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V E R D O N EE D I T O R E

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abruzzodignità antiche e identità future

Giulianova Lido (Te) 16-21 ottobre 201053° Convegno Nazionale Associazione Italiana Insegnanti di Geografia5° Convegno Nazionale Associazione Italian Insegnanti di Geografia - Giovani

14° Corso Nazionale di aggiornamento e sperimentazione didattica

atti

ASSOCIAZIONE ITALIANA INSEGNANTI di GEOGRAFIA

SEZIONE ABRUZZO

Con il patrocinio di

Comune di Giulianova

Provincia di Teramo

Presidenza del Consiglio Regionale

Presidenza della Giunta Regionale

R E G I O N EA B R U Z Z O

Provincia di Pescara

Comune di Atri

Con la sponsorizzazione di

Antico Laboratorio Orafo “Armando Di Rienzo”- Scanno

Commissione NazionaleItaliana per l’UNESCO

Con il contributo di

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A distanza di 20 anni il Convegno Nazionale torna in Abruzzo. In un momento, per la verità, non propriamente felice. Le ferite per il terremoto dell’Aquila, con tutto il loro bagaglio di dolori e di morti,oltre che di distruzione del bene comune nel senso più ampio che questo termine as-sume, sono ancora aperte ed altre se ne stanno aprendo con una ricostruzione che,sotto la pressione dell’emergenza, sta modificando il territorio senza altro criterioche la sua disponibilità ad un uso immediato. Sembra peraltro che nella mancanza di considerazione di specificità, di vocazioni,di memorie e del loro nesso con le forme prodotte dalla natura e dall’attività del-l’uomo si rispecchino le ragioni dei recenti declassamenti di quei saperi che si og-gettivano nell’attenzione, descrittiva e critica allo stesso tempo, per la natura e perle trasformazioni del globo terrestre. Questa occasione di incontro e di scambio di conoscenze non può eludere, perciò,l’impatto delle infauste contingenze di cui ho detto con la specificità di questa re-gione fatta certamente di nature generose, ma anche delle dignità che ancora tra-spaiono nelle pietre delle nostre contrade come nei mestieri di cui conserviamo lamemoria. Così come non può eludere, peraltro, l’impatto della nostra storia con le trasforma-zioni indotte dai processi economici e con le ristrutturazioni che caratterizzano lasocietà postindustriale. Credo peraltro che poche discipline abbiano i recinti tanto ampi quanto la geografiae che solo essa, in fondo, riesca a mantenere un proprio statuto pur inglobando lavastità dei saperi che concorrono alla trasformazione del pianeta. I lavori di questo convegno produrranno certamente nuovi confronti e nuove cono-scenze e, auspicherei, nuovi impegni su questi temi. Noi cercheremo di favorirli con l’ospitalità e l’affetto di cui siamo capaci.

Agnese Petrelli

Presentazione della Presidente AIIG Abruzzo

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Signore e Signori, Autorità, cari Colleghi e Amici

Il 53° Convegno Nazionale, cui si affiancano il 14° Corso nazionale di aggiornamentoe sperimentazione didattica e il 5° Convegno AIIG-Giovani, si inaugura oggi, grazie al-l’organizzazione della Sezione AIIG Abruzzo. Al Presidente Agnese Petrelli, ai Vicepresidenti Giovanna Tacconelli e Gabriele Fra-ternali, a tutti i membri del Comitato ordinatore e di quello scientifico, della Segreteriaorganizzativa e a quanti hanno contribuito alla realizzazione del Convegno desideromanifestare tutta la mia gratitudine, sentita e sincera, nella piena consapevolezza diquanto sia gravosa e sempre più difficoltosa l’organizzazione di questo importante ap-puntamento annuale. È la terza volta, nella storia ormai lunga dell’AIIG, che in Abruzzo viene organizzatoun nostro Convegno nazionale. Il primo si è svolto nel 1975 a L’Aquila, gloriosa città,devastata dal terremoto dell’aprile 2009. L’AIIG è oggi qui anche per stringersi in unfraterno abbraccio agli aquilani e a tutti coloro che sono stati colpiti e che in un attimohanno perso i propri cari, la propria casa, i propri punti di riferimento, ma che stannodimostrando di sapersi risollevare con fierezza e grande dignità da questo sconvolgi-mento totale. Quel Convegno del 1975, il ventesimo nella storia dell’AIIG e il penultimo della Pre-sidenza Migliorini, il fondatore nel 1954 della nostra Associazione, fu organizzato daMichelangelo Ruggieri, coadiuvato da Gerardo Massimi e da Concetta Testa, che pertanti anni ha guidato la Sezione Abruzzo e che ricordiamo tutti con sincero affetto. Il secondo Convegno abruzzese si svolse a Montesilvano-Pescara, sul tema “Abruzzo1990: stereotipi e realtà territoriali” e vide la presenza del compianto presidente nazio-nale Giorgio Valussi. L’organizzazione di quel bel Convegno, di cui ho ancora nitidoricordo, fu dovuta a Piergiorgio Landini, dell’Università di Pescara. Dopo vent’anni esatti da quell’incontro si ritorna in Abruzzo, toccando, però, un’altraprovincia, quella di Teramo. Anche in questa occasione si è deciso di affrontare temirelativi allo sviluppo regionale, puntando opportunamente su concetti di massima at-tualità, sia nel contesto scientifico, sia in quello politico: Abruzzo dignità antiche e iden-tità future. Ci attendiamo significativi stimoli per una riflessione. Da un mese circa è iniziato l’anno scolastico, che vede, dopo i recenti cambiamenti pro-dotti nel primo ciclo, l’avvio della riforma della scuola secondaria di secondo grado. Siattendeva da decenni un riordino di questo ordine di scuola, pur se non possiamo rite-nerci soddisfatti per i risultati, soprattutto per quanto riguarda la geografia. Devo direche, grazie a una mobilitazione mai vista in precedenza, i danni sono stati contenuti ri-spetto alla situazione ben più grave che si andava profilando per la nostra disciplina.

Discorso di apertura del Presidente Nazionale

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La gentile insistenza della collega Agnese Petrelli, Presidente della sezione abruz-zese dell’AIIG, ha prevalso sul peso degli anni che mi fanno prendere ormai qual-siasi impegno con una certa lentezza. Anche se si tratta di una breve presenta-zione del Convegno Nazionale di Giulianova per una disciplina che ho amato eseguito per tanti decenni. Da molto tempo mancavo, con indubbio rincrescimen-to, a manifestazioni geografiche, sia perché quando si passa dalla fase attiva al-la dovuta messa a riposo, molte cose mutano nella nostra vita, sia perché inter-pretando alla lettera lo spirito del provvedimento spesso molti dimenticano l’e-sistenza del “pensionato”, escluso dalle consuete attività didattiche e scientifiche.Anche se si tratta di trasmettere utili esperienze accumulate nei tempi o di va-gliare testi manoscritti per esprimere opportune valutazioni prima della pubbli-cazione a stampa, oppure scrivere semplici segnalazioni bibliografiche. Così, con questa importante manifestazioni emergo nuovamente alla Geografia,da me giudicata (mai disgiunta dalla Storia) una delle maggiori e più antiche «cul-le del sapere dell’umanità». Ed emergo da una fortunata quanto singolare espe-rienza: la “promozione da geografo pensionato a fotografo documentario in atti-vità, che ha prodotto un patrimonio ragguardevole di fotografie nell’arco di mez-zo secolo. Fondo che sono felice di aver donato alla Società Geografica Italiana.ma di ciò parlerò con maggiore compiutezza prima dell’apertura della mia Mo-stra personale, replicata da quella dell’Aquila, in onore delle popolazioni colpi-te dallo sconvolgente terremoto del 6 aprile 2009. Vorrei invece dedicare il mio pensiero al presente Convegno, espressione vitaledella nostra disciplina misconosciuta e trasformata anche nella denominazione làdove l’ammasso di materie incongrue ha contribuito a formare coattivamente cer-ti “Dipartimenti” creatori spesso di conflitti di competenza e di inutili ritardi bu-rocratici. Questo è il mio parere strettamente personale. Sia benvenuto quindi il Convegno, che ci restituisce la nobile parola GEOGRA-FIA, con un ricco programma di relazioni, dibattiti, presentazioni di nuove tec-nologie per lo studio del territorio e della didattica, mostre, lezioni itineranti svol-te in escursioni dalle tematiche quanto mai varie, manifestate nella straordinariadiversità dei paesaggi. Escursioni che mostrano in pieno il valore della interdi-sciplinarietà sia nella ricerca sia nella stesura degli elaborati conclusivi. Il programma, così come appare dagli stampati di presentazione, è di grande im-pegno, ed ha richiesto l’intervento, oltre che della infaticabile presidente Agne-se Petrelli, di un buon numero di collaboratori. Tra tanti posso citare il presideM. Luisa Ceruso, il prof. Giovanni Tacconelli e Domenico Gatto, e la segretaria

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Tuttavia la riduzione di ore o l’eliminazione della geografia in alcuni segmenti è gra-vissima, in quanto i ragazzi vengono privati di saperi di base riguardo alla cultura delterritorio: argomento che proprio nel nostro Convegno sarà ampiamente dibattuto.

Ricerca e didattica si possono confrontare ancora in questa assise su molteplici e inte-ressanti argomenti, in particolare per il territorio che ci ospita e che ci apprestiamo a co-noscere meglio, grazie all’organizzazione itinerante dei lavori, a relazioni scientifichee didattiche, tavole rotonde, escursioni. Anche questa tradizionale iniziativa, giunta og-gi alla sua 53a edizione, va annoverata a merito dell’AIIG, che riesce a esprimere il for-te legame tra università e scuola e una continuità tra giovani appena laureati, docenti inattività e docenti che, pur avendo lasciato il servizio attivo nella scuola, rimangono nel-l’Associazione ad apportare il loro contributo di entusiasmo e di competenza. Certo che questa sarà un’occasione propizia per la geografia e per il suo futuro, augu-rando a tutti un buon lavoro, dichiaro aperto il 53° Convegno Nazionale.

Gino De Vecchis

La Geografia in mostra

Mario Fondi

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dell’AIIG dott. Carla de Rosso. Termino con il vivissimo augurio di piena riuscitadel Convegno, pari al grande impegno profuso in mesi di preparazione.

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La regione ancora divisa in Ultra I e II e Citra, tre province che sono di fatto, per di-mensione e organizzazione territoriale e morfologica ma anche politica, quasi delle subregioni, mostra tra la fine del XVIII sec. e il XIX una dinamicità delle proprie attivitàeconomiche e produttive e una capillarità delle loro reti di distribuzione tale da indur-re a configurarne il panorama descrittivo come quello di una vera e propria geografiaindustriale proiettata in una dimensione territoriale senza dubbio mesadriatica esten-dendosi, lungo le principali direttrici di transito, tra Marche e Molise, e dunque tra set-tentrione e meridione. Si tratta di una geografia ricca di settori anche molto specializzati, di cui ci siamo ripe-tutamente occupati, e che spazia dalle costruzioni (scalpellini e maestri fabbricatori1),alla lavorazione del legno (falegnami, ebanisti, intagliatori), al tessile e piccola confe-zione, alla metallurgia (fonditori2, argentieri e maestri campanari3, maestri orologiari),agli strumenti musicali (organari4).Questa geografia industriale poggia a sua volta su di una rete infrastrutturale che è fat-ta di collegamenti non solo terrestri ma anche marittimi5 sia verso altre regioni italianesia oltremare che vede punti di rilievo proprio in attività industriali, come la cantieri-stica navale, che ha suoi capisaldi in entrambi gli Abruzzi marittimi Ultra (Giulianova)e Citra (Ortona-Vasto6) affiancandosi, nello stesso periodo, ad una variegata gamma diattività protoindustriali tutto sommato ben strutturata, come indicano le maestranze im-piegate, tra Sangro e Trigno7. Il passaggio cruciale tra piccola bottega e industria è tuttavia particolarmente evidentein alcuni settori, ad esempio la chimica, perché evidenziano come pratiche dal caratte-

Tra bottega e piccola industria: prodromi per una geografiaeconomica della regione teramana tra XVIII e XIX sec.

Vladimiro Furlani

1. V. Furlani, Scalpellini e mastri fabbricatori operanti nel XVIII e XIX sec. nell’area di confine tra Abruzzi eMarche in Aprutium a. XIV(1996) n. 3 pp. 77-101.2. V. Furlani, Scalpellini e mastri fabbricatori operanti nel XVIII e XIX sec. in Abruzzo e Molise tra alto San-gro e medio e basso Trigno in Quarry and Construction a. 1997, luglio n. 7 pp. 89-92.3. V. Furlani, Tecnologie e modalità operative nell’artigianato fusorio delle campane tra Abruzzi e Molise dal’700 all ’800 in Proposte e Ricerche a. XXII(1999) n. 42 inverno-primavera 1999 pp. 56-74 e V. Furlani,Brevi stralci documentari interessanti la storia dell’arte fusoria tra Abruzzo e Marche dal XVIII sec. ai primidel ’900 in Per la Storia dell’Arte dell’Abruzzo e del Molise vol. I in Abruzzo, rivista dell’Istituto di StudiAbruzzesi aa. XXXVI-XXXVIII gennaio 1998-dicembre 2000 pp. 565-88.4. V. Furlani, Scambi di maestranze tra ’700 e ’900 nell’area Mesoadriatica in Associazione Italiana Inse-gnanti di Geografia, Convegno La Regione mesoadriatrica: realtà e prospettive, Civitella del Tronto 23-24novembre 2002.5. V. Furlani, Contesto e architettura nell’Abruzzo dell’800 in Profilo sociale culturale dell’ottocento in Abruz-zo n. monog. in Rivista Abruzzese a. LVI(2003) n. 3 luglio-settembre pp. 268-307.6. V. Furlani, Il Consorzio Industriale del Vastese, sviluppo infrastrutture e sistemi operativi in G. Massimi-V. Furlani, Vastese e industria, Carsa Edizioni Pescara 1993 Cap. II pp. 73-109.7. V. Furlani, Botteghe artisti e artigiani operanti in Abruzzo e Molise tra l’alta valle del Sangro e la media ebassa valle del Trigno in Aprutium a. XIV(1996) n. i 1-2 pp. 63-96.

