La bestia sbarrò gli occhi, si avventò contro di lui. Darius non provò

a schivare l’assalto. Il Guardiano falciò con le zampe, gli artigli emisero scintille a contatto con le piastre dell’armatura, ma l’anduriano non si piegò, rimase saldo sulle gambe e spinse il fucile verso l’alto. Piantò la baionetta sotto la mascella della creatura e premette il grilletto. L’arma sputò fuoco blu, riducendo in brandelli

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il cranio del mostro. Una chiazza di sangue e materia cerebrale affrescava la parete.Darius rimase a fissare il corpo decapitato del Guardiano ai suoi

piedi.

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XViIMorrein era un’ombra, un frammento d’oscurità nella notte. Si era

nascosto per tutto il giorno, aveva atteso, e ora i suoi occhi osservavano dal terzo piano della costruzione le fiamme che dilagavano nel buio. Lingue di fuoco si levavano contro il cielo, divorando pire di tronchi ammassate al cospetto della donna di metallo. Le ombre delle danzatrici strisciavano sulle pieghe della toga della statua. Si muovevano in cerchio intorno a qualcosa posto sul terreno, una forma scura che lui stentava a riconoscere.Il ritmo dei tamburi scuoteva la notte, faceva vibrare le mura

decrepite degli edifici circostanti. I goliati occupavano la strada, seduti sulle ginocchia come ipnotizzati da quei passi frenetici. I loro canti crebbero d’intensità, divennero assordanti. Nessuna melodia, solo un coacervo di voci sovrapposte tra loro. Poi le danzatrici volteggiarono fuori dal cerchio di fuoco e i tamburi tacquero. Vi erano solo il crepitare dei tronchi divorati dalle fiamme e un lamento.Un pelle rossa emerse da un edificio, reggendo l’estremità di una

fune. La strattonò e una bestia venne alla luce. Un cervo. L’animale faceva forza sulle zampe posteriori, provava a liberarsi, ma il goliata non lasciò andare la presa, lo trascinò fino al centro dei roghi. Morrein si spostò verso un’altra finestra per avere una visuale migliore e il respiro gli morì in gola.Vide una lastra, una grossa tavola di pietra dai bordi frastagliati. Ne

riconobbe il colore, il materiale in cui era stata intagliata, e la sua mente volò a Xendria, risalì gli spalti impolverati dell’arena per poi arrestarsi dinanzi alla statua della Dea Kalessania. Di colpo la testa gli divenne pesante, vacillò, ma non ebbe il tempo di riprendersi.Altri goliati si erano mossi per dare una mano al compagno che

trascinava l’animale. Lo afferrarono per le zampe e lo sbatterono sulla roccia. La bestia emise un lamento, questa volta più profondo,

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poi uno dei pelle rossa estrasse una lama, lo colpì alla base del collo. Gridò di piacere quando il sangue dell’animale gli schizzò sulla faccia. La testa del cervo rotolò sul terreno, rivoli scarlatti imbrattarono la superficie della lastra, scivolarono all’interno di sottili scanalature incise su di essa per poi accumularsi in una cavità scavata a un’estremità.Una femmina si fece avanti, oltrepassò la linea dei fuochi stringendo

tra le braccia un neonato. Il principe udì i vagiti del bambino, vide le braccia che si agitavano quando la madre lo immerse nel sangue del cervo. La pelle del piccolo, più chiara rispetto a quella dei goliati adulti, divenne rossa come il fuoco.La folla era in delirio.Morrein fu colto da un improvviso conato di vomito, si appoggiò

alla parete e sbatté le palpebre. Dal margine opposto della strada sopraggiunse un corteo di individui. Braccia protese verso l’alto reggevano Alatea. In testa al gruppo, un selvaggio con una massa di capelli argentei e il corpo dipinto di bianco brandiva un lungo oggetto nero, simile a un bastone. Un fucile.La ragazza era stata denudata, la pelle risplendeva in tutto il suo

pallore sotto una falce di luce lunare. Ammassi di stelle puntellavano il cielo, come osservatori lontani che assistevano impazienti al rito che stava per consumarsi.Il daelish vide gli esseri seduti sulla strada scansarsi, aprire un

varco verso la statua. Alatea parve fluttuare sopra un mare di corpi nodosi e di sguardi famelici. La giovane si dimenava, le sue urla rimbombavano tra le rovine. Un suono graffiante che Morrein aveva già sentito, un lamento angosciante che era risuonato nella sua mente per tutto il tempo. Una richiesta d’aiuto alla quale non poteva sottrarsi.Mani rozze afferrarono Alatea, la tennero ferma sulla lastra mentre

altre le legavano polsi e caviglie a lunghi pioli nel terreno. Il goliata che reggeva il fucile fece un passo in avanti e allargò le braccia. L’arma sollevata sopra la testa era uno scettro mortale di potere.

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Morrein ne studiò i movimenti. Doveva essere il capo, pensò.Il pelle rossa parlò rivolgendosi ai suoi simili. Parole in una lingua

incomprensibile, che accesero gli animi. La folla lo acclamò, ruggì contro il cielo come un branco di bestie affamate. Poi l’individuo si mise l’arma sulle spalle, armeggiò con la cintura e Morrein colse il baluginio di un pugnale nella notte.Il bruto si avvicinò alla ragazza e le incise un polso.Rivoli purpurei colarono sulla pietra e la lastra prese vita all’istante,

tremò sul terreno come se fosse stata destata dal letargo e un’aura di luce rossa la avvolse. Il sangue della ragazza scorreva attraverso i solchi scavati sulla superficie. I goliati urlarono, le loro voci divennero assordanti.Reiv.Morrein distolse lo sguardo dalla strada, da Alatea. Una mano salì al

petto, le dita serrarono la stoffa, strinsero la fiala fino a quando le unghie sbiancarono.“No”, si disse, “questo sangue non sarà versato.”Si ritrasse dalla finestra e lasciò che l’oscurità lo inghiottisse.Morrein fece cadere la fiala vuota al suolo. Questa rimbalzò, andò in

pezzi, poi arrivò l’onda. Il sangue nelle vene era lava incandescente e il cuore minacciava di esplodergli a ogni battito. Vacillò, finì contro una parete. Le pupille erano dilatate, i sensi più affilati di lame di coltello. Il ronzare di un insetto divenne assordante come il rombo dei motori di un intercettore imperiale.Scrollò il capo, respinse dentro di sé l’onda d’urto che lo travolse e

si leccò le labbra. Era solo in un luogo che non conosceva, lontano leghe e leghe dalla sua terra e circondato da un branco di selvaggi.La sua vita per quella di Alatea.Fece schioccare le vertebre cervicali e chiuse per un istante le

palpebre. La mente si svuotò di ogni pensiero e il respiro si fece lento, impercettibile. Divenne un’ombra, i brandelli d’oscurità che strisciavano sinuosi tra i detriti lo inghiottirono. Non guardò i suoi

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nemici, ma tenne gli occhi sulla ragazza, ne osservò il corpo stretto nella morsa dei roghi.Alatea non aveva smesso di lottare, inarcava la schiena e le funi

affondavano nella carne.Uno dei pelle rossa offrì una mannaia al capobranco. Un pezzo di

ferro corroso dalla ruggine e fissato a un’impugnatura di legno. Non un’arma, solo metallo per macellare. Il capo la impugnò, sollevò la lama contro la luna e le urla della folla esplosero in un boato.Morrein tese il braccio del lancia dardi in avanti, fece pressione sul

grilletto e il bracciale ruotò. Nessun goliata udì il sibilo della freccia.La punta di metallo penetrò la carne e il selvaggio grugnì, la scure

ricadde all’indietro. L’asta di un quadrello gli sbucava da una spalla.Il principe si lanciò in corsa verso un ammasso di detriti. Le teste

ruotarono in ogni direzione, gli occhi scrutarono le tenebre senza riuscire a vederlo. Il capobranco si era rialzato strappandosi la freccia dal corpo e ora ringhiava ordini come un mastino ferito.Il daelish ricaricò rapidamente l’arma e sbucò fuori dal riparo.In un istante il caos dilagò nelle rovine.Morrein non aggirò la tempesta, si tuffò nel mezzo.Inchiodò a un pilastro la faccia di un goliata che gli si era scagliato

contro. Il dardo gli sfondo la mascella in un’esplosione purpurea. Schivò l’affondo di una lama che era emersa dal maremoto di corpi in fuga. Livellò il tiro e crack, il lancia dardi sputò due frecce che abbatterono l’aggressore. Si voltò, il suo respiro era ridotto a un sibilo.Alatea era immobile, una sagoma era curva su di lei.Il daelish percepì una minaccia alle sue spalle, prese lo slancio e

roteò nell’aria. Una sbarra di ferro falciò il vuoto. Il bruto che la brandiva si guardò intorno, fece per voltarsi ma era lento, troppo lento. Morrein gli aveva già piantato un dardo nella nuca.Il pelle grigia riprese a correre. Due proiettili innescati nell’arma da

lancio, la daga alla cintura e la pietra syreana fissata al palmo dell’altra mano. Era madido di sudore, il cuore gli martellava nel

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petto, i muscoli erano tesi allo spasimo eppure si sentiva inafferrabile. I suoi movimenti erano fluidi, letali. Era il reiv a dargli l’energia.Il sidro della Dea ricavato dalla morte per dare la morte.Agganciò lo sguardo di un avversario, ne udì il ruggito quando

questi gli si avventò contro. Aveva spalle ampie, muscoli percorsi da cicatrici che si gonfiarono quando vorticò una stanga di legno. Morrein scivolò sotto la traiettoria e rispose con un rovescio a mano aperta. Avvolta nelle strisce di stoffa, la pietra syreana balenò come un frammento di stella. Le ossa si schiantarono, lo sterno si frantumò e l’impatto mandò il colosso a sbattere contro un gruppo di suoi simili che erano accorsi a dare manforte.Il principe sollevò il capo. Le fiamme dei roghi si contorcevano, il

legno scoppiettava.Era vicino, meno di dieci passi. I bruti ruggirono. Si rimisero in piedi

liberandosi del corpo del compagno ferito, lo calpestarono nella foga. I loro occhi erano grovigli di capillari insanguinati. Caricarono a testa bassa, puntarono le armi contro di lui.Morrein non arretrò, si scagliò contro.Prese lo slancio sfruttando un masso che sporgeva dal suolo e

percorse alcuni passi in bilico lungo la parete di un edificio. Spiccò un volo sopra le teste dei nemici e puntò il braccio verso la lastra di pietra. L’anello del lancia dardi fece due scatti consecutivi e i proiettili sibilarono. Le punte sferzarono l’aria, attraversarono le fiamme di una pira e si conficcarono nelle costole dell’essere curvo su Alatea. Il bruto venne scagliato di lato, rotolò a faccia in giù nel fango contorcendosi in preda a convulsioni.Morrein atterrò con una capriola, si rimise in piedi, daga in pugno.

Fitte di dolore gli risalirono lungo i polpacci, come fiammate improvvise. Sentì le urla levarsi alle sue spalle, udì il tonfo dei passi, il rumore delle armi sguainate. Lanciò un rapido sguardo oltre la statua, verso la riva del fiume. Questa era la sua ultima opportunità,

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poteva confondersi nelle tenebre e sfruttare le riserve d’energia per mettersi in salvo.Aiuto. Aiutatemi.La voce di Alatea riecheggiò forte nella sua testa, gli attanagliò il

cuore in una morsa. Il daelish scosse il capo, scacciò ogni pensiero, ogni debolezza, e corse verso di lei. Il volto della ragazza era bagnato dalle lacrime, il corpo martoriato da lividi. Morrein non aveva tempo per confortarla, falciò di lama liberandole entrambe le gambe dalle funi. Sollevò nuovamente il braccio armato, doveva tagliare le corde ai polsi, quando il fragore di uno sparo rimbalzò contro gli scheletri degli edifici.Il principe venne scaraventato al suolo. Ingoiò polvere.Morrein sbatté le palpebre, puntò le pupille contro il cielo. La sua

spalla sinistra era ridotta a una poltiglia fumante. Polvere da sparo e sangue si erano mescolati in un odore pungente. Sulla lastra di pietra, la ragazza stava singhiozzando.Provò a rialzarsi. Una figura venne a incombere su di lui. Al bagliore

dei fuochi i segni sulla faccia butterata del capobranco sembravano crateri. Il goliata lo afferrò per la giubba, gli parlò e una zaffata di fiato rancido lo investì. Non riusciva a comprendere le parole di quell’essere, ma poteva cogliere la rabbia che ne accecava gli occhi.Il bruto gli pestò con il calcio del fucile la ferita sanguinante.

Un’ondata di dolore lo travolse. Morrein non gridò, sentì le forze venirgli meno. Le sagome che lo circondavano sbiadirono, i suoni si attutirono. Deglutì saliva dal sapore metallico e girò il capo. Alatea era ancora lì, un corpo nudo tra grovigli di gambe. I selvaggi li asserragliavano in una morsa che toglieva il respiro. Mani lo afferrarono tirandolo in piedi.Il capobranco lo fronteggiò, disse qualcosa e i suoi simili esplosero

in una risata. Morrein sostenne lo sguardo, increspò anche le labbra in un sorriso, poi gli sputò un grumo purpureo in faccia.L’ilarità sparì dai volti dei selvaggi.

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Il principe cadde al suolo, piegato in due da un pugno alla bocca dello stomaco. Annaspò alla ricerca d’aria, poi una pedata lo centrò in pieno volto facendogli compiere una torsione a mezz’aria. Finì nel fango a sputare sangue. Artigliò la terra, si puntellò sui gomiti e il suo sguardo andò oltre i bruti, oltre i corpi che si ammassavano per assistere alla sua morte. Morrein colse un movimento tra le macerie, un fulmineo balenare di metallo nella notte.Un guerriero, nient’altro che un guerriero nero, emerse dalle ceneri

della distruzione come un fantasma proveniente da un mondo dimenticato. Uno dei goliati notò quella figura e gli si avventò contro brandendo una mazza di ferro. Il guerriero non rallentò il passo, non sguainò alcuna spada. Colpì. Sferrò un pugno che fece esplodere il cranio dell’avversario. Il corpo si afflosciò al suolo in una posa contorta.Un urlo si levò dal fondo della strada, raggelante.I selvaggi si voltarono di scatto, si dimenticarono del rito, di

Morrein e Alatea. Il loro capobranco si fece largo fino alla prima fila. I bruti ringhiarono, le mani serrate sulle impugnature delle armi e rivoli di bava che colavano fuori dalle mascelle prominenti. La loro attenzione era tutta per l’intruso. Morrein strisciò sul terreno, riuscì in qualche modo a girarsi sul fianco, a vedere con chiarezza quello che stava accadendo. Il guerriero nero si aprì un varco fino alle pire infuocate. Le fiamme si contorcevano, proiettando un bagliore arancione sulle piastre della sua armatura. Ogni singola parte del corpo era ricoperta di metallo, un involucro compatto color fuliggine che donava a quell’individuo un aspetto inumano, micidiale.Il principe lo vide sollevare un braccio, portarlo dietro le spalle in

un gesto lento. Uno strappo e un pezzo di armatura si staccò dal dorso. Come serpenti velenosi, dei filamenti scuri scivolarono fuori dall’oggetto, penetrarono l’avambraccio del guerriero. Una canna schizzò in avanti e sotto di essa sibilò l’acciaio di una lama lunga quasi venti pollici. Una baionetta.

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La visiera dell’elmo si rovesciò all’indietro e Morrein avvertì un nodo stringergli la gola. Un volto umano incorniciato da una barba castana, il cranio rasato e una cicatrice obliqua sulla fronte. Occhi duri come la pietra incontrarono i suoi, le palpebre si chiusero in un movimento quasi impercettibile. Darius.L’anduriano trasse un profondo respiro, quasi a riassaporare l’aria

all’esterno della corazza, poi spostò lo sguardo sui selvaggi. Il volto si indurì, divenne una maschera d’odio, e le mani ferrate si serrarono intorno all’arma.«Coraggio», gridò Darius, «venite a morire!»

