Il guerriero illuminato

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Lo strano caso del guerriero illuminato La città delle frottole 1

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Storia e leggenda di Droctulft (o Drocton, Droctone, Drottone Dotulfo, Droctulfo etc...), il longobardo immaginato da Borges che, nel VI secolo, abbandonò i germani e morì per difendere Ravenna.

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Lo strano caso del guerriero illuminato La città delle frottole

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Droctulft (o, alla greca, Drocton) è stato un generale

bizantino di origine sveva. Crebbe presso i Longobardi

negli anni della Guerra Gotica e, poiché era "forma

idoneus", si era meritato la dignità di duca1, ma poi, a

detta di Paolo Diacono, aveva scelto di raggiungere

l'esercito bizantino per vendicarsi della sua prigionia2

Più probabilmente Droctulft fu uno dei Longobardi che

avevano seguito a Ravenna Elmichi e Rosmunda, gli

assassini di Alboino, in fuga davanti alla reazione dei

guerrieri pavesi comandati da Clefi. È comunque in questi

anni che avvenne la defezione e che Droctulft si rintanò a

Brixellum. L'epitaffio racconta che Droctulft si rifugiò a

Ravenna abbandonando i suoi "cari genitori", indizio, forse,

della sua giovane età; ma è difficile credere che

giovanissimo nel 572, nel 575-576 fosse già a capo di un

contingente bizantino.

Droctulft, lasciati i Longobardi, trovò accoglienza a

Ravenna, città che, da allora, egli considerò come la sua

patria3. La sua fu una tipica vita di un guerriero federato

dell'Impero; egli era di aspetto terribile, con una lunga

barba che gli scendeva sul petto robusto; egli non fu solo

un formidabile guerriero, ma anche un "distruttore" nemico

della sua stessa gente. Per conto dell’Imperatore, Droctulft

riconquistò Brescello, che era stata occupata dai

Longobardi e che rappresentò un’importante testa di ponte

bizantina sulla riva destra del Po: fu il suo primo successo4,

ma ce ne furono altri. Negli anni successivi, alla guida del

presidio imperiale di Brescello continuò a difendser

Ravenna: dopo aver apprestato una flottiglia di piccole

barche, ridiscese il corso del Padoreno (un ramo del delta

del Po oggi scomparso) fino ad investire e a conquistare

Classe, allora tenuta dal Longobardo Faroaldo. Erano gli

anni tra il 575 e il 5765., Alla fine del Periodo dei duchi,

quando i Longobardi elessero un nuovo re, resistette a

lungo all’assedio postogli dai soldati di Autari. Il Re, alla

fine, costrinse la città a capitolare, tuttavia, prima che i

viveri finissero, Droctulft, con un’audace fuga riuscì a

mettere in salvo sé e le insegne imperiali. Brescello,

invece, rioccupata dai Longobardi, venne saccheggiata,

privata delle mura e, in seguito, rasa al suolo6.

La carriera di Droctulft non si limitò al suolo italiano e alla

lotta contro i Longobardi, infatti nel 586 lo troviamo nei

Balcani a fronteggiare gli Avari. Le armate bizantine non

riuscivano a fermare gli invasori, per cui, l'imperatore

1 P. Diacono, Historia Langobardorum, II,18 2 Ibidem effettuata da re Agilulfo, successore di Autari, che demolì completamente il centro rivierasco 3 epitaffio di Droctulft, v.12, in P. Diacono, HL, II,19. 4 epitaffio di Droctulft, v.11, ibid. 5 epitaffio di Droctulft, v.21, ibid 6 Già importante centro celtico (Brixellum) venne colonizzata da Roma e travolta dalla guerra fra Longobardi e Bizantini (VI secolo). Da rammentare alla fine del 584 l’occupazione del re Autari, e, nel 589, una terribile alluvione del Po seguita dalla massiccia distruzione

Maurizio decise di potenziare la sua macchina bellica.

Affidò il comando allo stratego Giovanni Mistacon,

affiancandogli Droctulft, che viene definito "longobardo di

stirpe, uomo prode e robustissimo per la guerra". I due

nuovi comandanti vinsero gli Avari ad Adrianopoli, grazie

ad uno stratagemma decisivo di Droctulft che, dopo aver

simulato la fuga, si gettò alla testa dei suoi uomini sugli

inseguitori, disperdendoli. Così gli Avari dovettero cedere il

campo e ritirarsi.

L'epitaffio di Droctulft ne ricorda la sepoltura in San Vitale

a Ravenna, ma suggerendo esplicitamente che egli fosse

morto lontano da quella città, e che vi tornò solo dopo

morto per avervi sepoltura, grazie alle cure di un certo

prete Giovanni, al quale Droctulft aveva confidato di voler

essere sepolto a Ravenna. L'epitaffio ricorda che egli

tornava spesso a San Vitale, dopo le sue vittorie; è

possibile che sia stato da Ravenna inviato a Roma e da lì in

Africa, a cercare una nuova collocazione presso l’esarca

Gennadio. E' probabile che sia morto combattendo al

servizio di Bisanzio

A pagina 278 del libro La poesia (Bari, 1942), Croce7,

riassumendo un testo latino dello storico Paolo Diacono8,

7 Benedetto Croce (Pescasseroli, 1866 – Napoli 1952) è stato un filosofo, un critico letterario, uno storico, uno scrittore e un politico italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano e "rifondatore" del Partito Liberale. Con Giovanni Gentile è considerato un importante protagonista della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo. 8 Paolo Diacono è stato un monaco, storico, poeta e scrittore longobardo di espressione latina. Era discendente di Leupichi, che affiancava re Alboino nel passaggio dei Longobardi dalla Pannonia all'Italia. Da Cividale del Friuli, dove nacque nel 720, raggiunse Pavia in giovane età per seguire gli studi in quella che allora era la capitale longobarda. Si formò alla corte del re Rachis, allievo di Flaviano, ed alla scuola del monastero di San Pietro in Ciel d'Oro, dove conseguì la carica di docente. Restò alla corte con i successivi re Astolfo e Desiderio. Divenne anche il precettore di Adelperga figlia di Desiderio che seguì quando ella si sposò con il duca Arechi II di Benevento. Nel 774 visse il crollo del regno longobardo e per evitare rischi di prigionia si fece monaco nel monastero di Montecassino. Dal 782 al 787 fu attivo presso la corte di Carlo Magno, presso la quale si recò per chiedere la liberazione dei suoi parenti prigionieri, in particolare il fratello Arichis, catturato e condotto in Francia nel 776 dopo la sua partecipazione ad una rivolta del Friuli contro i nuovi occupanti, e che alla fine fu liberato. Là acquistò una certa notorietà e prestigio come maestro di grammatica.

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narra la sorte e cita l'epitaffio9 di Droctulft; ne fui

singolarmente commosso, e in seguito compresi perché.

Droctulft fu un guerriero, longobardo che, durante l'assedio

di Ravenna, abbandonò i suoi e morì difendendo la città

che prima aveva attaccata. Gli abitanti di Ravenna gli

dettero, sepoltura in un tempio e composero, un epitaffio

nel quale espressero la loro gratitudine (contempsit caros,

dum nos amat ille, parentes10) e il curioso contrasto che si

avvertiva tra l'aspetto atroce di quel barbaro, e la sua

semplicità e bontà: Terribilis visu facies, sed mente benignus,

longaque robusto pectore barba fuit!11

Tale è la storia del destino di Droctulft, barbaro, che morì

difendendo Roma, o tale il frammento della sua storia che

poté salvare Paolo Diacono. Non so neppure in quale

periodo sia accaduto il fatto: se a metà del sesto secolo,

quando i longobardi devastarono le pianure italiane, o

nell'ottavo, prima della resa di Ravenna. Immaginiamo

(giacché questo non è un lavoro storico) che fosse il primo.

Immaginiamo, sub specie aeterntiatis12, Droctulft, non

l'individuo Droctulft, che indubbiamente fu unico e

insondabile13 (tutti gli individui lo sono), ma il tipo generico

che di lui e di molti altri come lui ha fatto la tradizione, che

è opera dell'oblio14 e della memoria. Attraverso un'oscura

geografia di selve e paludi, le guerre lo portarono in Italia,

dalle rive del Danubio1510 e dell'Elba1611; forse non sapeva

Nel 787 tornò a Montecassino, dove fra l'altro scrisse l'Historia Langobardorum, la sua opera più famosa in cui narra, fra mito e storia, le vicende del suo popolo, dalla partenza dalla Scandinavia all'arrivo in Italia. La scrittura del testo impegnò Paolo Diacono per due anni, dal 787 al 789. 9 Con il termine epitaffio si intende un'iscrizione funebre, il cui scopo è onorare e ricordare il defunto. Generalmente, pur non sempre, si tratta di uno o più versi di una poesia: molti poeti hanno infatti composto il proprio epitaffio. Per epitaffio si intendeva, in tutta probabilità, l'orazione funebre pubblica che durante i secoli della Grecia antica si teneva ad Atene in onore dei soldati caduti. Nell'antica Roma, si confuse con la laudatio funebris, pronunciata da un figlio o da un parente del morto. Per estensione, si sarebbe poi dato tale nome alla semplice iscrizione tombale. 10 Non amò i suoi cari, mentre lui ama noi come fossimo suoi parenti”. 11 “Fu di aspetto terribile ma ricco di intelligenza , aveva una lunga barba e un petto robusto”. 12 lett. “Sotto lo sguardo dell’eterna memoria”. L'espressione indica qualcosa di universalmente ed eternamente vero, senza alcun riferimento al contingente e al relativo. Possiamo tradurla con “in astratto”, ”come esempio” 13 Incomprensibile, misterioso, oscuro. 14 oblio = Perdita di ogni ricordo, dimenticanza. La memoria, scrive Borges non è tanto l’atto del ricordare, il frutto della selezione; ricordare è, in realtà, dimenticare i dettagli. Poiché non sempre i dettagli che si perdono sono inutili, la memoria è inevitabilmente una falsificazione della realtà 15 Il Danubio è un fiume dell'Europa centro-orientale. Con 2.902 km è il secondo corso d’acqua più lungo del continente (dopo il Volga), e il più lungo fiume navigabile dell'Unione Europea. Le sue fonti sono

