Vita multiculturale _ giugno 2008

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Introduzione, definizione e significato Pastore George Grant Ennin Un teologo africano, John S. Mbiti, sostiene che gli africani siano incurabilmente religiosi e che essi portino la religione all'interno di tutte le sfere della loro vita, in casa, in comunità, al lavoro e a scuola, in ambito pubblico e privato. La cerimonia dell'"out- dooring" diventa significativa e apprezzabile solo se vista in tale contesto. L'"out-dooring" è un rito che si esegue sui neonati e può essere descritto come la presentazione pubblica del neonato, con il fine di dargli/le il nome e il benvenuto all'interno della famiglia e all'interno di una comunità più ampia della quale il bambino entra a far parte. Il fenomeno dell'"out-dooring" fra gli africani, e fra i ghanesi in particolare, è anche un'occasione d'incontro, in forte crescita, non solo in Africa ma anche fra gli africani residenti in molti paesi stranieri. In Africa, la nascita di un bambino è considerata un evento sacro ed è messa in relazione con il ciclo di vita umano all'interno del contesto culturale, religioso e cosmologico africano. Come già detto in precedenza, J.S. Mbiti, sostiene che per gli africani "la religione precede l'uomo già prima della nascita, lo accompagna attraverso le varie fasi della vita e lo segue dopo la partenza fisica da questo mondo." Il ciclo di vita umano si articola in 5 fasi che sono la nascita, la pubertà, il matrimonio, la morte e la rigenerazione. È convinzione comune il fatto che nessuna di queste fasi sia permanente poiché ciascuna porta a quella successiva. Ad esempio, il bambino si distacca dalla fase della nascita per affrontare la pubertà e l'età adulta; seguono il matrimonio, la procreazione, l'età anziana e la morte, che porta la persona verso l' "asamando" o mondo degli spiriti. Secondo Kofi Asare Opoku, “per assicurare che non vi siano interruzioni fra le diverse fasi, e che la transizione fra una fase e l'altra avvenga in maniera dolce, vengono elaborati rituali religiosi" per ogni singola fase. Questa, fra le altre, è una delle ragioni per le quali si celebrano i rituali di "out-dooring" per i bambini africani al momento della nascita, con tutta la gioia e le dinamiche socioculturali ad esso associate. Il rito dell' "out-dooring" nella cerimonia di attribuzione del nome La generale visione del mondo degli africani concorre in larga parte al concetto delle fasi di sviluppo del ciclo della vita. Tuttavia, l'approccio all'osservanza e all'esecuzione dei rituali di "out-dooring" varia in alcuni aspetti delle specifiche culture. Generalizzando, potremmo dire che la caratteristica principale di questo rituale è la cerimonia di attribuzione del nome che varia a seconda delle regioni, tribù, clan e tradizioni in Africa. Considereremo a questo punto quelle più significative. LA CERIMONIA DELL'"OUT-DOORING" NELLA CULTURA GHANESE In questo numero 1 La cerimonia dell'Out- dooring 4 Punto di vista multiculturale 7 Gruppo di Accompagnamento 7 Visita del Presidente della Chiesa Metodista del Ghana 8 Un invito a te che ci leggi8 No commentL'outdooring è la presentazione pubblica del neonato Vita Multiculturale Giugno 2008 Bollettino Semestrale di collegamento per la pastorale multiculturale delle chiese evangeliche valdesi e metodiste del II distretto

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pubblicazione a cura della commissione multiculturalità del secondo distretto delle chiese valdesi e metodiste

