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"VRETE SENTITO NOMINARE il mio amico Jocelyn Tarbet, un tempo celebre romanzie-re, ma suppongo che il suo ricordo tenda a sbiadire. Il tempo sa essere spietato con la fama. È probabile che mentalmente lo associate a uno scandalo quasi di-menticato e alla vergogna. Non avevate mai sentito il mio nome, Parker Spar-row, un tempo ignoto romanziere, finché non è stato associato pubblicamente al

suo. Per pochi intimi i nostri nomi restano indissolubili, come le due estremità di un saliscendi. La sua ascesa ha coinciso con il mio declino, pur non essendone stata la causa. La sua disfatta è stata il mio trionfo in terra. Non nego il dolo. Ho rubato una vita e non intendo restituirla. Que-ste poche pagine valgano da confessione.

Per renderla appieno devo tornare indietro di quarant’anni, all’epoca in cui le nostre vite coincidevano alla perfezione e sembravano destinate a correre in parallelo verso un futuro co-mune.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN ARTICOLO DI IRENE BIGNARDI

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&RAVAMO ISCRITTI alla stessa uni-versità e frequentavamo lo stes-so corso — letteratura inglese — pubblicavamo i nostri primi rac-conti su riviste studentesche dai nomi improbabili, tipo -BNB �OFMM�PDDIJP. Eravamo ambiziosi. Volevamo diventare scrittori, scrittori famosi, addirittura gran-di scrittori. Passavamo le vacan-ze assieme, leggevamo l’uno gli scritti dell’altro, esprimevamo

giudizi generosi con brutale sincerità, ci scambiavamo le ra-gazze e, in qualche rara occasione, abbiamo tentato di prova-re interesse per un rapporto omosessuale. Sono grasso e cal-vo ora, ma all’epoca avevo una testa di riccioli ed ero snello. Mi gratificava l’idea di somigliare a Shelley. Jocelyn era alto, biondo, muscoloso, con la mascella volitiva, l’immagine per-fetta dell’ÃCFSNFOTDI nazista. Ma non aveva la minima pas-sione per la politica. La nostra relazione era una posa anticon-formista. Pensavamo ci rendesse affascinanti. In verità cia-scuno di noi provava repulsione alla vista del pene dell’altro. Eravamo ben poco attivi l’uno verso l’altro o assieme, ma ci piaceva lasciar credere che ci dessimo molto da fare.

Nulla di tutto ciò era d’ostacolo alla nostra amicizia lettera-ria. Non credo che fossimo proprio in competizione all’epoca. Girando indietro, però, direi che io ero partito in testa. Fui il primo a pubblicare su una rivista letteraria vera e propria, 5IF�/PSUI�-POEPO�3FWJFX. Al termine della nostra carriera universitaria io mi laureai col massimo dei voti, Jocelyn con un punteggio inferiore. Decidemmo che il voto di laurea era ininfluente e tale si dimostrò. Ci trasferimmo a Londra e affit-tammo due stanze singole in strade limitrofe, a Brixton. Pub-blicai il mio secondo racconto e provai sollievo nel momento in cui uscì il suo primo. Continuavamo a vederci regolarmen-te, a ubriacarci, a leggere l’uno gli scritti dell’altro e a muove-

re compiaciuti i primi passi negli stessi ambienti letterari al-ternativi. Iniziammo quasi in contemporanea persino a scri-vere recensioni per i giornali nazionali tradizionali.

I due anni dopo l’università videro l’apice della nostra gio-ventù fraterna. Crescevamo in fretta. Lavoravamo entrambi ai nostri primi romanzi che avevano molto in comune: sesso, caos, un che di apocalittico, un pizzico di violenza, il senso di impotenza allora in voga e l’ironia su tutte le possibili disav-venture del rapporto tra un ragazzo e una ragazza. Eravamo felici. Nulla intralciava il nostro cammino.

Poi si frapposero due ostacoli. Jocelyn, senza dirmelo, scrisse una commedia televisiva. All’epoca lo consideravo un genere molto inferiore al nostro livello. Noi pregavamo all’al-tare della letteratura. La tv era puro intrattenimento, robac-cia per le masse. La sceneggiatura venne immediatamente prodotta con due attori famosi come protagonisti, trattava un tema di impegno sociale — i senzatetto o la disoccupazio-ne — che non avevo mai sentito citare da Jocelyn. Fu un gran-de successo; si parlava di lui, venne notato. Anticiparono l’u-scita del suo primo romanzo. Nulla di tutto ciò avrebbe avuto importanza se, in contemporanea, non avessi conosciuto Arabella, la tipica bellezza inglese, abbondante, generosa, calma, uno spasso di ragazza che è ancora oggi mia moglie. Avevo avuto decine di donne prima di lei, dopo di lei nessu-na. Arabella rispondeva a tutti i miei bisogni quanto a sesso, amicizia, avventura e antidoti alla monotonia. Tanta passio-ne non fu comunque sufficiente a interporsi tra Jocelyn e me, o tra me e le mie ambizioni. Tutt’altro. Arabella era per natura esuberante, nient’affatto gelosa, espansiva e Jocelyn

le piacque dal primo momento. A cambiare le cose fu che avemmo un figlio, un maschiet-

to di nome Matt. Arabella e io ci sposammo il giorno del suo primo compleanno. La stanza di Brixton dove abitavo non po-teva ospitarci a lungo. Ci spostammo ancora più a sud, nel profondo dei distretti postali sudoccidentali di Londra, pri-ma SW12, poi SW17. Da lì si arrivava a Charing Cross con un tragitto di venti minuti in treno, che iniziava solo dopo venti-cinque minuti a piedi attraverso la periferia. La mia attività di autore indipendente non era sufficiente a mantenerci. Ri-mediai un incarico di insegnamento part time in un college della zona. Arabella rimase di nuovo incinta, le piacevano le gravidanze. Passai a insegnare a tempo pieno proprio quan-do uscì il mio primo romanzo. Riscosse plausi e qualche debo-le stroncatura. Sei settimane dopo uscì il primo romanzo di Jocelyn, un successo immediato. Pur non avendo venduto molto più di me (all’epoca le vendite contavano ben poco), il suo nome aveva già una certa risonanza. C’era fame di una voce nuova e quella di Jocelyn Tarbet era molto più melodio-sa di quanto potesse mai essere la mia.

*L SUO ASPETTO E LA SUA STATURA (nazista è un parago-ne ingiusto, diciamo un Bruce Chatwin, con il broncio di Mick Jagger), il turbine di fidanzate ragguardevo-li, la MG scassata che guidava, ne alimentarono la re-putazione. Se ero invidioso di lui? Non penso. Ero inna-morato di tre persone, i nostri bimbi mi sembravano creature divine. Tutto ciò che dicevano o facevano mi

intrigava e Arabella continuava ad affascinarmi a sua volta. Ben presto fu incinta di nuovo e ci trasferimmo a nord, a Not-tingham. Con l’impegno dell’insegnamento e la responsabili-tà della famiglia impiegai cinque anni per scrivere il secondo romanzo. Furono lodi, qualcuna in più della volta prima; furo-no stroncature, qualcuna in meno della volta prima. Nessu-no, oltre me, ricordava la volta prima.

Intanto usciva il terzo libro di Jocelyn. Del primo era già stata realizzata la versione cinematografica, con protagoni-sta Julie Christie. Jocelyn aveva un divorzio alle spalle, un ap-partamento in un’ex scuderia di Notting Hill, molte intervi-

ste in tv, molte foto sui rotocalchi. Diceva spiritosaggini e fa-ceva battute feroci sul premier. Stava diventando il portavo-ce della nostra generazione. Ma la cosa stupefacente è che la nostra amicizia non si indebolì. Certo, la frequentazione si fe-ce più intermittente. Eravamo entrambi molto presi nei no-stri rispettivi ambiti. Dovevamo programmare con grande anticipo per riuscire a vederci. Di tanto in tanto Jocelyn veni-va a trovarmi a casa. (Arrivati al quarto figlio ci eravamo spo-stati ancora più a nord, a Durham). Ma in genere ero io che andavo a sud da lui e dalla sua seconda moglie, Joliet. Abita-vano in una grande casa vittoriana a Hampstead, proprio ac-canto all’oasi naturale.

In genere bevevamo, chiacchieravamo e facevamo lun-ghe passeggiate nella natura. Chi ci avesse ascoltato non avrebbe tratto dalle nostre conversazioni alcun indizio del fatto che lui era la star, mentre le mie prospettive di successo letterario stavano scemando. Jocelyn teneva in conto le mie opinioni quanto le sue; non mi trattava mai con sufficienza. Si ricordava addirittura i compleanni dei miei figli. Quando ero ospite a casa sua mi riservava sempre la stanza migliore. Joliet mi accoglieva con trasporto. Jocelyn invitava una serie di amici, all’apparenza tutti vivaci e piacevoli. Preparava pa-sti sontuosi. Lui ed io, come diceva spesso, eravamo «una fa-miglia».

Ma ovviamente c’erano differenze che nessuno dei due po-teva ignorare. Casa mia a Durham era abbastanza accoglien-te, ma gremita di bambini indiavolati, poco spaziosa, fredda d’inverno. Le sedie e i tappeti erano rovinati dal cane e dai due gatti. In cucina si ammassavano i panni sporchi perché c’era la lavatrice. All’aspetto deprimente contribuivano mol-ti arredi in pino rossiccio che non avevamo mai tempo di di-pingere o sostituire. Di rado in casa c’era più di una bottiglia di vino. I bambini erano divertenti ma rumorosi e disordina-ti. Campavamo del mio modesto stipendio e del lavoro part ti-me di Arabella in campo assistenziale. Non avevamo soldi da parte e ci concedevamo pochi lussi. Era difficile in quella casa trovare un posto per leggere un libro. O trovare un libro.

Così era una vacanza dei sensi arrivare a casa di Jocelyn e Joliet per il weekend. La grande libreria, i tavolini che sorreg-

gevano le novità del mese, gli immensi pavimen-ti in parquet di quercia scuro e lucido, quadri, tap-peti, un pianoforte a coda, uno spartito per violi-no su un leggìo, la pila di asciugamani nella mia stanza, la sua meravigliosa doccia, il silenzio adulto che circondava la casa, la sensazione di or-dine e lucentezza che solo una donna di servizio fissa può dare. C’erano un giardino con un vec-chio salice, un patìo in pietra naturale ricoperto di muschio, un grande prato e alte mura di cinta. E, più di ogni altra cosa, in quel luogo regnava un’atmosfera aperta, curiosa, tollerante, scher-zosa. Come potevo starne lontano?