che andava al Sud e che guerreggiava contro il nome

romano. Forse professava l'arianesimo1712, che sostiene

nella Foresta Nera in Germania. Dalle sorgenti scorre verso est il fiume corre lungo i confini di dieci paesi: Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia, Bulgaria, Romania, Moldavia, Ucraina e attraversa varie capitali dell'Europa centrale e orientale. Alla fine del suo corso si getta nel Mar Nero attraverso un ampio delta sul confine tra Romania e Ucraina. Il Danubio è stato per secoli una delle frontiere dell'Impero Romano. 16 L'Elba è uno dei più lunghi fiumi dell'Europa centrale (1091 km). Nasce nel nord della Repubblica Ceca, nella catena montuosa dei Monti Sudeti, a circa 1400 metri di altezza. Attraversa quindi la Germania, bagna le città di Dresda, Magdeburgo e Amburgo e sfocia nel Mare del Nord. La sua lunghezza totale è di 1091 km. Da due secoli un'importante rotta commerciale, l'Elba è stato collegato tramite un sistema di canali navigabili col Reno, il Weser e l'Oder. Il fiume stesso è navigabile con battelli commerciali fino all'interno del continente europeo, addirittura a Praga, mentre altri sistemi di canali artificiali lo collegano alle aree industriali della Germania e alla capitale Berlino. 17 L'arianesimo è il nome con cui è conosciuta una dottrina cristologica elaborata dal monaco e teologo cristiano Ario, condannata al primo concilio di Nicea. Sosteneva che la natura divina di Gesù fosse sostanzialmente inferiore a quella di Dio e che, pertanto, vi fu un tempo in cui il Verbo di Dio non esisteva e dunque che fosse stato creato in seguito. In tal senso contraddiceva l'idea della Trinità maturata attorno agli scritti di Giustino di Nablus. Ario non negava la Trinità ma subordinava il Figlio al Padre, negandone la consustanzialità che sarà poi formulata nel concilio di Nicea (325) nel noto credo niceno-costantinopolitano. Per Ario, quindi, Gesù era solo un uomo, non identificabile con Dio stesso. Sebbene Ario fosse stato scomunicato per eresia e la sua dottrina condannata, questa corrente religiosa resistette a lungo tanto da diventare religione ufficiale dell'impero romano sotto Costanzo II. Nel IV secolo, fu molto diffusa anche in Italia: ad esempio, in Romagna sono noti per aver combattuto l'eresia ariana, i vescovi San Mercuriale di Forlì, San Rufillo di Forlimpopoli, San Leo di Montefeltro e San Gaudenzio di Rimini. I germani cristianizzati furono inoltre i maggiori seguaci dell'arianesimo, fino al VII secolo. Costantino Nel 325 Costantino I indice il Concilio di Nicea che elabora un "simbolo", cioè una definizione dogmatica relativa alla fede in Dio nel quale compare il termine homooùsios (= consustanziale al Padre, letteralmente "della stessa sostanza") attribuito al Cristo e che costituisce, tuttora, la base dogmatica del Cristianesimo storico. Successivamente però lo stesso imperatore venne battezzato in punto di morte da un vescovo ariano, Eusebio di Nicomedia. Costanzo II L'arianesimo ebbe fortuna in certi momenti fra la corte imperiale e nell'ultima fase dell'Impero Romano. Furono ariani gli imperatori Costanzo II e Valente e il generale Stilicone. Teodosio Nel 380, sotto l'influsso di Ambrogio, venne emanato da Teodosio I e Graziano l'editto di Tessalonica che definiva il credo niceno come religione di stato. La condanna dell'Arianesimo venne ribadita nel 381 durante il primo concilio di Costantinopoli.

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che la gloria del Figlio è un riflesso della gloria del Padre,

ma è più verosimile immaginarlo devoto della Terra, di

Hertha, il cui simulacro18 velato andava di capanna in

capanna su un carro tirato da vacche, o degli dei della

guerra e del tuono, che erano rozze immagini di legno,

avvolte in stoffe e cariche di monete e cerchi di metallo.

Veniva dalle selve inestricabili del cinghiale e dell'uro19; era

bianco, coraggioso, innocente, crudele, leale al suo capo e

alla sua tribù non all'universo. Le guerre lo portano a

Ravenna e là vede qualcosa che non ha mai vista, o che

non ha vista pienamente. Vede il giorno e i cipressi e il

marmo. Vede un insieme che è molteplice senza disordine;

vede una città, un organismo fatto di statue, di templi, di

giardini, di case, di gradini, di vasi, di capitelli, di spazi

regolari e aperti. Nessuna di quelle opere, è vero, lo

impressiona per la sua bellezza; lo toccano come oggi si

toccherebbe un meccanismo complesso, il cui fine

ignoriamo, ma nel cui disegno si scorgesse un'intelligenza

immortale. Forse gli basta vedere un solo arco, con

un'incomprensibile iscrizione in eterne lettere romane.

Bruscamente, lo acceca e lo trasforma questa rivelazione:

la Città. Sa che in essa egli sarà un cane, un bambino, e

che non potrà mai capirla, ma sa anche ch'essa vale più

dei suoi dèi e della fede giurata e di tutte le paludi di

Germania. Droctulft abbandona i suoi e combatte per

Ravenna. Muore, e sulla sua tomba incidono parole che

non avrebbe mai comprese:

Contempsit caros, dum nos amat ille, parentes,

Medioevo Nei secoli successivi tuttavia venne progressivamente perdendo peso nell'ambito dell'Impero. Tuttavia, grazie alla predicazione condotta nel IV secolo fra i Goti, l'arianesimo conobbe una grande diffusione fra i popoli germanici, specialmente Goti, Vandali e Longobardi. Fu ariano il re ostrogoto Teodorico, mentre fu Teodolinda la regina che determinò la conversione dei Longobardi al cattolicesimo. 18 Un simulacro è una statua o un’immagine di una divinità o di un personaggio illustre. 19 L'uro è una specie di grande bovino selvatico ormai estinto, ma, in passato, molto diffuso in Europa. Corrispondeva al nostro bue, come il cinghiale corrisponde al maiale. Gli uri erano noti anche per il loro temperamento molto aggressivo e nelle culture antiche ucciderne uno era visto come un grande atto di coraggio. I bovini moderni sono divenuti molto più piccoli dei loro antenati selvatici: l'altezza al garrese di una vacca domestica di taglia media è di circa 150 cm, mentre l'uro raggiungeva mediamente i 175 cm di altezza. Esistevano tre sottospecie di uro: il Bos primigenius nomadicus, che viveva in India, il Bos primigenius mauretanicus del Nordafrica e, naturalmente, il Bos primigenius primigenius dell'Europa e del Medio Oriente. Solo la sottospecie europea è sopravvissuta fino a tempi recenti. L'uro possedeva anche alcuni aspetti che si riscontrano raramente nei bovini moderni, come le corna a forma di lira ricurve in avanti, una striscia pallida lungo la spina dorsale e un dimorfismo sessuale nei colori del mantello. I maschi erano neri con una striscia color grigio più chiaro o marroncina lungo la spina dorsale, mentre le femmine e i vitelli erano rossastri (questi colori si riscontrano tuttora in pochi bovini domestici, come i bovini di Jersey).

hanc patriam reputant esse, Ravenna, suam.20

Non fu un traditore (i traditori non sogliono ispirare epitaffi

pietosi), fu un illuminato, un convertito. Alcune generazioni

più tardi, i longobardi che avevano accusato il disertore21,

rocedettero come lui; si fecero italiani, lombardi, e forse

qualcuno del loro sangue? un Aldiger?22 generò i

progenitori dell'Alighieri... Molte congetture23 è dato

applicare all'atto di Droctulft; la mia è la più spiccia; se non

è vera come fatto, lo sarà come simbolo.

20 “Non amò i suoi cari, mentre lui ama noi come fossimo suoi parenti, considera come sua patria Ravenna”. 21 Infedele. 22 Alcune fonti sostengono che la radice "Ald" derivi dall'antico germanico-danese Athal (nobile) e di conseguenza i nomi originari: Aldiger e Hadalgher, andrebbero tradotti come "lancia nobile o nobile lanciere". Da ciò si può affermare che si tratta della "cognominizzazione" della professione del capostipite di una famiglia, o il capo di una tribù di barbari: ovverosia "un abile guerriero armato di lancia". 23 Giudizi fondati più su un'intuizione personale che su prove reali; sono ipotesi o supposizioni ritenute probabilmente vere, ma non dimostrate

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Riportato da Paolo Diacono in Historia Langobardorum (liber III, caput 19).

Huius sane Droctulft, de quo praemisimus, amminiculo saepe Ravennatium milites adversum Langobardos dimicarunt, extructaque classe, Langobardos, qui Classem urbem tenebant, hoc adiuvante pepulerunt. Cui, cum vitae explesset terminum, honorabile sepulchrum ante limina Beati Vitalis martyris tribuentes, tali eius laudes epitaphio extulerunt: Clauditur hoc tumulo, tantum sed corpore, Drocton; Nam meritis toto vivit in orbe suis. Cum Bardis fuit ipse quidem, nam gente Suavus; Omnibus et populis inde suavis erat. 5 Terribilis visu facies, sed mente benignus, Longaque robusto pectore barba fuit. Hic et amans semper Romana ac publica signa, Vastator genti adfuit ipse suae. Contempsit caros, dum nos amat ille, parentes, 10 Hanc patriam reputans esse, Ravenna, suam. Huius prima fuit Brexilli gloria capti; Quo residens cunctis hostibus horror erat. Quo Romana potens valuit post signa iubare, Vexillum primum Christus habere dedit. 15 Inde etiam, retinet dum Classem fraude Faroaldus, Vindicet ut Classem, classibus arma parat. Puppibus exiguis decertans amne Badrino, Bardorum innumeras vicit et ipse manus. Rursus et in terris Avarem superavit eois, 20 Conquirens dominis maxima lucra suis. Martyris auxilio Vitalis fultus, ad istos Pervenit victor saepe triumphos ovans; Cuius et in templis petiit sua membra iacere, Haec loca post mortem bustis habere iubat. 25 Ipse sacerdotem moriens petit ista Iohannem, His rediit terris cuius amore pio.

Con l'aiuto di questo Droctulft, del quale abbiamo già parlato in precedenza, spesso i soldati di Ravenna combatterono contro i Longobardi presso il torrente e - riallestita la flotta - sconfissero, grazie a lui, i Longobardi che occupavano la città di Classe Giunto al termine della vita, i Ravennati quando gli diedero onorato sepolcro davanti alla Basilica del Beato Martire Vitale, scrissero le sue lodi con questo epitaffio: In questa tomba è chiuso, ma solo nel corpo Droctulft; infatti, per i suoi meriti è ancora vivo nel il mondo. In verità fu con i Bardei, infatti, per stirpe era un Suebo, dalla qual cosa dal popolo tutto era reputato soave. D’aspetto terribile a vedersi, ma era buono nell'anima, fu di petto robusto e di lunga barba. Poiché amò sempre il nome di Roma, egli stesso fu sterminatore della propria stirpe, disprezzò i suoi cari parenti e ora ama noi, reputando che questa, Ravenna, fosse la sua patria. La sua prima impresa gloriosa fu la conquista di Brescello, dove, essendosi trincerato, era il terrore di tutti i nemici. Dove fu capace di salvare le insegne romane e di sostenere il primo vessillo di Cristo. Poi, mentre Faroaldo tiene fraudolentemente la città di Classe rinforza la flotta per riscattare Classe. Combattendo in prima fila con poche navi presso il fiume Padoreno, sconfisse le innumerevoli navi dei Bardei e una seconda volta superò gli Avari nelle loro terre, conquistando grandissime ricchezze per i suoi signori. Con l'aiuto di San Vitale tornò spesso vincitore meritando ovazioni trionfali. E nel tempio di San Vitale chiese che giacessero le sue spoglie, chiedendo che, dopo la morte abbia questi per sepolcro. Egli stesso, in punto di morte, chiese queste cose al sacerdote Giovanni, per il devoto affetto del quale, ritornò in queste terre.