Transcript of Vita multiculturale _ giugno 2008

Introduzione, definizione e significato Pastore George Grant Ennin

Un teologo africano, John S. Mbiti, sostiene che gli africani siano

incurabilmente religiosi e che essi portino la religione all'interno di

tutte le sfere della loro vita, in casa, in comunità, al lavoro e a

scuola, in ambito pubblico e privato. La cerimonia dell'"out-

dooring" diventa significativa e apprezzabile solo se vista in tale

contesto. L'"out-dooring" è un rito che si esegue sui neonati e può

essere descritto come la presentazione pubblica del neonato,

con il fine di dargli/le il nome e il benvenuto all'interno della

famiglia e all'interno di una comunità più ampia della quale il

bambino entra a far parte. Il fenomeno dell'"out-dooring" fra gli

africani, e fra i ghanesi in particolare, è anche un'occasione

d'incontro, in forte crescita, non solo in Africa ma anche fra gli

africani residenti in molti paesi stranieri. In Africa, la nascita di un

bambino è considerata un evento sacro ed è messa in relazione

con il ciclo di vita umano all'interno del contesto culturale,

religioso e cosmologico africano. Come già detto in

precedenza, J.S. Mbiti, sostiene che per gli africani "la religione

precede l'uomo già prima della nascita, lo accompagna

attraverso le varie fasi della vita e lo segue dopo la partenza

fisica da questo mondo." Il ciclo di vita umano si articola in 5 fasi

che sono la nascita, la pubertà, il matrimonio, la morte e la

rigenerazione. È convinzione comune il fatto che nessuna di

queste fasi sia permanente poiché ciascuna porta a quella

successiva. Ad esempio, il bambino si distacca dalla fase della

nascita per affrontare la pubertà e l'età adulta; seguono il

matrimonio, la procreazione, l'età anziana e la morte, che porta

la persona verso l' "asamando" o mondo degli spiriti. Secondo

Kofi Asare Opoku, “per assicurare che non vi siano interruzioni fra

le diverse fasi, e che la transizione fra una fase e l'altra avvenga

in maniera dolce, vengono elaborati rituali religiosi" per ogni

singola fase. Questa, fra le altre, è una delle ragioni per le quali si

celebrano i rituali di "out-dooring" per i bambini africani al

momento della nascita, con tutta la gioia e le dinamiche

socioculturali ad esso associate.

Il rito dell' "out-dooring" nella cerimonia di attribuzione

del nome La generale visione del mondo degli africani concorre in larga

parte al concetto delle fasi di sviluppo del ciclo della vita.

Tuttavia, l'approccio all'osservanza e all'esecuzione dei rituali di

"out-dooring" varia in alcuni aspetti delle specifiche culture.

Generalizzando, potremmo dire che la caratteristica principale

di questo rituale è la cerimonia di attribuzione del nome che

varia a seconda delle regioni, tribù, clan e tradizioni in Africa.

Considereremo a questo punto quelle più significative.

LA CERIMONIA DELL'"OUT-DOORING"

NELLA CULTURA GHANESE

In questo numero

1 La cerimonia dell'Out-

dooring

4 Punto di vista multiculturale

7 Gruppo di

Accompagnamento

7 Visita del Presidente della

Chiesa Metodista del Ghana

8 Un invito a te che ci leggi…

8 No comment…

L'outdooring è la

presentazione pubblica

del neonato

Vita Multiculturale

Giugno 2008

Bollettino Semestrale di collegamento per la pastorale multiculturale delle chiese evangeliche valdesi e metodiste del II distretto

PAGINA 2 VITA MULTICULTURALE

I neonati sono tenuti isolati dal mondo

esterno per sette giorni e portati fuori

solo l'ottavo giorno.

Alcuni dei nomi dati

ricordano le circostanze

della nascita del

bambino

I Mendes (Sierra Leone) La cerimonia di attribuzione del nome viene eseguita nelle prime

ore del mattino e chi officia è dello stesso sesso del bambino al

quale si assegna il nome. La cerimonia viene chiamata con il suo

nome tradizionale "Kpua gita ya", che significa letteralmente

"presentazione alla strada e al pubblico". Se si tratta di una

bambina, l'officiante donna porta la bambina fuori dalla casa, la

rivolge al sole e pronuncia le seguenti parole: "Assomiglia a me,

per come sono e per come mi comporto, perché sono io che ti sto

dando il nome". Così facendo, l'officiante trasferisce le proprie

qualità alla bambina. Normalmente gli uomini non sono autorizzati

a eseguire tale rituale su una bambina poiché è credenza diffusa

fra i Mendes che, se ciò avvenisse, la bambina acquisirebbe

caratteristiche maschili durante l'età adulta. Alcuni dei nomi che

vengono dati possono richiamare delle circostanze della nascita

del bambino con riferimento in particolare alla stagione, ad un

evento eccezionale etc. Gli Yoruba (Nigeria) La nascita di un bambino è occasione di grande gioia. Tre giorni

