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TARIFFA REGIME LIBERO: POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 70% - DCB (BOLOGNA) Anno XVI - n° 3 Marzo 2019 Antonio Vecchio Trenta anni dopo, ancora muri La redazione Diciotto anni su quei tasti bianchi e neri 12 8 4 12 Franco Gori L'origine delle due metà RACCONTARE LA GUERRA Franco Falsetti Visitate il nostro sito www.comune.bologna.it/iperbole/buonenuove

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Anno XVI - n° 3Marzo 2019

Antonio Vecchio

Trenta anni dopo,ancora muri

La redazione

Diciotto annisu quei tastibianchi e neri

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Franco Gori

L'originedelle due metà

RAccontARe LA GueRRA Franco Falsetti

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direttore responsabile: giorgio Albèridirettore editoriale: Roberta BolelliSegreteria di redazione: Ornella Elefantecomitato di redazione: donatella Bruni, Anna Valeria cipolla d’Abruzzo, Viviane Klein, Antonella Sarti caruso, Antonio Vecchio

Redazione: Via Bellaria, 2/c - 40068 San lazzaro di Savena - Tel./fax 051.46.67.51

Stampa: Tipolito casma - via B. Provaglia 3 - Bologna

Registrazione Tribunale di Bologna n° 7361 del 11/09/2003Testi e fotografie vanno inviati all’e-mail: [email protected]

Una scazzottata finita bene

Il Consiglio direttivo dell’Associazione no profit,editrice di “Le Buone notizie”, è così formato:

Giorgio Albéri - PresidenteDonatella Bruni - Vice Presidenteornella elefante - Segretario/TesoriereRoberta Bolelli - ConsigliereMaria Dagradi - Consigliere Giorgia Fioretti - ConsigliereLuisella Gualandi - Revisore dei conti (Presidente)

Leggo il solito quotidiano bene aperto sulla mia scrivania che mi fa compagnia nelle prime ore della giornata. Lo sguar-do si fionda su di una notizia che attira la mia attenzione: “Ragazzo prende a pugni un compagno davanti ad un gruppo di persone senza che alcuno faccia nulla”. Questo il titolo. Mentre proseguo nella lettura dell’articolo, la mia mente corre al passato, a quando gli anni erano pochi: 13 o 14 a quando io mi trovai in una situazione analoga. Volavano per l’aria parole grosse, più grandi di noi, la rabbia ci aveva resi ciechi e cattivi e non sapevamo più quel che dicevamo. Rossi in viso ed agitati, tentammo anche di scambiarci dei colpi, ma fummo trattenuti da altri ragazzi che si erano fermati a vedere. Piano piano il ricordo diventa sempre più a fuoco. C’era un gran sole e si era vi-cini alla chiusura della scuola. Era il periodo in cui si studia di più, si cerca di tappare le

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per sostenere la cultura e i valoridi una Società onesta e corretta

falle dovute a una non sempre fortunata applicazione; ero nervoso ed inquieto per la paura di non riuscire a portare a termine l’annata scolastica. Avevo però un amico, cui ero molto affezionato e con lui parlavo dei miei pensieri, solo miei, delle mie preoccu-pazioni, a lui confidavo i miei segreti. Il giorno che scoprii che ne aveva parlato con altri, tradendo la mia fiducia, scop-piò un tremendo litigio, quello di cui ho accennato. Quando fummo separati, qualcosa accadde nel mio animo, una grande amarezza mi prese oltre la vergogna di essermi lasciato andare a quel modo davanti a tanta gente. Sen-tivo ancora le grida di quel ragazzo, le offese infantili e cattive. Ripresi i miei libri e mi avviai mogio verso casa,

sotto il sole che picchiava. Ero tutto in disordine, attraverso lo sguardo velato di lacrime vedevo forme indistinte che si muovevano, si agitavano, gri-davano intono a me e le case ballavano ondeggiando. Era la prima grande amarezza della mia vita. Ripensandoci ora, quei segreti erano sciocchez-ze, ma a quel tempo il fatto che il mio amico ne avesse parlato con tutti fu una specie di tradimento e il suo atteg-giamento quello d’un ragazzo falso e superficiale. Quanto lunga fu la via del ritorno a casa, quel giorno! In seguito, non ho più avuto esperienze di quel genere, ma quel litigio in-fantile è diventato per me una specie di monito per il futuro, un ammonimento ad imparare a controllare le mie “collere”, a chiedermi prima quale sia ve-

ramente la motivazio-ne e se non sia meglio perdonare invece di offendere. Tutto finì bene, per fortuna: io compresi che avevo esage-rato, lasciandomi trasportare dalla rabbia del momento, lui disse di avere agito così solo per leggerezza. Senza la minima cattiveria ripren-demmo a studiare insieme dimenticando quello stupido atteggiamento e rimanemmo amici per anni. Quale differen-za con quanto letto oggi! Una scazzottata (o meglio qualche spinta e qualche ceffone), su-bito terminata per l’intervento dei presenti, poi amici come prima. Oggi non è più così, nei giovani vi è una violenza che si trasforma “per fare male davvero”. L’assurdo è che non vedo una “medicina” per questa malattia, purtroppo. Ah, dimenticavo, poi, fummo promossi.

Giorgio Albéri

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La storia di una famosa matitaSi stima che le matite

Faber Castell vendute nel mondo ogni anno

siano più di due miliardi. Il design raffinato, la loro indiscutibile qualità, l’inegua-gliabile assortimento messo a disposizione del consumatore (che si trova a poter scegliere fra una gran varietà di opzio-ni: matita con la punta sottile, spessa, dura, morbida ecc.., solo per fare alcuni esempi)

ne hanno fatto un sinonimo di qualità in tutto il mondo. Ma a chi si deve la nascita di questo impero del grafene e da quanto tempo esiste? Tutto ha avuto inizio in Ger-mania nel 1761 quando Ka-sper Faber, artigiano della piccola cittadina di Stein, intuì che il mercato delle matite e dei colori avrebbe potuto offrire un grande potenziale col passare del tempo, fu per questo che decise di aprire la sua prima piccola bottega. Fu poi merito di suo figlio Anton Wilhelm se, da piccolo empo-rio, il laboratorio si trasformò in una fabbrica di modeste dimensioni, ancora oggi visi-tabile ed aperta al pubblico. Di generazione in generazione, i discendenti della famiglia Fa-ber hanno cercato di portare il loro contributo allo stabili-mento con innovazioni, nuovi metodi e sistemi sempre più raffinati per poter accrescere la qualità delle matite. Ad esempio, Lothar Faber, che entrò in azienda a soli 22 anni, fu un vero e proprio progressista e rinnovatore: si deve a lui infatti la diffu-sione a livello internazionale della prima matita a marchio “Faber” e l’introduzione in fabbrica di nuove migliorie. Grazie al suo impegno, tutti i dipendenti potettero godere di un sistema di assistenza sanitaria aziendale e di un sistema pensionistico, nonché di un fondo antiinfortunistico. Inoltre, vennero creati delle abitazioni da destinare agli operai in prossimità della fabbrica e alle operaie venne data la possibilità di poter portare i propri figli al lavoro, grazie al primo asilo presente all’interno di una fabbrica di tutta la Germania. Correva l’anno 1851.

con i tempi e con l’innovazio-ne, con uno sguardo sempre rivolto alla cura dell’ambiente. Il 96% del legno utilizzato per costruire le matite Faber deriva da foreste nelle quali la fabbrica si impegna, ogni anno, a ripiantare un milione di semi all’anno per favorire la riforestazione. Anche da questi piccoli dettagli, si capi-sce come dai tempi di Kasper Faber, siano cambiati i secoli e le generazioni, ma non l’a-more per il prodotto che tutti noi oggi apprezziamo.

Viviane Klein

La lungimiranza e le inno-vazioni di Lothar Faber non finirono qui. Fu lui l’inventore della matita esagonale, in gra-do di non scivolare facilmente dalle superfici piane e facil-mente impugnabile. Questa fu una vera e propria rivoluzione per la forma e per la proget-tazione che si celava dietro l’oggetto matita. Per tutelar-la, Lothar si rivolse all’ufficio marchi e brevetti, e divenne

il promotore di una legge che andasse a tute-

lare il diritto commerciale di ciascun inventore, dimostran-dosi, anche in questo, estre-mamente accorto e avveduto. Grazie a questa figura di im-prenditore illuminato e con idee rivolte al futuro, la fab-brica Faber divenne sempre più presente a livello interna-zionale, distinguendosi per la cura dei particolari. Oramai, vi si poteva scorgere un ini-zio del moderno concetto di design: comprare una matita marchiata “Faber”, significava avere fra le mani un oggetto raro, prezioso ed unico seppur universalmente riconoscibile.

Un ulteriore tappa nello sviluppo di que-sta favolosa storia, si ebbe nel 1898 quan-do Ottilie Faber sposò il conte Alexander Zu Castell-Rüden-hausen: da allora il marchio di fabbrica divenne la fusione dei cognomi dei due coniugi e comparve anche il logo ufficiale posto sopra il nome e presente ancora oggi: quello di due cavalieri che si sfidano in duel-lo con la lancia da giostra. Da allora questa fabbrica, che oggi fattura qualcosa come 630 milioni di euro annui, non ha mai smesso di innovare e di cercare di guardare al suo prodotto con occhi nuovi, al-largando, ove possibile, il suo raggio d’azione (famosissimi, oltre alla matite sono diventati i colori Faber-Castell dispo-nibili 120 tonalità, nonché le penne). Ciò che ha reso gran-de la fabbrica Faber-Castell, oggi la prima produttrice di matite al mondo, è stato il suo essere stata/stare al passo

Difendiamoci con le nostre risorsePer quanto spaventosa, rivoltante e socialmente

inaccettabile ci appaia, la violenza fa parte della vita di ognuno di noi. Siamo violenti ogni volta in

cui mandiamo a quel paese qualcuno che non la pen-sa come noi, quando insultiamo un prepotente che ci ha tagliato la strada o auguriamo tre anni di sfortuna al collega che ci ha fatto lo sgambetto. La violenza è nell’essere umano non meno che in una qualunque bestia, con la sola differenza che l’essere umano, quando si trova in una condizione di media salute mentale, è in grado di controllarla sublimandola con due ‘innocui’ accidenti. Questo non toglie però il fatto che vi sia e che rifiutarne l’esistenza, negandola nei suoi aspetti più cruenti, non ci permetterà mai di cancellarla dalla nostra realtà. Gli uomini ammazzano le donne dalla notte dei tempi: lo fanno, perché la violenza si esercita più facilmente su chi, fisicamente e psicologicamente, si trova in una condizione di inferiorità. Una donna, fatte salve alcune fortunate eccezioni, è fisicamente più debole di un uomo e que-sta è una verità incontrovertibile. Dato questo per assunto, direi che la retorica sugli uomini violenti possiamo lasciarla nei salotti buoni, dove le chiacchiere sono utili come ginnastica antirughe, per passare a fare i conti con la vita reale per cui il solo modo che una donna ha per tutelare se stessa è educarsi al rispetto di sé e delle sue esigenze senza delegare a nessun altro questo compito. Non alla famiglia, non alla scuola, non a un marito. Il solo modo che abbiamo per salvarci è metterci al riparo dalla violenza incontrollata di chi dichiara di amarci a calci nel sedere e ceffoni sui denti assicurandoci di farlo per amore, solo per amore. La sal-vezza di ognuna di noi non dipende dalle leggi (quelle servono a punire quando il danno ormai è fatto e restano i fiori su una tomba) e non dipende da un uomo o da un’associazione che ci tutela. La salvezza dipende dalle risorse interiori che ognuna di noi ha nascoste da qualche parte. Allenare queste risorse, farlo quotidianamente, farlo per noi stesse e per il bene che dobbiamo alla nostra vita è il solo modo che abbiamo per salvarci. Poi, si si, certo educhiamo gli uomini e tutto il resto, ma nel frattempo cerchiamo di proteggerci (perché nemmeno il miglior programma educativo del pianeta potrà nulla contro la violenza di un uomo che ha le sinapsi annegate nel furore).