Historia Langobardorum (liber III, caput 18).

18. His ita gestis, Authari rex Brexillum civitatem super Padi

marginem positam expugnare adgressus est. In qua Droctulft

dux a Langobardis confugerat, seque partibus imperatoris

tradens, sociatus militibus, Langobardorum exercitui fortiter

resistebat. Iste ex Suavorum, hoc est Alamannorum, gente

oriundus, inter Langobardos creverat et, quia erat forma

idoneus, ducatus honorem emeruerat; sed cum occasionem

ulciscendae suae captivitatis repperit, contra Langobardorum

18 Fatto ciò, il re Autari si apprestò ad espugnare la città di

Brescello , situata vicino al Po. In essa era riparato, fuggendo

dai Longobardi, il duca Droctulft il quale, passato sotto le

insegne dell'imperatore e raggiunto dai suoi soldati, opponeva

strenua resistenza all'esercito Longobardo.

Droctulft era di origine Sveva, cioè Alemanna, ma era

cresciuto fra i Longobardi tra i quali - per la sua figura

maestosa - aveva meritato l'onore di essere nominato duca.

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Proclo, prefetto di corti romane, ottimo soldato e fedelissimo seguì

l’estrema fortuna dell’invittissimo Folcari. Devoto ai voleri e alla

persona dell’imperatore, parteggiò per Droctulfo; ferito a Brescello,

nella fuga disordinata dei suoi, rifugiò nel castello di Sabbioneta

dove visse ancora parecchio tempo. Morì a 78 anni nel 591 e fu

sepolto a spese dell’ospite.

ilico arma surrexit. Adversus quem Langobardi gravia bella

gesserunt, tandemque eum cum militibus quos iuvabat

exuperantes, Ravennam cedere compulerunt. Brexillus capta

est, muri quoque eius solum ad usque destructi sunt. Post

haec Authari rex cum Smaracdo patricio, qui tunc Ravennae

preerat, usque in annum tertium pacem fecit.

Huius sane Droctulft.....

Ma quando ebbe occasione di vendicarsi della sua prigionia ,

improvvisamente prese le armi contro i Longobardi. Contro di

lui i Longobardi portarono pesanti attacchi, e grazie ad una

soverchiante superiorità di truppe lo costrinsero a fuggire a

Ravenna

Brescello fu presa e rasa al suolo; successivamente Autari

concluse un trattato di pace triennale con il patrizio

Smaragdo, che reggeva Ravenna.

Del sepolcro e dell'epitaffio di Droctone non rimangono tracce. Il nome DROCTVLFI BRIXELIQ[..] è però citato nella

cosiddetta Pietra di Proclo, una lastra tombale rinvenuta nel 1583, durante i lavori di demolizione della chiesa di S. Biagio a

Sabbioneta.

Il testo fu copiato e tradotto al momento del ritrovamento da don Cristoforo Spalenza da Ostiano, futuro prevosto di

Sabbioneta24.

Pubblicazione Bologna : Zanichelli, 1910, in "Atti e memorie della R. Deputazione di Storia patria per la Romagna", Serie III,

volume 27.

“ Questa iscrizione è data da Paolo Diacono (Hist. Langob.,II, 19). Da Paolo Diacono stesso sappiamo che l' iscrizione

apparteneva al sepolcro di Droctone (o Droctulfto, come appresso dirò) fatto costruire innanzi alla Chiesa del Beato Vitale (cioè

di S. Vitale). E di gran valore storico, ed appartiene per il contenuto alla fine del VI secolo, come sto per mostrare: Droctulfto

mori in Ravenna verso l'anno 586. In luogo dei versi 15-20 il Rossi ( = Libri rubei historiarumn Ravenntium libri decem, Venezia

1572 e 1690) ha invece

Inde etiara retinet dum Classem classibus, arma

Armis opposuit, moenia nostra diu,

Loiigo hic bardorum vires contrivii opesque

Ipsorum titulis chirus ad astra datis.

(Cf. Fabri: Le sacre memorie di Ravenna antica, pag. 365). — Questa iscrizione conferma il racconto di Theofilatto

Simocatta, Historiarum libri octo, II, 17,9 a cura di C. de Boor, Lipsia 1887, pp. 103 ss.), presso cui è conservato memoria del

nome de delle imprese dell’Ipostratego Drocton.

È una figura simpaticissima a mezzo il VI secolo quella di Droctone, che, innamorato ammiratore della gloria antica dei Romani,

defeziona dall'interesse della sua gente ed è ipostratego nell’esercito del basileus contro i Longobardi stessi, quando

contemporaneamente il re Childeberto dei Franchi tradiva la fiducia in lui riposta da Maurizio Tiberio (rimando il lettore al cit.

mio lavoro). Né si può spiegare quest'atto di eroismo, come ancora agli occhi nostri si mostra, se non si ha in considerazione

l'azione, innegabilmente benefica della Chiesa di Roma o, meglio, della religione cristiana, che col suo carattere d' universalità

fin dal III secolo era venuta insinuandosi sempre più nell'anima di tutto il mondo. (Cfr. a proposito dell’influenza della Chiesa

24 Antonio Racheli, Memorie Storiche di Sabbioneta, Libro 1, Bizzarri, Casalmaggiore, 1849.

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sulla coscienza politica del VI secolo il Grisar: Roma alla fine del Mondo antico, voi. I, parte II, pag. 648 segg.). Droctulfto infatti

dall' iscrizione in esame risulta profondamente compreso del sentimento religioso Romano. V frattanto C. Troya ; Cod. Dipi.

Long., tom. I: doc n. LXXIV, p. 230 segg. — Al v. 3 dell'

iscr. per Siaiyus è da intendersi Suevus. Anche in Dante

si trova Soave per Svevia:

Quest' è la luce della gran Costanza,

Che del secondo vento di Soave

Generò il terzo, e 1' ultima possanza.

(Farad. III, 119).”

Benedetto Croce, La poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura25

Tutto è iniziato da qui, dove Borges lesse per la prima volta di

Droctulft in cui a pagina 269 Croce scrive: “Mi piacerebbe andare

notando, per offrirne esempî, la poesia che alza il capo dove meno si

aspetterebbe. Era un tempo in San Vitale di Ravenna l’epitaffio

(serbatoci da Paolo Diacono) di un alemanno Droctulft, che aveva

abbandonato i longobardi per difendere contro di loro quella città.

L’epitaffio versificato conteneva un attestato di gratitudine per

quell’uomo, che aveva sacrificato l’affetto dei suoi cari alla sua nuova

patria (“contempsit caros, dum nos amat ille, parentes – hanc

patriam reputans esse, Ravenna Suam”). Ma, nel dettare questi

distici, l’ignoto autore è preso da una visione lirico-epica del

personaggio, e in pochi tratti lo scolpisce nella sua fisica possanza e

nella sua particolare maestà e umanità di barbaro:

Terribilis visu facies, sed mente benignus,

Longaque robusto pectore barba fuit!”

25 Grazie a www.vincenzoreda.it/la-storia-di-Droctulft-da-jl-borges-e-b-croce/

B. Croce “La Poesia” pagina dell’edizione economica del 1971

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LE ORIGINI DEI SUEBI

P.C.Tacito, La Germania, 38 e ss. Debbo ora parlare degli Svevi, che non costituiscono un unico popolo come i Catti o i Tencteri; occupano infatti la maggior parte della Germania, per di più distinti in tribù con nomi diversi, pur chiamandosi, nel loro complesso, Svevi. Una caratteristica di questa gente è piegare i capelli da un lato e stringerli in un nodo. Così gli Svevi si differenziano dagli altri Germani; così, fra gli Svevi, i liberi dagli schiavi. Un'usanza del genere si riscontra presso altri popoli - o per parentela cogli Svevi, oppure, come spesso accade, per imitazione - ma è rara e limitata alla giovinezza, mentre gli Svevi tirano in su, fino alla vecchiaia, i loro ispidi capelli e spesso li legano al sommo della testa. I capi li adornano anche. La loro attenzione a farsi belli è tutta qui, ma innocente; non si ornano infatti per amare o farsi amare, bensì per accrescere l'imponenza e incutere timore agli occhi del nemico, quando vanno alla guerra.

La maggior parte dei Suebi abitò le terre sulla riva destra del Reno fino agli inizi del V secolo, quando il grosso delle tribù si unì ai Vandali e agli Alani per invadere le Gallie Mentre i Vandali e gli Alani si scontravano con i Franchi alleati di Roma per il dominio sulla Gallia, i Suebi di re Ermerico si diressero a sud, attraversando i Pirenei e il paese dei Baschi, penetrarono in Spagna allora era fuori dal controllo imperiale. Dopo aver adottato un atteggiamento più pacifico, i conquistatori, non più di 30.000, ottennero da Roma lo status di foederaii, in cambio del giuramento di fedeltà all'imperatore Onorio (410). Nel 411, l'imperatore assegnò loro delle terre, tramite sorteggio; agli Svevi e ai Vandali Asdingi toccò la Galizia, ai Vandali la Betica e agli Alani Lusitania. Durante i regni di Carrarico e Teodemaro, in seguito all'influenza di san Martino, vescovo di Braga, dal 561, il popolo svevo si convertì al cattolicesimo. il Regno dei Suebi finì poi per essere assorbito da quello dei Visigoti e ridotto al rango di Ducato. Droctulft faceva parte delle tribù Suebe che erano rimaste in Germania (la regione della Svevia prende il nome proprio da loro) e che furono attratte nell’area di gravitazione dei Longobardi. I Suebi, insieme ai Bulgari e ai Sassoni, furono ingaggiati come truppe ausiliarie dai Longobardi di Alarico che attaccarono la penisola italica nel 569.

