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Recensione a: Bernhard Waldenfels, Fenomenologia dell'estraneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008. La questione dell'«estraneo» si delinea all'origine stessa del pensiero filosofico occidentale. Anche quando non viene nominata come tale o resa oggetto di un discorso esplicito e tematico, essa dispiega incessantemente i suoi effetti nella catena dei significati che costruiscono il linguaggio e l'autocoscienza dell'Occidente, accompagnando come un'ombra ogni riflessione sull'identità, anche la più ingenua e apparentemente innocente. Non si può, infatti, neppure formulare la domanda «chi sono?» («chi siamo?»), ad un qualsiasi livello, senza essere attirati (e irretiti) nel campo magnetico dell'«estraneità», senza dover tracciare un confine tra ciò che è proprio e ciò che non lo è, tra ciò che ci appartiene e costituisce il fondo del nostro essere, e ciò che appare irrimediabilmente «fuori di noi»: l'altro, di cui non possiamo appropriarci o in cui non possiamo riconoscerci. Le figure dell'estraneità (l'ospite, lo straniero, il nemico, ma anche il santo, il visionario, il folle, lo schiavo, ecc.) hanno sempre occupato un posto di rilievo nella riflessione filosofica (e, ancor più, nella letteratura e nell'arte), proprio in virtù di una carica semantica tanto ambigua quanto potente, in cui repulsione e seduzione, esclusione e accoglienza, differenza irriducibile e possibilità di integrazione, costringono a ripensare il senso dell'«identità» (personale, comunitaria, culturale) del soggetto, talora a riconfigurarne i tratti e ridisegnarne i confini. Tutto questo, è bene sottolinearlo, non avviene mai in maniera innocua o secondo uno schema lineare; sia in ambito individuale che collettivo, l'esperienza dell'estraneo perturba e inquieta, provoca tensioni e scatena conflitti, non si lascia cogliere genuinamente senza generare un urto contro un sistema di attese e un ordine concettuale stabilito. Del resto la filosofia, nell'atto stesso in cui si costituisce come ragione, ricerca di senso, ordine del discorso, prende congedo dall'irrazionale, dal non-senso, dal disordine, e dunque sta fin dall'origine sotto la provocazione e l'inquietudine dell'estraneo. In altre parole, la filosofia ha la sua genesi nell'estraneo, da cui proviene e a cui resta consegnata, anche quando occulta o dimentica questa provenienza essenziale e fa l'apologia della propria purezza. Non ci sembra un caso che l'attuale rinascita dell'interesse per il tema dell'estraneità, testimoniata da pubblicazioni e convegni (spesso di carattere interdisciplinare), appaia strettamente connessa ad una più marcata consapevolezza della sfida permanente, e inevitabile, che l'irruzione dell'estraneo rappresenta non solo per il pensiero, ma per la vita stessa di una comunità e di una tradizione culturale. Naturalmente, una filosofia capace di interpretare il proprio tempo storico dovrà farsi

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Recensione a: Bernhard Waldenfels, Fenomenologia dell'estraneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008.

La questione dell'«estraneo» si delinea all'origine stessa del pensiero filosofico

occidentale. Anche quando non viene nominata come tale o resa oggetto di un discorso

esplicito e tematico, essa dispiega incessantemente i suoi effetti nella catena dei

significati che costruiscono il linguaggio e l'autocoscienza dell'Occidente,

accompagnando come un'ombra ogni riflessione sull'identità, anche la più ingenua e

apparentemente innocente. Non si può, infatti, neppure formulare la domanda «chi

sono?» («chi siamo?»), ad un qualsiasi livello, senza essere attirati (e irretiti) nel campo

magnetico dell'«estraneità», senza dover tracciare un confine tra ciò che è proprio e ciò

che non lo è, tra ciò che ci appartiene e costituisce il fondo del nostro essere, e ciò che

appare irrimediabilmente «fuori di noi»: l'altro, di cui non possiamo appropriarci o in

cui non possiamo riconoscerci. Le figure dell'estraneità (l'ospite, lo straniero, il nemico,

ma anche il santo, il visionario, il folle, lo schiavo, ecc.) hanno sempre occupato un

posto di rilievo nella riflessione filosofica (e, ancor più, nella letteratura e nell'arte),

proprio in virtù di una carica semantica tanto ambigua quanto potente, in cui repulsione

e seduzione, esclusione e accoglienza, differenza irriducibile e possibilità di

integrazione, costringono a ripensare il senso dell'«identità» (personale, comunitaria,

culturale) del soggetto, talora a riconfigurarne i tratti e ridisegnarne i confini. Tutto

questo, è bene sottolinearlo, non avviene mai in maniera innocua o secondo uno schema

lineare; sia in ambito individuale che collettivo, l'esperienza dell'estraneo perturba e

inquieta, provoca tensioni e scatena conflitti, non si lascia cogliere genuinamente senza

generare un urto contro un sistema di attese e un ordine concettuale stabilito. Del resto

la filosofia, nell'atto stesso in cui si costituisce come ragione, ricerca di senso, ordine del

discorso, prende congedo dall'irrazionale, dal non-senso, dal disordine, e dunque sta fin

dall'origine sotto la provocazione e l'inquietudine dell'estraneo. In altre parole, la

filosofia ha la sua genesi nell'estraneo, da cui proviene e a cui resta consegnata, anche

quando occulta o dimentica questa provenienza essenziale e fa l'apologia della propria

purezza. Non ci sembra un caso che l'attuale rinascita dell'interesse per il tema

dell'estraneità, testimoniata da pubblicazioni e convegni (spesso di carattere

interdisciplinare), appaia strettamente connessa ad una più marcata consapevolezza

della sfida permanente, e inevitabile, che l'irruzione dell'estraneo rappresenta non solo

per il pensiero, ma per la vita stessa di una comunità e di una tradizione culturale.

Naturalmente, una filosofia capace di interpretare il proprio tempo storico dovrà farsi

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carico, in qualche modo, di questa sfida, interrogando le «cose stesse» e rifuggendo le

risposte facili e consolatorie.

