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Cap. IV DELLA VERIDICITA' Perchè il convincimento di chi vuole agire passi negli altri, occorre che egli sia veritiero. La menzogna, cioè la difformità ~ della parola dal pensiero, e, nel caso in esame, dal pensiero diretto all'azione, .priva di efficacia lo stesso agente, rende dif- fidenti i collaboratori se ingannati, li rende conniventi se parte- cipi alla menzogna. Vi saranno altri motivi per legarsi all'uomo che mentisce: timore, paura, interesse, capacità, fascino: ma dal punto di vista umano viene a mancare il legame più valido: la veridicità *e sincerità. C'è differenza fra chi non dice la verità perchè non la cono- sce o non la dice perchè vuole occultarla, e chi invece tende - per qualsiasi motivo ad ingannare. Nel.primoacaso*egli~non -e + - sarà un menzognero; nel secondo può essere moralmente men- zognero per volere essere prudente, abbia o no motivi legittimi a tenere occulta la verità; nel terzo caso si tratterà di vera . menzogna, più o meno grave, ma sempre riprovevole. In materia di menzogne, legate o no a veri inganni, si suole essere con gli uomini politici o troppo larghi ammettendone l'uso normale, ovvero rigorosi escludendola in ogni caso. Questo problema può essere connesso con l'altro, assai più discusso, a del fine che giustifica i mezzi. È evidente che anche i teorici della distinzione tra morale e politica, non arrivano ad accettare questa seconda tesi conce- pita quasi come regola politica, il che sovvertirebbe quel mini- mo di morale sociale (quella consacrata dai codici civili e pe- nali di ogni stato) assolutamente necessaria a mantenere l'ordine e il diritto.

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Cap. IV

DELLA VERIDICITA'

Perchè il convincimento di chi vuole agire passi negli altri, occorre che egli sia veritiero. La menzogna, cioè la difformità ~

della parola dal pensiero, e, nel caso in esame, dal pensiero diretto all'azione, .priva di efficacia lo stesso agente, rende dif- fidenti i collaboratori se ingannati, li rende conniventi se parte- cipi alla menzogna. Vi saranno altri motivi per legarsi all'uomo che mentisce: timore, paura, interesse, capacità, fascino: ma dal punto di vista umano viene a mancare il legame più valido: la veridicità *e sincerità.

C'è differenza fra chi non dice la verità perchè non la cono- sce o non la dice perchè vuole occultarla, e chi invece tende - per qualsiasi motivo ad ingannare. Nel.primoacaso*egli~non - e +

- sarà un menzognero; nel secondo può essere moralmente men- zognero per volere essere prudente, abbia o no motivi legittimi a tenere occulta la verità; nel terzo caso si tratterà d i vera

. menzogna, più o meno grave, ma sempre riprovevole. I n materia di menzogne, legate o no a veri inganni, si suole

essere con gli uomini politici o troppo larghi ammettendone l'uso normale, ovvero rigorosi escludendola in ogni caso. Questo problema può essere connesso con l'altro, assai più discusso, a

del fine che giustifica i mezzi. È evidente che anche i teorici della distinzione tra morale

e politica, non arrivano ad accettare questa seconda tesi conce- pita quasi come regola politica, i l che sovvertirebbe quel mini- mo di morale sociale (quella consacrata dai codici civili e pe- nali di ogni stato) assolutamente necessaria a mantenere l'ordine e il diritto.

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La menzogna per qualsiasi scopo usata toglie base ad una sana 'convivenza nella famiglia, nella scuola, negli affari, nelle

. relazioni umane le più varie. Lo stesso è in politica. La menzo- gna interrompe il dialogo umano, mentre la vita dell'uomo non è altro che un dialogo continuato, anche se fra molti insieme. Chiunque sia sorpreso a mentire mostra di essersi distaccato dalla comunità, divenendo altmi sospetto; per rivivere la vita sociale deve provare di non dire menzogne anzi di non dirne più ; perchè se vi ricade, toglie qualsiasi credito alla resipiscenza.

Non sembra vero che la menzogna e l'inganno siano nel- l'uso corrente, e che gli uomini non abbiano altro da fare che ingannarsi a vicenda. È così; coloro che cadono nelle reti del- l'inganno se ne accorgono con ritardo; molti di costoro crede- vano che sarebbero stati gli altri a 'cadere nelle reti che essi stessi avevano tese.

Tale uso, pur essendo assai diffuso, nei rapporti privati o di sociali liberi è sempre biasimato come mancanza di ri-

spetto alla morale; nei rapporti pubblici, specialmente politici? più che scusato e tollerato, arriva ad essere approvato dai fau- tori mentre viene biasimato dagli avversari ( e viceversa) secondo le finalità alle quali i mezzi di menzogna e di inganno sono di- retti. Il k h e porta ad apprezzamenti assai variabili nella pub- blica opinione con riflessi equivoci nelle valutazioni di co- scienza.

Cerchiamo di chiarire il fenomeno assai sospetto e, sotto cer- ti punti di vista, pernicioso: quello di dare alla menzogna e all'inganno i l lascia passare dell'opinion~ pubblica attenuando così le resistenze della coscienza. Anzitutto è da notare che in democrazia certi tipi di menzogne facilmente smontabili dal dibattito parlamentare, giornalistico, e comiziale, non possono aver corso; chi ne usa ci perde. È questo un lato buono. Però c'è il lato manchevole; l'uso delle mezze verità, l'alterazione dei fatti, la' confusione dei dati, l'abuso delle statistiche, l a ripe- tizione artificiosa per far credere un fatto nuovo mentre è lo stesso ripetuto sotto diversi aspetti, la propaganda amplifica- trice, l a denigrazione dell'awersario, tutti mezzi deplorevoli e usati comunemente senza alcuna attenuazione e differenza di gruppi e partiti.

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Alla propaganda politica am~lificatrice ( a parte che seeon- do me è controproducente) applicherei il criterio di certi mo- ralisti, che non reputano menzogna quella dei venditori ma- gnificanti la propria merce, perché i l pubblico sa bene che quelle affermazioni sono per invitare a comprare, e cadono di fronte alla contestazione del cliente normalmente sempre poco disposto a credervi. Ma se dalla magnificazione generica e fatta per sistema, si passa ai termini di una contrattazione concreta, allora le affermazioni laudatorie trasformate in menzogne reali e particolari per indurre in errore, sono e restano menzogne.

Alla stessa maniera, l'abilità parlamentare atta a evitare ostacoli e a indurre gli avversari a cambiare atteggiamenti non è per nulla vietata, anche se nell'uso delle parole discrete possa nascondersi qualche imprecisione voluta che può arrivare al margine della menzogna, dovendo l'avversano dalla sua stessa posizione parlamentare trarre motivo di sospicione. Ben altra è la osservanza del regolamento; questo è una specie di patto comune per procedere nei lavori parlamentari: è la regola del gioco pattuita e riconosciuta. Nessuno può violarla senza col- pa ; e tanto più grave è la colpa quanto più grave è l'abuso. Su questo punto mi pare che le idee non siano chiare, non man- cando coloro che ritengono il regolamento una semplice forma- lità, mentre è un reciproco vincolo. . - -"- -.

Alcuni vorrebbero in politica seguire gli usi consentiti in guerra, dato che la politica di partito potrebbe dirsi guerra permanente per il potere. Tale impostazione è semplicemente aberrante; le contese e le gare civili hanno per base la normale convivenza umana nella quale è esclusa a priori qualsiasi rot- tura bellica dei vincoli di comunità, come avviene fra le na- zioni in guerra, e all'interno di una stessa nazione nel caso d i guerra civile. Solo la rottura dei vincoli di comunità rende le- cito in guerra (si intende, quando sia lecita una guerra), quel che non è lecito in pace: la menzogna, l'inganno, l'agguato e simili. Ma poichè la rottura dei vincoli della comunità non è mai totale, tanto che anche in guerra esistono e dovrebbero es- sere rispettati i patti internazionali e ie ieggi tradizionali (i termini di una tregua, lo scambio dei prigionieri, il divieto di armi e di mezzi non ammessi e quindi illegittimi e così di se-

14 - S m - Politica e morale

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guito), l'obbligo della osservanza di essi dalle due parti è anche vincolo morale di coscienza, oltre che di civiltà.

Esclusa quindi ogni assimilabilità della lotta politica alla guerra, il problema della veracità in politica rimane integro. Per quanto si voglia essere larghi e tolleranti verso coloro che parteggiano e lottano, ammettendo quel limite di reciproca comprensione e tolleranza che toglierebbe alla menzogna obiet- . tiva e al tentativo di inganno l'abuso della buona fede e della impreparazione psicologica e , . quindi, la rottura della comu- nione interindividuale; si deve concludere che la ripugnanza della coscienza permane più o meno forte all'uso di mezzi in- trinsecamente immorali per fini creduti di grande utilità, quale la vittoria del proprio partito e la sconfitta dell'avversario. Si foi-ma facilmente una categorizzazione istintiva fra chi di que- ste cose non si intende o non se ne occupa e chi, abituato al mestiere, prova viva soddisfazione ( la vanità dell'esperto in ma- teria) quando vi riesce, e lo dice a questo o a quello all'orec- chio, che non lo sappia il capo: i l quale molte volte lo saprà ma fingerà di non aver visto niente.

E che dire se quel che è ritenuto contrario alla valutazione etica della coscienza sia richiesto a titolo di vantaggio pubbli- co? È questo un altro lato del ~ r o b l e m a della moralità dei

, > mezzi nella politica statale.

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. Cap. V

DELLA MORALITA,

È ben nota la obiezione che si solleva da molti, nel campo teorico e in quello pratico, circa la valutazione morale della po- litica. Noi stiamo studiando un problema sotto certi aspetti di- verso: quello dei rapporti fra coscienza e politica. La moralità per noi è la convergenza dell'azione alla razionalità; è, quindi, materia propria della coscienza che unisce nel suo atto cono- scenza e decisione volitiva.

La politica, presa come valutazione dell'utile collettivo, è anch'essa materia razionale; calcola i vantaggi al lume dei pro e dei contro; questi sono da valutare oltre che dal lato della utilità, da quello della eticità se corrispondenti alla retta ragione.

--.. . . Non c'è arte di operare che ci, dispensi-dalla. seconda. valu- . tazione che tocca l'intimo valore dell'atto umano nella sua ese- guibilità. I1 fine della economia è l'utile economico; nessuno potrà ammettere che il furto o la frode siano mezzi idonei a procurare un vantaggio economico e, quindi, ammissibili, pro- prio perchè nel ledere l'interesse dei terzi, il furto e la frode sono atti ingiusti e pertanto immorali. Lo stesso deve affermarsi per la politica. Se mancare a un patto (contro la teoria del '

pmta sunt sentada) può recare un presente vantaggio al paese fedifrago, non per questo ne è ammissibile la violazione che leda il diritto e i rapporti internazionali.

Nella teoria pragmatista per la quale la morale è un metodo di condotta utile alla società, si insiste sul carattere utilitario dei rispetto deiia iegge moraie in economia come in politica. ,

Per chi, come noi, dà alla morale un carattere razionale auto- nomo anche quando nel complesso ordinato della società l'uti-

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lità dell'osservanza morale sia evidente, non può essere accettato il criterio di coincidenza pragmatistica, come quello che .caratte- rizzi la valutazione etica delle norme sociali. Ciò non ostante non si può negare che dalla osservanza della legge morale de- rivino vantaggi sociali assai maggiori di quelli che potrebbero derivare dalle particolari ~iolazioni. I1 rigido mantenimento ' dell'ordine morale in economia, per evitare o colpire frodi, ap- propriazioni indebite, falsi, imbrogli e simili servirà non solo a vantaggio di singoli, ma anche all'equilibrio economico della società. I vantaggi dell'ordine morale si riversano nell'ordine economico, e viceversa, in larga reciprocità.

Del resto, che cosa è la moralità in economia se non il ri- spetto del diritto altrui, cioè, un attoi economico preliminare, un elemento di ordine, perchè l'economia possa svilupparsi? I1 punto importante, sfuggito anche a filosofi e ad economisti, è dato dal carattere dell'economia che è fatto sociale, rapporto degli uomini in società; non si dà economia individuale che prescinda da rapporti sociali. Sfido il lettore a poterla solo

. pensare fantasticando. Se l'economia è sociale di propria natura, è di propria na- ,

tura etica, cioè razionale; non si darà mai un'economia irrazio- nale: essa non sarebbe vera economia. Non esiste la pretesa economia dei ricercatori d'oro, dei nuclei ex-lege, delle asso- ciazioni a delinquere, anche, se organizzati secondo proprie leggi; il loro ordinamento non sarà mai classificabile come ra- zionale e tale da produrre rapporti di diritti e doveri; e, quin- di, neppure come un ordinamento economico. Si tratta d i sfrut- tamento di malfattori a danno della società, e anche a danno dei fuori legge, non essendo ammesso l'abbandono dell'associa- zione delittuosa pena la vita.

Lo stesso deve dirsi della politica come attività sociale e razionale, e in quanto tale intrinsecamente morale. Non si può dare politica immorale che sia veramente politica cioè attività diretta a l bene comune; mentre si potranno dare, e purtroppo non mancano, individui o gruppi che nel campo politico, di proposito owero occasionalmente, violino le leggi morali che sono anche leggi della comunità cui appartengono.

Ciò non ostante, l'opinione, non dico la teoria, che attribui-

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sce all'ente pubblico, lo stato, una specie di immunità morale .

per le azioni fatte dai governanti o dai cittadini in suo nome, è tenacemente ancorata alla storia politica di qualsiasi stato, al punto da tendere a sganciarsi la politica dalla morale, attri- buendovi una semplice valutazione tecnica di fini e d i mezzi diretti alla utilità generale, indipendentemente da qualsiasi valutazione etica.

La questione così posta può ritenersi estranea all'esame che stiamo facendo, potendosi dare i l caso, piuttosto frequente, del- l'uomo politico che, nell'adottare un mezzo ritenuto illecito dalla morale corrente (per esempio la violazione di un patto), sia convinto di poterne essere indenne in coscienza per la giu- . stificazione dell'utile pubblico. Pure non è così: per giudicare se egli sia o no legato al vincolo del patto, deve aver prima ri- solto il problema etico da noi posto.

Naturalmente, escludiamo le teorie che fanno dello stato un'entità etica, unica fonte di diritto, che adegua la propria morale ai mezzi di cui dispone. Non è i l caso di soffermarci, ai fini di questo studio, sulle varie concezioni stataliste; vi osta- no due rilievi fondamentali. Primo, che lo stato, pur concepito come ente giuridico della comunità civile, non ha né intelli- genza nè volontà nè coscienza come organi propri distinti dalla intelligenza, dalla volontà e dalla coscienza di coloro che ope-

+ - - rano in suo nome: lq azioni politiche in quanto atti umani appartengono a ciascun uomo in proprio; sono azioni delle quali ciascuno deve rendere conto alla propria coscienza e agli uomini che hanno diritto di domandarglielo. Secondo, che lo stato, quel tale stato, non comprende una popolazione distac- cata dal resto del mondo, ma è legato da rapporti e trattati in- ternazionali, commerciali, culturali, politici, e di recente anche organizzativi quali la Società delle Nazioni di ieri e le Nazioni Unite di oggi. I vincoli positivi sono basati, volere o no, sopra una serie di principi etici comunemente ammessi, la cui vio- lazione può determinare conflitti e ledere interessi reciproci.

Più si affermano i vincoli internazionali e più vengono li- mitati i poteri dei singoli stati; ~'oiieniaiìieiito verso !o limita- zione dei poteri sovrani ha una base etica, in quanto razionale nelle sue premesse universalistiche, contrarie alle teorie delle

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monarchie assolute dell'ancien régime, ai nazionalismi dell'otto- cento, a1 nazismo e fascismo dell'anteguerra, che contenevano in sè un virus individualista e statalista con tendenze contrarie alla morale.

Ciò posto, i l problema che rimane da risolvere è l'antico e .sempre vivo problema del valore dei limiti etici dell'azione

fatta nell'interesse di uno stato i n articola re. Esiste una morale diversa da quella che vincola l'individuo nel rapporto privato con i suoi simili? Per quanto ripugni la teoria della doppia- moralità, sotto qualsiasi aspetto venga presa inclusovi quello della morale pubblica distinta dalla privata, nella vita pratica si dà luogo allo sdoppiamento della coscienza individuale e alla risoluzione di ogni etica nel suo formalismo esterno. Questo fat- to, psicologico ed etico allo stesso tempo, diviene nell'intimo della coscienza uno svuotamento del finalismo umano e, quindi, una ferita alla stessa unità della ~ersonali tà umana. Può sem- brare esagerato quanto sopra a chi non riflette bene e usa trat- tare se stesso e la propria coscienza assai superficialmente; ma in fondo la doppia morale ha radice in una sua disintegrazione dell'individuo, della sua esistenza e della sua finalità.

Ciò non ostante il problema rimane; se l'uomo politico ac- cetta di servire il proprio paese con mezzi che dalla morale co- mune sono reputati illeciti, e nel suo animo giustifica tutto con la grandezza, il benessere, la gloria nazionale, arriva d i neces- sità a credersi l'elemento indispensabile di tale grandezza, be- nessere e gloria, da identificare psicologicamente se stesso con i l paese, lo stato e la nazione ( in altri tempi la monarchia e la casa regnante). Da qui i capitomboli storici, e gli strascichi post mortem: basta avere sott'occhio la Francia dopo Luigi XIV o dopo Napoleone; la Germania dopo Guglielmo o dopo Nitler; proprio la rovina della grandezza, del benessere e della gloria posti a giustificazione di tante guerre e di tanti massacri. Non si tratta solo delle grandi infatuazi~ni; nel modesto lavoro di ogni giorno, in politica si usa trattare affari con maggiore spre- giudicatezza morale che nella vita privata. Precisando meglio: nei rapporti privati si usano mezzi illeciti con maggiore caute- la, sia perché il ricorso al giudice della parte offesa o l'azione diretta della giustizia potranno arrivare più o meno solleciti; sia

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perché non si hanno motivi appariscenti di giustificazione. In 1

politica il motivo patriottico o sociale, l'idea che lo stato possa far tutto, il senso del dominio non solo sono pretesti a giustifi- cazioni, ma inducono a sorpassare il problema etico dei mezzi illeciti per un fine vantaggioso.

Si tratta veramente di un fine vantaggioso? Chi crede a un ordine provvidenziale e a un corrispondente ordine etico uma- no, non può mettere in dubbio che non esistono fini vantaggiosi per la collettività da ottenersi con mezzi illeciti; perchè manca un rapporto valutativo. Si tratterà di vantaggi apparenti, in ri- ferimento alla posizione dei governanti o dei partiti dominanti, ovvero tali nei riguardi di interessi particolari. Ma vantaggi vi- sti come sicuramente realizzabili oggi per domani, nella loro proiezione temporale che diano alla collettività benessere, svi- luppo, stabilità superiore a quella che lo stato potrebbe avere senza i beni procurati con mezzi illeciti, nessuno lo potrà mai garantire. Se guardiamo la storia della grande Germania, tro- viamo che ottant'anni di guerre tutte provocate dal governo d i Berlino, han distrutto quel che si volle ottenere creando lo stes- so impero.

Non è detto che sempre si abbiano effetti così catastrofici, immediati e visibili agli uomini che vi hanno preso parte; anzi

v - - può avvenire il contrario: che - i --- vantaggi - temporali -.l" -.-M delle male- - C --

fatte si prolunghino per decenni o per secoli'; non è detto che si tratti di vantaggi reali e che il contrappeso di tali vantaggi non sia il « peccato d'origine » di molti altri mali, specialmente psicologici ed etici, che non compenseranno mai, perché posti sopra ben altro livello, i vantaggi materiali detti politici, che *

vengono procurati con azioni inficiate di immoralità. Questo è i l nocciolo della questione e sarebbe puerile na-

sconderselo; in politica, si adotterebbe la tesi che l'interesse statale, quello che un tempo si chiamava « ragion d i stato n, possa giustificare i mezzi anche se questi fossero intrinseca- mente immorali.

Tutti inorridiscono a leggere le atrocità dei campi di con- centramento dei aazisti, qe!!o che si riìccuiita dcf piigionieri in Russia e altrove: sono l'eccesso visibile della tesi che i l fine giustifica i mezzi, ovvero dell'altra che non esiste morale asso-

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luta, ma solo relativa a un dato momento storico, voluta e co- dificata dallo stato.

La .coscienza umana e cristiana, quella che emerge nello sviluppo delle varie civiltà, e che ha formato la base' dei nostri . b

codici nazionali e internazionali, si ribella a siffatte concezioni che annullano la stessa razionalità umana, sopprimono il senso di responsabilità personale e lo spirito di vera libertà.

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Cap. VI

DEI RAPPORTI POLITICI ALL'INTERNO

La diversità di apprezzamento etico degli uomini politici nei rapporti interni e in quelli esteri è dovuta alla diversità della concezione di società- nazionale e società internazionale.

Qui trattiamo i rapporti all'interno della società nazionale organizzata nello stato, limitando lo studio ai rapporti politici subiettivi dei-vari soggetti di diritto fra di loro: rapporti fra investiti di potere (quali essi siano) e cittadini in singolo, o di- stinti per categorie o territorio. Però occorre fare varie ipotesi secondo che si tratti di regimi assolutistici, paternalistici, rap- presentativi e democratici, essendo che lo stato psicologico delle persone nei loro reciproci rapporti è atteggiato, modificato e alterato secondo i diversi regimi, secondo le-varie fasi dei sin- goli regimi, secondo lo spirito che si diffonde e prevale in de- terminate situazioni.

Bisogna partire da una constatazione comune a tutti i regi- mi, anzi comune a tutti i nuclei sociali, nessuno escluso. In uno stato generale di coesione sociale e di pacifica convivenza, ov- vero in uno stato psicologico di esaltazione ed euforia collettiva, le mancanze e i delitti che ne ledessero la consistenza, attenuas- sero lo crlancio, turbassero la pace, solleverebbero l'indignazione generale, e tanto più pronta ne sarebbe la repressione quanto

'

più rispondente al. sentire comune. Al contrario, quando una società è in crisi e tende alla di-

sgregazione, sia per settori meno vigilati sia per il complesso organico, la resistenza morale si attenua come si attenuano i vincoli sociali, fino ad arrivare alla tolleranza, alla insensibilità verso I'apekta violaz'ione della legge. Nel periodo di maggiore

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disordine di una società politica, i1 cittadino rimasto quasi in- difeso aumenta le proprie difese, associandosi ad altri ed arri- vando, se occorre, q tentare la riorganizzazione sociale su mo- tivi creduti legittimi non importa se in contrasto con la legge scritta. Fino a quale punto questo stato di dissoluzione sociale possa giustificare non,solo la violazione del diritto positivo, ma anche la limitazione delle esigenze morali fra gli uomini, non è facile precisare: è certo che l'istinto umano di sicurezza e di difesa, fra i due casi estremi sopradescritti, prevale sulle norme d'ordine e sulla valutazione etica di tali norme.

Con ciò non si intende giustificare il mezzo illecito per un fine lecito, ma l'uso del mezzo idoneo proibito in nome del- l'ordine e dell'etica dell'ordine che diviene legittimo per la man- cata funzionalità degli organi sociali. L'estremo di questo caso è dato dalla legittima difesa, che in tanto è legittima in quanto manca la difesa sociale e in quanto è fatta cum moderamine in- culpatae tutelae. Dall'altro lato, può essere legittima I'insurre- zione civica contro il governo tirannico, in quei casi eccezio- nali che la rendano ultima ratio, la cui legittimità possa essere garantita da probabile successo (l).

Fra questi due poli si svolge tutta la gamma che va dalla coesione alla disgregazione sociale, con effetti non indifferenti nel campo dei rapporti politici e nella corrispondente valuta- zione etica. Per intendere bene il punto di vista in esame, pren- do due lati ben noti della disgregazione sociale nei rapporti del cittadino Son gli organi dell'amministrazione statale. I1 primo è lo stato di diffidenza e direi di lotta sorda del contribuente e del fisco reciprocamente. A parte i contrabbandieri e i truffatori che sono ex-Lege, il contribuente in via normale non si fa ca- rico di coscienza se cerca di evadere o attenuare i l peso del tri- buto del dazio o della tassa da pagare e cerca tutti i mezzi che gli sembrano conducenti allo scopo. Egli è obbligato non solo da leggi positive, ma da obbligo morale a pagare i suoi tributi: « date a Cesare quel ch'è d i Cesare D; l'evasione è un danno per la società organizzata, e' si riversa sugli altri cittadini il carico

(l) Su questo punto delicato vedi il cap. X,'p. 163 sgg. in'questo volume.

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non soddisfatto per colmare il deficit delle somme dovute dagli evasori: dovere sociale (nel senso esatto della parola) verso la società e dovere di solidarietà verso i singoli. Ciò non ostante, lo stato psicologico di certi paesi, come i latini, è a favore del- l'evasione; di tale parere sono persone di retta coscienza e direi scrupolose. Forse adesso, introdotto in Italia l'uso della dichiarazione personale, sarà in parte corretta tale anarchica e antietica concezione. Essa è stata fin oggi giustificata dal fatto

' che l'aggravi0 fiscale è ritenuto eccessivo, e in taluni settori lo sia di fatto, e quindi lesivo del diritto dei cittadini; che l'am-

-

ministrazione statale non è: rigida, né? economicamente oculata nè moralmente corretta; può darsi che ciò risulti vero per

e cinque casi su dieci. Ma il correttivo non è quello delle evasioni dei più abili, dei più furbi e dei piiinricchi (che possono arrivare a dividere 'i guadagni con quel personale che traffica fra i due interessati), sì bene una maggiore oculatezza da parte del go- verno, più equa politica legislativa e più rigoroso controllo. Portando le cose all'estremo dai due Iati, avviene quella disgre- gazione sociale per la quale può essere legittimo lo sciopero contributivo da una parte e un sistema inquisitori0 e repressivo dall'altra.

Più sopra dissi che la valutazione etica dei mezzi varia se- _condo i sistemi politici in atto. Nel caso presente,'non sarebbe

U*- -,-

legittimo lo sciopero dei contribuenti in regime democratico, fin che non siano esperite le vie parlamentari, i dibattiti pub- blici, le proteste associate e infine i cambiamenti elettorali; mentre in regime assoluto occorrono altre vie per ottenere quel che si reputa equo e legittimo. Così dal punto di vista dell'eti- cità dèi rapporti fra cittadini e amministrazione statale, in re- gime libero la moralizzazione dei rapporti dovrebbe riuscire meno difficile, per via del pubblico dibattito degli affari, la li- bera critica e il contrasto dei partiti, tranne il caso che l'am- biente di crisi morale sia così pesante, come avviene dopo le guerre, che gli stessi partiti, nessuno escluso, creino uno stato di reciproca omertà col collasso della resistenza morale d i fronte alla dilapiciazione dei denaro pnbblicu acciesciiitu rapidiiu;zn:e da un fiscalismo eccessivo e creante oneri non equamente di- stribuiti. ,

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Non intendo giustificare moralmente nè gli uni nè gli altri: intendo rilevare che creato uno stato di conflitto, si attenuano i rapporti morali fra i due in contesa. Mentre nella educazione anglosassone c'è stato sempre il rispetto dell'amministrazione, al punto che i l raro evasore toccato nella coscienza, invia, senza rivelarsi, la parte abusivamente non versata all'erario, abitu- dine degna di nota che per la gente latina, se fatto spontanea- mente, sembrerebbe qua& una stranezza.

Un altro dei fenomeni preoccupanti dei rapporti fra il cit- tadino e l'amministrazione pubblica, è quello'della richiesta od offerta di compensi (spesso a mezzo di intermediari) per otte- nere dei servizi dovuti, dei favori legittimi, o caso più diffuso, dei favori illegittimi.

Fo i1 caso di una povera vedova di guerra, senza mezzi, che aspetta da sei, sette anni la liquidazione della pensione e non riuscendovi accetta la proposta di un intermediario di versare una certa somma. Se rifiuta, ci potrà essere chi metterebbe quel fascicolo sempre indietro; se accetta può darsi che otterrà un rapido disbrigo; essa comprende bene che in coscienza non dovrebbe dare quella somma; contrae un debito e dà la K bu- sta » per uscire da uno stato di sofferenze. Fa male: ripetendo questo caso per mille e per centomila, la corruzione invade gli uffici pubblici. Dall'altro lato, quale impiegato potrebbe rifiu- tare al proprio superiore gerarchico di cercargli due o dieci fascicoli che egli desidera riesaminare?

Questo caso delle pensioni, può essere ripetuto per qualsiasi certificato, per qualsiasi affare piccolo o grande che sia. Oggi che lo stato è divenuto gestore diretto o indiretto di una serie interminabile di enti, l'occasione di traffici indebiti è centu- plicata. Il cittadino non solo è indifeso, ma è circuito, vessato e ne subisce le vendette se fa il zelante. L'omertà si diffonde fra i corruttori e i corrotti; la crisi morale dei rapporti fra cit- tadini e stato diviene endemica.

In ognuno di questi casi per il cittadino, l'impiegato, il mi- nistro, il parlamentare si pone un caso d i coscienza; ma se ognuno di costoro è debole e la resistenza individuale viene meno, si dovrà conchiudere che il disfacimento sociale è alle porte.

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Chi resiste crea la generazione eticamente sana che può ten- tare i l risanamento della. società minacciata da una disgrega- zione tanto più grave quanto più indebolito 'ne è i l vincolo nell'intimo della coscienza di ciascun individuo.

Gli esempi nel campo della politica associata si possono moltiplicare all'infinito, sia da parte dei rappresentanti dell'au- torità che da parte dei cittadini. I primi sono i più esposti alle tentazioni del potere, del denaro, della clientela, del partito, e sono quindi i più responsabili, se essi vengono meno alla os- servanza delle leggi,, alla equità dell'amministrazione, alla tu- tela dei deboli èd alla mortificazione dei potenti, presi spesso come sono dalla demagogia popolare da un lato e dalla paura di perdere il potere dall'altro. Perciò gli istituti parlamentari, con l'alternanza nei posti di governo, la periodicità delle ele- zioni, il controllo'e la critica delle opposizioni, rinvigoriscono i l senso della responsabilità e limitano le fosti ambizioni in- controllate.

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Cap. VI1

DEI RAPPORTI POLITICI CON L'ESTERO

I rapporti con nuclei umani che gli uomini riguardano estra- nei alla propria comunità nascono col bisogno : bisogno di scambi, bisogno di difesa; ovvero derivano dalla paura: paura fondata o paura infondata; perfino dalle gelosie o dagli urti occasionali. I n tutti i rapporti vi è un punto di incontro, che è quello dei patti, consacrati dalla religione, resi saldi dalla tradizione, vio- lati per motivi diversi più o meno validi, e ricostituiti dopo le prove sanguinose che non risolvono mai nulla, ma sono terri- bile olocausto alle passioni umane.

Fermiamo un punto: i patti che sono la forma giuridico- positiva nei rapporti fra gli stati non creano la società interna- zionale: questa è insita nella società umana; solo fissano i ter- ,

mini più o meno elementari, più o meno complicati, parziali o generali, della società internazionale. Ma la società in radice esiste, è sempre esistita; si articola secondo i tempi, le distanze, le possibilità e gli sviluppi. I1 concetto di popolo- sufficiente a sè e chiuso agli altri, se etnologicamente è possibile - e storica- mente provato, ha origine da fatti speciali, da condizioni fisiche di popoli isolati o che occasionalmente si isolarono, o che vo- lutamente lasciarono il precedente consorzio per bisogni (fame) o per contrasti (lotte faziose) o per avventure o per cause fisiche, terremoti, terre mobili, isole distanti. Ma appena la vita può espandersi, i rapporti si riprendono superando le paure istintive e gli isolamenti voluti.

I patti attuano l'istinto e il bisogno di società internazio- nali, non creano le basi di un diritto che in fondo è naturale:' l'osservanza dei patti è legge del cuore prima che impegno di

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volontà, basata, è vero, sulla reciproca utilità, ma anche sulla minore utilità o notevole svantaggio della parte più debole, che per ragioni eventuali, subisce condizioni meno favorevoli.

I1 rapporto di giustizia e di equità nei commerci fra popoli diversi deriva certo dall'interesse di ambo le parti; la frode potrà essere caso particolare; ina la penale posta nei contratti o i l pericolo della rescissione dei contratti commerciali, mette in mora e privati e autorità alla più leale correttezza negli affari.

Se l'utilità pubblica e di rimbalzo l'utilità privata corrispon- dono ai principi morali dei rapporti internazionali concretiz- zati in patti, leggi internazionali, norme giuridiche ammesse da tutti, non possono esservi che motivi secondari ed egoistici a creare i conflitti fra i nuclei autonomi, si chiamino città, stati, imperi.

Pure tutta la storia umana, anche quella che chiamiamo civile, ( e forse questa più di p e l l a non scritta) non è altro che una serie di guerre, di ingrandimenti di territori politici, .

annessioni, assoggettamenti di popoli e di nazioni: una storia di sangue.

L'uomo politico, che al momento opportuno con inganni, menzogne e sopraffazioni arriva a privare un altro paese della sua autonomia (ricordare Hitler quando occupò l'Austria e as- soggettò la Cecoslovacchia) viene esaltato dalla pubblica opi- nione contemporanea o dagli storici e dagli scrittori che for- mano l'opinione pubblica del tempo. Se poi è fortunato in guer- ra, non si contano i panegiristi del momento e neanche i lauda- tori della storia scolastica, quella che dovrebbe essere e non è maestra di vita. Coloro che sotto il pretesto delle glorie nazio- nali esaltano il successo, dimenticano la terribile contropartita nel campo psicologico e sociale. Si forma di conseguenza una mentalità che distacca l'uomo politico dalle. sue convinzioni mo- rali, il paese, meglio la nazione, dalle sue responsabilità inter- nazionali, disintegrando la società che non è solo nazionale, da- gli obblighi verso gli altri uomini nella solidarietà umana che ne è la base.

Questo quadro etico non è definitivo: i progressi fatti attra- verso i secoli nel campo del diritto e del costume internazionale ,

sono stati notevoli; il processo di unificazione umana è sempre

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in atto. Le difficoltà nascono dalle concezioni e passioni ege- moniche che si sviluppano per desiderio di grandezza, per con- quista di mercati, per esigenze materiali di vita.

La posizione realistica di gioco di forze è vestita da pretese d i prestigio, onore nazionale, difesa di temuti pericoli; i pre-

, testi di piccoli contrasti, superabili con metodi diplomatici, ser- vono a mascherare la volontà di conquista. Chi non ricorda i fatti di Serajevo del 1914 che diedero il ,pretesto alla guerra austro-serba che fu l'inizio della prima guerra mondiale?

I moralisti sono stati indotti da questi fatti a teorizzare circa le guerre giuste e le guerre ingiuste, e perfino a valutare pre- ventivamente la gravità dei motivi che caratterizzerebbero le guerre in rapporto alle cosidette cause. Nel fatto, non vi è rap- porto di causa ad effetto fra i motivi precedenti e la guerra che ne segue. Le situazioni variano tra la volontà di fare la guerra e la necessità di accettarla come mezzo di difesa. Dentro questi limiti gioca l'abilità degli uomini responsabili per evitarla, la astuzia per farla accadere al momento opportuno in modo da evitare l'apparenza di esserne responsabili.

Tutti convengono che volere una guerra è un delitto contro l'umanità in genere e contro il proprio paese in particolare; però al momento che la guerra scoppia, tutti tendono a giusti- ficarla dalle due parti in lotta. La insensibilità morale prende

'

tutti per la gola, perchè tutti si trovano, volere o no, impegnati per la vita e per la morte. Allora vengono le giustificazioni mo- rali, perchè dopo tutto la ragione etica prevale nella coscienza della umanità anche quando si va a commettere un delitto: Gesù fu crocifisso e i pretesti furono la pretesa ,di essere Dio e i l fatto che sowertiva il popolo negando di dare il tributo a Cesare. La guerra etiopica fu giustificata dal lato giuridico (aggressione) dal lato etico (civilizzazione) dal lato religioso (diffusione del cattolicesimo). Tali pretesti erano chiari; ma prevalsero la concezione nazionalista e la imperialista unite insieme; perciò fu rifiutata la proposta Lava1 che avrebbe dato le soddisfazioni nazionali e i vantaggi coloniali ma senza la guerra. La gloria della vittoria con le armi prevalse perfino sull'utile di avere i vantaggi senza effusione di sangue e senza sperpero di danaro. Quel che si dice della guerra etiopica, si applica a tutte le guer-

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r e che. nella loro successione fanno giustizia dei torti reciproci, livellando il mondo nella miseria, nel dolore e nel sangue. Ciò non ostante, al momento in cui il dado è tratto, la coscienza degli interessati dalle due parti (aggredito e aggressore) si adegua al sentimento gelierale che porta, senza più discriminazioni, alla lotta per la vittoria; perchè i l senso del pericolo di una scon- fitta e il danno comune che. diverrebbe danno dei singoli, fanno tacere, annullano direi, ogni senso morale che condanni non tanto la guerra in genere, ma tale guerra, combattuta hic et nunc, come un fato di morte.

Questo quadro clinico della soppressione violenta, a guerra dichiarata, del senso morale nei riguardi del nemico non porta a giustificare le guerre, che per sé sono ingiustificabili, tranne nel caso dell'aggredito senza colpa che ha diritto a difendersi; o dell'aggredito con colpa sproporzionata alla punizione inflitta . con la guerra, che abbia offerto invano la giusta riparazione al suo fallo. Anche in questi due casi, rari ma storicamente rileva- bili, la guerra si presenta sempre nel suo quadro tragico ; anti- umano, che per le passioni che desta e per la impossibilità di essere mantenuta nei limiti di una difesa proporzionata, altera i giudizi etici della giustizia e dell'umanità, pur ammettendo gli atti di eroismo, di dedizione e di sacrificio, che nobilitano solo chi l i compie.

I5 - Srrrwr, - Politica e morde

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Cap. VI11

XL VALORE ETICO DELL'INCIVILIMENTO

Durante il periodo hitleriano furono inventate non poche di -.- quelle battute popolari che caratterizzano un regime. Il tedesco esalta i l nuovo fiihrer che porterà il benessere e la grandezza a1 paese; gli risponde l'olandese: - quando la mattina bussano alla mia porta, so che è il ragazzo che mi porta i l latte; ma quando bussano alla tua porta, tu dubiti che possa'essere la Gestapo che venga a portarti in carcere.

La sicurezza dalla paura è alla base dell'incivilimento: sia paura del ladro, del nemico, del fazioso; sia paura della stessa organizzazione sociale; sia paura individuale o collettiva; non importa. La paura ,creando lo stato di sospetto, ansietà, insta- bilità, divide le famiglie fra di loro, accende le ire delle fazioni, mette città contro città, arma gli stati e molte volte provoca le guerre.

Isaia nel canto del rampollo di ~ e s k , che pieno di spirito di Dio con la sua aro la fa morire l'empio, presenta il quadro del più elevato incivilimento con l'abolizione della paura: u I1 lupo farà dimora con l'agnello, il vitello i l leone e la pecora staranno . insieme e un piccolo fanciullo l i condurrà ... e il bambino di latte si trastullerà sopra il covo dell'aspide ... D.

L'incivilimento umano non è mai assoluto, mai generale, mai completo ; è relativo al condizionamento fisico, storico e sociale, subisce crisi e sviluppi, arriva a mete insperate e ad involuzioni incredibili. Si può passare in poco tempo dalla civiltà alla bar- barie, e riprendere il ritmo civile come se le esperienze crudeli del passato prossimo non fossero mai avvenute.

Però gli splendori spirituali e materiali delle varie civiltà tramontate e quelle della nostra attuale sono tali, da farci re- stare ammirati come l'uomo attraverso fasi di lotte inaudite, di

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ferocie immani e di miserie estreme, abbia potuto esprimere tanta ricchezza morale, intellettuale e sociale e mostrare tanta resistenza all'imperversare del male.

I1 fatto fondamentale ne è stato e ne è la formazione di una coscienza etica comune insopprimibile, anche nelle enormi de- viazioni e contaminazioni ; i l senso di eguaglianza spirituale an- che nelle insormontabili diseguaglianze castali e servili; il senso di giustizia anche nel patimento delle peggiori ingiustizie; il senso di famiglia e di maternità anche nelle famiglie poliga- miche e nelle depravazioni rituali; i l senso di solidarietà an- che se limitato a un cerchio sociale assai ristretto; lo spirito di sacrificio di sé, e della vita quando occorra, per il bene comune comunque inteso.

La formazione della coscienza collettiva non è diversa da quella individuale; è la stessa nella sua inter-rifrazione. Per intenderla bisogna partire dal principio che non possa svilup- parsi coscienza individuale se non in società. Senza la inter- rifrazione la coscienza rimane chiusa e inviluppata. Creato Ada- mo, Dio gli diede una compagna dicendo: «Non è bene che l'uomo resti solo ». Non ostante che Eva fosse stata la tenta- trice, l'azione di Eva integrò Adamo, Eva e Adamo generarono figli e figlie: il contrasto del male col bene sviluppò non solo gli istinti animali, ma il senso di coscienza; e Dio poté dire a Caino: « Forse, se farai del bene, non anche ne riceverai? Se invece farai del male, non starà subito i l tuo peccato alla tua ,

porta? Ma l'appetito tuo ti sarà sottoposto, e tu potrai domi- narlo ». E avendo Caino detto che « chiunque mi troverà mi ucciderà D i l Signore gli disse: « No, non sarà così. Anzi, chiun- que ucciderà Caino sarà punito sette volte di più ». E pose il Signore su Caino un segno affinchè nessuno che l'incontrasse lo uccidesse. Dopo di che Caino fabbricò la prima città, cioè i l primo agglomerato d i abitazioni, dando inizio alla vita associata su territorio fisso.

Adamo ed Eva che violano i l comando divino e prendono coscienza de11i Ioin colpa 3 Caino richiamato da Dio a dominare l'appetito e a prendere coscienza della esigenza di una puni- zione e la intima rifrazione sociale che ne deriva, stanno a in- dicare il centro di tutto l'incivilimento umano che nella coscien-

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za del bene e del male ha sua radice; e che dalle deviazioni d i apprezzamento dovute alla ignoranza, alle irrazionalità istin- tive e alle pseudo-razionalità riflesse, derivano tutte le defor- ' mazioni e gli arresti al processo di incivilimento.

I1 fatto associativo domina in tutto il processo umano, pro- cesso non dell'uomo ma degli uomini, non di una intelligenza e di una volontà, ma di milioni e miliardi di intelligenze e di volontà; non da sforzi isolati e quindi sterili, ma da energie che pur sviluppate da uomini singoli, si moltiplicano nel ri- flesso di un numero indefinito di coscienze, creando tradizioni e istituti che fissano le condizioni per ogni ulteriore prooesso.

Nel campo politico convergono, attraverso la evoluzione de- gli istituti particolari che ne formano l'intreccio, sviluppi sem- pre crescenti, rete di interessi, sentimenti, passioni, cqntrasti di tendenze, sì da rendere il potere politico quale forza prevalente in ogni parte del mondo organizzato. Su tale potere il riflesso

,della coscienza individuale si trova attenuato per il fatto che, restando le leve del comando in poche mani, il popolo ha dif- ficoltà a rendersi conto degli ingranaggi politici, delle teorie su cui si appoggiano, degli interessi che vi si annodano. Si forma- no così due coscienze distinte: quella dei politici di professione, dei tecnici ed esperti, dei burocrati ed esecutori, che tendono a ' divenire caste limitate e impermeabili; e l'altra, la massa più o meno disorganica o irregolarmente organizzata, che intende i problemi politici attraverso la formazione dei miti, il preva- lere dei particolarismi, sempre in forma analitica, essendo dif- ficili le sintesi nelle quali possano equilibrarsi i vari interessi particolari con quelli generali e superiori.

Da qui la formazione d i coscienza individuale insu5ciente e di coscienza collettiva equivoca, e quindi la necessità di con- tinue elucidazioni, rettifiche, discussioni, riesami, in un conti- ,

nuo ed incessante innesto del generale sil,particolare, dei dati d i esperienza sugli elementi teorici, con un rincorrere agitato e continuo h a idee e fatti: hanc pessimam occuiationern dedit nobig Deus direbbe il sapiente.

Da tutta questa enorme fatica emerge sempre la coscienza etica che è al fondo della civiltà umana: il senso di giustizia e il senso della colpa, i l rispondente senso di responsabilità e la

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L prevalente valutazione di bene o di male, che le nostre azioni possono produrre nella vita individuale e in quella associata.

Per quanto teorie a-morali e immorali si siano introdotte nei sistemi politici e nella pratica usuale, pure il valore etico delle azioni politiche non è scomparso dalla mente e dalla coscienza dei popoli. Si può sbagliare nella valutazione; si può credere che gli interessi nazionali o la ragione di stato siano validi a permettere le azioni più indegne; viene il momento che tali pretesi effetti vantaggiosi si riconoscono come vani e - a parte le sanzioni storiche che presto o tardi non mancano mai (Dio non paga il sabato) - vengono valutate per quel che sono, atti non degni dell'uomo, non degni dell'uomo politico, non degni del popolo che li approvò e ne usufruì. I1 che, a parte le opi- nioni e gli apprezzamenti di ogni singolo atto più o meno giu- stificabile, pur ammettendone la utilità immediata non se ne può

/ ammettere la immoralità intrinseca; e spesso si resiste a che divenga costume. Se Dachau fa orrore ed è rigettato a nome del- l'umanità, ciò non è perchè Dachau era in mano ai nazisti; se le vendette, gli assassini in massa del terrore in Francia sono coperti dal velo della importanza storica di quella rivoluzione, non per questo possono essere ammessi'come mezzo di governo anche in periodo rivoluzionario. Nessuno dei due casi è civil- mente e quindi eticamente giustificabile.

Lo sviluppo etico dell'incivilimento va verso i l sempre mag- giore rispetto della vita umana; così che si deve arrivare non solo all'abolizione degli assassini di stato, ma anche all'aboli- zione completa della pena di morte.

L'incivilimento non è lineare ; le, idee civili di un tempo deb- - bono essere successivamente rivedute e riadattate; le crisi fanno

retrocedere in modo che gli istinti barbarici riprendono vigore. Ma il faro della eticità non si oscura mai; e la ripresa, ora in nome della religione, ora in nome della libertà, della socialità, del diritto, della personalità umana, ritorna a essere d i guida fra i flutti delle passioni politiche.

Eticità ed incivilimento sono due facce della vita associata de!!'uou;o, i! ~ E ! Y , "e! cmtattc e nel cnntrasto reciproco, eIe- va, affina e sublima le proprie facoltà, ed ha modo di apprez- zare, in ogni evenienza, i valori essenziali della razionalità.

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Cap. IX

LA CIVILTA' CRISTIANA

I1 cristianesimo ha dato all'incivilimento una sua impronta indelebile, elevandolo senza comparazione al disopra di tutte le civiltà precedenti e concomitanti.

Anzitutto ha sganciato la coscienza personale daiJ vincoli esterni di famiglia, casta, tribù,.nazione dando ad essa i l pri- mato del valore e della responsabilità. E' questa una perma- nente e sempre presente liberazione messa alla base d i ogni li- bertà. Allo stesso tempo impose all'individuo di ripiegarsi verso gli altri nell'abbraccio solidale di uomini liberi, perchè legati tutti da vicendevole amore, un amore unico con doppio oggetto: verso il Padre comune, Dio, e verso i fratelli, il prossimo.

Questo è il fondamento della etica cristiana, la quale influi- sce con luce di verità e amore in tutto il lungo percorso di due- mila anni di cristianesimo militante. Veramente militante, per- chè l'errore e la colpa sono i nemici da combattere, intristendo la vita individuale anche nei suoi riflessi collettivi; di tutti i cristiani, quelli stimati buoni e quelli creduti cattivi, gli igno- ranti e i dotti, gli erranti e i convertiti, i tiepidi, gli zelanti, i fedeli e gli apostati.

Che meraviglia che la politica, essendo nel suo complesso passionale la piu refrattaria a mettersi in riga con il cristiane- simo, abbia spesso levato bandiera di autonomia, creando i con- flitti secolari fra potere temporale e potere spirituale, fra im- pero e sacerdozio, fra chiesa e stato?

La rivolta politica moderna è arrivata a negare i benefici del- l'incivilimento cristiano, rappresentando il cristianesimo, in rapporto alla vita associata, come un intmso e anche come un

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nemico; a teorizzare la socialità laica (filosofia etica e politica) quale nuova civiltà che soppianterà quella cristiana.

Se dal punto di vista della lotta anticristiana, che la storia ci presenta costante da circa duemila anni, le fasi moderne d i apostasia, prima borghese e poi anche proletaria, mostrano le difficoltà della completa cristianizzazione storica del mondo, dif- ficoltà la cui radice è nella coscienza individuale di ciascuno di noi ; dal punto di vista delle nuove conquiste, oltre che interiori, nel campo del vivere civile, tale lotta è salutare e conquistatrice e ci deve riempire di ottimismo, come lo avevano i primi cri- stiani pieni di fede nella seconda venuta del Cristo.

Maturare questa venuta nella coscienza propria e in quella degli altri non è solo atto di fede soprannaturale, è allo stesso tempo fiducia tempratrice dei sentimenti più nobili e delle azioni elevate fino al sacrificio.

Perciò valgono allo sviluppo della civiltà, anche sul piano terreno, tutte le buone azioni di coloro che si sacrificano alla diffusione della verità, all'assistenza dei deboli e dei sofferenti, alla educazione della gioventù, alla elevazione delle categorie sociali più abbandonate; valgono in quanto realizzano nei fatti un'etica superiore che fa vincere il male nel bene.

Pio XI, parlando ad un pellegrinaggio belga, affermò che la politica è un ramo dell'amore del prossimo. I n vero, tende per definizione al bene di una comunità, la statale ; non sarebbe tale, cioè amore del prossimo, se tendesse a sacrificare una parte per favorirne l'altra; a violare la giustizia a vantaggio dei proietti; a mancare di equità per tornaconto personale; ad amministrare male il 'denaro d i tutti col profitto illecito di pochi.

Chiaro: l'etica ha le sue esigenze, che una coscienza vera- mente cristiana mette a fuoco, mentre una coscienza falsamente cristiana, ovvero svincolatasi dalla morale, non sente più come dovere effettivo e cogente.

La peggiore avventura che sta subendo il mondo detto civile è quella di concepire l'etica come un complesso di norme utili per vivere in comune, norme che ciascun popolo può modificare secondo le proprie vedute pratiche, camhiandnle nill'evnlversi degli atteggiamenti e delle utilità. In questo caso la coscienza è deformata in partenza, in quanto accetta il codice del buon co-

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stume come si accetta la moda del vestire, la etichetta del man- giare o del conversare, le regole del giocare: fatti esterni, abitu- dini sociali, norme di accomodamento, usanze superficiali, nei quali la vita si effonde e si stempera perdendo di significato e di valore.

Si sa che il cristianesimo da. un fine ultraterreno alla vita personale, .e solo attraverso la singola persona dà valore alla vita terrena nella sua socialità, anch'essa trasformata i n una so- lidarietà spirituale detta comunione dei santi, incentrata e vivi- ficata in Cristo e da Cristo.

Ma quali effetti di bene se questa stessa linfa spirituale arrivi a circolare nella vita terrena, sol che ci sia quell'amore del pros- simo, che tempra le coscienze e dà efficienza spirituale a tutti gli atti umani anche più insignificanti, contenendo in sé la scin- tilla di divino portata nel mondo?

Così coscienza e politica possono trovare una coincidenza pacificatrice al disopra del tormento quotid'iano di incorrere in responsabilità condannate dagli uomini e da Dio.

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così. La menzogna viene sempre a galla; a parte la sua natura immorale, ritorna più a danno che ad utile. Se è vero che Bi- smarck diceva di usare in diplomazia la verità per far credere il contrario, è più esatto affermare che la verità in diplomazia è un mezzo che presto o tardi produce i suoi frutti inestimabili d i comprensione, fiducia, simpatia, solidarietà.

Essere veritiero non impone svelare i segreti o fare affer- mazioni inopportune. Il silenzio è d'oro specialmente i n poli- tica: oggi si parla troppo, e quindi si usano verità, mezze ve- rità, verità apparenti, infingimenti e menzogne. L'arte politica educa a dire quel che è necessario; tacere quel che è doveroso non palesare; sfuggire la menzogna e trovare il modo di evi- tare le affermazioni che non sarebbero conducenti al fine. Senza una lunga educazione non vi si arriva facilmente.

È più facile dal no arrivare al si, che dal sì retrocedere a l l ,

no. Saggio consiglio è non impegnarsi senza avere riflettuto a tempo ed avere formata la convinzione di poter mantenere l'im- pegno preso.

I1 no è più costoso del sì; ma spesso il no è più utile del sì. Data la facilità delle richieste onerose per lo stato e di dubbia moralità per il richiedente, il no è doveroso e i l sì è dannoso. L'uomo politico non deve aver timore di dire il no più spesso che il sì. A parte il senso del dovere, il no detto con garbo ma con fortezza aumenta credito e stima.

9

I1 politico incerto ed esitante, se non ha per rivalsa un cu- mulo d i buone qualità, onestà, buon senso, capacità di sintesi, aiitorità morale, henemerenze gociali, pii6 &si un iiomo far-

lito. Purtroppo, anche le buone qualità sarebbero in parte sva- lutate per l'una che presto diverrebbe il tallone di Achille.

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NOTE E SUGGERIMENTI DI POLITICA PRATICA

1

La politica può dirsi l'arte dell'utile possibile applicata agli affari della cosa pubblica. Trattandosi di società, quale essa sia, utile equivale a bene comune o bene della comunità. Si dice utile possibile. anche quando per cause eccezionali o per eventi felici vengono ottenuti vantaggi creduti impossibili.

8 La società politica è basata su principi informatori riguar- ' danti l'ordine, l'amministrazione e la difesa pubblica; l'utile

politico consiste nella ricerca dei mezzi e dei fini rispondenti alla natura stessa di tale società.

3

Non è di tutti saper fare della politica, ma di coloro che ne sono dotati. Come ogni arte anche la politica ha i suoi gran- d i artefici e i .suoi artigiani; naturalmente vi saranno anqhe dei mestieranti; il pubblico sceglie i suoi beniamini anche fra i mestieranti.

È primo canone dell'arte politica essere franco e fuggire l9infingimento; promettere poco e mantenere quel che si è promesso.

5 I

Si crede che la menzogna sia un obbligo in politica; non è

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. . Aver cura delle piccole oneste esigenze del singolo cittadino

come se fosse un affare importante è buon metodo in politica. Dante esalta Traiano per avere ascoltato la a vecchierella n al momento della partenza per la guerra.