Le origini dei LONGOBARDI

Longobardi (o Langobardi), popolazione germanica che appare nelle fonti scritte nel V secolo, quando si stanziò nel Meclemburgo Secondo l’antico mito delle origini, i longobardi originari dalla Scandinavia, sarebbero partiti verso il continente europeo a causa di una grave carestia. Nel 488 giunsero nel Rugiland (Bassa Austria); guidati dal re Vacone, passarono il Danubio (527-28) penetrando in Ungheria. nella qualità di federati di Costantinopoli i Longobardi prima si scontrarono con i Gepidi, poi furono coinvolti nella guerra greco-gotica come alleati dei Bizantini; lo scoppio aperto delle ostilità contro i Gepidi vide in seguito i Longobardi vittoriosi ma a prezzo di una pericolosa alleanza con gli Avari, che divennero la forza dominante in area balcanica. Per lasciare loro spazio, i Longobardi furono costretti a dirigersi più a ovest e, guidati dal re Alboino, nel 569 penetrarono in Italia; al momento dell’invasione i Longobardi. mantennero quasi intatta la loro antica cultura tribale, l’unico elemento di chiara influenza romana fu la loro conversione al cristianesimo ariano. Alboino occupò parte del Veneto e puntò su Milano e Pavia; il fatto militarmente più rilevante fu il lunghissimo assedio di Pavia, l’antica capitale del regno gotico, che si arrese dopo tre anni. L’assassinio di Alboino (certo per manovre bizantine), poco dopo la presa di Pavia (572), gettò i Longobardi nel caos e dopo l’assassinio del loro secondo re Clefi, una parte cadde sotto l’influenza bizantina; tra costoro, probabilmete, c’era anche Droctulft; d’altro canto la struttura anarchica dei L. permise a molti duchi e alle loro fare non solo di rimanere indipendenti, ma anche di continuare a estendere l’area da essi controllata. Durante la cosiddetta anarchia ducale (574-84), il paese fu percorso da bande di guerrieri che saccheggiavano e devastavano; tramontò così quello che restava in piedi dell’apparato statale e dell’assetto sociale e culturale tardo-antico, e con esso la classe dei senatori-proprietari di terre. Nel 584, di fronte alla concreta minaccia di un’invasione franca i L. si sottomisero al re Autari ma il caos politico cominciò a diradarsi solo con il suo successore, Agilulfo (590-616)

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« C'era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non c'erano furti, non c'erano rapine; oguno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore » HL, II Presso i Longobardi, il duca era colui che rivestiva il ruolo, politico e militare, di comandante di un insieme di "famiglie militari" (la fara), indipendentemente da un eventuale stanziamento territoriale. Il termine latino dux (ovvero condottiero, comandante, generale) fu adottato per designare questa figura politica e militare che non aveva un esatto equivalente nel mondo classico. Non è noto il termine proprio della lingua longobarda per indicare la figura del duca; anche le fonti storiografiche longobarde più antiche (l'anonima Origo gentis Langobardorum e la Historia Langobardorum di Paolo Diacono) sono state, infatti, redatte in latino. Durante le battaglie per la conquista dei territori italiani furono dunque istituite le cariche dei Duchi, che si stanziavano sul territorio prevalentemente nelle vecchie città fortificate romane. I relativi ducati erano strettamente connessi ai comandanti (duces, che guidano le farae, gruppi militari familari). I principali ducati che si formarono in seguito alle invasioni furono 35:

Costituito nel 569 da Alboino e affidato a Gisulfo I del Friuli; Fu il più influente e importante Ducato della Longobardia Maior e dell’intero regno Longobardo. L’ultimo duca Longobardo fu Rotgaudo, il Ducato di Friuli rimase potente fino al 776, in seguito alla caduta del regno Longobardo per via degli attacchi dei Franchi con a capo Carlo Magno venne riorganizzato e venne affidato a suo figlio.

Durante il Regno Longobardo rivestì un peso politico rilevante soltanto a tratti e grazie alla personalità di qualche singolo duca, stretto com’ era tra i vicini e ben più potenti ducati di Vicenza e Friuli.

Nei libri dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono è nominato un solo Duca di Ceneda che si era distinto nella battaglia persa contro gli Slavi, Orso fratello del Duca di Friuli.

Verona fu tra le prime città a cadere, nell’autunno del 568, sotto il dominio del Longobardi guidati da Alboino, che ne fece il suo quartier generale. Proprio a Verona Alboino venne ucciso, nel 572, dalla congiura ordita dalla moglie Rosmunda. La costituzione del ducato risale, con ogni probabilità, a quegli stessi anni, forse già nel 568.

Fu eretto per contrastare Padova, rivestendo un ruolo principalmente strategico che poi accrebbe con la caduta di Padova.

Trento fu probabilmente tra le prime città a cadere sotto il dominio dei longobardi guidati da Alboino, nel corso dell’ invasione del 568-569. La costruzione del ducato risale, con ogni probabilità, a quegli stessi anni, forse già nel tardo 568 (ma la penetrazione tra le montagne deve essere stata lenta) . Fu tra i più importanti ducati della Longobarda Maior anche in virtù della sua posizione strategica e ridosso dei valichi alpini. Alla sua massima estensione il ducato comprendeva l’ attuale Trentino (eccetto il Primiero e la Val di Fassa) e una parte del odierno Alto Adige (da Merano a Bolzano e fino a Bressanone). Diversi duchi di Trento giocarono un ruolo importante nella storia del regno longobardo; Siccano Ewin, durante il periodo dei Duchi, e l’ usurpatore Alachis.

L’occupazione di Brescia avvenne durante la prima fase dell’invasione longobarda dell’Italia settentrionale, tra il 568 e il 569; Brixia fu una delle città dove la presenza

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longobarda fu maggiore e che ricoprì un ruolo di primaria importanza nella storia del regno longobardo, esprimendo anche personalità come re Rotari e re Desiderio.

Con l’ invasione del 568 guidata da Alboino anche Bergamo cadde sotto il dominio Longobardo, assumendo un’ importanza notevole per la sua posizione geopolitica. Bergamo ,infatti, costituiva il crocevia tra le strade militari che congiungevano il Friuli alla parte occidentale della pianura padana e a Pavia, capitale del regno. Dopo l’ uccisione di Alboino e di quella di Clefi, suo successore, il regno cadde in quella che fu definita l’ anarchia longobarda (periodo dei Duchi), della durata di dieci anni, in cui governarono i duchi, a Bergamo governò Wallari, che fu dunque il primo duca di Bergamo e del suo territorio nel primo tumultuoso periodo della conquista longobarda non ancora consolidata.

Pavia divenne longobarda nel 572 allorché Alboino ne piegò la resistenza tra violenza e devastazione, ma non venne immediatamente eretta a capitale: inizialmente gli era stata preferita Verona. Da quando, però, nel medesimo anno, l’uccisione di Alboino fece riunire tutti i 35 duchi longobardi proprio a Pavia per l’elezione di Clefi a nuovo re la città assunse un ruolo di preminenza che non avrebbe più abbandonato.. È verosimile supporre che il Ducato di Pavia abbia origine propria nel 572 ed abbia avuto come primo duca Zabano, che aveva partecipato all’ invasione d’Italia con Alboino. Il territorio del Ducato di Pavia comprendeva il Pavese e la capitale Pavia, contemporaneamente capitale del Regno Longobardo fino al 774, quando fu conquistata dai Franchi dopo un assedio durato 9 mesi.

Non è nota la data di fondazione del ducato, il cui territorio fu conquistato dai longobardi già al tempo di Alborino; il nome di un solo duca ci è stato tramandato: Mimulfo, che fu duca dell’ isola di San Giulio dal 575 circa. Il duca Mimulfo, ribellatosi al re Agilulfo fu da questi fatto decapitare nel 591.

Il primo duca di Torino a essere ricordato è Agilufo, che nel 591 divenne re dei longobardi grazie al matrimonio con Teodolinda, vedova del re Autari. Come duca, Agilufo aveva adattato a proprio palazzo gli edifici esistenti nella attuale piazza 4 marzo. Per volere di Teodolinda, san Giovanni Battista venne proclamato patrono di torino.

Asti apparteneva ai domini longobardi “liguri”, in particolare alla regione della Neustria( ovvero alla parte occidentale della Langobardia maior). Il primo duca di Asti a essere ricordato è Gundoalo, fratello di Teodolinda. La nomina di Gundoaldo avvenne contestualmente al matrimonio di Teodolinda con Autari nel 589; i loro due figli era cattolici quindi alcuni suppongono che il nuovo duca diffuse la fede cattolica in Piemonte. Gundoaldo costruì vari monasteri e mori tra il 612 e il 615 colpito da

una freccia, perché era contro la rivolta di alcuni duchi longobardi

La sua esistenza fu comprovata dai documenti contenuti nella cattedrale di Piacenza e si fa ancora riferimento alle conquiste di Agilulfo.

Non molto si sa del Ducato di Reggio a parte che fu istituito secondo le regole Longobarde e assegnato il suo Duca in seguito alla conquista del territorio da re Agilulfo. Apparteneva a questo territorio la città di Brescello, sulla quale governava Droctulft negli anni del “Periodo dei Duchi” La città, a lungo contesa tra i re dei Longobardi e l’esarca di Ravenna subì una prima devastazione nel 585, allorché il re longobardo Autari assediò e costrinse alla fuga Droctulft; la definitiva distruzione si ebbe nel 603, per mano dei bizantini in ritirata di fronte all'incalzare del re Agilulfo. L'opera devastatrice fu completata dalle alluvioni del Po, rimasto senza opere di contenimento. Decadde la città e con essa anche la sede vescovile, traslata per necessità a Parma.

Fu uno degli ultimi ducati istituiti durante la guerra con i Longobardi, nasce negli anni ottante del sesto secolo d.C in seguito all’incursione di re Agilulfo che condusse molti Longobardi alla conquista di nuovi territori come appunto Parma.

Fu istituito da Liutprando nel 728 circa durante l’espansione longobarda in Emilia-Romagna ai danni dell’Esarcato d’Italia, il primo duca fu Orso I che ricevette molti doni da re Agilulfo.

La capitale del ducato era Ivrea stessa, il territorio comprendeva le diocesi di Ivrea e Vercelli

Inizialmente ducato di Lucca, fu un ducato Longobardo dell’ Italia centrale, che comprendeva gran parte dell’ odierna Toscana e della provincia di Viterbo. Dopo l’ occupazione dei territori appartenenti ai Bizantini, i Longobardi fondarono questo florido ducato che conteneva anche Firenze. Capitale del ducato era Lucca, dove risiedeva il duca, indicato nei documenti dux et iudex. il ducato è stato costituito nel 574 dopo l’occupazione Longobarda di Tuscia.

Insieme al Ducato di Benevento costituiva la Langobardia Minor. il ducato comprendeva inizialmente parti delle odierne regioni di Abruzzo, Lazio , Marche e Umbria. La penetrazione longobarda nell’ Italia centro-meridionale, tradizionalmente considerata coeva o immediatamente successiva alla conquista del settentrione condotta da Alboino nel 568-569. La conquista di Spoleto da parte di Faroaldo primo e la conseguente fondazione del ducato nei primi anni del periodo dei duchi.