dopo la nascita viene eseguita una cerimonia chiamata "Il primo

passo nel mondo". Questa è seguita da un'altra importante

cerimonia chiamata "I-komo-jade": si tratta della prima

presentazione pubblica del bambino, sette giorni dopo la nascita

per le femmine, nove giorni dopo per i maschi. Viene fatto un rito

di purificazione attraverso il quale l'officiante pronuncia il nome del

bambino seguito dalla presentazione di offerte, doni e auguri dai

membri della famiglia, della comunità e degli ospiti invitati. I Ga (Ghana) Per tradizione, i Ga tengono i neonati isolati dal mondo esterno per

sette giorni e li portano fuori solo l'ottavo per il rito dell'"out-dooring"

e dell'attribuzione del nome. Perché i giorni siano sette, come

spiega M.J. Field, è dovuto alla credenza Ga che i neonati, nei

primi sette giorni della loro vita, siano esposti a sette pericoli. Per

questo motivo, se il bambino sopravvive ai sette giorni può essere

considerato una persona adatta a far parte della famiglia e della

comunità. La cerimonia si svolge normalmente fra le 5 e le 6 del

mattino, alla presenza dei membri della famiglia e degli amici.

L'"out-dooring", chiamato in Ga “kpodziemo engages” avviene

alla presenza di undici officianti, otto dalla famiglia paterna e tre

da quella materna. L'officiante principale, normalmente un

anziano, scelto per la bontà del carattere, presiede per tutta la

cerimonia. Nel contesto tradizionale si prega e allo stesso tempo

vengono distribuite libagioni. Il testo della preghiera tradizionale

recita, come osservato da E.A. Ammah, così: "Che giorno è oggi?

Oggi è lunedì (o un altro giorno della settimana): Nonni di Lunedì,

oggi mostreremo l'estraneo (il bambino) che starà con noi fino

all'apparire della stella del mattino: che possa rispettare il mondo!

E voi (antenati), ricevete il vino e bevetene così da poterlo

benedire." Il rito viene eseguito subito dopo la preghiera: il

bambino viene posto per terra per tre volte, in un punto pulito

appena prima. La terza volta viene lasciato per terra. Viene

aspersa dell'acqua per tre volte. Il bambino è così introdotto alla

terra e alla pioggia per poi essere benedetto da parte

dell'officiante anziano per tre volte. L'anziano prende il neonato

da terra e il nome viene annunciato da parte dell'officiante

principale. Viene offerto del vino di grano e ogni persona presente

ripete il nome del bambino prima di berne. Seguono poi la festa,

gli auguri e la presentazione dei doni per il bimbo.

PAGINA 3 VITA MULTICULTURALE

Gli Akan (Ghana) Il rituale Akan per l'attribuzione del nome e per l'"out-dooring" si

chiama “Abadinto.” Normalmente questo rito viene eseguito da

una persona conosciuta per avere saldi principi morali e con un

carattere esemplare all'interno della famiglia e della comunità. Per

la cerimonia vengono forniti due contenitori, solitamente dei calici:

uno contiene dell'acqua, l'altro del vino di palma, acquavite o

vino locale. Tutto questo viene seguito da una preghiera,

dall'offerta agli invitati di libagioni varie e dal rito dell'attribuzione

del nome. Prima di pronunciare il nome del bambino, l'officiante

prende in braccio il bimbo, ne pronuncia il nome e immerge il

proprio dito destro nell'acqua per poi bagnare la lingua del

bambino per tre volte dicendo: “ ….se wose nsu a nsu!” (che

significa letteralmente: “se dici che questa è acqua, che quello

che stai bevendo sia acqua"). L'officiante immerge poi il dito nel

vino di palma e bagna la bocca del bambino dicendo: “…se

wose nsà a nsà!” che significa letteralmente: “se dici che questo è

vino di palma, che quello che stai bevendo sia vino di palma".

Inoltre l'officiante aggiunge le parole “se wose tuntum a tuntum!