Deborah Dirani

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Trenta anni dopo, ancora muriTrenta anni fa, il

9 novembre del 1989, cadeva il

muro di Berlino: tra i simboli della guerra fredda, forse, quello più famoso. Era stato costruito in una notte, fra il 12 e il 13 agosto 1961, per impedire le fughe verso ovest di cittadini della Repub-blica Democratica te-desca (DDR), ma an-che per marcare una netta separazione tra i due blocchi all’epo-ca contrapposti. Lun-go più di 155 km, era presidiato da guardie armate, filo spinato, cani e mine; non si li-mitava a passare per il centro della città, ma la circondava comple-tamente, tagliandola fuori dalla Germania Est. Nei 28 anni in cui ha separato le due Germanie, oltre 5000 cittadini dell’est ten-tarono la fuga, alcuni in modo rocambole-sco: come l’acroba-ta Horst Klein che nel 1963 camminò su un filo elettrico a 18 me-tri di altezza, o Gun-ter Wetze, che varcò il confine su un pallone aerostatico costruito con vecchie coperte. Per non parlare delle dozzine di persone che provarono ad evadere utilizzando tunnel sot-terranei. Altri, invece, tentarono la sorte nel modo più antico: scap-pando a gambe leva-te voltando le spalle alle Grenztruppen (le guardie di frontiera) che avevano l’ordine di sparare a vista contro ogni tentativo di fuga. Fu una strage silen-ziosa, impossibile co-noscere il numero dei tanti che vi persero la vita. La caduta del muro fu per il mondo libero un atto liberato-rio, il sussulto di un’u-manità umiliata, ancor più perché era situato nel cuore dell’Europa: la terra delle libertà

individuali e dei diritti umani. La sua distru-zione significò l’inizio della fine dell’Unio-ne Sovietica e, per la NATO che aveva com-battuto quella guerra, la certezza della vit-toria finale: di rado, infatti, soprattutto in Occidente, si riflette sul fatto che la guerra fredda fu una guerra comunque combattuta e vinta. Dobbiamo la notizia a un cronista dell’ANSA, Riccardo erhman, l’unico gior-nalista che durante la conferenza stampa con cui il ministro della Propaganda della DDR, Schabowski, annun-ciò improvvisamente l’apertura del varco verso l’ovest, ebbe la prontezza di chieder-gli: “da quando?” La risposta “Da subito” e le agenzie di tutto il mondo la batterono ai quattro angoli del pianeta con il risultato che di lì a poco, miglia-ia di tedeschi dell’est si precipitarono al con-fine per varcarlo. Fu la fine di un’epoca. Si pensò che una nuova era dell’umanità fosse alle porte, finalmen-te portatrice di pace e prosperità. Il poli-tologo statunitense, Francis Fukuyama, in un famosissimo artico-lo pubblicato da “The National Interest” - il più importante trime-strale di geopolitica USA - parlò addirittu-ra di “fine della storia”, nel senso di un mon-do inesorabilmente diretto verso il trionfo dei regimi democratici liberali e del capitali-smo globalizzato. Sap-piamo tutti che non è andata così. La demo-crazia liberale è sem-pre più insidiata dai nuovi mezzi di comu-nicazione digitale che veicolano i messaggi di nuovi potentati a masse drammatica-mente prive di senso

critico, più interessa-te a confermarsi nelle opinioni già acquisite che a confrontarsi con quelle altrui, maga-ri leggendo un libro o un articolo. La glo-balizzazione, d’altro canto, ha certamente sottratto alla povertà milioni di lavoratori nei Paesi del terzo mondo, ma ha ridotto signifi-cativamente la classe media dell’Occidente: quella su cui si è sem-pre basato il progresso tecnologico e la capa-cità di consumo. Altri muri, infine, sono sor-ti. Da più parti. Solo per rimanere in Euro-pa, oggi se ne vedono tra Bulgaria e Turchia, tra Ungheria e Serbia, tra Danimarca e Ger-mania (quest’ultimo in versione anti-cinghiali. E’ solo un caso che gli ungulati teutonici bat-tano le stesse strade dei migranti economi-ci?). Vi è poi il muro

di Evros, al confine tra Grecia e Turchia, costruito dal governo greco nel 2012 per fer-mare l’immigrazione clandestina; quello di Ceuta e Melilla, le en-clavi spagnole in Nord Africa. Sono infine 99 i muri che separano a Belfast le Comunità protestanti da quelle cattoliche. E, per al-largare lo sguardo, chi non ha sentito parla-re del muro che divi-de Israele dai territori palestinesi o di quello che intende costruire

il presidente Trump al confine con il Messico?La caduta del muro di Berlino, oggi, va inte-sa solo come il simbolo della vittoria occiden-tale, del suo modello economico e di rappre-sentanza politica, su quello centralizzato dei soviet. I tanti muri an-cora esistenti, e quelli che a breve lo saran-no, stanno a indicarci ogni giorno che l’epoca dei “limes” è lungi dal terminare.

Antonio Vecchio

Vita aliena o buchi neri? Registrati dallo spazio segnali misteriosi

Brevi impulsi radio, durati pochi millesi-

mi di secondi sono stati sufficienti per alimentare le spe-ranze di una vita extra-terrestre. “Questi segnali ano-mali ci suggerisco-no che può esserci qualcosa là fuori” ha dichiarato Ingrid Stairs, astrofisica della British Columbia University. Infatti, è solo la seconda volta nella storia dell’astronomia, che segnali simili vengono intercettati. Gli impulsi, registrati dal nuovo telescopio canadese Chime, provengono da una galassia distante un miliardo di anni luce. Segnali di questo tipo, chiamati Fast radio burst, sono molto inusuali. Sono infatti emissioni o flash radio che spesso arrivano dal remoto universo e che si pensa possano essere causati da eventi violentissimi come i buchi neri. Nel corso di decine di anni ne sono stati intercettati pochissimi, mentre il nuovo telescopio Chime, in funzione dallo scorso anno, ne ha già registrati tredici. Gli astronomi ancora non sono riusciti a precisare l’esatta natura e origine degli impulsi. “Con maggiori ripetitori e con l’evolversi degli studi potremmo essere in grado di risolvere questi enigmi del cosmo” aggiunge l’astrofisica Stairs. Ma prima di parlare di vita extraterrestre gli scienziati ci tengono a precisare che i segnali potrebbero provenire anche da una stella di neutroni, una delle ipotesi più accreditate per ora.

Notizia raccolta da Ornella Elefante

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Fra i regali di Natale ho trovato una raccolta di articoli e discorsi di Lu-

igi Einaudi, intitolata Libertà economiche, e pubblicata a cura di Corrado Sforza Fogliani (Libro Aperto Editore). Sono articoli e discorsi che vanno dal 1924 al 1948, e trattano delle principali questioni politiche ed economiche che l’Italia do-vette affrontare nell’ultimo do-poguerra. I temi trattati sono molteplici; fra questi, assai attuali sono ancora quelli su Libertà e Proprietà (affrontato in un articolo del 20 dicembre 1924) e sul Trattato di pace fra le potenze alleate ed associate e l’Italia (oggetto di un lungo discorso tenuto all’Assemblea Plenaria del 29 luglio 1947) che pone in evidenza il delicato problema della cessione di una parte della sovranità nazionale per il raggiungimento di fini comuni internazionali, fra i quali il più importante è la pace fra i popoli europei. Sono più di settant’anni che in Europa non ci sono guerre, e noi europei consideriamo la pace un diritto acquisito; ma l’impressione è che a volte dimentichiamo le ragioni che hanno determinato questa situazione così rassicu-rante. In Italia, Einaudi fu tra coloro che agirono a favore della creazione di istituzioni internazionali per realizzare le condizioni della pace duratura di cui oggi beneficiamo, pur consapevole che ciò avrebbe comportato la perdita di una parte di sovranità nazionale. Infatti, riguardo alla creazione di istituzioni internazionali, affermò chiaramente che l’i-dea della sovranità assoluta dello stato è “un’idea falsa, anacronistica, che deve es-sere abbandonata” perché porta alla guerra; mentre ri-guardo al rapporto fra stato e cittadini, credeva che tutte le forze politiche ed economiche

l’attenzione prestata preva-lentemente alla convenienza economica”. I dubbi e i ripen-samenti che la Gran Bretagna (da sempre paladina della libertà in Europa) sta vivendo per la Brexit, più che legittimi data l’importanza della deci-sione, sono un chiaro esempio del fatto che il desiderio di es-sere una nazione senza vincoli e limiti è ormai anacronistico. Una volta la patria era la città, poi gradualmente fra dichia-razioni di guerra e di pace, la patria è diventata la nazione. Ma oggi è l’Unione Europea che sta diventando la nostra patria. Lo sta diventando pa-cificamente mediante scelte politiche, anche se non senza difficoltà perché la sovranità nazionale ha ancora un forte valore in tutti i paesi aderenti. Tuttavia, la società europea per progredire e competere nello scenario mondiale ha bisogno della forza della so-vranità dell’Unione Europea. E non è detto che un giorno, non lontanissimo, non siano create istituzioni con sovranità conti-nentale e poi mondiale, perché la mente umana – che sembra davvero non avere limiti – avrà creato le condizioni per colo-nizzare qualche altro corpo celeste; e lo sforzo sarà tale da richiedere l’unione di tutti i popoli. Come credeva ferma-mente Einaudi, “la forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo”. E si può scommettere che lo sarà anche in futuro.

Silva Marzetti Dall’Aste Brandolini

Leggendo Luigi Einaudinon possono essere riassunte nello stato, perché la vera li-bertà esiste quando lo stato, aumentando le sue funzioni, consente ai cittadini di eser-citare liberamente le loro at-tività economiche e di “dare incremento alla propria libera personalità morale”. E queste funzioni devono essere svolte non solo a livello nazionale ma anche a livello internazionale per realizzare quell’ideale di fratellanza e cooperazione che era già stato di Giuseppe Mazzini e di Camillo Cavour. Forte di queste convinzioni, il discorso che Einaudi fece all’Assemblea Plenaria del 1947 sulla necessità di un trattato di pace era fondato sull’esperienza del passato, nel tentativo di individuare le logiche conseguenze delle due guerre mondiali combattute in Europa, e di capire come meglio agire per evitarne altre. Ma era rivolto al futuro, perché era pienamente consapevole che lo sviluppo delle comuni-cazioni e, in particolare, delle telecomunicazioni, avrebbe completamente cambiato la futura scena economica e poli-tica mondiale. Pertanto, al fine di evidenziare l’importanza che alcune nazioni davano alla tu-tela della pace in Europa, sot-tolineò che i tentativi di Filippo II, di Luigi XIV e di Napoleone di creare un’Europa unita mediante la guerra furono sempre contrastati dalla Gran Bretagna per salvaguardare la libertà in Europa, come pure avvenne nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, dopo la prima, l’ide-ale del presidente americano Thomas Woodrow Wilson fu la pacifica convivenza europea fra stati indipendenti mediante la creazione di una Società del-le Nazioni. Tuttavia, sottolineò Einaudi, in questa Società ogni stato aveva il proprio esercito,

il proprio regi-me Doganale e la propria rappre-sentanza presso gli altri stati e la Società delle nazioni, cioè un insieme di pro-prietà nazionali che portò inevitabilmente alla Seconda Guerra Mondiale. Infatti, la Svizzera fu teatro di guerre civili finché i cantoni furono sovrani, e la pace fu raggiunta solo con la creazione di un unico potere sovrano per gestire l’esercito, le dogane e la rappresentanza con l’estero; e così avvenne negli Stati Uni-ti, finchè non fu creato un solo parlamento costituito da due camere, una che rappresenta gli Stati della confederazione e l’altra che rappresenta tutto il popolo della confederazio-ne. Tutto questo ci fa capire quanto difficile sia il cammino verso il superamento delle identità nazionali, e viene spontaneo pensare allo stato attuale dell’Unione Europea. Oggi, fra gli stati dell’Unione Europea non esistono più bar-riere alla circolazione dei citta-dini e delle merci. Sono stati creati il Parlamento europeo, la Banca Centrale Europea, e un insieme di altre istituzioni fondamentali. Inoltre, dician-nove degli stati aderenti hanno adottato l’euro, rinunciando alla propria moneta. Ma non c’è ancora un esercito comune e una politica estera comune, mentre gli stati sono sovrani anche riguardo a come spen-dere le proprie entrate fiscali, pur avendo dei limiti al loro indebitamento. Pertanto, gli stati fanno ancora fatica a cedere quella parte delle loro competenze che è necessaria per raggiungere la completa integrazione, perché – direbbe Einaudi – “c’è ancora un vuoto comune di ideali che giustifica