11

La sollecitudine nello sbrigare gli affari, specie se riguardano i singoli cittadini, è buona politica. Se l'esito è negativo, si satà evitata l'attesa che accresce le speranze e ' i crucci; se l'esito è positivo, si avrà il vantaggio di av,er reso giustizia senza averla sciupata, nelle more, per chi attende sempre lunghe e tormentose.

12

Non ti circondare di adulatori. L'adulazione fa male all'ani- ma, eccita l a vanità e altera l a m visione della realtà. L'amico adulatore non è più amico e occorre starne in guardia: può domandare quel che non si deve concedere e che forse si con- cede per il legame creato non dall'amicizia ma dall'adulazione.

Rigetta fin dal primo momento che sei al ogni pro-. .posta che .tenda alla inosservanza della legge per un presunto vantaggio politico. I1 legame morale che la infrazione della legge esige con altri, colleghi e subordinati, rimane come una catena; i conniventi te ne richiederanno il prezzo. Altre viola- zioni seguiranno alla prima.

I1 peso psicologico della prima colpa così fu scolpito dal Petrarca nel 75' sonetto in vita:

Allor corse al suo mal libera e sciolta; Or a posta. d'altrui convien che vada L'anima, che peccò sol una volta.

In politica è lo stesso.

Non promettere quel che si dubita poter mantenere; non

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affidarti al tempo per cercare d i non mantenere quel che si è promesso.

In tutti gli affari bisogna misurare il tempo « tecnico » per eseguirli, in modo da vederne gli effetti a distanza. I1 pittore, affrescando la volta e i muri di una chiesa o di una grande sala, deve mantenere vivo il senso della distanza del punto vi- sivo; così deve fare l'uomo politico.

Per giunta: occorre misurare il tempo politico » della pre- parazione psicologica dei collaboratori e del pubblico; il tempo « parlamentare r> se in democrazia e il tempo « di anticamera 1)

se in regime dittatoriale. Non basta, c'è anche da prevedere il tempo « burocratico », il più lungo e il più perduto; in ultimo arriva i l tempo « tecnico » delIa realizzazione.

Chi vuole bruciare uno di questi tempi, spesso brucia l'opera che vuol fare, se non brucià la sua politica e la sua persona.

Non rimettere a domani quel che fare oggi; ma non fare oggi in fretta quel che puoi fare domani con calma.

. l 7

La pazienza dell'uomo politico deve imitare la pazienza che Dio ha con gli uomini. Non disperare mai, ma cogliere i l mo- mento buono per il premio o per la punizione.

Non si può collaborare senza aver fiducia. Ma il giorno che riconosci che il tuo collaboratore non è fedele, trova modo d i sbarazzartene al più presto per non riprenderlo mai più.

Non coprire con la tua autorità le malefatte dei tuoi dipen- denti; lascia che la giustizia sia anche per essi rigorosa. .

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Preferisci non scrivere mai cosa della quale desideri che sia mantenuto i l segreto. Pensa, quando scrivi, che il foglio potrebbe essere letto da persona indiscreta. Evita in ogni caso le confidenze non necessarie.

Se vuoi mantenuto i l segreto, non confidarlo ad alcuna per- sona, anche la più intima. Se sei obbligato a confidarti, usa i l sistema di farlo senza altri testimoni, anche quando le persone da fare partecipi al segreto siano più di una.

22 .

Se hai subito, in politica, uno scacco e non puoi o non vuoi prenderti la rivincita, incassalo con faccia serena. Se pensi alla rivincita, sappi che non ti potrai fermare a metà strada ma sarai obbligato ad andare fino in fondo. Se perdi d i nuovo, ti- rane le conseguenze e ritirati dall'agone.

Non pensare di essere l'uomo indispensabile; da quel mo- mento farai molti errori. Se sono gli altri a dirtelo guardati come da nemici; ti porteranno fuori strada.

Dei tuoi collaboratori al governo fai, se possibile, degli amici; mai dei favoriti. L'amico che chiede troppo deve essere tenuto a distanza. I favori che gli amici potranno ottenere deb- bono essere onesti, nell'ambito della legalità e tali da non creare ,

. risentimenti giustificati.

B meglio tenere lontani i parenti dalla sfera degli affari statali, a meno che non siano già nella carriera per meriti pro-

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pri ; anche senza volerlo compromettono sempre. Se poi entrano . nella sfera dei collaboratori, facilmente abusano della paren- tela. I1 nepotismo è stato sempre dannoso.

Non è da disdegnare il parere e I'ausilio delle donne savie che si interessano ai pubblici affari. Esse vedono le cose da punti d i vista concreti che possono sfuggire agli uomini; giova loro l'intuito più che il ragionamento; il sentimento più che l'esperienza. Bisogna però guardarsi dalle Ninfe Egerie, specie quelle che sono impegnate a voler guidare la politica dai salotti mondani.

l

Chi è troppo attaccato al denaro non faccia l'uomo politico nè aspiri a posti d i governo. amore del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai prop,ri doveri.

Non abbondare in discorsi per il futuro con piani e pro- grammi d i larga portata, pensando che anche gli uomini poli- tici sono in condizione di realizzare assai meno di quel che credono e in tempo assai più lungo di quel che sperano. Lascia parlare i fatti: è più proficuo e più convincente.

Quando la £olla t i applaude pensa che la stessa folla potrà divenire awersa; non inorgoglirti se approvato nè 'affliggerti se osteggiato. . - T

Fare ogni sera l'esame di coscienza è buon sistema anche per l'uomo politico; così come è giovevole fare buoni propositi. Se ciò non ,ostante, la sera si arriva a mani vuote senza' aver

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mantenuto i buoni propositi della mattina, pensa che ciò ac- cade ai più, e serve a tenerci umili anche se la gloria.umana aleggia attorno alla nostra piccola testa.

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APPENDICE

16 - STIJRZJJ - Politica e morale

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L'ETICITA' DELLO STATO

1. La parola stato è abbastanza recente, e può significare sia la società politica comunque organizzata, sia il tipo moderno di organizzazione della società politica.

I filosofi, per conto loro, hanno cura di dirci che cosa sia - lo stato o società politica; e divisi fra immanentisti e trascen-

dentalisti, tra soggettivisti e realisti, essi secondo il loro angolo visuale, definiscono e precisano il contenuto metafisico (dicia- mo così) dello stato. È chiaro che quando dal contenuto metafi- sico si passa a quello etico, le stesse differenze appaiono più evidenti ancora. tanto niù che i filosofi non si troveranno mai

.&

d'accordo a dare un significato comune alla parola etica. Perciò sorprende un poco leggere che G. Gentile, al con-

gesso filosofico, si sia dichiarato (( lieto di apprendere che da parte cattolica si concedesse allo stato carattere etico 1) come è scritto nella Rivista di Filosofia Neo-Scolastica (maggio-agosto 1929), e che il redattore di tale rivista abbia aggiunto: (C Letizia che, evidentemente, non potevamo che condividere 1). Invero 'nella opinione dell'uno e degli altri le parole stato ed eticità hanno significati diversi; i l che è chiaro a chiunque ne conosca le teorie.

Per trovare un punto di convergenza sia pure formale fra le. due parti, bisogna riportare tutta la questione sopra il con- cetto di limite del potere statale: - è o non è limitato il po- tere statale?

Se il potere statale si considera come un organo dello stato, e quindi governo e governanti fanno una dualità, tutti conven- gono che esso è limitato, quale che sia la forma di governo o l'assoluta o la democrazia. Se però il potere statale è conside- rato come un centro di uqificazione ove convergono tutti gl'in- teressi e i sentimenti della società politica, allora (quale essa sia la forma di governo) i l potere statale si considera dalla mag- gior parte dei moderni filosofi giuristi o politici, come illimitato.

Non parliamo qui della mancanza di limiti esteriori allo

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stato, come ai tempi dell'impero ecclesiastico feudale, o come potrebbe essere domani se la Società delle nazioni acquistasse un potere per sè stante. Questa è una questione diversa. Qui parliamo di limiti interiori, che perciò si risolvono i n etica e diritto.

Ora il concetto di moralità, e quindi di diritto, nei rapporti sociali, è fondamentale ed è insito nella coscienza degli uomini. Può il potere statale prescinderne? oppure ne è limitato esso stesso ?

La risposta che si dà a queste domande è in rapporto alle , proprie, teorie. Coloro che ritengono che la moralità sia rela- tiva allo svolgimento della società umana, e quindi dello stato che ne è una espressione sintetica e organizzativa, opinano che l a limitazione non sia altro che un effetto dì ottica; perchè,l nel fatto, il potere statale si esercita entro quel -binario che la società stessa, per il suo grado di svolgimento attua sempre. Secondo i vari aspetti tale binario si chiama moralità, giustizia, diritto, ovvero ragion di stato, interesse della nazione, bene co- mune e simili. - .

Gli altri invece ammettono il limite morale come un dato esterno a l potere statale e. alla società politica; i neo-scolastici al congresso filosofico affermavano: « Lo stato è etico in quanto è tenuto a riconoscere la legge mo\rale che proviene da Dio » (1.c.)

2. Prima di andare avanti, bisogna osservare che spesso si usano termini che implicano una idea impropria dello stato in quanto può credersi che se ne voglia fare una ipostasi, dotata d i intelletto, volontà, coscienza; un ente spirituale quasi fisico

'

o iperfisico, ma agente o reagente, con personalità propria. Gen- tile dice: « Lo stato è la nazione consapevole della sua unità storica - e Olgiati e altri dicono: a Lo stato è tenuto a rico-,

. noscere la legge morale D. - u Lo stato deve avere una coscienza filosofica )) aggiunge Gentile ; e « noi siamo d'accordo con lui )) scrive Bontadini (1.c.).

Ora, secondo noi, lo stato non è altro che la stessa convivenza umana nel suo aspetto politico-giuridico. E anche a volere mol- tiplicare (come si fa oggi) gli aspetti sotto i quali si'può rigtiar- dare lo stato fine a farne un tutto, non si uscirà mai dal quadro d i una molteplicità di relazioni dei singoli uomini e loro ag- gruppamenti ad un fine politico. '

Ogni società è per sè un tentativo di unificazione dei singoli sotto aspetti e fini determinati; ma i singoli non perdono mai la loro personalità per farne una personalità a sè, indipendente, dai singoli, come una super-coscienza e super-volontà.

Le unificazioni d i pensieri, stati d'animo, rapporti morali,' valori spirituali, sono sempre parziali, fluttuanti, particolari, transitorie, benchè mano mano si rendano più larghi o più pro-

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fondi come più e più vi concorrono i vari fattori della vita so- ciale, fattori familiari, economici, di lingua, di razza, di tradi- zione, di religione, di cultura.

Queste unificazioni non sono per sè stanti e fuori delle sin- gole persone, se non attraverso manifestazioni che possono chia- marsi, sotto un certo senso, simboliche, quali sono le leggi, i parlamenti, i governi centrali e locali, gli eserciti, le scuole, le produzioni di cultura, di arte, di stampa e simili. Ma bisogna non confondere in essi il particolare, il concreto, il personale, col generale e collettivo; perchè per quanto si generalizzi, non si può mai uscire fuori dalla coscienza e responsabilità indivi- duale neanche Der creare una dialettica storica ove tutto si 'ri-

L

solva e si spieghi come in una supercoscienza e supervolontà. Noi quindi ci guardiamo dall'uso corrente di ipostatizzare

lo stato e dal rappresentarlo anche simbolicamente come avente, per sè una coscienza e una volontà.

3. Ciò nonostante noi siamo fra coloro che affermano l'eti- cità dello stato: ma sarà bene intenderci. L'eticità è, secondo noi la rispondenza della natura razionale al suo fine D. Ora chi parte dalla tesi che la società politica, indipendenteniente dalla sua forma concreta, è un fatto di natura, non può dubitare della eticità di essa; la eticità è in re ipsa, cioè nel fatto che uomini sono costituiti in società, non per volontà propria e libera e dandosi. essi un fine qualsiasi, ma per esigenza impre- scindibile d i natura, e per fine imposto dalla natura stessa. In- vero, il fine della società politica si converte con la stessa na- tura di essa, in quanto è un dato intrinseco. E se in essa e per essa altri fini arbitrariamente si tende a conseguire, i quali, comunque, divergono o ripugnano dalla natura della società politica, per questo stesso divergeranno dalla sua eticità e ad essa ripugneranno.

In sostanza, c'è insita nei rapporti sociali degli uomini una esigenza etica fondamentale, cioè la rispondenza alla raziona- lità, che non può a volontà ammettersi o negarsi. Noi esplichia- mo ciò con i concetti di moralità, giustizia, diritto, e l i oggetti- viamo in quanto- dai fatti ne deduciamo i principi generali e le ragioni morali e in quanto cerchiamo nei fatti il valore ra- zionale. Questo valore razionale noi chiamiamo legge di natura, e salendo dalla natura al suo Autore, Dio, lo chiamiamo legge divina data agli uomini in forma razionale. Ed è la razionalità

, stessa della vita sociale degli uomini che esige e che è la sua eticità.

Per molti filosofi e giuristi auesta razionalità è evolutiva e " *

l'interprete vero ne è lo stato, quale espressione ultima e illi- mitata della razionalità sociale. Per altri auesta razionalità è z

immutabile e il vero interprete ne è la coscienza individuale.

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Noi reputiamo che questa razionalità concretizzandosi abbia i l lato immutabile o permanente e quello evolutivo, e che questi due lati interferiscano sempre, che l'interprete ne sia la società individuale ma non avulsa nè astratta dalla società. Qui non discutiamo della rivelazione cristiana o della chiesa, ma non è superfluo dire che la coscienza individuale ,non basta da sè; e che un lume d i rivelazione permanente è dato agli uomini sia come individui che come società.

4. Quando diciamo che lo stato, in quanto società politica, , risponde sempre ad una interiore eticità, non intendiamo af-

fermare che in concreto esso abbia sempre ordinamenti rispon- denti in tutto a moralità. solo intendiamo che lo stato nella sua natura e nel suo fine intrinseco ha una interiore eticità, e che gli uomini attuandone il fine intrinseco fanno opera morale, e contraddicendovi fanno opera immorale. Lo stesso deve dirsi della famiglia e di ogni altra forma basata sulla natura.

Invero,-la società- umana non può distruggersi; essa esiste sempre e tende sempre e di per sè ad un ordine, e chiama da sè un'autorità, e prosegue e ottiene dati fini sociali, sia i più elementari della esistenza e della famiglia, sia i più evoluti e complessi della nazionalità e della cultura. Tutto ciò,. anche se mescolato a ordinamenti cattivi e a leggi malfatte, ha una sua ragion d'essere razionale e quindi morale. Sotto questo punto di vista si comprende la teoria cattolica tradizionale del go- verno di fatto, e acquistano luce i suggerimenti di Leone XIII ai cattolici Gancesi di aderire alla repubblica, quale era nel 1892.

Aggiungiamo che in qualsiasi stato ci sono e ci sono stati , sempre ordinamenti e leggi non solo difettosi, ma in fondo im- morali o su presupposti immorali. Quel che anzitutto si deve esigere dai responsabili si è che essi riconoscano che tali ordi- namenti non sono morali, e che perciò tentino di correggerli o di eliminarli.

Chi non pensa che fu immorale la schiavitù e la servitù . della gleba? Eppure furono a base della economia sociale non

solo. prima del cristianesimo, ma dopo, e in qualche paese, come negli Stati Uniti d'America, anche fino a dopo la metà del secolo XIX. . Chi non pensa che è immorale la prostituzione? ed è stata sempre tollerata e anche regolata.

Lo stesso può dirsi del gioco pubblico di azzardo, della li- cenza della stampa, nei teatri e nei cinematografi e via via.

Molti discutono della eticità dello stato o delle sue leggi o istituti, attraverso le premesse teoriche o le interpietazioni filo. sofiche che se ne danno. I n questo caso occorrerebbe parlare della eticità delle teorie e delle premesse, e non di altro.

Invero, non perchè G. G. Rousseau opinò che la società po-

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litica fosse di origine volontaria, per un patto tacito o espresso, per questo gli stati moderni che nei loro ordinamenti presup- pongono in qualche modo il pensiero di Rousseau, sono di fatto società volontarie. Nè nerchè eli ordinamenti nolitici attuali

u A

sono interpretati come basantisi sulla sovranità popolare, perciò l'autorità ~ o l i t i c a ha ~ e r d u t o la sua vera caratteristica d i vo- a a

lontà. Nessuno dirà che il suffragio universale sia immorale, perchè coloro che lo sanzionarono per legge partirono dal pre- supposto che l'autorità politica risieda tutta e sola nel popolo.

Bisogna pertanto distinguere fra i l presupposto erroneo o immorale delle singole leggi e l'oggettiva immoralità delle leggi stesse, fra la erronea o la immorale teoria dello stato e l'in-

'

flusso che tale teoria esercita su coloro che la attuano in con- creti ordinamenti.

Da ciò ne consegue che per parlare di eticità dello stato bisogna distinguere e precisare: lo stato ha già la sua eticità fondamentale in quanto è società naturale a fine naturale, cioè il bene comune o bene sociale; che le leggi e gli ordinamenti concreti dello stato saranno morali, se sono ordinati a questo bene; che ogni moralità si risolve in q-della individuale, dove risiede la responsabilità degli atti e la coscienza di essi.

È superfluo aggiungere che tutto ciò è agli antipodi c o i lo stato etico di Gentile, sia come concezione metafisica sia come valore morale.

(Rivista di autoformazione, nov.-dicem. 1929).

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2.

RIBELLIONE ALLO STATO (l)

Qualche anno fa si aprì in Francia una discussione sul di- ritto alla resistenza attiva contro le leggi che appaiono ingiuste o contro il governo allorchè appare nocivo alla collettiviti. Que- ste due ipotesi ,corrispondono a due >correnti di pensiero e di azione tendenti a disintegrare lo stato francese così come è co- stituito attualmente: da un lato il movimento cattolico per l'abolizione delle leggi dette laiche, e dall'altro lato 17Act20n Francaise. La discussione aveva quindi due,punti di partenza e sviluppi ben distinti, ma non abbastanza distinti da non es- servi punti di contatto e incontri di idee.

Da parte dell'dction Frarqaise la discussione divenne addi- rittura appassionante allorchè Charles Maurras scrisse il famoso articolo in cui minacciava di far uccidere il ministro dell'in- temo Schrameck. I1 capo dell'dction Frawaiss fu posto sotto accusa. Durante il processo, terminatosi con una condanna, il celebre neo-scolastico~ Jacques Maritain, chiamato come testi- mone, sostenne di fronte al tribunale che la minaccia d i Maur- ras doveva considerarsi come mezzo estremo e legittimo di di- fesa sociale. La polemica che seguì nei giornali ebbe lati inte- -

ressanti che riportarono, in pieno ventesimo secolo, antiche tesi scolastiche pro e contro la legittimità del tirannicidio, pro e contro il diritto alla ribellione.

Dopo la dichiarazione (1925) dei vescovi francesi, a propo- sito della separazione della chiesa e dello stato e della s o p ~ pressione delle congregazioni, un'altra polemica si impegnò. I repubblicani laici sostennero che le leggi u laiche D erano intangibili e che tutti i cittadini dovevano inchinarsi ad esse, mentre i cattolici sostenevano il contrario. Si tornò così a una

(l) Alcune delie idee contenute nel presente saggio sono state riprese e ampliate nel cap. X del presente volume: a Il diritto di rivolta e i suoi limiti P (v. p. I63 sgg.).

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vecchia discussione sulla validità e sul carattere obbligatorio delle leggi e sul diritto dei cittadini alla resistenza quando esse appaiono loro ingiuste.

La rivista Etudes aprì un'inchiesia e domandò il parere a giuristi, scienziati, filosofi e teologi. Si ottennero innumerevoli risposte ed i l padre Miche1 Riquet, gesuita, le riunì in un vo- lume, preceduto da uno importante studio personale (l). Fra i personaggi conosciuti che figurano in quel libro, citiamo M. Mil- lerand, Geny, decano onorario della facoltà di diritto di Nancy; Hauriou, decano della facoltà di diritto di Tolosa; Le Fur, professore alla facoltà di diritto di Parigi. La prefazione è di M. Georges Goyau, dell'accademia francese.

I1 pensiero predominante nelle risposte si aggira intorno alla seguente tesi: (C Le leggi non fanno altro che concretizzare pra- ticamente il diritto, ed esiste un diritto superiore alla legge e alla volontà del legislatore, diritto fondato sulla personalità e sulla natura umana. P1 punto d'appoggio di tutto ciò sta nell'as- soluto e non può essere che Dio, autore della natura e delle sue leggi D.

Una volta presentata vosi, la questione può essere posta sail terreno puramente filosofico ed i filosofi potranno discutere ai

bell'agio i termini di legge, diritto, natura e Dio, e sviluppare le loro diverse teorie; oppure verrà posta di fronte al senso comune che si esprime nella lingua comune, e i l senso comune dasà la propria adesione a queste verità' già enunciate.

Ai polemisti politici che presentavano le leggi laiche n co- me intangibili, si replicava che ogni legge umana viceversa è riformabile. Una legge è o un'usanza cristallizzata in un testo, oppure un elemento rispondente ad un bisogno. collettivo, op- pure ancora u n mezzo per ragglungere un fine pratico della società politica. Allorchè la legge offre uno di questi caratteri, essa possiede tutto il suo valore; altrimenti essa perde la sua ragione d'essere e cade o deve cadere.

Ma il vero punto in discussione, quello che ha appassionato l a stampa francese, quello che ha costituito la parte veramente più interessante dell'inchiesta, è il seguente: (C Quando una leg- ge è ingiusta, ed è impossibile ottenerne la riforma per vie le- gali, si può e si deve resistervi? è ammessa la ribellione e fino a qual punto n? I cattolici dell'inchiesta rispondono adducendo

(l) Enqu6te sur les droits du droit et Sa Majesté lo Li, Ed. Spes, 1927.

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due autorità fondamentali: san Tommaso e la dichiaradone dei diritti dell'uomo.

L'inchiesta, dalla voce d i san Tommaso, afferma quanto se- gue: « La legge positiva non creando il diritto naturale, non può diminuirne nè sopprimerne la forza, dato che la volontà umana non può cambiare la natura. Perciò, quando la legge scritta con- traddice il diritto naturale, essa è ingiusta e non obbliga (') ... Se il popolo è libero e possiede il potere legislativo, il consenso di tutti, manifestato con l'usanza (leggi: con la resistenza) ha maggior peso dell'autorità del governo, il quale ha il potere di fare le leggi solo a titolo di rappresentante del popolo (').

La prima dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadi- no qualifica di diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo

la libertà, la proprietà, la sicurezza la resistenza all'oppres: sione (articolo 2). La dichiarazione della convenzione (24 giu- gno 1793) dice in modo ancor più esplicito: (C Allorchè il go- verno viola i diritti del popolo, l'insurrezione è per il popolo e-per ogni porzione del popolo il più sacro dei dirittire il più indis~ensabile dei doveri (art. 35) ».

1f promotore dell'inchièsta, padre Riquet, dopo una serie di citazioni sul diritto alla ribellione contro la tirannia e l ' o ~ ~ r e s - - L sione, conclude la parte espositiva dell'inchiesta con questa frase interessante: (C Così, da Duguit a san Tommaso, da Locke a Bel- larmino, filosofi, giuristi e teologi sono d'accordo nell'affermare e nel dimostrare che, in stretto diritto, ci si può opporre con la violenza all'esecuzione di una legge ingiusta; le restrizioni e le limitazioni di tale principio si misurano alle esigenze del bene comune, alle possibilità di disordine o di scandalo, alla gravità del danno spirituale inflitto alle vittime della legge, infine ai buoni risultati che si possono seriamente ottenere da una resi- stenza difensiva ».

Alcuni corrispondenti dell'inchiesta chiedono se, in seguito all'applicazione delle leggi a laiche D, i cattolici sono veramente giunti al punto in cui devono cominciare una resistenza attiva

. fino alla violenza, cioè praticamente una ribellione contro le leggi e le autorità esecutive. Molti fanno osservare la gravità delle conseguenze per 'chi si oppone alla legge; altri credono che ancora non si è giunti ad un punto di necessità così estrema.

Padre Riquet conclude la sua relazione con queste parole: u Possiamo, dobbiamo sapere ciò che i nostri capi; autorità so- ciali e autorità religiose, possono legittimamente consigliarci O

(!) Tommaso, 22, 9, 60. (2) Tommaso, 12, 9, 97.

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prescriverci: ad essi prendere le decisioni e lanciare le parole d'ordine ».

La stessa ~ r u d e n z a nell'ordine ~ra t ico . al tempo stesso della A

tesi apertamente proclamata della resistenza attiva, trovasi nella più importante delle risposte giunte da parte dei cattolici, quel- la di P. Gamgou-Lagrange, professore di teologia morale al collegio pontificio internazionale di Roma. Egli scrive:

Non solo è ~erfet tamente legittimo rifiutare l'ubbidienza L "

'a simili leggi gravemente e manifestamente. contrarie alla giu- stizia, ma... il diritto alla resistenza passiva sarebbe umanamente inefficace se non traesse seco quello di respingere con tutti i mezzi onesti, ivi compresa la forza, le violenze gravemente abu- sive attraverso le auali i l potere vuole ottenere l'ubbidienza

L

alle sue leggi ingiuste. Indubbiamente questa resistenza all'op- pressione deve essere intesa giudiziosamente, saggiamente con- tenuta nelle sue linee direttrici, come dice il docente Geny; ma, intesa così, come non ammettere, secondo le espressioni dello stesso giurista, qual'è il supremo palladio della giustizia e del diritto n?

Ed aggiunge: C Voi insistete assieme al « dottore comune )) della chiesa sulla

prudenza da osservare in simile caso, affinchè la resistenza pas- siva non generi disordini ancora più gravi della tirannia di cui si stà cercando di liberarsi. Ma voi difendete evidentemente i l vero pensiero del maestro aggiungendo: ciò non significa ch'egli considera come irreale e chimerico il caso in cui il carattere dell'oppressione e delle garanzie serie di successo legittimereb- bero la resistenza, persino l'insurrezione; al contrario egli cita come esempio di buona rivoluzione quella che rovesciò i Tar- p i n i D. E verso la fine della sua risposta: Di certo, se i cat- tolici sono portati loro malgrado fino a questa resistenza non solo passiva, ma difensiva, devono prima raccogliersi, pregare, unirsi perchè il Signore dia loro la sua forza per scuotere i l giogo del despotismo. Impediranno così molte odiose vessazioni. E se per un certo tempo fossero schiacciati, lo sarebbero per l'energica difesa dei diritti di Dio e questa resistenza sarà sem- pre feconda in modo soprannaturale ».

Dal contesto si vede che le parole resistenza passiva )) sono un eufemismo e significano semplicemente «: resistenza attiva D.

Mentre i cattolici religiosi si pongono sul terreno dei diritti dello spirito e della chiesa, i cattolici politici che hanno affinità con l'dction Fraqaise, passano sull'altra sponda e, con Réné Johannet. dichiarano :

(C La conclusione di tutto ciò mi pare la seguente: la società, nel pieno senso del termine, ha cessato di funzionare intorno a noi. Senza saperlo ci troviamo posti nuovamente in uno stato

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vicino per i tre quarti allo stato di natura in cui è lecito ad ognuno provvedere alla conservazione dei propri cari con mi- sure particolari. Lo stato francese presente è solo più una fac- ciata e una sopravvivenza parassitaria. Fondiamo uno stato nuo- vo con la forza e con la giustizia n.

Queste linee rivelano una mentalità identica a quella di Maurras, ed in genere a quella dei promotori di tutti i colpi di stato avvenuti da qualche anno in qua in vari paesi dell'Europa.

Per meglio capire lo stato d'animo degli scrittori cattolici francesi che hanno risposto all'inchiesta, bisogna ritornare con il pensiero al periodo 1924-25, dopo la vittoria del patto delle sinistre che riprese la lotta religiosa; bisogna anche ricordarsi il contatto pernicioso che molti ecclesiastici e credenti avevano allora con 19Action Fraqaise. Ciò non toglie nulla all'interesse delle risnoste. ma serve ad illuminare il valore dell'inchiesta. - A

la quale .corrispondeva àd uno stato d'animo molto diffuso a - quel tempo, ma che si è molto modificato dopo la condanna del- l'dction Franqaise. D'altronde, nei suoi termini essenziali, la questione è sempre posta e potrebbe ritornare di attualità se la Francia, come le succede ogni tanto, fosse ripresa dalla febbre anticlericale.

In effetti, si possono citare recentissime ribellioni di catto- lici, in Irlanda, al Messico, ed è interessante confrontare la teo- ria con questi fatti e ricercare qual'è, nel quadro della storia moderna. la solidità della teoria difesa so~ra t tu t to da san Tom- maso d'Aquino. .

Gli scolastici hanno considerato la cruestione della ribellione dal punto di vista morale e non dal punto di vista politico. Per essi, trattandosi di un' atto, il suo carattere di diritto o di do- vere proviene dalla sua moralità, la sua legittimità proviene dal diritto, la sua obbligazione proviene dal dovere e la sua possi- bilità dalle circostanze. Se si applicano questi dati al caso delle leggi ingiuste, ne consegue che in tal caso esiste il diritto di resi- stere. Esistono tuttavia leggi ingiuste la cui osservanza non por- terebbe alcuna colpa, ad esempio quella di pagare una tassa di successione eccessiva, equivalente ad una confisca. Inversamente possono esistere leggi che comandano un atto positivamente im- morale; le persone alle quali questi obblighi vengono imposti hanno, non solo il diritto, ma anche il dovere di disubbidire. Così fecero i cristiani a Roma, rifiutando di adorare gli idoli, cosi i preti di Francia si rifiutarono di prestare il giuramento richiesto dalla costituzione civile del clero. La storia delle lotte religiose mostra in tutti i campi esempi di resistenza individuale alle leggi che violano la coscienza individuale.

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Un obbligo di tale sorta ha però un carattere tutto perso- nale e non collettivo; esso rimane nel campo della morale in- dividuale e non Dassa. formulato allo stesso modo. nell'ordine

A

sociale e politico. Dal che sorge questa questione: pu6 il pas- saggio dalla resistenza individuale alla resistenza collettiva di- ventare un vero dovere?

A questo punto nascono dubbi. Similk dovere non potrebbe essere imposto ad un uomo isolato: per contro esso riguarde- rebbe la collettività. In tal caso, tuttavia, la collettività è disor- ganizzata, amorfi e. difficilmente può realizzare un accordo ge- nerale per quanto rigparda gli scopi, i mezzi e l'azione pratica. Mancano pertanto qui quella proporzione e quel rapporto che devono esistere fra un imperativo della coscienza e la pogsibilità d i obbedirgli. Non si può quindi parlare qui di dovere, nel senso stretto della parola, ma semplicemente d'un obbligo generale di cooperare non appena si manifesti una resistenza morale degli individui, resistenza che può, in alcuni casi, finire con la resi- stenza materiale e attiva della collettività.

Così dunque, sul terreno politico, si può parlare qui di dirit- to piuttosto che di dovere; e per coloro soltanto che si sentireb- bero capaci di assumere la responsabilità di esercitare tale di- ritto, questo diritto si convertirebbe in dovere.

Allorquando san Tommaso parla della resistenza collettiva contro un tiranno ed esamina il carattere morale di atti di que- sto genere, egli non l i considera come doveri, nè come diritto di natura sweciale i l cui esercizio sarebbe un dovere: ma dichia- ra legittima, ad esempio, la ribellione dei Romani, allorchè cac- ciarono Tarquinio ; allorchè non vi sono altri mezzi per liberare la patria da un tiranno, egli trova ragionevole la ribellione, poi- chè, dice, « non è la ribellione allora ad essere sediziosa, bensì al contrario è sedizioso il tiranno cacciato via dalla ribellione n.

Esiste un. obbligo personale di coscienza a non obbedire ad una legge immorale. Ma, per quanto riguarda la resistenza col-

' lettiva, esiste soltanto la facoltà di organizzarla; servendosi di questa facoltà, si può essere moralmente impegnati dalla sua convinzione interiore e personale, ma non da un dovere esteriore

, e oggettivo. La forma alquanto assoluta e molto astratta con la quale gli

scolastici si sono espressi, potrebbe lasciare l'impressione che le loro teorie siano state concepite unicamente « sub specie aeter- n i t a t i s ~ e rimanessero al di fuori del quadro storico e temporale. Ciò, però, non sarebbe esatto, e gli scolastici, a l fine di preci- sare il valore storico e contingente delle loro te.orie, si occupa- rono delle condizioni imposte in nome della prudenza, della carità come pure della possibilità di scandalo e di danni morali e materiali. Per questa ragione essi insistevano sull'impiego di

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mezzi offerti dall'organizzazione del medio evo allorchè si trat- tava di cambiamenti politici: ricorso al re, all'imperatore, al papa. Invocavano anche il « consenso generale a, ossia la forma- zione .di una coscienza collettiva che riconoscesse la necessità della ribellione. È necessario immaginarsi il medio evo, in cui si trovavano molti organismi autonomi, privilegiati, che gode- t

vano di immunità, alla forma decentrata dei poteri pubblici, le signorie in mano a piccoli e grandi tiranni che dominavano le corone. La ribellione era a quel tempo una specie di sbocco naturale, una specie di febbre periodica e talvolta salutare per l'organismo pubblico.

Tuttavia, pur ammettendo un diritto di ribellione, gli scola- stici ricordavano anche i l pericolo di disordini o di scandalo e ponevano come condizione della ribellione il successo. Ma, co- me evitare tali pericoli? Come realizzare una coscienza collet- tiva di ribellione senza disordini e senza scandali? Come preve- dere con sicurezza il successo? Seri dubbi, che san Tommaso la- scia senza soluzione in' teoria, poichè essi sono insolubili; egli lascia alla pratica, vale a dire al giudizio politico e morale dei capi l'apprezzamento dell'opportunità e delle condizioni della ribellione.

Stabilito così nei suoi giusti limiti, l'elemento morale pren- de il suo posto allorchè si tratta di valutare,la necessità politica e l'opportunità della ribellione.

Ecco il fondo del uensiero degli scolastici. Tuttavia ecco C 2

una questione che si presenta alla mente. La ribellione è una soluzione per i casi estremi di scontentezza generale sotto il re- gime despotico e allorquando i mezzi legali siano stati impie- gati senza risultato. Ma è legittimo i l ricorso alla ribellione sotto il regime rappresentativo, cioè in un paese in cui i diritti di riunione, di associazione e di stampa e il voto elettorale possono far cambiare le leggi? Si ha il diritto di ribellarsi al- lorchè i l regime politico può essere modificato evitando i mali

. sempre gravi arrecati da una rivoluzione, anche se giustificata? È certo che i regimi liberi dei tempi moderni permettono spes- sol di evitare conflitti violenti fra lo stato.ed il popolo, grazie alla libertà che è la loro base. Là dove sono offerti mezzi ~ i u

A

facili e meno pericolosi per rivendicare i diritti individuali, lo stato d'animo necessario per cagionare l'esplosione di una ribellione non si forma.

La ribellione è anzitutto un sentimento, uno stato psicolo- gico, un atto di disperazione. In regime di libertà, le correnti politiche che tendono verso ,un cambiamento di regime, anche

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quando si sviluppano e fortificano (come il socialismo da più di mezzo secolo) non riescono da sè ad eccitare ribellioni, salvo quando altri elementi di disordine sociale vengono ad aggiun- gersi ad esse. Fra questi elementi ve ne sono due che si pre- sentano quasi sempre insieme e persino in regime di libertà: la debolezza dei poteri pubblici e l'oppressione esercitata da una classe, sia la classe dirigente, sia un'altra.

'

L'esempio dell'Irlanda è intieramente istruttivo. Dopo aver reclamato per anni e attraverso una serie di manifestazioni le- gali una organizzazione autonoma, dopo aver ricevuto dai par- titi politici e dal governo delle formali promesse, i l popolo irlandese, avendo accumulato le delusioni, coglie l'occasione della guerra per cominciare una protesta collettiva. Non ascol- tata, l'Irlanda si ribellò. Repressa, la ribellione degenerò in guerra civile, la quale non ebbe fine se non con un trattato con- sacrante l'autonomia irlandese. L'azione dell'Irlanda si presenta con i caratteri meno equivoci di legittimità, e ciò nondimeno sotto il regime rappresentativo, sotto un regime liberale in cui si era formata una coscienza collettiva, che non avrebbe dovuto essere misconosciuta. in favore dell'autonomia nazionale.

Questa coscienza collettiva, in opposizione con tutte le ten- denze dell'hghilterra, non poteva raggiungere i propri fini con i mezzi legali propri dei regimi di libertà, perchè la classe di- rigente inglese eserbitava una vera autocrazia sull'Irlanda. Per- ciò i l periodo della guerra fu per l'Irlanda il più opportuno. Però, se il governo inglese avesse avuto sufficiente risoluzione per risolvere in tempo il ~ r o b l e m a irlandese, si sarebbe evitata la ribellione.

Non c'è dubbio che casi simili si presentano più raramente in regime liberale che non sotto l'assolutismo, per il fatto che, sotto I'assolutismo, manca alla volontà popolare la libertà d i esprimersi. Tuttavia, anche sotto un regime liberale nascono talvolta dittature mascherate, cosicché si produce l'oppressione delle minoranze (etniche o religiose); partiti politici vi pos- sono conoscere la persecuzione; perciò quindi, quando ogni altro mezzo è diventato inutile, si crea la psicologia della ribel- lione, che scoppia nel momento opportuno e imprevisto. È in- teso che, in questi casi, il cosidetto regime libero è soltanto una apparenza, e ch'esso si comporta come un governo assoluto di fronte a popolazioni che, alla fine, si ribellano.

Se i popoli oppressi e se le minoranze perseguitate hanno diritto alla resistenza, quali sono i diritti autentici dello stato come custode dell'ordine? Certamente lo stato, in quanto tale,

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ha diritto all'esistesza (l). Ma, per via della corrispondenza fra diritti e doveri, lo stato, esercitando il suo diritto di reprimere gli attentati diretti contro di esso, non potrebbe dimenticare i l suo vero dovere di rispettare la personalità dei cittadini. E, più esso misconosce questo dovere, più ancora riduce i1 diritto che esso ha di difendersi.

B chiaro che. nelle società nolitiche sufficientemente evo- &

Iute, i l miglior mezzo per giungere ad un giusto equilibrio fra lo stato e gli individui, è l'uso regolato ma abituale della libertà politicai Solo attraverso di essa si forma facilmente una coscien- za collettiva che influisce, in modo salutare, sull'evoluzione del- le leggi e fa riconoscere i diritti delle. minoranze.

Fintanto però che la classe dirigente si rifiuta di formare questo equilibrio sul terreno della libertà, fintanto ch'essa mi- sconosce i diritti delle altre classi o delle minoranze, è più fa- cile formare uno spirito di ribellione e far ricorso alla violenza. -.

Di questo periodo politico (che potrebbesi chiamare pre- civile, poichè dà luogo all'uso della violenza) non si potrebbe dire ch'esso sia completamente superato persino dagli stati progressivi. Quindi, poichè manca l'equilibrio spirituale di rap- porti f ra lo stato e gli individui, lo stato deve porsi al riparo da ogni tentativo di attentato. Ne segue che per lo stato la legge assume qualcosa di definitivo e di assoluto e ch'esso considera il rispetto alle sue leggi sempre come uno stretto dovere, e che pertanto ogni ribellione viene repressa con la forza.

Tutto ciò è riconosciuto come « diritto dello stato 1). Tutta- via, la coesistenza di due diritti che si escludono non è mai possibile. Si dovrà dunque negare o il diritto dei cittadini op- pure quello dello stato. Questo'è evidente sul terreno della lo- gica, ma sul terreno pratico 's'incontra la difficoltà di stabilire fin dove può arrivare il diritto 'dei .cittadini d i .resistere alle leggi ingiuste, e fin dove può arrivare il diritto dello stato di esigere ,l'obbedienza e di difendersi contro possibili* sconvolgi- menti.

Sì, certo, la coscienza individuale ha grande valore, e nes- suno può essere obbligato ad agire contro la sua coscienza, ma anche la coscienza collettiva ha grande valore ed essa dà una base ragionevole ad ogni resistenza attiva contro lo stato. Dal canto suo, lo stato deve avere una base giuridica e morale, e se u n giorno questa base non trova corrispondenza nella coscienza . collettiva, allora lo stato non adempie più la sua funzione d'ordi-

(l) Pur ammettendo un margine naturale in cui esso evolie .e si tra- sforma come ogni società. (N.d.A.)

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ne ed entra per forza in conflitto con i cittadini. Ma, fino a tanto che questa corrispondenza esiste, lo stato esprime un ordine che può essere imperfetto e riformabile, ma che è veramente consistente e posa su una base ragionevole.

Può capitare, nel corso della storia, che talune leggi siano in opposizione con certi principi e ne derivano casi di coscienza individuali. In tal caso devesi riconoscere la legittimità della resistenza allo stato, ma questa resistenza resta accantonata in coscienze individuali e non passa nel campo politico fin tanto che la coscienza collettiva non s i accorga che un conflitto si è dichiarato fra la base giuridica dello stato e il diritto della collettività.

Ed ora applichiamo questi principi all'inchiesta dei cattolici francesi di cui abbiamo parlato al principio di questo articolo. Mi pare che possiamo dedurne quanto segue:

Primo: i cittadini cattolici francesi hanno il diritto di chie- dere la modifica o l'abrogazione delle leggi laiche con ogni mezzo legale (elezioni, stampa, riunioni pubbliche, associazio- ni). Se non vi riusciranno con l'impiego di tali mezzi, si può allora dedurre ch'essi sono una minoranza e che ancora non sono giunti al punto di creare tana coscienza collettiva in loro favore, oppure anche che l'esercizio del diritto elettorale e di altri diritti politici non è sufficientemente libero per loro.

Secondo: in queste due supposizioni (ch'essi siano una mi- noranza oppressa oppure una maggioranza non libera e che subisce l'oppressione di una classe politica dominante), i catto-

'lici di Francia potrebbero passare alla resistenza attiva, alla lotta contro lo stato, non già per dovere, ma in virtù di una facoltà inerente ai loro diritti.

Terzo : ma, per agire così, è necessario : 1) ch'essi siano ben convinti che ogni mezzo legale è stato esaurito; 2) che la loro situazione sia talmente insopportabile da sentirsi il diritto di prendere la responsabilità delle violenze che accompagneranno la ribellione; 3) che la coscienza collettiva dei credenti sia convinta della necessità e dell'opportunità della ribellione; 4) che la ribellione abbia una ~robabil i tà di riuscita. Ora, tutti questi elementi, che legittimerebbero una ribellione, mancano completamente in Francia e soltanto i discepoli ciechi della Action Fraqaise hanno creduto alla necessità di un colpo di forza per modificare l e basi politiche e religiose dello stato francese.

D'altra.parte, lo stato rivendica i l mantenimento delle leggi

17 - Srrrnzo - Politica e morale

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laiche e, a l tempo stesso, reprime qualsiasi tentativo di ribel- lione e impedisce qualsiasi colpo di forza. Agendo in tal modo esso è nella logica del suo diritto, poichè la costituzione offre i mezzi per una soluzione pacifica del conflitto senza necessità di ribellione. Perciò l'agitazione dei cattolici francesi è legit- tima mentre la loro ribellione allo stato non lo sarebbe.

Ouarto: la situazione Dresente dei cattolici in Francia non . crea alcun conflitto di coscienza contro l'osservanza di una legge immorale, poichè essa non li ob'bliga a fare qrialcosa di positivamente immorale, come era il caso dei primi cristiani, O

come sotto la rivoluzione, allorchè si trattava di prestare giura- mento alla costituzione civile del clero. Le a leggi laiche » so- no soltanto una privazione di diritti inflitta a cittadini sotto un'apparenza legale (e, in realtà, per un fine politico).

È chiaro che lo scompiglio recato nella libertà delle coscien- ze attraverso l'ingerenza dello stato in questioni di religione e coscienza, è veramente grave. La Francia non può sopportare la crisi che ne risulta, se non con l'impiego di misure di pacifi- cazione e con quella tolleranza che è oggi una delle basi dei regimi, liberi nello stato moderno.

(Le Mouvement des faits et d a Uìées, Paris, '&dicembre 1929 e gennaio 1930).

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L'UOMO E IL REGIME

È evidente: il regime è per l'uomo, non l'uomo per il regi- me. È quel che Pio XI ha sempre ripetuto, a voce e per iscritto: « non è lo stato il fine del cittadino, ma è il cittadino il fine dello stato n.

Lo stato non è legato ad un solo regime, ma qualunque sia il regime, lo stato dev'essere il mezzo sociale per il bene comune, che si realizza nell'uomo-persona. Noi potremo stabilire questo rapporto: lo stato è alla persona quel che il regime è allo stato. Cioè: il regime è un mezzo perchè lo stato attinga i suoi fini, come lo stato è un mezzo perchè i cittadini attingano determi- nati fini sociali, sotto aspetto di bene comune.

Molti invece invertono i termini: i l cittadino è per lo stato; cittadino e stato sono per il regime: così il regime è divenuto un fine sia dell'individuo come singolo sia della collettività or- ganizzata politicamente nello stato.

Ma c'è di più: da oltre un secoTo lo stato è andato mano mano accrescendo le sue competenze, come ha accresciuto i l suo bilancio di entrate e di uscite. Ha soppresso gli enti intermedi (quali le corporazioni di mestieri) ovvero ha ridotto a semplici corpi amministrati quegli enti che non potevano sopprimersi (comuni e provincie) riducèndo ogni loro reale personalità e autonomia. Considera la chiesa come un'associazione privata e le ha tolto ogni reale partecipazione alla vita nazionale. Ha mono- polizzato l'istruzione, l'educazione giovanile, la cultura. Sono sfate così stabilite le premesse per lo stato totalitario.

I1 passo è ora fatto in molti stati del dopoguerra: soppres- sione di ogni partito, monopolio della stampa o controllo poli- tico per impedire ogni parola di dissenso o di critica. Confor- mismo intellettuale, morale, politico in tutti i campi.

Così il regime è diventato il monopolio di un piccolo gnip- po simboleggiato in una persona ovvero di una persona af- fiancata da un piccolo gruppo. Tale regime si serve dello stato come strumento di dominio, mezzo di soppressione di ogni op-

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posizione, fattore di conformismo politico. L'individuo è ridot- to ad una semplice funzione gregaria (vulgum pecus); che deve mostrare di essere convinto del sistema, di essere solidale col regime, di essere entusiasta degli uomini o dell'uomo che ne è a capo.

Poichè convinzione, solidarietà ed entusiasmo non si coman- dano, così l'educazione delle nuove generazioni è da questi re- gimi curata con speciale interesse, al punto da creare (come in Germania) seminari per le élites naziste, per un'accurata selezione di coloro che potranno in seguito tenere posti diret- tivi. Allo stesso tempo si sviluppa una mistica collettiva, con la quale si tenta l'ipnotizzazione delle masse, a mezzo d i sentimenti elementari quali quelli di razza, di nazione, di classe (razzismo, fascismo, bolscevismo), Per completare il quadro, viene inten- sificata la propaganda all'estero, necessaria per avere consensi, solidarietà, aiuti.

Che cosa si può opporre a questa oppressione organizzata del povero individuo umano, spogliato della sua personalità, ridotto a un soggetto senza diritti da far valere? a questo cada- vere d i cittadino, al quale si è data una specie'di anima col- lettiva, una per tutti, obbligandolo all'automatismo delle ma- rionette, per fare una parte speciale e passare ancora per una persona, pur restando un fantoccio?

L'idea di libertà, che fece fremere gli uomini del secolo XIX, ora lascia fredda la nostra gioventù e inerti gli uomini maturi. Si è avuta tanta libertà e non se n'è saputo far uso, che oggi ci si rassegna a perderla, pur di ottenere una certa stabilità.

In questo stato d'animb malsano, c'è qualche cosa di nero: l a libertà fu voluta dalla borghesia, nel* secolo scorso, e quindi utilizzata per suo dominio politico ed economico. Sopravvenuta la massa operaia a reclamare i l suo ~ o s t o , una certa borghesia ricca, pur di non cedere, s'è rassegnata a perdere la libertà; cosa avvenuta in paesi come l'Italia e la Germania, ma che av- verrebbe anche in Francia se codesti 'borghesi di destra ne aves- sero l'opportunità.

D'altro lato: che cosa hanno fatto della libertà le masse operaie, quando hanno potuto esperimentarla a loro vantaggio? Non ne hanno realmente usato; ne hanno abusato, tentando d i realizzare con la violenza un programma di classe (come in Russia e nelle rivoluzioni effimere del dopoguerra); ovvero so- no rimaste legate alle .situazioni borghesi per intrinseca debo- lezza programmatica e politica, pur continuando la propaganda dei motivi rivoluzionari (come in Germania prima di Hitler e in Francia ne1l3esperimento Blum, e anche nel Belgio durante' l'esperimento Van Zeeland).

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La libertà va accoppiata alla responsabilità ; tolta la respon- sabilità non c'è più libertà; tolta la libertà non c'è più respon- sabilità. Oggi nei regimi totalitari non c'è libertà, e difatti nes- suna responsabilità è attribuita al potere; ~ e r c h è il potere non ha piU limiti, nè interiori, nè esterni. La soppressione dei di- ritti individuali e delle. libertà politiche crea una sproporzione fra la personalità umana e il potere assoluto.

Noi vogliamo i l giusto equilibrio fra libertà. e responsabilità, fra uomo e regime, fra cittadino e stato, fra nazione e società internazionale.

Perciò neghiamo che il regime (inteso come regime perso- nale, totalitario, irresponsabile) sia fine a sè stesso; neghiamo che il regime debba subordinare a sè sia il cittadino-uomo, privandolo dei suoi diritti, sia lo stato quale società politica di tutti i cittadini, ordinata al bene comune.

I1 regime per lo stato, lo stato per il cittadino.

Londra, dicembre 1937.

(La Cité Nouvelle, Bruxelles, 11 aprile 1938). Arch. 8 A, 4

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4.

LA K NQSTRA » DEMOCRAZIA

Nel concreto di ogni singolo stato non c'è la democrazia, c'è quella democrazia che vi si è cristallizzata con le istituzioni sto- riche.

I filosofi e i sociologi studiano i principi etici e giuridici e le direttive che saturano di sè l'idea centrale di de- mocrazia; ma ciò non ostante, nessuna può mettere in una stessa categoria la democrazia di Atene, quella della repubblica d i Roma, le democrazie medievali e quelle moderne.

E fra le moderne, chi vorrà identificare la democrazia bri- tannica, l'americana e la francese?

Ogni democrazia in concreto deve portare un aggettivo, che la qualifichi; sia un aggettivo storico (per esempio: democra- zia liberale) o un aggettivo sociologico .(per esempio: demo- crazia individualistica) e così via.

Parliamo della nostra democrazia. Escludiamo, anzitutto, quel10 che essa non è. Per noi la de-

mocrazia, come ogni altra forma di governo politico, non è (co- me si volle far credere) anticristiana, nemica della religione e basata su principi incompatibili con la nostra fede. Oggi è que- . sto un truismo; ma, un tempo, fu creduta verità, per l a confu- sione che si faceva fra l'idea democratica in genere e certi prin- cipi che si volevano mettere come « premesse necessarie n d i ogni vera democrazia moderna.

Inoltre, questa non è per noi laica o neutra, nel senso cor- rente, che la democrazia debba essere disimpegnata da ogni idea religiosa e cristiana. La democrazia non è fine a sè stessa, non è neppure il fine dei cittadini; essa è un mezzo politico ordinato al bene ,comune. La cultura, la moralità, la religiosità d i un paese sono elementi integrali del bene comune, concepito nella sua totalità, secondo le condizioni storiche della nostra civiltà cristiana.

Non si creda che negando, in tale senso, la neutralità reli-

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'& *

Sgiosa della democrazia, si voglia farla divinire clericale, come 'ci si accusa. Perchè il clericalismo. come concebito dai nostri ' , Ùaversari, non è affatto nè può essere'demo.cratico.~~ due termini : clèricalismo e democrazia. nell'accezione corrente. si escludono. .

Un passo avanti: la nostra democrazia non è individualista cobe fu concepita da Rousseau e attuata, per ragioni storiche, dalla rivoluzione francese in poi. Alla somma delle volontà in- div2puali non può darsi un valore assduto: si cadrebbe i n una tirannia pari o peggiore d i quella che dà valore assoluto alla volontà d i un solo. L'individualismo politico porta allo stata- l i ~ & , all'accentramento di tutti i poteri e di tutti i valori SO-

ciali nello stato, con danno degli altri organismi e della stessa nersonalità dell'uomo e del cittadino.

Infine la nostra non è la democrazia di una sola classe. La borghesia, nel secolo scorso, costituì le democrazie della pro- pria classe e ne prese i l monopolio. Negò agli operai il diritto di organizzarsi in sindacati, e combattè come sovversivi i- par- titi dei lavoratori, che presero i nomi di socialisti, sindacalisti O comunisti. Le rivendicazioni operaie hanno portato a modifi- care la democrazia borghese, ma ia classe operaia tende a fon- dare un regime di una sola classe, la propria, sotto l'insegna socialista o comunista.

Noi ammettiamo l'esistenza e la coesistenza di tutte le classi, e quindi escludiamo che la democrazia sia, politicamente o socialmente, di una sola classe.

Così abbiamo indirettamente designato la nostra democrazia. La vogliamo chiamare cristiana, non perchè intendiamo che la religione cristiana si esprima in termini politici, ma per esclu- dere tutta la tradizione democratica anticristiana, da Rousseau 'ad oggi, come pure per affermare i valori della nostra civiltà cristiana che debbono poter vivere dentro le nostre istituzioni nolitiche. A

L'aggettivo di cristiana non è perciò specifico (come dicono i filosofi o i grammatici) al nome di democrazia, e quindi non la definisce.

La nostra democrazia è spesso detta organica, per opporla a quella 'individualista. I1 senso dell'aggettivo a organica » è complesso. Nello stato democratico debbono avere la loro esi- stenza, autonomia e iniziativa tutti gli organismi amministra- tivi, economici, sindacali, sociali, culturali e religiosi, che ri- spondono ai bisogni e ai caratteri di ogni classe e regione e po- polazione e ai loro interessi generali e particolari.