Wose fitaa a fitaa,” che significano: "se dici che quello che stai

vedendo è nero, che sia nero, se è bianco, che sia bianco". Il

significato di queste parole è che il bambino dovrà, crescendo,

dire la verità e essere affidabile in qualunque circostanza della

vita. Come osserva Kofi Asare Opoku, gli Akan e i Ga vedono

l'occasione di dare un nome ai neonati come l'opportunità di dar

loro la prima lezione morale e ciò mette in evidenza quanto la

moralità sia tenuta in alta considerazione se si vuole far parte di

una famiglia o di una comunità in Africa. Kwesi Akhan sostiene

che, le parole che accompagnano il gesto dell'intingere e portare

alle labbra del bambino il dito, instillino nel neonato la

consapevolezza di che cosa sia la moralità e la necessità di vivere

sempre in armonia con la verità per tutta la vita. Le conseguenze

dell'onestà vanno sempre sostenute senza mai scendere a

compromessi, sia che lascino un sapore dolce in bocca (l'acqua)

sia che lascino un sapore amaro (il vino). L'acqua e il vino rimasti

vengono mescolati e dati simbolicamente ai genitori ad indicare

la loro partecipazione al rituale in unità e armonia con il bambino.

Kwesi Akhan afferma inoltre che i genitori confermano

l'importanza dell'insegnamento morale attraverso questi riti e

simboli. Allo stesso modo essi desiderano rafforzare la lezione

morale data al bambino e condurlo ad avere una vita adulta

responsabile.

Conclusione

Nella cosmologia africana, la stabilità della famiglia dipende

molto dalla stabilità della comunità ed è per questo che la

cerimonia dell'"out-dooring" prevede necessariamente non solo la

partecipazione dei genitori e dei parenti stretti ma anche di tutta

la comunità di amici e conoscenti. Alcune chiese in Ghana, nel

tentativo di affermare i valori religiosi, culturali, morali e sociali del

rito dell'"out-dooring", hanno sviluppato delle speciali liturgie che

ne prevedono una comprensione cristiana. Si tratta di una

innovazione contestuale che dà a tale rituale una prospettiva

cristiana che fa appello al senso cristiano della mortalità,

dell'integrità, dell'affidabilità, e del discepolato in campo pubblico

e privato o, in altre parole, in famiglia e nella società.

Il rituale viene eseguito

da una persona dai

sani principi morali

PAGINA 4 VITA MULTICULTURALE

Punto di vista… multiculturale Pastore Sergio Ribet

Oggi diremmo che la parola “multiculturale” può essere intesa solo

come “tolleranza”, mentre il termine “interculturale” può suggerire

più scambio, maggiore reciprocità di approccio. Ma siamo tutti

coscienti, credo, del fatto che nessuna ricetta è perfetta, né tanto

meno definitiva…

Siamo fatti così: una tematica, un problema, un fenomeno sociale

nasce … quando io me ne sono accorto. Ma appena

approfondiamo un poco l’argomento che ci sta a cuore

scopriamo di non essere stati i primi, al contrario: c’è una prassi e

una ricerca molto più lunga di quanto immaginavamo, piena di

errori, di intuizioni felici, di problemi risolti e di necessità urgenti mai

seriamente affrontate.

La mia esperienza e la mia riflessione si svolgono soprattutto nel

quadro della FCEI. Ma non sfuggo al vizio che ho appena

denunciato. Credo importanti gli avvenimenti a cui ho

partecipato. Non conosco, o conosco poco o male, gli

avvenimenti precedenti. Un esempio: ricordavo a mala pena un

opuscoletto di Pierluigi Jalla. Quando era stato scritto? L’ho

cercato e l’ho trovato: Pierluigi Jalla, “Quale emigrazione?” (Tip.

Subalpina,Torre Pellice, marzo 1969), prefazione di Mario Sbaffi,

presidente della FCEI e del Comitato italiano per le migrazioni.

Ovviamente, i migranti, allora, eravamo noi, gli italiani.