Immagino che dovrei confessare di aver prova-to un qualche senso di avvilimento, un vago disa-gio inespresso. A dire il vero non ne ero turbato più di tanto. Avevo scritto quattro romanzi in quindici anni, un’impresa eroica considerando il carico di insegnamento, il mestiere di padre e la mancanza di spazio. Tutti e quattro erano fuori stampa. Non avevo più un editore. Inviavo sem-pre un’anteprima della mia ultima fatica al mio

vecchio amico, con una dedica affettuosa. Mi ringraziava, ma senza mai pronunciarsi. Sono certo che dai tempi di Brix-ton non aveva più letto nulla di mio. Anche lui mi mandava in anteprima i suoi romanzi. Nove, contro i miei quattro. Gli scrissi lunghe lettere di apprezzamento per i primi due o tre, poi, in nome dell’equilibrio della nostra amicizia, decisi di adeguarmi. Non parlammo né scrivemmo più dei rispettivi li-bri e andava bene così.

$I RITROVAMMO PASSATA la mezza età, sulla cinquantina. Jocelyn era ormai un vanto nazionale e io, beh, non si poteva proprio parlare di insuccesso. Tutti i miei figli era-no andati o andavano all’università, io gio-cavo ancora discretamente a tennis, il mio matrimonio, nonostante qualche scric-

chiolio e due crisi esplosive, reggeva ancora e girava voce che entro l’anno sarei diventato ordinario. Stavo anche scriven-do il mio quinto romanzo, ma non andava granché bene.

E ora arrivo al nocciolo di questa storia, all’oscillazione cru-ciale del saliscendi. Erano i primi di luglio ed ero diretto da Du-rham a Hampstead come facevo spesso subito dopo aver cor-retto le tesi di laurea. Come sempre ero in uno stato di grade-vole spossatezza. Ma non era una visita come le altre. Il gior-no successivo Jocelyn e Joliet andavano a Orvieto per una set-timana e io dovevo badare alla casa, dar da mangiare ai gatti, annaffiare le piante e sfruttare gli spazi e il silenzio per lavora-re alle cinquantotto pagine del mio romanzo ancora informe.

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/ON È UNA NOVITÀ. Nel mondo letterario, per dirla con garbo, nulla si crea e nulla si distrugge, le idee circolano, i progetti vengono discussi, si legge l’opera altrui con un’attenzione selettiva tale da

convincerci che certe idee altrui, appunto, sono mie, tue, sue, a seconda della sensibilità di ciascuno, magari convinto in buona fede di fare un omaggio e non un furto. Ma in realtà “trop d’hommage font un plage”, come si diceva scherzando ai bei tempi. Alcuni, di fronte ai plagi altrui, sorridono, quasi lusingati dal riconoscimento e dalla stima, altri si adontano (non riconoscendo l’implicito omaggio), altri infieriscono per cattivo carattere — perché danni economici, in materia di plagi, ce ne sono pochi, salvo che nel settore musicale.

Dai tempi di Omero, i grandi hanno spesso “copiato” o si sono ispirati a, o si sono fatti copiare, da Shakespeare a Stoppard, dal Mahabharata a Eliot. Se Foscolo etichettò per sempre il povero Vincenzo Monti come “gran traduttor dei traduttor d’Omero” (e si beccò il meno elegante ”Questo è il rosso di pel Foscolo detto”, con relativo invito a guardare la borsa “se ti viene appresso”), la storia della letteratura è piena di episodi di plagio. Un giallo irrisolto (chi ha copiato chi?) è il caso, rievocato da Ugo Cundari, di “I delitti della via Morgue”, riscritto da Dumas in “L’assassinio di Rue Saint-Roch” (o, ipotesi inquietante, viceversa?). E che dire di quando la narrativa si riempie improvvisamente di cloni: tutti vampiri, o tutti mostri, o tutti incestuosi? A quanto pare (ce lo dicono gli esperti del web, macchina insuperabie di plagi, a cui sto attingendo ma non copiando) hanno copiato opere altrui Pirandello e Salgari, Montale e Ungaretti, giusto per restare in Italia ai bei tempi. Recentemente l’accusa ha puntato il dito in Francia su Houellebecq e in Italia su Melania Mazzucco. E accusato di plagio è stato anche Ian McEwan, che in “Espiazione”, il suo romanzo del 2002, avrebbe copiato pagine e pagine di descrizioni della Seconda guerra mondiale scritte da Lucilla Andrews, scomparsa nel 2006, nel suo romanzo (uno di trentatrè) “No Time for Romance”. Secondo alcuni la Andrews si sarebbe limitata a sorridere divertita, anche perché lo scrittore l’ha pubblicamente ringraziata facendo riferimento al suo lavoro. Al punto che “No Time for Romance” è sempre stato suggerito come “recommended companion reading”, come lettura di supporto alla lettura di “Espiazione”.

Britannicamente ironico, McEwan, autore di “Primo amore, ultimi riti” e “Bambini nel tempo”, di “Chesil Beach”, “Amore fatale” e “Sabato”, insomma uno con un certo potenziale fantastico, se la ride. Alle accuse di plagio è abituato da quando, per “Giardino di cemento”, venne additato alla pubblica contumelia per essersi “ispirato” a un romanzo di quindici anni prima, “My Mother’s Garden”. E alle polemiche risponde con questo divertente racconto sul tema del plagio. Concedendosi anche un momento di autoironia: “So da fonte affidabile che lo stesso Amis ha tratto quell’episodio da una serata passata a bere con un altro romanziere che ora mi sfugge, quello con il nome scozzese che però ha l’aria inglese”.

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2UANDO ARRIVAI Jocelyn era fuori a fare commissio-ni e fu Joliet ad accoglier-mi. Era un’esperta di cri-stallografia a raggi x all’Imperial College, una bella donna alta e elegan-te, dalla voce calda e pro-fonda e i modi amichevoli. Ci sedemmo in giardino a prendere il tè e a scambiar-ci le ultime novità. Ma poi

si interruppe e, aggrottando la fronte in modo teatrale, quasi avesse programmato la cosa, mi disse di Jocelyn, di come il lavoro gli stesse creando dei problemi. Aveva terminato la bozza definitiva di un romanzo ed era de-presso. Non era riuscito a essere all’altezza delle sue am-bizioni, perché quel libro doveva essere un’opera im-portante. Era annientato. Pensava di non saperlo mi-gliorare e non riusciva a convincersi a distruggerlo. Era stata Joliet a proporre di andare in vacanza per un bre-ve periodo, a fare escursioni a piedi lungo i sentieri bian-chi e polverosi intorno a Orvieto. Lui aveva bisogno di ri-poso e di prendere le distanze dalle sue pagine. Mentre sedevamo all’ombra dell’enorme salice, sua moglie mi raccontò che Jocelyn era stato molto giù. Si era offerta di leggere il romanzo, ma lui aveva rifiutato, con qual-che ragione, perché lei non è esattamente una persona versata in letteratura.

«Sono certo che saprà metterlo in sesto se riesce a staccare un po’», intervenni in tono brioso quando eb-be finito.

Partirono la mattina dopo. Diedi da mangiare al gat-to, mi feci un altro caffè, poi aprii le mie pagine sulla scrivania della camera degli ospiti. L’immensa, imma-colata dimora era silenziosa. Ma continuavo a ripensa-

re alle parole di Joliet. Sembrava così strano che il mio amico collezionista di successi vivesse una crisi di fidu-cia in se stesso. Ne ero intrigato; in qualche misura addi-rittura rallegrato. Un’ora dopo, senza aver deciso nulla, mi avviai verso lo studio di Jocelyn. Chiuso a chiave. Sempre senza un’idea precostituita raggiunsi la came-ra padronale. Ricordavo dove teneva la marijuana ai tempi di Brixton. Non mi ci volle molto a trovare la chia-ve, in fondo al cassetto dei calzini.

Non ci crederete, ma non avevo un piano. Volevo solo vedere.

Sulla sua scrivania ronzava un’enorme macchina da scrivere elettrica di vecchio tipo, aveva dimenticato di spegnerla. Come tanti nell’ambiente letterario era re-frattario alla videoscrittura. Il dattiloscritto era proprio là, seicento pagine in una pila ordinata, lungo ma non smisurato. Il titolo era *M�UVNVMUP e sotto vidi scritto, a matita, “quinta bozza”, con la data della settimana pri-ma.

Seduto sulla sedia dello studio del mio vecchio amico iniziai a leggere. Due ore dopo, come in trance, mi inter-ruppi, andai in giardino per dieci minuti, poi decisi che dovevo tornare a lavorare alla mia miserabile bozza. Mi ritrovai invece ancora una volta trascinato alla scriva-nia di Jocelyn. Restai in piedi esitante, poi mi sedetti. Lessi tutto il giorno, smisi per cenare, proseguii fino a tardi, mi svegliai presto e terminai all’ora di pranzo.

Era magnifico. Di gran lunga la sua opera migliore. Meglio di qualunque romanzo contemporaneo che ri-

cordassi di aver letto. Se dico che l’ambizione era tolsto-iana, l’esecuzione aveva accenti modernisti, proustia-ni, joyciani. Dava spazio a momenti di gioia e di terribi-le dolore. La sua prosa era più musicale che mai. Sapeva rendere la realtà; ci dava Londra; ci dava il Ventesimo secolo. La caratterizzazione dei personaggi era sconvol-gente. I cinque protagonisti erano talmente veri e in-tensi che mi sembrava di conoscerli da sempre. A volte apparivano persino troppo vicini, troppo reali. Il finale — una cinquantina di pagine — era sinfonico nel suo lento, grandioso procedere, malinconico, sottile, since-ro e io ero in lacrime. Non solo per le vicissitudini dei per-sonaggi, ma per l’intero superbo impianto del roman-zo, la visione dell’amore, del rimorso, del destino e la profonda empatia nei confronti della fragilità umana.

Mi alzai dalla scrivania. Seguii con sguardo assente un usignolo malconcio che saltellava avanti e indietro per il prato in cerca di un verme. Non lo dico a mia dife-sa ma anche in questo caso non avevo programmi. Vive-vo solo il luminoso riflesso di una straordinaria espe-rienza di lettura, la sensazione di profonda gratitudine nota a tutti coloro che amano la letteratura.

