Vulcano Statale n°55

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numero 55, Novembre 2010 Il mensile dell’Università degli studi di Milano Televisione cattiva maestra? l’opinione di Massimo Bernardini Yellow submarine l’esondazione del Seveso e i disagi alla Linea 3

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Vulcano è un periodico di informazione nato nel 2003 per inizativa di alcuni studenti dell'Università Statale di Milano e da allora viene distribuito gratuitamente presso tutte le principali sedi dell'ateneo. Osservando con particolare interesse la realtà universitaria, propone ogni mese inchieste, approfondimenti culturali e di attualità, interviste e rubriche satiriche.

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numero 55, Novembre 2010Il mensile dell’Università degli studi di Milano

Televisionecattiva maestra?l’opinione di Massimo Bernardini

Yellow submarinel’esondazione del Seveso e i disagi alla Linea 3

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Sommario

numero 55, Novembre 2010

CORSIVO Irene NavaATTUALITÀYellow Submarinedi Daniele ColombiChe ne sarà della televisione italianadi Giuditta Grechi e Giuseppe ArgentieriSedia a rotelle: una vita spezzata?Elisa Costa e Alice MantiIl clima sta cambiando: cosa fa l’Unione EuropeaElena SangalliIl silenzio di chi non riesce a denunciarea cura di Denis Trivellato, Gemma Ghiglia,Elena Sangalli, Francesca GabbiadiniCULTURALa camera oscura di Stanley KubrickMatteo NavaNon è un Paese per giovani?intervista al regista Lemnaouer Ahminee all’illustratrice Valentina Grassinia cura di Luca Ricci e Valentina MeschiaMUSICANot MovingAlessandro MancaSATIRATop ten delle teorie cospirative più assurdeParte II, Elisa CostaRUBRICHEDa riascoltare per la prima voltaDanilo ApriglianoCruciverba Filippo BernasconiEDITORIALE Filippo Bernasconi

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L’Unione Europea ha avviato, in seguito a denuncia, l’ennesima indagine sulle esenzioni all’Ici applicate dallo Stato italiano nei confronti del Vaticano, le quali potrebbero andare contro al diritto di concorrenza. La Chiesa dichiara di non aver nulla da temere e Avvenire parla di un “vizio di forma”, un “ accanimento con cui un certo laicismo anticattolico cerca sistematicamente di sman-tellare le forme di presenza della Chiesa sul territorio”, per cui a voler seguire la normativa europea qualsiasi associazione non commerciale e di assistenza dovrebbe subire le stesse verifi che. Al di là delle possibili speculazioni tutte italiane che si appoggiano a cavilli legislativi e che si nascondono in mezzo al calderone dei trattamenti preferenziali, nello Stato dove le tasse sono una brutta parola e la sollevazione da tale sciagura è usata come promessa elettorale (quasi che dalla riduzione – o evasione – fi scale fosse la gente comune a guadagnarci), il potere ecclesiastico non vuole essere da meno. Forse è il caso di cominciare a pensare a una legi-slazione chiara sulle attività non a scopo di lucro, e di distinguere nettamente questa materia da ciò che è antico privilegio e sempre nuovo danno all’erario.

Irene Nava

Yellow Submarıne

in copertina: estratto da pubblicità d’epoca,originale concesso da James Vaughan

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Era una notte buia e tempestosa…Si potrebbe cominciare a raccontare così l’ulti-ma esondazione del Seveso, causata da un forte temporale abbattutosi su Milano.

È diffi cile chiamare fi ume quello che in realtà è un corso d’acqua lungo una cinquantina di chilometri, che termina la sua corsa immettendosi nel naviglio Martesana. Eppure sabato 18 settembre, straripando in Viale Fulvio Testi in direzione di Viale Zara e invadendo tutte le vie limitrofe, le acque del Seveso trasformano le strade in fi umi di fango. Per gli abitanti, purtroppo, non è una grossa novità: ci si ar-rangia con quel poco che si ha – sacchi di sabbia o sacchetti neri impermeabili – per evitare danni ingenti alle cantine e ai garage; ma questa volta le gallerie della linea 5 in costru-zione off rono un nuovo canale all’irruenza delle acque, che si rovesciano direttamente nel collegamento con la linea 3, alla stazione di Zara. Il disastro è compiuto: in Viale Zara, all’altezza della fermata Marche della futura metro, si apre una voragine che inghiotte terra e una macchina parcheg-giata, lasciando penzolare i binari del tram su cui corrono le linee 5, 7 e la metro tranviaria 31 che giunge da Cinisello Balsamo. Sembra di vedere un nuovo tipo di montagne russe, ma c’è poco da scherzare. All’altezza del civico 91 il piccolo hotel Gala e il ristorante la Valletta, già in diffi coltà per la chiusura del controviale, rimangono ora del tutto isolati, con conseguenze economiche non indiff erenti. In una notte sola una delle principali arterie di ingresso alla città di Milano è resa praticamente inagibile, tanto più che già gli scavi l’avevano ristretta e trasformata in una serie di deviazioni e corsie uniche.La settimana ricomincia nei peggiori dei modi. La metro gialla è chiusa fi no a Repubblica, l’ATM fornisce dei mezzi so-stitutivi per cercare di limitare il danno, ma è una tragedia annunciata. Tutta la zona è bloccata con code chilometriche e immobili, tutti gli autobus e le navette di collegamento sono stipate, qualcuno si muove a piedi alla volta delle fermate, altri provano a chiedere informazioni al personale messo a di-sposizione dall’ATM, ma le notizie non sono chiare: si parla di qualche ora di chiusura, di qualche giorno, addirittura di mesi. «La nostra pazienza ha esondato», recita un volan-tino fuori dall’Esselunga di viale Zara, il quale invita tutti i residenti delle zone 2 e 9, a nord di Milano, ad aff rontare l’emergenza e a partecipare a una riunione straordinaria. Il comune di Milano risponde scaricando la responsabilità su un solo assessore (Mascaretti), ma dal Consiglio di Zona straordinario non emerge alcuna soluzione.Un nuovo volantino spiegherà che nulla è stato risolto titolando “Il Seveso esonda e la Giunta aff onda nel fango di Viale Zara”: l’assessore Mascaretti non è stato in grado di rispondere alle spiegazioni richiestegli in tale sede, e in più aff erma con candore di avervi partecipato solo “per ascol-tare i cittadini”.Il giorno successivo la situazione peggiora. Un nuovo osta-colo si pone tra la zona 9 e il centro città: la metro gialla si blocca al mattino presto fi no a Porta Romana, stavolta per un guasto tecnico.

Yellow Submarınedi Daniele Colombi •••

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La gente, disperata, comincia a prenderla sul ridere e spera in qualche scherzo. Piazze della Repubblica diventa un punto di ritrovo per centinaia di persone che non sanno più cosa fare per potersi muovere e andare a lavorare. I mezzi sostitutivi per arrivare in Duomo non ci sono ancora: gli unici autobus disponibili tornano indietro a Maciachini. Ancora una volta bisogna fare appello all’arte dell’arrangiarsi: con i taxi, con i pochi tram – già stracol-mi – o semplicemente passeggiando per i Bastioni di Porta Venezia e il Parco di via Palestro. I tempi di percorrenza si allungano e capita di impiegare più di un’ora e mezza per arrivare in centro. Fortunatamente il danno dura poco: in tarda mattinata la circolazione torna regolare fi no a Repubblica: ed è già una conquista.I giorni passano e le notizie sono sempre più preoccupanti: 70 milioni di euro di danni, linea 3 chiusa per due mesi, molti dubbi e preoccupazioni sull’inaugurazione della linea 5, prevista per la primavera del 2011. nascono anche delle teorie diverse sulla causa di tale disastro: pare infatti che l’esondazione del Seveso non abbia provocato diretta-mente l’allagamento della metro, ma che sia stato causato da un tubo dell’acquedotto esploso sotto Viale Zara. I 60 mila metri cubi d’acqua, pompati ogni minuto, si mescola-no al fango delle gallerie della metro 5 e si riversano nella linea 3, arrivando fi no alla fermata di Centrale. Altre voci

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sostengono che la colpa sia di un contadino che avrebbe il controllo delle chiuse dei canali scolmatori del Seveso e il più delle volte si troverebbe impossibilitato a esegui-re il proprio compito. Discorso che assomiglia più a una leggenda e non trova alcun riscontro nei fatti. Al contrario la notizia dell’esplosione di un tubo dell’acquedotto può essere ritenuta vera, dal momento che la conferma viene direttamente dal sindaco di Milano Letizia Moratti. La prima cittadina, per placare gli animi, scende nelle gallerie della metro a constatare di persona i danni e chiede lo stato di calamità naturale, ma sia la Provincia che il Governo danno risposte vaghe, dicendo di aspettare.Lunedì 27 settembre alle 17.00 viene annunciata la riaper-tura di tutte le stazioni della linea 3: da Maciachini a Cen-trale la circolazione è regolare. nei primi minuti la gente sembra non credere alla notizia, anche perché ormai tutti si erano rassegnati ad aspettare qualche mese. Invece la me-tro prosegue il suo tragitto anche dopo la stazione Centrale, benché a velocità ridotta (20km/h).Ci sono volute 200 ore di lavoro da parte di una squadra di 500 persone dell’ATM, oltre ai tecnici di alcune aziende fornitrici, per tornare alla normalità; cento ore per svuotare le stazioni e le gallerie dai 150 mila metri cubi di acqua e fango, e altre cento ore peril ripristino della linea.Un lavoro eccellente che merita le prime pagine dei gior-nali milanesi, i cui titoli parlano di tempi record e gestione eccezionale. E l’Assessore ai Lavori Pubblici, Bruno Simini, annunciava con molta cautela una possibile riapertura per i primi di ottobre. non è chiaro se abbia commesso un sem-plice errore di calcolo o abbia adottato una strategia per dimostrare le capacità della giunta comunale in situazioni d’emergenza.“nel giro di 48 ore torneremo alla velocità normale” spiega il presidente dell’ATM Elio Catania, il quale non vuole ancora rivelare l’entità esatta dei danni – la cui stima resta sempre attorno ai 70 milioni di euro. Restano domande e dubbi sull’avvenimento: come mai si parla ancora di un canale scolmatore da costruire, quando il progetto venne presentato negli anni ‘70? Come è possibile che non fosse stata prevista un’eventuale esondazione delle acque del Seveso in cantieri situati in un territorio più volte soggetto a inondazioni?È possibile che un’intera zona di una città come Milano resti isolata e paralizzata per una notte di forti temporali?Che cosa potrebbe accadere se questa stessa situazione si ripresentasse durante l’Expo 2015? Manca ancora tanto tempo all’evento mondiale, ma tra litigi, fondi mancanti e imprevisti naturali, sembra diffi cile pensare di essere pron-ti a ricevere milioni di persone in città. E pensare che uno dei temi dell’esposizione universale sarà proprio l’acqua…