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XViIILampi di luce blu sventrarono la notte. Raffiche di fuoco falciarono

tutto ciò che sbarrava la strada del guerriero nero. Morrein schiacciò la faccia contro il terreno, vide i selvaggi intorno a lui cadere come bambole di pezza. L’aria divenne irrespirabile, pervasa dall’odore del sangue e della carne bruciata.«Alatea, stai giù. Mi senti? Non muoverti» gridò verso la ragazza e la

sua voce si perse, sovrastata dalle grida dei pelle rossa.L’anduriano fronteggiò l’urto, come una scogliera contro la furia del

mare. I goliati lo assaltarono da ogni direzione brandendo mazze e lame, ma lui non arretrò. La sua arma era una dispensatrice di morte. Una morte antica, tornata indietro dal passato.Dalla canna si sprigionò una tempesta di fuoco che non diede

respiro ai nemici. Pelle, muscoli, ossa, tutto venne tranciato, ridotto a poltiglie fumanti, e i pochi che riuscirono ad avvicinarsi a lui abbastanza per colpirlo, trovarono la baionetta ad aspettarli.Venti pollici d’acciaio asserviti alla strage. Darius mulinò il fucile

come fosse stato un’ascia, sradicò la testa dalle spalle di un selvaggio, tranciò gli arti di un secondo avversario che gli si scagliò contro, descrisse archi cremisi nell’aria. I pelle rossa scampati alla furia del guerriero nero si dispersero, e la loro carica si tramutò in una fuga disperata. Alcuni si gettarono nel fiume, arrancarono sulla riva per poi sparire nella foresta sulla riva opposta. Altri invece abbandonarono le armi, si lanciarono verso le rovine degli edifici senza voltarsi indietro.Morrein vide Darius scolare il sangue dalla lama. La canna si ritirò

mentre i filamenti gli scivolarono fuori dall’avambraccio in un sibilo viscido. Ripose il fucile dietro le spalle e questo parve fondersi alle piastre della corazza in una composizione perfetta.

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L’anduriano si fece avanti, mosse il capo, prima da un lato, poi dall’altro, e il daelish ebbe la sensazione che il compagno stesse scandagliando la strada alla ricerca di qualcosa, o di qualcuno.Il capobranco era seduto contro un pilastro e si teneva il ventre

stretto con le mani. Le brache erano bagnate del suo stesso sangue. Il fucile non era più al suo fianco, sepolto chissà dove sotto i grovigli di cadaveri. Forse non aveva avuto nemmeno il tempo di usarlo.Darius gli si avvicinò, allungò un braccio e gli serrò la gola. Lo

rimise in piedi e una scia rossa affrescò la parete alle spalle del bruto.Morrein assistette alla scena, udì il lamento del selvaggio, parole

ripetute come una nenia, poi sentì delle mani afferrarlo, muscoli duri come il granito lo sorressero.«Prendi la ragazza. Lasciami qui» gridò allo skaar, mentre questi lo

caricava sulle ampie spalle corazzate.«Tranquillo, succhia sangue. C’è già qualcuno che pensa a lei»

rispose il gladiatore, ruotando su se stesso e avviandosi verso la riva.Morrein fece guizzare lo sguardo e frammenti di immagini

penetrarono la sua visuale.Un’ombra era inginocchiata vicino Alatea, si toglieva il mantello

dalle spalle e le avvolgeva il corpo nudo, la stringeva a sé quasi a cullarla. La giovane affondò la faccia nel petto del vecchio anduriano, e Clemio le accarezzò la nuca. Solo pochi attimi, poi l’uomo si rialzò, la tenne tra le braccia come un fagotto.Il principe incrociò lo sguardo dell’accademico e ne colse la

riconoscenza.Darius sedeva nella stiva dello Shulzar, gli occhi fissi sulle mani.

Niente più calli tra le dita o solchi nei palmi, solo metallo. Il rollio del ponte era rumore di fondo per i suoi pensieri e, mentre il sottomarino di McDrauw faceva ritorno verso Lydra, lui si sentiva andare alla deriva.

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Le nausee erano sparite, ormai non gli era rimasto più nulla in corpo da rigettare. Non assumeva cibo o liquidi da prima della discesa nel laboratorio sotterraneo, non ne aveva bisogno. In qualche modo che non riusciva ad afferrare, era l’armatura a tenerlo in vita.Era l’armatura a nutrirsi della sua, di vita.«Darius» Clemio era una macchia di scuro sulla soglia della cabina,

il corpo avvolto nel mantello, i capelli raccolti nella coda che gli cadeva dietro lo spalle e una benda sul volto.L’anduriano sollevò lo sguardo in un gesto lento, stanco. Ciuffi di

barba si staccarono dalla sua faccia, come tagliati da un rasoio invisibile, lasciando delle chiazze di vuoto sulle guance. Le sopracciglia erano cadute qualche ora prima. La sua umanità stava lentamente svanendo. Sotto le piastre dell’armatura lui stava svanendo.«Come sta?» chiese all’accademico e le parole vennero fuori con una

voce che stentava a riconoscere, molto più bassa, quasi soffocata.O’Rednar si torceva le dita con fare nervoso, fece un passo in avanti

e venne sotto il bagliore verde dei punti luminosi.«Il suo corpo non ha riportato danni che non possano guarire in

pochi giorni. Per quanto riguarda la mente, beh… dovrà dimenticare. Alatea è stata fortunata, se Morrein non fosse intervenuto...» il vecchio non completò la frase. Emise un gemito quando si sedette sul pavimento. Distese le gambe in avanti e poggiò la nuca contro il fasciame.Erano uno di fianco all’altro ora, come vecchi amici. Clemio però

fissava il vuoto, non era più riuscito a sostenere il suo sguardo.Darius questo l’aveva capito. Studiò l’accademico per un istante, poi

tornò a guardarsi le mani, i palmi rivolti verso l’alto.«Lo sapevi, non è vero?»O’Rednar voltò il capo di scatto e la faccia gli si incendiò.«Darius, tu… tu devi comprendere…»

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«Che cosa aveva scritto il tuo maestro nel taccuino? Lui non aveva smesso di prendere appunti nel laboratorio, c’era dell’altro. Altrimenti perché sforzarsi tanto per rimandarlo indietro? Anareth voleva che tu leggessi.»Il lanciere posò lo sguardo sul compagno, lo gelò con i suoi occhi e

questi parve deglutire veleno.«La Colomba Bianca non si è mai arresa. Il movimento è sempre

stato vasto, e faceva pieno affidamento su tutti noi. C’erano quelli come te, che hanno resistito all’Impero combattendo in prima linea, e altri invece come me. Non ho mai smesso di studiare il passato. Facevo parte di una cellula che morì con la scomparsa di Anareth Tendrav. Progetto Titan era il nostro nome, avevamo il compito di recuperare l’ultima arma degli antichi. La loro tecnologia era così avanzata da andare oltre la nostra comprensione. Ma non per il mio maestro, no. Lui è sempre stato il migliore alla Torre del Sole.» Clemio prese una pausa e per un istante le pieghe sul volto parvero sparire. Poggiò una mano sull’avambraccio di Darius e ricambiò il suo sguardo. «C’è una sostanziale differenza che separa l’uomo dalle macchine: l’arbitrio. La guerra deve aver spinto l’uomo a misure estreme, l’istinto di sopravvivenza deve aver prevalso sulla coscienza partorendo ciò che tu sei diventato ora.»«Io non so più cosa sono, vecchio» l’anduriano strinse una delle

mani a pugno. Sentiva la forza affluirgli lungo l’arto, percepiva l’energia attraversargli il corpo come un ordigno che aspettava di esplodere.«Tu sei l’evoluzione, Darius. Uno strumento di combattimento

ideato per sopravvivere a ogni situazione. Ti ho visto mentre lottavi contro quegli esseri alle rovine, la tua potenza è impressionante, non ha eguali. Non so cosa stia accadendo al tuo corpo sotto quelle piastre, ma nulla potrà mai privarti del tuo cuore, comandante. Pensa alla tua famiglia, a tuo figlio. Sei il guerriero tornato indietro dal passato per dare speranza. Non dimenticarlo.»

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La concezione del tempo negli angusti spazi dello Shulzar si dilatò, e a Darius quel viaggio di ritorno parve infinito. I compagni erano ombre che sfuggivano al bagliore dei punti luce. Clemio e il fruscio del suo mantello, Teero e lo sferragliare dell’armatura, Morrein e la spalla fasciata, Alatea e il suo dolore.Loro vedevano la sofferenza che dilagava dentro di lui e ne

rispettavano il silenzio.Darius si era rinchiuso in se stesso come se l’isolamento fosse

l’unico modo per capire cosa gli stava accadendo. L’armatura viveva, comunicava. Parole che si materializzavano sui visori dell’elmo, o immagini come schegge di ricordi che balenavano nella mente ogni volta che provava a dormire. Aveva ammirato gli edifici immensi ergersi contro il ventre del cielo e strade percorse da sciami di veicoli metallici a ogni ora del giorno. Aveva imparato a riconoscere i volti degli uomini che lavoravano senza sosta nel laboratorio, e visto il soffitto tremare durante il bombardamento. Era come se l’armatura volesse trasferirgli parte della sua memoria, condividerla affinché lui potesse comprendere, saldare quel legame di carne e metallo che li univa. Stavano diventando un’unica essenza.Il lanciere di Andurian indugiava con lo sguardo sulla parete che

aveva di fronte, quando una variazione nel ronzio delle eliche lo richiamò alla realtà. Sbatté le palpebre e tese le orecchie. Gli parve di udire rumore di passi lungo il ponte e l’eco di voci assorbite dal fasciame dello Shulzar. McDrauw aveva ridotto la potenza delle turbine.Si mise in piedi e la visiera del casco gli calò sul volto, si fuse al resto

dell’armatura in un sibilo meccanico. La sua visuale si adattò subito alla scarsa luminosità all’interno del sottomarino. Lo schermo divenne verde, e Darius individuò attraverso le pareti i contorni di una figura muoversi nel corridoio, una macchia di colore arancione che si avvicinava alla stiva.

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Cambiò la visuale sbattendo le palpebre, e la macchia di colore si definì in strati di muscoli e scaglie scure. Teero era immobile sulla soglia e lo fissava con occhi dorati.«Stiamo risalendo in superficie» annunciò lo skaar, e la sua voce

rimbombò nella stiva.Darius annuì, si affrettò a seguirlo. Tra loro non ci furono altre

parole lungo il breve tragitto che dalla coda dello scafo portava fino al boccaporto dello Shulzar. L’anduriano tenne gli occhi inchiodati sulla nuca del gladiatore, le spalle larghe formavano con il collo un triangolo rovesciato.Ripensò al giorno del loro incontro nel campo d’allenamento di

Morrein e a quanta strada avessero fatto insieme da allora. Anime perdute che il destino aveva fatto incontrare, come linee tracciate dal sangue sulla strada della vita. Guardò oltre la fisicità massiccia di Teero, e riconobbe le sagome dei compagni davanti al portellone, in attesa di sbarcare.Morrein lo fissò con ardenti occhi rossi, la spalla sinistra presentava

una vistosa fasciatura. Un sorriso parve abbozzarsi sul volto color grafite, un sorriso diverso da quelli a cui il principe l’aveva abituato. Alatea era avvinghiata al braccio sano del daelish. L’esperienza drammatica che entrambi avevano vissuto tra le rovine della Città Morta sembrava averli in qualche modo avvicinati. La ragazza sollevò il mento e gli occhi lattiginosi perforarono la visiera dell’elmo, incontrarono i suoi. Darius ebbe l’impressione che in quell’istante lei potesse realmente vederlo. Si sentì scavare dentro.«Via di qui, fate largo al capitano!» Kod McDrauw discese le

scalinate, i passi scanditi dal rumore di stivali e una bottiglia di liquore stretta nella mano. Clemio era un’ombra alle sue spalle.Il pilota dello Shulzar porse la bottiglia all’accademico, che lo

guardò con disgusto, poi afferrò con entrambe le mani la leva del boccaporto e tirò verso il basso, facendola ruotare in senso orario. I tatuaggi sulla pelle raggrinzita parvero animarsi, figure demoniache

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che assunsero nuove espressioni, fauci spalancate e occhi vibranti di follia.L’accesso si spalancò e uno squarcio di luce solare fece irruzione

nello scafo, costrinse Clemio a schermarsi gli occhi con una mano.Kod fu il primo a mettere piede all’esterno, seguito da O’Rednar e

Teero. I rumori del porto di Lydra, attraverso il fasciame dello Shulzar, giunsero alle orecchie di Darius come suoni distorti, ovattati. Le voci dei marinari di passaggio sul pontile si confusero con quelle di altri uomini, con lo sguainare delle armi.L’anduriano rivolse un rapido segno a Morrein, lo invitò a fermarsi,

e il daelish fece un passo indietro, tenne la ragazza con sé.Darius serrò le palpebre in fessure e l’armatura recepì i suoi impulsi

neurali, un rapido scambio di informazioni e la visuale divenne verde. Si avvicinò alla parete, vide l’alone luminoso di tre sagome immobili sul pontile. Poi una di queste fece un passo di lato, si avvicinò a un altro gruppo. Dovevano essere all’incirca dieci uomini in posizione d’accerchiamento. Le voci erano confuse, allora il lanciere aumentò la concentrazione.«… che vuol dire tutto ciò? McDrauw?» La voce di Clemio.«Bestione, allontana subito la mano dalla spada o ti facciamo saltare

la testa.» Qualcuno parlò con voce autoritaria, e una delle due sagome abbassò lentamente il braccio sollevato dietro le spalle. Teero.«Non vogliamo farvi del male, vecchio.» Lo sconosciuto riprese a

parlare, accento del sud pensò Darius, regioni di Emperia. Forse un uomo della Legione dell’Aquila. «Kod ci aveva informato della vostra spedizione. Adesso dimmi, la nostra attesa è stata vana?»«Ripeto, non capisco cosa voi possiate volere da noi. Che hai

raccontato a questa gente, McDrauw?» rispose Clemio. Darius percepì una punta d’agitazione nella voce.«Basta parlare. Fatti da parte adesso, sai cosa cerchiamo. Dacci

l’arma o saremo costretti a scendere in quella bagnarola per prenderla.»

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«Voi non capite…» O’Rednar parve supplicare.«Dagli retta, Cornelio. Le cose non sono proprio come te le avevo

prospettate» intervenne McDrauw, poi ruttò. Troppo liquore in corpo per essere un vero uomo.«Taci, ubriacone. Quanto a te, vecchio. Ti assicuro che capiamo

benissimo. E adesso non fartelo ripetere, consegnaci l’a-r-m-a!»Darius si allontanò dalla parete dello Shulzar, calò la visiera sulla

faccia e si mosse verso il boccaporto. Aveva sentito abbastanza.Morrein emerse dalle ombre, scosse il capo e la cresta di capelli

oscillò.«Aspetta, anduriano. Non andare.»Darius non gli diede ascolto. Uscì all’esterno, si inerpicò lungo la

scala a pioli fissata a una colonna del pontile. Il sole era una massa pallida nel cielo, e le lame di luce parvero rimbalzare contro le piastre della sua armatura, quando si trovò tra Clemio e Teero.Gli uomini che aveva di fronte impallidirono, arretrarono di un

passo. Non cani di Caio Settimo, niente armature istoriate o mantelli purpurei della Legione dell’Aquila, ma feccia scaricata da una delle peggiori fogne di Lydra.«E tu chi diamine sei?» L’anduriano riconobbe la voce, accento del

sud. Un braccio mancante soppiantato da una protesi meccanica, barba e capelli rossi come il fuoco.Cornelio.Darius parlò, e la sua voce non fu altro che un ronzio metallico.«Siete realmente certi di volere ciò che cercate?»Cornelio divenne paonazzo in volto, sollevò il braccio sano in cui

stringeva una balestra e ringhiò come un cane rabbioso: «Dacci l’arma, barattolo!»Sotto l’elmo nero come la notte, Darius stava contraendo la

mascella. Aprì e richiuse i pugni, quasi a sciogliere i tendini, poi annuì debolmente con il capo.«Hai dato la tua risposta.»