Da questo punto di vista, la pubblicazione in traduzione italiana della

Fenomenologia dell'estraneo di Bernhard Waldenfels, uno dei filosofi di orientamento

fenomenologico più noti a livello internazionale, giunge quantomai opportuna. Da

almeno due decenni, infatti, Waldenfels dedica gli sforzi più significativi della sua

riflessione teoretica all'«esperienza dell'estraneo» (Fremderfahrung), esplorandola in

tutte le dimensioni costitutive e cercando di rimanere scrupolosamente fedele ad un

imperativo di fondo, che è poi una semplice specificazione del principio metodologico

cardinale dell'indagine fenomenologica, a partire da Husserl: pensare l'estraneo in

quanto estraneo, dove l'“in quanto” (rigorosamente declinato) rimanda all'esigenza di

salvaguardare il carattere di alterità radicale, di differenza irriducibile che si

accompagna ad ogni autentica esperienza di estraneità. In questo programma filosofico,

Waldenfels si avvale ovviamente del ricco contributo analitico della fenomenologia

novecentesca, soprattutto quella di area francese (Merleau-Ponty, Lévinas, Ricoeur,

Derrida), ma non bisogna sottacere gli aspetti più originali della sua impostazione: per

la prima volta, non solo viene tentata una ricognizione integrale, sistematica del

«fenomeno dell'estraneo» (com'è attestato, in particolare, dai quattro volumi di Studien

zur Phänomenologie des Fremden, pubblicati tra il 1997 e il 1999), spaziando dalla

teoria della percezione all'estetica, dalla letteratura all'etnologia, dalla linguistica alla

politica, ma la stessa questione dell'estraneo cessa di identificarsi con un ambito

parziale, per quanto importante, della fenomenologia per diventarne il nucleo tematico

centrale, il filo conduttore ineliminabile di ogni analisi fenomenologica dell'esperienza

umana. In altri termini, l'estraneità non è un particolare contenuto dell'esperienza, ma è

il suo carattere costitutivo; ciò equivale ad affermare che siamo costantemente alla prese

con l'estraneo, siamo sempre soggetti al «pungolo dell'estraneo» (per utilizzare

un'espressione cara a Waldenfels), anche quando crediamo di essere semplicemente

presso di noi, a casa nostra, nell'intimità più profonda e familiare del vissuto soggettivo.

L'estraneità abita il cuore del sé e attraversa pervasivamente il campo dell'esperienza, a

tutti i livelli, sebbene con differenti accenti, sfumature, intensità. E dunque, la

fenomenologia che Waldenfels ci propone dovrà percorrere interamente la ricca

compagine dell'estraneo, seguirne le articolazioni, dipanarne gli intrecci, analizzarne le

forme e le modalità di manifestazione, ma anche trovare un linguaggio in grado di dire

l'estraneo, senza tradirlo. L'ampiezza del disegno complessivo della «fenomenologia

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dell'estraneo» richiede ovviamente uno studio a parte, per poterne apprezzare e valutare,

in maniera non superficiale, i singoli aspetti e le movenze specifiche; in ogni caso, il

volume che qui presentiamo offre, come recita il titolo originale tedesco (Grundmotive

einer Phänomenologie des Fremden), le linee fondamentali di questo progetto,

attraverso l'esplorazione di alcune costellazioni strutturali dell'estraneità e l'indicazione

dei nuovi compiti che attendono la riflessione filosofica su questo terreno. Al tempo

stesso, la disposizione dei capitoli in una sequenza che rispecchia, grosso modo, la

scansione temporale della ricerca di Waldenfels e la successione delle sue opere,

fornisce una sintesi chiara ed efficace dell'itinerario fenomenologico dell'autore. La

traduzione italiana è di Ferdinando G. Menga, che ha anche curato una Postfazione, in

cui vengono tracciate a beneficio del lettore le coordinate generali per inoltrarsi in

questo complesso orizzonte di pensiero e coglierne la posizione peculiare nel panorama

filosofico contemporaneo, soprattutto in riferimento alle nuove filosofie

dell'intersoggettività, all'etica del discorso, all'ermeneutica.

Nel primo capitolo del volume (L'uomo come essere di confine), il fenomeno

dell'estraneo si profila in correlazione diretta con le nozioni di ordine e di confine. Se la

vita umana è impossibile senza l'instaurazione di un ordine determinato, in cui si

collocano gli elementi dell'esperienza, e se ogni ordine presuppone dei confini, dei

limiti (per esempio nella forma di regole, prescrizioni, divieti, ecc.), l'estraneo si

manifesta come tale infrangendo un ordine stabilito e varcandone i confini: «L'estraneo

è un fenomeno di confine per eccellenza. Giunge da altrove, persino quando entra in

scena in casa propria e nel proprio mondo. Non c'è nessun estraneo senza luoghi

dell'estraneo. Il peso che viene dato all'estraneità dipende perciò dal modo in cui è

costituito l'ordine in cui assume forma la nostra vita, la nostra esperienza, la nostra

lingua, il nostro fare e il nostro creare. Con il mutamento dell'ordine muta anche

l'estraneo, il quale è tanto molteplice quanto lo sono gli ordini che travalica e da cui

devia» (p. 18). Già da queste prime battute traspare una caratteristica rilevante

dell'approccio fenomenologico di Waldenfels all'alterità, che lo differenzia in modo

piuttosto chiaro da quello di Lévinas e, a nostro avviso, gli conferisce un più ampio

spettro di possibilità operative, evitando che l'appello che ci viene da «altrove» si

irrigidisca univocamente nel linguaggio della morale: l'estraneo, aristotelicamente, si

dice in molti modi, tanti quanti sono gli «ordini» che, con la sua irruzione, scompiglia e

pone in crisi. Di fatto, il discorso dell'estraneità è caratterizzato da una irriducibile

polisemia, e quindi, fenomenologicamente, non ha senso parlare di un «assolutamente

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altro» (di un Altro, per intenderci, con la maiuscola), ma occorre sempre di nuovo

indicare i luoghi (e gli eventi) concreti di produzione e di manifestazione dell'estraneo

stesso, nel cuore dell'esperienza. Non, dunque, una filosofia dell'Altro, ma una

topografia dell'estraneo. D'altro canto, per Waldenfels, ogni ordine umano si ritaglia

sullo sfondo di un'estraneità spaesante, perturbante che, anche quando viene

“addomesticata” e ricondotta entro saldi confini, non costituisce mai una semplice

privazione, ma opera dinamicamente come una sottrazione, un effetto abissale che fa

cogliere la nuda fattualità dell'ordine (e della ragione che lo istituisce), lasciandola priva

di una giustificazione, di un fondamento ulteriore: «Ogni ordine ha il suo punto cieco

sotto forma di un disordine che non costituisce un mero deficit. Ciò vale tanto per gli

ordini morali quanto per quelli cognitivi ed estetici [...] “Ci sono ordinamenti”, e questo

“ci sono” si sottrae a ogni tentativo di giustificazione, dato che in questi tentativi esso è

già presupposto. Per dirla in una lingua a noi più familiare: il fatto della ragione non è

esso stesso razionale» (p. 26). Abitata dall'estraneo, cui deve rispondere senza poterne

eliminare l'appello pro-vocante, la ragione umana è costretta a riconoscere la radicale

contingenza delle sue operazioni e del suo stesso processo giustificativo:

un'autofondazione logico-riflessiva della ragione è impossibile, non solo perché le

strutture d'ordine sono essenzialmente molteplici e contingenti, ma perché, come

direbbe Husserl, l'Urfaktum, il «fatto originario» che vi sia ragione, senso, ordine (in

campo cognitivo, etico, estetico, politico, ecc.) non può essere a sua volta delucidato

razionalmente, ma soltanto mostrato nella sua genesi. Qui, però, la distanza di

Waldenfels da qualsiasi forma di trascendentalismo, che converte la contingenza stessa

in condizione di possibilità, la finitezza in fondamento, appare del tutto chiara: «Gli

ordini rendono possibile e impossibile qualcosa; tuttavia la fondazione degli ordini non

è essa stessa resa possibile. Qui ci imbattiamo in un momento di fattuale in-

condizionatezza nel cuore dell'esperienza. Il radicalmente estraneo è proprio ciò che non

può essere anticipato mediante nessuna aspettativa e nessuna condizione di possibilità

trans-soggettiva» (pp. 33-34). Proprio perché l'estraneo, in questa accezione rigorosa, è

tale radicalmente, e non solo provvisoriamente, ne deriva che la fenomenologia

dell'estraneo non può, a nessun patto, definirsi una fenomenologia trascendentale;

l'estraneità, dice Waldenfels, comincia a casa nostra, la differenza, lo scarto originario

(e incolmabile) non è tra l'io e gli altri, ma innanzitutto in se stessi, nel proprio tempo e

luogo, pertanto «l'autoriferimento non collima mai con se stesso, [...] il luogo e il tempo

del discorso non coincidono mai con il luogo e il tempo di cui si parla» (p. 34).