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La culla per la vitaNel Medio Evo c’era la

“Ruota degli Esposti” a raccogliere i neonati

indesiderati e abbandonati. Oggi, in versione moderna e tecnologicamente più avan-zata, in molte città d’Italia è stata introdotta la “Culla per la Vita”. Si tratta di una struttura concepita appositamente per accogliere neonati a cui le mamme in difficoltà non pos-sono provvedere, il tutto nel pieno rispetto della sicurezza del bambino e della privacy di chi lo deposita. Le Culle rap-presentano il completamento, in sede extraospedaliera, della normativa già esistente per il parto anonimo praticato negli ospedali, poiché non tutte le donne possono o vogliono ri-correre a questa opportunità. La Culla per la Vita è quindi un’estrema possibilità di ac-coglienza che deve servire ad evitare un estremo gesto di rifiuto da parte di mamme in condizioni di grande disa-

gio, sofferenza e fatica che non possono prendersi cura del proprio bambino. A Bolo-gna questa iniziativa è stata promossa dall’Associazione Medici Cattolici Italiani con la collaborazione del Movi-mento per la vita; la Culla è stata posta all’esterno della Casa Generalizia delle Suore Minime dell’Addolorata di Santa Clelia Barbieri, in via Guidicini, angolo Via Tambroni (nella foto). Il Vescovo di Bologna Mons. Matteo Zuppi il giorno dell’i-naugurazione ha detto: “Si tratta di una cosa bellissima e preziosa, anche se dovesse servire a salvare una sola vita. Anzi, tutti noi ci auguriamo che nessuna donna arrivi mai ad essere così disperata da ri-nunciare a una parte di sé, ma questa culla rimane comun-que un segno di speranza, a disposizione di tutti”. La Culla per la Vita è in pratica un piccolo ricovero dotato di una serie di dispositivi che

permettono un facile utilizzo e un pronto intervento per la salvaguardia del bambino. Suonando un campanello si apre una porticina, dietro la quale si trova una piccola culla dotata di un sistema di riscaldamento, refrigerazione ed aerazione. Nel frattempo, all’interno dell’Istituto arriva il segna-le che la porta della Culla è stata aperta e ci si prepara ad accogliere il bambino e a contattare il servizio medico

preposto. La mamma ha an-cora 35 secondi a disposizione per depositare il piccolo o per avere un ultimo ripensamen-to. Dopo di che la porticina si chiuderà e il neonato sarà subito accudito, accolto ed affidato alle cure delle suore. Andrà comunque incontro alla vita; una vita che sua madre, con una dolorosa rinuncia e un gesto d’amore al tempo stesso, gli ha comunque vo-luto garantire.

Antonella Sarti Caruso

De gustibus non disputandum estbizze del clima e da un lato non ci sarebbe niente di stra-no, visto che a scuola ci han-no insegnato che i Romani andavano in giro in gonnella mentre i cavalieri medievali sognavano di arrivare a sera per ritirarsi davanti al fuoco. Così potrebbe sembrare quasi un ciclo naturale il caldo in-fernale che si è impossessato della Terra, se non fosse che l’innalzamento delle tempe-rature è dovuto anche a una cosa che non ha nulla di na-turale: lo smog. E non è che

contro i suoi effetti devastanti bastino il calendario delle targhe alterne per le auto o il divieto di trasformare casa in una succursale dei Caraibi, perché i fumi che produciamo e diffondiamo nell’aria sono di diversi tipi e soprattutto sono tanti. Troppi. Quindi che si fa, si aspetta il decollo per Marte o ci si ingegna per sal-vare capre e cavoli prima che sia troppo tardi? Verrebbe da pensare che la soluzione sia aggiudicarsi un biglietto per il pianeta rosso, ma per fortuna ci sono persone che hanno trovato un sistema semplice ed economico: alberi ghiotti di smog. Del resto…De gu-stibus non disputandum est. Certo, si sa da sempre che le piante donano ossigeno e sono fondamentali per la no-stra sopravvivenza, ma non si sapeva che alcune catturano fino a 4000 chili di anidride carbonica in vent’anni, arre-stando anche le polveri sottili responsabili di 80.000 morti l’anno, fino ad abbassare di parecchio la temperatura ur-bana. E che alberi sono, rari esemplari esotici? Nient’af-

fatto. Si tratta di specie che conosciamo, pur forse non associando i nomi, adatte a tutti i terreni: acero riccio, be-tulla, ginkgo biloba, bagolaro, frassino, ontano nero, tiglio e olmo. Perciò basterebbe piantarne in giusta quantità nelle città e nelle aree private per salvaguardare se stessi, la Terra e… la tasca, visto che il volo per Marte non pare essere a buon mercato! Pur-troppo, oggi l’Italia è fra i Pa-esi europei con una maggior quantità di smog e con meno verde urbano. Speriamo che la classe politica non sia sorda a questa necessità.

Anna Valeria Cipolla d’Abruzzo

Siamo nati nell’epoca del-la cantilena “le stagioni non sono più quelle

di una volta”. Anche se mia nonna diceva che quando era bambina, d’inverno nel pa-ese abruzzese in cui è nata, nevicava abbastanza da co-stringere le persone a uscire dalle finestre del primo piano, ma non tanto quanto ai tempi di sua madre, quando l’unica via di fuga erano quelle del secondo. Quindi è già da qualche ge-nerazione che si parla delle

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Da WashingtonAlberto Pasolini Zanelli

Non si chiama così, ma l’America è coinvol-ta e travolta, in questi

giorni ed ore, da un turbine polielettorale. Ufficializzato qualche settimana fa da un aspirante deputato che ha presentato la propria candi-datura in uno Stato del Sud. Democratico, ma questo non vuol dire molto per ora. Più significativo è che nel seggio cui egli aspira si voterà nel 2020. La sua campagna elet-torale è dunque in anticipo e il motivo ufficiale è che così c’è più tempo per farsi conoscere dagli elettori e soprattutto dai finanziatori, che è più facile attirare quando di quella par-tita elettorale si parla molto.Di qui a una settimana di que-sto test “futurista” non si par-lerà più, ma intanto i dollari saranno arrivati. E l’attenzio-ne del mondo politico potrà riversarsi su altre elezioni: le “primarie” della Camera e del Senato si svolgeran-no in novembre di quest’an-no, mentre nel 2020 sarà di

nuovo in palio la Casa Bian-ca. Di solito a queste cose i politici, soprattutto gli eletto-ri, ci pensano in ordine cro-nologico, ma di questi tempi il discorso politico è talmen-te ingarbugliato che anche i preparativi di una votazione molto dedotta e futura posso-no avere conseguenze quasi immediate sulla polemica in corso da mesi, ma vivissima in questi giorni. In cui stanno succedendo tante cose. La più vicina agli interessi e alla vita del cittadino è la “chiusura del governo” in corso da un mese nella forma di uno “sciopero obbligatorio” ordinato dal-la Casa Bianca a centinaia di migliaia di impiegati pubblici e che include la sospensione del pagamento degli stipendi, che comprensibilmente inner-vosisce l’intera opinione pub-blica. Non è la prima volta che ciò accade, ma fra l’uno e l’al-tro “esperimento” passano in genere decenni. Questa volta la decisione è stata presa dal presidente Trump come “rap-presaglia” nei confronti del-la Camera che ha sancito un “no” all’iniziativa presidenzia-

le di costruire lungo la frontiera fra Sta-ti Uniti e Messico un muro senza pertugi per impedire l’immi-grazione dei “latini”. Trump lo considera necessario e urgen-te, ma si tratta di un progetto molto costoso, per finanziare il quale occorre-rebbe o ingigantire il debito federale o “tagliare” le spe-se, comprese quelle militari. La Camera, a maggioranza democratica e presieduta da una veterana italoamerica-na di nome Nancy Pelosi, ha pronunciato un “no” totale ed irreversibile. È pronta a un “compromes-so” che agli occhi di Trump equivale a un veto e definisce intrattabile. La Pelosi (nella foto unitamente a Trump), allora ha deciso di impedirgli di tenere nell’aula congres-suale il tradizionale discorso annuo sullo “stato dell’Unio-ne”, evento che sarebbe sen-za precedenti. L’uomo della Casa Bianca ha subito reagito con un controdispetto: im-pedendole l’uso di un aereo

Turbine elettorale americano

“ufficiale” per una preannun-ciata missione in Afghanistan e Pakistan. E così via: un mi-lione di cittadini è non senza lavoro, bensì senza stipendio, al presidente e alla “presiden-tessa” sono proibiti discorsi e iniziative importanti, la gente brontola e i politici pensano a elezioni in calendario fra due anni. Tutto questo an-che perché l’attenzione pub-blica continua a concentrarsi sempre di più su un interro-gativo decisamente insolito e senza precedenti: la risposta alla domanda se il presidente degli Stati Uniti sia un “com-plice” sistematico del presi-dente della Russia. Di questo lo accusano, lui ovviamente nega, è in corso un’inchiesta al più alto livello, si moltipli-cano gli avvocati dell’accusa e della difesa, taluno dei quali chiamato anche sul banco de-gli imputati, mentre si molti-plicano le “rivelazioni” più o meno fondate. Si attende un giudizio, forse anche un pro-cesso che potrebbe sfociare anche in un impeachment. Per ora è l’ipotesi meno pro-babile, perfino dalla parte dell’opposizione democra-tica, ma l’accusa e l’ipotesi distraggono e paralizzano la normale attività governativa. L’incertezza è accresciuta da talune iniziative sorprendenti di Trump: che è accusato di aver trasmesso dei segreti a Vladimir Putin, ovviamente nega e intanto si prepara a un secondo “vertice” con il ditta-tore nordcoreano Kim Jong-un. Un elemento in più che semina dubbi. Fra cui uno, tornato di moda in questi giorni e veramente romanze-sco: Trump “non si comporta da presidente” per il semplice motivo che non ha mai voluto diventarlo. Si sarebbe servito della campagna elettorale per nutrire di impareggiabile pub-blicità le sue iniziative finan-ziarie e commerciali, compre-sa la costruzione di un altro dei suoi lussuosi e giganteschi hotel, uno dei quali dovrebbe sorgere a Mosca.