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riuscito ad acquisire la privativa della produzione di pasta di liquirizia (derivata appuntodal succo) e dunque vedeva di mal occhio chi come i Costanzo di Chieti e i Comi met-tevano in pericolo un monopolio aprendo in concorrenza loro stabilimenti. I Costanzo erano ricchissimi, anche se non compaiono nei Parlamenti Teatini della pri-ma metà del XVIII sec., e la loro elevata condizione economica è dimostrata dalla Li-sta dei più distinti negozianti che il 7 giugno 1809 redasse il Collegio dei commerciantidi Abruzzo Citeriore da cui risulta che Severino Costanzo, in assoluto il più ricco dellacittà di Chieti, fosse seguito da Giovan Battista Obletter, Giovan Battista Sannoner ealtri mentre il commerciante Camillo Mezzanotte, operante nella provincia e fuori conmerci d’ogni specie, dichiarava un capitale di ben 30. 000 ducati nella sola Orsognacontro gli appena 106 in Chieti città di sua residenza dove pure aveva negozio8. In questo caso non tragga in inganno il baronaggio, i capitali in questione non eranofrutto della proprietà terriera del notabilato rurale, ossia non erano affatto quel surplusprodotto dalle campagne in grado di convertirsi in capitale industriale, bensì frutto delcommercio, poi della finanza speculativa, e infine, solo in superficie nobilitato da unopportuno titolo baronale acquistato. Celidonio infatti doveva il titolo al predecessore Francesco Farina il quale nato a Chie-ti il 19 febbraio 1731 s’era subito mostrato inclinato alla negoziazione come disse ilRavizza, e grazie al fatto che al genio (avesse) unita la fortuna, arrivò al massimo del-la propria carriera proprio quando, in associazione con i fratelli Costanzo, aprì ben quat-tro case di commercio a Marsiglia, Trieste, Napoli e Chieti acquistando in seguito gliex possessi dei gesuiti e altre terre feudali che gli valsero il sospirato titolo di barone. Nel 1793 poi s’era dovuto trasferire a Napoli, con tutto il fasto di un Negoziante di pri-ma sfera, per condurre la ditta Cantante Farina città dove, sempre sensibile al poterepolitico, finanziò due squadroni di cavalleria per la guerra contro i francesi ricevendo-ne in cambio la Croce di Commendatore dell’Ordine Costantiniano. L’anno seguenteanzi aveva ottenuto il titolo di Commissario di Guerra come tenente colonnello, quin-di colonnello e infine brigadiere per poi tornare a Chieti nel 1795 cinque anni primadella morte avvenuta il 16 dicembre 1800. La capacità imprenditoriale dei Farina documenta un’ascesa sociale vertiginosa ma nonè unica, a Chieti una via quasi uguale avevano percorsa altri come gli Zambra, i Cetti,Durini, Nolli e Tiboni oltre ai personaggi già richiamati9. Il barone Celidonio Farina quindi, forte delle aderenze politiche e nell’intento di salva-guardare il regime di quasi monopolio di cui godeva, fece un esposto contro i due con-

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re originariamente domestico, transitano, sulla scia di una discreta disponibilità di ca-pitali, verso produzioni industriali che si avvantaggiano del bagaglio di conoscenze ma-turate nell’ambito famigliare. Proprio lo sviluppo della chimica aveva trovato in Vincenzo Comi a Teramo un consi-stente precedente: la fabbrica infatti di cremor di tartaro risultava realizzata, e a regime,fin dal 1794 (o 1793) ed era diventata, unica nel Regno di Napoli, ben presto una del-le più grandi d’Italia e della stessa Francia. Il cremore di tartaro, ossia il tartrato acido di potassio, era un derivato molto diffuso inuna regione che produceva vini; si formava infatti nel corso della fermentazione alcolicadall’acido tartarico contenuto naturalmente nell’uva depositandosi, con l’aumento del gra-do alcolico, sulle pareti delle botti sottoforma di incrostazioni. Trovava impiego poi, a par-te l’uso medicinale (blando purgante) della farmacopea popolare, nella lavorazione dellelane di cui pure la regione abbondava per via dell’economia associata ai tratturi. L’impianto del Comi poggiava su una consistente disponibilità di capitale visto che eracostato oltre 18. 000 ducati ma subito aveva garantita una resa media, all’epoca, di 10/12.000 ducati dal commercio estero attivato principalmente attraverso, appunto, le esporta-zioni via mare il che evidenzia un’eccellente dinamica degli ammortamenti di capitale. Questo slancio iniziale venne però penalizzato da fattori di natura politica con il peg-giorare della situazione internazionale, la conseguente insicurezza delle rotte marittineper finire alle gravissime ripercussioni sugli assetti preindustriali determinate dall’oc-cupazione francese del 1799. Così un’iniziativa partita molto bene finirà male tanto cheall’inizio del XIX sec., ossia nel giro di pochi decenni, la fabbrica poteva dirsi già inuno stato di languore. Il Comi non era industriale da poco e aveva ben chiara la necessità di diversificare i set-tori produttivi proprio per far fronte a possibili crisi momentanee, per questo fin dal1806 si era orientato parallelamente verso il cremore di tartaro e la produzione di pastadi liquirizia molto apprezzata come iniziativa dal momento che la popolazione ne riti-ra molti vantaggi dagli andamenti di queste fabbriche, sì per la moltitudine di bracciache vi sono impiegate, come altresì per la vendita che essa si trova delle loro ripettivematerie prime. La liquirizia deriva dalla Glycyrrhiza glabra delle Papilionacee spontanea nella regio-ne mediterranea: sia le radici che gli stoloni, opportunamente ridotti in polvere, costi-tuivano una droga di largo impiego nella farmacopea popolare e oggi farmaceutica, co-me edulcorante ed emolliente. L’estratto acquoso invece, ossia il succo di liquirizia, po-teva essere concentrato in masse nere dal caratteristico sapore impiegabili come aro-matizzante o masticatorio uso quest’ultimo riservato anche ai rametti giovani essiccatiun tempo normalmente venduti nei mercatini rionali. L’occupazione era uno degli obiettivi, ma l’attività, non agendo in regime di libera con-correnza, finì per intersecare gli interessi di un altro produttore, ossia il barone Celido-nio Farina che aveva aperta una sua fabbrica esclusiva in Silvi molto accreditata pres-so l’estero e ben avviata perchè favorita dal passato regime da cui lo stesso barone era

8. V. Furlani, Complesso di S. Maria dei Sette Dolori, Monastero e Conservatorio delle Vergini Serve di MariaAddolorata (1720-1962), ricognizione analitica della documentazione storica e sviluppo delle fasi formative,Circolo Letterario Semprevivo, Chieti 2010.9. G. Ravizza, Notizie biografiche che riguardano gli uomini illustri della città di Chieti, Napoli 1830 rist. Bo-logna 1973 pp. 58-59. Nel 1860 Francesco d’Annunzio, padre di Gabriele, si reca ad Ancona con Fran-cesco Farina e con la delegazione Abruzzese per invitare Vittorio Emanuele II a passare il confine edentrare nel Regno di Napoli in R. Falconio (a cura di), Domus Pulcherrimae. Dimore storiche d’Abruzzo,Pescara 1999.

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rano: l’importanza di queste colture che venivano esercitate asportando le radici dellapianta saranno pure all’origine di una disposizione che ne proibiva lo sterro per una fa-scia di trenta canne dal ciglio della nuova strada costruita, soprattutto verso monte maanche a lato mare, al fine di proteggerne il tracciato obbligando anche i tenutari al con-solidamento dei fondi interessati13. Il consolidamento dei terrapieni stradali e ferroviari, oltre che influenzato dalle colturetipiche della zona, lo era anche dalla natura dei suoli ricchi appunto di fossi e avvalla-menti che producevano i loro danni durante le piogge tra Cerrano e il Rivolo di S. Ma-ria a Valle come testimonia l’intervento di Raffaele Iengo in qualità di impresario. Chelo stesso tracciato stradale nasca inoltre in competizione con la proprietà privata sareb-be dimostrato dall’ampiezza con cui nel 1832-33 veniva ostacolata dal governo la col-tura in vista dei lavori stradali accessori da compiersi14. Così nel 1842, distrutto evidentemente il monopolio del barone Farina, la produzioneindustriale della liquirizia si rivelò in grado di alimentare altre nuove fabbriche. Tra que-ste alcune proprio sul territorio di Atri località in cui già se ne produceva fin dal 1811,insieme al cremore di tartaro, in alcuni stabilimenti avviati grazie all’iniziativa di Vin-cenzo e Raffaele De Rosa. Nel 1836 questa fabbrica avviò la produzione anche nel convento di S. Domenico re-sosi disponibile per l’allontanamento dei domenicani i quali l’avevano a loro volta av-viata da tempo e mantenuta, in proprio, fino alla soppressione del 1809. A partire dal 1851 a Castellammare, ma anche nei decenni seguenti, uno stabilimentofu messo in piedi dalle notevoli doti imprenditoriali e organizzative di Michele Mu-zii dando lavoro a venti operai con una capacità produttiva complessiva che gli per-metteva di esportare in Belgio e Olanda. Tuttavia com’era consuetudine allora, ba-sandosi questi stabilimenti sulla sola fornitura locale di materia prima, ossia quellastagionale della liquirizia, l’occupazione era anch’essa stagionale e limitata a soliquattro mesi all’anno. Questa condizione è rilevante ai fini della maturazione di un capitalismo industriale mo-derno, infatti da un lato la stagionalità consentiva ai contadini trasformati in operai, de-tentori della conoscenza, di tornare al lavoro dei campi quando non erano occupati equindi di conservare una loro indipendenza anche economica che non li stringeva allafabbrica e dall’altro induceva gli industriali, detentori dei capitali ma che di loro eranoobbligati a servirsi non avendo la conoscenza, a spostare la liquidità prodotta in altrisettori passivi invece di reinvestirla negli opifici che pure avevano creati. Che si trattasse di un’anomalia vi è un’esatta percezione già nel 1844 quando RaffaeleDe Novelli nelle osservazioni raccolte Sul pauperismo nella Provincia di Abruzzo Citrastampato in questa data a Chieti la registra relativamente ai produttori di panni di Ta-ranta: Non posso fare a meno di notare a questo proposito due errori, che si commetto-

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ci (fabbriche) aperti ex novo avendosi in risposta un controesposto del Comi che in-quadrava la propria attività come incoraggiamento dell’industria nazionale richia-mandosi al fatto che la privativa concessa a suo tempo e per la quale il Farina sostene-va un diritto trentennale stabilito in 500 ducati annui, in realtà altro non era che un di-ritto semmai esteso solo dal 1798 al 1810 per di più ottenuto con manovre e collusionisottobanco con il vecchio regime operate in danno degli altri concorrrenti cioè il baro-ne Antonio Nolli e persino Saverio Costanzo famiglia con cui era pure imparentato10. La protoindustralizzazione nelle province litoranee, Ultra e Citra, si concretizzava co-munque in un clima di sostanziale euforia maturato già negli anni precedenti all’occu-pazione francese ereditando parte dell’attivismo derivabile dagli esiti della cultura tar-do illuminista. Significativa appare perciò, benchè di breve durata (solo un anno), proprio a Teramo lacomparsa nel 1792 di un giornale di settore dal titolo Commercio Scientifico d’Europacol Regno delle due Sicilie diretto dall’allora giovanissimo Vincenzo Comi (era natonel 1766 a Torano e morì a Giulianova nel 1830) edito dalla tipografia Bonolis e orga-no della Società Patriottica o Agraria presieduta da Gianfilippo Delfico11. L’impiego della liquirizia era una delle risorse locali perchè sistematicamente raccoltalungo il litorale dove cresceva anche spontaneamente ma dovrà fare i conti con le tra-sformazioni imposte al territorio nella prima metà del XIX sec. e poi nel periodo po-stunitario dallo sviluppo sia della ferrovia adriatica che della strada con lo stesso nome:come ebbe modo di evidenziare il deputato barone Panfilo De Riseis in un discorso al-la Camera del luglio 1888 la scelta di un tracciato economico (litoraneo, praticamenteal limitare delle dune) eludeva il fatto che la regione fosse fatta invece di realtà mediocollinari e interne sulle quali la ferrovia aveva poco impatto concreto se non determi-nato più danni che vantaggi12. I danni a cui alludeva erano dovuti al fatto che le comunità dell’interno non avesseroinfrastrutture di collegamento con i nuovi tracciati rotabili su rotaia o strada e quindiqueste fossero, almeno nell’immediato, irrilevanti ai fini del progresso economico e so-ciale delle stesse che invece ricevevano in cambio un sensibile danno non solo per lecolture in genere ivi praticate compresa quella della liquirizia ma anche per le modifi-cazioni imposte ai terreni litoranei e al sistema di scolo naturale delle acque: i terrapie-ni potevano infatti determinare impaludamenti. In tal senso, una zona ricca era quella compresa nel territorio di Atri e in particolare trail Concio della Regolizia e Calvano anzi meglio tra il Rivolo di S. Maria e Torre di Cer-10. Archivio di Stato di Teramo (A. S. T.), Intendenza Francese b. 73 lett. s. d. ma c. a 1808; ibidem b. 75lett. e 20 agosto 1808 e 21 settembre 1808, Intendenza Borbonica b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818.11. A. Scarselli, Una Rivista Teramana del 1792 in Rivista Abruzzese a. I (1948) fasc. II in rist. Rivista Abruz-zese Collezione 1948, Bucchianico 1995 pp. 70-71. N. Palma, Storia della città e diocesi di Teramo, Teramo1981 vol. V pp. 268-70. Delle scienze e delle lettere in Teramo sullo scorcio del XVIII sec. per Carlo CavalierCampana, Teramo 1863 p. 13 e su Comi pp. 56-63.12. V. Furlani, Tra spontaneismo e programmazione alcuni significativi interventi urbanistici dell’Abruzzo ot-tocentesco in Aa. Vv., L’Abruzzo nell’Ottocento, Ediars Pescara 1996 pp. 178-79.

13. A. S. T., Intendenza Opere Pubbliche, Strada Adriatica b. 884 verb. 23 marzo 1829.14. Ibidem lett. e 20 aprile e primo dicembre 1833 e certificazione lavori tra Cerrano e Rivolo di S. Mariadel 22 aprile 1830.

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così la produzione di acido tartarico dal 1881 al 1887 passa da 1. 876 quintali a 924 nel-l’esportazione, cioè si dimezza, e cresce a dismisura da 106 a 1. 261 nell’importazio-ne, aumentando di quasi 12 volte, il che vuol dire che la bilancia commerciale in que-sto settore diventa totalmente negativa16. Anche Riccardo Comi aveva aperta fin dal 1809 una nuova fabbrica per la produzionecongiunta di liquirizia e cremore di tartaro a Giulianova dove operavano pure quelle dicremore di tartaro di Camillo Massei e Gaudioso Mancini esportando tutte sia in In-ghilterra che in America; sempre Vincenzo Comi dopo l’impianto per la produzione diliquirizia di Giulianova aperto dallo stesso anno aveva avviate altre sue fabbriche dicremore di tartaro a Grottammare di Ascoli nello Stato Pontificio e a Popoli (l’ultimain ordine di tempo nel 1823), iniziando, ancora dal 1809, la raffinazione della potassapurificata e dal 1802 la concia dei cuoi17. La potassa ossia il carbonato di potassio puro recuperato come sottoprodotto della sgras-satura della lana o dai residui della lavorazione delle barbabietole da zucchero e di al-tri vegetali è il principale prodotto di partenza per la preparazione dei sali potassici pu-ri che trovavano impiego sia nell’industria vetraria per produrre vetri più resistenti chenella lavorazione di ceramiche e smalti. La fabbrica di liquirizia dei Comi a Giulianova verrà alla fine, nel 1873, rilevata da Giu-lio e poi da Gerolamo Acquaviva d’Aragona quando l’impianto da bottega s’era tra-sformato in stabilimento vero e proprio capace di dare lavoro ormai a 52 operai e smer-ciare il proprio prodotto in piccola parte a Milano e per il resto sulle piazze estere e inparticolare in Inghilterra, Germania e a New York18. Se i Comi avevano avviata una produzione con livelli semindustriali attingendo a ma-novalanza che tuttavia proveniva dalla piccola bottega a gestione famigliare, la chimi-ca domestica intorno al secondo decennio dell’800 restava responsabile, con metodispesso antiquati, della produzione pressoché integrale dei saponi circolanti nella pro-vincia ed erano pochi e piccoli gli impianti. Questi si localizzarono a Penne, Loreto e Pianella in grado di produrre il più raffinatosapone all’uso di Marsiglia e di Genova dal momento che anche questo settore, comela liquirizia e le sete, era stato gravato del peso delle privative in questo caso devolutaper un quinquennio al principe di Satriano. Viene infatti documentata la produzione findal 1818 di un solo saponetto odoroso di una qualche qualità allestito dalle monachedel convento di S. Pietro di Atri e dunque con metodi del tutto famigliari e piccolo-ar-tigianali e per questo irrilevante dal punto di vista industriale19.