Oggi si usa spesso il termine di stato corpordivo ovvero corporazioni per designare gli organismi economici delle classi

, o piofessioni. Di più: lo stato corporativo si fa coincidere con

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lo stato autoritario e con la soppressione della rappresentanza ' parlamentare politica. Noi non accettiamo questa concezione che falsa il carattere dello stato e abolisce la democrazia. I1 concetto organico è qui affermato come opposto tanto all'indi- vidualismo politico quanto al centralismo statale, sui quali fu basata la democrazia francese. Da dopo la guerra, in Italia prima,.poi altrove (Baviera, Spa- gna, Polonia, Cecoslovacchia, Francia) si costituirono i partiti popolari democratici, affermando sia la coesistenza delle classi, sia il carattere dello stato basato su tutto il popolo. Onde si parlò di democrazia popolare. Oggi il motto (C popolare » è stato preso anche da altri partiti, e peggio dai (( fronti D detti popo- lari. I1 vero concetto di popolo (quello romano e cristiano) viene così alterato dal momento che si' ammette un (C fronte n che combatte contro altro u fronte I).. I1 popolo così si divide e si disorganizza. ,

Infine, noi usiamo anche dirla democrazia sociale, per la cura principale che si dovrebbe avere da parte dello stato, d i risolvere i problemi sociali delle classi lavoratrici e medie. Sociale non è l'equivalente di socialista.

I n conclusione: la nostra democrazia avrebbe la fortuna di quei neonati d i grande casato, a cui si mettono da cinque a dieci nomi, per ricordare eroi, santi, donne di valore e uomini d'ingegno. Possiamo dirla cristiana, organica, popolare, e socia- k; ogni aggettivo ha un significato. Ma le parole sarebbero flatus vocis se, nella realtà, noi non arrivassimo a costruire una tale democrazia, la nostra, cominciando ad affermarla, contro tutti gli stati totalitari e contro tutte le false democrazie.

(Popolo e Libertà, ~ellinzona, l5 luglio 1937).

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I L PROBLEMA DI UNA CONCEZIONE MORALE DELLA POLITICA

È uno strano stato d'animo quello dei più circa la politica e la morale: che la politica debba essere morale i più lo affer- mano in teoria, almeno come una d i quelle vaghe affermazioni in cui non si vede bene l'implicazione dei due termini, ma si ha un sentimento generale che, almeno in via normale, poli- tica e morale debbano intendersi.

Ma il contrasto fra le due è presto fatto, e le opinioni si dividono: gli uni, coloro che non accettano quella politica che ha determinato il contrasto, fanno appello alle ragioni morali; gli altri invece che sostengono quella tale politica, invocano il bene generale, la, difesa della patria e dell'ordine, il vantaggio della nazione, gli interessi dello stato.

I1 problema si complica ancora di più nel voler precisare da vicino d i quale politica e di quale morale s'intende parlare. Vengono fuori subito l'idea di politica borghese o politica di . classe; politica impe,nalista o nazionalista; politica d i partito e così via. E in quanto alla morale, siamo ancora sopra un ter- reno incerto; perchè è vero che si parla di morale naturale, di morale cristiana; ma si parla anche di morale positivista, o idealista, di morale fascista o nazista.

Con tutto ciò è costante nella coscienza generale il ~ r o b l e - ma della morale nella politica: e comunque si faccia, non lo si può eliminare dalla prospettiva dei popoli, anche panda si vio- lano, per ragioni olit ti che, tutte le leggi umane e divine e si . manomettono le tradizioni più sane e più antiche dell'umanità.

I1 problema non è nuovo, ed ha agitato il pensiero degli uomini da secoli 'e secoli. I pensatori cristiani lo sentirono in una forma storicamente eccezionale, nel confronto fra l'ideale cristiano e la realtà dell'impero romano pagano. Anche quando gli imperatori divennero cristiani, e a poco a poco il cristiane- simo soverchiò i l paganesimo, i l problema del potere politico

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si presentò a molti sotto aspetto mondano, irriducibile per sè a l valore cristiano, in un dualismo quasi insanabile. Come tutti gli altri istituti economico-politici, quali la proprietà, la schia- vitù, la guerra, così il potere coercitivo, l'imposizione legale fu- rono visti come conseguenze del peccato di origine, dalle quali bisognava evadere spiritualmente con il distacco, il superamen- to ascetico, in forma individuale più che in modo collettivo.

Implicitamente veniva negata la possibilità dell'elevazione d i tali istituti al grado di moralità cristiana, tanto più che la moralità degli atti non poteva che dipendere personalmente da ciascun fedele, i l quale posto nella vita mondana del potere e delle ricchezze veniva come circondato da continue e prossime occasioni al-peccato, nel quale restava irretito per mancanza d i rinunzia al mondo.

Con il prevalere della chiesa si passa alla copcezione oppo- sta: lo stato, il potere, la società terrena non è fuori della chie- sa e dualisticamente concepita; essa è dentro la chiesa, e al servizio dei suoi fini soprannaturali, in una coordinazione su- bordinata di poteri verso la società dei fedeli e attraverso di essa verso il papato. Così fu costituita la società medievale del- l'occidente latino. La cooperazione, i contrasti, le confusioni e le 16tte fra i due poteri (regno e sacerdozio) ne furono la. con- seguenza storica. Ma dal punto di vista della concezione morale della politica e dei fini religiosi della società civile gli orienta- menti pratici furono sempre affermati come rispondenti alla teoria. Papato e impero, sacerdozio e regno, ora s'intendevano e ora lottavano, ma le due parti affermavano di volere la glo- ria di Dio, il bene dei popoli, i l trionfo del cristanesimo, la re- staurazione mora17 dell'unica morale, p e l l i cristiana. Nel caso pratico invece le vedute e gli interessi e spesso la sostanza etica delle lotte erano divergenti e in contrasto: e i teorici delle due parti facevano fatica a difendere la vera morale cristiana.

Da queste lotte e da queste difese si sviluppò il dualismo etico-politico che da sei secoli insacca la nostra civilizzazione. I re tentarono di affrancarsi da una soggezione religi-osa che in nome del diritto canonico legava troppo la loro attività politi- ca ; ma allo stesso tempo si andarono affrancando dalle assem- blee aristocratiche e popolari che ne limitavano il potere. . I1 potere politico divenne illimitato per via della riforma protestante che fece convergere nei monarchi anche i l potere religioso sulle chiese,; mentre allo stesso tempo dai paesi catto- lici veniva sviluppata la teoria detta del diritto divino dei re.

La moralità degli atti del potere politico fu racchiusa nella coscienza dei sovrani, che non dovevano dar conto dei loro atti nè religiosamente a l papa o ai vescovi, o alle congregazioni dei

'

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fedeli, nè civilmente ai rappresentanti 'dei ceti organizzati o dei rappresentanti popolari, 'ma solo a Dio, nel rapporto della loro coscienza.

Un vero soggettivismo morale-politico (così concepito nella persona del monarca) non poteva sussistere, dato che il governo di uno stato è sempre un'opera collettiva fra i l capo e i suoi uf- ficiali civili e militari. Di conseguenza vennero fuori le teorie sostitutive o completive del diritto divino dei re, cioè l'onore della casa regnante e la ragion di stato.

Per equilibrare i rapporti fra lo stato e la chiesa (religione e morale) e quelli fra i vari stati (politico-morali) si tentò un sistema di criteri giuridici che potessero essere guida nella sal- vaguardia dei vari interessi in contrasto. Sorsero così il sistema delle due giurisdizioni (chiesa e stato) (detto giurisdizionali- smo) per lo più fissate in concordati o altre forme contrattuali; e i l diritto internazionale, che dalle speculazioni teoriche passò alla sistemazione e teorizzazione dei trattati generali f ra le case regnanti, specialmente a partire da Westfalia in poi. .

- - La morale si trasformava in formalità giuridiche, tanto per

la coscienza individuale con l'abuso della casuistica, quanto nei rapporti collettivi, nell'assolutezza delle sovranità.

La reazione contro questo irrigidimento giuridico formali- stico autoritario, veniva ad affermarsi con la speculazione giusna- turalistica. La società era tagliata fuori dal giudizio morale della politica in nome del diritto divino, e dal giudizio politico della morale in nome della ragion di stato (che diveniva di fatto ra- gione della casa regnante). Per essere reintegrata, occorreva ne-

I gare in radice la sovranità in nome del diritto naturale, che così scalzava allo stesso tempo il diritto divino e la ragion di stato della casa regnante.

Ma una volta stabilito il ~ r i n c i ~ i o del diritto naturale della società, ad essa spettava il giudizio morale in nome della natura. Quale natura? L'umana, ragionevole, buona per sè; concretiz- zata in .ciascun individuo ed esistente come popolo.

All'assolutismo dei sovrani fu sostituito l'assolutismo del popolo. I1 suo giudizio politico diveniva etico, il suo giudizio etico diveniva politico. Essendo impossibile aversi nel concreto una totalità consenziente, occorreva fissare la legge di maggio- ranza come valida a esprimere la totalità; essendo impossibile mantenere nè la totalità nè la maggioranza in una perpetua as- semblea, occorreva fissare la legge di delegazione; ed essendo impossibile aversi un mandato prestabilito per tutte le even- tualità della vita politica, si doveva arrivare alla rappresentan- za ( e non più delegazione) parlamentare. Anche il parlamento non poteva governare in permanenza, e così si arrivò al go-

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verno esecutivo, e da perfino al consolato, alla dittatura temporanea o perpetua e alla delegazione dei poteri fino al governo personale e assoluto di Napoleone o di Hitler. .

Tutto ciò non interesserebbe il ~ rob lema della morale nella politica se non fosse sorto il problema dei limiti del potere e limiti etici della sovranità.

I1 sovrano assoluto dell'ancien r é g i m , in quanto concepito come sovrano cristiano (cattolico o protestante o ortodosso) doveva trovare i limiti etici del suo potere nella legge cristiana d i cui egli si professava fedele e tutore. Violando tale legge, egli, benchè non fosse pii soggetto ad alcun altro potere (com- preso il papa, secondo i giurisdizionalisti del lato regio) pure aveva un giudizio interno e un eventuale giudizio esterno. La legge cristiana unificava il giudicato e il giudicante.

Quando il sovrano assoluto è il popolo, se è ancora cristiano la voce religiosa può sollevarsi a limitarne il potere. Ma i l po- polo nomina rappresentanti; i l suo atto (morale o immorale nella scelta dei rappresentanti) è completo. I rappresentanti, appoggiandosi sulla concezione dell'assoluta volontà del popolo, non credono avere altri limiti al loro potere; così legiferano su

.materia morale, come i l divorzio, il conirollo delle nascite, il regime del culto. Però se le assemblee popolari non sentono limiti intrinseci alla loro sovranità, Iianno i limiti dei partiti di opposizione, della critica della stampa, dell'appello al popolo per via di referendum o di nuove elezioni. I dittatori moderni invece non hanno neppure questi limiti formali ed organici; il loro volere è legge, fin che il loro volere dura.

Così il problema morale della politica nei suoi due aspetti intrinseco e formalistico è legato alla, struttura dello stato; cioè da un lato come convinzione direttiva degli atti del potere, e dall'altro come limite al potere stesso.

Può sembrare strano o eccessivo che i l problema del rap- porto fra morale e politica possa dirsi legato alla struttura del- lo stato, mentre esso è, al fondo, un problema di coscienza in- dividuale.

Coloro che concepiscono l'individuo e la società come due realtà distinte o diverse o anche opposte, sono indotti a distin- guere una moralità collettiva o sociale. Così cadono i n un'ana- lisi irreale e assurda. La morale è una ed è sempre e allo stesso tempo individuale e sociale, ~ r s o n a l e e collettiva, così come l'uomo è allo stesso tempo individuale e sociale, e in tanto SO-

ciale in quanto individuale e viceversa.

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Così chiunque viola un precetto morale anche con il pen- siero, viola la morale individuale e sociale allo stesso tempo. Perchè ex corde exeunt cogitationes, ecc. I1 pensiero è per sè sociale, perchè tende ad essere comunicato e a tradursi in azio- ne, anche se rimane in chi lo concepisce; non resta sterile se cambia in qualche modo l'orientamento, i l proposito, il modo di giudicare di chi ha avuto quel pensiero.

L'errore d i parecchi è di distinguere la morale individuale da quella sociale e politica, cioè per oggetto; non pensando che

, l'origine della vita morale è la coscienza, e che il termine è in questo mondo il rapporto fra gli uomini. Perciò Cristo disse che il precetto fondamentale è l'amore, verso Dio e verso il prossimo, e che da questo dipende tutta la legge.

C'è forse un atto morale che non si riduca e debba ridursi all'amore? La giustizia, la fortezza, la temperanza e la pru- ' denza sono le virtù cardinali, che in tanto sono virtù in quanto animate dall'amore. Noi abbiamo la necessità di analizzare i precetti, caratterizzare le virtù, oggettivare gli atti nastri, cate- gorizzare le varie faccie della vita morale, sia da1 punto di vista teorico che da quello pratico, per arrivare ad attingere la loro portata e poter meglio attuare la vita morale. Ma nel concreto spirituale di ciascuno di noi tutto si risolve nel doppio amore, e fuori di quello non c'è nessuna moralità vera.

Ammesso questo fondamento unico a tutta la vita sociale, ammesso come unica realtà l'uomo individuo-società (non può darsi nè individuo senza società nè società ... senza individui) ne consegue che la struttura sociale è il mezzo di esplicazione del- la vita morale di ciascuno e del popolo nel suo insieme. Se in una società vi è la tradizione e la legge di buttare nel fiume i bambini storpi o di far finire sul rogo la vedova - morale bar- bara - gli individui, novantanove su cento, perdono i l senso di orrore che dovrebbero destare queste usanze e le osservano come un dovere morale. Così la tradizione (religiosa, civile e familiare) impone agli individui la sua morale, che lega l'indi-

, viduo e la società. \ Lo stato si suole oggi concepire come la somma delle rela- zioni civili-politiche di un popolo, espresso in forma autorita- ria e giuridica. Anche ridotto ad una realtà semplicemente po- litico-giuridica di assistenza e di difesa dell'individuo, è impos- sibile che non esprima nelle sue leggi e nella sua attività sovrana un minimo di contenuto morale. Esso sarà quello che o la mag- gior parte del popolo o la parte più attiva e determinante d i esso contiene ed esprime sotto la categoria del potere e della legge. L'espressione morale è del potere, ma la realtà morale

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presupposta è quella di tutta la collettività della nazione con- vergente nello stato.

Abbiamo detto che sotto due aspetti ci si presenta il pro- blema morale nella politica, cioè uno sostanziale (conduzione direttiva degli atti del ~ o t e r e ) l'altra formale (limiti del potere).

Anzitutto il problema sostanziale. Questo sarà sempre (bene o male) una risultante dell'opinione pubblica che sostiene gli organi del potere (siano ~ersonal i o impersonali), nella loro attività politica. Quel che si guarda come oggetto principale, come mira unica dell'attività dello stato è il fine politico; così come un banchiere ha per scopo della sua attività il fine eco- nomico, il padre di famiglia il fine domestico e così via. LO stato non ha un fine etico, come suo oggetto proprio, ma un fine oli- tico. L'opinione pubblica, cioè il sentimento collettivo, è natu- ralmente orientato verso i l vantaggio comune, che deve deri- varne da un ordinamento statale. Nel dire ciò, non si mette fuori la morale, niente affatto: è nell'ordine morale che un go- verno curi la politica, un banchiere l'economia, un padqe d i famiglia la casa; ma nessuno dei tre può attingere i fini veri del governo d i uno stato o di una banca o di una famiglia, se non tien conto delle leggi morali.

LO stato, in quanto tutela la giustizia e l'ordine nei rapporti civili ed economici, f a della morale con' le sue leggi, i suoi ma- gistrati, i suoi ufficiali. Tutti riconoscono che il governo sotto questo aspetto non può che essere un organo morale. Là dove si allargano i termini della morale, fine a cadere nell'immora- lità, è quando i l governo come tale si fa giudice ldella moralità, autore della moralità, cioè in quanto tutta la vita individuale e organica della società si risolve nello stato.

Sicchè la questione sostanziale della moralità nella politica (come direttiva degli atti del potere) si risolve nell'atto formale, Lk come limitazione del .potere. I

C'è per tanto una limitazione etica del ~ o t e r e ? Si pretese che limitazione etico-giuridica dello stato potesse essere la chie- sa. Ma nel fatto si vide che solo quando lo spirito cristiano in- vade la società nei suoi individui, allora la limitazione etica fatta di convinzioni religiose diviene una realtà, e cerca la limi- tazione giuridica come un naturale sviluppo della nuova strut- tura statale cristiana. Ma quando tale spirito si attenua o manca, allora la limitazione giuridica diviene lettera che si rigetta, legame insopportabile che si rompe; lo stato pretende di essere lui a darsi la morale rispondente ai suoi fini politici.

'

/ Awiene allora questo mostruoso processo: l'etica d i co- scienza, espressa da ciascun individuo in una consonanza sociale, si traspone in politica collettiva rivestita dei caratteri dell'eti- '

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cità. Assorbendo tutta la vita individuale, lo stato diviene il fine stesso degli individui e si presenta come una realtà concreta collettiva assoluta.

à * à

l Cos'è mai la morale se non la visione, della legge del fine? Cristo disse che tutta la legge deriva dal precetto dell'amore a '

' Dio e al prossimo; che è mai l'amore se non l'adesione a un fine? Dio è il fine ultimo; perciò l'amore di Dio è massimo ex toto corde, ex tota mente, eqx tota anima. Ma il prossimo è an- che fine (subordinato a Dio) e perciò il comando di amarlo è simile a quello di amare Dio. In tanto è simile in quanto il pros- simo è amato per Dio e in Dio ; che se fosse amato per sè, allora il comando di amore si trasmuta in comando di distacqo: veni separare ... et inimici hominis domestici ejus.

Come mai può concepirsi fine dell'uomo lo stato e la na- q

zione o altra forma sociale? Neppure la chiesa come società religiosa è fine del fedele; ma è mezzo 'perchè il fedele viva la vita soprannaturale in comunione con Dio.

L'amore della patria o della'nazione propria può essere con- siderato come un'estensione e applicazione dell'amore del pros- simo; in quanto sopra un determinato territorio viviamo insie- me e concorriamo ad uno scopo comune ; e perciò contribuiamo a migliorare, rendere prospera e difendere la patria, come un mezzo per arrivare a ciascuno dei membri di questa grande comunità. Allo stesso modo, se tale patria, nazione, popolo ci domandano di violare per essi la legge morale, di venir meno

, ai doveri di coscienza, di tradire Dio con i l peccato, allora oc- corre oboedire Deo magis quam hominibus, allora inimici homi- , nis domestici ejus.

Così, non fine dell'uomo lo stato, ma l'uomo fine dello sta- to; e i concittadini fratelli cioè prossimo da amare, non osta- colo alla vita morale e religiosa da evitare.

I1 problema del fine si presenta a noi come quello di un assoluto. I1 fine e il bene si convertono; non si può mai volere i l male per il male. Se si vuole un male è sotto aspetto (reale I

o immaginario) d i bene. I1 bene desiderato, voluto, cercato in un dato momento, è voluto o per sè o per altro a cui ordinato. Sia pure che per sè, sia per l'altro a cui .ordinato, si presenta nell'ordine volitivo come un assoluto o partecipante all'asso- luto.

Questo assoluto, in via normale, è la stessa persona che vuole un bene di cui godere (sia intellettualmente che psico-fisica- mente). Perchè l'amore di sè, nella sua innata e istintiva espres- sione, è premente e presente, è ordinante.

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Siamo noi che, in un secondo momento di riflessione, ~ O S -

siamo ordinare questo amore a noi, a Dio e al prossimo; in quanto cioè noi ci sottoponiamo ad una legge morale che regola i nostri atti, non più ad un bene visto egoisticamente nell'isola- mento della nostra persona, ma visto nella convivenza con Dio e con il prossimo, cioè nella totalità dei nostri rapporti e nel- l'assoluto del nostro finalismo.

In questo nesso, tutto i l resto della vita non è che mezzo alla nostra realtà finalistica: il tempo e lo spazio, la speculazione e l'attività, la società e la storia. Noi emergiamo con il nostro orientamento finalistico in cui poniamo la nostra personalità. Ogni volta che tale orientamento è falso, noi usciamo fuori del- l'insieme reale della nostra esistenza come trasportati dalla vita alla morte (a l contrario di quel che affermava san Giovanni), cioè manchiamo alla piena espressione della nostra esistenza, e ricadiamo nel travaglio della ricerca di noi stessi per attingere . il fine.

Come, in questo travaglio personale e di coscienza, lo stato può mai divenire un assoluto etico? In qual modo esso riempi- rebbe la nostra conoscenza di un benessere che Soddisfi insieme l'intelletto, la volontà e i sensi? Come prendere il posto di un fine totale? come fare appello al nostro amore non quale soli- darietà fraterna ma come entità assoluta?

Uno dei più gravi errori infiltratosi nella coscienza moderna è quello di trasformare idee generiche come stato o classe in strutture sociali, entità esistenti e viventi sì da credere ch'esse possano fare appello alla nostra ragione e al nostro cuore.

Così sorsero i miti di un'umanità, nazione, stato, come vere ipostasi a cui perfino dare un culto, e trattarli ,come i1 gran- de ente dei positivisti, la manifestazione ultima dello spirito degli hegeliani, la partecipazione all'anima unica ( la nazione) nella quale ciascuno risolve la propria esistenza, dei fichtiani.

I1 fine ultim6 dell'uomo .passò da Dio alle forme sociali concepite come assolute, immaginando così un panteismo so- ciale, come gli antichi avevano immaginato un panteismo natu- ralistico e cosmico.

r Come noi abbiamo bisogno dell'assoluto per chiarire le no-

stre idee, rendere ferme le nostre convinzioni, dirigere la nostra attività, orientare le nostre finalità; così se ci manca Dio, il vero Dio, andiamo in cerca d i falsi dei. I miti tratti dalla collettività umana ci indicano la nostra insufficienza personale, e ci orien- tano verso una pretesa sufficienza della collettività. La nazione

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è il mito più vicino al nostro modo di sentire e di vivere; ma la nazione sarebbe un vano nome, o un'idealità, o un'amplifica- zione retorica, se non divenisse organismo, potere, forza, esecu- zione. Questa trasformazione è data o nello stato o contro lo stato. Un popolo organizzato politicamente è lo stato; un po- polo che combatte contro un altro per la propria autonomia e organizzazione politica, acquista in quel momento una propria personalità politica, che prima di divenire stato (se vittorioso) si afferma come antistato (ribellione). In ultima analisi,, tutti i miti collettiyi - clan, classe, nazione - tendono a realizzarsi sul piano politico come potere, cioè a divenire stato. Quando i l potere dello stato (sotto qualsiasi nome) diviene assoluto, senza limiti interiori ed esteriori, allora esso è divinizzato; esso è Dio (falso Dio s'intende).

Coloro che vi si levano contro sono gli infedeli, ,gli empi, gli atei: perchè negano quello che risulta il tutto della realtà umana, nella sua potenzialità. -

È vero che nè ieri nè oggi si è arrivati a ridurre le forme religiose al culto dello stato; anzi al contrario, lo stato molte volte ha favorito la religione dominante. Ma nel fatto, è lo stato che si è servito della religione come mezzo di potere, e che ha sottoposto la religione al potere. Così la risoluzione etica nello stato viene come una logica conseguenza della concezione assolutistica dello stato.

La ricerca dei limiti della sovranità e del potere, è stato sempre un bisogno dell'uomo per difendere i diritti della per- sonalità. I1 giorno che i l potere è assoluto, e i limiti sono aboliti, i l potere diviene un falso Dio che s'impone su tutti; la persona- lità umana perde i suoi diritti; la morale collettiva perde il carattere personale umano, per divenire un mezzo alla finalità del potere.

I1 potere politico ha due lati (come ogni cosa umana): uno spirituale l'altro materiale. I1 lato spirituale raggiunge l'etica, perchè il potere dovrebbe essere insieme espressione della giu- stizia, dell'equità, dell'ordine; il lato materiale (cioè la coer- cizione, la punizione) sono subordinate. Se 'invece di questa dua- lità si arriva a identificare nel potere ogni etica, in quanto il potere è etica in sè; allora non ci sono più limiti, che possano valere contro di esso.

Ma perchè i limiti, nel gioco delle forze esterne, non possono essere puramente ideali, occorre trovare la forma concreta, nel- la quale il potere cessa di poter essere esercitato per l'interfe- renza del limite che lo paralizza.

A

Questi limiti sono morali o giuridici ma per essere efficaci e farsi valere debbono essere applicati da organi politici o ope-

18 - STURZO - Politica e morale

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ranti in terreno politico. E perciò o la chiesa è scesa su terre- .

no politico (perfino con guerre e crociate) o i l popolo è a m - vato alla rivolta contro il potere costituito. Nell'uno e nell'altro caso ( i due estremi) i limiti morali e giuridici non han fun- zionato senza arrivare a porsi come forza che contrasta con la - forza.

L'efficacia dei limiti morali e giuridici viene meno (ed è allora che si ricorre alla forza) quando chi rappresenta il potere non ne rispetta il funzionamento o crede che nel caso partico- lare gli organi molali e giuridici abbiano ecceduto dai loro poteri. I due casi si davano neile. lotte medievali fra papi, impe- ratori e re, i quali, pur essendo della stessa fede cristiana e nella stessa chiesa cattolica, e accettando (almeno in teoria) la stessa disciplina morale, pure giudicavano diversamente dell'uso del potere. Tali casi son dati anche nell'epoca moderna, quan- do non più i papi ma il popolo, organizzato costituzionalmente, ha limitato il potere, il quale ora si è inchinato ai responsi elet- torali o parlamentari e ora li ha contrastati e soverchiati con i così detti colpi di stato, cui han fatto seguito o che son stati preceduti da ribellioni e rivoluzioni.

In sostanza i limiti morali e giuridici funzionano a tre con- dizioni: che siano accettati per convinzione, che siano tradotti in formule politiche, che arrivino fino al legittimo e pacifico cambiamento dei governanti. Se queste tre condizioni falliscono, si cade o nella tirannia o nell'anarchia, cioè nella negazione della mora17 nella politica e nella minimizzazione della perso- nalità umana nella società.

Prima condizione: accettati per convinzione, puindi ammes- so da tutti, compresi re, principi, presidenti, papi, ottimati, po- polo, che il potere ha un limite e che questo limite deve essere reale.

Si dice che la chiesa abbia favorito i sovrani assoluti e i si- stemi assoluti. Storicamente ciò non è vero, almeno fino alla rinascenza; essa infatti non solo ammetteva che i papi potes- sero detronizzare i sovrani dopo avere sciolto i sudditi dal giu- ramento d i fedeltà, ma sosteneva tutto il sistema corporativo del medioevo, dove il re non era che un primus inter pares, un soggetto alla legge, non solutus a Zege, ed aveva combattuto la concezione romana della sovranità durante la riforma e con- troriforma e mai accettato la teoria detta del diritto divino.

Nel fatto i due assolutismi, quello dei re dell'amien r é g i m e quello della chiesa, si unirono in un sistema di competenze giurisdizionali, in un reciproco controllo e reciproca limitazio- ne, asservendo popolo, borghesia, e dove possibile anche aristo- crazia e clero.

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Fin che durò la convinzione e l'utilità di questa diarchia giuridica, i due poteri furono funzionalmente limitati nei 're- ciproci rapporti e furono anche limitati nella concezione mo- rale del tempo; ma nel fatto, sia nei rapporti fra gli stati sia peggio ancora verso i singoli e verso i soggetti come tutto, man- cavano i limiti, perchè mancò la convinzione della loro ne- cessità.

Databile attorno al 1937. Arch. 1 A. 15

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LA PACE INTERNAZIONALE NEL MOMENTO PRESENTE

Società delle nazioni? Patto a quattro? Patto franco-sovie- tico? Intesa antibolscevica? Asse Berlino-Roma? Triangolo Ber- . lino-Tokio-Roma ? Amicizia franco-inglese? Nyon ? Conversazio- n i anglo-italiane? Spagna fascistizzata, Europa centrale nazifi- cata, Cina giapponesizzata?

Ogni giorno il suo male: ma non tutti i mali in un sol gior- no! Ecco perchè il groviglio internazionale deve essere guar- dato sotto due aspetti: quello dell'ideale a cui mirare, quello delle possibilità immediate da realizzare.

L'ideale è la pace. Quale pace? Quella che gli antichi defi- nivano tranquillitas ordinis, e noi diciamo cc ordine stabile ga- -

rant'ito n. Occorre anzitutto un ordine e questo è di doppia natura:

morale e politico. Ordine morale: i principi su cui si basano i rapporti inter-

nazionali: rispetto dei diritti, osservanza dei doveri, fedeltà ai patti.

Ordine politico: quello storico che si è concretizzato in un dato tempo e in un dato gruppo d i stati come rispondente il più possibile all'ordine morale e ai diritti storici.

L'ordine morale è nei suoi. principi immutabile, nelle sue . applicazioni fondato su giustizia ed equità; l'ordine politico non è assoluto, ma relativo ai fatti storici da cui è nato, ai di- ritti concreti con cui si è realizzato, e alle aspirazioni dei po- poli, d i cui vive. Ma per essere un ordine deve essere stabile, non deve poter mutare ad ogni momento nè avere in sè tali ingiustizie da reclamare la immediata riparazione.

Infine per essere stabile deve essere garantito dagli stati stes- si che l'hanno voluto, cioè difeso contro le violazioni anche a mezzo della forza. Un ordine non difeso non è stabile, e un ordine non stabile non è più ordine ma disordine, e quindi non è pace, ma solo una apparenza d i pace.

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È questo lo stato attuale: un'apparenza di pace, con guerre finora localizzate ; la guerra di Spagna <(con l'intervento diretto di alcune potenze) e la guerra del Giappone in Cina.

Dopo la grande guerra si credette aver ricostituito un ordi- ne morale e politico, avervi dato stabilità e averlo garantito.

L'ordine morale fu fissato nel Covenant della Società delle nazioni, che rispondeva ai principi etici proclamati da Bene- detto XV nell'esortazione ai capi degli stati belligeranti i l lo ago- sto 1917.

'L'ordine politico fu fissato nei vari trattati di pace della conferenza di Parigi, principale quello di Versailles. La stabi- lità doveva venire dalla Società delle nazioni. che ad un temwo doveva realizzare l'ordine morale e quello politico e darvi le garanzie fissate agli articoli 10, 11, 16 e 19, cioè ridurre i casi di guerra, darvi una procedura',amichevole, arbitrale o giuri- dica secondo i casi, sottoporre i violatori del patto ad un regime di sanzioni e rivedere e riformare i patti firmati quando fossero divenuti inapplicabili sì da mettere in pericolo la pace. Per realizzare quest'ordine morale e politico, bisognava arrivare alla riduzione degli armamenti previsti all'art. 8 del patto.

L'ordine fissato nel 1919 a Parigi si presentava pieno di spe- ranze. C'era solo da dire che la parte fatta ai paesi vincitori era troppo bella per poter essere permanente, e i paesi vinti non avevano avuto alcuna voce, neppure quella di un parere, per quel che potesse valere. Donde la necessità d'iniziare subito le modifiche necessarie all'ordine politico, per adeguarlo all'or- dine morale. Lo stato psicologico delle due parti non era certo i l più adatto a una pacificazione spirituale, che deve essere a base di ogni vera pace, per la diffidenza reciproca dei princi- pali ex-nemici : Germania-Francia.

Ciò non ostante, dopo gravi errori (principale l'occupazione della Ruhr) si arrivò al patto di Locarno e all'ammissione della Germania alla Società delle nazioni (con seggio permanente nel consiglio), all'evacuazione della zona del Reno occupata dalle truppe dell'Intesa; al piano economico e poi alla rinuncia alle riparazioni, al riconoscimento di diritto alla parità militare nel quadro della sicurezza collettiva. Ma tutte queste rettifiche all'ordine politico arrivavano in ritardo, come strappate per forza. con crescente sentimento di diffidenza. Per cui di contrac- colpo non si volle mai arrivare alla riduzione degli armamenti, ch'era la base del nuovo ordine morale-politico.

Tutto crollò d i colpo; quando arrivato Hitler al potere la Germania si ritirò dalla Società delle nazioni ritenuta come or-

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gan6 insidioso della Francia e dell'Inghilterra contro la Germa- nia vinta, e tentò di far cadere una ad una le limitazioni impo- stele dal trattato di Versailles, clausole militari, demilitarizza- zione del Reno, proibizione dell'Anchschiuss con l'Austria.

Per far ciò, occorreva anche negare le basi etiche della SO- cietà delle nazioni: cioè valore dei patti, proibizione della guer- ra, procedura di conciliazione o arbitraggio nelle vertenze fra gli stati, riduzione degli armamenti, sicurezza collettiva e c&ì via.

Ma chi aveva in buona fede osservato il Couenant? L'Italia bombardò Corfù per rappresaglia; la Società delle nazioni se . ne disinteressò. La Polonia occupò Wilno assegnata alla Litua- nia; la Società delle nazioni non intervenne a garantire l'ordine da essa fissato. I1 Giappone occupò la Manciuria facendone uno stato vassallo; la Società delle nazioni si limitò a inviare una commissione d'inchiesta e a deplorare il fatto. La Polonia per- seguita la minoranza ucraina; dopo una serie di reclami ina- scoltati o risolti in semplici raccomandazioni, la Polonia procla- ma che non è più legata al trattato del 21 giugno 1919 sul ri- spetto delle minoranze e la Società delle nazioni non fa che una debole riserva. I1 Nepssd i Ahinsinla reclrrllaa contre 1'Itzlie. che ,lo minaccia e ha occupato zone di confine, e la Società delle nazioni tergiversa e poi limita i l compito degli arbitri, i3er non accertare la violazione del territorio. L'Italia muove la guerra, e la Società delle nazioni mentre applica certe san- zioni continua a trattare sulla base della cessione di parte del territorio abissino. L'Italia vince, e la Società delle nazioni to- glie le sanzioni senza contropartita. L'Italia si annette l'impero, e gli stati membri della Società delle nazioni uno ad uno rico- noscono il fait mcompli, o di fatto (come l'Olanda, la Svizzera eccetera) o anche di diritto (come l'Austria).

I1 senato nazi di Danzica viola la costituzione,' sopprime la , libertà di stampa, scioglie i partiti awersi, oltraggia la Società

delle nazioni, e questa non ha la forza di tutelare i l diritto a lei affidato. La Germania e l'Italia intervengono in Spagna a favore dei ribelli, e la Società delle nazioni non tutela la Spa- gna dall'invasione straniera. Di nuovo il Giappone muove guerra alla Cina e la Società delle nazioni si limita a riconoscere il fatto e a esortare le potenze a dare aiuto alla Cina.

L'ordine morale mal tutelato, e non sempre, e spesso vio- lato con la connivenza degli organi responsabili della Società delle nazioni e dei paesi leaders; l'ordine politico non solo

, . non stabile nè garantito, ma di fatto sconvolto.

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Oggi occorre rifare un ordine morale e un ordine politico nuovo ; ridarvi stabilità, garantirlo : cioè rifare la pace.

I principi morali eterni: rispetto dei diritti, osservanza dei . doveri, fedeltà ai patti, non possono essere messi in discussione. Purtroppo, la crisi principale sta tutta qui. Rispetto dei diritti: quali diritti? Quando si violano i diritti della personalità uma- na individuale, della personalità morale dei gruppi naturali, quali la famiglia e la razza, e quelli creati dalla civiltà quali le nazioni e gli stati, quali diritti possono restare in piedi?

Quando si proclamano i trattati pezzi di carta e si afferma t che si rispettano quando giovano e si violano quando pesano,

quale trattato avrà più valore? Quando non si può avere fiducia nella parola data, come

poter essere sicuri dell'avvenire? Onde la necessità del riarmo e delle alleanze difensive. un sistema di bilancia di forze, per equilibrare quelle del presunto avversario.

Ciò non ostante. anche nel sistema dell'euu'ilibrio delle forze occorre che i popoli abbiano fiducia nei trattati che l i legano, e nelle amicizie on ciai si appoggiano, e quindi sui ~ r i n c i p i mo- rali che ne sono il substrato.

Dove ci sono due sistemi morali diversi, si formano due ci- viltà in lotta, e se queste sono organizzate in regni distinti, si formano i due gruppi antagonisti, come cristianità e islamismo.

Oggi si tende a raggruppare gli stati attorno a ideologie ir- riducibili, per esempio: fascismo contro democrazie. Nel fatto, tali raggruppamenti sono impossibili, perchè nei paesi demo- cratici le correnti fasciste sono palesi e operano all'aperto; ,

negli altri le correnti democratiche sono limitate dai metodi auioritari, ma circolano d i nascosto.

Dall'altro lato, le leghe antibolsceviche quali Berlino-Tokio- , Roma, servono alla lotta contro Mosca più sul piano degli in- teressi politici che su quello delle idee.

Ecco come oggi l'ordine morale è sconvolto, senza la posgi- bilità di Sostituire un altro, perchè i principi sono violati ov- vero non hanno più applicazione sulla quale tutti consentono e perchè gli interessi politici hanno occupato tutto il piano dei rapporti internazionali, attenuando o annullando nella co- scienza generale i valori morali della comunità internazionale.

Quel che oggi manca infatti è una comunità internazionale. Intendiamoci: la comunità internazionale ideale è quella for- mata da tutti i popoli, unica per tutto il mondo. Questo fu

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l'ideale della Società delle nazioni, che però non fu mai realiz- zato perchè gli Stati Uniti d'America rifiutarono di farne parte. Oggi questo ideale è irrealizzabile, fino a che le lotte ideologi- che (democrazie, fascismi e bolscevismo) turbano i rapporti in- ternazionali.

Bisogna accettare un programma più modesto. L'America ha la sua unione pan-americana, che ha per base il diritto inter- nazionale ispirato ai valori morali naturali e cristiani dei rap- porti fra i popoli.

Gli stati fedeli a Ginevra formeranno una vera comunità se rinsalderanno i legami attenuati dagli avvenimenti e riconosce- ranno i l dovere d i tenere fede ai principi morali che ne sono l'anima.

Fra questi principi morali quel che deve essere riprocla- mato è che Ginevra non è la lega dei potenti contro i deboli, nè il mezzo d i perpetuare un ordine ~o l i t i co ingiusto, nè un organo di egemonia britannica o francese.

Però si debbono evitare gli errori del passato: a) sia aperta a tutti, ma chiunque ne fa parte deve accet-

tarne i principi morali e gli obblighi che ne derivano; b) il rispetto dei patti valga per tutti e per tutti i casi:

non si debbono ripetere gli errori del passato; C) l'applicazione delle sanzioni deve essere sempre subor-

dinata alle possibilità pratiche del, momento, ma il principio deve rimanere intatto, nel suo valore morale e politico;

t d) l'esistenza, della Società delle nazioni non deve impedire a nessuno stato socio di fare alleanze con quegli stati ( o siste- ma di stati) che non ne fanno parte, a condizione che i trattati , siano pubblici e non violino gli impegni presi verso la Lega.

Riconosciamo che nel momento presente non si può otte- nere di più e che nè Tokio, nè Berlino, nè Roma faranno ri- torno alla Lega, come neppure Washington pensa di assumere impegni permanenti in Europa. Ma è perciò che i paesi della Lega debbono essere più che mai saldi nel loro impegno e uniti nella loro azione, per arrivare ad intendersi con gli altri in modo stabile e sopra un terreno di reciproca fiducia.

u I1 giusto d0vr.à essere forte e il forte dovrà essere giusto », scrisse Pascal. Questa è la necessità della vita internazionale: essere retti essere forti. Allora anche coloro che essendo forti non sono retti, saranno obbligati a seguire le vie rette per non cadere sotto la sanzione di una forza che essi temono.

Come arrivare all'intesa con coloro che oggi vogliono cam- biare, con l'astuzia o con la forza, l'attuale situazione politica? Vari piani e vari mezzi.

Primo : piano psicologico. Non témere la guerra se. questa

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verrà; non provocare la guerra perchè venga; non ritirarsi di fronte alle difficoltà o ai rischi della pace.

I1 pacifismo puro, che nega la guerra ad ogni costo, anche quella di difesa contro l'aggressore, essendo unilaterale è esso stesso un pericolo di guerra.

I1 metodo di pace ad ogni costo, anche contro i più vitali interessi morali e politici dei popoli, è anch'esso un pericolo di guerra; eccita la cupidigia dei più forti.

Secondo: piano morale. Osservare i patti e gli obblighi as- sunti, rettificare i torti, difendere la giustizia, rifiutare di pre- starsi alla violazione della morale internazionale nè per cupidi- gia, nè per viltà,-difendere i deboli se e quando possibile, con- tro le prepotenze del più forte.

Si ha paura che questo porti alla guerra: accadrà una volta su cento, ma la eviterà novantanove volte su cento. Sa& questo . un rischio della pace che vale la pena di correre perchè pieno di valore superiore a cui educare un &paese civile e cristiano.

Terzo : piano politico. Fedeltà alla Lega delle nazioni, sincerità diplomatica, fer-

mezza nelle decisioni, e insieme comprensione degli avversari ,eventuali, e disposizione a sacrificare gli interessi materiali per

salvare i principi, e a concedere agli altri di buona grazia e in tempo quel che si dovrà concedere alla fine per forza e senza merito.

Parole generiche, si dirà: e no, sono frutto di esperienza ed hanno valore costante. Scendiamo alla pratica dei problemi più urgenti e cocenti.

1) Guerra d i Spagna. La politica inglese di non intervento è servita a permettere che da un anno e mezzo Germania e Ita- lia di là e Russia di qua siano intervenute con truppe, tecnici, armi e munizioni. Allo stesso tempo Germania, Italia e Russia sono state rappresentate nel comitato di non intervento per im- pedire l'intervento in Spagna. C'è peggiore beffa ai principi morali e alla serietà politica? Oggi la mediazione sYimpone\e l'Inghilterra dovrà rivedere la sua politica di non intervento, se si vuole evitare sia che la guerra continui a lungo, sia che finisca con la vittoria di una parte.

- 2) Conversazioni con l'Italia. È un bene che si arrivi a re- golare il problema del Mediterraneo, a condizione di non la- sciare ancora mano libera in Spagna, ma impegnare l'Italia alla politica di mediazione sulla base della « Spagna agli spagnoli D; e a condizione che non si consacri la conquista dell'Abissinia sopra la teoria del fatto .compiuto, condannata dalla morale cristiana.

3) Rapporti con la Germania. Sì, certo; a condizione che

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non si abbandoni l'Europa centrale alle sue brame di espan- sione, si tuteli l'indipendenza dell'rlustria e l'integrità della Cecoslovacchia; e a condizione che il problema delle colonie sia trattato dalla Società delle nazioni, in nome della quale l'Inghilterra gestisce i mandati.

Tutto ciò significa avere una politica, basarla sulla legge morale e sul risaetto dei trattati, difendere l'ordine interna- zionale e correrne i rischi. '

Ma solo. così potrà superarsi la crisi di oggi, e rivalutare i principi solidi a stabili di una vera e futura comunità interna- zonale nell'ordine e nella pace.

Marzo 1938. Arch. 13 A, 18

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7.

DELL'UBBIDIENZA AI POTERI COSTITUITI Riflessioni sullo stato presente

Mi sembra opportuno fare seguito all'articolo del padre Spicq, (C On doit se soumettre auz pouvoirs établis » (l), sia per l'applicazione ai principi da lui esposti (che sono la dottrina perenne del cristianesimo), sia per chiarire alcuni punti dubbi, che non mancano in materia così intricata.

Limito il presente studio al caso deblo stato democratico moderno con riferimento alla Francia, dato che La Vie ZnteE lectuelle è una rivista francese. Non parlerò di altra forma d i stato (se non per qualche riferimento), nè di altro tipo di auto- rità (come l'internazionale); nè mi occuperò del problema del diritto di rivolta, sul quale ho pubblicato un altro studio in questa stessa rivista (3.

Restringo l'indagine ai seguenti punti: I. Quale i l carattere e i limiti dell'autorità politica in uno

stato democratico moderno. 11. Quale il carattere e i limiti dell'ubbidienza dovuti dai

soggetti ( o cittadini) in tale stato. 111. Esame dei casi di potere illegittimo o di guerra ingiusta.

La democrazia politica moderna è caratterizzata dalla par- tecipazione legale, organica e rappresentativa del popolo al- l'esercizio dell'autorità. Tale partecipazione non contrasta in nessuna maniera alla teoria cristiana dell'autorità, nè usurpa il potere divino, dal quale deriva ogni potere umano.

Coloro che per giustificare la teoria della democrazia mo- derna si appoggiano ancora sulla tesi della natura per sè buona

(l) La Vie Zntellectuelle, 25 Janvier 1938. ( a ) La Vie Zntellectuelle, 25 Octobre 1937.

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(negando implicitamente o esplicitamente la colpa di origine), non si sono accorti, per l'esperienza di un secolo e mezzo, che la tesi della natura buona non è che un'utopia. Gli altri che ancora attribuiscono ( in via teorica) tutto il potere sociale e l'origine del potere al popolo sovrano, senza alcuna limitazione intrinseca, non si sono neppure essi accorti, in un secolo e mezzo .

di esperienza, che una sovranità popolare senza limiti non può esistere di fatto, perchè coinciderebbe con l'anarchia; nè si può ,

accettare in diritto, cioè trasportata sul piano dello stato, perchè degenererebbe in tirannia statale. Questi due pseudo-principi furono storicamente un presupposto polemico della moderna de- mocrazia, non mai le sue basi reali.

Quel che a noi interessa stabilire chiaramente si è che l'at- tuale regime democratico, quale nella Gran Bretagna e suoi Dominions, nel13America del Nord e alcuni stati dell'America Latina, in Francia, Olanda, Belgio, Svizzera, Irlanda, Cecoslo- vacchia, Danimarca, Svezia e Norvegia, e Stati Baltici, non im- plica affatto la negazione che ogni potere viene da Dio. Dico K non implica 1) per escludere una connessione necessaria fra la democrazia e una simile negazione; ciò non vuol dire che non vi siano, negli attnzli regimi demcvrrtici, delle ioY!trzzicni di teorie che partono dal concetto dell'assoluta autonomia umana. Allo stesso modo che nell'ancien régime s'insinuavano altre teo- rie erronee sulla natura dell'autorità, quale quella del così detto diritto divino dei re (l). . ,

Può sembrare a molti un truismo questa nostra osservazione preliminare, specialmente dato il fatto che i papi hanno più volte (dalla rivoluzione Gancese in ~ o i ) dichiarato 'che la chiesa è indifferente riguardo la forma dei regimi politici. ,Ma,poichè non si dà forma senza contenuto, e poichè il contenuto di tutte le formazioni politiche moderne è inquinato di presupposti teorici erronei, così è facile che nel criticare i regimi che non piacciono, si passi dal contenuto alla forma politica e s'attribui- scano a Questa le incom~atibilità con la dottrina cristiana del contenuto dei suoi presupposti teorici. La critica che si fa ai regimi democratici, dal punto di vista della natura e l'uso della libertà e del carattere dell'autorità, è resa più facile dal fatto

(l) I1 padre Spicq parla u du droit divin dea pouvoirs constitués D, che non è da confondersi con la teoria del diritto divino dei re. Poichè 1%0 storico della suddetta frase si rifeiisce a una determinata teoria, sembra meglio evitarla anche quando si vuole ricordare che non vi è potere che da Dio, non trattandosi, nel caso, di un diritto divino positivo, come è per la autorità della chiesa. (N.d.A.)

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L che i pensatori e filosofi della democrazia politica moderna sono in maggior parte contrari ad una concezione cristiana della società.

L'autorità statale in regime democratico non è concentrata in una persona, ma divisa e distinta in vari organi, con alla base l'elettorato ~ o ~ o l a r e . In Francia vi è un presidente elettivo, che rappresenta l o stato e ne è il simbolo; un parlamento elet- tivo con due assemblee (senato e camera dei deputati}, come potere legislativo; esse in casi speciali si riuniscono in unica assemblea; un governo o gabinetto, come potere esecutivo, no- minato dal presidente e accettato dalle due camere; una ma- gistratura indipendente (almeno di nome), come potere giudi- ziario; un corpo elettorale, come sorgente ultima degli organi del potere. Ciascun organo h a le sue competenze, i suoi limit, le sue regole, le sue responsabilità.

Rappresentano tutti l'autorità? quell'autorità che viene da Dio? Certamente, sì : nell'ambiio delle proprie funzioni ciascun organo ha una parte di pciiere ed è qirindi (nell'esercizio del proprio potere) investito di autorità. I1 dubbio non cade nè per i l presidente, nè per il governo, nè per la magistratura, nè per gli organi amministrativi e militari della macchina statale. Non - dovrebbe neppure cadere alcun dubbio per il parlamento, ma si è talmente abituati a sentirlo vituperare da tutta la stampa di destra, e anche da certa stampa cattolica ( e forse le critiche per quanto acerbe non sono del tutto ingiuste), che qualcuno dei lettori di questo articolo si sorprendexà a pensare che i l parlamento possieda una potestà che viene da Dio; ma dopo il primo urto psicologico, si persuaderà facilmente che è così.

Anche al corpo elettorale occorre riconoscere un potere che viene da Dio? Questo poi è troppo duro a ingoiare! Proprio; ma è così; l'elettorato è un organo del potere, è investito di un potere fondamentale e ha la grave responsabilità del buon esercizio.

Purtroppo, quasi dappertuito, il corpo elettorale non 6 stato educato a sentire la sua responsabilità morale; è stato lusingato come espressione di volontà illimitata, come popolo sovrano (sovranità di un momento!), si sono scatenate l e passioni po- polari, non si sono incanaliti i suoi sentimenti; si sono formati i arti ti di massa sulla base di falsi ideali. non si è bene insi- . stito sul valore morale della democrazia; gli unici che avreb- bero potuto farlo con pienezza di criteri morali, i cattolici, in parte e per lungo tempo vi si sono rifiutati.

Per giunta, in Francia, il corpo elettorale è chiamato solo

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a periodo fisso, senz'altra partecipazione alla vita politica, nè per appello a l paese, nei contrasti fra parlamento e governo O

nel bisogno di un cambiamento d'indirizzo politico, come si usa in Inghilterra, nè per referendum su determinate questioni d'in- teresse generale, come si usa in Svizzera. Così l'educazione del- l'elettorato manca o è deficiente; e d'altra parte il parlamento senza continuità d i contatto col paese (data la forma automatica periodale delle elezioni) si trasforma facilmente in corpo auto- nomo in preda ai gruppi. Di qui, in Francia, i l discredito del parlamento e la svalutazione dell'elettorato.

Ma le crisi degli organi del potere non intaccano (almeno idealmente) il valore ordinativo e finalistico (cioè morale) del potere. Non perchè Luigi XV tenesse a Versailles una specie di bordello, non avevano valore le sue leggi e i suoi decreti. Nel fatto, gli atti del corpo elettorale e quelli del parlamento rive- stono carattere di atti di autorità e come tali debbono essere

, ricevuti. Coloro che confondono l'autorità con una specie di potere

arcano e ieratico, credono che ripugni al principio di autorità la critica aperta e legale che in democrazia si fa degli atti del potere. L'errore di taie opinione dipende sia dalla ignoranza dell'essenza del potere, sia dalla confusione fra sana democrazia e gli abusi reali che vi s'introducono (come in qualsiasi altro regime). In termini di diritto, c'è la critica preventiva alla legge ch'è lecita perchè fatta in periodo di formazione; donde le di- sensioni sulla stampa, nelle riunioni pubbliche, nei referendum, nei parlamenti fino a che non si arriva alla sanzione sovrana. Allora la legge è compiuta e deve essere osservata. C'è l'altra critica, quella della legge vigente per migliorarla, cambiarla, modificarla, abrogarla: è nella natura delle cose questo bisogno e non si fa oltraggio alla legge se la critica è onesta, temperata, ragionevole. C'è infine la critica degli atti del governo e dell'in- dirizzo del governo e questo è caratteristico della democrazia, poichè il popolo partecipa in certo modo al governo stesso; si agisce de re propria.

Del resto, non è a credere che nell'ancien régime mancasse la critica: la forma era diversa; le classi interessate erano le aristocratiche ; i gruppi : gilde, università, municipalità, bor- ghesie mercantili, e simili. Non mancavano le riunioni dei tre stati, le petizioni, i parlamenti o assise generali: la questione fiscale era la più dibattuta. Quando ai re non arr i~avano le voci dirette del popolo, non mancavano confessori e predicatori a farsene eco. Anche le amanti autorizzate servivano uualche volta a fare la parte di Ester, quando non facevano i l contrario. Sarà bene notare qui, una volta per sempre, che lo stato ai tempi dell'ancien régime aveva pochi compiti in confronti allo stato

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moderno, che ha preso in mano tutta la vita civile, morale, cul- turale, economica della nazione. d

Nella concezione dei rapporti fra suddito e sovrano, corpi locali e stato, cittadini e nazione, una demarcazione storica so- stanziale bisogna fare da quando si passò dalla teoria (( contrat- tualista » del medio evo a quella pubblicista )L dell'evo mo- derno. Nel primo caso, i rapporti fra sudditi e sovrano non erano individuali, ma comunitari: lo stato ( o meglio i l regno) era una specie d i comunità superiore dentro la quale esistevano le altre comunità civiche, professionali, ecclesiastiche, universi- tarie e così via. Ogni comunità aveva la sua esistenza intera- mente autonoma e contrattualmente legata al re, come capo, protettore e garante dei suoi diritti: era quel che si appella lo stato corporato (quale infinita distanza dallo stato corporativo totalitario!). La base dei rapporti era contrattuale. Allora non c'erano due diritti: uno privato e uno ~ubb l i co ; il diritto era sempre cristallizzato in contratto: anche fra sudditi e re vi era un contratto: dal lato dei sudditi ubbidienza e fedeltà, dal lato del sovrano rispetto dei diritti e garanzia di difesa. Se veniva

I . meno l'osservanza del contratto, cessavano gli 09biighi reciproci. Che meraviglia se i corpi locali facevano resistenza alle leggi, ai decreti e agli atti sovrani quando erano creduti lesivi della loro autonomia e d i quei diritti che i re stessi si erano obbligati a rispettare?

La concezione dello stato res pubblica, ente pubbl' ico, con piena e propria sovranità, diede luogo alla teoria assolutista, che ebbe per presupposto o per corollario (secondo i casi) la teoria del diritto divino dei re (nè i papi nè la dottrina catto- lica accettarono tale teoria, non ostante le debolezze degli epi- scopati nazionali). Caduta in discredito, la teoria del diritto di- vino fu soppiantata da quella del diritto naturale (giusnaturali- smo), che poi arrivò a dar la base alla sovranità popolare di carattere formale e simbolico, che resiste anche oggi, sia nella concezione democratica, sia in quella totalitaria della nazione della razza, presa come un tutto vitale, permanente e super- umano. In sostanza, è lo stato, ente a sè stante, di carattere pub- blico, che riassume I'autorith senza altri limiti al suo potere che quelli posti dalla sua natura di ente comprensivo d i tutta la società.