Bologna rinnova l’omaggio alla meraviglia della danza

William Shakespeare ne “La Tempesta” “Non arrivo a strapparmi dal ricordo quelle parvenze, quelle musiche, quei gesti che esprimevano, senza parole, un eccellente tipo di linguaggio

muto”. Nata per commemorare riti religiosi e sociali, la danza, lin-guaggio non parlato, è una forma espressiva sorta ancor prima che l’uomo sviluppasse pienamente la comunicazione verbale. Durante il Rinascimento ha assunto le caratteristiche di un vero e proprio spet-tacolo: il balletto, divenuto classico dal XVII al XIX secolo. La danza classica, in particolare, è incanto e poesia in grado di comunicare e di estasiare attraverso fini movenze, di scuotere le emozioni annidate dietro la sensibilità. Anche quest’anno il Teatro Comunale di Bologna, contemplando di stagione in stagione l’eleganza di questa fine disciplina, presenta un programma ricercato che si avvale dei più grandi artisti del balletto classico oltre che contemporaneo. Ad aprire la stagione 2019 sarà la sublime Svetlana Zakharova, Étoile del Balletto Bol’ŝoj di Mosca e del Teatro alla Scala di Milano, che insieme ai Solisti dell’omonimo balletto, si è esibita in Amore alla fine di febbraio. Tecnicamente perfetta, bellissima, dotata di braccia che sembrano ali, gambe lunghissime e piedi meravigliosamente arcuati, è considerata la più grande danzatrice della sua generazione. Il 5 e il 6 Aprile seguirà Il Lago dei Cigni, il classico dei classici, con la Prima Ballerina del Dutch National Ballet Maia Makhateli, il talentuoso Alessandro Staiano e l’antichissimo corpo di ballo del Teatro San Carlo di Napoli. Quest’ultimo, oggi diretto da Giuseppe Picone, rappresenta uno dei quattro corpi di ballo rimasti ancora in vita in Italia, rispetto ai nove delle Fondazioni Lirico Sinfoniche chiusi a seguito dei tagli di sovvenzione da parte del governo al balletto. Ancora, il Ballet Nice Méditerranée, diretto da Éric Vu-An, debutta al Teatro Comunale l’11 e il 12 Maggio con il Trittico di capolavori L’Arlésienne, Three Preludes, 5 Tangos.Infine, non mancherà l’eccellenza della danza contemporanea italiana in Istrument Jam con la Compagnia “Zappalà Danza” di Roberto Zappalà, sulle note live degli scacciapensieri di Puccio Castrogiovanni. La danza, per concludere, è una delle massime espressioni di raffinatezza e di perfezione, che nella grazia rivelata delle sue forme, insegna il garbo e la nobiltà d’animo. Non è solo un’arte, quindi, è scuola di vita. È un’attività non solo fisica, ma intellettuale perché muove corpo e spirito e in quanto tale è pura cultura. A tal riguardo, la Costituzione all’art. 9, comprendendo la promozione culturale tra i principi fondamentali del nostro ordinamento, dispone al primo comma: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura (…)”. Dove per «cultura», riportando la definizione di Michele Ainis, noto giurista e costituzionalista italiano: “deve intendersi l’attività intellettuale coincidente con le espressioni artistiche e scientifiche del talento umano”.

Maria Antonietta Potente

Il Presidente Trump con Nency Pelosi

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Diciotto anni su quei tasti bianchi e nerira on. Laura Boldrini il premio “eccellenza” della musica nei Conservatori. In occasione dell’evento Bologna-Liverpool Città della Musica UNESCO, è stato invitato a suonare, a settembre 2017, con l’Orchestra dell’Arte di Liverpool presso la St. George’s Hall, il con-certo per pianoforte e orchestra n. 3 di Bee-thoven. Ha inoltre tenuto una tournée di concerti quale solista in Londra, Shrewsbury, Ludlow. è stato allievo del Ma-estro Andreas Frolich presso la Scuola di per-fezionamento di Brescia “Talent Master Courses”. A gennaio 2018 è stato ammesso alla prestigio-

sa Royal College of Music di Londra, ove frequenta il cor-so di perfezionamento con il Maestro Jan Jones.Volentieri pubblichiamo al-cune brevi notizie di questa eccellenza bolognese.

La Redazione

La pianta di Marionelle settimane seguenti la pianticella deperiva sempre di più e aveva un aspetto sempre più triste, ma non mi decidevo a sbarazzarmene perché mi sembrava di fare un torto all’affetto dimostra-to da Mario. Purtroppo, poco tempo dopo, il nostro anziano ami-co morì a seguito di una brutta polmonite. Appena ricevuta la notizia mi venne spontaneo andare ad annaf-fiare la pianticella, ma era messa talmente male che mi convinsi che ormai non ci fosse più speranza. Il giorno seguente però vidi spuntare una fogliolina verde; dopo una settimana le foglioline erano tante. Giorno dopo giorno la pianticella pren-deva vitalità e nel giro di un qualche mese era diventata una bellissima pianta verde. Diventò talmente forte che decise persino (senza il mio intervento) di ospitare un

Fra le mie piante sul pianerottolo di casa, ce ne è una a cui sono

particolarmente affezionata e ogni volta che arriva il giorno di Natale, non posso fare a meno di ricordare la sua storia. Proprio un Natale di qualche anno fa, poco pri-ma di mettermi a tavola con tutta la famiglia, mio marito chiese se poteva invitare a pranzo un suo anziano co-noscente che aveva sentito al telefono molto triste e depresso; in effetti aveva perso la moglie da poco ed era rimasto solo. Natural-mente acconsentimmo tutti con piacere. Mario, così si chiamava, per non arrivare a mani vuote, si presentò con una pianta presa dal suo giardino, deci-samente spoglia e rinsecchi-ta; si scusò spiegando che se ne era sempre occupata la moglie e da quando lei era morta lui non aveva più voglia di dedicarsi a nulla. Mario dimostrò essere un personaggio molto interes-sante: era stato ingegnere e si era occupato di fisica e chimica. Oltre ad essere estremamente acculturato, portò avanti una conversa-zione alquanto originale: ci parlò dei suoi studi sulle energie, sulla teoria delle stringhe, sull’elettromagne-tismo; era convinto che ai confini della fisica esistono fenomeni che la scienza non riesce ancora a spiegare. In famiglia siamo tutti molto aperti a nuove teorie, ma alcune sue convinzioni ci sembrarono davvero un po’ bislacche. Al momento del commiato, dopo averci ma-nifestato la sua gratitudine per avergli fatto trascorrere qualche ora lieta in un gior-no che sarebbe stato molto triste, accarezzò le foglie ap-passite della pianticella che aveva portato e mi disse: “Lo so che non è una pianta ri-gogliosa, ma è piena del mio affetto e riconoscenza; ogni volta che se ne prenderà cura si ricordi di me; vedrà che prima o poi le darà belle soddisfazioni”. A dire il vero

Pietro Fresa (nel-la foto) è nato a Bologna nel 2000.

A dieci anni è stato am-messo al Conservatorio “Martini di Bologna”, di-plomandosi nel luglio 2017 con il massimo dei voti, lode e menzione di onore con il Maestro carlo Mazzoli. A soli undici anni è stato ammesso all’Accademia Pianistica Internazionale “Incontri col Maestro” di Imola, ove ha studiato con la concertista cinese Jin Ju, ed è attualmente allievo del celebre Ma-estro russo Boris Pe-trushansky. Vincitore di concorsi na-zionali e internazionali, si è esibito in numerose rassegne musicali (tra cui San Giacomo Festival di Bologna, Santa Cristina per Genius Bononiae, Cenobio di San Vittore, Associazione Culturale Alberione di Mo-dena, Associazione Giovani Talenti in Musica di Reggio

Emilia, Talent Master di Brescia).Nel luglio 2016 si è aggiudi-cato il primo premio al con-corso “Grand Prize Virtuoso Competition” di Vienna. Il 21 giugno 2017 ha ricevuto dalla Presidente della Came-

seme del vicino tronchetto della felicità, nutrirlo e farlo crescere rigoglioso. Ora con-vivono serenamente nello stesso vaso facendosi una bella compagnia. Non vo-glio addentrarmi nella fisica quantistica o ancora meno

nei fenomeni paranormali, ma mi piace pensare che energie positive e di amore abbiano vibrato attorno a noi, compiendo un piccolo miracolo.

Antonella Sarti Caruso

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1969: prima passeggiata dell'uomo sulla lunaartificiale denominato Sput-nik che in russo significa “compagno di viaggio”. La grande avventura del lavoro e dell’intelligenza umana era cominciata. Ad un solo mese di distanza, un altro potente razzo sovietico portava in or-bita lo Sputnik 2 che recava all’interno il primo essere vivente che avesse mai var-cato i confini dell’atmosfera: una cagnolina siberiana di nome Laika di due anni. Questo evento suscitò nel-la mia immaginazione di bambina tanta curiosità, ma anche profonda commozio-ne quando giunse la notizia della sua morte. Intanto era già stata avviata, tra flop e successi, la rivincita degli Stati Uniti nella corsa alla conquista del cosmo con i loro “Vanguard, explorer, Pioneer e Score-Atlas”. Tutto il mondo si chiedeva chi sarebbe arrivata per pri-ma fra le due potenze. Sui progressi degli Stati Uniti si sapeva quasi tutto, su quelli dell’Unione Sovietica si potevano fare solo sup-posizioni. Il 12 aprile 1961 scoccò l’ora X. Quel giorno Radio Mosca diramava la notizia del primo volo nello spa-zio dell’astronave Vostok (Oriente), con a bordo un cosmonauta: il maggiore ventisettenne Yuri Gagarin che, avendo circumnavigato la terra, rimarrà nella storia come pioniere nella nuova era dell’astronomia. Stra-ordinaria l’impresa, a bordo della Vostok 6 nel 1963, di Valentina tereshkowa, che dimostrò come una donna fosse in grado di su-

perare anche fisicamente le difficoltà di un volo spaziale. Negli anni successivi altri astronauti si avventurarono nei nuovi percorsi aperti fra le stelle. Ma fu la missione spaziale Apollo 11 a rag-giungere, il 21 luglio 1969, la meta che sembrava inar-rivabile. In quel periodo mi trovavo in vacanza e quella notte in Hotel eravamo tutti “incollati” alla TV, allora in bianco e nero, come milioni di persone. Anche noi giovani avevamo rinunciato alla discoteca per seguire la lunga diretta televisiva. Alle 21:18 ora italiana l’ur-lo del mitico tito Stagno, giornalista RAI diventato famoso per la sua storica telecronaca: “Ha toccato! L’uomo è sbarcato sulla luna”. Infatti, dal centro Spaziale J.F.Kennedy in Flo-rida, era stata lanciata il 16 luglio un’astronave costituita dal modulo lunare Aquila e da moduli di comando e di servizio columbia. Dell’e-quipaggio facevano parte: neil Armstrong, coman-

dante del volo, che per primo mise piede sul suolo lunare, edwin eugene Al-drin, uscito per secondo sul nostro satellite e Michael collins che rimase sul Co-lumbia, di cui era il pilota. Effettuata una passeggiata sulla superficie selenica di 2 ore e 11 minuti, necessari per compiere gli esperimenti tecnico-scientifici pianificati, i due astronauti ritornarono all’interno di Aquila e dopo una sosta di 21 ore e 37 minuti, decollarono com-piendo, dopo alcune ore, la difficile operazione di aggan-cio con Columbia - il modulo rimasto in orbita attorno alla luna guidato da Collins – che imboccò la traiettoria di ritorno. Aquila, ormai inutile, venne diretta verso il sole. L’Apol-lo 11 ammarò il 24 luglio nell’Oceano Pacifico a sud-ovest delle Havaii, dove la portaerei Hornet attendeva con il Presidente Richard Nixon i tre artefici della più grande avventura di tutti i tempi.

Lucia Marani

“Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa

luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi”. Così Leopardi nella prima “stanza” del “Canto notturno di un pastore er-rante dell’Asia” si rivolge alla luna, con cui spesso instaura un dialogo chiamandola a te-stimone del suo dolore come nella poesia “Alla luna”. Oppure paragonando la sua bellezza alle illusioni gio-vanili ne “Il tramonto della luna”, scritta prima di mo-rire. Dall’antichità ai giorni nostri essa è stata fonte di ispirazione per poeti, scrittori, cantautori per il suo fascino misterioso. Nonostante siano passati diversi anni, non svanirà in me il ricordo della luna che, brillando di una luce magica, “sorge” gradua lmente dietro le cime rocciose nel silenzioso deserto rosso del Wadi Rum in Giordania. Sce-nario notturno suggestivo e spettacolare dall’atmosfera poetica nella terra dei be-duini, dove, nel secondo decennio del ‘900, Lawrence d’Arabia guidò la rivolta ara-ba contro i turchi. L’uomo ha sempre sognato di raggiun-gere la luna, di avvicinarsi agli astri e di poter viaggiare nello spazio. Il primo clamoroso tentati-vo di allontanamento dagli strati bassi dell’atmosfera terrestre fu compiuto negli anni Trenta del secolo scorso e negli anni Cinquanta i razzi erano già di uso comune. Infatti, il 4 ottobre 1957 da Mosca un razzo lanciò at-torno alla terra un satellite

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L'origine delle due metàgli organi del sesso, che era-no rimasti nella parte ester-na, li fece ruotare sul davanti, trasferendo a questi il proces-so di procreazione, per opera del maschio nella femmina; così se nell’amplesso si fosse-ro trovati insieme un uomo e una donna, avrebbero procre-ato e riprodotto la specie, ma se si fossero incontrati due maschi o due femmine, questi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel rapporto tornando così alle loro occupazioni. E così, sin da quei tempi lon-tani, in noi è innato il deside-rio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della no-stra antica natura, facendo di due esseri uno solo, in quanto ognuno di noi è una frazione dell’essere umano completo originario. Per ogni perso-na ne esiste dunque un’altra che le è complementare ed è per questo che ciascuno è

alla continua ricerca della sua metà, perché questa era la nostra antica natura: è perciò il desiderio dell’intero che ha nome “Amore”. Saremmo perciò felici se riu-scissimo a raggiungere il fine del nostro amore ritrovando ciascuno la propria metà, ma se non si trova, o se questa ne trova successivamente un’altra più in sintonia con lei, allora l’amore può anche es-

sere fonte di sofferenza, come quando Virgilio fa pronunciare al suo amico (Cornelio Gallo), disperato perché è stato ab-bandonato dall’amata, la fra-se che nel tempo ha assunto un significato universale sulla potenza dell’amore: “Omnia vincit amor et nos cedamus amori” “L’amore vince tutto, e noi cediamo all’amore” (Vir-gilio, Bucoliche, X, 69).