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Il secondo capitolo (Tra pathos e risposta), muovendo dal fatto che l'estraneo

oltrepassa i confini dell'ordine a cui, di volta in volta, si riferisce, cerca di mostrare

come si configura una Fremd-erfahrung, come l'estraneo realizza, concretamente,

questo «oltrepassamento». Inizialmente, nel definire i tratti caratterizzanti del suo

programma fenomenologico, Waldenfels si confronta con il tema obbligato di ogni

fenomenologia, ovvero l'intenzionalità, che com'è noto si correla inscindibilmente con

la questione del senso: al di là delle sue possibili pieghe interpretative, l'intenzionalità è

il senso di qualcosa in quanto qualcosa, la produzione stessa del significato. E,

affinando lo sguardo, in questa semplice definizione è già dato di scorgere la marca

della contingenza e, dunque, la traccia dell'estraneo: «Che qualcosa appaia in quanto

qualcosa significa eo ipso che qualcosa appare così e non piuttosto altrimenti. Ogni

senso che si dispiega come un complesso di rimandi è – secondo la teoria della forma –

un senso preferito a un altro. Una pianta è usata come erba officinale oppure gettata via

come erbaccia; un coltello serve come posata oppure come arma; un pagamento in

denaro è valutato come una donazione o come tentativo di corruzione; uno straniero può

essere trattato come un rifugiato in attesa di asilo politico o come un immigrato

clandestino. Come già Nietzsche sottolinea, il senso è sempre strettamente legato a un

prospettivismo ineliminabile e carico di tensioni. C'è del senso, ma non un senso

soltanto; il senso si sviluppa a partire dallo sfondo del non-senso» (p. 42). Da questi

rilievi fenomenologici, Waldenfels non trae alcuna conseguenza banalmente

relativistica o scettica, né insegue il fantasma di uno strato fenomenico del tutto privo di

senso (che sarebbe assolutamente inattingibile); il senso, come correlato

dell'intenzionalità, ha una sua presa cui non è possibile sfuggire totalmente. Allora,

l'unico modo di mettere in questione l'intenzionalità è quello di partire

dall'intenzionalità stessa, interrogandosi su ciò che la precede, sugli eventi che

generano il senso, per cui qualcosa non ha già un senso per noi fin dal principio, ma lo

assume quando «rispondiamo» a un'affezione proveniente dall'estraneo. In proposito,

Waldenfels recupera la pregnanza del vecchio termine pathos per indicare quegli

«eventi che non compaiono come qualcosa di cui si possa disporre a piacimento, come

se aspettassero semplicemente che qualcuno formuli una password o digiti un comando

su una tastiera, [...] che invece ci accadono, ci investono, ci sopraggiungono, ci

sorprendono, ci prendono alla sprovvista» (p. 49). Originariamente, il «soggetto» non è

dunque soggetto-di, ma è piuttosto soggetto-a: la dimensione «eventuale» e patica

dell'esperienza ci rivela una soggettività che si declina al dativo, prima che al

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nominativo (Descartes e il soggetto moderno) o all'accusativo (Lévinas). Ma il pathos,

fa notare Waldenfels, non è soltanto il pre-categoriale o il pre-intenzionale (la sintesi

passiva di cui parlava Husserl, che fornisce la base per le operazioni attive del giudizio e

ad esse appare indirizzata e subordinata), ma costituisce «una forma radicale di passività

originaria, che scaturisce dall'af-fezione e, perciò, mette sempre in gioco “qualcosa di

estraneo all'io”, appunto come un'esperienza che si origina a partire da ciò che le

accade. Questo conduce a un punto in cui compaiono eventi per i quali non si riescono

ad addurre condizioni di possibilità sufficienti» (p. 55). Il pathos, come epifania

dell'estraneo, è un evento puro, che sopraggiunge senza poter essere anticipato,

interrompendo la continuità del vissuto e provocando una sorta di cortocircuito

dell'attività intenzionale, alla quale viene a mancare il riempimento: come tale, l'evento

non può essere inquadrato in una forma già nota o inserito in un contesto esplicativo.

Pur producendosi totalmente senza il nostro intervento, l'evento, proprio in quanto ci

colpisce, sorprende, strappa da noi stessi, suscitando meraviglia o paura, attrazione o

repulsione, non può che presentarsi in forma di «appello», di richiesta estranea che esige

una risposta. Al momento patico dell'esperienza dell'estraneo (o, meglio, del «divenire

estranea dell'esperienza») si affianca quindi necessariamente quello responsivo: la

Fremderfahrung ha il suo tempo e il suo luogo tra pathos e risposta. Ora, la risposta

può articolarsi in forme diverse e creative, ma non c'è dubbio che nel fronteggiare

l'estraneità si innescano meccanismi di difesa che tendono a ripristinare o riformulare un

ordine, normalizzando (almeno provvisoriamente) ciò che eccede ogni ordine e misura.

Del resto, «ciò che sconvolge un ordine vi si ricolloca comunque all'interno nel

momento stesso in cui viene nominato, classificato, datato, localizzato e sottoposto a

spiegazioni» (p. 59). Non è un caso che Waldenfels, per descrivere l'irruzione

dell'estraneo nel cuore dell'esperienza e le connesse strategie di normalizzazione, si

serva di una celebre pagina di Musil, l'incipit dell'Uomo senza qualità, che narra la

cronaca di un incidente stradale; con straordinaria lucidità fenomenologica, Musil

mostra come un episodio tragico, che in misura diversa coinvolge (e sconvolge) la vita

delle persone che ne sono parte, perda via via la sua carica di estraneità, la sua virulenza

emotiva, fino a trasformarsi in mero dato statistico, in evento «normale» e comune.

Peraltro, la normalizzazione presenta dei limiti strutturali e l'estraneo, anche quando

viene riportato dentro i binari del senso, non vi si riduce effettivamente.

