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Indirizzo mail: [email protected] Direttore Generoso Andria, Napoli Redattore Capo Francesca Santamaria, Napoli Comitato di Direzione Andrea Biondi, Monza Antonio Cao, Cagliari Giovanni Cioni, Pisa Giovanni Corsello, Palermo Alberto Martini, Genova Pierpaolo Mastroiacovo, Roma Luigi Daniele Notarangelo, Boston Luca Ramenghi, Milano Fabio Sereni, Milano Riccardo Troncone, Napoli Comitato di Redazione Salvatore Auricchio, Napoli Stelvio Becchetti, Genova Sergio Bernasconi, Parma Alessandro Calisti, Roma Mauro Calvani, Roma Antonio Correra, Napoli Liviana Da Dalt, Padova Maurizio de Martino, Firenze Pasquale Di Pietro, Genova Alberto Edefonti, Milano Renzo Galanello, Cagliari Carlo Gelmetti, Milano Achille Iolascon, Napoli Riccardo Longhi, Como Giuseppe Maggiore, Pisa Paola Marchisio, Milano Bruno Marino, Roma Eugenio Mercuri, Roma Paolo Paolucci, Modena Franca Rusconi, Firenze Luigi Titomanlio, Parigi PACINI EDITORE MEDICINA Vol. 41 • N. 163 Luglio-Settembre 2011 Redazione e Amministrazione Pacini Editore S.p.A. Via Gherardesca, 1 56121 Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 [email protected] Stampa Industrie Grafiche Pacini, Pisa Abbonamenti Prospettive in Pediatria è una rivista trimestrale. I prezzi dell’abbonamento annuo sono i seguenti: PREZZO SPECIALE RISERVATO A SOCI SIP: € 20,00. Contattare: fax +39 02 45498199 E-mail: [email protected] Italia € 60,00; estero € 70,00; istituzionale € 60,00; specializzandi € 35,00; fascicolo singolo € 30,00 Le richieste di abbonamento vanno indirizzate a: Pro- spettive in Pediatria, Pacini Editore S.p.A., Via Gherarde- sca 1, 56121 Pisa – tel. +39 050 313011 – fax +39 050 3130300 – E-mail: [email protected] I dati relativi agli abbonati sono trattati nel rispetto delle disposizioni contenute nel D.Lgs. del 30 giugno 2003 n. 196 a mezzo di elaboratori elettronici ad opera di soggetti appositamente incaricati. I dati sono utilizzati dall’editore per la spedizione della presente pubblica- zione. Ai sensi dell’articolo 7 del D.Lgs. 196/2003, in qualsiasi momento è possibile consultare, modificare o cancellare i dati o opporsi al loro utilizzo scrivendo al Titolare del Trattamento: Pacini Editore S.p.A., Via Gherardesca 1, 56121 Pisa. Le fotocopie per uso personale del lettore possono es- sere effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere pro- fessionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilascia- ta da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, E-mail: [email protected] e sito web: www. aidro.org. © Copyright by Pacini Editore S.p.A. Direttore Responsabile: Patrizia Alma Pacini Rivista stampata su carta TCF (Total Chlorine Free) e verniciata idro.

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INDICE numero 163 Luglio-Settembre 2011

NEONATOLOGIA (a cura di Luca Antonio Ramenghi)

Presentazione

La vulnerabilità dell’encefalo del neonato tra proiezioni prognostiche e principi di neuroprotezioneLuca Antonio Ramenghi, Monica Fumagalli, Giovanni Cioni, Eugenio Mercuri ..................................................................................... 111

Ipotermia come neuroprotezione del neonato con asfissia perinataleGina Ancora, Giulia Pomero, Licia Lugli, Fabrizio Ferrari ...................................................................................................................... 117

La neuroradiologia neonatale tra potenzialità diagnostiche ed applicazioni clinicheFabio Triulzi, Filippo Arrigoni, Mariasavina Severino, Andrea Rossi ...................................................................................................... 122

NEurOpSIChIATrIA (a cura di Giovanni Cioni)

Presentazione

Attualità nell’individuazione precoce dei disturbi della vita mentale: l’autismo come esempioFilippo Muratori, Antonio Narzisi, Giovanni Cioni .................................................................................................................................. 135

La dislessia evolutiva: modelli fisiopatologici e modalità di diagnosi e trattamentoDaniela Brizzolara, Anna Maria Chilosi, Filippo Gasperini ..................................................................................................................... 143

Il trattamento farmacologico dell’epilessia del bambinoAnna Rosati, Melania Falchi, Renzo Guerrini ........................................................................................................................................ 149

FrONTIErE (a cura di Antonio Cao, Luigi D. Notarangelo, Achille Iolascon, Andrea Biondi)

Il sequenziamento dell’esoma per l’identificazione di geni-malattia e la diagnosi molecolarePasquale Piccolo e Nicola Brunetti-Pierri ............................................................................................................................................. 156

FOCuS (a cura di Generoso Andria)

recenti progressi nella neuroriabilitazione delle paralisi cerebrali infantiliErmellina Fedrizzi ................................................................................................................................................................................. 165

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In questo numero si sono volute sottolineare le novità nell’ambito delle lesioni cerebrali del neonato, in prevalenza di quelle acquisite in età perinatale. Per la prima volta nella storia della medicina perinatale esiste una terapia specifica in grado di modificare la prognosi di una condizione neurologica acquisita quale l’asfissia perinatale, grazie all’introduzione dell’ipotermia. Le tecniche di raffreddamento cerebrale e soprattutto i criteri di inclusione dei nati patologici sono ben spiegati grazie al magistrale contributo del gruppo di lavoro di neurologia neonatale diretto dal professor Fabrizio Ferrari. Questi autori avevano già fornito, sotto l’egida della Società Italiana di Neonatologia, le linee guida con tale efficacia e tempismo da precedere anche le ultimissime conferme scientifiche derivanti da ulteriori studi, che han reso più robusta l’evidenza scientifica dell’ipotermia nella cura del nato asfittico. È una area nella quale c’è ancora molto fermento di ricerca, non tanto per ottimizzare la tecnica, ma soprattutto per incrementarne l’efficacia affiancandola all’uso di farmaci per via endovenosa (es allo-purinolo) oppure per via gassosa (es Xenon). La chiarezza della diagnosi lesionale dell’asfissia e della diversa tipologia è stato fondamento imprescindibile alla crescita culturale sull’argomento asfissia, e non poteva pertanto mancare l’inquadramento neuroradiologico ad opera della Risonanza Magnetica. Due neuroradiologi pediatri di valenza internazionale come Andrea Rossi e Fabio Triulzi ci ricordano non soltanto la complessità delle malformazioni cerebrali alla luce dei nuovi tentativi di classificazione, ma ci aiutano a far capire l’importanza della Risonanza Magnetica che ha letteralmente fatto scoprire mondi inesplorati, come quello della prematurità, seguendo passo per passo la cangiante morfologia dell’encefalo neonatale, nelle varie età gestazionali. La forza di un’immagine aiuta tutto il processo di sensibilizzazione culturale sull’argomento, vedere un encefalo di fatto senza circonvoluzioni come fisiologicamente e a 23 settimane di gestazione aiuta a capire l’importanza e la delicatezza delle cure intensive neonatali, da intendersi sempre più intensive e meno invasive, per mimare al meglio la vita intrauterina, proteggendo l’encefalo del pretermine al meglio dalle mille insidie di una vita extrauterina così precoce. È questo uno dei passaggi più importanti nello studio e nella ricerca della neuroprotezione che andrebbe finalizzata non soltanto alle variegate lesioni cere-brali (emorragia intraventricolare, leucomalacia), ma anche alla diversa vulnerabilità dell’encefalo alle diverse età gestazionali, nelle quali i processi di maturazione cerebrale appaiono solo in parte nella loro poco esplorata complessità. L’auspicio è che il nostro sforzo contribuisca a far conoscere meglio questo mondo al pediatra generalista, anche lui coinvolto, magari in un secondo momento, nelle cure dei bambini ex pretermine, o con lesioni cerebrali.

Luca RamenghiPatologia Neonatale, Istituto G. Gaslini, Genova

Neonatologia

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 111-116

La lesione cerebrale “perinatale”

Per lesioni cerebrali “perinatali” si intendono tutte quelle lesioni ce-rebrali che colpiscono i nati pretermine e a termine e che si ritengo-no in un qualche modo correlate all’evento nascita che sempre più raramente è espressione di traumatismi o difficoltà estrattive.Alcune di queste lesioni vengono diagnosticate in seguito ad eventi clinici ben definiti, come le lesioni ischemiche dei nuclei della base e dei talami che seguono una asfissia perinatale, o gli infarti ischemici arteriosi che possono essere preceduti da convulsioni cloniche in neonati precedentemente in pieno benessere, degenti al nido. Altre lesioni sono invece molto più difficili da sospettare, perché prive di una specifica presentazione clinica. In questi casi la diagnosi neu-roradiologica può avvenire perché il neonato a termine sviluppa una sintomatologia neurologica aspecifica (letargia o scarso interesse nell’alimentazione) oppure perché si utilizzano tecniche di screening neuroradiologico come l’ecografia cerebrale transfontanellare in quelle categorie di neonati a maggior rischio neurologico, che sono

i nati pretermine con età gestazionale inferiore alle 30 settimane di gestazione.In questi neonati rimane di fondamentale importanza la qualità della nascita che idealmente dovrebbe avvenire nei centri di neonatologia di terzo livello al fine di ridurre al minimo quei rischi di sviluppare specifiche patologie della prematurità, quali soprattutto l’emorragia intraventricolare (Gleissner et al., 2000; Heuchan et al. 2002; Ra-menghi et al., 2011) ed, in secondo piano, le lesioni della sostanza bianca (leucomalacia periventricolare).

La intrinseca vulnerabilità dell’encefalo in funzione della età gestazionale

Con l’avvento della Risonanza Magnetica (RM) nello studio dell’en-cefalo neonatale, si sono potute osservare molte delle fasi della ma-turazione cerebrale nelle diverse età gestazionali fino al termine, e le varie lesioni che caratterizzano le diverse età della prematurità.

La vulnerabilità dell’encefalo del neonato tra proiezioni prognostiche e principi di neuroprotezione

Luca Antonio Ramenghi, Monica Fumagalli*, Giovanni Cioni**, Eugenio Mercuri***

Patologia Neonatale, Istituto Pediatrico “G. Gaslini” IRCCS; * NICU, Fondazione IRCCS “Ca’ Granda”, Ospedale Mag-giore Policlinico, Milano; ** Neuropsichiatria infantile e Dipartimento Clinico di Neuroscienze dell’Età Evolutiva della Fondazione IRCCS Stella Maris di Calambrone (Pisa); *** Cattedra di Neuropsichiatria Infantile, Università Cattolica e Policlinico Gemelli di Roma

RiassuntoLe lesioni cerebrali che colpiscono il neonato a termine presentano una incidenza invariata, nonostante l’introduzione di tecniche di neurprotezione come l’ipotermia per i nati asfittici. Il danno neurologico del neonato pretermine si presenta diversamente, in funzione della diversa età gestazionale. I nati pretermine tra le 34 e le 37 settimane di gestazione presentano la più ampia gamma di lesioni cerebrali, perché possono avere sia quelle dei neonati più prematuri che quelle dei neonati a termine. L’incidenza di alcune lesioni cerebrali (leucomalacia periventricolare ed emorragia intraventricolare) è sicu-ramente diminuita nei nati pretermine tra le 28 e le 32 settimane di gestazione. Con la sopravvivenza dei neonati a più basse età gestazionali vengono descritte nuove lesioni cerebrali, quali le emorragie cerebellari, mentre nuove forme di anomalie cerebrali, definibili come non lesionali, sono evidenziate da sofisticate tecniche di neuroimaging, quali la Diffusion Tensor Imaging (DTI). La necessità di migliorare le strategie di neuroprotezione viene discussa sia per i nati a termine che pretermine insieme alla necessità che i neonati altamente pretermine possano beneficiare di certe sostanze come la caffeina, l’eritropopietina e la melatonina.

SummaryPerinatal brain lesions affecting newborn a term of gestation present a similar incidence compared to several years ago despite the introduction of specific form of treatment (i.e. hypothermia) aiming to improve neurological outcome of certain conditions like asphyxia. A different scenario is perceived for the preterm brain presenting a different vulnerability according to different gestational ages. Late preterm babies can develop a wide range of brain abnormali-ties including those of the most premature babies and those affecting newborn at term, in addition to a specific vulnerability to hypoglycaemia. A reduced number of lesions (like periventricular leukomalacia and intraventricular haemorrhage) has been observed during the last decades in certain gestational ages (28-32 wks of gestational age) while the increased surivival of those babies at the lowest gestational ages may cause a new increase of neurologial handicaps. In this group of babies new pathologies, like cerebellar lesions, are observed, together with different kind of developmental brain abnormali-ties diagnosed with sophisticated neuroradiological techniques. The contribution of these new neuroradiological techniques, like Diffusion Tensor Imaging, are described in order to define this new non lesional entity of developmental brain abnormalities. The need of improving neuroprotective strategies is discussed for both term and preterm babies. Preterm babies with lowest gestational ages may also benefit of new neuroprotective drugs like caffeine, erithropoietin and melathonin.

NEoNAToLoGiA

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L.A. Ramenghi et al.

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Più bassa è l’età gestazionale più elevato è il rischio di sviluppare alcune lesioni, come le emorragie cerebellari e le emorragie della matrice germinative/intraventricolari (GMH-IVH) che però si possono presentare anche più tardivamente, in neonati con età gestazionale superiore alle 27-28 settimane, ed ancor più raramente, nei nati “late preterm”. È possibile diagnosticare emorragie intraventricolari anche nei nati a termine, solitamente però queste sono legate a pro-cessi fisiopatologici diversi come sanguinamenti dai plessi corioidei, trombosi venose cerebrali (Wu et al., 2003) o difetti congeniti della coagulazione.La diversa vulnerabilità dell’encefalo ad una simile noxa patogena, si può intuire dai diversi effetti che l’asfissia alla nascita determina. Nel nato a termine asfittico, le aree che più tipicamente sviluppano una lesione sono i nuclei della base ed i talami, mentre man mano che l’asfissia colpisce nati di più basse età gestazionali, strutture ipotalamiche ed anche la sostanza bianca possono venire coinvolti, perché aree colpite in una fase di maturazione intermedia, e quin-di più suscettibili nella prematurità, e molto più protette quando si raggiunge il termine. Un pretermine di bassa età gestazionale che nasce con asfissia, paradossalmente, può anche semplicemente presentare una emorragia intraventricolare come esito dell’asfissia.Anche la distribuzione delle lesioni della sostanza bianca, più sem-plicisticamente ed impropriamente note come “leucomalacia peri-ventricolare”, riflette la diversa maturazione della sostanza bianca stessa, più precoce nella parte posteriore rispetto a quella anteriore dell’encefalo. Sono le aree posteriori quelle ove le lesioni più facil-mente si collocano, quando invece le lesioni sono presenti nelle aree frontali, le stesse concomitano sempre a lesioni posteriori più gra-vi. L’ipotesi è che queste aree posteriori siano molto più vulnerabili perché più capaci di mediare quei processi infiammatori che por-tano alla formazione della lesione, in particolar modo attraverso gli oligodendrociti. Questo timing di vulnerabilità-gestazione specifica (tra 27 e 32 settimane) a carico degli oligodendrociti, può spiegare perché i neonati di 23, 24 e 25 settimane di gestazione rarissima-mente sviluppino lesioni della sostanza bianca a tipo leucomalacia periventricolare (Hamrick et al., 2004). La sostanza bianca stessa a quelle basse età gestazionali è così immatura da non poter mediare l’infiammazione, se pur iniziata da processi ischemici e/o infettivi. Il fisiologico ritardo della maturazione della parte anteriore dell’ence-falo si conferma anche in un ritardo della “solcazione” e “girazione” che matura nella parte frontale solo dopo quella posteriore.

Evoluzione del concetto di lesioneSpecie per i nati di bassissima età gestazionale, la cui aspettativa di vita è enormemente migliorata negli ultimi anni (Fig. 1), l’esito neu-rologico non dipende esclusivamente dalla presenza di una lesione cerebrale macroscopicamente visibile. Più bassa è l’età gestaziona-le maggior è il rischio di deficit cognitivi e comportamentali e più alta la probabilità che l’encefalo non maturi adeguatamente anche in assenza di evidenti lesioni. Alcuni studi sembrano dimostrare come l’architettura delle connessioni della sostanza bianca dei pretermine di alto grado sia povera e patologica anche in assenza di emorragie e/o ischemie. Questa immaturità è prevalente nella sostanza bianca e la si nota particolarmente in alcune aree, come quelle frontali (An-jari et al., 2007), grazie a sofisticate tecniche di Risonanza Magneti-ca, quali la Diffusion Tensor Imaging (DTI), in grado di visualizzare la ricchezza di sostanza bianca (Fig. 2). Altri fenomeni di maturazione cerebrale, ancor più difficili da visualizzare, si spingono anche nel-la seconda metà della gravidanza, quando si notano proliferazione cellulare e morte cellulare programmata (apoptosi). La complessità

dei fenomeni di maturazione anche ad età gestazionali più elevate è davvero poco conosciuta, basti pensare al ruolo di un gruppo di neuroni, definiti “subplate neurons” che giacciono al di sotto della corteccia cerebrale, e che lì rimangono fino a poco dopo la nascita (McQuillen et al., 2005). Il loro compito sembrerebbe essere quello di organizzare connessioni, in parte in modo dinamico, influenzabili dall’ambiente, ed in parte in modo programmato. La vulnerabilità di questa fase sembra essere maggiore nell’età dei “late preterm”, tra 34 e 37 settimane di gestazione, anche se non vi è una specifi-ca lesione che identifichi questa fascia gestazionale (Kinney et al., 2006).

Il contributo delle tecniche di neuroradiologia alla formulazione prognosticaSono passati circa 25 anni dall’introduzione dell’ecografia transfon-tanellare, ed enormi sono stati i vantaggi derivanti dal suo utilizzo.

Figura 1.Tassi di sopravvivenza dei nati ≤ 26 settimane di età gestazionale in Svezia negli ultimi 20 anni (dati non pubblicati, cortesemente forniti dal-la dr.ssa Béatrice Skiöld, PhD Thesis, Karolinska Institutet, Stockholm, Sweden).

Figura 2.La tecnica di Diffusion Tensor Imaging (DTI) è stata utilizzata per valu-tare la ricchezza in fibre (anisotropia) della sostanza bianca in un grup-po di nati pretermine, a termine di età corretta, senza lesioni cerebrali focali. Mediante una sofisticata analisi statistica i dati di DTI sono stati confrontati con quelli ottenuti in un gruppo di neonati a termine sani ed il risultato è rappresentato in queste immagini. Il colore blu indica i tratti di sostanza bianca (a livello della sostanza bianca frontale, ginocchio del corpo calloso e centro semiovale) in cui “l’anisotropia regionale” è più bassa nei nati pretermine rispetto ai neonati a termine, indice di una minor ricchezza in fibre di queste aree.Da Anjari et al., 2007 con il permesso di M.A. Rutherford.

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La vulnerabilità dell’encefalo del neonato tra proiezioni prognostiche e principi di neuroprotezione

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Ancor oggi essa è la metodica principe come screening delle lesioni della prematurità, e mantiene anche una elevata valenza prognostica (Tab. I) perché permette di differenziare i gradi più gravi dell’emor-ragia intraventricolare, incluso il coinvolgimento delle lesioni paren-chimali unilaterali da infarto venoso, così come la presenza delle cavitazioni della sostanza bianca periventricolare in corso di leuco-malacia periventricolare, diagnosi che ha una sensibilità predittiva per diplegia spastica maggiore del 94%.L’ecografia cerebrale transfontanellare pur rimanendo la tecnica di indagine neuroradiologica ideale nella fase acuta del nato pretermi-ne perde valenza diagnostica, e soprattutto prognostica, nel nato a termine.La RM nucleare possiede, oltre ad un elevatissimo potere diagno-stico, una buona predittività prognostica in corso di asfissia e di infarto arterioso del neonato, così come in tante altre condizioni di lesioni acquisite del nato a termine. Basti ricordare il fondamentale contributo di un marker di maturazione della sostanza bianca del nato a termine, il lembo posteriore della capsula interna (Cowan et al., 2005) che si identifica facilmente nel neonato a termine sottoposto a RM. La assenza di visualizzazione o la anomala iden-tificazione dei lembi posteriori della capsula interna, si accompa-gna ad importanti deficit neuromotori a distanza. L’importanza di questo marker morfologico si conserva anche nei bimbi colpiti da infarto arterioso unilaterale, in quanto la mancata visualizzazione di uno dei due lembi posteriori, omolaterale alla sede della lesione ischemica, comporta una emiplegia dal lato opposto. Più recente-mente l’identificazione dei lembi posteriori della capsula interna sta assumendo valenza di marker rassicurante anche per proie-zioni prognostiche motorie nei neonati pretermine sottoposti ad esame di RM all’età corretta del termine di gravidanza.

Le nuove tecniche neuroradiologiche

Come già accennato la tecnica di DTI può essere utilizzata per in-dagare anomalie della sostanza bianca in aree specifiche dell’en-cefalo, ma il passo successivo all’analisi microstrutturale dello sviluppo cerebrale è quello di indagare la relazione tra “struttura” e “funzione”. Un esempio è rappresentato da un elegante studio in cui l’analisi delle vie ottiche mediante DTI è stata utilizzata per valutare possibili correlazioni tra performance visive e alterazioni microstrutturali a livello delle radiazioni ottiche (Bassi et al., 2008). Nei nati pretermine si osserva infatti una elevata incidenza di di-sturbi visivi che non sempre possono essere spiegati da lesioni focali della retina o cerebrali. Questo studio ha dimostrato come scarse performance visive dei prematuri all’età corretta del termi-ne correlano con bassi valori di Fractional Anisotropy a livello delle vie ottiche, suggerendo che la funzione visiva nei nati pretermine, a termine d’età corretta, sia direttamente correlata allo sviluppo

della sostanza bianca delle vie ottiche. Studi ancor più recenti sembrerebbero inoltre dimostrare che questa inadeguatezza del-la maturazione delle vie ottiche non dipenda semplicemente dal grado di prematurità presente alla nascita, ma si modifichi sostan-zialmente durante la difficile vita del nato pretermine in terapia intensiva (Bonifacio et al., 2011).Altrettanto importante è l’esame obiettivo del neonato pretermine al raggiungimento dell’età corretta del termine che prevede l’utilizzo di diverse modalità di esecuzione da quello di Dubovitz, a quello di Amiel-Tison come a diversi altri, in attesa che ne venga adottato uno quasi omnicomprensivo e fruibile anche dai neonatologi stessi.

Prematurità: incidenza delle lesioni, complessità degli esiti

La neonatologia è notevolmente mutata negli ultimi anni soprattutto per la diversa gestione medica perinatale dei nati pretermine. Un cambiamento culturale e sostanziale nelle cure perinatali ha miglio-rato l’aspettativa e la qualità di vita dei nati in condizioni cliniche più critiche, soprattutto quelli pretermine di alto grado, al di sotto delle 28 settimane di età gestazionale. Le cure intensive sono oggi ricche di aggiornati protocolli e rinnovate linee guida, dove la ricerca e l’evidenza della miglior practice derivano dall’applicazione dei cri-teri di evidence medicine, ossia di una medicina basata sulle prove di efficacia. Le tecniche neuroradiologiche hanno sempre permesso una buona formulazione prognostica dei deficit più gravi, anche forti del fatto che i più gravi handicap motori spesso si accompagnano ad altrettanto gravi deficit cognitivi. La formulazione prognostica esclusiva dei soli esiti cognitivi è particolarmente difficile, ed alcuni importanti miglioramenti si sono ottenuti dall’abbinamento dell’ima-ging alla funzione, così come avvenuto per le funzioni visive. Il danno biologico che è alla base dei ritardi cognitivi della prematurità sem-bra risiedere nei deficit di connettività dei circuiti cerebrali, in primis di quelli cortico-talamo corticali ed anche di quelli che coinvolgono encefalo e cervelletto.

Lesioni cerebellari

Le lesioni emorragiche focali cerebellari colpiscono i neonati di bas-sissime età gestazionali e di peso estremamente basso (inferiore ai 1000 grammi alla nascita) nell’ordine del 7-12%, a seconda della casistiche considerate. Sono lesioni difficili da diagnosticare specie se non si utilizza la fontanella posteriore occipitale (Fig. 3), infat-ti talvolta costituiscono inaspettati ritrovamenti alla RM eseguita all’età corretta del termine, che sembrano interferire con il normale sviluppo del ponte (Fumagalli et al., 2009). Queste lesioni sembrano aggravare fortemente il rischio di deficit cognitivi, particolarmente sentito nei neonati di bassissime età gestazionali.

Tabella I.Rischio di emorragia intraventricolare in funzione di variabili cliniche e genetiche selezionate (analisi multivariata).

RR 95%CI P

Età gestazionale (sett) 0,83 0,72-0,97 0,02

Apgar ≤ 5 a 5 min 2,30 1,02-5,18 0,04

Ipotensione 2,05 0,74-5,69 0,17

Trombofilia genetica 2,65 1,23-5,72 0,01

RR: risk ratio calcolato mediante “Poisson regression with robust standard error”. Ogni variabile è corretta per le altre nella Tabella. Trombofilia genetica: Fattore V di Leiden e Protrombina (modificata da Ramenghi et al., 2011).

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L.A. Ramenghi et al.

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Emorragia della matrice germinativa ed intraventricolare (GMH-IVH)

Il rischio rimane inversamente proporzionale all’età gestazionale, oscilla tra il 10 ed il 30% nei Very Low Birth Weight ed è frutto delle interazioni tra genetica ed ambiente come recentemente dimostra-to da un nostro studio (Tab. I; Ramenghi et al., 2011). La GMH-IVH si verifica tipicamente nei primi 3-4 giorni di vita, può evolvere in sanguinamento intraventricolare, talvolta aggravato da concomitanti lesioni parenchimali (infarti venosi) che sono, quasi per definizione, unilaterali e più frequenti nel parenchima cerebrale fronto-parietale. I quadri più gravi di emorragia intraventricolare che si accompagna-no a significativi esiti a distanza sono l’infarto parenchimale venoso e l’idrocefalia postemorragica. Quando all’ecografia cerebrale si os-serva un coinvolgimento parenchimale (infarto venoso unilaterale) è estremamente probabile una sequela motoria di tipo emiplegico, solitamente confermata dalla mancanza di mielinizzazione del lem-bo posteriore della capsula interna alla RM eseguita all’età corretta

del termine. L’outcome neurologico in caso di idrocefalo postemor-ragico è più variabile ed in parte può dipendere dalla tempestività dei presidi di tipo neurochirurgico atti a ridurre la progressione della dilatazione ventricolare postemorragica e la compressione prima, ed atrofia poi, del parenchima cerebrale. Un’altra variabile importante di sofferenza della sostanza bianca è l’emosiderina presente lungo il canale ependimale che sembra attivare l’infiammazione della so-stanza bianca adiacente.

Danno della sostanza bianca nel nato pretermine

La classica forma di leucomalacia periventricolare con cavitazioni necrotiche (impropriamente nota come leucomalacia cistica, PVLC) è significativamente diminuita (nei nati con peso inferiore ai 1500 grammi si attesta intorno al 2-4%), ed è comunque patologia facil-mente diagnosticabile con l’ecografia cerebrale quando si pratichino esami seriati fino a 4-6 settimane dalla nascita, anche in quei ne-onati pretermine apparentemente con ecogenicità periventricolare normale. La PVLC, tuttavia, non è l’unica forma di patologia possibile per la sostanza bianca del pretermine. Sembra comune a molti studi il rilevamento di una perdita di sostanza cerebrale nel nato preter-mine, e relativamente più a scapito della sostanza bianca che di altri comparti cerebrali.Per la diagnosi di “anomalie strutturali” minori della sostanza bianca è necessario ricorrere a tecniche più sofisticate quali la RM cerebra-le (Rutherford et al., 2010). Le “lesioni puntate” rappresentano ano-malie multiple e puntiformi della sostanza bianca periventricolare nelle stesse aree ove può svilupparsi una PVLC e che, con ogni pro-babilità, ne rappresentano una forma di minore entità, anche perché raramente si accompagnano a quei deficit neuromotori tipici della PVLC, quali la diplegia spastica. Altra entità nosologica, di più incerta caratterizzazione morfologica e valenza prognostica, è quella delle cosiddette aree di DEHSI (Diffuse Excessive High Signal Intensity), anche queste rilevabili con la sola RM e più precisamente con la sola specifica scansione T2 pesata. Rimane comunque irrisolto il dubbio sulla natura di queste DEHSI perché possono sia rappresentare una fase maturativa “parafisiologica” del nato pretermine, sia una vera e propria patologia “minore” della sostanza bianca, che quando in sede sottocorticale e presente all’età corretta del termine, si pensa possano rappresentare una patologia dei “subplate neurons”. Que-ste anomalie minori della sostanza bianca (lesioni puntate e DEHSI) sono più frequenti, rispetto alla PVLC, ma meno significative in ter-mini di impatto sullo sviluppo neuromotorio (Ramenghi et al., 2000; Cornette et al., 2002; Ramenghi et al., 2007), sebbene sembrano potersi associare a ritardi cognitivi e disturbi comportamentali che sappiamo essere relativamente frequenti nel nato pretermine.

I neonati “late preterm”

I nati tra 34 e 37 settimane di gestazione (più precisamente i nati tra 34+0 e 36+6 settimane) costituiscono circa i tre quarti di tutte le nascite pretermine, e sono probabilmente in aumento, come numero assoluto e percentuale all’interno della prematurità. In questi neo-nati il rischio di paralisi cerebrale è almeno 3-4 volte maggiore che nei nati a termine raggiungendo quindi circa l’8-10 per mille di tutti i nati “late preterm”. Non esiste una tipologia di lesioni caratterizzan-te questo gruppo di neonati, al pari di quanto avvenga per i neonati pretermine di alto grado con l’emorragia intraventricolare e cerebel-lare o per i neonati a termine asfittici con lesioni dei nuclei della base e dei talami. I “late preterm” possono sviluppare però entrambe le tipologie di danno cerebrale, e cioè sia le lesioni emorragiche ed ischemiche dei più pretermine che tutte quelle dei neonati a termi-ne, inclusi gli infarti arteriosi e le trombosi venose.

Figura 3.Visualizzazione ecografica della fossa endocranica posteriore attraverso la fontanella posteriore occipitale. La freccia bianca indica un’ampia area iperecogena corrispondente ad una lesione emorragica focale che interessa gran parte dell’emisfero cerebellare di destra.

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La vulnerabilità dell’encefalo del neonato tra proiezioni prognostiche e principi di neuroprotezione

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Il problema della paucisintomaticità neurologica del neonato “late preterm” rende ragione del fatto che molte lesioni possano sfuggi-re ad una diagnosi precoce, cosa particolarmente credibile quando si determina una leucomalacia cistica che, non infrequentemente, viene diagnosticata solo quando si evidenziano gli esiti clinici motori (tipicamente la diplegia spastica), tra i 4 ed i 6 mesi di vita. Allo stes-so modo questi neonati possono presentare, non infrequentemente, infarti ischemici arteriosi, che saranno pertanto molto più difficili da diagnosticare che nei nati a termine.Inoltre va ricordato che questa categoria di neonati è di sicuro quella a maggior rischio di ipoglicemia, e per la maggiori difficoltà di una congrua alimentazione e per ragioni intrinseche a deficit di funzio-namento della gluconeogenesi neonatale. La lesioni cerebrali da ipo-glicemia spesso non vengono diagnosticate nelle fase acuta perché non sempre accompagnate da inequivocabili episodi convulsivi. Le lesioni da ipoglicemia si sviluppano, per ragioni non note, nella par-te posteriore dell’encefalo per esitare poi, non soltanto in problemi motori, ma anche in complessi disturbi della visione per il coinvol-gimento dei neuroni della corteccia visiva. Le aree visive, in queste specifiche età gestazionali, vedono il più vivace dinamismo matura-tivo anatomico-funzionale di quei “subplate neurons” in precedenza citati, rendendo questi processi particolarmente vulnerabili.

Neuroprotezione

La lettura di una quasi costante incidenza di esiti neurologici le-gati al danno cerebrale perinatale è molto articolata e complessa. È sicuramente diminuita le frequenza delle lesioni più gravi a tipo leucomalacia periventricolare cistica nelle età gestazionali note per una maggior vulnerabilità, cioè tra 27 e 32 settimane di gestazione (Hamrick et al., 2004) e di conseguenza sembra diminuita l’inci-denza di diplegia spastica nella corrispondente popolazione di nati pretermine. Allo stesso modo è fortemente diminuita l’incidenza di emorragia intraventricolare nella popolazione di medesima età ge-stazionale quando si confronta quella nata dieci anni or sono rispetto a quella di oggi. Questi successi non sono avvenuti per la scoperta di miracolose molecole farmacologiche, ma per il complessivo mi-glioramento delle cure perinatali del pretermine, per un più attento e tempestivo timing del parto, per una minor invasività e per una migliorata assistenza ventilatoria nelle terapie intensive neonatali. L’aumentata sopravvivenza dei nati di più basse età gestazionali, di

23, 24 e 25 settimane di gestazione, potrebbe però accompagnarsi ad un nuovo aumento di incidenza della emorragia intraventricolare, così come delle emorragie cerebellari.Altre patologie, come quelle del nato a termine, sembrano mante-nere una incidenza costante nel tempo, e la prevenzione di alcune, come ad esempio la asfissia del nato a termine, è risultata ad oggi impossibile. In questo ambito deve potersi collocare un discorso estremamente differenziato per ciò che concerne la neuroprotezio-ne, che sarà funzione della diversa tipologia delle lesioni cerebrali e della diversa suscettibilità nelle differenti età gestazionali.L’ipotermia (vedi articolo in questo stesso numero) ha rappresen-tato il più confortante risultato in quest’ambito, nel trattamento dell’asfissia del neonato a termine, con un discreto NNTT (“num-ber needed to treat”), cioè con la necessità di trattare nove neonati con ipotermia per poter modificare la prognosi di un nato asfittico. Il successo di questo trattamento, ormai diffuso ovunque, si desume anche dalla presenza di nuovi trial che combinino questa metodica alla somministrazione di farmaci (es allopurinolo) e/o gas (es. Xenon) (Chakkarapani et al., 2010) ad azione neuroprotettiva.La prevenzione del danno lesionale del nato pretermine è molto complessa e difficilmente potrà arrivare ad essere lesione speci-fica e dovrà necessariamente passare attraverso una migliore co-noscenza del danno a livello cellulare e dei meccanismi biochimici implicati nei fenomeni di neurodegenerazione e neuroprotezione, con lo scopo di identificare potenziali “target” per strategie di neu-roprotezione.Ormai supportata da evidenze scientifiche è la teoria di una origi-ne multifattoriale del danno cerebrale in questi neonati, che include eventi estrinseci di natura ipossico-ischemica ed infiammatorio/infettiva, con aumentato rilascio di glutammato, stress ossidativo, deficit di fattori di crescita, farmaci e stress materno (Degos et al., 2008).Si stanno identificando a riguardo, e cominciando a testare, farmaci che possano avere un ruolo protettivo sul neurone stesso. Questa strategia si prefigge di contrastare quella perdita di sostanza bianca cerebrale e quei risultanti deficit di connettività che sembrano es-sere alla base del danno neurologico non lesionale, a sua volta re-sponsabile del danno cognitivo del nato estremamente pretermine. In questa ottica si inseriscono trial di ricerca multicentrica, appena iniziati, che utilizzano farmaci come caffeina ed eritropoietina, o far-maci a più chiara azione antiossidante quali la melatonina.