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XIXCaio Settimo poggiò la testa contro lo schienale della sedia e chiuse

gli occhi, respingendo un improvviso capogiro. Il sangue defluiva in una vasca di vetro ai suoi piedi attraverso i drenaggi fissati al torace. Un lento fiume emorragico, intorbidito dalle scorie di celion e reso nero proprio come la sua anima.I medici chiamavano il trattamento con il nome di emodialisi. Per lui

era solo un atto di purificazione, al quale si sottoponeva ormai con sempre maggior frequenza per evitare che gli organi vitali si infettassero. Il celion metabolizzato dall’organismo rilasciava dei residui tossici che i suoi reni non riuscivano a smaltire.Veleno messo in circolazione dal suo stesso sangue.Staccò uno per volta i tubi e richiuse le valvole che gli spuntavano

dal petto. Fece tutto con misurata lentezza, senza distogliere lo sguardo dalla propria immagine riflessa nello specchio affisso al muro. Era il prezzo da pagare per l’immortalità.La pelle era livida, martoriata da cicatrici, segni degli esperimenti

condotti sul suo corpo, e percorsa da ragnatele di capillari scuri, che gli risalivano il collo fino alle tempie. L’impianto cardiaco era incassato nel torace, un sistema complesso di microcongegni e pompe che mandava impulsi al cuore. Una batteria, ricoperta da una placca di titanio che gli avvolgeva per intero la spalla destra fino al petto, e delimitata da una cornice di carne annerita, rigonfia.Caio la sfiorò appena con le dita metalliche e un sorriso gli increspò

le labbra violacee.Era la creazione più importante della sua vita, uno schiaffo in pieno

volto ai dogmi della scienza che gli accademici di Andurian avevano tentato di preservare con tutte le forze. Non solo era riuscito a provare il loro errore, ma li aveva puniti così duramente che, dopo il passaggio dell’Aquila, della Torre del Sole non era rimasto altro che tumuli di morte.

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Si diresse verso il trespolo che reggeva l’armatura e iniziò a rivestirsi. Poco alla volta il corpo svanì sotto i pezzi d’acciaio, divenendo un’unica struttura compatta, una statua dalle spalle drappeggiate da un mantello color onice. Strinse il nuovo elmo tra le mani per alcuni istanti, quasi a soppesarne il peso, come una lama appena forgiata. L’aveva fatto costruire in occasione dell’inaugurazione della Centrale di Revisione, la visiera era stata intagliata dalle abili mani dei suoi artigiani fino a riprodurre il volto di un uccello rapace. Il becco era un rostro che sporgeva minaccioso in avanti, pronto a dilaniare la carne dei suoi nemici. La Colomba Bianca.Nelle ultime ore il generale Traio gli aveva dato notizia di altre due

bombe esplose. La prima in un hangar della stazione di lancio, che aveva causato la distruzione di un intercettore, e la seconda in una delle caserme, provocando la morte di dieci legionari.A due giorni dalle celebrazioni, i ribelli erano diventati qualcosa di

più che fastidiose punture d’insetto. Aveva interrogato, pestato e torturato con le sue stesse mani le spie catturate, senza riuscire a ottenere da loro alcuna informazione utile.Come un sassolino gettato in uno stagno, gli attentati della Colomba

Bianca potevano risvegliare nei popoli soggiogati la fragile convinzione che fosse possibile rialzare il capo e ribellarsi. Un uomo sconfitto che aveva ritrovato la speranza poteva essere più pericoloso di un’intera legione schierata per la guerra. Un uomo sconfitto poteva agire senza il timore di perdere la vita, perché ormai non aveva più nulla da perdere.Infilò l’elmo sul capo in un gesto di stizza e si voltò. Granelli di

polvere danzavano in un fascio di luce che perforava le vetrate ad arco della stanza. Si mosse verso una delle finestre e afferrò le falde della tenda blu scuro, spalancandola. Ridusse d’istinto le palpebre in feritoie per proteggersi dall’assalto del sole.Emperia sembrava fatta d’oro. Gli edifici erano costruzioni

spettacolari che si stagliavano contro l’azzurro limpido del cielo,

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perennemente illuminate. Se il mondo oltre le mura stava scivolando verso un lento oblio, la sua città pulsava di nuova energia.La Centrale di Revisione.La struttura emergeva dal labirinto di strade e palazzi simile a una

fortezza d’avorio. Le cupole degli stabilimenti di trattamento del celion erano enormi serre che si estendevano per interi quartieri e su cui si infrangevano i raggi solari. Dalla sua visuale poteva chiaramente distinguere l’andirivieni dei cargo, come colonne di formiche sul lastricato.I veicoli trasportavano lavoratori, duemila anime, uomini e donne,

tutti di giovane età. Braccia strappate alle campagne, alla desolazione delle città polverizzate, per lavorare nel più grande nucleo di raffinamento del celion che il mondo avesse mai avuto.Caio Settimo si staccò dai vetri, puntò dritto verso l’uscita della

stanza e la porta scorrevole sparì davanti al suo passo. Energia significava potere, e lui stava per imboccare una strada che l’avrebbe condotto a un potere infinito.La muffa divorava le pareti del seminterrato. Una peluria

verdognola che si propagava sull’intonaco penetrando le mura come macchie stagnanti. L’aria era pervasa da un odore stantio che assaliva le narici. Darius fece guizzare lo sguardo. Ogni cosa nella stanza sapeva di vecchio, a partire dal tavolo intorno a cui sedevano in quel preciso istante. Piedi di metallo arrugginito, spigoli ridotti a monconi frastagliati, legno ricoperto da una patina di polvere e divorato dai tarli.«Centrale di Revisione?» Clemio posò la tazza di infuso fumante sul

tavolo e si asciugò le labbra con una mano. «È questo ciò che vuole, quindi? Un posto in cui trattare il maledetto celion? Migliaia di morti per una fabbrica?»«Non una semplice fabbrica, anduriano.» Darius spostò gli occhi dal

volto dell’amico a quello dell’uomo dai capelli rossi, Cornelio. Accento del sud, ufficiale disertore della Legione dell’Aquila, ora

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capo di una cellula della resistenza. Le Colombe Bianche. «Non c’è più celion in giro. Caio Settimo controlla ogni miniera, ogni singola pietra di minerale in tutte le terre occidentali. Nessun veicolo si alza in volo, o solca i mari senza la sua fornitura. Tra poco saremo costretti ad accendere il fuoco strofinando le pietre per fare luce. Se non era per noi, non sareste nemmeno riusciti a raggiungere la vostra Città Morta.»Cornelio si grattò la testa con le dita di ferro. Aveva una protesi

meccanica al posto di un braccio, viti e bulloni invece che articolazioni, metallo fissato alla spalla mutilata. Dopo il loro incontro al porto, i ribelli avevano abbassato le armi, invitandoli a seguirli nel loro covo, uno scantinato sotto le assi del pavimento del Drago dei Flutti.Durante il tragitto dal pontile al loro covo, il renitente di Emperia

gli aveva svelato di conoscere i loro movimenti fin dall’arrivo a Lydra. Lui e Clemio erano stati seguiti, l’argomento della loro conversazione con Kod McDrauw nella locanda era stato ben presto svelato. Cornelio aveva fatto pressioni sul vecchio lupo di mare affinché li aiutasse a raggiungere l’isola oltre il mare. La Colomba Bianca aveva rifornito di carburante lo Shulzar e atteso al porto con la speranza che la spedizione andasse a buon fine. Se esisteva un’arma tale da infliggere danni all’Impero, allora dovevano impadronirsene. A ogni costo. Il sottomarino però aveva riportato indietro dal Grande Mare qualcosa di più di un’arma.Un guerriero nero.Darius deglutì. Sotto il rivestimento di metallo il suo corpo era in

continuo cambiamento. A volte avvertiva delle fitte così intense da togliergli il respiro, come se qualcuno gli stesse rivoltando delle lame nella carne. Schiuse le labbra, la gola era così secca che parlare gli costava sempre più fatica. Il tono della voce era mutato, diventando qualcosa di soffocato, inumano.«Qual è il vostro piano?» sussurrò rivolgendosi ai ribelli che gli

sedevano di fronte. Anche i volti di quegli uomini sapevano di

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vecchio, consunto. Barbe incolte, cicatrici che segnavano gli zigomi e occhi ridotti a grovigli di capillari insanguinati.Le teste scattarono all’unisono verso di lui e Darius lottò per non

essere schiacciato dal peso dei loro sguardi. Ne percepiva le emozioni, un misto di curiosità e timore, e non li biasimava. Sapeva di non essere più lo stesso, le movenze, gli occhi, e si sforzò di apparire meno gelido, di afferrare la propria anima, smarrita in un labirinto di metallo, e riportarla alla luce.«Come avete intenzione di colpire?» ribadì, cercando di sciogliere

ciò che restava delle sue corde vocali. La gorgiera gli attanagliava la gola in una morsa indissolubile.Cornelio lo fissò per un istante, poi guardò Clemio e rispose:

«L’Impero non può essere contrastato militarmente, almeno in campo aperto. Loro hanno armamenti, noi no. Loro hanno soldati, noi no. La nostra unica carta era quella del terrore. Ordigni in obiettivi sensibili, depositi, caserme, stazioni di lancio, causare danni senza esporsi, e nel frattempo i nostri agenti continuavamo a strisciare nelle fognature di Emperia. Si possono scoprire molte cose in questo modo, non tutti i sudditi amano quel pazzo maledetto. Io ne sono la prova, e come me ce ne sono molti altri.»Il capo della Colomba Bianca afferrò un boccale di birra posato sul

tavolo e ne trasse un sorso. «Tra due giorni ci sarà l’inaugurazione della Centrale di Revisione. L’Imperatore ha fatto arrivare in città circa duemila schiavi presi dai campi di concentramento. Ecco… fermatevi per un attimo a pensare a cosa potrebbe accadere se qualcosa, o meglio qualcuno, scatenasse una rivolta tra i lavoratori. Il caos è un fantastico diversivo, una maschera con cui camuffare la tua vera faccia.»«Vuoi usare quella gente come scudo?» domandò Clemio con voce

quasi nauseata.«No, vecchio.» Cornelio sorrise, poi poggiò tutto il peso del corpo

contro lo schienale. «Non è mia intenzione mandare innocenti al macello, voglio solo dare loro una speranza. È per questo che siamo

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tutti qui ora, non è vero? Voglio dimostrare al mondo intero che Caio Settimo è vulnerabile, proprio come tutti noi.»«Non hai ancora risposto alla mia domanda.» Darius incrociò le

braccia sul tavolo. Aveva la sensazione che quegli uomini non fossero altro che ciarlatani, illusi che volevano provare a salvare il mondo, sprecando il loro tempo. «In che modo?»«Faremo saltare la Centrale di Revisione.»

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XX«I prigionieri sono tenuti in questa struttura.» Darius tenne gli

occhi inchiodati sulla mappa che Cornelio aveva srotolato sul tavolo. Boccali di birra vuoti erano diventati ferma posti a ciascun angolo del foglio di carta ingiallita. Linee precise d’inchiostro assunsero la forma di strade, palazzi, interi quartieri.Emperia, il cuore dell’Impero dell’Aquila.Il ribelle tracciò un cerchio invisibile con l’unghia annerita e sollevò

il capo, incontrando il suo sguardo. «Il campo si trova alle spalle della Centrale ed è circoscritto da mura alte venti piedi. È possibile accedervi solo dall’entrata principale, situata in questo punto.» Il foglio frusciò, quando Cornelio mosse il dito verso l’estremità opposta della cartina. «Le nostre fonti ci danno conferma che Caio Settimo intende tenere le porte spalancate per permettere ai suoi sudditi di assistere al primo ciclo di lavorazione.»«La demagogia è la linfa dei tiranni» sentenziò Clemio, lisciandosi il

mento barbuto in un gesto ritmico delle dita.Il capo dei ribelli annuì, poi tornò a guardare la mappa.«Già. All’inizio avevamo pensato di passare dall’ingresso principale,

di confonderci con la folla per arrivare a contatto con i deportati, ma poi il nostro Mevan ha fatto una scoperta.»Cornelio voltò il capo alla sua sinistra e un uomo emerse dalla

penombra.Darius si rese conto d’aver notato la sua presenza nella stanza

soltanto adesso. Era basso, Mevan, forse l’individuo più basso che lui avesse mai visto. Una corona di capelli color paglia gli circondava il cranio calvo. Occhi sporgenti rotearono nelle orbite, quasi a disagio, quando si avvicinò al tavolo e prese la parola.«Le fogne.» Esordì con voce acuta, simile a quella di un ragazzino

imberbe. «Caio Settimo ha tirato su la Centrale nella parte orientale della città. Beh… all’inizio quella zona era usata per lo smaltimento

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dei rifiuti. La rete fognaria scaricava nei torrenti che attraversano una radura proprio alle spalle della Catena del Carssom. L’Imperatore ha avuto così tanta fretta nell’ultimare i lavori, che non si è preoccupato di far richiudere le condutture. Io ci sono stato, so come orientarmi.»Cornelio sorrise come un padre orgoglioso.«Prima della guerra, il nostro Mevan è stato il contrabbandiere più

abile dell’Impero» disse, per poi diventare serio in volto. Darius colse un debole luccichio attraversare gli occhi del capo dei ribelli quando puntellò un dito sul tavolo. «Raggiungeremo Emperia con il veicolo daelish. Ho dimenticato di dirvi che in vostra assenza ci siamo preoccupati di rimetterlo in sesto. Che spreco abbandonare tra le sterpaglie una navetta come quella, ora appartiene alla resistenza. Abbiamo recuperato celion da ogni macchina o deposito della costa, dovrebbe bastare per il viaggio.»Cornelio rivolse un sorriso astuto a Clemio e congedò il suo uomo

con un cenno del capo.«Ci divideremo in due gruppi. Il primo striscerà nelle fogne e avrà il

compito di ricongiungersi agli infiltrati nel campo di concentramento. I prigionieri sanno che colpiremo, attendono la Colomba Bianca per sollevarsi. Piazzeremo delle cariche sulle mura di cinta in modo da fare breccia in più punti. Voglio che gli schiavi si riversino per le strade di Emperia come un fiume in piena.»Darius serrò improvvisamente le palpebre, qualcosa gli premeva

alla base della nuca, come un ago infilato nella spina dorsale. I ribelli avevano formato un cerchio compatto intorno al tavolo e il tempo nello scantinato parve cristallizzarsi. Per un breve istante la vista gli si annebbiò e la voce di Cornelio si confuse con il suono di boccali che cozzavano tra loro e il frastuono degli avventori al livello superiore del Drago dei Flutti.Strinse i denti quando una scarica violenta d’energia gli attraversò

il cranio. La visiera dell’elmo gli calò sul volto, senza che lui avesse fatto nulla per richiamarla.