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Il ducato di Benevento costituì l’ estrema propaggine meridionale del dominio longobardo in Italia ed insieme al ducato di Spoleto costituirono quella che venne chiamata Langobardia Minor. Benevento fu indipendente fin dal principio della fondazione del ducato. I suoi destini strettamente legati alla corona reale longobarda solo durante il regno di Grimoaldo e dei sovrani succeduti a Liutprando.

Il Regno longobardo o Regno dei Longobardi (Regnum Langobardorum in latino, Langbardland in antico germanico) fu l'entità statale costituita in Italia dai Longobardi tra il 568-569 (invasione dell'Italia) e il 774 (caduta del regno a opera dei Franchi di Carlo Magno), con capitale Pavia. Presso i Longobardi, così come presso tutti i popoli germanici, il veniva eletto dalle assemblee generali delle fare26 ed aveva la sua ragion d’essere in quanto capo militare (rex gentis langobardorum). L'effettivo controllo dei sovrani sulle due grandi aree che costituivano il regno, la Langobardia Maior nel centro-nord (a sua volta ripartita in un'area occidentale, o Neustria, e in una orientale, o Austria) e la Langobardia Minor nel centro-sud, non fu costante nel corso dei due secoli di durata del regno. Nella fase iniziale, quando l’insediamento longobardo appariva stabile e l’esigenza di un re era poco sentita, si ebbe un decennio di forte autonomia dei numerosi ducati che componevano il Regno; tuttavia si sviluppò con il tempo una sempre maggior autorità del sovrano, anche se le pulsioni autonomiste dei duchi non furono mai del tutto imbrigliate. RE D'ITALIA LONGOBARDI 1. Alboino 568 - 573 2. Celphi (Clefi) 573 - 575 3. Autharis (Autari) 584 - 590 4. Theodelinda (Teodolinda) 590 - 591 5. Agilulfo 591 - 615 6. Adaloaldo 615 – 625 7. Arioaldo 625 - 636 8. Rotharis (Rotari) 636 – 652 9. Ariberto I° 652 - 661 10. Grimoaldo 662 – 671 11. Garibaldo 671 - 674 12. Bertharito 674 – 688 13. Cuniberto 688 - 700 14. Ariberto II° 701 - 712 15. Liutprando 712 - 744 16. Rachis del Friuli 744 - 749

26 La fara era l'unità fondamentale dell'organizzazione sociale e militare dei Longobardi. Essa era costituita dall'aggregazione di un gruppo omogeneo e compatto di famiglie (originate dallo stesso clan gentilizio) ed era in grado di organizzarsi in contingente con funzioni militari di esplorazione, di attacco e di occupazione di territori durante le grandi migrazioni che condussero il popolo longobardo dall'area del Baltico, alla Pannonia, fino in Italia.

17. Aistulf (Astolfo) 749 - 756 18. Desiderius (Desiderio) 756 - 774 1. ALBOINO, il re dei Longobardi che riesce nella impresa che tutti i Germani avevano sognato, farsi padrone dell'Italia, diviene un personaggio leggendario. Esistevano diversi canti epici longobardi sulle sue imprese; Paolo Diacono vi si ispira per numerosi episodi da lui narrati nella sua Historia Langobardorum. 2. CLEFI, il suo regno durò poco, appena 18 mesi: nel 574 fu ucciso e sgozzato con una spada da una guardia del corpo, assieme alla moglie Masane, secondo quanto riporta Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum (libro II, capitolo 31). L'aggressione al re fu guidata da alcuni duchi oppure dall'esarca di Ravenna. In seguito alla sua morte, i Longobardi rinunciarono all'elezione di un successore e si costituirono in 36 ducati separati, sostanzialmente indipendenti tra loro (Periodo dei Duchi). 3. AUTARI, La sua proclamazione a re, nell'autunno del 584, pose termine a quel periodo della storia dei Longobardi in Italia che si suole denominare "interregno ducale". 4. TEODOLINDA Figlia del duca dei Bavari, Teodolinda era una principessa di stirpe regale, discendente per parte materna della casata longobarda maggior portatrice del "carisma" regale, i Letingi. Per suggellare l'alleanza tra Bavari e Longobardi venne data in sposa ad Autari, re dei Longobardi, asceso al trono dopo una fase di assenza di potere regio. Morto Autari, dopo solo un anno di nozze, Teodolinda si risposò con Agilulfo, duca di Torino, da cui ebbe un figlio, Adaloaldo, futuro re dei Longobardi e il primo ad essere battezzato nella fede cattolica. Teodolinda, infatti, essendo cattolica, anche se aderente allo scisma dei Tre Capitoli, rappresentò il primo stabile collegamento tra i Longobardi ariani e la Chiesa di Roma, grazie ai suoi rapporti amichevoli con papa Gregorio Magno. Donna bella e intelligente, fu molto amata dal suo popolo, che poté godere durante il suo regno e quello di Agilulfo di anni prosperi e fruttuosi. La regina fu una grande mecenate e beneficiò soprattutto Monza, la città che lei scelse come capitale estiva del Regno Longobardo, con una Basilica, un palazzo reale e numerose reliquie. Sepolta con tutti gli onori nel “suo” Duomo, fu venerata dai monzesi come una santa e la sua figura amatissima divenne il fulcro di numerose leggende e storie popolari. Per approfondire vedi in “Storia di Milano” all’URL: http://www.storiadimilano.it/Personaggi/Ritratti%20femminili/longobarde.htm 5. AGILULFO, duca di Torino, sposò Teodolinda, vedova del re longobardo Autari, e salì al trono nel 591. Stipulata la pace con i Franchi, Unni e Avari, cercò di affermare l'autorità regia sui duchi ribelli e di estendere i confini del regno. 6. ADALOALDO, fu il primo sovrano longobardo a essere battezzato secondo il rito cattolico nel 603, un anno dopo la sua nascita, avvenuta nel Palazzo Reale di Monza (eretto a residenza estiva della coppia reale). 7. ARIOALDO, duca di Torino della stirpe dei Caupu, ariano, Arioaldo fu marito di Gundeperga, figlia di Teodolinda e del re Agilulfo.

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8. ROTARI, già duca di Brescia, ariano, apparteneva alla stirpe degli Arodingi, termine che potrebbe indicare la discendenza da una popolazione, gli Arudi. 9. ARIPERTO, fin dall'ascesa al trono, favorì il cattolicesimo rispetto alla corrente scismatica tricapitolina e all'arianesimo (Paolo Diacono scrive, forse eccedendo, che "eliminò l'eresia ariana"). 10. GRIMOALDO, esercitò i poteri sovrani con una pienezza fino ad allora mai raggiunta dai suoi predecessori. Rafforzò ulteriormente il controllo dell'Italia centro-meridionale. 11. GARIBALDO, figlio di Grimoaldo e di Teodota, ereditò il trono alla morte del padre nel 671, quando era ancora bambino; il suo regno durò poche settimane. 12. BERTHERITO, ? 13. CUNIPERTO, continuò la politica filocattolica della dinastia Bavarese, fondando alcuni monasteri . 14. ARIPERTO II, figlio del duca di Torino Ragimperto, nel 700 sostenne il padre nella sua ascesa al trono contro il figlio del defunto Cuniperto, Liutperto. 15. LIUTPRANDO, tra i più grandi sovrani longobardi, cattolico, fu "litterarum quidem ignarus" ("alquanto ignorante nelle lettere", secondo quanto dice Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum), ma intelligente, energico ed ambizioso. 16. RACHIS, nipote di re Liutprando, nel 737 fu nominato duca del Friuli. 17. ASTOLFO, divenuto re per conseguire l'obiettivo di portare sotto il suo dominio l'intera Italia, si dedicò fin da

principio alla riorganizzazione e al rafforzamento dell'esercito. 18. DESIDERIO, alla morte di Astolfo aspirò al trono longobardo in opposizione al fratello e predecessore del defunto, Rachis.

Testina di Teodolinda. Per quanto rozza è la prima scultura realizzata dai Longobardi. evidente il richiamo al modello della teta dell'imperatrice Teodora

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ii. i

Al centro di Ravenna troviamo il Mausoleo di Galla

Placidia. L'edificio, in origine collegato alla chiesa di Santa

Croce da un portico, era probabilmente un oratorio

dedicato ai santi Nazario e Celso. Tradizione vuole che

l'augusta Galla Placidia, reggente dell'Impero Romano

d'Occidente, avrebbe ideato e fatto edificare per sé, per il

marito Costanzo III e per il fratello Onorio questo sacello

funebre. Si dice che la storia di questo luogo incanta

sempre il visitatore che vi accede. L’edificio era stato eretto

da 150 anni quando Droctulft abitava a Ravenna e,

dunque, è stato sicuramente visitato dal Longobardo.

E’ a monumenti come questo che Borges pensa

quando fa convertire il ”suo” Droctulft. La parte più

spettacolare della struttura e la cupola. Essa domina lo

spazio interno ed è affiancata sui lati da quattro lunette ed

altre tre lunette si trovano alle estremità dei bracci, mentre

le volte a botte sono coperte da un tappeto stilizzato di

fiori a sfondo azzurro. Ovviamente interamente realizzato a

mosaico. Al centro domina la Croce in una volta di stelle su

sfondo azzurro, mentre alle quattro estremità si trovano i

simboli degli evangelisti. Le lunette della cupola presentano

coppie di santi e di apostoli. Ai lati finestre ricoperte di

alabastro formano giochi di luce che sono parte integrante

della rappresentazione religiosa.

Simboli dell'iconografia cristiana sono poi rappresentati

ovunque: le colombe che si abbeverano alla fonte e i cervi

tra la vegetazione, entrambi animali simbolo nelle sacre

scritture.

Nei pressi del mausoleo si trova la Basilica di San

Vitale. Si tratta di un bell'edificio a pianta ottagonale

realizzato nel VI secolo d.C da Giuliano Argentario su

ordine del vescovo Ecclesio. Questa basilica è una delle

testimonianze più importante dell’arte paleocristiana in

Italia. Sono notevoli le influenze orientali nelle decorazioni

mentre la cupola e i nicchioni risalgono al 1780. Al suo

interno possiamo ammirare i famosi pannelli musivi con

l'imperatore Giustiniano e l'imperatrice Teodora, che qui

sono raffigurati riccamente abbigliati di abiti e gioielli

lussuosissimi. Questi mosaici fanno la grande notorietà

della chiesa a Ravenna, che è iscritta nel patrimonio

UNESCO.

Da qualche parte sotto il pavimento della chiesa o

all’esterno riposano le ossa di Droctulft

Un’altra Basilica al centro di Ravenna è quella di San.