L'unico limite sarebbe dovuto essere quello morale; ma non potendo lo stato N tutto n uscire da sè, e cercare la base morale dove essa si trova, cioè nella personalità umana e nei suoi rap- porti religiosi con Dio, cerca di foggiarsi una propria morale. Questa è di fatto un compromesso tra la morale tradizionale a

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tipo cristiano e naturale, e la concezione illimitata del potere statale. In regime democratico questo potere illimitato dello stato è corretto dalla reciproca limitazione degli organi del po- tere: è basilare per essa la divisione classica del potere in legi- slativo, esecutivo e giudiziario, con una sintesi formale alla base nel corpo elettorale e alla cima nel capo dello stato. Da qui derivano altri elementi limitativi del potere: quello della legge uguale per tutti; quello della periodicità delle nomine; quello della responsabilità politica del governo o gabinetto; quello della irresponsabilità politica del presidente o re, che regna e non governa. Una specie d i meccanica delle forze statali per ottenersi, qual risultato, un equilibrio politico; ma questo non

' basta se non ha alla sua base un elemento morale stabile, quale sogliono essere le leggi fondamentali dello stato: (costituzione, codici, regole di amministrazione), Nel caso che tale equilibrio venga rotto, l'organo del potere che va a re dominare non sen- tirà più i l valore del limite politico e per conseguenza neppure quello del limite morale: o la tirannia del dittatore O quella del parlamento o l'anarchia dei partiti e delle masse ne sono la conseguenza. -..

Riassumendo, la democrazia moderna ha organizzato ' i li- miti e i controlli a l potere in forma permanente, legale, pub- blica e popolare; mentre in altre forme di stato i limiti e i controlli sono o d i natura aristocratica, ovvero semplicemente burocratici e funzionali. Quanto più si va verso la concezione .di un potere assoluto senza limiti nè controlli, tanto più si at- tenua il carattere morale del potere politico, per risolversi nel- l'arbitrio di un solo o di pochi e nel dominio della forza mate- riale. P1 culto dell'autorità, se 6 portato avanti da solo, come un fatto assoluto nella società, senza la concretizzazione dei li- miti etici e politici a mezzo di organismi sociali viventi, con- duce alla identificazione del potere con l'arbitrio e con la forza.

Quando si parla di soggezione ai poteri costituiti non #può intendersi ciò come una soggezione personale, ma solo come una soggezione legale, quella dovuta all'ordine costituito, cioè alla legge. Nessuno può reputarsi solutus a kge, nemmeno coloro che sono investiti di autorità. Ma l'ubbidienza civica non può concepirsi come un'ubbidienza monacale, nè come quella dei servi o degli schiavi: l'ubbidienza è dovuta solo alla legge e ai precetti giudiziari o amministrativi emessi in applicazione della legge. Se in tale applicazione i magistrati o gli ufficiali

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eccedono nei loro poteri e gravano i cittadini ingiustamente, si ammette il diritto di ricorso o di non esecuzione, secondo i casi.

T primi cristiani non facevano diversamente degli altri citta- dini dell'impero, nè dei cittadini di oggi; essi ubbidivano alle leggi (quando queste non erano contrarie alla morale cristiana) e all'occorrenza anch'essi rivendicavano i loro diritti, come S. Paolo che fece valere la sua qualità di cittadino romano ap- pellandosi a Cesare. Dire ch'essi ubbidivano a Tiberio o a Nerone o a Domiziano, non aggiunge nè toglie nulla alla loro sogge- zione civica, in quanto essi restavano ubbidienti alle leggi e non mancipi degl'imperatori. La resistenza passiva ch'essi fecero alle leggi anticristiane, preferendo la fuga o i l martirio, non fu per !a qualità di cattivi imperatori, ma per le loro leggi cattive ; i cristiani furono perseguitati più da un Traiano o da un Marco Aurelio, reputati dei buoni imperatori, che da un tipo malvagio quale Commodo. La questione d e l principe cattivo va posta solo in rapporto al diritto di deposizione che potranno avere i citta- dini o loro corpi costituiti, ovvero, nel 'caso di tirannia, al di- ritto di rivolta.

Per precisare bene i l carattere e i limiti dell'ubbidienza dei cittadini all'autorità in regime democratico, occorre distin- guerla circa l'oggetto. Noi troviamo quattro tipi diversi: 1) l'ub- bidienza civile ; 2) l'ubbidienza politica ; 3) l'ubbidienza di ufficio o servizio : 4) l'ubbidienza militare.

P ,

La prima è quella della quale comunemente si parla: l'ub- bidienza alle leggi. La seconda è quella dovuta alle autorità politiche (anche per comando personale) nel caso di pericolo *

dello stato e dell'ordine o della vita nazionale, cioè caso di guerra, rivolta, sospensione delle guarentigie per casi eccezio- nali, terremoti, epidemie, carestie, sommosse.. La terza è l'ub- bidienza dovuta dall'investito di un ufficio o incaricato di un servizio pubblico, ministro, deputato, ambasciatore, burocrate, fino a usciere o poliziotto. La quarta è quella imposta ai soldati e ufficiali dalla disciplina militare. -

In tutti questi rapporti fra autorità e soggetti domina il principio che non si può imporre mai al di Ià della lettera e dello spirito della legge; ma, mentre l'ubbidienza civile è di carattere impersonale, dovuta alla legge e non alla persona che comanda, e solo nei casi di stretta applicazione giuridica o am- ministrativa (sentenza di magistrato, decisione di prefetto o in- giunzione di polizia) può arrivare alla persona; nel caso dell'ub- bidienza politica si ammette una maggiore ampiezza nel coman- do alla persona in applicazione più che di una legge precisa,

, di un dovere di cooperazione al bene comune, con proprio sa-

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19 - S m - Politica e morde

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crificio nei casi di grave e urgente necessità, nei quali l'autorità è naturalmente un centro coordinatore e compulsore.

L'ubbidienza di ufficio o servizio e quella disciplinare mi- litare hanno caratteri particolari: la prima come rapporto d i giustizia (nomina pubblica o contratto impiegatizio), il secondo come un'applicazione stretta dell'ubbidienza politica per la ne- cessità di ottenere gli scopi pratici a cui è ordinato il servizio militare.

La legge per poter obbligare, deve essere morale e giusta: la legge immorale e ingiusta non obbliga. ,

La legge immorale può essere positiva se 'obbliga a emettere un atto immorale (atto di culto ai falsi dei, sterilizzazione im- posta a determinate persone e simili); negativa se vieta d i emet- tere certi atti morali (culti pubblici al vero Dio, predicazione del Vangelo, atti pubblici del matrimonio religioso etc.).

L'azione di resistenza alla legge può essere di due maniere: n\ nnJi.+;nrr e nnIlott;*in ofX~;neh~ Ipnop siil revocata e ?erchè U, p ' Y " " V I V Y Y I I I I Y . . ..L-"-.. --D--

non sia osservata; b) civile e personale, da parte di coloro cui è fatta la ingiunzione, col rifiuto dell'ossemanza.

L'obbligo della resistenza politica incombe a tutti i cittadini, secondo le possibilità legali e le posizioni personali di ciascuno, o come elettori o come deputati o come giornalisti, e così via. In maniera più stretta incombe a coloro che hanno i l dovere di ufficio di difendere la moralità e la religione offesa, o a co- loro che sono chiamati per professione a eseguire la legge ( i medici nel caso della sterilizzazione obbligatoria). Se un tale obbligo sia per giustizia o per carità, può precisarsi dall'esame delle condizioni di fatto. Secondo la mia opinione, in regime democratico, l'obbligo del m'inistro ,e del deputato è di giusti- zia, quello del cittadino elettore potrebbe anch'esso dirsi di giustizia se l'elettore avesse sufficiente coscienza del, suo ufficio d i fronte a tutta la comunità politica. Non è , a porre la que- stione per il sacerdote cattolico obbligato dal suo ministero a difendere la morale, specialmente per i parroci e vescovi.

I1 rifiuto di ubbidienza al momento della ingiunzione per- sonale non è dovuto solo da colui che è comandato (come sa- rebbe il medico obbligato pers~nalmenté a fare un'ingiusta ope- razione d i sterilizzazione) ma anche dai suoi cooperatori neces- sari (come l'assistente all'operazione); e da coloro che sono in- caricati a punirlo della disubbidienza ( i l giudice o il prefetto).

Dal divieto della cooperazione al male, deriva l'obbligo a tutti i ministri, ufficiali e impiegati dello stato di rifiutare la

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loro opera per compiere atti immorali comandati dai loro su- periori : violazioni alle leggi, decisioni ingiuste, rifiuto di ren- der giustizia e simili. Coloro che facilmente indulgono ai pro- positi immorali dei rappresentanti del potere, politico, non si mettono a discutere con la loro coscienza se, nel caso partico- lare, ci sia conflitto di doveri fra l'ubbidienza cieca e la disub- bidienza illuminata; fra il dovere d i coscienza di non cooperare al male e quello di eseguire gli ordini 'dell'autorità. Purtroppo, in via ordinaria si pensa solo a tutelare il posto che si occupa,

&ad assicurarsi una brillante carriera, cedendo alle pressioni dal- l'alto, di fronte al debole richiamo di coscienza per un atto for-

' malmente immorale. Tali conflitti, in via ordinaria, sono meno frequenti o meno

acuti in regimi democratici e legali, che in regimi assoluti e arbitrari. In ogni caso, è meno difficile seguire la voce di co- scienza in regime democratico che in quello dittatoriale, perchè il pericolo di perdere i l posto vi è meno ,reale, e mai irrepa- rabile.

Ricordo di un impiegato, a cui era stato richiesto di fare un rapporto, che seozr alterare i dati reali del fatto, conchiudesse contro colui che ( a suo parere) aveva diritto ad una decisione favorevole. Siamo in Italia, in un periodo precedente alla gran- de guerra. L'impiegato fece più volte presente al suo superiore immediato la realtà delle cose e infine domandò di essere eso- nerato dal fare quel rapporto. Ricordo con quali angoscie egli attese la risposta definitiva; era preparato anche alla perdita del posto o al trasferimento in altro luogo o a un procedimento disciplinare. Con sua sorpresa, seppe che il ministro, apprez- zando le sue ragioni, aveva deciso di sospendere ogni decisione e ordinato di fare ulteriori indagini. È difficile dire se ciò fosse stato possibile in regime dittatoriale, nel quale come stato psicologico preventivo, l'impiegato è più disposto a ubbidire anche nel caso di palese ingiustizia. Si forma un ambiente di soggezione, d i servilità, di paura, che diminuisce, fino a spe- gnerlo, ogni senso di responsabilità.

Quel che si dice dell'impiegato di stato, si dice del cittadino, quando per ragioni di pericolo è chiamato a prestare servizi o dare contnbuzioni personali (è i l caso dell'ubbidienza poli- tica); il primo limite di tale ubbidienza è dato dalla moralità del comando. I1 problema di chi giudica della moralità del comando si risolve con il principio della coscienza bene infor- mata: colui che deve eseguire il comando ne è il giudice natu- rale; egli, secondo i casi, deve prender consiglio da persone illu- minate e prudenti. Nel dubbio, ha la preferenza i l comando, che si, suppone morale, tranne che si sappia in precedenza che

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chi comanda ha il disprezzo dei principi morali e irride dalla giustizia.

Nel caso di una legge e di un comando immorale d i carat- tere negativo (recentemente è stato proibito di re dica re O in- segnare il catechismo nella lingua materna, nell'Alto Adige o nell'Istria, nei Paesi baschi, e circa dieci anni fa in Catalogna) occorre fare parecchie distinzioni. Se si tratta solo del divieto di esercitare un diritto, per quanto il divieto sia immorale e lesivo, pure l'interessato, che non ha alcun modo di difendersi legit- timamente, può, anche con suo incomodo, rinunziare almeno temporaneamente all'uso del suo diritto. Per esempio, pubbli- care o no un libro o un giornale in una data lingua (come è oggi per la lingua basca).

Ma se si tratta del divieto di esercitare un ministero a cui si ha l'obbligo (divieto al medico di curare certi ammalati per- chè ebrei o al parroco di non insegnare i l catechismo in verna- colo ma nella lingua nazionale, che i bambini del popolo spesso non comprendono bene o non comprendono affatto) allora non può ubbidirsi alla legge o al comando dell'autorità civile. I ~ a s i possono moltiplicarsi: altro è il caso di un dovere positivo di giustizia, lesu da una legge negativa, aitro è un dovere generico, quello per esempio di ascoltare o no la predica in vernacolo o di andare o no a sentire la messa. Nel caso di grave incomodo ed evitato lo scandalo. il cittadino auò non fare 'uso dei suoi

&

diritti. I n certi casi però la resistenza passiva collettiva è l'unico mezzo per ottenere la revoca o . l'attenuazione della legge ch'è lesiva del proprio diritto ovvero costituisce un impedimento al- l'esercizio totale o parziale del proprio dovere. La resistenza passiva ha un valore enorme per.far rientrarè le autorità poli- tiche nell'orbita delle proprie competenze, per ridare u n tonico morale alla società e per educare le popolazioni al senso di dovere, di coscienza e alla responsabilità dei propri atti.

C'esame di due questioni completerà il quadro dell'ubbidienza ai poteri costituiti in regime democratico: quel- la della legittimità del potere e quella del dovere del cittadino nel caso di guerra irigiusta.

A) Legittimità del potere Non vi è vero potere se non è legittimo:, la legittimità è

condizione necessaria del potere; un potere illegittimo non è vero potere. Nel caso che sia tale, la legittimazione è un passo richiesto dall'ordine sociale: se manca una legittimazione reale s i cerca quella apparente. .

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Poichè anche oggi non mancano i colpi di stato, le occu- pazioni militari senza dichiarazione d i guerra, le conquiste sen- za accordi di pace, così il problema della legittimità del potere è di piena attualità.

Ai fini del nostro studio occorre distinguere i casi: a) dell'usurpazione del potere ; b) del "governo d i $fatto non

legittimato ; C) del governo di fatto legittimato apparentemente con titolo insufficiente; .d) del governo legittimato e divenuto tradizionale.

a\ I moralisti sono d'accordo nell'affeamare che è lecito, e in certi casi e per certe persone doveroso, resistere, anche con la forza, all'usurpatore, nell'atto dell'usurpazione. I1 capo dello stato e il suo governo, attaccati dall'usurpatore, hanno il dovere della resistenza con le armi (quando è possibile) e in ogni caso sul terreno giuridico perchè essi rappresentano gl'interessi della comunità; è in loro mano la tutela armata e la tutela giuridica del paese. L'esercito e i cittadini chiamati sotto le bandiere hanno in tal caso l'obblieo dell'ubbidienza al legittimo capo, u

e quindi quello di combattere contro l'usurpatore. Gli altri cit- tadini hanno l'obbligo dell'nbbidienza politica per il caso di pericolo. Se però !e cause del tentativo di usi?rpazione sono quelle di una giusta rivolta, allora la situazione muta, come può vedersi nel citato articolo sul Diritto di rivolta e i suoi limiti.

b) Supposto che l'usurpatore abbia vinto ed abbia creato quello che si chiama un governo d i fatto, i moralisti sono di accordo nel ritenere che per motivi di ordine e per il bene comune, occorre ubbidire a un tale governo, anche prima di ogni possibile legittimazione. Ciò non contraddice alle celebri parole di Pio IX, de11'8 dicembre 1864: È falso che « nell'ordine politico i fatti consumati, per ciò stesso che sono consumati, abbiano vigore di diritto (l), perchè l'ubbidienza ad un tale governo non significa alcun riconoscimento del fatto compiuto nè importa una legittimazinne implicita.

C) La legittimazione è posteriore all'esistenza del semplice governo di fatto; essa costituisce un principio di diritto; come tale non esige una forma fissa e costante essendo la legittimazio- ne, di sua natura, originaria e storica. Ogni tipo di regime, ogni concezione giuridica della società, ogni situazione di fatto risol- ve il problema della legittimazione del potere come meglio può. Pipino, per essere più sicuro sul trono, ottenne l'approvazione del papa; al papa ricorsero i re di Spagna e di Portogallo nel

(1) Enciclica Quanta cura, 8 dicembre 1864, n. 4.

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secolo XV per legittimare le loro presenti e future occupazioni nel Nuovo Mondo, e averne l'esclusiva. Oggi si ricorre ai plebi- sciti: da Napoleone I11 in poi se n'è fatto uno strumento della tirannia « con l'entusiasmo del popolo ». Che cosa avrebbe dato il plebiscito dell'Austria indetto da Schuschnigg? Certo, l'oppo- sto del plebiscito del 10 aprile, fatto sotto l'occupazione mili- tare e il terrore poliziesco del potere nazista.

Dal modo come la legittimazione viene fatta, dallo stato d'animo della maggioranza dei cittadini e di coloro che rappre- sentano ( in un dato momento) la classe politica responsabile, si può arguire se potrà riguardarsi come apparente o reale, come precaria o stabile, come accetta da tutti o solo da una fra- zione. In fondo ad ogni legittimazione vi è la volontà comune, l'adesione implicita o esplicita della popolazione interessata, perchè la legittimazione è una forma di acquisizione d i potere ex-novo: per essa si posa la questione dell'origine del potere. Quale che sia la concezione prevalente: quella contrattuale (d i tipo scolastico); quella storica (d i tipo positivo), quella forma- listica (di tipo giuridico); tutte presuppongono una volontà co- mune, esplicita o implicita, per la quale sola può concretizzarsi un potere iegittimo. L'idea stessa di prescrizione (presa dai di- ritto privato) - per la quale un re ( o un regime) illegittima- mente istallatosi di fatto, ma rimastovi per lungo tempo senza opposizioni reali o apparenti, arriva a divenire, per ciò stesso, un potere legittimo - non è che una formula giuridica che maschera la vera essenza della legittimazione: il volere popo-

.

lare vi è contenuto tacitamente, per via di lunga acquiescenza. Potrebbe sembrare che questa interpretazione costituisca un

modo di evadere dalla' dottrina di Pio IX sul fatto compiuto; ma non è così; perchè nel caso della prescrizione non è ,il fatto compiuto che crea il diritto, ma la successiva volontà popolare che accede al fatto compiuto. Tale può dirsi il caso del Monte- , negro, che fu unito alla Jugoslavia e confuso in essa solo per un fatto compiuto dopo la grande guerra. Una frazione di Mon- tenegrini protestò, si agitò, cercò aiuto in Italia e alla confe- renza della pace. Questa frazione svanì, si disperse per il mondo o rientrò in Montenegro. Gli altri si adattarono subito, e da allora han partecipato pacificamente 'alla vita comune con la Jugoslavia. Sono venti anni e non si sente più parlare del Mon- tenegro. Per quanto venti anni non siano che un breve periodo agli effetti di una prescrizione politica, pure oggi si ha l'im- pressione che il fatto compiuto sia stato ratificato da coloro che avrebbero avuto diritto a rivendicare la sovranità d'indipenden- za del Montenegro.

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Al contrario, mai l'Irlanda, mai la Polonia riconobbero i l dominio straniero; il tempo non prescrisse il loro +ritto.

I1 caso dell'Austria non può dirsi deciso: il plebiscito del 10 aprile non può ritenersi libero e legittimo. Se domani 1'Au- stria vorrà rivendicare la sua indipendenza, sarà ancora nel suo pieno diritto. I1 fatto compiuto è là, ma non è stato legittimato.

Questi casi ci chiariscono le posizioni etiche dei cittadini: fin che il governo di fatto non è legittimo essi sono obbligati all'ubbidienza civile, ma non al riconoscimento: è i l caso del- l'occupazione germanica nel Belgio e nella Francia, è i l caso dell'occupazione austriaca della Serbia e del Friuli, durante la grande guerra.

Quando avviene la legittimazione, se questa non è che appa- rente, i cittadini sono t6nuti all'ubbidienza civile come a un governo di fatto, ma non come,a un governo legittimo (è il caso attuale dellYAustria).

Nei due casi vige il loro diritto a reclamare che cessi i l go- verno di fatto e che ritorni quello di diritto. I1 modo come que- sto diritto possa esercitarsi dipende dal tipo di regime che vi è istaiirato: se questo è democratico, il modo sarà legale; se in- vece il regime è assoluto o totalitario, come oggi si dice, e nes- suna azione legale vi è consentita per rivendicare i l ripristino del governo di diritto, allora non vi è che il ricorso alla rivolta, nei casi e nei modi che insegna la morale cattolica (vedi il ci- tato articolo del 25 ottobre 1937).

d) Infine, se la legittimazione è reale ed effettiva, e nulla vi si può obbiettare contro, il governo di fatto diviene anche go- verno di diritto. I rapporti fra cittadino e poteri pubblici ritor- nano ad essere integri e definitivi.

- B ) Caso' della guerra ingiusta I teologi dicono che nel caso di guerra palesemente ingiusta,

il soldato deve rifiutare di battersi (sia esso cittadino o soggetto obbligato ai servizi militari ovvero volontario corso alle a m i O

ingaggiato per contratto). Lo stesso è a dirsi dell'alleato. (E'Ita- lia nel 1914 negò di unirsi all'Austria-Ungheria nella guerra contro la Serbia, perchè i l patto di alleanza non portava l'ob- bligo di partecipazione ad una guerra offensiva). In genere, tutti coloro che sono chiamati ad una cooperazione formale in una guerra ingiusta, hanno il dovere (oltre che il diritto) di rifiutare l'ubbidienza politica, i parlamenti devono negare l'ap- provazione della guerra e i fondi necessari; i banchieri, i pre- stiti; la stampa, l'appoggio; i partiti e i cittadini anche il plau- so e l'incoraggiamento.

Nel caso di dubbio sulla giustizia della guerra, alcuni teologi

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insegnano che la presunzione sta per la giustizia, e quindi i sol- dati debbono ubbidire al principe. Altri fanno la distinzione fra uno stato sovrano e uno stato vassallo; nel primo caso la presunzione è per la giustizia della guerra, nel secondo invece per l'ingiustizia, perchè il vassallo deve prima .ricorrere al suo : sovrano per dirimere la questione.

Oggi, in un sistema societario e in regime di diritto inter- nazionale, quando vi sono la Società delle nazioni, la corte del- l'Aia, l'Unione. pan-americana, il patto Kellog, si può affermare con serena coscienza, che una guerra si deve presumere giusta quando prima d i dichiararla si sono osservate le regole socie- tarie e non ostante tutti i tentativi di eonciliazione, e tutte le procedure prescritte, la parte avversa si rifiuta di accettarne le decisioni. Può anche porsi in altri'termini il criterio di presun- zione: ogni guerra di aggressione si presume ingiusta; ogni. guerra difensiva della parte aggredita si presume giusta.

I1 valore della presunzione serve :a mettere in chiaro l'ob- '

bligo di coscienza del cittadino a ubbidire al potere politico nel partecipare alla guerra, ovvero a 'non ubbidire e resistere al comando.

Si è osservato, che non ostante l'insegnamento unanime dei teologi, nè gli ecclesiastici nè i laici cattolici hanno dato mai la menoma attenzione all'.obbligo di non partecipare ad una guer- ra palesamente ingiusta. Anzi, da parecchio tempo, i cleri pren- dono l'iniziativa di giustificare ogni guerra. Per non citare casi recenti, basta ricordare l'appello dei vescovi tedeschi durante la grande guerra, la responsabilità della quale (anche se divisa con altre nazioni) non può non risiedere nella Germania in modo speciale.

Purtroppo, tali casi, antichi o recenti, dimostrano: a) come sia difficile, nel caso di .una gùerra, disimpegnarsi

dal clima passionale e poter giudicare nettamente del carattere morale della guerra in cui si va ad essere impegnati;

b) quale responsabilità pesi sui cattolici per il fatto di non be- ne educare alla valutazione del giusto e dell'ingiusto nei rapporti internazionali. Le conseguenze n e sono gravissime e spesso tra- giche.

Stando al tema dell'ubbidienza politica in regime democra- tico, è chiaro che il cittadino (anche un solo) che in coscienza reputa che nel caso specifico una data guerra sia manifesta- mente ingiusta, ha il dovere di non ubbidire, non cooperarvi, anzi di opporsi (se gli è possibile) secondo ch'egli occupa o no dati posti e ne ha la grande responsabilità. Sarà questo per lui i l migliore sacrificio che può fare alla sua coscienza e al bene della sua patria. i

(La Vie Intellectuelk, Paris, 10 settembre 1938).

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LA POLITICA NELLA TEOLOGIA MORALE

Problemi antichi e nuovi

La politica, sia come arte di governo sia come organizzazione della società. non ~ o t e v a sottrarsi al dominio della morale in ge- a " nere e, per i cristiani, della teologia morale, in quanto su questo argomento gli studi non mancano ; tuttavia più che mai si avverte il bisogno di una larga revisione delle posizioni acquisite, a causa della laicizzazione del potere politico, della sua esten- sione a tutta l'attività personale e collettiva dei cittadini, della sua intrusione nel campo stesso della coscienza. Nè la casuistica del Dassato. nè una casuistica Duramente teorica. estranea ad

A

ogni considerazione dei fatti, possono rispondere alle nuove esi- genze. Ciò che soprattutto fa difetto, è una sintesi che serva d i guida morale nell'evoluzione invadente della politica.

I1 presente studio non vuol essere che uno schema somma- rio, un contributo ad un esame più vasto e piu approfondito.

Primo ~ r o b l e m a : si è sempre detto e si ripete ancora oggi che la chiesa non si pronuncia sulla forma del govemo ; è mol- to giusto. Ma ciò può sembrare un'affermazione scolastica, fon- data su una classificazione astratta delle forme di governo. In questo concreto non c'è forma senza contenuto. Ed è questo ultimo che dà il suo valore alla forma. Oggi importa meno che uno stato prenda la forma d'una monarchia o d'una repubblica ; è più interessante distinguere il contenuto, sapere se lo stato è liberale o socialista, totalitario di destra o di sinistra. Ciascu- no di questi tipi pone dei problemi speciali che i l moralista ha l'obbligo d i studiare da vicino per distinguere la materia etica dall'elemento politico. Uno stato comunista crea situazioni ca- ratteristiche che impongono ai cristiani degli atteggiamenti mo- rali sconosciuti negli stati liberali e viceversa. Non basta con-

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dannare i principi sui quali si fonda uno stato moderno (liberale, nazista, bolscevico, fascista), bisogna esaminare fino a qual punto può esserne influenzata la condotta dei cristiani che appartengono a tali stati.

Uno dei doveri più assoluti della morale cristiana è quello di evitare la cooperazione al male. Ma fino a quale grado si può chiamare cooperazione al male l'applicazione completa dei principi politici erronei (condannati o no formalmente dal- la chiesa) sui quali riposano gli stati moderni?

I1 liheralismo economico è basato sul principio del « lasciar fare, lasciar correre » e sul principio della concorrenza asso- luta, che portano inevitabilmente l'oppressione dei deboli. Se un tale sistema è ammesso in un paese, i commercianti ed indu- striali cattolici possono approfittarne? In quali condizioni? E come riparare le ingiustizie inerenti al sistema?

I1 caso del comunismo economico, sia esso manifesto o tra- vestito, è oggi all'ordine del giorno. La svalutazione, I'autar- chia economica, il socialismo di stato portano ad esperienze di comunismo a lunga portata. Possono i cattolici accettare dei regimi di tale tipo, sforzandosi di approfittare dei loro vantag- gi e di installarsi definitivamente in essi? I n Germania, in Au- stria ed anche in Italia, ha infierito, per ragioni razziali, la persecuzione contro gli ebrei; gli effetti economici momentanei sono stati vantaggiosi per gli altri: medici, p.rofessori, commer- cianti. Fino a che punto è lecito la partecipazione a tali misure?

I1

La distinzione della forma poli;ica e del suo contenuto (li- berale, socialista, totalitario, ecc.) invita a rivedere sotto una luce nuova i problemi dei regimi politici moderni. Leone XIII un tempo ha consigliato ai cattolici francesi di accettare leal- mente il regime repubblicano con l'intenzione di cooperarvi per il bene comune, per i l miglioramento delle leggi esistesti, p.er la revoca delle leggi anticristiane (febbraio 1892); una simile linea di condotta non poteva avere effetti pratici che in un re- gime « d'opinione », nel quale i cittadini sono liberi di soste- nere il programma che essi giudicano il migliore per il bene del paese e di appartenere al partito che si addice meglio alla loro mentalità personale; un consiglio simile potrebbe essere dafo ai cattolici appartenenti ad uno stato totalitario (di destra o d i sinistra), in cui il non-conformismo politico, sia pure prati- co, oppure una riserva morale, per quanto piccola, non sola- mente non sarebbero permessi, ma sarebbero considerati come un delitto di lesa patria e di lesa autorità?

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I vescovi austriaci, quando invitarono i fedeli a votare al plebiscito del 10 aprile in favore dell'unione al Reich tedesco, precisarono in seguito che le istruzioni episcopali non erano nè un ordine nè un consiglio, ma significavano semplicemente che non era contrario alla morale cristiana d i partecipare a d urn tal plebiscito e d i votare « si D, salvaguardando tuttavia i diritti di Dio e della coscienza. Necessaria per quanto inefficace al momento, questa riserva era motivata dalla persecuzione da parte del-Reich e dal principio della razza sul quale si basava. La stessa formula di tolleranza « salvaguardando i diritti di Dio e della coscienza » si trova nella enciclica n Non abbiamo biso- gno » del 29 giugno 1931 a proposito del giuramento che il go- verno fascista esigeva da certe categorie di cittadini. La stessa enciclica obbligava i fedeli a far conoscere questa riserva in caso d i necessità, per rendere testimonianza della fede cattolica ed evitare lo scandalo.

I1 problema morale che lo stato totalitario (qualunque esso sia) pone non è stato sufficientemente studiato nella nostra teologia morale. I documenti ecclesiastici (encicliche, istru- zioni delle sacre congregazioni, lettere episcopali) forniscono già nn considerevole materiale. Vi manca ancora l'elaborazione scientifica dei filosofi e la discussione pratica dei casisti per mettere in luce tutta la complessità del fenomeno nella sua portata etico-religiosa.

I1 carattere essenziale del totalitarismo è tale che il citta- dino è messo nell'impossibilità di restare al di fuori di tale sistema, una volta stabilito, poichè la politica totalitaria pene- tra tutta la vita : famiglia, cultura, religione, economia, attività esteriore. In Italia gli stessi fanciulli ricevevano la tessera di

L membro fascista: essi appartenevano al fascismo fipo alla morte. Vi furono dei casi in cui moribondi ricevettero l'invito (che era un obbligo per i loro parenti) di vestire la camicia nera come ultimo atto di fede nel fascismo.

La lode e l'adulazione sono parte del sistema: tutti devono applaudire e lodare i dittatori, anche se commettono dei delitti. Chi avrebbe potuto, in Germania, criticare le esecuzioni del 30 giugno 1934? In un bollettino ~arrocchiale di Vienna, un curato, pochi giorni dopo 1'occupazione hitleriana, scriveva queste stupefacenti parole: « Nei giorni del cambiamento di regime un grande numero di persone mi ha chiesto come po- tevo, come pastore d'anime, conciliare con l'amore d i Cristo i l fatto che gli ebrei saranno dappertutto rimpiazzati nei loro impieghi. No risposto che l'idea di questa sostituzione è sempre esistita nel piano della Provvidenza divina. Nessuno ha chia- mato gli ebrei nei diversi paesi d'Europa. La questione ebraica non era ancora risolta. I1 nostro Fuhrer cancelliere del Reich

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la risolve ora in modo radicale ma anche liberatore per le due parti » (Katholische Aktion in der Abservorstadt).

, Noi non vogliamo giudicare nessuno nè sospettare delle in- tenzioni; noi ci ricordiamo che Von Papen e Dollfuss ricevet- tero insieme la comunione dalle mani del Santo Padre; questo fatto, reso pubblico, fu ricordato allora come il pegno di un avvenire di pace religiosa e di rinnovamento morale. E chi non si ricorda, in contrapposto, i due segretari cattolici di Von Pa- pen, assassinati misteriosamente? La domanda si impone: in che misura è possibile ad un cattolico collaborare con uno stato totalitario? La collaborazione implica la libertà di essere in disaccordo e quella di ritirarsi. È ciò possibile ed a che prezzo?

Ricevendo una delegazione di giovani belgi, il papa Pio XI diceva loro che la politica bene intesa è una forma di carità. Questo principio è fondamentale in teologia morale, per quanto esso non lo sia, sfortunatamente, nella pratica, sia per quelli, talvolta i migliori, che si scansano dalla politica come da una cosa u sporca D, lasciandola ai (C cattivi » (bel regalo alla comu- . . =:ti!); si4 per occupaadoseiie, si seatofio piu legati dalle leggi morali con le quali sarebbe assai difficile, per essi, fare della politica 'come la fa tutto il mondo ( o meglio come la fa « il mondo D).

Ma sembra necessario andare ancora più in fondo a ricer- care fino a qual punto l'esercizio della politica possa diventare . un dovere di giustizia, e quando, più generalmente, esso sia im- posto dalla carità.

Qualche esempio preliminare. Gli elettori credono di avere solamente i l diritto di votare, e talvolta non vi badano, senza preoccuparsene. Ma non vi sono diritti che non implichino dei doveri, dei doveri stessi di giustizia. Infatti l'elettore è il rap-

\ presentante di quelli che non lo sono ; tutti questi ultimi devono essere garantiti nei loro stessi interessi morali, economici e po- litici da coloro che sono elettori. E ciò non basta: l'elettore, se è cristiano, ha il dovere di proteggere gli interessi della re- ligione, dell'educazione morale e della chiesa, interessi che pos- sono essere lesi da una tendenza politica falsa od inopportu- na: dovere di carità? di pietà? di giustizia? I casi sono nume- rosi, hanno caratteri differenti e differenti motivi.

Si sente oggi la necessità di rivedere e precisare~l'idea di giustizia, non certo nella sua essenza, ma nei suoi aspetti variati e particolarmente sotto il rapporto delle relazioni umane. I1 cardinale D'Annibale scriveva nella sua Summula Theologiae Moralis (edizione del 1908): « Iuris late sumpti, triplex ordo .

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est; reipublicae in cives, civium in rempublicam, civium, seu potius hominum, inter se. Iustitia quae illa regit legalis; quae ista distributiva; quae haec commutativae nome habet. Legalis igitur ordinat omnes virtutes ad bonum commune; distributiva versatur circa munera publica, praemia et, ut multis placet, poenas, ab ea, qui praeest reipublicae, civibus decernenda; demum commutativa pertinet ad ea, quae cuique stricto iure debentur; id est meum et tuu-m. Eegaks vix iustitiae nomen meretur, etenim nihil aliud revera est quam obcedientia scriptts legibus institutisque populorum; ideo eam praetereo. De distri- butiva expedita et plana res est. De sola agitur commutativa agendum est nobis ». In trenta anni, l'opinione dei moralisti è cambiata, quantunque l'autore citato abbia goduto allora di una grande rinomanza.

La giustizia distributiva

Ho fatto cenno in altro luogo all'opinione del P. Faidherbe sulla giustizia distributiva considerata non più come una parte potenziale della virtù di giustizia, ma come un aspetto specifico di giustizia, eompIeto in sè e che considera dei diritti e doveri definiti dalla natura stessa della comunità ». La giustizia distri- butiva non è solo quella dei rapporti dello stato con i suoi sud- diti, essa si estende a tutte le forme della vita di comunità, in cui l'azione integrativa dei capi è necessaria per distribuire i vantaggi e gli oneri sociali, al di fuori di quelli che sono dovuti a titolo di giustizia commutativa. La questione chiamata comu- nemente « sociale n trova la sua soluzione giusta nell'applica- zione più larga possibile della giustizia distributiva.

Non mi sembra che i moralisti siano giunti fino ad ora a delle conclusioni certe sui casi di svalutazione e rivalutazione

- della moneta (cose attualmente frequenti) alla luce dei principi della giustizia distributiva, data l'alterazione che esse recano alla situazione economica di categorie intere di cittadini, per il danno degli uni ed i l vantaggio degli altri. Quando nel 1922 il governo tedesco annullò la moneta corrente e tutti i debiti di stato verso i possessori di titoli di rendita, si attribuì il po- tere di sottrarre le loro risorse ai risparmiatori ed ai reddituari e di fatto esso spossessò delle categorie a vantaggio di altre cate- gorie di cittadini. Quando il governo italiano, molto tempo fa, prese a suo carico i debiti verso le banche di certe ditte indu- striali - per circa sette miliardi - impose per questo fatto un nuovo carico ai contribuenti, a vantaggio di un piccolo gruppo di grandi uomini d'affari. Il problema monetario è uno dei più gravi da esaminare dal punto di vista della giustizia distributiva. Non mi ricordo di aver letto studi d i teologia mo-

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stupefacente, nella concezione corrente, che lo stato sia preso come una cosa a sè, al di sopra ed al di fuori dei cittadini, come una entità ~ersonificata, e che se ,ne parli come di un es- sere reale, con volontà e direttive proprie. Tra i sociologi ed i giuristi cattolici, coloro che sostengono la tesi dello stato come persona morale, al di, sopra dei cittadini, non comprendono forse quale concessione fanno al mito dello stato.

Siccome non c'è società senza individui. nè individui senza società, non abbiamo bisogno di fabbricare una entità a sè stante. La comunità esiste in seguito ad una serie di rapporti tra indi- vidui viventi insieme, in forma organica e classe sociale, i l co- mune, lo stato, la chiesa, altrettante comunità esistenti e coe- sistenti che prendono un carattere giuridico nell'organizzazione specifica di ognuna sulla base della libertà (coexistentia multo- rum) e dell'autorità (reductio ad unum).

In questo modo, noi sfuggiamo al determinismo soggiacente alla formazione dei miti: stato, nazione, razza, classe, che si sono insinuati dalla politica nella sociologia e da v e s t a nel- l'etica, e ri introducono così nella fraseologia di cesti oratori sacri e di moralisti sentimentali che m parlano volentieri del culto della nazione, dell'obbedienza allo stato e di altre simili cose.

Abbiamo letto recentemente il Sendschreiben katholischer Deutscher a n ihre Volks- und Glaubemgenossen, pubblicato da AschendorfF, Miinster, Westfalia, nel 1936, da Kuno Bromba- cher e Emil Ritter che tentavano di dimostrare, a nome di u n gruppo di teologi cattolici, la possibilità di conciliare nazismo e cattolicesimo. A questa tesi aveva aderito mons. Hudal, il che a quell'epoca sollevò le proteste dell'episcopato austriaco. In se- guito, egli corresse la sua tesi di « nazismo cattolico » e parlì, in un discorso pronunciato a Vienna, contro il nietzschianesi- mo, base del nazismo. Una circolare della congregazione romana dei seminari e delle università, del 13 aprile 1938, mise fine a questa confusione. Essa invitava i professori a rifiutare otto proposizioni sulle teorie del razzismo e dello statalismo; l'ul- tima di esse è alla base del fascismo italiano: « Ogni uomo non esiste che tramite lo stato e per lo stato. Tutto ciò che possiede di diritto deriva unicamente da una concessione dello stato n,

Torniamo francamente e coraggiosamente all'idea cristiana di comunità, che ha per base la verità e la giustizia e si ispira ad uno spirito di carità fraterna, di cooperazione costante con l'autorità per i fini naturali dello stato, coordinati o subordi- nati (secondo i casi) al fine soprannaturale di ogni individuo, persona umana e cristiana, responsabile e degna di rispetto. Tutto questo non è nuovo, tutto ciò data da duemila anni, dal Vangelo, che riabilita la persona umana, tagliando i legami car- nali dei gruppi di famiglia, di clan o di tribù, di popolo o na-

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zione, perchè ciascuno senta in sè la vocazione divina e la segua, separandosi, se è necessario, da un padre, da una madre, dalla sposa o dai figli.

*Da questa concezione cristiana deriva di conseguenza la ne- cessità, tutta moderna, di rendere il suo valore !alla personalità umana, tanto di fronte all'individualismo liberale che si risolve in statalismo, quanto di fronte al « gregarismo che si risolve i n totalitarismo di stato.

Tra gli scrittori cattolici vi sono di quelli che confondono comunemente stato ed autorità: è un errore; lo stato è l'orga- nismo politico della nazione, non è la nazione, non è l'autorità. Senza l'autorità non c'è stato, ma lo stato comprende tutti gli ingranaggi politici ed amministrativi della nazione, dall'eletto- rato a suffragio universale fino al capo ( re o presidente), dal- l'esercito e la marina alla burocrazia civile; le leggi e la. magi- stratura e così di seguito. E se uno stato è trasformato in dit-' tatura, non ne consegue che i cittadini, o sudditi o compagni (come si dice in Russia) perdano i loro diiitti personali che non derivano dallo stato; in questo caso lo stato, in luogo di consacrare e garantire questi diritti, l i minimizza e toglie loro ogni consistenza e poiitica. Cio maigrado, neiia co- scienza del popolo e nello spirito tradizionale di una nazione si manterrà l'insieme di questi diritti umani spirituali che nes- suna tirannia potrà mai cancellare.

Tutto il paragrafo precedente ha avuto come scopo di scar- tare il mito dello « stato entità sovrana 1) e di fissare i1 vero carattere dello «stato comunità D. Ci sarà così possibile defi- nire meglio l'autorità politica sulla quale la teologia morale basa la disciplina della vita in comune.

Non est potestas nisi a Deo: ecco il principio fondamentale dell'autorità sulla terra per la quale (C omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit » (Rom., XIII). Ci sono dei teologi che hanno voluto vedere nella frase seguente (quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt) una specie di investitura divina data ad ogni individuo al quale è demandata un'autontà, una comuni- . cazione pretematurale del potere di Dio sugli uomini. Ma, a mio avviso, volergli attribuire un tale senso è forzare i l testo. Dio è l'autore della natura. Tutto ciò che è nella natura viene da Dio. San Paolo, dichiarando con forza che alcun potere non può venire da altri che da Dio, dava al precetto dell'obbe- dienza un valore morale di portata superiore: egli mobilitava così tutta una società e la metteva sulle sue vere basi.*D'altra

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parte, egli toglieva all'autorità i l carattere di assolutismo po- nendo un limifie etico, inconcepibile se Dio non fosse l'origine di ogni autorità. San Paolo afferma, tanto per il superiore che per l'inferiore, il limite etico dell'autorità: l'uomo non si sot- tomette all'uomo ma a Dio (valore etico della sottoniissione), il superiore deriva i l potere non da sè stesso ma da Dio (valore etico dell'autorità).

Fino a che gli stati furono governati da monarchie cristia- ne, l'autorità politica si riconosceva limitata dalla legge morale cristiana, ed in pratica dall'autorit,à della chiesa - vescovi O

papa secondo i casi, - e dal diritto canonico, come base giuri- dico-ecclesiastica delle leggi civili. Per quanto un buon numero di' monarchi violasse sia le leggi morali che i precetti della chiesa e concepisse il loro potere come assoluto, in fondo re- stava la concezione che il potere proviene da Dio. Più tardi questo principio, sviato dal suo vero significato ed alterato nella sua applicazione, fece posto alla teoria del diritto divino del re ( in opposizione al potere della chiesa).

Ma quando l'autorità politica si laicizzò, sia con .la teoria del diritto di natura, sia con qaella della scvranità del popolo, il limite etico che la allacciava a Dio disparve almeno in teo- ria, lasciando soltanto dei limiti giuridici e politici. È vero che queste teorie non mancavano di un valore etico fondamentale, ,derivante sia dal concetto di persona umana come soggetto di diritto. sia dalla volontà del popolo come espressione della bon- tà naturale: di fatto, nè l'una nè l'altra fornirono limiti etici efficaci, ma unicamente limiti formali che si distaccavano da una morale positiva. Così si venne a ricercare una etica statista

, (morale detta laica) che tese ad essere come un auto-limite del potere dello stato.

L'esperienza di due secoli - resa interessante dall'opposi- zione molto ferma del cristianesimo all'idea di morale laica e dell'aiitonomia etica dello stato - ha servito a mostrare:

a) l'impossibilità di dare all'autorità dei limiti etici senza fondamento religioso; b) l'insufficienza dei soli limiti organici della democrazia moderna, come la separazione dei poteri, la uguaglianza davanti alla legge, la periodicità delle cariche, la responsabilità politica del governo (questi limiti tuttavia hanno permesso di ottenere una meccanica dell'autorità e l'elimina- zione di abusi extra-legali); C) la sostituzione del vero fonda- mento dell'autorità (Dio), con la mistica ed il mito dell'essere collettivo (stato, nazione, classe, razza) e con l'annullamento di ogni limite, per mezzo della trasposizione dell'idea di indivi- dualità della persona all'essere collettivo.

I1 problema moderno consiste nella ricerca di introdurre d i

20 - S m - Politica e morde

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nuovo l'idea e la pratica del limite etico dell'autorità. Nel re- gime democratico, in cui tutti i cittadini cooperano, diretta- mente o indirettamente, con l'autorità ed hanno parte nel potere (Cicerone dice che la libertà è una certa partecipazione al po- tere) occorre che i cittadini, che concepiscono la ~ o l i t i c a nel- l'orbita delle leggi morali, affermino costantemente il valore d i queste leggi. Ciò che noi abbiamo riconosciuto sopra al cit- tadino, cioè il dovere di giustizia e di carità verso la comunità, noi lo concepiamo qui come esercizio regolare della libertà che limita Z'autorità. Negli antichi regimi, il clero come tale eser- citava un controllo morale e religioso (talvolta eccessivo) sul- l'autorità civile; oggi tocca ai cittadini, nell'esercizio dei loro diritti civici, di compiere tale dovere. I1 potere politico, che oggi ha un campo così vasto, non può essere limitato che dalla reazione #etica del popolo, che è costretto a rivalorizzare ogni attività sul terreno della politica. 4

I1 papa ed i vescovi non mancano di far sentire la loro vo- ce sui problemi morali della vita politica di oggi. In un secolo si sono accumulati molti documenti, dall'enciclica Mirari vos (18321, fino alla Mit brennender Sorge e In Divini Redenzpteris (1937), e sarebbe utile riunirli in volume. Ma spetta ai citta- dini cattolici, fedeli e sinceri, di portarli sul terreno politico e d i tentare di correggere e limitare l'autorità, quando p e s t a pecca per eccesso o per difetto: non ci sono altri mezzi politici o giuridici nello stato moderno di diritto o di opinione.

Quanto alla formazione di nuovi tipi di stati totalitari, biso- - gna dire chiaramente che la responsabilità dei cattolici è stata considerevole. A loro discolpa, si può dire che essi non ne hanno previsto nè lo sviluppo nè i pericoli. Ciò che nel passato a

t era una circostanza attenuante non lo è più oggi. Quando una parte del clero e dei cattolici (non tutti) della Saar difende- vano la tesi del ritorno incondizionato al Reich, cyando essi potevano ottenere un aggiornamento di cinque o dieci anni, forse non hanno visto i pericoli del totalitarismo tedesco? E i cattolici austriaci filonazisti o pan-germanisti, che hanno pre- parato la presa d i potere del loro paese d a parte di Hitler, non hanno capito i pericoli morali di una simile avventura? E i cattolici filo-rexisti del Belgio, non vedono quale avrebbe potuto essere la loro sorte?

Si dice che l'Italia, sotto il fascismo, è in condizioni morali e religiose favorevoli. Bisogna diffidare di una situazione in cui i favori e le persecuzioni dipendono unicamente dalla volontà , di un uomo; e quando i favori abbondano, le coscienze per- dono vigore, e la resistenza rischia di diventare meno forte il giorno in cui sarà necessaria. Si potrebbe fare un lungo elenco

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degli abusi di potere di fronte ai quali nessuno ha affermato il principio di un limite morale. Quando si è trattato della mili- tarizzazione della gioventù - a sei anni il bambino dev'essere iscritto fra i Figli della lupa, a otto anni deve ricevere l'istru- zione premilitare (vedi la legge del 31 dicembre 1934 e dell'll aprile 1938) - non vi è stata nè critica, nè protesta, nè riserva alcuna.

I1 fenomeno più grave, negli stati totalitari, è l'educazione alla violenza, la consacrazione del principio della supremazia della forza sul diritto, del predominio del potere sulla morale, e più di tutto l'educazione all'odio dell'avversario, al disprez- zo per i suoi diritti personali e per la sua vita stessa. Questo spirito maligno, scatenato nel mondo, in nome dell'autorità dello stato, dagli stessi governanti, non ha trovato al princi- pio che una debole opposizione da parte dei cattolici, opposi- zione divenuta ben presto inesistente. Tra gli eccessi di pote- re, vi sono le leggi di persecuzione fatte contro avversari poli- tici, contro le minoranze di lingua o di razza, contro coloro che per convinzione rifiutano il coeformismo partigiano. Vi è ecces- so di potere nella pressione dello spionaggio sparso anche nelle scuole, nelle famiglie, nelle chiese; nella istituzione di campi di concentramento secondo l'arbitrio dell'autorità e dei capi d i partito; nell'uso della tortura nelle prigioni, nell'assassinio a mezzo di agenti di polizia o di squadre private, atti voluti o permessi ed incoraggiati dai capi. Quando il governo fascista, arrivato al potere nel 1922, accordò l'amnistia agli accusati e condannati per diritto comune, per delitti che furono definiti « commessi ad uno scopo nazionale », fu uno scandalo. Da allo- ra, l'Europa ha assistito ad una continua recrudescenza di de- litti « commessi ad uno scopo nazionale D, perdonati o anzi ri- compensati. Non abbiamo forse visto gli assassini di Dollffuss proclamati eroi nazionali?

Questo potrebbe sembrare una incursione nel dominio della politica; io domando quale fu la reazione provocata da questi fatti nella teologia morale, che avrebbe dovuto esaminare le cause della diffusione di questo spirito di odio autorizzato, vo- luto, comandato dall'autorità. La teologia morale dovrebbe stu- diare se in parecchi di questi casi i cristiani non abbiano un diritto od un dovere di resistenza passiva per arrestare que- st'onda anti-cristiana.

Là dove la parola e la stampa sono ancora libere, la difesa degli oppressi è stata minima; molti vi vedono problemi estra- nei alla nostra coscienza, che oltrepassano l'orbita dei nostri doveri. Si confonde l'obbedienza ed il rispetto per l'autorità, con l'acquiescenza e la giustificazione dei loro eccessi.

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Perchè un tale stato d'animo si formi fra i cristiani, occorre aver subito l'influenza delle correnti chiamate in modo equivo- co autoritarie, oggi meglio definite come totalitarie. L'idea fon- damentale che non c'è autorità senza limite morale, che questo limite è implicito nell'idea stessa dell'autorità, in modo tale che se esso viene a mancare il valore dell'autorità sparisce ( o b d i r e oportet Deo magis quam hominibus), si realizza nella vita so- ciale sotto due aspetti: a) la resistenza personale di colui al quale viene dato un ordine immorale, a mezzo del rifiuto di obbedire; b) l'azione positiva di coloro che sono responsabili, per ricondurre I'autorità nei limiti che ha oltrepassato o tentato di oltrepassare.

Ho scritto uno studio sul diritto di rivolta e suoi limiti in un'altra rivista cattolica, alla quale mi permetto di rinviare ,i lettori che s'interessano al mio lavoro (l). Non posso ritornare sull'argomento; del resto, non è questo tema particolare che sa- rebbe da sviluppare, ma quest'altro, più vasto, del dovere di obbedienza alle autorità stabilite.

I1 punto che desidero mettere in rilievo qui è questo: il do- vere dei cittadini è di far valere a mezzo della loro legittima aitivita (sio legale sia pizìel-:ega:e i: linite morale del- l'autorità, quando quelli che sono al potere lo dimenticano O

non ne tengono conto. Per questo bisogna che i membri della . azione cattolica siano bene istruiti sul valore di un tale limite e siano formati a farlo valere con tutti i mezzi leciti.

Siamo stati abituati a difendere i valori morali e sociali in un regime di democrazia e di opinione, dobbiamo adesso abi- tuarci a farlo del nostro meglio nei regimi totalitari, anche se bisogna ritornare .alla vita delle catacombe, e anche rischiare d i passare per dei congiurati e nemici dello stato, della nazione, della razza, della classe e dell'umanità.

I1 limite morale, essenziale per ogni autorità, si estende dal- lo stato alla comunità internazionale. Senza alcun dubbio, un principio di comunità di stati esiste dal momento in cui a cau- sa della vicinanza, dell'affinità di lingua e di cultura, e di inte- ressi reciproci, i popoli comunicano tra di loro. Non sono man- cati tentativi di organizzazione positiva di una tale comunità. Nessuno può negare la base morale di tutta la costruzione giu- ridica attuale del diritto internazionale, storicamente derivante dal diritto canonico e dallo Zus gentium.

Coloro che confondono ( e sono numerosi) il diritto con la

(*) La Vie Zntellectuelie, 31 ottobre 1937. Cfr. anche, stessa fonte, 10 set- tembre 1938, u Deil'obbedienza ai poteri costituiti D; qui riprodotti, v. pp. 163 sgg. e 283 sgg.

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legge positiva, e che fanno consistere l'essenza del diritto (iuri- clicitas) nel potere' di coazione, arrivano a negare ogni valore giuridico al diritto internazionale. Secondo essi non può esistere alcuna autorità al di sopra dello stato; i trattati e le alleanze non valgono che per la volontà dei contraenti; il .ricorso alla forza è il solo mezzo adatto a garantire un ordine internazio- nale, la stessa moralità intemazione non ha alcun valore nor- mativo.

Non è da dubitare che tutti i moralisti rigettino tanto le premesse che le conseguenze di così fatta teoria, ma non per- verremo a vincere tutte le difficoltà, se non avremo il coraggio d'accettare, malgrado tutto, la tesi della limitazione della sovra-

, nità degli stati nei rapporti internazionali. I1 moralista deve far valere le esigenze della società internazionale come esigenza etica, e sottoporre al giudizio della morale ciò che favorisce o impedisce la realizzazione di questa società. Gli otto teologi, riuniti a Friburgo in Svizzera nell'ottobre 1931, pubblicarono le « Conclusiones conventus theologici Friburgonsis de bello D, in cui essi affermavano questo principio, invero un po' timida- mente: « Docent praedicti aiactores (christiani ghilosophi) sia- premam status auctoritatem externam non idem sonare RC in- dependentiam inconditionatam, sed potius significare libertatem

t, qua eligantur organisationis formae, technicae artis methodi, iuridicae disciplinae et politicae institutiones, quae ad boniim commune internationale instaurandum aptiores esse videantur n. Bisogna che i filosofi cristiani diano qualche cosa di più ai mo- ralisti per arrivare al punto necessario, cioè per far loro accet- tare il principio che gli stati in quanto associati acquistano, nella materia specificamente propria, una co-sovranità interna- zionale.