Franco Gori

Nel “Simposio” Platone fa raccontare ad Aristo-fane il mito delle metà,

secondo il quale inizialmente la nostra natura non era come ora, infatti i generi degli esse-ri umani erano tre: il maschi-le, il femminile e l’androgino, composto del maschile e del femminile. La figura di cia-scun essere era rotonda, con il dorso e i fianchi a forma di cerchio, aveva quattro mani, quattro gambe e un’unica te-sta per due facce rivolte in senso opposto, quattro orec-chi, due organi genitali ed il resto di conseguenza. La figura rotonda di questi strani esseri dipendeva dai loro progenitori, infatti il ge-nere maschile traeva la sua origine dal sole, quello fem-minile dalla terra e quello an-drogino dalla luna; per questa somiglianza con le loro origi-ni, oltre che l’aspetto, aveva-no anche l’andatura circolare, tanto che quando correva-no praticamente rotolavano; erano esseri veramente mo-struosi, terribilmente forti e potenti, tant’è che, per la loro superbia ed arroganza, tenta-rono di scalare il cielo e spo-destare gli dèi. Zeus e le altre divinità si riunirono allora in consiglio per decidere sul da farsi, ma erano in imbarazzo perché se avessero deciso di sterminare tutta la specie sa-rebbero scomparsi anche gli onori e i sacrifici che ne pro-venivano; dopo avere medi-tato, Zeus disse: “Ho trovato il rimedio: spaccherò ciascu-no in due, così diverranno più deboli e più utili a noi per l’au-mento del loro numero.” Detto fatto, iniziò a tagliare in due quegli esseri e ordinò ad Apollo di rivoltare il loro viso dalla parte del taglio, in modo che si ricordassero sempre della scissione, di chiudere l’apertura tirando la pelle sul ventre, di modellare i seni spianando le grinze e di fare un nodo al centro formando quello che oggi chiamiamo ombelico. Una volta divisa, però, ciascuna metà cercava l’altra e quando si trovavano si buttavano le braccia al collo e restavano avvinghiate, felici per avere ricostituito la pre-cedente unità, dimenticando-si di mangiare e di bere fino a morire. Allora Zeus, preso da compas-sione, ebbe una nuova idea:

Ancora una volta Bologna si conferma come città dove la migliore imprenditoria coltiva

e manifesta una forte vocazione di mecenatismo per l’arte (e non solo) nelle sue diverse forme espressive. Una nuova realizzazione di Gaia e Alberto Vacchi si aggiunge alle iniziative di Isabella Seràgnoli con il MAST, di Marino Golinelli con il suo Opificio, di Alberto Masotti con la Fondazione Fashion Research Italy, di Massimo e Sonia Cirulli con la propria Fondazione. Entrambi noti imprendi-tori bolognesi (lei appartenente alla famiglia Rossi già protagonista dello sviluppo del brand Redwall-Borbonese, lui Presidente di IMA, gruppo leader a livello mondiale nel settore del packaging e Presidente degli industriali di Bologna Modena e Ferrara), nella prestigiosa dimora cinquecentesca di Palazzo Bentivo-glio (storica residenza di quelli che potremmo definire i Medici di Bologna) in un’area comple-tamente restaurata hanno collocato la propria collezione d’Arte e realizzato nei Sotterranei un suggestivo spazio espositivo dedicato a mo-stre temporanee ed eventi. L’apertura è stata inaugurata con la mostra Bologna Portraits di Jacopo Benassi (tra i main projects di ART CITY Bologna 2019) visitabile fino al 31 marzo prossimo. Racconta il rapporto speciale dell’artista con il contesto cittadino, un tributo e una riflessione su Bologna e sui suoi cittadini, uno sguardo particolare sul luogo in cui que-sta nuova realtà espositiva si sta affacciando e andrà a operare nei prossimi anni. Bologna Portraits raccoglie una selezione (curata da Antonio Grulli) di fotografie realizzate dall’ar-

tista durante i suoi soggiorni bolo-gnesi negli ultimi anni. Racconta la città di Bologna attraverso i volti di scrittori, musicisti, uomini d’affari, baristi, stilisti, professori universi-tari e artisti noti come Nino Migliori e Luigi Ontani che risiedono nel capoluogo emiliano. Un centinaio di persone dalle età più varie, dai ventenni agli ultranovantenni, che fanno parte del paesaggio cittadino. La scelta dei volti da fotografare è stata spesso guidata dal caso, così

come dalle normali frequentazioni più strette dell’artista in città. Non tutti sono famosi, ma tutti hanno un volto, un’attitudine o una fisicità che hanno colpito Jacopo e che lui ha sentito la necessità di interpretare con il proprio obietti-vo. Ne esce un poliedro di immagini in grado di darci un unico grande ritratto di Bologna oggi, fatto dei volti di alcune delle persone – volti noti e meno noti ma ognuno con la sua personalità originale - che la stanno animando e costruendo giorno dopo giorno.Ai volti si mescolano immagini del giardino di Palazzo Bentivoglio fotografato nel buio della notte. Fotografie di foglie, piante e alberi, con contaminazioni tra il naturale e artificiale, che conducono in una strana dimensione privata e nascosta della città. La mostra è accompagnata da una pubblicazione realizzata e distribuita internazionalmente dalla Casa editrice bolo-gnese Damiani (www.damianieditore.com), frutto della collaborazione a quattro mani di Jacopo Benassi con il critico Antonio Grulli, che sviluppa il proprio racconto attraverso uno stretto dialogo di immagini e testo.

Roberta Bolelli

A Palazzo Bentivoglio il racconto di Bologna attraverso i volti che la animano

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La prima donna laureata al mondoElena Lucrezia Cornaro

Piscopia, indicata anche come elena Lucrezia

corner, figlia di un nobile veneziano e quinta di sette figli, nacque il 5 giugno 1646 a Venezia e morì a Padova, 26 luglio 1684. Dimostra fin da bambina di essere un piccolo genio, con capacità di appren-dimento strabilianti; è ricor-data come la prima donna a ottenere un dottorato al mon-do. Nel 1665, a 21 anni, Elena diventa oblata benedettina, rispetta i voti delle monache pur continuando a vivere in famiglia. Studia filosofia, ma conosce il latino, il greco, il francese, l’inglese e lo spagno-lo e l’ebraico. Quando, dopo essersi iscritta all’università (a quei tempi definita Studio di Padova), presenta regolare domanda di ammissione alla laurea ed ecco la spiacevole sorpresa. A una donna, infatti, non era concesso ricevere il titolo di dottore in teologia. Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova blocca tutto. Inizia, così, una lunga polemica tra lo Studio di Padova, che aveva acconsentito alla laurea, e il cardinale Barbarigo. A 32 anni Elena ottiene, finalmente, la sua laurea, però in filosofia, non in teologia. La cerimonia di proclamazione resta negli annali: aula stracolma, si de-cide addirittura di spostare la discussione in uno spazio più grande. Si dice che ci fossero 30mila persone. Elena Lucre-zia Corner Piscopia si prende la sua rivincita: ora è una celebri-tà, tutti la cercano, tutti voglio-no parlare con lei. Anche Luigi XVI manda i suoi informatori a verificare le doti eccezionali della donna. Durante gli studi aveva vissuto sempre a Vene-zia; si trasferì a Padova dopo la laurea andando ad abitare nel prestigioso Palazzo Cor-naro - di cui fa parte l’odierno museo Loggia e Odeo Cornaro - fatto costruire dal trisnonno Alvise. Il suo fisico era ormai minato dai lunghi studi e dalle prove ascetiche a cui si era sottoposta, era spesso malata anche per lunghi periodi e morì di cancrena a soli trentotto anni. Fu sepolta nella chiesa di Santa Giustina. Tra debiti e volontà dei monaci benedet-tini, non rimarrà nemmeno la statua di Elena, fatta erigere dal padre. Sembra che avesse disposto di distruggere tutti

i suoi manoscritti e le poche carte restanti, consistenti in discorsi di argomento morale e religioso e in alcune poesie, furono pubblicate postume. Le

sue opere si erano limitate a quattro discorsi accade-mici riguardanti la religio-ne, la politica e la morale, undici elogi, cinque epi-grammi, un acrostico, sei sonetti e un’ode, oltre alla traduzione dallo spagnolo di un opuscolo spirituale di Giovanni Lanspergio, il Colloquio di Cri-sto all’anima devota, che fu pubblicata in cinque edizioni. “Scarsissimo o nullo è il valo-re di tutta cotesta letteratura ascetica e rimeria spirituale” fu il giudizio delle sue opere dato da Benedetto Croce, che la citò come esempio di un intero filone letterario minore del Seicento. Oggi, la riproduzione della statua di Elena si trova nella

sede dell’Università di Pado-va. È ricoperta da pannelli di plexiglas, piena di escrementi di piccioni. Solo nel 1969 l’U-niversità di Padova avvia delle ricerche su Elena. Bistrattata, dimenticata, osteggiata, l’Italia vanta la prima donna laureata al mon-do e non lo sa. Non un’aula universitaria intitolata, non un istituto scolastico superiore, Elena ha un debito con il no-stro Paese, ed è ora di saldarlo. Ricerca di Mirella Marchesi

“Duje viecchie prufessure (professori)‘e cuncertino “/nu juorne (un giorno) nun sapevano che fà.

