Viaggio in Tibet · passi di 5300 metri per giungere ... partendo dall'India di Riccardo Marini...

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Viaggio in Tibet, partendo dall'India di Riccardo Marini pag. 1/18 Viaggio in Tibet (partendo dall’India) I motivi di un viaggio fino a Lhasa, Tibet dal fascino dell’oriente alle tracce di un’antica missione cristiana Delhi l’impatto Agra il Taj Mahal, l’emozione della bellezza Passaggio nella spiritualità Benares, l’anima dell’India; Bodhgaya, l’albero dell’illuminazione Kolkata colonizzazione e globalizzazione In Nepal l’incontro di più culture Attraverso l’Himalaya in pullman sul tetto del mondo Lhasa Tibet la nostra “ missione”; l’occupazione cinese e le Olimpiadi di Riccardo Marini Liceo scientifico “A. Einstein”, classe VH, anno scolastico 2007/08

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Viaggio in Tibet, partendo dall'India di Riccardo Marini pag. 1/18

Viaggio in Tibet (partendo dall’India)

I motivi di un viaggio fino a Lhasa, Tibet dal fascino dell’oriente alle tracce di un’antica missione cristiana

Delhi l’impatto

Agra il Taj Mahal, l’emozione della bellezza

Passaggio nella spiritualità Benares, l’anima dell’India; Bodhgaya, l’albero dell’illuminazione

Kolkata colonizzazione e globalizzazione

In Nepal l’incontro di più culture

Attraverso l’Himalaya in pullman sul tetto del mondo

Lhasa Tibet la nostra “ missione”; l’occupazione cinese e le Olimpiadi

di Riccardo Marini

Liceo scientifico “A. Einstein”, classe VH, anno scolastico 2007/08

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I motivi di un viaggio fino a Lhasa, Tibet

Fin da quando ho memoria ho sempre sentito di un legame tra Pennabilli e il Tibet. Mio padre nel 1987, in occasione dell’apertura del Tibet ai turisti occidentali aveva incontrato Jim Woolsey un americano che gli aveva parlato di fra Orazio da Pennabilli, un frate Cappuccino che nel ‘700 era partito missionario per il Tibet con cinque confratelli. Così mio padre, seguendo la storia e le tracce di fra Orazio da Pennabilli, ripercorre di tanto in tanto gli itinerari che i missionari avevano seguito, alla ricerca di luoghi e documenti. La storia di fra Orazio merita di essere brevemente raccontata perché segna diverse tappe del mio viaggio. Dunque al principio del 1700 la Congregazione di Propaganda Fidae aveva scelto i frati Cappuccini marchigiani per evangelizzare il Tibet. Fra Orazio da Pennabilli partì nel 1712 e giunse a Lhasa in Tibet nel 1716 dopo un durissimo viaggio sugli oceani e oltre le più alte montagne della Terra. Era uno dei primi europei a entrare nel paese delle nevi, chiuso e ignoto al resto del mondo. Qui si dedicò allo studio della lingua e dell’antica religione tibetana, sotto la guida di un Lama, cioè un monaco istruito. Tradusse diverse opere sacre dal tibetano e compose un dizionario italiano-tibetano di oltre trentamila vocaboli, il primo in una lingua occidentale. Il VII Dalai Lama, concesse ai missionari cappuccini prima l’autorizzazione ad acquistare un terreno e a edificare un convento a Lhasa e più tardi il permesso di predicare liberamente il cristianesimo e fare proselitismo. Fra Orazio spenderà il resto della sua vita per la missione tibetana morendo in Nepal nel 1745. Nell’estate 2007, si presenta l’occasione di avere la “guida” esperta di mio padre. Così abbiamo preparato insieme il viaggio cercando di condividere le nostre esigenze. In pratica abbiamo allungato il suo classico itinerario passando per alcuni posti chiave della civiltà indiana Per il mese che avevamo a disposizione abbiamo deciso un itinerario che in India segue la valle del Gange fino al golfo del Bengala, poi dall’India al Tibet passando per il Nepal. I principali luoghi dove ci siamo fermati e che abbiamo brevemente visitato: Delhi, capitale odierna dell’India; Agra, antica capitale moghul conosciuta in tutto il mondo per il Taj Mahal, una costruzione stupenda, massimo esempio dell’architettura moghul; Varanasi (Benares) la città più sacra degli indu; Bodhgaya dove sotto l’albero di pipal, il principe Siddartha ricevette l’illuminazione diventando così il Buddha; Kolkata (Calcutta), città simbolo della colonizzazione inglese, ora capitale culturale e importante centro di affari, è una megalopoli che presenta ricchezze enormi e povertà estreme Di qui abbiamo seguito lo stesso itinerario dei nostri missionari che nel ‘700 arrivavano a Chandernagore (40 km da Calcutta) dopo un viaggio su navi oceaniche. Da Calcutta a Patna nella poverissima regione del Bihar, dove i missionari avevano un convento, quindi nella valle di Kathmandu (altre basi missionarie ), infine l’attraversamento dell’ Himalaya superando passi di 5300 metri per giungere nell’altopiano tibetano a Lhasa (3600 metri) L’organizzazione non ha comportato problemi; un volo economico (600€ A/R) e senza scali, partenza 13 luglio ritorno 15 agosto, zaino ridotto al minimo, medicinali essenziali, contanti e carte di credito. Mi porto anche due libri da leggere in viaggio. In Asia, una raccolta di brevi reportage scritti da tutta l’Asia di Tiziano Terzani, che si leggono come pillole di sapere e Aspettando il Mahatma di K. Narayan; un romanzo la cui trama segue l'evolversi degli eventi che hanno segnato l'indipendenza dell'India e insieme rievoca la figura del Mahatma Gandhi. Me l’ha regalato Patrizia, una amica di mia madre pregandomi di lasciarlo da qualche parte dopo averlo letto …

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Delhi, l’impatto

Partiamo da Rimini in treno alle prime ore del mattino per raggiungere Fiumicino, Roma. Il volo decolla verso le due di pomeriggio ci vorranno 7 ore per raggiungere l’India. Arriviamo di notte a Delhi, fino a quando non esci dall’aeroporto sei in una sorta di ambiente protetto; le scritte sono incomprensibili ma tutti parlano inglese, bar, duty free, aria condizionata. Appena sei fuori una folla di uomini con il turbante ti offre tutti per i tuoi bisogni: taxi, hotel, bus, cibo, qualunque cosa. Prendiamo un autobus sgangherato siamo gli unici occidentali, destinazione la zona di Paharganj a metà strada tra New e Old Delhi, il quartiere più frequentato dai viaggiatori a basso budget dove è possibile

trovare molte sistemazioni a buon prezzo, ristoranti, negozi e un continuo via vai di gente. Ha appena smesso di piovere e la strada è tutta infangata. Due lebbrosi ci vengono incontro; quello senza mani spinge il carretto di legno dove è seduto quello senza gambe. Incredible India dice una pubblicità appena esci dall’aeroporto …