In secondo luogo cerco di sintetizzare qual è il mio punto di vista su

quanto sta avvenendo nelle chiese che fanno parte della FCEI. A

grandi linee, le chiese che hanno incontrato (o sono state

incontrate) da migranti si sono attrezzate, bene o male, per

l’accoglienza. Salvo qualche eccezione, tuttavia, non hanno

elaborato una riflessione profonda. Hanno svolto un compito

assistenziale (prima accoglienza, accompagnamento nelle

vicende burocratiche, appoggio per apprendere l’italiano, aiuto

per la ricerca di lavoro, casa, necessità primarie); lo hanno svolto,

e lo svolgono tuttora, o delegando questo compito non facile ad

un gruppo di lavoro, o ad alcune persone, o facendosene carico

a livello comunitario. C’è, di solito, la comprensione che le tappe

per una corretta integrazione sono diverse, non facili, che mentre

cominciamo a conoscere i migranti arrivati anni fa continuano a

giungere nuove migrazioni che ci sono sconosciute. Non

dimentichiamo che anche nelle nostre chiese ci sono posizioni

istintivamente contrarie all’afflusso di stranieri, e posizioni che

vorrebbero proporre agli stranieri semplicemente una assimilazione

alla cultura del paese dove giungono, al modo di vivere della

chiesa di cui sono “ospiti”. Ovviamente, le migrazioni portano

vantaggi, svantaggi, novità gradite e tensioni. Vi sono alcune linee

di tendenza simili ovunque e in ogni tempo, e specificità che si

trovano solo in quel luogo e in quel momento. La fase

“accoglienza”, la fase “assistenza”, i cammini di “integrazione” si

sovrappongono, ci sono sempre i “nuovi arrivati”, e un equilibrio

provvisorio che si era creato nel quadro sociale (e nella chiesa)

viene quotidianamente rimesso in gioco, va ricostruito ogni volta

che anche una sola persona parte o arriva. Quel che mi sta a

cuore oggi è lavorare perché quello che viviamo, persone

migranti e persone che sono nate nel luogo dove risiedono, possa

essere una convivenza non conflittuale o almeno in grado di

riconoscere le conflittualità reali e quindi individuare le possibili

soluzioni dei conflitti.

Le migrazioni portano

vantaggi e svantaggi,

novità gradite e tensioni

I migranti, allora,

eravamo noi, gli italiani

PAGINA 5 VITA MULTICULTURALE

Per raggiungere questo scopo, solo all’apparenza minimale,

occorre conoscere l’altro e conoscere anche di riflesso, se stesso;

comprendere che il rapporto non è unilaterale (io spiego, io do, io

comprendo, io insegno) ma bilaterale; che il migrante non parte

da una situazione di pari opportunità, e quindi è necessario quel

che in inglese si chiama “empowerment”. Che vuol dire? Fare in

modo che le capacità, le conoscenze, le forze dell’interlocutore

vengano riconosciute, non restino nascoste, vengano a galla, e

non siano solo delle potenzialità, ma diventino opportunità

realmente utilizzabili, per essere se stessi, se stesse, in modo pieno e

non con personalità mutilate. Lavorare per l’empowerment

dell’altro è anche lavorare per l’empowerment di me stesso.

Potremmo dirlo in molti modi, attivi o passivi:

Se non amo me stesso, come posso amare il mio prossimo?

Se imparo a conoscere l’altro imparo a conoscere me

stesso.

Se so ascoltare saprò anche parlare.