Francesco, ma oggi è una chiesa in stile romanico che poco

conserva dell’aspetto primigenio. Eretta poco dopo la metà

del V secolo dal Vescovo Neone, che la dedicò agli

Apostoli, fu completamente rifatta verso il X-IX secolo. La

Basilica di Sant’Apollinare in Classe (Ravenna),

invece, è una delle più celebri chiese bizantine d’Italia. Si

trova appena fuori dal centro storico dell’ultima capitale

dell’Impero Romano d’Occidente e conserva dei sublimi

mosaici che la rendono nota in tutto il mondo.

La geografia di Ravenna, molto modificata nei secoli è stata

oggetto di difficili studi fin dal XVIII secolo. Ai tempi di

Giustiniano la città romagnola era al centro di una laguna

circondata da tre Fosse la cui scomparsa è molto antica,

precedente, in ogni caso, all'anno Mille: la Fossa Augusta, о

Messanica, l'Ascone e il Padoreno. Scriveva il Conte Marco

Fantucci , all'inizio del XIX secolo: "II Padoreno era certamente

il ramo più inferiore (meridionale n.d.r.) del Po, che s' inoltrava

sotto Ravenna, e che costeggiava internamente le varie Isole,

che si andarono formando dalle alture di Comacchio [...] Così

pure il Padoreno fu una terza Fossa o ramo del Po, che

formatesi le nuove Isole, e nuova spiaggia colle alluvioni del Pò,

corse anch' essa paralella alle altre poco sotto la Città di

Ravenna, e formò dopo l'interramento del Porto di Augusto, gli

altri Porti [...]”1

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Il Porto di Classe fu unito, per mezzo d'un largo canale,

al ramo meridionale del Po, questo per risolvere il

problema dell’interramento del porto di classe.

E' questa la Fossa Augustea la quale, prima di

raggiungere Ravenna, sembra che si dividesse in due rami:

uno girava attorno alle mura, venendo in tal modo a

garantire una maggiore difesa; l'altro scorreva in mezzo

all'abitato, agevolando così i commerci. Il suo corso,

ricercato da geografi e topografi, è stato rintracciato e

seguito per circa dieci chilometri da S. Alberto fino alle

porte della città, che pare la attraversasse lungo l'attuale

Via di Roma, uscendo verso se per gettarsi entro il canale

del porto.

La fossa fu scavata da migliaia di schiavi in un arco di

tempo di cinque anni. Era larga non meno di 50 metri,

profonda almeno 4 metri. La Fossa Augustea serviva:

- per tenere libera l'imboccatura del porto determinando

una corrente d'acqua che disperdeva le sabbie.

- per provvedere al transito di ciò che abbisognava

all'antico Padoreno, che venne percorso dalle navi di

Droctulft; un fiume che nasceva alla confluenza del fiume

Reno con il ramo più meridionale del Po, la “Padusa”

La costruzione della Fossa e del Porto di Classe, nel I sec.,

fu l’inizio della fortuna di Ravenna, che acquisì maggiore

importanza dopo che Augusto volle costruire una strada

che unisse Ravenna con il porto stesso e che continuasse

fino a Rimini.

La nuova strada “Romea” si connetteva direttamente

all’antica Strada Flaminia e permetteva di giungere dal

porto e dal centro di Ravenna a Roma. Su questa strada

che scorreva tra paludi, pineta e mare sorse una terza

cittadina: Cesarea, di cui oggi è rimasto solo il nome di una

strada oltre Porta Nuova

Il tronco iniziale della Fossa Augusta è stato individuato

dagli archeologi nella frazione di Sant'Alberto, dove era

possibile collegare il Padoreno alla città di Ravenna e al

porto di Classe.

Si trattava, dunque, di un Canale artificiale scavato in

epoca romana per regolarizzare uno dei bracci minori del

Po e per ostacolare il graduale alluvionamento della foce

della laguna ravennate a N di Classe. Rimase in funzione

fino al Medioevo e in diversi tratti fino al 18° secolo.

L'antico fiume Padoreno, che venne percorso dalle navi

di Droctulft quando guidò la riconquista di Classe nasceva

alla confluenza del fiume Reno con il ramo più meridionale

del Po. Il fiume, che tendeva a uscire all'alveo e a

impaludarsi, cambiò spesso il corso27 e oggi non esiste più.

Ma non tutto di Droctulft è andato perduto a Ravenna.

Proprio quando pensavamo che del nostro longobardo non

restasse che un nome, scritto su una storia dimenticata,

siamo finiti nella Piazzetta degli Ariani e lì….

Casa del Longobardo o Muro di Drogdone. Nel Liber

Pontificalis dello storico ed ecclesiastico ravennate Andrea

Agnello (IX secolo), si legge che la casa di Drocdone è

situata nell’antico quartiere ariano di Ravenna non lontano

dalla chiesa di S. Teodoro, ovvero l’attuale chiesa dello

Spirito Santo, originariamente cattedrale ariana dell’Aghia

Anastasis (Santa Resurrezione) o Anastasis

gothorum (Resurrezioni dei goti, ovvero gli ostrogoti di re

Teoderico), e dunque vicino all’ex battistero ariano,

divenuto in seguito alla vittoria bizantina (540 d.C.) chiesa

cattolica col nome di S. Maria Ornata o in Cosmedin. Tale

abitazione, riferisce sempre Agnello, faceva parte dell’oggi

scomparso episcopio ariano, con tanto di cappella dedicata

a S. Apollinare costruita nella sua parte superiore,

specularmente al complesso cattolico tuttora esistente e

visitabile nella zona opposta della città e comprendente

cattedrale, battistero ed episcopio, al cui interno è la

meravigliosa cappella di S. Andrea.

27 L’intervento dell’uomo ha cancellato dalla geografia

questo fiume, che prima fu deviato da sud a ovest, poi, nel

1604, dopo che ne fu chiuso l'imbocco al Po e il Reno fu

incanalato in Adriatico.

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Lo strano caso del guerriero illuminato La città delle frottole

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Il sesto secolo fu un' epoca di profondi cambiamenti dopo un periodo di guerre, carestie e pesti. La guerra greca-gotica e l'invasione dei longobardi nel 568 portarono una profonda trasformazione nelle strutture economiche, sociali ed istituzionali. Possiamo vedere una netta differenza se confrontiamo l'area d'Italia longobardo-franco con quella romanico-bizantina. La diversità di tradizioni si vede soprattutto sul piano dell'organizzazione produttiva, dei rapporti di lavoro, delle strutture agrarie e delle organizzazioni del territorio. LONGOBARDIA Nei territori che subirono la dominazione longobarda prima e, in seguito, quella franca, le città registrarono un processo di decadenza, e persero la capacità di controllo e di organizzazione del territorio. Dopo la violenza dell'invasione longobarda si svilupparono centri amministrativi rurali dotati di una notevole autonomia e furono spezzati i distretti territoriali. Il popolo longobardo si era diffuso nelle città e nelle campagne. Qui aveva dato vita a villaggi (''vici'' ), centri insediativi più o meno estesi, ma dotati di una loro forte individualità. A differenza di quanto era avvenuto nel mondo romano, i longobardi avevano sviluppato un rapporto personale con la terra, che faceva sempre riferimento al suo proprietario, il quale risiedeva in un villaggio. Anche in età carolingia, i villaggi non persero la loro funzione e le loro caratteristiche; la grande proprietà fondiaria fu organizzata secondo il modello curtense. Il modello curtense rappresenta il modello più diffuso per l’organizzazione della terra; non solo per le grandi proprietà laiche ed ecclesiastiche, ma anche per le medie e le piccole proprietà contadine, che tendevano ad assumere una struttura a '' curtis'', caratterizzata da una suddivisione in due parti. Le ''curtis'' rappresentarono, con i villaggi, un punto di coagulo della popolazione rurale. ABITAZIONI DEI NOBILI E DELLE “GENTI MECCANICHE” Molte delle opere architettoniche dei Longobardi, tra cui case, templi e torri, sono andati perduti, gli unici esempi di edifici esistenti ancora oggi di questa civiltà sono: - il Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli rimasto quasi completamente intatto; - gli edifici religiosi e civili di Pavia e Monza ; - altre chiese ed edifici sacri sparsi in gran parte della nostra penisola (chiesa di San Salvatore a Brescia, chiesa di Santa Sofia a Benevento). In genere il popolo dei Longobardi era solito utilizzare, nell’ambito edile il legno; scarso lo sfruttamento di altri tipi di materiali. In un mondo ormai spopolato, non avevano bisogno di costrure nuove strutture, per cui, nel primo periodo della loro dominazione, i Longobardi attuarono soprattutto una pratica di “riuso” delle strutture preesistenti, soprattutto di quelle ubicate a ridosso delle mura o presso le porte cittadine, secondo una tendenza insediativa tipica dei Germani.

E’ per via di questo fenomeno se, limitatamente all’Alto Medioevo, praticamente non abbiamo, attestazioni di fornaci. Le case potevano essere fatte interamente di legno (sotto forma di pali o di tavolati variamente connessi), oppure, quest’ultimo poteva comporre solo lo scheletro dell’abitazione; il resto di essa era fatta di argilla unita a ciottoli o pietre molto piccole. Anche la pietra usata a secco, puramente lavorata, poteva trovare un suo impiego, soprattutto nelle aree appenniniche. Il tetto era costituito da materiali vegetali come, ad esempio, la paglia o le “scandolae”, tavole di legno. Queste tecniche di ”carpenteria” dovevano essere conosciute, perché gli stessi cittadini dovevano costruire la propria casa; questa poteva essere addirittura smontata e rimontata. Le case dei Longobardi, inoltre erano molto anguste, infatti all’interno di esse c’era una sola stanza scarsamente illuminata. Si trattava per lo più di un unico locale, all’interno del quale vi entrava poca luce: solo dalla porta d’ingresso e dal caminetto interno che doveva essere posto a livello del suolo e il fumo doveva trovare un punto di sfogo che era l’apertura del tetto.