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Clemio si girò a guardarlo con un’espressione interrogativa sul volto.Darius digrignò i denti, cercò di reprimere il dolore quando arrivò

anche una seconda scarica, questa volta di maggiore intensità. Nell’angolo sinistro del visore scorsero delle scritte a tale velocità che non riuscì a leggerle, poi il testo si bloccò.Io sono il sole che protegge i deboli dall’oscurità della notte. Io sono la

lancia di Andurian.Temette che il cuore fosse sul punto di esplodergli, si sforzò di

controllare il respiro quando riconobbe i versi del suo giuramento sullo schermo. Era come se l’armatura gli stesse frugando nella memoria alla ricerca di qualcosa. Abbassò il capo, aprì i palmi delle mani. Con quelle braccia aveva stretto a sé la sua famiglia per un’ultima volta. Un’ultima volta, prima che l’Impero la portasse via.Protegge… Deboli.Le parole si mossero ancora in una danza pulsante.Sistema operativo Defcon-x attivato. Completamento conversione

ospite 100%«…le esplosioni saranno il segnale per il secondo gruppo. A loro

toccherà la parte più difficile. Dovranno approfittare del caos per calarsi sul tetto della Centrale, trovare il nucleo della struttura e piazzare l’esplosivo. Una volta avviato il temporizzatore, la squadra avrà solo cinque minuti per portarsi fuori. Ho confezionato l’ordigno con le mie stesse mani, statene certi: vedranno il fumo fino a Xendria. Ognuno di noi ha perso qualcosa in questa guerra. Caio Settimo ha ridotto gli esseri umani a delle caricature, semplici imitazioni. Non possiamo pensare, non possiamo vivere, siamo condannati ad assistere alla distruzione del nostro futuro…»«Non ci sarà nessun secondo gruppo.» Darius parlò con voce simile

a un sibilo metallico che rimbalzò contro le pareti marce del seminterrato e fece rabbrividire i presenti all’incontro. Il silenzio piombò nella sala. L’anduriano tirò la sedia indietro e si rimise in piedi. «La bomba» affermò, girando il capo verso Cornelio.

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«La bomba?» ripeté il ribelle perplesso.«Preoccupatevi di tirare fuori la gente dalla Centrale. Io piazzerò

l’ordigno.»«Che cosa dici? Sei fuori di testa se credi di riuscire a entrare lì

dentro da solo. Non puoi chiedermi nulla del genere, manderai a monte i piani…»«Non sono qui per chiedere.»Alatea si svegliò di soprassalto. Si mise a sedere al bordo del letto,

poggiando i piedi nudi sul pavimento gelido. Un rivolo di sudore le corse lungo schiena, sfiorandole le vertebre. Le pulsavano le tempie e il respiro era affannato. Massaggiò la fronte e rimase in ascolto.Morrein stava dormendo, disteso sulla brandina posta a pochi passi

dal suo letto. Poteva sentirne il battito del cuore, lento e cadenzato. Dividevano la piccola stanza che i ribelli avevano messo a loro disposizione al Drago dei Flutti. Da quando avevano ripreso il mare, il principe non si era più allontanato da lei. Era diventato una presenza silenziosa al suo fianco e questo la faceva stare bene in un modo che non riusciva ancora a spiegarsi.Morrein le dava sicurezza, proprio ora che ne aveva più bisogno,

ora che tutto quello in cui aveva creduto sembrava essersi sgretolato.Calzò i sandali e uscì dalla stanza, muovendosi con cautela per non

fare rumore. Un odore di vecchio e di legno bagnato la assalì quando accostò la porta alle spalle. Attraversò il corridoio con fare incerto, attanagliata nella morsa dei dubbi. Le tremavano le gambe e la gola era diventata arida. La Città Morta, i goliati, erano state esperienze così forti da piegare il suo equilibrio emotivo, spalancando porte nella mente che non riusciva più a richiudere. Le sue capacità si erano amplificate in modo troppo improvviso, dilagante, da lasciarla senza energia. Erano arrivati i sogni, un vortice incontrollabile di immagini, e con essi tutta la sofferenza di cui erano prigionieri.Deglutì. Non poteva portare ancora dentro quel peso. Doveva fare

qualcosa, adesso, prima che fosse troppo tardi.

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«Non riesci a dormire?» la voce di Clemio giunse da un punto davanti a lei.Alatea udì un rumore di legno che scricchiolava, di una sedia

strusciata sul pavimento, poi passi. Le dita dell’anduriano le sfiorarono una guancia.«Sei gelida, figlia mia. Che ti succede?»«Maestro, devo dirglielo. Lui… lui deve sapere.»«Hai fatto ancora quel sogno?» O’Rednar abbassò il tono della voce,

le prese una mano e la guidò fino a tavolo. Versò del liquido in un bicchiere. «Tieni, prendi un po’ d’acqua.»La ragazza bevve con avidità, fece per riprendere a parlare ma

Clemio l’anticipò.«Hai vissuto dei momenti difficili, cose che una giovane della tua età

non dovrebbe nemmeno immaginare. Sei scossa, non lasciare che il tuo turbamento ti influenzi…»«No» Alatea lo interruppe, infastidita. Fece un passo indietro. «Sono

certa di quello che ho visto, le immagini sono così vivide, perché non vuoi che gli parli? Sento che qualcosa dentro di lui sta morendo, e non posso permetterlo. Darius merita di sapere, maestro. È la sua famiglia!»«Alatea.» Clemio parve irrigidirsi, pronunciò il suo nome a denti

stretti. «Il tuo potere va oltre la nostra comprensione. Non posso spiegare con certezza quello che sta accadendo nella tua testa.» L’accademico sospirò, i suoi modi si addolcirono. «Il tuo è un dono, bambina mia. Sei una creatura speciale… ma fermati per un attimo a riflettere, solo per un istante. Cosa accadrebbe se quello che hai visto fosse frutto dell’immaginazione? Darius è un soldato. La sua missione è troppo importante per essere compromessa. Abbiamo fatto tanta strada, non mandare tutto all’aria.»La ragazza scosse il capo, c’era qualcosa nella voce dell’accademico

che non la convinceva. Lui sapeva.Si allontanò dal vecchio con un nodo alla gola. Clemio O’Rednar,

l’uomo che per lei era stato un maestro, un padre, ora le sembrava

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un estraneo, una persona che non aveva mai conosciuto. La Città Morta non aveva cambiato soltanto lei.Darius si ergeva come una statua di metallo sull’altura, lo sguardo

rivolto verso la linea immaginaria che divideva il mare dal cielo. Un sole esangue lottava per mostrare il proprio volto attraverso il sudario di nuvole che avvolgeva Lydra. Strinse le palpebre quando la brezza gli sfiorò il viso e inspirò piano, assaporando l’odore della salsedine e godendosi quel momento con la consapevolezza che forse sarebbe stato l’ultimo.Alle sue spalle, gli uomini che si preparavano alla partenza erano

sagome scure contro il grigiore metallico della navetta daelish. Le loro voci echeggiavano nella radura, si confondevano con lo stormire delle foglie e lo sciabordare delle onde sulla riva. L’anduriano riaprì gli occhi, quando comprese di non essere più solo.Rumore di passi leggeri lungo il crinale, di foglie calpestate.Alatea era una figura eterea avvolta in un mantello dello stesso

colore della notte. La massa di lunghi capelli neri ondeggiò come un vessillo scosso dal vento, le mani tremolanti erano protese in avanti, i palmi rivolti verso l’alto. La ragazza si fermò a pochi passi da lui, e il chiarore dell’alba le sfiorò il volto da bambina. I segni della sua prigionia nella Città Morta erano spariti, lasciando solo l’ombra di un’ecchimosi su uno zigomo.«Darius» esordì la giovane e la sua voce parve azzittire il vento.«Alatea.»«Questa volta non verrò con voi.»Lui non rispose, voltò nuovamente il capo verso il mare, contrasse

le palpebre come se i suoi occhi potessero penetrare il velo di foschia che si dilatava sull’acqua.Alatea si schiarì la voce. «Cornelio vuole allestire un campo. Quando

tutto sarà finito, arriveranno profughi da ogni parte delle terre occidentali e io voglio fare la mia parte. Potrò rendermi utile con i feriti, prendermi cura di loro.»

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L’anduriano riportò lo sguardo sulla ragazza. Nella sua mente balenarono le immagini del loro incontro, schegge di ricordi conservate nella memoria. Alatea, la schiava che nei sotterranei di Morrein si prodigava per curare le sue ferite, l’orfana prigioniera del delirio dei daelish che aveva rischiato la vita nel viaggio per ritrovare la speranza. Sembrava essere trascorsa un’eternità dalla fuga da Xendria, un viaggio da cui la giovane era uscita rafforzata. Darius ne percepiva l’energia, come un’aura invisibile che le aleggiava sulle spalle, e non poté fare a meno di provare ammirazione.Alatea non era più una ragazzina, era diventata una donna.«Sono certo che il tuo sarà un contributo molto importante» la

incoraggiò con voce simile al raspare metallico, «ci sai fare con i punti di sutura e le erbe mediche.»La giovane abbassò il capo, e un improvviso rossore le incendiò il

volto. Darius la vide per un istante sorridere.«È merito del maestro. Clemio mi ha insegnato tutto ciò che

conosco sulla medicina.»L’anduriano sollevò il capo sopra le spalle della giovane, colse una

seconda figura alla base del pendio che risaliva verso il dirupo. Corporatura slanciata, pelle scura e una cresta di capelli argentei sul cranio. Niente più fasciatura intorno alla spalla ferita. Il daelish li stava osservando. Non aveva potuto fare a meno di notare che dal loro ritorno dalla Città Morta il principe di Xendria seguiva la ragazza come un’ombra. Senso di protezione, o qualcosa di più?«Sei attesa» le sussurrò per congedarla, ma Alatea scosse il capo e

arricciò le labbra come volesse sputare il nodo che le stringeva la gola.«Morrein mi ha parlato della tua scelta. Non devi farlo, Darius. Ti

prego, rinuncia… io comprendo cosa ti sta succedendo, lo sento. È l’armatura che indossi, ti sta divorando lentamente.» Alatea ridusse la distanza tra loro, allungò un braccio e gli sfiorò l’avambraccio metallico. Una lacrima le rigò il viso. «Il maestro si sbagliava, il

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viaggio verso la Città Morta è stato un errore. Ho un presentimento. Non devi rinunciare alla tua vita, questo non rimetterà le cose a posto.»«E invece sì. Non preoccuparti per me.»Un debole sorriso increspò il volto del lanciere, inaspettato come un

temporale in estate. Darius tese un braccio verso il capo della ragazza, e la coltre fumosa che annebbiava la sua umanità parve diradarsi. Aprì il pugno e le accarezzò la fronte con la punta delle dita, un gesto lento che riportò a galla nella sua testa emozioni dimenticate, umane.Si volse, e i suoi occhi tornarono a fissare l’orizzonte e l’isola che si

nascondeva dietro di esso. Andurian.«Questo luogo mi aiuta a pensare alla mia terra. Vedo il fumo dei

camini sbucare da dietro le colline, sento l’odore dell’erba umida solleticarmi le narici. Fino a ieri non riuscivo nemmeno a ricordare il volto di mia moglie, era sparito, come il resto della mia vita. Ora invece la vedo in piedi sulla soglia di casa che attende il mio ritorno. Mi sorride stringendo nostro figlio tra le braccia, e so che questa è l’unica cosa di cui ho bisogno.» Darius strinse i pugni, ridusse le palpebre in fessure. «Il giorno che mi hanno portato via da Andurian, ho perso tutto. Non dovevano farlo, non ne avevano il diritto. È giunta l’ora di fargliela pagare.»

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XXILa nave daelish si lasciò alle spalle Lydra e le sue coste attanagliate

dalla bruma. Volò per tutta la notte diretta a sud, confondendosi tra nuvole color carbone e sorvolando distese immobili di alberi, laghi e strade battute dal tempo. Spiegò le ali contro il sorgere del sole, una fenice di metallo infiammata da fendenti di luce arancione. Scivolò tra le vette innevate di maestose cordigliere trasportando i suoi passeggeri fino al cuore dell’Impero di Caio Settimo, verso la resa dei conti.Darius sedeva sul pavimento in un angolo della stiva, le spalle

poggiate contro il fasciame e lo sguardo smarrito nei suoi pensieri, quando Clemio irruppe all’interno del deposito come una folgore nera. Rivolse un cenno del capo a Cornelio, che sedeva in mezzo ai suoi uomini, e questi si rimise in piedi, passandosi la mano tra i capelli.«Ci siamo, gente» esordì il ribelle nel guardarsi attorno.Darius assestò una manata di ferro sulla spalla di Teero, e lo skaar,

che giaceva al suo fianco, smise di colpo di russare e sollevò il capo, guardandosi attorno disorientato. Fatta eccezione per Alatea, nessuno dei fuggitivi di Xendria si era tirato indietro. Clemio, Teero e Morrein erano saliti sulla nave decisi ad andare fino in fondo.«Siamo sopra la Catena del Carssom» continuò il capo della

resistenza. I militanti della Colomba Bianca erano in dieci, volti induriti dalla vita e occhi vibranti per la determinazione. «Il principe dei succhia sangue sta cercando un posto per farci scendere, da lì procederemo a piedi fino all’ingresso della fognatura. Ci caleremo tutti, tranne i due anduriani. Darius, sicuro di non voler cambiare idea?»Il lanciere emerse dalla penombra, non proferì alcuna parola ma si

limitò a tenere gli occhi inchiodati in quelli di Cornelio.«Lo immaginavo. Mevan?»

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Al suono del suo nome, il contrabbandiere ruppe il cerchio che si era formato intorno all’anduriano e gli porse una tracolla di pelle. Darius la strinse tra le mani, tastò i contorni di un oggetto dalla forma discoidale che era sigillato all’interno da cerniere metalliche. Alzò lo sguardo su Mevan, e questi annuì prima di ritornare al suo posto.«Una volta che avrai trovato il nucleo, ti basterà piazzarla e avviare

il temporizzatore. Avrai solo cinque minuti per portare il tuo culo di latta fuori dalla Centrale, non dimenticarlo.»Uno scossone fece vibrare la nave e i passeggeri si sorressero gli uni

agli altri. Il ronzio delle turbine mutò in un ruggito che sovrastò ogni altro suono all’interno del veicolo e si insinuò nelle menti dell’equipaggio.«Fa’ preparare i tuoi uomini allo sbarco, Cornelio.» Clemio tese una

mano verso il ribelle e questi la strinse con tale vigore che le nocche sbiancarono. Senza attendere alcun ordine, i miliziani della Colomba Bianca fluirono fuori dalla stiva, rapidi come gocce d’acqua sui vetri di un intercettore.«Buona fortuna» disse il disertore dell’Impero e il vecchio

anduriano rispose con un movimento quasi impercettibile del capo.«Ne avremo tutti bisogno.»Darius raggiunse il ponte e infilò le braccia nelle corregge della

tracolla, sistemandola sul petto. I ribelli, uno per volta, si stavano calando al suolo con una spessa fune fissata nella scocca interna del portellone. Uno squarcio luminoso dilagò con prepotenza nell’angusto corridoio della nave e aghi di luce rimbalzarono contro il fasciame, costringendo l’anduriano a schermarsi gli occhi con una mano.Cornelio attese che anche l’ultimo dei suoi uomini fosse sceso, poi

afferrò la fune con entrambe le mani e guardò Darius per un istante prima di calarsi a sua volta. Sotto il ventre della nave, gli uomini erano sagome che si appiattivano contro le rocce. La forza delle

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turbine piegava gli alberi e spazzava il terreno mentre il veicolo era sospeso a mezz’aria, come sorretto da una mano invisibile.L’anduriano volse il capo quando udì rumore di passi provenire

dall’ala destra del ponte. Le sagome di Morrein e Teero calpestarono il rombo di luce tracciato dall’alba all’interno del pontile di sbarco.Il daelish si fermò a un passo da lui, afferrò la fune con entrambe le

mani e occhi color cremisi si ancorarono ai suoi in una morsa d’acciaio. Uno sguardo intenso che valeva più di ogni parola. Erano stati nemici in un tempo non molto lontano, ma la vita li aveva uniti, soldati schierati dal destino contro un unico nemico, l’Impero dell’Aquila.«Ora è diventata anche la tua guerra, principe. Fatti onore là fuori.»Morrein gli rivolse un secco cenno del capo, poi scivolò nel vuoto

aggrappato alla corda.«Questa storia non mi piace, Darius» grugnì Teero, avvicinandosi al

portale. «Io devo andare dove vai tu!»L’anduriano scosse la testa e tese un braccio verso il gladiatore.