Nel preparare questo lavoro mi sono accorto che molti intellettuali registi e scrittori italiani sono rimasti colpiti dall’India: vedere, sentire la povertà, la malattia o la bellezza ha colpito registi come Roberto Rossellini che alla fine degli anni ’50 realizzò una serie di documentari (l’India vista da Rossellini), e scrittori come Pier Paolo Pasolini che insieme a Elsa Morante e Alberto Moravia fece un viaggio in India nel 1960. Nel corso del viaggio Pasolini inviava reportage che venivano pubblicati su Il Giorno. La raccolta di questi articoli diverrà uno volume: L’odore dell’India Quello che scrive Pasolini mi sembra sia ancora vero a 50 anni di distanza: la disponibilità ed il sorriso delle persone; quel gesto di assenso e disponibilità che fanno con il capo seguito da parole che ti tranquillizzano “Yes sir, India is a big country, many many people …”. Anche gli ambienti di Benares non sembrano cambiati: gli interni delle case semplici e disadorni ma non sporchi; le persone accucciate che intonano canti religiosi con fervore. Pasolini era attratto dall'odore; sin dalle prime pagine dell'opera si getta tra la gente si mischia alle persone mosso dal desiderio di vedere, scoprire, toccare e respirare ciò che quella terra tanto lontana dalle sue concezioni può offrire. Vede un mondo non sempre affascinante, ma comunque in grado di muovere la curiosità. Con il senno di poi mi trovo a rivivere le stesse sensazioni anche se mi tornano in mente tanti odori: quello del ferro e del carbone nelle stazioni ferroviarie, quello della carne bruciata di Benares, quello delle spezie piccanti nei ristoranti e nei mercati, e quello più penetrante della miseria nei quartieri poveri di Calcutta

Delhi è la capitale dell’India, con circa 10 milioni di persone che sembrano vivere tutti intorno al nostro alberghetto: mai viste tante persone in tutta la mia vita, soprattutto bambini che incontriamo vagando per la città vecchia. E’ curioso qui il sistema del commercio; sembra di essere nelle nostre città medievali, le strade sono specializzate: i librai, i fabbri, i macellai, i dolciumi, le polveri colorate, ecc. Siamo turisti classici ci muoviamo a piedi nell’afa. Ogni tanto ci rinfreschiamo con una bottiglia di acqua sigillata per il pericolo delle infezioni intestinali. Il Forte Rosso fa parte dell’itinerario di ogni turista a Delhi. E’ stato costruito nella prima metà del ‘600 da Shah Jahan, che trasferì qui la capitale dell’impero moghul da Agra. Le mura alte una ventina di metri sono in arenaria rossa. C’è molta polizia all’ingresso che ti controlla con il metal detector. Comunque all’interno si sta bene, non c’è il rumore del traffico. All’interno del Forte Rosso ci sono stupendi edifici con pareti in marmo traforato che dividono gli ambienti. Vediamo le sale delle udienze,

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immense stanze da bagno, torri e moschee e in mezzo giardini ben tenuti con l’erba rasata dove ci si può sdraiare a riposare. Usciti dal Forte Rosso, ci rechiamo a fare acquisti nell´immenso bazar Chandmì Chowk, pieno di negozi di ogni tipo. Compriamo del sapone profumato e costoso (22 rupie, quasi ½ euro) e alcuni frutti molto più economici. Sulla strada che ci porta alla moschea Jama Masjid, incontriamo parecchi incantatori di serpenti che alla vista di noi turisti, svegliano i loro cobra con scapaccioni sulla testa per farli salire ondeggiando dal cesto! Il moderno centro commerciale della città è Connaught Place, una enorme piazza circolare delimitata da tre strade concentriche dalla quale partono in tutte le direzioni delle grandi e moderne arterie. Gli edifici in stile coloniale ospitano banche, cinema, agenzie viaggi, ristoranti di lusso, Mc Donald, Benetton, Adidas ecc. Qui facciamo il biglietto per Agra. Torneremo a Delhi fra un mese. AGRA, il Taj Mahal o la bellezza

Veramente non ho visitato la città di Agra ma solo il Taj Mahal che sapevamo va visto al tramonto. Così abbiamo già prenotato un treno per Varanasi che parte a mezzanotte da una piccola stazione a 20 chilometri da Agra.

Superiamo l’ingresso verso le 17.30 dopo una lunga fila. All’interno c’è ancora una folla incredibile, perché questo è uno degli orari migliori per fotografare il mausoleo e vederne il cambiamento di colore. Il Taj Mahal fu fatto costruire interamente con marmo bianco dall’imperatore Shan Jahan, in ricordo della sua seconda moglie Mumtaz Mahal morta di parto nel 1631. Per 20 anni vi lavorarono circa 20000 persone, fu ultimato nel 1653 e ancora oggi sembra nuovo, bianchissimo. Sembra che alle decorazioni abbiano contribuito anche artigiani veneziani e francesi. E’ forse il più famoso luogo di turismo per occidentali ed indiani e secondo la tradizione, le donne che vogliono avere figli devono fare un “pellegrinaggio” al Taj Mahal Per accedere al mausoleo vero e proprio, si deve superare un grande cortile adornato da dei giardini e un grande portale, costruito in arenaria rossa, da cui si può già scorgere l’immensa struttura. Mi fermo, subito dopo il portale di ingresso insieme ad altre centinaia di persone ad osservare, strabiliato questa meraviglia: il Taj Mahal è stato costruito su di un enorme basamento di marmo e in ciascuno dei quattro angoli è stato eretto un minareto per completare in maniera simmetrica tutto il complesso. La struttura centrale è costruita con lastre di marmo sulla cui superficie sono scolpiti fiori che sono stati riempiti, con pietre dure e sulle quattro identiche facciate del mausoleo sono state incastonate delle pietre nere, che “disegnano” i versetti del Corano. Sotto la cupola principale si trova la tomba di Mumtaz, circondata da uno schermo di marmo traforato. Accanto, l’unica cosa asimmetrica, si trova la tomba di Shah Jahan, sepolto qui nel 1666 per volere del figlio che gli aveva usurpato il trono.

Sul retro il monumento è a picco sul fiume. Saremo a 30 metri di altezza. Si alza un vento impetuoso che scompiglia tutto; i giovani giocano a sollevarsi da terra opponendosi alla corrente. Siamo quasi al tramonto, tutto si placa e davanti ai miei occhi il colore del Taj Mahal cambia progressivamente di tonalità, passa da un rosa arancio ad un arancio intenso proprio durante il tramonto, per poi tornare ad essere bianchissimo quando tutto intorno diventa buio. Le batterie della macchina fotografica sono scariche e le foto mi rimangono solo in testa. E’ uno spettacolo!!! Ho veramente provato una emozione molto forte, non avrei mai creduto che un monumento potesse darmi sensazioni così intense. E’ buio quando prendiamo un taxi per raggiungere la piccola stazione di Tundla. Qui ho avuto il battesimo del cibo indiano popolare; riso bollito e dahl (zuppa di lenticchie) curry, spezie e chapati (una sorta di piadina del diametro di 10 centimetri fatta di farina e acqua, cotta sui bordi di un

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forno di terracotta). In due abbiamo speso 64 rupie, poco più di 1 euro. Sarà stata la fame ma quel la cena nel vassoio di metallo con tutti gli scomparti mi è proprio piaciuta. Le ferrovie indiane sono una positiva eredità della dominazione inglese, ad ogni fermata salgono persone che cercano di vendere ogni cosa ai passeggeri: dalle noccioline tostate in proprio al te servito in una miniciotola di terracotta usa e getta, dal set di penne a sfera alla noce di cocco con cannuccia per bere direttamente il latte di cocco. Salgono cantastorie ciechi con accompagnatori con illustrazioni per avere qualche spicciolo e imbonitori che cercano di venderti biglietti della lotteria. E in ogni stazione ci sono esili facchini in uniforme che trasportano bagagli enormi per pochi spiccioli. La Indian railway offre otto differenti classi, dallo scompartimento air conditioned a 2 letti fino alla panca di legno. Prenotare una cuccetta o fare il biglietto in stazione è sempre un problema che richiede file interminabili che però hanno il vantaggio di metterti in contatto con la gente. Le file sono all’italiana: tutti cercano di passarti avanti e spesso devi alzare la voce per fare rispettare la fila. Nei treni indiani più lenti, le porte stanno aperte anche con il treno in movimento, così puoi sedere sul pavimento con le gambe penzoloni e guardare la campagna con i campi coltivati, i contadini e i villaggi lontani “dalla civiltà”

Passaggio nella spiritualità

1 - VARANASI, l’anima dell’India Finalmente dopo dieci ore di viaggio arriviamo a Varanasi, uno dei principali luoghi sacri dell'India dove i credenti hindu vengono per bagnarsi nelle acque del fiume Gange, per purificarsi dai peccati commessi durante la loro vita e liberarsi così dal ciclo delle rinascite. Gli indu credono che chiunque finisce qui i suoi giorni acceda direttamente al paradiso.