Il re e i suoi funzionari, a differenza delle classi meno agiate, invece, risiedevano negli edifici di età imperiale; i sovrani longobardi, ad esempio, occuparono i “palatia” eretti da Teodorico a Verona e a Pavia. Gli ambienti principali dei palazzi dovevano essere: la sala, il luogo dove il sovrano espletava le sue funzioni pubbliche e dove si svolgeva la vita di corte, e la laubia dove il re esercitava la giustizia. LE CITTÀ Nei secoli dell’alto Medioevo, in “Longobardia”, la campagna influenzò molto la città, anche dal punto di vista materiale e fisico. I centri urbani acquisirono spesso un aspetto marcatamente rurale,contraendosi in superficie e aprendosi, al loro interno, ad una massiccia penetrazione

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di campi, orti, giardini, vigne, frutteti e spazi incolti. Le stesse case cittadine, ad eccezione dei “palatia”, avevano una struttura organizzativa assai simile a quella delle dimore rurali. Nuclei abitativi caratterizzati da cortili, orti e altre piccole unità culturali, differenti dai giardini prediletti nella città classica. Nelle aree urbane infatti era conosciuto il termine “sedimen” e “casalivo”, usati per indicare il complesso della struttura insediativa. Le misure erano varie, ma tendenzialmente oscillanti tra valori di gran lunga inferiori ai 1000 m quadrati. Per le abitazioni dei poveri si usavano materiali meno costosi e più fragili; in questo modo venivano costruite case poco robuste che si contrapponevano alle case per i ricchi e ai luoghi di culto. Con il tempo, l’organizzazione delle case è cambiata e si è visto un notevole cambiamento nella struttura verticale delle case e dalla presenza di complesse e articolate strutture. Troviamo case dove all’interno ci sono più stanze nelle quali si svolgono diverse cose: magazzino,stanza da letto, bagno … TERMINI USATI PER “CHIAMARE” L’ABITAZIONE LONGOBARDA.

Casa : era l’abitazione vera e propria.

Domus: erano gli edifici di maggior pregio come le chiese.

Solarium: una casa di abitazione che si sviluppava non solo orizzontalmente, ma anche e soprattutto verticalmente, in altezza.

Sala: edificio ad uso abitativo sviluppato orizzontalmente, un pianoterra.

Edificium : abitazione in senso stretto e per i rustici e i servizi ad essi connessi.

Fabbrica o tectum : strutture ricoperte da un tetto, o comunque protette.

Caminata : ambiente con focolare

Fondamentum: il terreno sottostante una costruzione.

La casa di abitazione, in città come in campagna, comprendeva come nucleo abitativo funzionale alcuni elementi strutturali che erano indicati generalmente con i termini “edificium, fabbrica, tectum” o, più raramente, con termini ben precisi, che ci qualificano la destinazione di ognuno di essi. ROMANIA In area romanica prese corpo la pieve come elemento di organizzazione. La divisione in ”fundi” e “ massae” era ormai riferita alla distribuzione della proprietà sul territorio più che alla realtà organizzativa agraria. In vaste zone dell’Italia centrale nel periodo longobardo, si assistette ad un processo di ruralizzazione. Zone inedificate, spazi verdi, campi, orti, cortili, edifici monumentali antichi trasformati in abitazioni e non più destinati alla loro funzione originaria, case a struttura chiusa, cellule edilizie costituite da più edifici raggruppati in un’area cortiliva comune, si alternavano dando vita ad una realtà articolata e variata sul piano insediativo. I materiali da costruzioni che venivano utilizzati per ricoprire i tetti, c’erano assicelle lignee, tegole ed embrici. L’elemento caratterizzante dell’Italia Centrale è il processo di incastellamento, spesso proprio di nuovo impianto, che comportò una concentrazione dell’insediamento, all’interno di centri fortificati appositamente strutturati, ma anche di abitanti accentrati. (esempi: Montecassino e Subiaco). La tipologia costruttiva delle abitazioni era una struttura sviluppata a pianterreno, più che non verso l’alto: la “domus terrania scandolicia”. I “solaria”, cioè le costruzioni a un piano o a più piani, prevarranno più avanti. Il materiale da costruzione predominante, oltre al legno, era la pietra con murature sia a secco che con leganti. Scarso invece, era l’impiego di materiale laterizio, che veniva impiegato, qualche volta, per ricoprire il tetto. Le abitazioni contadine, costruite su fondi gestiti dai coloni, erano fatte con il legno. Infatti, nell’alto Medioevo, l’industria laterizia decadde.

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Una distanza abissale separava il mondo dei <<romani>> da quello dei <<barbari>>; i valori, le ideologie, le realtà produttive dell’uno da quelle dell’altro. La cultura romana aveva creato il proprio spazio ideale in una campagna organizzata intorno alla città, detta ager. L’economia del bosco e della palude erano molto praticate, ma l’agricoltura e arboricoltura erano il perno dell’economia e della cultura dei greci e dei romani, che avevano nella triade grano, vite e ulivo un simbolo della propria identità. Accanto e quei tre elementi svolgevano un ruolo importante anche l’orticoltura e la pastorizia ovina; la pesca assumeva qualche importanza solo nelle regioni costiere. La loro “dieta” si potrebbe dire che era un sistema di alimentazione vegetale, basato sulle farine e sul pane, sul vino, sull’olio, sulle verdure; tutto questo era integrato da un po’ di carne di porco e, sopratutto, dal formaggio (pecore e capre utilizzate per latte e lana). I barbari avevano modi di produzione e valori culturali del tutto diversi. La caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l’allevamento brado dei boschi erano attività centrali e caratterizzanti del loro sistema di vita. La carne era il valore alimentare di primo grado. Il vino non lo bevevano ma il latte di giumenta e i liquidi acidi; o il sidro; o la birra. Non usavano l’olio per ungere e cuocere ma il burro e il lardo. Però anche loro consumavano cereali, pappe d’avena o focacce d’orzo.

Cesare sche i germani non praticavano il lavoro dei campi e la maggior parte del loro vitto consisteva in latte, formaggio e carne. Agli inizi del II secolo, Tacito informa nei suoi scritti che essi comprano anche del vino, ma la loro bevanda abituale è <<un liquido composto di orzo e frumento, affatturato a mo’ di vino>>: la birra, che si nutrono semplicemente con frutti selvatici, con cacciagione appena uccisa, con latte cagliato. Il modello culturale <<barbarico>> compare con Massimo il Trace, il primo imperatore-soldato, nato da genitori barbari. Scrive l’Historia augusta che bevesse fino a un’anfora di vino al giorno; e che arrivasse a mangiare quaranta libre di carne, o addirittura sessanta. Pare anche che non abbia mai assaggiato ortaggi.

I PASTI I popoli germanici consumavano due pasti al giorno. Il primo era il principale e si chiamava dagverdhr; si consumava alle nove del mattino (daeghmar) dopo aver concluso i lavori alla fattoria, come il pascolo degli animali. Il secondo era il nàttverdhr, che veniva consumato finiti i lavori della giornata verso nàttmàl (le nove di sera). Tra i cibi “tuttofare” c’era una specie di minestra densa che si chiamava grautr, preparata con cereali che potrebbe

essere riconducibile al porridge inglese e al grot scandinavo. La grautr veniva accompagnata da pane d’orzo macinato in casa (che in realtà erano gallette). Su questo pane si poteva spalmare il burro (come fanno oggi Belgio), il quale veniva salato per la conservazione ed anche tenuto dentro a dei vasi che rendevano il trasporto via mare più facile. A seconda della vicinanza dal mare, il piatto “forte” era costituito dal pesce o dalla carne, entrambi erano, la maggior parte delle volte, secchi invece che freschi. La carne di norma veniva prima battuta per poi essere bollita, come ancora si fa in Europa centrale. Molti erano i prodotti derivati dal latte. I principali erano lo skyr, latte del quale i vichinghi erano ghiotti, oppure il syra, un siero che costutuiva una bevanda abituale. L’ ostr, formaggio di capra. La frutta non era totalmente assente dall’alimentazione, anche se la scelta non era vasta. Dalle nostre fonti emerge solo il nome delle mele, delle noci e nocciole, ma specialmente ogni specie di bacche, con le quali venivano preparati dei vini o delle birre aromatizzate. LE BEVANDE Le nostri fonti danno molata importanza all’atto del bere. Il termine drykkja o drekka equivalrebbe al banchetto. Il bere non riguardava solo la soddisfazione di un bisogno, ma si trattava di un gesto conviviale, il quale diveniva centrale durante feste, matrimoni e o funerali. Che cosa si beveva oltre acqua e latte?... Per prima cosa la birra (malto, orzo, luppolo fermentato arricchito con spezie). La birra veniva chiamata almeno in tre modi: ol, bjorr e mungàt. La produzione era una faccenda delicata, importante e accurata, la quale era affidata ad un “tecnico”, il quale appunto aveva il compito di produrre la bevanda in questione; (ognuno aveva il suo metodo, alcuni la facevano fermentare altri no). Nel nord la bevanda di eccellenza era di gran lunga l’idromele, a base di miele. Tutte le bevande si bevevano in un recipiente a corno, naturali o di metallo o di legno, molto spesso erano colorati e dipinti, oppure incisi per arricchire il “bicchiere”, venivano messe anche delle piastre di metallo poste su supporti ingegnosi. Si usavano anche coppe senza piede (come oggi in Bretagna), che erano impossibili da poggiare sul tavolo ancora piene. Solitamente si beveva con il proprio vicino. Talvolta si beveva anche da soli ma in corni più piccoli. Un vero eroe doveva reggere il più possibile questi alcolici fino a svuotare più e più bicchieri senza risparmiarsi. UTENSILI Alcuni utensili sono stati portati alla luce dagli alcheologi, alcuni dei quali erano molto pratici e originali per quel tempo. Si usavano piatti, scodelle, un coltello e un cucchiaio a testa (le forchette erano sconosciute ovunque!). Un po’ ovunque sono stati trovati caldai marmitte bollitori con mestoli dal manico lungo per mescolare liquidi e servirli.