«Non questa volta, amico. Quella gente avrà bisogno di te quando si scatenerà la tempesta. In mischia sei il miglior condottiero che io abbia mai conosciuto.»Lo skaar tirò su con le narici e gonfiò il petto. Serrò la mano

sull’avambraccio di Darius in uno schianto secco. «Ci rivedremo.»L’anduriano annuì.«In un altro tempo, in un’altra vita.»Darius ritirò la corda e chiuse il portellone. L’arco di luce solare

svanì, tranciato dal battente che calò come una ghigliottina, e l’oscurità piombò sullo stretto ponte della nave.Il lanciere si diresse verso la cabina di pilotaggio. Sfiorò con le dita

la sacca che portava in grembo, risalì lungo le cerniere fino a tastare il corpo rigido dell’ordigno. Il ronzio delle turbine penetrava le pareti del veicolo, si insinuava nelle sue orecchie come sottofondo ai suoi pensieri. Un ordigno per colpire l’Impero diritto al cuore della sua potenza, la Centrale di Revisione. Caio Settimo stava rendendo

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schiavo il mondo, aveva spinto i popoli verso un oblio primordiale in cui la sopravvivenza era l’unico scopo, e tutto con il controllo assoluto delle risorse energetiche.Distruggere la Centrale non avrebbe risolto il problema, pensò.

L’Impero era il male, una pianta che infettava il terreno dal profondo e lui doveva estirparne la radice.Una vibrazione attraversò il ponte, il fasciame che rivestiva il

veicolo parve sussultare quando questo riprese a salire. Le luci della console di comando sfavillarono davanti ai suo occhi, come la danza di decine di lucciole intrappolate all’interno di una scatola.«Ora siamo solo io e te, comandante.» Clemio sedeva alla console, le

dita erano strette intorno alla cloche come artigli di un rapace. Volse il capo verso di lui, e la treccia di capelli ondeggiò sulle spalle, simile a un serpente bianco.«Saresti dovuto restare con gli altri, o meglio, a Lydra con Alatea.»«Taci» O’Rednar fece una smorfia e le rughe sul suo volto parvero

animarsi, diventare solchi profondi. «Abbiamo iniziato insieme questo viaggio, siamo partiti dalle fogne di Xendria per arrivare fino alle porte di Emperia. Sono stato io a metterti in quello scafandro. Una lunga strada, troppo lunga per tirarmi indietro ora, ci sono dentro fino al collo… e poi, non puoi fare tutto da solo. Questa non è solo la tua guerra.»L’accademico allungò un braccio verso i comandi, digitò alcuni tasti.

Le membrane luminescenti dei pannelli risposero al tocco con un breve bagliore, e le turbine situate in coda e sotto le ali del veicolo ruotarono. La navetta schizzò in avanti, perforando le nuvole come una freccia scoccata da un arco.Guerra. Il suono di quella parola riecheggiò nella mente di Darius,

rimbalzando da una parte all’altra come un intruso intrappolato nei suoi pensieri. Venne attraversato da una fitta gelida, una scarica d’energia gli risalì lungo la spina dorsale, fece pressione alla base della nuca e la bocca gli si riempì di fiele. A differenza delle altre

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volte, adesso lui era preparato a questa sensazione, la controllò con una semplice scrollata del capo.Era in quel modo che i ricordi della macchina venivano alla luce,

esplosioni di immagini che gli inondavano la testa, e allora vide. Plotoni di soldati adunati in una piazza sotto un cielo plumbeo, uniformi del colore della foresta e strani elmetti sul capo, e alle loro spalle file interminabili di civili, un mare di corpi che si propagava lungo le strade a perdita d’occhio. Un uomo si rivolgeva loro da un pulpito, non un generale ma qualcosa di diverso. Parlava di speranza, di pace, e la sua voce rimbalzava contro palazzi simili a giganti di vetro e acciaio.Darius era lì, in quella piazza, era parte di quel mondo sospeso tra

la realtà e il sogno ad occhi aperti. Riusciva a percepire la commozione nella voce di quell’individuo, leggeva la tensione sui volti dei soldati, la paura negli sguardi dei civili. Sollevò il capo e colse il movimento davanti ai suoi occhi di un vessillo, una bandiera gonfiata dal vento.«A cosa stai pensando?» La voce dell’accademico irruppe nella sua

mente come un tuono che lo scosse, riportandolo indietro nella cabina di pilotaggio della nave daelish.Darius sbatté le palpebre, mise a fuoco il paesaggio oltre i vetri a

forma di mezzaluna. O’Rednar stava sorvolando la Catena del Carssom, miglia di vette appuntite che si stagliavano verso l’alto come rostri sul dorso di un rettile di roccia.L’anduriano scosse il capo, ingoiò un grumo acido che si era

formato in bocca.La sua guerra aveva un nome: Caio Settimo.Voltò il capo verso Clemio che lo stava ancora fissando, in attesa, e

sussurrò: «Tutto ha una fine.»

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XXIIUn sibilo e il legionario cadde al suolo in una nube di polvere. Un

dardo gli spuntava dalla base del collo. Il cavallo si sollevò sulle zampe posteriori, agitò pericolosamente gli zoccoli sopra le teste dei prigionieri, che arretrarono. Nitrì, sbarrando occhi percorsi da ragnatele insanguinate, e attirò su di sé l’attenzione di un secondo cavaliere.L’imperiale strattonò le redini, si volse in direzione dell’animale

imbizzarrito, vide gli schiavi rompere le righe e dischiuse le labbra per urlare.La freccia fu più veloce delle parole.La punta si insinuò tra le feritoie dell’elmo, gli sfondò la faccia,

sbattendolo al suolo con un tonfo sordo. Sputò sangue e polvere, mentre un velo sembrava essere calato davanti alle sue pupille. Era ancora cosciente quando vide un gruppo di uomini emergere dal nulla, figure scure che caricavano a testa bassa, armi in pugno, silenziosi come un branco di lupi all’assalto di cervi.Morrein tese il braccio all’altezza delle spalle e fece fuoco senza

mirare. Clack, clack. Il suono del lancia dardi rimbombò nelle sue orecchie. Seguì con lo sguardo la scia dei proiettili nell’aria, udì l’impatto secco contro il bersaglio, vide il legionario fare una capriola all’indietro e rovinare al suolo in una posa contorta. Dopo il tiro, aprì e chiuse rapidamente le mani nel tentativo di ritrovare la sensibilità persa durante la traversata del Carssom. L’aria era ancora fredda e quando inspirò gli parve di inalare lame di ghiaccio che gli sferzarono la trachea, come in quella maledetta foresta dai tronchi gelati, che emergevano dal terreno simili a ossa abbandonate sul campo dai predatori.Uno dei ribelli con cui aveva attraversato le fognature, strisciando

gomito a gomito nei liquami fino alla superficie, cadde all’indietro colpito da un proiettile. Un urlo soffocato gli morì in gola. Morrein

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armò il lancia dardi, prese la mira senza rallentare la corsa e fece fuoco. L’imperiale che gli sbarrava la strada lasciò andare la presa dal fucile, la canna ancora fumante, si portò le mani al collo e crollò sulle ginocchia. Provò a gridare, ma quando aprì la bocca l’unica cosa che riuscì a tirare fuori fu il sangue. Teero superò il principe in corsa, snudò l’acciaio e falciò in un unico e fluido movimento, staccando la testa dalle spalle del legionario ferito.«Tu e tu, fate saltare quella fottuta parete, ora!» sbraitò Cornelio in

direzione di due dei suoi uomini, e questi si lanciarono verso le mura di recinzione del campo di concentramento, poi si voltò.Un ufficiale imperiale a cavallo puntava dritto contro il ribelle,

urlando e roteando una spada sopra la piuma dell’elmo. Il capo della resistenza non si scompose, sollevò il braccio armato e la sua pistola abbaiò come un mastino rabbioso. Disarcionò l’imperiale, che venne trascinato sul selciato dalla cavalcatura fuori controllo, il piede incastrato in una staffa.«Diamoci da fare, principe» ringhiò Cornelio, lanciandosi contro un

gruppo di legionari.Morrein sentì il sangue ribollirgli nelle vene.“È diventata la tua guerra ora”, le parole di Darius gli esplosero

nella testa come un ordigno. Mandò a segno un altro dardo, abbattendo un soldato che vorticava un’ascia nell’aria colpendo schiavi alla cieca.Le urla dei prigionieri gli laceravano i timpani. Umani, daelish,

rodrenari, individui delle più svariate razze ruppero le file in cui erano stati adunati, si aprirono come lesioni nel terreno davanti alla sua avanzata.Colse il balenare di una lama alla sua sinistra, fece perno sulla

gamba d’appoggio e ruotò su se stesso, mandando a vuoto l’affondo di un legionario. Il principe non diede all’avversario il tempo di riflettere. Colpì con il taglio della mano sinistra, un fendente che disegno nell’aria un arco di luce azzurrina. La pietra syreana legata

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al palmo sprigionò tutto il suo potere a contatto con la gola dell’uomo, che venne scagliato contro un muro.Il daelish si guardò intorno. Un rivolo di sudore gli corse lungo la

guancia fino alla punta del mento. Il tempo parve rallentare la propria corsa, diventare immobile. Vide Cornelio tirare indietro il cane della pistola e fare fuoco in pieno volto contro un imperiale. Udì il ruggito ferale di Teero mentre disarcionava da cavallo un lanciere con un rovescio della gigantesca spada. Seguì i passi di Mevan che danzava tra mantelli color porpora facendo guizzare le sue sciabole in stoccate letali.I soldati di Caio Settimo erano ovunque.Strappò la daga dal fodero e deviò verso il basso un attacco frontale

di lancia. L’imperiale grugnì quando la cuspide affondò nel selciato. Morrein percepì un impulso d’energia propagarsi nel suo corpo, il sangue divenne lava nelle vene e il cuore pulsò come un nucleo incandescente nel petto. Sollevò la gamba destra, la pianta dello stivale puntata contro il cielo e abbatté il tallone sulla testa dell’avversario con un calcio ad ascia. Udì il rumore delle ossa che si spezzavano, osservò l’uomo crollare ai suoi piedi simile a un sacco vuoto, e si sentì vivo.Non era il reiv a dargli la forza, non più. Adesso aveva una ragione

per cui combattere.«Da questa parte, presto!» notò un prigioniero daelish passargli

accanto, lo afferrò per una spalla, costringendolo a guardarlo negli occhi.Il caos dilagava nel campo di concentramento.«Principe?» Gli occhi del pelle grigia fiammeggiarono come rubini

incandescenti, il volto si contrasse in una maschera di stupore quando lo riconobbe. «Principe, siete voi?»«Raduna più gente che puoi e mettetevi al riparo. Faremo breccia

nella parete.»Morrein lasciò andare lo schiavo, non aggiunse altro.

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Gli uomini della Colomba Bianca erano all’opera, ombre contro le mura di cinta dell’accampamento. Cornelio dava loro le spalle, li incitava a fare in fretta. La sua pistola sputava fuoco come le fauci di un sauro, riempiva l’aria di zolfo, mandava in eruzione i crani dei legionari che gli si avventavano contro.Una donna urlò. Un grido denso di terrore che si levò al di sopra del

cozzare delle armi, dei suoni della battaglia. Morrein girò il capo di scatto e la vide. Capelli biondi, volto pietrificato dal panico. Sbracciava verso qualcosa che sopraggiungeva dall’altro lato dello spiazzo.Il principe serrò la mascella, seguì con lo sguardo la direzione

indicata dalla schiava, poi la terra sotto suoi i piedi tremò. Una figura alta più di otto piedi emerse tra i baraccamenti, puntando verso i fuggitivi. Si muoveva a passi lenti, scanditi da tonfi sordi e dallo sbuffo delle pompe idrauliche installate nelle gambe. Il torso era ampio e costituito da un insieme di moduli meccanici incastrati tra di loro, mentre le braccia, più lunghe rispetto al resto del corpo, sembravano le zampe anteriori di una mantide, rivestite di metallo e pronte ad afferrare e maciullare le prede.«Un mech!» l’avvertimento gridato da una voce stridula strappò

Morrein alla paralisi improvvisa che l’aveva colto.Il mezzo era guidato da un uomo. Il principe colse il riflesso del sole

sul lunotto installato nel petto, vide un soldato seduto al suo interno che manovrava delle leve, poi tutto divenne confuso. Le braccia del mech si sollevarono a mezz’altezza, rivelando bocche metalliche. I polsi ruotarono in senso orario e l’aria fu dilaniata dal fragore degli spari.Morrein sentì un proiettile sibilargli a breve distanza da un

orecchio, vide i prigionieri cadere come bambole di pezza, i corpi tranciati dalle raffiche formavano un tappeto sul terreno. Il mech avanzava inesorabile, scatenando una tempesta di fuoco in un macabro tiro al massacro.

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Accadde tutto troppo in fretta per lasciare alla Colomba Bianca la forza di reagire. La potenza dirompente della macchina schierata dall’Impero li stava schiacciando, poi qualcuno si mosse. Una sagoma scura proruppe dal labirinto di corpi, si abbatté sul mech come un costone roccioso staccatosi dalla montagna. Morrein colse una lama seghettata vorticare nell’aria, calare su un arto metallico in un’esplosione di scintille.Teero.Il guerriero skaar sollevò la spada sopra la testa, impugnatura a due

mani, e falciò verso il basso dilaniando l’acciaio. Ruggiti ferali accompagnavano i suoi fendenti, e le fasce muscolari si gonfiarono sotto le piastre della corazza. Colpì con violenza inaudita e i suoi affondi quasi sbilanciarono il mech, non diedero al pilota il tempo di reagire. Lo spadone tranciò l’arto e la forza del gladiatore parve avere la meglio sulla tecnologia distruttiva dell’Aquila. Un’illusione che non durò a lungo.Teero calò la spada sulla spalla del mech con tale potenza che il

vetro dell’abitacolo venne percorso da crepe e la macchina vacillò piegandosi sulle gambe. La lama squarciò il metallo, rimase incastrata e lo skaar perse un attimo di troppo nel ritrarla.Il pilota riuscì a direzionare il braccio integro del mech verso il

petto dell’avversario. Il polso ruotò e un’ondata di fuoco travolse l’uomo rettile, ignorò le protezioni della corazza, trapassò le scaglie brune, sbattendo il corpo massiccio contro la parete di una baracca.Morrein rimase lì, immobile. Vide il compagno scivolare lentamente

al suolo, tracciando una scia purpurea sul muro. Gli occhi sbarrati fissavano il vuoto.Morrein non ebbe il tempo di pensare.«Esplosivi innescati!» gridò uno degli uomini della Colomba Bianca.Un boato.La forza d’urto lo travolse. Una mano invisibile lo afferrò per le

spalle, mandandolo a rovinare sul selciato. Picchiò con lo zigomo e giacque per alcuni istanti al suolo, incapace di muoversi. Le orecchie

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gli fischiavano. A fatica riuscì a girarsi su un fianco, tastò il lastricato fino a trovare la daga. Il suo campo visivo era coperto da una nuvola grigia. Si rimise in piedi e avanzò nella polvere, l’arma stretta in pugno.Vide un braccio del mech sbucare dai detriti, un rottame immobile.

Poco alla volta le maglie della nebbia si diradarono rivelando sagome scure, che parevano brancolare nel buio. Qualcuno tossì, altri imprecarono, poi le sirene d’allarme dilaniarono il cielo di Emperia.