Tabella II.Ecografia cerebrale e probabilità di alterato sviluppo neuromotorio (paralisi cerebrale).

Esito ecografia cerebrale Probabilità pre-test Likelihood ratios (95%CI) Probabilità post-test (95%CI)

Normale 9% 0,5 (0,4-0,7) 5% (4-6%)

Emorragia intraventricolare di grado 1 o 2 9% 1 (0,4-3) 9% (4-22%)

Emorragia intraventricolare di grado 3 9% 4 (2-8) 26% (13-45%)

Emorragia intraventricolare di grado 4 9% 11 (4-31) 53% (29-76%)

Leucomalacia periventricolare cistica 9% 29 (7-116) 74% (42-92%)

Dilatazione ventricolare 9% 3 (2-4) 22% (17-28%)

Idrocefalia 9% 4 (1-13) 27% (10-56%)

Probabilità pre-test: prevalenza di paralisi cerebrale stimata dallo studio Epipage. “Likelihood ratio”: probabilità che un paziente con paralisi cerebrale abbia un test (in questo caso una ecografia cerebrale) patologico. Probabilità post-test: probabilità che un paziente con una data anomalia ecografica cerebrale abbia uno sviluppo neuro-motorio alterato (modificata da Nongena et al., 2010).

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Corrispondenza

Cosa c’è di nuovoEsiste una diversa vulnerabilità dell’encefalo a sviluppare differenti lesioni cerebrali in funzione delle varie età gestazionali.I nati “late preterm”, che sono i più numerosi tra i nati pretermine, possono sviluppare sia le lesioni più tipiche della prematurità che le lesioni cerebrali dei nati a termine.Con la aumentata sopravvivenza dei neonati con più basse età gestazionali emergono nuove lesioni cerebrali come quelle a carico del cervelletto. Inoltre, grazie a sofisticate tecniche di risonanza magnetica, sono evidenziabili in questi casi anomalie strutturali dello sviluppo cerebrale che causano una perdita di sostanza bianca e deficit nei circuiti cerebrali (“connettività”).

Box di orientamento

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Introduzione

L’encefalopatia ipossico-ischemica (EII) è una delle cause più comu-nemente riconosciute di paralisi cerebrale infantile (6-23%) (Blair et al., 2006). La EII è una sindrome clinica caratterizzata da disturbo della funzione neurologica nei primi giorni di vita tipica nei neonati a termine, molto più rara nei nati pretermine; essa si manifesta con difficoltà ad iniziare e mantenere la respirazione, depressione del tono e dei riflessi, ridotto livello di coscienza e spesso convulsio-ni. Consegue ad una asfissia, cioè ad una progressiva ipossiemia ed ipercapnia con una significativa acidosi metabolica. L’asfissia causa danno cerebrale solo quando vengono sopraffatti i fisiologi-ci meccanismi di compenso (vasocostrizione e centralizzazione del circolo) per cui si producono ipotensione ed acidosi. La gravità e la localizzazione del danno cerebrale dipendono dall’entità e dalla durata dell’insulto ipossico-ischemico da un lato e dalla qualità del compenso cardiovascolare dall’altro (Low, 2004).Riguardo l’entità, una asfissia può essere quasi totale o parziale. L’asfissia totale segue per lo più eventi acuti quali prolasso di fu-nicolo, distacco placenta o rottura d’utero e colpisce soprattutto il talamo e i gangli della base. Questa sede è preferenzialmente col-pita in quanto vi è una particolare ricchezza di sinapsi al termine di gravidanza, con un elevato numero di recettori per gli aminoacidi eccitotossici (es. recettori per il glutammato), oltre che un maggiore metabolismo e quindi un maggiore consumo di substrati. L’asfissia

parziale può seguire invece a compressioni parziali del cordone om-belicale o a insufficienza placentare e in questi casi il danno è pre-valentemente localizzato negli ultimi prati vascolari. Si tratta di zone in cui la perfusione è più incerta in quanto sono situati nei territori di confine tra l’irrorazione delle arterie cerebrali anteriore media e posteriore (territori watershed parasagittali). In caso di asfissia par-ziale il danno coinvolge anche la profondità dei solchi cerebrali che è anch’essa relativamente ipovascolarizzata.Esiste una certa relazione tra i diversi quadri neuropatologici e l’out-come (Shah & Perlman, 2009). È stato infatti riportato che la morte o le disabilità gravi sono più frequenti nelle asfissie acute/totali rispet-to a quelle parziali/prolungate; nel primo caso inoltre il punteggio di Apgar alla nascita è tendenzialmente più basso, la necessità di massaggio cardiaco o di somministrazione di adrenalina sono più alte e l’inizio della respirazione spontanea è ritardata.Riguardo alla durata dell’asfissia, studi su animali hanno dimostrato che dopo un singolo episodio di asfissia totale occorrono 10 minuti prima che si realizzi un danno cerebrale mentre questo avviene dopo 60 minuti da un singolo episodio di asfissia parziale (Low, 2004).Sulla qualità del compenso cardiovascolare incide molto la maturità del feto: il feto immaturo ha una maggiore capacità di metabolismo anaerobio e quindi una capacità di sopravvivere più a lungo all’asfis-sia; in questi casi però quando l’asfissia è sufficientemente grave il danno è soprattutto a carico della sostanza bianca: è a questo livello

Ipotermia come neuroprotezione del neonato con asfissia perinatale

Gina Ancora, Giulia Pomero*, Licia Lugli**, Fabrizio Ferrari**

Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale Ospedale Regionale di Rimini; * Neonatologia e Terapia Intensiva Ospe-dale Regionale di Cuneo; ** Cattedra di Neonatologia Università di Modena

RiassuntoNel neonato l’encefalopatia ipossico-ischemica che segue l’asfissia perinatale è una importante causa di mortalità e morbilità nei neonati che può raggiun-gere anche il 20% di tutte le paralisi cerebrali pediatriche. Fino a poco tempo fa non c’erano terapie specifiche, ma studi clinici randomizzati di ipotermia selettiva dell’encefalo e di ipotermia generalizzata hanno dimostrato che l’ipotermia iniziata entro le 6 ore dalla nascita è efficace nel migliorare l’outcome neurologico a 18 mesi di vita, e questo ha fatto si che il suo utilizzo sia sempre più frequente. Linee guida nazionali ed internazionali sono disponibili ed in questo lavoro sono ben descritte linee guida ad opera della Società Italiana di Neonatologia. Oltre ad i criteri anamnestici e clinici per decidere quali neonati possano beneficiare di tale presidio terapeutico, grande rilievo viene dato ai criteri di tipo elettrofisiologico, sia con l’elettroencefalogramma convenzionale, sia con quello integrato (CFM). Altri importanti aspetti organizzativi per un efficace uso dell’ipotermia risiedono nel buon funzionamento del sistema di trasporto neonatale e negli aspetti educativi con corsi erogati nei singoli punti nascita. Una precisa descrizione dei principi terapeutici dell’ipotermia viene fornita in questo lavoro sia per l’ipotermia selettiva che per quella che agisce su tutto il corpo.

SummaryHypoxic-ischemic encephalopathy (HIE) following perinatal asphyxia is an important cause of mortality and morbidity in newborns, accounting for approxi-mately 20% of cases of cerebral palsy in childhood. Until recently there were no specific therapies to treat HIE, but randomised controlled trials of 72 hours of selective head or whole body cooling started within 6 hours of birth have suggested improved neurological outcomes to 18 months of age, and treatment with hypothermia is increasingly used clinically. Specific guidelines have been introduced nationally and internationally for selective criteria for patient inclusions. The Italian Society of Neonatology has delivered national guidelines which are extensively detailed in the paper. In addition to anamnestic and clinical criteria a particular interest is given to electrophysiology including both EEG and CFM (aEEG). Other important organizational aspects for a successful use of hypothermia treatment of asphyxia are the efficiency of a neonatal transport team and the efficacy of neonatal stabilization at birth in the referring center. These aims can be reached through educational efforts providing teaching courses in all delivering points. A detailed description of the therapeutic principles of hypothermia is given in the paper according to the different techniques like selective head cooling and whole body hypothermia.

NEoNAToLoGiA

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G. Ancora et al.

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infatti che nei feti/neonati prematuri sono situati gli “ultimi prati va-scolari”, cioè aree la cui perfusione cerebrale è di confine tra i rami perforanti superficiali delle arterie meningee e quelli profondi delle arterie cerebrali anteriore posteriore e media. Queste aeree possono pertanto essere sede, più di altre, di deficit di perfusione.L’incidenza di asfissia intrapartum è di circa 3-4 per 1.000 nati vivi (Low, 2004); la incidenza di encefalopatia ipossico-ischemica, in as-senza di altre anomalie pre-concezionali o antepartum, è di circa l’1,6 per 1.000 nati vivi (Badawi et al., 1998a; Badawi et al., 1998b). L’EEI di grado moderato o severo è gravata da una mortalità com-presa tra il 10 e il 60%; tra i sopravvissuti il 25% sviluppa sequele neurologiche (Shankaran, 2008).

Meccanismi patogeneticiIl danno cerebrale non è un evento unico bensì un processo evolu-tivo che inizia durante l’insulto ipossico-ischemico e che, nei casi più gravi e/o prolungati, continua in un periodo successivo defini-to ‘fase di riperfusione’. In fase acuta avviene la necrosi neuronale conseguente all’ipossia cellulare con esaurimento del metabolismo energetico cellulare (insufficienza energetica primaria). Tuttavia molti neuroni non muoiono durante la prima fase dell’insulto ma, paradossalmente, dopo la riossigenazione del neonato, da 6 a 100 ore dopo l’insulto ipossico-ischemico. Si tratta prevalentemente di morte neuronale per apoptosi, un processo di distruzione cellulare che richiede energia e che può perdurare anche per alcuni giorni (Perlman, 2006).

La comprensione di questi meccanismi patogenetici ha aperto nuo-ve opportunità terapeutiche che vanno ad aggiungersi a quanto fatto finora, ovvero al mantenimento dei parametri fisiologici (pressione arteriosa, glicemia, calcemia, diuresi) e al controllo delle convulsioni. Le nuove opportunità terapeutiche possono inserirsi nell’intervallo che segue la rianimazione di un neonato asfittico prima che la fase secondaria del danno energetico metabolico sia pienamente in atto.

Raffreddamento cerebraleAttualmente l’ipotermia rappresenta il trattamento di scelta dell’EII (Gluckman et al., 2005; Shankaran et al., 2005; Azzopardi et al., 2009; Simbruner et al., 2010), riducendo tra l’altro l’edema vaso-

Figura 1.Rappresentazione schematica dei due processi fisiopatologici del dan-no neuronale primario e secondario.

genico, il rilascio di neurotrasmettitori eccitatori e di radicali liberi dell’ossigeno, l’attivazione di citochine ed il metabolismo cerebrale.La storia dell’ipotermia inizia nel 450 AC con Ippocrate che avvol-geva i pazienti feriti nella neve per migliorarne la sopravvivenza. Nel 1814 Baron Larrey, chirurgo dell’esercito di Napoleone, si accorse che i pazienti feriti messi vicino al fuoco morivano prima di quelli la-sciati al freddo. La storia recente inizia comunque nel 1983 allorché si scoprì la possibilità di studiare in vivo il metabolismo cerebrale attraverso la spettroscopia di risonanza magnetica del fosforo (Cady et al., 1983). Si osservò così che i livelli di fosfati ad alta energia decadono subito durante l’insulto ipossico-ischemico, recuperano dopo qualche ora ma poi decadono di nuovo in seconda giornata. A questo punto si aprì l’ipotesi dell’esistenza di un danno neurona-le ritardato e quindi di una finestra terapeutica (Hope & Reynods, 1985). Nel 1995 si scoprì che l’ipotermia applicata nel periodo fine-stra riduce la seconda fase di deficit energetico neuronale in modelli animali (Thoresen et al., 1995) e nel 1998 venne pubblicato il primo studio clinico randomizzato pilota sull’ipotermia in Nuova Zelanda (Gunn et al., 1998). Dal 2005-2010 sono stati pubblicati 6 studi cli-nici randomizzati sull’ipotermia (Gluckman et al., 2005; Shankaran et al., 2005; Azzopardi et al., 2009; Simbruner et al., 2010, Eicher et al., 2005; Inder et al., 2004) e tra il 2007 e il 2010 quattro meta-analisi (Jacobs et al., 2007; Shah et al., 2007; Schulzke et al., 2007; Edwards et al., 2010).Quella più recente (Edwards et al., 2010) condotta su 3 studi principali su un totale di 767 neonati trattati ad una età < 6 ore di vita per 72 ore ha riportato una riduzione di mortalità o disabilità nei trattati con ipotermia rispetto ai controlli [RR 0,81 (95%CI 0,71, 0,93), NNT 9] e un aumento della sopravvivenza senza esiti a 18 mesi di vita [RR 1,53 (95%CI 1,22, 1,93), NNT 8]. Con un 15% di riduzione del rischio dell’outcome primario, è possibile calcolare che in Italia, dove nasco-no circa 550.000 bambini all’anno, l’ipotermia potrebbe prevenire la morte o la disabilità grave in circa 150 neonati per anno.Sulla base di questi dati l’ipotermia è stata introdotta in molti centri come standard di cura in neonati a rischio di encefalopatia ipossico-ischemica e la sua applicazione è stata raccomandata in Inghilterra dal National Institute for Health and Clinical Excellence così come a livello internazionale dalle linee guida sulla rianimazione neonata-le dell’International Liaison Committee on Resuscitation (Perlman, 2010). A livello italiano queste raccomandazioni sono state recepite dal Gruppo di Studio di Neurologia della Società Italiana di Neonato-logia che ha pubblicato nel 2009 le Raccomandazioni sull’assistenza al neonato con encefalopatia ipossico-ischemica, possibile candida-to al trattamento ipotermico (Ancora et al., 2009). Da tutte queste pubblicazioni si deduce che i neonati da sottoporre al trattamento ipotermico debbono soddisfare tutti i seguenti criteri A, B e C:

Criterio A. Ipossia intrapartum definita da almeno uno dei seguenti criteri:

1. punteggio di APGAR ≤ 5 a 10 minuti di vita; oppure2. necessità di proseguire la rianimazione con tubo endotracheale

o maschera e pallone ancora a 10 minuti di vita, oppure3. acidosi fetale o neonatale definita come pH < 7,0; oppure4. BE ≥ 16 mmol/l da qualsiasi emogasanalisi (EGA) ottenuto nei

primi sessanta minuti di vita.Nel caso quindi di un neonato depresso nelle sue funzioni vitali, dopo opportuna rianimazione secondo i consolidati criteri nella ri-animazione neonatale, è necessario rapidamente valutare se esista il rischio di EII.Andrà eseguita un’emogasanalisi possibilmente da arteria funicola-re o da capillare arterializzato o da arteria radiale, il più possibile vi-

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ipotermia come neuroprotezione del neonato con asfissia perinatale

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cino al “momento nascita” (massimo un’ora). L’emogasanalisi infatti riflette lo stato metabolico del piccolo paziente ed è lo specchio di come quest’ultimo ha scambiato i gas ematici nelle ultime fasi della vita intrauterina. Se infatti il piccolo ha lavorato in carenza di ossi-geno, il suo metabolismo avrà virato verso una via metabolicamen-te meno conveniente, ma che gli ha consentito di sopravvivere: la fermentazione lattica. Questo adattamento funzionale rende ragione dei bassi valori di pH, del consumo di bicarbonato e del deficit di basi caratteristici di un neonato asfittico.In questo caso si dovrà procedere ad una rapida valutazione del cri-terio neurologico (criterio B) tenendo presente che l’esame obiettivo va eseguito presto, possibilmente non oltre la prima ora vita.

Criterio B: Encefalopatia ipossico-ischemica moderata o severa secondo la classificazione di Sarnat e Sarnat (valutata tra 30 e 60 minuti di vita):

• EII moderata (Sarnat 2): Letargia, ridotta motilità, ipotonia, ri-flessi primitivi ridotti (es. prensione, suzione), miosi, bradicardia, respiro periodico;

• EII grave (Sarnat 3): Stupor o coma, postura decerebrata, iper-tono estensorio degli arti, motilità spontanea assente, flaccidità, riflessi assenti, midriasi o areattività pupillare, apnea.

Sono necessarie almeno 3 anomalie per classificare un neonato in uno specifico stadio di Sarnat.A questo punto del percorso diagnostico diventa indispensabile la valutazione elettrofisiologica che è l’ultimo criterio da soddisfare prima dell’inizio della terapia ipotermica.

Criterio C elettrofisiologico: l’attività elettrica cerebrale può essere valutata attraverso l’elettroencefalogramma (EEG) convenzionale o l’EEG ad integrazione di ampiezza (aEEG).

La registrazione dell’attività elettrica cerebrale è particolarmente uti-le sin nelle prime ore di vita per documentare lo stato di disfunzione cerebrale dopo insulto ipossico-ischemico perinatale. Numerosi stu-di (Cavazzuti et al., 1998; Biagioni et al., 2001; Pressler et al., 2001; Sinclair et al., 1999) hanno enfatizzato le implicazioni prognostiche delle alterazioni EEG, distinguendo le anomalie del tracciato di fondo in severe, moderate e lievi.Sono considerate alterazioni gravi la grave depressione di voltag-gio, pattern EEG permanentemente discontinuo o burst suppres-sion, asimmetria interemisferica > 50%, dismaturità severa ovve-ro discrepanza tra età bioelettrica ed età gestazionale superiore a 2-3 settimane. Nell’ambito delle anomalie moderate rientrano la dismaturità moderata (inferiore a 2 settimane), la discontinuità lieve-moderata (periodi interburst lunghi), la scarsa differenziazione degli stati comportamentali del neonato (veglia, sonno). L’eccesso di disritmia lenta anteriore, di punte positive rolandiche e temporali fanno parte delle anomalie lievi.Le convulsioni si verificano frequentemente dopo un evento asfittico perinatale e rappresentano una caratteristica peculiare dell’encefa-lopatia ipossico-ischemica di grado moderato o severo. Le crisi con-vulsive iniziano dopo un periodo di latenza variabile (da 6 a 24 ore) a seconda dei casi e probabilmente in relazione al timing dell’insulto. Questo ritardo è da riferire al fatto che è necessario un intervallo di tempo dall’evento asfittico primitivo perché si inneschino meccani-smi neuroeccitatori capaci di scatenare l’attività irritativa cortica-le. La crisi convulsiva è definita clinicamente come un’alterazione parossistica della funzione neurologica, ovvero del comportamento motorio o autonomico, di tipo ripetitivo e stereotipato, caratterizzata da inizio definito, evoluzione intermedia e fine, della durata di al-meno 10 secondi. Alla identificazione clinica di una crisi convulsiva

deve poter corrispondere una attività critica elettroencefalografica. Le crisi convulsive elettriche sono caratterizzate da scarica EEG di onde ritmiche theta o delta, attività alfa o “sharp waves” con chiaro inizio e termine. Poiché il fenomeno della dissociazione elettro-cli-nica è frequente nel neonato, soprattutto dopo somministrazione di farmaci antiepilettici (Scher et al., 2003), la registrazione e il moni-toraggio EEG o aEEG sono importanti non solo ai fini della diagnosi di convulsione, ma anche per valutare la risposta alla terapia e per verificare l’assenza di attività elettrica critica quando le crisi non sono più evidenti clinicamente.Negli ultimi anni si è diffuso nelle terapie intensive neonatali l’utiliz-zo del CFM (Cerebral Function Monitor) (al Naqeeb et al., 1999; Toet & Lemmers, 2009, De Vries et al., 2007, Toet et al., 2002), uno stru-mento di più facile impiego e lettura rispetto all’EEG tradizionale e che pertanto può essere utilizzato anche da personale non esperto in elelettroencefalografia neonatale. Il CFM registra uno o due canali di EEG; il segnale viene filtrato e rettificato e la gamma di ampiezza del segnale in microvolt viene visualizzato su una scala semilogaritmica (aEEG). Nell’interpretazione dell’aEEG, due caratteristiche principali del tracciato devono essere valutate: l’ampiezza della traccia e la presenza di attività convulsiva. L’ampiezza della traccia può essere valutata misurando i margini superiore e inferiore della traccia. Un tracciato normale è riportato in figura.

Molti apparecchi CFM permettono di registrare contemporanea-mente all’aEEG anche un EEG a singolo canale (single-lead EEG); l’utilizzo di tale single lead EEG può aiutare ad interpretare l’EEG in modo più accurato.Le anomalie aEEG che rappresentano indicazioni la trattamento ipo-termico sono le seguenti:1. Attività moderatamente anormale: margine superiore > 10 mV e

margine inferiore < 5 mV.2. Attività severamente anormale: margine superiore < 10 mV e

margine inferiore < 5 mV (questo tracciato a basso voltaggio può essere accompagnato da burst di punte ad alto voltaggio che appaiono come singoli spikes sopra l’attività di base).

3. Convulsioni rappresentate da un brusco innalzamento del mar-gine superiore ed inferiore di durata variabile, con restringimen-to della banda.

Le anomalie EEG che rappresentano indicazioni la trattamento ipo-termico sono le seguenti:1. Burst suppression.2. Basso voltaggio continuo < 25 mV.3. Attività elettrica convulsiva.4. Voltaggio continuo inferiore a 10 mV.I criteri A e B sono facilmente valutabili in qualsiasi punto nasci-ta, mentre per il criterio C bisogna poter disporre di un Neurologo esperto in EEG neonatale disponibile 24 ore su 24 oppure di un CFM che offre una traccia di attività elettrica cerebrale leggibile da un Neonatologo/Pediatra dopo un opportuno training.

Figura 2.Tracciato di aEEG normale di neonato a termine.

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G. Ancora et al.

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I centri che non hanno la disponibilità di una lettura EEG immediata o di una valutazione CFM, devono trasferire il piccolo il più presto possibile.

Rete organizzativa per il trattamento ipotermicoIl modello ideale di organizzazione della rete territoriale per l’ipoter-mia cerebrale è quello Hub & Spoke (letteralmente “mozzo e raggi”) preso a modello dalle compagnie aeree.Il modello Hub & Spoke parte dal presupposto che per determinate situazioni e complessità di malattia siano necessarie competenze rare e costose che non possono essere assicurate in modo diffu-so, ma devono invece essere concentrate in Centri regionali ad alta specializzazione cui vengono inviati gli ammalati dagli ospedali del territorio. È un modello di organizzazione indicato per quei servi-zi caratterizzati da bassi volumi di attività o da elevata tecnologia come nel caso dell’ipotermia cerebrale.Il modello Hub & Spoke è fluido e prevede che dopo la fase di trat-tamento altamente specializzato, il piccolo paziente torni al proprio centro nascita per il prosieguo delle cure. Alla base di questa inte-grazione deve esistere una stretta collaborazione tra i Centri HUb and Spoke con condivisione di protocolli operativi e con formazione trasversale su tutti gli operatori. A questo scopo sono fondamentali i Corsi di Rianimazione in Sala Parto che devono eseguire tutte le figure professionali dei Centri di I, II e III livello ed i Corsi di forma-zione specifici per la stabilizzazione del paziente asfittico in attesa del trasferimento.

Stabilizzazione del neonato in attesa di trasportoUna volta stabilita la necessità del trasferimento, di solito ci si trova davanti un tempo di circa un’ora e mezza, che è il tempo medio necessario per il team di trasporto per raggiungere il Centro Spoke nelle realtà regionali italiane.In questa fase si deve porre attenzione ai seguenti punti:• Mantenereunatemperaturacorporeanonsuperiorea35°,me-

diante spegnimento del lettino di rianimazione e/o sospendendo ogni altra fonte di riscaldamento. Se fosse difficoltoso mantenere latemperaturaintornoai35°èpossibileutilizzareunsacchettodi ghiaccio artificiale posto vicino al corpo del bambino, ma non a stretto contatto per evitare ustioni da freddo.

• Il30%deipazientiasfitticirespirainmodoautonomoedintalcaso è importante mantenere normali valori di saturazione di ossigeno evitando se possibile l’uso di ossigeno terapeutico o usando miscele aria/ossigeno (l’iperossigenazione peggiora il danno nel paziente anossico).

• Posizionare un accesso venoso che è sempre necessario neltrasporto di un paziente critico come via di accesso rapida al circolo.

• Mantenerenormalivaloriglicemiciedipressione.• Evitare eccessivi carichi di liquidi (il paziente anossico soffre

sempre anche di insufficienza renale acuta renale da necrosi tubulare acuta).

• Porreattenzioneallacorrettacompilazionedellacartellaanam-nestica ostetrico-neonatale.

Trattamento ipotermicoPer la complessità del livello assistenziale richiesto, il trattamento ipotermico va effettuato esclusivamente nei reparti di terapia inten-siva neonatale (Centri di III livello assistenziale), possibilmente cen-tralizzando le cure per poter ottenere elevati livelli di competenza nei confronti di un trattamento relativamente raro. In particolare è indispensabile la presenza di personale infermieristico altamente specializzato con elevato rapporto paziente/infermiere e guardia ne-onatologica 24 ore su 24.L’ipotermia va iniziata entro le 6 ore di vita e protratta per 72 ore; può essere applicata secondo due modalità:• IpotermiaSistemica(totalbody)mediantematerassinoocoperta

avvolgente al cui interno circola acqua o liquido refrigerante con tecnica di servocontrollo di temperatura.

• Ipotermiaselettiva(Cool-cap),cioèraffreddamentolocalizzatoalcapo realizzato con un cappuccio al cui interno scorre un liquido refrigerante.

La temperatura viene monitorata a livello rettale profondo e deve mantenersi tra 33 e 34 gradi nell’ipotermia sistemica e tra 34 e 35 gradi nell’ipotermia selettiva.Durante le 72 ore di trattamento il piccolo riceve comunque tutte le altre terapie di cui necessita, tra cui il trattamento della frequente insufficienza multiorgano (cuore, rene, polmone, muscolo), la venti-lazione meccanica qualora necessaria, il trattamento dell’eventuale stato convulsivo.L’impegno per l’équipe Neonatologica è notevole, con rapporto infer-miere/paziente di uno/uno nelle prime 12/24 ore.Dopo 72 ore di trattamento ipotermico si ritorna progressivamente allatemperaturanormaleconincrementidi0,5°Cogniora.Soprat-tutto in corso di riscaldamento troppo rapido è possibile l’insorgenza di convulsioni (Battin et al., 2004).In corso di ipotermia è stata dimostrata un’aumentata incidenza di bradicardia sinusale e trombocitopenia. I seguenti eventi avversi sono stati studiati ma non sono risultati significativamente diver-si nei neonati trattati con ipotermia rispetto ai controlli: trombosi o emorragie cerebrali, ipotensione, anemia, leucopenia, ipoglicemia, oliguria, aumentato rischio infettivo, ipopotassiemia (Jacobs et al., 2007). Nei neonati trattati con ipotermia bisogna prevedere una ri-sonanza magnetica dell’encefalo (vedi articolo “la neuroradiologia neonatale tra potenzialità diagnostiche ed applicazioni cliniche) ed un follow-up neuro-psicomotorio almeno fino a due anni di vita.Molte figure professionali vengono coinvolte nella gestione del pa-ziente ipotermico: neonatologo, cardiologo, neuroradiologo, tecnico di radiologia, infermiere, fisioterapista, neuropsichiatra infantile, tecnici di elettrofisiologia, in quella che è veramente un’équipe mul-tidisciplinare.In questa fase l’aspetto comunicativo con i genitori è di fondamentale importanza per poter porre delle basi di fiducia verso il sistema sani-tario che si sta occupando del piccolo e che include sia il Centro HUB sia il Centro Spoke. In particolare il comunicare con un “noi pensiamo o noi crediamo” che comprende l’universo della rete assistenziale, fa sentire il genitore protetto e non ingannato, pone le basi per una solida collaborazione tra Centri e permette la restituzione del paziente al suo Centro nascita nell’assoluto convincimento che le due strutture siano la naturale evoluzione di un progetto terapeutico.

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ipotermia come neuroprotezione del neonato con asfissia perinatale

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Cosa c’è di nuovoFino a pochi anni or sono non vi erano studi clinici randomizzati su ampie popolazioni di neonati asfittici che potessero definitivamente dimostrare l’efficacia dell’ipotermia, oggi invece esistenti.Nella linea guida della Società Italiana di Neonatologia sono ben descritti utilissimi criteri di inclusioni di tipo elettrofisiologico, sia per l’elettroencefalo-gramma che per il CFM, in aggiunta a quelli già noti di tipo anamnestico e clinico.

Box di orientamento

Fabrizio Ferrari, Cattedra di Neonatologia, Università degli studi di Modena e Reggio, via del Pozzo, 71, 41100 Modena. E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • Pp. xx-xx NEFRoLoGiA

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 122-131

Introduzione

La risonanza magnetica (RM) è attualmente la metodica di prima scel-ta nella valutazione del danno cerebrale neonatale sia esso acquisi-to che congenito. Negli ultimi venti anni il progressivo sviluppo della tecnologia ha infatti consentito una valutazione sempre più accurata delle patologie del sistema nervoso centrale del neonato in modo del tutto invasivo. Infatti oltre a non emettere radiazioni nocive la RM nel neonato può essere eseguita nella maggior parte dei casi in sonno spontaneo non ricorrendo quindi alla sedazione. Pur rimanendo l’eco-grafia transfontanellare le metodica di primo utilizzo in particolare nel prematuro per la sua estrema semplicità d’uso, la RM è oggi impre-scindibile nella valutazione di una sospetta lesione dell’encefalo o del midollo. Il ruolo della tomografia computerizzata (TC) è oggi preva-lentemente confinato alla valutazione delle strutture ossee, come ad esempio avviene nel sospetto di craniostenosi ed eventualmente nel sospetto di emorragie in fase acuta specie quando queste si presenti-no in modo inusuale e di difficile valutazione alla RM.

Il neonato normale

I pattern RM “fisiologici” del nato a termine e del neonato prematuro differiscono notevolmente in termini di sviluppo delle circonvoluzioni

cerebrali, grado di mielinizzazione della sostanza bianca, aspetto e organizzazione della corteccia (Fig. 1). Tali differenze sono tanto più evidenti quanto più marcato è il grado di prematurità. Si noti inol-tre come i processi di sviluppo dell’encefalo non si arrestino con il raggiungimento del termine della gravidanza, ma continuino nella vita post-natale, seppur ad un ritmo progressivamente più rallen-tato, per concludersi definitivamente solo attorno ai 3 anni di età, quando l’aspetto dell’encefalo assume caratteristiche più simili a quelle dell’adulto.

Il neonato con lesioni acquisite

Encefalopatia ipossico-ischemica

Il danno cerebrale conseguente a fenomeni ipossico-ischemici è, ancora oggi, importante causa di mortalità e morbidità neonatale, con un incidenza pari a 1-2/1.000 nati vivi. Di questi il 10-15% non sopravvive, un altro 10-15% sviluppa paralisi cerebrale e un ulterio-re 40% può manifestare gravi disabilità (disturbi cognitivi, del com-portamento, deficit neurosensoriali, ecc.).Un adeguato protocollo di studio con RM deve includere sequenze T1 pesate, e T2-pesate multiplanari, sequenze pesate in diffusione e

La neuroradiologia neonatale tra potenzialità diagnostiche ed applicazioni cliniche

Fabio Triulzi, Filippo Arrigoni*, Mariasavina Severino**, Andrea Rossi**

Ospedale dei Bambini “V. Buzzi”, Milano; * CeSNE IRCCS “E. Medea”, Bosisio Parini, ** IRCCS Ospedale Pediatrico “G. Gaslini”, Genova

RiassuntoLa risonanza magnetica (RM) permette di studiare lo sviluppo cerebrale. Solo con le tecniche RM è possibile ricevere informazioni metaboliche e funzionali senza l’uso di radiazioni ionizzanti. La RM convenzionale è ampiamente utilizzata per studiare la morfologia normale e patologica dell’encefalo e grazie ad essa si sono scoperti aspetti sconosciuti dello sviluppo cerebrale. L’utilizzo clinico per lo studio dei neonati asfittici è ben validato dalla letteratura ma la RM è lo strumento ideale per studiare ogni neonato che abbia qualsiasi forma di convulsioni. Infatti le convulsioni possono derivare da infezioni, da disturbi metabolici transitori come l’ipoglicemia, da anomalie congenite incluse quelle da anomalie cromosomiche, da errori congeniti del metabolismo ed anche da forme benigne neonatali, familiari e non. Le malformazioni cerebrali che posso essere responsabili di convulsioni variano da displasie focali molto lo-calizzate non diagnosticabili con l’esame di ecografia cerebrale a difetti catastrofici che sono parzialmente diagnosticabili con gli ultrasuoni. Una diagnosi clinica deve basarsi su una attenta storia medica e sulla considerazione delle cause più probabili, ad esempio convulsioni in un neonato che peraltro sta bene ed ha solo quella anomalie, devono far pensare ad una lesione ischemica arteriosa o ad una emorragia cerebrale.Inoltre, nel presente documento sono ampiamente esposte una serie di malformazioni cerebrali secondo nuovi criteri di classificazione.

SummaryMagnetic resonance (MR) allows the assessment of the developing brain. MR techniques are unique in that they provide not only detailed structural but also metabolic and functional information without the use of ionizing radiation. Conventional MR is now widely used for identifying normal and pathologic brain morphology. Technical advances in MR have revealed hitherto unknown aspects of brain development and have characterized patterns of injury to the developing brain. A validated use of MR is to study asphyxiated babies. In addition MR is the ideal tool to study any seizing baby. Neonatal seizures may derive not only from asphyxia but also from central nervous system infections, transient metabolic disturbances like hypoglycemia, congenital abnormalities of the brain including those due to chromosomal anomalies, inborn errors of metabolism and benign neonatal convulsions, which may be familial or non-familial. Brain malformations range from highly localized focal dysplasia not diagnosable by brain ultrasound to catastrophic defects, which are partially diagnosable by brain ultrasound. A clinical diagnosis has to rely on a careful medical history and on consideration of the most likely causes, for instance if seizures occur unexpectedly in a perfectly normal newborn, stroke and haemorrhage have to be the first disorders to be excluded. In the paper an extensive description of the most important and frequent brain malformations is also given according to new classification criteria.

NEoNAToLoGiA

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La neuroradiologia neonatale tra potenzialità diagnostiche ed applicazioni cliniche

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sequenze di spettroscopia, mentre possono essere tralasciate le se-quenze FLAIR (poco informative nei bambini così piccoli) e non risul-ta necessario l’utilizzo del mezzo di contrasto (Liauw, et al., 2008).