Per gli hindu l’uomo è destinato a nascere più volte fino al raggiungimento della moksha, la salvezza spirituale che lo libererà dal ciclo delle reincarnazioni. Le cattive azioni compiute in vita procurano un kharma (legge di causa – effetto) negativo che è causa di reincarnazione a livello inferiore mentre le azioni meritevoli determinano la reincarnazione ad un livello superiore e avvicinano alla liberazione dal ciclo delle rinascite. Nella religione induista ci sono milioni di divinità che sono manifestazioni di un unico dio che ha tre rappresentazioni fisiche principali:

Brahma il creatore infinito, è raffigurato con quattro teste e quattro braccia le cui mani reggono una ciotola, uno scettro, un arco e i Veda, libri sacri

Shiva è colui che porta morte e distruzione senza le quali la rinascita e la crescita non ci sarebbero

Vishnu è associato alla devozione, al rispetto delle leggi e protegge tutto quanto c’è di buono al mondo. Una sorta di redentore dell’umanità Come in tutte le religioni l’iconografia è decodificabile dai praticanti o dagli studiosi. Io riconosco solo Shiva dal tridente e dai cobra e perché si vede un po’ ovunque e Ganesh, una divinità molto popolare che ha la testa di elefante

Brahma il creatore Shiva il distruttore e riproduttore Vishnu il conservatore

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La nostra guest house si trova nella città vecchia dove circolano solo biciclette, carretti, mucche e pedoni. Siamo in piena stagione delle piogge e scoppia un temporale violento: due ore di acqua in quantità incredibile; le stradine strette si trasformano in fiumi alti mezzo metro, non ci sono fognature e tutto viene trascinato nel Gange. Dalla nostra camera vediamo i bambini che sui tetti a terrazzo giocano a scivolare sull’acqua e famiglie di scimmie che saltano da un edificio all’altro in cerca di qualcosa da arraffare. La città vecchia sembra un labirinto, popolato di commercianti che ti offrono di tutto e di pellegrini/turisti diretti al Gange. Io stesso mi sono perso e dopo ore che vagavo ho pagato un bambino per riaccompagnarmi all’hotel. Il nostro alloggio è proprio vicino a Manikarmika Ghat, il luogo più popolare per le cremazioni. I cadaveri arrivano su lettighe di bambù avvolti in un semplice tessuto colorato. Il corteo funebre cammina a passo veloce recitando un mantra con voce quasi urlata che fa pressappoco così: Rama Naam Sakta Eh, che significa Il nome di Rama è verità, secondo la traduzione di Baba G, un ragazzo uzbeko che sta seguendo gli insegnamenti di un Guru e temporaneamente è alloggiato nel nostro albergo. Il cadavere prima viene bagnato nelle acque del Gange e poi messo sulla pira funeraria per essere cremato. Quando sono arrivato a Manikarnika ghat, un ragazzo del posto mi ha portato sul terrazzo di una casa, ero proprio sopra una pira e si vedeva il corpo che si “squagliava” e un odore quasi aspro saliva, la testa mi diceva di andarmene ma la curiosità mi tratteneva. Le pire accese erano diverse ma non si percepisce la drammaticità della morte. Gli addetti alle pire muovono il fuoco e alla fine gettano le ceneri in acqua Le cremazioni sono continue, giorno e notte, e questo dà alla città un odore particolare. Camminiamo lungo i ghat, le gradinate che scendono sull’acqua. Anche se il Gange è in piena, decidiamo una escursione in barca a remi. Quattro ragazzi si alternano a remare controcorrente. Risaliamo il fiume per un’ora; in tutti i ghat c'è chi prega, chi medita, chi lava i panni chi si immerge, dappertutto galleggiano collane di petali di fiore, le offerte fatte al fiume. Al calare della luce assistiamo, presso il Desaswasmed Ghat, alla cerimonia per la "Grande madre Ganga". Il rituale dura circa un'ora, durante la quale vari sacerdoti offrono fiori e compiono diversi rituali con il fuoco. La gente, anche noi, affida alla "madre Ganga"(Gange in lingua Hindi) delle fiammelle che rappresentano i propri sogni. Quanto più lontano la corrente porterà la propria fiammella, tanta più ci avrà prosperità.

Quello che risalta subito a prima vista è la quantità di Sadhu (i santoni) accampati lungo le scale dei Ghat dove meditano in varie posizione Yoga e fumano ritualmente hashish: questo è infatti il loro modo di scostare il velo di Maya concetto che è stato “preso in prestito” dal filosofo Arthur Schopenauer. Per la filosofia hindu Si tratta di un «velo» metafisico illusorio che, separando gli esseri individuali dalla conoscenza/percezione della realtà (se non sfocata e alterata), impedisce loro di ottenere moksha, la liberazione spirituale, tenendoli così imprigionati nel samsara, il continuo ciclo delle morti e delle rinascite. L'uomo (e quindi l'intera umanità) è presentato come un individuo i cui occhi sono coperti dalla nascita da un velo, liberandosi dal quale l'anima si risveglierà dal letargo conoscitivo e potrà contemplare finalmente la vera essenza della realtà. Schopenauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno, anche se questo "sognare" è innato (quindi la nostra unica "realtà"), obbedisce a regole precise, valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi.

La filosofia indiana non è solo legata alla religione; un esempio ne è Jiddu Krishnamurti. Nasce nel 1985 a Madanapalle, una cittadina dell’Andhra Pradesh, in India. Da ragazzo venne adottato dalla

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dottoressa Annie Besant, presidente della Società Teosofica. La Besant e altri proclamarono che Krishnamurti doveva essere il Maestro del Mondo, di cui la Società Teosofica aveva predetto la venuta. Un Maestro del Mondo, secondo varie scritture, si manifesta di tanto in tanto in forma umana per salvare l’umanità (come Gesu) cosi Krishnamurti fu messo a capo della società Teosofica. Nel 1929, però, Krishnamurti rinunciò al ruolo che gli era stato assegnato e sciolse l’Ordine della Stella che contava migliaia di seguaci, restituendo tutto il denaro e le proprietà che erano state donate per questo lavoro. Da allora, per quasi sessant’anni, fino alla sua morte che avvenne il 17 febbraio 1986, egli viaggiò in tutto il mondo parlando alla gente della necessità di un radicale cambiamento degli esseri umani. Krishnamurti è considerato in tutto il mondo come uno dei più grandi pensatori e maestri religiosi di tutti i tempi. Egli non teorizzò nessuna filosofia o religione, parlò piuttosto di cose che riguardano tutti noi nella nostra vita quotidiana, dei problemi del vivere in una moderna società con tutta la sua violenza e corruzione, della ricerca individuale di sicurezza e felicità e della necessità per gli esseri umani di liberarsi dal peso interiore della paura, della rabbia, delle offese, del dolore e così via. Egli chiarì con grande precisione il sottile lavoro della mente umana e sottolineò la necessità che nella nostra vita quotidiana si realizzi una profonda qualità meditativa e religiosa. Religione intesa come unione di tutte le energie per cercare,indagare, per scoprire che cosa siano realtà e verità, che cosa sia la meditazione, per capire perché si vive nel mondo in cui viviamo, per capire se si può porre fine alla sofferenza. Krishnamurti non apparteneva a nessuna religione, setta o nazione e non era schierato con nessuna scuola di pensiero politico o ideologico; sosteneva che proprio questi sono i fattori che dividono gli esseri umani portando conflitto e guerra. Egli ricordava continuamente che siamo tutti esseri umani e non indù, musulmani o cristiani, che non siamo diversi dal resto dell’umanità. I suoi insegnamenti, quindi, non solo si addicono all’epoca moderna ma sono universali e senza tempo. Krishnamurti non parlava da guru ma da amico e i suoi discorsi e discussioni non erano basati su una conoscenza acquisita dai libri, ma su una profonda visione della mente umana.

