Walter Nardon, Il ritardo

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QuiEdit 2009 Walter Nardon Questo è quel mondo Il ritardo Prefazione di Massimo Rizzante

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Intervista a Walter Nardon autore de IL ritardo, QuiEdit, 2009

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QuiEdit 2009

Walter Nardon

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Il ritardo

Prefazione di Massimo Rizzante

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Questo è quel mondo è una collana di libri diretta da Enrico De Vivo. Fa esplicito riferimento, nel nome, alla poesia A Silvia e, nell’epigrafe qui sopra, al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica di Giacomo Leopardi. L’inten-zione è quella di riscoprire l’universo della conoscenza fondata sulla fantasia, con una critica indiretta, ma chiara, all’attualità e alla storia, dalle quali è bandi-to e rimosso qualsiasi pensiero non controllato. Oggi finzioni e fantasia sono solo in apparenza venerate, in realtà vengono manipolate a fini mercantili, e utilizzate per impedire di vedere le cose come stanno. Le finzioni false in cui quotidianamente siamo immersi e che ci ammorbano la vita, a cominciare da tutta la cosiddetta società dello spettacolo, vanno smascherate – a maggior ragione nell’epoca delle verità globalmente propagate – cantando e fingendo un nuovo mondo, scarcerando l’immaginazione per dare il giusto peso alle apparenze. I libri di Questo è quel mondo saranno storie, studi, raccolte di versi che sappiano ancora portarci in territori non programmati a tavolino, saltando a pie’ pari le angosce del tempo reale, non per obliarle, bensì per ren-derle più comprensibili alla luce delle intuizioni del pensiero fantastico.

Titoli della collana Enrico De Vivo, Divagazioni stanziali, prefazione di Gianni Celati Francesca Andreini, Nessuno ti può costringere, prefazione di Marianne Schneider, Walter Nardon, Il ritardo, prefazione di Massimo Rizzante

“A volere che l’immaginazione faccia presentemente in noi quegli effetti che facea negli antichi, e fece un tempo in noi stessi, bisogna sottrarla dall’oppressione dell’intelletto,

bisogna sferrarla e scarcerarla, bisogna rompere quei recinti”. Giacomo Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica

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Intervista a Walter Nardon, autore di Il ritardo, Verona, QuiEdit, 2009

G.P. Come è nato questo libro? W.N. Ho cominciato a scriverlo nel 2004 e ne ho pubblicato un racconto su "Sud", rivista che ne avrebbe poi ospitati altri. Mi pareva di aver trovato un tono per esprimere in qualche modo la difficoltà di vivere un tempo che, sebbene sia sempre più ingombro di oggetti, a ben vedere risulta invece astratto, indecifrabile, tanto da rendere meno chiara la coscienza che abbia-mo della nostra storia personale e delle ragioni che ci spingono ad andare avanti. In questa confusione, in questo immenso deposito che è diventato il presente, riusciamo a conoscere solo poche cose, talvolta neppure decisive, per cui il lavoro dell’immaginazione diventa determinante. Ho seguito questi personaggi che cercano di ritrovare un po' di concretezza muovendosi a partire da un paesaggio ridotto all'essenziale (quello della loro coscienza), nella speranza di trovare il modo di superare varie difficoltà. Avanzano osti-natamente, seguendo quelle che il protagonista di uno dei racconti chiama “le ragioni dell'oltranza”, delle quali non siamo mai del tutto consapevoli. G.P. Nella bella prefazione al libro, Massimo Rizzante ha parlato di conge-do silenzioso dalla giovinezza. Sembra che questa stagione sia ormai alle spalle dei vari personaggi.

W.N. I protagonisti dei racconti – specie nella prima parte del libro – men-tre tentano di superare le loro delusioni tornano con la memoria ad alcuni episodi della giovinezza per scoprire, però, di essere sul punto di congedar-sene. Cercano soprattutto di farla finita con il proposito di diventare qualcu-no, impegnandosi direttamente, passando dall’attesa del domani tipica della giovinezza al lungo tirocinio della maturità. Fanno quello che possono nel lavoro, nei loro impegni, nei loro incontri. Tuttavia c'è anche un'altra cosa da dire: i racconti, tranne uno, sono tutti divisi in brevi, o brevissimi capitoli, che a volte narrano direttamente episodi della giovinezza dei personaggi per poi passare ad altre vicende. Per questo sono quasi dei romanzi in miniatura (se non fosse osare troppo, mi verrebbe da dire che sono “romanzi in un palmo di mano”, come scriveva Danilo Kiš).