)O DETTO CHE NON AVEVO PROGRAMMI,

ma sapevo cosa avrei fatto in seguito. Mi limitai a porre in atto quello che al-tri, forse, avrebbero solo immaginato. Procedevo come uno zombie distan-ziandomi dal mio operato. Mi dicevo anche che stavo solo prendendo pre-

cauzioni, che con tutta probabilità le mie azioni non avrebbero avuto alcun esito. Questo ragionamento fa-ceva da cuscinetto, era una protezione vitale. Ripensan-doci ora, mi chiedo se a indurmi siano state le voci di pla-gio che circolavano su Lee Israel, il 1JFSSF�.FOBSE di Bor-ges o�4F�VOB�OPUUF�EJ�JOWFSOP�VO�WJBHHJBUPSF�di Calvino. Oppure l’episodio di un romanzo letto l’anno prima, -�JOGPSNB[JPOF di Martin Amis. So da fonte affidabile che lo stesso Amis ha tratto quell’episodio da una sera-

ta passata a bere con un altro romanziere che ora mi sfugge, quello col nome scozzese che però ha l’aria in-glese. Mi hanno detto che i due amici si erano divertiti a immaginare tutti i modi possibili in cui uno scrittore può rovinare la vita a un collega. Le cose in questo caso sono andate diversamente. Può sembrare improbabile, dato il seguito, ma quella mattina non avevo intenzio-ne di danneggiare Jocelyn in alcun modo. Pensavo solo a me stesso. Avevo delle ambizioni.

Portai i fogli in cucina e li infilai in una busta di plasti-ca. Presi un taxi e andai al capo opposto di Londra in una strada appartata, in cui sapevo si trovava una copi-steria. Tornai indietro, rimisi l’originale sulla scrivania di Jocelyn, chiusi a chiave lo studio, cancellai le mie im-pronte dalla chiave, la rimisi nel cassetto dei calzini.

Tornato nella stanza degli ospiti, presi dalla mia bor-sa un quaderno intonso — me li regalano sempre a Na-tale — e mi misi al lavoro, seriamente. Iniziai a stende-re annotazioni per il romanzo che avevo appena letto. Retrodatai la prima voce di due anni. Mi allontanai in-tenzionalmente dal soggetto varie volte, seguii idee di-verse, per poi tornare sempre al filo conduttore della storia. Scrissi di buona lena per tre giorni, riempii due quaderni, abbozzai episodi. Trovai nuovi nomi per i per-sonaggi, cambiai certi aspetti del loro passato, dell’am-biente circostante, i dettagli dei volti. Riuscii a inserire qualche tema minore tratto dai miei romanzi preceden-ti. Arrivai persino a citare me stesso. Pensavo che New York potesse fare le veci di Londra. Poi mi resi conto che

non sarei mai stato in grado di far vivere una città al pa-ri di Jocelyn, così tornai a Londra. Lavoravo sodo e ini-ziavo a pensare di essere davvero creativo. Quello, do-po tutto, sarebbe stato il mio romanzo quanto il suo.

Nel resto della mia permanenza scrissi a macchina i primi tre capitoli. Qualche ora prima del loro previsto rientro lasciai a Jocelyn e Joliet un messaggio in cui spie-gavo che dovevo tornare al nord per una riunione della commissione d’esame. Penserete che sia stato un codar-do, che non sia riuscito a guardare in faccia l’uomo che stavo derubando. Ma non è così. Volevo andar via e con-tinuare a lavorare. Avevo già ventimila parole e il desi-derio disperato di proseguire.

Una volta a casa dissi ad Arabella la verità, ossia che la settimana era andata benissimo e che lavoravo su una cosa importante. Volevo passare le vacanze estive a svilupparla. Lavorai per tutto il resto del mese di lu-glio. A metà agosto stampai la mia prima bozza e in giar-dino feci un falò della fotocopia. Appuntai un gran nu-mero di correzioni sui fogli, le inserii nel dattiloscritto e all’inizio di settembre la nuova versione era pronta. Di-ciamo la verità, era ancora il romanzo di Jocelyn. Avevo lasciato intatti certi suoi passi geniali, ma c’era abba-stanza di mio da consentirmi di provare l’orgoglio del possesso. Avevo sparso sulle pagine la mia identità in polvere. Avevo persino introdotto un riferimento al mio primo romanzo, uno dei personaggi lo legge in spiaggia.

Il mio editore, con «profondo rammarico» mi aveva congedato in occasione di uno dei feroci repulisti della cosiddetta “media tiratura”. Non avevo vincoli contrat-tuali. Invece che autopubblicarmi su internet scelsi di uscire per la Gorgeous Books, una casa editrice a paga-mento di vecchio stampo. Le cose procedettero con al-larmante rapidità. Nell’arco di una settimana avevo tra le mani l’anteprima de *M�CBMMP�SJGJVUBUP. Aveva la coper-tina violetta, con le lettere dorate in rilievo in carattere ornato e la carta lievemente profumata. Firmai una co-pia e la spedii per raccomandata al mio caro amico. Sa-pevo che non l’avrebbe mai letta.

Tutto questo ebbe luogo prima che riprendessi l’inse-gnamento, a fine settembre. In autunno nel tempo libe-ro spedii il libro agli amici, alle librerie, ai giornali, ba-dando sempre di accludere un bigliettino speranzoso. Affidai alcune copie ai negozi solidali, con l’intento di farle circolare in sordina. Le inserii tra gli scaffali delle li-brerie dell’usato. Seppi da Jocelyn per email che aveva messo da parte *M�UVNVMUP e stava lavorando a un nuovo testo. Sapevo che ormai non dovevo far altro che aspet-tare — e sperare.

1ASSARONO DUE ANNI. Facevo le mie solite visite a Hampstead e evitavamo, come di consueto, di parlare di lavoro. In quel periodo non udii nessuno pronunciarsi su�*M�CBMMP�SJGJVUBUP, a parte mia moglie. Arabella ne fu folgorata ed era indigna-ta e poi furiosa che fosse ignorato. Mi

disse che il mio amico famoso doveva fare qualcosa per aiutarmi. Le risposi pacatamente che non glielo chiede-vo per una questione di amor proprio. Nelle mie punta-te a Londra distribuii altre copie de *M�CBMMP�nelle librerie di seconda mano. Per Natale ne erano in circolazione cir-ca quattrocento.

Passarono tre anni tra l’uscita de�*M�CBMMP�SJGJVUBUP e quella de *M�UVNVMUP. Come mi ero aspettato gli amici avevano detto a Jocelyn che aveva scritto la sua opera migliore e che doveva pubblicarla. Quando il libro uscì la stampa, come avevo previsto, fu tutta un cinguettìo di voci flautate in estasi. Non mi feci avanti, in caso il processo che avevo messo in moto prendesse il via spon-taneamente. Ma siccome nessuno aveva letto la mia versione profumata, non poteva accadere nulla. Fui ob-bligato a dare una spinta al destino. Inviai la mia crea-zione in busta anonima a un critico severo e pettegolo del -POEPO�&WFOJOH�4UBOEBSE. Il mio biglietto, non fir-mato, diceva in carattere Courier 16, «Non le ricorda un romanzo di grande successo uscito il mese scorso?».

Il resto in gran parte lo conoscerete. Era la storia per-fetta. Una violenta tempesta si abbatté su casa mia e quella di Jocelyn. Tutti gli ingredienti giusti. Un misera-bile infame, un eroe silenzioso. Un vanto nazionale but-tato giù dal piedistallo, mani disoneste affondate nel sacco, un vecchio amico caduto in miseria, tradito, inte-ri brani plagiati, plagiato tutto l’impianto del romanzo, i personaggi, nessuna spiegazione plausibile fornita dal colpevole, gli amici ora ne comprendono la riluttan-za a pubblicare, decine di migliaia di copie de *M�UVNVMUP�ritirate dalla vendita e mandate al macero. E il vecchio amico? Animo nobile, si rifiuta di condannare, non con-

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cede interviste — e, ovviamente, la scoperta di un ge-nio, il miglior libro da anni a questa parte, un classico dei nostri giorni, un uomo mite amato dai suoi studenti e dai colleghi, scaricato dal suo editore, titoli fuori cata-logo. Poi la lotta ad accaparrarsi i diritti, tutti i diritti, dei romanzi precedenti e del #BMMP, intervento di agenti e aste, coinvolti diritti cinematografici e cineasti. Poi i premi — Booker, Whitbread, Medici, Critics Circle, in un unico lungo chiassoso banchetto. Copie dell’edizio-ne Gorgeous vendute a cinquemila sterline su Abe-Books. Poi, placatosi il polverone, e con il mio libro anco-ra “in volo”, ponderosi articoli sulla natura della clepto-mania letteraria, sulla strana pulsione a farsi scoprire e sugli atti di autodistruzione artistica nella tarda mezza età.

Per email e per telefono fui freddo con Jocelyn. Face-vo l’offeso, lasciando intendere di voler rompere i rap-porti, almeno temporaneamente. Quando mi disse che era stupefatto, mi schiarii la voce e, dopo un breve silen-zio, gli rammentai la copia del romanzo che gli avevo in-viato. Come avrebbe potuto succedere altrimenti? Rila-sciai infine un’unica intervista a una rivista california-na che divenne la versione ufficiale dei fatti, ripresa dal resto della stampa. Consentii al giornalista di esamina-re i miei quaderni di appunti, le lettere di rifiuto, le co-pie dei biglietti speranzosi che allegavo alle mie edizio-ni violette. Vide in che situazione di sovraffollamento vi-vevo, conobbe la mia gioconda e fascinosa consorte, i miei figli simpatici. Scrisse della mia dedizione alla cau-sa superiore della mia arte, della silenziosa riluttanza ad accusare un vecchio amico, di come mi ero abbassa-to senza lamentarmi a pubblicare a pagamento, della ri-scoperta di splendide opere precedenti, una vicenda pa-ragonabile al fenomeno John William. Per gentile con-cessione del settimanale americano fui santificato.

/ELLA MIA VITA PRIVATA, tutto si è svolto come da copione. Abbiamo finito per comprare una grande casa antica ai margini di un paesino a tre miglia da Durham. Sui terreni circostanti scorre un fiume maestoso. Al mio sessantesi-mo compleanno avevo due nipotini in

arrivo. L’anno prima avevo accettato la nomina a Cava-liere. Sono ancora santo, un santo esageratamente ric-co e sto per diventare un vanto nazionale. Il mio sesto ro-manzo non ha avuto recensioni molto positive ma le vendite sono a livello della Rowling. Penso che potrei smettere di scrivere. Non credo che a nessuno importe-rebbe.