Il neonato prematuroCome già ricordato, l’encefalo del neonato prematuro è partico-larmente vulnerabile agli insulti di tipo ipossico-ischemico sia in ragione della sua incompleta maturazione sia a causa della per-sistenza di strutture tipiche dello sviluppo fetale, poco adatte a rispondere agli stress della vita extra-uterina. Il circolo arterioso cerebrale non sempre è regolata da una efficiente autoregolazione ed a questo si aggiunge la presenza della matrice germinativa, tanto più rappresentata quanto più bassa è l’età gestazionale. La matrice germinativa è un’area di proliferazione cellulare loca-lizzata in prossimità dei nuclei della base, dotata di una ricca e fragile vascolarizzazione capillare che piuttosto facilmente è sede di emorragie. Inoltre, la sostanza bianca, dove ancora sono pre-senti gli oligodendrociti precursori, è particolarmente sensibile alla infiammazione e al danno mediato da citochine così come la corteccia che, a livello dello strato transitorio definito “subplate”, presenta neuroni altamente sensibili allo stress ossidativo. I due quadri patologici di più frequente riscontro nel prematuro sono la leucomalacia periventricolare (PVL), a carico della sostanza bian-ca, e le emorragie della matrice germinativa.La PVL viene di norma valutata con RM solo nella fase subacuta o stabilizzata del danno e si caratterizza con la presenza di lesioni di aspetto iperintenso in T1 e iso-ipointenso in T2 nella fase subacuta che esitano in una riduzione di spessore della sostanza bianca po-steriore nella fase cronica. In genere la sostanza bianca residua può evidenziare un aumentato segnale nelle sequenze T2-pesate, che si associa ad un ampliamento delle dimensioni dei ventricoli laterali, più accentuato nelle regioni trigonali, ad un aspetto approfondito dei solchi cerebrali e ad un assottigliamento del corpo calloso seconda-rio alla perdita di sostanza bianca (Fig. 2).Grazie alla tecnica RM è stato possibile identificare una ampia gam-ma di anomalie di segnale che solo in alcuni casi, come per le “lesio-

ni puntate”, potrebbero includersi nell’ampio spettro della malattia della sostanza bianca.Le emorragie della matrice germinativa subependimale sono nel-la maggioranza dei casi isolate e di entità modesta, tanto da non determinare conseguenze importanti nella vita del bambino. In un 15% dei casi, tuttavia, esse possono essere complicate da ematomi intraparenchimali, ossia infarti venosi dovuti alla congestione del-le vene afferenti alla matrice, con stasi sanguigna e conseguente stravaso parenchimale. Come per la PVL la valutazione RM avviene solitamente solo in fase subacuta o in presenza di quadri complessi. La RM consente una adeguata valutazione dell’emorragia anche a distanza di tempo, quando sono visibili i prodotti di degradazione dell’emoglobina in prossimità dell’ependima dei ventricoli. Questa tecnica permette di identificare facilmente le eventuali complicanze dell’emorragia, in particolare dell’idrocefalo che si verifica in un 25-35% dei casi.

Il neonato a termineAnche nel neonato a termine, le lesioni secondarie a ipossi-ischemia non si manifestano in maniera casuale, ma presentano una selettivi-tà topografica all’interno dell’encefalo. In questi pazienti, al contrario di quanto avviene nel bambino prematuro, la sostanza grigia è più vulnerabile, con lesioni tipicamente localizzate a livello dei nuclei della base, corteccia uditiva e sensitivo-motoria, ippocampo e cor-teccia limbica e nuclei talamici. Tali aree sono zone ad elevata attività neuronale e massimo consumo di glucosio, pertanto molto esposte agli insulti ipossici. La RM convenzionale permette di seguire la evo-luzione nel tempo delle lesioni, ma con alcuni limiti soprattutto nelle fasi iniziali del danno. Se nei primi 5-7 giorni l’aspetto predominante è un aspecifico edema cerebrale, associato ad alterato segnale della sostanza bianca, solo dopo la prima settimana cominciano a eviden-ziarsi, soprattutto nelle sequenze T1-pesate, le lesioni a carico della sostanza grigia. (Fig. 3) Con il passare del tempo le alterazioni ten-dono a stabilizzarsi e gli esiti a distanza si configurano in quadri di atrofia talamica e lenticolare posteriore, spesso associata a lesioni cortico-sottocorticali, soprattutto rolandiche e frontali.

Figura 1.Quadri RM di normalità.A. Prematuro di 31 settimane di gestazione.B. Neonato a termine.Si noti la diversa morfologia delle circonvoluzioni cerebrali solo accen-nate nel prematuro e molto più complesse nel nato a temine. Nel nato a termine è riconoscibile la presenza di mielina a livello del braccio po-steriore della capsula interna (freccia), aspetto non ancora chiaramente identificabile nel prematuro.

Figura 2.Leucomalacia periventricolare.A. Fase subacuta.B. Fase stabilizzata in bambino di 2 anni.Nella fase subacuta si osservano nella sequenza T1 dipendente multiple aree lesionali (frecce) di aspetto iperintenso nelle sostanza bianca pe-riventricolare. Nella fase cronica si osserva un diffuso assottigliamento della sostanza bianca di entrambi gli emisferi cerebrali. Lo sostanza bian-ca nelle immagini FLAIR dimostra una alterazione di segnale (freccia).

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Come detto sopra, l’imaging convenzionale nei primissimi giorni dal danno non è sempre informativo e i quadri morfologici possono es-sere assai aspecifici. Un contributo può in questi casi venire dalle sequenze pesate in diffusione (DWI) e dalle misure numeriche (ADC, coefficiente apparente di diffusione) da esse derivate: già nelle prime ore dall’insulto, ma in maniera più accentuata tra 2a e 4a giornata, si possono apprezzare infatti sensibili riduzioni della diffusione e cali dei valori di ADC nelle aree in cui si manifesteranno più tardivamente le lesioni focali. La spettroscopia inoltre può mostrare già nella fase acuta e iperacuta, meglio di ogni altra tecnica RM, la comparsa di picchi patologici di acido lattico e la riduzione del fisiologico picco di N-AcetilAspartato (NAA) dimostrandosi uno strumento sensibile, ancorché aspecifico, in assenza delle caratteristiche lesioni della sostanza grigia (analoghi reperti spettroscopici si possono ritrovare infatti in caso di malattie metaboliche, stato di male, ecc.) (Fig. 4).

Marker prognostici e nuove terapieUna volta fatta la diagnosi e caratterizzata l’entità delle lesioni, per il clinico resta di fondamentale importanza avere delle misure preditti-ve dell’outcome del paziente. Una recente meta-analisi della lettera-tura disponibile (Thayyil et al., 2010) ha dimostrato come l’indagine spettroscopica, ed in particolare la misurazione del rapporto Latta-

to/NAA a livello dei nuclei dalla base-talami garantisca la migliore sensibilità e specificità come marker prognostico dell’outcome del paziente a un anno di età (Tab. I). Le immagini strutturali conven-zionali hanno valori differenti a seconda che siano acquisite in fase precoce o tardiva. Più specifica, ma lievemente meno sensibile nel prevedere il danno è la alterazione di segnale a livello del braccio posteriore delle capsule interne (PLIC). Utili per la diagnosi, ma meno

Figura 3.Encefalopatia anossico-ischemica.A. neonato normale.B. Asfissia di grado moderato-severo.C-D. Asfissia di grado moderato severo.Tutte le immagini sono T1 dipendenti, se si confronta il neonato nor-male con il quadro in B a circa 10 giorni dalla nascita, si osservano delle iperintensità in T1 a livello nel nucleo ventro-postero-laterale del talamo e a livello della parte posteriore del nucleo lenticolare, mentre e meno apprezzabile la fisiologica iperintensità di segnale dovuta alla presenza di mielina a livello del braccio posteriore della capsula inter-na, ben evidente nel neonato normale. In C si documentano alterazioni a livello della corteccia uditiva primaria e in D livello della corteccia sensitivo-motoria.

Figura 4.Encefalopatia ipossico ischemica fase acuta (2 giornata).A immagine T2 dipendente.B, immagine pesata in diffusione.C spettroscopia con volume mirato a livello della regione talamo-cap-sulare.Le immagini in T2 mostrano un aspetto di sfumato edema a livello ta-lamico e dei nuclei della base, mentre le immagini evidenziano una iperintensità di segnale (riduzione delle diffusione) a livello talamico dove la spettroscopia evidenzia il classico doppio picco dell’acido lattico normalmente non evidenziabile.

Tabella I.Valore prognostico dei biomarker RM.

Marker Sensibilità % Specificità %

Spettroscopia

Lac/Naa 82 95

Lac/Cr 77 94

Lac/Cho 84 81

Naa/Cho 59 72

Naa/Cr 61 71

Sequenze convenzionali

Precoci (0-7 giorni) 85 86

Tardive (8-30 giorni) 99 53

Precoci+tardive 91 51

Alterzioni di segnale nella PLIC 71 86

Riduzione dei valori di ADC 66 64

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per la prognosi, sembrano invece essere le modificazioni dei valori di ADC che se pur in grado di predire il danno da asfissia, di sicuro ne sottostima l’entità che compare poi con le tecniche di imaging convenzionale (Liauw et al., 2009).La recente introduzione della ipotermia nel trattamento del neonato con encefalopatia ipossico-ischemica pone nuovi orizzonti e inter-rogativi nel campo delle neuroimmagini. Nonostante risultati iniziali non sempre concordanti (Azzopardi et al., 2009; Shankaran et al., 2005), un recente trial randomizzato su 208 soggetti (Jacobs et al., 2011) ha effettivamente dimostrato un ruolo positivo di questa te-rapia nel migliorare la prognosi dei neonati in termini combinati di morte o disabilità neurosensoriale maggiore. Pertanto saranno pro-gressivamente sempre di più i soggetti che subiranno tale tipo di trattamento, che risulta efficace se iniziato entro le 6 ore dal danno e se protratto per 72 ore. Poiché dal punto di vista organizzativo è molto difficile sottoporre a RM un neonato entro così poco tempo dall’insulto lesivo, è presumibile che le indagini verranno posticipate a dopo la fine dell’ipotermia. Ancora molto scarsi sono i dati che de-scrivono come si modifica la semeiologia sia classica che non con-venzionale (ADC, spettroscopia, perfusione) delle lesioni in relazione a tale trattamento. Alcuni studi (Rutherford et al., 2010) dimostrano una riduzione delle lesioni nei nuclei della base, sostanza bianca e PLIC, mentre ancora mancano dati di spettroscopia e diffusione.

Quadri emergenti: il ruolo delle vene midollari profondeOltre ai quadri classici finora descritti, il diffuso utilizzo della RM ha permesso di identificare negli ultimi anni un nuovo pattern di danno cerebrale neonatale, a possibile genesi ipossico-ischemica, che accomuna sia il prematuro che il nato a termine. È il caso del-

le lesioni da coinvolgimento delle vene midollari profonde (Doneda et al., 2011; Righini et al., 2010). Si tratta di vasi che drenano la sostanza bianca periventricolare e che presentano una particolare architettura con un aspetto a ventaglio, confluente verso la super-ficie dei ventricoli. La RM ha dimostrato come tali vasi si possano presentare congesti e potenzialmente trombizzati, in neonati con segni di sofferenza cerebrale, senza trombosi dei seni maggiori. Le alterazioni possono essere isolate o associate ad altri reperti, come ematomi parenchimali, emorragie della matrice, ma anche lesioni della sostanza grigia. L’aspetto RM tipico è quello di lesioni lineari, raggiate, che possono presentare evoluzione cistica, e, nel lungo termine, quadri simili a quelli della PVL (Fig. 5). Non è ancora chiaro il meccanismo patogenetico alla base di tali quadri patologici; sono valide l’ipotesi anossica, ma anche quella infettivo-infiammatoria, nonché l’eventuale coinvolgimento di fattori procoagulanti. Anche in questo caso ulteriori studi eziologici e di correlazione con l’outcome sono auspicabili.Oltre alla encefalopatia ipossico ischemica, il neonato può subire un danno cerebrale anche mediante meccanismi patologici diversi.

Ischemia arteriosa e venosa focale o multifocaleGli infarti cerebrali arteriosi nel neonato si manifestano in genere con crisi epilettiche focali, che talvolta possono restare misconosciute e non è infrequente il ricorso all’esame di RM fuori dell’età neonatale, a 6-7 mesi di vita quando i primi segni dell’emiplegia (ridotto utiliz-zo e deficit di forza di un arto). Alla RM in fase acuta neonatale le tecniche di diffusione restano le più sensibili e accurate, mentre le immagini classiche possono dimostrare solo segni sfumati di edema e alterazioni della giunzione bianca-grigia. Diversamente dall’adulto in cui tipica è la reazione gliale, nel neonato le lesioni evolvono più fre-

Figura 5.Lesioni a partenza della vene midollari profonde.A-B neonato di 38 settimane.C-D controllo a 2 anni di vita.Nel neonato si evidenziano diffuse alterazioni con aspetto a raggiera di aspetto ancora in parte ipointenso evidente prevalentemente a livello frontale (frecce B) ma diffuse a tutta la sostanza bianca periventricolare (frecce A). A 2 anni gli esiti sono molto simili a quanto osservabile nella leucomalacia peri-ventricolare anche se con disposizione delle lesioni maggiormente diffusa.

Figura 6.Infarto arterioso in neonato, fase subacuta (10 giorni).A-B sequenza T2 dipendente.C-D sequenza T1 dipendente.Nel neonato le lesioni infartuali evolvono molto rapidamente in aree malaciche con componenti microemorragiche corticali ben evidenziabili come aspetto ipointenso in T2 e iperintenso in T1 (C, D).

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quentemente in cavitazioni cistiche con aree malaciche anche parzial-mente emorragiche (Fig. 6). Gli infarti venosi sono più rari ma di sicuro sotto diagnosticati e generalmente si manifestano con ematomi tipi-camente periventricolari, talamici o temporo-occipitali, a seguito della ostruzione di un grosso collettore venoso o di un seno maggiore. In questi casi la RM anche morfologica può dimostrare con certezza e in fase precoce la presenza del trombo nel seno maggiore, prima dell’in-staurarsi della lesione parenchimale. È ancora da definire il ruolo delle sequenze angiografiche venose, che talvolta possono fornire risultati di non facile interpretazione in quanto la mancata visualizzazione di un seno non necessariamente implica la presenza di un trombo.

Malattie metabolicheL’elenco delle malattie metaboliche ad esordio neonatale è molto lungo ed una trattazione sistematica è assai complessa, inoltre è davvero difficile pensare ad una differenziazione nell’esordio clinico che già possa indirizzare verso un sospetto diagnostico. Il ruolo della RM in questo campo presenta ancora delle lacune in quanto spes-so i quadri neuroradiologici si sovrappongono e restano aspecifici (rigonfiamento cerebrale, iperintensità della sostanza bianca in T2 e riduzione dei valori di ADC sono i segni più frequenti). Tuttavia in una ridotta quota di encefalopatie metaboliche la RM, con l’ausilio delle sequenze non convenzionali, può risultare determinante nella diagnosi e talvolta permettere il rapido instaurarsi di una terapia salva-vita (Tab. II).

InfezioniNel caso del neonato, una delle principali cause di patologia infettiva cerebrale sono le infezioni congenite da patogeni del gruppo TORCH e tra queste la più frequente è quella da Cytomegalovirus (CMV). Il ricorso alle tecniche di RM avviene per due distinti motivi, o perché sia già nota una anomalia neuroradiologica fin dalla vita intrauterina che si vuol quindi meglio definire o perché si è accertata l’infezio-ne nei soli termini di laboratorio e si vogliono pertanto conoscere le eventuali anomalie non identificate durante la vita intrauterina. Il quadro neuroradiologico delle infezioni congenite da CMV è ab-bastanza caratteristico e la sua gravità è correlata all’età gestazio-nale al momento dell’infezione. Se il contagio è avvenuto entro le prime 24 settimane di età gestazionale, il quadro è caratterizzato da microcefalia, anomalie dello sviluppo corticale, spesso di tipo po-limicrogirico, ventricolomegalia, calcificazioni periventricolari e alte-razioni della sostanza bianca preferenzialmente in corrispondenza dei poli temporali. Se l’infezione si verifica dopo le 24 settimane,

non si apprezzano le malformazioni corticali, ma il dato più caratte-ristico è una rarefazione della sostanza bianca, più ricca in acqua, con la presenza di vere e proprie cavità malaciche tipicamente in corrispondenza dei poli temporali; possibile la ventricolomegalia e la presenza di calcificazioni (Fig. 7).

Il neonato con malformazioni dell’encefalo

Introduzione

Il percorso che conduce all’esecuzione di un esame RM neonatale per la ricerca di una lesione acquisita, emorragica od ischemi-ca che sia, è sempre segnato da un preciso evento clinico, una asfissia, una convulsione, un quadro neurologico che si modifica

Tabella II.Malattie metaboliche ad esordio neonatale con quadri RM patognomonici o altamente suggestivi.

Patologia Reperti RM Sequenze più utili

Ipoglicemia Lesioni bilaterali e simmetriche nei lobi parieto-occipitali

T1, T2, DWI

Kernicterus Alterazioni di segnale bilaterali e simmetriche nei nuclei pallidi e subtalamici

T2

Malattia con urine a sciroppo d’acero Edema mielinico con alterazioni evidenti nelle aree già mielinizzate

T1, T2, DWI

Glutarico Aciduria Tipo 1 Macrocefalia, ampliamento delle scissure silviane e degli spazi liquorali temporali, alterato segnale nei nuclei della base

T1, T2

Iperglicinemia non chetotica Anomalo picco di glicina, anomalie della sostanza bianca e corpo calloso

Spettroscopia, T1, T2, DWI

Acidemia metilmalonica Lesioni bilaterali e simmetriche nei nuclei pallidi T1, T2, DWI

Figura 7.Infezione congenita da citomegalovirus in neonato.A-C sequenza T2 dipendente.D sequenza T1 dipendente.In tutte le sequenze sono evidenti delle sfumate alterazioni di segnale a livello dei poli temporali (frecce) caratteristiche dell’infezione da CMV.

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progressivamente. Nel caso invece dello studio di un quadro mal-formativo, le indicazioni cliniche sono più spesso di malformazioni associate, di anomalie macroscopiche all’obiettività. Rimane oggi sempre più improbabile che grossolane malformazioni cerebrali sfuggano oggi ad una diagnosi durante la vita fetale, cosa che avviene invece per forme minori, meno eclatanti. L’identificazione o il sospetto di un quadro malformativo cerebrale in età neonatale è infrequente perché le malformazioni cerebrali sono estrema-mente polimorfe, e casi individuali molto spesso sfuggono ad una categorizzazione rigida. Inoltre, varie malformazioni sono spesso associate in singoli pazienti, e gli schemi di classificazione sono spesso oggetto di revisione in seguito al costante progresso nel-le conoscenze dei processi molecolari di base e alle conoscenze genetiche che dirigono lo sviluppo del cervello. Per questo moti-vo, stiamo ora assistendo ad un delicato passaggio da un sistema classificativo puramente morfologico ad un approccio basato sulla genetica molecolare. Al momento, entrambe le prospettive sono probabilmente altrettanto insoddisfacenti perché la base moleco-lare e genetica è ben nota solo per un numero limitato di entità. Le cause di malformazioni cerebrali possono essere suddivise in quattro gruppi: anomalie cromosomiche, mutazioni di singoli geni, agenti ambientali, e sconosciute (la categoria più ampia). Pertan-to, le classificazioni neuroradiologiche sono ancora in gran parte basate sulla morfologia o su una combinazione di dati morfologici e biochimici.Analizzeremo di seguito i principali quadri malformativi che per gravità clinica o sintomatologia caratteristica possono essere di più frequente riscontro nel periodo neonatale.

Agenesia del corpo calloso

La agenesia completa o parziale del corpo calloso può essere ri-scontrata nel neonato o a seguito della segnalazione ecogafica pre-natale o perché associata a gravi quadri malformativi o sindromici che portano ad un approfondimento diagnostico.Il corpo calloso è suddiviso anatomicamente in quattro porzioni in senso antero-posteriore: rostro, ginocchio, corpo e splenio. Lo svi-luppo del corpo calloso ha inizio alla 6a-7a settimana di gestazione a partire da un ispessimento dorsale della lamina terminale, la lamina reuniens, e si completa con la formazione del rostro intorno alla 20a settimana. Pertanto lo sviluppo del corpo calloso, prolungandosi per circa 14 settimane di gestazione, abbraccia pressoché tutto l’arco di tempo in cui le altre strutture nervose si sviluppano; ne deriva un’alta incidenza di malformazioni associate, che devono pertanto essere attentamente ricercate.Nell’agenesia del corpo calloso il quadro RM è caratteristico (Ray-baud, 2010) e dimostra una costellazione di segni patognomonici, che includono: l’eversione del giro del cingolo con orientamento ra-diale dei solchi della superficie mesiale degli emisferi, la presenza dei fasci longitudinali di Probst costituiti dagli assoni che, non at-traversando la linea mediana, decorrono lungo il versante mediale delle celle medie ventricolari; l’anomalia morfologica del sistema ventricolare, con aspetto “a corna di torello” dei corni frontali, di-latazione colpocefalica dei trigoni e dei corni occipitali e risalita del III ventricolo (Fig. 8); ed infine la frequente associazioni con altre anomalie della linea mediana, quali lipomi o cisti interemisferiche (Fig. 8D) ed ipoplasia dell’asse ipotalamo-ipofisario o delle vie otti-che anteriori (displasia setto-ottica). Questi aspetti così caratteristici rendono la diagnosi se non facile, almeno possibile, anche con l’esa-me di ecografia cerebrale. In casi meno gravi da un punto di vista morfologico, ma spesso più gravi per quanto riguarda la compro-missione psico-motoria del paziente, possono essere presenti gradi

variabili di ipoplasia del corpo calloso, che può risultare più o meno assottigliato, breve o mancante di alcune porzioni (ad esempio nella classica ipoplasia parziale posteriore in cui lo splenio è ipoplasico o del tutto assente). Tipicamente si associano inoltre anomalie delle altre strutture commissurali telencefaliche, vale a dire le commes-sure ippocampale e anteriore.

Oloprosencefalia

Per il progressivo miglioramento nella accuratezza diagnostica dello screening fetale è oggi sempre più raro evidenziare quadri di olopro-sencefalia in un neonato, in particolare nella varianti più severe.Si tratta di una anomalia complessa dello sviluppo della porzione più rostrale dell’encefalo e del segmento premascellare del mas-siccio facciale; più propriamente si tratta di uno spettro di anoma-lie probabilmente secondarie ad un difetto di induzione, più che ad un mancato clivaggio e differenziazione, del prosencefalo. Caratte-ristica comune a tutte le oloprosencefalie è la presenza di un gra-do variabile di fusione degli emisferi cerebrali, associate anomalie della linea mediana quali assenza del rinencefalo, del corpo calloso e del setto pellucido. La tradizionale classificazione delle olopro-sencefalie in tre varianti (dalla più grave forma alobare attraverso la semilobare per giungere alla più lieve forma lobare) costituisce in realtà la semplificazione di un continuum malformativo privo di limiti ben definiti. La variante più grave (oloprosencefalia alobare), in cui il cervello è rudimentale, non clivato e circonda una singola cavità ventricolare rudimentale, è divenuta di riscontro molto raro in ragione di quanto ricordato in precedenza; relativamente più frequenti sono: i) la forma semilobare (Fig. 9), in cui il clivaggio degli emisferi avviene posteriormente mentre vi è una assenza di clivaggio in sede frontale, con presenza di un rudimento posteriore del corpo calloso e agenesia dei corni frontali; e ii) la forma lobare, in cui il deficit di clivaggio coinvolge le sole regioni ventro-basali

Figura 8.Agenesia del corpo calloso in neonato.A-C agenesia isolata.D agenesia in presenza di grossolana cisti interemisferica.Nella agenesia isolata si riconoscono i segni caratteristici con i solchi corticale interemisferici che convergono verso il 3° ventricolo in assen-za del giro del cigolo (frecce) e la tipica morfologia del corni frontali e dei corni temporali.Il caso in D dimostra una voluminosa cisti interemisferica che distorce in parte l’anatomia dell’emisfero di sinistra dove sono presenti aspetti malformativi della corteccia (freccia).

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del telencefalo e i corni frontali sono fusi in un’unica struttura per l’assenza del setto pellucido.

Displasia setto-ottica

Si caratterizza per l’associazione di un’ipoplasia dei nervi ottici con l’assenza del setto pellucido e fusione mediana dei pilastri anteriori dei fornici. I 2/3 dei soggetti si presenta con disturbi endocrini (in particolare con difetto della crescita) per l’associazione di ipoplasia ipotalamo-ipofisaria, mentre nel 50% dei casi si associa schizen-cefalia o polimicrogiria (Miller et al., 2000) (Fig. 10). La diagnosi in epoca neonatale viene fatta per lo più su segnalazione di agenesia de setto pellucido alla ecografia fetale e si basa sul rilievo oftalmo-scopico di ipoplasia dei nervi ottici o altre anomalie oculari (es. mi-croftalmia) associato a un quadro RM caratterizzato dall’assenza del setto pellucido con fusione mediana dei pilastri anteriori del fornice e dall’ipoplasia dei nervi ottici e del chiasma.

Malformazioni della corteccia cerebrale

Il complesso processo di formazione della corteccia cerebrale può essere semplificato in tre fasi principali: proliferazione, migrazione e organizzazione corticale. La proliferazione glio-neuronale inizia durante la 7a settimana gestazionale, quando le cellule nello strato subependimale delle pareti dei ventricoli laterali formano la matri-ce germinale. Durante la settimana seguente, i neuroni generati da una intensa attività mitotica nella matrice germinale cominciano a migrare radialmente verso la superficie del cervello lungo il tragitto determinato da fibre gliali specializzate. Non è esattamente chiaro quando tale processo abbia termine, tuttavia la scomparsa dei pro-cessi distale della glia radiale avviene entro le 20-28 settimane di gestazione, suggerendo che la migrazione neuronale si concluda in questa fase. L’organizzazione della corteccia fino alla configurazione finale a sei strati avviene dopo, e si completa con il settimo mese lunare. L’attuale classificazione suddivide le malformazioni cortica-li in difetti di proliferazione, della migrazione e dell’organizzazione (Barkovich et al., 2005).

EmimegalencefaliaÈ il risultato di un disturbo nella proliferazione neuronale e gliale nella matrice germinale. Può essere isolata o verificarsi in pazienti con sin-dromi neurocutanee. La RM (Fig. 11A) mostra l’ampliamento di un intero emisfero cerebrale in cui la corteccia è affetta da diffuse anomalie della migrazione, mentre la sostanza bianca è gliosica e dismielinizzata. Il ventricolo omolaterale è spesso dilatato e il corno frontale è allungato. L’emisfero cerebellare omolaterale può a sua volta essere ingrandito e caratterizzato da anomalie della foliazione. Il quadro clinico è caratteriz-zato da marcato ritardo psicomotorio ed epilessia a esordio precoce.

Displasia corticale focaleLa displasia corticale focale (DCF) determina epilessia parziale mal controllata dalla terapia medica intrattabile ed è attualmente clas-

Figura 9.Oloprosencefalia seimilobare.In entrambi i casi si dimostra una completa fusione dei lobi frontali (frecce A) e di parte dei nuclei della base (frecce B). Il caso A è più grave i nuclei della base sono solo parzialmente identificabili e anche i talami sono in parte fusi a dimostrazione di come questa anomalia rappresenti di fatto un continuum fra forme di diversa gravità.

Figura 10.Agenesia del setto pellucido e polimicrogiria.In questo neonato è evidente l’assenza del setto pellucido nelle sezioni assiali e coronali (asterisco) unitamente ad una diffusa polimicrogiria che interessa entrambi gli emisferi cerebrali (frecce).

Figura 11.Gravi malformazioni dello sviluppo corticale in neonati.A. Megaloencefalia unilaterale, è evidente un aspetto grossolanamente dismorfico ed ipertrofico della parte anteriore dell’emisfero di destra con un sovvertimento completo delle normale architettura corticale (frecce).B. Lissencefalia classica. La superficie del cervello è completamen-te liscia. Lo spessore della corteccia è molto maggiore di quello della sostanza bianca. Lo strato di cellule sparse, separando il sottile strato esterno corticale da uno spesso strato di neuroni arrestati, è chiara-mente riconoscibile come una banda iperintensa (punte di freccia).C. Malattia di Fukujama. Diffusa bilaterale polimicrogiria con aspetto liscio e sottile della corteccia a livello occipitale (frecce) Il cervelletto contiene multiple piccole cisti. Si associa una marcata ipomielinizzazio-ne ovviamente non ancora chiaramente evidenziabile nel neonato.

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sificata (Blümcke et al., 2011) in tre tipi: grado I, comprendente le displasia architetturali e citoarchitetturali in cui vi è anomalia della laminazione corticale; grado II (displasie corticali focali di Taylor) in cui sono presenti neuroni ectopici; e grado III, in cui una anomalia di grado I o II si associa a lesioni di altro genere tra cui la sclerosi ippocampale. Tale classificazione si correla con l’outcome chirurgi-co dell’epilessia; infatti, esiste una correlazione inversa tra grado istologico e la percentuale di pazienti liberi da crisi a un anno di follow-up. La forma di più frequente riscontro è la DCF di Taylor, in cui si osserva una alterazione strutturale a tutto spessore del man-tello corticale (displasia transmantellare). Queste anomalia si rende tuttavia evidente di norma dopo il periodo neonatale durante il quale il suo riscontro è quindi molto raro o occasionale.

LissencefaliaIl termine “lissencefalia” si riferisce ad una completa assenza di sol-cazione cerebrale ed è sinonimo di “agiria”, mentre per “pachigiria” si intende la presenza di poche circonvoluzioni rudimentali delimi-tate da solchi superficiali. Si rendono di norma evidenti nel periodo neonatale per la loro gravità clinicaLa lissencefalia classica può essere causata da alterazioni del gene LIS1 sul cromosoma 17 o del gene DCX sul cromosoma X (lissence-falia X-linked, in cui i pazienti sono di sesso maschile) (Dobyns et al., 1999). I pazienti presentano epilessia intrattabile e ritardo psicomo-torio severo. Istologicamente, vi è una corteccia quattro strati con uno spesso strato di cellule sparse interposto tra gli strati cellulari interno ed esterno. Alla RM (Fig. 11B) la superficie corticale è piat-ta e le cisterne Silviane sono ampie e orientate verticalmente. La corteccia è ispessita e lo strato delle cellule sparse è riconoscibile sotto forma di stria iperintensa. Un grado variabile di solcazione può essere presente nei singoli pazienti. Nella mutazione LIS 1 vi è agi-ria posteriore e pachigiria anteriore, mentre il pattern opposto (cioè, agiria anteriore e pachigiria posteriore) si trova nelle mutazioni DCX. In questa ultima categoria, le femmine portatrici della mutazione presentano un quadro di eterotopia sottocorticale a banda, che si manifesta con una banda bilaterale di neuroni arrestati circa a metà strada tra i ventricoli e il mantello corticale, che appare sviluppato anche se con un aspetto più rudimentale della solazione rispetto alla norma.La lissencefalia ad acciottolato (“cobblestone”) si riscontra in bam-bini affetti da distrofia muscolare congenita di Fukuyama, sindrome di Walker-Warburg o malattia muscolo-occhio-cervello (muscle-eye-brain, MEB). Vi è una disorganizzazione più anarchica della corteccia, con zone di lissencefalia tipica intervallata da aree di polimicrogiria. La malformazione è causata da una eccessiva migrazione neuronale dovuta a mancato distacco delle cellule neuronali dalle fibre gliali ra-diali, e costituisce pertanto il meccanismo opposto rispetto alle for-me di lissencefalia classica. Alla RM la corteccia è più sottile rispetto alla lissencefalia classica, e può coesistere ipomielinizzazione della sostanza bianca sottostante. Costante è l’associazione con ipoplasia del tronco encefalico (inginocchiamento a “S” nella Walker-Warburg, ipoplasia della protuberanza pontina nella MEB) e malformazioni ce-rebellari (cisti corticali, polimicrogiria cerebellare) (Fig. 11C)

Eterotopie subependimaliUn danno delle fibre gliali radiali può arrestare la migrazione neuro-nale in siti anomali, in cui i neuroni si conglomerano in ordine sparso (Fig. 12). L’eterotopia di sostanza grigia può essere subependimale, subcorticale o meningea. Tra queste, l’eterotopia subependimale è di gran lunga la più comune. I noduli eterotopici sono isointensi con la sostanza grigia in tutte le sequenze RM Possono essere isolati in

casi sporadici, mentre forme di eterotopia nodulare bilaterale diffusa hanno una maggiore probabilità di essere X-linked, a causa di difetti del gene FLN1 che promuove la motilità cellulare. I pazienti affetti presentano tipicamente comizialità anche se è rara una presentazio-ne clinica in epoca perinatale.

PolimicrogiriaÈ la causa più frequente di epilessia parziale in età pediatrica, anche se la polimicrogiria unilaterale può presentarsi con emiparesi con-genita. Sia fattori genetici che acquisiti, compresi eventi vascolari o infezione congenite, possono essere implicati nella patogenesi. La polimicrogiria può tuttavia essere unilaterale o bilaterale, con aspetti diverso a seconda del grado di coinvolgimento emisferico. Le forme bilaterali hanno più frequentemente una base genetica; tra esse, la forma perisilviana bilaterale, caratterizzata clinicamente da diplegia facio-bucco-masticatoria, è la più comune. Macroscopicamente, vi è un eccessivo ripiegamento della corteccia con formazione di nume-rose, sottili microcirconvoluzioni separate da solchi stretti e spesso obliterati. La RM (Fig. 13A) dimostra una zona più o meno estesa di maggiore spessore corticale, con una giunzione irregolare tra sostanza bianca e grigia, mentre la superficie corticale può essere appiattita o estendersi verso l’interno, producendo un ripiegamento corticale attorno a un solco ad orientamento anomalo.

SchizencefaliaÈ caratterizzata da una fissurazione che si estende a tutto spesso-re attraverso l’emisfero cerebrale, dal rivestimento ependimale del ventricolo laterale fino al rivestimento piale (Fig. 13B). La fessura può essere unilaterale o bilaterale, ed è costantemente delimitata da corteccia polimicrogirica. Le pareti della fessura possono essere ampiamente separate (labbra aperte) o viceversa fondersi l’una con l’altra (labbra chiuse). In quest’ultimo caso, la fessura stessa può non essere facilmente visibile, anche se tipicamente è presente una fossetta lungo la parete laterale corrispondente all’orifizio profondo della stessa. In casi bilaterali è tipica l’associazione con l’agenesia

Figura 12.Eterotopia diffusa periventricolare.A. Neonato.B. Controllo a 3 anni.Questo è caso particolare di eterotopia con spesso strato di neuro-ni ectopici presente in sede periventricolare senza tuttavia aspetti di modularità. Nell’immagine eseguita a 3 anni con apparecchio 3T ed alta risoluzione si può osservare come le cellule ectopiche siano sparse diffusamente nella sostanza bianca (frecce) e non solo in sede periven-tricolare.

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F. Triulzi et al.

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del setto pellucido e la malformazione può ricadere nello spettro della displasia setto-ottica.

Malformazioni infratentoriali

Malformazione di Dandy- WalkerLa definizione di malformazione di Dandy-Walker (Fig. 14) include clas-sicamente la completa o parziale agenesia vermiana associata a ipo-plasia emisferi cerebellari, dilatazione cistica del quarto ventricolo ed espansione della fossa posteriore con elevata inserzione del tentorio, del torculare e dei seni trasversi. L’ipoplasia vermiana può essere più o meno grave, tuttavia il verme superiore ipoplasico è costantemente ruotato in senso antiorario, trovandosi posteriormente alla lamina qua-drigemina. La fossa cranica posteriore è occupata da una ampia cisti corrispondente al quarto ventricolo dilatato. L’idrocefalo si sviluppa fino al 80% dei casi non trattati (Tortori-Donati et al., 2005).

Malformazione del dente molareSi compone della seguente triade: i) disgenesia della porzione istmi-ca del tronco encefalico con allungamento e assottigliamento della giunzione pontomesencefalica e allungamento della fossa inter-

peduncolare; ii) ispessimento dei peduncoli cerebellari superiori a decorso parallelo posteriore e privi di decussazione mesencefalica; e iii) ipo-displasia del verme cerebellare (Fig. 15). Questa malfor-mazione è tipicamente riscontrata in pazienti affetti da sindrome di Joubert, che si presenta clinicamente in epoca neonatale con crisi di iperpnea e apnea, atassia, nistagmo e ritardo dello sviluppo (Maria et al., 1999).