2 - BODHGAYA, l’albero dell’illuminazione Abbiamo viaggiato per cinque ore, sul treno intasatissimo, seduti per terra. Ho conosciuto due ragazzi della mia età, molto gentili e simpatici, curiosissimi e istruiti mi hanno fatto capire quanto diversa sia la loro vita, e quanto io l’abbia facile. Scendiamo alla stazione di Gaya, a 14 km da Bodhgaya, ci serve un mezzo di trasporto. Contrattiamo con il proprietario di un motorisciò a tre ruote che qui tutti chiamano tuk tuk, per i due colpi che il “secondo pilota” batte sulla lamiera come segno di partenza e attraversiamo la campagna del Bihar per giungere a Bodhgaya che è buio. Sembra di essere in un’ altra India: tranquilla , silenziosa, rilassante e per niente caotica. Questo è il luogo in cui Siddharta Gautama pervenne all’illuminazione, qui sono stati costruiti templi e monasteri da buddhisti di ogni parte del mondo.

Il principe Siddharta, come si vede nel film di Bertolucci Il piccolo Budda, dopo un lungo periodo di ricerca e meditazione dove rinunciò ai piacere materiali, comprese che una vita di privazioni non l’avrebbe condotto alla Verità. Concepì così la dottrina della via di mezzo cioè della moderazione in tutto. Le sue conclusioni filosofiche sono tuttora il nucleo fondamentale di tutte le scuole buddiste e vengono riassunte nelle 4 nobili verità: a) La vita è sofferenza, disagio, insoddisfazione b) La causa della sofferenza è il desiderio c) E’ possibile liberarsi dalla sofferenza sopprimendo il desiderio e raggiungere il Nirvana d) La chiave per raggiungere il Nirvana è seguire una serie di regole chiamata Ottuplice Sentiero (retta

visione, retto pensiero, retto parlare, retto agire, retto modo di sostenersi, retto controllo e autodisciplina, retta concentrazione e retta meditazione

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Secondo la tradizione il Budda ricevette l’illuminazione qui a Bodhgaya, sotto la chioma di un albero di Pipal (Ficus religiosa). Sul posto è sorto il Mahabody Temple, un complesso di templi bellissimo, un giardino con centinaia di stupa di ogni dimensione. L’albero esiste ancora, è enorme tanto che i rami devono essere sostenuti da pali in ferro. I pellegrini camminano intorno al tempio in senso orario recitando i sacri mantra; si fermano davanti all’albero in meditazione. Sotto l’ombra dell’albero ho il primo vero momento di pace dopo una settimana di viaggio: nessuno mi pressa, al massimo mi guarda con curiosità. Così mi viene l’idea di lasciare qui il libro che Patrizia mi ha regalato. L’ho appena finito di leggere, è un storia d'amore tra due giovani, la cui trama segue l'evolversi degli eventi che hanno segnato l'indipendenza dell'India e insieme rievoca la figura del Mahatma Gandhi. Mi è piaciuto anche perché ti fa seguire la rivoluzione di Gandhi come se fossi uno dei milioni di protagonisti. Lo abbandono su un piccolo stupa, un po’ nascosto. Ho paura che qualcuno me lo venga a riportare. L’unico segno di riconoscimento è la dedica che dice pressapoco: “spero che questa storia ti piaccia, ti prego di lasciarlo in un posto a te caro … “ Chissà chi lo ha raccolto, improbabile che legga l’italiano, forse lo regalerà a qualche turista. E’ il bookcrossing fatto in casa perchè non ho inserito nessun codice per farmi ritrovare, solo l’indirizzo web del sito di mio padre www.oraziodellapenna.com, ma fino ad oggi nessuno si è fatto sentire … Usciamo e camminando senza meta arriviamo sul fiume dove un sadhu esce dalla sua capanna, ci si fa incontro e cerca di comunicare con noi a gesti visto che parla poco inglese. La fine della mattinata la passiamo con lui. I ragazzi che gli sono intorno sono incuriosita da me e mio padre, altri sbucano dal nulla si fermano, ci guardano, ridono, fanno qualche domanda e passano oltre. Arrivano pure delle persone del posto che si capisce vengono a trovarlo spesso, sono persone che hanno vissuto molti anni all’estero e ora sono tornati nella loro terra perchè le prospettive sono migliori, uno lavorava in Giappone e adesso accompagna turisti giapponesi durante l’alta stagione turistica. Sono interessati all’Italia, il paese di Sonia Gandhi, la moglie di Rajiv Gandhi che è stato assassinato una decina di anni fa mentre era primo ministro (il figlio di Indira Gandhi che era la figliastra del Mahatma Gandhi). A powerful and very clever women, dicono. Pur avendo vinto le elezioni non è voluta essere primo ministro e ha ceduto il posto ad un economista molto saggio. Comunque anche Sonia rende gli italiani simpatici. Ci invitano per pranzo ma rinunciamo, si mangia più sicuri al ristorante. Verso il tramonto visitiamo qualche monastero buddista. Ognuno con il suo stile architettonico in linea con le principali tradizioni: quella Mahayana (o grande veicolo perché il credente non libera dal ciclo delle reincarnazioni solo se stesso ma si assume la responsabilità di liberare tutti quanti) che è diffusa in Cina, Giappone, Corea, Mongolia, Nepal, Tibet; e quella Hinayana (o piccolo veicolo, la ricerca individuale) che è diffusa in Asia meridionale come Birmania, Thailandia, Sri Lanka, Cambogia, Laos, Butan Il Buddha enorme che vediamo nella foto è stato realizzato dai monaci della tradizione giapponese. Sarà alto 30 metri e ti appare solo quando varchi il cancello. Eravamo al tramonto, eravamo soli perché il guardiano stava chiudendo. Quel silenzio e l’enorme statua di pietra erano li con noi! Torniamo al Rahul Guesthouse, è quasi buio e si sente un muezzin che chiama alla preghiera i musulmani; mi stupisco che in un luogo cosi sacro per i buddisti ci sia spazio per un'altra religione, ma anche questo è il bello dell’India.