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no dai Fabricanti di panni. Il primo, di tener chiusi e inoperosi gli Opifici per quasi unametà dell’anno e in quella stagione in cui gli arteggiani hanno maggior bisogno di la-voro per vivere, cioè nell’inverno; senza riflettere alla perdita cui vanno soggetti nel te-nere improduttivo il capitale impiegato nelle macchine durante un tal tempo. Il secon-do assia più grave, provviene da una sconsigliata vanità che fa loro preferire lo statod’indolente e ozioso proprietario di terre, a quello d’industre e onorevole trafficante;producendosi con ciò un male alla prosperità generale della provincia, col ritirare i ca-pitali impiegati nelle manifatture, in vece di aumentarle e migliorarle; e un altro male aloro stessi, impiegando nell’acquisto delle terre il denaro al 4 per 100, invece del 25 cheprima ad essi poteva fruttare. È da sperare che con più sano consiglio e maggior cono-scenza de’principi economici, cotesti errori non abbiano a rinnovarsi15. Verso la metà del XIX sec. era intanto iniziato lo spostamento di Castellammare dai col-li alla pianura soprattutto dopo che il Muzii, con notevole intuito e anticipo sui tempiche stavano cambiando con l’avvento della ferrovia, non solo aveva ivi spostata la suafabbrica quanto, con preveggenza urbanistica, aveva acquisite vaste proprietà d’areni-le allo scopo di lottizzarlo ed edificarvi palazzi, in una parola, di urbanizzarlo tanto chela zona divenne presto nota come Villa Muzii. Con già 56 operai nel 1855-56 la fabbrica da parte sua andava molto bene anche se erasempre influenzata dalla stagionalità della produzione così che gli addetti alla lavora-zione erano impiegati solo 5 mesi all’anno con orario continuato notte e giorno per gliuomini e solo per 5 ore per le donne. L’opera di Michele fu poi seguita dai figli Leopoldo e Giulio Muzii: anzi nel 1883 Leo-poldo aveva avviata la realizzazione della sede estiva Convitto Nazionale di Chieti lun-go la vecchia via romana che collegava come Salara con le saline alla foce del fiumeSaline: la zona era stata fino ad allora emarginata sia dallo sviluppo dei colli che daquello della marina e inizierà a progredire proprio grazie a queste lungimiranti attivitàindustriali e immobiliari speculative. Il cremore di tartaro invece fu prodotto a Campli grazie a Nicola Romandini con otti-mi livelli qualitativi se potè essere presentato all’Esposizione delle Manifatture del Re-gno a Napoli del 1838 e a Teramo dove Michele Gaspari aveva rilevata la già menzio-nata fabbrica di cremore di tartaro di Vincenzo Comi, andata in rovina, mantenendolacon alterne vicende aperta fino a tutto il 1874. Nonostante l’inventiva del Comi e dei suoi seguaci, tuttavia il bilancio provinciale inquesto settore resta solo limitato dovendo fare i conti con una tradizione agricola radi-cata, mai evoluta del tutto, che continuava a spingere i proprietari, come dice il Novel-li, a reinvestire più nei coltivi che nella nascente industria. Lo stesso cremor di tartaroche caratterizzò la prima metà del secolo nella seconda non è quasi più lavorato a cau-sa dell’incetta di materia prima che altri fanno sul posto facendola poi lavorare altrove

15. V. Furlani, Il ruolo sociale, economico, storico e ambientale dei fiumi della provincia, Provincia di Chieti, IlNuovo editore Vasto-Chieti 2003 vol. I pp. 318 e s. ti. e Sul pauperismo nella Provincia di Abruzzo Citraosservazioni raccolte da Raffaele De Novelli, Chieti 1844 p. 61 n. 1.

16. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, Teramo 1813 pp. 56-57.17. R. Forlani, Tramonto e alba di alcune industrie dell’Abruzzo Teramano in Rivista Abruzzese di Scienze Let-tere ed Arti a. XXXI(1916) fasc. VII luglio 1916 sull’industria della liquirizia pp. 368-375.18. A. S. T., Intendenza Borbonica b. 150 Società Economiche Rapporto della Società Economica a. 1842, b.156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli 1834-58, b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33, Elenco disaggi de’ prodotti della Industria napolitana maggio 1838, Napoli 1838. Aa. Vv., Monografia della Provinciadi Teramo, Teramo 1892 vol. III pp. 262-63 e 287, 296. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria diPasquale Ventilij, cit. pp. 71-73.

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che questo nell’Esposizione del 1838, mentre operano stabilmente a Teramo Silvestroe Pasquale Stancherini (o Stanchini) premiati entrambi nelle Esposizioni del 1830 e1836 con medaglia d’argento e soprattutto Nicola Bonolis medaglia d’argento all’E-sposizione del 1828 il cui stabilimento però, forse perchè ceduto, nell’Esposizione del1840 risulta tenuto da tale Berardo Mancini. La fabbrica dei De Fabritiis poi era stata fondata a Teramo nel 1779 dai fratelli Giu-seppe e Ubaldo De Fabritiis e da impresa del livello di bottega artigiana era rapidamentesalita ai 30/45 dipendenti vedendosi affiancata da quelle fondate più tardi nel 1840 daiMancini e dai Cameli e ottenendo per i suoi cuoi lavorati nelle Esposizioni del 1819 edel 1836 una medaglia d’argento e ancora presente con propri prodotti nella successi-va del 183822. Significativi riconoscimenti vanno anche alle concerie di Castellammare di Luigi Pro-tasco Lemaire premiata con medaglia d’oro nell’Esposizione del 1818 e di FrancescoBonnet medaglia d’argento nel 1826 mentre un’altra medaglia d’argento va a FilippoLamij per il migioramento della tecnica di lavorazione dei cuoi colorati nel 1830 e an-cora nel 1832. Sul livello raggiunto dalle concerie di Castellammare va ricordato che Lemaire e Bon-net appaiono premiati con medaglia d’argento anche nel 1836 e Vittorio di Giuseppepremiato nell’Esposizione termana del 1888 per la produzione di calzature23. Lo scambio culturale sia all’interno della regione che fuori è alla base anche dello svi-luppo dell’industria tipografica che ruota intorno a diverse figure tra cui preminente èquella dei Facio. Il fatto che i fratelli Facio di Teramo per circa due anni fin dal 1592-93 fossero documentati come stampatori per aver trasferito in Campli una loro tipo-grafia testimonia dell’esistenza di attività radicate connesse con la produzione cartaria. Infatti il frate francescano Giovanni da Teramo fin dal 1496 aveva impianta un’offici-na nel convento di S. Maria di Solestà di Ascoli seguito appunto da Isidoro Facio, che,provenendo da Monteprandone, aveva installata nella stessa città nel 1588 un’altra of-ficina per rientrare poi in Teramo nel 1591 e passare quindi prima in Campli e poi, conil fratello Lepido Facio, all’Aquila e infine da solo in Chieti ove, come dice il Ravizza,qual cittadino fu considerato, sì per avervi fissato il domicilio con tutta la sua famiglia,

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Liquirizia e cremore di tartaro sostengono la parte maggiore della protoindustrializza-zione ma questa si orienta anche verso altre produzioni minoritarie come la cera: a que-sto proposito, di Teramo, nell’Esposizione delle Manifatture del 1838 compare Vin-cenzo Iselli per le sue cere e nella successiva del 1840 il candelificio di Saverio Ales-sandrini in associazione col figlio. Un’altra fabbrica sarà nella seconda metà del XIX sec. aperta dal dalmata Girolamo Pu-sik e sempre intorno al 1840 un’altra ancora, che poi resterà in vita per circa un decen-nio, questa volta a Giulianova da tale Bartolomeo De Bartolomeis. La produzione diacquavite sarà invece avviata nel 1839 da Beniamino Rozzi nei pressi di Notaresco20. Sebbene abbastanza lontani come prodotto dalla chimica che tentava, non senza diffi-coltà, di avviarsi verso un assetto industriale, e forse più di altri settori legati a struttu-re artigianali famigliari o a queste assimilabili, vanno qui ricordati i produttori di pol-veri da sparo e in particolare quegli artigiani che hanno lasciato un loro nome come pro-duttori di polveri pirotecniche offrendo prestazioni ad Ascoli: Consorti Consorte di Atriche cura gli allestimenti del 1664-65 e del 1679, il cosiddetto canonico di Teramo checura quelli del 1774, Casimiro Eugeni di Campli per quelli del 1781 e infine, ma pro-veniente da Abruzzo Citeriore, Saverio d’Urbano di Fara San Martino21. In una regione in cui l’allevamento stanziale o di transito aveva da sempre avuto un ruo-lo non secondario nei profili economici, la conceria è forse, con la chimica, il settoreche più di altri si prestava alla conversione industriale. Alcune rilevanti concerie sonocosì concentrate a Penne, Teramo e Castellammare. A Penne la più grande apparteneva alla famiglia Del Bono e risaliva al XVIII sec. tut-tavia, com’era accaduto per i Comi, s’era rovinata in conseguenza dei fatti del 1799 al-lorchè era stata obbligata ad equipaggiare di scarpe, stivali e giberne le truppe manda-te nello Stato Pontificio per contrastare l’armata francese discesa in Italia. In quell’oc-casione i Del Bono erano stati costretti, come industriali, ad anticipare 18. 000 ducatiche non gli furono più restituiti determinandone la crisi col conseguente passaggio dal-le 40. 000 libbre lavorate prima del 1799 alle sole 12. 000 del 1808. Sempre a Penne c’era l’altra conceria di Nicola De Cesaris che, a differenza della pri-ma, non occupava però più di cinque persone anche se era in grado di lavorare circa 7.000 libbre in ogni caso ben diversa, quanto a consistenza, dall’altra di Domenico Can-tagalli che impiegava ben 30 operai ed era stata premiata con medaglia d’argento al-l’Esposizione del 1832. Negli anni ’30/’40 del XIX sec. industrie per la lavorazione dei cuoiami risultano in-stallate a Campli da Felice Cantoresi e ad Elice da Impicciatore Tolomeo segnalato an-

19. A. S. T., Intendenza Borbonica b. 150 Società Economiche lett. e 28 ottobre 1824 e 22 febbraio 1825 edoc. a. 1835, b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818.20. Ibidem Intendenza Borbonica b. 156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli 1834-58 Esposizione del1836 e b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 Elenco di saggi de’ prodotti della Industria napolitanamaggio 1838, cit.. Aa. Vv., Monografia della Provincia di Teramo, cit. vol. III p. 261. L’industria nella Pro-vincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, cit. su Pusik p. 12, su Beniamino Rozzi p. 13.21. G. Fabiani, Artisti del sei-settecento in Ascoli, Ascoli Piceno 1961 p. 293.

22. A. S. T., Intendenza Francese b. 73 lett. 11 ottobre 1808; Intendenza Borbonica. b. 155 Manifatture edEsposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818, b. 150 Società Economiche Rapporto della Società Economica a. 1842,b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 per i De Fabritiis, lett. 21 gennaio 1820, b. 156 Manifatture perl’Esposizione di Napoli 1834-58 in Catalogo di Saggi de’ prodotti della Industria Nazionale presentati nella so-lenne Esposizione de’30 maggio 1834, Napoli 1834 che contiene l’elenco dal 1818 al 1834 e anche De’Sag-gi delle Manifatture napolitane esposti nella Solenne Mostra del 1836 articolo inserito nel fascicolo XXI degliannali civili da R. Liberatore, Napoli 1836 infine Elenco di saggi de’ prodotti della Industria napolitana mag-gio 1838, cit. Aa. Vv., Monografia della Provincia di Teramo, cit. vol. III pp. 303-304. L’industria nella Pro-vincia di Teramo. Memoria di Pasquale Ventilij, cit. pp. 85 e 87-90-23. A. S. T., Intendenza Borbonica b. 156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli 1834-58 in Catalogo di Saggide’ prodotti della Industria Nazionale presentati nella solenne Esposizione de’ 30 maggio 1834, cit. contiene l’e-lenco dal 1818 al 1834 e anche De’ Saggi delle Manifatture napolitane esposti nella Solenne Mostra del 1836articolo inserito nel fascicolo XXI degli annali civili da R. Liberatore, cit.. Relazione Generale compilata daGiuseppe Savini per l’Esposizione Provinciale Operaia di Teramo nell’anno 1888, Teramo 1889 p. 23-

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Per quanto attiene all’olandese l’allusione è al fatto che alla fine del XVII sec. gli olan-desi avessero introdotta una macchina per raffinare la pasta di stracci ottenendo cosìuna carta a tessitura più omogenea e perfettamente bianca, queste macchine (impiega-te ancora oggi) presero appunto il nome di olandesi quando iniziarono a diffondersi inEuropa e alla mancanza di tale macchina si attribuisce la scarsa qualità del prodotto fi-nito. In realtà l’ex cartiera del principe di Melissano risultava essere di bassa levaturaqualitativa non tanto per l’inadeguatezza dei macchinari quanto piuttosto per l’igno-ranza delle procedure e per la mancanza di fondi per provvedersi le materie prime28. Tra stentate sopravvivenze, passata infine a Candido Vecchi e da questo potenziata lacartiera vinceva due medaglie d’argento nelle Esposizioni del 1830 e poi del 1832 e sa-rà presente anche in quella del 1838 ma come piccola azienda non era più gestita dapersonale locale dal momento che il Vecchi risulta all’epoca imprenditore in Ascoli epure ascolano era il direttore Girolamo Cappone29. Non sappiamo che nesso vi sia tra questa cartiera e le sopravvivenze della toponomasti-ca né se esista una relazione con l’analoga cartiera dislocata sul fiume Tavo menziona-ta, insieme ad una gualchiera, nel Catasto preonciario di Moscufo del 1614, va tuttaviaosservato come il fiume transitasse in origine più a settentrione dell’attuale alveo e chela sua ex sede per questo acquistasse la denominazione attuale di Acqua morta ossia aridosso del toponimo Cartiera di Loreto subito a valle dell’ex molino in località Cardi-to e non lontano dal recente Pastificio di Blasio poi sorto nello stesso posto (Cartiera).Infatti quanto a macchinario di base per la produzione della carta si adoperavano in so-stanza, come trasformazione del tradizionale molino idraulico, le gualchiere per panniche hanno così non poche affinità con gli analoghi impianti adoperati per la produzionedella carta e non solo per il sistema di sfruttamento dell’energia idraulica a mezzo di ruo-te in legno, ma anche per l’analogia dei sistemi di battitura e compressione delle fibbretessute nella gualchiera e ridotte in pasta dagli stracci di canapa e lino nelle cartiere. Il rapporto tra le due produzioni (panni e carta) non è casuale, fin dall’XI sec. infattis’erano iniziati a sviluppare sistemi che permettessero di trasformare il movimento ro-tatorio in movimento alternativo che attuasse la battitura dei tessuti e dunque la folla-tura per compressione, lo stesso procedimento era utilizzabile nella lavorazione deglistracci per produrre carta e il molino delle cartiere di solito nasceva proprio da un nor-male molino da grano.

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come pel mestiere da lui esercitato tanto utile, e necessario per lo commercio delle Let-tere e per l’aumento de’Letterati24. Lepido in particolare, che in Ascoli aveva lavorato con il tipografo Pinetti, s’era porta-to via furtivamente dalla bottega di quest’ultimo del materiale tipografico che non fupossibile recuperare per il suo trasferimento dal 1599 in Roma. Va ancora notato comevi fosse l’abitudine di spedire le carte migliori nel Regno di Napoli lasciando ad Asco-li i prodotti più scadenti al punto che la cosa aveva indotto, evidentemente senza esito,il vescovo di Faenza Annibale de’ Grassi, ad Ascoli nel 1587, a minacciare la conces-sione di autorizzazioni all’importazione di materiale di buona qualità25. La stamperia che Berardo Carlucci e compagni avevano inoltre aperta a Teramo nel1806 con l’intento di rendere note le leggi che Giuseppe Napoleone e il suo governoemanavano ben illustra, nello spirito connesso al lancio dell’iniziativa, il clima di spe-ranza e rinnovata fiducia che accompagna il nuovo ordine sostenendo che nel nuovostato di cose, non abbiamo che conoscere la presente legislazione, la quale emanandoda’ sorgenti più vicine a’diritti naturali e di società, non può (far) a meno che non ri-stabilisca l’ordine e la felicità pubblica da tanto tempo sospirata dalla buona Filoso-fia. Clima per altro sottolineato anche dall’avvio alla preparazione di ricognizioni distudio sul posto preparate, per valorizzare le risorse naturali, ad esempio dalla venutadel botanico e naturalista Michele Tenore da Napoli l’anno successivo26. Sulla provenienza della materia prima, cioè le carte, già il Nardi nel 1789 aveva rilevatala mancanza pressochè totale nella provincia di cartiere, infatti nel 1808 c’è n’è una sola,e tale resterà, a Loreto appartenente in origine al principe di Melissano (Caracciolo) maceduta in seguito ad un nuovo proprietario che produceva una carta scadente per man-canza, come egli stesso affermava, di uno strumento detto all’Olandese costringendo co-sì la richiesta interna a rivolgersi per carte di qualità fuori Stato sulla piazza di Ascoli. Che in generale l’industria regionale potesse essere gravata dall’impiego di macchinarioobsoleto è smentito nel 1832 proprio dal suddetto Michele Tenore il quale nella Relazio-ne del viaggio fatto in alcuni luoghi di Abruzzo Citeriore nella state del 1831 afferma:Molte sono le fabbriche (in questo caso di panni a Palena)... tra le più considerevoli figu-rano in primo luogo le valchiere del barone Perticoni, che per la solidità, l’ampiezza edil perfezionamento delle macchine nulla lasciano a desiderare. Il sullodato barone, sullacontigua sponda dell’Aventino ha fatto costruire un altro gran fabbricato col propositodi stabilirvi una cartiera, di cui i voti generali fanno desiderare il compimento27.