E Jocelyn? Un destino altrettanto prevedibile. Nessu-no in editoria lo sfiorerebbe più e neppure i lettori. Ha venduto la casa, si è trasferito a Brixton, il nostro vec-chio posto, dove, dice, si sente più a suo agio. Tiene lezio-ni serali di scrittura creativa a Lewisham. Mi fa piacere che Joliet sia rimasta con lui. E tra noi non ci sono proble-mi. Restiamo uniti. L’ho perdonato completamente. Spesso viene a trovarci e gli riserviamo sempre la stan-za migliore, con vista sul fiume, dove ama pescare le tro-te e remare per chilometri. A volte Joliet lo accompa-gna. Gli sono simpatici i nostri vecchi amici dell’univer-sità, persone gentili e tolleranti. Spesso prepara da mangiare per tutti. Credo che mi sia grato perché ho la-sciato cadere ogni sospetto che abbia mai sfogliato quell’edizione violetta e profumata.

A volte, la sera tardi, quando lui ed io, seduti a bere davanti al fuoco (il camino è immenso), riesaminiamo questo curioso episodio, questo disastro, mi ripete la teoria che ha messo a punto nel tempo. Le nostre vite, dice, sono state sempre intrecciate. Parlavamo miglia-ia di volte di ogni cosa, leggevamo gli stessi libri, abbia-mo vissuto e condiviso così tanto che in qualche strano modo i nostri pensieri, l’immaginario, si sono fusi al punto che abbiamo finito per scrivere lo stesso roman-zo, più o meno.

Con una buona bottiglia di Pomerol attraverso la stanza per riempirgli il bicchiere vuoto. È solo una teo-ria, gli dico, ma in buona fede, un’ipotesi benevola che esalta l’essenza stessa della nostra lunga, inossidabile amicizia. Siamo una famiglia.

Leviamo i calici. Salute!

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2UELLA VOLTA, PENSAI DI AVER CAPITO QUALCOSA: fu il pomeriggio in cui Amena mi raccontò il suo segreto. Amena lavorava dieci, dodici ore al giorno, tutti i giorni, in un laboratorio tes-sile di Dacca, la capitale del Bangladesh, e non sempre riusciva a dar da mangiare ai suoi tre figli. Così, quando non aveva niente, faceva ricorso a una piccola messa in scena: accen-deva un fuoco, metteva a bollire dell’acqua, e ci metteva qualcosa, un sasso, un ramo. Men-tre rimestava nella casseruola, diceva ai figli di farsi un sonnellino, che li avrebbe avvertiti lei quando fosse pronto. I bambini, mi diceva Amena, si calmavano e, in genere, dormiva-no fino al mattino seguente.

Viviamo tempi balordi; non sappiamo bene che cosa desiderare, il mondo ci sembra osti-le, minaccioso. Temiamo il futuro, e non troviamo nessun motivo per coltivare delle illusio-ni. A parte, naturalmente, quei progressi della tecnica che ci spaventano per il disastro del nostro pianeta ma ci promettono di vivere centocinquanta anni, rafforzando l’illusione

che le cose accadano ovunque e in nessun luogo e che possiamo vivere sempre più lontani dai nostri corpi. E, per consolar-ci, il calcio, le serie televisive, il cibo — sempre più lontano dai nostri corpi.

Viviamo nell’Era del Cibo. Il cibo non aveva mai occupato un posto così grande nella nostra vita; il business del cibo non aveva mai prodotto tanti soldi; non c’è mai stato tanto cibo. Non c’è mai stato tanto cibo non mangiato. Non lo dico solo per lo spreco — enorme — delle nostre società, dove più di un terzo degli alimenti finisce nella spazzatura; lo dico so-prattutto per questa nuova caratteristica del cibo, trasfor-mato in spettacolo. È affascinante vedere come il mangia-re, questo esercizio quotidiano, ripetuto, con il quale fornia-mo energia e piacere ai nostri corpi, sia diventato soprattut-to qualcosa che non si mangia: si legge, si guarda, si ascolta, si immagina, si registra, si ricorda. Il mangiare, la cosa più materiale, più intima, è entrato nella logica dello spettacolo o della masturbazione. È un sintomo: passiamo ore a guar-dare da lontano ciò che prima toccavamo, annusavamo, in-ghiottivamo. Forse era la trasformazione necessaria per tra-sformare la gastronomia nell’arte del momento. Non è diffi-cile: non è cara, non richiede educazione, crediamo di esse-re in grado di capirla e perfino di goderne. È una cosa nuova, in ogni caso: il cibo è sempre stato importante, ma, in gene-re, ciò che contava era mangiarlo. Adesso no. È come se noi,

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dispeptici abitanti dei paesi più ricchi, volessimo riprodur-re il rapporto con il cibo che hanno i denutriti dei paesi più poveri: un rapporto il cui punto centrale è non mangiare.

È l’elemento più caricaturale dell’Era del Cibo, che è costi-tuita anche da una certa idea della patria. Di che cosa è fatta la patria, ultimamente? Di una lingua, di certi colori, del gri-do di un gol? Quando non c’è molto di cui vantarsi, con cui rappresentare una nazione, il cibo sa rivestire questa fun-zione: definire caratteristiche nazionali, produrre orgoglio patriottico facile. E dà un’idea di classe, di illusoria ascesa so-ciale: essere capace di degustare, sia pure senza il gusto, ciò che mangiavano solo i più ricchi ti fa partecipe, in modo im-maginario, della loro cerchia. Dà anche un’idea di conserva-zione: il ritorno alle agricolture “bio”, ai cibi tradizionali, of-fre il nuovo privilegio di schivare la valanga industriale che produce cibo a buon mercato. Mangiare “come prima” è mangiare come ai tempi in cui tanti mangiavano tanto po-co, perché quei sistemi di produzione tradizionale, purtrop-po, producevano meno di quelli attuali — e per questo, anco-ra oggi, si pagano molto più cari.

Il cambiamento nelle tecniche agricole ha prodotto il più grande cambiamento storico, un cambiamento che la sto-ria stessa sembra non registrare ancora: per la prima volta, l’umanità è capace di sfamare tutti i suoi abitanti. Questo non significa che lo faccia: no, quelle tecniche continuano ad essere sequestrate per il guadagno di pochi. Al giorno d’oggi, il mondo potrebbe nutrire dodici miliardi di perso-ne; siamo 7,3 miliardi e, tuttavia, più di ottocento milioni di persone soffrono di denutrizione. Il segretario generale del-le Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha affermato che nove milio-ni di persone muoiono ogni anno per cause inerenti la fame. Nove milioni l’anno, ovvero venticinquemila al giorno, più di mille ogni ora che passa. Uno solo sarebbe già troppo.

Il vantaggio, per noi, è che capita ad altri, sempre ad al-tri: l’affamato non è mai tuo cugino, o il tuo vicino. Per que-sto è più facile che funzioni il trucco che sostiene tutto il mec-canismo: convincerti del fatto che il modo in cui noi mangia-

mo, il nostro modo di vivere l’Era del Cibo, non c’entra nulla con il fatto che loro non mangino.

Convincerti che la fame di quelle centinaia di milioni di persone non è il prodotto di un sistema di produzione e com-mercializzazione degli alimenti rivolto ai paesi ricchi — an-che se questo comporta affamare i poveri. Un sistema di pro-duzione globale volto a massimizzare il profitto di chi ne è proprietario — non a fornire ad ognuno ciò di cui ha biso-gno. La fame ha tante cause, ma la povertà non è una di es-se. La povertà è la cornice; la causa principale della fame è la ricchezza — di pochi, la nostra.

Un esempio schematico, per capirci: sappiamo che per produrre una proteina animale sono necessarie dieci protei-ne vegetali. Se uno raccoglie dieci chili di cereali, può ven-derli a dieci persone, che ne mangeranno un chilo a testa, o a un allevamento, che li darà alla mucca e a sua volta vende-rà il chilo di carne che ne verrà a una o due persone, in grado di pagarla: così — con un’altra complessità, su un’altra sca-la — si concentra la ricchezza alimentare. E ci sono i grandi sussidi che fanno sì che i produttori dei paesi ricchi possano vendere a prezzi talmente bassi da impedire ai produttori dei paesi poveri di competere, e quindi falliscono. E le gran-di corporazioni che speculano sui prezzi delle materie pri-me alimentari e fanno sì che milioni di persone non possano più pagare il loro pane o il loro riso. E le enormi quantità di terre dell’Altro Mondo — Africa, Asia, America Latina — che sono destinate a coltivazioni che si venderanno solo nei nostri supermercati e che restano fuori dal mercato locale. E poi gli usi della fame: milioni di persone che lavorano per salari infimi, perché l’unica alternativa sarebbe patire una fame ancora più grande e producono, per esempio, come Amena, quelle camicie così belle ed economiche che amia-mo tanto comprarci. Non ci importa: perché dovrebbe im-portarci? In fin dei conti, non è un problema nostro.

Ho avuto la debolezza di credere che lo sia, e ho trascorso alcuni anni viaggiando in alcuni di questi luoghi per raccon-tare le storie di alcune di quelle persone. Ne ho ascoltate cen-

tinaia, che mi hanno detto come sia vivere in quel modo che non possiamo nemmeno immaginare. E credo che sia co-minciato tutto quel mattino in cui mi sedetti con Aisha da-vanti alla sua baracca, sotto il sole, in un villaggio del Niger.