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Kolkata

Alle 5 pm siamo a Kolkata, Calcutta. Il viaggio in treno è stato interminabile quasi 17 ore di viaggio nella campagna indiana. Abbiamo viaggiato nella 2° classe sleeper, Al mattino il panorama è bucolico, villaggi, palme, laghetti, e risaie. Dopo 5 ore di questi “meravigliosi” panorami non vedi l’ora di arrivare … Non è possibile immaginare l’immensa Howra Station e quante persone cercano di prendere un treno, quante persone accovacciate sta aspettando un treno e quante persone distese a terra stanno dormendo senza aspettare nessun treno. Trattiamo a lungo con il taxista il prezzo della corsa. Noi abbiamo già prenotato e lui non può prendere la percentuale dall’albergatore. Il YWCA è’ un ostello in un edificio coloniale dove mio padre si è fermato diverse volte; è centralissimo, tranquillo, spartano ed economico. Qui si fermano gruppi di ragazzi cristiani che provengono dal Canada, dalla Corea, Stati Uniti e paesi europei che fanno volontariato negli squallidi quartieri ben descritti nel film “La città della gioia” Amlan Mondal, il direttore della biblioteca del Bishop College ci viene a salutare. E’ un buon amico di mio padre, si sono incontrati diverse volte, l’ha aiutato a rintracciare certi antichi documenti relativi ai missionari Cappuccini in Tibet E’ un tipo accogliente e festoso. Non mi ha mai visto ma sembra mi conosca molto bene. Mangiamo nel suo ristorante preferito che è contemporaneamente molto economico e molto gustoso. Ricambieremo l’invito con una cena ufficiale prima di ripartire. Io, mio padre, Amlan, la moglie e Tutu una bellissima bambina di 10 anni, … quasi in età da marito! Calcutta è la capitale della regione del Bengala, ci vivono oltre 15 milioni di persone e si calcola che ogni giorno arrivino più di 5000 profughi in cerca di migliori condizioni di vita. E’ una città sterminata ed è considerata la capitale culturale dell’India per le sue università e per i numerosi uomini di cultura che provengono da qui come il famoso poeta Tagorè (1861-1941) o il premio nobel per l’economia 2003, Amartya Sen Questa è anche l’unica città indiana dove sopravvivono i risciò trainati dall’uomo. Sono dei calessini portati da persone esili e scalze che circolano solamente nella parte vecchia della città. Nelle vie di maggior traffico non se ne salverebbe uno. Provo anche questo mezzo di trasporto: li per li ti senti male, ma quando pensi che i tuoi spiccioli gli servono per vivere ti senti meglio

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Quando sono stato al tempio della dea Kalì, un luogo affollato e sporco dove ogni mattina si sgozzano numerose caprette, ho potuto visitare la prima casa fondata da Madre Teresa. La porta di ingresso è adiacente al tempio. Non appena entrati si incontra uno stanzone lindo dove ci saranno almeno un centinaio di moribondi assistiti dalle suore della Carità, che si riconoscono per il saree di cotone bordato di azzurro, e volontari di tutte le età che assistono amorevolmente questi poveracci raccolti nei dintorni della stazione di Howra o sui marciapiedi di chissà dove. Mi sono sentito fragile e viziato; mentre io guardavo lo “spettacolo” della morte tante persone dedicavano le loro vacanze per quei diseredati

La Gran Bretagna si impadronì dell'India a partire dalla metà del ‘700 ma solo nel 1876 l’'India entrò a far parte dell'impero britannico, quando la regina Vittoria fu proclamata imperatrice delle Indie. A governare questo enorme territorio fu inviato un alto funzionario, che ebbe il titolo di viceré e risiedeva qui a Calcutta fino al principio del ‘900 quando la capitale fu spostata a Delhi. Si vedono ovunque i tipici palazzi in stile vittoriano Il dominio coloniale inglese sull'India a mio avviso non è stato solo negativo. Dapprima fu soltanto un duro sfruttamento: ad esempio, la fiorente manifattura indiana che produceva tessuti di cotone venne completamente rovinata dalla concorrenza di quella inglese, la quale faceva coltivare il cotone in India, poi lo importava in Inghilterra per farlo lavorare con tecniche più avanzate: così i prodotti britannici avevano un costo più volte inferiore di quelli indiani e accadeva che gli Indiani comprassero indumenti e tessuti che erano stati prodotti con lo stesso cotone coltivato in India; anche l'agricoltura indiana fu devastata da quella britannica; l'India, infatti, dapprima era un enorme insieme di villaggi autosufficienti, con l'arrivo degli inglesi si diffuse la grande proprietà latifondista e i proprietari terrieri si resero conto che era molto più conveniente esportare i prodotti, cosa che fino ad allora non era mai stata fatta. In seguito ad alcune ribellioni, l'Inghilterra modificò il proprio modo di governare l'India, impegnandosi anche a modernizzare la sua economia e a creare una classe media di funzionari indiani istruiti e ben addestrati che collaborassero nell'amministrazione del paese. Oggi possiamo dire che la politica coloniale inglese in India è stata molto più intelligente rispetto agli altri stati coloniali: sono stati realizzati 50.000 km di ferrovie, altrettanti di strade, costruite scuole, ospedali, ponti, dighe, grandi bonifiche agricole e numerose industrie di trasformazione. Senza contare che qualunque indiano minimamente istruito conosce la lingua inglese e questo è un vantaggio molto importante nel mondo globalizzato di oggi La lotta per l'indipendenza dell'India si identifica con la vita di Gandhi che a partire dagli anni ’20 aveva fatto della protesta non violenta l’arma più potente per liberare l’India dagli inglesi Il 15 agosto 1947 l'India divenne indipendente,ma non si riuscì a mantenere unita la nazione a causa della inimicizia tra musulmani e indu.

Infatti dopo il 1947 i musulmani si staccarono dall'India formando un nuovo stato: il Pakistan. A questo seguì una vera e propria guerra di religione, che al termine contò circa un milione di morti e oltre sei milioni di profughi musulmani e indù dal Pakistan all'India e viceversa. Gandhi per far smettere queste violenze, decise di digiunare fino alla morte se le "guerre" non fossero cessate. Alla fine i massacri cessarono e Gandhi poté tornare a nutrirsi. Ma fu assassinato mesi dopo, il 30 gennaio 1948.

Gli ideali del Mahatma Gandhi, il padre della patria, l'uomo che ha ispirato e ispira tutt’ora generazioni di giovani non violenti possiamo leggerli a Delhi, sulla piattaforma di pietra nera che ricorda il luogo della sua cremazione (il Rajghat): "Vorrei che l'India fosse tanto libera e forte da essere capace di offrirsi in olocausto per un mondo migliore. Ogni uomo deve sacrificarsi per la sua famiglia, questa per il suo villaggio, il villaggio per il distretto, il distretto per la provincia, la provincia per la nazione e la nazione per tutti. Io spero nell'avvento del khudai raj, il regno di Dio in terra".

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Noi siamo venuti a Calcutta per seguire un’altra traccia dei missionari Cappuccini in Tibet. Quando nel 1700 partivano dalle Marche, raggiungevano Marsiglia in Francia e di qui a piedi proseguivano per Parigi e Lorient in Bretagna dove si imbarcavano su navi della compagnia francese delle Indie Orientali. Arrivavano dopo un viaggio in nave che durava almeno sei mesi a Chandernagore (40 km a nord di Calcutta che allora era un piccolo borgo). Chandernagore apparteneva ai francesi e aveva un porto utilizzato per i commerci delle principali compagnie europee. Qui, i missionari Cappuccini avevano acquistato un vecchio edificio divenuto una chiesa aperta al culto nel 1720. Mio padre ha rintracciato questo posto una decina di anni fa, ci torniamo per fare delle foto al portale che è ancora quello originale e per accordarci sul mettere una targa che ricordi la storia di questa chiesetta. Oggi la chiesa appartiene alle suore di San Giuseppe di Cluny che gestiscono una scuola con oltre trecento ragazzi dalle elementari alle superiori. Non conoscono la storia dei missionari che per andare in Tibet si fermavano qui, sono curiose e ospitali.