24. Isidoro Facii fu amico in Chieti dello storico connazionale Sinibaldo Baroncini che in questa città s’eratrasferito da Camerino nel 1592 a seguito dell’arcivescovo Matteo Samminiato in G. Ravizza, Appendicealle notizie biografiche degli Uomini Illustri della Città di Chieti, Napoli 1834 rist. Bologna 1973 pp. 27-2925. Giovanni da Teramo e Facio in G. Fabiani, Ascoli nel ’500, vol. II Ascoli 1959 rist. Ascoli 1982 pp. 291,297-98 e 302. G. Fabiani, Artisti ed artigiani abruzzesi in Ascoli nella seconda metà del sec. XVI in RivistaAbruzzese a. XII(1959) n. 2 pp. 6-67. 26. N. Farina, Campli la badia celestina e la pittura di Giacomo, Campli 1988 p. 20. A. S. T., Intendenza Fran-cese b. 70 Manifesto che pubblicizza l’iniziativa in data 26 agosto 1806, su Tenore lett. del 17 giugno1807 del Ministro dell’Interno all’Intendente.

27. Michele Tenore, Relazione del viaggio fatto in alcuni luoghi d’Abruzzo Citeriore nella state del 1831, Na-poli 1832 pp. 101-104 e V. Furlani, Artigianato e piccola impresa in Abruzzo dal XVIII sec. al 1940, traccericostruttive per l’artigianato storico tra Molise, Abruzzo e Marche, Chieti 2002 pp. 247-48.28. A. S. T., Intendenza Francese b. 73 lett. 11 ottobre 1808. G. F. Nardi, Saggi su l’agricoltura arti e com-mercio della Provincia di Teramo, Teramo 1789 rist. in Un riformatore abruzzese del ’700 G. F. Nardi a curadi A. Marino, Crognaleto 1984 p. 84.29. A. S. T., Intendenza Borbonica b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 lett. 11 aprile 1818, b. 150 So-cietà Economiche Rapporto della Società Economica a. 1842, b. 156 Manifatture per l’Esposizione di Napoli1834-58 in Catalogo di Saggi de’ prodotti della Industria Nazionale presentati nella solenne Esposizione de’ 30maggio 1834, cit. contiene l’elenco dal 1818 al 1834, b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 Elenco disaggi de’ prodotti della Industria napolitana maggio 1838, cit.

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no a 1. 500 ceste a 5 ducati l’una e destinate in buona parte alla provincia dell’Aquila32. Per queste ragioni la produzione era tenuta tanto in buon conto dallo stesso governocentrale da indurre Ferdinando I, col decreto del 2 gennaio 1820, a liberare Castelli datutte le pastoie che ordinariamente colpivano l’artigianto napoletano. Alla luce di quan-to su accennato appare significativo il drastico giudizio dell’Intendenza: la Provinciain genere d’arti non ha un commercio attivo che per le maioliche di Castelli, pel Cre-more di Tartaro e per succo di Liquirizia. Le ceste erano grandi e piccole ed entrambe adatte ad un trasporto sia su carri che so-meggiato dovendosi in quest’ultimo caso fissare ai lati dei basti caricati su asini, mulie cavalli. Come riferimento si può tener conto del fatto che la cesta grande arrivasse atrasportare un carico di circa 200 piatti che equivaleva ad un peso approssimativo diquasi un quintale tutt’altro che irrilevante per questo tipo di veicolazione specialmentese si trattava di strade equitabili com’erano dette le mulattiere che però consentivanodi arrivare anche nei posti più isolati per cui la distribuzione della merce era, per gran-di carichi, obbligata a seguire le carraie. I rapporti con Ascoli in particolare sono evidenti nel ripetersi degli acquisti fatti a Ca-stelli in occasioni di particolare prestigio per la città: per la venuta del cardinale Sforzalegato di Gregorio XIII nel 1580, nel 1589 per la venuta di Camilla Peretti sorella di Si-sto V, nel 1592 per le feste patronali, nel 1603 e infine nel 1613 per la venuta del car-dine Felice Centini si fanno acquisti di stoviglie e accessori, nel 1672 poi addirittura uncastellano, tale Giovanni Antonio di Cesare, è documentato, forse per l’esercizio dellapropria attività, in Ascoli33. La richiesta di ceramiche castellane era dunque forte dal Regno Italico, come lo StatoPontificio si disse all’epoca dell’occupazione militare francese, e avrebbe potuto favo-rire questo importante settore commerciale attivo con la bilancia estera della provinciapotenziando i mercati più ricettivi di Ancona e Senigallia. Se ciò non avveniva, era perché in primo luogo sussisteva una totale inadeguatezza del-la compagine organizzativa proprio delle piccole botteghe che nella struttura famiglia-re di gestione evidentemente trovavano il limite principale e poi anche perchè, nel pe-riodo francese in particolare, permaneva un’indubbia difficoltà a reperire materie pri-me fondamentali come lo stagno e il piombo occorrenti alla produzione della vernicepiombifera o smalto bianco che aveva reso nota Castelli per essere stata una delle pri-me ad adottarla in Europa e basato sulla loro fusione in fornelli a riverbero fino a ridurliallo stato di ossido. La decadenza della prima metà del XIX sec. spinse perciò a favorire l’addestramentodi artigiani di Castelli a Napoli per favorirne la ripresa e a fondare nel 1840 una scuo-

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La diversità risiedeva, come d’altra parte nelle gualchiere diffuse tra il XVII e il XVIIIsec., nella capacità di sostituire mediante sporgenze in legno dell’albero motore, la rota-zione con l’azione di sollevamento di magli e pestelli che si muovevano in vasche di le-gno dette pile a magli. La stessa attrezzatura era in grado di lavorare il rame da laminarecome anche gli stracci macerati per la produzione cartaria per questo dipendente dall’ac-qua doppiamente, per l’energia idraulica sfruttabile ma anche perchè per quest’artigiana-to occorrevano grandi quantità d’acqua pura per non produrre carte opache o colorate. Nè può essere considerata una coincidenza che la richiesta di materia prima, cioè di re-sidui della confezione tessile, oltre che di energia idraulica, facesse in modo che l’in-dustria cartaria fosse localizzata alle origini proprio dove si fabbricava tela30. Con la produzione cartaria dipendente da tecnologie e sistemi di lavorazione d’impor-tazione totalmente marchigiana, regione che in questo settore deteneva un giusto pri-mato, altro significativo indice del regime degli scambi tra Stati limitrofi al di qua e aldi là del Tronto è senza dubbio la produzione di vasellame e stoviglie in cotto que-st’ultima tutta e solo concentrata a Castelli dove esistono nel 1743, sui dati del relativovecchio catasto, 35 botteghe pari a circa una ogni 28 abitanti ridotte nel 1808 a 33 com-pletamente artigiane, vincolate a maestranze quasi tutte del posto e fortemente ancora-te ad una tradizione locale originale e ben radicata. Nel 1856 vi sono 35 botteghe con 408 artigiani e 126 animali da soma per i trasporti ingrado di produrre complessivamente 11. 010 ceste di maioliche che redono 26. 793 du-cati e vengono vendute nel Regno di Napoli in Abruzzo (6. 894 ceste), Puglia (1. 806ceste), Calabria (80 ceste) e Napoli (20 ceste) o sono smerciate di contrabbando nellaMarca Anconitana oppure legalmente offerte sulle piazze di Ancona (1. 880 ceste perla maggior parte di terza classe) e Senigallia (510 ceste) da dove vanno, tra l’altro, poiin Dalmazia, Grecia e Turchia31. La produzione di vasellame divisa per metà verso il mercato nazionale e per metà ver-so l’esportazione orientata non solo al territorio italiano ma anche a diversi paesi euro-pei, annovera tra le varie botteghe alcune di buona rinomanza come quelle di Gesual-do Fuina nota per la bellezza del disegno e dei De Dominicis (forse deve intendersi DeMartinis) apprezzata invece per nitore e splendore della vernice o quella di Angelo Ma-ria Celli di cui resta menzione nell’Esposizione del 1838. Va però detto che tutte esportano verso lo Stato Pontificio i soli prodotti meno rifiniti epiù dozzinali perchè quelli di alto livello qualitativo a mala pena riescono a coprire ladomanda interna nazionale. La collocazione riguarda ovviamente anche Fermo e Loreto Marche anche se, su un bi-lancio globale di 5. 000 ceste nella prima decade del XIX sec., l’esportazione appareorientata pressochè interamente verso la fiera di Senigallia dove sono convogliate 1.200 ceste al costo di 3 ducati l’una mentre le maioliche destinate all’interno assomma-

30. V. Furlani, Il ruolo sociale, economico, storico e ambientale dei fiumi della provincia, cit. vol. I, p. 304 .31. C. Rosa, Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrano, Napoli 1857 rist. Bologna1978 pp. 35 e 106 e prospetto allegato sulla produzione del 1856 a p. 114.

32. M. Scarselli, Castelli, terra della badia di S. Salvatore, Chieti 1979, pp. 9 e 45-46. Su Gesualdo Fuina Ar-tisti abruzzesi, pittori scultori architetti maestri di musica fonditori cesellatori figuli dagli antichi ai moderni.Notizie e documenti di V. Bindi, Napoli 1883 pp. 128 e 19 su maestro Renzo lancianese che avrebbe im-portato la tecnica di lavorazione della ceramica nel teramano.33. G. Fabiani, Ascoli nel ’500, cit. pp. 275-76 anche G. Fabiani, Artisti ed artigiani abruzzesi in Ascoli Pi-ceno nella seconda metà del secolo XVI cit. pp. 24-25.

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Ogni manuale, e questo è a suo modo un manuale di geografia, si fonda su di una du-plice fiducia: che quello di cui si scrive abbia un ordine e che tale ordine sia riproduci-bile sulla carta, sulla pagina. Come molti anni fa si veniva messi in guardia: “non si puòscrivere un trattato su una realtà che non è fattualmente tratteggiabile”. Ma un libro digeografia non è un libro qualsiasi perché più di ogni altro esso, anche se l’autore nonse ne accorge, si riferisce fin dall’inizio al mondo intero, a quella cosa che, senza piùsaperlo, indichiamo ogni volta che allarghiamo le braccia per significare rassegnazio-ne: gesto che si riferisce all’impossibilità del compito che occasionalmente si ha da-vanti, ma che appunto deriva dal primo originario tentativo, quello di afferrare e porta-re con sé, nella direzione voluta, la “totalità dei fatti” di cui il mondo si compone. Nelgesto, a farvi caso, gli arti non sono perfettamente stesi ma lievemente arcuati, il go-mito non è rigido e le dita puntano in avanti rispetto all’asse dell’avambraccio, perchéla totalità che si vorrebbe abbracciare ha forma sferica: essa è infatti il globo, la sferaterrestre, la palla, anzi la “balla” dei traduttori moderni di Tolomeo, termine che al gior-no d’oggi è ancora sinonimo, nel linguaggio corrente, di quel che è fandonia e frottola,oppure uno stato di dionisiaca ebbrezza , una sbornia. L’impossibilità diventa in tal mo-do incredulità, come se soltanto attraverso il ricorso alla fantasia o all’incoscienza po-tessimo fare i conti con il mondo così come davvero esso è. Per essere il mondo i fatti devono essere nello “spazio logico”. Se i filosofi leggesseroi geografi e viceversa, si sarebbe compreso da tempo che tale espressione equivale al-la rappresentazione cartografica, alla mappa. Si sarebbe compreso che il Tractatus èl’unico vero manuale di logica cartografica finora scritto, il più coerente tentativo maicompiuto di comprensione geografica del mondo, fondata cioè sulla riduzione di que-st’ultimo a una carta geografica. Da piccoli non ci hanno insegnato nulla. O meglio cihanno insegnato a fare le cose senza più avere memoria del loro significato. Nessunoci ha mai spiegato che le aste, i piccoli artificialissimi segmenti rettilinei con cui siamostati introdotti al mistero della scrittura, erano le lance dei guerrieri. Nessuno ci ha maispiegato che ogni volta che squadriamo un foglio con riga e compasso torniamo comeUlisse ad accecare Polifemo, a ridurre il mondo a spazio. Polifemo, il “mostro dal pen-siero illogico”, rappresenta il mondo prima di ogni ragione, il potere basato sulla puraforza fisica. E questo mondo coincide con il globo, con l’enorme e pesante masso chesbarra l’ingresso della grotta e impedisce ai greci di tornare in libertà. Per essi, quandofinalmente riusciranno a tornare alla luce, davvero nulla sarà più come prima, tra loroe il mondo vi sarà qualcosa che prima non c’era: la Terra. L’aggressione a Polifemo viene sferrata soltanto dopo che il gigante si è allungato alsuolo, ebbro di vino e di carne umana, dopo che la sua mole da torreggiante e vertica-le si è mutata in una estensione orizzontale. Così nell’azione vengono in contatto due

Geografia

Franco Farinelli

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la pubblica a Castelli stessa sotto l’egida del Consiglio Generale della Provincia e so-stenuta da provvedimenti di contorno come la resa franca dei metalli necessari alla pro-duzione degli smalti nonchè la premiazione dei miglioramenti apportati ai sistemi pro-duttivi per incentivarne la qualità e resa34. Nonostante tutto nell’Esposizione dei prodotti dell’industria nazionale dell’agosto del1812 mentre le medaglie di bronzo e argento andarono alla fabbriche di cappelli Arien-to di Chieti e al lanificio Domenico Raffaele di Taranta (Peligna), nella provincia si se-gnalarono, oltre ai prodotti dei Comi, proprio e solo le terraglie di Castelli appena af-fiancate dalla marginale e occasionale produzione di saponetto odoroso di Atri35. Altre fabbriche risultano nel 1888 impiantate ed Elice e Penne che subito acquisi-scono una certa notorietà per la statuaria in cotto e di stoviglie a Campli, Nereto eLoreto Aprutino la cui forma è rozza, ma la qualità dell’argilla è resistente senzache tuttavia possano competere con la produzione castellana che riguardava da tem-po però anche settori colti come quello delle chiese, mattonelle maiolicate venneroinfatti utilizzate per costruire la Via Crucis della chiesa di S. Maria degli Angeli diBisenti forse da attribuire a Bernardino Gentile (1727-1813) aiutato dal fratello Gia-como Gentile e probabilmente con la supervisione del padre Carmine Gentile e an-che per gli otto pannelli che Vincenzo Fuina apprestò per Fano a Corno di cui settededicati ai Dolori della Madonna. A Offida poi nella chiesa del miracolo eucaristico di S. Agostino si conservano variemaioliche poste ad ornamento degli armadi di sacrestia che sono attribuite alcune aiGrue e altre a Candeloro Cappelletti36.