Pigliarono a chitarra‘e‘o mandulino/e,‘n Para-viso (in Paradiso) andarono a suona’.Ah, San Piè, chesti canzone/sule Napule ‘e po’ fa”.Inizia così la canzone “Dduje Paravise” scritta da E.A. Mario. Due Paradisi, uno lo desideriamo, ma uno lo viviamo tra le vie di Napoli quando da ogni parte sentiamo una voce che sale; se la questione delle origini delle canzone napole-tana è ancora irrisolta, la tendenza più comune la vuole nata dalle espressioni spontanee del popolo napoletano:“Jesce sole” (esci sole) era il “canto” che saliva alto nel cielo per invogliare il sole ad asciugare i panni del bucato; ecco il venditore di gamberetti “Gente, gente, questi pazziavano attuorne ‘e scoglie! (giocavano intorno agli scogli)”. Ma tentiamo un percorso storico. Le prime trac-ce si collocano intorno al XIII° secolo, ai tempi della fondazione dell’Università partenopea istituita da Federico II° di Svevia; nel XV sec. Alfonso D’Aragona istituisce la prima Scuola Musicale; nacque la “villanella napoletana”, bene accolta sia per il suo carattere scherzoso, sia per l’ampio spettro componentistico che variava dalla polifonia all’accompagnamento strumentale. Risalgono al ‘600 “Fenesta ca lucive” (Finestra che dava luce) rielaborata poi dal Bellini e presente nella colonna sonora del Decameron di Pasolini e “Michelemmà”, canzone/tarantella piena di fascino che si volle attribuire a Salvator Rosa. Nel 17° e nel 18° secolo musicisti quali Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, inserivano negli spartiti brani di can-zonette per vivacizzare le loro opere. Prende sempre più piede la tarantella (è del 1768 “Lo guarracino” una delle più celebri e di autore ignoto). Nell’ottocento le case editrici musicali (Cottreau, Girard, Fabbricatore, ecc.) e molti negozi musicali favorirono un’ampia diffusione. E i “posteggiatori”? Musici vagabondi che, per guadagnarsi da vivere, si esibivano un po’o-

La Canzone Napoletanavunque, ma il luogo ideale era appunto il Posteggio davanti alle stazioni dove i vetturini di carrozze trainate da cavalli, si fermavano in at-tesa di passeggeri. Nel 1907 Gabriele D’Annunzio scrisse: “A vucchella”, por-tata alla celebrità dal grande Enrico Caruso; fu scritta d’impulso dal Poeta su di un tovagliolino di carta al tavolino dello stori-co caffè Gambrinus. Il Vate era in compagnia di Ferdinando Russo, poeta e suo collega al quotidiano “Il Mattino” di Napoli. Russo aveva sfidato D’Annunzio a scrivere in versi napoletani e quel testo breve e fresco nella delicata sensualità divenne una canzone grazie a Francesco Paolo Tosti. Il novecento è stato un secolo ricco di fermen-ti: il forte impulso dato ai primi del secolo da Russo, Bovio, Pisano si espanse con la “sce-neggiata” di Mario Merola, con il Festival della Canzone Napoletana e quello di Piedigrotta; la canzone napoletana viaggiava per il mondo e raccontava il cuore di Napoli. Renato Carosone mescolò i ritmi della tarantella con le melodie e gli strumenti tipici del jazz. Sono state e sono tante le voci italiane e non: Sergio Bruni, Franco Ricci, Mario Abbate, Maria Paris, Giaco-mo Rondinella, Roberto Murolo, Nunzio Gallo, Aurelio Fierro, Modugno, Dalla (con “Caruso”), Zero, Bocelli, Elvis Presley, Elton John, Elsa Fitzgerland, Frank Sinatra. Quanti “prufessure (professori) ‘e cuncertino” che alzano al cielo il loro canto… La canzone citata all’inizio si chiude così:“Si po’ scennite llà, nun‘ ‘o crerite? (Se poi scendete là, non ci credete?)/Vuje n’Paraviso nun turnate cchiù” (Voi in Paradiso non tor-nate più).

Giovanni D’Amore

Anonimo: Ritratto di Elena Corner, Biblioteca Ambrosiana

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Raccontare la guerra

Nel caotico e tra-volgente mondo dell’editoria ita-

liana, dove prevale il “borsino” delle novità o prime edizioni di ogni genere ed ogni ame-nità, a volte, escono libri di grande interesse culturale, a cui non si dà alcun rilievo o sollecita informazione. Prima che iniziassero i “cammei” per il cente-nario della Prima Guerra Mondiale, la casa edi-trice Interlinea, che fa parte della cosiddetta Editoria minore, ma di grande pregio cultu-rale, ha pubblicato un libro di grande interesse pedagogico-letterario dal titolo: “Raccontare la guerra - Libri per bambini e per ragazzi”, scritto da Walter Fo-chesato, sensibile ed appassionato ricercato-re. Non è un’antologia, ma una ricca ricognizio-ne tra i romanzi, riviste e le indimenticabili, per chi le conosce, colla-ne per ragazzi, come “La Biblioteca dei miei ragazzi” dell’Editore Salani. Non sono tra-scurate alcune edizioni cinematografiche de-gli eroi protagonisti di una letteratura, fino a qualche decennio fa, considerata inutile o semplice orpello del tut-to arbitrario e voluttua-rio. In questa accurata rassegna delle opinioni,

degli scritti d’autore e di pubblicistica prima della Guerra Mondiale, du-rante e dopo, arrivando fino ai giorni nostri, Fochesato ci mette in contatto con i contra-sti od opposizioni sulle ideologie che agitavano coloro che sostenevano la pace e quelli che si entusiasmavano, come i futuristi, della bontà della guerra, pensata ed esaltata come l’i-giene del mondo. La parola ai politici, ai go-vernanti del tempo, ma è il nuovo genere del-la letteratura italiana che, maggiormente, interessa. Da “Cuore” a Capuana, da “Vamba” a il “Piccolo alpino”(nella foto la copertina del libro), passando per la Prima Guerra Mondiale e le tragiche guerre del fascismo fino a giunge-re ai romanzi di grandi scrittori o illustratori quali Robert Westall, Uri Orlev, Tomi Ungerer, Roberto Innocenti e Lia Levi. Una lettura affa-scinante per rendersi conto della ricchezza di idee e di commenti che questi “piccoli capolavo-ri” della letteratura per ragazzi, hanno appor-tato nella discussione generale, sulle varie opportunità o nega-tività. Inoltre, anche su una seria questio-ne “educare alla pace” che si concentrava sul-

la conoscenza delle culture e delle tradizioni, ma non furono molto ascoltati, poiché si parla-va attraverso gli occhi e la mente dei ragazzi, at-traverso i sogni di un’infanzia già abbandonata e deprivata dagli affetti familiari e dalla rassicura-zione di una ritro-vata “civiltà” che, dopo due decenni ripeteva in modo ancora più tragi-co e drammatico

con la Seconda Guer-ra Mondiale le proprie sconfitte morali e cul-turali. A questo punto esco per un momento dall’interessante libro di Fochesato per sintetiz-zare le valutazioni sulla letteratura per ragazzi espresse da personaggi illustri e di dichiara-ta formazione risorgi-mentale/liberale e de-mocratica. Alessandro Manzoni, rispondendo all’educatrice Adelaide Montgolfier del 19 feb-braio 1836, spiegando le ragioni che l’avevano dissuaso dal comporre, a richiesta dell’educa-trice, alcuni inni per i fanciulli, affermava che l’intento pedagogico avrebbe impedito il fine essenziale dell’arte, che è l’imitazione del vero. Mentre il pedagogista e didatta innovatore Giu-seppe Lombardo Radice sosteneva: “...non tutto ciò che è scritto per adulti vale per il bambi-no…. Tutto ciò che vale per i bambini deve va-lere anche per gli adulti se è opera d’arte”. Ma ciò che più sorprende fu la posizione intran-sigente del grande filo-sofo Benedetto Croce, che negava al bambino

la capacità di avvicinarsi all’arte pura, anche se aggiunge che “ad essi si confà un certo gene-re di libri che hanno sì dell’artistico, ma con-tengono anche elementi extra estetici, curiosità, avventure, azioni ardite e guerresche e simili, non intimamente moti-vati dall’insieme e non ben intonati”. Ma non si trattava di riconoscere come avvenne con le approfondite conside-razione di Mario Valeri e del “gigante” della pe-dagogia J. Dewey, che il libro per ragazzi deve tendere alla formazione del senso estetico come sollecitazione ai valori dell’educazione, ma, soprattutto, nel saper scoprire ed affrontare i contenuti che servono per alimentare la capa-cità critica e la consa-pevolezza dei temi trat-tati. Temi che possono riguardare la guerra, come qualunque altro di ispirazione culturale e sociale, evitando di circoscrivere gli autori e gli eventi, poiché questo metodo non apre ad alcuna continuità: né ideologica, né di cono-scenza.E qui vorrei ricordare

quanto accadde all’in-domani della uscita te-levisiva (1986) dello sceneggiato per ragaz-zi, ricavato dal libro di Salvator Gotta, Il piccolo alpino. Libro notissimo nel passato e tra i libri della biblio-techina scolastica. In concomitanza uscì an-che una nuova edizione nella collana degli Oscar Mondadori, con una preziosa introduzione di Oreste del Buono. A sessant’anni dalla prima edizione (1926) molte “mode sono pas-sate”, ma per Oreste del Buono: Il piccolo alpino è un libro sul coraggio. Ma il suo pro-tagonista è più vicino al Pinocchio di Collodi che all’Enrico De Rossi di De Amicis. E’ una specie, anzi, di Giam-burrasca di Vamba, o chi per esso, anche se Salvator Gotta non ne ha fatto un discolo in fuga da casa per evita-re lo studio, ma lo ha fatto capitare dentro la guerra per una concate-nazione di circostanze. E la sua nota introdut-tiva finisce ricordando la copia produzione di Salvator Gotta e che: “Però il suo ricordo è affidato a questa pic-cola favola limpida e candida”. Dalle critiche negative subito uscite da vari illustri esponenti del giornalismo e della letteratura, mi piace riportare quanto scrisse lo scrittore Mario Rigoni Stern: “Il piccolo alpino non mi sembra una “piccola favola limpida e cordiale” (ndr non trascrisse “candida”), ma un insieme di me-lensaggini che affiorano a ogni capitolo: monta-nari, montagne, con-trabbandieri, guerra, sentimenti non hanno qui favola né candore di favola”. Forse dovrem-mo imparare a rileggere il passato non solo con gli occhi del tempo ma con la mente per saper intravedere e non ve-dere ciò che più ci fa piacere.

Franchino Falsetti

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Il valore dei nostri alimenti: due Accademie ne hanno parlato in Archiginnasio

Il Cubiculum Artista-rum dell’Archigin-nasio ha ospitato,

da maggio a novem-bre 2018, l’iniziativa “L’Odissea del cibo, dal campo alla tavola: il va-lore dei nostri alimenti”, consistente in un ciclo di incontri dedicato alle eccellenze del nostro sistema agroalimen-tare. L’iniziativa, nata da un’idea del settore cultura dell’Accademia Italiana della Cucina, Delegazione di Bolo-gna dei Bentivoglio, e prontamente condivisa e supportata dall’Ac-cademia Nazionale di Agricoltura, può esse-re per questo definita “delle Due Accademie”, e quale appartenente ad entrambe è stata coordinata da chi scri-ve. Dalla sinergia tra le specifiche competenze dell’Accademia Nazio-nale di Agricoltura e il contributo storico-ap-plicativo dell’Accademia Italiana della Cucina, sinergia supportata dal-la partecipazione scien-tifica di rappresentanti del mondo universitario spesso comuni ad en-trambe le istituzioni e da testimonianze di pro-duttori, è quindi nato nel 2018 il primo ciclo di incontri con il pubblico, cinque in totale, tutti ospitati dall’Accademia Nazionale di Agricoltura presso il Cubiculum. Il punto di partenza era costituito dalla consa-pevolezza che il setto-re agroalimentare sia ormai ampiamente ri-conosciuto come una ricchezza unica per il Paese, che deve essere protetta e valorizzata a tutto vantaggio della nostra economia e delle eccezionali opportunità di lavoro che è in grado di offrire. Tale consape-volezza deve però es-sere accompagnata da una corretta conoscen-za delle singole filiere alimentari delle eccel-lenze Made in Italy: dai processi produttivi alle caratteristiche qualita-tive, fino alle potenzia-

lità gastronomiche, fin troppo esibite e prati-cate, e non sempre cor-rettamente, sui mezzi di comunicazione. Grazie alle diverse competenze coinvolte il program-ma ha inteso formare il percorso completo della filiera alimentare attinente alle eccellen-ze enogastronomiche italiane. Gli incontri, ciascuno destinato a un cibo di-verso, hanno infatti se-guito una formula pre-cisa, articolandosi in tre relazioni: una relativa al “valore del prodotto agricolo”, una seconda incentrata sul suo “valo-re nutrizionale e nutra-ceutico”, e una conclusi-va dedicata agli aspetti storico-culturali del suo uso in cucina e a tavo-la. Gli alimenti oggetto dei cosiddetti “Merco-ledì dell’Archiginnasio”

vanni Ballarini (cipol-la), Rosanna Scipioni, Silvana Hrelia, Giorgio Palmeri (maiale). Gli argomenti per il 2019, ancor più numerosi, sono già definiti, e ve-dranno la partecipazio-ne anche delle altre due Delegazioni bolognesi dell’Accademia Italiana della Cucina.