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C ominciamo da una domanda semplice: come nasce la televisione italiana?La televisione italiana nasce nel ‘54, affidata alla Democrazia Cristiana.Fino alla fine degli

anni ‘70 è stata una televisione fortemente pedagogica, ma anche capace di aprire al meglio del Paese, ai grandi intel-lettuali come Eco, Vattimo, Guglielmi, Furio Colombo. In seguito si capisce che la gestione illuminata della DC non può essere l’unica garanzia di pluralismo, allora – e siamo alla metà degli anni ‘70 – nasce la cosiddetta Riforma, che coincide con la fine della direzione Bernabei. La RAI viene tripartita: alla DC va il primo canale, al mondo laico-socia-lista il secondo e ai comunisti la tv regionale.Poi, negli anni ‘80, arriva questo strano signore dall’edi-lizia che si chiama Silvio Berlusconi. E lui è l’unico che intuisce una cosa fondamentale: per fare la fortuna della tv commerciale non devi più decidere quali spazi dare e come impiegarli, ma dare l’opportunità a forze piccole, impren-ditoriali di partecipare al banchetto televisivo.Comunemente si crede che l’arrivo di questa nuova tele-visione, culturalmente peggiore della precedente, abbia influito negativamente sulle persone, rimbecillendole…C’è un modo molto banalizzante di affrontare il problema, ma se lo affrontiamo in termini antropologici è molto se-rio. In una società come la nostra, dove le cosiddette agen-zie educative – la Chiesa, la scuola, la famiglia, i partiti, il mondo operaio – stanno perdendo la loro forza formativa, la televisione ha assunto un peso evidente in termini di modelli antropologici. Questo è un problema vero, perché gran parte della popolazione italiana fruisce in maniera pesante proprio della televisione, a discapito degli altri media.La televisione commerciale, per sua natura, non si è mai assunta problemi di tipo pedagogico o educativo, ma solo il compito di massimizzare gli utili. In questo Mediaset è stata uno dei più clamorosi esempi europei. Però, laddove c’è un canone pagato dal cittadino, la RAI avrebbe dovuto mantenere il proprio lavoro di servizio pubblico, ma con la corsa alla massimizzazione degli ascolti si sta dimentican-do cosa voglia dire farlo.Quale può essere la soluzione?Sto diventando sempre più scettico a riguardo. Se lei mi avesse fatto questa domanda cinque anni fa, le avrei rispo-sto: sì, bisogna fare, costruire... Dentro la RAI c’è ancora una bella fetta di persone che è cresciuta dentro un grande progetto culturale, e ne ha memoria, ce l’ha nel suo DnA,

Che ne saràdella televisioneitaliana?Intervista a Massimo Bernardini,giornalista e conduttoredel programma di RAI3 TvTalk.di Giuseppe Argentierie Giuditta Grechi

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Che ne saràdella televisioneitaliana?Intervista a Massimo Bernardini,giornalista e conduttoredel programma di RAI3 TvTalk.di Giuseppe Argentierie Giuditta Grechi

ma non è questa la RAI che ha figliato. E man mano chi ha costruito l’identità forte della prima RAI se ne andrà. Or-mai c’è una classe dirigente che in gran parte non sa come si fa il servizio pubblico, questa è la verità e questo la sta facendo morire.A proposito di pluralismo, anche la RAI oggi ha diversi canali, oltre a quelli istituzionali. Chi fa televisione in questo momento, chi ne è il vero artefice, chi sono quelli che regolano i palinsesti, scrivono i programmi, eccetera?Ormai la nostra è una televisione che va per forti personali-tà. Un esempio: Maria De Filippi. È il 50% di Canale 5, e lo è in quanto De Filippi, grazie alla sua capacità di fare ascolti, di fare corpo con il Paese, di interpretare un certo tipo di classe giovane. Parallelamente a una De Filippi, può corri-spondere Carlo Conti. Paradossalmente Conti, che sembre-rebbe apparentemente “una cosa priva di personalità”, in realtà dà un cifra forte alla RAI in questo momento, che è ahimè una cifra di revival, di memoria, di ricordo.Non c’è quindi un’idea programmatica.no. Cominciò a sperimentarlo Berlusconi: direttori di rete, quindi non gestori di una linea editoriale, ma uomini di marketing, che riuscivano a soddisfare il target di pubbli-co. Questo modello si è trasferito anche dentro la RAI. Vi faccio un esempio molto significativo. Dentro la RAI si sta diffondendo sempre più l’idea di affidare le reti ai giornali-sti, che è un non senso: il giornalista non sa di palinsesto, il giornalista ha un altro tipo di formazione. Eppure pensia-mo a Del noce, Mazza, Ruffini, Di Bella. Le due reti princi-pali – RAI 1 e RAI 3 – sono dirette ormai da almeno quindici anni da giornalisti. Prima il cursus per diventare direttore di rete era diverso.Passiamo a Tv Talk. Lei ha una redazione giovane, sono tutti universitari, giusto? Cosa vede in questi ragazzi,

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foto Royal Constantine

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nati con la televisione, rispetto per esempio ai docenti presenti in trasmissione? Nota una differenza anche nell’interpretazione delle cose?Eh sì, perché tutta la storia di cui vi ho parlato prima, i ragazzi di oggi non la conoscono. Io sono nato teledipen-dente fin da bambino, ma teledipendente RAI, mentre i ragazzi sono cresciuti dentro le reti Mediaset. Ma c’è an-che un altro problema. Oggi noi stiamo idolatrando, in ter-mini di afflusso, le Facoltà di Scienze della Comunicazione, che sono il vero boom degli ultimi quindici anni. Stiamo sfornando, e lo stesso vale per chi studia giornalismo, tonnellate di laureati che non sapremo come impiegare.Secondo lei la televisione è ancora un mezzo rivoluzio-nario, ha ancora la capacità di cambiare le cose che aveva quando è nata? Oppure lo è sempre meno, rispetto a internet, per esempio.Io ho l’impressione che sia destinata ad appannarsi un po’. Quello che mi colpisce è che si sta affermando un modello di rito televisivo che non ha più al centro l’appuntamento televisivo. Tutto si può seguire in differita sul sito RAI, al di là del giorno di messa in onda. E questo rivoluzionerà i palinsesti. Secondo me l’impero della tv generalista finirà fra una decina d’anni, forse meno. La pubblicità andrà da altre parti, come già sta succedendo: sta scendendo visto-samente dai giornali, poi scenderà dalla televisione gene-ralista, e quest’ultima si ridurrà di peso ed entrerà in un mezzo come internet, spezzettata e sparsa. Però c’è ancora una cosa da risolvere: il modello di business. Finora dentro la tv generalista era chiaro come si poteva sviluppare il rapporto fra pubblicità e canone, come si poteva rientrare nei costi. Con internet il modello è ancora acerbo. Tutti stanno correndo verso la tv a pagamento, hanno capito che il vero business su cui lavorare, adesso che la pubblicità è in crisi, è un prodotto su misura per lo spettatore che è disposto a pagare. E sarà sempre più così.Come sarà la televisione del futuro?Come sarà francamente non lo so. Io vedo che il futuro è un gran casino, sopratutto se non si risolvono i modelli di business, cioè la redditività vera, il lavoro. Per adesso tutto quello che noi vediamo è prodotto da un modello di business precedente – o pubblicità o canone-. Ci si basa ancora sui prodotti generalisti, anche se magari vengono guardati su YouTube e non solo attraverso la canonica messa in onda. Vediamo Un medico in famiglia, Checco Zalone, Susan Boyle, quei pezzi di televisione generalista che sono pagati ancora da un vecchio modello di business. Ma se questo viene meno? Qualcuno Zalone lo deve pagare, qualcuno deve pagare i cameraman, lo scenario, il teatro. Stessa cosa sta per succede con la musica: chi li paga i dischi alla fine? Scarichiamo tutti gratuitamente – mera-viglioso – ma alla fine, quando si devono tirar fuori quelle migliaia di euro per andare in sala di incisione, chi li caccia questi soldi?L’idea che bisogna pagare per avere queste cose oggi è quasi un insulto, ma non può durare all’infinito, perché altrimenti finiranno i musicisti. Il musicista deve mangia-re. Qui si tratta di capire chi inventerà nuovi modelli. Insomma sarà un nuovo mondo, vedremo che mondo sarà.

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Videoergo sumLa televisione fa scuola

Nell’estate del ’94, un Karl Raimund Popper no-vantaduenne e fisicamente molto debilitato – morirà a settembre dello stesso anno – non rinunciava ad affermare con decisione i pro-

pri timori riguardo alle potenzialità negative del mezzo televisivo. Il saggio cui Popper dedica le sue riflessioni, dall’eloquente titolo Cattiva Maestra Televisione, è stato molto apprezzato a livello internazionale, ma altrettanto criticato e discusso, non senza qualche sfiducia nelle capa-cità di un vecchio filosofo, nato agli albori del novecento, di capire un mezzo ancora così giovane come la televisione, tutto proiettato nel secolo successivo. Ma rilette oggi, a distanza di quindici anni, le sue riflessioni e i suoi moniti non sembrano poi così antiquati e privi di fondamento. Le sue maggiori preoccupazioni sono rivolte alla forza con cui la legge della corsa all’audience riesce a plasmare i pro-grammi televisivi trascinandoli sempre più verso un fondo privo di qualità. Violenza, sesso e sensazionalismo sarebbe-ro così le spezie di un piatto mediatico pressoché insipido e cucinato con crescente incompetenza. Il problema a questo punto diventa per Popper educativo: la televisione, così mercantilisticamente definita, continua ad occupare un terreno sempre più vasto nell’ambiente di crescita dei bam-bini, che non sono ancora in possesso degli strumenti per affrontare autonomamente e in modo critico la fruizione televisiva. Il filosofo austriaco, che nei primi anni ‘30 aveva insegnato nella scuole secondarie viennesi, sottolinea il ca-rattere artefatto, man made, di una televisione che è a tutti gli effetti opera dell’uomo, e che non può quindi fregiarsi delle peculiarità di naturalità e neutralità che gli sembrano invece implicitamente attribuite dalla nostra società. Ma per Popper la televisione non è condannata ad essere una cattiva maestra. Sta a chi fa televisione non dimenticare che il mezzo di cui è responsabile è parte integrante, che lo si voglia o meno, anche della formazione dei bambini e dei ragazzi. Per far sì che la televisione assolva al meglio il proprio ruolo educativo Popper propone, destando forse proprio su questo punto le critiche più salde, l’istituzione di una patente, una licenza, un documento che certifichi la competenza e la qualità professionale di chi produce, elabora e partecipa alla realizzazione dei programmi. Malgrado la proposta sia parsa a molti ingenua e ad altri un po’ rigida e perfino pericolosa – per la possibilità che “i patentati” diventino una casta monopolistica del mezzo e dei suoi contenuti – resta con evidenza un notevole vuoto di responsabilità da colmare. E il dibattito che tiene quoti-dianamente impegnata l’opinione pubblica – dentro e fuori dalla televisione – è alla continua ricerca di colpe, meriti e demeriti di questa deresponsabilizzazione. La soluzione di Popper sembra essere stata per il momento abbandonata, ma nient’altro ha preso il suo posto.Per dovere di cronaca bisogna ricordare che Popper aveva come riferimento nelle sue indagini la televisione priva-ta di Murdoch e Maxwell, e conosceva poco la situazione italiana. È invece notoriamente italiano l’autore di un provocatorio testo sulle modificazioni antropologiche cui il mezzo televisivo sottoporrebbe l’uomo. In Homo Videns, pubblicato per la prima volta tre anni dopo il saggio pop-