Fu più di dieci anni fa: Aisha, una trentina d’anni, quat-tro figli, mi raccontava che il suo cibo consisteva in una pal-la di farina di miglio impastata per ore con acqua e, quando capitava, con qualche foglia di baobab per dargli un po’ di sapore. Io allora — degno rappresentante dell’Era del Cibo e delle sue conoscenze — le chiesi preoccupato se non va-riasse mai la sua alimentazione, se mangiava sempre la stessa cosa e lei mi rispose di sì, certo, quando poteva. Mi sentii uno stupido. E poco dopo, per sottolineare la mia stu-pidità, mi venne in mente di chiederle che cosa avrebbe chiesto a un mago che potesse esaudire qualsiasi desiderio e lei mi rispose una mucca. E mi spiegò: con una mucca avrebbe potuto aggiungere del latte alla sua palla di miglio e dare qualcosa di più ai suoi figli e perfino, se le avanzava, fare delle ciambelle da vendere sulla piazza del paese. Sem-brava così poco; le chiesi se non avrebbe voluto chiedergli di più, dato che il mago poteva darle qualsiasi cosa. Mi chiese se poteva darle davvero qualsiasi cosa e io le dissi di sì, an-che se era un gioco, purtroppo era un gioco, e lei mi disse in un sussurro: due mucche. E io ci rimasi così male, perché pensavo a quanto è terribile la miseria, che ti impedisce per-fino di desiderare qualcosa che vada oltre il bisogno più im-mediato, e provai pena e rabbia e decisi allora, credo, di scri-vere quel libro. E lo scrissi, e raccontai molte volte la storia di Aisha, e ci misi anni a scoprire che siamo tutti Aisha: per-ché non siamo capaci nemmeno di desiderare qualcosa sul serio, di desiderare qualcosa che vada al di là di due muc-che: un mondo senza affamati, per esempio, un mondo do-ve non vergognarsi di vivere. Un mondo in cui l’Era del Cibo potesse significare che, finalmente, tutti hanno del cibo da mangiare ogni giorno.

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PORTO DI LIVORNO, FEBBRAIO DELL’ANNO 1800

"PPENA CALÒ LA NOTTE SCOPPIÒ L’URAGANO. Il vento fischiava lun-ghe folate di schiuma nell’acqua del porto. Una raffica di gran-dine infilò la banchina e investì l’unica, immobile anima viva in quella tempesta, ritta in piedi sul parapetto. Un giovanottel-lo secco e sparuto che indossava una marsina striminzita e zup-pa e stringeva tra le braccia uno squadrato pietrone. Non era difficile presagire che stesse per mettere in atto un gesto insa-no. Già pencolava in avanti, verso le onde tenebrose, quando quella raffica di grandine l’aggredì ancora, ed egli fu costretto a voltarsi per evitare i chicchi in pieno viso. Fu così che il suo sguardo andò a infiggersi sulla dondolante lanterna di un’oste-ria. Quella vista riaccese nello sguardo stravolto un debole bar-

lume di speranza. Il giovanottello scese dal parapetto. Raggiunse la soglia dell’Osteria e pose la mano sulla maniglia. Da dentro esplose una vociaccia livornese: «Chiudi la porta!».

Il giovanottello aprì il battente replicando: «Me la faccia almeno aprire».L’oste, tarchiato, con la parannanza bisunta e il tovagliolo buttato sulla spalla, guarda con

ostilità il nuovo arrivato.«Non hai un soldo» stabilisce.Il giovanottello annuisce: «Complimenti. Un uomo della sua acutezza è davve-

ro sprecato a fare l’oste». Ha un colpo di tosse cavernoso, e viene avanti pi-sciolando acqua.

«Signor oste, volevo appunto chiederle qualcosina di caldo da man-dar giù, che pagherei non appena potrò, sul mio onore. In pegno po-trei darle il mio cappello a cilindro. Oppure scelga qualcos’altro di mio».

«Tu non possiedi nulla che valga il meno che potrei darti» dice l’oste.

Il giovanottello sbatte le palpebre: «Sicché?…».«Sicché nulla» precisa l’oste.«Un uomo è un uomo! Valgo me stesso, son dunque me-

no d’una minestra?».«Sì», dice l’oste «dal momento che tu hai bisogno d’una

minestra e la minestra non ha bisogno di te». «In nome di Dio! La mia vita è appesa a un filo! Lei co-

sa fa? Lo taglia?».

«Sei te che devi tagliare. Quello è l’uscio. Chiudilo ed esci».

Sospinto oltre che dalla ruvida manona dell’oste, da un abbattimento totale, il giova-nottello si avvìa col mento sul petto e non si avvede, come non se n’è avvisto fin qui, che dall’angolo più lontano dell’osteria è osserva-to dall’unico avventore del locale. Un grande, vecchio viso bianco e rotondo, immerso nel piccolo bagliore della candela, che fa brillare certi suoi occhialetti verdi e dà barbagli di ru-bino al vino nel bicchiere.

La porta dell’osteria sbatacchia alle spalle del giovanottello, il quale sta per muovere un passo nella pioggia, quando la porta si riapre e balugina il viso dell’oste.

«Signorino?». La sua voce è ingentilita. «Prego, si accomodi. Monsieur Bernardino l’ha invitata a desinare». Con riguardo alza il dito a indicare quell’unico avventore dagli oc-chialetti verdi, e dal faccione pallido, seduto nell’angolo in fondo, al tavolo presso il cami-netto scoppiettante.

«Vuole accomodarsi al mio tavolo, se le pia-

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ce?». Monsieur Bernardino ha una voce lieve e calda. Il suo accento è decisamente france-se. Il giovanottello non se lo fa ripetere. Men-tre l’acqua piovana gli scola sotto il sedile, il si-gnore gli chiede di domandare all’oste quel che desidera.

***

Il giovanottello mangia, tracanna, ripuli-sce i piatti con un gran pezzo di schiacciata ar-rotolata. Il suo benefattore lo guarda con oc-chi compiaciuti dietro le piccole lenti verdi. «Non ho parole per ringraziarla, signor…».

«Bernardin de Livron, mercante in Livor-no».

Il giovanottello piega il capo con finezza, quindi dichiara: «Mi chiamo Niccolò Pagani-ni».

«Artista» dice Monsieur Bernardin.Che acume! Niccolò è deliziato dalla com-

pagnia finalmente di un gentiluomo; la mise-ria ti costringe per solito a scambi con gen-

te alquanto torba. «Sì, sono un artista, compongo musica. Suono il violino, e al-tri strumenti… Ma il violino, ah, signor mio, il violino sopra tutti!».

Monsieur Bernardin si compiace, ma repentinamente Niccolò si è rat-tristato.

«Non l’ho più il mio violino. Perso al gioco della zecchinetta. Del resto non era un gran violino. Pure, nelle

mie mani cantava, piangeva e rideva! Come uno “Stradivario”, che dico, co-

me un “Guarneri”! Con esso ho perduto tutte le mie speranze. Non potrò nemme-

no diplomarmi al Conservatorio».Monsieur Bernardin ha ordinato altri

due poncini e intanto Niccolò narra che a soli tredici anni compose delle “varia-zioni” alla chanson rivoluzionaria -B�$BSNBHOPMB.

«Ma, ahimè, mio padre m’impone-va obblighi di studio assai duri, chiu-so a chiave per giorni senza mangia-re» si duole Niccolò. «Il padre mio era imballatore al porto di Genova. Col blocco navale dei francesi ci trasferim-mo a Livorno. Poi, quando lui tornò a Ge-

nova, io rimasi, stufo di liti, botte e fame. La fame però è rimasta».

Il signor Bernardino ha ascoltato il gio-vane con quella sua espressione gentile e gra-ve a un tempo. Davvero ora lampeggiano i suoi occhialetti verdi, guardate un po’. E a proposito delle sue curiose particolarità, nota-te che egli ha i piedi praticamente ficcati tra le fiamme, eppure né pigliano fuoco le suole delle scarpe, né egli sembra patire il brucio-re?

Dalle due nere figure in conversazione davanti al caminetto si diparte una so-la ombra, quella del giovanotto. E quel-la di Monsieur Bernardin? Non c’è. Pos-sibile?

Neppure la luna riesce a disegnare un pez-zetto d’ombra dietro Monsieur Bernardin. Il singolare gentiluomo e Niccolò adesso si van-no accompagnando lungo una stradina del porto. Il gentiluomo porta, oltre al bastone, una grossa borsa da viaggio. Niccolò sta conti-nuando a schiamazzare contro la cattiva stel-la dei giovani artisti. L’ineffabile messere ten-ta di consolarlo augurandogli, anzi preconiz-zandogli, una rapida e brillante carriera. Nic-colò ribatte: e quale carriera; che non possie-de più neppure il violino? Monsieur Bernar-din si ferma. Due piccole lune brillano negli occhialetti verdi: «Vi prego, signor Niccolò, di lasciare che vi faccia una proposizione».

Il gentiluomo ha cavato dalla sacca da viag-gio un inaspettato astuccio. Lo apre, contiene un violino col suo archetto. «È un “Guarneri del Gesù”. L’ultimo costruito da Giuseppe, co-lui che si firmava… come si firmava?».

Niccolò sta guardando lo strumento a boc-ca aperta. «Si firmava “IHS”».

«Tre bene» approva Monsieur Bernardin. «Sbirci nell’interiore, io la ne prego».

Niccolò si protende: «Ma allora questo è il violino chiamato Il Cannone, per la sua inau-dita potenza!».

Niccolò rigira commosso quel leggendario strumento fra le mani, lo liscia, l’annusa. Il suono dello strumento è decisamente pro-rompente, e quella del giovane violinista è un’abilità trascinante.

«Voi avete molto merito, mio giovane! E lo strumento ne ha così anche! Ma tale violino ha un altro merito ancora e molto segreto, che io sto per dirvi. Voi, dunque, non volete patire sacrifici per guadagnare il vostro suc-cesso? Ebbene, con tale violino voi potrete ot-tenere questo».

«Non giurerei, signore caro, d’aver capito quanto andate dicendo».

Il gentiluomo spiega accuratamente: «Il liutaio Giuseppe Guarneri fu in galera accusa-to di omicidio. Lì costruì questo strumento in-tridendolo di una particolarità sua propria as-sai unica, quella di far balzare il tempo, così da accorciare gli anni suoi di prigionia… Con-tentatevi di sapere che se voi vorrete far com-piere alla vita balzi innanzi, ebbene voi ese-guirete con molta attenzione le note che io adesso vi farò sentire».

Il gentiluomo prende ad eseguire una sfil-za di tredici note, aguzze e quasi dissonanti, come un lungo spiacevole brivido di spilli di ghiaccio. Quindi restituisce il violino al giova-notto: «Provate».

«Credo d’aver capito soltanto che lei mi vuol far dono di questo violino e…».

«Oh, non “far dono”!» interrompe il genti-luomo. «Voi pagherete il violino, non adesso, più in là, un giorno. Ora dovete solamente suonare le Tredici note. Le ricordate?».

Niccolò riprende il violino. Poggia con cau-tela l’archetto sulle corde: ed ecco levarsi quelle note penetranti ed aspre…

In quel punto si apre una finestra lì sopra, e spiove una voce catarrosa: «Basta con code-sta sminfa, fannulloni! Qui ci s’alza presto per andare a lavorare!».