34. A. S. T., Intendenza Francese, b. 73 lett. 20 settembre 1808 e lett. 21 ottobre 1808 lett. 25 agosto 1810.Fuina (1755-1822 o 1827) disegnava soprattutto fiori, insetti, farfalle dipinti su un fondo bianco o ci-nerino lasciandosi influenzare dalle cineserie di moda all’epoca. I De Dominicis (storpiatura forse daidentificare con Silvio De Martinis nato nel 1731) invece era portatore delle tecniche acquisite nellaReale Fabbrica di Capodimonte dove s’era recato da giovane prediligendo gli effetti pittorici ottenu-ti su fondo bianco in C. Rosa, Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrano, cit. suFuina pp. 66-68 e su De Martinis pp. 96-97, il decreto di Ferdinando I è a p. 129, Aa. Vv., La ceramicadi Castelli, L’Aquila 1989 pp. 48 e 49 e B. M. De Luca, I maestri castellani, sintesi illustrata della anticamaiolica di Castelli, Chieti 1992 p. 26. Aa. Vv., Monografia della Provincia di Teramo, cit. vol. III pp. 315-17. Sull’origine della produzione castellana A. Nicodemi, I Conti di Pagliara e l’inizio dell’arte ceramicain Castelli in Rivista Abruzzese a. VI(1953) n. 2 aprile-giugno pp. 33-40.35. A. S. T., Intendenza Francese, b. 73 Catalogo di Saggi de’ prodotti dell’Industria Nazionale presentati nel-la solenne esposizione de’ 23 agosto 1812, Napoli s. d. ma 1812 dalla tipografia dei fratelli Masi. Inten-denza Borbonica b. 155 Manifatture ed Esposizioni 1812-33 Elenco di saggi de’ prodotti della Industrianapolitana maggio 1838, cit. 36. Relazione Generale compilata da Giuseppe Savini per l’Esposizione Provinciale Operaia di Tera-mo nell’anno 1888, cit. p. 27. L. De Carolis, Bisenti, storia leggende tradizioni folclore, Teramo 1970 e G.Di Nicola, Paesi d’Abruzzo, vol. II, S. Gabriele 1977. L’industria nella Provincia di Teramo. Memoria di Pas-quale Ventilij, cit. pp. 105-109. G. Sargiacomi, Il Miracolo Eucaristico di Offida, Ascoli Piceno 1967 p. 178.

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Premessa

Tracciare la storia della costruzione di amboni in Abruzzo nel periodo romanico,vuol dire seguire un percorso storico, che ai valori dell’arte affianca quelli conser-vati e custoditi in una terra, conosciuta sì, ma ancora non del tutto svelata. Con que-sto s’intende dire che la ricerca merita, tuttora, di essere approfondita e proseguitanei vari settori, al fine di chiarire ulteriormente la posizione della regione nei con-fronti degli altri territori italiani.Tra il 1132 e il 1267 l’Abruzzo ha avuto una produzione di amboni superiore a tut-te le altre regioni della nazione non solo per numero, ma anche per pregio della qua-lità e dell’originalità. Prendendo in considerazione solo gli amboni che sono giunticompleti, o quasi, ai nostri giorni, si può indicare una mappa alquanto precisa. Nellungo periodo, che intercorre tra il sec. XII e il primo tempo del terzo millennio, di-versi sono stati i terremoti, che hanno colpito alcuni dei citati elementi; anche l’ul-timo, del sei aprile 2009, ha recato danni, per fortuna non irreparabili, ma decisa-mente seri, di conseguenza dovendone parlare, si ritiene opportuno considerare la“traccia” nella sua integrità, anche se, per il momento non è permesso visitare tuttii luoghi di cui sarà proposta una descrizione. Sulla motivazione che ha portato all’inizio della lavorazione di amboni (1132) e al-la datazione dell’ultimo esemplare (1267), si è soliti seguire le ipotesi avanzate daOtto Lehmann-Brockhaus1, studioso tedesco, che visse a lungo in Italia, occupandoper molti anni l’incarico di direttore della Biblioteca Hertziana ed estendendo la suaricerca soprattutto in Abruzzo. Lehmann-Brockhaus non vede una impostazione dicarattere locale nei resti di alcuni amboni risalenti ad anni precedenti il 1132: uno èconservato nella chiesa di S. Michele a Vittorito (AQ) e due sono incorporati in sup-porti sistemati all’ingresso della Collegiata di Città Sant’Angelo (PE). L’attenzione,invece, si appoggia sulle probabili motivazioni che, a suo giudizio, dettero originealla suddetta produzione. L’Abruzzo, regione di confine con il Lazio, risentì dellevicende storiche di Montecassino, che nel sec. XI raggiunse il massimo splendoresotto la guida dell’abate Desiderio2. Sono testimonianza di questa realtà la fonda-

Gli amboni in Abruzzo

Gabriella Albertini

1. OTTO LEHMANN-BROCKHAUS, Gli amboni abruzzesi, in “Abruzzo”, Edizioni dell’Ateneo, Roma, an-no VI, n. 2-3,1968, pp. 333-350. Altro testo di grande importanza è: OTTO LEHMANN-BROCHKHAUS,Die kanzeln der Abruzzen im 12 und 13 jahrhunder, Verlag Anton Schroll § Co., Wien, 1942-43. L’opera an-cora non è stata tradotta nella lingua italiana. 2. Il nobile longobardo Dauferio, nato ed educato a Benevento (lo ricorda Leone Ostiense, monaco, vescovo estorico di alta cultura), si fece monaco da giovane con il nome di Desiderio, presso il Monastero di S. Sofia aBenevento. Nel 1058 divenne abate di Montecassino. Il I° ottobre 1071 consacrò la nuova chiesa di Monte-cassino e dette un grande impulso vitale a tutto l’ordine monastico. Venne eletto papa con il nome di VittoreIII nel 1086, morì nel 1087.

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assi o linee: quella del corpo steso a terra e il palo sorretto da cinque tremebondi esse-ri umani. Scaglionati lungo l’asta ad intervalli regolari, essi costituiscono una vera epropria scala vivente, archetipo e matrice di quella metrica o grafica che ancora oggidistingue una rappresentazione cartografica da un semplice disegno. Ancora oggi le tac-che sulla riga, che corrisponde appunto al tronco levigato e reso diritto, rappresentanoUlisse e i suoi compagni, esattamente nell’ordine d’attacco: ad un’estremità il capo, ead identica distanza l’uno dall’altro i suoi uomini. Nell’insieme il corpo e il palo alle-stiscono due semidiagonali a squadra, incentrate sul punto d’incrocio alle loro estremi-tà: per spingere al meglio il legno nell’occhio è necessario un angolo d’una certa am-piezza, e al verso 382 dell’Odissea si dice che il tronco viene “alzato”, dunque è lecitosupporre che tale ampiezza non sia molto discosta dai 90 gradi. E proprio e soltanto per-ché l’occhio deve servire da centro Polifemo è un Ciclope, cioè un essere dall’occhio(o dal viso) circolare, il cui contorno appare già dunque predisposto per la sua funzio-ne, già pronto per la traumatica inserzione che segna la nascita della centralità. Il tron-co incandescente “arde” il perimetro dell’occhio e “frigge” le sue radici, dice ancora iltesto. In tal modo ogni profondità viene cancellata, di quello che era un globo resta sol-tanto una piatta distesa. E così selvaggiamente enucleato e definito il centro scotta an-cora: dentro la circolare assemblea che delimiterà la prima forma di attività politica co-sì come il profilo ideale della città nessun guerriero o cittadino sarà in grado di occu-parne a lungo la posizione, ma dovrà poco dopo cederla ad un altro. Il risultato di taleandirivieni sarà quel che chiamiamo democrazia. Ma quant’è lungo il tronco d’ulivo? Ulisse comanda di tagliarlo per la lunghezza di duebraccia, dice ancora il testo: le sue braccia vien da pensare, dal momento che in tutto l’e-pisodio il palo agisce da protesi del suo corpo. E si tratta in questo caso di braccia benstese, in asse dalla spalla alla punta delle dita, rigide e diritte il più possibile, a prefigu-razione della sintassi rettilinea (il contrario di quella sferica) il cui ricorso davvero con-durrà alla salvezza. Tale misura è in ogni caso decisiva, perché consente di sviluppare fi-nalmente le due rette del corpo e del tronco nelle due diagonali che per prima tracciamoquando squadriamo un foglio. E permette anche di comprendere che cos’è davvero ilcompasso. Tagliare un tronco per la lunghezza di due braccia implica anzitutto l’apertu-ra di un paio di braccia, con il conseguente automatico intervento della simmetria tra de-stra e sinistra propria del corpo umano. Ed è proprio tale simmetria a governare il pro-lungamento in vere e proprie diagonali delle due semidiagonali originarie: il centro re-sta fisso, ma in tal modo esso diviene l’incrocio di quattro semirette, la seconda coppiadelle quali è l’immagine speculare della prima, e va ad occupare l’altra metà del foglio,che in tal maniera resta allora completamente attraversato da un vertice all’altro. Dopo-diché chi disegna lascia riga e matita, che sono due diverse e distinte versioni del palod’ulivo, e apre il compasso, che altro non è che le due braccia di Ulisse, ciascuna dota-ta di una delle due funzioni del tronco acuminato e carbonizzato, pungere e scrivere: ilmondo può finalmente trasformarsi nel suo modello, l’introduzione può iniziare.

Da F. Farinelli “Geografia”, Einaudi, 2003 (pp. 3-5)

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zione di edifici religiosi e le ricostruzioni, che confermarono l’Abruzzo come luo-go di missione per la regola benedettina, promossa da Montecassino. L’altro mo-vente può essere di carattere storico: l’incorporazione dell’Abruzzo al regno sicilia-no dal 1140 (circa) rese la regione più produttiva per l’attività, che veniva suggeri-ta dagli ambienti politici e culturali del Sud Italia. Per quanto riguarda l’improvvi-so termine della lavorazione di amboni, Lehmann-Brochkaus avanza due eventua-lità. Nel sec. XIII la crescente importanza della borghesia spostò l’interesse dal mo-nastero (isolato tra le montagne) alla cattedrale (situata nella città), che naturalmen-te venne ornata di elementi architettonici a essa attinenti, tra questi l’ambone. L’A-bruzzo non fu agevolato, nel suo sviluppo, dall’esistenza di una solida borghesia,quindi venne meno una autentica cultura urbana e mancò uno sviluppo cittadino.Lehmann-Brochkaus cita solo l’eccezione del tardo esempio di Campli. Un altro mo-tivo per l’improvvisa scomparsa degli amboni potrebbe essere stato l’inserimento dinuove proposte artistiche, che vennero introdotte in Abruzzo dalla casa d’Angiò. Dinotevole importanza fu la costruzione della chiesa di S. Maria della Vittoria a Scur-cula Marsicana, fatta erigere da Carlo d’Angiò con la direzione di maestranze fran-cesi, dopo la vittoria del 1268 su Corradino di Svevia. Sembra che la chiesa sia sta-ta costruita tra il 1274 e il 1282 con la presenza di uno stile ispirato al nascente go-tico, però nel tempo andò distrutta. Le ipotesi proposte sono quelle che tuttora vengono seguite al fine di affrontare laconoscenza di uno dei “tempi” più importanti della storia dell’arte abruzzese.

Cenni sulla storia dell’amboneL’ambone è un elemento architettonico, perché costruito ai fini di una determinatafunzione; spesso è completato da commenti scultorei e ornato da interventi di vario

materiale. Il termine “ambone” per molti studiosi deriva dal verbo greco ’αναβαι�νω= salgo. A tale riguardo va ricordato che fra i canti religiosi vi è il “graduale”, che ilsolista modulava su un luogo elevato, al quale si accedeva per gradini (gradus). Nel-la liturgia della S. Messa, celebrata fino agli anni Sessanta del Novecento, il “gra-duale”, considerato una invocazione penitenziale, nelle grandi ricorrenze era canta-to dopo la lettura dell’Epistola3. Di frequente l’ambone era collegato al recinto del-la schola cantorum e accanto aveva il “cero pasquale”. In Italia l’ambone spesso ècitato come pulpito4, mentre in Francia permane l’idea delle cattedra: chaire; in Ger-mania viene nominato kanzel. Dal momento che l’ambone serviva anche per la lettura del Nuovo Testamento, ac-cadde che in alcune chiese ne costruirono due: uno per l’Epistola e l’altro per il Van-gelo. Nei tempi più lontani serviva anche per l’incoronazione dei sovrani, come ac-

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cadeva a Bisanzio, nella chiesa di S. Sofia (purtroppo dell’importante struttura si so-no perse le tracce).Nel periodo antico si potevano avere due tipi di amboni: l’“ambone alto” per l’ac-coglienza del diacono, del suddiacono e, a volte, di due accoliti. La sua misura è dicm 120-130 di larghezza, con una profondità di cm 70-80. L’“ambone basso” erameno largo, perché il suddiacono si disponeva dietro il diacono, mentre gli accolitisi fermavano nelle adiacenze. Pochi sono i resti degli amboni antecedenti il Mille; la produzione si sviluppò so-prattutto nei secoli XII, XIII. Amboni di alto livello li vediamo nella Puglia (Bari,Bitonto,Troia), nella Campania (Ravello, Salerno, Amalfi); risalgono al secolo XIIIe all’inizio del secolo XIV quelli di Nicola e Giovanni Pisano in Toscana, successi-vamente dell’epoca rinascimentale si ammirano i due amboni di Donatello nella chie-sa di S. Lorenzo del Brunelleschi a Firenze. Vi sono altri validi esempi, ma nessunaregione, come l’Abruzzo, ha avuto una produzione, così continua, copiosa e coerentein un tempo più lontano. In linea di massima, l’ambone in Abruzzo architettonicamente si presenta come unparallelepipedo sorretto da più colonne, oppure solo da due con un lato appoggiatoa una parete; è posizionato nella navata centrale della chiesa verso la metà della sualunghezza. Una scaletta laterale o sul retro, permette l’accesso alla zona superiore;solo nella Marsica esiste un esempio a doppia scala. L’originalità maggiore, tutta-via, è offerta dalla interessante raffigurazione scultorea realizzata sui parapetti e neicapitelli. Si tratta di una iconografia ricca di immagini, che attinge ispirazione daitesti sacri e dal repertorio dei simboli. Quest’ultimo aspetto è quello che evidenziapiù di altri la capacità creativa, l’originalità inventiva e la vivacità del pensiero dialcuni artisti, che nel periodo romanico lavorarono in Abruzzo nell’anonimato, la-sciando un esempio di autentica professionalità. Per inquadrare e impostare una lettura de-gli amboni abruzzesi, si ritiene opportunooffrire una suddivisione, corrispondente ariferimenti cronologici e a caratteri stili-stici, i quali verranno presentati nella sin-gola esposizione di ogni opera.

Primi amboni nel secolo XIIS. Maria in Cellis a Carsoli nella Marsica(primo ambone, databile al 1132).Produzione delle opere realizzate da Ro-gerio, Roberto e Nicodemo. Poco prima del 1150: Ciborio in S. Cle-mente al Vomano (firmato da Rogerio e ilfiglio Roberto).

3. L. EISENHOFER- J. LECHNER, Liturgia romana, editrice Marietti, Torino 1961, p. 230. 4. Un termine analogo all’ “ambone” è il “pulpito” (leggermente più grande e usato in epoca posteriore). La pa-rola “pulpito” deriva dal latino pulpitum. Presso i Romani era una piattaforma elevata su cui il personaggio sa-liva per farsi ascoltare e vedere. Il pulpito viene chiamato anche “pergamo” con un riferimento alle rocche e al-le alture, identificate come luoghi in cui si custodiscono gli ideali della fede.

Rosciolo. S. Maria in Val Porclaneta. Ambone(particolare).

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Anno 1150: Ciborio e ambone in S.Maria in Val Porclaneta (Marsica) fir-mato da Roberto e Nicodemo. Anno 1159: Ambone in S. Maria delLago a Moscufo, firmato da Nico-demo. Anno 1166: Ambone in S. Stefano aCugnoli, di Nicodemo.

Amboni che caratterizzano il pro-totipo abruzzese alla fine del seco-lo XII S. Clemente a Casauria - S. Pelino aCorfinio, S. Liberatore alla Maiella aSerramonacesca - S. Maria Assunta aBominaco, Sant’Angelo (o S. MariaMaggiore) a Pianella.

Amboni del secolo XIIIGli amboni del sec. XIII sono presentisoprattutto nella Marsica:S. Pietro ad Alba Fucens, S. Giusta diBazzano, S. Nicola a Prata d’Ansido-nia, S. Pietro a Rocca di Botte, SantiRufino e Cesidio a Trasacco, S. Nico-

la a Corcumello (ultimo ambone datato nel 1267).Possibilmente al sec. XIII risale un ambone proveniente dal monastero di S. Salva-tore nel teramano; ora è conservato smontato nell’interno della parrocchiale di S.Giovanni Battista a Castelli.

Frammenti scultorei probabilmente provenienti da amboni Plutei all’ingresso della Collegiata di Città Sant’Angelo, pluteo a S. Michele di Vit-torito, resti da S. Maria Assunta ad Assergi, avanzi da S. Maria delle Grazie a Civi-taquana, frammento da S. Giovanni in Venere, bassorilievo da S. Maria delle Gra-zie a Luco dei Marsi, testimonianze dal Duomo di Teramo e da quello di Atri, lastrescolpite in S. Vittorino, pannello da S. Pietro a Campovalano. Diversi degli esemplari sopra citati attualmente sono documentati solo da fotogra-fie antiche.