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periano, Giovanni Sartori sostiene senza indugio l’impo-verimento dell’apparato cognitivo umano ad opera della televisione. Il predominio del visibile sull’intellegibile porterebbe lo spettatore al pigro automatismo del vedere senza capire, del fruire passivamente di una sequenza di immagini senza che vi sia la necessità di intervento della capacità astrattiva e dell’immaginazione, che sono invece alla base dello sviluppo del pensiero dell’uomo, della sua evoluzione in quanto specie. Sartori non dimentica poi il ruolo, sempre in questa direzione, del fenomeno internet, che porterà l’homo digitalis a rimpiazzare il suo recente antenato homo prensilis. non si tratta solo di una modi-ficazione genetica, la televisione ha trasformato radical-mente le condizioni della nostra società: l’opinione pubbli-ca è telediretta, nasce e dipende dallo schermo. La politica è diventata videopolitica, e i politici non possono fare a meno di diventare immagini in movimento e di sfruttare l’efficacia invasiva dell’opinion leadering televisiva. È an-cora Popper d’altronde a ipotizzare che “un nuovo Hitler avrebbe, con la televisione, un potere infinito”.non manca certo chi si propone di non demonizzare il mezzo televisivo, di non farne il capro espiatorio della mancanza di responsabilità da parte delle agenzie infor-mative tradizionali – scuola e famiglia in primis. Ma è pur vero che la fruizione di contenuti televisivi, ordinati dalla programmazione continua del palinsesto o scelti libera-mente nella rete, occupa buona parte del nostro tempo, e oltre a guardarla, della televisione, dei contenuti che trasmette, si parla, si discute, e si scrive, tanto che anche la stampa non può fare a meno di riferirsi a ciò che succede in tv, ben oltre i confini delle pagine di critica culturale. La televisione è diventata ormai un fatto di cronaca, è a pieno titolo parte del reale. Lo scalpore suscitato di recente dalla rivelazione alla madre di Sara Scazzi a Chi l’ha visto? del ritrovamento del cadavere della figlia, senza che il colle-gamento in diretta tv venisse sospeso, ne è solo l’ultimo esempio. Il problema, come non manca di evidenziare Sartori, è che l’immagine televisiva non è reale, è mediata e costruita dagli autori, è frutto della loro scelta consape-vole di intervenire sul reale, comunicando ai telespettatori il proprio punto di vista, la propria opinione.In definitiva, apocalittici o integrati, la grande questione delle potenzialità del medium televisivo rimane aperta.

Giuditta Grechi

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Sedia a rotelle:una vitaspezzata?

I posti auto per i diversamente abili sono sempre vuo-ti, quando si cerca parcheggio da mezz’ora il pensie-ro di non poterli occupare è frustrante. Certe disposizioni politically correct risultano perfino

scomode a chi ha la fortuna di potersi definire “normale”. Ma sono anche l’unico mezzo che garantisce una parvenza di normalità a chi convive con un handicap. Abbiamo incontra-to alcuni di loro per raccontarvi le loro storie.Benvenuti nel mondo della sedia a rotelle: un universo paral-lelo che in fondo è uguale al nostro, solo visto da una diversa prospettiva.

ANTONIO 49 anni, sulla sedia a rotelle dal 2003.La sua moto travolta da un camion. Poi la corsa in ospedale, e le settimane in terapia intensiva sospeso tra la vita e la mor-te. Questa parte della sua vita Antonio la chiama “il brutto incidente”, quella che per lui ha significato un limbo doloro-so, fino alla definitiva, durissima diagnosi: la conferma che la sua vita si era spezzata. Tra la quarta e la quinta vertebra, per esattezza. Paralizzato dalle spalle in giù.“É dal momento in cui ti siedi che iniziano i drammi. Io ho dovuto imparare a stare sulla carrozzina, conoscere la carrozzina, le mie forze e le mie barriere. A distanza di sette anni è ancora un continuo avanzare come i bambini piccoli. Qualche anno fa ho avuto la febbre altissima. Il dottore pen-sava avessi la colecistite, ho fatto l’intervento e sono stato meglio. Ma per la diagnosi è andato tutto a tentativi: non potevo dire “mi fa male qui, sarà questo”. Io non ho dolore. Chissà cos’è questo!”.Antonio oggi lavora in un ufficio, guida la macchina e cerca di conciliare il più possibile il suo handicap con la volontà di una vita “normale”, anche se non è sempre facile. “Vorrei fare più attività fisica, ogni tanto vado a nuotare. Ma non sono molte le piscine attrezzate per chi è come me, mentre di palestre per fare sport non ce ne sono del tutto!”.Alla fine dell’intervista, prima di andare Antonio ci racconta anche di quanti ragazzi ha conosciuto in questo ambiente, rimasti paralizzati da giovanissimi a causa di un incidente il sabato sera o di una bravata finita male. “Io ho una certa età, ma a sedici, diciassette anni sembra che uno non abbia vissu-to davvero. E sono molti più di quanti si possa immaginare”.

Franklin D. Roosevelt

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A.B. 70 anni, poliomielitico dalla nascita,sulla sedia a rotelle da dieci anniCom’è muoversi a Milano in carrozzina?Beh, la metropolitana non l’ho mai presa perché può succe-dere che l’ascensore funziona dove sali ma non dove arrivi. Anche con gli autobus non ho esperienze. Andare in giro per strada è terribile, il giorno che c’è il lavaggio delle strade parcheggiano le macchine sul marciapiede, con la carrozzi-na bisogna andare in strada ed è pericolosissimo.Cos’è cambiato, relativamente alle cure, nel corso della sua vita?L’attenzione è cambiata. Io ho camminato fino a 39 anni senza ausilio, sbattevo le gambe ovviamente, e se c’era vento forte perdevo l’equilibrio; una volta sono caduto. Quando sono andato in pensione, nel 2000, sono finito sulla carroz-zina a causa dei dolori. Ciononostante non mi sono “seduto”, faccio molte cose: data la mia esperienza in banca, curo gli interessi della mia famiglia e di altre persone. E poi faccio volontariato per il centro “Il Gabbiano”. Da qualche mese inoltre ho una nipotina da curare! Ogni tanto vado in par-rocchia, e ultimamente faccio anche teatro.Per quanto riguarda la vita domestica, è la casa ad adat-tarsi a lei o è lei ad adattarsi alla casa?Sono io ad essermi adattato, e non ho chiesto alla casa niente in più di quello che ho. C’è un seggiolino tra water e lavandino, e un altro a cui mi appoggio, ma sono seggiolini dell’Ikea per intenderci! nella doccia abbiamo tolto un ve-tro, così riesco ad entrare, e c’è un seggiolino.Tiriamo le somme: cosa le toglie e cosa le dà la sua condi-zione?Mi toglie tanto. Pensa che non ho un ricordo di vita sana. Cosa mi ha dato… ecco, guardiamola dal lato positivo, mi ha dato una famiglia, un diritto al lavoro in quanto categoria protetta, per essere alla pari con gli altri. nella vita c’è il buono e c’è il cattivo, il cattivo cerco di dimenticarlo, il buo-no di godermelo. Questa è la mia filosofia: adeguiamoci!

X 54 anni, affetto dal morbo di Wilson dai 24.X ha un nome, un cognome e due bellissimi occhi azzurri, ma per ragioni di privacy possiamo parlare solo di questi ultimi. Sono il primo e più immediato mezzo che lui ha per comunicare. L’altro è una macchinetta rossa dalle lettere usurate, che impiega per scrivere brevi messaggi. Ma per rilasciare questa intervista ha voluto a tutti i costi battere le sue risposte sulla tastiera del proprio computer.Come hai attrezzato casa alle tue esigenze?Cerco di adattarmi io.Cosa ti piace fare, di solito?Uscire. Di solito al bar.Come ti trovi a girare per Milano con la carrozzella?Male. Molto male. (Dietro di lui Giacomo Marinini, presi-dente dell’associazione Il Gabbiano, ricorda di quando sono andati al museo di Storia naturale e non hanno incontrato problemi né con l’ATM né con la struttura. X ci pensa un at-timo, poi prende a battere) Sì, ma è stato un caso. In genere gli autobus hanno la pedana, ma è rotta!Che rapporto hai con le altre persone?Buono. Anche perché io sono molto socievole quando sono fuori.