RombencefalosinapsiQuesta rara anomalia è caratterizzata da agenesia vermiana, fusione mediana di emisferi e peduncoli cerebellari e peduncoli, e talvolta dei

Figura 13.A. Polimicrogiria bilaterale in neonato. Di norma nell’epoca neonatale le malformazioni corticali sono bene apprezzabili per l’elevato contrasto in particolare in T2 fra la corteccia e la sostanza bianca non mielinizzata. In questo caso si apprezza una estesa bilaterale alterazione caratteriz-zata da fini multipli giri corticali (frecce).B. Schizencefalia, lattante di 6 mesi. A questa età la minor iperintensità della sostanza bianca rende più difficile una chiara differenziazione fra sostanza bianca e sostanza grigia. L’alterazione corticale è complessa e bilaterale, a sinistra si osserva una focale interruzione di continuo del parenchima corticale con un apparente contatto fra ependima e pia e conseguente aspetto estroflesso del margine ventricolare (freccia) in-sieme di condizione caratteristico per la presenza di schizencefalia.

Figura 14.Malformazione di Dandy-Walker, bambina di 20 mesi.La fossa cranica posteriore è am-pliata e contiene formazione cistica corrispondente al quarto ventricolo dilatato. Il verme è ipoplasico con verticalizzazione (rotazione in senso antiorario del verme) (testa di frec-cia) e sollevamento dell’inserzione tentoriale. Si associa idrocefalo.

Figura 15.Malformazione del dente molare in neonato.A Nella immagine sagittale mediana osserva un verme di piccole di-mensioni mal separabile dagli emisferi cerebellari con un 4° ventricolo che appare spostato verso l’alto.B. Nella immagine assiale si osserva il tipico aspetto a dente molare del mesencefalo dove le “radici” del dente sono rappresentate dai pedun-coli cerebellari superiori ispessiti e orizzontalizzati (freccia).C. Nelle immagini coronali si può pure apprezzare l’ispessimento dei peduncoli cerebellari superiori (freccia) e la scarsa evidenza del verme cerebellare.

Figura 16.Romboencefalosinapsi in neonato.A. Neonato normale.B. Corrispondente sezione cerebellare in neonato con romboencefalo-sinapsi.Si può osservare come in B il verme non sia riconoscibile e gli emisferi cerebellari siano completamente fusi fra loro con netta riduzione del diametro traverso del cervelletto. Anche i nuclei dentati appaiono fusi sulla linea mediana.

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La neuroradiologia neonatale tra potenzialità diagnostiche ed applicazioni cliniche

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nuclei dentati. La RM (Fig. 16) rileva l’assenza del verme e la fusione lungo linea mediana degli emisferi cerebellari, formando un cervellet-to monolobato. Nelle immagini RM assiali, folia e solchi sono continui lungo la linea mediana; nelle immagini RM sagittali, manca il riconosci-

mento della normale foliazione vermiana. La fossa cranica posteriore è piccola e il quarto ventricolo ha una caratteristica forma a buco della serratura. Possono coesistere anomalie sopratentoriali, tra cui è tipica l’agenesia del setto pellucido con fusione mediana dei fornici.

Cosa c’è di nuovo Nelle lesioni acquisite in età perinatale sono stati identificati biomarker di Risonanza Magnetica ad elevata valenza prognostica. Si segnalano biomarker ottenuti con la spettroscopia (Lac/Naa) e con la risonanza magnetica convenzionale (anomala mielinizzazione dei lembi posteriori della capsula interna-PLIC). Entrambi vengono utilizzati a fini clinici e per la valutazione dell’efficacia dei nuovi trial di neuroprotezione.

Box di orientamento

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*** Lavoro fondamentale per la classificazione delle displasie corticali focali.

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*** Studio randomizzato che dimostra l’efficiacia della ipotermia nel ridurre la mortalità e le gravi disabilità.

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*** Meta-analisi di 32 lavori che valuta sensibilità e specificità dei diversi marker di RM nel predire l’outcome di neonati con encefalopatia ipossico-ischemica.

Tortori-Donati P, Rossi A, Biancheri R. Brain malformations. In: Tortori-Donati P, Rossi A, eds. Pediatric Neuroradiology. Berlin: Springer 2005, pp. 71-198.

Andrea Rossi, Neuroradiologia, Istituto G. Gaslini, largo G. Gaslini 5, 16147 Genova. Tel. +39 010-5636618. E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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I disturbi neurologici e psichiatrici dell’età evolutiva includono moltissimi quadri nosografici, alcuni rari (ma l’insieme dei disturbi rari in età pediatrica costituisce un capitolo molto importante della medicina dello sviluppo) altri più frequenti, come l’epilessia o i disturbi dell’appren-dimento. Essi hanno spesso carattere di cronicità, e portano a qualche forma di disabilità dello sviluppo, con bisogni di cure e problematiche medico-sociali molto rilevanti. Nell’insieme la loro prevalenza riguarda circa il 10% della popolazione tra 0 e 18 anni, corrispondente a più di un milione di ragazzi e relative famiglie in Italia. Il dato è molto variabile nella letteratura internazionale (4-17%), a seconda delle meto-dologie di rilevazione, che in alcuni casi sottostimano il fenomeno non riuscendo a intercettare le situazioni lievi, e in altri lo sovrastimano per la frequente coesistenza di più patologie nello stesso soggetto che viene così contato più volte. Assai più stabili nelle diverse fasce di età e nelle diverse popolazioni sono invece i dati relativi alla fascia intermedia di gravità dei disturbi (2-2,5%, corrispondenti a 220-270.000 ragazzi e famiglie in Italia) e agli utenti che presentano problematiche multiple, gravi e complesse e limitazioni significative delle autonomie (0,5%, corrispondente circa 50.000 utenti e famiglie), un numero più ridotto, ma molto importante per la programmazione sanitaria e assi-stenziale. Questi dati sono confermati dal recente rapporto ISTAT sulla disabilità in Italia (2009). Si tratta in ogni caso di disturbi di grande complessità: è difficile comprendere la loro eziologia, farne una diagnosi tempestiva, attuare una terapia efficace. Ogni giorno vi sono nella letteratura scientifica importanti novità sui disturbi neurologici e psichiatrici del bambino, grazie all’esplosione della ricerca nelle neuroscienze nell’ultimo decennio e al contributo offerto dalle moderne tecniche di genetica molecolare e di neuroimmagini, dalle strategie terapeutiche basate sull’evidenza. Malgrado questo le disabilità dello sviluppo sono uno degli ambiti in cui maggiormente insistono terapie complementari e alternative, senza alcuna prova di sicurezza ed efficacia.Vi è un consenso generale tra gli esperti che per affrontare le problematiche diagnostico-terapeutiche di questi disturbi è necessario un approccio integrato, multiprofessionale, che veda in prima fila il rapporto tra il pediatra di libera scelta e lo specialista, tra i quali la figura più rilevante è il neuropsichiatra dell’età evolutiva. È fondamentale soprattutto la convergenza e l’integrazione dei saperi tra questi due specialisti.In questo contesto appare molto opportuna la decisione di “Prospettive in Pediatria” di dedicare parte di questo numero della rivista ad alcuni temi della Neuropsichiatria Infantile, scelti tra quelli in cui la condivisione di conoscenze tra pediatra e neuropsichiatra infantile sono fondamentali per l’attuazione dei modelli operativi più adeguati. Un primo contributo riguarda la diagnosi precoce dei disturbi della vita mentale e in particolar modo dell’autismo. La scelta di questo ar-gomento è legata alla loro frequenza, alla crescente evidenza dell’importanza della diagnosi precoce di questi disturbi, per la possibilità di interventi tempestivi tesi a modificarne la storia naturale, collegati a loro volta alle scoperte sulla plasticità del sistema nervoso nei primi periodi critici della vita. Sull’autismo e in particolare sulla diagnosi precoce c’è un grande interesse nel mondo dei pediatri e dei neuropsi-chiatri infantili e vi sono molte esperienze sperimentali. L’argomento è tuttavia complesso e vi sono dubbi sugli studi di screening, sollevati anche recentemente dalla letteratura internazionale. È quindi molto opportuna la messa a punto con indicazioni bibliografiche aggiornate che è stata affidata a Muratori e collaboratori, che sono responsabili scientifici di uno degli studi sperimentali più rilevanti attualmente in corso in Italia su questo argomento.I disturbi dell’apprendimento sono un altro argomento molto dibattuto nel nostro Paese per la recente approvazione di una nuova legge (8/10/2010, n. 170) che regola il percorso diagnostico-terapeutico dei bambini che presentano dislessia, discalculia e altri problemi di apprendimento. Il pediatra deve essere in grado di informare i genitori in maniera corretta su cosa siano questi disturbi, su come vadano affrontati secondo le nuove linee guida sulla diagnosi e sulla terapia e anche su cosa prevede per i loro diritti la nuova legge. L’articolo di Brizzolara e collaboratori è molto utile per fornire queste informazioni.L’ultimo argomento trattato in questa sezione riguarda la terapia farmacologia nell’epilessia del bambino, un tema importante e di sicuro in-teresse, visto il gran numero di nuovi prodotti che l’industria farmaceutica ha lanciato sul mercato, all’interno dei quali non è facile orientarsi, comprendere ed eventualmente condividere le proposte dello specialista. Il gruppo di Renzo Guerrini offre una sintesi breve, ma aggiornata e completa, riassunta in utilissime tabelle di facile consultazione.

Giovanni CioniDipartimento di Neuroscienze dell’Età Evolutiva, IRCCS Stella Maris

Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa

Neuropsichiatria

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 135-142

Introduzione

Gli studi più recenti nell’ambito delle neuroscienze confermano la grande plasticità del sistema nervoso nei primi anni di vita, sia nel caso di sviluppo tipico che in presenza di anomalie genetiche o le-sionali. La plasticità è maggiore nei cosiddetti “periodi critici”, in cui più grande è la capacità da parte dell’ambiente di esercitare un’in-fluenza positiva, ma potenzialmente anche negativa (“maladaptive plasticity”), sullo sviluppo del sistema nervoso (Cioni et al., 2011). Queste scoperte delle neuroscienze rendono sempre più rilevante nell’ambito della ricerca clinica e nell’organizzazione sanitaria il peso da attribuire alla diagnosi precoce ed al trattamento tempesti-vo delle disabilità dello sviluppo, dai disturbi motori a quelli senso-riali, ed anche ai disordini della vita mentale.Per la diagnosi precoce le moderne tecniche di esplorazione del sistema nervoso, come gli esami di genetica molecolare, le tecni-che di neuroimmagine e quelle elettrofisiologiche, pur nella loro im-portanza non possono tuttavia rimpiazzare il contributo essenziale dell’anamnesi e soprattutto della valutazione clinica per la diagnosi e la prognosi, aggiornata e resa più efficace da nuovi modelli neuro-fisiopatologici sui disordini dello sviluppo (Haataja et al., 2011).

La ricerca nel campo della salute mentale infantile ha portato ad una importante trasformazione delle conoscenze dei disturbi psicopato-logici precoci (Campbell, 1995; Egger & Angold, 2006). La consa-pevolezza dell’importanza della diagnosi precoce e del trattamento tempestivo come elementi in grado di modificare il corso naturale delle malattie, è stato il motore che ha permesso di conoscere me-glio i diversi pattern della psicopatologia e i fattori che possono con-tribuire a determinarli (Muratori et al., 2006b; Knauer et al., 2006). Il miglioramento delle capacità diagnostiche ed il parallelo uso di checklist sintomatologiche ha permesso di avere le prime stime di prevalenza dei problemi comportamentali ed emozionali nei bambini piccoli (Muratori et al., 2011; Tancredi & Muratori, 2008). Lo studio di Briggs-Gowan et al., (2008), condotto su una popolazione generale di bambini di 2-3 anni ha messo in evidenza una prevalenza di que-sti problemi maggiore del 10%. Grazie agli stessi strumenti è stato anche possibile condurre studi longitudinali che hanno permesso di esplorare la continuità o discontinuità dei disturbi nelle varie età della vita (Hofstra et al., 2000; Lavigne et al., 1998; Briggs-Gowan et al., 2006; Ammaniti et al., 2011). Infine, le nuove possibilità dia-gnostiche hanno aumentato le conoscenze circa i fattori di rischio e i fattori protettivi (Harrington 2001; Mesman et al., 2001; Kraemer

Attualità nell’individuazione precoce dei disturbi della vita mentale: l’autismo come esempio

Filippo Muratori, Antonio Narzisi, Giovanni CioniDipartimento di Neuroscienze dell’Età Evolutiva, IRCCS Fondazione Stella Maris e Divisione di Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa

RiassuntoVi è crescente evidenza in letteratura dell’importanza e delle possibilità di diagnosi precoce e di trattamento tempestivo dei disordini dello sviluppo della vita mentale. Per l’individuazione tempestiva dell’autismo è necessario prevedere percorsi formativi per i pediatri di libera scelta, diretti a migliorare la loro capacità di riconoscimento dei casi sospetti con l’utilizzazione di strumenti diagnostici da inserire nei bilanci di salute. L’obiettivo di questa breve revisione delle novità della letteratura in questo ambito è quello di aiutare i clinici, e quindi indirettamente anche i genitori, a identificare precocemente i bambini che stanno sviluppando un disturbo dello spettro autistico. Attraverso una migliore conoscenza di alcuni indicatori comportamentali sarà possibile il rico-noscimento tempestivo di bambini a rischio di autismo e la tempestiva messa in atto di interventi terapeutici tesi a ridurre in modo significativo l’impatto di questo disturbo sullo sviluppo globale del bambino. L’intervento precoce, riducendo i lunghi periodi in cui lo sviluppo della vita mentale è fortemente compromesso dalla presenza dei difetti comunicativi e sociali tipici dell’autismo, può ostacolare la progressiva organizzazione atipica dei meccanismi neu-robiologici che sono alla base dello sviluppo socio-comunicativo, e quindi ridurre la gravità dell’autismo la cui piena espressione si ha nel corso dei primi tre anni di vita. Si può forse ipotizzare che nel futuro un aiuto tempestivo al bambino e ai suoi genitori, basato sulla individuazione precoce delle situazioni a rischio di autismo, possa evitare lo sviluppo di questo grave disturbo della vita mentale, riducendone la frequenza, un obiettivo che era impensabile fino a qualche anno fa.

SummaryA growing evidence can be found in the literature on the importance and possibility for early diagnosis and treatment of developmental mental disorders. For the early detection of autism it is necessary to provide pathways training for pediatricians to improve their ability to recognize suspected cases of autism using diagnostic tools to be included in health check-up of the first years of life. The aim of this brief review of recent contributions in this field is to help clinicians, and thus indirectly also parents, to identify very young children who are developing an autism spectrum disorder. The hope is that a better understanding of some behavioral indicators can be useful for the early detection of children at risk of autism and, a timely implementation of therapeutic interventions that could significantly reduce the impact of this disorder on the overall development of the child. Early intervention, reducing the long periods in which the development of mental life is seriously compromised by the presence of typical signs of autism, can impede the progressive atypical organiza-tion of the neurobiological mechanisms underlying social-communication development and thus reduce the severity of autism whose full expression occurs during the first three years of life. The hypothesis is that a timely aid to the child and his parents based on the early detection of the risk of autism can then avoid the development of autism and even reduce frequency of this mental disorder, a goal that was unthinkable a few years ago.

NEuRoPSiChiATRiA

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F. Muratori et al.

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et al., 2001), e a loro volta lo studio di questi fattori ha portato in pri-mo piano il concetto di resilienza (Rutter, 1993) 1 attraverso il quale è stato ridefinito il complesso rapporto tra fattori endogeni, a forte de-terminazione genetica, e fattori ambientali nella patogenesi dei di-sturbi. L’approccio alla psicopatologia basato sulla diagnosi ha come fine ultimo quello di evitare, attraverso la promozione di programmi terapeutici specifici, il consolidamento di pattern disfunzionali (Fo-nagy, 1998). Da questo punto di vista l’autismo può rappresentare un buon esempio clinico.

I disturbi dello sviluppo precoce: l’autismo come esempioLa individuazione dell’autismo come sindrome clinica precocissi-ma si può far risalire a due pubblicazioni quasi contemporanee. La prima ad opera di Kanner (1943) descriveva bambini caratterizzati dall’assenza di interessi sociali, tendenza a stare da soli, intolle-ranza ai cambiamenti, interessi ristretti e stereotipati, disturbi del linguaggio e riduzione delle capacità cognitive; la seconda del 1944, ad opera di Asperger, descriveva soggetti ugualmente solitari e dagli interessi ristretti ma senza deficit cognitivo e linguistico. L’autismo di Kanner e la Sindrome di Asperger sono diventati i due quadri cli-nici estremi di quello che attualmente sono definiti Disturbi dello Spettro Autistico (DSA, o Autism Spectrum Disorders, ASD) e che sono caratterizzati da due elementi 1) deficit socio-comunicativo; e 2) presenza di interessi ristretti. Secondo le stime del CDC (Center for Disease Control and Prevention) l’incidenza dei DSA, è di circa di circa 1 bambino su 110. Tale incidenza pone i DSA come malattie non rare e di grande rilevanza sociale e sanitaria.Per molti anni l’ipotesi eziologica dell’autismo è stata basata sull’idea che il bambino affetto da autismo fosse neurologicamente

sano, e che la causa dell’autismo fosse individuabile solo nel rap-porto inadeguato con una madre ‘frigorifero’ (Bettelheim, 1967). Per molti anni questa ipotesi eziologica, oggi ritenuta scorretta, ha do-minato il panorama clinico internazionale. Attualmente i DSA sono considerati come l’espressione di uno specifico processo patologico che, a partire da fattori poligenetici (sicuramente presenti, ma solo in piccola parte identificati), comporta uno sviluppo anormale della architettura cerebrale che è la responsabile della sindrome clinica comportamentale 2. In alcune sindromi genetiche, come per esempio l’X-fragile (causata da mutazione del gene FRM1), è possibile indi-viduare caratteristiche comportamentali (es. movimenti stereotipati, sviluppo sociale atipico e limitato contatto oculare con l’interlocuto-re) che rientrano nei criteri diagnostici del DSM-IV (Tab. I). Recente-mente sono stati individuati nuovi geni associati con i disturbi dello spettro autistico; in particolare si tratta di porzioni di DNA duplicati o deleti. Queste ‘varianti per numero di copie’ (copy number variant o CNV) appena scoperti sovrintendono alle connessioni tra cellule nervose, alla proliferazione e motilità cellulare e alla trasmissione di segnali intracellulari (Pinto et al., 2010).Il fatto che l’autismo possa essere meglio compreso nella sua na-tura di disfunzione genetica e neurobiologica ha portato progressi-vamente a sviluppare metodi terapeutici più congruenti con la spe-cificità dei deficit neurocognitivi e psicopatologici. In particolare la ricerca sul ruolo che l’esperienza svolge nella espressione dei geni e nella costruzione dell’anatomia cerebrale sta ponendo le basi per trattamenti in grado di modificare le funzioni e le strutture cerebra-li e non come semplici e forzose modificazioni comportamentali. L’intervento precoce è maggiormente efficace poiché si appog-gia sulla plasticità cerebrale, connessa al ruolo che l’esperienza

2 Vi sono costanti progressi nella comprensione della complessa genetica dell’auti-smo, che è dovuto all’interazione tra fattori genetici, epigenetici ed ambientali (Rutter, 2011). Con l’utilizzazione di nuove tecnologie di analisi genomica, come l’array chro-mosomal genomic hybridization, circa nel 25% dei soggetti con disturbo autistico è possibile identificare una anomalia genetica di significato clinico, con importanti implicanze sul piano prognostico e di counseling. Per review recenti sull’argomento si segnalano i lavori di Eapen (2011) e Miles (2011).

Tabella I.Criteri diagnostici per il Disturbo Autistico secondo il DSM-IV.

A. Un totale di 6 (o più) voci da (1), (2) e (3) con almeno 2 da (1) e uno ciascuno da (2) e (3)1) Compromissione qualitativa dell’interazione sociale, manifestata con almeno 2 dei seguenti punti:a) marcata compromissione nell’uso di svariati comportamenti non verbali come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee ed i gesti che regolano le interazioni socialib) incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppoc) difetto di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone (per esempio non mostrare, portare, né richiamare l’attenzione su oggetti di proprio interesse)d) difetto nella reciprocità sociale o emotiva2) Compromissione qualitativa della comunicazione come manifestato da almeno 1 dei seguenti punti:a) ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio parlato (non accompagnato da un tentativo di compenso attraverso modalità alternative di comunicazione come gesti o mimica)b) in soggetti con linguaggio adeguato, marcata compromissione della capacità di iniziare o sostenere una conversazione con altric) uso di linguaggio stereotipato e ripetitivo o linguaggio eccentricod) difetto nei giochi di simulazione vari e spontanei o nei giochi di imitazione sociale adeguati al livello di sviluppo3) Modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno 1 dei seguenti puntia) dedizione assorbente a uno o più tipi di interessi ristretti e stereotipati anomali o per intensità o per focalizzazioneb) sottomissione del tutto rigida a inutili abitudini o rituali specificic) manierismi motori stereotipati e ripetitivi (battere o toccare le mani o il capo, complessi movimenti di tutto il corpo)d) persistente ed eccessivo interesse per parti di oggettiB. Ritardi o funzionamento anomalo in almeno una delle seguenti aree, con esordio prima dei 3 anni di età: (1) interazione sociale, (2) linguaggio usato nella comunicazione sociale, o (3) gioco simbolico o di immaginazioneC. L’anomalia non è meglio attribuibile al Disturbo di Rett o al Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza

1 Secondo Rutter (2003) la resilienza è definibile come “fenomeno connesso ad un buon percorso evolutivo nonostante la presenza nel corso dello sviluppo di fattori od eventi che, nella popolazione generale, si ritiene comportino un rischio grave di sviluppo atipico”.

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Attualità nell’individuazione precoce dei disturbi della vita mentale: l’autismo come esempio

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svolge nella espressione genica e nella costruzione dell’anatomia cerebrale.Attualmente gli interventi precoci per l’autismo sono collocabili lun-go un continuum che vede ad una estremità gli interventi fondati sulla teoria comportamentale (behavioral approaches) e dall’altra quelli basati sullo sviluppo (developmental approaches). Secondo questa proposta tutti gli interventi possono essere collocati all’inter-no di un continuum che va da approcci comportamentali altamente strutturati e guidati da un terapista, ad approcci meno strutturati che seguono gli interessi del bambino basandosi su un programma teso a facilitare il suo progredire sulla scala dello sviluppo (Muratori et al., 2010; Ospina et al., 2008).Kanner aveva descritto i bambini con autismo “come bambini che vengono al mondo con un disturbo innato nel formare l’usuale con-tatto affettivo con le persone, proprio come altri bambini vengono al mondo con un handicap fisico o intellettivo” (Kanner, 1943). Questa intuizione di Kanner è oggi ampiamente confermata sia dagli studi clinici, che segnalano come indici precoci di rischio di autismo il difetto dell’attenzione condivisa e della reciprocità sociale (Mundy & Crowson 1997), sia dagli studi di imaging (Kennedy et al., 2006) che segnalano disfunzioni a livello di un complesso network di aree cere-brali deputate alla regolazione sociale delle azioni umane (amigdala, corteccia orbito-frontale, giro temporale superiore ed inferiore, giro fusiforme, corteccia temporo-polare). L’abbattimento dell’età del bambino al momento della diagnosi dai sei anni ai 3/4 anni ha note-volmente migliorato la prognosi dei DSA (Vismara & Rogers, 2010). La sfida attuale è quella di porre diagnosi di autismo prima dei 36 mesi di vita in modo da poter intervenire in una fase dello sviluppo in cui il disturbo non si è ancora stabilizzato e quindi di modificare realmente la qualità della reciprocità sociale in questi bambini.Per questo motivo diverse linee guida sui DSA pongono come primo obiettivo la diagnosi precoce segnalando che l’anticipazione della diagnosi può essere fatta solo a partire da una stretta collaborazione tra pediatra, che individua il rischio, e specialista in neuropsichiatria che formula la diagnosi (Council on Children with Disabilities of the American Academy of Pediatrics, 2007).È necessario a questo punto ricordare alcuni aspetti generali che debbono guidare il pediatra nella identificazione dei bambini a ri-schio di autismo (Muratori, 2009). Innanzitutto bisogna sempre ri-cordarsi che non è la presenza di ‘un’ comportamento anomalo o la assenza di ‘una’ competenza attesa a dover far decidere il pediatra per una situazione di rischio: è piuttosto la loro frequenza e perva-sività che vanno considerate. In particolare è la presenza dei com-portamenti intersoggettivi in una varietà di contesti ad essere indice di un buon sviluppo del bambino: al contrario se un bambino mostra una determinata competenza solo in una determinata situazione (ad esempio sorride e guarda solo quando la mamma canta una deter-minata canzoncina) questo può essere un indice di rischio.In secondo luogo va sottolineato che, se da un lato è vero che una ri-sposta negativa alle domande sullo sviluppo del bambino (ad esem-pio: “il tuo bambino risponde al nome…?”) rappresenta un fattore di rischio e di attenzione per il clinico, dall’altro una risposta che segnala la presenza di quella certa competenza intersoggettiva non significa assenza di rischio. Il bambino piccolo con autismo può in-fatti presentare competenze sociali: ciò che bisognerà osservare è la loro stabilità e varietà di modulazione.Infine, è utile segnalare di non lasciarsi ‘ingannare’ dalla qualità affet-tiva del rapporto madre-bambino. Anche se il bambino con autismo è assorbito nel suo mondo, egli può avere un attaccamento sicuro nei confronti del genitore e manifestare comportamenti tipici come la ricerca di vicinanza fisica in situazioni nuove o disagio al momen-

to della separazione. La presenza di questi comportamenti non deve indurre il pediatra a pensare che il bambino non ha l’autismo ‘perché mostra un buon attaccamento alla madre’. L’autismo è una malattia che va a colpire l’interesse e l’iniziativa sociale del bambino (con importanti ricadute a livello dello sviluppo comunicativo, linguistico ed emozionale), il quale peraltro mostra di poter sviluppare buoni attaccamenti alle persone: ciò può apparire paradossale ma costi-tuisce un punto di forza di questi bambini su cui potersi appoggiare nel trattamento precoce, la cui attivazione, ricordiamolo ancora una volta, è il vero obiettivo della diagnosi precoce.

Screening e individuazione precoce dell’autismo

Molti lavori scientifici enfatizzano l’importanza di uno screening in grado di individuare i bambini a rischio di autismo. A partire dallo studio che ha utilizzato la CHAT vi è stato un continuo miglioramento degli strumenti utilizzati al fine di migliorarne il rapporto sensibilità/specificità (Barbaro et al., 2011; Pandey et al., 2008; Kleinman et al., 2008; Robins et al., 2006). Bisogna tuttavia segnalare alcune critici-tà degli attuali programmi di screening per l’autismo recentemente riprese da Al-Quabandi (2011) sulla base della aderenza ai criteri proposti nel 1984 da Cadman (esistenza di trattamenti efficaci; cari-co di sofferenza; efficacia: sensibilità e specificità; capacità di diffu-sione e di sostenibilità da parte del sistema sanitario; compliance ai trattamenti). Nonostante queste perplessità, l’evidenza che un trat-tamento precoce (cioè prima del terzo anno di vita quando il quadro clinico è maggiormente chiaro e la diagnosi obbligatoria) è in grado di migliorare la prognosi (Dawson et al., 2009; Green et al., 2010) ha reso i programmi di screening per l’autismo ampiamente diffusi. Tali programmi per l’identificazione precoce dell’autismo dovrebbero contemplare due livelli di investigazione: il primo livello (di scree-ning) dovrebbe coinvolgere tutti i bambini di una età stabilita al fine di individuare quelli a rischio per uno sviluppo di autismo; il secondo livello (di diagnosi) deve contemplare solo quei bambini identificati come a rischio durante la fase di screening. Il primo livello è con-dotto durante le normali visite di salute dal pediatra; il secondo li-vello è condotto da clinici esperti (Filipek et al., 1999, Muratori et al., 2006) attraverso alcuni specifici strumenti osservativi e di interviste. Il ‘gold standard’ per la diagnosi di autismo è attualmente rappre-sentato dall’ADOS 3 (Lord et al., 2000) e dall’ADI 4 (Lord et al., 1994) entrambi strumenti che richiedono un training di addestramento per la loro somministrazione e codifica. Attraverso tali strumenti il clinico può individuare i bambini senza autismo, quelli che rientrano nello spettro autistico e quelli con disturbo autistico.Per ciò che attiene gli strumenti di primo livello (di screening) questi sono solitamente composti da domande al genitore e dalla osserva-zione diretta di comportamenti chiave. Gli strumenti, storicamente più conosciuti, costruiti secondo questo criterio, sono la CHAT (Chec-klist for Autism in Toddlers, che valuta la presenza nel bambino di 18 mesi del pointing dichiarativo, del monitoraggio dello sguardo e del

3 L’ADOS è uno strumento di osservazione del bambino in situazioni di gioco della du-rata di circa 30-45 minuti. Attraverso l’ausilio di specifici materiali di gioco vengono valutate le modalità di comunicazione e di interazione sociale.4 L’ADI è un’intervista ad ampio raggio, rivolta ai genitori o agli educatori, finalizzata ad ottenere una gamma completa di informazioni per la diagnosi di autismo e per valutare i disturbi dello spettro autistico (DSA). L’ADI si focalizza sull’osservazione sistematica e standardizzata di comportamenti che raramente vengono riscontrati in soggetti non clinici, e principalmente sulle tre aree del funzionamento che ven-gono indicate di importanza diagnostica secondo i criteri dell’ICD-10 e del DSM-IV: Linguaggio e comunicazione; Interazione sociale reciproca; e Comportamenti stere-otipati ed interessi ristretti.

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gioco condiviso che sono solitamente deficitari nei bambini con au-tismo già a questa età) e la M-CHAT (composta di 9 item relativi alla presenza/assenza delle competenze già esplorate dalla CHAT, cui sono stati aggiunti 14 item che fanno invece riferimento alla presen-za/assenza di comportamenti anormali che caratterizzano la patolo-gia autistica come i disturbi sensoriali, anomalie motorie, anomalie dello sguardo e del contatto oculare, anomalie delle funzioni uditive e linguistiche). La M-CHAT è uno strumento agilissimo che può es-sere compilato dai genitori durante una comune visita di routine in pochi minuti; essa tuttavia ha mostrato, così somministrata, molti falsi positivi. Per questo motivo il progetto di screening dell’autismo attivo nella Regione Toscana ha preferito somministrare la M-CHAT in forma di intervista da parte del pediatra al bilancio di salute del 18 mese (Fig. 1). L’ipotesi è che una più attenta valutazione clinica dei comportamenti descritti nella M-CHAT può ridurre i troppi falsi positivi (cioè bambini che risultano autistici e che ad una analisi più approfondita non lo sono).Sia la CHAT di Baron-Cohen (1992) (Tab. II) che la M-CHAT di Robins (2001) (Tab. III) sono indirizzati alla individuazione dell’autismo dal 18°mesedivita.Maessendoinmolticasiilprocessoautisticogiàin atto nel corso del primo anno di vita le linee guida internazionali sull’autismo pongono tra gli obiettivi della futura ricerca la elabo-razione di strumenti per la individuazione di bambini a rischio di autismo entro il primo anno di vita.

Una guida all’individuazione precoce: gli indici di rischioIn questo paragrafo segnaliamo una serie di indici di sviluppo ati-pico espressi sotto forma di domande che il pediatra può porre alla madre al bilancio di salute dei 12 mesi (Tab. IV). Si tratta di domande che indagano aree di funzionamento il cui eventua-le interessamento è un criterio maggiore per porre il sospetto di rischio di autismo. Le preoccupazioni e i resoconti dei genitori riguardo lo sviluppo o la regressione del bambino devono essere accolti come indicatori altrettanto importanti quanto le anomalie nelle competenze intersoggettive esplorate attraverso le doman-de (Muratori 2007).Infine, parallelamente alle difficoltà sociali osservabili a livello del comportamento, lo sviluppo anormale della circonferenza cranica è attualmente considerato come un possibile indicatore neurobio-logico per l’identificazione precoce di bambini a rischio di autismo (Corchesne et al., 2003, 2005; Muratori et al., 2011b). Del tutto re-centemente è stato infatti descritto un ritmo di crescita anormale della circonferenza cranica nel corso del primo anno di vita (Fig. 2). Tale peculiare ritmo di crescita della circonferenza cranica riguarda circa il 90% dei bambini con autismo ed è caratterizzato da una accelerazione inaspettata tra il terzo e il dodicesimo mese di vita indipendentemente dal suo valore alla nascita. Tale improvviso ed eccessivo incremento nella dimensione della testa nel secondo se-

Figura 1.Flow-chart del programma di screening dell’autismo.

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Tabella II.CHAT (Checklist for Autism in Toddlers).

Sezione A: Domande rivolte ai Genitori o Caregivers

1) Al vostro bambino piace essere cullato, essere dondolato o fatto saltare sulle vostre ginocchia?

2) Vostro figlio s’interessa agli altri bambini?

3) Piace a vostro figlio arrampicarsi sui mobili o sulle scale?

4) Gli piace giocare al gioco del cucù o a nascondino?

5) Ogni tanto gioca a far finta di preparare da mangiare o altre attività immaginarie?

6) A volte indica col dito indice per chiedere qualcosa?

7) A volte indica col dito per indicare interesse verso a qualcosa?

8) Riesce a giocare in modo appropriato con i giocattoli, oltre che metterli in bocca e farli cadere?

9) Il vostro bambino vi porge ogni tanto oggetti per farveli vedere?

Sezione B: Osservazione ed Interazione col Bambino

1) Durante l’osservazione, il bambino ha realizzato un contatto oculare con voi?

2) Ottenete l’attenzione del bambino se indicando con la mano un oggetto interessante dall’altro lato della stanza esclamate: “Ehi guarda! C’è… (un nome di un giocattolo per esempio)? ora controllate l’espressione del bambino: rivolge lo sguardo verso l’oggetto da voi indicato? (per assegnare SÌ a questo Item, accertatevi che il bambino abbia effettivamente guardato l’oggetto indicato e non soltanto la vostra mano)

3) Date al bambino un bicchierino ed una bottiglietta vuota e chiedetegli: “Versa l’acqua”. Il bambino accenna l’azione di versare o di bere? (potete assegnare SÌ a questo item anche se osservate un altro esempio di richiesta o azione in altro gioco conosciuto dal bambino)

4) Chiedete al bambino: “Dov’è la luce?”; oppure “Fammi vedere la luce”. Il bambino punta il suo indice verso la luce? (Se non conosce ancora la parola luce potete usare un altro oggetto di sua conoscenza, sempre al di fuori della sua portata. Per assegnare SÌ a questo test, assicuratevi che il bambino vi abbia guardato in faccia all’incirca nel momento in cui indicava)

Il bambino riesce a costruire una torre di alcuni cubi?

Tabella III.M-CHAT (Modified Checklist for Autism in Toddlers).

1. Vostro figlio si diverte ad essere dondolato o a saltare sulle vostre ginocchia? Sì No

2. Vostro figlio si interessa agli altri bambini? Sì No

3. A vostro figlio piace arrampicarsi sulle cose, come per esempio sulle scale? Sì No

4. Vostro figlio si diverte a giocare al gioco del CU-CU o a nascondino? Sì No

5. Vostro figlio gioca mai a far finta? Per esempio fa finta di parlare al telefono o di accudire una bambola o altro? Sì No

6. Vostro figlio usa mai l’indicare col dito indice per chiedere qualcosa? Sì No

7. Vostro figlio usa mai l’indicare col dito indice per segnalare interesse in qualcosa? Sì No

8. Vostro figlio riesce a giocare in modo appropriato con piccoli giocattoli (ad esempio macchinine o cubi) senza soltanto metterli in bocca, o giocherellarci, o farli cadere?