PRIMI AMBONI DEL SECOLO XII

S. Maria in Cellis a Carsoli (1132)Il primo ambone databile è quello conservato nella chiesa di S. Maria in Cellis a Car-soli, nella Marsica. L’elemento architettonico è addossato alla parete, poggia su co-

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lonne lisce con capitelli di ordine tuscanico, in parte sono collegate con un muro sot-tile, mentre da un lato vi è una scala di accesso. L’elemento architettonico è costi-tuito da una cassa volumetrica, formata dalla successione di lastre così ravvicinateda addolcire il passaggio dei piani, tanto che l’insieme appare quasi semicircolare.L’architrave, invece, è curvo ed è decorato da uno stelo recante fiori liliacei con fo-glie stilizzate a tre punte, nascente dalle fauci di un animale fantastico. Le lastre cheformano il cassone, si alternano nel seguente modo: una è liscia, l’altra propone nuo-vamente un disegno di foglie liliacee, oppure un motivo di fiori a sei petali, racchiusiin girali. Alla base di alcuni dei suddetti motivi vi è un animale (un quadrupede o unuccello). Il leggìo è sorretto da un’aquila stilizzata (simbolo dell’Evangelista Gio-vanni), in marmo bianco con venature blu. Questo ambone viene datato 1132, per-ché la decorazione vegetale descritta è uguale a quella che si trova in una lastra del-lo stipite destro del portale maggiore nella medesima chiesa. Detto portale aveva deibattenti in legno, che sono conservati nel Museo del Castello di Celano (AQ). L’o-pera, ora gravemente rovinata, aveva dei fregi molto raffinati con delle iscrizioni: inuna di queste lo studioso I. C. Gavini lesse la data 1132. Per i riferimenti stilisticiesistenti tra i battenti, il portale e le decorazioni dell’ambone, tutti coerenti tra loro,si è ritenuto opportuno attribuire la stessa data agli altri elementi compositivi, di con-seguenza l’ambone è riferibile al 1132.

Il laboratorio operativo di Rogerio, Roberto e Nicodemo (prima del 1150-1166)Tra il 1150 (circa) e il 1166 in Abruzzo operò una maestranza che testimonia la pre-senza di tre artisti: Rogerio, Roberto e Nicodemo. Negli anni precedenti il 1150 Ro-gerio con il figlio Roberto firmò il ciborio di S. Clemente al Vomano (TE); nel 1150Roberto con Nicodemo lavorò nella Marsica e a S. Maria in Val Porclaneta pressoRosciolo (AQ) realizzò il ciborio e l’ambone. Nel 1159 Nicodemo eresse l’ambonedi S. Maria del Lago a Moscufo (PE); successivamente, nel 1166, eseguì quello, cheun tempo era nel convento di S. Pietro e ora è conservato nella parrocchiale di S.Stefano a Cugnoli (PE). L’origine dei tre Maestri non si conosce. Essi proposero unostile inconfondibile per la ideazione delle composizioni scultoree, per il materialeusato e, di conseguenza per il procedimento tecnico applicato: tutti elementi che nonhanno riscontri con altre opere della regione, né prima né dopo l’esecuzione dei sud-detti lavori. Dal momento che nelle loro creazioni si evidenzia una certa ispirazio-ne di carattere orientale, si ritiene che essi provenissero dal Sud, ovvero dalla cortenormanna di Altavilla. Se quanto è stato esposto è da ritenersi probabile, si deve con-siderare S. Clemente al Vomano, luogo dove è collocata la loro prima opera, l’e-stremo nord raggiunto dall’espansione dell’arte arabo-normanna, che da Palermo edalla Campania si inoltrò nella penisola. L’originalità di questa maestranza, come è stato accennato, consiste nel materialeusato, nel procedimento tecnico e nell’iconografia. Lo svolgimento operativo (ma-teriale e tecnica) si può sintetizzare in tre momenti, che esporrò riportando gli ap-punti del dott. re Antonio de Dominicis, che generosamente me li ha dati per questo

Moscufo. S. Maria del Lago. Ambone(particolare).

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preciso fine: io sarò sempre grata alla sua memoria. Egli restaurò il ciborio e l’am-bone di S. Maria in Val Porclaneta negli anni Quaranta del Novecento. Ecco in sintesi la descrizione delle tre fasi esecutive:Sul luogo venivano lavorate le strutture “portanti” (gradini, basi, colonne, e altro),eseguite con pietra informe, appena sbozzata; in seguito dette strutture erano rive-stite con un conglomerato di calce, gesso e pietrisco. Su questo impasto, una voltaindurito, i Maestri incidevano, ovvero scolpivano, le loro composizioni. Fuori opera preparavano strutture di poco spessore, che non richiedevano una ossa-tura in pietra, realizzate con il solo conglomerato di calce, gesso e pietrisco. Completamento, in situ, dell’opera: venivano saldati i vari elementi con il solito con-glomerato di calce, gesso e pietrisco. L’iconografia investe un altro settore molto importante, che in questa sede potrà es-sere trattato solo nelle linee essenziali per la vastità dell’argomento. La prima opera firmata da questa piccola, ma significativa maestranza, è il ciborio con-servato a S. Clemente al Vomano (TE), che si fa risalire a prima del 1150. L’iscrizioneriportata sul prospetto, al di sopra degli archi e al di sotto della fascia di coronamento,riporta quanto segue: Pluribus expertus fut hic cum patre Robertus Rogerio duras red-dentes arte figuras. Nello scritto si dichiara la presenza di due artisti e si osserva cheRoberto (notare il caso nominativo) è figlio di Rogerio; quest’ultimo, forse perché inetà avanzata, lasciò al figlio l’incarico di primo artefice. Nel 1150 Roberto con Nicodemo firmò il ciborio e l’ambone nella chiesa di S. Mariain Val Porclaneta a Rosciolo (AQ) nella Marsica. L’ambone subì gravi danni nel terre-moto del 1915 quando andarono distrutte delle zone, perdute irreparabilmente. Il pic-colo organismo architettonico è appoggiato al secondo pilone della chiesa, a sinistra,con una scaletta laterale; la pianta è quadrata e la struttura poggia su quattro pilastri ot-tagonali, la cui base è formata da semplici massi di pietra. Simili al ciborio sono i ca-pitelli e l’arco trilobato: quest’ultimo per la prima volta compare in Abruzzo. Come siè accennato, poche sono le raffigurazioni scolpite giunte a noi, tuttavia si può fornireun rapido cenno di quelle alle quali potremo dedicare qualche osservazione. Gli ele-menti ornamentali predisposti nella mostra degli archi e nella cornice dei parapetti pre-sentano disegni di carattere orientale. Si parla di caratteri “cufici”, che si avvicinanomolto ai motivi dell’“incrocio” e dell’“intreccio”. Per quanto riguarda la raffigurazio-ne degli Evangelisti, resta solo il corpo acefalo del leone alato (simbolo di S. Marco).In alcune formelle sono rappresentati dei personaggi, diaconi o santi: uno reca un libro(forse S. Lorenzo), un altro un turibolo (forse S. Stefano, primo santo e primo martire).Due formelle hanno più personaggi: in una si distingue bene una donna che danza alcospetto di un re (Salomè, o il riferimento a un episodio della patristica riguardante Da-vid). Nell’altra formella vi è un uomo che lotta contro un orso (episodio biblico). Nelparapetto delle scale, in due riquadri, è riportata la storia di Giona. Completo è giunto a noi l’ambone, conservato in S. Maria del Lago a Moscufo (PE),firmato da Nicodemo nel 1159. Una volta compreso il processo lavorativo e vista

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l’impostazione architettonica, in questo ambone l’interesse più vivo riguarda l’ico-nografia. I simboli degli Evangelisti sono ben visibili: nel lettorino frontale l’ange-lo (S. Matteo) è posto sopra al leone alato (S. Marco), mentre in quello laterale l’a-quila (S. Giovanni) è sopra al toro alato (S. Luca). Tornano le piccole figure dei dia-coni: S. Vincenzo, con il calice, S. Lorenzo, con il libro, S. Stefano con il turibolo;inoltre il Santo dai lunghi capelli, Sant’Onofrio o S. Giovanni Battista. Due formel-le: una con l’uomo che combatte contro l’orso e l’altra con l’uomo che lotta con illeone. Dimensioni maggiori ha la scena di “S. Giorgio e il drago”, mentre l’interes-se più originale è la presenza di quattro piccoli uomini, ognuno dei quali si arram-pica o scende lungo le colonnine laterali alla cassa dell’ambone; a questi è legata lastoria del “cavaspine”, che merita un discorso articolato e lungo5. Sul parapetto del-la scaletta laterale è illustrata la vicenda di Giona. Nel 1166 Nicodemo firmò l’ambone, che era stato nella chiesa di S. Pietro annessaa un convento cistercense; quando la costruzione venne abbattuta, l’opera di Nico-demo fu trasportata nella vicina parrocchia di S. Stefano a Cugnoli. L’artista ripre-se le raffigurazioni viste a S. Maria del Lago, ma apportò delle modifiche, come, peresempio, nei riguardi dell’episodio di Giona. L’iconografia delle immagini nell’opera di Rogerio, Roberto e Nicodemo indica unadelle pagine più interessanti e dense dell’arte romanica in Abruzzo.

AMBONI CHE CARATTERIZZANO IL PROTOTIPO ABRUZZESE ALLAFINE DEL SEC. XIIS. Clemente a CasauriaS. Clemente a Casauria conserva l’ambone che, per primo s’impone con una impo-stazione stilistica regionale. L’impianto architettonico è semplice, perché si tratta diun parallelepipedo sorretto da colonne con l’inserimento del lettorino sul lato rivol-to alla navata. La base delle colonne è di stile attico con foglie protezionali. I quat-tro capitelli, uno diverso dall’altro, presentano composizioni ispirate alla foglia dipalma, raffigurata con un significato emblematico: la vita eterna, la bellezza del para-diso, ma anche il martirio. In alcuni capitelli le foglie si articolano e si espandonocon raffinatezza, intervallate da racemi, che assumono, come scrive Gavini, l’ideadi un “alberello”. Interessanti sono gli architravi: quello rivolto alla navata centralepresenta un intreccio simmetrico di palmette, fiori, frutta, mentre quello laterale ècaratterizzato da un preciso “motivo casauriense”: un tralcio nasce dalle fauci di undrago e, con volute ed elementi floreali e pigne, pur raggiungendo il centro, ripren-de il percorso finendo nelle fauci di un altro drago. Questo secondo tratto può con-siderarsi anche come un’altra origine, che percorre il tracciato in senso inverso. Al-la simbologia del drago e della pigna se ne aggiunge un’altra, che apre una pagina

5. GABRIELLAALBERTINI, La scuola di Rogerio, Roberto e Nicodemo nel XII sec., in “Abruzzo”, Edizionidell’Ateneo, Roma. 1966, anno VI, n. 2-3, pp. 405-420. L’articolo intero fornisce informazioni sui soggettiiconografici citati nello scritto.

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significativa nellastoria dell’ornato:non si tratta di for-me nuove, bensì dielementi ben noti,alcuni scelti dal re-pertorio preesisten-te nel suolo abruz-zese, ma rielabora-ti, reinventati, inter-pretati con rinnova-ta sensibilità. Unodegli esempi è ungrande fiore, classi-co nella derivazio-ne del suo disegno.A questi viene attri-buita la denomina-zione di “rosa”. Nel-la “rosa”, che ve-

dremo schiudere i suoi petali nei modi più diversi, si è voluta vedere l’allegoria del-la vita, come era consuetudine nel Medioevo6. Si precisa che la sua forma è racchiusaentro un cerchio o un quadrato immaginari. Considerando il senso emblematico del-le due forme geometriche, si può dire, in questo caso, che la “rosa” è la vita, raccoltae racchiusa nella continuità del tempo (il cerchio) e nell’equilibrio dello spazio (ilquadrato). Al di sopra dei grandi fiori (uno diverso dall’altro), che si stagliano ad al-torilievo nei riquadri della cassa dell’ambone, si elevano, su ognuno, un intreccio difoglie entro girali, oppure un leggiadro alberello (simbolo dello scettro abbaziale7).Sul “lettorino”8, disposto nel lato principale, è rappresentata l’aquila (S. Giovanni-evangelista), anch’essa ad altorilievo, con gli artigli appoggiati su un libro aperto, asua volta posato sulla groppa di un leone alato (S. Marco-evangelista), che a sua vol-ta regge un volume chiuso. Il lato dell’ambone rivolto verso l’altare è danneggiatoe non è giunto a noi integro. Il pregevole elemento architettonico-scultoreo venne realizzato nel periodo in cuil’abbazia ebbe un momento di grande ripresa creativa: al tempo in cui fu abate Leo-nate, che nell’ultimo tratto della sua reggenza, tra il 1176 e il 1182, dette un impul-so vitale con l’iniziativa di nuovi lavori. Dopo la morte di Leonate, l’organizzazio-

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ne si disgregò e molti maestri impegnati a S. Clemente lasciarono la sede e si reca-rono a impiegare il loro lavoro in altri luoghi della regione. Sull’abbazia di S. Clemente a Casauria esiste una ricca bibliografia, che forniscemolte notizie sull’architettura e gli elementi scultorei dell’edificio, considerato ilprototipo dello stile romanico abruzzese.

San PelinoL’ambone di San Pelino a Corfinio (AQ) è datato nel periodo in cui venne costrui-to quello di S. Clemente a Casauria, ovvero tra il 1176 e il 1182. Lo storico dell’ar-te Damiano Venanzio Fucinese9 riporta che l’ambone fu realizzato al tempo in cuifu vescovo Odorisio da Raiano, tra il 1168 e il 1188, quindi non si esclude che sia

antecedente a quello di S. Clemente a Casauria; a tale riguardo testimonia il risulta-to delle sue ricerche. La cassa dell’elemento in questione è sorretta da colonne lisce con basi attiche e fo-glie protezionali. I capitelli, diversi tra loro, sono composti da foglie di palma sor-montate da caulicoli accordati a foglie angolari. Tutto è caratterizzato da un effettochiaroscurale, reso ancora più intenso dalla linea curva e decorata dell’abaco, chenel centro ha un fiore scolpito. In alto, sul parapetto, agli spigoli, vi sono piccoli ca-pitelli, che assumono la funzione di porta-cero. I quattro architravi monolitici sono

6. ROSARIO ASSUNTO, Ipotesi e postille sull’estetica medioevale, Marzorati, Milano 1975, pp13-15. 7. I. C. GAVINI, op. cit. p. 226. 8. In questo scritto per “lettorino”, nei riguardi dell’ambone, s’intende il pluteo semicircolare, sormontato dalleggìo, posto nel centro del prospetto principale.

9. DAMIANO VENANZIO FUCINESE, La cattedrale basilica di Valva a Corfinio, Edizioni Tracce, Pescara1995, pp. 31; 61-62.

Corfinio. S. Pelino. Ambone (particolare).

S. Clemente a Casauria. Ambone

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commentati da fregi ornamentali realizzati con alta maestria tecnica: di notevole in-teresse è il motivo scultoreo denominato dal Gavini “palmette ad acroterio”. I sim-boli evangelici non sono rappresentati e il lettorino, rivolto verso la navata centra-le, è caratterizzato da quattro piccole colonne sormontate da arcatelle, simili a quel-le che si vedranno anche in S. Maria Assunta di Bominaco. I plutei, come si è det-to, sono riquadrati da fasce decorate: hanno nel centro la “rosa” a rilievo (non forte

come a S. Clemente), egualmente rac-chiusa a volte nel cerchio, altre nel qua-drato. I petali del fiore a sinistra (di chiguarda) del lettorino, si rigonfiano dal-l’interno all’esterno, mentre in quellodi destra si accartocciano dall’esternoall’interno. Quest’ultimo fiore e il suc-cessivo sul pluteo laterale, alle estre-mità hanno leggeri gambi tortuosi, ognu-no terminante con un piccolo fiore.