DAVIDE 24 anni, affetto da tetraparesi spastica eMICHELE, 23 anni, affetto da spina bifida.Entrambi studenti alla Statale di MilanoCom’è muoversi a Milano con la carrozzina?D: È complicato, non in tutti i marciapiedi ci sono gli scivoli. Clamorosamente ce ne sono più in periferia che in centro. Tram ed autobus sono accessibili, a parte quelli vecchi che

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non sono più molto frequenti. noi abbiamo a disposizione un pulmino, gratis per me e per un accompagnatore, basta fare una tessera per disabili.M: Io aggiungo solo una chicca: solo la linea gialla della metro ha gli ascensori, non in tutte le stazioni, e in piazza Duomo ce n’è uno solo. In Centrale non esiste nemmeno, c’è un montascale che una volta su 2 non funziona. E la scala mobile per un disabile in carrozzina è impraticabile, vuol dire rompersi l’osso del collo.E in università?D: È tutto a posto, diciamo che nella sede di Scienze Politiche non ci sono posti dove non si può accedere.M: In Festa del Perdono è un po’ diverso, non si può rag-giungere Crociera Alta perché l’ascensore è troppo stretto. L’ultima volta mi hanno aiutato in quattro sulle scale.D: Uno dei due ascensori vicini all’Aula Magna è largo abba-stanza per noi, ma non arriva a tutti i piani.E proprio nell’atrio dell’Aula Magna hanno appena rifatto la rampa, allungandola e facendola girare ad angolo, che ne pensate?D: È una cosa buona, ma fare quella rampa è faticoso, pur essendo a norma, perché l’inclinazione c’è. Io mi sono dovuto far spingere: non vuol dire che da solo non ce la fai, però ar-rivi stanchissimo. Ad ogni modo non potevano fare di meglio con lo spazio che avevano.M: Per farla da soli occorrono una forza ed un fiato enormi, perché è pendente e lunga pur essendo appunto a norma, ma con una mano si fa.Come vi organizzate per uscire la sera?D: nella maggior parte dei locali non si riesce ad entrare se si ha la carrozzina elettrica, perché spesso c’è un gradino alto.M: Infatti, quattro persone possono sollevare una carrozzi-na “semplice”, mentre non ce la fanno con una elettrica con motore e tutto.D: La cosa assurda poi è che in molti locali pubblici non c’è il bagno per disabili.M: Però qualcuno lo trovi, dai. Se ti sbatti un po’ li trovi.E voglia di sbattersi, di darsi da fare, tutte queste persone ne hanno da vendere. Conciliare la forzata dipendenza dalla sedia a rotelle con il naturale desiderio di autonomia è una sfida non da poco, ma perseguita con grande coraggio, e spesso con poca risonanza nella vita delle persone “norma-li”. noi, portando all’attenzione di voi lettori le loro storie, speriamo quantomeno di avervi stimolato a guardarvi intor-no da un’altra prospettiva, e magari a pensarci su prima di parcheggiare senza problemi sul marciapiede.

Elisa Costa e Alice Manti

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Tra le persone che abbiamo intervistato dueci sono state indicate dall’associazione OnLUS“Il Gabbiano”, che ha sede operativa in via Ceriani 3 (zona Baggio). È dotata di una comunità alloggi e si propone di creare occasioni di svago, di dare supporto psicologico alle persone disabili e alle loro famiglie mediante un Centro d’Ascolto. Fornisce inoltre servizi di orientamento e consulenza legale.L’Associazione è in cerca di volontari: chi fosse interessato può contattare i responsabili allo 0248911230, o mandare una mail all’indirizzo [email protected]

Associazione Il GabbianoNoi come gli altri

foto Niels Löchel

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Il Climasta cambiandoChe cosa sta facendol’Unione Europea

Il cambiamento del clima e le sue conseguenze, di cui si è parlato nel numero precedente di Vulcano, sono uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni. Quali passi sono stati fatti a livello internazio-

nale per affrontare la situazione?Con il protocollo di Montreal (entrato in vigore il primo gennaio 1989) sono stati banditi i cloro fluoro carburi (CFC) gas serra creati dall’uomo, non presenti in natura. Altro traguardo importante è stato raggiunto con il pro-tocollo di Kyoto – entrato in vigore nel 2005 – che impone l’obbligo ai Paesi industrializzati di operare una riduzione delle emissioni di ben altri cinque gas serra (ovvero me-tano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo) oltre all’anidride carbonica, in una misura non inferiore al 5% rispetto alle emissioni regi-strate nel 1990 – considerato come anno base – nel periodo 2008-2012. Grandi speranze si riponevano nel vertice di Copenaghen che però si è concluso il 19 dicembre dell’anno scorso con un deludente accordo non vincolante.L’Unione Europea, che era pronta a ridurre le proprie emissioni del 30% se anche gli altri Paesi industrializzati avessero assunto impegni analoghi, in seguito al risulta-to insoddisfacente si è impegnata comunque a ridurre le proprie emissioni entro il 2020 di almeno il 20% rispetto ai livelli del 1990.Concretamente quali sono le misure adottate dall’ UE?La misura di gran lunga più importante, sviluppata nell’ambito del programma europeo per il cambiamento climatico (ECCP), è il sistema di scambio delle quote di emissione (ETS), varato all’inizio del 2005.Gli stati dell’UE concedono a ciascun impianto o centrale elettrica il diritto di emettere ogni anno un determinato quantitativo di anidride carbonica, le cosiddette quote di emissione. Sono fissate penali molto elevate per le impre-se che sforano, mentre gli impianti che emettono meno anidride carbonica possono vendere le quote di emissione inutilizzate ad altri impianti. Un importante incentivo finanziario per le imprese, incoraggiate a ridurre le proprie emissioni adottando nuove tecnologie, con risvolti positivi non solo per l’immagine dell’azienda, ma anche dal pun-to di vista economico. Il tetto delle emissioni consentite viene ridotto di anno in anno dagli Stati. In realtà l’attuale sistema prevede ben ventisette tetti diversi, ma a partire dal 2013 dovrebbe essere stabilito un limite unico per tutti i Paesi appartenenti all’UE.Il sistema si applica attualmente a 11.000 centrali elettri-che e impianti ad alto consumo, che nel loro complesso sono responsabili di quasi la metà delle emissioni di anidri-de carbonica nell’Unione.nel 2012 l’ETS sarà esteso anche alle emissioni derivanti dal trasporto aereo.Per il periodo 2007-2013 l’Unione Europea ha aumentato il proprio budget per la ricerca nel campo dell’ambiente e

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dell’energia fino a 8,4 miliardi di euro. Un altro passo avanti è stato l’incentivo dato allo sviluppo delle tecnologie CCS (cattura e stoccaggio di biossido di carbonio), che consen-tono di catturare l’anidride carbonica emessa dai processi industriali e di stoccarla sottoterra, dove non può contribu-ire al riscaldamento globale.L’Unione Europea ha inoltre attuato varie strategie per mettere in condizione anche i Paesi in via di sviluppo di so-stenere un’industria compatibile con la nuova emergenza climatica, e si è anche impegnata a stanziare 2,4 miliardi di euro nell’ambito dell’assistenza finanziaria annua a questi paesi nel periodo 2010-2012. (http://ec.europa.eu/environ-ment/climat/pdf/brochures/asia_it.pdf )I cambiamenti climatici sono un proble-ma mondiale ed è sicuramente necessa-ria un’azione decisa a livello globale, ma anche il comportamento dei singoli indi-vidui può fare la differenza.Cosa possiamo fare noi per diminuire le emissioni dei gas a effetto serra?Ci sono i soliti piccoli accorgimenti più o meno conosciuti che vanno dal non lasciare il carica batterie del cellulare at-taccato alla presa, al prendere lampadine a basso consumo, dal non lasciare elettrodomestici (come il computer o la tv) inutilmente accesi al non usare l’auto se non è strettamente necessario (le automobili private producono il 12% delle emissioni di anidride carbonica).Soluzioni indubbiamente efficaci ma meno alla portata di tutti consistono nel passare a un fornitore di elettricità verde (quindi che proviene da fonti di energia rinnovabile), prendere auto a basso consumo, acquistare quando possibi-le prodotti con il marchio ecologico europeo (che indica che i prodotti soddisfano rigide norme ambientali), scegliere hotel e destinazioni per le vacanze che perseguono obietti-vi ambientali.Quindi due sono le cose principali che ognuno di noi può fare: consumare responsabilmente (orientando così anche la produzione verso la sostenibilità ambientale come già avviene nei paesi del nord Europa) e fare pressione come cittadini verso chi ci rappresenta, dicendo forte e chiaro che vogliamo un mondo pulito per noi e per le generazioni future.

Elena Sangalli

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Violenza sessuale:il silenziodi chi non riesce a denunciaredi Denis Trivellato, Gemma Ghiglia,Elena Sangalli, Francesca Gabbiadini

In Italia sette donne violentate su cento denun-ciano il proprio aggressore. Il 2% dei reati di tipo sessuale è rivolto verso uomini. Il 58% dei casi è com-posto da donne italiane. Quasi tutte decidono di non

intraprendere la via legale, pur essendo gratuita [dati Istat & SVS].“Un’indagine telefonica dell’Istat effettuata nel 2006, su un campione rappresentativo di donne fra i 16 e i 70 anni, rivela che 6.743.000 italiane sono state vittima di vio-lenza fisica o sessuale nel corso della loro vita, e che nella quasi totalità dei casi le violenze non sono state denuncia-te: nel 93% dei casi la violenza è stata causata dal partner.”Compendio di Criminologia,Ponti e Merzagora Betsos, 2008La Regione Lombardia, secondo i dati Istat, detiene circa il 17% dei casi di abusi, maltrattamenti e violenze. Tale dato deve essere, purtroppo o per fortuna, rapportato alla popo-lazione regionale, pari al 16,3 % di quella nazionale, e che porta quindi la Lombardia in media con il resto dell’Italia.Molti di questi casi non escono dalle mura domestiche . Altri cercano di es-sere dimenticati. Altri ancora non sono vissuti come violenza ma come semplice “comportamento eccessivo”.L’Assessore del Comune alla Famiglia, Scuola e Politiche Sociali, Mariolina Moioli, ci racconta che il Comune di Milano negli ultimi anni ha potenziato la rete di enti che operano sul territorio cittadino, con l’obiettivo di prevenire e di contrastare la violenza contro le donne.Inoltre, nel 2009 il Comune ha dato il via al primo corso in Italia rivolto alle Forze dell’Ordine, che saranno dotate di un vademecum per gli operatori che occupano una posizio-ne di “frontiera” rispetto alle potenziali vittime dei reati di riduzione in schiavitù e tratta, e di una “processing card”, per un corretto intervento delle pattuglie in caso di segna-lazioni di maltrattamenti.Secondo l’Assessore Moioli “si vuole offrire uno strumento in più a coloro che si trovano spesso a contatto con storie di sofferenza che bisogna saper interpretare.” Tra gli obiettivi dell’iniziativa comunale anche quello di far cambiare, nella vittima e nell’operatore di polizia, la percezione del reato di violenza intrafamiliare: non più un fatto privato, ma un grave reato contro la persona.Considerando le 93 persone su 100 che non denunciano

foto Aracelota

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Violenza sessuale:il silenziodi chi non riesce a denunciaredi Denis Trivellato, Gemma Ghiglia,Elena Sangalli, Francesca Gabbiadini

possiamo indicare tendenzialmente che in Lombardia una persona ogni 1174 abitanti compie un reato di tipo sessuale (la media nazionale è di una persona ogni 1219). Oggi in Lombardia, tendendo conto delle sole denunce e degli arre-sti eseguiti, per questo reato viene segnalata una persona ogni 15866 abitanti.“Sono nata in una famiglia benestante, ho frequentato scuo-le private e ricevuto un’educazione tradizionale, all’antica rispetto a quella di oggi, eppure sono stata violentata e non ho denunciato il mio aguzzino. Avevo ventuno anni quando ho subito violenza e per altri venti ho tenuto dentro di me la paura, la rabbia e l’odio…questa fu la mia condanna che mi marchiò come una piccola preda per sempre…”P. T. Iachino, vittima di violenza sessuale