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XXIII«Popolo di Emperia» Caio Settimo serrò le dita intorno alla

balaustra e la sua voce fece eco sopra il mare di persone in attesa. Avvertiva su di sé il peso di quegli sguardi. L’intera città era accorsa all’inaugurazione, una distesa di abiti sgargianti e sorrisi di plastica riempiva le strade fino ai cancelli dello stabilimento.L’Imperatore allargò le braccia in un gesto lento, plateale. Alle sue

spalle la Centrale di Revisione incombeva come un bastione inespugnato. Pareti di granito, colonne di scarico simili a torri prive di merli, e tetti di metallo come cupole di una cattedrale votata a un unico dio, il celion.«Oggi apriamo le porte al futuro» Settimo ruppe la stasi, il becco da

uccello predatore della sua maschera vibrò quando mosse il capo e una folata di vento gli gonfiò il mantello, un vessillo di tenebre che oscurò il cielo. «La Centrale di Revisione ci permetterà di raffinare celion ben oltre le nostre necessità. I nostri veicoli saranno più veloci, la nostre città brilleranno come stelle cadute sulla terra. Popolo di Emperia, questo giorno sarà ricordato per sempre…»Un’esplosione.Le parole gli sfumarono sulle labbra, il discorso che aveva in mente

svanì in un sospiro quando l’intera struttura vibrò. Si sorresse al parapetto, volse il capo verso l’origine di quel suono, mentre le urla di panico dei sudditi prorompevano in un fragore assordante.Colonne di fumo grigio si levavano dal campo riservato ai

prigionieri, risalivano verso l’alto, condensandosi in una massa scura soffiata via dal vento. Settimo sbarrò gli occhi incredulo.«Traio!» ruggì il nome del suo primo ufficiale, lo sguardo puntato

sul luogo della deflagrazione, ma non ottenne risposta. Si volse verso il gruppo di uomini in alta uniforme che presenziavano all’inaugurazione dalla terrazza della Centrale e incrociò i loro sguardi atterriti. «Traio! Dove sei?»

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«Il generale non è qui, Imperatore» affermò uno tra i suoi alti funzionari.Caio Settimo raggiunse chi aveva parlato in due falcate, lo afferrò

per il bavero della giacca, ne inalò il tanfo di sudore e paura che gli impregnava la pelle.«Lo vedo benissimo da solo che non è qui, inetto!» spinse il ministro

con forza verso la balaustra. L’uomo agitò le braccia, urtò il corrimano e precipitò nel vuoto. Le sue grida si persero nel caos.Fuori dai cancelli della Centrale il panico dilagò fra cittadini accorsi

alla celebrazione. Chi era nelle prime file iniziò a spingere per allontanarsi dallo stabilimento. Alcuni caddero, travolti dal mare di corpi in movimento, e non riuscirono più a riemergere. Caio Settimo sollevò il capo al cielo, colse un oggetto sbucare dal nulla, ali da rapace che sferzavano le nuvole. Un rapace di metallo che puntava diritto contro la sua Centrale. Serrò le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco, poi le sirene irruppero, anticipando il fuoco delle batterie di contraerea.«Tieniti forte, comandante.» Darius vide Clemio intervenire

bruscamente sulla cloche. Un missile esplose a breve distanza dall’ala destra e la navetta cabrò. Il cielo sembrò ruotare di un giro completo, e l’anduriano andò a sbattere contro i pannelli.«Figli di una cagna!» ruggì O’Rednar, nel tentativo di stabilizzare il

veicolo. Il fuoco dei cannoni imperiali divenne incalzante, riempì l’aria.«La vedi, Darius? La Centrale, tieniti pronto!»Il lanciere si rimise in piedi, posò una mano sulla poltrona del pilota

e puntò lo sguardo oltre i vetri dell’abitacolo. I colpi sparati dalle torrette al suolo tracciavano scie di bianco nell’aria, sibilando sopra lo scafo come frecce scagliate da un tiratore impreciso. La punta del velivolo perforò la coltre fumosa, mentre si librava sui tetti degli edifici.La Centrale di Revisione emergeva dal terreno come un colosso di

pietra e acciaio, una forma gigantesca che si stagliava verso l’alto in

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tutta la sua imponenza. Simbolo di potere, strumento di controllo, e loro gli stavano andando contro.«Devi farmi scendere, vecchio! Non avvicinarti, o rischierai di farti

abbattere.»«Scordatelo. Io non ti lascio qui. Tieniti stretto, comandante.»Clemio diede potenza ai motori, spingendo la nave nel mezzo del

tiro incrociato delle contraeree. Il suo volto era teso fino allo spasimo per la concentrazione.I sauri si levarono in volo.All’inizio erano solo dei punti scuri nel cielo, poi le ali dilaniarono

l’aria, i corpi massicci scivolavano tra gli edifici, spronati dai loro cavalieri. Le bestie ruggirono, sprigionando vortici di fuoco azzurro dalle fauci spalancate. Darius osservò le creature che si scagliavano verso di loro e si morse il labbro. Erano braccati.«Vado alla mitragliatrice» disse, la mente annebbiata da una

miscela d’emozioni che non riusciva a penetrare.Un colpo di cannone esplose a poca distanza dal muso dello scafo. Il

veicolo sussultò nell’attraversare le fiamme, lingue arancioni lambirono i vetri della cabina senza scalfirli.«È inutile, sono troppi» ringhiò Clemio spingendo la cloche in

avanti.L’accademico lanciò la navetta in picchiata verso la strada come un

uccello rapace. Le estremità delle ali sfiorarono le finestre degli edifici.Un tonfo. Il vetro della cabina frenò la corsa di una pallottola, e

crepe si allargarono all’istante su di esso.Darius vide il legionario sul dorso del sauro stringere il fucile tra le

mani e prendere nuovamente la mira. Il rettile era sbucato all’improvviso da un vicolo sbattendo le ali con furia ed emettendo strida che facevano sanguinare i timpani.L’anduriano ebbe la sensazione che la creatura fosse sul punto di

raggiungerli e squarciare lo scafo con gli artigli. Girò il capo e strinse le palpebre quando notò un imperiale inginocchiato al lato della

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strada sistemarsi un lanciarazzi sulla spalla. Gridò, ma era troppo tardi per gli avvertimenti.Un bagliore seguì lo sparo che scagliò un missile contro di loro.Darius si piegò d’istinto sulle gambe, pronto all’impatto.

L’accademico però intervenne sui comandi, spinse la leva verso destra con uno scatto e la nave reagì, avvitandosi in un mezzo giro. Il razzo sfiorò la fusoliera, passò oltre, centrando in pieno il sauro che era incollato alla loro coda e avvolgendolo in una nube rossa. Clemio urlò, fuori di sé.La navetta parve per alcuni istanti essere inafferrabile, poi le

raffiche la investirono, i proiettili trapassarono il fasciame, sibilando all’interno della cabina. I sauri si abbatterono sul veicolo da ogni direzione come uno stormo di corvi impazziti.Darius si ritrovò sul pavimento, scosse il capo e si puntellò sui

gomiti per rimettersi in piedi. I pannelli della strumentazione sprigionavano scintille, mentre tutto nella nave vibrava come scosso da un fremito.«Darius!» O’Rednar invocò il suo nome con voce ridotta a un

rantolo soffocato.Una corrente d’aria gelida fischiò attraverso lo squarcio nel vetro.

Clemio stringeva le mani sulla cloche per inerzia, tossì sputando sangue sulla console. Il suo ventre era stato dilaniato dalle pallottole, e dalle lacerazioni negli indumenti si levavano rivoli di fumo grigio.«Clemio…» Darius sbarrò gli occhi davanti alla scena, mentre

un’altra esplosione scosse la nave.Stava accadendo tutto così in fretta! La situazione stava

precipitando. Il suo istinto lo portava a prendere il controllo del veicolo, a volare lontano da quella città per trarre l’amico in salvo, ma non fece nulla di tutto ciò. Una voce gli risuonò nella testa, influenzò i suoi pensieri. Portò le mani al petto, sentì l’ordigno nonostante gli strati di cuoio della tracolla. Il suo fardello.Clemio sollevò il mento, la barba lorda del suo stesso sangue.

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«La b-bomba» farfugliò il vecchio, nello sforzarsi per riprendere il controllo del veicolo. Gemette quando tirò indietro la cloche. «Fa’ presto, prima che sia troppo tardi.»Darius annuì, mentre la nave riprese quota sfiorando con il ventre il

tetto di un edificio. Stava per uscire dalla cabina, quando l’amico parlò ancora.«Perdonami, Darius. Perdonami per quello che ti ho fatto.» sospirò

l’accademico.Il lanciere si voltò di scatto, fece schioccare i talloni tra loro e portò

il pugno destro sul cuore. Un gesto di estremo saluto che i lancieri di Andurian riservavano ai propri compagni d’arme.«È stato un onore combattere al tuo fianco, Clemio O’Rednar.»Darius si lasciò alle spalle la cabina di pilotaggio, attraversò il

corridoio senza voltarsi indietro. Il fasciame crepitava con tale violenza che il veicolo sembrava sul punto di collassare, esplodere in una pioggia di detriti sopra Emperia.L’anduriano strinse le mani intorno alla maniglia del portale

d’espulsione, provò ad aprirla ma era bloccata, allora fece alcuni passi indietro, fino a sfiorare la parete alle sue spalle. La visiera dell’elmo calò sulla faccia.Darius ringhiò come un mastino quando sferrò un calcio frontale

contro il battente. La porta di metallo venne strappata dal veicolo come da artigli invisibili e piombò nel vuoto.Il lanciere si avvicinò allo squarcio nello scafo, sentì il vento

sferzare le placche dell’armatura, spingerlo indietro. Clemio stava tenendo la nave a bassa quota, il ventre dello scafo radeva i tetti degli edifici simile a una lama. Il ruggito delle contraeree divenne assordante. Non aveva più tempo. Incrociò le braccia sul petto, serrò la bisaccia contenente l’ordigno in una morsa d’acciaio e si lanciò.Stava precipitando come in una di quelle notti in cui sognava di

cadere. Questa volta però non c’era il guanciale ad attenderlo, ma la pietra.Reazione motoria all’impatto: 50%

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Gridò, e le sue urla rimasero prigioniere del casco mentre vedeva i tetti e i cornicioni degli edifici diventare sempre più vicini.Reazione motoria all’impatto: 80%Darius venne colto da un fremito, un’improvvisa scarica energetica

che gli scosse le membra, attraversò le fasce muscolari e risalì lungo la colonna vertebrale fino alla nuca. Precipitava a testa in giù, gli occhi puntati in avanti, perforando l’aria come un proiettile sparato da un fucile, quando il suo corpo reagì. Puntò l’edificio più vicino ed eseguì una rotazione. Spinse le gambe verso il basso e le braccia cercarono un appiglio. Le dita scalfirono la facciata del palazzo, scavando solchi in un’esplosione di scintille.Darius discese lungo la parete come un ragno d’acciaio nero, poi

prese lo slancio e saltò all’indietro. Un cratere si allargò sotto i suoi piedi quando toccò il lastricato.Reazione motoria completata. Priorità: Defcon-x. Reimpostata.L’anduriano si guardò rapidamente intorno. Una folla urlante

invadeva la strada. Alcuni persone lo videro e si immobilizzarono all’istante, come paralizzate, altre gli voltarono le spalle e iniziarono a correre controcorrente. In un attimo si formò il vuoto intorno a lui. Darius prese a spostarsi, seguendo la scia di fumo nero lasciata dalla navetta daelish nel cielo. Svoltò un angolo e allungò la falcata.Clemio puntava dritto contro la Centrale di Revisione.Più si avvicinava al mostro di pietra e metallo che si ergeva in fondo

alla città, e più il velivolo guidato dall’accademico perdeva quota, braccato dal tiro delle contraeree.A Darius era bastato incrociare per un solo istante lo sguardo di

O’Rednar, per capirne le intenzioni. L’amico aveva accettato il suo destino, proprio come aveva fatto lui, eppure sentì il cuore sprofondargli in un baratro quando vide tutto accadere, come al rallentatore.Un missile squarciò i cieli di Emperia in un rombo assordante, come

il verso di un predatore famelico che non era disposto ad arrendersi. L’anduriano sollevò giusto in tempo il mento per vedere il razzo

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centrare l’ala sinistra della nave, tranciarla di netto in un fendente di fuoco e detriti. Il veicolo si tramutò in un meteorite, una massa rovente che si abbatté contro la Centrale.Un’esplosione straziò i timpani di Darius.Si ritrovò immobile sulla strada, gli occhi fissi sulla nuvola nera che

si levava verso l’alto. Vide soldati e civili arrancare nella foschia, tossire. Udì il grido delle sirene d’allarme sovrastare la città e sentì il vuoto attraversargli il petto, la testa. Un riflesso lo portò a sbattere le palpebre, ad abbassare il capo verso la sacca con la bomba. In un attimo quella parte della città sarebbe stata sommersa dai mantelli porpora della legione.Le maglie della coltre di fumo iniziarono lentamente a sfilacciarsi,

rivelando una voragine in una facciata dello stabilimento. La Centrale era stata colpita, ma si ergeva ancora al suo posto, incombeva su di

lui come un gigante dal volto austero. Aspettava.Darius contrasse la mascella e riprese a correre.

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XXIV«Via di qui! Forza!» Morrein udì la voce di Cornelio tuonare sopra le

sirene d’allarme, ne colse la figura lacerata emergere dalle macerie. Non portava più la pistola e il suo volto era striato dalla polvere. Il principe si avvicinò al ribelle, vide un lato della faccia tumefatto, il sangue che scorreva copioso da un taglio sulla fronte.«Coraggio, da questa parte!» L’uomo sollevò il braccio sano, lo agitò

come a rivelare la sua presenza e in pochi istanti la breccia nella parete venne invasa dai deportati.Morrein si fermò ai margini del fiume di corpi che defluì attraverso

gli squarci nella recinzione. Anime distrutte dalla prigionia, uomini e donne che avevano messo da parte il terrore e i cui occhi ora ardevano di un nuovo sentimento. Speranza.Il daelish perse di vista i ribelli. Osservò le vie d’uscita ricavate nella

pietra dall’esplosivo, rendendosi conto che lo stesso Cornelio era sparito. Allora si accodò alla folla. Incrociò lo sguardo di alcuni suoi simili che gli sorrisero e gli rivolsero cenni del capo, mentre si lasciava trascinare come un tronco in balia della corrente.Il vento si alzò, vortici d’aria fredda che mossero le nubi e spinsero

il fumo sopra i tetti della città, trasportando con sé l’odore pungente d’esplosivo, e le strida.Grida che sovrastarono la nenia delle sirene e lo fecero rabbrividire.«Guardate» una mano puntò verso lo schieramento di forme scure

che ghermivano il cielo.Morrein ridusse le palpebre in fessure, colse le sagome massicce, le

ali nere.Sauri, a decine.«Presto» gridò, ma la sua voce fu sommersa dalle urla, il panico

investì i prigionieri. Spinse le persone che lo precedevano, si fece largo a gomitate nel groviglio di corpi in fuga. «Fate in fretta!»