Sì No

9. Vostro figlio vi porta mai degli oggetti per mostrarvi qualcosa? Sì No

10. Vostro figlio vi guarda negli occhi per più di un secondo o due? Sì No

11. Vostro figlio sembra mai ipersensibile ai rumori (ad es. si tappa le orecchie)? Sì No

12. Vostro figlio sorride in risposta alla vostra faccia o al vostro sorriso? Sì No

13. Vostro figlio vi imita? (Ad esempio se fate una faccia cerca di imitarla?) Sì No

14. Vostro figlio risponde al suo nome quando lo chiamate? Sì No

15. Se indicate con il dito indice un giocattolo dalla parte opposta della stanza, vostro figlio lo guarda? Sì No

16. Vostro figlio cammina? Sì No

17. Vostro figlio guarda le cose che voi state guardando? Sì No

18. Vostro figlio fa movimenti insoliti con le dita vicino alla faccia? Sì No

19. Vostro figlio cerca di attirare la vostra attenzione su una sua attività? Sì No

20. Vi siete mai chiesti se vostro figlio potesse essere sordo? Sì No

21. Vostro figlio capisce ciò che dicono le persone? Sì No

22. Vostro figlio qualche volta fissa lo sguardo nel vuoto o girovaga senza scopo? Sì No

23. Quando vostro figlio è di fronte a qualcosa di non familiare, vi guarda in faccia per controllare quale è la vostra reazione? Sì No

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mestre di vita rappresenta un elemento di rischio neurobiologico in quanto è interpretato come l’espressione macroscopica di un distur-bo dei processi di crescita cerebrale ed in particolare dei processi di apoptosi e di pruning neuronale (Belmonte et al., 2004) 5.

Conclusioni

Per quanto il processo diagnostico relativo a bambini al di sotto dei 24 mesi possa essere complicato e complesso, è pur vero che gli studi condotti nell’ultimo decennio forniscono dati confortanti circa la sua fattibilità. Fino a pochi anni fa le uniche informazioni

che avevamo provenivano dalle ricostruzioni anamnestiche fatte dal clinico con i genitori. Oggi le cose sono notevolmente cam-biate: molti sono i bambini che arrivano a consultazione prima dei tre anni di vita; abbiamo la possibilità di avere una fonte diretta di informazioni costituita dai filmati con cui i genitori hanno ripreso i primi anni del loro bambino (Palomo et al., 2006; Baranek et al., 1999; Muratori et al., 2005; Eriksson & de Chateau 1992; Oster-ling & Dawson 1994; Maestro et al., 1999); abbiamo osservazioni su bambini identificati a rischio dalla applicazione di strumenti di screening (Robins et al., 2001; Stone et al., 2000) o perché fratelli di bambini già diagnosticati (Iverson & Wozmark 2007; Zwaigen-

Tabella IV.Esempi di indici di sviluppo atipico, espressi come domande per il bilancio di salute dei 12 mesi (Muratori, 2007).

1) Sei preoccupato per il tuo bambino?

La maggior parte dei genitori di bambini con autismo iniziano ad essere preoccupati circa lo sviluppo del loro bambino all’inizio del secondo anno di vita, ma circa il 50% dei genitori sospetta che ci sia qualche problema ancora prima che il bambino compia un anno. La preoccupazione del genitore va sempre tenuta in attenta considerazione

2) Il tuo bambino ha recentemente perso competenze precedentemente acquisite? Ha smesso di sorridere?

Esistono due finestre temporali per la valutazione degli indicatori precoci di rischio di autismo. La prima finestra si colloca tra gli 8 e i 12 mesi (autismo ad esordio precoce). La seconda finestra si colloca tra i 12 e i 18 mesi (autismo regressivo caratterizzato da un normale sviluppo sociale e quindi perdita di competenze acquisite (risposta al nome, pointing, gesti).

3) Il tuo bambino è fluido, ritmico e simmetrico nei movimenti?

Asimmetrie, atipie, scarsa variabilità motoria, difficoltà nel mantenere la posizione seduta, relativa acinesia possono essere uno degli indici più precoci di uno sviluppo atipico.

4) Il tuo bambino cerca di guardarti negli occhi? Utilizza lo sguardo per regolare l’interazione?

I bambini con autismo mostrano uno specifico deficit qualitativo e quantitativo nel prestare attenzione agli stimoli sociali. A questo minore interesse per gli stimoli sociali, ed in particolare per la faccia, non corrisponde una minore attenzione verso gli oggetti; cioè si tratta di un deficit specifico di attenzione verso gli stimoli sociali.

5) Il tuo bambino imita i tuoi gesti, i tuoi vocalizzi, o le tue azioni

La compromissione dell’imitazione può essere considerata, nell’autismo, un deficit primario ricollegabile al precoce mal funzionamento del sistema dei neuroni specchio. I bambini con autismo sono ad esempio meno capaci di imitare i movimenti facciali orali (es. protrusione della lingua), o le azioni con un oggetto (es. colpire il tavolo con una bacchetta).

6) Il tuo bambino ti invita a fare qualcosa? Cerca di catturare la tua attenzione per fare il gioco del cucù? Cerca di provocarti per avere con te un interazione divertente? Ti offre la pancia, le dita delle mani, o il piede per farsele mangiare?

I bambini con autismo possono essere capaci di rispondere se attivamente stimolati dai loro genitori, ma solo raramente sono in grado di assumere l’iniziativa ed essere loro a voler cominciare una interazione piacevole.

7) Il tuo bambino apre la bocca quando tu lo stai per imboccare? Alza le sue braccia per essere preso in braccio?

I bambini con autismo hanno difficoltà nell’anticipare le azioni dell’altro e nel comprendere le intenzioni sottese ai gesti delle altre persone.

8) Il tuo bambino è capace di mostrare una gamma di stati affettivi (felicità, paura, disgusto)? In situazioni nuove, guarda l’espressione del tuo volto per rassicurarsi di qualcosa?

Diversi studi di neuro imaging hanno mostrato un anomalo funzionamento delle zone cerebrali deputate al riconoscimento delle emozioni nei bambini con autismo. In età precoce ciò può esprimersi con un range ristretto di espressioni facciali.

9) Il tuo bambino preferisce guardare le persone rispetto agli oggetti?

Nel bambino con autismo vi è una prevalenza dell’interesse per gli oggetti rispetto ai volti.

10) Il tuo bambino è interessato a giocattoli nuovi? Mentre gioca con il suo giocattolo preferito, alza lo sguardo se gli mostri un giocattolo diverso?

I bambini con autismo hanno difficoltà nello spostare la loro attenzione da un oggetto ad un altro e preferiscono compiere azioni ripetitive con lo stesso oggetto; hanno notevoli difficoltà nel disimpegnarsi dal primo oggetto mostrato.

11) Il tuo bambino risponde al nome quando tu lo chiami senza essere visto?

Uno dei comportamenti maggiormente documentati nell’autismo è la diminuita tendenza a rispondere al proprio nome e di girarsi interessato guardando il volto di chi lo ha chiamato.

12) Il tuo bambino indica un oggetto e guarda i tuoi occhi per essere sicuro che entrambi state condividendo l’attenzione per lo stesso oggetto?

L’assenza del pointing dichiarativo (cioè dell’indicare un oggetto contemporaneo al guardare gli occhi dell’adulto) è considerato come uno dei più importantisegnidiautismoneibambiniapartiredal18°mesedivita.

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Attualità nell’individuazione precoce dei disturbi della vita mentale: l’autismo come esempio

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Figura 2.Crescita della circonferenza cranica e autismoIl ritmo di crescita della Circonferenza Cranica (CC) nell’autismo è caratte-rizzato da un improvviso ed eccessivo incremento a partire dai 3/4 mesi e al raggiungimento, verso il 18° mese di vita, di valori al di sopra della media fino, in alcuni casi, alla macrocrania. L’eccessiva crescita riguarda in parti-colare la corteccia frontale, la corteccia temporale, il cervelletto e l’amigda-la. Il particolare andamento della CC è congruente con il fatto che l’autismo è caratterizzato da un quadro clinico più sfumato nel primo anno di vita e con il fatto che di solito si osserva un aggravarsi della costellazione sintoma-tica durante il secondo semestre di vita, quando non si verifica il passaggio da comportamenti sociali semplici a comportamenti sociali complessi. In figura è riportato il cambiamento dello z score della CC durante i primi 14 mesi di vita (T0 = nascita; T1 = 1-2 mesi; T2 = 3-5 mesi; T3 = 6-14 mesi) nell’autismo (ASD group) e nei soggetti con sviluppo tipico (Control group) in una casistica personale di 50 bambini con autismo.Da Muratori et al., 2011b.

Che cosa si sapeva primaPer molti anni l’ipotesi eziologica dell’autismo è stata basata sull’idea che il bambino affetto da autismo fosse neurologicamente sano, e che la causa dell’autismo fosse individuabile in un rapporto inadeguato con la madre. Fino agli anni ’70 questa ipotesi eziologica, oggi ritenuta scorretta, ha dominato il panorama clinico internazionale.

Cosa sappiamo adessoOggi i disturbi dello spettro autistico (DSA) sono considerati l’espressione di uno specifico processo patologico che, a partire da fattori poligenetici (sicuramente presenti ma solo in minima parte identificati), comporta uno sviluppo anormale della architettura cerebrale che è responsabile della sindrome clinica comportamentale.

Perché una diagnosi precoceSeppure non esista una terapia in grado di guarire dall’autismo, la diagnosi tempestiva seguita da un trattamento precoce permette di migliorare la prognosi del disturbo e di evitare le gravi ricadute che esso ha sulle attitudini genitoriali. L’equazione Diagnosi Precoce X Trattamento Tempestivo = Mi-gliore esito prognostico, applicabile ad ogni settore del campo medico, ha assunto una rilevanza clinica specifica anche per i DSA.

Quali ricadute sulla pratica clinicaAmpliamento e miglioramento degli screening di salute in ambito pediatrico.

Box di orientamento

baum et al., 2005). Questo insieme di dati ha indubbiamente cre-ato nuove conoscenze sui primi 24 mesi di vita del bambino con autismo e questo ricco insieme di informazioni porta a considerare l’osservazione diretta dei bambini come il muro portante di un edi-ficio diagnostico solido ed accogliente. All’interno di tale edificio

l’utilizzo di strumenti di screening e di strumenti per la diagnosi standardizzati per l’individuazione precoce dell’autismo può ac-crescere il corpus di informazioni sul bambino e porre le basi per un approccio scientificamente valido di individuazione precoce dei segni di autismo già a partire dal primo anno di vita.

Bibliografia

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* Per quanto riguarda le particolarità di accrescimento della circonferenza cranica si suggerisce la lettura dei due articoli di Courchesne (2003, 2005) perché hanno richiam-ato l’attenzione dei clinici su questo aspetto. In particolare il primo articolo (Courchesne, 2003) è stato pubblicato su una delle riviste scientifiche più importanti al mondo.Dawson G., Rogers S., Munson J, et al. Randomized, controlled trial of an in-tervention for toddlers with autism: the Early Start Denver Model. Pediatrics 2009;125:17-23.Eapen V. Genetic basis of autism: is there a way forward? Curr Opin Psychiatry 2011;24:226-36.Egger HL, Angold A. Common emotional and behavioral disorders in preschool children: presentation, nosology, and epidemiology. J Child Psychol Psychiatry 2006;47:313-37.Eriksson AS, de Chateau P. Brief report: a girl aged two years and seven months with autistic disorder videotaped from birth. J Autism Dev Disord 1992;22:127-9.Filipek P.A. The screening and diagnosis of autism spectrum disorders. J Autism Dev Disord 1999;29:439-84.Fonagy P. Prevention, the appropriate target of infant psychotherapy. Infant Ment Health J 1998;19:124-50.Green J, Charman T, McConachie H, et al.; PACT Consortium. Parent-mediated communication-focused treatment in children with autism (PACT): a randomised controlled trial. Lancet 2010;375:2152-60.Gura GF, Champagne MT, Blood-Siegfried JE. Autism spectrum disorder screen-ing in primary care. J Dev Behav Pediatr 2011;32:48-51.Harrington R. Casual processes in development and psychopathology. Br J Psy-chiatry 2001;179:93-4.Haataja L, Belmonti V, Cioni G. Neurological and neurodevelopmental assess-ment. In: WHO Handbook of neurology in the first year of life (in press 2011).Hofstra MB, Van der Ende J, Verhulst FC. Continuity and change of psychopathol-ogy from childhood into adulthood: a 14-year follow-up study. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2000;39:850-8.Iverson JM, Wozniak RH. Variation in vocal-motor development in infant siblings of children with autism. J Autism Dev Disord 2007;37:158-70.Kanner L. Autistic Disturbances of Affective Contact. Nervous Child 1943;2:217-250.Kennedy DP, Redcay E, Courchesne E. Failing to deactivate: resting functional abnormalities in autism. Proc Nat Acad Science 2006;103:8275-80.Kleinman JM, Robins DL, Ventola PE, et al. The Modified checklist for autism in toddlers: a follow-up study investigating the early detection of autism spectrum disorders. J Aut Dev Dis. 2008;38:827-739.Knauer D. I disturbi psicopatologici della prima infanzia all’età adulta. Giorn Neu-ropsich Età Evol 2006b;26:507-16.Kraemer HC, Stice E, Kazdin A, et al. How do risk factors work together? Me-diators, moderators, and independent, overlapping and proxy risk factors. Am J Psychiatry 2001;158:848-56.Lavigne JV, Arend R, Rosenbaum D, et al. Psychiatric disorders with onset in the preschool years: I. Stability of diagnosis. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 1998;37:1246-54.Lord C, Rutter M, Le Couteur A. Autism Diagnostic Interview-Revised: a revised version of a diagnostic interview for caregivers of individuals with possible per-vasive developmental disorders. J Autism Dev Disord 1994;24:659-85.Lord C, Risi S, Lambrecht L, et al. The autism diagnostic observation schedule-generic: a standard measure of social and communication deficits associated with the spectrum of autism. J Autism Dev Disord 2000;30:205-23.Maestro S. Casella C. Milone A. et al. Study of the onset of autism through home movies. Psychopathology 1999;32:292-300.* Lo studio di Maestro e collaboratori rappresenta il più importante contribu-to italiano alla letteratura internazionale sullo studio dei filmati familiari per l’identificazione di precoci pattern dello sviluppo atipico in bambini di età infe-riore ad un anno.Miles JH. Autism spectrum disorders--a genetics review. Genet Med 2011;13:278-94.Mesman J, Koot HM. Early preschool predictors of preadolescent internaliz-ing and externalizing DSM-IV diagnosis. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry 2001;40:1029-36.Mundy P, Crowson M, Joint attention and early social communication: implica-

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Filippo Muratori, Divisione di Neuropsichiatria Infantile, Università di Pisa - IRCCS “Stella Maris”, via dei Giacinti 2, 56018 Calambrone (Pisa). Tel. +39 050 886111 (centralino) - +39 050 886292 (diretto). Fax: +39 050 886247. E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 143-148

Introduzione

La Dislessia Evolutiva (DE) fa parte dei disturbi specifici di appren-dimento (DSA), che comprendono un’ampia gamma di difficoltà dell’apprendimento scolastico fra cui la disortografia, la disgrafia e la discalculia, frequentemente associate alla DE.È un disturbo inaspettato, specifico e persistente dell’apprendimen-to della lettura che si manifesta nonostante siano presenti intelli-genza adeguata, istruzione convenzionale, opportunità socioculturali normali e siano assenti deficit sensoriali e disturbi significativi del-la sfera emotiva (Tab. I). Questa definizione per esclusione è sta-ta adottata dai due principali manuali diagnostici internazionali, il DSM-IV e l’ICD-10, anche se è ancora oggetto di dibattito. Il termine “disturbo specifico” sta a indicare la caratteristica di selettività, in quanto ad essere colpito è un settore particolare dell’apprendimento (lettura, scrittura), nel quadro di uno sviluppo del bambino apparen-temente normale sul piano dello sviluppo intellettivo, neurologico e psichico. L’intelligenza, cosiddetta normale, misurata ai test stan-

dardizzati, deve risultare in un QI non inferiore a 85, cut-off della prima deviazione standard sotto la media (= 100); il livello di lettura raggiunto dal bambino dislessico deve collocarsi ai test standard di lettura almeno a due deviazioni al di sotto della media, configuran-do così una discrepanza fra livello intellettivo e livello di apprendi-mento della lettura. La prevalenza varia (Fig. 1) in funzione dell’età, della regolarità ortografica della lingua da apprendere e del livello socio-culturale (Penge, 2010) con maggiore frequenza in situazioni svantaggiate. Questo è importante perché, sebbene la dislessia sia un disturbo costituzionale sotteso probabilmente da una predisposi-zione genetica, i fattori ambientali di tipo socio-culturale ma anche relativi alla storia clinica del bambino (lievi sofferenze pre/perinatali, numero di anestesie generali in età prescolare, ecc.), costituiscono fattori concorrenti importanti.Disturbi frequentemente associati alla DE includono l’ADHD (Atten-tion Deficit Hyperactivity Disorder) e il Disturbo Specifico del Lin-guaggio (DSL). Quest’ultimo, ad insorgenza prescolare, costituisce il principale fattore di rischio per il disturbo della lingua scritta ad oggi

La dislessia evolutiva: modelli fisiopatologici e modalità di diagnosi e trattamento

Daniela Brizzolara, Anna Maria Chilosi, Filippo GasperiniDipartimento di Neuroscienze dell’Età Evolutiva, IRCCS Fondazione “Stella Maris”, Calambrone (Pisa), Italy

RiassuntoLa Dislessia evolutiva (DE) è un disturbo dell’apprendimento della lettura definito “inaspettato e specifico” perché si verifica in bambini con normale svi-luppo prescolare che tuttavia non riescono a imparare a leggere. La diagnosi, che è formulata da un’équipe multidisciplinare (neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista), è basata su criteri di esclusione (assenza di segni neurologici specifici, di disturbi comportamentali ed emotivi e di gravi deficit sen-soriali acustici e visivi). La valutazione del profilo comportamentale richiede la somministrazione di protocolli standardizzati che includono test d’intelligenza (per escludere la disabilità intellettiva), test di velocità e accuratezza di lettura standardizzati (con un cut-off a 2 deviazioni standard sotto la media), test di comprensione della lettura e di correttezza della scrittura. La prevalenza del disturbo varia in funzione di diversi fattori (maggiore incidenza in lingue ad ortografia irregolare e in ambienti socio-economici svantaggiati). La stima di prevalenza nella popolazione scolastica italiana è circa 3,5-4%. Le basi neuro-biologiche della dislessia sono da riportarsi all’influenza della genetica che modula in modi complessi sia la struttura del cervello che i circuiti neurofunzio-nali sottostanti i processi di lettura. Le manifestazioni cliniche sono caratterizzate in italiano da lettura lenta e laboriosa, discreta comprensione e difficoltà nell’ortografia. L’associazione con discalculia (disturbo del sistema dei numeri), ADHD e disturbo specifico del linguaggio è frequentemente riportata.È importante che il pediatra che sospetti la DE indirizzi il bambino quanto prima possibile verso un percorso diagnostico che permetta una tempestiva presa in carico del bambino, necessaria anche per prevenire le conseguenze negative associate alla DE, quali frustrazioni ripetute, perdita di autostima, abbandono scolastico. I diritti delle persone con DE sono stati recentemente sanciti da una legge specifica (8/10/2010, n. 170)

SummaryDevelopmental Dyslexia (DD) is an “unexpected and specific” disability affecting reading acquisition. It is unexpected and specific because children with otherwise normal cognitive, motor and emotional development in the preschool years find extremely difficult learning to read and write. The diagnosis should be multidisciplinary (involving child neuropsychiatrist, psychologist, speech therapist), and it is based on exclusionary criteria: no specific neurologi-cal signs, behavioral and emotional disorders, severe sensory (acoustical or visual) impairments. The behavioral profile must be carefully assessed with standardized protocols including intelligence tests (to exclude intellectual disabilities), reading tests measuring speed and accuracy (cut-off at 2 standard deviations below normal level), text comprehension and spelling abilities. Prevalence rates vary according to different factors with a greater rate of oc-currence in orthographically irregular languages and in lower socio-economic environments. The estimate in the Italian school age population is 3,5-4%. The neurobiological basis of DD is mainly reported to a genetic influence modulating in complex ways the cerebral structure and neural circuits underly-ing reading. The clinical manifestations of DD are characterized in Italian by slow and laborious decoding and relatively preserved comprehension and spelling difficulties. The association with dyscalculia (difficulties in number processing), ADHD and specific language impairment are frequently reported. The pediatrician should refer the child suspected of being dyslexic as early as possible to prevent negative consequences associated to a late diagnosis (reduced self-esteem, scholastic drop-out and in general frustrating experiences in the academic career). The rights of persons with DD have been recently indicated by an Italian low (8/10/2010 n. 170).

NEuRoPSiChiATRiA

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conosciuto, data la loro frequente associazione (Bishop & Snowling, 2004). È quindi particolarmente rilevante sul piano della prevenzione della dislessia e disortografia che lo sviluppo del linguaggio orale del bambino prescolare venga attentamente monitorato e le caratteristi-che atipiche di tale sviluppo individuate precocemente.L’eziologia della DE rimane tuttavia ad oggi sostanzialmente scono-sciuta. Le più recenti teorie neuropsicologiche si pongono l’obiettivo di spiegare il disturbo a diversi livelli di analisi: un difetto genetico causerebbe un’alterazione dello sviluppo neuronale, agendo su aree cerebrali che costituiscono il complesso circuito neurofunzionale della lettura; la disfunzione neurobiologica ostacolerebbe lo svilup-po di funzioni cognitive necessarie per la lettura (memoria, perce-zione, attenzione, automatizzazione). Infine le disfunzioni cognitive sarebbero alla base delle difficoltà del “comportamento” lettura. I maggiori progressi compiuti negli ultimi anni riguardano tutti questi livelli di analisi che devono tuttavia integrarsi per arrivare alla piena comprensione dell’eziopatogenesi del disturbo.Per la preparazione di questo breve lavoro abbiamo rivisto gli articoli rilevanti sulla dislessia selezionati sulla banca bibliografica Medline, utilizzando come motore di ricerca PUBMED e come parola chiave Dyslexia e in alcuni casi il nome degli autori, oltre ai lavori suggeriti dai più recenti documenti ufficiali sull’argomento in italiano.

Basi neurobiologiche della Dislessia EvolutivaL’origine genetica della dislessia si basa su evidenze di ordine sia generale sia specifico. Diverse sono le evidenze più generali tra le quali: la dislessia tende a essere presente in più membri della stessa famiglia, anche se con intensità diversa; le prestazioni di lettura dei familiari dei ragazzi dislessici sono ridotte rispetto alle prestazioni del gruppo di controllo; la concordanza del disturbo è più elevata nei gemelli omozigoti rispetto a quelli eterozigoti; nelle popolazioni di dislessici abbiamo una prevalenza dei maschi rispetto alle femmine. Sono state inoltre riscontrate alcune anomalie genetiche in soggetti affetti da dislessia (Fig. 2). Un ulteriore passo nella conoscenza della

dislessia è fornito dai recenti studi di genetica molecolare che han-no identificato degli specifici geni localizzati nel cromosoma 3, 6 e 15 i quali, coinvolti nella migrazione neuronale e nella guida della crescita degli assoni, determinerebbero la suscettibilità a sviluppare la dislessia (Galaburda et al., 2006). Associazioni fra geni candidati e specifiche funzioni alterate nella dislessia evolutiva sono oggetto di ricerche molto recenti e promettenti (Marino et al., 2007; Scerri et al., 2011). A livello strutturale sono state messe in evidenza ca-ratteristiche peculiari dell’architettura neurale del cervello dei di-slessici, che includono microscopiche malformazioni nelle regioni perisilviane (ectopie e displasie corticali) dell’emisfero sinistro. Sono anche state riportate anomalie strutturali a carico del cervelletto e delle regioni frontali associate alla dislessia. Per quanto riguarda i circuiti cerebrali implicati nella lettura, come dimostrato dai re-centi studi di Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) essi sembrano prevalentemente rappresentati nell’emisfero cerebrale di sinistra e più precisamente nelle aree temporo-parietali e occipito-temporali (per una recente metanalisi si veda Richlan et al., 2009). Gli studi di fMRI hanno messo in evidenza anomalie funzionali del cervello di individui dislessici durante compiti di lettura o ad essa collegati. Specificatamente i dati sembrano suggerire ipoattivazioni a carico del circuito che include la via ventrale centrata nel giro fusiforme po-steriore (area 37) e quella dorsale, includente i giri sopramarginale e angolare (aree temporo-parietali 39-40). Dati recenti, ottenuti dal nostro gruppo in un esperimento su soggetti italiani con DE, confer-mano una ridotta attivazione del circuito temporo-parietale dell’emi-sfero sinistro e in particolare del lobo temporale superiore durante un compito di lettura su base fonologica (Pecini et al., 2011). Quale è però il rapporto fra le alterazioni neurofunzionali e genetiche e le caratteristiche cognitivo-comportamentali della dislessia evolutiva? Quali sono le caratteristiche cliniche del disturbo e come si modifi-cano nell’arco della scolarità?

Manifestazioni cliniche del disturboLe manifestazioni cliniche della dislessia evolutiva sono eteroge-nee, sia per gravità e qualità dei deficit di decodifica sia per la presenza di frequenti associazioni con altri disturbi di apprendi-mento. Tipicamente, durante il primo anno della Scuola Primaria il bambino con DSA manifesta difficoltà nell’acquisizione delle regole di corrispondenza grafema-fonema e, successivamente, anche quando tali regole sono state acquisite, continua a esibire importanti problematiche nella decifrazione delle parole scritte; ciò comporta tempi di lettura significativamente maggiori rispetto ai coetanei (Tab. II). Parallelamente, si osservano difficoltà a carico

Tabella I.La dislessia evolutiva: criteri di inclusione e di esclusione per la dia-gnosi.

• Lettura decifrativa < 2 deviazioni standard rispetto alla media attesa per l’età o per la classe frequentata per i parametri velocità e/o accuratezza ai test standardizzati

• Intelligenza entro i limiti della norma (QI = o > 85), assenza di danni neurologici o sensoriali e di patologie psichiatriche

• Opportunità scolastiche nella norma

• Persistenza del disturbo nonostante interventi rieducativi e scolastici

• Conseguenze sul piano sociale e della vita scolastica

Figura 1.Prevalenza della dislessia evolutiva.

Figura 2.Genetica molecolare: passi importanti verso l’identificazione di specifici geni candidati della dislessia evolutiva localizzati su diversi cromosomi.

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La dislessia evolutiva: modelli fisiopatologici e modalità di diagnosi e trattamento

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della scrittura (Fig. 3). Il bambino commette errori comprendenti ad esempio l’omissione e l’aggiunta di singoli grafemi (più proba-bili nel caso di parole contenenti gruppi consonantici), lo scempia-mento delle doppie, ovvero la riduzione della doppia ad una sola consonante, e/o lo scambio tra grafemi simili dal punto di vista fonologico (es. v/f). Le difficoltà negli ambiti della lettura decifrati-va e della scrittura continuano a persistere nelle classi successive e, nonostante le problematiche più macroscopiche tendano spesso ad attenuarsi rispetto a quanto rilevato nelle fasi iniziali della sco-larizzazione, il bambino con DSA continua a manifestare difficoltà cospicue rispetto ai compagni, nei confronti dei quali il divario del-le competenze e nei livelli di apprendimento va progressivamente aumentando (Stella et al., 2010).

Nonostante il crescente interesse per la dislessia in ambito clinico e di ricerca, essa tuttora può essere difficilmente riconosciuta dalla fa-miglia e dalla scuola, soprattutto nelle prime fasi dell’apprendimento (Savelli et al., 2011). Ciò comporta importanti problematiche per il bambino dislessico, che viene esposto a un grande disagio, senza essere in grado di spiegarsi perché fa tutta questa fatica a leggere vi-vendo così sentimenti di autosvalutazione e colpa. Nei casi non rico-nosciuti e quindi non correttamente affrontati, queste difficoltà si tra-ducono frequentemente in un abbandono scolastico, o nella scelta di un percorso formativo e poi di attività lavorative decisamente inferiori alle reali capacità del ragazzo. È quindi fondamentale effettuare una diagnosi quanto più tempestiva possibile, che aiuti i bambini ad esse-re consapevoli di quali siano le loro difficoltà e a valorizzare gli aspetti che sono invece adeguati. La diagnosi può essere fatta alla fine del primo ciclo elementare (classe seconda primaria) come ribadito nel documento del PARCC (Panel per l’Aggiornamento e la Revisione del-la Consensus Conference 2007, il cui documento finale è del febbraio 2011) (www.lineeguidadsa.it). La diagnosi di dislessia evolutiva deve esser fatta da specialisti esperti, risultato di un lavoro multidisciplina-re fra diverse figure professionali, neuropsichiatri infantili, psicologi, logopedisti, come emerge dalle recenti raccomandazioni cliniche del-la Consensus Conference 2010 (www.lineeguidadsa.it). La diagnosi medica deve escludere con metodi oggettivi la presenza di deficit sensoriali, per esempio della vista e dell’udito, deficit neurologici, co-gnitivi ed emotivo-relazionali per poter affermare che siamo di fronte a un disturbo ‘specifico’ dell’apprendimento; dall’altra è necessario utilizzare test standardizzati per valutare il livello di apprendimento, le abilità cognitive e il profilo neuropsicologico generale. Le prove standard disponibili per la popolazione italiana comprendono lettura di liste di parole e non parole (stringhe grafemiche senza significato) (DDE, Sartori et al., 2007) e di brani fino alla scuola superiore (Cor-noldi et al., 1995, 2006, 2010). Viene misurata sia la velocità che la correttezza della decifrazione: la prima si è dimostrata il parametro più importante per la diagnosi, dato che i ragazzi italiani affetti da dislessia possono essere decifratori abbastanza corretti, ma sono sempre lenti. È stato coniato il termine di “speed dyslexia” ovvero di “disturbo di velocità di lettura” per identificare la caratteristica cen-trale della dislessia in lingue a ortografia regolare (Wimmer, 1993). La regolarità della nostra lingua fa sì che anche il ragazzo dislessico possa imparare i meccanismi di conversione segno/suono (grafema/fonema), ma a prezzo di una notevole fatica e lentezza decifrativa che rimane il “marker” del disturbo (Zoccolotti et al., 1999). In altre lingue in cui vi è un’elevata irregolarità nelle regole di conversione tra il gra-fema e fonema, quali l’inglese, il francese ed altre, la lettura oltre che lenta è fortemente inaccurata. Nei paesi occidentali la diagnosi viene effettuata come in Italia secondo i criteri dei manuali diagnostici in-ternazionali. Per la lingua inglese il parametro di lettura considerato è prevalentemente la correttezza; per la dislessia in lingua tedesca, che è a ortografia regolare come l’italiano, per la diagnosi si utilizza il parametro velocità (ad esempio quante parole o frasi il bambino legge in una data unità di tempo).

Deficit cognitivi nella DENonostante le numerose ricerche svolte, non c’è ancora un accordo su quale sia il deficit centrale della dislessia. In generale la natu-ra del disturbo è stata attribuita a un difetto delle funzioni corticali superiori, che può interessare o abilità “dominio specifiche”, come quelle fonologiche (abilità meta-fonologiche, di decodifica fonologi-ca, di memoria fonologica di lavoro) e le capacità di effettuare una corrispondenza grafema-fonema, o funzioni “dominio- generale” più

Tabella II.Caratteristiche comportamentali del dislessico evolutivo di lingua italiana.

• Lentezza nella decifrazione

• Difficoltà ortografiche

• Comprensione del testo in genere adeguata

• Difficoltà nell’apprendimento di lingue straniere, soprattutto in forma scritta

• Scarsa autonomia nello studio (necessità di ausili compensativi e/o di aiuto dei familiari per lo studio)

• Ridotta autostima

• Comorbidità: disturbi del calcolo (es. apprendimento delle tabelline difficoltoso)

Figura 3.Esempi di scrittura di 2 ragazzi con DE in una prova di dettato di parole (test DDO).

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D. Brizzolara et al.

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elementari, come l’attenzione visiva, la percezione uditiva e visiva. Secondo l’ipotesi fonologica (Snowling, 2000) il disturbo specifico di apprendimento della lettura deriva da un deficit nella rappresenta-zione dei suoni costituenti le parole (fonemi), il quale ostacolerebbe l’acquisizione delle capacità di decodifica della lingua scritta agen-do attraverso diversi meccanismi patogenetici (Ramus et al., 2003). Altre ipotesi riguardano deficit di natura visuospaziale, attentiva e di meccanismi di automatizzazione. Una posizione che ha acquistato larghi consensi è quella per cui la dislessia evolutiva potrebbe es-sere sottesa da deficit cognitivi multipli (Menghini et al., 2010). Fra i fattori causali della dislessia evolutiva, le abilità visive sono state meno indagate rispetto a quelle linguistico-fonologiche: ad esem-pio i dislessici appaiono vulnerabili nell’analisi visiva in condizioni di maggiore affollamento percettivo (effetto “crowding”, Spinelli et al., 2002) e sono più lenti nella scansione visiva di stimoli non alfabetici (Ferretti et al., 2008). Un significativo e complementare contributo al dibattito circa il ruolo dell’attenzione visuo-spaziale nella DE pro-viene anche dai lavori di Facoetti (2005) che descrivono, in sogget-ti con DE, un generale rallentamento nei processi di orientamento e focalizzazione dell’attenzione visuospaziale e un fuoco attentivo visuospaziale eccessivamente allargato (Facoetti et al., 2006). Gli studi condotti dal nostro gruppo di ricerca hanno indagato i deficit cognitivi sottesi alla dislessia in dislessici che hanno presentato in età prescolare un disturbo del linguaggio e nei quali persistono in età scolare difficoltà di memoria fonologica e difficoltà di compren-sione di brani, difficoltà che invece non sono presenti nei dislessi-ci con un normale sviluppo del linguaggio (Brizzolara et al., 2006; Chilosi et al., 2009). Parallelamente sono state messe in evidenza difficoltà di lettura e scrittura a lungo termine in ragazzi adolescenti che avevano apparentemente recuperato un disturbo del linguaggio diagnosticato in età prescolare (Brizzolara et al., 2011). Un recente esperimento con tecniche di fMRI condotto dal nostro gruppo (Pe-cini et al., 2011) ha infine dimostrato un’ipoattivazione nelle aree frontali dell’emisfero sinistro nei dislessici con pregresso ritardo del linguaggio ma non in quelli con normale sviluppo linguistico.