Denis Trivellato

Conoscereper difendersi

Siamo riuscite a trovare una porticina con il cartellino SVS e a fissare un appuntamento con l’assistente sociale Donatella Galloni, re-sponsabile del corso di formazione: “Violenza

sessuale: come conoscere, prevenire e intervenire.”Come prima cosa la dott.sa Galloni ha voluto definirne il concetto, descrivendola come “una lesione, fisica o psichi-ca, al di là del consenso,” citando anche l’articolo 609bis del codice penale che identifica come reo “chiunque con violenza o minaccia o abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali”.Ma come viene percepita? “Paradossalmente sono più le volte in cui non viene avvertita come tale, gran parte delle violenze sessuali si riferiscono infatti alla sfera domestica ed è chiaramente più difficile chiarire la natura di un’ag-gressione subita da parte di un marito o di un fidanzato.”

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Altra reazione molto comune, fortemente influenzata da fattori culturali, è la convinzione da parte della donna di essere responsabile per ciò che le è accaduto, un senso di colpa che può essere variamente alimentato dal contesto sociale.Nel 2007 in Italia il numero delle donne vittime di vio-lenza ammonta a 1 milione e 150 000 secondo i dati Istat. Sono le giovani dai 16 ai 25 anni a presentare i tassi più alti. nella maggioranza dei casi, circa il 60%, l’aggressore è una persona nota, mentre nel 40% dei casi è uno sconosciuto o semi-conosciuto, come una persona conosciuta di vista o da poche ore. “Preoccupante fenomeno in crescita è l’uso di GHB, la droga dello stupro”. Continua la dottoressa: “Pro-voca una sensazione di benessere, rilassatezza, aumento della sensazione tattile, spigliatezza ed anche aumento del desiderio sessuale. Il mattino dopo ci si sveglia con quelli che sembrano i postumi di una sbronza e la quasi totale as-senza di ricordi del periodo d’effetto della droga stessa”. Dal gennaio di quest’anno ci sono stati più di 150 casi accertati.“Sono molte le ragioni per cui una donna può decidere di non denunciare una violenza: non è raro che cerchi di dimenticare l’episodio o si rifiuti di intraprendere quello che può rivelarsi un umiliante percorso di accertamenti medici, interrogatori di polizia e confronti diretti in sede di giudizio”.La legge prevede che la denuncia debba essere fatta entro sei mesi dall’accaduto ed è obbligatoria in caso di violenza su minore o aggravata da altri reati, come possesso di armi o violenza di gruppo.Molti consultori si sono dotati di organi di assistenza lega-le, in modo tale da fornire un percorso completo all’interno de loro mura protettive, semplificando l’iter di denuncia.Fra questi, l’SVS e il CPD:SVS Soccorso Violenza Sessuale dell’ospedale Maggiore Policlinico (Via della Commenda 12, tel. 02/55032489)Offre gratuitamente un servizio sanitario completo, un per-corso psicologico di 12 sedute e assistenza legale. È aperto 24 ore su 24 ogni giorno dell’anno, ma telefonicamente è contattabile solo dalle 09.00 alle 15.00. È piuttosto difficol-toso da trovare all’interno di un ospedale così grande, ma è anche vero che solitamente le ragazze vengono accompa-gnate da genitori e amici o scortate dalle forze dell’ordine.CPD Centro Problemi Donna, consultorio laico autogestito (via Silvio Pellico 6 tel. 02/861145)Aperto dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 19.00. Offre, ol-tre a un’ottima accoglienza e totale disponibilità, un servi-zio ginecologico completo che spazia dalla contraccezione alla visita per IVG (Interruzione Volontaria della Gravi-danza), counseling terapeutico individuale e di gruppo e supporto legale. Il CPD è un ottimo centro di assistenza sociale ma, a differenza del SVS, non specializzato in casi di violenza sessuale.Ci ricorda la dottoressa Galloni: “Arrendersi e chiudersi in se stesse rende doppiamente vittime.”

Gemma Ghiglia e Elena Sangalli

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Una questioneculturale?

In Italia lo stupro è illegale, ma non lo è la cultu-ra dello stupro. Gli studi che affrontano questa mentalità, assai diffusa nel civile e paritario oc-cidente, non sono incoraggianti. Emilie Buchwald,

Pamela Fletcher e Martha Roth, autrici di Transforming a Rape Culture, testo pubblicato nel 1993, definiscono questa emergenza sociale come “un complesso di credenze che in-coraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. [...]Una cultura dello stupro condona come “normale” il ter-rorismo fisico ed emotivo contro donne. nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse.”Dalle numerose riviste che dedicano la loro pagina cultu-rale ai seni rifatti, ai reality show – dove chi più ne ha più ne metta –, ai mega cartelloni pubblicitari, al Parlamento, con la tristemente nota battuta di Berlusconi, che lo scorso anno, in merito ai casi di stupro nella capitale, commentò: “Dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle ragazze italiane, credo che non ce la faremmo mai…”. Esempi fin troppo noti? Allora provate ad aprire uno di quei giornali per ragazzine, andate verso le ultime pagine. Quando io avevo dodici anni, il massimo che potevo trovare era un test su quale fosse l’uomo della mia vita, ora si possono trova-re illuminanti istruzioni su come masturbare un ragazzo, illustrazioni comprese ovviamente, nel caso qualcuna fosse dura di comprendonio. Ma al peggio non c’è mai fine, ed ecco spuntare Rapelay. Molto scalpore – fortunatamente – ha scatenato questo videogioco giapponese dove biso-gna immedesimarsi in un stupratore. Lo scopo è quello di inseguire una donna fin dentro casa, abusare di lei e poi passare alle sue figlie, di cui una minorenne. Sconcertanti sono anche il realismo della simulazione di stupro e i det-tagli, e non mancano le lacrime e le suppliche da parte delle vittime. non solo! Se una ragazza rimane incinta bisogna convincerla ad abortire. nel caso si rifiutasse la soluzione è gettarla sotto a un treno.nemmeno Facebook è immune a questa cultura di violenza. Senza vergogna a inizio 2009 qualcuno è riuscito a fondare un gruppo pro stupro – con seguito di fan –, in breve rimos-so sotto la pressione degli utenti del social network. Anche se la comunità di Zuckerberg dimostra per ora di essere in grado di autoimmunizzarsi, non può lasciare indifferenti l’assoluta tranquillità e spudoratezza con cui una persona ha deciso di aprire un gruppo pro stupro e con cui altre persone hanno deciso di aderirvi.Ma tornando alla definizione di cultura dello stupro da cui siamo partiti, bisognerebbe forse cominciare a osserva-re il problema da un’altra prospettiva: violenza non sulla donna, ma sulla persona in quanto tale, considerandola una violazione dei diritti umani. Così come viene rilevato nell’introduzione della Dichiarazione delle nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993: “Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa vio-lenza su donne e minori significa mettere in luce la dimen-sione ‘sessuata’ del fenomeno,” si tratta infatti di “uno dei meccanismi sociali decisivi che costringono le donne a una posizione subordinata agli uomini.”

Francesca Gabbiadini

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La camera oscuradi StanleyKubrick“La fotografia certamente mi fece compiere

il primo passo verso il cinema. Per girare un film interamente da soli, come feci ini-zialmente io, si può non saperne molto di

tutto il resto, però bisogna conoscere bene la fotografia.” — Stanley KubrickIl XX secolo ha rappresentato, nell’ambito delle arti, un periodo di profonda e radicale innovazione. Una vera e pro-pria rivoluzione, che ha scosso le fondamenta della tradi-zione artistica, ridefinendone i concetti e i contenuti. Una rivoluzione culturale che, tra gli altri, ha avuto il merito di aprirsi direttamente al popolo, avvicinandolo a un mondo che lo vedeva escluso. Innumerevoli sono le icone di quel periodo entrate, a pieno diritto, nella cultura popolare. Sono poche, tuttavia, quelle figure che hanno realmente rappresentato il perno di questo decisivo cambiamento. A ogni arte le sue pietre miliari: ci sono Picasso e Warhol, i Beatles e Bob Dylan. E poi c’è Stanley Kubrick.nell’immaginario collettivo il regista newyorkese rappre-senta, oggi, un cardine intoccabile della storia della cine-matografia. Il suo nome è sinonimo di un modo rivoluzio-nario di fare cinema. Film come 2001: Odissea nello Spazio, Full Metal Jacket e Arancia meccanica sono veri e propri punti di riferimento per ogni cinefilo che si rispetti. Eppure la carriera artistica del ragazzo di origine ebrea sembrava, agli inizi, aver intrapreso un percorso ben diverso.negli scorsi mesi Milano ha avuto il privilegio di ospitare, nella suggestiva cornice di Palazzo della Ragione, la prima