Santa Maria Assunta di BominacoL’ambone di S. Maria Assunta di Bo-minaco risale al 1180 come si legge inuna iscrizione sull’architrave. Anch’esso,a somiglianza dei due precedenti, è for-mato da quattro colonne collegate dal-l’architrave, che sorreggono i davanza-li rettangolari. Tre fusti delle colonnesono cilindrici, mentre uno (quello sulretro, a sinistra) ha tenere scanalature aspirale. Semplici e sagomate sono le ba-si. Di pregio è la lavorazione dei capi-telli, che s’ispirano liberamente allo sti-le corinzio romano; in essi è da osser-vare l’abaco, dove in ognuno è presen-te una decorazione: un bucranio, due uc-celli in posizione araldica, una bestiafantastica, una foglia. Gli architravi, rac-chiusi tra due listelli, propongono il mo-tivo del “tralcio abitato”: tra plastici gi-rali vegetali sono disposti (comincian-do dalla sinistra di chi guarda): una pic-cola figura, due “rose”, un quadrupedee, nel centro, uno splendido leone, reso

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con un indovinato gioco chiaroscurale. L’animale si gira su se stesso mostrando diprofilo una fluente criniera; lo scatto e la levità del movimento sono resi dalla posi-zione inconsueta, che lo vede appoggiare solo una zampa anteriore. La dolce curvadel dorso accentua il senso di sospensione, divenuto ancora più irreale dal virgultouscente dalla bocca del leone: esso lo avvolge nel corpo, poi se ne allontana per im-mergersi nel contesto vegetale della composizione. Sull’architrave rivolto verso l’al-tare maggiore, sono scolpiti dei lupi: due sono interi, uno si vede in parte, mentre diun quarto è rappresentato solo il muso. Tutti tentano di sbranare un agnello. La raf-figurazione, molto probabilmente, vuole ricordare il sacrificio del Cristo, simboleg-giato nell’agnello. Il lettorino, molto semplice, ha tre arcatelle a tutto sesto (come inS. Pelino). I plutei, due sulla navata centrale e due sul lato destro) sono caratteriz-zati da grandi “rose” scolpite, simili a quelle di S. Pelino: la più interessante è quel-la disposta nel riquadro a destra di chi guarda, nel prospetto rivolto verso la navataprincipale. Si tratta di un fiore dai lunghi petali spinti verso l’alto (struttura incon-sueta in Abruzzo). Questo elemento è disposto in uno spazio nitido, mentre la posi-zione è volutamente spostata verso l’alto, senza alcuna considerazione della centra-lità. Il metodo di comporre ponendo un soggetto importante in posizione decentra-ta è una caratteristica prettamente regionale, riscontrabile in altre composizioni.

San Liberatore alla MaiellaL’ambone di San Liberatore alla Maiella presso Serramonacesca (PE), addossato alpilastro destro nella navata centrale, è stato ricomposto dopo i lavori di restauro ter-minati all’inizio degli anni Settanta del Novecento. Si fa risalire ai lavori effettuatiintorno al 1180; dal punto di vista architettonico è come quelli di S. Clemente a Ca-sauria, S. Pelino a Corfinio e S. Maria Assunta a Bominaco. I capitelli e alcuni ele-

Serramonacesca. S. Liberatore a Maiella. Ambone,(particolare-disegno).

Bominaco. S. Maria Assunta. Ambone (particolari).

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menti ornamentali sono affini a quelli dei citati amboni; nei plutei, invece compaionoaltri soggetti anche se mancano le immagini degli Evangelisti. Espressivo è il moti-vo del “grifone”, dalla cui bocca esce un racemo: questi si evolve creando una gran-de voluta in cui è racchiusa una “rosa”. Altre due “rose” sono unite a tralci che, ar-monizzandosi a dei girali con foglie, accolgono nel contesto compositivo, due “pa-voni”, uno di fronte all’altro. Molto curata è la realizzazione delle “rose”, il cui nu-mero di petali conduce il discorso sulla simbologia del fiore e sui tanti significatiche esso contiene. Un elemento di particolare interesse è la raffigurazione del leonecon due corpi e una sola testa. In questa strana figura, sistemata nel “tralcio abita-to”, che anima l’architrave del prospetto principale, sono racchiusi tanti significatitra i quali quello “della dualità che si fonde nell’unità”. In Abruzzo vi sono altri esem-pi della singolare figura10. In questa sede è impossibile soffermarsi sul “racconto”emblematico delle numerose raffigurazioni, per la conoscenza delle quali si consi-glia la consultazione di testi specifici.

Sant’Angelo o Santa Maria Maggiore a PianellaL’ambone di S. Maria Maggiore a Pianella (PE), chiesa dedicata anche a S. Miche-le Arcangelo, quindi detta pure Sant’Angelo, per la maggior parte dei ricercatori ri-sale alla fine del sec. XII, dopo il 1182 (con un probabile slittamento ai primi annidel secolo successivo), epoca in cui, morto Leonate, gli artisti lasciarono Casauria esi recarono altrove per lavorare diffondendo ovunque il valore delle loro conoscen-ze operative. Si suppone che Magister Acutus, che firmò l’ambone di Pianella, siavenuto da Casauria. Per conoscere gli elementi caratterizzatori dello stile casauriensesi prende in considerazione, per il momento, solo la scultura. In tal caso il discorsosi circoscrive ai motivi decorativi, che si possono individuare nei seguenti elemen-ti: il fiore detto “rosa”, spesso inscritto in un cerchio o in un quadrato, il drago conil tralcio di vite, il motivo delle foglie legate con un nastro dall’andatura circolare,denominato dal Gavini “palmetta ad acroterio”11, mentre è lo stesso autore a chia-mare un altro ornamento “palmetta a pannocchia”12 riproducente una forma similealla precedente, ma con una foglia più grande. Nei capitelli sono tipiche le foglie dipalma chiuse e accoppiate, dette “foglie dei martiri”; è noto anche il capitello “a ce-sto”, composto dall’intreccio di steli, a forma di nastro, con l’inserimento di pal-mette: tutto l’insieme conferisce alla campana del capitello un aspetto che ricorda ilcesto usato nelle campagne abruzzesi13. Gli elementi, che sono stati citati si ritrova-no nell’opera di Pianella; l’impostazione architettonica dell’ambone è leggermentediversa da quella dei precedenti, mentre in alcune raffigurazioni vi sono riferimen-

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ti ben distinti. L’ambone, ideato sempre come una cassa a base rettangolare, si tro-va nella navata sinistra, appoggiato alla parete ed è sorretto da due colonne sul da-vanti, prive di base. Sono decorate due facce dei davanzali (ognuno dei quali è sud-diviso in due lastre); un prospetto è inserito nel muro perimetrale della chiesa, l’al-tro (quello laterale rivolto verso l’altare maggiore) è aperto (forse vi era una scalaandata distrutta). L’insieme è lineare, perché manca la sporgenza del lettorino. Mol-to interessanti, invece, sono le immagini in esso scolpite. L’iscrizione su una fasciadell’architrave attribuisce all’abate Roberto la commissione dell’opera, mentre unaltro scritto, sul leggìo, così riferisce: Magister Acutus fecit hoc opus. Il prospetto dell’ambone rivolto verso la navata centrale presenta due lastre, riqua-drate da una decorazione casauriense, sullo sfondo liscio vi sono i simboli di dueEvangelisti. A sinistra vi è un’aquila (S. Giovanni) di profilo, posizionata in alto; es-sa regge un libro su cui sono incisi alcuni versi di Sedulio14; a destra è raffigurato unleone alato (S. Marco), di profilo, al di sopra di un libro, con la testa leggermentevoltata all’esterno e spostato verso l’alto al fine di lasciare il posto a una “rosa” insimmetria rispetto all’asse verticale, ma sistemata verso il basso. L’architrave è de-corato con le “palmette ad acroterio”. Nel versante laterale, a sinistra, spiega le aliun angelo (S. Matteo) in posizione frontale. La figura si distingue nella sua limpidastruttura, che è molto simile a quella dell’angelo scolpito nella lunetta del portale la-terale a sinistra nella facciata di S. Clemente a Casauria. Nell’altro riquadro il toro(S. Luca) si solleva oltre una originale “rosa”, decisamente decentrata. Ecco, quin-di, tornare quel particolare stilistico della “decentralità”, che si era precedentemen-te notato nella “rosa” dell’ambone in S. Maria Assunta a Bominaco. I due capitellisono costituiti, uno dalle “foglie dei martiri” mentre l’altro propone il tipico capi-tello “a cesto”.Nell’esposizione degli amboni descritti in questo capitolo, si distinguono caratteririspondenti a eguali concetti, pur avvalorando la diversità tra loro. Vi sono elemen-ti rispondenti a determinati principi, simili tra loro, ma non ripetitivi. Per esempio:la struttura architettonica del parallelepipedo, la presenza degli elementi decoratividi stile casauriense, l’applicazione di un concetto compositivo cosciente di una pro-pria originalità dovuta alla decentralità di alcuni elementi, l’assenza della figura uma-na, l’essenzialità e la cura esecutiva dei soggetti scelti, la raffigurazione di animalisingolari (si ricordi il leone a due corpi e una testa) e di elementi floreali con l’e-spandersi di molte “rose”, altamente simboliche per la forma, per il numero dei pe-tali e per la loro posizione nella struttura della composizione. Si tratta di un insie-me, stretto nel tessuto di una storia serrata, coinvolgente, regionale sì, ma anche ca-pace di inserirsi nel contesto di una narrazione ben più ampia, abile nel superare iconfini delle alte montagne e dell’esteso mare. Questo è l’Abruzzo, una terra ap-

10. Alcuni elementi simbolici, per quanto riguarda il panorama dell’arte in Abruzzo sono contenuti nel libro:GABRIELLAALBERTINI, Simboli d’arte nel romanico abruzzese, Ediars, Pescara 1998. 11. IGNAZIO CARLO GAVINI, Storia dell’architettura in Abruzzo, Casa Editrice d’Arte Bestetti e Tummi-nelli, Milano-Roma 1926, vol. I, p. 225; 239 (disegno).12. I. C. GAVINI, op. cit. pp. 53-54. 13. I. C. GAVINI, op. cit. p. 224.

14. Sedulio era un prete originario della Gallia meridionale o della Spagna. Egli è considerato il maggiore poetaepico del V sec. d. C.; compose il Carmen Paschale nei cinque libri in cui sono esposti gli eventi più straordi-nari del Vecchio Testamento e della vita di Gesù.

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prezzata e amata, ma forse non sufficientemente conosciuta e valorizzata. L’ap-prendimento di quanto essa possiede deve essere iniziato, forse, anche e soprattuttodalle “cose” meno evidenti e più “sue”. Lo studio degli amboni è uno di quegli aspet-ti che offrono molte possibilità di apprendimento e di chiarificazione. Molto si è fat-to, ma tanto c’è ancora da “approfondire e diffondere”.

AMBONI DEL SECOLO XIII

Nel secolo XIII la lavorazione degli amboni si profila in un modo diverso. Nel se-colo XII abbiamo visto che dopo la presenza della piccola, ma importante, mae-stranza dei tre artefici Rogerio, Roberto e Nicodemo, l’attenzione si sposta sulla pro-duzione delle opere di fine secolo, caratterizzate dai cinque amboni di impianto pret-tamente abruzzese, di cui si è offerta una illustrazione nel precedente capitolo. Neiprimi tempi del secolo XIII, invece, si profila nella Marsica l’influsso artistico sug-gerito dalla vicina Roma. Le differenze che si noteranno negli amboni che verran-no presentati, vanno interpretate positivamente, perché chiariscono la capacità chehanno avuto i nostri operatori di accettare l’intervento di altri artisti al fine di am-pliare le personali conoscenze, senza per questo venire meno a una individuale espres-sione creativa e compositiva. È, questa, una prerogativa che va riconosciuta all’e-stro abruzzese, pronto a cogliere le novità del momento, al fine di farne tesoro perrinnovare e migliorare il proprio operato.

San Pietro ad Alba FucensL’ambone conservato nella chiesa di S. Pietro ad Alba Fucens, commissionato dal-

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l’abate Odorisio, venne realizzato da Giovanni (figlio di Guido), che fu l’autore del-l’ambone eretto in S. Maria in Castello a Corneto Tarquinia nel 1209. La datazionenon è precisata e si considera posteriore a quella citata per il lavoro prestato nellacittà laziale. Successivamente, forse perché chiamato altrove, Giovanni lasciò al collega Andreail compito di realizzare l’iconostasi nella medesima chiesa. Andrea si fece aiutareda maestranze locali permettendo, così, di estendere nella Marsica la conoscenza deicontenuti esecutivi e compositivi suggeriti dallo stile romano, che consisteva pre-valentemente nell’applicazione di tessere musive disposte su un disegno fantastica-mente geometrico. Questo originale metodo era stato impartito da due prestigiosemaestranze: i Cosmati e i Vassalletto. Lo stile romano, però, proponeva un’altra so-stanziale differenza, quella dell’adozione di due scalette laterali, per accedere allapiccola piattaforma dell’ambone, munito di due lettorini: uno davanti e uno sul re-tro. Possibilità, quest’ultima, del tutto conseguenziale, perché l’ambone era proget-tato come una costruzione isolata e autonoma. A S. Pietro ad Alba Fucens, l’ambone è situato tra due colonne, sul lato sinistro del-la navata centrale; è munito di due lettorini. Le preziose tessere (ve ne sono molteanche in oro) creano disegni geometrici racchiusi entro pannelli inquadrati da mo-danature decorate con il motivo della “palmetta diritta”15. Una figuretta umana, unapiccola aquila e altri elementi fantastici sono scolpiti nelle mensole che reggono lecolonnine tortili (commentate con tessere musive) del lettorino. Anche i capitelli so-no finemente lavorati. Nel centro, sul prospetto principale è l’effigie dell’aquila (S.Giovanni), in posizione frontale, non grande. L’ambone e l’intera chiesa, furono di-strutti dal terremoto del 1915: tutto è stato ricostruito fedelmente ed è stato restitui-to al suo originale splendore.

San Pietro a Rocca di BotteL’ambone di S. Pietro a Rocca di Botte (AQ) non è datato e si fa risalire a un’epo-ca posteriore a quella di S. Pietro ad Alba Fucens, quindi nella seconda o terza de-cade del sec. XIII. L’elemento architettonico, a base rettangolare, è formato da uncassone sorretto da quattro colonne. Quelle sul davanti hanno basi attiche poggian-ti su basamenti. Il fusto delle colonne è sfaccettato. I capitelli sono affini a quelli diS. Clemente a Casauria, sia per la forma che per la trattazione della foglia d’acantoe di quella della palma. Questa constatazione fa pensare alla presenza di maestran-ze abruzzesi, che lavorarono insieme ad altre romane. I parapetti e gli architravi del-l’ambone, sono realizzati con lo stile cosmatesco. Si suppone, quindi, che il lavorosia stato suddiviso così: leoncini, basi, colonne, mensole con figure scultoree, cor-nici con il motivo della palmetta, tutto affidato a maestri, la cui preparazione era diderivazione casauriense. La decorazione dei plutei e delle colonnine tortili, che de-

15. I. C. GAVINI. op. cit. vol. I, p. 61; 239 (disegno).S. Pietro ad Alba Fucens. Ambone

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terminano il lettorino, l’applicazione delle tessere musive, disposte in un disegnogeometrico, potrebbero essere, invece, dei maestri provenienti dall’educazione sti-listica di ambiente romano. Particolare accattivante è la presenza di due leoni stilo-fori accovacciati (unici negli amboni abruzzesi), che caratterizzano le colonne delprospetto principale. Le colonne retrostanti poggiano, invece, su basi di tipo attico.