Rosanna Scipioni

sono stati, nell’ordine: l’asparago, il pane e la pasta, il pesce azzur-ro, la cipolla, il maiale. Aperti alla cittadinanza, gli incontri hanno visto una presenza partico-larmente partecipata da parte di un pubblico desideroso di acquisire conoscenze precise in grado di far superare disinformazione, luoghi comuni e false notizie, ma anche di fornire spunti e suggerimenti per il futuro, in quanto il settore agroalimentare è ricchezza di tutti gli italiani. Accolti dal Pre-sidente dell’Accademia Nazionale di Agricoltura Giorgio Cantelli Forti (nella foto al microfo-no) e dal Delegato di Bologna dei Bentivo-glio Giorgio Palmeri, presentati e moderati dalla sottoscritta quale Vicedelegato, si sono

avvicendati molti auto-revoli relatori: Stefano Calderoni, Marco Mala-guti, Giovanni Ballarini (asparago), Roberto Ranieri, Paolo Parisini, Andrea Villani, Giorgio Palmeri (pane e pasta), Corrado Piccinetti, Oli-viero Mordenti, Giorgio Palmeri (pesce azzur-ro), Flavia Montroni, Cristina Angeloni, Gio-

L’Emilia-Romagna fra i protagonisti di Arte Fiera 2019

Giampiero calzolari, presidente di Bologna Fiere, ha definito Arte Fiera, esibizione internazionale d’arte moderna e contem-poranea, “un’icona, un tratto rappresentativo e identificativo

della città”. Simone Menegoi, alla prima esperienza di direttore artisti-co della manifestazione, ha voluto “rafforzare i legami della Fiera con Bologna e il suo territorio” introducendo, fra l’altro, “una mostra delle collezioni istituzionali, pubbliche e private, di Bologna e dell’Emilia-Romagna, che vuol essere la prima di un ciclo”. Il ciclo si chiama “Courtesy Emilia-Romagna”, per gentile concessione dell’Emilia-Romagna, e l’idea è di mettere in evidenza “l’Emilia-Romagna come terra d’arte, nella quale le individualità e le eccellenze si riconoscono parte di un tessuto, di una rete, di un paesaggio comune”. Tema della mostra a cura di Davide Ferri, allestita all’interno di Arte Fiera, è stato “Solo figura e sfondo”. Un’esposizione densa di citazioni colte, ricordate e spiegate dalle corpose “didascalie” introduttive alle varie sezioni, il cui senso può essere però apprezzato in una certa misura anche dal visitatore comune. Chi ha una radicata familiarità con il mondo dell’automobile, importante realtà nella quale l’Emilia-Romagna eccelle, riconoscerà a prima vista i luminosi reparti della Ferrari realizzati fra la fine del Novecento e i primi anni Duemila, illustrati nel polittico in dieci parti “Maranello, Modena” di Olivo Barbieri. In questo “sfondo” di positività la “figura” umana si confonde in uno scenario amico, ben diverso da quello del coloratissimo “Le Fonderie Falck” dipinto da Anselmo Bucci nel 1920 in cui metallo infuocato, fumo, silos e una nera locomotiva quasi annichiliscono gli uomini al lavoro. Nella stessa sezione i bolognesi non mancheranno di riconoscere nel tetro “Paesaggio urbano” (nella foto) di Mario Sironi un elemento a loro familiare, il Gasometro che ancor oggi spicca fra Porta San Donato e Porta Mascarella: attenzione però a non fare raffronti con il paesaggio attuale della zona, Sironi infatti non s’ispirò a Bologna, dato che dipinse il quadro nel 1926, un anno prima che il gigantesco serbatoio fosse costruito nel capoluogo regionale! Uno scorcio autenticamente bolognese è invece illustrato nell’acquaforte su zinco realizzata da Giorgio Morandi nel 1923 intitolata “Campo di tennis ai Giardini Margherita di Bologna”, in cui una parte del parco è vista attraverso le maglie romboidali di una rete metallica posta in primo piano, cosicché lo “sfondo” diventa il vero protagonista dell’opera. Sulla parete adiacente un dipinto a tempera su tela di lino di Marco Neri, “Mirabilandia 2004-2006”, estremizza il rapporto fra figura e sfondo provocando un effet-to allo stesso tempo poetico e raggelante, una visione lontanissima da quella che tutti abbiamo del parco divertimenti ravennate: neve in primo piano e nebbia sullo sfondo su cui s’intravede il fantasma dell’enorme ruota panoramica. Ci riporta al sorriso la ceramica policroma smaltata “Son testa son paesaggio turrito”, opera del 1984 di Luigi Ontani, una testa vista di profilo con alla base una cerchia di antiche mura, in cui si apre una porta, e il naso che si prolunga e assume le sembianze di una tor-re medievale, un’opera che fa riflettere su quanto il paesaggio in cui viviamo possa radicarsi in noi e definire la nostra identità, in un gioco che ha come protagonisti “Solo figura e sfondo”.

Luigi Massari

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Cancellare il passato per vivere il presenteCi sono degli uomi-

ni che superano la loro storia ed

entrano subito nel Mito. Uno di questi è nelson Mandela (nella foto), colui che ha capito che non c’è vendetta mi-gliore del perdono, che ha insegnato a rispon-dere alla violenza con le parole, a non rinnegare gli ideali per vigliac-cheria e a perseguire i propri sogni qualunque cosa essi comportino. Nelson Mandela è nato nel 1918 sulle rive di un fiume, in un vil-laggio nel Sudafrica Orientale. A poco più di 20 anni fugge dal villaggio ribellandosi al capo tribù che lo aveva destinato ad un matri-monio combinato. Così comincia la sua ribellio-ne alle ingiustizie, che lo porterà a laurearsi in legge e poi in politica, colonna portante dell’ “Anc” (African National Congress), il partito che con la sua guida sconfiggerà l’apartheid. In quei tempi gli spazi pubblici erano rigida-mente divisi in base alla razza. Inoltre, so-lamente i neri che era-no i possessori di uno speciale lasciapassare erano autorizzati ad accedere nelle zone dei bianchi (queste per-sone erano lavoratori che venivano per lo più sfruttati dai datori di lavoro). Mandela combatte con scioperi e manifesta-zioni, viene arrestato più volte fino al 1964 quando con l'accusa di sabotaggio e alto tradimento viene con-dannato all'ergastolo nella prigione di Rob-ben Island. Entra in carcere a 46 anni, con-dannato ai lavori forzati per uscirne dopo 27 anni. In questi 27 anni gli è stato permesso di vedere una sola perso-na e ricevere una sola lettera, censurata, ogni sei mesi. Non gli è stato

neppure permesso di partecipare ai funerali del figlio maggiore, morto in un incidente automobilistico. In pri-gione Mandela ha letto molto e una poesia di William Ernest Henley dal titolo “Invictus”, gli ha dato la forza per non arrendersi. “Non importa quanto stretto sia il passaggio/ Quan-to piena di castighi la vita/Io sono il padro-ne del mio destino/Io sono il capitano del-la mia anima”. Sono anni che non debilitano il suo spirito, anzi lo rafforzano mentre a livello internazionale cresce l’attenzione per la sua lotta e lo sdegno per la sua detenzione. Il tentativo di farlo tacere, lo fa diventare un potente simbolo. L'11 febbraio del 1990 viene liberato, diventa presidente dell'Anc, nel 1993 riceve il premio Nobel per la Pace per essere riuscito a porre fine in modo pacifico alla segregazione razziale (apartheid) dei neri in Sudafrica attuata per circa mezzo secolo dai bianchi al potere e per aver posto le basi della democrazia nel Paese. L’anno dopo, durante le prime elezioni in cui potevano partecipare anche i neri, viene elet-to Presidente della Re-pubblica del Sudafrica e capo del governo. Sotto la presidenza di Man-dela il Sudafrica vede politiche di redistri-buzione dei beni, allo scopo di risolvere una situazione che aveva penalizzato da sempre i neri, che costituivano la maggioranza della popolazione. Da primo Presidente liberamente eletto del Sudafrica, nel 1995, agevola la nascita di una Commissione per la verità e la riconci-liazione che lavora con l’obiettivo di raccontare tutto quello che era

tutto il mondo. Muore all’età di 95 anni il gior-no 5 dicembre 2013, insegnandoci che c’è un momento in cui bisogna cancellare il passato e ricominciare da zero, perché soltanto così si può rinascere.

Donatella Bruni

successo negli anni dell’apartheid: un ca-polavoro politico che ha permesso al Sudafrica di lasciarsi alle spalle il passato e di diventare uno dei Paesi più civili e progrediti del conti-nente africano. Resterà in carica fino al 1998. Nel giugno 2004, all'età di 85 anni, ha annunciato il suo ritiro dalla vita pubblica per passare il maggior tempo possibile con la sua famiglia. Il 23 luglio dello stesso anno la città di Johan-nesburg gli ha conferito la più alta onorificenza cittadina, il “Freedom of the City”, una sor-ta di consegna delle chiavi della città. Nel

2009 viene proclama-to dall’ONU il “Nelson Mandela Day”, ricor-renza che ha luogo ogni anno il 18 luglio, nel giorno del compleanno di Mandela, ed è un’oc-casione per promuove-re la giustizia, la pace ed i servizi sociali in

Save the date! Salve la data, anz i l e date

2019: la prima do-menica di ogni mese, esclusi i tre d’estate, nella basilica di S. Martino in Bologna risuoneranno, al le 17,45, i “Vespri d’Or-gano”. Nove volte, dunque. Tante per 23 anni, da che - era appunto il 1997 - si ebbe l’idea di sfrutta-re più regolarmente quel magnifico stru-mento del 1566 che troneggia là in fondo, a destra sopra l’altare (nella foto). L’annata è partita do-menica 6 gennaio con l’organista Benedet-to Marcello Morelli, che ha messo mani e piedi (e testa) a un programma cinque-settecentesco compo-sto da musiche di Mar-cantonio Cavazzoni, Girolamo Cavazzoni, Girolamo Frescobaldi, Bernardo Pasquini e Domenico Zipoli. Mu-siche adatte a segnare

i vespri, la penultima “ora” dell’ufficio litur-gico, fra l’ora nona e la compieta. Anticamente vi si can-tava soltanto, in sem-plice coralità medie-vale o in complessa polifonia rinascimen-tale. Poi, prima che si facessero vivi Mo-zart e compagni per costruire ampie for-me concertistiche per soli, coro e orchestra, risultò che potesse bastare l’organo. Il re degli strumenti (pro-prio come il leone fra gli animali, dissero) sapeva riassumere tutto, sostituendo voci e strumenti “minori”, addirittura lascian-do leggere a un solo esecutore certa musi-ca composta per più, anche molti esecutori. Il programma di Mo-relli, certo studiato in sintonia con la cura-trice della manifesta-zione Maria Grazia Filippi, assemblava autori di scuola bolo-gnese, ferrarese, ro-

Quell'organo che suona

mana, fino a quel po-vero Zipoli che, nato a Prato nel 1688, era destinato a morir gio-vane in Argentina. Il tanto grande quanto

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Perdere peso mangiando con la dieta mediterranea

salutistico della dieta mediterranea ven-ne intrapreso un este-so studio, diventato famoso come “studio dei sette Paesi”, in cui vennero messe a con-fronto le diete adotta-te negli Stati Uniti, in Italia, Finlandia, Gre-cia, Yugoslavia, Paesi Bassi e Giappone, per verificarne benefici e punti critici in termini di salute cardiovasco-lare. I risultati di tale studio non lasciavano molti dubbi: più ci si scostava dagli schemi mediterranei, mag-giore era l’incidenza di malattie cardiova-scolari. Non possiamo perciò non essere ricono-scenti a colui che fis-sò la locuzione Dieta Mediterranea, dan-dole dignità scientifi-ca e culturale: Ancel Keys. Biologo e fi-siologo statunitense, grazie ai suoi studi sulle abitudini alimen-tari delle popolazioni dell’Italia meridionale Keys approfondì in particolare la relazio-ne fra l’alimentazione e le malattie cardio-vascolari, e durante la sua residenza a Piop-pi, frazione di Pollica, comune del Cilento, studiò sul campo gli effetti benefici della dieta locale sulla sa-lute della popolazione. In numerosi altri studi

condotti in contesti geografici ed econo-mici differenti, utiliz-zando una dieta con le stesse caratteristi-che, è stata osserva-ta ugualmente una minore frequenza di malattie croniche e una maggiore longe-vità. Il percorso per l’iscrizione della Dieta mediterranea nella Lista dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità è stato iniziato nel 2006 dal ministro dell’agricoltu-ra Paolo De Castro con la sottoscr iz ione, assieme alla Spagna, di una dichiarazione congiunta presentata all’Unesco. Il 16 novembre 2010 a Nairobi, in Kenya, il Comitato intergover-nativo dell’Unesco ha inserito la Dieta Me-diterranea nella Lista dei patrimoni cultura-li immateriali dell’U-manità, riconoscendo tale patrimonio appar-tenere a Italia, Maroc-co, Grecia e Spagna. Nel novembre 2013 tale riconoscimento è stato esteso a Cipro,Croazia e Portogallo. Allora perché non se-guire questo regime alimentare e ritor-nare ai cereali, fonti di energie primarie per l’organismo, tanto spesso banditi dalla nostra tavola?