L’interventoL’intervento nella DE deve, generalmente, attuarsi a più livelli e pre-vedere lo sforzo congiunto e integrato di numerose figure educative e professionali: familiari, insegnanti, neuropsichiatra, psicologo o neuropsicologo clinico, logopedista o eventualmente un altro spe-cialista adeguatamente formato (pedagogista clinico, terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva).Un primo tipo di intervento, da attuarsi necessariamente nel caso dei bambini più piccoli e comunque in tutti i casi in cui precedentemente non sia stato proposto alcun tipo di aiuto, è quello di tipo abilitativo, cioè il trattamento in senso stretto. Si tratta di un intervento diretta-mente mirato al recupero delle difficoltà strumentali del bambino con DE, il cui scopo è quello di promuovere le capacità di lettura e scrit-tura deficitarie, ad esempio incrementando la rapidità della lettura decifrativa, e riducendo il numero di errori ortografici. Tale intervento viene condotto dallo specialista (psicologo o neuropsicologo clinico, logopedista, ecc.), generalmente nell’ambito di sedute almeno biset-timanali, attraverso l’impiego di tecniche e programmi messi a punto sulla base della modellistica neuropsicologica delle specifiche com-petenze cognitive deficitarie nei soggetti con DE (lettura, scrittura). Ad esempio, per l’incremento degli automatismi sottostanti i processi di lettura decifrativa, negli ultimi anni nel nostro Paese sono stati pro-posti trattamenti computerizzati basati sulla presentazione di brani attraverso la comparsa temporizzata delle singole sillabe costituenti

le parole. Questi trattamenti sono finalizzati ad automatizzare le as-sociazioni visuo-verbali a livello sillabico, da molti autori ritenute il fondamento dei processi di decifrazione delle parole scritte.D’altra parte, nonostante l’intervento abilitativo possa in molti casi determinare una significativa riduzione delle difficoltà strumentali del bambino con DSA, generalmente le sue competenze di lettura e scrittura deficitarie non raggiungono comunque il livello atte-so per il grado di scolarità, essendo sottese da una disfunzione neurocognitiva congenita. Per impedire che le ridotte abilità stru-mentali del bambino con DE interferiscano con le sue potenzialità di apprendimento, deve dunque essere attuato un secondo tipo di intervento, che è quello compensativo e dispensativo, cioè un tipo di intervento che non mira a ridurre direttamente la difficoltà, ma è finalizzato al contenimento delle limitazioni funzionali connesse a tali difficoltà. Più precisamente, gli strumenti compensativi sono strumenti finalizzati a consentire allo studente con DE di compen-sare, appunto, le proprie debolezze funzionali. Le misure dispen-sative prevedono che il bambino con DSA possa essere esentato nel contesto scolastico dallo svolgere un carico eccessivo di attivi-tà e/o dall’essere sottoposto a valutazioni che lo penalizzerebbero. Le principali misure compensative e dispensative sono riportate nella Tabella III.Il diritto del soggetto con DSA a usufruire degli strumenti compensa-tivi e dispensativi nel contesto scolastico è stato riconosciuto prima da una serie di circolari emanate dal Ministero dell’Istruzione a par-tire dal 2004 (Circolare n. 4099/ MIUR, 05/10/2004; Nota 5 gennaio 2005 MIUR) e, infine, ulteriormente ribadito dall’Articolo 5 della re-cente Legge a tutela dei soggetti con DSA (Legge 170, 08/10/2010: Nuove Norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico).

ConclusioniNotevoli progressi sono stati fatti sia nella conoscenza delle mani-festazioni comportamentali della DE che dei deficit neurocognitivi alla base del disturbo. Dai numerosi contributi sperimentali della letteratura appare sempre più evidente che le cause della DE sono molte: deficit fonologici, di elaborazione visiva, di automatizzazio-ne, di attenzione spaziale sono stati messi in relazione alle diffi-coltà di lettura e danno supporto a un’interpretazione multifatto-riale della DE tanto che è stato proposto di parlare di “Dislessie

Tabella III.Principali misure compensative e dispensative.

Strumenti compensativi (previsti dalla Legge 170/2010).

• Registratore

• Computer con programmi di video-scrittura con correttore ortografico e sintesi vocale

• Libri in forma digitalizzata

Strumenti dispensativi (previsti dalla legge 170/2010)

• Dispensa dalla lettura ad alta voce e dalla scrittura veloce sotto dettatura

• Dispensa, ove necessario, dallo studio della lingua straniera in forma scritta

• Programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa

• Valutazione delle prove scritte e orali con modalità che tengano conto del contenuto e non della forma

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La dislessia evolutiva: modelli fisiopatologici e modalità di diagnosi e trattamento

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evolutive” (Facoetti et al., 2010). Al momento attuale è tuttavia ancora difficile integrare i diversi livelli (genetico, neurobiologico, cognitivo e comportamentale) per offrire una spiegazione univoca e condivisa del disturbo.Per quanto riguarda la presa in carico dei bambini con DE, è fon-damentale sottolineare l’importanza di un intervento quanto più precoce possibile che, oltre a cercare di ridurre le difficoltà neu-ropsicologiche di tipo strumentale dei soggetti con DE e mette-re a disposizione modalità finalizzate a by-passare le limitazioni funzionali connesse, non trascuri la dimensione emotiva e moti-vazionale del disturbo. Ciò è possibile, per esempio, cercando di

promuovere nell’ambito dell’intervento abilitativo specialistico un maggiore senso di autoefficacia, ma anche attraverso l’adozione nel contesto scolastico di un atteggiamento da parte dei docenti che minimizzi gli inevitabili insuccessi e valorizzi invece i punti di forza del bambino e i risultati dei suoi sforzi. Soltanto laddove il soggetto con DE riacquisti fiducia nella possibilità di affrontare con successo le sfide scolastiche, sarà anche disposto a investire co-gnitivamente ed emotivamente sugli strumenti messi a disposizio-ne dall’intervento abilitativo, compensativo e dispensativo e potrà dunque effettivamente trarne un beneficio in termini di autostima e di successo scolastico e lavorativo.

Quali sono le cause della dislessia evolutivaUn difetto genetico causerebbe un’alterazione dello sviluppo neuronale, modificando il complesso circuito neurofunzionale della lettura che è caratte-rizzato da una elevata connettività fra aree visive e aree linguistiche. La lettura del dislessico risulta quindi caratterizzata da ridotta automatizzazione.

Che cosa si sapeva primaLa maggior parte degli studi sulle caratteristiche della dislessia evolutiva è stato condotto su soggetti di lingua inglese.

Cosa sappiamo adessoLe caratteristiche del disturbo dislessico in italiano sono solo in parte sovrapponibili a quelle descritte in soggetti anglofoni e includono soprattutto una marcata lentezza del processo di decifrazione.

Quali ricadute sulla pratica clinicaSono descritti gli indicatori clinici di rischio di dislessia sulla base dei quali avviare il paziente a un percorso diagnostico specialistico. Sono state inoltre riportati nelle Tabelle esplicative esempi di strumenti compensativi e dispensativi da attivare nel contesto scolastico.

Box di orientamento

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D. Brizzolara et al.

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Daniela Brizzolara, Dipartimento di Neuroscienze dell’Età Evolutiva, Fondazione IRCCS “Stella Maris”, via dei Giacinti 2, 56018 Calambrone (Pisa). E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 149-155

IntroduzioneNelle ultime due decadi vi è stato un incremento senza precedenti nello sviluppo dei farmaci antiepilettici nell’intento di migliorarne, oltre che l’efficacia, la maneggevolezza, la sicurezza e la tollerabilità, attraverso un minor numero di interazioni e specifici meccanismi d’azione.I farmaci di nuova o seconda generazione sono: gamma-vinil-GABA o vigabatrin (GVG), lamotrigina (LTG), felbamato (FBM), gabapentin (GPT), oxcarbazepina (OXC), topiramato (TPM), levetiracetam (LEV), pregabalin (PGB), tiagabina (TGB), zonisamide (ZNS), rufinamide (RUF) e stiripentolo (STP). Più di recente, definiti come farmaci di terza generazione, sono entrati in commercio altri due farmaci quali la lacosamide (LCS) e l’eslicarbazepina (ESL).Per molti di essi il meccanismo d’azione (Tab. I) è noto solo in parte e le conoscenze su efficacia, sicurezza e tollerabilità derivano qua-si esclusivamente da studi controllati randomizzati effettuati negli adulti. Nella popolazione pediatrica, infatti, motivi etici e pratici li-mitano la possibilità di effettuare studi clinici, di farmacocinetica e farmacodinamica analoghi a quelli effettuati sugli adulti.I farmaci di più recente commercializzazione appaiono essere meglio tollerati rispetto a quelli di vecchia generazione, ma solo alcuni di essi presentano simile efficacia clinica (Tab. II). Sono necessari, tuttavia, e so-prattutto in età pediatrica, ulteriori studi per definirne la sicurezza d’uso, la farmacocinetica e l’utilità del monitoraggio dei livelli plasmatici.Nel trattamento dell’epilessia, la scelta del farmaco è guidata dalla cor-retta diagnosi della sindrome epilettica, dalla conoscenza dello spettro di efficacia e dei principali meccanismi di azione (Tabb. I-II). Nella mag-gioranza degli studi, tuttavia, vi è la tendenza a raggruppare insieme pazienti con sindromi differenti. Inoltre, tali studi sono spesso disegnati in modo da non tener conto di eventuali peggioramenti delle crisi.Nei bambini, più che negli adulti, è fondamentale considerare i poten-ziali effetti collaterali sedativi, cognitivi e comportamentali (Tab. III). Pur-

troppo pochi sono gli studi controllati in età pediatrica che prendono in considerazione anche questi aspetti. Gli effetti sulle funzioni cognitive in termini di compromissione della memoria e deterioramento del QI sono ben noti per i farmaci di vecchia generazione quali fenobarbitale (PB), carbamazepina (CBZ) e fenitoina (PHT) (Loring et al., 2004). Tra i farmaci di nuova generazione il TPM presenta documentati effetti peg-giorativi sulle capacità aritmetiche e sulla fluenza verbale (Mula et al., 2003). LTG, GPT e LEV possono aumentare l’aggressività, soprattutto nei bambini con deficit cognitivo (Loring et al., 2004). Gli stessi farmaci, in particolare LTG e LEV, possono anche determinare un miglioramento della vigilanza e dell’umore (Loring et al., 2004). In una minoranza di casi pediatrici è stata riportata la comparsa di psicosi acute con alluci-nazioni visive ed uditive e delirio nelle prime settimane di trattamento con LEV. Questo effetto, che regredisce con la sospensione del farma-co, sembra più frequente in pazienti con storia pregressa di patologia mentale.Un’altra situazione clinica che deve essere conosciuta nell’uso di un nuovo farmaco antiepilettico è la possibilità di aggravamento delle crisi indotto dal farmaco stesso (Tab. IV). Un aggravamento frequentemente osservabile nelle encefalopatie epilettiche con più tipi di crisi, può far seguito a varie condizioni che non sono sempre facilmente riconoscibili: iperdosaggio (o intossicazione paradossa), scelta farmacologica inap-propriata, reazione paradossa, encefalopatia indotta dai farmaci e sin-dromi epilettiche complesse dell’infanzia (Guerrini et al., 1998).

Trattamento dei diversi tipi di epilessia

Epilessie focali

I nuovi farmaci antiepilettici sembrano fornire un valido comple-mento a quelli di vecchia generazione, anche in monoterapia, nel

Il trattamento farmacologico dell’epilessia del bambino

Anna Rosati, Melania Falchi, Renzo Guerrini*Clinica di Neurologia Pediatrica, Ospedale “A. Meyer” Firenze; * Università di Firenze

RiassuntoI nuovi farmaci antiepilettici, la cui efficacia è solo per alcuni sovrapponibile a quella dei farmaci di vecchia generazione, differiscono da questi ultimi per farmacocinetica, interazioni ed effetti collaterali. In età pediatrica le conoscenze su questi farmaci sono limitate da: 1) numero di studi ridotto sui bambini; 2) farmacocinetica ed effetti collaterali spesso differenti da quelli osservati negli adulti; 3) più ampio spettro di crisi e sindromi epilettiche. Riportiamo le indicazioni all’uso dei nuovi farmaci antiepilettici nei differenti tipi di crisi e sindromi epilettiche del bambino. Sintetizziamo, inoltre, le conoscenze inerenti farmacocinetica, interazioni, dosaggio, titolazione, spettro di efficacia ed effetti collaterali dei farmaci antiepilettici di nuova generazione utilizzati in età pediatrica.

SummaryNewer antiepileptic drugs (AEDs) differ from older molecules in term of pharmacokinetics, interaction potential, and adverse effects. Although newer drugs provide a precious complement for the treatment of epilepsy in children, their optimal use has not yet been established in the pediatric age for several reasons: 1) limited number of studies in children; 2) pharmacokinetics and adverse effects in children differ somewhat from those in adults; 3) children have a broader spectrum of seizure types and syndromes. We discuss the indication for the use of newer drugs in different pediatric epilepsy syndromes. We also provide a review of pharmacokinetics, interactions, dosage, titration, efficacy spectrum, and adverse effect profile of newer AEDs.

NEuRoPSiChiATRiA

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A. Rosati et al.

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trattamento delle epilessie focali, anche se gli studi controllati con-dotti in età pediatrica sono ancora in numero limitato. Attualmente è consigliato l’uso di CBZ o VPA come farmaci di prima scelta nel trattamento dell’epilessia focale di nuova diagnosi, mentre il TPM dovrebbe essere considerato un trattamento alternativo (French et al., 2004). Nei bambini di età superiore a 3 e 6 anni con epilessia focale di nuova diagnosi, o recente insorgenza, il TPM in monotera-pia è maggiormente efficace a dosi elevate e presenta alla posologia di 100-200 mg/die una sicurezza comparabile a quella di 600 mg di CBZ e di 1.250 mg di VPA. Un altro studio in aperto condotto su un’ampia casistica di epilessie di nuova diagnosi evidenzia (Guerrini et al., 2005), invece, la stessa efficacia e tollerabilità del TPM con dosaggi inferiori (125 mg/die negli adolescenti e 3,3 mg/kg/die nei bambini di età inferiore ai 12 anni). L’efficacia e sicurezza del TPM in add-on è stata confermata mediante uno studio controllato ran-domizzato (RCT) anche nelle epilessie focali farmaco-resistenti in bambini di età compresa tra 2 e 16 anni (Elterman et al., 1999). L’ef-ficacia del TPM in add-on non è stata invece confermata in bambini con epilessia focale farmaco-resistente di età inferiore ai 2 anni, se-condo un recente studio RCT su 149 pazienti (Novotny et al., 2010).Tra i farmaci di nuova generazione anche LTG e GPT sono potenzial-mente utili in monoterapia, ma gli unici due studi di classe I effettuati non includono bambini. Un recente studio retrospettivo osservazio-nale riporta la buona efficacia e tollerabilità del clobazam (CLB), del-la LTG e del TPM in add-on in pazienti pediatrici da 0,5 a 16,7 anni affetti da epilessia farmaco-resistente. È da segnalare che anche in

questo studio l’efficacia del TPM sembra minore nel primo anno di vita (Mills et al., 2011).Studi clinici controllati verso placebo in epilessie focali farmacoresi-stenti del bambino hanno mostrato una buona efficacia e tollerabilità in add-on di LTG (Duchowny et al., 1999), OXC (Glauser et al., 2000), GPT (Appleton et al., 1999), LEV (Glauser et al., 2006), e RUF (Biton et al., 2011). Dati preliminari sull’efficacia e tollerabilità della LCS nell’epilessia focale farmaco-resistente del bambino si limitano a studi osservazionali in aperto (Gavatha et al., 2010; Guilhoto et al., 2011). Non vi sono evidenze sufficienti sull’efficacia del trattamento in monoterapia con TGB e ZNS nel bambino e trial in add-on con quest’ultimo farmaco sono attualmente in corso (French et al., 2004). Dati preliminari e limitati a studi osservazionali in aperto sono dispo-nibili per il PGB (Jan et al., 2009) e l’ESL (Almeida et al., 2008).Nei bambini con forme focali farmacoresistenti sintomatiche va va-lutata precocemente l’opzione chirurgica. Testare tutti i farmaci di-sponibili in commercio e quelli di nuova introduzione, in varie asso-ciazioni, può richiedere molto tempo. L’ipotesi chirurgica dovrebbe essere presa in considerazione dopo che il paziente si è mostrato resistente a due farmaci considerati di prima scelta e somministrati a dosaggi adeguati. Ulteriori ritardi possono comportare una perdita di tempo prezioso.

Epilessie focali idiopatiche

Tra le epilessie focali idiopatiche l’epilessia benigna con punte centro-temporali, o epilessia a parossismi rolandici rappresenta la

Tabella I.Meccanismi di azione dei farmaci antiepilettici ed efficacia clinica.

Farmaco CanaliNa+

Canali Ca++

RecettoriGABAA

GABA Transaminasi

TrasportatoriGABA

RecettoriGABAB

RecettoriNMDA

Recettori AMPA

Efficacia Clinica(tipo di crisi)

Farmaci di vecchia generazione

Benzodiazepine Sì Ampio spettro

Carbamazepina Sì Focali, GTC

Etosuccimide Sì Sì Assenze

Fenobarbitale Sì Sì Focali

Fenitoina Sì Focali, GTC

Valproato Sì Sì Sì Sì Ampio spettro

Farmaci di nuova generazione

Vigabatrin Sì Focali, spasmi

Felbamato Sì Sì Sì Ampio spettro

Gabapentin Sì Sì Sì Sì Sì Focali, GTC

Lamotrigina Sì Sì Sì Focali, GTC, assenze

Topiramato* Sì Sì Sì Sì Sì Ampio spettro

Tiagabina Sì Focali

Levetiracetam Possibile Possibile Focali

Rufinamide Possibile Toniche

Stiripentolo** GTC, miocloniche

Oxcarbazepina Sì Sì Focali, GTC

Zonisamide* Sì Sì Focali, GTC, miocloniche

* Topiramato e Zonisamide sono deboli inibitori dell’anidrasi carbonica; ** inibitore del citocromo P450; GABA: acido gamma-amonobutirrico; NMDA, N-Metil-D-aspartato; GTC: crisi generalizzate tonico-cloniche.

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il trattamento farmacologico dell’epilessia del bambino

151

forma più frequente di epilessia infantile. In questa sindrome il trat-tamento antiepilettico può essere evitato. Le crisi, con esordio tra i 3 e 14 anni, sono tipicamente correlate con il sonno e sono di tipo clo-nico, somatomotorie, tipicamente emifacciali, ma può essere coin-volto anche l’arto superiore omolaterale e può esserci una genera-lizzazione secondaria. Le crisi sono rare e molto brevi, abitualmente notturne e ciò nella maggior parte dei casi permette una astensione terapeutica. Nel caso sia indicato un trattamento farmacologico i farmaci di prima scelta sono la CBZ e il VPA. I genitori generalmente accettano la scelta di non iniziare una terapia antiepilettica se viene spiegato che le crisi non producono danni e non comportano rischi.

Epilessie generalizzate idiopatiche

Il VPA è efficace in circa l’80% dei pazienti mentre altri farmaci come l’etosuccimide (ETS), la LTG, il TPM e il LEV hanno un’azione più selettiva e mostrano la loro efficacia solo in alcuni tipi di crisi o di epilessie generalizzate (French et al., 2004). Alcuni farmaci possono peggiorare le crisi epilettiche (Guerrini et al., 1998; Tab. IV).

Epilessia assenze del bambino e dell’adolescente

Il VPA viene da molti considerato il farmaco di prima scelta per la sua efficacia ad ampio spettro e per il basso costo (French et al., 2004). Tuttavia l’ETS rappresenta un’opzione altrettanto valida nei soggetti con sole assenze. In uno studio RCT di recente pubblicazione tale farmaco in monoterapia è risultato più efficace e con minori effetti collaterali rispetto alla LTG e al VPA in monoterapia (Glauser et al., 2010). In alcuni casi può essere necessaria l’associazione di due di questi farmaci.

Epilessia con crisi mioclono-astatiche

VPA ed ETS rappresentano farmaci di prima scelta ma devono spes-so essere usati in associazione. LTG, TPM e benzodiazepine (BDZ) sono spesso utili (Mikaeloff et al., 2003). CBZ e GVG dovrebbero essere evitati in questo tipo di epilessia e, in generale, nelle epilessie con crisi miocloniche in quanto possono incrementare la frequenza delle crisi e precipitare episodi di stato mioclonico (Guerrini et al., 1998; Tab. IV).

Epilessie con crisi precipitate dalla stimolazione luminosa (epilessie fotosensibili)

Se è necessario instaurare un trattamento antiepilettico, il VPA è considerato il farmaco di prima scelta e non vi sono studi sui farmaci di nuova generazione in tale forma sindromica.

Gli spasmi infantili e la sindrome di West

In alcuni studi controllati il GVG e l’ormone adrenocorticotropo (ACTH) sono risultati efficaci per il trattamento degli spasmi, ma ri-mangono incertezze su quale sia la scelta migliore. Indicazioni pro-venienti da studi randomizzati suggeriscono che il 78% dei soggetti trattati risponde al GVG e che dosaggi elevati (100-148 mg/kg/die) sono più efficaci (Eltermann et al., 2001). Un tasso particolarmente elevato di responder è stato osservato nella sclerosi tuberosa (Jam-baque et al., 2000), con completo controllo delle crisi dopo alcuni giorni di trattamento con GVG (100 mg/kg/die). Molti clinici conti-nuano a considerare questo farmaco di prima scelta nel trattamento degli spasmi, nonostante il rischio di restrizione del campo visivo. Quest’effetto indesiderato, non dimostrabile nei bambini piccoli, compare nel 30-50% dei pazienti valutabili, ma non è noto quale durata minima di esposizione al farmaco comporti questo rischio. I pazienti che rispondono al trattamento dovrebbero essere trattati per un periodo non superiore a tre mesi; in quelli resistenti il GVG an-drebbe sostituito con l’ACTH nell’arco di tre settimane. Altro effetto collaterale legato all’uso del GVG nei pazienti con spasmi infantili è la comparsa in risonanza magnetica cerebrale (sequenze T2 e DWI) e in spettroscopia di lesioni iperintense bilaterali e simmetriche a livello del globus pallido, talamo, nucleo dentato e peduncoli cere-brali. Tali alterazioni di segnale, la cui patogenesi e rilevanza clinica restano ancora oscure, potrebbero correlare con l’uso di dosi elevate di GVG e la giovane età, vista la loro regressione con la sospensione della terapia. In altri casi, tuttavia, la loro persistenza anche dopo so-spensione del farmaco indicherebbe una correlazione con l’attività critica (Thelle et al., 2011).Il prednisolone ad alte dosi (4 mg/kg/die) sembra rappresentare una più efficace e meno costosa alternativa all’ACTH secondo quanto emerso da un recente studio (Kossoff et al., 2009). Sono comun-que necessari ulteriori studi longitudinali controllati per confermare la maggior efficacia del prednisolone nel trattamento degli spasmi infantili. Una buona efficacia e tollerabilità della RUF sono state ri-portate in un recente studio retrospettivo osservazionale condotto su 38 pazienti con spasmi infantili, ma sono necessari studi con-trollati per confermare questi risultati (Olson et al., 2011). Secondo Hong et al., (2011), la dieta chetogena dovrebbe essere considerata dopo l’inefficacia dell’ACTH e del GVG e prima di altre alternative terapeutiche. Il trattamento chirurgico dovrebbe essere considerato precocemente se gli spasmi sono farmacoresistenti e se l’epiletto-genesi è focale.

Tabella II.Indicazioni terapeutiche nelle principali epilessie/sindromi epilettiche del bambino.

Epilessia/Sindrome Prima scelta Seconda scelta* (monoterapia o in add-on)

Epilessia focale sintomatica Carbamazepina, Valproato Lamotrigina, Oxcarbazepina, Topiramato, Gabapentin, Levetiracetam, Fenitoina, Fenobarbitale, Zonisamide

EGI con assenze Valproato, Etosuccimide Lamotrigina, Benzodiazepine, Levetiracetam

EGI con mioclono Valproato Etosuccimide, Benzodiazepine, Levetiracetam, Fenobarbitale, Topiramato

EGI con crisi TC Valproato Lamotrigina, Topiramato, Levetiracetam, Fenobarbitale, Benzodiazepine

Spasmi infantili Vigabatrin, ACTH Benzodiazepine, Valproato, Lamotrigina

Sindrome di Dravet Stiripentolo + Valproato + Clobazam Benzodiazepine, Topiramato, Fenobarbitale

Sindrome di Lennox Gastaut Valproato +/- Lamotrigina Lamotrigina, Topiramato, Rufinamide, Benzodiazepine, Carbamazepina, Gabapentin, Vigabatrin, Felbamato

* Seconda scelta, per la mancanza di studi controllati, la limitata esperienza clinica e l’elevata frequenza di effetti collaterali nella popolazione pediatrica. EGI: epilessie generalizzate idiopatiche; TC: tonico-cloniche.

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A. Rosati et al.

152

Tabella III.Posologia, eventi avversi e tossicità dei farmaci antiepilettici nel bambino.

Posologia (os) mg/kg/die Principali Eventi Avversi Tossicità

Farmaci di vecchia generazione

Carbamazepina(Tegretol®)

10-20 Atassia, diplopia, rash Anemia aplastica, agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, pancreatite, LES

Clobazam(Frisium®)

0,5-1 (maximum 30 mg/die) Sedazione No

Clonazepam(Rivotril®)

0,1-0,2 Debolezza, sonnolenza, ipotonia, disturbi comportamentali, aumento secrezioni salivari e bronchiali

Depressione respiratoria (solo nella somministrazione EV)

Etosuccimide

(Zarontin®) 20-30 Disturbi gastrici, vomito, singhiozzo, rash, offuscamento visivo, cefalea

Anemia aplastica, agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, LES

Fenobarbitale(Luminale®)

15-20 EV in neonati;3-5 < 5 years;2-3 > 5 years

Disturbi comportamentali, rash, deficit cognitivi Anemia aplastica, agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, LES

Nitrazepam(Mogadon®)

0,25-2-50 Ipotonia, sonnolenza, scialorrea Polmoniti ab ingestis

Fenitoina(Dintoina®)

15-20 EV in neonati;8-10 < 3 years;4-7 > 3 years

Atassia, diplopia, nistagmo, acne, ipertrofia gengivale, irsutismo, effetti cognitivi e sedativi, neuropatia periferica

Anemia megaloblastica, linfoma, agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, LES, encefalopatia, coreoatetosi

Primidone(Maliasin®)

10-20 Disturbi comportamentali, sonnolenza, rash, deficit cognitivi

Agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, LES

Acido valproico(Depakin®)

15-40 Nausea, dolore epigastrico, tremore, alopecia, aumento di peso, iperammoniemia

SSJ/NET, tossicità epatica, pancreatite, encefalopatia

Farmaci di nuova generazione

Felbamato(Taloxa®)

15-45 Sonnolenza, anoressia, disturbi gastrici, nervosismo

Anemia aplastica, agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, pancreatite, LES

Gabapentin(Neurontin®)

25-35 Debolezza, aumento di peso SSJ/NTE, tossicità epatica, disturbi comportamentali

Lacosamide(Vimpat®)

200-400 (adulti) Vertigine, atassia, diplopia, nausea, allungamento PR, blocco AV di primo grado, cefalea

No

Lamotrigina(Lamictal®)

5-15 (add-on farmaci induttori);1-3 (add-on VPA);1-5 (add-on VPA + farmaci induttori)

Vertigine, diplopia, atassia, sonnolenza, rash Anemia aplastica, agranulocitosi, SSJ/NTE, tossicità epatica, pancreatite, LES, sindrome di Lyell

Levetiracetam(Keppra®)

20-40 Sonnolenza, astenia, cefalea, anoressia Psicosi, tossicità epatica, pancreatite

Oxcarbazepina(Tolep®)

30-45 Sonnolenza, cefalea, atassia, vomito, iponatremia, rash

SSJ/NTE, tossicità epatica

Pregabalin(Lyrica®)

2,5-15 Sonnolenza, aumento di peso, vertigine, disturbi comportamentali

Disturbi psichiatrici

Rufinamide(Inovelon®)

30-40 Sonnolenza, dolori addominali, calo di peso, nervosismo

No

Stiripentol(Diacomit®)

50 Sonnolenza, calo appetito No

Tiagabina(Gabitril®)

0,5-2 Vertigine, dolori addominali, nervosismo, deficit della concentrazione

SSJ/NTE, stato epilettico non convulsivo

Topiramato(Topamax®)

4-6 Calo di peso, parestesie, labilità emotiva, difficoltà di concentrazione, afasia, ipoidrosi

SSJ/NTE, tossicità epatica, pancreatite

Vigabatrin(Sabril®)

20-80;100-150 per spasmi infantili

Eccitabilità, vertigine, aumento di peso Tossicità epatica, pancreatite, psicosi, deficit del campo visivo, encefalopatia

Zonisamide(Zonegran®)

4-12 Sonnolenza, vertigine, atassia, disturbi addominali, apatia, rash, ipoidrosi.

Anemia aplastica, SSJ/NTE, tossicità epatica, disturbi psichiatrici

SSJ: Sindrome di Stevens-Johnson; NTE: necrolisi tossica epidermica; LES: Lupus Eritematoso Sistemico; EV: endovenosa.

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il trattamento farmacologico dell’epilessia del bambino

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Sindrome di Lennox-Gastaut

Studi controllati in add-on hanno mostrato una riduzione delle crisi con caduta utilizzando LTG (Eriksson et al., 1998) o TPM (Sachdeo et al., 1999). Anche il FBM si è mostrato efficace in studi controllati, ma la sua potenziale tossicità ne limita l’uso. Uno studio recente ver-so placebo documenta l’efficacia della RUF nel ridurre la frequenza delle crisi con caduta (Glauser et al., 2008). Questo farmaco è stato recentemente approvato in Europa per il trattamento in add-on della sindrome di Lennox-Gastaut in bambini di età superiore ai 4 anni. In alcuni casi può essere utile la stimolazione del nervo vago o la dieta chetogena. Anche la callosotomia anteriore può trovare indicazione al fine di ridurre le crisi con caduta.

Sindrome di Dravet

La sindrome di Dravet è una encefalopatia epilettica che esordisce nel primo anno di vita con crisi cloniche, unilaterali o generalizzate, ripetitive e prolungate, che compaiono soprattutto in corso di febbre in lattanti precedentemente ritenuti sani.PB, VPA, BDZ e, tra i nuovi farmaci antiepilettici TPM, possono mo-strare una certa efficacia (Mikaeloff et al., 2003). In due studi di classe I, lo STP, un inibitore del citocromo P450, si è rivelato efficace in combinazione con il CLB, probabilmente determinando un incre-mento della concentrazione del norclobazam, metabolita attivo del CLB (Kassai et al., 2000). La dieta chetogena sembra fornire una interessante alternativa terapeutica determinando un miglioramento delle crisi e degli aspetti comportamentali in pazienti non responsivi ai farmaci (Nabbout et al., 2011). CBZ e LTG possono peggiorare le crisi (Guerrini et al., 1998; Tab. IV).

Sindrome di Landau-Kleffner (afasia epilettica acquisita) ed epilessia con punte onda continue durante il sonno lento

Tra i farmaci di nuova generazione l’unica alternativa terapeutica alle precedenti strategie terapeutiche (BDZ, VPA, ETS, steroide ed immunoglobuline) è rappresentata dal LEV (Lagae, 2009). L’efficacia

di farmaci come il FBM e il GVG è riportata solo in singoli case report (Lagae, 2009).

Terapie non farmacologiche

Nel bambino con epilessia è possibile ricorrere ad interventi non farmacologici.

Dieta chetogena

La dieta chetogena implica un regime alimentare rigoroso con ele-vato apporto di grassi, adeguato apporto proteico e riduzione dei carboidrati al fine di indurre uno stato di chetosi. L’efficacia maggio-re, per la quale non esistono studi controllati, sembra ottenibile nelle forme di epilessia generalizzate sintomatiche (soprattutto nel deficit congenito del trasportatore del glucosio – GLUT1) e criptogenetiche dell’infanzia. Sonnolenza, nausea, vomito e disturbi del comporta-mento rappresentano i maggiori effetti collaterali.

Stimolazione vagale

Consiste nella stimolazione elettrica del nervo vago di sinistra me-diante un elettrodo impiantato, connesso ad uno stimolatore sot-tocutaneo come pacemaker. È un trattamento palliativo, che non si sostituisce ma si associa alla terapia farmacologica, di epilessie farmacoresistenti per le quali non vi sia indicazione chirurgica. Gli effetti collaterali, connessi alla stimolazione elettrica del nervo vago, sono raucedine, tosse, dispnea e dolore faringeo, che tendono a ri-dursi nel tempo.

Chirurgia dell’epilessia

L’opzione chirurgica è indicata nelle forme di epilessia focale sinto-matica e criptogenetica in cui l’origine delle crisi sia elettricamente e/o anatomicamente identificabile. Il bilancio prechirurgico deve in-dividuare la “zona epilettogena” e correlarla alle anomalie morfolo-giche e agli eventuali deficit intercritici. Esso deve inoltre identificare

Tabella IV.Farmaci antiepilettici che possono aggravare alcune sindromi epilettiche nel bambino.

Farmaco Sindrome Possibile peggioramento

Benzodiazepine Sindrome di Lennox-Gastaut Crisi toniche

Carbamazepina/Oxcarbazepina

Epilessia assenze Assenze, mioclono

Epilessia mioclonica giovanile Crisi miocloniche

Epilessia mioclonica progressiva Mioclono

Epilessia rolandica, epilessia rolandica atipica Epilessia con punte onda continue durante il sonno lento, mioclono negativo, assenze “atoniche”

Lamotrigina Epilessia mioclonica grave dell’infanzia Ad alte dosi vari tipi di crisi

Epilessia mioclonica giovanile Crisi miocloniche e GTC

Fenitoina Epilessia assenze Assenze

Epilessia mioclonica progressiva Sindrome cerebellare

Fenobarbitale Epilessia assenze Ad alte dosi, assenze

Gabapentin Epilessia assenze Assenze

Epilessie con mioclono Mioclono

Vigabatrin Epilessia assenze Assenze

Epilessie con mioclono Mioclono

Pregabalin Epilessie con mioclono Mioclono

GTC: generalizzate tonico-cloniche.

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A. Rosati et al.

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le zone cerebrali altamente funzionali che occorrerà risparmiare nel corso dell’intervento. Si distinguono interventi chirurgici di tipo “cu-rativo”, che comportano la scomparsa delle crisi e talora la sospen-sione della terapia antiepilettica (“lesionectomia” e “corticectomia”) ed interventi “palliativi” che hanno l’obiettivo di migliorare le condi-zioni del paziente senza però guarirlo dalle crisi (“callosotomia”).

Conclusioni

L’approccio iniziale e gli obiettivi da raggiungere con il trattamento antiepilettico differiscono considerevolmente nelle comuni epilessie farmacosensibili e in quelle farmacoresistenti. Nel primo caso, un obiettivo ragionevole è rappresentato dal controllo delle crisi, pos-

sibilmente in monoterapia, con l’uso di molecole a basso costo e al prezzo di effetti collaterali limitati. Nel secondo caso, l’obiettivo principale non deve necessariamente essere il completo controllo delle crisi, in quanto questo atteggiamento porta ad incrementare la quantità dei farmaci e degli effetti collaterali.L’obiettivo primario dovrebbe essere piuttosto di ridurre la frequenza delle crisi, cercando di ottenere la migliore qualità di vita possibile sulla base del miglior punto di equilibrio tra frequenza e gravità delle crisi ed effetti collaterali del trattamento, con particolare attenzione a quelli cognitivi. In questa prospettiva i nuovi farmaci antiepilettici consentono la programmazione di strategie terapeutiche con effetti secondari sulle funzioni cognitive meno intensi di quelli osservati in passato.

Cosa si sapeva prima• Lasceltadelfarmaconeltrattamentodell’epilessiadelbambinodevetenercontodellasindromeepiletticaedeltipodicrisi.• Ifarmaciantiepiletticipossonoanchepeggiorarealcunitipidicrisi.

Cosa sappiamo adesso• Ifarmacidinuovagenerazionedifferisconodaivecchifarmaciperfarmacocinetica,interazioniedeffetticollaterali.• Ifarmacidinuovagenerazionerappresentanouncomplementoaivecchifarmaci.

Cosa ci attendiamo nel futuro• Studicontrollatirandomizzatichetenganoanchecontodeglieffetticollateralisullefunzionicognitiveesulcomportamento.

Box di orientamento

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* Argomento interessante e buona revisione con discussione dei dati finora noti.

Renzo Guerrini, Clinica di Neurologia Pediatrica, Università di Firenze, Ospedale “A. Meyer”, viale Pieraccini 24, 50139 Firenze. Tel. +39 055 5662573. Fax: +39 055 5662329. E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Aprile-Giugno 2011 • Vol. 41 • N. 162 • Pp. xx-xx NEFRoLoGiA

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 156-164

Obiettivo e metodologiaL’obiettivo di questa revisione è presentare l’impatto che le tecniche di sequenziamento di ultima generazione ed il sequenziamento dell’eso-ma hanno avuto nella ricerca dei geni responsabili delle malattie men-deliane e le possibili future applicazioni nella diagnostica molecolare delle malattie genetiche. Questa revisione è stata realizzata attraverso l’analisi dei lavori di ricerca indicizzati in Medline e pubblicati dal 2009, quando la prima applicazione del sequenziamento dell’esoma in una malattia mendeliana è stata riportata (Ng et al., 2010a) ad oggi.

