Vietnamiti in Veneto 30 anni dopo

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Articolo che ricorda l'arrivo dei boat people vietnamiti in Veneto a distanza di 30 anni

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Page 1: Vietnamiti in Veneto 30 anni dopo

Paesi&CittàFATTI • PROBLEMI • PERSONE

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BOAT-PEOPLE SONO PASSATI 30 ANNI DA QUANDO CENTINAIA DI MIGLIAIA DI VIETNAMITI FUGGIRONO DAL LORO PAESE SU PICCOLE IMBARCAZIONI

Accolti dall’Italia: ancora oggi ringrazianoAlla deriva nell’oceano furono salvati dalla nostra marina militare

■ Trent’anni fa l’arrivo deiprofughi scatenò una vera epropria gara di solidarietà,seguita passo passo dalla Di-fesa del popolo. In queigiorni Padova era la centraleoperativa dei soccorsi pertutto il Triveneto. Don GinoBrunello era segretario del-la Caritas diocesana e sitrovò ad affrontare in primapersona la situazione: «Lareazione della città, e in ge-

nerale dell’Italia, fu eccezio-nale; ricevemmo molte of-ferte non solo di denaro, maanche di case e di posti dilavoro. E poi ricordo il pri-mo Tet, il capodanno viet-namita, che festeggiammo aTencarola: italiani e vietna-miti insieme, una festa bel-lissima». I profughi mostrarono gran-de dignità e capacità di inte-grarsi. «Alcuni venivano da

situazioni tremende: fami-glie divise, spesso con ibambini piccoli e gli anzianirimasti in Vietnam – conti-nua don Brunello – Accetta-rono subito anche i lavoripiù umili; ricordo uno di lo-ro, un importante leader po-litico che era stato nei cam-pi di rieducazione, che siadattò a fare l’operaio in uncaseificio a Vigonovo. Lepersone furono presto rias-sorbite dalla comunità: nonci furono problemi». Sono passati trent’anni main don Gino Brunello il ri-cordo di quei giorni è anco-ra vivo: «Un giorno i profu-ghi mi consegnarono una“onorificenza” fatta da lorostessi: una medaglia di legnocon sopra scritto il mio no-me. La conservo ancora, èstato un gesto che mi hacommosso profondamente.I bambini, con il loro italia-no stentato, mi chiamavanopapà». Quando vide in televisioneche molti suoi connazionalierano stati sbarcati a Vene-zia, Lorenzo Nguyen HocTap si trovava in Italia già

da diversi anni. Oggi viveassieme alla moglie, italiana,nel territorio della parroc-chia della Santissima Trinitàa Padova, dov’è conosciutoe stimato da tutti. «In quelperiodo studiavo all’univer-sità di Padova – raccontaoggi Tap – ho subito pensatoche poteva esserci bisognodi me e mi sono offerto co-me interprete alla Crocerossa. Vittorio Veneto, Tre-viso, e poi Reggio Emilia,Bologna, Belluno, Milano,Parma... tra il 1979 e il 1983ho girato l’Italia per visitarei miei connazionali e peraiutarli come interprete e

mediatore culturale, perconto della Caritas e dellaCroce rossa italiana e d’ac-cordo con le istituzioni loca-li». Anche per Tap il ricordodi quegli anni rimane indi-menticabile: «Fu una soddi-sfazione poter mettere afrutto gli studi a favore dellamia gente». Lorenzo Nguyen Hoc Tapha l’impressione che di viet-namiti in Italia ne siano ri-masti pochi: «Molti sono an-dati negli Stati Uniti, inFrancia, Canada e Australia,dove avevano parenti. In 3-400 cattolici vietnamiti ciritroviamo a Roma ogni an-no. Ancora oggi i miei con-nazionali sono riconoscentiagli italiani per l’accoglienzache hanno ricevuto; diversidi loro si convertirono an-che al cattolicesimo».To Cam Hoa all’epoca dellosbarco aveva diciotto annied era su una delle navi cheattraccarono a Venezia;donna battagliera e volitiva,è stata tra gli organizzatoridella festa che si è tenuta aJesolo: «È stato meraviglio-so, sono venute 500 perso-

ne tra gente comune, istitu-zioni, Caritas e Croce ros-sa». Un grande successo,che pure ha lasciato l’amaroin bocca agli organizzatori:«Avevamo avvertito tutti igiornali e le televisioni, ep-pure nessuno è venuto, nes-suno ne ha parlato. Sembraquasi che ci si disinteressidella nostra gratitudine perl’Italia. È un po’ triste». Alla domanda se questo di-pende dal clima politico dioggi To Cam Hoa rispondequasi sdegnata: «Non è no-stra volontà fare polemicapolitica, ma solo ringraziarel’Italia, che ci ha salvato».Anche il paragone con iboat-people di oggi nonsembra convincere l’espo-nente vietnamita: «Noi era-vamo profughi politici: fug-givamo dalla dittatura perraggiungere la libertà, nonper cercare un lavoro. Ep-pure nei media oggi si parlasolo di immigrati, facendodi tutta l’erba un fascio.Trovo davvero una forzatu-ra accostare la nostra situa-zione con l’immigrazione dioggi».

D O N E L I A F E R R O - P A S T O R A L E D E I M I G R A N T I

Difficile paragonare i profughi del ’79 con gli immigrati attuali

Don Elia Ferro è dal 2002delegato per la pastoraledei migranti della dioce-si di Padova, dopo anni

di apostolato tra i nostri emigratiin Belgio.

Cosa ricorda della tragedia deiboat people?