Donatella Bruni

Ogni giorno sen-tiamo parlare di diete miracolo-

se che promettono di perdere peso in poco tempo e in modo de-finitivo, ma per lo più si tratta di teorie illu-sorie che non hanno riscontro nella realtà. La “dieta mediterra-nea” rimane pertanto uno dei migliori regi-mi alimentari per chi vuole perdere peso e mantenere uno stile di vita sano. Famosa è la piramide alimentare, che rappresenta in modo schematico le quantità e le tipolo-gie degli alimenti che entrano a far parte del piano settimanale della dieta: grande va-

rietà e libertà in fatto di quantità con i cibi alla base, ma limitati quelli della cima. Ogni giorno bisogna assu-mere tre porzioni di cereali non raffinati, tre porzioni di frutta di stagione, due por-zioni di latte e latti-cini e nella settimana pesce, carne bianca e pollame, legumi, uova e patate. Tale modello nutri-zionale è ispirato alla tipica alimentazione del la popolaz ione italiana e greca. Infat-ti, i Paesi che si affac-ciano sul bacino me-diterraneo dispongono degli stessi alimenti, derivati dall'agricol-tura, dalla pastorizia

e dalla pesca. Inol-tre alcuni studi hanno provato che in queste aree geografiche, nei primi anni sessanta, l'aspettativa di vita era tra le più alte del mondo; al contrario l'incidenza di malattie come la cardiopatia ischemica, alcuni tu-mori e altre malattie croniche correlate alla dieta, era invece tra le più basse; questo avveniva nonostante l'elevata abitudine al fumo, il livello socio-economico basso e la scarsità di assistenza sanitaria in quei luo-ghi e in quel contesto storico. Per dimostrare scien-tificamente il valore

artistico strumento sammartiniano, verde scuro con rilievi in oro, conta 13 registri, una tastiera di 57 e una pedaliera di 18 suoni.

Nel tempo ampliato, modificato, finalmente restaurato nella giusta maniera “conservati-va”, è un capolavoro della tecnica organa-ria, con la sola colpa di starsene in una città che possiede e può vantare organi antichi e belli più di ogni altro posto al mondo. Era di Finale Emilia, il suo costruttore Gio-vanni Cipri, caposti-pite di una famiglia di organari e vissuto prima a Ferrara e poi a Bologna. Dove si de-dicò a diverse chiese e diversi organi, da S. Petronio a S. Maria dei Servi, con molto suc-cesso e qualche brutto guaio (una certa con-danna, con un po’ di arresti domiciliari nei locali della cattedrale dove comunque po-teva attendere al suo lavoro). Sorretta da un Istituto bancario cittadino, la serie dei “Vespri d’organo” ha un pedigree di tutto rispetto, con nomi di

meraviglie da 453 annigloriosi organisti in carriera e nomi gio-vani, nuovi, in ascesa, di chiara formazione bolognese. Ma davanti all’organo che suona a volte sta anche dell’al-tro: qualche flauto, tromba, addirittura zampogna; e spesso il coro. Il Gruppo Corale “Schütz” parteciperà il 3 novembre prima che il ciclo finisca, il 1° dicembre, con Matteo Bonfiglioli. Nel frat-tempo, avranno suo-nato Paolo Passaniti, Lorenzo Lucchini, Fa-bio Nava, Paul Keyon, Paolo Bottini e Liuwe Tamminga. Quest’ul-timo, organista uf-ficiale di S. Petronio all’occasione affian-cato dal violoncellista Marc Vanscheeuwijk, è in calendario il 6 ottobre per ricordare l’amatissimo Luigi Fer-dinando Tagliavini (a seguire, quel giorno, una messa in suffragio del maestro con Maria Grazia all’organo).

Piero Mioli

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Non si può parlare dell’Impresa dei Mille senza ricordare una

figura che riassume in sé tutte le bizzarrie e le con-traddizioni del nostro Risor-gimento: Nino Bixio, consi-derato uno dei protagonisti dell’unità nazionale. Anche nel suo caso la storiografia ufficiale non ha lesinato lodi sperticate e i posteri piazze e vie, passando sotto silen-zio, per ignoranza o malafe-de, lo stato di pazzia furiosa che ne ha contraddistinto tutta l’esistenza. Cerchiamo di conoscerlo meglio, ricorrendo a fonti di prima mano. Giuseppe Cesare Abba nelle Notarelle di uno dei mille, riporta il farneticante discorso che Bixio rivolse ai volontari sul piroscafo Lombardo, che na-vigava alla volta della Sicilia. “Il caporale Plona si lasciò sfuggire non so che brutte, parole, e Bixio giù! gli scara-ventò un piatto in faccia. Ne venne un po’ di subbuglio. Come un razzo Bixio fu sul castello gridando: «Tutti a poppa, tutti a poppa!». E tutti ad affollarsi a poppa rivolti a lui, ritto lassù che pareva lì per annientarci. E parlò: «Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago e prigioniero, ma sono qui, e qui comando io! Qui io sono tutto, lo Czar, il Sultano, il Papa, sono Nino Bixio! (nella foto), Dovete obbedirmi tutti; guai chi osasse una alzata di spalla, e, guai chi pensasse di am-mutinarsi! Uscirei con la mia uniforme, colla mia sciabola,

L'eroe pazzo che "ha fatto l'Italia"con le mie decorazioni e vi ucciderei tutti! Il Generale mi ha lasciato, comandan-domi di sbarcarvi in Sicilia. Vi sbarcherò. Là mi impic-cherete al primo albero che troveremo; ma – e misurò collo sguardo lento la calca, – ma in Sicilia, ve lo giuro, vi sbarcheremo”. In Sicilia, poi, durante una sosta, Bixio passando a ca-vallo, vide dei volontari che si stavano riposando. Imprecando, cominciò ad urlare: “Ma chi comanda qui?”. Si fece avanti uno dei più noti garibaldini del-la prima ora: “Sono io che comando, il generale La Masa”. “Macché generale La Masa, lei è il generale la merda”, gli urlò in faccia sguainando la sciabola. Soltanto l’inter-vento del colonnello Sirtori pose fine al duello prima che si arrivasse all’irrepa-rabile. Scusate la scurrilità, di quanto riportato, ma la storia è fatta anche di quel-lo che le fonti ufficiali non dicono. Giuseppe Bandi, altro ga-ribaldino della prima ora, nel suo diario Da Genova a Capua, riporta, immediata-mente dopo lo sbarco in Si-cilia, un episodio altrettanto rilevatore della sua indole. “Nino Bixio stava col suo luogotenente Dezza sopra un lettuccio; sì l’uno che l’altro erano in camicia e in mutande, e stavano cinci-schiando un galletto lesso. – Bixio – dissi – i tuoi soldati non hanno esatta la parola d’ordine. Hanno scambiato Sant’Antonio per San Gio-vanni. Bixio strozzò il boc-cone, e mi guardava co’ suoi occhiacci, che ne’ momenti di furia parean quelli del sor Giovannino delle Bande Nere, come ce li ha dipin-ti Tiziano. – Sì, è proprio così – soggiunsi. – Hanno sbagliato il santo, e Genova sta male senza il suo San Giovanni. – Cani! – mormo-rò Bixio, e si volse a Dezza, quasi per domandargli: «O come è ita?». – Chiamiamo

il furiere – disse Dezza, scendendo anche egli dal letto. – Furiere, furiere! – gridò Bixio, senza dar tempo al suo luogotenente d’aprir bocca. S’aperse l’uscio del-la camera e comparve un bel giovinotto biondo. Era il furiere. – Hai barattato la parola, eh? – gli chiese Bixio con voce sorda, sor-da, che parve un rantolo; e afferrando rapidamente un revolver che era lì pres-so, sopra un tavolino, ed alzatone il cane, ripigliò con gran voce: – Traditore, muori! Dio volle bene al furiere, perché io e Dezza, lesti come due gatti, fum-mo addosso al furibondo, e questi assalito e stretto da noi, cadde giù per terra e noi tombolammo su di lui. Il furiere fuggì come il vento. Io e Dezza ci rialzammo, e Bixio pure si rialzò. Appena fu ritto sulle sue gambe, ci squadrò a squarciasacco, e poi disse: – M’avete messo le mani addosso! M’avete strappato la camicia!... Boc-che de...! (Seguì un vocabo-lo genovese che l’accademia della Crusca non riferisce nel suo libro patrimoniale.) Dezza ammiccò l’occhio, ed io non mi mossi. Bixio ruggì come un lioncello, e si gettò bocconi sul letto bestem-miando; e mi parve Ugolino che mordesse la nuca all’ar-civescovo Ruggieri”.Ancora peggio fu quello che accadde a Paola, in Calabria, l’11 settembre 1860 sul va-pore Elettrico che doveva trasportare truppe gari-baldine a Napoli. Perché ci fosse spazio per tutti, Bixio aveva ordinato che ognuno stesse in piedi. Quando vide che alcuni volontari si erano seduti sul ponte, presa una carabina e, bestemmiando, cominciò a colpirli selvag-giamente. Un giovane trom-bettiere ungherese, colpito alla testa, morì con il cranio fracassato. Gli altri si avventarono su quella furia umana e poco mancò che Bixio non venisse gettato in mare. Garibaldi,

in seguito, lo fece mettere agli arresti dicendo agli uf-ficiali che chiedevano la sua testa: “Trovatemi un altro Bixio, e lo faccio subito fuci-lare”. La storia ricorda anche i fatti di Bronte. I Borboni avevano ceduto la cittadina all’ammiraglio inglese Nel-son; gli inglesi si rivolsero a Garibaldi per mettere fine alla rivolta contadina che aveva insanguinato la zona. Gli insorti avevano truci-dato quindici persone e si temeva il peggio. Garibaldi inviò Bixio, il quale individuò cinque presunti responsabili e li fece fucilare; peccato che fossero tutti innocenti, mentre i veri responsabili erano già fuggiti da un pez-zo. Alcuni giorni dopo, un altro increscioso episodio. A Palermo si stavano svolgen-do i funerali del volontario ungherese Luigi Tukory e Bixio, passando accanto ad una colonna di garibaldini che stavano trasportando un grosso carico di armi, ordi-nò loro di seguire il corteo funebre. Il loro comandante, Car-melo Agnetta, replicò che lui prendeva ordini solo da Garibaldi. Non l’avesse mai fatto, Bixio gli assestava un poderoso manrovescio. Agnetta sfoderava la sciabo-la e cominciarono a duellare, fino a quando non interven-ne Garibaldi a mettere Bixio agli arresti, ammonendolo: “Come potete comandare migliaia di uomini, voi, che non sapete comandare a voi stesso?”. In seguito, Bixio diventò ge-nerale e senatore del Regno. Un bel giorno, però, stanco di dondolare in Parlamento, gli tornò una gran voglia di riprendere il mare. Non tor-nò mai più; morì di colera, il 16 dicembre 1873, tra atroci dolori, nel Mar Cinese meri-dionale. Ma il nostro, anche da morto continuò a fare danni, infettando tre indige-ni che morirono anch’essi di colera, tra atroci tormenti, in 48 ore.

Federico Nenzioni