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I rettili volanti calarono in picchiata sopra i fuggitivi come corvi venuti a banchettare con i loro cadaveri. Colonne di fuoco azzurro si abbatterono al suolo, ridussero le persone in torce viventi.Morrein scorse una donna annaspare nella polvere, ne sentì le urla

di terrore e si lanciò al suo fianco, giusto in tempo per farle scudo con il corpo. Una fiammata spazzò il terreno, il calore gli lambì le spalle lasciandolo incolume. Sollevò d’istinto il braccio armato, fece scattare il lancia dardi e un proiettile si conficcò nella coda della bestia che gli era passata sopra la testa. L’animale si contorse nell’aria, parve sul punto di disarcionare il cavaliere, ma questi riuscì a tenersi ai finimenti della sella.I legionari che cavalcavano i sauri imbracciavano fucili di

precisione. Il rumore secco degli spari rimbombava tra i casermaggi, era riconoscibile anche a miglia di distanza. Il principe vide persone cadere al suolo centrate dai proiettili, provò impotenza di fronte alle teste che andavano in eruzione a causa del piombo, poi accadde l’inaspettato.Un nuovo cuneo di sauri perforò la massa di nuvole che si

addensava sopra il campo. Gli uomini in sella alle bestie urlavano quasi più delle loro cavalcature, brandivano armi da tiro come simulacri di morte.Morrein strinse le palpebre, deglutì polvere. Questa è la fine, pensò.Ma la squadriglia alata non calò sui fuggitivi, puntò dritta contro i

propri simili. Morrein vide una creatura enorme, dalle scaglie del colore della pietra, sputare fuoco zaffiro sugli avversari. Le fiamme divorarono carne e ossa, tramutarono cavalieri e cavalcature in meteore pulsanti che si abbatterono sui tetti delle baracche.Il principe assistette alla scena con occhi sbarrati, udì le urla di

terrore dei legionari, dilaniati dal fuoco, vide i sauri che li avevano attaccati spiegare le ali in ritirata, sparire sopra i tetti della città.Il rettile che aveva guidato l’offensiva contro i suoi simili planò

verso il suolo, ali enormi sbatterono con un rumore secco di articolazioni e aria spostata. Chi montava la bestia era un uomo

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dall’armatura finemente istoriata, che rifletteva i raggi solari proiettando lame di luce dorata tutto intorno a sé. Il legionario smontò dalla sella, sfiorò il collo del sauro con una mano e questo si accucciò al suolo come un cane davanti a un fuoco.Cornelio sbucò dalla massa di prigionieri attoniti. Mevan gli aveva

cinto la vita con un braccio e lo aiutava a reggersi in piedi.Il cavaliere gli andò incontro, sollevò la visiera dell’elmo e tese una

mano.«Colonnello Cornelio» esordì, facendo un gesto secco del capo «È un

piacere saperti ancora in vita, amico mio.»Un sorriso fece capolino sul volto barbuto e tumefatto del capo dei

ribelli. Cornelio ricambiò la stretta, tenne per alcuni istanti gli occhi fissi in quelli dell’uomo in armatura, poi esclamò: «Generale Traio, tempismo perfetto. Temevo che avessi cambiato idea.»Il primo ufficiale dell’Imperatore Caio Settimo lasciò andare la

presa, fece scorrere lo sguardo sulle file dei prigionieri in attesa, poi si volse nuovamente verso l’uomo della Colomba Bianca: «Perché la Centrale è ancora in piedi?»Darius portò una mano dietro le spalle e fece scorrere le dita sul

metallo, serrandole intorno all’impugnatura del fucile. Diede uno strappo alla placca di metallo, e i connettori emersero dal calcio dell’arma, si avvolsero intorno al braccio come rampicanti, fino a insinuarsi in alcune fessure della corazza. Avvertì un fremito lungo la spina dorsale, mentre le pallottole sibilavano intorno a lui.Un mirino apparve sul visore.Cannone neurale connesso. Ingaggio organismi ostili attivo.Darius premette il grilletto e raffiche di fuoco azzurro sventrarono

l’aria, investendo i legionari che lo tenevano sotto tiro. L’anduriano continuò ad avanzare, sparando all’impazzata contro tutto ciò che rappresentava per lui un ostacolo. I soldati dell’Impero cercavano riparo, ripiegavano, travolti dalla sua offensiva.

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Passò oltre i rottami fumanti del veicolo daelish, ma non si soffermò a guardarli. Clemio si era sacrificato per lui, per la missione, non c’era più nulla da fare se non rendergli onore.Nessuno ormai provava a contrastarlo e si stava avviando verso il

portale d’accesso alla Centrale, un enorme arco di metallo incassato nella parete, quando qualcosa lo colpì a una spalla. Perse l’equilibrio, venne spinto in avanti, poi uno strido gli lacerò i timpani.Si voltò e i suoi occhi incontrarono quelli di un sauro. Darius

percepì un serpente d’energia strisciargli lungo la schiena, attorcigliarsi alla spina dorsale. Strinse le palpebre e si rivide sulla scogliera di Andurian a urlare impotente mentre una bestia alata braccava la sua famiglia. Sollevò il capo. Il sauro gli volteggiava sopra la testa come un avvoltoio pronto a cibarsi delle sue viscere. L’animale virò, poi scese in picchiata, ali spiegate, fauci spalancate.Organismo ostile non identificato. Reazione motoria esoscheletro

completata.Darius si mosse reagendo a impulsi che non erano suoi. L’armatura

lo stava comandando. Fece una capriola sul fianco, e una colonna di fuoco si abbatté al suolo, avvolse la facciata della Centrale annerendola.L’anduriano si rialzò, fissò per un istante la sacca che conteneva la

bomba, poi cercò con lo sguardo il nemico nel cielo. Il visore marcò il rettile e il suo pilota, due forme rosse che puntavano verso il centro del mirino. Il cavaliere si era curvato sul dorso della bestia, pronto a un nuovo assalto.Darius sollevò il braccio e direzionò il fucile contro la creatura

mentre questa calava in picchiata. La distanza tra loro si ridusse in un brandello di attimo, poi premette il grilletto. Il cannone neurale sprigionò una raffica di energia che trapassò il collo del sauro e centrò in pieno petto il legionario, scagliandolo nel vuoto. La creatura si schiantò contro la facciata dello stabilimento in un’esplosione d’ossa e muscoli.

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L’anduriano ripose l’arma dietro le spalle. I connettori scivolarono fuori dal suo braccio e la canna rientrò nel corpo del fucile. Il metallo parve saldarsi alle altre piastre, ricomponendo una struttura perfetta.Darius sollevò la visiera del casco, osservò per un istante la Centrale

che incombeva su di lui come una fortezza, poi si mosse verso l’ingresso, andando incontro al proprio destino.Luci rosse lampeggiavano all’interno dei corridoi della struttura. I

tunnel erano percorsi orizzontalmente da fasci di tubature che sembrava volessero condurlo fino al cuore del mondo. I rumori dell’attacco condotto dalla Colomba Bianca non penetravano all’interno della Centrale, solo l’eco dei suoi passi rimbalzava contro le pareti. Non trovò nessuno a ostacolarlo. Darius salì una rampa di scale e percorse un corridoio fino a ritrovarsi in un’ampia sala dalla forma circolare.Sollevò lo sguardo. Il tetto era fatto da una cupola di vetro con bordi

d’acciaio che dava la sensazione di ritrovarsi all’interno di una serra.I tubi si staccavano dalle mura della costruzione e percorrevano il

pavimento fino a convergere al centro della stanza, dove si ergeva un’imponente struttura cilindrica di metallo, tempestata da diamanti di luce blu e rossa, che pulsavano a intermittenza emettendo un suono simile a un ronzio. Darius attraversò la sala fino a raggiungerla. Ne sfiorò la superficie con una mano, avvertendo una forte sensazione di calore nonostante i guanti ferrati che gli ricoprivano le dita. Osservò quella struttura quasi stregato, la sua mente era sgombra da ogni pensiero.Il nucleo.Un generatore talmente potente da alimentare da solo un’intera

centrale per la trasformazione del celion. Una creazione che dava potere e sostentamento.Mise un ginocchio a terra, si sfilò la bisaccia, la posò a terra e ne aprì

le cinghie. Infilò una mano all’interno, portando alla luce l’ordigno confezionato da Cornelio. Dall’aspetto sembrava una normale mina,

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un piatto di ferro rovesciato e spesso tre dita, sul cui retro era stato spalmato uno strato di pasta adesiva. Darius tenne per un istante la bomba tra le mani, come se fosse una qualche reliquia di inestimabile valore, poi espirò e la spinse contro il rivestimento esterno del reattore. La pasta aderì alla superficie e uno schermo rosso si illuminò al centro del disco. L’anduriano fece per premere il pulsante nero installato sotto di esso e avviare il temporizzatore, quando una voce metallica echeggiò all’interno della sala.«Cos’hai intenzione di fare?»Darius volse il capo e vide una figura ammantata di nero che si

stagliava contro il soffitto di vetro. Spalle ampie, braccia e gambe di metallo, e un elmo sul capo la cui visiera riproduceva il volto di un uccello.L’anduriano non ebbe bisogno di fermarsi a riflettere per capire chi

si trovava davanti.Caio Settimo, l’Imperatore dell’Aquila.«Chi sei tu?» chiese nuovamente il sovrano, nel fare un passo in

avanti. «Allontanati dal reattore, adesso!»Darius gli diede ascolto. Scostò il dito dal pulsante sulla bomba e si

rimise in piedi.Fronteggiò con lo sguardo l’Imperatore, meno di dieci passi li

separavano.Settimo inclinò il capo di lato e, sebbene la maschera da rapace

impedisse di cogliere le espressioni del suo volto, l’anduriano ebbe la certezza che stesse studiando con interesse l’armatura che indossava.Il lanciere contrasse la mascella, ridusse gli occhi in fessure. I

connettori infilati nel suo corpo liberavano delle brevi e intense scariche d’energia, che penetravano muscoli e tessuti fino a scuotergli le ossa. Una voce rimbombava nella sua testa, gli diceva di voltarsi e attivare l’esplosivo, ma Darius non le prestò ascolto. Osservò Caio Settimo e in un attimo la sua mente venne invasa da uno spettro di immagini e colori. Scorse colonne di persone

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incatenate emergere da una miniera sotterranea, inorridì dinanzi al corpo di sua madre divorato dalle fiamme nella piazza di Andurian, osservò il veicolo con a bordo Galeen e Antioch divenire una palla infuocata sul mare, poi ripensò a Clemio, a Teero e ad Alatea. Rivide i volti dei suoi amici, udì le loro voci mentre gli parlavano di speranza, di futuro, e questo gli diede la forza.Protocollo Defcon-x violato. Tentativo di ripristino connessione con

ospite fallito.«Adesso si fa a modo mio» disse l’anduriano nel fare un passo in

avanti. Teneva lo sguardo inchiodato sull’Imperatore e le braccia distese lungo i fianchi, mentre apriva e chiudeva le mani in un gesto lento, ripetitivo.Caio Settimo emise un grugnito, un suono simile al respiro soffocato

di una bestia, e allargò il mantello con un braccio.«Chi sei?» tuonò il sovrano, piegando il corpo in avanti.Darius non si fermò, anzi accelerò il passo fino a correre.«Io sono il sole che protegge i deboli dall’oscurità della notte! Io

sono la lancia di Andurian!» gridò mentre sferrava un pugno al volto dell’Imperatore.Settimo sollevò un braccio, riuscì in parte a parare l’attacco, ma la

potenza che il lanciere impresse all’attacco fu tale da sbilanciarlo. Perse l’equilibrio, incassando un colpo di ritorno sotto il mento.Darius vide il tiranno volare all’indietro, abbattersi al suolo con un

tonfo sordo.«Il tuo dominio finisce qui, oggi.»«Ti sbagli» Caio si rimise in piedi, portò entrambe le mani al volto

per risistemarsi il casco, poi proruppe in una risata gelida. «Il mio dominio è appena iniziato. Io sono la morte, inchinati o farai la stessa fine che è toccata al tuo popolo. Andurian? Sono solo pietre in mezzo al mare ora.»Darius urlò, sovrastato dalla collera. Caricò a testa bassa

l’avversario, affondando con una spalla nel suo stomaco e cingendogli la vita in una morsa con le braccia. Caio Settimo lo colpì

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con una gomitata alla schiena in un’esplosione di scintille, come ferro battuto sull’incudine, e cercò di liberarsi con una serie di ginocchiate al volto.L’anduriano incassò duramente, lasciò andare per un istante la

presa, poi strinse i denti e sollevò Caio, sbattendolo sul pavimento. L’Imperatore rotolò sul fianco, riuscì a evitare il suo tentativo di montargli sul petto, e lo colpì con un calcio allo stinco con tale forza che Darius si sentì mancare la terra sotto i piedi. Vide la stanza capovolgersi.Ora era Caio Settimo a incombere su di lui. I suoi pugni erano

blocchi di granito che si abbattevano sulla corazza, gli scalfivano il pettorale, minacciavano di sfondargli la visiera dell’elmo.Sistema vitale ospite compromesso. Ripristino potenziamento

energetico in corso.L’anduriano sentì le forze venirgli meno, le palpebre divennero

pesanti e farfalle di luce si agitarono davanti agli occhi mentre le urla dell’Imperatore gli straziavano i timpani: parole sputate fuori con rabbia, parole che lui non riusciva ad afferrare.Il vento assalì la scogliera, gonfiando le vesti di Alatea, mentre sotto

di essa il mare ruggiva abbattendosi con violenza contro le rocce. Schizzi gelidi risalivano verso l’alto come schegge di ghiaccio che le sferzavano le gambe. Un tuono rimbombò in lontananza, con un fragore che scosse la terra.La giovane rimase in piedi sul ciglio, incurante della tempesta che

stava colpendo Lydra. Allargò le braccia e distese le dita, lasciando che la sua mente si aprisse. Aveva bisogno di ogni stimolo possibile per stabilire il legame, le gambe le tremavano per lo sforzo, e lottò per mantenere la concentrazione. Aveva tentato più volte, riuscendo solo a sfiorare i pensieri di Darius. Il flusso telepatico si scontrava contro barriere invisibili che impedivano la connessione e questo la terrorizzava. Sapeva che lo stava perdendo e non poteva arrendersi.Alatea non voleva arrendersi.Strinse i denti e fece un altro tentativo.

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Darius.L’anduriano sentì chiamare il suo nome. Una voce di donna esplose

nella sua testa. Scosse il capo, tossì sputando un grumo di sangue che gli stringeva la gola.Darius, devi alzarti.Era convinto di conoscere quella voce, era certo d’averla già sentita.

Guardò davanti a sé. Caio Settimo era scomparso, il nero della sua armatura era sfumato nella penombra, dissolto come una statua di sabbia spazzata via del vento.Una sagoma veniva verso di lui. Era avvolta da un alone di luce

azzurra, così intensa da costringerlo a serrare le palpebre. Si sforzò di mettere a fuoco, colse un movimento, una lunga tunica che si increspava, un braccio che si sollevava e una mano tesa verso di lui.Occhi bianchi incontrarono i suoi.«Alatea» sussurrò l’anduriano con un filo di voce, mentre una

lacrima gli rigava la guancia simile a una colata di lava sul terreno. Tese una mano, cercò di sfiorare la ragazza, ma lei abbassò il braccio e rimase lì a fissarlo.Un’allucinazione? Stava perdendo la ragione. Era l’armatura.

L’armatura lo stava uccidendo.Darius venne colto da un fremito. Serpenti d’energia risalirono

lungo la schiena, gli avvolsero la spina dorsale, stritolando le vertebre. Urlò e il volto di Alatea si distorse in un vortice di ombre.L’anduriano ebbe la sensazione che qualcuno gli stesse strappando

la coscienza. Si ritrovò fuori dal proprio corpo, in una stanza illuminata solo da una candela. Un vecchio era seduto a un tavolo e piangeva, piangeva nel chiedergli scusa. Clemio, pensò. Fece un passo in avanti, provò a toccare l’amico ma l’accademico era sparito. Al suo posto, una donna dai lunghi capelli biondi gli dava le spalle. La schiena nuda era solcata dai segni delle frustate. Cullava tra le braccia un bambino che non voleva smettere di piangere. Lei volse il capo, rivelando un volto di una bellezza eterea, senza tempo, e lo guardò con occhi verdi carichi di tristezza.

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Occhi che erano stati la sua unica ragione di vita.Darius si sentì mancare, perse l’equilibrio e cadde all’indietro. Stava

precipitando. Un salto nel vuoto scandito dal suo grido. La coscienza s’infranse al suolo e l’impatto gli spalancò gli occhi. Davanti a lui ora c’era solo la maschera da rapace dell’Imperatore, il rostro a forma di becco che puntava contro la sua faccia.Il cuore prese a battergli all’impazzata, una fitta gli dilaniò il cranio.