Alla voce fa seguito una gran catinellata d’acqua ghiaccia che investe Niccolò dalla te-sta ai piedi mozzandogli il fiato, fermandogli il cuore, bloccandogli il tempo e la memoria.

***

… Niccolò ripiglia coscienza, si direbbe su-bito, in un momento. E invece ha riaperto gli occhi in una gran luce, e le sue orecchie sono investite da un fragoroso applauso.

«Dove mi trovo?» si chiede.Con la destra tiene il manico del violino pro-

digioso, nella sinistra ha l’archetto ed è chino in avanti, nell’atto di ringraziare la platea di allievi e maestri del Conservatorio che hanno ascoltato con entusiasmo il suo saggio di di-ploma. Bravo, benissimo, straordinario, que-sto ragazzo farà molto parlare di sé!

Egli si sente al culmine del benessere, pur se totalmente smemorato. Muove veloce ver-so il fondo del piccolo palcoscenico con le co-de del frac che gli svolazzano dietro. Ma gli ap-plausi non cessano. «Bis, bis, bis!».

4ARÀ BENE CHIARIRE CHE 4UPSJB�NF�SBWJHMJPTB �EJ �/JDDPMÛ � 1BHBOJOJ non è il testo per un biopic. Piutto-sto trova ispirazione dalle parti di certi racconti fantastici di Hoff-

mann, del 1FUFS�4DIMFNJM�di Chamisso, della 1FMMF�EJ�[JHSJOP�di Balzac. Il tutto con tono pa-rodistico e all’italiana, come è italiano l’altro inarrivabile modello, 1JOPDDIJP. Una comme-dia storico-fantastica all’italiana, dunque? Diciamo che si porta dietro la drammaticità esistenziale e la comicità aguzza del cinema di cui sono stati maestri Furio Scarpelli e Ma-rio Monicelli (che avrebbe dovuto realizzar-ne il film). Una storia, fino a oggi inedita, scritta nel 1986 sotto forma di trattamento, alla cui stesura il sottoscritto ebbe la fortuna di collaborare. In realtà, poiché è sicuramen-te il passaggio più letterario delle varie fasi della stesura di un copione, possiamo arri-schiarci a chiamarlo novella.

I film di Age-Scarpelli-Monicelli racconta-vano per lo più di disgraziati e diseredati alla ricerca di una vita migliore, pronti a imbar-carsi per una grande impresa tutti insieme: da *�TPMJUJ�JHOPUJ (1958) a�-�"SNBUB�#SBODB�MFPOF�(1966). Erano animati da rigore etico, attenzione per la realtà, simpatia umana ver-so gli umili. La guerra aveva azzerato tutto e l’intellettuale si era ritrovato allo stesso livel-lo dell’uomo comune e per questo era in gra-do di avvertirne i palpiti intimi. Si scrivevano copioni e si giravano i film mantenendosi un passo indietro rispetto ai personaggi e atte-nendosi al magistero di Sergio Amidei, lo sce-neggiatore di Rossellini che aveva traghetta-to il cinema dal neorealismo alla commedia all’italiana. Un autore deve dare a intendere di non essere mai esistito, proclamava Flau-bert, è tutto nelle proprie opere. E i nostri avevano digerito questo principio. Basti pen-sare che nei titoli Age aveva rinunciato al proprio nome e cognome (Agenore Incroc-ci), mio padre al nome (Furio) e Monicelli pretendeva la dicitura “regia di”, rifiutando quella di “un film di”, oggi irrinunciabile an-che per l’ultimo esordiente.

Di tutto ciò, il sottoscritto nel lontano 1986 era consapevole poco o nulla, e nondi-meno si dedicava con adesione fervida al pro-getto paganiniano. Fu per sperimentare il racconto di un’avventura completamente in-dividuale che Furio e Mario si accinsero al progetto, e io a ruota. Il lettore si sarà chie-sto: e Age? Era cominciata la stagione senza Age, la coppia Age & Scarpelli si era separa-ta da qualche po’. E così, per me che da quan-do avevo dodici anni battevo alla macchina da scrivere i loro copioni, fu la prima volta che il mio nome apparve accanto, anzi sotto quello di papà. Monicelli leggeva, si docu-mentava, avanzava suggestioni: non parteci-pò alla scrittura effettiva del /JDDPMÛ�1BHBOJ�OJ, ma il suo apporto creativo fu consistente.

Quali sarebbero stati i possibili attori del film? Quando si scrive una storia bisognereb-be sottrarsi a questa tentazione, ma durante un pranzo o una cena in trattoria, davanti a una scodella di pasta e lenticchie o a un piat-to di stufatino, qualche nome saltò fuori. Ma-rio già prendeva in considerazione per la sce-na di Rossini a Parigi, il viso intenso, da intel-lettuale domestico, di Noiret. Mio padre rite-neva che la soffice contessa Dida dei Palle-schi, così tenera e possessiva nei confronti del giovane Niccolò, sarebbe stato un ruolo adatto per Stefania Sandrelli. L’ineffabile, faustiano, Monsieur Bernardin dagli occhiali turchini, sarebbe stato egregiamente incar-nato da Bernard Blier, attore dal formidabile doppio registro, comico e drammatico.

Il film poi non si fece, per nessun motivo particolare che io ricordi. Succedeva. Gli au-tori collaudati non se ne dispiacquero, avreb-bero scritto altre storie, avrebbero realizza-to altri film. Io invece me ne dispiacqui, ecco-me. Me ne rammarico ancora oggi, non sol-tanto perché ne sarebbe venuto qualcosa di bello e di nuovo, ma perché fu l’ultima occa-sione in cui Furio e Mario lavorarono insie-me.

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Autostima

Gli effetti da uso frequente

Competenze tradizionali

Multitasking

Competenze interpersonali dal vivo

Senso di autonomia

Empatia

Senso di potere individuale

Continuità nell'attenzione

Disponibilità al cambiamento

Positivi

Fonte: Semel Institute, UCLA University

Negativi

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/ICHOLAS CARR HA po-sto una domanda estremamente intel-ligente: Google ci renderà stupidi? I suoi libri hanno avu-to una grande diffu-

sione e per la prima volta in America una grande quantità di persone si è in-terrogata sulla possibilità concreta che il nostro modo di pensare e di esse-re venga radicalmente modificato dal-la rete e dall’ipertesto. La cattiva noti-zia di cui lo studioso si è fatto amba-sciatore è questa: «Sì, effettivamente Google ci rende stupidi». Carr lo ha sco-perto basandosi sul fatto che, più o me-no all’età di quarant’anni, non aveva più la pazienza di leggere un libro. E anziché attribuire la colpa alla man-canza di tempo, all’eccesso di impegni o alla stanchezza dopo il lavoro, ha in-dividuato il problema nella rete. Su In-ternet, infatti, si salta da una parte all’altra, con pensieri laterali, ed è complicatissimo mantenere una qual-siasi continuità mentale con il singolo oggetto.

Personalmente ho passato anni a studiare il rapporto tra la scrittura e la mente, il modo in cui la scrittura occi-dentale ha creato il nostro senso dello spazio e del tempo, la nostra concezio-ne dell’essere. Tuttavia, benché an-ch’io possa riscontrare questo lato ne-gativo della rete, sono portato a vede-re nella situazione attuale un rovescia-mento epocale, pari a quello del Rina-scimento.

A mio avviso Carr tralascia una di-mensione fondamentale: quella epi-stemologica. Gli manca la consapevo-lezza che la rivoluzione che stiamo vi-vendo investe molteplici aspetti, non soltanto il nostro modo di pensare ma anche quello di sentire e di essere. Goo-gle non rende stupidi. Abbiamo a di-sposizione un’enorme fonte di infor-mazione, un’infinita memoria genera-le, dentro cui possiamo scovare pas-saggi privilegiati che dipendono dal nostro tipo di ricerca. Nell’era dei big data, le risposte dipendono unicamen-

te dalle domande. Meglio imparare a fare bene le domande che a dare le ri-sposte, benché giuste.

È vero, le nostre attività sono conti-nuamente interrotte dal telefonino e dai nostri impegni con uno schermo. Carr lo chiama TXJUDIJOH�DPTU: se una lettura viene sempre interrotta, il pen-siero prova in continuazione a ritrova-re il filo, ma può farlo solo in modo frammentario e superficiale e si ap-prende senza riflessione profonda. L’argomento è persuasivo, ma il di-scorso è più complesso. In realtà que-sto tipo di sviluppo annuncia la fine della “narratività orientata” e del de-stino individuale. La linearità delle co-se — l’esistenza cioé di un inizio e di una fine — è un’invenzione occidenta-le, come la tragedia e la commedia. Al-lo stato attuale, questa narratività non è più “orientata” ma multimedia-le, ipermediale, transmediale.

Amon-Ra, dio supremo degli Egizi, di fronte a Thot e alla sua invenzione della scrittura, reagisce ricordandogli che una cosa è inventare, un’altra è prevedere le conseguenze delle pro-prie invenzioni. Prosegue affermando che se Thot crede di aver trovato un ri-medio duraturo per conservare la me-moria umana, in realtà egli ne ha pro-vocato la perdita definitiva. Questo perché gli uomini avrebbero contato sempre di più su questo rimedio anzi-ché sulla propria testa, sulla conoscen-za intima. È un argomento forte, Ë�MB Carr. La risposta di Eric Havelock, uno dei maestri di Marshall McLuhan, è che posizionare la memoria fuori dalla mente serve a creare spazio per inven-tare e usare la propria intelligenza. Non dovendo più fondare su di sé la propria enciclopedia, l’essere umano crea più facilmente connessioni, che è poi il processo per eccellenza dell’intel-ligenza. Proseguendo idealmente sul-la scia del pensiero di Havelock po-tremmo dire che se leggere e scrivere liberano la mente dalla necessità di ri-cordare, può darsi che oggi i nuovi me-dia la liberino dalla necessità di pensa-re — perché i nostri software lo fanno per noi. Potrà sembrare una provoca-zione, ma è un fatto che le forme di in-telligenza stanno cambiando, e la ve-ra novità è che la stessa intelligenza sta mutando strategie. In questo qua-dro, l’intelligenza artificiale divente-rebbe un modo di esternalizzare l’in-telligenza fuori della mente umana.