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mondiale di una mostra intitolata Stanley Kubrick fotogra-fo. L’esposizione , che ha goduto di una notevole risonanza mediatica, ha guidato i numerosi visitatori attraverso i la-vori di un illustre sconosciuto: il giovane fotografo Stanley Kubrick.Molti, infatti, non sanno che il cineasta iniziò la sua pre-coce carriera proprio come fotografo.nato nel 1928 nel Bronx, grande appassionato di scacchi e mitologia greca, iniziò a muovere i primi passi nel mondo dell’arte sin da molto giovane. Fu suo padre, infatti, a rega-largli, per il suo tredicesimo compleanno, una vecchia Lei-ca. Fu proprio con quella macchina che il giovane Stanley immortalò il volto di un edicolante sconvolto dalla notizia della morte del presidente Roosevelt. Foto che gli valse un ingaggio per la rivista Look.Armato della sua macchina fotografica, l’ormai adole-scente Kubrick iniziò a gironzolare per gli Stati Uniti, ritraendo la vita del Paese in tutte le sue contraddizioni.Le sue fotografie, tuttavia, sono più di una semplice testi-monianza. E, forse, è proprio questo che distingue l’arti-sta dal fotoreporter. Con i suoi scatti, il giovane Kubrick sembra prenderci per mano e accompagnarci attraverso le strade degli States introducendoci a luoghi e personaggi sconosciuti che, tuttavia, ci sembrano così familiari.Immaginate, insomma, di essere a new York.È il 1947, le strade sono affollate e nell’aria si respira la voglia di lasciarsi la guerra alle spalle. Capita così di fare la conoscenza di Mickey, un giovanissimo lustrascarpe, e di seguirlo nei momenti di lavoro così come in quelli di svago, quasi fosse una superstar. Basta proseguire lungo la strada, lasciandoci accompagnare, e Kubrick ci conduce all’interno di un piccolo locale di Brooklyn, in cui John e la sua orchestra dixieland stanno per esibirsi. Il musicista ha il volto segnato dalla fatica e da un passato burrascoso. Proprio come i visi degli artisti del circo dietro l’angolo, maldestramente nascosti da una maschera.Così, usciti dalle fresche mura di Palazzo della Ragione, Mi-lano non ci sembra più tanto diversa da new York. Il 1947 e il 2010 sembrano divisi da una manciata di minuti. Come se Stanley Kubrick fosse in grado di prenderci e catapultarci in una realtà tanto diversa quanto familiare, quasi a dimo-strare che tutto il mondo è paese, che il passato è presente. Ed è proprio questo talento innato e cristallino che ne fa un personaggio così popolare.Sia che maneggiasse una piccola macchina fotografica o una grande cinepresa, insomma, il risultato era lo stesso. Cinema e fotografia, d’altronde, spesso vanno a braccet-to, si sa. Dal giovane lustrascarpe Mickey al trasgressivo e tormentato Alex di Arancia meccanica il passo è breve, più breve di quanto si possa pensare. non esiste film che non abbia la sua radice nella fotografia e Kubrick ne è la prova vivente. Durante la sua lunga carriera ha dimostrato di poter fare di un’immagine molto di più, coniugando la sua sensibile genialità e un meticoloso, quasi scientifico, interesse per i particolari. Luci, ombre, pose ed espressioni; nulla è lasciato al caso. Ed è così che le immagini prendono vita e i protagonisti sembrano parlarci. È lecito pensare che non sarebbe stato lo stesso senza quella malconcia macchi-na fotografica ricevuta in regalo. È lecito pensare che la sto-ria del cinema sarebbe diversa senza l’eredità dal giovane ebreo del Bronx. Di Kubrick prima di diventare Kubrick.

Matteo Nava

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Non è un Paeseper giovani?intervista al regista LemnaouerAhmine e all’illustratrice ValentinaGrassini, a cura di Luca Riccie Valentina Meschia

Lemnaouer Ahmine è un regista algerino che vive in Italia dal 1994. nella scorsa primavera il suo film–documentario La trappola ha vinto il premio Feltrinelli Il razzismo è una brutta storia

al Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano, giunto ormai alla ventesima edizione. Il lavoro è la testimonianza colta a caldo, in prima persona, dello sfratto dei rifugiati politici di Via Senigallia avvenuto nel 2009 a Milano. Rifugiati che, per protesta, si sono accampati in piazza Oberdan.Come mai hai lasciato l’Algeria?Sono partito definitivamente dall’Algeria nel 1994, qua-si fuggendo, perché dovevo svolgere il servizio militare mentre era in atto uno scontro tra il governo algerino e una parte della popolazione, situazione nella quale non mi volevo schierare politicamente.Perchè hai scelto di stabilirti in Italia e in particolarea Milano?Ho scelto l’Italia innanzitutto per la sua storia cinemato-grafica: non dobbiamo dimenticarci della belle epoque del cinema italiano rappresentata dal neorealismo, da Rossellini e De Sica. Per questa grande storia cinema-tografica ho scelto il vostro Paese. Prima sono approda-to a napoli, che mi ha ricordato molto Algeri. Il centro in particolare somiglia alla Casbah e anche i napoletani sono molto vicini, come società, al mondo arabo e mediterraneo. E poi l’ho scelta anche per la sua storia: Sant’Agostino è stato allievo proprio di Sant’Ambrogio...Com’è stato il primo impatto con il nostro Paese? Quali difficoltà hai incontrato?Uscire dall’Algeria all’età di 17 anni ed arrivare in Italia mi ha fatto trovare in una realtà ed in una cultura che non era la mia, ma tuttavia non così diversa da quella che lasciavo. Le difficoltà erano legate in parte alla lingua, ma conoscen-do il francese il problema non era insormontabile. La dif-ficoltà vera fu ricostruire una vita quasi da zero. Qualsiasi cosa era una scoperta ma allo stesso tempo un rischio.Perchè hai scelto di fare il documentarista e di utilizzare le immagini per rappresentare la realtà?Era il mio obiettivo. Le immagini, il ritmo, l’audio, la musi-ca mi hanno sempre accompagnato fin dall’infanzia (sono anche percussionista). Mio fratello era cineasta amato-riale e avevamo in famiglia migliaia di film, pellicole, foto. Voler raccontare attraverso le immagini e con l’accompa-gnamento di musica, audio e suono, permette di far vedere la realtà così com’è, senza lasciare molto spazio all’imma-ginazione. L’immagine è un mezzo immediato.Quali sono gli aspetti della realtà che ti interessa di più far vedere nei tuoi documentari?Cerco di far vedere la realtà stando molto attento a non al-terarla, a non pilotarla, cerco di lasciare il protagonista e la realtà stessa parlare di sé. Purtroppo in Italia il documen-

22 foto UN Photos, Beniamino Baj

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Non è un Paeseper giovani?intervista al regista LemnaouerAhmine e all’illustratrice ValentinaGrassini, a cura di Luca Riccie Valentina Meschia

tario ed il reportage sono soggetti a ritmi e linguaggi che sono a loro volta condizionati da poteri forti, dalla censura, intendendo censura nel senso commerciale: si insegue ciò che piace, quello che fa più audience... Io cerco invece di fare in modo che la realtà rispecchi se stessa, che si raccon-ti per ciò che è.Come descriveresti la relazione tra il tuo lavoro e le tue vicende personali?Il legame è diretto dal punto di vista dell’esperienza ma indiretto sul piano operativo. Quando faccio i miei lavori sull’immigrazione parto già da una conoscenza profonda del fenomeno e della situazione che voglio raccontare e ci metto la mia esperienza per fare uscire fuori ciò che è dentro quella realtà, quelle persone. È come se la telecame-ra entrasse nella gente e ci facesse vedere con i loro occhi; spesso l’immigrato ha paura, ha vergogna di raccontarsi. Il mio obiettivo è quello di fare in modo che lo spettatore veda con gli occhi dell’altro.Il tuo documentario racconta lo sfratto dei rifugiati poli-tici di Milano…Anche se il lavoro è la storia di alcuni rifugiati politici sfrattati a Milano nel 2009, il problema è nazionale, se non continentale. Le statistiche OnU ci dicono che i rifugiati in Pakistan, Paese poverissimo, sono circa 2 milioni ed in Italia appena 20.000. Già queste cifre parlano chiaro...Io ho cercato di rappresentare i rifugiati perché sono una cate-goria protetta, in Italia. Ma in mancanza di politiche chiare di accoglienza ed integrazione il rifugiato si trova a vivere in condizioni di malessere. D’altro canto sono persone che spesso hanno fatto battaglie politiche nei loro Paesi, che quindi hanno una forte coscienza politica, un passato di lotte e a volte di galera, e non sono disposte a rinunciare ai loro diritti. Volevo raccontare la loro grande illusione nei confronti dell’Italia, dell’Europa e della democrazia occidentale. È da qui che deriva il titolo del film, La trap-pola: non possono più né tornare nei loro Paesi, perché rischiano la morte, né andarsene dal Paese di accoglienza, a causa degli accordi internazionali che lo proibiscono, come l’accordo di Dublino.Sembra proprio che qualcosa andrebbe ripensato anche sul piano legislativo, considerata l’incapacità degli accordi internazionali di tenere conto di alcuni importanti aspetti di questo complesso fenomeno.

Luca Ricci

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Valentina Grassini nasce a Milano, nell’estate del 1981. Si diploma presso l’Istituto Magistrale “Carlo Tenca” di Milano, per poi iniziare il suo percorso creativo frequentando un corso di

pittura ad olio presso la Scuola Cova di Milano, diplomarsi alla Scuola del Fumetto di Milano e seguire un corso di formazione professionale di impaginazione. negli ultimi anni ha lavorato come illustratrice, curando le immagi-ni di libri come Alla ricerca dei colori perduti (Raffaello Editrice). Ha curato il colore di alcune storie della serie Geronimo Stilton. Ha vinto il 1° Concorso Internazionale d’Illustrazione Bimbi Volanti (Fondazione Malagutti onlus in partnership con l’Associazione Illustratori italiana).Qual è la caratteristica principale della tua arte?Creo disegni e illustrazioni, così come li vedo io, e ciò che li fa vivere è il colore. Di certo nelle tue opere il colore non manca, è proprio il colore che le caratterizza, che cattura gli sguardi...C’è tanto colore perché io mi esprimo con il colore. Vedo, mi guardo attorno, e per me è la massa di colore che crea la forma. Ad esempio quella siepe: per me è il verde che le dà la forma, sono le luci e le ombre che le danno il volume. In-

somma vedo le cose a modo mio e poi le trasferisco su tela, su un foglio: da una macchia di colore creo il mio mondo.Pensi che gli studi siano fondamentali per riuscire ad affermarsi o basta il talento?Gli studi sono fondamentali, il solo talento non basta. Io non ero molto ferrata nel disegno, certo ero portata, ma come un’adolescente che per ascoltare le lezioni di filoso-fia e storia, scribacchia su un foglio. Frequentando corsi e scuole sei obbligato a fare esercizi che servono per svilup-pare la capacità di osservazione e allenare la mano. In più provi tecniche diverse, l’insegnante ti suggerisce come utilizzare ecoline o acquerello, tempera o acrilico.In questi anni hai sviluppato tecniche e stili nuovi?Come detto prima, non si finisce mai di imparare, e quindi è logico avere un percorso. Adoro sperimentare differenti tecniche con materiali diversi e lavorare su illustrazioni con particolari gamme cromatiche per provare le sensa-zioni e le emozioni che trasmettono. Ultimamente prendo in prestito dalle favole personaggi già esistenti come la Sirenetta o Biancaneve.Quindi le favole influenzano le tue opere. Qual è la tua preferita?non ne ho una preferita, ma i fratelli Grimm sono al primo posto nelle mie scelte. Ho rappresentato tanto anche Pi-