Il lungo tirocinio della maturità di Gustavo Paradiso

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G.P. A metà del libro c’è un racconto molto singolare, La fiducia nei giorni feriali, che emerge in modo evidente rispetto agli altri. Ha tutto un altro ritmo ed è quasi un racconto conviviale, un esempio di quella narrazione che riprende lo spirito dei racconti orali seguito con grande attenzione dalla rivista “Zibaldoni e altre meraviglie”. W.N. Tengo molto a questo racconto che è il più vivace del libro e che si inserisce nel contesto del discorso condotto in questi anni dalla rivista. Devo dire che il fatto che Gianni Celati ed Enrico De Vivo abbiano favorito l’uscita di alcune parti del libro su “Zibaldoni” è stato per me fonte di grande inco-raggiamento. Tuttavia, se sul tono di questo racconto ci si intende subito, credo sia giusto dire che gli altri non nascono da una conversazione conviviale anche per i temi che affrontano: il lutto, l’abbandono, la difficoltà di superare un errore, sono questioni colte nel bel mezzo del loro sviluppo e non a cose fatte, a posteriori. Di qui anche il tono della narrazione, molto più trattenuto e a volte laconico. L’avventura di un uomo che cerca di superare un lutto, di tornare a vivere più serenamente, non è una di quelle che si raccontano a tavola, eppure è una vicenda quasi sempre rivelatrice di un aspetto sconosciuto della realtà. Tornando però al racconto del ferroviere, dell’ex-ciclista che andava forte soprattutto nel secondo giorno della settimana, mi sembra che sia stato letto molto bene da Rizzante nella Prefazione; anzi, lui ne ha dato un’interpretazione che va anche al di là delle mie aspettative, nel senso che non lo avevo certo scritto avendo in mente un particolare significato. Mi sembrava una storia piena d’interesse, nata d’un solo fiato, una storia che custodiva qualcosa di difficile da chiarire. G.P. Il racconto più breve, Maestro di se stesso, racconta invece l’impegno di un giovane autodidatta che vuole superarsi. W.N. Parla di un giovane cui non è rimasto altro che lo studio, ma che, pur essendo arrivato al limite del crollo nervoso e pur volendo ancora superarsi, scopre con sorpresa che anche la sua dedizione può subire delle interruzioni. È solo, perciò vive tutto in maniera assoluta, come capita molto spesso nello studio, che ha sempre in sé qualcosa di totalizzante. Alla fine è contento di essere arrivato al punto in cui si trova, anzi, fa anche la lista dei libri che gli

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sono serviti ad arrivare fino lì (anche se poi non ce la mostra). Anche lui è teso verso una realtà che sembra aprirglisi solo a patto di uno sforzo non comune. G.P. Nella seconda parte non è più tanto la giovinezza a contare, quanto la capacità di resistere alle delusioni. W.N. Credo che nella seconda parte i protagonisti dei racconti siano messi alla prova dalle difficoltà che hanno segnato la loro vita: più che resistere, direi che cercano proprio di andare avanti nonostante tutto. Nell’Anniversario si seguono le vicende parallele di un uomo rimasto vedovo e di sua figlia: mi pare che la figlia, pur profondamente mutata da questa perdita, sia piena di speranze, lo si vede anche dalla lettera che scrive alla madre. Il padre cerca in vario modo di riprendersi, ma è più difficile. G.P. Il libro si chiude con Il resto, il racconto più lungo e più complesso, con protagonisti un notaio, due sorelle sue clienti, il cognato e la moglie. Il discorso sulla proprietà e sull’abitudine nasconde in realtà qualcosa di più difficile e di più duro. W.N. Non è chiaro se si tratti proprio di un notaio o di un avvocato. Mi pare che il suo sforzo sia quello di lasciarsi alle spalle le troppe questioni relative alla proprietà ed a tutto ciò che ognuno proietta in quel che possiede, mentre le due sorelle vi sono ancora strettamente legate. Il protagonista sta scrivendo un saggio sul deperimento dei beni, sull’obsolescenza delle macchine, ma riflette soprattutto sugli anni trascorsi esercitando la sua professione. Mi sembra che si sforzi di venire a capo di questi problemi. D’altra parte, tutto questo incide sulla sua vita.

. Gustavo Paradiso

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I protagonisti degli undici racconti di questo libro cercano di andare avanti con fiducia in un mondo che si è fatto quasi indeci-frabile. Li seguiamo nei loro incontri e nelle loro avventure, co-gliendoli talvolta in un momento di esitazione davanti all’esigen-za di una disciplina interiore, di fronte a un ricordo, a un’intui-zione improvvisa. Come ha scritto Massimo Rizzante: “Il loro sopralluogo nelle province della giovinezza è solo l’inizio di un lungo tirocinio quale l’età adulta in effetti è una volta che ci si è convinti, come afferma uno dei personaggi del libro, che quella che si sta vivendo è davvero la nostra vita”. Sono esistenze intere colte in poche pagine. “L’inattesa felicità che si sperimenta leg-gendo i racconti di Nardon è quella che nasce dalla nostra sco-perta che ogni gesto o evento della nostra vita si perde nel mare dell’oblio perché noi desideriamo correre all’impazzata verso mete sconosciute, essere sempre altrove, in luoghi lontani a vive-re momenti irripetibili. Nardon ci congeda dalla nostra eterna giovinezza, affermando che nulla è così memorabile come la vita quotidiana”. Walter Nardon (Zurigo, 1970) ha pubblicato alcuni racconti sulla rivista Sud, sul blog letterario Nazione Indiana e sulla rivista elet-tronica Zibaldoni e altre meraviglie. Qualche intervento è apparso su altre riviste (Nuova Prosa, Humanitas, Il Margine). Nel 2007, presso l’Editrice Università degli Studi di Trento, ha pubblicato il saggio La parte e l’intero. L’eredità del romanzo in Gianni Celati e Milan Kundera. È uno dei coordinatori del Seminario Internazionale sul Romanzo presso l’Università di Trento. Vive a Cembra e lavora a Trento.

In copertina: Illustrazione di Mili Romano

Quando si comincia senza grandi attese è difficile pensare che l’attività che si intraprende si porterà via buona parte della vita.

Si pensa a quel che si ha da fare. Sono molte le cose da imparare in silenzio, senza dare a vedere di averle apprese. “ “

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