I cambiamenti epocali portano sem-pre con sé qualche problema, ma si tratta di problemi che sono sempre stati superati, e sono convinto che an-che in questo caso avverrà la stessa co-sa. Come lo scrittore non può leggere senza scrivere, e non può scrivere sen-za leggere, lo stesso processo avverrà anche con i nuovi strumenti. Ora che abitiamo nel mondo elettronico que-sta dimensione scritta non può fare al-tro che rovesciarsi e tutti i contenuti non possono fare altro che rimescolar-si, più o meno volontariamente. È pro-prio la visione di questo tipo di rove-sciamento, dal mio punto di vista, ciò che manca a Nicholas Carr.

Concordo con la sua idea che oggi “si legga male”, e tuttavia penso an-che che i lettori odierni siano grandi editori: sono capaci, cioè, di leggere co-me in un montaggio cinematografico, di acquisire le immagini con un ap-proccio ipertestuale e di metterle in-sieme, utilizzando fenomenali poten-zialità intellettive.

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1ERDERE LA TESTA per inter-net si può eccome, ribadi-sce Nicholas Carr. Otto anni fa la sua confessione scatenò un dibattito che

ancora divide gli appassionati: «Mi manca il mio vecchio cervello, Goo-gle ci rende stupidi», disse lo scritto-re americano in un ormai celebre ar-ticolo. Ne ricavò anche un libro: “In-ternet ci rende stupidi?” (Raffaello Cortina, 2011). E ora non pare affat-to aver cambiato idea. Anzi.

Lei ha lanciato l’allarme otto anni fa. Da allora la tecnologia è pene-trata ancora di più nella società. Anche la stupidità?«Era l’epoca dei laptop e delle

email. Oggi giriamo con lo smartpho-ne e viviamo sui social network. Il problema è diventato più evidente e più grave. Vede, il nostro cervello è malleabile. Se viene bombardato da distrazioni e interruzioni continue, si adatta di conseguenza. Non siamo in grado di finire una cena senza con-trollare il cellulare, siamo sempre più in balìa del flusso di informazio-ni, più distratti che mai. Gli effetti?

L’attenzione diventa frammentaria, siamo meno capaci di riflettere e di pensare in profondità. Anche la me-moria ne risente».

Derrick de Kerckhove parte dalla sua tesi ma la contesta. Il web se-condo il sociologo è un’opportuni-tà: più informazioni da condivide-re, più creatività, un “nuovo Rina-scimento”. Lei davvero crede che la nostra mente sia solo vittima del web ?«Non è l’informazione in sé a “in-

stupidirci”, ma l’intensità con cui sia-mo gettati nel flusso. L’intelligenza non è solo trovare informazioni rapi-damente, ma la capacità di attribuir-vi un senso: il pensiero critico oggi è a rischio. Se come individui diventia-mo più superficiali, a livello colletti-vo gli esiti non saranno granché».

Big data, internet delle cose, ro-bot. Stiamo anche “delegando” la nostra intelligenza?«Trasmettiamo dati pure quando

respiriamo. Tutto ciò, se lasciato in mano alle corporation, pone rischi se-ri di manipolazione: la battaglia per la privacy è cruciale. Ad ogni modo, un software e un algoritmo nascon-dono sempre un modo di intendere il mondo. Affidarci ad essi sembra faci-le: risolvono problemi al posto no-stro. Ma sono proprio le sfide ad ali-mentare la nostra mente e a dare pie-nezza all’esistenza. Se deleghiamo ogni pensiero e azione a una app, di-ventiamo criceti sulla ruota».

Strategie di resistenza all’idiozia: qual è il suo consiglio per allenare il pensiero critico?«Non siate schiavi del cellulare.

Staccate un attimo. Prendetevi il tempo per passeggiare, per leggere un libro, ascoltare musica intensa-mente, parlare con qualcuno senza controllare il telefonino. Datevi mo-do di prestare attenzione, di concen-trarvi, di riflettere: se smettete di far-lo, perderete la capacità di farlo. Se non praticate l’intelligenza, ne avre-te nostalgia»

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1er prima cosa sgusciare i gamberi, privarli del fi-lo centrale (intestino) e marinarli per quindici minuti con l’olio, un pizzico di sale e un poco

di zenzero. Frullare intanto in un contenitore la stracciatella con sale (quanto basta), lo zenze-ro e la buccia del limone.

Quindi pulire e tagliare a julienne i carciofi, poi soffriggerli con poco olio, fino a raggiunge-re una cottura croccante.

In ogni piatto fondo disporre due cucchiai di stracciatella, cinque gamberi marinati e infine aggiungere i carciofi croccanti.

Servire infine con un filo di olio e buccia grattu-giata di limone.

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6N FIORE, ANZI, LA REGINA DEI FIORI, e il colore a lei dedicato. Così assoluta e simbolica, la rosa, da attribuirle significati e messaggi diversi appena cambia la tinta-madre: gialla per gelosia, bianca per purezza, rossa per passione. “Una rosa è una rosa è una rosa”, scriveva Gertrude Stein. E quando esibisce il suo colore originario, l’identità è perfetta.

Maggio è il mese delle rose e delle mamme, di matrimoni e comunio-ni: impossibile sottrarsi al rapimento poetico della fioritura dei peschi e dei ciliegi giapponesi, se è vero che la festa dedicata — 4BLVSB�.BUTVSJ�— dilaga da Tokyo a New York (dove è stata celebrata lo scorso wee-kend), con la partecipazione di decine di migliaia di adepti entusiasti, in un profluvio di canti, danze, cibi e travestimenti rituali.

Per assonanza, tutto ciò che viene declinato in rosa, suona delicato, morbido, intatto. Così, niente di meglio del rosa per rimarcare il trionfo della primavera anche nei piatti. Oggi, domenica della mamma, trionfano i menù monocromatici, che associano gusti e colori: i cuochi si dannano per mettere in fila petali pastellati e involtini di prosciutto cotto, risotti con boccioli e carnali tranci di salmone, fino ai NBDBSPO, dove i colori alimentari firmano un rosa così sfacciato con cui nemmeno i pizzi di Victoria’s Secret possono competere.

Il rosa incanta. Generazioni di bambini sono cresciuti mangiando i filetti di trota salmonata, la qua-le — rispetto alla normale trota di fiume, dalle carni color bianco latte — vanta un’irresistibile tinta rosata. Ma se nel pesce pescato la colorazione de-riva da ciò di cui si nutre — plancton e piccoli cro-stacei, ricchi di carotene — in quello allevato non c’è altro pregio né merito che il mangime colora-to con cantaxantina, lo stesso usato per far diven-tare arancioni i tuorli delle uova. Eppure, nell’im-maginario collettivo tanto basta per farne un ci-bo salutare e prezioso.

Del resto, dipingere il cibo di rosa è facilissimo. Basta approvvigionarsi di rape e barbabietole, pomodori e rabarbaro, uva rossa (le bucce) e frut-ti di bosco, e poi spremere, frullare, amalgamare: che siano salse o farciture, glasse o decorazioni, dall’antipasto al dessert il pranzo o la cena si tin-geranno di un’impalpabile, vezzosa nuance rosa-ta.

Ma c’è rosa e rosa. Sono rosa i wurstel e i patè, piatti pronti e molti ripieni, polpette e carni in scatola. A dare loro quel tocco cromatico è la pre-senza in percentuali variabili — anche molto con-

sistenti — di carne separata meccanicamente (CSM): una poltiglia rosata ottenuta spremendo ad alta pressione le carcasse di pollo e tacchino, sulle cui qualità nutrizionali e organolettiche i dubbi sono pesanti. Altro rosa con beneficio d’in-ventario quello di gamberi tropicali e gamberet-ti, che provengono per la quasi totalità da acqua-coltura estera. Siamo terzi in Europa per importa-zione. Il guaio è che molto spesso si tratta di alle-vamenti intensivi, con un disastroso impatto am-bientale e l’inevitabile carico di antibiotici e solfi-ti.

Per questo, diffidate del troppo rosa. A meno che sia quello di una mortadella fatta come dio co-manda. Nel caso, basteranno qualche fetta ta-gliata sottile sottile, un boccone di pane fragran-te e un bicchiere di buon rosé per farvi intonare -B�WJF�FO�SPTF.

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INGREDIENTI PER QUATTRO PERSONE:

20 GAMBERI ROSA

2 CUCCHIAI DI EXTRAVERGINE D’OLIVA PERANZANA

2 CARCIOFI

150 G. DI STRACCIATELLA DI BURRATA

1 LIMONE BIO

10 G. DI ZENZERO

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-A CHIAMAVANO bocca di rosa… metteva l’amore sopra ogni cosa. Parole e musica di Fabrizio De André, sono il compendio irriverente dei

significati della rosa. Simbolo d’amore in tutte le accezioni del termine. Infatti, all’origine del più profumato dei fiori, ci sarebbe proprio la dea dell’amore, Venere. Che avrebbe trasformato in un tappeto di petali rossi il sangue del suo amante, Adone, ucciso da un cinghiale. Come dire son rose rosse e parlano d’amor. Da allora il bocciolo odoroso è sinonimo di passione. Amorosa e non solo. Di fatto è un simbolo a trecentossessanta gradi. Lo sapevano bene gli antichi che dedicavano alla fioritura dei roseti addirittura una festa, i Rosalia, in calendario il tredici maggio. E celebrava quel momento dell’anno in cui la natura, in stato di grazia, diventa tutta un profumo. Ma se la festa si celebrava in tutto l’Impero, per fare un’esperienza da sballo Greci e Romani andavano a Paestum, sulla grande piana del Sele, dove oggi si producono datterini e mozzarelle e allora letteralmente ricoperta di roseti. Servivano a produrre fiumi di oli essenziali per uomini raffinati. Sì, perché la rosa era un’essenza da maschi. Le donne preferivano aromi più persistenti come il cinabro, il calamo e, soprattutto, l’anchusa, quella che oggi chiamiamo fiore di sale.

Forse proprio perché è il fiore degli inizi, i liceali vengono da sempre iniziati al latino nel nome della rosa. Da Venere il testimone passa alla Madonna. Il Cristianesimo non si fa sfuggire la potenza di questo fiore carnoso e misterioso. E ne fa il simbolo della purezza, del sacrificio e della verginità. Associando quello che era stato il logo dell’amor profano, all’amor sacro di Maria. Che è la rosa mistica per antonomasia. Fiore da paradiso. Non a caso Dante nella “Divina Commedia” immagina proprio così le anime dei beati vicini a Dio, “in forma dunque di candida rosa, mi si mostrava la milizia santa, che nel suo sangue Cristo fece sposa”. E così il paganesimo è bell’e servito. Il rosso e il bianco, l’amore e il sacrificio del mito di Venere e Adone ci sono tutti, ma il loro significato è diventato una passione di madre e figlio. È la conversione della rosa. Che dal Medioevo compare sui confessionali come emblema del segreto. Tanto che l’espressione “sub rosa” significava obbligo al silenzio. E nelle stanze del potere, dove si discutevano questioni di massima riservatezza, c’era sempre una rosa sul soffitto.