Così potrebbero essere risolte e superate le questioni di intervento, di non-intervento, di neutralità, di limitazione degli armamenti e di sicurezza collettiva, di diritto coloniale e di mandato: tutto un complesso di istitufzioni oggi incerte e flut- tuanti, che lanciate nel gioco delle forze materiali, perdono i l loro carattere etico fondamentale. Nello stesso tempo, alla luce di una moralità più cristiana, si possono riesaminare i proble- , mi degli emigrati, dei fuggiaschi, delle minoranze, e delle que-

astieni ancora più difficili e risolte in modo egoista, come quelle dell'economia controllata, delle tariffe doganali, dei prezzi inter- nazionali, delle monete ed altre questioni simili.

Per quanto occorra desiderare una migliore organizzazione internazionale, che potrebbe estendersi a tutti gli stati senza eccezione, e per quanto certi aspetti politici e giuridici della O.N.U. siano criticabili, non si può concludere che oggi man-

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chiamo di una legge e di una società di'stati e che la guerra sia l'ultimo mezzo di regolare i conflitti internazionali. La teologia morale ha sempre guardato alla guerra come ad un'eccezione, all'estremo mezzo legittimo, se è giusto, se è ordinato da un'au- torità competente, se è proporzionato al fine e se è necessario. Per uniformarsi alla tradizione teologica, oggi bisogna rivedere i criteri d i competenza, di giustizia, di proporzione e di necessità.

Per quanto riguarda la competenza, non si è ancora tenuto conto, in .teologia morale, delle disposizioni del patto della Società delle nazioni, che interdicono agli stati aderenti di in- traprendere una guerra senza aver prima seguito la procedura prevista per i conflitti internazionali. I1 che vuol dire che l'au- torità di questi stati non è competente a decidere una guerra se non nei quattro casi previsti dal covenant; fuori dei quali, e senza la procedura che l i classifica, essa non è più legittima.

La condizione di competenza, secondo san Tommaso e gli altri scolastici e moralisti del suo tempo, si riportava al sistema feudale del signore che doveva attendere, per fare la guerra, I'autorizzazione del sovrano; questi poteva rifiutarla, richia- mando la questione al suo tribunale. Oggi, ci sono altri costu- mi, altri sistemi, ma il criterio del limite di competenza resta ii medesimo.

Per la giustizia, occorre che la teologia non guardi alla ca- sistica antica, che è fatta ai tempi in cui gli eserciti di for- i tuna mercanteggiavano la vittoria per limitare il numero dei morti o in cui i monarchi senza denaro si limitavano a scara- mucce o scontri che si chiamavano battaglie. Non voglio dire che allora la guerra fosse un gioco; ma le guerre di quel tempo non erano paragonabili a quelle d'oggi, dove si possono mobi- litare quasi quaranta milioni di uomini e perdere in una guerra d i quattro anni e tre mesi più di undici milioni di vite umane. Nel 1914-18 l'aviazione era ai suoi iniii: oggi si son fatti pro- gressi nell'arte di uccidere: una guerra generale ( e la storia insegna che in Europa le guerre particolari causano sempre le guerre 'generali) sarebbe la catastrofe.

A proposito della guerra d'Etiopia, Pio XI, nel suo discorso del 28 agosto 1935, ricorreva ad un dilemma dicendo: u Se si tratta d i una guerra di aggressione, essa sarebbe ingiusta; se si tratta d i una guerra difensiva, non bisognerebbe oltrepassare i limiti della moderazione perche resti giusta. In effetto, la pro- porzione tra il diritto alla difesa ed il mezzo impiegato dalla guerra contiene in sè il criterio di giustizia necessario D. Dato il tipo della guerra moderna e il diverso apprezzamento del- l'onore di un re, chi potrebbe accettare oggi l'opinione di Sua- rez che diceva che, se un principe « porta un grave attacco alla considerazione od all'onom » di un altro principe, ciò può co-

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i', ' 1, i,

stituire una causa di guerra giusta e proporzionata? Oppure è giusta e proporzionata una guerra che ha per scopo la prote- zione d i un commercio o di altri beni che sono tali in dipen- denza dello ius gentium, come pensa il Suarez?

, Per arrivare all'idea d i necessità di una guerra oggi non si può più chiamare necessaria alcuna guerra come mezzo inevi- tabile. Allo stato attuale della civilizzazione. si d i s ~ o n e di mez- . zi sufficienti per salvaguardare i propri diritti senza ricorrere ' alla guerra. I giuristi moderni chiamano 'necessaria una guerra che sia intrapresa per interessi vitali dello stat0.f Nelle Corcclu- sioni di Friburgo, già citate, si negava espressamente un tale criterio di necessità (che non corrisponde a quello degli scola- stici), vi si ammetteva soltanto il caso di legittima difesa, come limite di necessità: « Sed haec legitima defensio non importat ipso facto ius exercendi actionem punitivam in aggressorem nec instaurandi processum socialem belli ita ut, non nisi armorum sorte, solvatur lis inter aggressorem eiusque victimam ».

Contro i pessimisti che pensano che la gùerra è una eredità fatale dell'umanità decaduta e che è im~ossibile all'uomo di li- berarsene, bisogna affermare che la virtù del cristianesimo non è esaiirita. Se, tra le popolazioni cristiane, si sono potuti vince- re la schiavitù, la poligamia, la vendetta tra famiglie, non è contrario ma conforme allo spirito di Cristo tendere a vincere anche la guerra. I1 documento di Benedetto XV (l0 agosto 1917) è il più importante contributo del papato in vista di un'orga- nizzazione pacifica degli stati. L'eliminazione possibile non è quella della guerra come fatto (perchè si- possono trovare anco- ra oggi dei casi di schiavitù, di poligamia o di vendetta), ma della guerra come mezzo legittimo, ammessa e riconosciuta co- me tale dagli stati, dai moralisti e dalle persone oneste; in mo- do che la guerra venga ad essere caratterizzata come un delitto, allo stesso modo che la riduzione in schiavitù o l'assassinio di un nemico personale.

Tutto ciò suppone non solo una legge internazionale, ma una organizzazione giuridica che assicuri l'osservanza di detta legge mediante i mezzi più adatti per farla rispettare. I mora- listi non sono chiamati a formare una tale organizzazione, ma a darne i contorni etici, e creare l'opinione favorevole ed a cor- reggere gli errori della mentalità oppositrice.

Immediatamente dopo la grande guerra; malgrado le note- voli oscillazioni, l'orientamento dei moralisti è stato in tal senso. Ma, appena scoppiate le ultime guerre, si è realizzata un'involuzione pratica e persino teorica. Non è qui i l caso di .

fare una critica di certe posizioni di riviste cattoliche sulla So- cietà delle nazioni e sulle guerre recenti. I1 fenomeno attuale può paragonarsi a quello che ebbe luogo nel XVI secolo a pro-

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posito della schiavitù. Allora, grazie alla scoperta del nuovo mondo, si ebbe una ripresa dell'uso di fare e tenere degli schia- vi. Non mancarono scrittori ecclesiastici per giustificare un tale uso. Las Casas non fu il più ascoltato. Neanche oggi coloro che - scrivono contro le guerre presenti, annunciatrici della nuova guerra generale, e contro i metodi di guerra, fra cui il bom- bardamento delle popolazioni civili e l'uso dei gas asfissianti, vengono ascoltati, ciò che è segno di una decadenza crescente.

Ciò che vi è di più inquietante, è la rassegnazione impo- tente dei cattolici di fronte alla massiccia propaganda in favore della guerra, della sua preparazione materiale e spirituale, della convinzione della sua fatalità. Se gli apostoli della pace devono levarsi dovunque per liberare il mondo da questo stato di ceci- tà in cui è caduto, i moralisti devono studiare la responsabilità d i coloro che fomentano le cause di guerra. Bisognerebbe in tale momento tragico evitare i l disorientamento e lo sbanda- mento dei moralisti. . .

Gli insegnamenti ~ontif ici e la tradizione teologica bastano per ricondurre sulla diritta via; la filosofia tradizionale e la sociologia cattolica sono preziose per interpretare i problemi attuali. Ciò che rende il loro compito difficile è il soffocamento del p~iiaiero cristiano sotto i'azione del naturalismo pratico: questo spirito nefasto è penetrato nella mentalità moderna ed ha formato poco a poco un pubblico incapace di comprendere e di ascoltare la voce di una morale superiore che domanda dei sacrifici, anche nel dominio della politica nazionale ed inter- nazionale. È ben tempo d i reagire.

Londra, luglio 1938.

(Nouvelle Revue Théologiqzw, Paris, sett.-ott. 1938). Arch. 13 A, 1

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L'ORDINE INTERNAZIONALE

I rapporti fra i popoli debbono essere guardati sotto due aspetti: quello ideale a cui mirare; quello possibile da realiz- zare.

L'ideale è la pace. Quale pace? quella che gli antichi defi- nivano tranquillitas ordinis e noi diciamo ordine stabile ga- rantito D.

Occorre anzitutto un ordine. Questo è di doppia natura: mo- rale e volitico.

Ordine morale: i principi su cui si basano i rapporti inter- nazionali: rispetto dei diritti, osservanza dei doveri, patti sti- pulati sulla giustizia e con libertà, fedeltà ai patti e alla parola data.

Ordine politico: quello storico che si è concretizzato in u n dato tempo, in un dato gruppo di stati, al lume dei principi morali.

L'ordine morale è nei suoi principi immutabile; l'ordine volitico non è assoluto. ma relativo ai fatti storici da cui è nato, ai diritti concreti con cui si è realizzato, al\e aspirazioni dei popoli di cui vive.

Ma per esservi ordine, bisogna che sia stabile; .per essere stabile deve essere equo e deve poter essere garantito; se non è equo, i colpiti dall'ingiustizia si agitano; se non è garantito con la forza, i demagoghi e gli ambiziosi ne profittano.

Un ordine non difeso non è stabile: un ordine instabile non è più ordine ma disordine; non è pace ma apparenza di pace, fino a che all'interno viene la rivolta e all'esterno la guerra. '

Questo lo stato attuale: un ordine morale internazionale, quello della Lega delle nazioni, affermato a parole e negato e fatti da coloro che avevano l'obbligo e l'interesse d i tutelarlo; un ordine politico incerto e instabile.

Wilno. la divisione dell'Alta Slesia. Corfù. le minoranze DO-

lacche, l'accettazione della Russia a Ginevra senza garanzie per la libertà religiosa, la persecuzione ai giudei, il mancato di-

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sarmo, l'aggressione alla Manciuria, l'invasione del19Abissinia, l'intervento straniero in Spagna, la seconda guerra giapponese i n Cina, l'occupazione dell'dustria, sono state violazioni del patto della Società delle nazioni, atti'contro l'ordine morale e contro l'ordine politico internazionale.

I Quali principi restano oggi in piedi nella vita dei popoli? Scriveva Benedetto XV nell'invito ai capi degli stati belligy ranti, i l lo agosto 1917: « 1) Tout d'abord le point fondamen- tal doit 6tre qu'à la force matérielle des armes soit substituée la force morale du droit »;

« 2) un juste accord de tous pour la diminution simultanée et réciproque des armements »; -

« 3) I'institution de l'arbitrage avec sa haute fonction paci- ficatrice » ;

4) sanction contre 1'Etat qui refuserait soit de soumettre les questions internationales à I'arbitrage, soit d'en accepter les decisions ». .

Si dirà: ma questo è i l Covenant? ma questa è la Lega? Certo : se non c'è una comunità internazionale basata su tali

principi morali e cristiani, non vi sarà nè ordine, ?è pace in Europa e nel mondo. Ma fascisti e nazisti rifiuteranno? Essi vogliono non una comunità intemazionaie, ma il dominio della forza e degli ideali di forza. 1

È vero: per resistere a fascisti e nazisti, il primo terreno è quello morale dei principi: negare il diritto della forza a ri- solvere i problemi internazionali; difendere fin dove è pos- sibile il debole e I'opresso; rispettare i patti e la parola data; r i ~ a r a r e le ingiustizie commessé: cercare tutti i mezzi onesti e .., conciliativi per evitare la guerra.

Ma fin da ora affermare che la guerra non risolve i pro-- blem'i dei popoli, ne aggrava i mali e crea altri problemi più gravi e più difficili; eccita gli odii e le violenze; crea una psi- ' . cologia feroce e distruttiva; nessuna guerra arriva agli scopi prefissi, neppure quelle credute sante. Solo la pace operosa. e ricostruttiva, morale e perciò cristiana, può risanare le piaghe del passato e ridare ai popoli la tranquillità e la speranza nel loro avvenire.

(Catholic Worker, New York, maggio 1938). Arch. 13 A, 9 (l) .

(l) Vedere a pag. 276 'sgg. una redazione più ampia, che non risulta pub- blicata.

3 14

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L'ORDINE INTERNAZIONALE' E LA PACE

I1 19 di questo mese autorevoli cattolici si riuniranno a ' 1'Aja in congresso per discutere: Les bases de I'ordre interna-

tional ». \ Nel presente discredito della Società delle nazioni e nella

mancanza di una salda concezione morale, una voce che parta dai cattolici e che sia chiara, netta, precisa, sul problema del- l'ordine internazionale è veramente un bisogno sentito.

Chi stima che i trattati si Dossono violare. che la fede data. , non abbia valore fra gli stati, che si possa aggredire un altro popolo con le armi, e, se colto il successo, avere il consenso, l'appoggio, il plauso anche, non deve credere più che esista o possa esistere una morale internazionale: l'ordine si confonde -

con la forza. Possibile che Gesù Cristo, venendo a.insegnarci la sua legge

di amore, di carità e di giustizia, lasciò libero alle passioni umane il campo internazionale?

Quando Gesù spiegò ai discepoli che (C sol quanto esce dal- l'uomo lo contamina, perchè dall'interno, cioè dal cuore degli uomini, escono cattivi pensieri, adulteri, fornicazioni, omicidi, furti, cupidigie, malizie, frode, libidine, invidia, bestemmia, su- perbia, stoltezza n, vi comprese tutte le azioni umane. Perchè quelle che hanno per scopo la politica dovrebbero essere eccet- tuate dalla contaminazione del peccato? Forse che non sono spesso anch'esse (C omicidi, furti, cu~idigie, malizie, frode, in- vidia, bestemmia, superbia, stoltezza »?

Quando Napoleone fece prendere ed uccidere ( in termini politici: exécuter) il duca d'Enghien, lo fece per raison d'état, ma forse non commise un delitto? quando Napoleone invase la Spagna senz'altra ragione che la sua politica imperiale, forse non commise un'aggressione? Quando il governo d'Austria e il suo imperatore Francesco Giuseppe, nel 1914, rifiutarono 10 arbitrato e vollero iniziare contro l a Serbia una guerra di puni- zione (ciò che i teologi chiamano eccesso di difesa), la quale

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altro non era se non una guerra di aggressione, non commisero forse un atto contro la morale cristiana?

Fermiamoci agli esempi del passato: quelli dell'oggi sono conosciuti da tutti.

Chi giudica della moralità degli atti di un governo o di un re?

In paesi ~ostituzionali sono i cittadini, gli elettori, i depu- tati che discutono nelle assemblee, nella stampa, nei parlamen- t i e possono consentire o dissentire.

In paesi d i assolutismo, la coscienza dei soggetti rimane inespressa, perchè non libera; ed è spesso indebolita; per ciò non mancano ai monarchi, ai dittatori, lodi, plausi, adulazioni, e festeggiamenti per i loro stessi delitti.

Che perciò? *

Ogni atto 'immorale è anzitutto un peccato avanti a Dio e alla propria coscienza; è un peccato anche davanti $li uomini: un disordine interno ed esterno, individuale e. sociale; tanto basta perchè la coscienza umana, nella sua spontaneità e liber- tà lo respinga, come è respinto da Dio.

L'ordine internazionale (quello naturale e ancora più quel- lo cristiano) non può poggiare sull'immoralità elevata o prin- cipio quale sarebbe se si ammettesse che la politica internazio- nale non ha nè caratteri nè limiti morali, e che gli uomini che fanno la politica internazionale, per ciò stesso, non sono obbli- gati a osservare la legge morale.

La chiesa ha sempre interloquito in materia 'di rapporti fra i popoli e gli stati: concilii, papi, vescovi, dottori, teologi ... Fu Alberico Gentile che nel gettare le fondamenta del nuovo di- ritto .internazionale basato sui principi della legge naturale, lanciò da Oxford, nel 1588, il suo celebre monito: Silete teologi in munere alieno. Ma la chiesa non ha riconosciuto che vi po- tesse essere un diritto internazionale naturale sul quale essa non abbia il dovere di interloquire. Benedetto XV riassume in una fiase la base dell ' in~e~namento naturale e cristiano, quando scrisse, nell'esortazione ai capi degli stati belligeranti, i l 1" ago- sto 1917: u à la force materielle des armes soit substituée la force morale du droit n.

I cattolici veramente fedeli, dovrebbero essere i primi a ascoltare la chiesa; nelle parole, negli scritti, da elettori, da deputati, da ministri, da pubblicisti, da predicatori ...

Purtroppo in materia di morale internazionale molti catto- lici sono fuori di strada: preferiscono « la force materielle des armes à la force morale du droit n.

La morale cristiana, anche nell'ordine internazionale, non è altro che <t verità, giustizia e carità n, tre parole ripetute da

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Pio XI a proposito dei conflitti recenti, insieme al versetto del salmo 67 : Dissipa gentes quae bella volunt.

Quando si approvano le aggressioni, si lodano le guerre, riu- scite anche se ingiuste, si accettano le violazioni dei trattati, si difendono i bombardamenti aerei contro le città e i villaggi indifesi e fuori della zona di guerra, o comunque fatti per ter- rorizzare le popolazioni civili e i non combattenti; quando si irride a tutti gli sforzi fatti o da fare per costruire una comu- nità fra gli stati, come se questa potesse nascere bella e fatta, Minerva dalla testa di Giove; quando si basa la società sulla forza, sul dominio di razza, sulla oppressione delle minoranze, dei dissidenti, dei deboli, allora non si ascolta la chiesa, non si obbedisce al Vangelo, non si gettano le basi di un vero ordine internazionale, non si potrà mai ottenere la pace, quella che la chiesa prega dicendo: Da pacem, Domine, in diebus nostris (l).

(Popolo e libertà, Bellinzona, 18, agosto 1938).

(l) Un testo quasi identico era apparso anche su People and Freedom, aprile 1938, e su Catholic Worker, luglio 1938.

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11. /

IL NAZIONALISMO « ESAGERATO D

Fin dalla sua prima enciclica Pio XI condannava il nazio- nalismo esagerato; ora la condanna è stata più forte e speria- mo, per tutti i cattolici, definitiva.

Ci si domanda perchè la chiesa ha condannato tout court il liberalismo, il socialismo, il comunismo, mentre per il naziona- lismo si limita a condannare quello esagerato, ammettendo così un nazionalismo, diremo ortodosso.

Nel caso di errori la chiesa non crea nè le parole nè il si- gnificato per il fatto stesso che la chiesa non può generare errori. Per difendersi da quelli che nascono fra i cristiani, la chiesa non può fare a meno di usare le parole nel significato corrente.

La parola liberalismo pur venendo da libertà (che la chiesa non può non ammettere ~ e r c h è dono di Dio) ne esprimeva in

'

un momento storico un'esagerazione; fu quello il significato corrente, perchè il liberalismo si basò sull'autonomia non so10 politica ma morale e religiosa dell'uomo, il che costituiva un eccesso di libertà.

Lo stesso si può dire del socialismo (da società) e del comu- nismo (da comunione o comunità) dal punto di vista dei rap- porti economici, presentati come gli unici, veri rapporti umani, che in sè assorbono tutti gli altri. L'esagerazione era insita nel significato, sia pure arbitrario, dato a quelle parole. E le pa- role corrono come le monete: quella falsa caccia quella buona.

I1 nazionalismo si presentò con faccia benigna per quanto . la desinenza in ismo indica già una tendenza, una teorizzazione, un sistema, pure fu fatta passare per l'amore e la difesa legit- tima della nazione. Non fu estraneo un motivo a fondo politico e sociale: il nazionalismo si presentò come sistema di difesa dal socialismo e dal comunismo ch'erano, allora, internazionali- sti, pacifisti e classisti al cento per cento. I1 nazionalismo, come ogni altra difesa degli interessi della borghesia, trovò facile cittadinanza presso i cattolici. Comunque sia, poichè un certo nazionalismo è, nell'uso comune, inteso come legittimo, il papa

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per colpirlo dovette aggiungervi un aggettivo che ne' pal if ica l'eccesso : nazionalismo esagerato.

Qui ci si domanda: dove finisce i l nazionalismo legittimo, an- che ortodosso, e dove comincia quello esagerato. ' Gli esegeti non mancano; non solo non sono d'accordo, ma non sembra che abbiano trovato la base solida di un criterio filosofico ed ético. Non pretendiamo di averlo trovato noi gri- t

dando 1'Eureka ! di Archimede ; vogliamo solo contribuire alla discussione, mettendo avanti qualche idea.

L'attuale significato della parola nazione ha due origini: quella francese della rivoluzione, d i carattere democratico e razionalista, quando la nazione francese fu messa di fronte e anche opposta alla monarchia di Luigi XVI ; e quella germanica della reazione antinapoleonica, quella delle lettere di Fichte alla nazione germanica, di carattere mistico e volontaristico. I n sostanza il nazionalismo francese tendeva alla presa di co- scienza politica dei francesi nell'ordine interno; quello germa- nico si affermava dall'interno all'esterno vis-à-vis dell'invasore presente o di m nemico fi~tiiro, sotto il principio di un'anima, di una volooti mistice.

.La nazione italiana esisteva prima del risorgimento come entità storica, culturale e morale, ma non sul piano politico. Ottenuta con rivolte e guerre l'unità politica, cercò d i arrivare ad una omogeneità interna di carattere etico-politico (periodo liberale e popolare). Oggi, tutto il fascismo tenta un'omogeneità di anima per espandersi all'esterno e opporsi agli altri.

L'Italia ha avuto così il periodo razionalista e ora quello mistico.

La Svizzera si chiamò Confédkration Elvétique: ora si parla di Nation Suisse. Non si tratta nè di un popolo omogeneo nè di una creazione che tende a divenire omogenea, perchè non ne ha la possibilità nè il vantaggio.

Non vi è un nazionalismo elvetico; ma solo una nazione svizzera.

I1 Belgio è anch'esso una nazione a due lingue: ma sventu- ratamente le divisioni linguistiche compromettono il carattere dell'unità nazionale così che il nazionalismo opera sul piano della nazionalità e su quello della politica.

Una parentesi: non confondiamo con l'idea della nazione quella delle nazionalità che compongono uno stato e che riven- dicano certi diritti culturali e economici.

I1 principio a cui fare appello in tale difesa non'è il nazio- nalismo nel significato corrente, ma il nazionalitarismo, cioè il diritto d i nazionalità, che può contenere o non contenere idee nazionaliste siano o no esagerate.

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Per esempio: la questione dei sudeti della Cecoslovacchia è per sè una questione di nazionalità e di minoranza nazionale sul piano culturale ed economico.

Ma il movimento di Menlein ha preso la questione e l'ha trasportata sul piano nazionalista, sia per rivendicazioni razziste sia per il carattere irredentista (d i distacco dallo stato cecoslo- vacco) che in fondo contiene l'agitazione presente.

Si può trovare qualche somiglianza nel movimento estremi- sta dei fiamminghi.

Intesi così i termini, troveremo il punto di demarcazione del nazionalismo legittimo e di quello esagerato.

Primo momento. Una nazione cerca d i prendere coscienza d i sè come popolo, con tradizione, cultura e vita propria. Nes- suno può negarne la legittimità: chi vi si oppone ha il torto d i impedire che altri arrivi dove gli opponenti sono arrivati: è il caso degli ucraini in Polonia, di quelli che non vogliono atten- tare allo stato polacco. ma esigono il riconoscimento dei propri diritti, specialmente il rispettn del rito greco, sie cattolico, o i s ortodosso. Fu il caso del171rlanda dell'Home RuEe e .del Free State. Ma se l a nazione attenta all'esistenza dello stato per slealtà, tende a disgregare l'unità del paese, lede i diiit'ti degli altri, sotto pretesto della difesa propria, allora cade nel nazio- nalismo esagerato.

Secondo momento : la nazione formata, cosciente, forte, ten- de all'espansione delle proprie forze: se questa è senza detri- mento degli altri, può essere un buon nazionalismo, da esami- narsi caso per caso. Ma se l'espansione è fatta con lesione dei diritti altrui, allora si tratta di nazionalismo esagerato.

In conclusione, là dove, per formare, affermare ed espan- dere una nazione si violano i principi di giustizia e di amore del prossimo, ledendo o menomando i diritti altrui, c'è nazio- nalismo esagerato. La misura di tale giudizio è strettamente mo- , rale e non politica. La chiesa non fa della politica. Secondo la politica il nazionalismo può essere reale o fittizio, basato sulla storia o immaginario, organico o anarchico e così via. Ma solo dal punto di vista morale esso può essere ammesso dalla chiesa come legittimo, o esso è condannato come cc esagerato D.

I cattolici hanno sempre in mano questa misura etica dei loro pensieri, delle loro azioni e anche delle loro omissioni e delle loro responsabilità, non solo nei casi personali, ma in quelli collettivi e d i gruppo: « la giustizia e l'amore del pros- simo ».

(Popolo e libertà, BeJlinzona, 1 settembre 1938).

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12.

LA LIBERTA'

La libertà è come l'aria, si sente solo quando manca. Dove c'è aria, noi pensiamo alle nostre occupazioni, allo studio, al lavoro, al piacere; se l'aria manca, tutto ci fa soffrire; impos- sibile lo studio, il lavoro, lo stesso piacere, nulla; noi deside- riamo, anzitutto, soprattutto, l'aria, un po' d'aria per respirare ...

La differenza tra l'inglese, il francese, lo svizzero, il belga, che vive in regime democratico ed il tedesco o l'italiano che vive in regime totalitario, è tutta li: l'inglese ha la libertà e non ne sente bisoeno: il tedesco non l'ha e ne sente bisoeno. '

'2 " In regimi assolutisti hanno la libertà quelli che hanno i l

potere; più illimitato il potere, più senza limiti la libertà. Chi porrà loro freno se vorranno perseguitare ebrei e cristiani? Essi non patiscono limiti morali, perchè si credono al d i sopra di ogni legge, religiosa ed umana che non sia la loro volontà; non limiti politici, perchè nessun parlamento, corpo elettorale, opi- nione ~ubb l i ca DUÒ valere contro di loro. Essi hanno. monopo-

A

lizzato la libertà riunendola al potere; tutto i l potere vale tutta la libertà.

Cicerone diceva che la libertà è una partecipazione al po- tere. Così i l parlamento è stato la garanzia delle libertà tradi- zionali dell'hghilterra di fronte ai monarchi con tendenza as- solutista. Nè tutto il potere al re, nè tutto il potere al parla- mento; ciascuno al sue rango si sono limitati a vicenda e si sono garantiti la libertà delle proprie funzioni. Così negli altri paesi democratici.

Non è tutto; il popolo ha la sua funzione e quindi deve a v k e la sua libertà: esso vota, forma i partiti, partecipa al go- verno locale, prende iniziative, agita l'opinione pubblica, pro- testa, se occorre si impone con la stampa, le riunioni, le assem-

. blee pubbliche, nelle strade e nei parchi e nelle piazze. Non pochi inglesi, critici del proprio .sistema, dicono che

qui non c7è vera libertà; perchè il capitalismo, la City, tiene una posizione preponderante, nella stampa, nel partito conser-

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. 21 - STURXI - Politica e morale

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vatore e nel gabinetto. Ciò in parte è vero. La potenza del de- naro è stata sempre forte, ieri e oggi, e anche nel medioevo e nei tempi antichi di Grecia e di Roma; ma non è nè illimitata nè incontrollabile. Spetta agli uomini di coscienza e di sapere, alle cbiese, alle classi medie e lavoratrici, contenere nei giusti limiti la potenza del denaro e fare fronte ai pericoli del capi- talismo irresponsabile e debordante. In Inghilterra, come altro- ve, in tutti i paesi democratici è lo stesso.

La lotta di un secolo per la conquista delle leggi sociali e per il benessere dei lavoratori non è ancora esaurita? La ri- presa dell'azione educativa della chiesa per la gioventù e presso le classi operaie data appena da mezzo secolo; può dirsi ch'è ancora al suo primo inizio.

, La libertà non è un punto di arrivo che si guadagna una volta per sempre; la libertà è una conquista quotidiana, sem- pre insidiata e sempre messa in pericolo dalle forze contrarie. Come ciascun di noi, per non cadere schiavo dei vizi ed essere moralmente libero della libertà che Dio ci ha dato, deve com- battere tutta la vita, così è delle libertà politiche e sociali: com- battere ed essere pronti a rigettare queiVvincoli che vorrà im- porci un potere assoiuto, sia il dittatore di destra o di sinistra, sia il capitalismo degli affaristi o il comunismo degli illusi.

La libertà non è per un solo o per i pochi: la libertà è per tutti: questo solo fatto pone un limite morale e naturale agli eccessi di un solo (dittatura) o di ~ o c h i (oligarchia del capitalismo o del militarismo) o della folla (demagogia ed anarchismo).

La vera libertà è anzitutto libertà morale; essa è la base del diritto. è discidina e ordine. essa è una condizione necessaria alla pace, sia iell'interno di 'una nazione, sia nei rapporti. in- ternazionali.

Perciò il cardinale Pacelli scriveva a nome del papa Pio XI nel luglio scorso ai cattolici di Francia riuniti nella settimana sociale di Rouen: « On ne s'étonnera pas qu'elle (1'Eglise) soit restée le seul et le plus grand défenseur de la vrai liberté 1).

(Popolo e Libertà, Bellinzona, 19 novembre 1938). Arch. 12 A, 19

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13.

CONQUISTA ED ESPERIENZA DELLA LIBERTA'

Quante volte, discorrendo di libertà politiche, e mostrando i l grande interesse che abbiamo a stabilirla su basi filosofiche salde e con orientamenti socioloeici e storici chiari. mi son seni " tito dire: u Questi problemi non interessano, sono troppo teori- ci; diteci come sarà possibile mantenere oggi le libertà politi- che in un mondo che si vuole rifare sulla forza e sulla volontà di dominio D.

E quanti, a magnificare questo titanismo che sottomette tue- te le volontà a quella di un solo, per ottenere un successo mate- riale a spese dei valori morali, per esaltare la collettività a danno dell'individualità della persona umana!

A coloro che oggi dubitano del valore della libertà, ovvero che pur accettandone i l valore, non vedono come possa rista- bilirsi in un mondo che ne ha perduto il senso, che ne ha tra- viato i caratteri, è diretto questo scritto per interessarli ad una tesi, non nuova certo, ma che non si suole nè esporre nè ap- ~rofondire.

La libertà, come tutti i valori umani a carattere spirituale, bisogna che sia sempre continuamente conquistata ed esperi- mentata. Quel che accade all'interno della nostra coscienza, ac- cade nel campo vasto della società, perchè la società (vita in comune di uomini coscienti) è una ~roiezione della coscienza nelle mutue relazioni umane.

Così è della libertà presa in singolare, come principio di autonomia e di responsabilità personale; così è delle libertà al pliirale, come attuazione di quel principio nelle relazioni sociali.

Avete mai pensato che quella che i filosofi e i sociologi chia- mano libertà originaria (che non può mai mancare nella for- mazione dei nuclei sociali), sia una libertà che anche noi pos- siamo conquistare ed esperimentare?

Molti scolastici sostennero la tesi di un contratto originario nella formazione della società politica come libera attuazione di

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una necessità di natura: la società ordine necessario; tale so- cietà, fatto libero. Hobbes, però, partendo dalla idea di una natura cattiva, sostenne che i l popolo dandosi o accettando un capo, cede tutta la sua libertà per sempre. Rousseau, al con- trario, partendo da una natura buona, sostenne che il popolo mantiene intatta la libertà che diventa sovranità popolare.

Voi'direte, tutto ciò è scuola, teoria, filosofia. Io dico, tutto ciò è interpretazione (vera o erronea) di una realtà fondamen- tale.

Quando i cecoslovacchi, nel settembre scorso, furono messi nella alternativa di battersi e soccombere ovvero di cedere e perdere la libertà, furono posti d i fronte al problema fonda- mentale della libertà originaria; essi avevano coscienza di pos- sedere una libertà fondamentale, quella di poter decidere della loro esistenza politica, una volta che veniva rimessa in discus- sione. Questa libertà fu compromessa: il tempo premeva, gli alleati mancavano, Londra e Parigi insistevano: essi scelsero il minor male o i l creduto minor male e perdettero la loro libertà come nazione indipendente, o almeno gran parte della loro li- bertà. Coloro che oggi sentono la p ~ r d i t ~ . frtt~. , per?aacc ccme riguadagnare il passato perduto, in venti, trenta, cinquanta anni, '

un secolo anche: essi si mettono a ripensare la libertà in ter- mini originari, come se si dovesse costituire un nuovo popolo, una nuova realtà collettiva, un patto, un Covenant non più fra gli uomini d i oggi, ma fra .la coscienza di quelli che oggi lo de-

l siderano e lo vogliono e la generazione che potrà realizzarlo. Certi sociologi ci parlano di libertà organica; che è mai

questa che ci possa interessare per conquistarla ed esperimen- tarla? Ecco: la Spagna repubblicana del 1931 fece una momen- tanea e rapida esperienza della sua libertà originaria, quando rigettò la dittatura militare e monarchica. Ma senza organi che assicurassero l'esercizio della libertà è impossibile vivere, così come sarebbe per noi vivere senza orecchie, senza occhi e senza mani. La repubblica del 1931 si diede una costituzione, creò organi e formò quadri, adattando l'esistente al nuovo. Ma gli organi creati in ambienti di intolleranza, d i sospetto, d i lotta fra partiti, che tendevano al monopolio, mancavano del vero necessario, la libertà del loro funzionamento, la libertà orga- nica. La repubblica cadde nelle rivolte, nei pronunciamenti e finì nella guerra civile. Oggi e domani il problema spagnolo andrà posto di nuovo sul terreno della libertà originaria; essere uno stato libero o uno stato totalitario. .

Quante volte in Francia non si parla di tirannia della mag- gioranza, tirannia del parlamento sull'esecutivo, tirannia dei partiti, intolleranza anticlericale o clericale, proletaria o capi-

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talista? La libertà organica C'& stata in Francia, ma deficiente, senza equilibrio, affermata per gli uni e negata per gli altri. La democrazia francese manca di un (C organicismo D, è stata indi- vidualista alla base e centralizzatrice in alto. senza anelli suffi- cienti per un'articolazione agile e per un costante equilibrio delle arti.

1

Hanno coscienza i francesi amanti della libertà dicendo che i l loro organismo sociale è da rifare? Quante volte se n'è parlato, ma senza convinzione? o senza sanere trovare i rimedi? Pensare che alla base di un sistema elettorale organico ci vuole un si- stema elettorale organizzato, che manca; la rappresentanza pro- porzionale, ne avrebbe agevolata la formazione, ma sono becine d'anni che se ne parla.

La verità è che al fondo manca il senso di quella libertà che i filosofi chiamano finalistica. Questa è insita alle società come tali (non sarebbe umana altrimenti), ai suoi organi (non sareb- bero organi sociali senza finalismo). Ma l'uomo non ne prende coscienza che quando (o come singolo o come associato) vuole rifarne la esperienza, cioè arriva a quello stato psicologico nel quale intelletto e volontà, creano l'azione cosciente. Dico a,' .zone cosciente, non impulso incosciente, non passione cieca, non fre- mito di folla, non dimissione della propria volontà in quella di - un altro, non esaltazione isterica (non so perchè oggi si chiama . I

mistica!) verso un capo ; no : ma azione cosciente per un fine vo- luto, per una libertà da affermare, conquistare, esperimentare.

Come sarà possibile ciò? In paesi dove ancora esistono libertà politiche (che sotto lo

aspetto esterno possono dirsi libertà formali - quelle di stam- pa, di parola, di riunione, di associazione, di voto) è nel loro metodo e dentro i l loro quadro che bisogna agire.

Nei paesi totalitari, dove anche il respiro è controllato, non resta che testimoniare la verità quando e come ne sorge il do- vere: e mesta Iestimonianza è un atto di libertà £ondamentale di coscienza.

Nei paesi dove c'è la lotta armata, seguire quella parte che '

riafferma i valori morali della libertà nella giustizia; non sa- rebbe lecito combattere senza riunire insieme libertà e giustizia.

Ecco come noi possiamo e dobbiamo conquistare ed esperi- mentare la libertà, non una volta per sempre, ma tutte le volte che ne perdiamo una particella, cioè ogni giorno, così all'interno di noi come nella società, pensando che la libertà non è per noi un vantaggio politico o d1 partito, ma un valore morale della personalità umana; non è affatto una concessione degli uomini, ma un dono di Dio,

(Popolo e libertà, Bellinzona, 28 febbraio 1939).

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LO SPIRITO DELLA DEMOCRAZIA

Non cerchiamo di difendere questa o quella istituzione par- ticolare, o l a democrazia odierna, nella forma che essa ha assun- to in Gran Bretagna o negli altri paesi che ancora si dicono democratici, ma desideriamo difendere lo spirito della demo- crazia nella società moderna. Per noi lo spirito della democra- zia è libertà attuata nella vita sociale come correlativo all'auto- rità, un'autorità cui l'intero popolo partecipa, a seconda delle proprie capacità e posizione, cooperando insieme al bene comune.

, Per noi la democrazia è a un sistema politico r soris!v che comprende l'intero popolo, organizzato su una base d i libertà

' '

per i l bene comune D. Qui sta il vero spirito della democrazia, il suo più ampio ideale, così come dovrebbe essere realizzato nei paesi civili e cristiani. . .

Questo, come ideale, è i l nostro punto di partenza; e come mira pratica è i l nostro fine. Fra il punto di partenza e il fine vi è uno spazio da attraversare, ed è lo spazio storico dato da . Dio agli uomini per i loro esperimenti, i quali saranno sempre un miscuglio di buono e di cattivo, di verità e di errori, di suc- cessi e di fallimenti. Ecco la realtà.

Dobbiamo buttare nel mucchio dei rifiuti tutto ciò .che è stato costruito? Non abbiamo nulla da difendere? C'è chi, f ra noi, è tanto pessimista da dire: « Diamo una bella scopata e ricominciamo da capo n? La storia non procede così. Allorchè chiunque, un dittatore ad esempio, o anche un uomo di genio come Napoleone, tenta di cambiare la faccia della terra, nello spazio d i pochi anni ciò che si credeva morto e passato riappa- rirà sotto altri aspetti. L'azione violenta non può durare perchè la storia procede attraverso una lenta evoluzione, anche quando i cambiamenti suaerficiali sono imarovvisi e clamorosi. È come

L x

il mare che, col passar dei secoli, mangia la spiaggia. I tempo- rali provocano solo danni superficiali o portano via ciò che il tempo ha già corroso.

Voler distruggere le presenti democrazie. per ottenerne d i

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migliori, sarebbe un tentativo di suicidio. E colui che tenta il suicidio, o muore o continua a vivere cieco o paralizzato, e con ancora minor fiducia in se stesso. Tuttavia con ciò non voglia- mo dire che dobbiamo difendere le attuali democrazie così com'esse sono, con i loro difetti, le loro crisi o gli uomini che le rappresentano.

Dobbiamo partire dal presente com'esso è in realtà e agire in esso, lottando per quelle ulteriori realizzazioni che ritenia- mo essere non solo le migliori ma alla nostra portata. Perciò non sosteniamo le attuali democrazie là dove esse risultano og- getto di critica, ma nella misura in cui sono veramente demo- cratiche e al tempo stesso contengono qualcosa di fondamentale e di permanente.

La democrazia comincia con la libertà

I1 suffragio popolare è alla base della democrazia. È un mezzo elementare ma genuino d i dare al popolo una parte nella vita collettiva; qualsiasi imitazione arbitraria, qualsiasi esclusione autoritaria urterebbe contro la sua genuinità. Siamo perciò fa- vorevoli al suffragio femminile: e se ciò suona come un assioma " in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, non è così in Francia e in Belgio, dove le donne- non hanno ancora il voto. Del resto anche in Inghilterra oggi esso deve essere ancora di£eso contro certi misogini. Abbiamo fiducia nel lavoro delle donne per una migliore democrazia, quando avranno avuto tempo di formare e'sviluppare le élites necessarie per una effettiva influenza sulla vita ~ubbl ica .

L

Una democrazia non ~ u ò fare a meno del ~arlamento. Coloro A

i , quali dicono male del parlamento, pensano alle crisi parla- , mentari del giorno d'oggi; ma se il cervello è malato dobbia- mo forse toglierlo del tutto? Ciò che ci vuole è la cura o le ope- razioni atte a mandar via i l male, non la decapitazione.

Lo stesso potrebbe dirsi delle libertà politiche, della libertà di voto, di parola, di riunione, di stampa. Una democrazia ri- formata, rinnovata, rimodellata secondo i nostri ideali, deve avere queste istituzioni o non sarebbe più democrazia. Tuttavia, vorremmo vederle corroborate, fortificate e meglio esercitate, col pieno senso della responsabilità che esse implicano. Non dovremmo perciò guardare con sfiducia all'introduzione del re- ferendum svizzero nei grandi paesi, per taluni tipi di leggi con- cernenti tutto il popolo, o per determinare-certi orientamenti all'opinione pubblica. In Inghilterra e in America questa fun- - zione viene esercitata attraverso scrutini rivat ti, che tuttavia sono talvolta inadeguati e perciò spesso criticati.

Ma a parte questa o quella istituzione, questa o quella rifor-

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ma che può essere adatta per un paese in particolare, c'è una base democratica che deve essere considerata come indiscutibile e che dobbiamo difendere in quanto fondamentalmente concorde con i nostri ideali. Essa consiste anzitutto nella libertà nella vita pubblica: ecco ciò che soprattutto viene minacciato dal to- talitarismo, mentre al tempo stesso è meno apprezzato e mag- giormente incompreso da talune correnti reazionarie, nelle quali sono presenti non pochi cattolici. È bene che ci fermiamo un po' su questo punto, in considerazione degli attuali orienta- menti politici.

Allorchè noi vediamo, nei paesi totalitari, che talune classi di persone - per la diversit? di razza o di opinione politica o di fede religiosa - sono bandite, o espulse, o messe in campi di concentramento, con la possibilità che i loro beni vengano confiscati, senza alcuna protezione contro gli assalti della folla aizzata contro di loro, tremiamo di orrore come davanti ad un ritorno di ciò che era chiamato l'oscurantismo. Dovremmo ren- derci conto che potrebbe accadere anche a noi, se un simile potere si instaurasse in Gran Bretagna o negli Stati Uniti o in altri paesi dove ancora ci sono modi di vita civile. La prote- zione di una legge eguale per tutti, senza distinzione d i razza . . . . . e di op i~ izze , e :! px-imc e p:= LPIUG g r a d i ~ c della liberti. Se ciò non esiste più, un paese non ha più alcun diritto di chia- marsi civilizzato o cristiano. Da questo fondamentale rispetto .della libertà personale o della dignità comincia la civilizzazione, e al tempo stesso la democrazia.

Un passo ulteriore. I diritti della persona umana non sono .

soltanto negativi, ma anche positivi. Lo stato non può assor- birli in sè, nè può assorbire i diritti di quei nuclei sociali nei quali l'individuo è in grado di sviluppare e far crescere la sua personalità, quali la famiglia, la scuola, la professione, il co- mune, e così via. Oggi lo stato cerca di invadere ogni campo, di accentrare ogni cosa, di sottomettere la persona umana alla comunità. Lo stato democratico ha mirato all'accentramento (la Francia più di tutti) e persino la Gran Bretagna ne è stata contagiata, seppure in forma più lieve. Ma quello che è cono-

'

sciuto come stato totalitario ha superato ogni previsione, cer- cando di realizzare i l dominio sulllintera attività dei suoi cit- tadini, nonchè i l monopolio sia della vita pubblica che di quella privata. Cosa resti dei valori morali'della famiglia, della scuola, dei divertimenti, del lavoro, che persino durante l'oscurantismo costituivano altrettante oasi, lo può dire chi vivesotto tali regimi.

Nei paesi democratici, abbiamo ancora una certa libertà nel- la vita familiare, nell'educazione, nell'attività grofessionale, nella organizzazione municipale e amministrativa, e non ne siamo

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completamente soddisfatti. I cattolici inglesi e americani si la- mentano, giustamente, che le loro scuole sono a carico delle par- rocchie ( e perciò a carico delle famiglie che le mantengono), mentre vengono favorite le scuole ~ubb l i che dove la religione non viene insegnata. I1 sistema scolastico francese è ancora più ingiusto. Vi sono ancora molti motivi di critica in vari paesi democratici, a proposito della posizione giuridica della donna nella famiglia e nel campo civile ed economico ( a parte le dise- guaglianze politiche). E così via, in tutti gli organismi non statali.

Coloro che ritengono che la democrazia sia soltanto un set- tore politico della vita della comunità, saranno sorpresi da quanto abbiamo detto. Essi non si rendono conto che la dRmo- crazia comincia con la libertà. Laddove non c'è libertà, non c'è democrazia. Laddove la libertà è negata a corpi sociali con vita e fini specifici propri (come la famiglia, la ~rofessione, il CO-

mune), non vi può essere democrazia. Laddove la personalità umana non è rispettata in tutti i suoi diritti 'alla vita morale e materiale, non vi può essere democrazia.

Con ciò noi neghiamo il richiamo alla democrazia che fanno il comunismo e il socialismo marxista. In questi sistemi pon vi può essere nè libertà personale nè libertà di enti autonomi. Essi sono in realtà, per natura, sistemi di livellamento sul piano economico, livellamento che dal piano economico (per essi di primaria importanza) si estende a tutti gli altri piani, compreso quello religioso.

Quando-certi socialisti dicono di accettare la democrazia e di difendere la libertà, il loro è un socialismo di compromesso. Se sono sinceri, fanno del socialismo una sorta di radicalismo sociale. Se non sono sinceri (non dico moralmente, ma intellet- tualmente), essi pensano a due fasi - una transitoria, di libera democrazia, ed una fase finale, di dittatura di classe.

Per una ragione più di fondo, cioè quella della effettiva soppressione di ogni libertà personale, noi neghiamo agli stati totalitari il diritto di chiamarsi democratici, semplicemente perchè essi promuovono plebisciti ed elezioni generali di sedi- centi parlamenti, o perchè i loro capi radunano attorno a sè folle plaudenti che rispondono con un « sì » od un « no » già determinato. Sarebbe assurdo prendere sul serio tali asserzioni.

Ma le stesse democrazie soffrono del male dell'epoca, cioè quello di pesare sulle libertà personali, per tre ragioni:

a) quella già menzionata, l'accentramento statale a scapito delle società di base e delle attività individuali, e la mancanza di organicità causata da un individuo prevalente e sempre più inquieto ;

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b) il dominio del capitalismo sulle ,masse, sulla stampa e sulle sfere governative ;

C) la debolezza dei valori morali della società, a causa della diffusione, in ogni classe sociale, di un'educazione fondamental- mente materialistica.

Valori relativi

I1 primo compito per la difesa della democrazia è quindi oggi la difesa della libertà. E questa è al tempo stesso difesa dell'autorità e dell'ordine sociale.

Non è necessario ripeterlo, ma vogliamo semplicemente sot- tolineare con forza che non è questione nè di pura filosofia, nè, peggio ancora, di costruzioni arbitrarie o di idealismo fan- tasioso.

Vi sono cattolici anti-democratici (forse non si chiamano così, ma lo sono spiritualmente) i quali insistono sulla necessità d i essere realisti, d i considerare 'i fatti come \;eramente sono, per evitare illusioni sia pure generose. La società umana, essi affermano. non è un idillio dell'Arcadia, e di istituti umani , ., sono Cattivi. .La nostra democrazia, secondo loro, presuppone che tutti gli uomini siano buoni, il che nen è.

. A questi e a simili i< realisti s possiamo rispondere con dati concreti e con ragioni pratiche, persino « realistiche >). Ma anzi- tutto dobbiamo fare una swecie di atto di fede, il quale risponde

A

alle nostre più profonde convinzioni di cristiani. I1 valore morale che difendiamo vale mille volte più dei va-

lori materiali-che vanno sotto i nomi di grandezza nazionale, d i onore nazionale, di egemonia politica o di ricchezza da at- tingere dai paesi conquistati, dalle colonie assoggettate, e via ,

dicendo. Inoltre siamo -di coloro che persino nel campo della ' politica e nella vita collettiva credono nella parola di Cristo: « Cercate prima i l regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù ». u Tutte. queste cose » signi- ficano precisamente ciò che il realista cerca, e che non è sol- tanto il benessere materiale lecito e necessario per una comu- nità, quale parte, e non il tutto, del bene comune,(per gli SCO-

lastici fine della vita collettiva); bensì anche ciò che, per volere o permesso della Provvidenza, le nazioni acquistano nella loro formazione, sviluppo e declino.

Chiediamo che tali avvenimenti storici non debbano essere il frutto della violenza, del furto, del tradimento, o dell'oppres- sione, sia all'interno che all'estero. Perciò non avremo nulla da dire su una politica cosidetta realistica, che presuppone la soppressione delle libertà civili e politiche, per permettere a i capi di avere le mani libere e realizzare i loro sogni di dominio

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e di grandezza con tutti i mezzi, senza tener conto della mora- lità. Ciò significherebbe la politique d'abord dell'Action Fran- caise, che è stata giustamente condannata dalla chiesa. Vorrem- mo avere politici al tempo stesso morali ed efficienti, vale a dire che non perdessero il loro carattere specifico d i cercare ciò che è necessario alla comunità, servendosi dei loro mezzi tecnici, e che rimanessero nell'ambito della legge morale, i cui precetti sono da osservare sopra tutto. Così pure l'economia, sia essa privata o pubblica, può essere una vera economia senza per questo violare i limiti della moralità, diventando abuso, furto o frode.

Educazione

I1 problema dell'educazione è fondamentale per la demo- crazia. Essa è necessaria in democrazia per poter avere élites tratte da ogni classe e categoria, aperte a tutti, sempre rinno- vate e portatrici di rinnovamenti.

Possono esse venir formate senza un'adeguata educazione? Questa deve essere su tre piani: il primo è la cultura, e si deve ammettere clie oggigiorno questo aspetto è quasi del tutto tra- , scurato ovunque. La cultura sta diventando sempre pifi tecnica, specializzata, parziale. L'idea di una cultura generale, umani- -- stica e religioso-morale (diciamo cultura e non semplicemente conoscenza) la si è persa di vista.

I1 secondo piano è quello dell'esercizio o pratica della vita politica. Questa esiste oggi in taluni gruppi di cittadini e in .

certi paesi nei quali è una tradizione, soprattutto in Svizzera e Gran Eretagna. In Svizzera, un paese piccolo, diviso in can-. toni federali, dove è in vigore il referendum e i partiti sono bene organizzati, l'esperienza politica si estende fino ai più remoti villaggi di montagna. In Gran Bretagna, dove la vita locale entro certi limiti è ancora autonoma, e dove esistono molti enti liberi - quali le università - la vita collettiva è ancora abbastanza bene articolata. Al posto del referendum esi- stono i (C ballots » ed altre iniziative private del genere, ivi comprese lettere alla stampa. Ma ciò non è sufficiente. I par- titi socialisti hanno dato un'educazione alle masse, ma non un'educazione politica. Essa è troppo limitata all'economia, troppo materialistica, o almeno troppo incentrata sulla classe. È necessario un allargamento del suo campo visivo per com- prendervi interessi politici e morali, nazionali e internazionali. Si dice spesso che certi paesi non sono adatti alla libertà e alle istituzioni democratiche, ~ o i c h è i1 popolo non vi è s ta to~edu- cato. Coloro che parlano così sembrano avere in mente una spe- cie di educazione preliminare, quasi che si potesse ~ a r l a r e d i

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educazione a camminare senza camminare, o di imparare a nuotare senza entrare nell'acqua; il che non significa che non sarebbe necessaria una guida o misure preventive per evitare possibili danni.

Infine, l'educazione alla democrazia richiede convinzione; essa deve cioè giungere al cuore. Un'educazione soltanto intel- lettuale o tecnica, senza educazione dei sentimenti, è impossi- bile. Si dice, oggigiorno, che ci dev'essere un misticismo D, aggiungendo che tale misticismo esiste nei paesi totalitari ma

, non in quelli democratici. Ecco un punto che dovrebbe essere chiarito. Anzitutto non

dobbiamo confondere il sentimento che nasce da una,profonda convinzione morale con il fanatismo sentimentale o cieco istinto della folla : stati d'animo completamente diversi, veramente an- titetici. I1 primo è durevole, forte e degno dell'uomo, il secondo è superficiale o istintivo. I1 primo è buono, il secondo malefico, o può, consciamente e inconsciamente, diventarlo.

I1 primo è fondato sull'affetto ed è comprensivo, i l secondo sull'odio ed è esclusivo.

L'antisemitismo oggi così esteso e persino imposto dall'auto- rità, è una delle peggiori forme di fanatismo di questi tempi. I! i i i ~ ~ i s i i i u è una deviazione inteiiettuaie fondata su uno Ghiac- ciante orgoglio ed egoismo. Farne un misticismo » è un'aber- razione ed un pervertimento della coscienza umana: sono fa- natismi, non misticismi.

L'educazione del cuore alla quale facciamo appello per gli ideali della democrazia, non contiene nulla di torbido, di im- morale o fanatico, ma poggia su valori morali permanenti, de- gni dell'uomo e in armonia con i principi della cristianità.

Per questa ragione stiamo attenti a separare l'idea moderna della democrazia da queste erronee premesse che fecero sì, una volta, che molti cattolici la considerassero con sfiducia, ritenen- dole inseparabili. Noi diciamo con Leone .XIII: (( Se la demo- crazia sarà veramente cristiana, recherà molto bene all'umanità ».

Non possiamo iniziare, come fa Rousseau, dall'idea della natura umana come buona in sè, guastata soltaqto dalla società. Al contrario vediamo la natura come decaduta, e i legami sociali come necessari per civilizzarla, vale a ' dire per far emergere gli istinti buoni e reprimere e correggere quelli cattivi. Senza la società non vi è civilizzazione ; e ciò videro i saggi dell'antico paganesimo.