E via declinando. Tutto questo io lo chiamo “Essere chiesa

insieme”. Ma questo può portare ad equivoci. “Essere chiesa

insieme” è un gruppo di lavoro collegato con il Servizio Rifugiati e

Migranti della FCEI, è una formula che è usata in molte delle nostre

chiese, in ogni luogo con sfumature diverse. Non è una

organizzazione, una chiesa, né un modo di agire e pensare. Per il

momento, è una parola valigia in cui mettiamo il bagaglio che

riteniamo indispensabile, ma siamo ancora ben lontani dalla

comprensione di quanto è un “indispensabile” condiviso. Vorrei

che “essere chiesa insieme” fosse la meta di una chiesa dove

hanno spazio giovani e vecchi, donne e uomini, chi viene da

lontano e chi è sempre stato qui, chi ha una spiritualità come la

mia e chi è portatore di tutt’altra spiritualità, chi è uguale e chi è

diverso, … Terzo e ultimo punto. Che cosa succede nella chiesa

metodista di Bologna e Modena, nella quale svolgo il mio compito

pastorale dal 2005? Anche qui devo sintetizzare, una descrizione

esauriente sarebbe troppo ampia. Secondo i dati statistici della

Relazione al Sinodo 2007 la chiesa metodista di Bologna e

diaspora conta 173 membri comunicanti, e una popolazione

evangelica di 292 persone. La media di presenze al culto è di 78

persone. Ma dietro a questi numeri c’è una situazione in continuo

movimento. Non c’è domenica in cui non entrino nella nostra

chiesa persone nuove. Rispetto a dieci o quindici anni fa il gruppo

storico è diminuito (decessi, trasferimenti, persone anziane che no

possono venire in chiesa, ecc.), diversi italiani provenienti da altre

chiese o da contesti secolarizzati sono diventati membri di chiesa,

così come diversi non-italiani. Ci sono anche molti “simpatizzanti”,

alcuni saltuari, altri puntualmente presenti, ci sono nuovi

catecumeni adulti. Le persone che partecipano al culto non

rispecchiano le persone che risultano essere membri di chiesa. Tra

quanti vediamo in chiesa la domenica, vi sono rappresentanti di

almeno una dozzina di nazionalità. Almeno un terzo dei

partecipanti abituali è costituito da sorelle e fratelli africani, e un

buon numero da europei, sudamericani, asiatici. Nelle attività

della chiesa si ritrova una situazione analoga. Soprattutto nella

scuola domenicale e nel catechismo comincia ad essere

importante la componente di origine straniera.

Se non amo me stesso,

come posso amare il

prossimo?

Una situazione in

continuo movimento...

PAGINA 6 VITA MULTICULTURALE

Ma, oltre alla chiesa metodista, si ritrovano nei nostri locali altre

chiese. Con continuità, da anni, una delle chiese evangeliche

filippine della città (la prima in ordine cronologica: inizialmente

pluridenominazionale, ora soprattutto presbiteriana), e una chiesa

ucraina (che include anche russi e moldavi), di tendenza

pentecostale e battista. Con queste chiese, o parte di esse,

abbiamo incontri costanti, in particolare per il lavoro che

facciamo con i migranti. Abbiamo ospitato per un anno e più la

Chiesa avventista, quando erano in corso i lavori per la loro nuova

chiesa, e ci ritroviamo con gli avventisti in varie occasioni

ecumeniche. La diaspora luterana dell’Emilia Romagna ( e in

parte marchigiana), seguita dal pastore luterano di Firenze, utilizza

i nostri locali per alcuni dei suoi incontri, e abbiamo momenti di

culto in comune (Giornata della Riforma, periodo pasquale e

natalizio, incontri ecumenici). Un gruppo coreano presbiteriano ha

le sue prove di canto e i suoi studi biblici nella nostra sala. Ci viene

richiesto l’uso della chiesa per matrimoni, per esempio da chiese

protestanti eritree. In poche parole, le varie modalità accennate

da Alfonso Manocchio nell’articolo citato all’inizio le troviamo tutte

nella nostra chiesa bolognese:

vivere insieme nella stessa comunità

vita comunitaria saltuariamente insieme

vita comunitaria separata negli stessi locali (non però con

chiese unite nello stesso Sinodo).

Infine, nei locali della nostra diaspora a Modena viviamo una

situazione analoga. Negli stessi spazi si ritrova il gruppo metodista,

un gruppo avventista (prevalentemente italiano), una chiesa

ghanese parte dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia

(UCEBI), e quindi a tutti gli effetti una delle “nostre chiese”. La

domanda che ci facciamo è: siamo attrezzati per far fronte alla

nuova situazione che si sta creando? Al momento abbiamo due

strumenti efficaci: una scuola di italiano per stranieri, attiva da

cinque anni, che da un centinaio di persone è giunta ora ad un

tetto di 420 iscritti (e non siamo in grado di ospitarne di più, al

momento, sia per gli spazi che per il rapporto numerico tra

insegnanti e allievi). Una iniziativa avviata da un nucleo di fratelli e

sorelle della nostra chiesa, che hanno anche trovato collaboratori,

amici, fondi necessari per questa attività. Altro strumento, un

gruppo locale “Essere chiesa insieme”, che lavora soprattutto per

accompagnare gli immigrati, prevalentemente delle nostre

chiese, per gli iter burocratici, e con il forte aiuto del nostro gruppo

africano, per la ricerca di casa e lavoro. Questo gruppo è in

contatto con il Servizio Rifugiati e Migranti della FCEI, e sta

promovendo incontri, dentro e fuori dalla nostra chiesa, sulle

tematiche della migrazione, e per azioni di solidarietà, contro ogni

forma di razzismo.