Eppure la sensualità non ha mai abbandonato il campo dei fiori. E la rosa resta l’emblema supremo dell’eros che non fa prigionieri. Che si tratti di quelle tatuate sul fondoschiena di Cheryl Cole, o di quelle intrecciate alle canne fumanti dei Guns n’ Roses. Perché, come diceva Ghandi “una rosa non ha bisogno di predicare. Si limita a sprigionare il suo profumo”. Tutto il resto è relativo.

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ROMA

µCONTENTA E ANCORA UN PO’ STORDITA dal pieno di emozioni che ha avuto con (JPSOJ�GFMJDJ, il suo spettacolo, accolto ovunque con ap-plausi e interesse: durante le recite a Roma, al Teatro India, qual-che settimana fa, sono anche passati a farle festa Paolo Virzì, Mi-caela Ramazzotti, Giampaolo Letta, il produttore De Laurentiis,

tanti altri amici e adesso che la tournée è finita, sta già progettando di portar-lo nelle scuole l’anno prossimo: «Uno sguardo così radicale sulla vita, come quello che ha Samuel Beckett, non crede possa toccare la sensibilità dei giova-ni?». Nicoletta Braschi parla con voce leggera e accuratezza. Ha cinquantasei anni e un aspetto simpatico: il corpo sottile, il viso piccino, la carnagione bella e senza trucco, i capelli fermati da due mollette, gli occhialini per leggere. E poi c’è la civetteria del rosa, rosa la gonna, il golfino, le scarpe, il cappotto, per-fino il copri-iPhone, tutto tra il rosa-Barbie e il porpora, scelta di coraggio ma anche di semplicità che la rende meno controllata, meno prudente di quello che si dice di lei: che ama poco le interviste e i giornalisti, per esempio, e non a torto visto che immancabilmente, dopo qualche domanda, si sente chiedere del suo legame con una gloria nazionale come Roberto Benigni. «Ma no, mi chieda, mi chieda pure», sospira con pazienza, seduta nel suo studio, una grande stanza, in una di quelle case primo Nove-cento con giardino sull’Aventino a Roma, casa insolitamen-te spoglia, a parte un tavolo senza oggetti e tre sedie. «Spo-

glia? Fino a poco tempo fa c’erano alle pareti i manifesti dei nostri film, ma io li tolgo. Me li rimettono e io li rispo-sto. No, non è che non mi piacciono. È che li abbiamo fatti noi. Li conosco a memoria».

Sette sono i film girati con e di Roberto Benigni, suo ma-rito dal ‘91, dal primo 5V�NJ�UVSCJ dell’83, poco dopo che si erano conosciuti, a -B�UJHSF�F�MB�OFWF del 2005, tutti successi: basterebbe citarne uno, -B�WJUB�Ò�CFMMB, tre premi Oscar. Ma molti di più, dodici, quelli che ha girato con Marco Ferreri, Giuseppe Bertolucci, Marco Tullio Giordana, Roberto Faen-za, Paolo Virzì che con 0WPTPEP�le diede il bel personaggio della professoressa Giovanna Fornari o Francesca Comenci-ni per cui ha interpretato Anna, la commovente capoconta-bile mobbizzata di .J�QJBDF�MBWPSBSF. Se poi si aggiunge il

teatro con Ronconi, Aldo Trionfo e, oggi, con Andrea Renzi e i Teatri Uniti, vuol dire che con intelligenza e passo sicuro si può anche fare l’attrice senza es-sere sovrastate eternamente dall’ombra di un compagno come Benigni. «Ma Roberto per me è stato una benedizione, una grande benedizione», dice con molta naturalezza. «Non trovo un’altra parola. Aver incontrato lui, esserci le-gati, aver fatto insieme film per cui le persone, anche le più semplici, ancora oggi ci trasmettono gratitudine... Non so cosa avrei potuto desiderare di più. Voglio dire: sono felice con lui».

Prima di diventare una delle coppie più solide e appartate del cinema, rac-conta che il loro è stato un contagio sotterraneo, una forza covata, non un col-po di fulmine. «Ci siamo legati nel tempo, conosciuti, frequentati fino a che è nato questo legame che è forte perché siamo cresciuti insieme. Ci incontram-mo nel 1980, per caso, attraverso alcuni amici a una cena. Lui aveva ventotto anni, aveva già fatto Cioni Mario in #FSMJOHVFS�UJ�WPHMJP�CFOF, era già un attore. Io ne avevo venti, ero ancora al secondo anno dell’Accademia Silvio D’Amico, a Roma. Difficile resistere alla simpatia, all’intelligenza di Roberto, poi siamo andati avanti, ci siamo costruiti insieme la vita e il lavoro, insieme abbiamo fat-to il suo cinema. E insieme ancora oggi condividiamo interessi, passioni, lavo-ro».

I ricordi con Benigni si intrecciano a quelli del “libro degli amici”: «Walter Matthau che conoscemmo durante *M�QJDDPMP�EJBWPMP. Nacque un’amicizia pro-fonda, ci ha incoraggiati, sostenuti con affetto personale e professionale». E Jim Jarmush quando preparavano %BVOCBJMÛ. «Fu Jim con la produttrice Sa-rah Driver a spingermi verso una casa di produzione tutta nostra e a istruirmi. La Melampo, che nacque nel ‘91, è una delle cose di cui siamo più orgogliosi con Roberto, un microsistema che ci ha fatto diventare indipendenti, ci per-mette di seguire passo passo i nostri lavori e condividerli con persone amiche, come Elda Ferri. Adesso, per esempio, Roberto vuole fare un nuovo film, quin-di ripartirà tutta la macchina. No, non ha ancora il soggetto; quando ha la sce-neggiatura lui me la legge, io la critico, ne discutiamo e poi si costruisce il grup-po. A me piace la squadra, non sono una solitaria. Anche in teatro, mi fa piace-re lavorare con Angelo Curti, Costanza Boccardi, Andrea Renzi... Dico la veri-tà, fare la produttrice è stato per me un mestiere inaspettato, l’ho imparato, lo faccio, ma io voglio recitare».

In (JPSOJ�GFMJDJ�di Samuel Beckett lo fa con un rigore così limpido da sedurre. Bloccata in un cumulo di (finta) sabbia, con alle spalle un compagno silenzio-so e strisciante, Andrea Renzi, anche sapiente regista, Winnie-Nicoletta è una donna tragica e grottesca, dissennatamente attaccata alla vita attraverso un tale petulante soliloquio scandito da gesti quotidiani da suscitare tenerezza e qualche inevitabile effetto comico. «La amo tanto, Winnie: parla parla perché ormai non si può dire più nulla. Il testo è una partitura, non puoi sfuggire alle indicazioni dettagliatissime di Beckett. Quante volte nel segreto del buio, la notte, mi ha tormentato, ma adesso è entrata totalmente dentro di me», dice con passione.

Della sua vita sfolgorante, ma anche dei momenti grigi, dolorosi come quan-do nel 2012 ebbe un brutto incidente d’auto che poteva rovinarle il viso, ha

l’orgoglio di essere sempre rimasta coi piedi per terra, segno di radici solide. «Sono nata a Cesena, in una famiglia “normale”, no, nessuna discendenza dal Papa Braschi, Pio VI, e meno male: era un papa un po’ nepotista. Mio papà Gui-do era stato uno dei fondatori di Confartigianato. Era un uomo cordiale, amico di tutti e ancora oggi trovo persone che mi dicono “Conoscevo bene il tuo bab-bo”. Quanto a me ero la primogenita, una brava bambina. Poi è arrivato il Set-tantasette. A Bologna c’erano manifestazioni, concerti, una bella partecipazio-ne dei giovani e io, avevo diciassette anni, ero una di loro. I miei? Diciamo che erano dialettici».

Finito il liceo, prima fugge a New York per studiare recitazione, poi più sag-giamente si iscrive alla Silvio D’Amico. «Perché ho voluto fare l’attrice? Ama-vo il cinema, Lubitsch, Max Ophüls, i fratelli Marx, John Ford, la commedia ben fatta che ancora adesso con Roberto ci piace rivedere... Andavo al Bonci, il

teatro di Cesena, a vedere Carmelo Bene... In realtà, avevo bisogno di qualcosa che mi rendesse partecipe dei grandi capolavori. Quando ero piccola se un romanzo mi piaceva ci finivo dentro senza barrie-re. Recitare mi ha permesso di farlo alla luce del sole. Nel teatro c’è un momento bellissimo in cui capisci che le parole, che sono state mente, anima, carne di un essere umano, dalla pagina scritta ri-diventano carne, pensiero, voce, respiro attraverso l’attore. Quel momento, di autentico contatto con l’autore, molto segre-to, mi fa venire in mente Juan de la Cruz, il grande mistico, che catturava nella notte oscura i suoi oggetti d’amore. Recitare, ri-petere ogni sera la tua parte, ti fa accedere alle porte più segre-te della creazione. È una forma di devozione. Ecco perché lavo-

rare per stare accanto ai capolavori, è stata la mia vera conqui-sta». Coraggiosa? «No, incosciente. Sono una che non rinuncia e dalla brava bambina all’adolescente irrequieta, fino all’attrice di oggi, non è poi cambiato molto. Noi Nicolette siamo sempre tutte qua».

L’infanzia a Cesena in una “famiglia normale”. L’adolescenza irre-

quieta nella Bologna del Settantasette. La fuga a New York e Roma

per studiare cinema e teatro. E poi l’incontro con Benigni: “Io avevo

vent’anni, lui già lavorava, ci conoscemmo a cena a casa di amici.

Nessun colpo di fulmine, piuttosto una benedizione. Non so usare al-

tre parole: siamo felici”. Con suo marito ha girato sette film, meno

che con altri registi (da Bertolucci a Virzì). Nel loro studio sull’Aven-

tino ha appena fatto togliere dal-

le pareti le locandine dei loro suc-

cessi: “Li conosco a memoria. Da

sempre ciò che voglio è entrare

dentro le cose, non osservarle.

Ciò che voglio è recitare”

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