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nocchio di Collodi: è pieno di personaggi interessanti, come Mangiafuoco e la balena.Hai un pittore/illustratore preferito che in qualche modo influenza la tua arte? Qualche maestro o corrente arti-stica che ti piace e segui?non ho un preferito. Osservo molto il lavoro degli illu-stratori e fumettisti contemporanei, soprattutto quelli francesi. Ogni volta che visito un Paese diverso dall’Italia, faccio una capatina in libreria per vedere come lavorano gli illustratori del luogo. Ogni paese influenza la mano. Ogni volta che vado in una città e c’è una mostra di pittura, non me la perdo di certo!Spesso c’è un po’ di confusione fra pittore e illustratore, potresti spiegare la differenza effettiva tra queste due figure?Oddio, non vorrei sbagliare, ma il pittore dipinge su tela, ha un’opera da esporre, massima libertà, e crea quello che vuole. Il lavoro dell’illustratore è commissionato, e verrà poi stampato o utilizzato per qualcosa come una pubblici-tà, la copertina di un libro, un logo… in questo caso hai una certa libertà, ma con un tema o un soggetto definito e deciso da altri: i datori di lavoro.

Cosa hai fatto/stai facendo per riuscire a trovare il tuo trampolino di lancio?Ho collaborato con grandi e piccole case editrici, e le espe-rienze lavorative ti fanno sempre crescere… e posso solo dire che “Chi semina raccoglie”, e noi illustratori seminia-mo sempre!Secondo la tua esperienza quali sono in Italia i principa-li problemi che deve affrontare un giovane illustratore emergente?All’inizio è più difficile perché gli editori non ti conoscono, per questo bisogna crearsi un portfolio e portarlo in giro, e spedirlo a possibili clienti.Cosa consiglieresti a un giovane illustratore alle prime armi che vorrebbe iniziare a lanciarsi in questo mondo?Di armarsi di tanta pazienza e buona volontà. Come dice-vo, l’inizio è sempre difficile. Oggi grazie a Internet è più facile farsi conoscere, è importate aprire una pagina web con i propri lavori da mostrare agli editori; partecipare ai concorsi, mandare in giro il proprio portfolio e fare tanti colloqui. Inoltre è davvero utile andare alle fiere specializ-zate come quella di Bologna Fiera del libro per ragazzi. E infine… continuare a disegnare e disegnare!

Valentina Meschia

25Novembre 2010 — Vulcano 55

opere di Valentina Grassini

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Not Moving, Song of Myself (Wide, 1989)

Da un’enciclopedia dedicata alla musica rock: “l’ultimo album del gruppo esce nel 1989 e consiste in un interessante progetto a soste-gno degli Indiani d’America.”

Il nome deriva dall’omonimo brano dei DnA di Arto Lyn-sday presente in una compilation ‘mitica’ del 1978, “no new York”, che stravolse irrevocabilmente l’ortodosso approccio alla musica. Da allora il rock virò verso un rumo-rismo che divenne arte (leggi Sonic Youth), anche se quella proposta fu accolta negativamente sia dal pubblico che dalla critica.I Not Moving sono originari di Piacenza e sono stati fra i più significativi dell’underground italiano negli anni ‘80. Proprio in questo decennio la scena rock italiana è tra le più vive, interessanti e propositive: Litfiba e Diaframma a Firenze, orientati verso sonorità dark-new wave, Skian-tos e CCCP in Emilia, più orientati verso sonorità grezze e ‘sporche’. Pochi anni, questi, in cui l’Italia si è avvicinata al resto del mondo. “Strange Dolls”, pubblicato dall’etichetta Electric Eye, è il loro debutto nel 1982. Si tratta di un Ep contenente 4 canzoni.La line-up dei primi anni conta sulla cantante Lilith, il chitarrista Paolo Molinari, la tastierista Maria Severine, il bassista Dany e il batterista Tony Face (proveniente da una delle prime band hardcore italiane: i Chelsea Hotel).

Nel loro sound alternativo si ritrovano tracce di rock’n’roll, blues e garage. Le loro influenze dichiarate: Cramps , gli X , i Gun Club ma anche la psichedelica dei 60s (13 Floor Elevators e Seeds in particolare), la surf music e il punk rock di stampo newyorkese.Il loro primo album è del 1986: “Sinnermen” (pubblicato dalla neonata label toscana Spittle Records ). Il gruppo dura ancora qualche mese, per poi dividersi in due : dopo il trasferimento di un chitarrista in Danimarca, anche il bassista “Dany” abbandona per emigrare in Germania.Particolarmente meritevole di attenzione è però il loro ultimo album, dal titolo “Song of Myself ”, accreditato a LAnCE HEnSOn & FRIEnDS.Tra i numerosi ospiti c’è Giovanni Lindo Ferretti (allora cantante dei CCCP), parte dei negazione, Luca Re dei Sick Rose e soprattutto il Cheyenne Lance Henson, un nativo americano, poeta tra i più rappresentativi della letteratura americana contemporanea, dal 1978 attivamente impegna-to nella lotta per i diritti dei Cheyenne e delle popolazioni indigene nel mondo.

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Not Moving, Song of Myself (Wide, 1989)••

L’album è composto da nove tracce in lingua inglese, è un bellissimo incrocio di punk (vedi la canzone che porta il titolo del mini Lp), psichedelia (soprattutto in The Ballad of Sister Snake, con qualche ricordo di Sid Barrett), poesia recitata e cantata. Compresa anche una cover molto sentita di Ohio di neil Young. Si tratta di un potente brano rock diventato immediatamente un classico, composto subito dopo i tragici avvenimenti del 4 maggio 1970, data in cui quattro studenti vennero uccisi dalla Guardia nazionale USA nel campus della Kent State University, nello Stato dell’Ohio. La rivisitazione è introdotta dalle urla di Ferretti e preceduta da una lirica di Lance Henson, Another Song of America: Driving west on Ohio highway 76/just past the Kent state turnoff/a soft rain begins/God damm you Ame-rica/what have you done to your children/the wind speaks their names/anyway you breathe it. (Un altro canto per l’America: Guidando verso ovest sulla statale 76 in Ohio/appena superato il raccordo per la Kent state/inizia una leggera pioggia/Dio ti maledica America/cosa hai fatto ai tuoi figli/il vento pronuncia i loro nomi/in qualunque modo tu respiri).Anche l’introduzione delle altre canzoni contenute nell’al-bum consiste nelle liriche del poeta, scandite in tono paca-to e solenne.Particolarmente riuscita e coinvolgente è la traccia 6:

They Will Fall, interpretata dalla femminilità torbida di Lilith, anticipata dal riverbero di una chitarra elettrica e dall’espressivo suono di un violino. Il canto che la precede, Peyote Song, ci porta l’atmosfera pacifica di un mondo e una cultura lontani.L’album è permeato da un senso di coralità in cui pare che nessuno voglia predominare, per lasciare così spazio a uno spirito collettivo autentico.Stupisce positivamente il fatto che nella provincia italiana, nella culla della musica leggera tradizionalista e conser-vatrice, ancora più di vent’anni fa sia stato realizzato un lavoro di tale portata innovatrice.È d’esempio anche il loro impegno: “da sempre ci è cara la causa pellerossa”, dichiara il gruppo. E infatti nel 1994, dopo numerosi cambiamenti, i not Moving si rifanno vivi con l’album Homecoming, ancora una volta vicino alle istanze della cultura nativa americana. Una band da risco-prire e un disco da riascoltare.

Alessandro Manca

27Novembre 2010 — Vulcano 55

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TOP TENdelle teorie cospirative più assurdeseconda parte

5. L’AIDS FU CREATO A TAVOLINOAlcuni ritengono che il virus sia stato prodotto in labora-torio da scienziati di volta in volta Illuminati, americani o russi agli inizi del novecento per sterminare la popolazione gay e altre minoranze. E poiché più è elevato il rischio di contagio maggiori sono i fondi stanziati per la ricerca del vaccino, gli interessi economici sono altissimi. A sostenere questa idea il dr. Ph. Duesberg, dell’università di Berkeley, che nel libro“AIDS. Un virus inventato” elenca trentuno patologie perfettamente curabili i cui sintomi prevedono risultato positivo ai test per l’HIV, e che vengono sistemati-camente curate iniettando farmaci tossici e quindi mortali, per aumentare la paura di questa malattia. Per cui rilas-satevi la prossima volta che il medico di base prescrive il test per la sieropositività al primo segnale di raffreddo-re: sta cercando di uccidervi perché complice in un piano criminoso con interessi globali.

4. GLI ALIENI HANNO CREATO LA VITAINTELLIGENTECome è stato possibile che la razza umana abbia potuto svilupparsi in maniera tanto più rapida rispetto agli altri esseri viventi in appena due o tre milioni di anni? In un de-corso naturale dell’evoluzione questo lasso di tempo è pic-colissimo. Un’ipotesi sull’arrivo dell’Homo Sapiens vuole il merito della nostra creazione all’ingegneria genetica di una razza aliena più intelligente, che ha modificato il DNA delle scimmie antropomorfe permettendo loro di svilupparsi. La causa di tale generosità sta nell’oro: gli alieni ne avevano bisogno per sopravvivere. Ed essendo-ne la Terra particolarmente provvista, hanno pensato che sottomettendo la popolazione indigena e rendendola più intelligente, avrebbero potuto delegarci il lavoro pesante e salvarsi dall’estinzione. Geniali. Sembra ora giunto il momento di passare il favore. I primi passi potrebbero pre-vedere: insegnare al gatto a portare il telecomando, oppure mandare i cani alle riunioni di condominio o modificare i piccioni dotandoli di scopino e paletta in modo che pulisca-no le piazze invece che imbrattarle!