Noi non vediamo'nella volontà popolare una sovranità illi- mitata, così come non la vediamo nella volontà del monarca. Per noi l'autorità, come la libertà, ha i suoi limiti etici (che tro- vano sempre una concreta espressione in un sistema religioso),

&

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L'estensione di questo rapporto alla intera comunità costituisce la caratteristica della democrazia, ed entrambe hanno limiti in- terni che nascono dal loro rapporto.

Infine, non concepiamo la volontà del popolo come la som- ma delle volontà individuali, ma come qualcosa di specificata- mente diverso, in-quanto essa è maturata ed espressa dagli orga- nismi vitali della società. Siamo perciò contrari alla democrazia individualistica, in nome di una democrazia organica. Non è il ,

principio d i maggioranza che rende buona una legge, bensì il suo valore intrinseco. Non è i l risultato delle elezioni che crea i l diritto di una maggioranza, bensì la convinzione che essa arriverà ad esprimere la legge con la coscienza del mandato ricevuto. Così, ogni volta che una maggioranza non adempia al proprio mandato, in una vera democrazia la struttura sociale fornirà i mezzi per correggerla e renderla consapevole del pro- prio errore. In Inghilterra e negli Stati Uniti questo è i l ruolo dell'opinione pubblica, ruolo molto forte, sebbene non sia sem- pre all'altezza del suo compito. . .

È dovere delle élites della minoranza; o di élites extra poli- tiche, delle libere associazioni e de11e chiese? intervenire per

- imprimere questo carattere di auto-correzione alle correnti po- litiche. Proprio come è stato detto che la libertà deve essere guadagnata quotidianamente (oggi i nostri amici francesi ama- no parlarne come di una creazione quotidiana) così la demo- crazia, unione e cooperazione di libertà e autorità, deve essere quotidianamente guadagnata o creata. Donde una continua lotta contro le forze avverse ( in noi stessi e fuori di noi), lotta che mina la sua eshtenza.

I

La ricerca della libertà

Se un bene deve essere difeso coscientemente, deve essere amato, reso vivo dal lavoro quotidiano e deve ricevere efficacia dalla vita che in esso immettiamo. Così fa il contadino con il suo campo, che egli accudisce con amore, a seconda della sta- gione, al fine di far maturare i l grano a tempo opportuno. I1 suo campo, il suo giardino non suscitano in lui alcun fanatismo frenetico. Egli ha i l calmo affetto di un proprietario e i l tran- quillo possesso d i chi ama e vi lavora.

Oggi una parte dei giovani non è spinta nè verso la libertà, di cui non apprezza.più i benefici, nè verso la democrazia, che essi vedono sfigurata da sterili lotte, da debolezze e da flagranti e incomprensibili ingiustizie. Ed essi sono al tempo stesso nel giusto e nel torto. Hanno ragione, in quanto vedono e odiano

. i l male, hanno torto in quanto non vedono il bene che pure

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esiste ed il bene che dovrebbe e deve essere fatto per vincere. Là dove la libertà esiste, nessuno ci pensa. Allorchè essa manca, allora la si deve cercare.

C'è un aneddoto su una conversazione fra un tedesco e un olandese, che è illuminante. I1 tedesco vanta la grandezza del Terzo Reich, la sua potenza, il suo futuro. « È vero, replica lo olandese, noi siamo un piccolo popolo, senza un grande avve- nire, ma quando al mattino presto sentiamo bussare alla porta, sappiamo che è solo il lattaio N.

Questa visione familiare della libertà non deve portarci a pensare che le democrazie, piccole o grandi che siano, non ab- biano nè rischi nè avventure. Senza questi non avrebbero alcuna storia. Le hanno infatti, e persino nei paesi democratici oggi vi è ciò che dovrebbe fare appello allo spirito avventuroso della gioventù.

Non è vero che gli uomini non rischino la vita per la libertà (come viene scioccamente detto da coloro che sono in ammira- zione davanti ai dittatori), mentre la rischierebbero per la gran- dezza imperiale. In Spagna uomini delle due parti combatte- rono per dueann i e mezzo per ideali che p c t e i a m essere ~ e i i o falsi, reali o irreali; i baschi e i catalani, per di più, in con- dizioni di schiacciante inferiorità, portati verso un tragico ignoto. Se la guerra venisse, e i belgi, gli olandesi e gli svizzeri £ 0 ~ -

sero attaccati, essi morirebbero per difendere la loro libertà e non per ragioni d i grandezza imperiale, che ad essi non im- porterebbe affatto. Dire che soltanto la gioventù fascista o nazi- sta è capace di sacrifici, è una falsità magnificata da una arro- gante e insolente propaganda.

In Inghilterra, forse a causa di un complesso di inferiorità, si ha l'impressione che essa non abbia alcun ideale da difendere. Taluni dicono che l'impero non l i interessa, dato che ogni DO- minion ha la sua personalità, e può progredire bene senza ap- partenere al Commonwealth britannico. O che il mondo non ha alcun bisogno di una leadership da Londra. O che i l capita- lismo della City non è un ideale per i l quale altre classi si de- vono sacrificare, e così via. Sono tutte mezze verità e. mezze fal- sità. Tutto ciò è forse i l disfattismo di un popolo soddisfatto O

d i un popolo che teme i sacrifici? Un così amaro spirito critico, frutto di disillusioni e di snobbismo, può'togliere all'intera sto- ria di un popolo il suo significato. Ma coloro i quali sono in grado d i valutare i fattori della storia e l'attuale situazione alla luce d i una missione morale e civilizzatrice, orientata dalla prov- videnza, sentono che ogni popolo ha il proprio posto, datogli da Dio, e la diserzione sarebbe una mancanza al proprio dovere.

Vorremmo accentuare questo punto che è troppo spesso tra-

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scurato non come argomento per una democrazia attuale o fu- tura (questo ruolo provvidenziale appartiene a tutti i popoli, siano essi democratici o no), bensì al fine di vedere il posto del- l'esperienza democratica (persino del bolscevismo) nel piano divino. Intendiamo con ciò semplicemente affermare che ogni esperienza è o un'asserzione di valori morali che devono essere attuati, o un rifiuto dei valori morali che devono essere riaffer- mati, o un'espressione concreta dei valori morali che devono essere difesi. È per questo che comprendiamo gli appelli dei vescovi di Francia, Olanda, Belgio, Svizzera e Stati Uniti a fa- vore delle libere e democratiche istituzioni dei loro paesi. È perciò che comprendiamo la realtà di un sano sentimento na- zionale, i l quale, ripudiando il fanatismo nazionalista, ha i l senso di una vocazione nazionale e di una missione. In tal senso possiamo desiderare che le democrazie si tengano unite, come una esperienza di civilizzazione ed una forza pacificatrice unica nel mondo. Un popolo che ha raggiunto eccezionale potere e ricchezza, ha doveri corrispondenti. L'adempimento di questi doveri, migliorando l'organizzazione interna e le relazioni con gli altri paesi, richiede la cooperazione di tutti, per l'ideale del bene comune. Per noi la democrazia è un mezzo per tal fine, poichè essa è lo stadio di civilizzazione che abbiamo raggiunto ed è il sistema più adatto (con i miglioramenti e gli sviluppi che essa richiede) per raggiungere questo ideale.

Altri che hanno ideali di imperialismo insoddisfatto e cre- dono che, assoggettando con la forza le piccole nazioni, vivran- no secondo il loro carattere di popolo eletto, hanno trovato un altro sistema, quello totalitario, con i risultati che abbiamo davanti agli occhi. Se essi stanno compiendo in tal modo una missione provvidenziale, lo si può giudicare soltanto attraverso i mezzi da essi adottati. Coloro i quali si servono di mezzi im- morali, non possono mancare di incorrere nel biasimo degli uomini e nel giudizio d i Dio.

La via della pace

Si potrebbe dire queste sono belle idee, ma, nel frattempo, non vi sono forse ingiustizie e immoralità nelle democrazie? D. Con quali mezzi è possibile eliminarle? Noi siamo per i mezzi legali, e perciò siamo per quel sistema ( la libera interpreta- zione deIle forze civili e sociali) che ci mantiene nel regno della legge.

Sia all'interno d i un paese che nei suoi rapporti con l'estero, siamo contrari ai metodi della violenza e della forza armata, siano essi rivolte o guerre civili all'interno, o invasioni e guerre all'estero. Le ingiustizie e le immoralità devono essere corrette

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dal metodo cristiano. Ci vuole molto tempo, ma è i l mezzo più sicuro, dato che esso è fondato sulla penetrazione dello spirito nella materia e sullo sviluppo o mutamento delle istituzioni.

La cristianità proclamò rigorosamente la monogamia. Ma perchè questa diventasse un'istituzione sociale riconosciuta, ad esclusione di altre, fu necessaria la vittoria della cristianità sul paganesimo greco-romano e sui barbari. Così è stato nei con- fronti della schiavitù, della servitù della gleba, della legge del taglione, così è stato anche in questo nostro tempo, e così sarà anche domani.

La democrazia ha oggi tre battaglie da combattere e da vincere :

1) Una economica, contro l'oppressione del capitalismo e con- tro la minaccia di un comunismo tirannico. La prima è reale, la seconda è in prospettiva. Entrambe si fronteggiano sul piano politico, come se fossero alternative, sotto il nome, qui non appropriato, di fascismo e bolscevismo. Lasciando da parte ri- ferimenti politici, e limitandoci alla sostanza, sia il capitalismo che i l comunismo sono contrari ad una vera democrazia, ed en- trambi rendono difficile conseguire una giustizia distributiva in economia, senza urtare la libertà. Molte altre misure legislative saranno necessarie per porre un giusto limite al capitalismo in- vadente e oppressivo, e queste possono essere conseguite solo se la loro necessità entra nella coscienza dell'opinione pubblica attraverso l'opera dei democratici. La strada sarà lunga, la lotta sarà dura, ma vale la pena di combatterla, non in nome del comunismo materialistico, nè in quello di un mutopismo anti- sociale, ma in nome della democrazia, la quale qui è democrazia sociale, e' sulla base morale del cristianesimo.

2) La seconda battaglia sarà in campo politico, al fine di mo- dificare l'attuale organizzazione dello stato alla quale è stata data una forma concreta dalle classi medie liberali del secolo

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scorso, e che è stata resa inadeguata dall'avvento delle masse lavoratrici nella vita elettorale e parlamentare, mentre è anche minata dalle tendenze totalitarie dell'estrema destra 'e dell'estre- ma sinistra.

Non vi può essere qui alcuna singola ricetta adatta ad ogni . caso, nè dottrine già fatte, nè schemi filosofici di società perfette. La Repubblica di Platone, l'Utopia di san Tommaso Moro e la Città del sole di Campanella, sino visioni nate da reali neces- sità, proiettate su un piano irreale, per dar loro respiro e pro- fondità, non come soluzione di problemi pratici. Simili pro- blemi devono essere affrontati in tutti i paesi, a seconda della loro storia e genio, nonchè delle necessità del momento.

Si ripete spesso che l'Europa, nel copiare il parlamento bri-

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tannico, s'incamminò su una falsa strada. La verità è che 1'Eu- ropa non copiò mai il parlamento inglese. La natura e la storia non copiano, ma creano. Gli studi dei giuristi sono posteriori ai fatti, allorquando i fatti sono veramente storici, vale a dire quando essi nascono da reali necessità o reali impulsi. Le teorie non creano mai la realtà, anche se possono prepararle la strada.

Sarebbe quindi inutile considerare qui se l'Inghilterra fa- rebbe bene ad adottare la rappresentanza proporzionale (per la cui promozione esiste una associaz'ione) oppure il referendum svizzero ( a l posto delle libere votazioni); oppure, se la camera dei lords debba essere abolita o cambiata, e se la camera dei comuni debba deferire alle autorità della contea, o a speciali commissioni, i l duro peso delle leggi minori. Questi ed altri problemi tecnici in Gran Bretagna (come in altri paesi) dovran- no essere discussi in sede propria, da chi vi è direttamente in- teressato, da uomini politici e da esperti, per essere portati

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davanti alle assemblee delle associazioni che ne hanno fatto i loro argomenti specifici, e infine davanti a tutto il pubblico, non appena uno o più di essi suscitano un interesse generale e richiedono con urgenza noa sol~zioce. Così si f o m a il vero spirito democratico di un paese e si contribuisce alla riforma degli organi politici meglio adatti ai tempi e alle necessità del momento.

3) E infine la terza battaglia della democrazia sarà i n campo internazionale. Questa battaglia iniziò subito dopo la grande guerra, su due temi principali, la Lega delle nazioni e la sicu- rezza collettiva. I1 fallimento della Lega delle nazioni ( o piutto- sto delle grandi potenze che erano a capo della Lega) è stato una disgrazia per la democrazia e per la pace. Oggi non abbia- mo più a che fare con la sicurezza collettiva ma con l'equilibrio di potere, equilibrio tanto precario e oscillante che sembra im- probabile possa persistere più a lungo.

Esiste solo un'alternativa. O le notenze democratiche ristabi- liranno in tempo la sicurezza collettiva, o avremo una lunga guerra ed una catastrofe europea che sorpasserà ogni immagi- nazione.

Ecco il compito che incombe sulle attuali democrazie, mal- grado le loro debolezze ed errori del passato; un compito-al tempo stesso arduo e nobile. Perchè le democrazie? Perchè esse non sono imbevute di spirito di conquista, desiderano la pace, hanno concesso ai dittatori più di quanto permettevano il diritto e la moralità. e sono responsabili del fallimento della Lega delle nazioni. È loro dovere, verso se stessi e il resto del mondo, ritor- nare sul sentiero abbandonato e ristabilire l'ordine internazio- nale che è stato compromesso.

È possibile farlo? E a quale prezzo?

22 - Srvnu, - Politica e morale

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,Abbiamo visto cadere a pezzi i l sistema del dopoguerra, sotto la violenza dei dittatori. Le nazioni più piccole e più deboli . sono minacciate, ma le potenze più grandi e più forti non go- dono alcuna tranquillità. Non si può ritornare al passato, ma neppure si possono accomodare le cose senza una base morale, senza ideali sacri, senza la cooperazione dei sentimenti dei po- poli, cioè senza riunire insieme i principi democratici, i senti- menti nazionali e i valori morali cristani.

I tristi giorni che stiamo attraversando in un'Europa senza strutture stabili, in paesi agitati dalle contraddizioni dei senti- menti e delle passioni, in mezzo a tanto odio e gelosia, non ci devono far cadere nella disperazione, o in una inutile critica ,ed inazione. Abbiamo una fede ottimistica nel cristianesimo, e non può servire a nulla un pessimismo che non porta in nessun dove, una critica che non richiede alcun sacrificio.

Per questa ragione noi vogliamo che la democrazia ritorni ad essere cristiana (per essere battezzata, come si diceva- mezzo secolo fa). E cioè, essa dovrebbe essere ispirata dalle istanze cristiane nella civiltà odierna, e al tempo stesso approfondirle, per farle tornare ai principi morali e religiosi del Vangelo, per reaiizzarii anche nella vita pubblica, per 'animare l'aspetto ma- 'teriale e le necessità terrene della vita sociale e delle relazioni fra le classi e fra i paesi, con la carità cristiana.

Ben comprendiamo la difficoltà di introdurre un simile pro- g a m m a in un ambiente nel quale una parte piuttosto grande della popolazione ha perso i l suo senso religioso, o almeno non sente più il bisogno interiore di una fede cristiana. Ma tutte le grandi riforme hanno cominciato da piccoli inizi e ah piccoli gruppi, pieni di fede nei loro ideali. .

Noi cattolici possiamo registrare tre movimenti storici per la libertà e la democrazia. I1 primo va da O'Connell a Montalem- bert. Si tratta della esperienza della libertà, colorata da senti- menti romantici, da aspirazioni liberali, con gli inizi dei movi- menti democratici basati sulle nuove costituzioni degli stati con- tinentali. I nomi più famosi, a parte i due che abbiamo menzio- nato, sono Lacordaire in Francia, Ketteler e Windthorst in Ger- mania, Gioberti, Rosmini, Manzoni in Italia.

La seconda esperienza è sul piano sociale e riguarda il pe- riodo della enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, e della democrazia cristiana. Abbiamo qui grandi figure come Decour- tins in Svizzera, l'abate Pottier in Belgio, Toniolo in Italia, l'abate Naudet, I'abate Lemire, Léon Harmel in Francia. .

La terza esperienza iniziò alla fine della guerra mondiale, con i partiti noti come partiti popolari o partiti democratici d i ispirazione cristiana. I1 movimento politico fra cattolici guada-

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gnò un respiro e una responsabilità che non aveva mai posse- duto in passato. I1 centro era il partito guida negli affari tede- schi ed il partito popolare la forza motrice in quelli italiani. La loro lotta contro' socialisti e comunisti coalizzati, nonchè contro il nascente fascismo e nazismo, li portò verso un campo spinoso e difficile, in cui i partiti totalitari ebbero partita vinta. Rimasero i democratici cattolici d i Francia, Belgio, Svizzera e Olanda, nonchè piccoli.centri in Lituania e Polonia. L'esperienza non è andata

Al di fuori dei partiti militanti politici vi sono i centri cat- tolici e le organizzazioni per seri studi politici e sociali, attive leghe d i lavoratori e sindacati, numerose associazioni giovanili, che si basano su una piattaforma di libertà politiche, con aspi- razioni più o meno chiaramente definite verso la democrazia (almeno in campo sociale), e che fanno appello alle presenti democrazie per garantire i loro diritti e sostenere lo spirito cri- stiano dal quale sono animate.

Di tali esperienze storiche e di movimenti del genere si è avuta una dura e talvolta poco generosa critica; ma questa rete di attività nel corso di un secolo regge solidamente la tradizione della libertà e democrazia dei cattolici nel mondo.

Allorchè i l loro lavoro sarà meglio conosciuto da amici e avversari, e il loro contributo sarà meglio apprezzato, quando le forti correnti democratiche avranno riguadagnato coscienza di sè e saranno riuscite a resistere alla perversione totalitaria (raz- zismo inumano, nazionalismo esagerato, fascismo pretenzioso), ed avranno contribuito a liberare le masse dal veleno marxista e comunista, avranno contribuito per ciò stesso a ricostruire la società sulla base di una moralità umana e 'cristiana.

A questo fine è necessario aver cura di non scuotere le fon- damenta democratiche e libere dei paesi che ancora le hanno; ma al tempo stesso è necessaria una cooperazione attiva ed ogni 'sforzo per migliorare le attuali istituzioni pubbliche e l'organi- smo democratico, e animare dello spirito cristiano una libera vita politica.

(The Presmation of tlte Foith, dicembre 1939).

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DEMOCRAZIA, AUTORITA' E LIBERTA'

Ogni qual volta si studia l'origine del potere e si tenta tro- varne una soluzione adeguata, si arriva a qualche cosa ch'è alla radice stessa della democrazia.

Interessa, veramente, conoscere da vicino l'origine del potere? Non basta ai cristiani apprendere da San Paolo che non c'è po- testà che non viene da Dio? Sia la monarchia assoluta o anche la dittatura, sia la repnbhlicn tempercta o siche !o dzìììocrtizia sociale, al cristiano dovrebbero interessare poco, trovando in tutte queste un potere derivante da Dio, che perciò merita il nome di autorità.

Questa specie d'indifferenza ascetica per la forma concreta del potere politico può essere guardata o come un'evasione dalla realtà mondana affinchè non ci prema e ci assorba; ovvero come un atteggiamento dello spirito per un mondo tutto parti- colare del quale esclusivamente vogliamo vivere. Quel celebre specialista in sanscrito, che durante la rivoluzione francese era talmente assorbito nei suoi studi da , non essersi accorto che Luigi XVI era stato decapitato (al punto da proporsi di dedi- cargli la sua opera), aveva realizzato l'evasione totale dalla vita politica per concentrarsi nelle sue speculazioni scientifiche.

Se questo potrà essere il privilegio di uni piccolo numero d i persone, viventi nel mondo fuori del mondo, non può essere per la grandissima maggioranza degli uomini, che vivono in società e per la società, e alla quale il loro contributo di attività è con-

- tinuo, anzi quotidiano. Per essi il problema del potere ha un valore instante, perchè li tocca, individui e gruppi sociali, nelle relazioni fra di loro e nel complesso sociale che noi chiamiamo ora-comunità o Commonwealth, ora nazione o stato e che si estende fino alla comunità d i popoli e società di stati.

Arrivare all'origine del potere vuol dire conoscerne la na- tura ,per la sua generazione e averne la linea storica del SUO

svolgimento. A noi qui interessa trovare fino a quale punto e

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per quali aginità l'origine del potere e l'origine della demo- crazia hanno, o possono avere, delle realiq'coincidenze.

Gli scolastici e i canonisti del medio evo avevano concepito i rapporti fra il popolo e l'autorità in termini contrattuali: in regime monarchico, il popolo si obbligava alla fedeltà e ubbi- dienza; il re si obbligava a rispettare e garantire le leggi, le , tradizioni e le libertà proprie del popolo stesso; in regime re- pubblicano il popolo nominava i rettori o capi per un periodo prestabilito, ed alla fine della gestione aveva diritto di verifi- . carne e approvarne gli atti. Nei due casi, il primo assai più esteso del secondo, era presupposto che l'origine pratica del potere, la causa seconda (come dicevano gli scolastici) era i l popolo. Era questi che o rinnovando il contratto con i l sovrano ' ' (sia scelto dai capi elettori, sia riconosciuto per diritto eredi- tario) o nominando i rettori della repubblica, accettava una autorità che non era nè da sè stessa nè da altri imposta.

L'idea che il potere derivasse dal popolo la troviamo nello stesso codice di Giustiniano, dove è scritto (C che per la legge detta 'regia' ogni diritto e potere del popolo romano fu tra- sferito nella potestà imperatoria ». Vi era però una differenza fra il principio del diritto romano e l'idea medievale: nel primo il passaggio del potere era completo (senza residui di- rebbero i sociologi); l'imperatore non rappresentava i l nè aveva un contratto con il popolo; ne era, per così dire, l'ere- de titolato. I1 popolo romano continuava ad avere i simboli del suo potere con i l senato e altri istituti storici; ma tutto i l potere era passato nelle mani dell'imperatore. Nel medio evo no: il popolo restava sempre un contraente di fronte al re ; poteva esigere il rispetto dei suoi diritti anche con la forza; ri-

. tirare il suo giuramento di fedeltà senza essere fellone e de- porlo senza essere rivoltoso, se il re veniva meno ai suoi impe- gni. Nelle repubbliche il rapporto fra elettori ed eletti era evi- dente. In tutte le teorie non si metteva in dubbio che alla ra- dice del potere pubblico vi era il popolo.

Vicino a questa, che diremo teoria politica, ptava la teo- ria religiosa, che fin dagl'inizi del cristianesimo si insinuò nel- l'insegnamento dei padri: che il potere (come la proprietà privata e la schiavitù) derivassero dal peccato di origine. Ne- cessitava, quindi, una santificazione anche per il potere, cioè il riconoscimento che come fonte di autorità derivasse da Dio: donde il rito sacro che manifestasse tale derivazione, il rispetto religioso per l'investito di autorità, il dovere del monarca O

imperatore di mantenere l'autorità come un sacro ministero, cooperando con i l sacerdozio al bene del popolo.

Le due concezioni, la popolare e la religiosa, non stavano

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di fronte, non si escludevano; sotto un certo aspetto poteva dirsi che si completavano. Sia che prevalesse la concezione romana nell'impero bizantino, sia che si sviluppasse quella contrattuale feudale, nella cristianità occidentale, le due concezioni, la po- litica e la religiosa, venivano realizzate come concomitanti.

Durante la lotta fra papato e impero, dalla teoria religiosa ebbero motivo quella del « diritto divino s dei re e quella della « mediazione » dei papi (l). Allo stesso tempo la teoria politica di un contratto originario fra popolo e i suoi capi rimase alla base della costruzione della società, e fu utilizzata dai due cam- pi in lotta, ora dai canonisti a favore del papa ora dai legisti a navore dell'imperatore.

Dalla rinascenza e dalla riforma si ha un cambiamento di rotta: si cristallizza l'idea di stato e quella di sovranità; da un lato si nega al popolo ogni partecipazione originaria ed effet- tiva al potere in nome del diritto divino dei re che diviene assolutismo; dall'altro si nega al papa ( e alle chiese riformate) ogni diritto d'intervento sul potere sovrano. Per contraccolpo, i difensori del papato - specialmente i gesuiti Bellarmino, Sua- rez, Mariana, divengono gli ultimi difensori dell'origine popo- lare del potere, pur ridotto ad un principio simbolico; mentre in Inghilterra il parlamento aristocratico combatte Ia sua gran- de battaglia per mantenere i1 suo diritto della limitazione del potere regio a nome del popolo.

Fu allora che la scuola del diritto di natura riprese la tesi dell'origine popolare del potere, togliendola però dal rapporto con la teoria religiosa, cioè laicizzandola, come si direbbe oggi. Era quella una' concezione non giuridica (contrattuale) nè sto- rica. dell'origine del potere, .ma metafisica: la società è costi- tuita per natura: l'uomo crea naturalmente la società. La vo- lontà del popolo vi è implicita in quanto esige l'ordine, il be-

- nessere,. la possibilità di vivere insieme : questa volontà è alla radice e si confonde con la natura.

Secondo Hobbes, tale volontà non può mai esplicitarsi che in una società già costituita, fuori della quale non vi è che l'orda ( i l disordine, l'anarchia). Quando questa orda è sottopo- sta al potere di un uomo o di più uomini forti, la volontà po- polare si esplicita conferendo ai capi, una volta per sempre (senza residui) l'autorità che risiedeva implicitamente negl'in- dividui. Locke va più avanti, egli valorizza l'individuo come tale e lo mette alla radice dell'autorità sotto forma di volontà collettiva espressa dalle maggioranze. La democrazia individua-

(l) Vedi Luigi Stnno, Chiesa e Stato, voI1. 2, Bologna, ZanicheiIi 1958-59.

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lista moderna era nata. Ci volle~Rousseau a darle il carattere di un contratto sociale, non al modo degli scolastici medievali, tra popolo e sovrano, ma come volontà permanente e reciproca degl'individui tra di loro a vivere in società e va gestire collet- tivamente questa società, cioè come volontà unica, immanente, che diviene autorità d i sè stessa.

Camminando per il processo di idee, vedremo che la volontà popolare è concepita da Kant come libertà ( e ne nasce i l libe- ralismo); da Fichte come nazione ( e ne nasce i l nazionalismo), da Hegel come stato e manifestazione dello Spirito ( e ne nasce lo statalismo panteista), da Marx come lotta di classe per il regime economico ( e ne nasce i l socialismo).

I1 totalitarismo moderno utilizza il concetto fondamentale di volontà popolare con i concetti di stato, nazione, classe, raz- za, creando il misticismo della forza e del potere come incar- nazione in un capo della volontà del popolo che si muove col- lettivamente, per un assorbimento della personalità individuale di ciascuno nel tutto.

In duemila anni di civiltà cristiana noi possiamo dire che l'idea dell'origine popolare del potere non è mai cessata di esi- stere. E priina del eiistiancsimo, piir alterata dal fenomeno del- la schiavitù o mescolata con i miti politeisti, tale teoria ebbe cittadinanza in Grecia e in Roma. Le formulazioni dottrinali sono state diverse; la pratica è riuscita a negare quel che la teoria affermava; ma nel fondo restava sempre, sia pure incon- sciamente o senza efficacia, l'idea di una volontà collettiva al- l'origine di ogni società.

Ma poichè l'origine storica di ciascuna nazione o famiglia umana' si perde nella preistoria, non si potrà mai afferrare il momento critico di tale volontà per la quale la forza per la

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prima volta divenne potere e questo per la prima volta fu rico- - nosciuto come autorità.

Questa ricerca, che non può avere risultato sul piano stori- co, deve trasportarsi su quellw metafisico: ogni caso concreto è tipico e non si ripete; ma in ogni caso concreto della forma- zione di un gruppo o nucleo sociale noi troveremo sempre i tre momenti della forza, del potere e dell'autorità. Questi sono così connessi e interdipendenti, che parecchi pensatori l i fan- no derivare l'uno dall'altro, e trovano che la volontà popolare è un'intrusa nel processo di formazione della società organizzata.

Per provare loro ch'essa non è un'intrusa, ci serviamo di una controprova storica interessante: quella della legittimazione del potere. Così arriviamo alla radice dell'origine del potere quasi senza che 'ce ne accorgiamo. Nel caso della legittimazione del potere o il popolo è chiamato a dire la sua parola (sia esplicita

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sia implicita) o il potere non sarà mai legittimo, cioè non sarà mai autorità.

Se u n usurpatore assale un regno, il re, gli eserciti, il po- polo resistono con le armi: si forma in essi la volontà di resi- stenza (casi moderni : l'aggressione dell'dbissinia o l'invasione della Cina, della Cecoslovacchia o dellYAlbania). Se i l popolo aggredito è sopraffatto dalla forza, cede e s'instaura un governo di fatto che non è legittimo ma usurpato; è allora che la forza diviene potere. Perchè il nuovo potere possa divenire legittimo non basta che il re o i capi vinti lascino il regno cedendo alla forza, occorre che la popolazione accetti il nuovo ordine di cose. Se questa accettazione è forzata, non costituirà mai una legittimazIone. Solo col tempo potrà divenirla quando, cessata ogni idea di rivincita, si opera quell'adattamento spontaneo che diviene un nuovo ordine; ma allora la volontà collettiva di legittimazione saxà implicita nella volontà di cooperare a que- sto ordine di fatto per il meglio o il meno peggio della popo- lazione stessa.

Potrà avvenire che l'accettazione popolare sia esplicita, a mezzo di plebiscito, come si usa modernamente; tali plebisciti sono spesso delle mistificazioni; onde il potere dell'usurpatore -- -C - n - - rcaia legiiiimaio iormaimente, non mai sostanzialmente, fin-

chè non si forma una vera. coscienza collettiva di adesione e di accettazione del nuovo ordine di cose. Se tale coscienza non si forma mai, se invece si crea un dualismo costante tra la popo- lazione e l'usurpatore (casi storici: l'Irlanda sotto i1 dominio inglese e la Polonia divisa sotto la Russia, la Germania e l ' h - stria), allora il potere rimane sostanzialmente illegittimo pur essendo governo di fatto; esso è potere, ma non è autorità.

Nè il riconoscimento detto de jure che gli stati usano scam- biarsi fra di loro, potrà mai sostituire la volontà popolare nel legittimare un potere di fatto. I1 riconoscimento de jure come res inter alios acta, non può avere altro valore che precisare il carattere dei rapporti degli stati Ga di loro. Potrà influire,~fino a un certo punto, sulla volontà del popolo ad accettare il fatto compiuto, ma potrà anche non influire affatto; perchè sempre la volontà di un popolo potrà revivere e divenire padrona d i sè. I1 potere di un usurpatore in tale caso resta, in confronto al popolo, un potere di fatto, pur essendo stato riconosciuto de jure dagli stati con i quali esso è in relazione.

Coloro che contrappongono l'origine del potere dal popolo all'origine del potere da Dio (sia per affermare sia per negare la frase di san Paolo) fanno un'enorme confusione che sarà bene dissipare. La questione è sorta in due tempi. Primo tempo: i re contro i papi; i re rivendicavano l'origine divina del loro

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potere per sottrarlo al controllo morale e politico della chiesa; donde venne la teoria del diritto divino dei re, teoria che l a chiesa cattolica si rifiutò d i accettare. Secondo tempo: la chiesa cattolica contro la sovranità popolare alla Rousseau, in quanto presupponeva una natura buona (negazione del peccato di ori- gine) e non aveva limiti (neppure morali e religiosi).

Le due tesi: diritto divino dei re e diritto sovrano del po- polo, sotto due forme antitetiche, fanno del potere un principio assoluto, sicchè esso non può divenire, quel che deve essere i n risoluzione definitiva. una vera autorità. _

Abbiamo notato più sopra i tre momenti del divenire della società: quello della forza, quello del potere e quello dell'auto- rità. Non ogni forza è potere, ma solo quella che arriva a domi- nare sugli altri. Non ogni potere è autorità, ma quello che è legittimo, cioè associato al diritto. Infine non vi è mai un di- ritto che sia scompagnato da un dovere, suo correlativo; cioè non vi è mai un diritto assoluto, illimitato; per essere diritto è sempre relativo e limitato. Così, nel dinamismo sociale, solo la autorità ha il giusto esercizio del potere e l'uso della forza, p:r- chè il diritto del potere e della forza è limitato dall'obbligo morale di legalità, giustizia. equità.

I1 significato della frase di S. Paolo che cc non vi è autiorità (potestas vale autorità e non potere nel senso dato sopra) se non da Dio B ne indica il carattere etico: Dio, e solo Dio, nel dare all'uomo autorità sopra un altro uomo, e nell'obbligare l'uomo a sottoporsi all'uomo, (cioè nel fare l'uomo socievole) ha asse- gnato i limiti morali derivanti dalla natura stessa dell'autorità, che è un ministero. un servizio alla collettività. Cristo volle nella sua chiesa rendere ~ e r f e t t o questo ministero, togliendovi tutto quello che sa di dominio, spogliandolo della mondanità del Dotere e svelandone la sua essenza. di ministero. cc Scitis quia principes gentium dominantur eorum et qui maiores sunt potestatem exercent in eos. Non ita erit vos; sed quicumque volwrit inter vos maior fieri sit vestm rninister D, (Matth. XX, 25-26).

I1 limite insuperabile che la natura etica dell'autorità pone all'esercizio del potere possiamo chiamarlo ora diritto, ora do- vere, ora responsabilità. Tale limite proviene da due fonti, da- gli investiti dell'autorità (re, parlamenti, governo etc.) e dai sudditi. Gli uni e gli altri sono persone umane, hanno perciò gli uni e gli altri dei diritti, dei doveri e la responsabilità dei loro atti; in una parola, essi sono dotati di libertà. Come l'au- torità viene da Dio così la libertà viene da Dio. Nulla c'è d i buono che non venga da Dio, e la sua impronta è in noi sem- pre in ogni suo dono. La libertà, come l'autorità, non può

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essere assoluta; sarebbe inumana, non sarebbe elemento sociale ma antisociale. Negherebbe quel diritto, quel dovere e quella, responsabilità, che abbiamo visto essere limiti dell'autorità. Essi sono anche-i limiti della libertà. Si sogliono mettere auto- rità e libertà come in antitesi: no, sono due fattori sociali che fanno sintesi, perchè trovano lo stesso limite che li rende effet- tive e morali, cioè il diritto correlativo al dovere e la respon- sabilità personale nell'esercizio del diritto e nell'adempimento del dovere. L'origine divina dell'autorità e della libertà non è . altro che il riconoscimento che Dio è autore della società uma- na, cioè che Egli ha creato l'uomo sociale e ha imposto i limiti morali ai rapporti degl'individui fra di loro nella unità effettiva del corpo sociale. L'uomo che non riconosce il limite morale dell'autorità, o il limite morale della libertà, si ribella a Dio perchè nega la natura stessa della società, e tenta di sollevarsi al dissopra degli altri uomini, misconoscendo i diritti e ,vio- landone la personalità.

Se la ricerca dell'origine umana dell'autorità ci porta al po- polo come volontà collettiva, l'origine umana della libertà ci porta alla persona come individuo. Coloro che negano il libero arbitrio di ciascun uomo, non si sa come possano poi cantare l e iodi delle libertà civili e politiche di un popolo. Coloro che negano la responsabilità morale delle azioni umane, non si sa come possato pretendere che. tutti i cittadini partecipino al po- tere dello stato.

Noi, e per convinzioni filosofiche e per professione cristiana, siamo convinti della libertà del volere umano e della respon- sbilità morale delle nostre azioni; perciò possiamo parlare della nobiltà della persona umana, dell'eguaglianza e fratellanza spi- rituale degli uomini; e possiamo guardare le libertà civili e politiche come foglie fiori e frutti di una pianta che espande la sua linfa e matura la sua vitalità.

È per questo che noi non facciamo della libertà un assoluto. La libertà è limitata; la licenza è illimitata; ma dove c'è licenza cessa di esservi la libertà. Se il brigante, il gangster, può rubare, frodare, intimidire e uccidere impunemente, il cittadino non può più vivere tranquillamente nella famiglia, nella profes- sione, nel mercato; il magistrato è soverchiato, il poliziotto è disarmato o corrotto, tutto l'ordine civile .ne soffre; diminui- scono gli affari, è insicura la vita, i poveri aumentano... Dov'è più la libertà? La vera libertà è nell'ordine, non nel disordine.

Ma che è mai l'ordine? Che tutto sia al proprio posto. L'or- dine non è mai perfetto; l'ordine è sempre in marcia; un or- dine dinamico. non mai un ordine statico. Un fiume ha le sue dighe per non straripare, ma sempre si muove e urta le dighe,

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e queste sempre debbono essere rinnovate o consolidate. Così la libertà ha i suoi limiti, che creano l'ordine: la libertà si muove, l'ordine si rinnova.

Quali i limiti della libertà? Due, la legge che precisa i di- ritti e i doveri di tutti e la responsabilità personale che crea l'auto-disciplina dei buoni (gli osservatori della legge) e la pu- nizione dei malvagi ( i violatori della legge).

Nell'autocrazia, nell'oligarchia di classe o di casta, nella dit- tatura totalitaria, si dà poca o nessuna fiducia alla persona in- dividua, alla sua educabilità, all'auto-disciplina, al senso di re- sponsabilità: si pensa che solo i capi, le loro cricche, le caste superiori possano governare e godere dei privilegi del potere. Essi sottopongono gli altri alla legge, negando loro ogni libertà. Così arrivano a negare la personalità umana nei soggetti, per- chè per quel poco che la riconoscessero, do$rebbero concedere la corrispondente libertà.

Nel concreto storico, ogni forma sia pure mdimentale di civiltà, riconosce un minimo di personalità umana, ed è quel minimo che diviene libertà e responsabilità. Di questo minimo di libertà si sono formati i filoni aurei della civiltà, si sono ot- tenute le conqaiste socisli inaIicria5:IIP. La libertà religiosa di predicare il Vangelo fu conquistata attraverso secoli di lotte e di martiri; e si riconquista allo stesso modo oggi se viene to- talmente negata. La libertà personale degli schiavi a essere li- beri si è insinuata attraverso l'affrancazione' domestica, la mo- nasticà, la comunale, per. arrivare a quella sociale-politica. La libertà della donna è cominciata con la rigida monogamia cri- stiana, per arrivare fino alla parità coniugale, economica e politica.

Così via via, per un'esperienza storica lunghissima e mai finita, perché essa per vari aspetti storicamente si riproduce e si rinnova. Ogni qualvolta prevale un sistema di oligarchie, la libertà della persona umana si restringe fino a formarsi un cer- chio sociale chiuso, sigillato da una concezione pseudo-religiosa che nega i l libero arbitrio e la responsabilità indiciduale. I1 processo dinamico è sospeso. Occorre un sussulto veramente re- ligioso, fondamentalmente cristiano, per riprendere i l dinami- smo della civiltà nell'affermazione della libertà e responsabilità della persona.

Se l'una diga della libertà è la responsabilità individuale, l'altra diga è la legge. Questa è nella coscienza del popolo espres- sione di giustizia e di moralità. L'autorità sociale non crea la " legge, la riconosce; non la inventa ma la formula, l'adatta, l'at- tua. La legge nasce, come la responsabilità, dalla natura sociale e morale dell'uomo. Essa può essere formulata in due maniere.

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Una etica negativa: non fare agli. altri quel che non si vorrà che sia fatto a sè stesso »; - l'altra @ridica positiva: « la con- sistenza dei diritti nel riconoscimento dei doveri reciproci D.

Le leggi in concreto devono tradurre in norme generali e in precetti particolari questi due aspetti della legge in astratto. L'autorità è quella che le formula e le fa eseguire: potere legi- slativo, amministrativo, giudiziario. Così la società umana è il risultato di autorità e libertà. Dove c'è equilibrio fra questi due fattori permanenti vi è ordine. Dove prevale l'una a danno del- l'altra, c'è squilibrio, l'ordine ne è turbato, la legge è alterata a vantaggio d i pochi, l'attività umana ne soffre, la società si agita; perchè la libertà senza autorità è licenza e l'autorità senza libertà è tirannia.

In democrazia si tende a realizzare la riunione di autorità e di libertà in un orcline al quale partecipano, per diversi gradi e con diversa responsabilità, tutti i cittadini maggiorenni, uomi- ni e donne, con esclusione solo dei pazzi, dei criminali e degli inabilitati.

Se ci mettiamo a guardare la storia da mesto punto di vista, ,

troveremo che le linee delle conauiste della civiltà' menano a questo sbocco. Però, non essendo questa che una tendenza sto- rica non mai un'evoluzione necessaria per legge fatale, - o meglio essendo un'accettazione morale, un fatto di coscienza - così non potrà mai realizzarsi appiéno se la coscienza collet- tiva non ne sente il bisogno, non ne accetta i postulati, non ne supera le ripugnanze egoistiche della rinunzia al predominio di classe (rinunzia implicita nell'ordine democratico), infine se non si vinsono i pregiudizi di carattere religioso che vi si insi- nuano di riflesso.

È perciò che oggi si è arrivati solo a delle parziali speri- mentazioni di democrazia, che implicano crisi ricorrenti e pe- riodi, più o meno lunghi, di eclissi. I1 problema fondamentale è quello della coesistenza, correlazione ed estensione del bino- mio autorità-libertà »; esso è alla base di ogni sana democra-

1 zia ; ed è vera democrazia quella dove tutti partecipano (secon- do le proprie possibilità) all'equilibrio dinamico di « autorità- libertà ». Da un lato la personalità individuab con i suoi diritti (libertà), dall'altro lato la comunità sociale - regno-stato-cont- monwealth-Società d i nazioni, - con i suoi diritti (autorità).

Nella pratica, può sorgere il conflitto fra i due e sorge sem- pre; quale dei due deve prevalere? - Certamente, quello che ha il diritto dal suo lato. Ma, chi giudicherà, in democrazia? di tale diritto? e nel caso del conflitto tra due diritti coesistenti, l'uno della persona l'altro della comunità, quale dovrà essere ritenuto prevalente da chi dovrà giudicare? Nel modo come si

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risponde a queste due domande si potrà vedere se si ha o no chiara l'idea di una vera democrazia. Perchè l'essenza della de- mocrazia consiste nel rendere il popolo e i suoi organismi (che ne sono diretta o indiretta emanazione) coscienti del valore dei diritti individuali e collettivi ( e dei doveri comspondenti) e della loro coordinazione o subordinazioqe secondo i casi. I n democrazia l'opzione e decisione politica appartiene agli orga- nismi tecnici e responsabili; ma il giudizio di valore è un giu- dizio popolare.

Gli organi dell'autorità (~ar lamento , governo, magistratura, presidente o re) debbono essere costituiti per volontà popolare. I1 re può essere ereditario, ma vi è in tal caso una costante pre- sunzione di volontà popolare che si confonde col sentimento di attaccamento alla casa regnante e d i fiducia ch'essa rappresen- ta la garanzia del regime democratico e il simbolo della nazione. Se un re non riscuote tale fiducia, i l regime democratico stesso ne è compromesso. In ogni altro caso, la elezione popolare è a base di ogni vera democrazia. L'elezione è un atto di autorità basato sulla libertà; è la prima e la piii elementare sintesi dei due termini, siratesi che riscontreremo in tutti i gradi dell'orga- nizzazione democratica.

La democrazia moderna è stata parlamentare, perchè non poteva nè concepirsi nè attuarsi un governo diretto di popolo per le nazioni, che anche piccole come il Belgio o l'Olanda, hanno tale complesso di popolazione da non essere paragona- bili con Atene, dove gli schiavi e gli iloti non contavano come cittadini,, o' con le prime repubbliche italiane dove non erano compresi il contado rurale e i servi della gleba.

Oggi vi è uno scontento molto diffuso del sistema parlamen- tare; in Francia si arriva, presso certe zone di opinione, al di- sprezzo, all'odio anzi, quale può capitare a persona intensa- mente amata, che poi nella delusione dell'amore viene rigettata e di cui non si vuole più sentire il nome. Ciò non solo nelle file degli autoritari e totalitari (che sarebbe naturale), ma presso gli stessi democratici.

In Inghilterra un tale sentimento è meno diffuso, anzitutto perchè il parlamento ha una gloriosa tradizione e le tradizioni vi hanno un valore inestimabile e costante; secondo perchè i l parlamento inglese non è stato mai lo stesso; si è evoluto se- condo i tempi, in una continuità storica di sette secoli e con un'interiore virtù di adattamento degna di ammirazione. Anche oggi che prevale la democrazia il parlamento inglese potrà tro- vare quei nuovi adattamenti alla realtà democratica che si va maturando.

Perchè negare la possibilità di ulteriori adattamenti ai bi-

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sogni di oggi ai parlamenti di America, di Franc'ia e degli altri paesi di convinzione democratica? I1 vero parlamento demo- cratico deve essere ancora creato: quello che fin oggi è esistito è stato il parlamento liberale della borghesia del secolo pas- sato, unito a certe sopravvivenze aristocratiche (come .in Inghil- terra), e alterato recentemente dalle anticipazioni politiche del-, le classi lavoratrici, che vi fecero capolino appena trenta o qua- ranta anni fa.

Le classi lavoratrici, arrivate tardi alla vita parlamentare (oggi anche le donne in alcuni paesi) non hanno avuto suffi- ciente esperienza politica, per potere éssere mature ad una cor- responsabilità del potere con le classi borghesi che l'hanno pre- cedute da tanto tempo. Per giunta, i partiti del lavoro, sòciali- s t i o sindacalisti, portano spesso una mentalità di classe stretta- mente economica e una certa mancanza di comprensione intui- tiva del complesso della vita nazionale e internazionale. Ecco una difficoltà delle più gravi per un parlamento ,democratico del 1940, che rende difficile o tardiva l'evoluzione di un istituto che in democrazia non sembra sostituibile.

Qui bisogna inserire, nella nostra indagine, un problema che può sembrare alieno dal tema che stiamo esaminando ( l a dina- mica di libertà - autorità in democrazia) ma che invece ne tocca uno dei punti più delicati. È il problema delle cosi dette classi politiche, o èlites politiche o gruppi dirigenti. I n sociologia non si è ancora fissato un termine accettato da tutti per desi- gnare còloro che in un dato momento assumono la direzione e la responsabilità del governo e ne tirano i vantaggi immediati.

I n una concezione eeualitaria della società. come sarebbe la .2

democrazia individualista alla Rousseau, non ci dovrebbero es- sere gruppi o classi dirigenti: come tutti eguali avanti la legge così tutti eguali anche in politica. I comunisti ( o anche i so- cialisti ortodossi) aggiungono: così tutti eguali anche in eco- nomia. I1 principio di eguaglianza, così inteso (una specie di livellamento) ci porterebbe ad una forma statica di società con la trasposizione di tutta la libertà nell'autorità per impedire , ogni differenziazione di classi, gruppi e individui. Sarebbe la negazione di ogni vera società: questa è tale perchè gli uomini sono diversi, dalla cellula 'familiare alle più alte speculazioni del pensiero e alle più elevate cime della moralità e del genio: individui e gruppi si completano nella loro insufficienza per- sonale. Nel piano politico, una democrazia equalitaria sarebbe una tirannia dove non c'è più posto per la libertà: tutto lb sforzo degli organi direttivi e governativi sarebbe quello di sop- primere ogni tentativo di differenziazione, che sarebbe la ri- nascita della libertà individuaIe.

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Noi, invece, volendo la libertà per tutti e il dinamismo ch'essa crea nella società. ammettiamo come conseguenza la

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formazione' delle élites dirigenti. Noi partiamo dal principio che una libertà fuori del regime democratico sarebbe una libertà

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solo per la classe di governo; e una democrazia che non sia basata sulla libertà sarebbe il dominio di un gruppo, quello che ha i l comando. Gli altri, nei due casi, subirebbero gli effetti di tale dominio, che può arrivare alla tirannia. La vera demo- crazia è libera. Ma perchè libera essa non nega l'esistenza delle classi di governo ( o élites dirigenti). I1 vantaggio della democrazia è che esse non sono fisse per nascita come nei re- gimi aristocratici; nè legate al censo come nelle borghesie mer- cantili; nè al valore fisico come nelle comunità militari, e così di seguito; ma sono aperte a tutte le classi, categorie e gruppi di cittadini, anzi a tutti gl'individui che emergono dalla media collettiva e che partecipano più attivamente degli altri ai di- battiti della vita pubblica. Questa selezione potrebbe dirsi au- tomatica, in seno a tutta la società; non è automatica ma libe- rata da ogni limite fittizio esteriore e lasciata alla virtù selettiva delle attività umane.

Si suole dire che in democrazia prevalgono i mediocri e gli intriganti, hanno voce i demagoghiSe i retori. La storia ci pre- senta demagoghi e intriganti; mediocri e rètori in tutti i regimi, compresi i totalitari (se questa esperienza di pochi anni può avere appello sulle persone sensate e studiose). Demagoghi, cor- tigiani e Tartufi in quale società politica sono mancati? Forse sono mancati nelle corti di Luigi XIV, di Elisabetta d'Inghil- terra, di Federico il Grande?

Dato lo spirito antidemocratico oggi diffuso, si è maggior- menté sviluppata una psicologia in opposizione alla partecipa- zione delle classi del lavoro alla politica, quali élites dirigenti; le borghesie alte e medie, che hanno avuto in mano i l potere politico per più di un secolo, hanno diffidenza, paura anche, dell'avvento politico delle classi del lavoro. I1 bolscevismo russo ha dato l'esempio della soppressione violenta di ogni altra classe, a nome della dittatura del proletariato. Dall'altro lato i partiti socialisti e comunisti dell'Europa si sono presentati nella vita politica come rappresentanti di una classe economica ( i l lavoro) in opposizione alle altre classi, dette capitaliste; con l'intenzione, confessata o implicita, di servirsi della democrazia parlamentare per sovvertirla ed arrivare alla dittatura del pro- letariato. Ecco quel che dai due lati sterilizza il dinamismo della formazione delle élites, mettendo i due gruppi sul piano della lotta.

Ed eccoci al punto di partenza: la formazione. delle élites

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politiche, per quanto contrastata da interessi in urto, è alla base di una vera democrazia, perchè gli organi di comando, la mac- china amministrativa e governativa debbono essere a5dat i a gente capace, allenata, pronta ad assumere le responsabilità e a risponderne in faccia al parlamento e al paese. Come in una fabbrica non si può essere macchinista o ingegnere o direttore senza la capacità, così nella società politica non si deve arrivare a esserne dirigenti senza le qualità necessarie e il tirocinio suf- ficiente.

Dippiù, la direzione politica di un paese deve potersi alter- nare fra le varie correnti, secondo l'orientamento pubblico e i modi di guardare i problemi pratici dell'ora. Le élites-deb- bono essere diverse, e tutte preparate e aperte alle sane cor- renti d'idee e ai movimenti più imprevisti. I1 potere a lungo in poche mani o in circoli chiusi, diviene troppo personale e si allontana dal contatto dell'opinione pubblica.

'È da notare che. è impossibile che le larghe élites possano formare la loro esperienza politica solo al centro d i governo. L'esperienza va dal piccolo al grande, dalla periferia al centro, dai consigli locali e dalle libere assemblee popolari a quelle na- - - -. - zionaii. ii giornaiismo, le tecniche discussioni pubbliche, ie as- sise dei partiti, le università servono a far conoscere i problemi, o educare all'uso della libertà, a dare risalto alle personalità meglio dotate, ad allenare alle lotte civili. Senza le libertà po- litiche in esercizio, le élites politiche non avrebbero i l modo opportuno di formarsi, e senza tali élites non potrebbe realiz- zarsi una vera democrazia.

Tutto il popolo è potenzialmente un'élite; il popolo in de- mocrazia deve arrivare alla formazione basilare di una coscien- za politica collettiva. Però esso, come massa informe, non può agire sul piano politico ; occorre che sia. organizzato. I1 partito è nato da questo bisogno iniziale.

'Fino ieri, i l partito era l'espressione dei gruppi politici del- la borghesia ricca, dell'intellighentia e delle classi medie, le *

quali formavano l'elettorato censitario. Fu quella una prima .selezione d i élites che non poteva non essere transitoria, mentre la folla operaia batteva alle porte della vita politica. Il suffra- gio universale esteso alle donne ha decuplicato la massa eletto- rale; gli antichi partiti non hanno più la possibilità d'inqua- drare tanta folla e renderla organica. Per una specie d'istinto di difesa, i dirigenti dei partiti sono divenuti autoritari; le file dei soci formano una certa opinione immediata, che tende a cor- reggere l'autoritarismo dei capi, solo quando non ha interesse a solidanzzare con essi; sicchè la massa elettorale viene mossa solo da sentimenti elementari e immediati.

Tutto ciò è della democrazia rudimentale, che facilmente

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devia sulla china del dominio dei capi-gruppo (quali un tempo i cacichi spagnoli, i ras italiani e le cliques francesi). I partiti socialisti e comunisti non sono riusciti a essere veri partiti, per restare organismi di classe. In Inghilterra c'è da un lato la bu- rocrazia tradunionista e dall'altro i comitati centrali dei con- servatori e liberali; gli uni e gli altri hanno accentrato ogni iniziativa politica; e per le enormi spese che comporta la cam- pagna elettorale, l'hanno ristretta a vere coteries chiuse. Se ciò non sarà corretto da sistemi di elezione più aderenti alla realt*à, si avrà un arresto nella formazione di una vera democrazia.

A correggere i l monopolio di partito, valgono molto i gruppi liberi di orientamento e di opinione quali in Inghilterra la League of Nations Union, e quale dovrebbe essere la Freedom and Peace; in Francia, oltre le molteplici iniziative di cultura, da poco soti0 sorte a questo scopo Les Nouvelles Équipes Francaises (NEF) e l'Energie Francaiss. Ma su tutte avranno funzione di orienta- mento le chiese, se esse arrivano a rendersi conto di quale sia la

* loro specifica funzione in un regime di libera democrazia. Perchè l'orientamento etico-religioso ci dà più chiara la portata e i li- miti morali dell'auto~ità e dclla libertà, in tutti i gradi dell'or- ganismo sociale, dall'elettorato popolare fino al capo dello stato. L'orientamento etico-religioso agevola quel che abbiamo detto essere alla base della democrazia, cioè i l giudizio di valore. Questo è spettanza del popolo ed un suo giudizio di coscienza, che deve influire su coloro che, nei diversi organismi sociali, sono investiti di autorità. Quando è loro domandata una decisione, un'opzione politica, anche se si presenta sotto aspetto puramente tecnico e pratico, non solo non deve contraddire all'orientamento della coscienza popolare, ma deve essere in armonia con il suo giudizio di valore.