In Nepal

Non abbiamo tempo di fermarci a Patna. Ai tempi della missione in Tibet era forse la più importante città commerciale di tutta l’India orientale. Anche qui i nostri missionari avevano una base. E’ una città faticosa con un traffico incredibile. Noi ci fermiamo giusto il tempo per prendere contatti. Un vecchio frate si è reso disponibile per accompagnare mio padre in alcuni luoghi dove i frati cappuccini, espulsi dal Nepal si rifugiarono al principio dell’800. Forse ci andranno l’anno prossimo.

Partiamo da Patna di mattina presto con un pullman, prossima destinazione Kathmandu. Il viaggio sarà lunghissimo, infatti dovremo passare la sterminata campagna del nord,valicare le prime montagne della catena Himalayana, e passare per la valle di Kathmandu. È stagione di monsone, così molte strade sono rovinate e bisogna procedere a passo d’uomo. Nel primo pomeriggio passiamo la frontiera col Nepal. Fare il visto, riempire i form e pagare la tassa richiedono tempi “orientali”, bisogna

pazientare. È caldissimo e questa frontiera non è molto usata dai turisti e cosi sembriamo l’attrazione del posto. Dobbiamo aspettare un paio d’ore prima che un altro pullman riparta. Mangiamo in una bettola dove non si curano troppo dell’igiene, c’è solo riso e dahl, poi ci appoggiamo in uno dei “baretti” alla stazione dei pullman. I bambini e i ragazzi mi stanno intorno e sono molto curiosi, mi toccano e mi tirano i peli, chiedono foto e ridono. Ripartiamo e inizia la salita sui monti, attraverso la giungla del Terai. Passate le montagne dovrebbe vedersi la valle di Kathmandu ma ormai è buio, arriviamo in città dopo mezzanotte e due tassisti ci portano al nostro albergo in Thamel, uno dei quartieri nati con l’esplosione del turismo negli anni ‘80. A Kathamndu ci prendiamo una settimana di svago, io giro per la città tutto il giorno faccio amicizia con le persone più svariate sia nepalesi che altri viaggiatori da tutto il mondo. Questa, dice mio babbo, è la città dei balocchi. Qui è tutto facile, si trova tutto. Quasi tutti parlano inglese perché il business si fa con gli occidentali.

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Puoi trovare ristoranti di tutto il mondo; il mio preferito? Everest steak house. Enormi pezzi di manzo o vitello cotti al forno insieme a verdure, quando te li servono saranno 1000 gradi. Una birra e ½ kilo di carne circa 6 €. C’è anche una ottima pizzeria italiana e il ristorante Marco Polo dove incontriamo Roberto che vive qui dal 1973. La vita qui è più tranquilla che in India: la città è dimensionata per il turismo, più “occidentalizzata”: ci sono bar, discoteche, night e si possono ascoltare tutte le sere gruppi dal vivo che suonano rock ‘n roll. Kathmandu era il paradiso degli hippies negli anni 60-70. Famosa è una via chiamata ufficialmente da allora Freak Street, vicino a Durbar Square in pieno centro storico, dove si ritrovano anche adesso vecchi hippies che hanno deciso di fermarsi qui. Molti si occupano dei bambini di strada o dei diseredati. Il Nepal è un punto di incontro di più culture: quella indiana (con l’induismo), quella tibetana (col buddhismo), e quella occidentale. Negli ultimi 30 anni la città di Kathmandu si è ingrandita fino a comprendere la città di Patan e luoghi di interesse religioso come Bodhnat dove un enorme stupa è meta continua di pellegrini buddisti o Pashupatinat, costruita sul fiume Bagmati (come a Benares si cremano i morti ed è piena di Sadhu, di templi e di scimmie). Syambhunath è una collina di Kathmandu; bisogna salire trecento scalini per arrivare, è un complesso religioso dove le religioni buddista ed induista si confondono. Bhaktapur a una quindicina di km un tempo era un piccolo regno. Ora è la città meglio conservata del Nepal. È esattamente come immaginiamo un'antica città medievale: niente traffico, niente inquinamento, niente fogne a cielo aperto, nessun cattivo odore, tutto scintillante e ristrutturato di fresco o in via di rifacimento. Per entrare in città si paga una cifra consistente (10 €) ma ne vale la pena. Ci aggiriamo per le vie; donne anziane filano la lana con i fusi sulla soglia di casa, nei portichetti ai bordi

delle piazze o nelle botteghe artigiani che intagliano legno o battono il ferro. Nella piazza dei vasai è stato girato il film di Bertolucci, “il piccolo Buddha”. Riconosco la scena di quando Siddharta esce per la prima volta dal palazzo e si avventura per la città perché ho visto il film prima di partire. Non ci sono segni di modernità; i vasai lavorano con il tornio a pedale, tutti i vasi e gli orci sono stesi nella piazza ad asciugare, da una parte ci sono vecchi forni per la cottura e mucchi di creta. Se non fosse per le bancarelle potremmo trovarci benissimo nel medioevo

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Qui ci sono cose che interessano mio padre. Una campana enorme che, mi dice lui, è stata fusa in due momenti diversi: c’è scritto nei diari di fra’ Cassiano da Macerata. La troviamo appesa vicino ad una pagoda di pietra con il batocco bloccato per non farla suonare. E poi ha un disegno del convento, sempre di fra Cassiano, che i missionari avevano ricevuto in dono dal re. Anche la croce sul tetto!

Attraverso l’Himalaya

Il viaggio per il Tibet l’abbiamo comprato qui a Kathmandu. Mio padre non è soddisfatto perché faremo il viaggio in pullman invece che con un fuoristrada. Il viaggio è organizzato da una agenzia (è l’unico modo per entrare in Tibet ormai). Viaggiamo tra la foresta delle gole himalyane. A mezzogiorno siamo a Zanghmu la frontiera col Tibet. Facciamo una gran fila per verificare visti e stato di salute. Ignaro, non faccio in tempo a scattare una foto che due guardie cinesi mi sono addosso urlandomi di cancellarla. Già li odio. Stiamo fermi nella città per mezza giornata. Zanghmu è il posto più brutto che abbia mai visto. Un'unica strada su cui si affacciano solo stamberghe, night club e “massaggiatrici”, nessuno parla inglese. Ripartiamo di notte, il viaggio da Zanghmu in poi sarà scomodissimo: fino a Shygatze la strada è una buca dopo l’altra che ti scuotono continuamente sul pullman. Alle quattro del mattino siamo a Nyalam dove riposiamo qualche ora in un caravanserraglio. Di qui si sale fino al passo del Tung-La (5340 m.). A mano a mano che ci si arrampica, il paesaggio si allarga e le cime che sembravano vicinissime si fanno lontane. Se guardi in basso ti rendi conto di quanto si arrampichi la strada di terra battuta. Il clima cambia rapidamente: sole, neve, vento e nuvole. Molta gente ha il male d’altitudine e vomita. Quando arrivi al passo ti senti di essere in cima al mondo. Di qui si capisce che la terra è rotonda … Poi la strada scende rapida verso i 4000 metri dell’altopiano tibetano. Tingri è la prima vera borgata tibetana che si incontra sulla strada per Lhasa. In vista delle olimpiadi i cinesi stanno asfaltando tutto, anche la vecchia mulattiera che da Tingri, porta al campo base dell’Everest.