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<< Una caratteristica di questa gente è piegare i capelli da un lato e stringerli in un nodo. Così gli Svevi si differenziano dagli altri Germani; così, fra gli Svevi, i liberi dagli schiavi. Un'usanza del genere si riscontra presso altri popoli - o per parentela cogli Svevi, oppure, come spesso accade, per imitazione - ma è rara e limitata alla

giovinezza, mentre gli Svevi tirano in su, fino alla vecchiaia, i loro ispidi capelli e spesso li legano al sommo della testa. I capi li adornano anche. La loro attenzione a farsi belli è tutta qui, ma innocente; non si ornano infatti per amare o farsi amare, bensì per accrescere l'imponenza e incutere timore agli occhi del nemico, quando vanno alla guerra.» P.C.Tacito, La Germania, 38

COSTUMI:

Nell’Alto Medio Evo si aveva ancora come modello la cultura e la moda di Roma, che i longobardi potevano ammirare dai tantissimi resti di tombe e di edifici che presentavano figure maschili e femminili in larghissime tuniche. Per tradizione, dunque, la tunica era l’abito più diffuso, sia per le donne che per gli uomini. Le donne portavano una tunica a maniche lunghe che arrivava fino ai piedi, spesso con lo strascico, sulla quale indossavano vesti più preziose, quando se le potevano permettere. In vita anche le donne portavano una cintura, spesso in cuoio, alla quale appendere i diversi utensili da lavoro o preziosi, borsette, oggetti. La tunica degli uomini, invece, era più corta ed arrivava fino al ginocchio, legata in vita da una robusta cintura in cuoio, che oltre ad essere l’elemento più importante del vestiario, testimoniava anche la classe sociale di appartenenza. Attraverso la propria cintura, un arimanno longobardo manifestava il suo peso sociale e la sua ricchezza. I longobardi erano essenzialmente guerrieri, per cui nel loro abbigliamento maschile un ruolo centrale veniva occupato dalla spada, dallo scudo, spesso dalla lancia o da altre armi. Una volta stabilitisi in Italia, infatti, i longobardi adottarono stoffe più leggere, a partire dal Lino (per i ricchi), ma non disdegnavano di utilizzare il cotone. Di una o più tuniche di lino come indumento principale dei longobardi, parla espressamente Paolo Diacono nella Historia Langorbardorum, specificando che le tuniche “erano ornate con larghi orli tessuti in vari colori”. Sempre Paolo Diacono ci fornisce alcune importanti notizie sulle calzature, che erano “aperte fino quasi all’estremità dell’alluce e assicurate da lacci intrecciati”. Al di sotto della tunica, i longobardi indossavano pesanti brache, una sorta

di pantaloni spessi, che li proteggevano dal freddo. Alle caviglie indossavano una sorta di parastinchi in panno pesante, che li difendeva sia dalle storte che dalla fanghiglia, dalla polvere, dalla sporcizia, sempre in agguato su strade sterrate e su terreni impervi. Per molti secoli, dunque, i colori a disposizione erano pochi e molto opachi e, come se non bastasse, i processi di colorazione erano lunghi e complessi. Per questo motivo, durante tutto il Medio Evo, il colore era sinonimo di ricchezza e si arrivò a definire delle leggi suntuarie che proibivano ai poveri di indossare vesti colorate, che restava quindi un privilegio dei nobili. Il Giallo si ricavava dallo zafferano, il Rosso dalla robbia, il Viola dai mirtilli neri, il Marrone dal noce e dal nocciolo (a seconda dell’intensità), il Nero dal castagno. Quelle che oggi sono dunque le cosiddette “macchie ostinate” che sempre più efficaci detersivi provano ad eliminare, all’epoca erano i “colori” veri e propri a disposizione delle persone. Il materiale che abbiamo usato per la riproduzione degli abiti longobardi è il cotone, essendo il lino e la canapa divenuti col tempo costosissimi. La produzione è affidata ad artigiani e piccole attività tessili della nostra provincia, ma per gli abiti più ricercati, in particolare quelli delle protagoniste femminili, la progettazione e il confezionamento sono stati affidati ad una giovane costumista locale, Francesca De Rienzo .Le cinture di cuoio sono state realizzate artigianalmente, da due diversi artigiani: uno specializzato in cinture in cuoio per nobili arimanni ed uno che ha prodotto le cinture per il popolo minuto. Le donne, invece, indossano una tunica lunga fino ai piedi, una cintura di cotone o di cuoio e dei sandali senza lacci. A completare il loro vestiario ci sono ghirlande, mantelline e soprattutto scialli, pezzi di stoffa che le principesse longobarde indossavano per manifestare il loro rango sociale. Ovviamente i costumi sono diversificati in base al rango sociale di appartenenza dei figuranti. SITOGRAFIA http://www.museotorino.it/view/s/61fe0d2a1783474c97a097ad8de207b5 http://www.cividale.com/citta/museo.asp http://www.beneventolongobarda.it/beneventolongobarda/beneventolongobarda-costumi/ http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/longoba3.htm http://www.winniler.net/esercito.html

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1. NOBILDONNA

2. NOBILE ARIMANNO CON MANTELLO

3. SERVANTE

Sitografia http://www.museotorino.it/view/s/61fe0d2a1783474c97a097ad8de207b5 http://www.cividale.com/citta/museo.asp http://www.beneventolongobarda.it/beneventolongobarda/beneventolongobarda-costumi/ http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/longoba3.htm http://www.winniler.net/esercito.html

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Definivano se stessi come “esercito”, erano una popolazione guerriera figlia del Dio Godan (il padre degli eserciti della tradizione germanica) forgiata da secoli di scontri attraverso l’Europa. All’età di 12 anni, a meno che non fossero menomati nel fisico o nella mente, i maschi ricevevano una spada ed iniziavano ad allenarsi nell’arte della guerra lasciando alle popolazioni assoggettate il compito di lavorare i campi ed allevare il bestiame così da provvedere al loro sostentamento. Il guerriero Longobardo era chiamato arimanno che letteralmente significava “uomo dell’esercito” ma che per estensione indicava qualsiasi appartenente al Volk longobardo cioè qualsiasi uomo libero. Il re era il comandante supremo dell’esercito, la sua guardia personale era formata dai gasindi (lett. “compagni di viaggio” o “uomini del seguito”) capitanata dal mahrskalk (lett. “addetto alle scuderie [regie]”, in quanto come

d’usanza germanica gli uomini più vicini al re svolgevano le principali funzioni di corte; significato analogo ha anche marphais). Carica importante era anche quella di scildpor (scudiero). Sotto il re v’erano i duchi (dal latino dux) da cui dipendevano gli sculdahis a cui seguivano i decani fino ad arrivare ai semplici arimanni.

IN GUERRA

I Longobardi, almeno fino a che mantennero una struttura tribale poco influenzata dal costume romano, combattevano per fare cioè si raggruppavano in schieramenti formati da guerrieri uniti da vincoli di sangue (la fara era il nucleo alla base della società longobarda), non a caso in area germanica alcuni studiosi traducono il termine arimanno con “colui che segue lo scudo del proprio casato”. Nel 750, iAstolfo promulgava alcune nuove leggi che ci permettono di capire come fosse composto uno schieramento longobardo in battaglia:

2. circa quegli uomini che possono avere una corazza e pure non ce l’hanno affatto, o quegli uomini minori che possono avere un cavallo, scudo e lancia e pure non li hanno affatto, oppure quegli uomini che non possono avere, né hanno, di che mettere assieme, [stabiliamo] che debbano avere scudo e faretra. Resta fermo che quell’uomo che ha sette case massaricie abbia la sua corazza con il restante equipaggiamento e debba avere anche cavalli; e se ne ha di più, per questo numero deve avere i cavalli ed il restante armamento. Piace inoltre che quegli uomini che non hanno case massaricie ed hanno 40 iugeri di terra abbiano cavallo, scudo e lancia; così inoltre piace al principe circa gli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano la faretra con le frecce e l’arco. 3. Inoltre, circa quegli uomini che sono mercanti e che non hanno beni fondiari, quelli che sono maggiori e potenti abbiano corazza e cavalli, scudo e lancia; quelli che vengono dopo abbiano cavalli, scudo e lancia; quelli che sono minori abbiano faretre con le frecce e l’arco.

Queste poche righe ci permettono di ipotizzare su come chi non poteva permettersi nemmeno uno scudo veniva automaticamente esonerato dall’esercito (perdendo quindi lo status di longobardo) mentre solo i più facoltosi, e il loro seguito, potevano permettersi una corazza ed un cavallo. Quasi nulla si sa delle tattiche impiegate dai Longobardi in guerra. Di sicuro avevano assimilato ciò che ritenevano valido delle strategie bizantine, ma avevano comunque conservato pressoché intatto lo spirito guerresco tipico delle popolazioni germaniche che li spingeva a cercare il singolo duello per la gloria propria e della propria famiglia, a impegnarsi in combattimento spinti dal furor e a travolgere le linee nemiche prima con il terrore che con le armi, attaccando anche nottetempo com’era d’usanza presso gli antichi Germani .Una delle tattiche offensive che possiamo ritenere plausibile per i Longobardi era la cosiddetta formazione “a testa di cinghiale” (o “cuneo”) che vedeva il capo, circondato dai guerrieri migliori e 4. CORREDO DA BATTAGLIA

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meglio armati, dare il via alla carica sul nemico cercando poi di aprirne un varco nelle difese .Tale formazione veniva usata anche dalla cavalleria. La cavalleria, forse secondo l’esempio bizantino, era solita schierarsi ai lati della fanteria così da proteggere i guerrieri appiedati e poter caricare il nemico ai lati. Sicura formazione difensiva era lo scildburg, il muro di scudi con cui ci si opponeva alle cariche di cavalleria o ad una compatta formazione d’attacco. I cavalieri, a seconda della necessità, smontavano da cavallo per attestarsi a difesa.

Le Storie dei Longobardi sono povere di riferimenti concreti alla loro condotta militare ed in particolare alle tecniche di spada. La natura dell'armamento proprio dell'arimanno longobardo ci è ben nota dai corredi funerari e consisteva di: - Spatha: Lama a doppio filo, strettamente imparentata con tutte le lame germaniche del periodo delle migrazioni, come naturale nella sostanziale koinè metallotecnica di queste popolazioni. - Scramasax: lama a filo singolo, di lunghezza variabile ma sempre inferiore a quella della spatha, ideale nel combattimento ravvicinato e arma identificativa dell'uomo libero e sintomatica dei lunghi e proficui rapporti che i longobardi ebbero con le popolazioni sassoni. - Lancia: arma principe del corredo del guerriero, basilare sia nel suo utilizzo da fanteria che in quello da cavalleria, tanto nell'uso diretto che nel getto. Culturalmente legata a Gotan (Odino) è il vero simbolo del potere regio come diversi miti attestano, molto più della spada che assurgerà a tale ruolo solo successivamente. - Scudo: disco ligneo, con manico singolo coincidente con il diametro e umbonato nella parte centrale. Le forme degli umboni mutano a seconda dei periodi e delle collocazioni geografiche mantenendo ad ogni modo la costante germanica del perimetro circolare. - Scure: sono rari i ritrovamenti di scuri (barbuta) nelle sepolture anche della prima generazione, ciononostante non nulli. Inoltre un episodio narrato dall' Historia Paolina racconta di come un principe longobardo per dimostrare il suo valore si cimenti

proprio nel lancio della scure

- Arco: tale arma utile per il ferimento a distanza dell'avversario sembra essere stata tipica degli Aldii, i semi liberi, o dei ceti meno abbienti. Ad ogni modo, fuori dalla pratica bellica trovava sicuramente impiego nella condotta venatoria come attestano i numerosi ritrovamenti di punte di freccia nelle sepolture. Approfondimento dei Longobardi: http://www.youtube.com/watch?v=Qyfj4mZ54N8 (video armi) http://www.youtube.com/watch?v=mwWHbdI5dLQ (video) http://www.youtube.com/watch?v=17VoNRb5-kg (video) http://www.youtube.com/watch?v=YtUMDb6QlrQ (video) http://www.youtube.com/watch?v=2kOK5WpL7hA (video)