Nel terzo capitolo (La risposta all'estraneo), il fuoco dell'analisi si concentra sulle

modalità di affrontare l'estraneo, delineando il profilo di una fenomenologia responsiva

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che affonda le radici in una vera e propria logica della risposta. Qui, l'indagine assume

inevitabilmente una curvatura etica, ma in un senso più profondo e originario della

filosofia morale. Mentre infatti quest'ultima si muove fin dall'inizio in un orizzonte di

valore o di diritto, che immediatamente piega la domanda etica nella direzione di

principi e norme dell'agire, la «richiesta» che risuona nell'estraneo si sottrae,

originariamente, all'alternativa tra bene e male, giusto e ingiusto. Dall'estraneo, quindi,

non proviene alcuna ingiunzione o comandamento, poiché il suo linguaggio non è

quello del valore, del dover essere, e la sua grammatica manifestativa lo colloca

essenzialmente «al di qua del bene e del male». Siamo dunque di fronte ad un fenomeno

più antico della responsabilità ed è ciò che Waldenfels denomina «responsività»: «La

responsività sta per un rispondere che precorre irrevocabilmente la responsabilità per

ciò che facciamo o diciamo. Qui si mostrano le tracce di un'altra fenomenologia, che

non prende dimora nel regno del senso e il cui logos rivela i tratti di un'originaria

eterologia. L'oltrepassamento di un senso costituito secondo intenzionalità o regola si

compie nel rispondere a una richiesta estranea, la quale né ha un senso, né obbedisce a

una regola, ma, al contrario, interrompe configurazioni consolidate di senso e regola,

facendone scaturire di nuove. Ciò che rispondo deve il suo senso alla sfida posta da ciò

a cui rispondo» (p. 67). L'estraneo non ha, in se stesso, un senso o un fine, ma lo riceve

nel processo dell'esperienza, dai modi in cui «rispondiamo» alla sua sfida: il sapere e la

morale (e le filosofie fondazionali che ne riprendono il tema) trovano il loro punto cieco

in questa ineludibilità della richiesta estranea che precede la stessa distinzione tra fatto e

norma. Non si può non rispondere, e «non dare alcuna risposta» è già una forma di

risposta: nella rete dell'estraneo siamo dunque impigliati prima di poter configurare un

impegno ontologico o morale, un discorso sull'essere e il valore. Secondo Waldenfels, il

campo della responsività è così esteso e pervasivo che bisognerebbe farne il centro di

una ri-definizione dell'uomo e della vita umana: l'uomo è quell'essere vivente capace di

risposte (ovviamente, questa definizione ha un senso solo se la «richiesta estranea» non

si intende limitatamente alla sfera degli atti linguistici, ma in tutta la gamma della

sensibilità: gli sguardi, i gesti, i movimenti corporei, ecc., ma possiamo anche pensare

alla meraviglia che si prova di fronte a un'opera d'arte, o al senso di sgomento che può

sorgere quando si entra in una stanza oscura). Illustrando la dinamica del rapporto tra

richiesta e risposta, Waldenfels ne enuclea i momenti costitutivi: la singolarità, la

creatività, l'asimmetria, il ritardo. In particolare, «colui che crede di incominciare

semplicemente da se stesso, non fa altro che ripetere ciò che è già ed è già capace di

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fare, perciò non comincia affatto. Dare una risposta significa rinunciare ad avere la

prima e, quindi, anche l'ultima parola» (p. 76). Ogni cominciare è un ri-cominciare, non

esiste un presente che non rechi in sé le tracce di un passato immemoriale (Derrida). Da

questo punto di vista, ogni autentica risposta all'estraneo è creatrice di senso e di storia

(a livello individuale o sociale), ma la «creatività» è possibile solo nella misura in cui

nessuna risposta (come tale) può esaurire l'appello dell'estraneo da cui ha

(ri)cominciato: «Noi inventiamo ciò che rispondiamo, ma non ciò a cui rispondiamo, né

tantomeno ciò che conferisce peso al nostro parlare e al nostro agire» (p. 78).

Il quarto capitolo (Esperienza corporea tra ipseità e alterità), forse il più denso del

libro, è dedicato ad un modulo classico dell'analisi fenomenologica e, più in generale,

ad un problema centrale della riflessione filosofica moderna, a partire da Descartes:

quello della corporeità, qui considerato come «via regia» che conduce direttamente al

tema dell'estraneo. È infatti riflettendo sull'«enigma» del corpo proprio (Leib) che si

scopre, attraverso un movimento paradossale ma richiesto dagli stessi dati

fenomenologici, un sé radicalmente esposto al mondo e agli altri, permeato

dall'estraneità in tutti gli strati costitutivi della sua esperienza. Se Descartes, all'alba del

pensiero moderno, aveva percepito questo enigma, per poi dissolverlo rapidamente nella

scissione tra res cogitans e res extensa, tra soggettività pensante e realtà materiale, la

fenomenologia, da Husserl a Merleau-Ponty, ha mostrato con argomenti inoppugnabili

l'insostenibilità dello schema dualistico: il soggetto non solo ha un corpo, ma è

corporeo (lo stesso Nietzsche, al quale si richiama più volte Waldenfels, aveva

chiaramente formulato il compito di una filosofia concreta, sviluppata lungo il filo

conduttore del corpo). Fenomenologicamente parlando, l'esperienza corporea (o, se si

preferisce, la «corporeità dell'esperienza») si estende ben oltre l'esperienza del corpo

proprio, rivelando quindi lo stesso grado di onnipresenza e pervasività che caratterizza

l'estraneo, con il quale appare del resto intrecciata nel modo più intimo. Ad ogni modo,

Waldenfels ci invita a saggiare la fecondità del filo conduttore corporeo ripensando alla

sua luce i tre grandi temi della fenomenologia: l'intenzionalità, l'autocoscienza,

l'intersoggettività. Innanzitutto, se la costituzione intenzionale del senso riposa su

un'affezione originaria che ci lega all'orizzonte dell'estraneo, questa affezione sarebbe

impensabile se non fosse radicata nella nostra corporeità (in termini diversi: solo per

esseri incarnati, come noi siamo, è possibile essere affetti da alcunché di estraneo): «Il

dato di fatto che noi siamo affetti da ed esposti a qualcosa di estraneo all'io non dipende

né dal nostro sapere, né dalla nostra volontà, dunque dalla cosiddetta coscienza, ma

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rimanda al nostro corpo» (p. 86). Per quanto riguarda il «coglimento di se stessi»,

l'autocoscienza, secondo una precisa tendenza della filosofia moderna (fenomenologia

compresa) essa viene acquisita tramite un atto identificante che prende il nome di

riflessione: una sorta di «ritorno-a-sé dell'io nella distanza-da-sé», che però presenta

singolari tratti aporetici in quanto la distinzione tra l'io riflettente e l'io come oggetto o

tema della riflessione (il «raddoppiamento» del soggetto) sembrerebbe destinata a

sfociare in un regresso infinito, come hanno mostrato le minuziose analisi di Husserl su

questo terreno. Anche qui, partire dalla corporeità può insegnarci qualcosa sugli aspetti

corporei della riflessione stessa e sul fatto che il «sé corporeo» non può mai essere

assimilato ad una cosa, ad un oggetto afferrabile direttamente. In realtà, siamo affetti (il

che significa: colpiti, sorpresi, feriti...) non solo dal mondo e dagli altri, ma da noi

stessi: «Noi vediamo, udiamo, tocchiamo e muoviamo noi stessi. La nostra corporeità è

in tal modo “riferita a se stessa” [...]. In ogni attività autoreferenziale abitano diverse

forme di autoaffezione. Quando vediamo il nostro volto allo specchio, udiamo la nostra

voce incisa su un nastro o tocchiamo un coltello affilato, noi sorprendiamo noi stessi.