Un pensiero gli attraversò il corpo in un fremito. La sua famiglia era ancora viva, ne era certo, e non poteva fare nulla per loro. Li aveva persi, ancora una volta.Clemio. Alatea. Loro sapevano. Loro avevano mentito.Ripristino sistema vitale ospite completato. Livello potenza: massimo.Darius serrò una mano a pugno, digrignò i denti e le sue nocche

ferrate si abbatterono contro l’elmo di Caio Settimo. L’Imperatore perse la presa, venne travolto da un’onda d’urto che lo scagliò sul pavimento.L’anduriano annaspò nel rimettersi in piedi, il respiro ridotto a un

sibilo asfittico. Girò il capo di scatto, vide il nemico che si rialzava e si avventò su di lui con un calcio alle costole. Caio Settimo venne strappato dal suolo, volò contro il generatore, la schiena parve spezzarsi nell’impatto, perse l’elmo e il corpo si afflosciò al suolo in una posa contorta.«È ora di farla finita.»Darius lanciò uno sguardo verso la sagoma immobile di Caio

Settimo poi si avvicinò alla bomba. Era ancora lì, installata sulla parete del reattore della Centrale e aspettava che lui facesse la sua mossa. Il tempo parve rallentare fino a pietrificarsi, la sala venne avvolta da una cappa surreale di silenzio, poi il lanciere premette il pulsante e numeri rossi apparvero sullo schermo al centro dell’ordigno.«No! Cosa hai fatto? Maledetto!» L’Imperatore gli piombò addosso e

le sue braccia gli cinsero il collo, cercarono di sbatterlo a terra.

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Darius colse frammenti di quel volto, una pelle livida al limite della putrefazione, poi rivolse lo sguardo verso il display della bomba, osservò lo scorrere degli attimi.0:04:00 alla detonazione.Il lanciere assestò una testata all’indietro, l’elmo si fece largo nella

faccia di Caio Settimo, schiacciò le ossa, frantumò il naso e un fiotto di sangue nero imbrattò il pavimento.Il sovrano reagì e Darius si voltò in tempo per parare un rovescio.

Bloccò il braccio dell’avversario sotto la sua ascella, poi eseguì una rapida torsione del busto e abbatté il proprio gomito sull’avambraccio meccanico di Caio, tranciandolo in un’esplosione di scintille.L’Imperatore urlò, gli occhi sbarrati e pervasi da capillari scuri.

Darius brandì la protesi mutilata come una mazza e lo colpì in piena faccia.Caio Settimo cadde al suolo, vomitò un liquido denso.0:02:50 alla detonazione.«Tu… tu non puoi uccidermi. Io ho vinto la morte» ringhiò Caio

Settimo.«Ti sbagli.» Darius sollevò un ginocchio, come se volesse schiacciare

uno scarafaggio, e calò il piede sulla faccia del tiranno con tutta la rabbia che aveva in corpo. Un tonfo viscido seguì il rumore delle ossa che si sfondavano, della vita che scivolava via dal corpo di Caio Settimo.L’anduriano si volse verso il generatore. Le luci del timer pulsavano

come stelle nella notte. Il tempo non aspettava, anche questa volta avrebbe cancellato gli errori dell’uomo.0:00:00 bomba innescata.

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XXVIl bagliore dell’esplosione si confondeva con la luce dell’alba. Darius

sbatté le palpebre e i colori presero di nuovo forma davanti ai suoi occhi, la vista si tinse del grigio muschiato delle rocce.Sensazioni umane, che temeva d’aver dimenticato, lo avvolsero con

il loro abbraccio vitale: la corrente che gli sfiorava il viso, gli steli d’erba alta che gli scorrevano tra le dita, le gocce di rugiada che scivolavano lungo la mano e sparivano nelle crepe lasciate sul metallo dalle bruciature. La memoria di quel luogo gli riaffiorava nella mente e prendeva posto accanto alla guerra, al dolore e alla sofferenza. Compagni di viaggio, del suo viaggio, che da quegli scogli appuntiti avevano preso il largo e a quelle pietre lo avevano ricondotto.Riprese la marcia che durava ormai da giorni, lasciandosi alle spalle

il ruggito del mare. Il tempo sembrava essersi arrestato, e quando sollevò il capo al cielo ebbe l’impressione che anche il sole non si fosse mosso. Valicò una catena di colline, inerpicandosi lungo sentieri rocciosi battuti dal vento, e discese a valle. Falangi di pini contornavano la radura. Una brezza improvvisa scosse il fogliame, portando con sé l’odore salmastro del mare e i suoni del campo che si stava appena destando.Non riusciva a comprendere la ragione che lo aveva spinto fino a lì,

eppure Darius scivolò sotto la copertura dei rami, si portò al limitare dell’accampamento eretto alle porte della città e rimase a osservare. Tentacoli di fumo si levavano dai fuochi della notte ormai spenti mentre, poco alla volta, figure semiaddormentate emergevano dal labirinto di tende. Le risate dei bambini, l’abbaiare di un cane, il cozzare di pentole e piatti, erano suoni che lo riportarono indietro a un’altra vita, un tempo che gli sembrava fin troppo lontano.Frammenti di ricordi, uno specchio infranto che con fatica provava

a ricomporre.

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Una donna attraversò il suo campo visivo. Stringeva qualcosa avvolto in un fagotto. Una ciocca di capelli biondi sbucava dal cappuccio, sfiorandole la guancia, mentre camminava verso la boscaglia.Darius fece un passo indietro. Lei si sedette su un tronco caduto,

scoprì il capo e ammiccò per un istante al sole che le accarezzava il volto. Darius le era così vicino da poter sentire il battito del suo cuore. Il battito dei loro cuori. Una manina si fece largo tra i lembi di coperte che lei teneva tra le braccia, poi un vagito. La donna sorrise, sciolse i lacci della tunica e avvicinò il bambino al seno.Darius non riusciva a distogliere lo sguardo da quel volto. Era tutto

così reale, familiare. Riconobbe i lineamenti perfetti, gli occhi verde smeraldo che avevano dato un significato alla sua esistenza. La nebbia che stritolava i suoi ricordi si dissolse in un istante.«G… Gal… een» le sue labbra si mossero in un riflesso incontrollato,

ma dalla bocca non uscì altro che un sibilo metallico.Digrignò i denti e una fitta improvvisa gli squarciò il petto, così

violenta da farlo vacillare. Crollò in ginocchio e le dita artigliarono la corteccia di un albero, lasciando solchi nel tronco simili a ferite vive, pulsanti.Scosse il capo, annaspò alla ricerca d’aria. La vista era annebbiata

da lacrime caustiche che gli scavavano il viso. Sollevò il mento e colse una seconda figura femminile muoversi tra le tende, venire verso sua moglie. Le braccia protese in avanti, i palmi delle mani rivolti verso il basso. Alatea si sedette vicino Galeen, le sorrise nello sfiorare la fronte di Antioch con le dita, lo sguardo puntato in avanti.Darius si prese la fronte tra le mani, poi fissò le dita come se nelle

giunture metalliche vi fossero le risposte alle domande che lo tormentavano. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che credere d’averli persi. La sua famiglia sacrificata per onorare un giuramento. E invece a smarrirsi era stato proprio lui.Serrò i pugni.

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Guardò suo figlio, Antioch. Non sarebbe mai diventato il padre che avrebbe voluto essere. Posò lo sguardo su Galeen, un’ultima volta.Alatea girò il capo di scatto. Darius incrociò quegli occhi vuoti. Lo

stavano supplicando, in silenzio. Ma ormai aveva preso la sua decisione. Una decisione irrevocabile.La visiera calò sulla faccia in un sibilo, un turbine di scritte e numeri

scorse rapido sul visore.In un modo o nell’altro, Caio Settimo aveva vinto la guerra.Darius volse le spalle. Lasciò che le ombre del passato lo

inghiottissero. Il Titan era solo. Ma la famiglia dell’uomo che era stato era salva, solo questo

contava.

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EPILOGOIl ragazzo si aggiustò il corpetto della corazza appena lucidata e

fissò la propria immagine riflessa nello specchio. Sospirò. Gli tremavano le gambe, avvertiva un peso sullo stomaco e temeva d’essere sul punto di vomitare. Almeno, pensò, il collo non bruciava più dove ago e inchiostro poco prima avevano tracciato i contorni di un sole nero.Il sole di Andurian, marchiato a sangue sulla pelle.Un movimento inaspettato alle spalle lo fece sussultare. Ebbe la

sensazione che le ombre si fossero staccate dagli angoli bui della stanza, fluttuando sinuose fino a ricomporsi in una sagoma al suo fianco. Si morse il labbro.Conosceva Morrein da quando era nato. Quindici anni dovevano

essere abbastanza per abituarsi a lui, eppure non smetteva mai di coglierlo di sorpresa.«Sei ancora qui?» un sorriso compiaciuto increspò quel volto color

grafite. «Cosa aspetti, ragazzo? Vuoi che comincino senza di te?»«Ho paura, Mor.»L’espressione sul volto dell’amico mutò, si fece improvvisamente

seria. I loro occhi si incontrarono nello specchio.«È normale avere paura» affermò il daelish mentre gli sistemava il

mantello sulle spalle. «Alla tua età, ero un ragazzino stupido e pieno di me fino all’orlo, eppure ricordo il giorno della mia Ascesa come se fosse ieri… i denti mi battevano così forte da coprire il frastuono della folla…»«E che c’entra questo… mica sto diventando principe?»Il ragazzo incassò uno scappellotto e i due scoppiarono a ridere.«Sbrigati testone, presto sorgerà il sole.»Uscirono dall’alloggio e si immersero nel lungo corridoio

sotterraneo che dalla caserma portava fino alla Torre del Sole. Un gruppo di cadetti dalle facce tese attendeva disposto contro una

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parete del tunnel, sotto lo sguardo severo di un addestratore in uniforme da cerimonia.«Parlami ancora di mio padre, Mor» sussurrò il giovane, tenendo lo

sguardo fisso in avanti.Il daelish gli cinse le spalle con un braccio, un istante, poi si arrestò

e lasciò che lui lo superasse.«Lo farò, Antioch. Lo farò. Buona fortuna.»Gli stivali martellarono il lastricato, scandendo il passo delle

reclute. Gli anduriani che erano accorsi per celebrare l’ammissione dei propri figli all’antico corpo dei lancieri, ora gremivano la piazza scandendo frasi d’incoraggiamento. Una moltitudine di volti in festa, tra cui Antioch individuò quello di sua madre e di Alatea. Le due donne erano strette l’una all’altra a pochi passi da un’ampia scalinata che conduceva al centro della piazza. Sua madre lo fissava con occhi gonfi di lacrime. Antioch accennò un rapido sorriso quando le passò accanto, poi si volse.Un armiere fornì a ciascuna recluta una lancia istoriata e quando

Antioch serrò le dita intorno al metallo gelido, un brivido gli percorse la spina dorsale.L’alba infiammava il cielo. Il sole faceva capolino sopra i pinnacoli

della Torre, proiettando cunei di luce sulle armature dei giovani lancieri, sulla statua di Darius.Antioch strinse le palpebre.Darius, l’uomo che con il proprio sacrificio aveva piegato

l’oppressione di Caio Settimo.Un simbolo per Andurian e per il mondo intero.Suo padre.Il ragazzo osservò la figura imponente, l’espressione determinata

impressa sul volto di marmo, le piastre della corazza scolpite nel tempo, e per un attimo ebbe la sensazione che la scultura stesse per animarsi e scendere dal piedistallo. Quanto avrebbe voluto che lui fosse realmente lì, al suo fianco. Si domandò se sarebbe mai stato alla sua altezza, se un giorno sarebbe riuscito a renderlo fiero di lui.

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«Cadetti! In posizione!»Il ruggito di un ufficiale lo strappò ai suoi pensieri. Le reclute si

disposero in riga, schiena dritta e mento rivolto verso l’alto.La folla tacque, il tempo si cristallizzò, e nell’aria si levò un’unica

voce.Io sono il sole che protegge i deboli dall’oscurità della notte.Antioch alzò il capo, fissando lo sguardo nel sole nascente.Una lacrima gli rigò il volto.Io sono la lancia di Andurian.

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RINGRAZIAMENTiIl percorso che ha portato alla pubblicazione di questo romanzo è

stato intenso e ricco di emozioni. Lungo la strada ho imparato a superare i miei standard, a capire che nessun sogno è irragiungibile, e questo soprattutto grazie alle persone che sono rimaste al mio fianco anche quando la strada si faceva ripida e dannatamente tortuosa.Un ringraziamento va al mio editore, Gianni La Corte, per aver

ascoltato quello che avevo da dire e per avermi insegnato a ottenere sempre il massimo dalla mia scrittura.Un grazie megagalattico al mio editor e amico, Fabio Cicolani. Ogni

autore dovrebbe avere un Cicolani: anche se a volte nel leggere i suoi commenti al testo ti viene la voglia di strangolarlo, è stato un vero sensei.Se Zuckenberg ora è miliardario, c’è un motivo valido: i social

networks funzionano. L’amore per i libri mi ha permesso di entrare in contatto con la rete di scrittori e semplici appassionati di letteratura fantastica con cui ho potuto confrontarmi e scambiare idee. Una legione di persone che giorno per giorno mi onora con la sua amicizia: Maurizio Vicedomini, Anna Da Riz, Patrizia Rossi, Paolo Spinosa, Vito Introna, Mauro Fantini, Alfonso Zarbo, Giulia Marengo, Angela Gagliano, Anna Giraldo, Andrea Storti, Fabrizio Corselli, Alessandro Fusco, Aurelio Di Caprio, Fabio Porfidia, Ignazio Piacenti.Tutto il mio affetto va alle mie amiche, Denise Autero e Stefania

Peduto, e ai Bellizzi Boys (Michele, Alessandra, Eraldo, Gianluca, Miky e Mariagrazia, Ortensio, Michelle, Luciano, Luigi, Carms, Marianna, il Buonanno), per essere stati i miei primi e veri fans.Ringrazio i mitici Gino e Marco Pesca per avermi incluso, quando

avevo dieci anni, in quello che sarebbe diventato il nostro circolo segreto di lettori fantasy. Sono passati ventidue anni da quel giorno ma non abbiamo ancora mollato.

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Ultimi ma non meno importanti, mio fratello Luca e i miei genitori, per non aver mai dubitato della mia salute mentale quando mi rintanavo per ore nella stanza a scrivere, e ancora una volta Rosaria, per non aver mai smesso di incoraggiarmi in quello che facevo.Ah, dimenticavo: Terry Brooks, George R. R. Martin, Robert A.

Heinlein, Richard Matheson, Gene Wolfe, Joe Abercrombie, Carlos Ruiz Zafòn e tanti, tanti altri… perché i vostri romanzi non mi hanno mai abbandonato, regalandomi emozioni che mi porterò dentro per sempre. Il debito che ho nei vostri confronti è infinito.

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ANTONIO LANZETTAè un vero talento della scrittura.Nato a Salerno e già vincitore del “Premio Cittadella” con il

suo primo romanzo “Ulthemar – La forgia della vita”, con questa nuova opera si conferma autore capace di tenere incollati i propri lettori dalla prima all’ultima pagina grazie ad una scrittura testosteronica e adrenalinica che non potrà non entusiasmare i suoi lettori e i fan di autori come George RR Martin o Terry Brooks.www.antoniolanzetta.com

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IndiceCopertinaPrologoCapitolo ICapitolo IICapitolo IIICapitolo IVCapitolo VCapitolo VICapitolo VIICapitolo VIIICapitolo IXCapitolo XCapitolo XICapitolo XIICapitolo XIIICapitolo XIVCapitolo XVCapitolo XVICapitolo XVIICapitolo XVIIICapitolo XIXCapitolo XXCapitolo XXICapitolo XXIICapitolo XXIIICapitolo XXIVCapitolo XXVEPILOGORingraziamentiAutore