L’Himalaya, la più alta catena montuosa del mondo con vette che superano gli ottomila metri, si è formata per orogenesi. Secondo la teoria della tettonica a placche la litosfera, lo strato esterno della Terra, è divisa in una serie di zolle rigide che galleggiano su uno strato viscoso del mantello. Le placche sono messe in movimento dalle celle convettive presenti nel mantello, e sono costituite da

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blocchi di litosfera che si muovono sulla sottostante astenosfera (dove si localizzano le correnti convettive). Questi spostamenti danno origine a tre tipi di margini: - margini a scorrimento laterale (conservativi): lungo i quali la crosta non viene mai né creata né distrutta e le zolle scorrono lateralmente l'una rispetto all'altra; - margini divergenti (costruttivi): lungo i quali le zolle si allontanano l'una dall'altra e lo spazio creatosi

viene occupato da nuova litosfera

oceanica e genera nuova

crosta; - margini convergenti (distruttivi): lungo i quali le zolle si avvicinano l'una all'altra. In questo caso avvengono fenomeni diversi a seconda del tipo di zolle che entrano in collisione. Se a convergere sono una placca continentale e una oceanica la seconda scorre sotto alla prima attraverso il cosiddetto fenomeno di subduzione e la litosfera oceanica viene trascinata in profondità nel mantello e si

formano catene montuose di tipo vulcanico sulla crosta continentale e fosse in quella oceanica. Se a convergere sono due placche oceaniche una delle due scorre sotto all'altra generando questa volta un arco vulcanico insulare. Se a convergere sono due placche continentali si assiste al fenomeno dell’orogenesi. Questo è il caso dell’Himalaya. La collisione tra due blocchi continentali infatti non porta a nessuno sprofondamento crostale, perché la crosta continentale è più leggera (meno densa) del mantello sottostante. In questo caso i due margini convergono dando origine ad una catena montuosa a pieghe. La catena Himalayana si è formata dalla collisione tra Eurasia e India: nella Pangea originaria l’India era unita all’Antartide, dalla quale ha iniziato a staccarsi 80 milioni di anni fa. Salendo verso nord venne a collidere con la placca euroasiatica: la collisione, che porto al sollevamento della catena himalayana, è tuttora in atto, e l’India continua a premere contro l’Asia

SHIGATSE E’ la seconda città del Tibet, famosa per il monastero di Tashillumpo, che prima della occupazione cinese ospitava 8000 monaci; una città. Tashillunpo è la residenza del Panchen Lama , la seconda autorità religiosa del Tibet. Dopo che nel 1995 il Dalai Lama riconosceva in Choekyi Nyima l’undicesima reincarnazione del Panchen Lama, il bambino e i suoi genitori sono stati rapiti dalle autorità cinesi e da allora se ne sono perse le tracce. Ovunque vediamo ritratti del Panchen Lama, una autorità religiosa nominata dai politici cinesi, forse dal partito comunista cinese! Di ritratti del Dalai Lama nemmeno parlarne; possederne uno ti porta in prigione. E’ quello che è accaduto a tantissimi tibetani che si sono fatti 5 o 10 anni di prigione per avere gridato pacificamente “Libertà per il Tibet” o perché trovati in possesso di immagini del Dalai Lama GYANTSE A Gyantse troviamo il Kumbum che nella lingua dei tibetani significa “100.000 immagini”. E’ una costruzione bellissima; uno stupa su diversi piani che contengono 108 cappelle dipinte.

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Un percorso iniziatico per il fedele che visitandole tutte dovrebbe capire il senso della meditazione e del buddismo. Lato e altezza sono di circa 30 metri. Per arrivare in cima il percorso si visita ogni piano camminando in senso orario e salendo al piano superiore attraverso scalette interne ripidissime e buie.

Lo stupa (chorten in tibetano) è un reliquiario che può contenere le ceneri di un santo lama e per i tibetani simboleggia la religione stessa. Il devoto gli gira intorno lasciandolo alla propria destra e recitando i mantra per ottenere meriti. Gli stupa vengono costruiti ovunque come da noi gli ex voto, per ricordare una grazia ricevuta. In oriente si costruiscono stupa di forme e dimensioni diverse a seconda delle tradizioni buddiste ma tutti hanno proporzioni precise e contengono parti che sono associate agli elementi: il basamento è la terra, poi l’acqua, il fuoco l’aria e l’etere

Qui arrivò Fosco Maraini alla fine degli anni ’40 come cineoperatore di Giuseppe Tucci, il grande orientalista e tibetologo. Fosco Maraini ora è morto ma io mi ricordo quando venne a Pennabilli e in teatro raccontò dei suoi viaggi in Tibet mostrandoci anche le foto che aveva fatto in bianco e nero. Lui era stato costretto a fermarsi a Gyantse perché non aveva un visto per Lhasa, così aveva studiato e schedato tutti i dipinti di questa costruzione.

Lhasa

Per arrivare a Lhasa i posti di blocco sono frequenti. Devi scendere, mostrare il passaporto ed il visto collettivo. Superiamo anche un altro passo a 5350 metri poi un lunghissimo ponte sul fiume Tsangpo (che in India prenderà il nome Brahmaputra) e finalmente siamo a Lhasa.

Lhasa in tibetano significa città degli dei. Forse lo era una volta. Adesso è una città moderna con tanti centri commerciali. Nel 1950 le truppe dell’esercito della Repubblica Popolare Cinese invasero ed occuparono il Tibet, uno stato fino allora assolutamente indipendente e del tutto differente dalla Cina in quanto ad etnia, lingua, sistema sociale, cultura, religione e tradizioni. La Cina negli anni seguenti, anche in seguito alla rivoluzione culturale, praticato un vero e proprio genocidio culturale ai danni dei tibetani: oltre un milione di morti e la quasi totalità del patrimonio architettonico, artistico e religioso distrutta. Nel 1959 il Dalai Lama e 100.000 tibetani si erano rifugiati in India attraversando a piedi l’Himalaya. Da allora l’esodo continua ogni giorno così come ogni giorno giungono a Lhasa migliaia di coloni cinesi.

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La modernizzazione del Tibet e di Lhasa procede a ritmi molto intensi. Le poche vestigia del passato sono ormai sommerse da colate di cemento Qui il turismo è soprattutto cinese. Migliaia di aziende mandano in viaggio premio i propri dipendenti che ascoltano da guide ben addestrate le ragioni per cui il Tibet, da sempre fa parte della Cina … (una bufala ovviamente) I cinesi fanno di tutto per creare un ambiente allettante per i coloni (che sono già in numero maggiore dei tibetani: 9 di coloni e 5 milioni di tibetani). Incentivi fiscali, paghe più alte, svaghi di ogni tipo, centri commerciali. La ferrovia Pechino – Lhasa sta portando a termine il processo di colonizzazione del Tibet. I cinesi intendono trasferire in Tibet 40 milioni di coloni. Le risorse del paese delle nevi saranno spremute come è già accaduto con le foreste del Tibet orientale In Tibet non esiste parità di diritti tra coloni cinesi e tibetani. Per esempio solo a una minoranza di studenti tibetani viene consentito di proseguire gli studi superiori che sono riservati ai figli dei coloni cinesi. A Lhasa vi sono più scuole per cinesi che per tibetani e meglio organizzate. Il tibetano è insegnato solo come seconda lingua e sul lavoro i tibetani trovano diversi ostacoli il principale dei quali è legato alla non conoscenza della lingua cinese I tibetani vivono in uno stato di inferiorità materiale perché le attività imprenditoriali sono tutte in mano cinese e a loro vengono riservate le briciole e di inferiorità mentale perché non sono liberi di decidere il loro destino. Chi ha visto Lhasa sa benissimo che una rivolta può scoppiare da un momento all’altro, nonostante l’apparato di polizia sia molto capillare con telecamere ovunque, collaborazionisti, ecc. Abbiamo quattro giorni in tutto per fermarci a Lhasa e per portare a termine la nostra “missione” Vediamo il monastero buddista di Sera, dove il nostro fra Orazio da Pennabilli nel 1717 fu ospitato per nove mesi per imparare la lingua tibetana. Visitiamo il Potala, la residenza del Dalai Lama ora trasformata in museo; è ancora meta di pellegrini che per devozione (essendo la casa di una divinità) ci girano intorno recitando il mantra Om mani padme hum. La presenza cinese non sembra scalfire la loro devozione anche se c’è sempre in zona un camioncino che bombarda i pellegrini con slogan propagandistici La nostra missione Il Jokhang è il tempio più sacro del Tibet. Al Jokhang ci sono migliaia di pellegrini che devotissimi fanno prostrazioni davanti all’ingresso. I missionari Cappuccini avevano ottenuto dal VII Dalai Lama il permesso di acquistare il terreno e