Noi siamo imprigionati nella nostra propria immagine, veniamo sgomentati dalla nostra

propria voce, ci tagliamo nella nostra propria carne» (p. 88). Il «corpo proprio» diventa,

per così dire, una cassa di risonanza dell'estraneità, di cui moltiplica e potenzia gli

effetti nello stesso momento in cui permette il costituirsi elementare dell'identità, il

riferimento a sé. È evidente, in questi passaggi, la lezione di Merleau-Ponty

sull'ambiguità dell'essere-al-mondo: il sé è, come tale, «fuori di sé», e lo è quindi non

solo nelle situazioni liminari o patologiche, ma nella pulsazione ordinaria della sua vita,

in quanto l'autoaffezione carnale e temporale che lo attraversa intimamente lo rende

parimenti incapace di «coincidere con sé». In altre parole, in quanto corporeo, il sé è

costitutivamente in ritardo su se stesso e l'unico modo che gli è dato di «vedere» (o

«sentire») se stesso è quello di incrociarsi (ambiguamente) con l'estraneo, di riconoscere

un fondo di alterità nel suo stesso essere (si pensi, come semplice esempio, al

sopraggiungere della stanchezza, in cui il nostro corpo sembra improvvisamente

diventare un «corpo estraneo»). In questa prospettiva, Waldenfels indica una serie di

fenomeni in cui l'intreccio tra riferimento proprio e riferimento estraneo è

particolarmente rilevante e la tradizionale distinzione tra «soggetto» e «oggetto» perde

consistenza descrittiva: l'immagine speculare, la voce, il movimento corporeo, la nascita

ecc. (per approfondire le tematiche della «fenomenologia del sé corporeo», rimandiamo

il lettore a B. Waldenfels, Das leibliche Selbst. Vorlesungen zur Phänomenologie des

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Leibes, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2000). Infine, il tema dell'intersoggettività. Se

«l'estraneità al cuore di me stesso dischiude nuovi percorsi verso l'estraneità

dell'altro» (p. 97), occorre anche in questo ambito seguire il filo conduttore del corpo,

nel suo potenziale manifestativo, sostituendo la figura fenomenologica

dell'«intersoggettività» con quella, più duttile e insieme più complessa, della

intercorporeità (come già Merleau-Ponty aveva suggerito). Pur riconoscendo il debito

essenziale nei confronti di Husserl, Waldenfels gli rimprovera il persistere di un

atteggiamento cartesiano che, nell'approccio all'alterità, privilegia il momento della

coscienza e rivendica alla soggettività propria un certo primato dal punto di vista del

metodo (l'altro, in Husserl, si rivela come alter ego). Inoltre, se Husserl ha colto

acutamente il paradosso che si annida nel concetto stesso di «esperienza dell'estraneo»,

la sua fenomenologia dell'Einfühlung rimane chiusa, per Waldenfels, nell'orizzonte del

comprendere e sembra trascurare che l'altro, ancor prima di essere «compreso»,

afferrato intuitivamente e cognitivamente, ci tocca, ci «colpisce», nella varie modalità

emozionali ed esistenziali in cui questa affezione può aver luogo: «Noi ci sentiamo

toccati dagli altri prima di giungere a chiedere chi siano e cosa significhino le loro

esternazioni. L'estraneità dell'altro ci sopraffà e ci sorprende, disturba le nostre

intenzioni prima che noi le comprendiamo in questo o quell'altro modo» (p. 99). D'altra

parte, vorremmo osservare, la teoria husserliana dell'«intersoggettività

trascendentale» (esplorata sistematicamente) non si riduce alla dimensione dell'empatia,

ma modula il tema dell'alterità in una polifonia fenomenologica che non solo include a

pieno titolo gli orizzonti emotivi e affettivi che contrassegnano l'incontro con la

soggettività estranea, ma procede, per ampi tratti, nella stessa direzione auspicata da

Waldenfels sulla scia di Merleau-Ponty: «In ultima istanza, la nostra esperienza

corporea e in carne e ossa è testimone del fatto che io trovo l'altro e gli altri in me, come

anche me stesso in loro, prima ancora che ci si incontri vicendevolmente. Come

sottolinea Merleau-Ponty, gli altri appaiono in me e al mio fianco prima ancora di

starmi di fronte» (pp. 103-104). E non bisogna dimenticare che Husserl, innestando la

corporeità o la «carne» (Leib) sul terreno del trascendentale, ha radicalmente

concretizzato e pluralizzato il soggetto dell'esperienza (l'«io» della filosofia moderna),

facendone esplodere le astratte configurazioni cartesiane, kantiane e neokantiane; non è

un caso, ci sembra, che non poche «filosofie dell'alterità», nel Novecento, risultino

addirittura impensabili senza il confronto (critico e/o decostruttivo) con l'eredità

fenomenologica husserliana. Genuinamente husserliana è la polarità costitutiva

Page 11: Waldenfels Rec

dell'essere corporeo come Leib e come Körper, che Waldenfels almeno in parte

recupera, in polemica con la «filosofia della carne» di Michel Henry o la «nuova

fenomenologia» di Hermann Schmitz, che sembrano dimenticare l'originaria fisicità del

corpo (il mio corpo non è soltanto «carne» nel senso di vita invisibile, immanenza pura,

è anche physis, apertura e appartenenza allo spazio-mondo): «Per poter comprendere il

corpo in quanto corpo è necessaria sempre una certa distanza [...] Il corpo puro in

quanto corpo (Leib) senza corpo fisico (Körper) rientra ancora nella giurisdizione del

cartesianesimo: sentio ergo sum» (p. 91).