3. SIAMO TUTTI IN MANO ALLE LUCERTOLE(E AGLI EBREI, E A…)Avvalorata dal fatto che nessun ebreo morì negli attentati alle Torri Gemelle è l’ipotesi secondo cui il mondo è domi-nato dagli ebrei. Altri sospettano invece di Scientology. Se-

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condo questo culto l’uomo è dotato di potenzialità straor-dinarie, come guarire le malattie con la forza del pensiero o abbandonare il corpo fisico. Un’altra teoria vuole i potenti del mondo, come George W. Bush e la famiglia reale ingle-se, appartenere in realtà ad una razza aliena di uomini–lucertola mutaforma. Una delle credenze più antiche poi vorrebbe il mondo guidato da membri di sette cabalistiche come gli Illuminati, i Rosacroce o i Massoni. Insomma, le teorie sul controllo globale sono tante e diverse ma acco-munate da un unico punto: siamo tutti pedine di un gioco molto più grande di noi, architettato in segreto dai Veri Potenti della Terra. Quali essi siano, è tutto da decidere.

2. PAUL Mc CARTNEY È MORTOQuella in cui il chitarrista dei Beatles è morto negli anni ‘60 ed è stato sostituito da un sosia è forse la più conosciuta tra le leggende metropolitane. Per dimostrarne l’infondatez-za, nel 2009 la scienziata Gabriella Carlesi e l’informatico Francesco Gavazzeni hanno realizzato degli studi sulle immagini di Paul antecedenti e successive alla presunta morte, confrontando i tratti facciali attraverso la pratica forense. Un lavoro alla CSI con un risultato inaspettato: i tratti non sempre coincidono! Padiglione auricolare, curva mandibolare, palato e dentatura degli anni ’60 non corri-spondono a quelli dei giorni nostri. Realtà dietro la leggen-da o intervento chirurgico ben riuscito? E a quale scopo? Se tutto questo è vero, chi è l’uomo che chiamiamo Paul McCartney?

1. BERLUSCONI HA ARCHITETTATOIL LANCIO DEL DUOMO14 dicembre 2009: Massimo Tartaglia scaglia una sta-tuetta a forma di Duomo colpendo in volto il nostro Presidente del Consiglio. Tempestivi i social network gridano alla cospirazione. Osservando al rallentatore il filmato del discorso, un utente di Youtube osserva come “non si nota alcuna lesione dopo che la statuetta ha colpito il volto del Premier, eppure un taglio così profondo si sareb-be visto subito dopo l’impatto. (…) E la traiettoria della statuetta non sarebbe molto convincente”. Intanto su Facebook ha fatto il giro delle bacheche una foto di Berlusconi seduto in auto dopo il ferimento. Vicino a lui un uomo della sicurezza, del quale si intravede solo la mano, che stringe un piccolo oggetto metallico. Uno spruzzino per imbrattare di sangue finto Silvio colpito solo di striscio dalla miniatura del Duo-mo, per una scena da B-Movie architettata in un periodo di calo di popolarità della destra, dicono. A quando la nomina-tion all’Oscar?

Elisa Costa

29Novembre 2010 — Vulcano 55

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Genio timido e riservato, asservito totalmente al bene della sua famiglia, del suo lavoro e della sua arte, Johann Seba-stian Bach costituisce la summa spirituale di quel prote-stantesimo meditativo che cerca Dio dappertutto e si sforza di comprenderlo.Una personalità lontana dal chiacchiericcio mondano e intensamente laboriosa e irrobustita da una fede vigorosa ma consapevolmente vissuta. Conservatore nel senso let-terale del termine: colui che conserva, che salva i valori del passato. Assimilatore squisito, molto più che rivoluziona-rio innovatore, incarna, portandoli ad espressione perfetta e definitiva, tutti i caratteri della sua epoca e del barocco musicale.Difficile trovare un’opera che riesca a racchiuderle tutte ed esemplificarle. Si potrebbe, però, cominciare dall’ascolto dei tre concerti per violino, archi e basso continuo BWV 1041, 42, 43.Unici esemplari rimasti di una fittissima produzione – certamente abbastanza da poterci ragionare tutta la vita – ci rivelano un Bach già alla più sublime altezza del suo genio strumentale. Lontano dai fatui virtuosismi tipici di numerosi concerti dell’epoca, egli dà vita a una multiforme dialogicità fra strumento solista e orchestra, componendo, per vie completamente diverse, una scrittura assai difficile che richiede dall’esecutore notevole impegno.Canovaccio delle composizioni: il Vivaldi del concerto in tre tempi. È incredibile come il genio tedesco abbia saputo assorbire lo stile vivaldiano per ripassarlo attraverso i fittissimi meandri della sua sterminata fantasia e farlo proprio quasi come se seguisse soltanto i moti del suo spirito.Si avverte l’eco di un animo capace di fare allignare in sé tutte le più profonde meditazioni esistenziali sull’uomo, su Dio, sull’universo. La duplice dialettica finito-infinito, uomo-Dio sembra cavalcare le note del concerto per due violini BWV 1043 in una meditazione straniante e, a tratti, struggente: un continuo rispecchiarsi di sequenze musicali dei due violini, un sublime scambio, porgersi di bellezza da una parte all’altra. Un’inesauribile energia ritmica che riceve impulso dalle taglienti raffigurazioni tematiche di chiara matrice vivaldiana e che si protrae con un moto continuo senza pause né distensioni in un sorprendente esplodere di vitalità.

Danilo Aprigliano

Da riascoltare per la prima volta, 2

JohannSebastianBachConcerti per violino, archie basso continuo BWV 1041-43

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Soluzioni del numero precedente

Orizzontali: 1–La lascia il defunto ai propri cari. 8 – La cantava Al Bano insieme a Romina Power. 10 – “… non foste a viver come bruti”, fa parte del canto d’Ulisse. 11 – Avelli-no. 12 – Forte centravanti dell’Inter. 13 – nota anche come morbo di Lou Gehrig, colpisce molti sportivi. 14 – Prima parte del nome del cane “… tin tin”. 15 – Sigla dell’Unione Atei che ha promosso il ricorso contro il crocefisso nelle scuole pubbliche. 16 – Partito confluito, pentendosene, nel Pdl. 17 – Lo sono i mores preferiti dagli antichi. 18 – negli scacchi si muove in orizzontale e verticale. 21 – L’inizio delle tasse. 22 – La si dà “bianca” quando non si vuol porre alcun limite.Verticali: 1–nelle cronache giornalistiche, lo è immanca-bilmente ogni delitto. 2– L’appellativo di Varrone, autore del De lingua latina originario di Rieti. 3– L’Elton cantante autore di Candle in the wind. 4 – Lo si infila nella piaga quando si infierisce. 5 – nome della tassa sui patrimoni immobiliari. 6 – La targa dell’unico cantone italofono della Svizzera. 7 – Dea della caccia, oggi milita nel campionato di serie B. 9 – Colpisce i veicoli mal funzionanti. 13 – Presen-te nel nome di alcune città brasiliane, significa “santo” in portoghese. 15 – La Germania è … alles nell’inno nazionale. 19 – Iniziali di Cocciante. 20 – Ravenna

Orizzontali: 1 – Pedofilo. 8 – Eredità. 9 – Rame. 10 – Age. 12 – Ivo. 13 – Olos. 14 – Casino. 15 – Om. 16 – Or. 17 – Lombroso. 21 – Prete.Verticali: 1 – Pericolo. 2 – Eravamo. 3 – Demos. 4 – Ode. 5 – Fi. 6 – Italo. 7 – Lago. 11 –Estro. 13 – Onore. 16 – sé. 18 – Mp. 19 – Br. 20 – Ot

Registrato al Tribunale di Milano, n. 317, 4 mggio 2004.Direttore responsabile: Laura Rio.

Fondato da: Luca Gualtieri, Andrea Modigliani, Andrea Canevazzi.Stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano,

derivante dal fondo per le attività culturali e sociali,previsti per Legge del 3 agosto 1985, n. 429

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numero 53, Aprile 2010Il mensile dell’Università degli studi di MilanoEDITORIALE

Ad ogni atto di violenza verso un protagonista della poli-tica, dalla statuetta contro Berlusconi al fanta-attentato a Belpietro, tornano in auge le condanne ai “seminatori d’odio”. Chi attacca con troppa veemenza un rivale politico sarebbe responsabile del comportamento di un qualsiasi squilibrato che, guidato dalla mano invisibile dell’odio ideologico, scagli statuette o proiettili inceppati verso il nemico di turno.La pretestuosità dell’argomento è ben evidente anche alle anime belle che si abbeverano alla “stampa dell’amore”. Siamo però sicuri che l’odio sia un sentimento così ille-gittimo? In nome di che principio non sarebbe possibile, nell’intimo della propria casa, odiare un’altra persona? Esiste forse un obbligo al “volersi bene”, al di fuori delle aule del catechismo? L’odio in sé è perfettamente legittimo, a patto chiaramente che non si traduca in azioni concrete. Il codice infatti proibisce la pratica violenta o l’istigazione, ma fortunatamente non si occupa di stati dell’anima.E chi non odia nessuno? Fa benissimo, se trova preferibi-le un’etica personale che suggerisce ecumenicamente di amare il proprio nemico. Ma attenzione, non confondia-mo un personale convincimento con la normatività della legge, che non distingue tra giusto e sbagliato ma solo tra legale e illegale. Il rischio è quello di ritrovarsi in uno stato etico simile a certe società anglosassoni, dove i politici si dimettono per aver tradito la moglie. Stiamo attenti a non sostituire una già carente etica del reato ad un’anacronisti-ca etica del peccato.

Filippo Bernasconi

Direttore: Laura CarliVicedirettori: Giuditta Grechi, Irene navaCaporedattore: Filippo BernasconiImpaginazione & Grafi ca: Alessandro MassoneVignette e fumetti: Andrea Mannino, Sogar KhaleghpoorFotografi e Originali: Federica Storaci, Francesca Di Vaio, Irene navaRedazione: Danilo Aprigliano, Denis Trivellato, Luisa Morra, Alice Manti, Elisa Costa, Michela Giupponi, Luca Ricci, Davide Contu, Massimo Brugnone, Gemma Ghiglia, Elena Sangalli, Daniele Colombi, Francesca Gabbiadini, Alessandro Manca, Francesca Di Vaio, Andrea Fasani,Valentina Meschia.Collaboratori: Giuseppe Argentieri, Beniamino Musto, Gregorio Romeo, Fabrizio Aurilia, Luca Ottolenghi, Flavia Marisi, Davide Zucchi, Marco Bettoni, Dario Augello,Virginia Fiume, Daniele Grasso, Alessio Arena.Responsabile BachecAlloggi: Giuditta Grechi—[email protected]

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