IntroduzioneSebbene le malattie mendeliane, singolarmente considerate, siano poco frequenti nella popolazione, nel loro complesso esse sono re-sponsabili del ~20% della mortalità infantile e del ~10% delle ospe-dalizzazioni pediatriche (Costa et al., 1985). Negli ultimi 25 anni la

ricerca dei geni responsabili di malattie mendeliane ha conseguito importanti successi, principalmente grazie all’utilizzo di tecniche ba-sate sull’analisi di linkage: questo approccio, che si avvale di mar-catori genetici di cui è nota la posizione nel genoma e ne studia la co-segregazione nelle famiglie di soggetti affetti, ha come obiettivo l’identificazione di una regione circoscritta del genoma che con ele-vata probabilità contiene il gene-malattia. Classicamente, all’identi-ficazione della regione di linkage segue il sequenziamento dei geni presenti all’interno della regione, alla ricerca della variazione causa-tiva della malattia. Questo approccio ha permesso finora l’identifica-zione di oltre 1.000 geni responsabili di malattie mendeliane (Online Mendelian Inheritance in Man, http://www.ncbi.nlm.nih.gov/omim) (Bell et al., 2011). Secondo l’organizzazione europea per le malattie rare (http://www.eurordis.org/about-rare-diseases), le malattie ge-netiche rare sono in numero compreso tra 4.000 e 6.400 e pertanto per la maggioranza di esse il gene responsabile è ancora ignoto.

Il sequenziamento dell’esoma per l’identificazione di geni-malattia e la diagnosi molecolare

Pasquale Piccolo* e Nicola Brunetti-Pierri* **

* Telethon Institute of Genetics and Medicine, Napoli; ** Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, Napoli

RiassuntoLe basi molecolari di molte malattie mendeliane sono ancora sconosciute e il sequenziamento del DNA, utilizzando le tecnologie di ultima generazione, sta rapidamente emergendo come una potente metodica per l’identificazione di geni responsabili di malattie monogeniche e per la diagnostica molecolare. Queste metodiche non solo accelerano in maniera significativa il processo di identificazione dei geni-malattia, ma consentono anche di scoprire le basi molecolari di malattie che sono state finora refrattarie alle metodiche tradizionali basate su linkage e geni candidati: ad esempio, per molte malattie non vi è un numero sufficiente di pazienti affetti che consente di ottenere dati di linkage significativi. La maggior parte delle malattie monogeniche è dovuta a mutazioni nelle sequenze codificanti (i.e. esoni) che risultano in mutazioni della sequenza aminoacidica e queste mutazioni possono essere identificate mediante sequenziamento dell’esoma, ossia il sequenziamento di tutti gli esoni del genoma umano, che è reso possibile dal sequenziamento del DNA di ultima generazione. Nonostante siano trascorsi meno di due anni dalla pubblicazione del primo lavoro, vi sono già numerosi esempi di geni responsabili di malattie mendeliane identificati mediante sequenziamento dell’esoma. Un limite di questa metodica è che essa identifica centinaia di varianti rare che mo-dificano la sequenza aminoacidica e che non sono riportate nei database dei single nucleotide polymorphisms (SNPs). Differenziare le varianti benigne da quelle legate alla malattia è spesso difficile e complica notevolmente l’analisi dei dati ottenuti dal sequenziamento dell’esoma. Lo sviluppo di database che catalogano tali varianti, raccolte a partire da un ampio numero di individui, consentirà di distinguere le varianti patogeniche da quelle benigne e faciliterà ulteriormente il processo di identificazione dei geni-malattia. L’applicazione di questa metodica nei prossimi anni permetterà di identificare le basi moleco-lari della gran parte di malattie mendeliane nelle quali il difetto genico è ancora ignoto. Inoltre si stanno delineando le possibile applicazioni diagnostiche di queste nuove metodiche nella pratica clinica.

SummaryThe molecular bases of several Mendelian disorders are still largely unknown. Next-generation DNA sequencing is rapidly emerging as a powerful approach for identifying genes responsible for monogenic disorders. These new technologies not only accelerate disease gene identification, but also allow gene discovery for diseases which are unsuitable for classic linkage and gene-candidate approaches, such as rare diseases with a limited number of affected individuals. Most monogenic diseases are caused by mutations in the coding sequence (i.e. exons), resulting in amino acid sequence changes. These muta-tions can be identified by exome sequencing which is the sequencing of all exons present in the human genome, using next-generation DNA sequencing. Despite the first paper was published less than two years ago, there have been already several genes responsible for Mendelian disorders discovered by next generation sequencing approaches. A limitation of these methods is the identifications of hundreds of rare variants that modify the amino acid se-quence and are not reported in single nucleotide polymorphism (SNP) databases. The differentiation of benign variants from those related to the disease is often difficult and complicates the exome data analysis. The development of databases collecting variants obtained from a large number of control individu-als will facilitate the discrimination between pathological and benign variants and ultimately the identification of the gene defect. During the next years the applications of this methodology will likely result in the identification of the molecular bases for most of the Mendelian diseases with still unknown genetic defects. Moreover, applications of these new technologies are rapidly moving into clinical practice for molecular diagnosis.

FRoNTiERE

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il sequenziamento dell’esoma per l’identificazione di geni-malattia e la diagnosi molecolare

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Nonostante gli importanti successi, gli studi di linkage hanno dei limiti che però sono stati in gran parte superati dal recente sviluppo delle tecnologie di sequenziamento del DNA di ultima generazione. Il primo e più eclatante esempio dell’enorme potenziale di queste tec-nologie è stato riportato meno di due anni fa (Ng et al., 2010a) ed è stato seguito a breve distanza dall’identificazione dei geni causativi per oltre 30 malattie mendeliane (Tab. I).

Sequenziamento di ultima generazione: metodicheCon “sequenziamento di ultima generazione” (next-generation se-quencing – NGS) si intendono metodiche e tecnologie che differi-

scono in maniera significativa dal sequenziamento convenzionale di Sanger (Tab. II). Quest’ultimo infatti è basato sul sequenziamento diretto di porzioni di genoma, singolarmente amplificate per poly-merase chain reaction (PCR) o clonate in plasmide, e consente di sequenziare fino a 800 bp circa per singola reazione. Le tecniche di ultima generazione invece consentono di sequenziare parallelamen-te più regioni del genoma, da ~400 a 3.000 Mb in una singola corsa dello strumento. Il genoma viene dapprima frammentato in molecole di circa 35-400 bp, che sono successivamente amplificate clonal-mente in parallelo fino a generare circa 50 copie identiche per sin-gola molecola (Fig. 1). Successivamente, avviene il sequenziamento vero e proprio, per il quale possono essere utilizzati due differenti

Tabella I.Nuovi geni-malattia identificati mediante sequenziamento dell’esoma nel periodo gennaio 2010-maggio 2011.

Malattia Ereditarietà Gene Referenza

Sindrome di Miller AR DHODH (Ng et al., 2010a)

Sindrome di Kabuki AD MLL2 (Ng et al., 2010b)

Sindrome di Schinzel-Giedion AD SETBP1 (Hoischen et al., 2010)

Sindrome di Sensenbrenner AR WDR35 (Gilissen et al., 2010)

Sindrome di Perrault AR HSD17B4 (Pierce et al., 2010)

Vasculopatia proliferativa e idranencefalia-idrocefalia del tipo Fowler AR FLVCR2 (Lalonde et al., 2010)

Malformazioni cerebrali dello sviluppo corticale AR WDR62 (Bilguvar et al., 2010)

Deficienza di complesso I AR ACAD9 (Haack et al., 2010)

Sindrome di Brown-Vialetto-van Laere AR C20orf54 (Johnson et al., 2010a)

Atassia spino-cerebellare AD TGM6 (Wang et al., 2010)

Sclerosi laterale amiotrofica AD VCP (Johnson et al., 2010b)

Ipobetalipidemia familiare 2 AR ANGPTL3 (Musunuru et al., 2010)

Sindrome da iperfosfatasia e ritardo mentale AR PIGV (Krawitz et al., 2010)

Sindrome linfoproliferativa autoimmune AR FADD (Bolze et al., 2010)

Sordità neurosensoriale non sindromica (DFNB82) AR GPSM2 (Walsh et al., 2010)

Sindromi di Carnevale, Malpuech, Michels e sindrome oculo-scheleto-addominale

AR MASP1 (Sirmaci et al., 2010b)

Sindrome di Hajdu-Cheney AD NOTCH2 (Simpson et al., 2011)

Osteogenesi imperfecta AR SERPINF (Becker et al., 2011)

Ritardo mentale De novo 6-9 geni (Vissers et al., 2010)

Ritardo mentale non sindromico AR TECR (Caliskan et al., 2011)

Disabilità cognitiva XL IQSEC2 (Shoubridge et al., 2010)

Retinite pigmentosa AR DHDDS (Zuchner et al., 2011)

Linfedema primario AD GJC2 (Ferrell et al., 2010; Ostergaard et al., 2011)

Nefronoftisi AR SDCCAG8 (Otto et al., 2010)

Displasia anauxetica AR POP1 (Glazov et al., 2011)

Paraplegia spastica ereditaria AR KIF1A (Erlich et al., 2011)

Sindrome di Seckel AR CEP152 (Kalay et al., 2011)

Amelogenesi imperfecta e iperplasia gengivale AR FAM20A (O’Sullivan et al., 2011)

Condrodisplasia con difetto di sviluppo delle articolazioni AR IMPAD1 (Vissers et al., 2011)

Sindrome progeroide AR BANF1 (Puente et al., 2011)

Cardiomiopatia dilatativa AD BAG3 (Norton et al., 2011)

Cardiomiopatia mitocondriale infantile AR AARS2 (Gotz et al., 2011)

Autismo sporadico AD FOXP1, GRIN2B,SCN1A,LAMC3

(O’Roak et al., 2011)

Abbreviazioni: AD, autosomica dominante; AR, autosomica recessiva; XL, X-linked.

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approcci: il sequenziamento “per sintesi”, basato sul metodo di San-ger oppure sulla reazione di pirosequenza e il sequenziamento “per ligazione”. Con il NGS, l’acquisizione dei dati di sequenza avviene contestualmente per tutte le reazioni, con un notevole risparmio di tempo rispetto alla tecnologia precedente. L’enorme mole di dati ge-nerati, opportunamente processata e analizzata per via bioinforma-tica, viene poi confrontata con un genoma di riferimento (Metzker, 2010).

Sequenziamento dell’esoma: principi generaliPer l’identificazione del gene responsabile di malattie mendeliane il NGS è stato utilizzato per due diverse strategie: il sequenziamen-to dell’intero genoma (whole genome sequencing) e il sequenzia-mento dell’esoma. Rispetto al sequenziamento dell’intero genoma, il sequenziamento dell’esoma, ossia delle porzioni codificanti del genoma (i.e. esoni), pari a circa l’1% del genoma, è un approccio decisamente più semplice e meno costoso, perché porta all’iden-tificazione di un numero di varianti decisamente inferiori rispetto al sequenziamento dell’intero genoma (Tab. III). Poiché la maggioranza delle malattie mendeliane è dovuta a varianti nelle sequenze codi-ficanti o nei siti di splicing (Fig. 2), il sequenziamento dell’esoma ha la potenzialità di identificare la maggioranza delle varianti che causano malattia. Mutazioni in regioni non-codificanti però sfuggo-no al sequenziamento dell’esoma, mentre possono comunque es-sere identificate mediante sequenziamento dell’intero genoma. Sia

il sequenziamento dell’esoma che di tutto il genoma, tuttavia, non permettono di identificare microdelezioni e microduplicazioni che possono essere escluse mediante altre metodiche (i.e. array CGH) (Fig. 2, Tab. III).Il sequenziamento dell’esoma rappresenta un avanzamento im-portante nello studio delle malattie mendeliane (Ng et al., 2010a), soprattutto per quelle nelle quali vi è un limitato numero di sogget-ti affetti per famiglia (Hoischen et al., 2010) e nelle quali vi è una significativa eterogeneità genetica e fenotipica (Ng et al., 2010a; Paulussen et al., 2011): in questi casi infatti le tecniche tradizionali di linkage si sono rivelate inefficaci, soprattutto per la difficoltà di reclutare per lo studio un numero adeguato di pazienti e di pedigree sufficientemente estesi.Il sequenziamento dell’esoma si basa sull’applicazione del sequen-ziamento NGS a regioni d’interesse del genoma ‘catturate’ e sepa-rate dal resto del genoma mediante frammentazione e successiva amplificazione di queste regioni (Fig. 1). Se si volesse utilizzare l’ap-proccio tradizionale di sequenziamento di Sanger per raggiunge-re lo stesso obiettivo ottenuto mediante NGS, sarebbe necessario disegnare primers per PCR per i circa 180.000 esoni del genoma umano. Quest’approccio sarebbe inevitabilmente molto più costoso e molto più impegnativo in termini di tempo e lavoro. Le metodiche di ‘cattura’ che hanno trovato maggiore applicazione nel sequenzia-mento dell’esoma sono: l’ibridazione in fase solida (Hodges et al., 2007; Choi et al., 2009; Ng et al., 2009) e l’ibridazione in fase liquida (Bainbridge et al., 2010) (Fig. 1). Per quanto riguarda la prima, la sua applicazione al sequenziamento dell’esoma è possibile grazie alla

Tabella II.Sequenziamento di Sanger vs. NGS.

Sanger NGS

3h Tempo necessario per una corsa 10h-6 gg

Max 96 Sequenze analizzate per corsa Milioni

80 Kb Totale basi lette per corsa 500 Mb – 50 Gb

70 milioni $* Costo per sequenziamento di un intero genoma umano 5000 $* La cifra si riferisce al costo stimato per il sequenziamento del primo genoma umano, quello di Craig Venter, realizzato dalla Celera nel 2001. Il costo è comprensivo dell’assemblaggio delle sequenze: essendo stata la prima sequenza genomica umana ad essere stata generata non si avvale dell’allineamento con una sequenza esistente, come avviene adesso.

Figura 1.Strategia per il sequenziamento dell’esoma utilizzando metodica di NGS. In nero sono rappresentate sequenza non codificanti mentre le regioni di interesse (i.e. esoni) sono rappresentate in vari colori.

Figura 2.Rappresentazione schematica di un gene composto da esoni (box blu) separati da introni. Sono indicate le variazioni genetiche che possono essere identificate o che sfuggono al sequenziamento dell’esoma. I siti donatori e accettori di splicing sono evidenziati in giallo. Delezioni e du-plicazioni di multipli esoni, non alterando la sequenza nucleotidica, non vengono identificate mediante sequenziamento dell’esoma.

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realizzazione di chip o array, ossia matrici solide sulle quali vengono adese sonde di DNA complementari alle sequenze esoniche. L’appli-cazione sul supporto del DNA genomico opportunamente frammen-tato e successivi cicli di ibridazione e lavaggio consentono di arric-chire il campione nel contenuto delle porzioni codificanti del genoma (Fig. 1). Varie aziende (Agilent, Roche/Nimblegene e Febit) offrono kit commerciali che utilizzano questa tecnologia. L’ibridazione in fase li-quida ricalca la precedente, con la differenza che le sonde non sono attaccate a un supporto solido, ma sono complessate con biotina. Dopo il passaggio di ibridazione, le sonde (con il DNA complemen-tare legato) vengono legate da molecole di streptavidina coniugata a biglie magnetiche e, dopo opportuni lavaggi, il DNA d’interesse viene eluito. Per questo metodo vengono utilizzate sia sonde a RNA (realizzate dalla Agilent) che a DNA (realizzate da Roche/Nimblege-ne). La copertura effettiva delle regioni d’interesse, ottenuta con le sonde selezionate, è un elemento cruciale per la riuscita dell’intero processo. I kit commerciali disponibili si focalizzano sulle sequenze consenso codificanti, per un totale di circa 29 Mb (Pruitt et al., 2009). Sono inoltre compresi dei set di microRNA ed alcune compagnie consentono l’inserimento di ulteriori regioni scelte dall’acquirente. Purtroppo la cattura dell’esoma non è mai completa (in media è pari a circa l’85%) e questo può determinare il mancato rilevamento di mutazioni patogeniche, se queste cadono in esoni non catturati.

Interpretazione dei risultati ottenuti dal sequenziamento dell’esoma

Il sequenziamento dell’esoma di un individuo porta all’identificazio-ne di migliaia di variazioni ed è necessario l’uso di opportuni filtri per isolare un ristretto numero di variazioni, tra le quali è presu-mibilmente contenuta la variazione patogena (Fig. 3). L’operazione di filtro si basa sul confronto delle variazioni riscontrate con quel-le riportate nei database dbSNP, progetto HapMap, 1000 Genome project, tutti disponibili pubblicamente online, e con dati generati su individui sani analizzati mediante NGS: se le variazioni riscontrate nel soggetto in studio sono presenti in questi database, la proba-bilità che siano patogene è bassa, considerata la rarità delle ma-lattie mendeliane. Per quanto questo tipo di filtro sia molto utile, in quanto permette di eliminare una notevole quantità di variazioni non-patogeniche, questo approccio non è privo di insidie, dovute alla presenza di falsi positivi contenuti nei database: ad esempio, è stato stimato che sui 17 milioni di SNP presenti all’interno del db-SNP il 15-17% sia inesatto (Day, 2010; Bell et al., 2011). Questo ov-viamente comporta il rischio di eliminare variazioni potenzialmente patogene. Con l’avvento del 1000 Genome project e con lo sviluppo di cataloghi completi dell’esoma umano (Coffey et al., 2011), questo

problema dovrebbe però essere superato, vista la maggiore accura-tezza dei nuovi dati raccolti.Un’altra importante operazione di filtro consiste nell’escludere le va-riazioni sinonime, avendo queste un potenziale patogenetico molto più basso rispetto a variazioni missense, nonsense, ad inserzioni o delezioni frameshift o a mutazioni che alterano lo splicing. Infine per filtrare ulteriormente i risultati ottenuti dal sequenziamento dell’eso-ma è utile considerare la modalità di trasmissione della patologia. Infatti qualora si tratti di una malattia dominante, l’analisi si può limitare alle variazioni presenti in eterozigosi. Per le patologie re-cessive invece vanno considerate non solo le variazioni presenti in omozigosi ma anche quelle in eterozigosi composta, qualora due o più di queste colpiscano lo stesso gene.

Geni malattia identificati mediante sequenziamento dell’esomaCome discusso in precedenza, il sequenziamento dell’esoma ha dimostrato la sua efficacia soprattutto in quei disordini per i quali la ricerca di geni-malattia mediante linkage era resa impossibile o estremamente difficile a causa della rarità della patologia, a causa di varianti de novo o all’assenza di pedigree adeguatamente ampi. Lo studio Ng et al. (Ng et al., 2009), pubblicato nel 2009, ha fornito la prima dimostrazione delle possibilità del sequenziamento dell’eso-ma in una malattia mendeliana, analizzando quattro casi provenienti da differenti famiglie con membri affetti da sindrome di Freeman-Sheldon (OMIM# 193700): il gene MYH3, già noto per essere re-sponsabile della malattia, era identificato come mutato in tutti i casi e le varianti identificate non erano riscontrate né in dbSNP né in

Tabella III.Sequenziamento dell’intero genoma vs. sequenziamento dell’esoma.

Sequenziamento intero genoma

Sequenziamento esoma

Numero di varianti 3 milioni 20.000

Varianti esoniche + +

Varianti di splicing + +

Varianti introniche e promotori

+ -

Microdelezioni e microduplicazioni

- -

Figura 3.Strategie di filtro per le variazioni genetiche identificate mediante se-quenziamento dell’esoma.

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HapMap (Fig. 4). L’assunto, poi verificato, di omogeneità genetica della patologia nei quattro pazienti e la conseguente applicazione di criteri attraverso cui filtrare i risultati ottenuti (come la presenza della presunta variazione patogena nello stesso gene in tutti gli indi-vidui, l’eliminazione delle varianti comuni che molto probabilmente non erano causative, l’analisi esclusiva delle varianti che avessero un effetto sulla sequenza codificante) si sono rivelati, in questo caso, sufficienti all’identificazione del gene-malattia (Fig. 4). Nel caso del-la sindrome di Miller (OMIM# 263750), invece, il difetto molecolare era ignoto e per la prima volta il sequenziamento dell’esoma si è dimostrato efficace nell’identificazione del gene-malattia. In questo studio, l’analisi di due fratelli affetti della stessa famiglia è stato as-sociato a quello di due pazienti affetti provenienti da altre due fami-glie indipendenti. Supposta una trasmissione autosomica recessiva, l’analisi si è focalizzata dapprima unicamente sulle varianti comuni ai due fratelli e successivamente ai geni affetti comuni anche agli altri due soggetti provenienti dalle altre due famiglie. Questo approc-cio ha portato all’isolamento di soli nove geni, tra i quali DHODH, che è stato identificato come responsabile della patologia (Ng et al., 2010a). Un approccio simile è stato utilizzato nell’identificazione di C20orf54 quale gene responsabile della sindrome di Brown-Vialet-to-van Laere (OMIM# 211530) (Johnson et al., 2010a).In uno studio successivo però lo stesso approccio, applicato a dieci pazienti non correlati affetti da sindrome di Kabuki (OMIM# 147920), non ha avuto un immediato successo (Ng et al., 2010b) e gli autori hanno quindi dovuto considerare la possibilità di eterogeneità gene-tica della malattia. L’analisi è stata facilitata dalla classificazione dei pazienti in sottogruppi sulla base di alcune caratteristiche cliniche e applicando criteri di filtro meno stringenti, tenendo conto del fatto che le variazioni patogenetiche non fossero necessariamente pre-senti in tutti gli individui analizzati, ma anche solo in un sottogruppo

di essi. Questa strategia ha portato all’identificazione di mutazioni nel gene MLL2 (Ng et al., 2010b), che come hanno confermato suc-cessivi studi, è il gene responsabile della maggioranza dei casi di sindrome di Kabuki (Paulussen et al., 2011). Una situazione simile è stata osservata per la sindrome di Sensenbrenner (OMIM# 218330): in soli due degli otto pazienti analizzati è stato possibile identificare delle variazioni causative nel gene WDR35 (Gilissen et al., 2010). A differenza degli altri sei, i due pazienti con mutazioni del gene WDR35 mostravano un fenotipo largamente sovrapponibile, sugge-rendo la presenza di eterogeneità genetica.Il sequenziamento dell’esoma si è dimostrato efficace anche in casi in cui il numero di individui disponibili per l’analisi era ancor più esiguo: per la sindrome da vasculopatia proliferativa e idranencefalia-idro-cefalia del tipo Fowler (OMIM# 225790), ad esempio, l’analisi di soli due feti affetti, provenienti da famiglie non consanguinee, ha portato all’identificazione di mutazioni del gene responsabile FLVCR2 (Lalonde et al., 2010); il gene HSD17B4, responsabile della sindrome di Perrault (OMIM# 233400), è stato addirittura identificato analizzando un singolo paziente (Pierce et al., 2010). Quando un numero ristretto di pazienti è disponibile per l’analisi, lo studio dei soggetti non affetti all’interno della famiglia permette di concentrarsi sulle varianti dei pazienti non condivise con i soggetti non affetti della famiglia. Nel contempo però, il numero di varianti comuni condivise da soggetti della stessa famiglia è maggiore rispetto a quello delle varianti condivise da due soggetti che tra loro non sono imparentati. Ciononostante, lo studio di più pazienti all’interno di un singolo nucleo familiare è di particolare utilità soprat-tutto nel caso di patologie con eterogeneità fenotipica e genetica, in cui l’analisi di individui non correlati tra loro con mutazioni causative in geni differenti aumenta il rischio di insuccesso. Un’ulteriore possibilità di filtro può essere ottenuta utilizzando i dati di linkage, se questi sono disponibili. In questi casi l’analisi delle varianti ottenute dal sequen-ziamento dell’esoma sarà focalizzata a quelle contenute nella regione di linkage. Vi sono vari esempi (Johnson et al., 2010b; Krawitz et al., 2010; Musunuru et al., 2010; Sirmaci et al., 2010a; Wang et al., 2010; Becker et al., 2011; Caliskan et al., 2011; Ostergaard et al., 2011; Ya-maguchi et al., 2011) in cui il supporto dell’analisi di linkage si è rivela-to utile nell’accelerare l’analisi dei dati di sequenziamento dell’esoma. Nel caso di patologie autosomiche recessive, invece, la mappatura per omozigosità è stata integrata con successo ai dati di sequenziamento dell’esoma, con un notevole vantaggio in termini di tempo e di diminu-zione del numero di varianti da analizzare (Anastasio et al., 2010; Bolze et al., 2010; Sirmaci et al., 2010b; Walsh et al., 2010; Becker et al., 2011; Caliskan et al., 2011; Erlich et al., 2011; Zuchner et al., 2011).Infine più recentemente, il sequenziamento dell’esoma ha portato all’identificazione di varianti de novo in quattro geni diversi in al-trettanti casi sporadici di ritardo mentale e autismo (Vissers et al., 2010; O’Roak et al., 2011). Questi esempi confermano ulteriormen-te il grosso potenziale della tecnologia del NGS per l’identificazione delle basi genetiche di malattie e per la diagnosi definitiva di ritardo mentale e autismo, che data la loro elevata eterogeneità genetica, sono più difficilmente diagnosticabili al livello molecolare attraverso i metodi tradizionali di sequenziamento.

Applicazioni cliniche del sequenziamento di ultima generazione

Il sequenziamento di ultima generazione è senza dubbio uno stru-mento potente con possibili applicazioni diagnostiche nella pratica clinica e rende il confine tra ricerca e diagnosi molecolare sempre più sfumata. I vantaggi e gli svantaggi del sequenziamento dell’in-

Figura 4.Strategie di filtro adottate per la prova di principio dell’identificazione del gene malattia nella sindrome di Freeman-Shledon (MYH3). I numeri della colonna 1 indicano il numero di geni che contengono uno o più SNP sinonimi, varianti di splicing, o indel in regioni codificanti in uno o più pazienti con sindrome di Freeman-Sheldon. Il numero di varianti viene dimezzato considerando semplicemente quelle varianti che sono condivise dai quattro soggetti affetti. La successiva applicazione di fil-tri permette di rimuovere le varianti comuni, che presumibilmente non sono causative: la rimozione delle varianti contenute nel dbSNP e negli esomi controllo riduce il numero di geni candidati e l’uso combinato di questi due filtri riduce la lista di candidati ad un singolo gene, MYH3 che è il gene causativo della sindrome di Freeman-Sheldon (modificato da Ng et al., 2009).

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tero genoma o del sequenziamento dell’esoma sono oggetto di di-scussione (Tab. III) e cominciano ad essere riportati i primi esem-pi di applicazioni cliniche di queste metodiche. Il sequenziamento dell’intero genoma è stato utilizzato, per esempio, per la diagnosi di malattia di Charcot-Marie-Tooth da mutazioni del gene SH3TC2 e di sitosterolemia (OMIM# 210250) (Lupski et al., 2010; Rios et al., 2010). In quest’ultimo caso sono state identificate due mutazioni nel gene ABCG5 in un paziente con ipercolesterolemia severa. È inte-ressante notare che questo paziente alla diagnosi non presentava un eccesso di sitosteroli plasmatici, un elemento diagnostico im-portante, perché probabilmente era stato allattato esclusivamente al seno e pertanto non esposto agli steroli vegetali contenuti nella dieta. Questa osservazione clinica suggerisce, da un lato, che il se-quenziamento genomico permette la diagnosi di malattia in pazienti con presentazioni atipiche, come confermato anche da successivi studi (Tsurusaki et al., 2011), e dall’altro fornisce importanti indizi sulla fisiopatologia, suggerendo che la ipercolesterolemia che si os-serva nei pazienti con sitosterolemia potrebbe riflettere un difetto di escrezione di colesterolo nella bile, piuttosto che un effetto deleterio degli steroli vegetali sull’omeostasi del colesterolo, come finora ipo-tizzato. In altri casi, il sequenziamento dell’esoma ha consentito di espandere lo spettro fenotipico legato a mutazioni di un determinato gene, come nel caso di una forma di sclerosi laterale amiotrofica autosomica dominante dovuta a mutazioni del gene codificante per la valosin-containing protein (VCP). Il gene VCP infatti era stato in precedenza identificato in malattie fenotipicamente diverse, quali la miopatia da inclusioni, la malattia di Paget e la demenza frontotem-porale (Johnson et al., 2010b).Un altro esempio di applicazione del NGS nella pratica clinica, ri-guarda un paziente di 15 mesi, che presentava ascessi perianali, proctite e caratteristiche simili al morbo di Crohn, comprendenti pancolite transmurale e fistola colocutanea. In questo paziente l’età all’esordio e la severità clinica suggerivano un difetto del si-stema immune, ma una diagnosi definitiva non era stata raggiunta, nonostante fossero stati richiesti un ampio numero di test diagno-stici. Il sequenziamento dell’esoma di questo caso ha permesso di identificare 16.124 varianti e, utilizzando opportuni filtri, tra queste varianti è stata identificata una mutazione missense in un gene codificante per un inibitore dell’apoptosi localizzato sul cromo-soma X (X-linked inhibitor of apoptosis; XIAP). Questo gene, che svolge un ruolo importante nella reazione infiammatoria, è stato in precedenza associato a malattia linfoproliferativa X-linked (OMIM# 300635), ma non alla malattia di Crohn. Una volta ricevuta questa diagnosi, il paziente è stato trattato con un trapianto allogenico di precursori midollari per prevenire lo sviluppo di linfoistiocito-si ematofagica (Worthey et al., 2011). Questi esempi illustrano il grosso potenziale del sequenziamento dell’esoma per la diagnosi e come tale metodica stia cominciando a comparire nella pratica clinica (Fig. 5).Il costo del sequenziamento dell’esoma è certamente un fattore da considerare per applicazioni cliniche, ma è probabile che questo costo si riduca progressivamente, nonostante sia già abbastan-za simile a quello di alcuni test molecolari al momento disponibili (Tab. II) (Bonnefond et al., 2010). Un ulteriore vantaggio sono i tempi contenuti, circa 2 settimane, necessari per completare il sequen-ziamento dell’esoma (Bonnefond et al., 2010). L’interpretazione dei risultati ottenuti rimane però una difficoltà. Al momento attuale, il sequenziamento di un intero esoma risulta in un vasto numero di varianti che devono essere accuratamente scrutinate. Tipicamente il sequenziamento di un esoma di un paziente genera circa 20.000 variazioni, mentre quello genomico circa 3 milioni, ed è ancora mol-

to difficile identificare tra queste varianti quei 1-2 alleli responsabili della malattia. Paragonando le molteplici varianti di DNA del pazien-te con quelle dei familiari è possibile ridurre notevolmente il numero di varianti potenzialmente implicate nella malattia. La disponibilità di cataloghi di varianti benigne sempre più completi e attendibili migliorerà e accelererà certamente il processo di analisi e interpre-tazione dei dati.È esperienza comune nei vari centri di genetica medica, seguire un certo numero di pazienti senza una diagnosi. Le cause sono mol-teplici e vanno dall’ampia variabilità fenotipica di molte condizioni all’assenza delle caratteristiche cliniche più suggestive, che fan-no sospettare alcune malattie e che possono comparire più tardi negli anni. Infine, vi possono essere pazienti il cui quadro clinico non è compatibile con le sindromi note. Questo scenario potrebbe modificarsi radicalmente con il sequenziamento dell’esoma, com-portando una riduzione drastica del numero di questi casi irrisol-ti. Per accelerare la diagnosi in casi irrisolti, il National Institute of Health nel Maggio 2008 ha lanciato un programma – Undiagnosed Diseases Program (http://rarediseases.info.nih.gov/Resources.aspx?PageID = 31) (Kuehn, 2008) – comprendente medici di varie specialità (endocrinologi, immunologi, dermatologi, oncologi e car-diologi) e ricercatori, con l’obiettivo di determinare le basi genetiche di pazienti, ~300, senza una diagnosi definitiva. La nostra previsione è che il sequenziamento dell’esoma sarà utilizzato con successo in molti di questi casi, comportando ripercussioni immediate nei pa-zienti in termini di diagnosi, prognosi e possibilità di sviluppo di tera-pie nuove. È auspicabile che anche in Italia si costituisca un gruppo di studio con finalità simili e che raccolga casi irrisolti per lo studio mediante sequenziamento dell’esoma.Inoltre il NGS potrebbe modificare in maniera sostanziale l’algoritmo diagnostico riducendo o evitando molti test molecolari routinaria-mente richiesti e procedure invasive, quali biopsie (Fig. 5). Soprat-tutto l’approccio diagnostico potrebbe modificarsi per malattie con elevata eterogeneità genetica, come la malattia di Charcot-Marie-Tooth (Montenegro et al., 2011), nelle quali invece di richiedere sequenziamento tradizionale di molteplici geni, che richiede tempi abbastanza lunghi, il sequenziamento dell’esoma potrebbe essere richiesto in prima battuta.Una applicazione importante del NGS è stata di recente sviluppata

Figura 5.Possibile effetto del sequenziamento dell’esoma nel modificare l’algo-ritmo diagnostico delle malattie genetiche.

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per un test allargato volto all’identificazione dello stato di portatore (Bell et al., 2011). Questo test è stato sviluppato per lo screening dello stato di portatore di 448 malattie recessive severe. Il test-preconcezionale per la malattia di Tay-Sachs (OMIM# 272800) ha drammaticamente ridotto di più del 90% l’incidenza della malattia negli ebrei Ashkenazi del Nord America e il test allargato per lo sta-to di portatore, utilizzando metodiche di NGS, potrebbe raggiungere un obiettivo simile per numerose altre malattie con decorso clinico severo. Questo test al momento è stato implementato solo in un contesto di ricerca, ma è presumibile che sia introdotto in ambito clinico in tempi brevi, considerata la possibilità di automatizzazione del test, l’elevata sensibilità e specificità e il basso costo (meno di 1$ per malattia valutata). L’interpretazione dei risultati e il consi-glio genetico rimangono però dei limiti per la diffusione su ampia scala del test. L’interpretazione dei risultati infatti è certamente l’operazione più complessa, soprattutto alla luce di quanto discusso prima circa l’imprecisione dei database delle varianti benigne ora disponibili. Pertanto l’applicazione di questo potente strumento di screening è necessariamente legato alla disponibilità di un database di variazioni “certificato”. Inoltre questo test comporta implicazioni etiche, sociali e legali che vanno attentamente valutate prima della sua diffusione.Infine, questo test consente di identificare rapidamente soggetti af-fetti da malattia ed ha possibili applicazioni anche per lo screening pre-sintomatico, per esempio lo screening neonatale, per malattie nelle quali un trattamento precoce ha importanti implicazioni pro-gnostiche.