Il quinto capitolo (Soglie di attenzione), attraverso un'apparente deviazione, ci

introduce in uno dei nodi cruciali del discorso dell'estraneità. Da fenomeno ordinario e

tutto sommato trasparente, l'attenzione (Aufmerksamkeit) si rivela infatti, ad uno

sguardo fenomenologicamente più lucido, percorsa dalla stessa ambivalenza che

caratterizza l'estraneo: essa si situa in quello spazio intermedio tra pathos e risposta in

cui si gioca, come abbiamo visto, il «destino» della soggettività umana. Innanzitutto,

l'attenzione intesa nella forma attiva del prestare attenzione induce a riformulare la

domanda originaria su come il «soggetto» (questa istanza filosofica della modernità)

partecipa al movimento di manifestazione delle cose: «Sembrerebbe che io debba fare

qualcosa affinché le cose, altri esseri viventi o altre persone possano comparire sulla

scena dell'esperienza. Ma qual è il mio contributo? Che cosa aggiungo da parte mia? La

risposta sembrerebbe essere me stesso. E come avviene tutto ciò? Forse si verifica nel

fatto che io accenda un qualche riflettore, oppure che sia io a offrire lo spunto affinché

qualcosa avvenga?» (p. 108). Dopo aver brevemente esaminato la gamma semantica

dell'attenzione, nelle sue sfumature interne (dirigersi-verso, rivolgersi-a, ..., che

esprimono tutte una tensione essenziale dello spirito verso qualcosa o qualcuno, un

oggetto o un fine), Waldenfels rileva come nell'età moderna la riflessione filosofica

sull'attenzione sia rimasta impigliata in una serie di dualismi, i cui effetti

sull'impostazione del problema sono tuttora ben visibili: se in Descartes l'attenzione è a

disposizione del cogito, è una funzione della volontà dell'io, chi vorrà invece

sottolineare la passività dei processi attenzionali tenderà ad evidenziarne sempre più il

carattere istintivo e meccanico. Per uscire dalle strettoie in cui la tradizione lo ha

confinato, occorre restituire al fenomeno dell'attenzione tutta la sua complessità,

sottraendolo ai poli dell'alternativa tra soggetto e oggetto, spirito e natura, attività e

passività; questo è possibile, per Waldenfels, tracciando le linee fondamentali di una

«fenomenologia dell'attenzione». In particolare, non si può cogliere il proprium

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fenomenologico dell'attenzione senza ravvisarne, al tempo stesso, la singolare

prossimità (e coincidenza) con le forme di manifestazione dell'estraneo. L'attenzione è

un evento e non un semplice atto soggettivo, ha delle soglie di attivazione che, se

oltrepassate, ci dischiudono il dominio dell'«altro», nel suo magnetismo originario e

affettivamente carico (già al livello della percezione sensibile): «Il notare qualcosa si

manifesta come un accadere, del quale certamente siamo parte in causa, ma di cui non

siamo né i creatori né i legislatori. L'attenzione viene destata oppure si assopisce. Come

avviene anche quando ci svegliamo o ci addormentiamo, attraversiamo qui una soglia

che separa il familiare dall'estraneo, il visibile dall'invisibile, l'udibile dall'inaudito, ciò

che si può toccare con mano dall'intangibile. Quanto affiora al di là della soglia, quindi,

là dove non posso essere senza diventare un altro, si mostra come qualcosa di

affascinante, terrorizzante, stimolante» (pp. 116-117). Sostanziando l'analisi

fenomenologica con riferimenti puntuali e convincenti al testo filosofico e letterario

(Platone, Aristotele, Kafka, Calvino), Waldenfels prolunga la fenomenologia

dell'attenzione in una più ampia prospettiva di ricerca (ben al di là della sfera

psicologica o cognitiva), definibile come ethos dei sensi. L'attenzione riposa sul

pluralismo delle forme sensibili (visive, tattili, acustiche, ecc.) ed appare soggetta a

trasformazioni qualitative che modificano il suo senso e il suo «segno»: si può passare

da un'estrema concentrazione ad un'estrema distrazione, fino a sconfinare sul terreno

delle patologie psichiche (i disturbi dell'attenzione, le fobie legate alla percezione dello

spazio, ecc.), senza dimenticare il ruolo centrale che le «soglie di attenzione» rivestono

nell'ambito della pittura, della scultura e della musica. Se, inoltre, l'attenzione ha un

carattere essenzialmente selettivo, si impone una riflessione a tutto campo sulle tecniche

e le pratiche che affinano la sensibilità e consolidano l'attenzione, soprattutto alla luce

dell'enorme influenza esercitata oggi dai mezzi di comunicazione di massa (che altro

sono, questi ultimi, se non potenti, pervasivi strumenti per catturare e polarizzare

l'attenzione dei soggetti in una direzione o nell'altra? E come evitare i rischi di

un'attenzione «eterodiretta», piegata inconsapevolmente alle immanenti logiche del

consumo e del potere?). Su questo terreno, l'attenzione acquista una peculiare risonanza

economico-politica, troppo spesso trascurata: «La sfera politica e quella economica

fanno parte, così, degli ingredienti dell'attenzione. Nessuna distribuzione equa delle

risorse e neanche nessuna regolamentazione consensuale possono rimuovere i conflitti

che ne risultano. Ci si può aspettare una qualche forma di resistenza solo a partire

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dall'attenzione stessa, da una attention sauvage che mantenga i tratti del non economico

e dell'anarchico e si caratterizzi come un sovrappiù di attenzione donata» (p. 127).

Nel capitolo conclusivo, l'indagine si apre all'orizzonte dell'estraneità culturale e, più

precisamente, a ciò che accade tra le culture, nello spazio della loro relazione concreta.

Si tratta forse della forma più evidente e perturbante in cui ci è dato incontrare

l'estraneo, cioè attraverso il tono del tutto peculiare della «differenza culturale». Ed è un

tema, com'è facile comprendere, di estremo interesse nella filosofia contemporanea, non

solo da un punto di vista strettamente teoretico e argomentativo, ma per le ovvie

ricadute nella sfera etico-politica. Waldenfels affronta quest'ultimo e decisivo tornante

della fenomenologia dell'estraneo polemizzando con gli approcci filosofici o etnologici

all'«interculturalità» che misconoscono un fatto tanto elementare quanto ineludibile:

ogni confronto tra culture non avviene nel neutro di una mera comparatistica (che si

limiti ad «allineare» le culture su uno stesso piano), o in un ipotetico orizzonte

metaculturale (in cui si pretenda di «guardare» le culture dall'esterno), ma sempre e solo

muovendo da una determinata cultura, da uno spazio culturalmente connotato, permeato

da simboli culturali. Il paragone con la lingua madre è, sotto questo rispetto, istruttivo:

«Ciò che ha luogo fra diverse culture non si lascia ridurre al semplice fatto che ci sono

più culture che esibiscono caratteri distintivi o pacchetti di caratteristiche enumerabili e

comparabili. Così come ogni paragone linguistico prende le mosse dall'appartenenza a

una determinata lingua, allo stesso modo ogni paragone culturale procede da una

determinata cultura: oltre le culture non c'è alcun luogo tale da consentirci uno sguardo

panoramico imparziale e illimitato» (pp. 129-130). In altri termini, prendere sul serio

l'interculturalità significa riconoscerne fino in fondo il carattere di dimensione

intermedia, per cui l'incontro con la cultura estranea non può essere ricondotto a ciò che

è proprio, a una natura comune, a una legge universale. E proprio per rispondere

adeguatamente alla sfida che la differenza culturale rappresenta per ogni prospettiva

universalizzante, Waldenfels sottolinea l'esigenza di pensare rigorosamente questa

Zwischensphäre in cui ha luogo l'esperienza della cultura estranea: una «terra di

nessuno», non nel senso utopico o vagamente metafisico del termine, ma intesa

fenomenologicamente come regione di confine, che collega e separa nello stesso tempo.