Vivere insieme nella

stessa comunità

Momento alla Scuola di

Italiano della chiesa di

Bologna

PAGINA 7 VITA MULTICULTURALE

Il giorno 14 giugno si è svolto a Parma, presso la chiesa metodista,

l'incontro del gruppo di accompagnamento per il progetto

Mezzano/Secondo Distretto. Il gruppo è presieduto dal pastore

Daniele Bouchard e ha il compito di monitorare, fornire

suggerimenti operativi e di impostazione del lavoro al pastore

Ennin, nel quadro del progetto della Cevaa. Dall'incontro sono

emersi molti spunti interessanti che potranno costituire nuovi ambiti

di lavoro per i prossimi mesi. La novità più importante è però l'arrivo

dal Ghana di un nuovo pastore, il quale dovrebbe essere

affiancato nel suo compito da un pastore italiano. I due sarebbero

impegnati nel portare avanti il progetto già iniziato dal pastore

Ennin, il quale lascia la chiesa di Mezzano per occuparsi a tempo

pieno della chiesa di Pordenone. George Ennin resterebbe però

nel gruppo di accompagnamento e continuerebbe a fornire il suo

prezioso aiuto ai due nuovi pastori incaricati del progetto

"Mezzano/Secondo Distretto". Il gruppo di accompagnamento è

stato inoltre allargato con l'arrivo di tre nuovi membri provenienti

dalla Lombardia e dal Veneto. Il prossimo incontro è previsto per il

27 di settembre a Parma.

Gruppo di Accompagnamento Costantino Sbacchi

Visita del presidente della chiesa

metodista del Ghana Lino Pigoni

Su invito dell’OPCEMI il President Bishop, Rev Dr. Robert Aboagye-

Mensah e il Lay President, Dr. James Alfred Abadoo Brew, hanno

visitato diverse comunità. Nel Nord-Est (2-3 febbraio) vi è stato

l’incontro con il Consiglio di Chiesa di Udine, con la Chiesa di

Pordenone e con il gruppo di Conegliano. Particolarmente

partecipato quello di Pordenone: oltre quattrocento fratelli e sorelle

molti dei quali provenienti da altre località del Triveneto e non solo.

Gli incontri sono stati occasione di confronto per valutare il

cammino di integrazione fatto dalle nostre comunità, per aiutare

nella comprensione delle differenze organizzative e per cercare di

superare malintesi e contrapposizioni dopo la visita del moderatore

della Chiesa Presbiteriana del Ghana. Il moderatore della Chiesa

Metodista del Ghana ha sottolineato in particolare i seguenti

aspetti:

viene ribadita, per quanto riguarda i membri ghanesi, la

necessità di non costituire gruppi o chiese autonome che

rispondano direttamente alle chiese-madri del Ghana ma

di condividere la propria fede con i fratelli e le sorelle della

Unione delle Chiese metodiste e valdesi.

L’appartenenza e l’inserimento attivo nelle nostre chiese

deve avvenire nella ricerca di una condivisione delle

diverse identità che ovviamente non si appiattiscono ma si

arricchiscono creando nuovi modi di ESSERE CHIESA

INSIEME.

Nella tradizione ghanese le attività dei gruppi sono

coordinate da leader che sebbene svolgano il loro ruolo in

modo proprio è necessario che trovino modalità di

raccordo con i Consigli di chiesa e questo almeno per la

prima generazione.

Un pastore ghanese e

uno italiano potrebbero

portare avanti il lavoro

iniziato dal pastore

George Ennin

Rev Dr. Robert

Aboagye Mensah

PAGINA 8 VITA MULTICULTURALE

Un invito a te che ci leggi

Caro lettore, come avrai notato leggendo queste pagine, il taglio editoriale di "Vita

Multiculturale" è leggermente cambiato. Come già annunciato, vorremmo inserire

qualche piccolo saggio, come quello in prima pagina firmato dal pastore Ennin, per

capire meglio la realtà multiculturale che si sta ormai consolidando nelle nostre chiese.

Per questo, ogni suggerimento è sempre il benvenuto.

Ti invitiamo a scrivere e ad eventualmente sottoporci un tuo articolo, al seguente

indirizzo:

[email protected]

Chi siamo…

La commissione per la Pastorale Multiculturale del 2º distretto è costituita da: past.

George Ennin, past. David Markay, Victoria Munsey, Past. Janique Perrin, Past. Sergio

Ribet, Costantino Sbacchi, Past. Jonathan Terino.

No comment…