Conclusioni e prospettiveNonostante la prova di principio di efficacia sia relativamente recen-te, il sequenziamento dell’esoma ha rapidamente trovato applica-zioni nella ricerca delle basi molecolari delle malattie mendeliane in un’ampia varietà di situazioni: più soggetti affetti all’interno di una famiglia, più soggetti affetti non correlati tra loro e perfino singoli casi sporadici. L’integrazione dei dati di sequenziamento con analisi di linkage o di mappatura per omozigosità ha inoltre enormemente facilitato e accelerato la scoperta delle varianti causative, nell’am-bito di casi familiari. Attraverso questi approcci il numero di geni responsabili di malattie mendeliane identificati è in rapido aumento

(Tab. I), e parallelamente i costi si sono progressivamente ridotti. Va però considerato che, nonostante questi studi dimostrino in maniera convincente la causalità delle varianti identificate, sono comunque necessari studi successivi per confermare il ruolo causativo delle varianti identificate (Fig. 3). Nonostante il grande successo, il se-quenziamento dell’esoma presenta alcuni punti deboli. Sebbene il prezzo di sequenziamento di un esoma è abbastanza contenuto (circa 3.000-5.000 $), la conservazione dei dati generati e la loro analisi rimane ancora costosa, laboriosa e spesso inefficiente. Ulte-riori limiti di questo approccio sono la difficoltà nel rilevare inserzioni e delezioni, anche di modeste entità, riarrangiamenti cromosomici che sono rilevanti nelle malattie mendeliane, la cattura incompleta dell’esoma e la mancanza di copertura di regioni non codificanti, so-prattutto quelle altamente conservate nel corso dell’evoluzione. La maggioranza di questi limiti può essere superato dal sequenziamen-to dell’intero genoma piuttosto che dell’esoma. Il sequenziamento dell’intero genoma tuttavia rende l’interpretazione delle varianti ancora più difficile essendo queste presenti in numero notevolmen-te maggiore rispetto a quello ottenuto mediante sequenziamento dell’esoma. Nonostante questi limiti, è prevedibile che nei prossimi anni questa metodica si sviluppi come test diagnostico nella pratica clinica (Fig. 5), soprattutto grazie all’ottimizzazione dei database del-le varianti benigne e dei metodi di analisi dei dati.

AbbreviazioniAD: autosomica dominanteAR: autosomica recessivabp: base pair (paia di basi)CGH: comparative genomic hybridizationHapMap: haplotype mapIndel: inserzioni/delezioniKb: chilobasi (1.000 bp)Mb: megabase (1.000.000 bp)NGS: next-generation sequencingOMIM: Online Mendelian Inheritance in ManPCR: polymerase chain reactionSNP: single nucleotide polymorphismXL: X-linked

Sequenziamento dell’intero genomaIl sequenziamento dell’intero genoma ha la potenzialità di identificare mutazioni nelle regioni codificanti e non-codificanti e queste ultime non sono catturate dal sequenziamento dell’esoma. Il sequenziamento dell’intero genoma ha condotto all’identificazione di almeno due geni responsabili di malattie umane (Kryukov et al., 2009; Lupski et al., 2010).

Sequenziamento dell’esomaIl sequenziamento dell’esoma è un approccio più efficiente ed economico del sequenziamento dell’intero genoma perché le regioni codificanti rap-presentano l’1% del genoma umano (pari a ~30 Mb contenenti ~180.000 esoni) e la maggioranza delle malattie mendeliane è dovuta a mutazioni esoniche o nei siti di splicing.

dbSNPDatabase dei Single Nucleotide Polymorphisms (dbSNP): catalogo pubblicamente accessibile delle variazioni genetiche (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/snp)

Progetto HapMapProgetto internazionale per sviluppare una mappa di aplotipi del genoma umano e un catalogo delle variazioni genetiche umane (http://hapmap.ncbi.nlm.nih.gov/)

Progetto 1000 GenomeProgetto rivolto a sequenziare un ampio numero di individui per offrire un catalogo esaustivo delle variazioni genetiche nell’uomo (http://www.1000genomes.org/home).

Box di orientamento

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il sequenziamento dell’esoma per l’identificazione di geni-malattia e la diagnosi molecolare

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* Questo studio riporta la diagnosi molecolare in un paziente con malattia di Charcot-Marie-Tooth ottenuta mediante whole genome sequencing.

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** Questo è il primo lavoro in cui un nuovo gene-malattia viene identificato me-diante sequenziamento dell’esoma.

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* Questo lavoro riporta l’identificazione del gene MLL2 come responsabile della malattia di Kabuki.

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* In questo lavoro vengono identificati, grazie al sequenziamento dell’esoma, possibili nuovi geni coinvolti nel disordine dello spettro autistico.

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* In questo lavoro viene riportata l’applicazione clinica del sequenziamento dell’esoma in un paziente con quadro clinico complesso. L’identificazione del difetto molecolare in questo caso ha un impatto importante sul management clinico.

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Nicola Brunetti-Pierri, FACMG, Dipartimento di Pediatria, Università “Federico II”, via Pansini 5, 80131 Napoli. Tel. +39 081 6132361. Fax: +39 081 5609877. E-mail: [email protected]

Corrispondenza

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Luglio-Settembre 2011 • Vol. 41 • N. 163 • pp. 165-170

L’abbandono delle tecniche di facilitazione neuromuscolare alla luce delle nuove conoscenze provenienti dalle Neuroscienze

Nel corso degli anni 1980-2000 si è verificato un radicale cambia-mento dei modelli teorici di riferimento (conceptual frame work) per la prassi riabilitativa dei disordini dello sviluppo neuromotorio.Il primo importante contributo delle neuroscienze che influì sulla prassi riabilitativa risale agli inizi degli anni ’90 ed è riferibile ai La-boratori di Scienze del Movimento, che studiarono con nuove tec-nologie computerizzate in situazioni dinamiche lo sviluppo di rea-zioni posturali e di sequenze di movimento in bambini normali e con paralisi cerebrale. Di particolare rilievo furono gli studi condotti dal gruppo svedese di Forssberg (Forssberg e Hirschfeld, 1992) e italia-no di Crenna (Crenna et al., 1993) con la gait-analysis sul cammino, gli studi di Schumway-Cook (Schumway-Cook e Woollacott, 1995) sull’evoluzione della postura e dell’equilibrio, e quelli della McKinley (McKinley e Pelland, 1992) sull’evoluzione di abilità motorie. I dati di questi studi relativi alle modalità di apprendimento e controllo del movimento e alla graduale costruzione di “una memoria mo-toria” in età evolutiva confermarono molte ipotesi formulate negli anni ’70 dagli psicologi dello sviluppo (Bruner, 1970; Connolly, 1975;

Newell, 1991) i quali, attraverso studi osservazionali del comporta-mento di bambini nei primi mesi di vita, avevano elaborato modelli teorici relativi alla acquisizione di competenze nelle attività motorie intenzionali.L’influenza di questi apporti delle neuroscienze sull’approccio ria-bilitativo ai disordini dello sviluppo neuromotorio del bambino por-tò all’abbandono delle metodiche di facilitazione neuromuscolare, come il metodo Bobath e Vojta, considerate obsolete e prive di sup-porti neurofisiologici, e ad una fase di ricerca e di messa a punto di una prassi terapeutica basata sui nuovi modelli di apprendimento e controllo del movimento.Dalla letteratura di quegli anni emerge infatti chiaramente lo sfor-zo svolto, da parte di chi era coinvolto nella prassi riabilitativa, di adeguare gli strumenti e le metodologie della ricerca scientifica al complesso ambito della neuroriabilitazione pediatrica, con il fine di darle l’autorevolezza e la dignità di una scienza applicata.Il primo problema che si pose ai clinici, medici e terapisti, fu quello di trasferire nella prassi riabilitativa i nuovi modelli sul controllo e ap-prendimento motorio e le recenti conoscenze sul loro sviluppo nor-male e patologico in età evolutiva. L’identificazione e la categorizza-zione dei concetti teorici relativi al modello che guida un particolare approccio terapeutico è infatti il primo e indispensabile passo per

recenti progressi nella neuroriabilitazione delle paralisi cerebrali infantili

Ermellina FedrizziDivisione di Neurologia dello Sviluppo, Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano (Primario dal 1989 al 2000)

RiassuntoNel corso degli anni 1980-2000 si è verificato un radicale cambiamento dei modelli teorici di riferimento (conceptual frame work) per la prassi riabilitativa dei disordini dello sviluppo neuromotorio.Il primo passo di questo cambiamento si è verificato tra il 1980 e 1990 in seguito al fiorire di studi sullo sviluppo, apprendimento e controllo motorio, pro-venienti dai laboratori di neurofisiologia e di scienze del movimento, che hanno contribuito all’abbandono delle metodologie riabilitative basate sul modello neuromaturazionista gerarchico-riflesso, come le tecniche di facilitazione neuromuscolare (metodi Bobath, Vojta, Doman) ormai obsolete. Sono andati quindi affermandosi nuovi approcci riabilitativi basati sui modelli sistemici di sviluppo e controllo motorio e di apprendimento di abilità. In particolare il mo-dello cognitivista secondo l’information processing e la teoria dei sistemi dinamici hanno indirizzato i clinici della neuroriabiltiazione ad approcci terapeutici secondo il “Motor learning” e il “Motor Teaching”. In questa ottica il bambino non è più considerato un recipiente passivo di stimolazioni, ma, attraverso la pratica in contesti diversi, un protagonista attivo nella soluzione di problemi posti dall’ambiente e nella acquisizione di nuove abilità.Un secondo passo verso una prassi riabilitativa basata sull’evidenza scientifica è avvenuto negli anni più recenti, dal 2000 ad oggi, nei quali si è assistito ad una ulteriore evoluzione delle conoscenze sull’organizzazione delle funzioni neuromotorie e neuro cognitive per gli apporti delle tecniche di neuroimaging e neurofisiologiche (TMS). L’uso della RM funzionale infatti ha permesso non solo di studiare la riorganizzazione neuronale successiva a danni cerebrali precoci, ma anche di valutare i risultati dei nuovi approcci riabilitativi attraverso il confronto delle immagini delle aree attivate prima e dopo l’intervento riabilitativo.

SummaryIn the years from 1980 to 2000 there has been a great change of the theoretical framework for the clinical practice in the field of rehabilitation of disorders of neuromotor development.The first step of this shift occurred from 1980 to 1990, following the explosion of new research on motor development and motor control, carried out by neurophysiologists and movement scientists. These studies led to an overcoming of the reflex-based neurofacilitation approaches, as the Doman, Vojta and Bobath rehabilitation methodologies. Then, new therapeutic approaches based on a systems theory of motor control and learning has been developed, as the “Motor learning” and the “Motor Teaching” approaches. According to these approaches, the child is no more subject to passive stimulations, but, through the practice in different contexts and the interaction with the environment, becomes an active problems solver.A second step towards a scientific evidence based rehabilitation practice occurred in recent years, since 2000 until today. In fact, the new neuroimaging and neurophysiological techniques provided further knowledge on the development and the organization of the neuromotor and cognitive functions. The functional magnetic resonance, performed in children with neurological impairment, showed the features of the neuronal reorganization following early brain damages and gave the opportunity to assess the outcome of the new therapeutic approaches comparing the activated area before and after the treatment.

FoCuS

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E. Fedrizzi

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rendere esplicite ed evidenti le strategie o le tecniche utilizzate nella prassi terapeutica, che spesso invece rimangono implicite e basate sull’intuito o sull’esperienza clinica del terapista (Gordon, 1987).Se consideriamo ad esempio il controllo motorio della postura e cioè il mantenimento di un equilibrio ottimale e di un corretto orientamento dei vari segmenti corporei in relazione ai diversi compiti e alle diverse circostanze ambientali, secondo il modello gerarchico-riflesso, basato sugli studi di Sherrington e Jackson, esso emerge da catene di ri-flessi collegati all’interno del sistema nervoso e organizzati in senso gerarchico. Per contro secondo gli attuali modelli sistemici il controllo motorio della postura risulta dall’interazione di sistemi complessi che interagiscono per raggiungere obiettivi funzionali. È evidente che la prassi riabilitativa per favorire l’acquisizione del controllo posturale è completamente diversa a seconda del modello di riferimento al quale si attiene il riabilitatore: nel primo caso utilizzerà una tecnica di facili-tazione neuromuscolare come il metodo Bobath o Vojta per facilitare il controllo motorio attraverso stimoli ripetuti; se invece ha acquisito le conoscenze relative ai modelli sistemici di controllo motorio aiuterà il bambino a risolvere i problemi del mantenimento dell’equilibrio in di-versi contesti ambientali (Tab. I). Secondo questo approccio il bambino non dovrà essere un recipiente passivo di stimoli, ma un protagonista attivo nella soluzione di problemi. e il terapista dovrà assumere il ruolo di partner, selezionando i compiti adatti, guidando il bambino nella analisi delle informazioni ambientali e quindi nella percezione degli elementi essenziali per la pianificazione anticipata delle sequenze per la soluzione del compito (Fedrizzi, 1987; Fedrizzi, 1998).

Un altro importante obiettivo della neuroriabilitazione pediatrica è lo sviluppo di competenze motorie globali e l’apprendimento di abilità motorie. Anche in questo caso le concezioni attuali sui processi che sottendono lo sviluppo motorio e l’apprendimento di abilità in età evo-lutiva divergono radicalmente dalle teorie gerarchico-riflesse e neu-romaturazioniste del periodo precedente, secondo le quali lo sviluppo avveniva per stadi conseguenti alla maturazione del SN dai livelli spi-nali a quelli corticali. Il modello cognitivista considera lo sviluppo e l’apprendimento di abilità motorie come la costruzione progressiva di strutture cognitive (programmi motori, schemi, rappresentazioni sim-boliche, subroutines ecc.) che dirigono la organizzazione e produzione di pattern motori di complessità crescente (Connolly, 1975). Secondo questa ottica l’interazione con l’ambiente e il significato di questa in-terazione sono elementi essenziali per lo sviluppo di abilità motorie nel bambino. L’approccio terapeutico sarà di conseguenza completamen-te diverso (Tab. II): a differenza di una prassi terapeutica basata sulla imposizione di una rigida sequenza di acquisizioni posturali e sulla ripetizione di pattern evocati passivamente attraverso stimolazioni, gli attuali modelli supportano il ruolo della pratica come requisito essen-ziale per lo sviluppo di nuove abilità. In questa ottica tuttavia la pratica non può più essere considerata come semplice ripetizione di un eser-cizio o di un movimento, ma consiste nella sperimentazione delle di-verse strategie che il bambino gradualmente seleziona come risposta ottimale alla soluzione del problema adattivo. È evidente quindi che non solo le tecniche di facilitazione neuromuscolare, che evocano la ripetizione passiva di pattern motori, ma anche altri interventi terapeu-

Tabella I.Processi di controllo motorio secondo il modello gerarchico riflesso e secondo il modello sistemico.

Tabella II.Sviluppo e apprendimento motorio secondo il modello gerarchico rifles-so e il modello sistemico.

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Recenti progressi nella neuroriabilitazione delle paralisi cerebrali infantili

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tici che propongono esercizi avulsi dal contesto di vita e dai problemi adattivi propri dell’età evolutiva sono privi di significato e non portano all’acquisizione stabile di abilità. L’obiettivo del trattamento non consi-ste infatti nell’insegnare al bambino un pattern corretto o “ideale”, ma nel guidarlo a risolvere un problema motorio e adattivo in una varietà di contesti (Gordon, 1987). Ne consegue l’importanza che assume il contesto di vita del bambino per la riabilitazione dei disordini dello sviluppo: contesto che non consiste solamente negli aspetti spazio-temporali dell’ambiente e degli oggetti, o del loro significato cognitivo e motivazionale, ma riguarda anche i limiti e i problemi che le carat-teristiche dell’ambiente impongono alle capacità attuali del bambino. Quindi la scelta di una proposta terapeutica, sia un compito o un gioco che implichi la soluzione di un problema va accuratamente calibrata in relazione a tutti gli elementi che vengono attivati nelle varie fasi di apprendimento: la congruenza con le competenze cognitive e attenti-ve del bambino, la coerenza con l’obiettivo terapeutico, l’adeguatez-za con i limiti intrinseci biomeccanici imposti dal sistema muscolo-scheletrico, dalle leggi fisiche che governano il movimento e da quelli estrinseci ambientali. Inoltre, poiché l’apprendimento di abilità com-porta l’acquisizione stabile delle strategie risolutive di un problema motorio, il contesto dovrà essere naturale, cioè vicino all’esperienza di vita del bambino, e variato, in modo che egli apprenda non una speci-fica soluzione, ma le regole che gli consentono di risolverlo in diverse situazioni. Non è quindi sufficiente ottenere dal bambino nell’ambito di una seduta di trattamento una risposta adeguata all’obiettivo terapeu-tico (best performance) ma è necessario che la competenza emersa in una specifica situazione entri nel repertorio comportamentale stabile, venga cioè memorizzata ed automatizzata. Ne deriva l’opportunità di adeguare il più possibile il contesto terapeutico a quello abituale del bambino e di trasferire molte proposte in ambito familiare e sociale (scuola, tempo libero ecc.).

I nuovi approcci riabilitativi basati sulle teorie sistemiche di sviluppo e apprendimento motorio: il “motor learning” e il “ motor teaching”

Nel corso degli ultimi 20 anni si sono diffusi, specialmente nei paesi anglosassoni, approcci riabilitativi basati sui modelli sistemici di ap-prendimento e controllo motorio, secondo il “Motor Learning Model”, inizialmente nel paziente neurologico adulto (Carr e Shepherd, 1987; Gentile, 1992) e successivamente nel bambino con Paralisi cerebrale.La Larin (Larin, 2000) in particolare analizza ed espone un model-lo di strategie di insegnamento motorio (Motor Teaching) in ambito pediatrico, basate sul modello dell’information processing, e illustra le modalità con le quali il terapista, proponendo l’esecuzione di com-piti (task oriented approach) deve intervenire nell’interazione con il bambino prima (pre-task), durante (in-task) e dopo (post-task) l’at-tività proposta o scelta dal bambino. Sottolinea diversi elementi es-senziali per la prassi terapeutica: il contesto e il setting terapeutico il più possibile simili al contesto di vita del bambino, la motivazione e l’analisi anticipata delle caratteristiche del compito, la significa-tività del compito per il singolo bambino, la domanda implicita e la sequenza dei compiti proposti, il sostegno dell’attenzione prima e durante l’attività, le dimostrazioni e l’imitazione di una strategia, l’at-tesa dell’iniziativa spontanea del bambino, la guida durante l’esecu-zione del compito, il rinforzo del feed-back prima (feedforward) du-rante (knowledge of performance) e dopo la sequenza (knowledge of result) e la ripetizione di un’attività in contesti variabili.Anche in Italia il diffondersi delle conoscenze provenienti dalle neu-roscienze e i conseguenti cambiamenti dei modelli di riferimento per

la prassi terapeutica ha portato all’elaborazione di nuovi approcci riabilitativi per il bambino con disordini neuromotori.La riabilitazione ecologica secondo Pierro (Pierro, 1993; Pierro, 1998) si riferisce alla teoria ecologica di controllo motorio di Gibson, che sottolinea il ruolo fondamentale della percezione nello sviluppo e apprendimento di abilità motorie. La riabilitazione ecologica agi-sce su un ecosistema e attraverso questo modifica le caratteristiche dell’ambiente fisico e familiare per renderlo più agibile e leggibi-le dal bambino: rieducare significa selezionare su misura per ogni bambino un percorso di compiti adattivi di interazione con le forme dell’ambiente, compiti per i quali il bambino possa creare soluzioni di crescente flessibilità.L’apprendimento motorio nel gioco guidato (Fedrizzi, 1987; Fedrizzi, 1998), è una prassi terapeutica che si basa sul modello teorico di apprendimento e controllo del movimento in età evolutiva formulato dagli psicologi cognitivisti (Bruner, 1970; Connolly, 1975). Nello sche-ma illustrato nella Figura 1, vengono sintetizzati graficamente i di-versi livelli di elaborazione (piano d’azione), esecuzione (programma motorio) e controllo (feed-forward e feed-back) del comportamento motorio. Nell’organizzare la valutazione e il programma terapeutico del bambino con disordini dello sviluppo e comportamento motorio è possibile adottare una sequenza concettuale logica (conceptual frame work) basata su questo schema, che considera i diversi livelli coinvolti dal disordine e che guida e orienta la formulazione di un progetto terapeutico (Tab. III).L’intervento terapeutico dovrà in primo luogo considerare il livello delle intenzioni, degli scopi e della formulazione di un piano d’azione: dovrà quindi promuovere l’interazione bambino-ambiente, favorendo l’emer-gere di comportamenti adattivi di ordine motorio, esplorativo, conosciti-vo e comunicativo evocando o proponendo compiti specifici in relazio-ne al disordine in un contesto adeguato alle caratteristiche individuali e familiari; dovrà inoltre sostenere e guidare l’attenzione del bambino nella fase di raccolta delle informazioni ambientali.In secondo luogo l’intervento dovrà agire al livello delle strategie e dei mezzi per attuare il compito o per risolvere il problema, e quindi guidare il bambino nella scelta delle sequenze di pattern più idonee, con modalità diverse (dimostrazione, imitazione, rinforzo verbale) senza prevenirlo.

Figura 1.Livelli di pianificazione, esecuzione e controllo del comportamento motorio.Da Fedrizzi, 1987, 1998.

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E. Fedrizzi

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Il terzo livello dell’intervento terapeutico è quello degli strumenti neuromotori: gli obiettivi terapeutici sono quelli più tradizionali mi-rati alla prevenzione delle retrazioni tendinee, alla riduzione della spasticità e al controllo delle ipercinesie, alla correzione di deficit sensoriali, secondo modalità diversificate in relazione alle caratteri-stiche individuali e all’età (ortesi, infiltrazioni con tossina botulinica, terapia farmacologica, chirurgica, ortopedica, ecc.).Recentemente per il bambino emiplegico è stato proposto un nuovo approccio definito Costraint Induced Movement Therapy (CIMT), ba-sato su ricerche comportamentali condotte su primati da Taub (Taub, 1976). Questo trattamento prevede un trattamento intensivo con la costrizione dell’arto sano al fine di favorire l’utilizzo dell’arto paretico nella performance di compiti, arto che il bambino tende ad escludere poiché privilegia l’uso dell’arto sano (learned non-use o developmen-tal disregard).Nel corso degli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni studi che docu-mentano l’efficacia della CIMT nel migliorare la funzionalità dell’arto paretico, sia nell’adulto che nel bambino. Tuttavia gli studi sui bambini (Eliasson et al., 2005; Charles et al., 2001) sono molto diversi per nu-mero del campione, per modalità e tempi della restrizione, e quindi l’evidenza scientifica dei risultati non è significativa. Emerge inoltre chiaramente che il possibile miglioramento può essere dovuto non alla costrizione ma al trattamento intensivo (da 3 a 6 ore al giorno per periodi di 15-30 gg fino a 2 mesi). In trial recente condotto dal Gruppo Italiano Paralisi cerebrali Infantili (GIPCI) (Facchin et al., 2009) i primi risultati confermano che nei due gruppi di bambini emiplegici trattati con trattamento intensivo, uno con la CIMT e l’altro con attività di ma-nipolazione bimanuale, si riscontra un miglioramento sovrapponibile della funzionalità dell’arto paretico, mentre nel gruppo di controllo seguito con trattamento abituale di una seduta settimanale non si ri-leva alcun cambiamento. Emergerebbe da questo studio l’indicazione clinica per il bambino emiplegico di un trattamento intensivo di attivi-tà mono e bimanuali a cicli, più efficace che il trattamento routinario continuativo.

L’apprendimento di abilità motorie con il “mental training o motor imagery” e l’imitazione di azioni osservate, e il possibile ruolo terapeutico della Stimolazione magnetica transcranica (TMS)

Nel corso degli anni più recenti (2004-2006) il contributo di studi neu-rofisiologici e di neuroimaging ha fornito ulteriori conoscenze sullo sviluppo psicomotorio e sull’acquisizione di abilità in età evolutiva. Gli studi di Jeannerod (Jeannerod, 2006) sottolineano il coinvolgimento di tutte le aree motorie sia corticali che sottocorticali in attività cognitive, come la Motor Imagery cioè la rappresentazione mentale di azioni senza esecuzione di movimenti. Infatti la Motor Imagery determina

non solo l’attivazione della area Supplementare Motoria (SMA) e della Corteccia premotoria, aree deputate alla pianificazione delle azioni, ma anche della corteccia motoria, dei fasci corticospinali e di tutte le stazioni sottocorticali coinvolte nella sequenza. Ciò significa che vi è una equivalenza funzionale fra la rappresentazione mentale di un atto e la sua esecuzione. Questo spiegherebbe perché il Mental Training o Motor Imagery Training, cioè la pratica mentale di compiti o sequenze motorie, già utilizzata come forma di allenamento in medicina sporti-va, comporti non solo il miglioramento della performance, ma anche un aumento della forza muscolare, una maggior accuratezza e velo-cità nell’esecuzione delle sequenze e la persistenza dei miglioramenti nel tempo, cioè un apprendimento. In riabilitazione il Mental Training costituisce un approccio ricco di prospettive, in quanto può costitu-ire un importante modalità di apprendimento motorio e di recupero funzionale già nelle fasi precoci seguenti ad una lesione cerebrale. Infatti la rappresentazione mentale di azioni permette di attivare aree limitrofe alle zone lesionali coinvolgibili nel recupero funzionale, e di ridurre gli effetti dell’inattività che spesso si verifica nelle fasi acute e subacute. In una recente review sulle potenzialità del Motor ima-gery training come strumento riabilitativo nel bambino con emiple-gia Steenbergen (Steenbergen et al., 2009) sottolinea la sua utilità per favorire gli aspetti cognitivi del comportamento motorio e cioè la pianificazione delle azioni. In età evolutiva il Motor Imagery training può essere utilizzato nei bambini collaboranti e quindi non nella prima infanzia. Tuttavia anche nei bambini piccoli il terapista può favorire la rappresentazione mentale della soluzione del compito proposto, aiu-tando il bambino a elaborare un piano di azione, a raccogliere tutte le informazioni necessarie al suo svolgimento prima di iniziare la se-quenza d’azione (feedforward), in modo da abituare il bambino alla pianificazione, e cioè alla rappresentazione mentale.Anche la scoperta dei neuroni-specchio (Rizzolatti e Craighero, 1996) e delle loro funzioni nello sviluppo della comprensione del significato delle azioni altrui e nell’imitazione (Fogassi, 2008) ha importanti impli-cazioni nella prassi neuroriabilitativa. Secondo Rizzolatti infatti il siste-ma dei neuroni specchio giocherebbe un ruolo essenziale nell’appren-dimento di abilità nuove attraverso una modalità di scomposizione di attività complesse osservate in atti semplici e nella loro ricomposizione in sequenze nuove. La possibilità di sfruttare un sistema specchio an-cora intatto in pazienti con deficit motori aprirebbe nuove frontiere nel campo della riabilitazione. È già stato dimostrato con la RM funzionale che i trattamenti riabilitativi determinano un incremento dell’attivazio-ne delle aree parietali e premotorie, aree corrispondenti al sistema dei neuroni-specchio (Johansen-Berg et al., 2002). Recentemente è stato pubblicato uno studio su un training riabilitativo su base osservazio-nale su pazienti adulti emiplegici (Ertelt et al., 2007) dal quale risulta un miglioramento significativo delle prestazioni nei soggetti sottoposti a sessioni di osservazione di movimenti ecologici rispetto al gruppo di controllo, miglioramento confermato alla RMf da un aumento dell’attivi-

Tabella III.Apprendimento motorio nel gioco guidato.

Proporre al bambino attività che evochino iniziative e desideri di comunicazione e di conoscenza adeguati alle sue possibilità motorie e cognitive.

Sostenere l’attenzione del bambino nella formulazione di un piano d’azione (analisi delle informazioni per la selezione delle strategie, degli strumenti e dei mezzi).

Attendere i tempi e i modi individuali per la scelta delle strategie e delle sequenze di schemi motori idonei all’attuazione del programma motorio.

Favorire l’attuazione del programma motorio con posture idonee ed eventualmente con il controllo dei gradi di libertà.

Guidare il bambino nell’analisi dei risultati e di eventuali errori sia nella formulazione del piano d’azione che nell’esecuzione del programma motorio

Variare i contesti ambientali per favorire l’uso di nuove strategie e di programmi motori diversificati.

(Da Fedrizzi 1987, Fedrizzi 1998).

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Recenti progressi nella neuroriabilitazione delle paralisi cerebrali infantili

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tà delle aree corticali del sistema neuroni-specchio. Una terapia su base osservazionale potrebbe rivelarsi estremamente utile anche nella riabili-tazione di bambini con Paralisi cerebrale. Attualmente sono in corso stu-di su bambini emiplegici con l’uso della terapia osservativa per favorire l’apprendimento per imitazione, ma sono ancora in fase preliminare.Infine di recente è stato studiato il ruolo terapeutico della stimolazione magnetica transcranica (TMS) ripetitiva: nelle lesioni emisferiche uni-laterali la stimolazione a bassa frequenza dell’emisfero contro lesio-nale ha un effetto di inibizione dell’emisfero sano e di potenziamento dell’attività dell’emisfero leso e quindi può favorire la riorganizzazione neuronale perilesionale e il recupero funzionale dell’emisoma pareti-co. Nell’adulto con stroke l’efficacia della TMS ripetitiva nel migliorare la funzionalità della mano paretica è stata documentata in diversi trial (Fregni et al., 2006). Nel bambino un trial condotto su 10 casi con emiplegia (Kirton et al., 2008) sottoposti per 10 giorni a TMS contro-lesionali inibitorie ha evidenziato un miglioramento della funzionalità della mano paretica avvalorando il potenziale ruolo della TMS nella neuroriabilitazione pediatrica.

Il percorso della neuroriabilitazione pediatrica verso la “Evidence Based Rehabilitation”: la valutazione dell’outcome con gli strumenti clinici, neurofisiologici e di neuroimagingL’esigenza di valutare i risultati degli interventi terapeutici è divenuta sempre più pressante negli ultimi anni anche nel campo della riabili-tazione pediatrica.I professionisti della neuro riabilitazione dopo gli anni ’90 hanno messo a punto diversi strumenti clinici di misura atti a quantificare i cambia-menti delle competenze neuromotorie, psicomotorie, e di autonomia in età pediatrica, sia per seguire l’evoluzione delle funzioni nel corso dello sviluppo, che per valutare i risultati di interventi riabilitativi. I principali strumenti di misura vengono illustrati nella Tabella IV, mentre si riman-da a testi specifici l’esposizione di scale e test per la misura di singole funzioni neuropsicologiche (visuomotorie, cognitive, di attenzione, me-moria, esecutive, ecc.).La disponibilità di strumenti di misura delle funzioni ha reso possibile ai clinici la esecuzione di studi prospettici di valutazione comparativa di interventi riabilitativi diversi, cioè di trial controllati e randomizzati con-dotti in bambini con paralisi cerebrale. I primi trial pubblicati si riferi-scono in prevalenza ad interventi terapeutici basati sull’uso di farmaci, in quanto le modalità di somministrazione di un farmaco si prestano più facilmente di un intervento fisioterapico ad una randomizzazione fra gruppi. Di particolare importanza per il clinico sono i trial sull’uso della tossina botulinica di tipo A e la sua efficacia per la riduzione della spasticità agli arti inferiori (Boyd e Graham, 1999) e più recentemente agli arti superiori (Olesch et al., 2010). Anche l’efficacia della terapia con Baclofen intratecale per la cura della spasticità e delle distonie nel bambino con paralisi cerebrale è stata verificata con trial randomizzati

(Butler e Campbell, 2000; Hoving et al., 2007). Più rari in letteratura gli studi controllati e randomizzati di interventi fisioterapici in quanto molto più difficili da condurre, sia per le difficoltà di raccogliere casistiche suf-ficientemente ampie, che per i problemi di sistematizzazione e rando-mizzazione di interventi clinici spesso personalizzati. Negli anni recenti, come già accennato, sono stati pubblicati diversi trial sulla Constraint Therapy, con un confronto fra bambini con emiplegia, nei quali viene bloccato l’arto sano con un guanto e sottoposto a trattamento intensivo l’arto paretico, e bambini trattati in modo standard una o due volte alla settimana: una review della Cochrane (Hoare et al., 2007) dei trial pubblicati sottolinea che attualmente l’evidenza scientifica di questo trattamento è ancora limitata per la variabilità di strumenti e procedure usate nei diversi studi. Di interesse particolare per i clinici della riabi-litazione sono alcuni trial pubblicati negli ultimi anni che confrontano gruppi di bambini seguiti con interventi riabilitativi centrati su compiti specifici (approccio task oriented) rispetto a interventi mirati a miglio-rare l’autonomia del bambino in ambito familiare (Law et al., 2007; Novak et al., 2009): gli studi supportano l’evidenza che gli interventi condotti con programmi a domicilio e con la collaborazione dei familiari sono più efficaci per il bambino e graditi dalle famiglie.Nel percorso della neuro riabilitazione pediatrica verso l’evidenza scien-tifica gli studi di neurofisiologia, come già accennato, hanno dato un contributo essenziale nella messa a punto di strumenti quantitativi di misura del cambiamento delle funzioni neuromotorie. La gait analisys ha permesso di documentare, in bambini con disordini centrali e perife-rici, i cambiamenti del pattern del cammino a seguito di interventi orte-sici (tutori), di infiltrazioni di tossina botulinica, di interventi di chirurgia ortopedica. Più di recente, la analisi computerizzata dei movimenti di prensione documenta i cambiamenti della funzione manipolatoria dopo interventi farmacologici e riabilitativi.Infine le neuro immagini, in particolare le tecniche avanzate di Riso-nanza Magnetica come la tecnica di Diffusione (Diffusion Weighted Imaging) e la Risonanza Funzionale, hanno aperto nuove possibilità non solo di studio del funzionamento del Sistema Nervoso, ma anche di valutare i cambiamenti di strutture della sostanza bianca e della cor-teccia prima e dopo interventi riabilitativi. Anche in questo caso i primi studi pubblicati che documentano alla Risonanza Magnetica funzionale un cambiamento della organizzazione corticale successivo alla terapia si riferiscono a bambini con emiplegia sottoposti alla Costraint Therapy per brevi periodi (Sutcliffe et al., 2009), nei quali si rileva uno sposta-mento dell’indice di lateralità dall’emisfero ipsilaterale a quello contro laterale dopo la terapia. Di particolare interesse è lo studio condotto da You (You et al., 2005) sulla riorganizzazione corticale rilevata alla fRM in un bambino emiplegico trattato con un intervento riabilitativo di compiti funzionali per l’arto paretico.In conclusione, l’auspicio è che l’utilizzo degli strumenti clinici associato all’uso di queste tecnologie avanzate diano alla neuro riabilitazione pe-diatrica nel corso dei prossimi anni la dignità di una terapia basata sull’evidenza scientifica.

Tabella IV.Principali strumenti di misura delle funzioni neuromotorie e dell’autonomia usati in neuroriabilitazione pediatrica.

Motricità globale Funzionalità aa. superiori Livello di autonomia

Gross Motor Function Measure (GMFM) (Russell et al., 1989)

Melbourne Assessment of Unilateral Upper Limb Function (Johnson et al., 1994)

Functional Independence Measure for Children (WeeFim) (Msall et al., 1994)

Observational Gait Scale (Boyd e Graham, 1999) Quality of Upper Extremity Skill Test (QUEST) (De Matteo et al., 1992)

Pediatric Evaluation of Disability Inventory (PEDI) (Haley e Ludlow, 1993)

Assisting Hand Assessment (AHA) (Krumlinde-Sundholm et al., 2006)

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E. Fedrizzi

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Ermellina Fedrizzi, Divisione di Neurologia dello Sviluppo, Istituto Neurologico “C. Besta”, via Terenzio 12, 20133 Milano. E-mail: [email protected]

Corrispondenza

Nel presente articolo sono stati sviluppati i seguenti punti:1. Il superamento delle tecniche di facilitazione neuromuscolare alla luce delle nuove conoscenze provenienti dalle Neuroscienze.2. I nuovi approcci riabilitativi basati sulle teorie sistemiche di sviluppo e apprendimento motorio: il “motor learning” e il “ motor teaching”.3. L’apprendimento di abilità motorie con la “mental imagery” e l’imitazione di azioni osservate.4. Il percorso verso la “Evidence Based Rehabilitation”: la valutazione dell’outcome con gli strumenti clinici, neurofisiologici e di neuroimaging.

Box di orientamento

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