Si tratta soprattutto di comprendere che tra «cultura propria» e «cultura estranea»,

all'origine, c'è una scissione e un'asimmetria radicale, per molti versi analoga a quella

che Husserl aveva stabilito tra «mondo proprio» e «mondo estraneo», nelle sue analisi

fenomenologiche dell'intersoggettività e della Lebenswelt: «Una tale scissione non

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esclude che si possa giungere a processi di pluralizzazione, di universalizzazione o di

globalizzazione; tuttavia questi processi presuppongono un'esperienza dell'estraneo alla

quale non potranno mai risalire. La cultura estranea, al pari della propria, è più di una

cultura tra le altre, più di una cultura parziale o un campo d'azione per leggi universali.

Se questo “plusvalore” viene cancellato, allora ci poniamo sul piano inclinato di

un'appropriazione unilaterale dell'estraneo o di un livellamento delle differenze fra

proprio ed estraneo. E fino a oggi, di tali tentativi, nella nostra cultura occidentale, non

si è certo registrata la mancanza» (p. 131). E per raccogliere i frutti di una logica

dell'estraneità sul terreno interculturale, Waldenfels sviluppa un'articolata analisi del

termine «estraneo», cogliendone innanzitutto la ricchezza semantica, la «polisemia»

all'interno di ciascun universo linguistico, individuando altresì nell'«assunzione del

luogo» e nel «tracciamento di confini» (in altre parole: nel fenomeno topografico) il

nucleo strutturale di significato più decisivo e dominante. E qui Waldenfels non manca

di rilevare con chiarezza una certa tendenza del pensiero occidentale a confondere

«estraneità» e «alterità», per cui il tema dell'estraneo radicale occupa un posto tutto

sommato secondario nella riflessione filosofica, stemperandosi nel concetto (assai più

rassicurante) dell'«altro» come diverso e nelle sue sottili implicazioni ontologiche e

dialettiche (da Platone a Hegel). Ma, per Waldenfels, la riduzione dell'altro a diverso

(forse anche la gadameriana «fusione degli orizzonti» e l'«illimitata comunità di

comunicazione» di cui parla la Diskursethik possono rientrare, almeno parzialmente, in

questo schema) significa né più né meno che l'oblio o l'eclissi dell'estraneo come tale, il

suo ritrarsi in una penombra concettuale che nasconde ciò che è realmente in gioco: la

nascita dell'ordine (e del senso) da un extra-ordinario che sfugge ad ogni

categorizzazione e appropriazione preliminare, ad ogni forma di «essere comune».

«Finché si tengono chiusi gli occhi davanti a questa visione, si resta attaccati a una

estraneità relativa [non radicale], a una mera “estraneità per noi” [il proprio come “altro

dell'altro”], che fa riferimento ad uno stadio di previa appropriazione. Questa

appropriazione si può attuare a livello politico, religioso, filosofico o, in generale,

culturale. Essa viene ottenuta al prezzo di un misconoscimento e di un violentamento di

quell'esperienza dell'estraneo, dalla quale prende avvio ogni azione di presa di

possesso» (p. 138). D'altro canto, una concezione fenomenologica radicale

dell'estraneità, secondo la quale «all'inizio c'è la differenza», non deve impedirci di

cogliere, nel darsi stesso della differenza, la funzione originaria della relazione:

«proprio» ed «estraneo», per quanto radicalmente separati, si richiamano in modo

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necessario, non solo per un'astratta polarità logica, ma perché appaiono intessuti e

intrecciati l'«uno nell'altro», come abbiamo visto, in ogni significativa esperienza

umana, sia a livello individuale che culturale. Riconoscere quindi che, tra il proprio e

l'estraneo, è esclusa essenzialmente la possibilità di una piena coincidenza o fusione,

come pure quella di una totale differenza o disomogeneità di piani, equivale a dichiarare

impossibile un'estraneità assoluta, almeno se si vuole rimanere ancorati al terreno

fenomenologico ed evitare problematiche incursioni nel campo della metafisico-

teologia. In un passaggio cruciale del suo percorso «tra le culture», Waldenfels scrive:

«In tal senso, nell'ambito interpersonale, così come in quello interculturale, non si può

parlare di estraneo assoluto o totale. Una lingua che ci fosse totalmente estranea non

potremmo nemmeno percepirla come lingua straniera. Le lingue presentano diverse

forme di affinità, e lo stesso vale per le culture. Tra esse ci sono forme di affinità

elettiva come anche di inimicizia elettiva. All'inizio non c'è soltanto la differenza, bensì

c'è anche la mescolanza che smaschera il fantasma di ogni ideale di purezza familiare,

nazionale, razziale o culturale. A parte questo, il modo in cui epoche e culture si

distinguono tra loro è dato da come esse trattano l'estraneo, da come gli concedono

accesso o lo respingono, da come lo inglobano oppure lo lasciano fare, dal fatto di

reagire all'estraneo con curiosità o con autosufficienza. Ci sono diversi stili d'estraneità

che non si lasciano ricondurre a un unico denominatore» (pp. 139-140).

A parte l'indubbio interesse filosofico dell'assunto che la costruzione dell'identità di

un individuo, di un gruppo sociale o di una cultura è la negazione stessa dell'idea

(fantastica, perché fenomenologicamente inesibibile) della «purezza» ed è sempre il

prodotto complesso e instabile di una «ibridazione», il riferimento a differenti «stili di

estraneità», irriducibili a una matrice comune o a una medesima struttura di orizzonte (il

mondo, il linguaggio, la comunità, ecc.), ci sembra attestare ancora una volta l'obiettivo

di fondo della fenomenologia dell'estraneo. Da un lato, si tratta di salvaguardare la

polisemia dell'«estraneo», percorrendo analiticamente i molteplici significati ed eventi

che gli sono connessi (e che ne costituiscono l'effettiva «produzione» nel cuore

dell'esperienza), senza pretendere di fondarlo, giustificarlo o ricondurlo ad un «ordine»

univoco e vincolante, e ravvisando invece la sua dynamis più propria negli effetti de-

stabilizzanti e de-strutturanti (come una sorta di contro-intenzionalità) che esso

riverbera su ogni forma di ordine e di senso già costituita. Dall'altro, occorre sempre

tener presente (contro le ricorrenti tentazioni trascendental-normative che

presuppongono o postulano un consenso universale dei soggetti almeno su alcune

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strutture di base dell'esperienza, e contro l'idea di una continuità di fondo nelle peripezie

della coscienza storica o nella trasmissione epocale del senso) che l'«estraneità» non è

una funzione generale che ci permette di anticipare i tratti costitutivi dell'esperienza

possibile, né un orizzonte già dato e disponibile in cui situare ogni dinamica storica, ma

implica un divenire estranea dell'esperienza stessa: e questa esperienza «è sempre

caratterizzata anche da incertezza, minacciosità, incomprensione, e proprio questi sono

fattori distribuiti non in modo uniforme, ma a seconda di chi determina le regole del

gioco linguistiche e sociali, di chi “ha in mano la parola” (das Sagen hat)» (p. 147). E

qui la fenomenologia dell'estraneo sembra muoversi in direzione di una rinnovata critica

sociale, sia a partire dalla consapevolezza che «anche per gli ambiti culturali e

interculturali [...] esistono gli ordini, ma non esiste l'Ordine» (p. 151), sia attraverso

l'analisi delle funzioni di mediazione tra proprio ed estraneo che il «terzo», un terzo

soggetto, svolge nella costruzione, conservazione e dissoluzione di un ordine

determinato; in particolare, «nessuno scambio interculturale è pensabile senza tali

prestazioni di mediazione. Riguardo a questo, non è affatto senza importanza da quale

cultura provengano i mediatori di turno o in che lingua ci si intenda. Traendo

liberamente da Marx, si può dire che la lingua dominante per lo più è quella dei

dominatori, anche se questa si limita a una dominanza economica o culturale» (p. 150).