costruire un convento e una chiesa che era stata aperta al culto nel 1725. Non è mai stata ritrovata ma dovrebbe essere stata qui vicino. Quando la missione venne abbandonata nel 1745 la campana fu lasciata a Lhasa. Della campana cristiana avevano parlato per primi alcuni giornalisti che avevano seguito l’esercito inglese a Lhasa al principio del 1900, poi ne aveva parlato Heinrich Harrer in “Sette anni in Tibet”. La campana, l’unico reperto della missione cristiana rimasto in Tibet, era stata vista appesa in una delle cappelle del Jokhang. Poi con la rivoluzione culturale se ne erano perdute le tracce Nel 2004, mio padre l’aveva rinvenuta in un magazzino del Jokhang, era riuscito fortunosamente a farne un calco che riportato in Italia è servito a costruire il monumento della “campana di Lhasa” sul Roccione di Pennabilli.

E perché siamo tornati qui? Perché per qualunque motivo non vada di nuovo smarrita. Mio padre con i suoi giri è riuscito a ottenere appuntamento con uno degli abati del monastero; si chiama Nyingma Tsering, è giovane, sveglio e parla inglese. L’incontro è pieno di gentilezze e ringraziamenti.

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L’abate sapeva della esistenza di questo reperto ma si stupisce di quanti dettagli conosca mio padre. Comunque ha chiaro il problema e ci assicura che la campana insieme a tanti altri oggetti preziosi sarà esposta nel museo del Jokhang che sarà aperto dopo i restauri alla struttura che stanno per iniziare. Siamo soddisfatti,missione compiuta. Ho terminato il racconto di un viaggio fatto non in un paese ma in un continente, un viaggio che mi ha offerto una immensa varietà di paesaggi, lingue, culture, usanze e immagini. Un viaggio che dalle pianure del delta del Gange, dai territori più affollati della terra mi ha portato a quelli più elevati e silenziosi dell’Himalaya, in panorami che ti fanno pensare all’infinito o sentire che stai vivendo qualcosa che non si ripeterà tanto facilmente. Un’esperienza forte in una dimensione che non conoscevo, in posti molto lontani dal nostro modo di vedere il mondo. Una esperienza che mi ha fatto capire quanto è facile e leggera la mia vita Che cosa mi è piaciuto? Mi sono sentito un viaggiatore che decide da solo, più che un turista che fa decidere ad altri la propria avventura. Mi rimane una sensazione di nostalgia per i posti che ho visitato, è la sensazione di non averli capiti fino in fondo, di non esserci stato a sufficienza per poterli capire meglio.

Quando a metà marzo sono scoppiati i disordini in Tibet, ho deciso di raccontare la mia esperienza come

tesina d’esame. Quando ero a Lhasa l’avevo pensato, potrei dire quasi previsto. Perché è scoppiata la rivolta? A volte basta una scintilla e in Tibet le occasioni non mancano. Secondo me il problema tibetano è molto semplice, i cinesi in oltre sessant’anni di repressioni, non sono riusciti a normalizzare il popolo tibetano né all’interno né all’esterno del Tibet. Dalla televisione si vede che la protesta è portata avanti principalmente da giovani e giovanissimi, persone che non erano nemmeno nate nel 1959 ai tempi della occupazione cinese. Persone che nonostante il dominio cinese continuano a sperare e a lottare per il loro paese e la loro cultura liberi. Qui gli intellettuali discutono se il Tibet è mai stato un Paese libero, se è sempre stato sotto l’influenza cinese oppure se i cinesi hanno liberato i tibetani dalla teocrazia dei lama. Per me il punto cruciale è che oggi i tibetani sono oppressi, imprigionati, torturati, perseguitati in casa loro e quando si ribellano sono certi di andare incontro a un a repressione dura e spietata Oggi i tibetani sentono che l’occasione delle olimpiade mette i Cinesi sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale e questa consapevolezza ha provocato la scintilla Se i leader mondiali si curassero dei diritti dei popoli e non solo del business di alcune compagnie multinazionali tutto sarebbe più semplice, perché il prossimo agosto le olimpiadi sarebbero boicottate dalla maggioranze dei paesi occidentali. Ma sembra che aziende come Coca Cola, MacDonald’s, Nike, Adidas, Visa, Microsoft e altre abbiano stanziato ciascuna oltre 100 milioni di dollari in pubblicità olimpica; sembra che i cinesi stiano finanziando il debito pubblico americano; sembra che l’economia cinese stia comprando miliardi di dollari di merci italiane ed europee. E che cosa sono in confronto a questi numeri 5 milioni di tibetani senza libertà? Sembra poca cosa. Dovremmo boicottare le Olimpiadi. Sarebbe un bello schiaffo alla Cina, il paese che ha preso il peggio del comunismo e del capitalismo. Credo che purtroppo le ragioni del denaro vinceranno ancora una volta e il boicottaggio non si farà. Io farò il mio boicottaggio personale: NON GUARDERO’ LE OLIMPIADI. Questa è la mia ribellione ai cinesi e spero che tante persone facciano altrettanto. TIBET LIBERO!

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Risorse

Ho impiegato molto tempo, forse troppo, per scrivere questa tesina. E’ come se avessi ripassato nei dettagli una esperienza che ho fatto ormai un anno fa. Devo la maggior parte delle informazioni e delle correzioni a mio padre e al suo hard disk dove ho trovato materiali sui missionari Cappuccini in Tibet e approfondimenti sulla questione tibetana. Le fotografie vengono quasi tutte dalla mia macchina fotografica. Gli stimoli a fare questo lavoro da mia madre Bibliografia - In Asia, Tiziano Terzani, Pnganeso 2000 - India del Nord, Lonely Planet 2004 - Tibet, a guide to being there, Shangri-la Press 2005 - La speranza indiana, Federico Rampini, Mondadori 2007 - Aspettando il Mahatma, Rasupuram Krishnaswami Narayan, Guanda 2007 Filmografia Ho visto diversi film soprattutto dopo il viaggio. - L’India vista da Roberto Rossellini, documentari per la Rai 1958-59 - Gandhi di Richard Attenborough, 1982 - Passaggio in India di David Lean , 1984 - La città della gioia, di Roland Joffè 1992 - Il piccolo Buddha, di Bernardo Bertolucci, 1993 - Sette anni in Tibet, di Jean-Jacques Annaud, 1997 - Kundun, di Martin Scorsese, 2001 - La campana di Lhasa, di Claudio Cardelli e Elio Marini, 2004

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