Perchè si possa arrivare a simile risultato occorre un'organiz- zazione che sia allo stesso tempo libera e responsabile, spontanea e disciplinata. In termini sociologici si parla di quattro specie di libertà. che formano nel complesso la vera libertà. La prima, l'abbiamo visto, è la libertà originaria. Questa non è un'astra- zione filosofica, nè un momento storico già passato, è una realtà sempre presente e sempre potenziale. Ci si accorgerà che esisteva quando ci viene a mancare, come l'aria. Austriaci, Cecoslovacchi, Albanesi, Ebrei hanno compreso ch'erano liberi oggi che non lo sono più. Ma se ne proverà la sua esistenza in atto quando essa viene incarnata in organismi che ci permettono di libera- mente agire; cioè quando diviene libertà organica.

Sempre ci sono degli organi sociali, ma non sempre c'è la libertà organica; essa c'è quando la società ha conservato la sua libertà originaria, cioè lo spirito di libertà. L'Austria chiamata

23 - S m - Politica e morale

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il 10 aprile 1938 al plebiscito sotto l'occupazion~ militare dYHitler e con il suo fato già segnato, aveva l'organismo elettorale ina non aveva la libertà organica. I1 Reichstag germanico del 30 gen- naio 1939, che ha approvato la prolungazione del « piano qua- driennale », senza nè esame preventivo, nè discussione, nè voti personali, nè riserve, nè opposizione parlamentare, ma solo per unanime e sincrona alzata in piedi dei 600 rappresentanti, non poteva dirsi libero. I1 detto piano quadriennale comporta i problemi più ardui dell'ora presente: autarchia, controllo dei cambi, settimana di lavoro di 60 ore, aumento di armamenti. Erano forse liberi i deputati del Reichstag di votare contro la proposta del maresciallo Goering?

Ci si può domandare perchè non erano liberi. Ognuno dei 600 membri poteva rompere la catena e assumere la sua respon- sabilità; se non lo fece, fu perchè o convinto che il nuovo siste- ma rispondeva alle esigenze elementari del suo paese O per i l principio del minor male. Se ciò potrebbe scusare il singolo, non è applicabile al complesso organico che gl'individui formano. Qui manca la libertà ; è l'organo arrestato nel suo funzionamento, ogni sforzo individuale sarebbe destinato a cadere. tranne che non si vogiia rivendicare di nuovo la sua libertà originaria.

Questo, che i filosofi chiamerebbero momento dialettieo della libertà, può indicarsi come libertà finalistica. È stato detto sem- pre dai teologi e dai filosofi, che la libertà è un mezzo, non un fine; è una qualità dell'azione non il fine dell'azione; e ciò è esatto. Ma la rivendicazione della libertà sociale, in concreto la tale o tale libertà, del suo spirito incarnato in un sistema sociale, del suo metodo attuato nella vita politica, può divenire un fine dell'azione. Allora la libertà viene concepita come un'bene, un bene degl'individui e della società, per l'acquisto o la conserva- zione del quale è dovere, o potrà essere dovere, anche'sacrificarsi.

La libertà non è un fine ma un mezzo. Ma c'è forse un mezzo che non divenga fine immediato quando esso ci manca o non è sufficiente per il nostro scopo? I1 denaro è un mezzo per acqui- stare una casa. Chi non lo ha lo cerca:' i l denaro (mezzo) la casa (fine) nel momento dialettico dell'azione s'identificano. E così via. L'esempio del denaro non ci devii: la libertà è un dono spirituale, un bene per sè stesso, che rende noi abili a cer- care il bene fuperiore e a farci godere del bene come conquista spirituale: merita quindi tutti i sacrifici, anche se è considerata come mezzo. E non solo la libertà come valore spirituale in sè, ma tutte quelle garanzie che rendorio, in un datò momento sto- rico, effettiva la libertà sociale. Oggi queste garanzie sono le li- bertà dette politiche ( o formali) quali la libertà di voto, di pa- rola, di riunione e di stampa; così nel medioevo erano le libertà

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o privilegi delle gilde, dei comuni, delle università, dei corpi franchi; come a Roma antica era il tribunato della plebe, in Atene il diritto dell'ostracismo, e così via. Se queste garanzie mancano, allora la rivendicazione della libertà è fatta con me- todi rivoluzionari, con le rivolte armate e le guerre civili. Cioè con mezzi che sembrano portare alla libertà, ma che contengono implicitamente la negazione morale e giuridica della libertà.

111 mezzo unico, veramente spirituale, per conservare la li- bertà quando si possiede, consiste nel rifarne sempre l'espe- rienza, riviverla nella sua originalità fondamentale. Un generale svizzero ha detto nel gennaio scorso: « Vale meglio morirè ch'es- sere ridotti in servitù ». Così egli riproponeva ai suoi concitta- dini i l problema della libertà. Forse i Cechi oggi pensano lo stesso, senza poterlo dire ad alti, voce, dato che la polizia e l'ar- mata hitleriana occupano le loro contrade, messe sotto i l protet- torato di Berlino.

Ma c'è un'altra riconquista, che è quella di tutti i giorni. In democrazia l'uniformità, l'accentramento, la legge di maggio- ranze, le élites anchilosate, i partiti burocratizzati rendono dif- ficile l'esercizio delle libertà; ci vuole quel risveglio, quella con- vinzione, quel passaggio della libertà da mezzo a fine, che rifà lo spirito del pubblico e rinnova gli organismi invecchiati della macchina politica.

Ed eccoci al punto decisivo del nostro studio: la libertà, così concepita, è nella sua essenza partecipazione al potere; la li- bertà organizzata è auhr i tà : l'autorità è libertà organizzata..

La concezione individualista (che si suole chiamare liberale per una somma di equivoci storici e di controsensi filosofici) è insufficiente, inesatta, e arriva ad essere egoista : è 1:utilitarismo elevato a sistema : ciascun individuo libero di cercare il proprio vantaggio; la somma dei vantaggi individuali forma il vantaggio collettivo: così ebbe voga la teoria economica del lasciar fare e del lasciar passare, e in politica quella del non-intervento.

La concezione democratica nacque non sulla libertà ma sul- l'eguaglianza, e portò all'intervento statale in materia econo- mica e sociale. Ne vennero le leggi sociali, che parvero nel loro annunzio addirittura rivoluzionarie e antiliberali. Ma esse con- tenevano una garanzia necessaria alla libertà individuale ; quella di uno standurd di vita normale come base-di una democrazia libera. Quale libertà potrebbe godere l'operaio costretto a lavo- , rare'da 12 a 16 ore al giorno, come un secolo fa, o un misera- bile disoccupato senza assicurazione o l'emigrato messo fuori da ogni garanzia sociale? La democrazia ateniese era la democrazia di forse 40 mila cittadin'i, non di 100 mila schiavi o iloti. Nella

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società moderna c'è ancora una massa non specificata, nè assimi- lata (operai senza garanzie, disoccupati, emigrati, rifugiati, ri- fugiati politici, apolidi) che non partecipano alla vita collettiva se non sotto l'aspetto di un ingombro sempre crescente e preoc- ' cupante; sono degli schiavi di un sistema insufficiente a inglo- barli e a.farne dei cittadini di una democrazia veramente tale, completa e organizzata.

Occorre arrivare alla più larga espressione della partecipa- zione di tutti alla vita collettiva, nel doppio aspetto di libertà e autorità. Noi siamo ancora ad una fase incerta dell'organizza- zione sociale, perchè non si arriva, non solo nel campo politico, ma più ancora in quello economico, ad armonizzare libertà e autorità, concepite come sono state finoggi, antitetiche l'una al- l'altra. ritenute auasi al di fuori e non mai immanenti in un regimi democratico. La concezione materialistica della vita ne è stata la vera causa. Ouanti dei vecchi democratici non si sono . detti che essi non aveyano nulla a vedere con la libertà (conce- pita come liberalismo)? E quanti, anche cristiani, non hanno fatto buon viso alla frase di un dittatore, ch'egli era passato sul cadavere della libertà? È che essi non pensavano che la libertà politica è « partecipazione cosciente e organizzata al potere so- ciale per un fine comune ». Filosofia astratta? no; realtà effet- tiva. I n democrazia. libertà e autorità coincidono nei fini e nella estensione, si differenziano solo nel metodo e nei mezzi tecnici. Come il corpo elettorale è libero di scegliere i suoi rappresen- tanti e allo stesso tempo quella scelta è atto di autorità; così il parlamento è libero di approvare una legge e quando l'approva fa atto di autorità; cosi il governo è libero di proporre un trat- tato e quando lo forma fa atto di autorità. Ciascun organo così influisce sull'altro tanto quanto è libero e tale libertà non im- pedisce l'esercizio dell'autorità che vi è correlativa e immanente. Estendere questo principio alla vita economica sarà il compito di una vera okmocrazia sociale. ,

Affinchè l'esercizio di libertà-autorità per ciascun individuo nel suo rispettivo quadro organico, possa arrivare ad essere ef- ficace produttore di bene, degno di una sana democrazia, occorre che ciascuno ne abbia coscienza, che ne abbia il senso di re- sponsabilità, il senso del valore morale delle nostre azioni, la volontà della ricerca del bene comune nella cooperazione di

. tutti. Quale forza immensa si può sviluppare da una simile con- cezione della vita pubblica! Si dirà che è un sogno. E tale sarà, finchè ne manca l'educazione che genera la convinzione, la spinta mistica che dà il senso di un dovere superiore.

Arcb. 1 A, 1 Databile attorno al 1940.

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16.

AUTOGOVERNO E SUOI LIMITI

Note sulla democrazia

È vecchia la disputa se si dà libertà senza democrazia e de- mocrazia senza libertà; tale disputa oggi si rinnova fra i de- mocratici u tradizionali » dell'occidente e i (C nuovi 11 democra- tici dell'oriente. A chiarire, preliminarmente, i termini della questione, occorre precisare cosa s'intenda per demos popolo D. In Grecia - donde abbiamo il termine democrazia - non erano considerati popolo nè gli schiavi, nè gl'iloti, ma solo i cittadini. Così anche in Roma, dove al posto di una democrazia fu creata la diarchia di senato e plebe (Senutus Populusque Romanus). In regime feudale, i servi della gleba non erano cives neppure nelle gloriose repubbliche medievali. Ciò non ostante, nessuno nega che in Atene ci fosse stata una democrazia e che in Roma repubblicana certi lati del regime fossero democratici e che democrazia ci fosse in molti comuni e città libere medie- vali e nei cantoni svizzeri.

Nei tempi moderni, una prima e più grande democrazia sorse in America, dove la schiavitù vi durò per quasi un secolo e dove la discriminazione sociale e politica di razza non è scom- parsa. Nei paesi scandinavi la servitù della gleba scomparve nel tardo ottocento. Nella Gran Bretagna il suffragio allargato (non ancora universale) ebbe inizio nel 1882, e il suffragio universale femminile nel 1920. In Francia e in Italia le donne hanno otte- nuto il diritto di voto nel 1945, e non ancora è stato loro dato in Svizzera, nel Belgio e nell'olanda.

Questi cenni valgono a indicare che in democrazia (C popolo 1)

è una nozione che varia secondo i tempi e i luoghi, ma che non pertanto ne è la nozione basilare.

I1 secondo problema, che nasce dal primo, è se d o k c'è de- mocrazia ci debba essere anche libertà. La risposta non può es- sere che affermativa, perchè non si può dare « crazia D dove il popolo (nel caso, il demos in atto, sia quello di Atene nel secolo

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V avanti Cristo, sia quello degli Stati Uniti d'America del 1946) non sia libero di governarsi da sè. Qualunque sia l'estensione

O materiale del popolo come u volontà politica collettiva D, nel suo ambito ci deve essere libertà. Se'questa non c'è non ci può essere vero governo di popolo.

Cicerone dice che la libertà è la partecipazione a l potere, ed ha ragione sotto il duplice e combinato aspetto dei diritti civici e delle libertà politiche. I1 despota ha egli solo diritti e libertà; altri possono partecipare all'uso dei suoi diritti e delle sue libertà ma per concessioni unilaterali e temporanee, che il despota stesso può ritirare ad ogni momento.

Nei regimi aristocratici, sono le famiglie privilegiate che 'godono diritti e libertà secondo graduazioni gerarchiche e tra- dizioni intangibili. Nei regimi misti, anche altre classi e corpi - terzo stato, città libere, corpi di mestiere, chiese - godono quella libertà caratterizzata da privilegi e franchigie, che hanno acquisito con le lotte, le rivolte e la congiura (Magna Charta in Inghilterra). Ma in tali casi si tratta di classi chiuse e privile- giate e non di popolo. La democrazia è solo tale quando la par- tecipazione al potere è un diritto inalienabile del popolo -quel- lo che in un dato momento storico è reputato essere i l vero po- \*o!c 1- - che gcde pertiiiìta di iiiiri sovraniià che egii esercita o direttamente o a mezzo dei suoi rappresentanti. La libertà è quindi insita nella nozione d i democrazia, sì che là dove non c'é: libertà non ci può essere democrazia reale ma solo apparente.

La libertà comporta due aspetti, quello dei diritti civili ( o dell'uomo) e quello dei diritti politici. I primi: - la legge uguale per tutti, il diritto alla vita, il diritto di proprietà, l'habeas corpus e così via, non possono essere negati a nessuno, sia in forma potenziale (minorenni, prigionieri, mentecatti, emigrati in corso di naturalizzazione) sia in forma attuale per ciascun cittadino uomo o donna. Ogni privazione di tali diritti è una lesione che affetta non solo l'individuo, che non ha così la pienezza della sua capacità, ma la stessa comunità; lede, quindi, in radice, il regime democratico.

Le franchigie politiche sono state fin'oggi una conquista più lenta e pur ammettendo che la discriminazione .fra elettori e non elettori, produce una grave mutilazione nel corpo collet- tivo del popolo (come pe'r esempio la mancanza d i diritti poli- tici alle donne), la democrazia come tale, dato il graduale svi- luppo della coscienza politica, non perde la sua natura di regime d i popolo, se quella parte della popolazione che forma politica- mente il popolo-in-atto sia anche il garante dei diritti d i coloro che politicamente sono considerati come minorenni.

I1 punto che differenzia i l vecchio regime parlamentare'de- gli stati o categorie e quello democratico (sia pure u popolo

I

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limitato), si è che il primo tende di sua natura a mantenere i ,

diritti chiusi dentro i privilegi di ciascun stato e quindi a fos- silizzarsi, il secondo tende ad estendere la nozione di popolo fino a comprendervi tutti gli adulti; è quindi dinamico di sua natura.

I1 processo di democratizzazione di un paese è per sè un . movimento interiore, che parte dalla coscienza che ha il popolo che la comunità sociale. ha un diritto inalienabile di governarsi da sè, diritto che va conquistando, per processi graduali o rivo- luzionari, contro coloro che lo negano per poter mantenere i propri privilegi. .

Questo processo è sempre in cammino, perchè 'mai una co- munità arriverà alla pienezza statica di tutti i diritti, essendo che coloro che ne sono i detentori tengono a conservarli per sè, e coloro che non ne hanno l'uso diretto e i vantaggi immediati, sono spinti a farne conquista. I

Onde avviene. storicamente. auesto fatto: che i democratici . L

di ieri (che conquistarono per il popolo i l regime democratico e ne divennero gli esponenti) spesso divengono gli antidemo- cratici di oggi, che vogliono sbarrare il cammino alle altre classi o categorie di persone (per esempio le donne e gli operai).

Così si spiegano - in paesi ad alta cultura e individualistici come la Francia - le lunghe"'difficoltà ad assicurare una vera democrazia e i periodi di carenza democratica (terrore - Napo- leone I - restaurazione - Napoleone I11 - Pétain).

Lo sviluppo progressivo della nozione di « popolo » nella struttura politica della democrazia. si avverte anche nella strut-

m tura economica. E allo stesso modo che il lavoratore arrivato tardi - pure in democrazie sviluppate - ad avere voce in po- litica, così va arrivando solo da poco tempo a rivendicare una equa partecipazione in economia. Ma la democrazia non sarebbe tale se mantenesse ordinamenti atti a fare da barriera alla par- tecipazione del lavoratore in politica ed in economia. La via, delle rivendica'zioni sociali è stata ed è dura e lunga, perchè comporta serie trasformazioni che sono rese possibili solo in regime libero e democratico.

Un tempo fu creduto che la democrazia fosse inadatta a sod- disfare le esigenze della classe lavoratrice, e si presentarono due sistemi come opposti ad essa: i l socialismo e il comunismo, ambedue basati sulla lotta di classe per la vittoria finale della classe lavoratrice. Ciò avvenne sul piano storico, perchè demo- crazia fu intesa quella della borghesia o del capitalismo, per il fatto che le classi ossi denti han tenuto fin'oggi in mano il go- verno dei paesi retti a democrazia ed hanno sviluppati in essi l'economia detta capitalista con sfruttamento del lavoratore. Ai due sistemi si aggiunse verso la fine del secolo scorso quello

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della democrazia cristiana, che accettò la democrazia dei paesi liberi come punto di partenza per lo sviluppo di una concezione sociale basata sulla collaborazione delle classi.

La grande discussione dell'ultimo mezzo secolo è stata sull'in- terventismo di stato: se lo stato - il potere politico - abbia il diritto e la funzione di intervenire o no nelle competizioni economiche del paese e nei conflitti fra capitale e lavoro.

La tesi contraria era appoggiata al principio di libertà esteso dalla politica all'economia; la tesi favorevole (quella che è pre- valsa) era appoggiata sul principio del benessere comune.

Ora nessuno più nega allo stato il diritto d i intervento, a patto che non sia lesa la libertà economica nella sua radice. I socialisti in maggioranza hanno accettato il sistema di demo- crazia libera a carattere sociale; i democratici cristiani insistono un po' di più sul concetto d i proprietà generalizzato che è ga- ranzia di libertà; mentre i comunisti teoricamente, e dove è possibile anche praticamente, rinunziano al concetto di coesi- stenza delle classi e di libertà economica, per la tesi della ditta- tura del proletariato.

Lasciando fuori quadro il problema della dittatura del prole- tariato, che non ha posto in democrazia, cerchiamo quale sia il . . &r?rrr?isu,e i=ternc dexvcrazia phiica e s s ~ ~ ~ t i ~ e e~ijje sopra caratterizzata. Questo è dato dalla formazione de-i nuclei politici e dei nuclei economici e loro interscambio. Chiamiamo questi nuclei élites, con grave scandalo dei demagoghi clie fanno appello alle folle. Se i l termine non piace, se ne scelga un altro, la nozione rimane perchè è nelle cose.

I1 corpo elettorale in America sceglie i suoi eletti per il se- . nato, la camera.dei rappresentanti, la presidenza, i governi de- gli stati, i sindaci dei comuni, i giudici, i consiglieri, e così di seguito. Tutti costoro, investiti di una funzione responsabile, formano già dei gruppi scelti., Ma poichè sarebbe impossibile per ogni elettore sapere chi dovrà scegliere e farsi valere per la scelta, i partiti politici ne sono gli organi che a loro volta hanno capi e organizzatori che formano altri gruppi scelti.

Lo stesso avviene nell'economia con la formazione di nuclei scelti che emergono sugli altri e che ne sono gli esponenti, in

.una libera coesistenza di forze, sia dell'impresa sia del lavoro. I capi delle unioni e dei sindacati ne sono i gruppi scelti.

Come in America così in ogni altro paese retto a democrazia. La differenza fra democrazia e altre forme sociali è che in

sistemi assoluti, l'élite politica ed economica è stabilizzata per casta o classe, ovvero fissata per privilegio reale o tramandata per eredità, o determinata dal dittatore, invece in democrazia '

le élites sono spontanee, scambiabili o sostituibili, moltiplican- tisi secondo lo spinto d'iniziativa individuale e nucleare. -

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È fuori dell'ordine naturale il livellamento assoluto della società, dove manchi la nucleazione attiva e la direzione per centri e per organismi. La democrazia è caratterizzata dalla spontaneità di tale nucleazione del popolo a prendere posizioni direttive e di responsabilità, e dalla formazione delle tradizioni libere del popolo che si governa-da-sè.-- , I1 popolo che si governa da sè ha anche\esso dei limiti insu- perabili sia derivanti dalla natura del potere sia derivanti dai caratteri della democrazia ; tre ne sono i principali :

1) I1 corpo elettorale non governa i l paese, ma designa co- loro che governano il paese; non controlla di.rettamente e tec- nicamente il governo, ma esercita un controllo morale e per- manente attraverso il rinnovamento dei corpi eletti e per mezzo delle manifestazioni della opinione pubblica; non precisa i piani di governo, ma vi dà le linee attraverso i programmi dei partiti. La sovranità popolare esprime in valore morale indica- tivo e direttivo, quello che i corpi eletti tradurranno in politica economica e leggi. Cosi il popolo. stesso è limitato nella sua azione di autogoverno, e a sua volta limita i suoi rappresentanti al potere.

2) Altro limiti alla volontà popolare è dato dalla legge mo- rale maturale. Si discusse (e si discute) se questo limite esiste e se sia efficace, perchè sul terreno. positivo non potrebbe esservi nessun altro potere organico a limitare la volontà popolare una volta espressa, tranne una propria revisione. Cosi avvepne negli Stati Uniti con il proibizionismo che attuato per volontà popo- lare, non ci fu altro mezzo per eliminarlo che l'appello alla stessa volontà popolare. È nella natura della sovranità che non ci sia altro sovrano sowra il sovrano. Anche in regime assoluto u

non c'è che il monarca stesso a correggere il suo errore, annul- lando una legge da lui precedentemente emanata.

È vero che, dal punto di vista obiettivo, una legge immorale (che urti la legge naturale), sia essa emanata dal re o stabilita per volontà di popolo, non ha valore di legge e non vincola in coscienza coloro che sono convinti della sua immoralità, come fecero i primi cristiani nel rifiutare l'incenso agl'idoli. Ma dal punto di vista della legalità materiale, la stessa volontà sovrana che l'ha voluta deve essere quella che deve respingerla. Sta per- ciò a coloro del popolo che sono avvertiti della immoralità in: trinseca di una legge a opporsi che sia introdotta (come avvenne nelle elezioni del 1944 nel Massachussetts circa l'emendamento sulla limitazione delle nascite) ovvero a impegnarsi a farla an- nullare (come è il caso delle leggi discriminatorie di razza in vari stati degli Stati Uniti d'Am'erica).

I1 limite etico è intrinseco all'istituto delle sovranità. verchè . A istituto umano e razionale; onde non si comprende perchè certi

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sostenitori della sovranità popolare del secolo diciannovesimo la presentarono come illimitata-e certi filosofi cattolici la combat- terono perchè illimitata. Il loro equivoco fu non sulla natura vera della sovranità, ma su altro punto. I tradizionalisti della sovranità dei re, ammettendo che l'autorità venisse da Dio, ne accettavano la limitazione morale; mentre i fautori della sovra- nità popolare appoggiavano la loro tesi sopra un naturalismo assoluto che prescindeva dalla nozione di Dio e quindi dalla limitazione della legge morale. L'errore però, stava nelle pre- messe interpretative di un fatto sociale (la democrazia) che si andava attuando a spese della concezione del diritto divino dei re, che era tutt'altro che il limite etico al potere, sì bene una creduta investitura divina del potere assoluto della monarchia. Caduta simile concezione (che non aveva fondamento nella tra- dizione cristiana), non restava che ritornare alla concezione del popolo, sia-implicita che esplicita, dalla quale far derivare gli organi sociali di autorità.

3) I1 terzo limite è dato dalla natura stessa della democra- zia, che attuata tende a svilupparsi e a consolidarsi. Ma poichè non potranno mancare mai concezioni politico-sociali antidemo- cratiche sì che nessun regime è mai sicuro di sè, così il popolo - ruue -- ~ n a specie di limite u sè stesse di non violare il patto che costituì in essere la democrazia. Questo patto è detto costi- tuzione o statuto, e a guardia di questo patto stanno organi spe- ciali che hanno i l diritto di annullare le leggi che possono vio- larlo.

È vero che lo stesso popolo che fissò la costituzione può farvi cambiamenti e aggiunte, ma se'gli emendamenti proposti feri- scono lo spirito della costituzione e ledono i l principio democra- tico, allora il .popolo deve respingerli; il popolo ha un limite che non può sorpassare, pena la cessazione della democrazia. Come i l suicidio è contro la natura così il popolo che delibera di privarsi dei suoi diritti commette un suicidio politico: cessa d i essere popolo n.

Questo fatto è avvenuto in tutte le democrazie, ed ha dato luogo o a guerre civili e di secessioni, (Svizzera, Stati Uniti d'America) o a dittature militari (Francia: Primo e Terzo Na- poleone; Inghilterra: Cromwell); o a dittature totalitarie (Ita- lia : Mussolini ; Germania : Hitler) e così via.

Ci sono popoli che han superato le crisi, altri no. Questa è storia. I1 principio saldo è che la democrazia è limite essa stessa alla volontà popolare.

La domanda che viene naturale allo studioso come all'uomo comune, è come poter far valere in regime d i libera democrazia i tre limiti sopra descritti: l'organico, l'etico e i l politico. Giu- risti, filosofi e statisti hanno affacciato varie soluzioni, e'le teorie

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hanno oscillato da quella teocratica moralista di un limite allo stato a quella dialettica immanentista dello stato limite a sè stesso.

ella pratica, la democrazia moderna andò verso la separa- zione della chiesa dallo stato, e andò verso la tesi dello stato li- mite a sè stesso, cioè dello stato illimitato, che degenerò in stato

'panteista (totalitarismo), negando la stessa libera volontà po- polare.

I1 problema del limite a tale volontà rimane insoluto, se non si creano nel popolo le condizioni etico-psicologiche, per le quali esso stesso impone a sè i limiti che non può oltrepassare. Si tratta di convinzione, di senso di dovere, di coscienza che si ha delle responsabilità che impone il vivere in democrazia. Co- me i l monarca assoluto dei passati regimi doveva avere coscienza

t dei suoi doveri e dei limiti naturali ed etici della sua sovranità, e se non l'aveva comprometteva sè e i l bene del suo popolo, così il popolo sovrano (per chiamarlo con l'amplificazione re- torica di un tempo) deve avere coscienza della sua responsabi- lità e dei limiti del suo potere; se non l'ha perde sè stesso e la democrazia che l'incoronò sovrano.

Si tratta di rendere edotto i l popolo della sua funzione pe- renne e fondamentale in democrazia, sia come elettorato, sia come opinione pubblica, sia come matrice. degli uomini diri- genti della politica, dell'economia, della cultura, della tecnica; sia per lo spirito di riforma che deve sempre animare le cor- renti ideali o mistiche, sia per il carattere di stabilità che si deve dare agli istituti politici, sia per la formazione delle tra-

. dizioni locali e nazionali, che tengono legate le nuove genera- zioni alle precedenti in una spirituale continuità della democra- zia di oggi con quella di 'ieri, nonostante i dovuti cambiamenti e sviluppi., '

La libertà e la democrazia sono beni spirituali (prima che regime politico) che debbono essere conosciuti, amati e difesi. Come tali partecipano della verità e dell'amore che animava ogni ascesa sociale. Senza carità e amore ogni società decade e si riduce al caos della menzogna e dell'odio. Ne abbiamo visto i saggi.

Perciò è da augurare che le democrazie moderne siano ba- sate sulla verità e sull'amore, sociale, come valori perenni da conquistarsi e da realizzarsi sempre e da estendersi dappertutto, nei singoli stati e nelle unioni di stati, e da difendersi sempre e dovunque con convinzione. Perciò diciamo che il popolo deve avere coscienza d i che cosa sia la democrazia e libertà e quali ne sono i suoi doveri e le sue responsabilità.

(IL Ponte, Firenze, ottobre 1946).

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DOVERI POLITICI DEL CITTADINO

'Scritto per i credenti

' I diritti dell'uomo e del cittadino sono .più noti dei doveri; se non altro, se ne parla di più, e si fanno valere con maggiore efficacia. Ma dei doveri non si 'ha un'idea chiara, al di là1 di quelli di obbedire alle leggi e di pagare le tasse, cosa di cui molti farebbero volentieri a meno, se non ci fossero multe e prigioni.

Questo mio foglio è diretto ai credenti, non perchè essi ab- -

biano più doveri di ogni altro cittadino, ma perchè essi per la l'oro fede sono convinti che l'adempimento dei doveri verso i l prossimo è allo stesso tempo un atto di ubbidienza e di onore verso Dio. Essi quindi, per i loro principi, danno ( o debbono dare) ai doveri politici un significato etico-religioso che altri non dà o non sa dare.

Una delle idee che occorre inculcare nella mente dei giovani è che diritti e doveri sono correlativi; non si dà un diritto senza un dovere comspondente. L'operaio ha i l diritto al giusto sa- lario, ma ha il dovere di far i l lavoro bene: le qualità di giusto per salario e di buono per il lavoro sono anch'esse correlative, perchè inerenti al rapporto economico, che implica un rapporto morale.

I1 cittadino ha il diritto di essere governato bene, secondo l e tradizioni e mezzi che ha un paese; ma ha i l dovere di inviare ai posti pubblici elettivi persone moralmente integre e politica- mente preparate.

Per questa corrispondenza iiteriore e razionale fra diritto politico e dovere civico si crea un rapporto fra il cittadino e la società (municipio, regione, stato, federazione di stati e organiz- zazione internazionale) che, secondo gli aspetti etici che prende, può caratterizzarsi come rapporto di giustizia o rapporto di carità.

Ho più volte ricordato nei miei scritti che Pio XI, ricevendo un gruppo d i giovani belgi, disse loro che la politica è una

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forma di carità verso il prossimo. Per coloro che stimano la poli- tica una cosa sporca e che parlano dei politicanti come di gente moralmente dubbia, la frase di Pio X I dovette essere una sorpresa. Ma i cristiani che riflettono sui loro doveri sociali. debbono rin- graziare quel papa che disse una così coraggiosa parola ad un mondo che si trova sotto l'incubo di una politica a-morale, che nel fatto diviene spesso politica immorale; la politica è un atto d i carità verso i l prossimo.

Ma non basta; il moralista trova che ci sono certe attività politiche che appartengono alla virtù della giustizia; il che co- stituisce un rapporto etico più stretto. Basta accennare ai doveri del servizio pubblico per il quale i cittadini eletti o nominati hanno un comnenso sull'erario. Ma anche coloro che ricevono un mandato volontario, con salario a titolo di indennità - il presidente, i senatori, i deputati, i consiglieri e così via - deb- bono rispondere secondo giustizia degli atti della loro ammini- strazione verso i l popolo che li ha eletti e verso l'ente ch'essi rappresentano. Anche coloro che non ricevono alcuna indennità dalle amministrazioni ed hanno assunto gratuitamente il dovere d i un servizio pubblico, non solo hanno I'obbligo di mantunrre la promessa, ma debbono rispondere della gestione loro affidata.

Ancora un passo: possiamo dire che l'elettore va a votare solo per adempiere ad un dovere di carità verso la società di cui egli fa parte? Forse che egli non riceve dalla società la garanzia della sua libertà, il mantenimento dell'ordine sociale per cui egli possa vivere da uomo libero? Non c'è forse un rap- porto etico fra i l cittadino e la società nel suo complesso? E se l'elettore, invece di dare il voto a una persona onesta e capace lo dà, coscientemente, al disonesto e all'incapace - che perciò r eche~à danno alla pubblica amministrazione e perfino profit- terà del posto a scopi privati, - non ha mancato ad un suo do- vere ?

Lasciamo ai moralisti di rivedere la terminologia corrente, fissare dove nella vita pubblica finisce la carità e comincia la giustizia, definire le varie classificazioni o qualificazioni della giustizia, precisare quegli atti che hanno per effetto l'obbligo del risarcimento dei danni o della compensazione sia pure sem- plicemente civica o politica, e perfino della riparazione dello scandalo da parte dei pubblici ufficiali e dei capi d i ammini- strazione.

I1 problema della moralità nella vita pubblica tende ad ab- bracciare la maggior parte dell'attività umana, interferendo sem- pre più intensamente nella vita delle reladoni individuali e dei nuclei locali; e in quanto dall'altro lato, in regime demo- cratico, tutti i cittadini maggiorenni, uomini e donne, sono in-

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teressati nella funzionalità amministrativa e politica del paese. ' I1 rapporto fra diritti e doveri deve tenersi come fondamen-

tale per la morale individuale e pubblica, riflettendo che quan- to più essenziali, inalienabili e numerosi sono i diritti, tanto più obbligatori e pieni di responsabilità sono i corrispettivi doveri.

Quando i regimi politici erano basati sull'assolutismo dei monarchi e la cooperazione delle aristocrazie, le classi medie o borghesi reclamarono i diritti politici e li ebbero. L'accento era posto sul termine diritti 1) perchè una gran parte di citta- dini ne erano privi. Ma quando costoro cominciarono a usare dei diritti che loro spettavano, sentirono che i loro doveri era- no correlativamente aumentati e le loro responsabilità aggra- vate. Lo stesso è da dirsi oggi di tutti i cittadini uomini e don- ne, divenuti elettori ed elettrici.

Se ora sono molti quelli che non curano l'esercizio deì di- ritti politici che loro competono e non si danno pensiero dei correlativi doveri, è che i vecchi ideali di libertà del secolo scorso vanno svanendo di fronte a nuove schiavitù create nel mondo; ma anche perchè il sentimento del dovere di parteci- pare alla vita pubblica, per il bene comune, è poco radicato nelle convinzioni e nelle abitudini anche dei buoni, anche dei fedeli cristiani.

Se l'azione politica appartiene alla virtù dell'amore del prossimo, e in molti suoi atti implica il rapporto di giustizia, l'opposto che nega tale amore ( e spesso causa la negazione della

. giustizia) è proprio l'egoismo. Se un vero cristiano ha il dovere di partecipare alla vita

pubblica del suo paese, egli non può portare spirito di egoismo, ma spirito di amore. È il punto di differenziazione fra coloro che fanno la politica a loro vantaggio e coloro che la fanno a vantaggio della comunità.

Non c'è paese dove i cittadini non si lamentino che nelle amministrazioni pubbliche, dalle locali alle centrali e nazionali, si'abusi del denaro di tutti a vantaggio di quelli che ne trag- gono un personale profitto. Oggi viene fuori lo scandalo delle forniture militari, domani quello degli appalti o delle tasse. Come vi sono i frodatori e i ladri dei privati, vi sono anche i frodato& e i ladri della comunità.

L'America non solo non è immune da questa tabe, ma i nomi delle amministrazioni municipali di Chicago, New York e BO- ston, per la corruttela dei partiti al potere, sono stati famosi per quasi mezzo secolo. Ce ne saranno molte u TammaMy +Hall », ma questo nome è conosciuto, a torto o a ragione, in tutto i l mondo. Dobbiamo dire chiaramente che l'opinione pubblica

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reagiva lentamente, sì che la responsabifità della situazione gravava sull'intiero partito al potere e su coloro che aperta- mentre lo sostenevano, non importa se gente di mondo o gente religiosa, protestanti o cattolici.

Uno dei difetti delle democrazie a sistema di partito, tipo americano, è quello di creare posti per i propri aEliati, e con- sentire benefici nelle aziende pubbliche ogni volta che il pro- prio partito sale al potere, mandando via quegli altri del par- tito soccombente, senza tener conto degli interessi del pubblico che vengono così subordinati agli interessi del partito. Si forma una specie di egoismo di parte, che per il fatto che è collettivo, non sente di avere.vincoli di condotta morale. Ed è strano i l fatto che lo stesso individuo il quale nella vita privata e negli affari personali cura l'osservanza delle leggi morali, nell'attività del partito non si senta vincolato, e, potendo, salti a piè pari anche il codice penale. -

Non deriva forse da egoismo la lotta di molti americani, an- che buoni cristiani, contro la partecipazione elettorale dei ne- gri e la loro eleggibilità? La discriminazione politica è effetto della discriminazinne razzi& che turba carte della vita econr-

L

mica, sociale, religiosa e politica dell'America. Ma se si guar- dasse tutto il problema delle razze inferiori sotto l'angolo mo- rale, si troverebbero soluzioni felici e gradualmente effettive. ./

A mano a mano, dall'egoìsmo individuale a quello del par- tito e a quello di razza, si sale all'egoismo nazionale (che ha generato i l moderno nazionalismo, che Pio XI chiamò naziona- lismo esagerato); questo ha agitato e agita tutti i paesi del mondo.

' Quale paese può dirsi immune dalla malattia del nazionali- smo? Questo può chiamarsi in tante maniere, non è necessario che si chiami nazionalismo. Anche l'imperialismo, nel senso d i predominio' di una nazione sulle altre gi.à assoggettate, ha ca- ratteri di egoismo e di sfruttamento nazionalistico.

C'è anche un egoismo nazionale di natura speciale: l'isola- zionismo di quei paesi che possono aiutare i l mondo e non lo fanno per non correre pericoli. L'America nel passato ha avuto questa malattia e le è costata cara, partecipando a due guerre che essa poteva concorrere ad evitare se interveniva politica- mente e a tempo.

È chiaro che, come non può sopprimersi del tutto l'egoismo I

personale (che agisce da movente spontaneo nell'attività uma- na), così non può sopprimersi del tutto l'egoismo collettivo. Lo avremo sempre presente ed esigente. Ma come il buon cristiano deve combattere i propri istinti, vivificando la propria attività con la legge di a amare i l prossimo come sè stessi n, così il buon

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cristiano vivificherà l'attività pubblica con l'identica legge, sia questo paossimo rappresentato dal comune, dalla regione, dallo stato, dalla nazione: perchè tutte le collettività pubbliche sono il prossimo, il vero prossimo di chi agisce in esse e per esse.

Quasi a mascherare così lampante verità, ci si abitua a usare l'astratto per tutto ciò che tendiamo a separare da noi, come fuori della nostra attività solidale e comune. Si dice: i negri, gli ebrei, i massoni; o si nota che si tratta di affari della città, dello stato, della federazione, come se non ci appartenessero e non avessimo alcun interesse ad occuparcene. È il distacco spi- rituale, espresso in diversi modi, che ci allontana dalla coope- razione attiva alla vita comune, dove dovremmo trovarci non di fronte al « negro » o ali'« ebreo » o allo « stato )) O al cc comu- ne », ma a fratelli, uomini vivi e veri, con i quali cooperare a l bene comune.

Ho voluto accennare al lato morale dell'orientamento poli- tico, per mostrare quanto opportuna sia la rinascita del pensiero e del metodo della democrazia « cristiana » nei paesi ... « cristia- n i n. Io sostengo una tesi che è creduta azzardata e non provata,

che 2 s;Gricaii,icn:e prvysbi!e e m=!ts ragionevole: cioè che non si dà nè si può dare vera democrazia che in paesi di civiltà cristiana 1). Questa tesi ha due corollari: lo « che quanto più una civiltà si allontana dall'ideale cristiano tanto più la demo- crazia (se stabilita) tende a svuotarsi di sostanza anche se ne conserva la forma »; 2' « che quanto più la democrazia, decade di moralità pubblica, tanto più perde del suo carattere demo- cratico e pende verso la oligarchia D.

A .coloro che dicono che Atene ebbe un periodo splendido di democrazia, io rispondo che i democratici di Atene erano una frazione, un'élite; essi mantenevano fuori della democrazia gli iloti e gli schiavi. A chi dice che la democrazia francese nacque dall'Enciclopedia e dalla rivoluzione, che furono anticristiane, io rispondo che la democrazia della Francia, nata nel secolo XVIII, rimase nelle costituzioni: nel fatto si trat>ò di vari go- verni oligarchihi e demagogici che sboccarono nel terrore e nella dittatura napoleonica. l

Conveniamo d'altra parte che i l cammino del l tmanità verso la democrazia basata sui diritti della persona umana è lungo e ancora non è compiuto. Ma per quel che nella società moderna si è realizzato di democrazia e per l'altro da realizzare, l'unico principio da cui può derivare è quello morale, che noi chiamia- mo cristiano, perchè non si dà una morale completa fuori del- l'amore e della fratellanza cristiana.

La qualifica di democrazia cristiana non ha altro significato

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che quello di una democrazia basata sulla più alta moralità rea- 1iHzata nel mondo.

I1 divorzio della politica dalla morale è stato fatale all'uma- nità, come il divorzio dell'economia dalla morale e il divorzio della religione ( o religiosità) dalla morale. La democrazia cri- stiana vuole porre la morale come base della politica, si tratti della piccola politica dell'amministrazione della città e del vil- laggio o d i quella dello stato o della federazione di stati, o di quella internazionale: la morale è unica e indivisibile. Non vi son due morali: una per i rapporti privati e l'altra per quelli pubblici; c'è una sola morale per tutta l'attività umana. Se una azione è immorale per l'individuo, è anche immorale per il sindaco della città, pkr il senatore dello stato, per i l presidente della nazione, per tutti i cittadini uniti insieme.

Questo principio è valido per tutti, tanto per la politica fatta dai re assoluti e dittatori totalitari, quando per la politica fatta dai cittadini e loro rappresentanti in un paese democratico.

C'è però una differenza fra i sudditi dei paesi a regime asso- luto e i cittadini dei paesi democratici; i piimi non partecipano alla vita pubblica perchè sono tenuti come minorenni, e quindi ne hanno solo la responsabilità indiretta che può esplicarsi in via di resistenza al male. Mentre i secondi, partecipandovi di- rettamente, possono farsi valere come elettori, come opinione pubblica, come gruppi dirigenti, come eletti alle cariche della città e dello stato, sia nelle forme ordinarie, sia in quelle stra- ordinarie di resistenza alle ingiunzioni ingiuste.

Se la democrazia moderna ha delle grosse tare. la colpa va " A

direttamente a coloro che, pur vedendole, non si sforzano di rimediarvi. In prima fila metto coloro che hanno le convinzioni cristiane ( e quindi morali) e se le tengono ben conservate nel cervello o nell'ambito delle loro case, come il servo dell9Evan- gelo che ebbe un talento e l'andò a nascondere per paura di ~ e r d e r l o : i l Signore lo chiamò serve nequam, servo cattivo.

Individualmente si può far poco in democrazia. Non tutti possono essere capi e condottieri, scrittori e giornalisti, oratori e consiglieri, deputati e ministri; ma tutti possono essere qual- che cosa se uniti insieme ad un nobile fine. Molte sono le buone associazioni a scopo morale e sociale ; poche, invero, sono quel- le a scopo politico. Sia per combattere le discriminazioni di razza o di partiti; sia per educare ad essere buoni cittadini; sia per difendere i diritti politici di tutti; sia per illuminare il popolo sugli affari dello stato e interessarlo alla politica del paese. occorre che ci siano gruppi, corsi di educazione, mezzi d i allenamento alla vita pubblica.

In un paese col sistema fisso dei due partiti, un terzo par-

24 - Sl-i.mm - Politica e morale

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tito non può aver posto, a meno che non miri, con grandi mezzi e con idee sociali avanzate, a scalzare uno dei partiti esistenti, così come fece il partito laburista in Inghilterra, che prese i l posto del partito liberale.

La democrazia cristiana promuove i partiti dove ce n'è il bi- sogno e la possibilità; altrimenti si contenta di portare dentro la formazione dei partiti esistenti, il flusso riformatore delle sue idee sociali e della sua funzione moralizzatrice. Si tratta di principi teorici e di direttive pratiche, che a poco a poco debbono generalizzarsi, facendo rivedere le posizioni prese e tentando di portarvi una rinnovazione progressiva.

Non è qui il caso di formulare un programma pratico a no- me della democrazia cristiana. Ogni partito in Europa, e tutti i gruppi di People and Freedom esistenti nel mondo, .hanno i loro particolari programmi adattati alle condizioni politiche. economiche e sociali di ogni singolo paese.

Ci sono però i principi comuni: quelli che derivano, nel campo etico e sociale, dalle encicliche papali, specialmente la Rerum Novarum (1891) e la Quudragesimo Anno (.1931); nel campo politico dal sistema della democrazia attuata nei vari paesi secondo le proprie irail izi~ii i e cun quelle ~od i f i che che sono rese necessarie dallo sviluppo moderno della vita pubblica.

I1 punto centrale è quello del rispetto dei diritti della per- sona umana, diritti spirituali e materiali, diritti inalienabili,. basati sul binomio d i libertà e giustizia.

Chi può attuare una democrazia veramente libera e giusta senza la moralità cristiana? I1 positivista che dirà di poterla attuare mentisce, perchè a lui mancano principi etici e ideali superiori stabili; il positivista col suo materialismo pratico e col suo relativismo etico, ha dato le basi ai totalitarismi mo- derni, che sono la negazione della democrazia.

Spetta ai papi Benedetto XV e Pio XII d i avere insistito sul principio della moralità nei rapporti fra le nazioni e di avere sollecitato i popoli o i capi di stato a fondare la Società degli stati ( o delle nazioni) sui principi del diritto naturale, del di- ritto delle genti e della moralità cristiana.

Se la ~ e g a delle nazioni falli, si deve alla intrusione del prin- cipio della ragion di stato nei rapporti internazionali, che sop-

. piantò quello della morale internazionale. E se I'ONU va a fal- lire, è perchè il principio della ragion d i stato, presentato dal diritto di veto delle cinque grapdi potenze, è divenuto preva- lente sopra ogni formulazione di principi.

La Carta atlantica, che.conteneva alcune proposte di Pio XII, e che in sostanza rispondeva a sani criteri di riorganizza- zione internazionale, fu affondata per sempre; mentre gli ac-

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cordi di Teheran, Yalta, Potsdam e Mosca sono inmol t i punti fondamentalmente immorali. La responsabilità di questo fatto non grava solo su Churchill o Attle, su Roosevelt o ,Truman o loro consiglieri, ma sul popolo americano ed inglese e per le conferenze successive anche sul popolo francese. Naturalmente Stalin o Molotov sono anch'essi dei responsabib,,ma si tratta d i gente che non fa professione di cristianesimo, nè si preoccupa ,

della moralità internazionale. Non metto però fra i responsabili il popolo russo perchè, essendo in regime totalitario, n ~ n ' ' ~ o - trebbe avere che una ben lontana responsabilità indiretta, re- sponsabilità che cessa dall'esser tale per quella ignoranza invin- cibile di cui parlano i moralisti, che è i l fatto reale di un paese distaccato, per tradizione e per censura politica, dalla comunità dei popoli. -

Invece l'America ne porta i l peso maggiore per due ragioni: primo, perchè è il paese più forte e più ricco del mondo che è emerso dalla guerra; secondo, perchè, essendo il paese che non ha subito la guerra sul proprio suolo, ha avuto maggiore pos- sibilità di resistere alle pressioni che venivano dalla Russia e anche dall'hghilterra, per atti contrari al diritto delle genti, alle leggi internazionali e alla morale cristiana.

Invece l'America ha consentito alla scomparsa dei popoli li- beri, quali l'Estonia, la Lettonia e la Lituania; ha sottoscritto alla spartizione della Polonia; ha assunto la responsabilità del- l a evizione delle popolazioni polacche, germaniche e sudete (più di dodici milioni); sta proseguendo una politica di schia- - vizzazione della Germania. La lista è lunga. Non ~ a r l o di quel che è stato fatto all'Italia col trattato di pace; bastano gli arti- coli di Summer .Welles, Doroty Thompson, Anna McCormick e altri; bastano le promesse di Roosevelt, non mantenute affatto, a rendere testimonianza della giustizia con cui si è trattata 1'Ita- lia. Non sono sbagli di politica; si bene è l'abbandono di prin- cipi etici, sotto la scusa che bisogna intendersi con la Russia.

Con una sana politica, non si cadeva nella trappola del veto; nessuno obbligava Stettinius a Dumbarton Oaks ad accettare un tale principio ( e lo accettò perchè lo credeva utile per gli Stati Uniti d'America a difenderne gli interessi nel Pacifico). Del resto, non c'era nessuna fretta a conchiudere una Carta, che poi a nome di tre gfandi fu imposta a San Francisco a tuttk le altre nazioni. Nessuno al mondo può essere obbligato a far del male al prossimo, con la scusa che è la Russia che lo domanda.

A che finora la Russia non ha mostrato alcuna grati- tudine al17America per le sue condiscendenze, i l fatto vero si è che si va creando un'organizzazione internazionale basata sui

. principi antidemocratici e sui metodi immorali.

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Chi potrà prendere l'iniziativa politica contro un tale siste- ma, che corrode alla base le democrazie occidentali, se non la democrazia cristiana? E in nome di quale altro principio può essere sostenuta la campagna revisionista, se non in nome del primato della moralità nella vita pubblica?

A questo punto il mio lettore mi dirà: u l'awersario è trop- po grande (l'immoralità nella vita pubblica) e il campione è troppo piccolino (la democrazia cristiana ». I l vero: ma lo

. stesso accadde a Golia e a Davide. « Questi confidano nei carri, quelli nei cavalli; ma noi nel nome &l Signore Dio nostro in-

. vochiamo vittoria ». Non importa se la via sia lunga e di5cile: è l'unica via che

oggi ci si presenta possibile anche sul piano politico.

(Vita e perniero, Milano, marzo 1947).

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18.

POLITICA E MORALITA'

La concezione dello «stato di diritto D, maturata lungo un secolo, fu un enorme progresso nella struttura etica del potere pubblico, con il tentativo di ancorare l'esercizio dell'autorità sul diritto e regolandone l'arbitrarietà. Riuscire, in questa e in tutte le materie della moralizzazione della vita pubblica, non è facile; ma si era imboccata la via maestra.

L'antica concezione del potere assoluto faceva del sovrano un solutus a lege, lo metteva sopra la legge stessa; egli era l'au- tore della legge; egli non ne restava personalmente legato.

Questa teoria non fu mai, fin dall'antichità, affermata ed applicata senza contrasto. Ne abbiamo traccia nel libro d i Da- niele, in quel versetto dove i satrapi contestano a Dario la fa- coltà di non punire Daniele che aveva trasgredito un decreto.

Tu sai, o re, che secondo la legge dei Medi e dei Persiani, qualunque decreto sancito dal re non è più lecito cambiare D. Nel caso, il decreto era empio, e il re doveva rescinderlo; for- malmente avevano ragione i satrapi.

I padri e giuristi cristiani fecero netta distinzione fra la legge di Dio (includendovi la legge naturale) e la legge del- l'uomo, cioè la legge positiva civile. Della legge d i Dio non è stato mai i l monarca riconosciuto sciolto, mentre della positiva civile poteva essere riconosciuto sciolto in quanto un dato siste- ma politico lo consentisse, e non limitasse istituzionalmente lo stesso potere regio.

Al momento, però, che fu attuato lo «stato di diritto D, il potere sovrano (regio o presidenziale) non solo fu sottoposto alla legge, ma divenne il potere garante della legge stessa, del suo valore e della sua osservanza.

Sotto questo aspetto, la moralizzazione della politica rice- vette un nuovo e più efficace valore strutturale che non aveva avuto nei periodi precedenti, sia quando la struttura giuridica era basata su concezioni prevalentemente privatiste, sia quando non era chiaramente separato l'interesse del principe da quello

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della collettività. Era necessario arrivare a fare del principe il primo cittadino, o i l primo funzionario dello stato, per ottenere questo adeguamento etico-giuridico del potere.

Creato lo ((stato di diritto vennero in valore tre principi importanti la cui influenza sulla moralizzazione della politica fu più marcata : l'abolizione dell'arbitrio del potere sovrano ; la eguaglianza dei cittadini avanti la legge: u la legge uguale per tutti ; l'abolizione delle magistrature di privilegio e la uni- cità del magistrato giudicante con le relative garanzie identi- che per tutti.

Solo con la premessa dello « stato di diritto » poteva crearsi la democrazia moderna; altrimenti si sarebbe avuto (come 10 provano le dittature di qualsiasi colore da Napoleone a Stalin) che il potere acquistato i n nome del popolo è più arbitrario di quello acquistato per diritto ereditario e storico o per preteso diritto divino.

Purtroppo, le persone investite di potere, sia assoluto sia rappresentativo, tendono a estendere i limiti giuridici e a eva- dere dai limiti etici, per affermare la loro volontà che spesso confondono con l'autorità. Per evitare questo scoglio si pensò che il miglior modo fosse quello di dare autonomia ai tre po- teri pubblici: i l legislativo, l'esecutivo o amministrativo, e 5 giudiziario, con un tal quale sottile legame di armonizzazione e con opportune difese limitative reciproche, sì da evitare le * interferenze illegittime e le incoerenze dannose. Così nel campo formale lo «: stato di diritto » si presentava come una macchina ben congegnata, rispondente alle sviluppate esigenze della vita pubblica moderna.

Purtroppo, man mano che la nuova struttura costituzionale veniva realizzata, - con difficoltà di ogni genere derivanti dal passaggio del potere dalla monarchia e dai ceti aristocratici alla borghesia e poi da questa alle classi popolari, - prendeva corpo, si affermava e diveniva generale , la teoria dello stato - fonte - di - diritto; attribuendo allo stato, come organo supremo del popolo o della nazione, secondo le prevalenti sfumature degli orientamenti politici, un potere illimitato. ' r

LO stato - fonte - d i - diritto mette qualsiasi materia sotto la regolamentazione dello stato, i cui poteri si estendono su tutti i cittadini e tutti gli interessi che possono riguardare i cittadini o gruppi di cittadini o anche individualmente gli stessi cittadini.

Questa teoria, sia esposta nella forma più larvata e caute- losa; sia nella forma più cruda e assoluta, è quella che ha do- minato per più di un secolo nella politica moderna, e che ha generato la teoria dello stato-etico, quella dello stato - entità. - 374

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mistica e l'altra dello stato - classe lavoratrice; teorie che sono state alla base delle ultime dittature: la fascista, la nazista e . la bolscevica e che hanno animato con diversi influssi i vari mo- vimenti nazionalisti del secolo scorso e del presente.

La democrazia del dopo guerra ha preso fisionomia propria; essa si presenta, è vero, come stato di diritto D, e, non rinun- ziando alla teoria che ogni diritto venga dallo stato, tende a tra- sformarsi in una swecie di democrazia-sociale ( e in ciò si di- stingue dalla democrazia-individuale tipo liberale); ha, perciò, aumentato i l proprio potere di intervento e lo ha esteso a tutta l'economia dandovi carattere di pubblico interesse sotto l'eti- chetta di interesse generale 1).