Richiamandosi anche al Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale,

Waldenfels può così affermare che la funzione mediatrice del «terzo» consiste nel

«rendere uguale ciò che uguale non è»: l'apparizione del terzo (o, più precisamente,

l'emergere di un'istanza terza, né solo «propria» né «estranea») corrisponde all'adozione

di un punto di vista che, proprio in quanto non vuole essere parte in causa, ma super

partes, non prospettiva situata, ma visione panoramica, concepisce l'originariamente

estraneo come qualcosa o qualcuno (questo è il «lavoro» dell'intenzionalità). Il terzo,

nelle sue figure e varianti, esibisce un orizzonte visivo generale (un «pan-orama»,

appunto) in cui la distanza incolmabile, l'asimmetria radicale che costituiva il marchio

di fabbrica della Fremderfahrung viene ridisegnata (topograficamente) in relazioni

contigue e simmetriche. È l'origine dell'uguaglianza e della giustizia, che recano

impressa nella loro genesi la traccia dell'estraneo. Ogni ordine agisce in modo selettivo,

esclusivo e quindi contiene sempre in sé un momento di ingiustizia e di violenza, che

l'indagine fenomenologico-genetica ci aiuta a rintracciare e comprendere. In questo

«rendere uguale» che sospende (con Husserl potremmo dire: «pone tra parentesi»)

l'inquietudine e lo scandalo di una differenza irriducibile ci sembra si possa rinvenire

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non solo la genealogia della logica e della stessa razionalità occidentale, ma anche, in

un'ottica meno nietzscheana e più costruttiva, la fisiologia di ogni costituzione di un

ordine sociale. In tal senso, Waldenfels non condanna gli ordini (contingenti) in nome

del libero e creativo fluire della vita, ma invita semmai a diffidare di ogni Ordine

(univocamente necessario) e a cogliere nel momento di contingenza che aderisce a tutte

le misure umane (e al logos stesso come «principio di ragione») le condizioni di un

effettivo dialogo tra le culture: sfuggendo, certamente, alla tentazione del discorso

unico, dell'universalismo presuntuoso, senza tuttavia trasformare il pathos dell'estraneità

in un'apoteosi della differenza, in un «etnocentrismo» o «esotismo» generici, privi di

spessore teoretico e di sostanza storica. La questione dell'interculturalità, così dibattuta

oggi, dovrebbe dunque ripartire da questa esigenza: «Ci poniamo la domanda di come è

possibile avere a che fare con l'estraneo senza derubarlo del suo pungolo; e inoltre ci

chiediamo come potrebbe configurarsi uno scambio interculturale che non vada a finire

in un'appropriazione unilaterale o universale» (p. 154).

Nonostante alcune oscillazioni interne, ci sembra che il messaggio più significativo

della proposta teoretica di Waldenfels sia da riscontrare non tanto in un primato

dell'estraneo, quanto in una forma di dialettica fenomenologica, tesa a riconfigurare i

nessi tra i «grandi generi» (il «proprio» – l'«estraneo») al di fuori di qualunque

schematismo trascendentale o orizzonte ontologico rigidamente fondativo: ciò che

realmente conta e che dà (paradossalmente) la «misura» dell'estraneità è il dinamismo

dell'esperienza stessa, il suo «divenire estranea», così come non è possibile

comprendere le dimensioni del proprio (il corpo, il tempo, il mondo) senza seguirne la

genesi dall'estraneo, la permanente solidarietà con il suo appello. Da qui il taglio

pluralistico, dinamico e aperto della riflessione di Waldenfels sulle forme e gli eventi

della differenza, che nessuna teoria preliminare è in grado di anticipare o di esaurire.

L'estraneo è, per definizione, ciò che ci sorprende e non cessa di sorprenderci: la

fenomenologia, già con Husserl, ci ha insegnato che l'estraneità, il «perturbante», si

nasconde persino nelle pieghe dell'esperienza quotidiana, nei suoi oggetti più comuni e

marginali. C'è da chiedersi tuttavia se l'«esperienza dell'estraneo», concepita da

Waldenfels in modo così estensivo da confondersi talvolta con l'esperienza tout court,

con il movimento dell'esperienza, riesca a conservare, intensivamente, il proprio

carattere inquietante ed enigmatico, com'è nelle intenzioni dell'autore. Inoltre, è davvero

scontato che un approccio fenomenologico di tipo trascendentale (non necessariamente

normativo) debba mancare l'autentica posta in gioco nel fenomeno e nell'evento

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dell'estraneo? Il tema kantiano (e husserliano) delle «condizioni di possibilità»,

nonostante le ambiguità, le unilateralità e i sentieri interrotti che ne hanno caratterizzato

lo svolgimento nella filosofia moderna e che oggi ne rendono non proprio agevole la

ripresa e l'approfondimento, non appare facilmente eludibile in una teoria

dell'esperienza, come indirettamente testimonia il ritorno di interesse per Husserl anche

in settori della ricerca filosofica tradizionalmente lontani dalla fenomenologia europea.

Ma lasciando da parte la vexata quaestio del trascendentalismo, in una fenomenologia

dell'estraneo che non vuole essere mera descrizione, ma aspira a porsi come filosofia

dell'uomo, non occorre assumere (sia pure problematicamente) un'identità di senso

dell'umano, un plesso di condizioni minimali, irrinunciabili, che consentono di

riconoscere l'«umano» (e la sua dignità etica e ontologica) anche nelle figure più

radicali dell'«estraneità»? E questa identità, se non può più essere pensata come

sostanza o principio definitorio, né come ideale regolativo già disponibile e trasparente

nelle sue linee direttrici, non andrà ripensata, al livello ontologico elementare, come

struttura di bisogno: socialità originaria, generatività, bisogno dell'altro che

costituiscono il movimento stesso della vita umana e il fondamento delle forme

culturali, dei diversi modi di abitare il mondo e «sedimentare» il senso? La domanda di

senso, di cui la filosofia si fa interprete, non prende forma soltanto per un essere

strutturalmente «interpellato» dall'estraneo per eccellenza, dal mistero del tempo e della

morte, sul quale nessuno (come direbbe Waldenfels) può avere la prima o l'ultima

parola?

Dialegesthai (2009)