«In quel momento ero in Belgio, aCharleroi: del problema, che ave-va una risonanza mondiale, se neparlava in tutta Europa. Trent’an-ni fa, non dimentichiamolo, c’era-no la “cortina di ferro”, la “cortinadi bambù” e la guerra fredda. Ri-cordo molto bene l’arrivo di tantivietnamiti anche in Belgio, ospita-ti da parrocchie, movimenti e fa-miglie, perfino da alcuni conventi.L’accoglienza era il frutto di unavera e propria mobilitazione col-lettiva».

Quali sono le differenze tra lasituazione dei profughi vietna-

miti e quella dei boat-people dioggi, quali le affinità?

«È oggettivamente difficile fare unparagone, i contesti sono moltodiversi. Allora si trattava di centi-naia di persone per tutta l’Italia,molte delle quali colte e “resisten-ti” al sistema comunista; guardatefavorevolmente dal mondo occi-dentale e quindi sostenute dal-l’opinione pubblica. Il loro inseri-mento nel territorio fu diffuso e,in qualche modo, programmato.Caritas, Croce rossa e altri mani-festarono poi una straordinaria in-traprendenza nella gestione dellasituazione».

E oggi?«Oggi non si tratta più di migliaiadi profughi politici, ma di milionidi persone in cerca di lavoro; inuna situazione di crisi economicageneralizzata e in un contesto in-ternazionale difficile; con una pro-

grammazione dei flussipiù proclamata che effetti-va e quindi con un’acco-glienza e un inserimentopiù faticosi».Sull’immigrazione poi ci silascia spesso confinare eimprigionare dalle scarsee orientate informazioniche sono diffuse e... dallemolte che sono taciute.Spesso la discussione siferma su temi “orientati”come il respingimento e ilreato di clandestinità: tuttiargomenti che meritanoapprofondimento e buon senso.Ma che non colgono la realtà delfenomeno immigratorio nella suacomplessità. Ci sono, ad esempio, diverse filie-re di immigrazione: quella mag-gioritaria diretta alla ricerca di la-voro; poi quella costituita dai rifu-

giati politici, una minima partema qualificata; e quella orientatadalla criminalità, una esigua mi-noranza. Purtroppo nell’informa-zione e nell’opinione pubblica, letre filiere vengono messe sullostesso piano. Sappiamo ancora come sotto il

“nome comune” di immi-grati si trovino regolari(più dell’80 per cento oquattro su cinque), irrego-lari, clandestini, rifugiati,richiedenti asilo, presentiper motivi umanitari, turi-sti... L’amalgama è facile e,per alcuni, comodo!Invece, se si vuole capirela situazione e risolverla,bisogna avere il coraggio didistinguere e di provare asbrogliare una matassa:l’immigrazione è semprepiù voluminosa e comples-

sa. Oggi, poi, nei nostri paesi il be-nessere è più diffuso e... più dife-so. Forse anche troppo.Magari ci fossero, oggi cometrent’anni fa, il sostegno dell’opi-nione pubblica, l’impegno dei poli-tici, la comprensione diffusa e ilconcorso internazionale.

Era il 20 agosto 1979, quando a Veneziaattraccarono le navidell’ottavo gruppo navale:

la Vittorio Veneto, l’Andrea Doria e la Stromboli. Tornavano dallaprima missione italiana all’estero del dopoguerra, quella che ancoraoggi è la navigazione senza scalo più lunga della storia della nostramarina militare; a bordo, oltreall’equipaggio, c’erano 907 profughi vietnamiti.Il mondo era ancora diviso inblocchi, quando si iniziò a parlare deldramma dei boat-people; da pochianni il regime comunista del Vietnamdel nord era riuscito a conquistaretutto il paese sconfiggendo gliamericani, senza che questo peròsignificasse la fine delle violenza. Laguerra con la Cambogia di Pol Pot esoprattutto la spaventosa campagnadi repressione interna spinsero infatti

centinaia di migliaia di persone atentare di raggiungere gli stati vicini:Thailandia, Malesia, Indonesia,Filippine... In tanti tentarono la fugacon piccoli battelli e imbarcazioni difortuna. Molti annegarono; per chi cela faceva la prospettiva erarappresentata da campi profughifatiscenti. Ma anche questa piccolasperanza, talvolta, veniva negata:«Sono scappata dal Vietnam insiemeai miei familiari – ricorda oggi lasignora To Cam Hoa, residente aBreda Di Piave (Treviso) erappresentante della comunitàvietnamita in Italia – Eravamo dodicipersone, tra cui un nonno e unabisnonna, oltre a tre bambini. Unavolta sbarcati in Malesia fummocacciati con brutalità: la nostra e altrequattro barche furono legate a unagrande nave che ci condusse al largo.Solo nella mia imbarcazione eravamoin 128. Dopo una notte di

navigazione, i malesi ciabbandonarono in mezzoall’oceano». Per giorni i profughirimasero alla deriva, travolti dalletempeste e ignorati anche daimercantili e dai pescherecci, finchénel cielo non comparvero glielicotteri della Vittorio Veneto,l’ammiraglia italiana. La fine di unincubo e l’inizio di una nuova vita.Oggi, a trent’anni da quella tragicavicenda, la comunità vietnamita haorganizzato una festa per ricordarequei momenti e per ringraziareancora una volta la nuova patria:l’Italia. La manifestazione si è svolta il22 agosto a Jesolo, sede di uno deiprimi centri di raccolta, e hacoinvolto anche i componenti degliequipaggi che parteciparono allamissione, i volontari della Crocerossa italiana e della Caritas e gliitaliani che hanno voluto partecipare.

pagina di Daniele Mont D’Arpizio

Nelle foto, a destra la festadei vietnamiti a trent’anni

dall’arrivo in Italia; nel restodella pagina, immagini

del salvataggio dei boat-people da parte della marina

militare italiana.