Gli stati di emergenza della guerra e del dopoguerra hanno influito molto su tali orientamenti; vi ha influito di più, per l'Italia, la mentalità fascista e un ventenni0 di dittatura; vi influisce ancora di ~ i ù la wressione comunista verso forme di eco- nomia statizzata in nome del proletariato. .

A

Così, anclie in una democrazia istituzionalmente e formal- mente libera, lo statalismo diviene incombente, sì da portare oltre i confini tanto il limite giuridico quanto i l limite etico del Dotere.

I1 problema morale della politica s'imposta anzitutto come problema di limite. Questo è dato dal finalismo del potere che è diretto al bene della comunità. Un wotere illimitato non è concepibile; manca di razionalità, non sarebbe umano. Perciò san Paolo afferma che non esiste potestà che non venga da Dio, come in altro passo afferma che ogni paternità viene da Dio.

La ragione intrinseca del potere politico è data dal finalismo etico della società-stato che è il bene comune su1 campo tem- porale. Di là da questo limite non vi è potere legittimo, ma arbitrio e violenza, cioè immoralità.

La frase bene comune 1) si usa per distinguere questo dal (C bene individuale » ; al secondo deve attendere ciascuno da sè, e non mai, direttamente, la comunità. Ma a guardami dentro, ogni bene individuale si risolve nel bene comune, e ogni bene di gruppi particolari - famiglia, classe, comune, provincia, re- gione ---si risolve in bene comune più generale (stato, nazione, continente); e così ogni bene generale ridonda al bene indivi- duale, secondo la capacità del percipiente. I1 bene è solidale.

Molto, quindi, si equivoca, nel linguaggio usuale, a mettere in contrasto bene individuale con bene comune, come se I'uno possa negare e limitare l'altro. I1 contrasto nasce quando l'uno dei due non è vero bene, o ambedue non sono veri beni. Così il cittadino che froda I'erario non per questo raggiunge il bene

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proprio; fa un male dal quale spera poter ricavare un vantag- gio privato che realmente non è bene, nè lo può divenire. Vale sempre l'antica frase: bonum ex integra causa, malum ex quo- cumque defectu.

Dall'altro lato, se lo stato promulga una legge ingiusta di espoliazione, non fa il bene comune mentre fa un danno co- mune (ingiustizia) oltre quello inbividuale delle persone colpite in proprio.

Alcuni ammettono le guerre ingiuste purchè abbiano esito favorevole; il loro non è giudizio etico che tenda a regolare l'attività umana; è, invece, un giudizio storico che, prescinden- do dai dati etici, esalta il successo delle armi. Chi ammette la guerra come mezzo di ingrandimento, deve ammettere la guerra come mezzo di distruzione; e chi vuole la guerra, la guerra « bella B, la guerra a gioiosa n, la guerra di conquista, ammette implicitamente il trionfo dell'ingiustizia, ma anche la punizio- ne, dato che da ogni guerra può derivare non solo la vittoria ma anche la sconfitta. ,

Diverso è e deve essere il giudizio etico di una gu,erra che si inizia come atto umano che si pone liberamente, dal giudizio storico se una guerra risultò dannosa o vantaggiosa, e se, co- munque, posta e combattuta ebbe qvei determinati effetti, per- chè la storia registra i fatti, che non possono più essere posti in non essere: (C factum infectum fieri nequit ».

I1 finalismo della società (d i qualsiasi società, lo stato com- preso) che noi diciamo bene comune e poniamo come limite al potere, è meglio precisato sotto l'aspetto di diritto della per- sona umana. A leggervi dentro quel che sembra nuova formu- lazione teorica ( e i CC personalisti ci tengono al loro fraseegio qua e là ermetico e non sempre reciso), i l diritto della persona umana equivale al diritto d i natura. A me sembra meglio par- lare di a persona umana >I anzichè di u natura n; sia perchè na- . tura può significare tutto il creato al quale non competono di- ritti nel senso umano della parola; sia perchè, presa come na- tura umana, non può significare una natura in astratto, e deve potersi riferire agli individui in concreto, presi nella loro es- m

senza d i anima nel corpo o di umanità vivente u e l'uomo di- venne persona vivente )) (Genesi 2: 7). .Sia, infine, perchè es- sendo varie e contrastanti le teorie sul diritto naturale, è più facile intenderci sulla teoria della persona umana come fonte di diritto limitante il potere politico e ogni altro potere umano.

Tale limite è sostanzialmente etico, perchè la persona in concreto è il termine dei beni e dei vantaggi che crea leggi che regolano il potere. Tutto ciò che lede la persona umana, ne viola i diritti, ne impedisce l'adempimento dei doveri, ne altera

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I il carattere razionale, forma i l limite insuperabile del potere. ' Lo stato garantisce e regola I'esercizio dei diritti umani, non , l i crea nè li può sopprimere; e l i garantisce e regola al fine so-

ciale determinato: il bene temporale della convivenza umana. Nè lo stato è solo e unico mezzo (mezzo e non fine) a raggiun- gere il bene temporale umano; tutti gli enti naturali e tutte le organizzazioni volontarie sono legittimate dai fini particolari di bene comune, che lo stato garantisce e coordina. Ma alla base sta la persona umana, e il fine effettivo di ogni società (stato compreso), è la persona umana; in concreto, ciascun individuo.

È amaro e inumano che ci siano i rejetti della società e che la società non faccia sentire il suo influsso benefico su tutti: ma 1

nell'ordine finalistico umano, sono tutti compresi e a tutti do- vrebbe potersi dare i vantaggi sociali dell'ordine e'del benessere.

Se la politica si guarda come arte di governo, ha per fine quel vantaggio della comunità che spetta allo, stato di procu- rare. Non tutti i vantaggi, ma solo i vantaggi detti politici. Lo stato non si sostituisce a tutta la enucleazione umana naturale e libera, nè invade i l campo della coscienza individuale, nè viola i diritti della famiglia.

Purtroppo, oggi lo stato tende a divenire il tutto, a trasfor- marsi in stato-panteista, ma ne è punito; quanto più campi in- vade tanto più energie sterilizza, perchè per la sua stessa na- tura politica e per l'ampiezza dei suoi poteri e per le difficoltà di articolarli, è costretto a intaccare le libertà individuali, le autonomie locali, le iniziative libere, e deve livellare nel for- malismo burocratico quel che la natura ha reso distinto e vario.

Quanto maggiori poteri si attribuiscono allo stato, tanto più se ne attenua la resp'onsabilità, che è alla base della morale umana, perchè il potere burocratico è di per se stesso spersoi nalizzato.

Donde rinasce la necessità di ridare vita a quei nuclei in- termedi che vennero soppressi, a farne rinascere dei nuovi, ad, alimentare e vivificare autonomie storiche; e più che altro, a rifare lo spirito d i famiglia, a rianimare tutto l'organismo so- ciale del senso d i responsabilità individuale, cioè della sostanza stessa della morale.

,È il sofio morale che parte dalla persona umana quello che pervade i nuclei sociali e l i rende atti ad attingere i fini propri, i quali quanto più pienamente si realizzano, tanto più moral- mente vivificano persona e società.

Da questo quadro storico e strutturale si può vedere quanto falsa sia la teoria che distacca la politica dalla morale, alla pri- ma assegnando come proprio oggetto l'utile da realizzarsi a

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vantaggio dello stato », ed all'altra la norma etica dell'atti6ità individuale.

La struttura della società è di per sè basata su elementi'e su norme morali, che non possono violarsi senza danno dei nu- clei sociali e quindi dei singoli associati. La ricerca dell'utile o vantaggio dello stato non può essere realizzato che mantenen- dosi nella sfera etica.

Questa sfera è da un lato assoluta, per quanto riguarda i valori fondamentali dell'uomo come essere ragionevole, e dal- l'altro relativa secondo le realizzazioni del processo storico e le aspirazioni umane a più elevati ideali. I1 cristianesimo come religione storica e come forma di civiltà contiene e vivifica i valori etici naturali che si sono storicamente sviluppati, oltre i valori propri di carattere soprannaturale.

Negare. alla politica l'impasto etico, riducendola a pura for- ma utilitaria, è togliervi la sostanza razionale e farne semplice arte di governo ; caratterizzando così i l potere, in cui e per cui lo stato si esprime, un semplice dominio materiale, al quale subordi- nare tutte le volontà e le energie dei sòggetti (non più cittadini, nè consociatil.

E poichè il potere si concretizza nella classe. di dominio ( o classe politica) - non essendo lo stato che un nome astratto atto ad indicare l'organizzazione della pubblica amministrazione - la mancanza o la negazione di limiti giuridici (che esprimono I'eti- cità del diritto) fa arrivare all'arbitrio e alla violenza legalizzata,

L,

non importa sé sotto il segno di uno solo (monarca o dittatore) O dei ~. privilegiati (casta dominante) o dei molti (folla rivoluzio- naria).

Se la morale non è altro che la norma razionale dell'attività di ciascun individuo resa comune per convinzione, tradizione e costume, la politica non è altro che attività umana personale fatta i n base ad una norma razionale.

Fuori del binario della morale, si cade nell'irrazionale O nello pseudo razionale, cioè nel male riconosciuto tale ma fatto a scopo utile (video meliora proboque deteriora sequor); ovvero nel male appreso come bene per deformazione passionale, per mancanza di riflessione, di consiglio, di esame accurato, e prin- cipalmente per deficienza di senso di responsabilità; cose tutte che gli investiti del potere dovrebbero con ogni sforzo evitare o correggere.

15 agosto 1950.

(Civiltà: Ztalica, Roma, lo settembre 1950).

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IL PANTEISMO DI STATO

Sembra strano come nel campo delle teorie filosofiche e in quello delle realtà politiche, si sia potuta infiltrare, assodare di- venendo predominante, l'idea di stato come un primo assoluto.

Eliminato dai non credenti o dai mezzo credenti un assoluto divino, nè potendo reputare assoluto permanente l'uomo indi- viduo soggetto con la morte a scomparire per sempre, non vi erano altre strade per un ubi consistam di questo piccolo e gran- de mondo, che ammettere la materia eterna che si evolva, ov- vero lo spirito potenzialmente permanente che si realizzi. Ma come tenere uniti gli uomini, esseri ragionevoli in teoria ma anarchici nei fatti, in nome della materia eterna o dello spirito potenziale? I positivisti hanno trovato che lo stato è una realtà necessaria, distinta dai singoli uomini che lo compongono, un quid tertium che lega i cittadini senza esserne legato. Gli ideali- sti delle varie scuole arrivano a fame la più completa realizza- zione dellYIdea, o Spirito, o Atto, o altro simile, potenzialità in- definita che si autodefinisce.

Per noi poveri mortali, che bene o male passeremo su questa terra un certo numero di anni, non resterebbe altra consolazione che saperci uniti in un ente che crediamo di aver creato noi stessi, ma del quale noi non siamo che fenomeni passeggeri. .

Niente di tutto ciò, vi rispondono altri: lo stato non è che la volontà (necessaria o libera secondo particolari teorie cor- renti) degli uomini di un dato territorio, che per bisogno d i vivere insieme si sono dati delle leggi che essi stessi, o chi per loro, modificano secondo i propri gusti.

Lo stato così si identifica o col popolo che si regge da sè, o si fa reggere secondo la propria volontà (democrazia); ovvero con il gruppo dei governanti, o con l'unico capo (oligarchia-monar-

. chia) che tengono il potere senza risponderne al popolo, sia per usurpazione, sia per diritto storico, sia per processo di acquisi- zioni parziali, rivoluzioni e guerre; trasformando i l fatto in di-

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ritto, dandovi consolidamento per coercizione di capi armati, d i polizie onnipotenti, o per tradizione e adattamento.

Tale interpretazione dei fatti non risolve il problema della natura dello stato. Questo può essere guardato sotto due angoli diversi: come un'entità fuori di noi che ci tiene a sè legati; ov- vero come una nostra creazione momento per momento in una totalità operante per nostra volontà.

Nel linguaggio comune, stato è preso come un fuori di noi. Esisteva ( in data maniera) prima che ciascun di noi venisse al mondo; lo lasceremo (nella stessa o in altra struttura) quando cesseremo di vivere. Nulla, apparentemente, vi avremmo dato durante i pochi o molti anni della nostra esistenza, tranne l'ap- porto di una vita che in parte dipendeva dall'azione statale (di- fesa della libertà, difesa dell'individuo, mezzi di vita, istruzione, sicurezza, e così di seguito); in parte dipendeva da eventi fuori di ogni struttura sociale.

Questo ente collettivo fuori di noi, o diverso da noi o altro da noi, che chiamiamo stato, non ha volontà propria, non ha voce propria, non ha figura esistente, nulla che lo possa indivi- duare. Le leggi? una collezione di volumi che per essere appieno conosciuti non basterebbe un'intera vita di studioso. Le leggi esisiono neiia voiontà di chi ie osserva o di chi Ie fa osservare, giorno per giorno. Appena cade questa volontà umana, personale, le leggi restano scritte nei volumi, raccolte nelle biblioteche, e possono essere completamente ignorate o dimenticate, salvo a essere rimesse in onore quando e come piacerà agli interessati, ai giuristi, ai legislatori : vigilanti jura succurrunt.

Lo stato è rappresentato da istituti: monarca, presidente, parlamento, governo, diplomazia, giustizia, polizia, esercito, fi- nanza. Infatti sono questi gli organi principali di uno stato. Gli altri organi sono sussidiari, potrebbero non esserci: in America non c'è un ministero della wubblica istruzione (fortunatamente, penso io), eppure esistono a migliaia scuole statali e scuole li- bere, fra le quali non poche di primo rango. Non è lo stato che rende vitali i suoi organi; è l'uomo che li vivifica, l'uomo che l i mortifica, l'uomo singolo e organizzato, la persona reale effettiva, non l'epte astratto che si usa chiamare stato.

Com'è possibile, in tanta relatività, strettezza di idee, contesa d i wartiti. libertà limitata ora da folle che tumultuano, ora da

A

partiti che premono, da alleati internazionali che impongono, da stati nemici che minacciano, parlare di Stato (con l'esse maiu- scola), ente extra-umano, idealizzato come una divinità che pare che parli ai poveri sudditi, parole eterne di un potere quasi divino ?

' Al contrario, la storia degli stati dall'antichità a oggi non è che una serie di guerre, rivolte, delitti, ingiustizie, concussioni,

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sperperi, tutto commisto, s'intende, a opere buone, spesso fatte per vanjtà d i capi e con il sacrificio di molte energie e vite. I1 che non dà l'idea di uno stato (C etico n come recentemente ve- niva definito, o di un ente che sia la più perfetta realizzazione dello Spirito o della Idea, secondo il pensiero di Hegel.

Conclusione : gli uomini sono costretti a cercare qualche teo- ria più ragionevole. Le teorie dello stato primo assoluto, O rea- lizzazione suprema dello Spirito, o entità extra-individuale, non reggono, portandoci a una concezione irreale, e perciò anche antiumana, che ripugna alla ragione e manca di base.

Torneremo allora al principio di san Paolo: non c'è potestà che nomn venga du Dio? Questo è il punto sul quale gli statalisti moderni sono obbligati a riflettere. "

I1 significato d i tale insegnamento non è certo, come vollero a suo temno i teorici del « diritto divino ». che i monarchi fos- sero investiti personalmente dell'autorità e del potere che de- riva da Dio; e neppure l'altra teoria opposta che i l potere civile . fosse comunicato a mezzo del potere religioso (papa o vescovo); e neppure che i limiti a tale potere fossero posti in forma posi- tiva da Dio o dai suoi ministri, ovvero non vi fossero altri limiti, oltre quelli etici, che derivino da una investitura da Dio.

I1 senso è ben altro: come da Dio creatore viene all'uomo l'essere di individuo ragionevole e libero, viene anche la sua condizione di essere sociale; la potestà sociale deriva dalla na- tura organica della società (proprio dalla natura creata da Dio). Così l'assolutezza della frase: « non vi è potestà che non venga da Dio » indica che i l potere sociale dell'uomo sugli uomini (quale ne sia la forma) entra nell'ordine della creazione, è or- dine naturale-razionale e quindi di origine divina; in sostanza, non è un'invenzione umana, della quale gli uomini possano fare a meno.

È umano il modo di individuare il soggetto dell'autorità, le persone investite, i limiti pratici, le garanzie formali, tutto quan- to la storia ha espresso attorno all'istituto dell'autorità (anche . quella paterna che è la più naturale di tutte); ma l'esistenza, la necessità e il carattere intrinseco dell'autorità è la natura che l'impone, è da Dio creatore che si ripete.

Pertanto, la parola dell'autorità è in certo modo creativa anch'essa: è l'espressione decisiva di una serie di fattori conver- genti verso la realizzazione sociale. L'autorità stabilisce, legifera, decreta, comanda; se la sua parola non fosse operatoria, cesse- rebbe non solo l'autorità, ma la società.

Ne deriva che l'autorità, per essere efficace e formare l'atto

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collettivo armonico e vivifico, debba essere I'egittima, basata sul- la razionalità, diretta al bene comune, debba usare mezzi leciti e mantenersi nei limiti derivanti dal carattere specifico che i l tipo di società impone.

Fuori di questo quadro non si ha una potestà che venga da Dio, che risponda all'ordine della natura razionale dell'uomo, ma l'abuso di una potestà, la falsificazione, mancandovi i con- notati intrinsecamente etici e la intima responsabilità che tra- scende i limiti dei doveri fra gli uomini, imponendo anche doveri di coscienza verso Dio.

A bene esaminare la esistenza sociale organica degli uomini, tre risultano le forme fondamentali di società, che hanno carat- teri e autonomie proprie, dove l'autorità sociale è ben definita: la famiglia, la società civile (oggi detta stato e relative forme positive) ; la società religiosa (religioni positive : principale, per fede cattolica soprannaturale, i l cristianesimo). La natura asse- gna ai genitori l'autorità sui figli, finchè divengono maggiorenni e costituiscono altre famiglie. La esigenza dell'ordine, del diritto e della difesa, crea i vari tipi storici di società civili organiz- zate, ciaiia società patriarcale, aiie tribù nomadi o iisse, aiia città - polis-respublica - agli imperi, agli stati moderni. L'esigenza spirituale informa le gerarchie religiose. Le rivelazioni divine: primitiva-mosaica-cristiana, dànno alle relative religioni la im- pronta di una comunicazione permanente di Dio all'uomo a mezzo di organismi sociali propri.

Le tre forme di società non sono confondibili, anche se stori- camente abbiano avuto reciproche interferenze con tentativi di assorbimento delle autorità relative, le une nelle altre, e di sop- pressione dell'autonomia naturale di ciascuna secondo le vicis- situdini storiche in tutte le parti del mondo. In tutte tre le forme suddette l'autorità è stata sempre posta in una posizione morale altissima, esagerando perfino e creando dei miti inumani, per le naturali deviazioni dell'irrazionale o dello pseudo razionale, che caratterizzano la lotta di conquista dell'umanità verso la razio- nalità delle proprie forme organizzative.

L'orientamento moderno verso il panteismo di stato è una tremenda involuzione contraria allo spirito di progresso dell'uo- mo essere ragionevole, verso una mistica del potere che tutto assorbe e tutto comprende.

La cosa più strana che poteva capitare alla umanità credu- tasi libera perchè svincolatasi dalla soggezione a una legge na- turale di derivazione divina, e consolidata dal messaggio cri- stiano, è la corsa quasi fatale verso forme assolutiste e dittato- riali più aberranti di quelle degli antichi regimi, dando i l posto

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a un nuovo panteismo di stato ancora più tiranno di quello pre- cristiano.

Ma è proprio così: non volendo riconoscere nella persona- lità spirituale dell'uomo il segno divino, dal quale deriva l'etica individuale sociale - unica moralità, non due moralità, che nei rapporti sociali positivi si fa diritto - è venuta la teoria che lo stato sia l'unica fonte di diritto; e che quindi non esista un diritto naturale precedente e'superiore allo stato, così come non esista una finalità etica obiettivamente distinta dallo stato. - Da qui l'aberrante concezione di uno « stato-etico » cioè che

sia in sè e per sè normativo, al di fuori di ogni legame che non sia la sua stessa volontà realizzatrice, i l suo atto come dire? infinito? assoluto? creativo? divino?; purtroppo, ognuna di tali qualifiche lo assimila a quel Dio che lo stato moderno non sa riconoscere come fuori di sè e sopra di sè.

Da qui la conoscenza che la libertà, quella vera e quella dei liberali dell'ottocento, individualista, anarchica, asociale spesso, passata a sostanziare lo stato etico, diviene libertà della collet- tività a esprimersi e a realizzarsi eliminando la libertà degli in- dividui assorbiti nella realtà assoluta dello stato.

Arriviamo all'assurdo di uno stato che pensa, vuole, si espri- me, si autolimita, si sovrappone, assorbe ogni realtà: « nulla fuori, nulla sopra lo stato, tutto per lo stato e nello,stato D. De- finizione già nota che occorre ricordare ai dimentichi e distratti. La libertà passata dagli individui allo stato, teoricamente e pra- ticamente, sopprime le libertà individuali e degli enti concor- renti: famiglia, città, classi, regioni, chiese, perchè l'unico ente libero, autolibero, che assommi in sè ogni autorità e ogni libertà sarebbe lo stato.

Così concepito, lo stato manca di limiti intrinseci ed estrin- cesi; la libertà attribuita allo stato annulla quelle individuali e annulla i limiti naturali ad ogni autorità. L'investito o gli inve- stiti di poteri statali, in quanto investiti e attuanti la volontà dello stato, non hanno più responsabilità limitative; essi sono, in quell'atto potestativo, lo stato: stato-autorità, stato-forza, stato- libertà. Concezione assurda e inumana. Veramente panteista, in quanto lo stato così concepito non ha sopra di sè nè l'uomo nè Dio. Dio è scomparso e l'uomo è divenuto schiavo.

L'espressione più marcata del panteismo di stato è la ditta- tura moderna, nelle tre-forme come si è presentata d i dittatura

. socio-nazionalista (Mussolini e imitatori); ,dittatura nazionale- razzista (Hitler); dittatura bolscevico-comunista (Lenin-Stalin).

I presupposti teorici di tali tipi sembrano diversi da quelli

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sopraddescritti e più appropriati all'orientamento positivista dello statalismo giuridicoe-a quello idealista dello stato a etico M. Ma a parte le derivazioni dottrinali occidentali e i ripieghi teo- rici di fenomenologie mistico-politiche di occasione, la sostanza è la stessa: la concezione di un potere illimitato e di un tia- passo di tutti i diritti delle collettività nello stato, e quindi nel dittatore.

La differenza fra i sistemi dittatoriali e quelli democratici non è nelle premesse teoriche e neppure nella pratica articola- zione dell'amministrazione statale, è in quel poco di cristiane- simo che è rimasto nella coscienza dei popoli occidentali, non ancora soffocato dalla concezione statalista, e in quel rispetto delle libertà olit ti che, che rende ~ossibile, per quanto non molto effettuale, il dialogo fra i detentori del potere e i liberi cittadini in singolo o uniti in ,associazioni.

Ciò sembrerà esagerato al lettore superficiale, come sembrò esagerato a un mio amico un mio studio ~ubbl ica to in una ri- vista americana, nel 1936, nel quale derivavo l e dittature di Hitler e di Mussolini dalla concezione statalista democratica.

Lo statn reggreaent~tivi, priiiir. dvtte liberale e poi demo- cratico, trova in teoria la sua radice nella volontà popolare, la esprime, la rappresenta, la articola e la attua; si tratta però di una volontà potenziale, implicita, senza limiti e solo limitabile nelle realizzazioni concrete. Ammesso il principio che lo stato eia unica fonte di diritto, che lo stato crei una propria etica perchè esso stesso è intrinsecamente etico ; ammesso che la legge positiva sia l'unica vera legge, le conseguenze teoriche che in- fluiscono sulla pratica sarebbero le stesse di quelle derivanti dal- le premesse dello stato dittatoriale. La differenza pratica andrà scomparendo mano a mano che la resistenza civica si andrà at- tenuando, e questa sar.à sempre più fiacca mano a mano che la demagogia prende piede e accende il fuoco del mito rivoluzio- nario.

Chi oggi non ricorda il periodo delle dittature demagogiche e reazionarie del terrore, del direttori0 e dell'impero della ri- voluzione francese e. restando in Francia. la dittatura del terzo impero che fece seguito alla demagogia di piazza, non si renderà conto quanto brevi siano i-limiti fra le . rivolte e le dittature; fra l e democrazie demagogiche e le reazioni; per le quali (ecco il punto centrale) i detentori del potere statale ~ e r d o n o il senso del limite morale della loro ~ o t e s t à e affermano diritti illimitati sui singoli e sulla comunità. - , L'esperienza delle dittature di questo secolo è ancora ,più probante d i quella del secolo scorso, ma non è di differente na- tura. Si sono aggravate le ingerenze statali in quanto la struttura

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della vita moderna, resa dai nuovi mezzi tecnici più intensa e complessa, ha abbreviato distanze, abbattuto barriere di lingua, razza, economie; ha creato tipi di guerra globali che impegnano i popoli, avvicinando e distaccando intieri continenti.

Intanto, sotto la spinta delle necessità, pubbliche, lo stesso stato democratico tende a sostituirsi nei diritti e negli interessi dei privati. I1 vecchio limite fra diritti individuali o familiari e diritti pubblici o degli enti pubblici non regge più di fronte all'invadenza statale. I limiti giuridici sono facilmente sunera- bili da coloro che credond ches ia lo stato che crei i l diriito e che al di là del diritto positivo non esistano diritti umani intrin- seci e permanenti. I1 positivismo giuridico porta difilato al pan- teismo statale; e se fanno da freno il buon senso, la tradizione, il rispetto a certi principi sentiti ma non valutati come tali, ri- tornano in campo spesso le teorie positive in tutta la sfera del

, giure quasi fossero una conquista dell'individuo sulla società, mentre rendono l'individuo mancipio dello stato.

Coloro che affermano che la libertà individuale ancora esi- ste solo perchè il cittadino può parlare, scrivere e votare (cosa che sotto le dittature più non avviene), non si accorgono che la quasi scomparsa della libertà economica sotto la valanga dell'in- terventismo statale, in tutti i campi della produzione, porta fa- talmente all'attenuazione e alla scomnarsa della libertà wolitica

A

che vi è connessa, riducendo le libertà formali (d i riunione, di parola o di voto) mancanti di contenuto e auindi sterili e vane.

Rimarrebbe la valvola eléttorale per la quale è possibile, in teoria, cambiare non solo maggioranze e governi, ma anche me- todi e regimi. Ma chi si è accorto in Italia che il sistema ammi- nistrativo burocratico accentrato e invadente del fascismo sia

'oggi cambiato alla distanza di nove anni dal 25 luglio 1943 e , dopo otto anni dal 25 aprile 1944? E chi ha potuto togliere dalla mente del popolo italiano che lo stato possegga il tocca- sana per tutti i mali? che occorra per ogni qualsiasi servizio creare un ente pubblico statale o parastatale che vi provveda? che ogni cittadino debba essere ridotto a impiegato statale, as- sicurato statale, pensionato statale? che ci debba essere una ci- nematografia statale, un teatro statale, una pittura, scultura, mu- sica statale, danza statale, casini da gioco statali o bische statali, totocalcio statale, sport statale? e così via via ... nulla fuori o sopra lo stato, tutto e tutti nello stato e per lo stato e sostenuti dallo stato, come se lo stato fosse Dio, la provvidenza, la fortuna con la cornucopia.

È ben noto che fin dall'apparire dello stato moderno i cat- tolici cercarono di rendersene conto e opposero una certa resi-

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stenza che andò sviluppandosi fino alla più aperta opposizione. Mentre sul terreno strettamente religioso, specialmente durante le fasi più acute della rivoluzione francese, i cattolici non man- carono di coraggio, facendo anche il sacrificio della propria vita; sul terreno ideologico e politico si mostrarono impreparati e, nella maggior parte, legarono istituti e teorie religiose con di- ritti e interessi storici dei regimi passati e delle caste dominanti.

La catena al piede di posizioni politicamente equivoche e negative, fu portata per lungo tempo, sicchè l'intervento dei cat- tolici nella vita ~ubb l i ca nel secolo scorso, in molti casi fu po- sto quasi esclusivamente sul terreno difensivo, unendo « il trono con l'altare D, gli interessi temporali con quelli spirituali.

L'evoluzione è avvenuta tra l'ultimo &arto del secolo pas- sato e il presente, per l'apporto dei movimenti detti cristiano- sociali e democratici cristiani; e in seguito per gli effetti delle due guerre mondiali; e per una sempre maggiore spinta del- l'azione dei cattolici nel campo sociale.

Purtroppo l'inserzione delle dittature socio-nazionaliste fra l'una e l'altra guerra, influì in senso involutivo e statalista in quasi tutti gli ambienti cattolici, compreso quello anglo-sassone, così che la CE~PSE t e a r a fii fattt? ~ E S S E T P come dleztp. a!!e dittz- -

ture in Italia: Spagna, Portogallo e sotto certi akpetti in Ger- mania. Venne fuori una letteratura deteriore che invase i l campo cattolico, teorizzando il nuovo statalismo-corporativista, e la nuova intesa dell'autoritarismo statale con quello ecclesiastico.

L'esperienza dittatoriale che impegnò prima e durante la guerra quasi tutta l'Europa continentale, tranne i piccoli stati del nord, pur avversata dai democratici cristiani dei vari paesi, ha influito notevolmente a creare una premessa statalista nella concezione pubblicistica presente, anche nella mente dei demo- cristiani riapparsi nelle fasi della resistenza, specie quelli che venivano dai regimi dittatoriali in Francia, Italia, Germania, Austria e ne avevano subita l'impronta.

Gli eventi sono stati più forti di qualsiasi premessa teorica anche dei democristiani più preparati. Questi furono chiamati a dirigere il paese senza una sufficiente esperienza, trovando la nazione prostrata, lo stato disorganizzato e boccheggiante; ob- bligati a provvedere con mezzi di fortuna e con aiuti esteri molto limitati e insu5cienti a tanti bisogni e a tante miserie; obbligati, allo stesso tempo, a collaborare con partiti socialisti che rinverdivano le teorie di Marx e con una borghesia che tutto chiedeva allo stato per rialzarsi, e per giunta condividendo il potere per un certo tempo con i comunisti, veri cavalli di Troia delle democrazie post-belliche.

Lo statalismo, già inoculato nel sangue europeo dalle teorie

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naturaliste e.laiciste dette liberali dell'ottocento, fu potenziato dalle varie correnti politiche del socialismo mamista prima e del nazional-fascismo o razzismo in seguito. Era impossibile per le improvvisate e demagogiche democrazie dell'ultimo dopo- guerra cambiare rotta. Per giunta, nessuna sana teoria anti-stata- lista aveva corso. I cattolici italiani - che si potevano riallac- ciare alle nette posizioni popolari dell'anteguerra; quello del- l'appello « ai liberi e forti n, impegnati a sostituire con uno stato popolare « l o stato accentratore tendente a limitare e re- golare ogni potere organico e ogni attività civica individuale )) - pur avendo avuto il merito delle affermazioni di libertà e au- tonomia contenute nella costituzione, non reagivano alla cam- pagna statalista e abbandonarono i l terreno sotto il vano timore di scompaginare la consistenza e l'unità statale.

I1 difetto di una teoria dello stato, sostanzialmente e vera- mente cristiana, rende difficile la impostazione etica, organica e strutturale dello stato democratico. Le difficoltà di smontare la macchina soffocante della burocrazia sono rese più gravi, e direi insuperabili, dalle esigenze sociali quando si vestono di sociali- smo e comunismo come accade assai spesso.

Fra gli studi di sociologia e di psicologia dovrebbero meglio svilupparsi quelli sui vocaboli che fissano le idee atte a formare le cosidette ipostasi o entità nominali, figurative, rappresenta- tive delle collettività. La parola « stato » per il continente eu- ropeo e per i popoli europeizzati, è una di queste. I1 significato originario fu quello di comunità civica, e fu usato per distin- guere gli interessi dei cittadini da quelli del sovrano e della dinastia, la finanza pubblica da quella privata della casa re- gnante. In sostanza la parola stato era una traduzione moderna della res publica latina applicata a un regime monarchico as- soluto. Così nessuno mai parlò comunemente e storicamente di stato svizzero, ma di cantoni e di confederazione ; solo di recente si parla anche di nazione svizze~a, derivata più dal concetto d i nazionalità o cittadinanza anzichè da quello dr' una unità lingui- stica o razziale.

In Inghilterra, nell'uso comune non si parla di stato inglese O britannico, ma di Regno Unito; la parola stato è riservata a due concetti fondamentali, quello dei rapporti fra chiesa e stato (cioè comunità religiosa e comunità civica come due entità, pur essendo in Inghilterra unite nel capo: il re); oppure negli af- fari di stato nei rapporti fra il Regno Unito e gli stati esteri. Negli affari interni e nei rapporti con i cittadini si usano le parole di amministrazione, governo, parlamento. E d è logico:

25* - S W R m - Politica e morale

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stato sono i cittadini organizzati; non c'è rapporto esterno fra *. cittadini e organizzazione come se fossero due entità distinte.

Lo stesso uso è in America, con l'aggiunta che vi si parla di u Stati Uniti n per indicare l'autonomia sovrana di ogni singolo stato federato, non mai per precisare i rapporti col cittadino, che sono sempre quelli dell'admirtistration o del government o dell'assembly per ogni singolo stato; mentre per il governo fe- derale sono il congresso: senato e camera dei rappresentanti, l a Casa Bianca (presidente), i-dipartimenti e le molte agencies. L'unico organo che fa riferimento allo stato è i l Department of State, che corrisponde al nostro ministero degli affari esteri e che ha anche un potere coordinativo con gli) altri dipartimenti (ministeri) per i nflessi con l'estero.

Non esiste presso gli anglosassoni la ipostasi gonfiata e op- primente dello stato che si è creata nell'Europa continentale e che mantiene una distinzione fra l'entità astratta e i cittadini. Questa nacque nell'ancien régime, quando i monarchi mal tolle- ravano ed erano gelosi della personalità della res publica di- stinta dalla figura del re quale capo dello stato, e peggio tra fi- nanza personale della casa e finanza pubblica; mal tolleravano gli stati generali e i consigli di stato o i parlamenti e le univer- sità che si intrigavano negli affari di stato e simili; al punto da far dire a Luigi XIV: lo stato sono io, nel senso che la res publica si impersonava nel sovrano. -

In quel tempo e per un secolo ancora le principali contro- versie furono tra i monarchi e la Santa Sede o i vari episcopati, specie in materia di giurisdizione. Quel che un tempo era clas- sificato come conflitto fra C< il sacerdozio e l'impero » o fra « il potere spirituale e il temporale », fu detto conflitto fra u lo stato e la chiesa >). La parola stato si generalizzò con tale conflitto. -

L'epoca moderna passò dai conflitti .concordatari e giurisdi- zionali fra stato e chiesa alla separazione dello stato dalla chiesa. Le. due entità tornarono, quindi, a dominare nella opinione pub- blica con le vivaci controversie del tempo fra clericali e liberali (o. laicisti) e viceversa; mentre lo stato nazionale, che soverchiò e fece sparire lo stato monarchico assoluto, si presentò .come antagonista della chiesa, cercando di formarsi proprie teorie, propria cultura, proprie scuole, pur dicendosi rispettoso della libertà, della coscienza e della individualità dei cittadini.

Il cammino dell'idea dell'ente stato come esistente al di fuori dei cittadini stessi fu facile a trionfare alla luce delle teorie laiciste dal naturalismo enciclopedico fino al comunismo- bol- scevico.'

La teoria che basa la società sulla personalità umana, la quale ,

crea i 'diritti e i doveri nei rapporti reciproci sia individuali

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che sociali, se bene intesa è quella che si può mettere a. fronte delle teorie stataliste, sia del passato che del presente. La demo- a crazia cristiana l'ha fatta propria, ed ha,buona base per affer- mare la spiritualità cristiana della sua ispirazione e la democra- ticità del suo programma. Per essere coerente alle premesse oc- corre evitare che si confondano i diritti e doveri derivanti dalla personalità razionale dell'uomo, con i mezzi che l'uomo si crea per valorizzarli nella società. Lo stato è un mezzo necessario; ed è creazione dell'uomo nella concretezza storica di ciascuno stato e nei tentativi d i sintesi fra autorità-libertà nella quale si sostanzia il potere pubblico; mentre è la persona umana che per il bene comune si autolimita nei due fattori della sintesi sociale: l'autorità e la libertà.

Niente stato entità a sè, assoluta, deificata. Lo stato è con- cretizzazione di una delle tre forme originarie della socialità: la comunità civica; mezzo e non fine dell'attività degli uomini consociati, tendenti nel loro cammino terrestre a finalità che su- perano gli stretti confini di questo basso mondo.

8 agosto 1952.

(Sta in «Eresie del secolo D, Assisi, Ed. Pro Civitate Christiana, 1952).

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I N D I C I

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INDICE ANALITICO

BENE COMUNE, 63, 375-376. BOLSCEVISMO, 15, 29, 34, 75 (v. anche

comunismo). BORGHESIA, 40-42, 53, 123, 352, 359.

101-115, 192, 248-258, 303-304, 306, 316, 320, 330, 364-372, 385-387.

CENTRO (partito democratico cristia- no tedesco), 117-11& 120, 169.

CHIESA, 3-18, 20, 28, 35, 76-79, 163- 178, 179-195, 248, 266.267, 274, 316, 342, 363, 387-388.

CITTADINI, 147-162, 167, 364372 (v. anche diritti e doveri).

CNILTÀ, 14, 226-229. CIVILTA CRISTIANA, 35, 230-232. CLASSI LAVORATRICI, 40-42, 47, 350, 359.

COLLETTIVITÀ, 15-16, 123, 227, 346, 348, 356, 387.

COLONIE, 140-146.

COMUNISMO, 5, 71, 188, 192-194, 298, 318, 329, 350, 359.

COMUNITÀ INTERNAZIONALE, 308, 311. CONDIZIONAMENTO, 202-203. CONVINCIMENTO, 60, 204-206. CORPO ELEIMRALE, 48-51, 285-286, 300,

352, 361-363. CORPORATIVISMO, 34, 43-44. COSCIENZA MORALE, 59-60, 72-75, 78-79,

158-162, 198-231, 238-239, 253-256, 268, 299.

COSCIENZA RELIGIOSA, 14. COSCRIZIONE, 149.

DEMOUIAZIA, 11, 27, 37-57, 72, 262-264, 283-286, 326-356, 357-363, 367-370, 375, 385.

- CBISI DELLA, 37-57. DEMOCRAZIA CRISTIANA, 97, 263-264,

338-339, 368-370. D m ~ m E DOVERI, 147-162, 300-312, 358,

364-372. DIIUTID, 35, 6465, 73, 308-309. - I ~ A Z I O N A L E , 65. - NATURALE, 23-24, 342.

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DITTATUBA, 31, 52-53, 64, 383-387 (v. anche stato totalitario)

DOPOGUERRA, 67-68, 132-133, 140-141, 338.

IMPEGNO~ DEI CBISTUWI NEL MONDO,

76-115, 330. INDIVIDUALISMO, 39, 42, 54, 134, 263,

304, 350, 355. INGIUSTIZIA, 249-252, 290-292, 295-296. IEREDENTISMO, 138439.

OBIET~BI DI COSCIENZA, 78, 161. OPINIONE PUBBLICA, 73-75. ORDINE INTERNAZIONALE, 313-317 (v.

anche politica internazionale)

PACE, 276-282, 313-317, 335-339. PANTEISMO STATALE, 379-389 (v. an-

che statalismo). PARLAMENTO, 11, 44-46, 321, 337, 349-

350, 358. P m n , 31, 46-49, 8588, 105-115. - DEMOCRATICI CRISTIANI, 84, 107-109. PARTITO POPOLARE ITALIANO, 100-103,

106-107. P ~ S O N A , 15-16, 5455, 74-75, 261, 328,

346, 376-378. PERSONALITÀ, 136-139, 273, 304, 348,

388-389. POLITICA, 3-18, 58-96. 198-239, 265-275,

297-313, 336-337, 364378. - ESTEBA, 222-225. - -A, 217-221, 235. - ~NTEBNAZIONALE, 17, 119, 276-282,

308-309, '337-339, 371. POPOL~ OPPFSI, 132146, 255. POPOLO, 8, 38, 136-139, 264, 321, 341;

342, 359-362, 374. POSSESSO, 3-18 POTEBE, 3-18, 49.51, 62, 98, 270, 273,

285296, 340-356, 358, 381-383. - TEMPOB~LE, 179-187, 266.

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SCHIAVITÙ, 3, 5,12, 144, 246, 312, 357. SCUOLh STATALE, 32-33. Soc~mA, 5-18, 233, 246, 267, 303, 342,

376-378, 384. Soc~mA DELLE NAZIONI, 66-69, 132-133,

141, 144146, 156-157, 160, 188-195, , 277-282, 296, 310, 314.

SOCIALISMO, 27, 40, 42, 83-86, 118, 318, 329, 359.

SOVRANITA, 10, 22-24, 273, 361.362. SOVRANITÀ POPOLARE, 8, 23, 195, 341,

342-346. ,

STATALI~M~, 9&101, 360, 375, 379-389. STATO, 8.18, 19-36, 98-101, 151-154,

195, 243-247, 255.257, 267-275, 287- 288, 302-312, 336-337, 373.378, 379- 389. ,

- FONTE DI D I R m , 373374. - TOTALITARIO, 1936, 57, 259-261, 299,

306, 328, 343.

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INDICE DEI NOMI

ACHILLE, 234. ADAMO, 227. ALBERTINI Luigi, 121. ALESSANDRO I11 papa.? 183. ALFONSO XIII di Spagna, 169. ANILE Antonino, 108. ARCOLEO Giorgio, 45. ASBWRGO (casa), 28, 138, 1391 ATRE Clement, 371. A Z ~ A Manuel, 126.

BELLARMINO Roberto, 163, 171, 250, 342.

B F . N E D ~ XV, 168, 187, 189, 190, 191, 277, 311, 314, 316, 370.

BERNARW san, 183. B ~ s s o mons. 190. BETRMANN-HOLLWEG Theobald von,

62. BISMARCK Otto von, 26, 27, 62, 234. BLUM Léon, 260. BODIN Jean, 22. BONIFACIO VIII, 3, 188. BQNTADINI Gustavo, 244. BORGIA Cesare, 62: B o s s m Jacquea Bénigne, 23, 24. B m o Emanuele, 25. BOURNE card. Francis, 76, 77, 78, 79,

82, 86. BAOMBACHER Kuno, 303. BR~NING Heinrich, 80, 118, 119, 193.

CAINO, 227. CALVINO Jean, 189. CAMPANELLA Tommaso, 336. CASTELNAU gen. Edouard de, 113. CATHREIN Victor, 165, 166. CESARE, 289. C H E S ~ T O N Gilbert Keith, 81. CHURCHILL Winston, 371. CICWONE, 306, 358. ' C L E M ~ XIV papa, 184. , COMBES Emile, 101, 126: COMTE Auguste, 54, 98, 192. COMMODO, 289. CORBINO Epicarmo, 108. CRISPI Francesco, 110. CROCE Benedetto, 108. CROMWELL Olivier, 362. CURTIUS Juiius, 119.

DANIELE, 373. D'ANNIBALE card. Giuseppe, 300, 302. D'ANNUNZIO Gabriele, 108, 111. DANTE, 235. Dmo, 373. D A V ~ E , 372. DE BONO Emilio, 112. DECOUR~NS Gaspard, 338. DOLLFUSS Engelbert, 43, 169, 300,

307. D O M I Z ~ O , 289. DONATI Giuseppe, 111. DBEYFUS Alired, 31, 93, 109. DUGUXT Léon, 171, 250.

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EDEN Anthony, 193. E n o m VI11 d'Inghilterra, 13, 62. ELISABET~A d'Inghilterra, 351. ENGHIW, duca di, 73, 315. E m c o I1 d'Inghilterra, 73'. E s m , 286. EVA, 227.

FACTA Luigi, 121, 176. F m a n m padre O.P., 301. FEDERIW di Prussia, 28, 351. Feo~aico I1 di Svevia, 189. F I C H ~ Johann Gottlieb, 26, 27, 319,

343. FRANaco GIUSEPPE d'Asbnrgo, 315. F~.~+~cEsco da Paola (san), 4. FRANw Francisco, 70, 105.

G.~I~IIXGOU-LAGBANGE R. OP., 271, 175. 177, 251.

GASPARRI card. Pietro, 106, 172. GENTILE U e r i c o , 65, 516. GENTILE Giovanni, 243, 244, 247. ,

GENY Franco&, 171, 249. GESÙ Cristo, 35, 36,,74, 114, 125, 126,

129, 174, 181, 182, 224, 231, 232, 269, 271, 299, 311, 315, 345.

G r ~ c o ~ o vesc. di Capua, 189. GIOBEUTI Vincenzo, 338. G ~ o m Giovanni, 108, 111, 121, 122. GIOVANNI evangelista, 3, G ~ u s n m o , 341. G o m c Hermann, 354. GOLIA, 373. t

GQYAU Georgee, 249. GBECORIO Magno, 183. GriEcoaio VII, 4, 183. GBEGOBIO M, 189. Gmcoaro XVI, 163, 164. G m lord Edward, 122. &ozio Ugo, 65. GUGLIELMO I1 di Prumia, 27, 188,

214. -

HEGEL Friedrich Wilhelm, 26, 27, 54, 98, 343.

HENDERSON Arthur, 79, 91. HENLEIN Konrad, 320. HEBNIANT M?, 113. HITLEB Adolf, 33, 69, 75, 88, 89, 105,

113, 116, ii7, 121, 126, 129, ids, 149, 167, 169, 170, 192, 193, 214, 223, 260, 268, 277, 354, 362, 383, '

384. HOARE Samuel, 58, 59. HOBBES Thomas, 23, 24, 98, 324, 342. HUDILL mom. Alois, 303. HUGENBER~ Alfred, 121.

J O H A N N E T Réné, 251.

Ituvr Emmannel, 343. KECWGG Frank Billings, 156, 157,

5 9 , 296. KETLER Wi?helm Emanuel, 338.

LACORDAIRE Jean Baptiste Henri, 338. LAS CMM Barthélemi de, 312. LASKI Harold J., 25. ~ V A L . Pierre, 58, 59, 62, 69, 119, 224. LECLEBCQ Jacques, O.B., 176. LE FUB Louis E., %9. LEMm Julea A., 338. LENM Vladimir Ilich, 33, 383. LEONE Magno, 181, 182. l

LEONE 111, 183. LBONE XIII, 89, 163, 164, 167, 168,

170, 172, 186, 191, 246, 298, 332, 338.

Lo- John, 171, 250, 342. LUIGI '=V, 25, 62, 214, 351, 388. LUIGI XV, 286. LUIGI XVI, 319, 340. L U ~ O Martin, 22, 23, 25, 36, 125,

126.

HABMEL Léon, 338. " MACDONALD James Ramsap, 79. I ~ ~ U ~ I O U Maurice, 249. ~CHUELLI Niccolò, 21, 22, 36, 62.

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MADELIN LOuis. 113, 114. MAGNIN abate, 176. MANZONI Aleseandro, 338. M A O M E ~ , 32, 33. MARC'AUR~LIO, 289. MARIANA Juan, 342. MARITAIN Jacques, 170, 248. MARX Karl, 27, 343, 386.

I MARX Wilhelm, 118. M ~ m m Giacomo, 72, 73, 112. MAURRAS Charles, 66, 105, 170, 248,

252. MCCORMICK Ann, 371. MICHEWLNGELO, 180. I

MILLERAND Alexandre, 249. M o ~ m v (Skriabine Viacheslav), 371. MONROE James, 55. MONTALEMBEXT Charles, 338. MORO Tommaso, 336. MUSSOLINI Benito, 33, 46, 69,*74, 91,

103, 105, 109, 113, 116, 117, 120, 122, 362, 383, 384.

NAPOLEONE Eonaparte, 30, 32, 74, 104, 149, 167, 188, 214, 268, 315, 326, 359, 362, 374.

NAPOLEONE 111, 95, 294, 359, 362. NAUDET Paul Antoine, 338. NERONE, 289. Nrrn Francesco Saverio, 121.

O'CONNELL Daniel, 338. OLDFIELD (dep. ~ a t t . ) ~ 77, 78. OLGIATI Francesco, 244. ORLANDO Vittorio Emanuele, 121, 133.

PACELLI card. Eugenio (Pio XII), 322, 370.

PAGANELLI, 183. P A O ~ di Tarso, 181, 289, 304, 305,

340, 344, 345, 375, 381. P A P ~ Franz von, 118, 119, 121, 300. PASCAL Blaise, 73, 280. . PERROUX Francois, 127. PEETINAX (Geraud André), 193.

PÉTAIN Philippe, 359. ' ' *

PETRABCA Francwco, 235. PIETRO 9811, 75, lm, 186. PILSUDSKI Jcseph, 19, 169. PLATONE, 336. Pro VII, 167, 188, 192. Pro IX, 164, 192, 293, 294. Pro X, 172, 186. '

PIO XI, 35, 81, 86, 87, 90, 96, 103, 131, 173, 175, 177, 190, 191,' 193, 231, 259, 300, 310, 317, 318, 322, 364, 365, 367.

PIPINO il Breve, 167, 176, 243. POULLET Prosper, 84. POTTIER abate Antoine, 338. '

RATHENAU Walter, 119. RIQUET Michel, 170, 171, 172, 249, ' '

250. R r m Emil, 303. RIWA Primo de, 105, 168. ROOSEVELT Franklin Delano, 56, 371. ROSMINI Antonio, 338. ROSSELLI (frstelli), 72. ROUSSEAU Jean. Jacques, 23, 24, 98,

246, 247, 263. 322, 343, 345, 350. .

SALANDRA Antonio, 111, 121, 122. SCHLEICHER Kurt von, 119. SCHOBER Hans, 119. SCHRAMECK (min. frane.) 170, 248. SCHUSCHNIGG Kurt Edouard, 294. SCHUSTER card. Ildefonso, 87. SCURR I., 78. SEGURA card., 169. SILVESTRO papa, 181. SIMPSON Wally, 62. SPAHN Martin, 118. SPAHN Ottomaro, 118. SPICQ P., 283, 284. STALIN Josiph, 69, 371, 374, 383. STETIINIUS Edward Reiiley, 371. STBESEMANN Gustav, 119. STURZO Luigi, 100, 342. SUAREZ Francisco, 65, 158, 311, 342.

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TAPABELLI D'AZEGLIO Luigi, 164, 165. TARDIEU André, 119. TEBTULLUNO, l&. THOMPSON Doroty, 371. TIBERIO, 289. TOMMASO d'Aquino, 166, 171, ' 250,

252, 253. TOMMASO Beckett, 73. TONIOM Giuseppe, 338. TRAUNO, 235, 289. TREVELYAN Charles Philip, 78. TRUMAN Harry, 371.

VAN ZEELAND Paul, 84, 260. VASQUEZ Augustin, 158. VEUILLOT Louis, 50.

VILLEMAIN Francois, 50. VITIKINDO, 113. VI= Francisco, 65, 158. V I ~ R I O Emanuele 11, 180. VITTORIO Emanuele 111, 113.

WELLES Summer, 371. .

WILSON Woodrow, 145, 189. WINDHORST Ludwig, 338. WIRTH Joseph, 118, 119.

YOUNG Owen D., 119.

ZACCARIA papa, 167. .. ZIGLIAEA card. Tommaso Maria, 166.

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TAVOLA DELLE MATERIE '

Awertenza . . . . . . . . . . . .

POLITICA

Cap. I Cap. I1 Cap. I11 Cap. IV

. Cap.V Cap. VI

Cap. VI1

Cap. VI11

cap. IX

Cap.. X

Cap. XI

E MORALE

Possesso e potere . . . . : . . Lostatototalitario . . . . . . La crisi della democtazia . . . . . . Morale e - politica in conflitto . . La collaborazione politica e la morale . La carità cristiana e la politica . . . Germanesimo e civiltà cristiana

A) Fasci e croce gammata . .. . . B) La Germania verso l'apostasia . . Popoli oppressi

A) Nazionalità, minoranze, razze . . . B) 11 problema delle colonie . . . . Il 'diritto del cittadino in caso di guerra

Il diritto di rivolta e i suoi limiti . .

v-

COSCIENZA E POLITICA

. . . pag. X I

I. Dei fini e dei mezzi . . . . . . . . . . n 199

11. Del condizionamento . . . . . . . . . . n 202

111. Del convincimento . . . . . . . . . . . n 206

IV. Della veridicità,. . . . . . . . . . . . a 207

V. Della moralità . . . . . . . . . . . . a 211.

VI. Dei rapporti politici all'intemo . . . . . . . n 217 .

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. . . . . . . 1 1 Dei rapporti politici con l'estero n 222

. . . . . . . . . VI11 Ii valore etico dell'inciviliiento n 226 . . . . . . . . . . . IX La civiltà cristiana n 230

. . . . . . . Note e suggerimenti di politica pratica n 233

APPENDICE

. . . . . . . . . . . 1 . L'eticità dello stato » 243

. . . . . . . . . . . . 2 Ribellione allo stato n 248

. . . . . . . . . . . . 3 L'uomo e il regime n 259 . . . . . . . . . . . 4 La a nostra n democrazia n 262

. . . I 5 . 11 problema di una concezione morale della politica n 265

. . . . . . 6 La pace internazionale nel momento presente n 276 . . . . . . . . . 7 Dellhbbidienza ai poteri costituiti n 283

. . . . . . . . . b . La politica nella teologia morale n 297 . . . . . . . . . . . 9 L'ordine internazionale n 313

. . . . . . . . 10 . L'ordine internazionale e la pace n 315 . . . . . . . . . . . 11 Il nazionalismo a esagerato n n 318

. . . . . . . . . . . . . . . 12 . La libertà n 321 . . . . . . . 13 . Conquista ed esperienza della libertà n 323

. . . . . . . . . . . . 14 Lo spirito della democrazia n 326 . . . . . . . . 15 . Democrazia. autorità e libertà n 340

16 . Autogoverno e suoi limiti . . . . . . . . . n 357 . . . . . . . . . 17 . Doveri politici del cihadino n 364.

. . . . . . . . . . . 18 . Politica e moralità n 373

. . . . . . . . . . . 19 . I1 panteiemo di stato n 379 . . . . . . . . . . . . . Indice analitico D 393

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . D 397

Tavola delle materie . . . . . . . . . . . . . n 6 0 1

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Prezzo (I.G.E. compresa) L. 3.800 dopo l'entrata in vigore dell'1.V.A.

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