Santa Giusta di BazzanoNella chiesa di S. Giusta a Bazzano (AQ) si delineò un momento importante nel

1238, quando vi conflui-rono dei maestri di culturacasauriense ai fini di par-tecipare al completamentodella costruzione con il lo-ro contributo operativo. Es-si, pur restando legati allafonte della loro prepara-zione, apportarono dellemodifiche al metodo ap-plicato, tanto da suggerirel’origine di una corrente in-novativa. Questo orienta-mento è riscontrabile nel-l’architettura, ma si evi-denzia anche negli elementiscultorei dell’ambone, chesi ritiene contemporaneodel portale, in cui è ripor-tata la data 1238. Moltoprobabilmente questo am-bone subì gravi danni nelterremoto del 1461 e quan-do venne ricomposto, for-se non fu rispettato il pri-mitivo impianto16. L’ele-mento architettonico è po-sizionato in maniera inso-

lita: sono visibili due prospetti, gli altri sono inseriti nel muro. Il lato più grande ènei pressi dell’altare maggiore, al di sopra della volta posta all’ingresso della crip-ta, di conseguenza in posizione frontale rispetto all’ingresso. Il lato minore è sullaparete laterale sinistra, tuttavia, pur così “ridotto” l’ambone è molto interessante. Il

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lato frontale è costituito da tre lastre contornate da cornici, costituite dal motivo del-le “palmette diritte”, seguite da tralci vegetali. La lastra centrale ha funzione di let-torino e anche se la parte superiore è mùtila, in quella inferiore la cornice si incur-va marcandone la funzione. Tutta l’area è occupata da un arco, sorretto da due co-lonnine con basi e capitelli; nell’interno vi è l’Agnello con la Croce (Agnello cruci-gero) disposto di profilo con la testa volta all’indietro. Nella lastra laterale, a sini-stra di chi guarda vi sono l’aquila e il toro, alla destra l’angelo e il leone: tutte le fi-gure sono rivolte verso il centro. I simboli degli Evangelisti sono rappresentati duea due, uno sopra l’altro, in una composizione aderente ai limiti della lastra, serrata,differente dalle precedenti, in cui l’elemento isolato, si misura in un’ariosa superfi-cie. Si noti, per esempio, la grande differenza che intercorre con quello di Sant’An-gelo a Pianella dove sono rappresentati, come in questo, gli Evangelisti. Le quattrofigure sono realizzate con un vibrante senso plastico, che valorizza l’effetto chiaro-scurale e la vivacità del movimento. Nel prospetto laterale vi è una lastra interamenteoccupata da due grandi “rose” circolari, una sull’altra, tra le poche in Abruzzo per-fettamente uguali17: sembra che vogliano richiamare la posizione degli Evangelistidisposti uno sull’altro, come si vedono nel lato maggiore. Tale particolarità segnauna nuova creazione compositiva, che sposta l’attenzione su altri argomenti, comeper esempio quello del simbolismo, riferito, in questo caso, al tema del “dualismo”18.

San Nicola a Prata d’AnsidoniaL’ambone, che attualmente si trova nella chiesa parrocchiale di S. Nicola a Pratad’Ansidonia (AQ), un tempo era nella chiesa di S. Paolo a Peltuino da dove vennerimosso per motivi di sicurezza, forse nel 1796. Fu commissionato dal prepositoTommaso nel 1240; resta, invece, sconosciuto il nome dell’autore che fu certamen-te un artista di raro talento. L’ambone presenta lo schema già diffuso in Abruzzo con la cassa a forma di paral-lelepipedo poggiante su colonne, delle quali, in questo caso, non è rintracciabile laprovenienza. L’Antinori scrive di averlo veduto “sopra quattro colonne ottagonali”19.Attualmente l’ambone poggia su sei colonne disuguali, munite di base e sormonta-te da capitelli, uno diverso dall’altro. Molto singolare è quello posto sulla colonnaaddossata alla parete, l’unica dal fusto poligonale: la campana è a forma di pirami-de tronca rovesciata, accordata al fusto senza collarino; le decorazioni sono fiori efoglie, che si avvolgono in volute sotto l’abaco formato da due tavolette. Per quan-to riguarda le colonne dell’ambone e, soprattutto, quella sopra descritta, esiste undeterminato discorso, che porta al di fuori del campo prettamente artistico, perchésullo strano capitello sono state lette sigle ed iscrizioni, che hanno fatto supporre il

16. I. C. GAVINI, op. cit. , vol. I, pp. 325-327.

17. Due rosette perfettamente uguali, ma più semplici e anteriori a quelle prese in esame, sono scolpite su pie-tra nello stipite di sinistra nel portale di S. Giovanni ad Insulam, nel teramano. 18. Cfr. G. ALBERTINI, Simboli d’arte nel romanico d’Abruzzo,.op. cit, pp. 16-18. 19. I. C. GAVINI, op. cit. vol. I. p. 426. Si leggano anche le note nn. 33,34, 36 a p. 439, in cui sono citate lefonti di Antinori, Piccirilli e Bertaux.

Bazzano. S. Giusta. Ambone (particolare).

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quasantiera nel Duomo di Atri, di epoca posteriore, presenta una donna simile; fi-gure analoghe si trovano in altre regioni d’Italia, ma non è semplice decifrare il lo-ro messaggio. Alla semplice interpretazione che vede nell’effigie l’immagine di unapopolana, si contrappone l’ipotesi di O. Lehmann-Brochkaus, secondo il quale sitratta di una Sibilla. Sono le Sibille, infatti, a predire nell’Antico Testamento la ve-nuta del Cristo, quindi la loro presenza è comprensibile nella piccola costruzione do-ve si legge il Nuovo Testamento. È ancora da definire la qualifica di questa donnain pietra. Nei plutei laterali, che fiancheggiano il lettorino, è scolpito un grande fiore, ovverola “rosa”, una delle più alte espressioni dei marmorari abruzzesi. Le due “rose” sipossono inscrivere, ognuna, in un quadrato ideale. Si tratta dello stesso principioanalizzato a Casauria, ma qui è tutto più espanso, grande, arioso: è la piena maturi-tà di un’epoca irripetibile, oltre la quale non si può procedere: è l’ultima fiorituranell’immaginario roseto del romanico d’Abruzzo. Il davanzale di sinistra è occupato dalle figure di S. Paolo, S. Tito, Sant’Apollo, ra-ra rappresentazione, ben modellata nella ricerca di effetti realistici. Nel davanzaledi destra sono scolpite solo due “rose”, una sopra all’altra, come a Bazzano, ma nonsono uguali., tuttavia si accordano armoniosamente alle composizioni del prospettofrontale. L’ambone di Prata d’Ansidonia resta isolato nel contesto di una regione molto pro-duttiva; l’artista che lo ha realizzato, con questa sua opera, lascia l’ultima testimo-nianza di una grandezza non più superata nel territorio abruzzese.

Chiesa dei Santi Rufino e Cesidio a TrasaccoNella chiesa dei Santi Rufino e Cesidio a Trasacco (AQ), è stato adibito a lettorino,sistemato alla sinistra dell’altare, un elemento architettonico semicilindrico, di me-dia grandezza, che probabilmente faceva parte di un ambone andato distrutto. Nel-la premessa è stato scritto, che nella presente ricerca sarebbero stati trattati solo gliamboni completi; in questo caso si ritiene opportuno analizzare il suddetto “pezzo”,perché le immagini scolpite sono interessanti e testimoniano, ancora una volta, lasingolarità e la varietà degli amboni abruzzesi. Il blocco di pietra lavorata, preso inconsiderazione, in alto termina con un giro di foglie diritte. Nel centro della super-ficie è scolpita una colonna, con base attica e capitello a piccole volute. Quasi nelmezzo della colonna, che potrebbe avere un significato aniconico, è rappresentatol’Agnus Dei con la Croce (l’Agnello crucigero) nella posizione consueta: il corpo diprofilo e la testa girata (posizione di contrasto20). Alla destra l’angelo (S. Matteo)che sovrasta il leone alato (S. Marco); alla sinistra l’aquila (S. Giovanni) è dispostasopra il toro alato (S. Luca). Le figure sono plastiche, vibranti nello spazio, mentre

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messaggio di segrete opinioni.Vi sono discordanze stilistichetra le due parti dell’ambone:quella superiore e quella infe-riore. Le due colonne angolarisulla parete frontale, presenta-no caratteri stilistici simili a quel-li delle colonnine del lettorino. La parte superiore dell’amboneè ben conservata e si presentacon riferimenti storici, ricchez-za di immagini e virtuosismoscultoreo. Il fregio dell’archi-trave, sul lato frontale e sul si-nistro propone un ornamento difoglie d’acanto, fortemente in-cise, che si svolgono in giralinel cui centro vi è un fiore mol-to in rilievo. L’autore si distac-ca dalla realtà e si muove, in pie-na libertà, con elementi florea-li e vegetali, che armonizza conla perizia e la fantasia di una in-dividuale interpretazione. Il pro-spetto frontale, come a Bomi-naco e a Corfinio, ha il lettori-no caratterizzato da quattro co-lonne, che determinano tre spa-zi archivoltati, di cui, quello asinistra è trilobato. Nell’interno

delle arcatelle laterali vi è un tralcio, di tirso a sinistra, di vite a destra. Il tirso e lavite hanno simili valori emblematici, riferibili anche alla segreta forza vitale dell’u-niverso e alla eternità. Nella zona centrale compare una figura molto singolare, an-che perché ispirata alla realtà. Si tratta di una giovane donna con il braccio sinistroalzato nell’atto di reggere un libro sul quale si appoggia l’aquila evangelica. Sul ca-po ha un fazzoletto ripiegato, tipico delle donne del popolo, mentre la mano destraraccoglie le vesti sollevandole oltre il ginocchio sinistro. Figura molto inconsueta eoriginale per la sua non chiara identificazione, ma anche problematica per la sua col-locazione, tanto più che in Abruzzo è rarissima sull’ambone la raffigurazione dellapresenza umana, particolarmente se non santificata. Personaggio laico, quindi, macon quale valore e quale significato, non è possibile dirlo. Nello stesso Abruzzo l’ac-

Prata d’Ansidonia. S. Nicola. Ambone(particolare).

20. OLIVIER BEIGBEDER, Lessico dei simboli medioevali, Jaka Book, Milano 1989, alla voce “Incrocio”,pp. 161-172.

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questo è l’ultimo datato e sembra risentire della mestizia recata dalla “fine”. Va con-siderato, tuttavia, con l’interesse dovuto a tutto ciò che riguarda l’opera dell’uomo,perché, per esempio, è di qualche suggestione l’accordo dei colori: alla brillantezzadel mosaico si accosta il bruno della pietra, che porta a riflettere sull’impiego deivari materiali e al significato dei loro contenuti (si pensi al valore dell’oro spessopresente nel mosaico e alla umiltà della forte pietra). Queste, però, sono quelle con-siderazioni personali, che si formulano quando si conclude l’osservazione su un ci-clo storico, i contenuti del quale sono tanti, diversi, e, sotto certi aspetti ancora nondel tutto chiari. Con questo ambone termina un lungo capitolo di Storia dell’Arte,ma anche di storia umana, politica e sociale: pensiamo agli avvenimenti storici con-temporanei alle opere, all’organizzazione delle maestranze, all’individuale conflit-to giornaliero. Il corso del tempo prosegue e nell’Abruzzo non avremo più una pro-duzione simile: essa resta caposaldo e pietra miliare di un momento storico impor-tante, “unico”, inevitabilmente legato particolarmente all’ispirazione, al sentimen-to, al pensiero, suggeriti dalla terra stessa, che, come tale, è procreatrice feconda, maanche silente e segreta custode dei suoi averi.

APPENDICE

San Giovanni Evangelista a CastelliAll’interno della chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista a Castelli (TE), so-no conservati i resti di un ambone proveniente dall’abbazia di S. Salvatore (nel te-ramano) andata distrutta. L’ele-mento architettonico-scultoreo vacitato, perché anche se non è deltutto completo e, per giunta, anchesmontato, merita di essere ricorda-to e, soprattutto salvato. Adagiatiper terra, vicino all’ingresso dellachiesa, sono disposti gli elementigiunti a noi. Si suppone che l’am-bone sia stato eseguito dopo il 1180,quindi alla fine del secolo XII o neiprimi anni del secolo XIII. Si evi-denziano due pannelli in pietra: inuno è riconoscibile la raffigurazio-ne dell’Agnus Dei posto sotto unagrande “rosa”. Nel riquadro accantosono disposte due “rose” uguali,una sopra all’altra. Gli elementi ci-tati e la loro composizione riporta-no alla memoria le “rose” viste nel-

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il loro movimento è reso ancora più ampio dallo stendersi delle ali (ogni immaginele possiede) con le penne rigorosamente incise. Le immagini sono rivolte verso ilcentro, ovvero verso l’Agnello crucigero, mentre una fascia, realizzata con un leg-gero motivo musivo (ricordo dell’insegnamento romano), le sottolinea, le marca ele accompagna nella loro posizione. La “rosa”, cara alla tematica della simbologiaabruzzese, fa una lieve apparizione in basso, a sinistra: non è più la grande protago-nista interpretata con sicuro modellato; è un semplice fiore a sei petali, intagliati nelpiano di una superficie circolare. Nella Marsica è forse questo l’ambone, che può essere considerato più tipico dellostile abruzzese, perché si suppone che, completo, sia stato organicamente composto.Sono stati visti i due amboni di S. Pietro ad Alba Fucens e quello di S. Pietro a Roc-ca di Botte, imponenti nella loro bellezza e preziosità; essi vanno considerati di de-rivazione romana. È significativo menzionarli a questo punto, perché si evidenzia ilgrado di assimilazione nell’ambiente abruzzese di una realtà diversa e il suo inseri-mento nella creatività originale della regione. L’ambone non è datato, ma la maggior parte degli studiosi è concorde nel farlo ri-salire alla seconda metà del secolo XIII.

S. Nicola di CorcumelloL’ambone conservato nella chiesa parrocchiale di S. Nicola a Corcumello (AQ) untempo era nell’abbazia di S. Pietro, ricordata in una bolla di Clemente III del 1118.Una iscrizione letta dall’Antinori, attribuisce l’opera a Stefano di Moscino, un abruz-zese che la realizzò nel 1267, su commissione dell’abate Berardo e di due monaci.L’ambone ha la struttura tipica abruzzese con cassa a pianta rettangolare, appoggia-ta a colonne e lettorino sporgente. Le colonne sul davanti hanno base attica moltorialzata, i capitelli sono composti con foglie angolari, che nella disposizione accen-nano allo stile borgognone; queste ultime si avvolgono sotto l’abaco creando dei bot-toni laterali, mentre una modanatura a guscio tondo lega la campana del capitello al-l’abaco stesso. L’architrave, piuttosto alto, ha un fregio con tralci vegetali e qualcheraro animale. Alcune zone, decorate a mosaico, fanno supporre che il motivo orna-mentale musivo dovesse essere continuo; nella zona frontale del lettorino campeg-gia, ad altorilievo, l’aquila, che, con gli artigli afferra un serpente. Nei pannelli la-terali vi sono raffigurati: a sinistra, uno sull’altro, il leone alato (S. Marco) e il toroalato (S. Luca), a destra, con eguale posizione, l’aquila (S. Giovanni) e l’angelo (S.Matteo). Le figure, statiche nella loro posizione, sono di profilo e non si volgonoverso il centro. Viene spezzato, così, l’organico concetto della composizione assia-le con l’interesse rivolto verso la zona principale. Si pensa, tuttavia, che tale posi-zione sia venuta a crearsi in seguito a un montaggio sbagliato, avvenuto nel corsodel trasloco dell’ambone dal luogo dove era all’origine. Nel prospetto di sinistra visono S. Pietro e S. Paolo, mentre a destra è scolpita una figura femminile e accantouna “rosa”. È trascorso il periodo glorioso della costruzione di amboni in Abruzzo; Castelli. S. Giovanni Evangelista. Ambone.

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l’ambone conservato a S. Giusta di Bazzano. L’altro pannello è anch’esso diviso indue riquadri, nel primo è scolpito un angelo (S. Giovanni) in una statica posizionefrontale, con la testa “a pera” e i capelli a caschetto (particolari alquanto arcaici);originale è la posizione delle ali, perché quella destra è ribassata e aderente al cor-po, l’altra è alzata e sconfina nel motivo decorativo della cornice. Nell’altro riqua-dro sono scolpiti il leone alato (S. Marco) e il toro alato (S. Luca), anch’essi in unmodo già visto non solo a Bazzano, ma anche in alcuni amboni della Marsica. Man-ca l’aquila, simbolo di S. Giovanni, forse presente in un “pezzo” andato disperso. L’elemento più originale, il solo in Abruzzo, visibile in questo ambone, è la base diuna colonna, la sola rimasta. Si tratta della raffigurazione tridimensionale di un leo-ne formato da due corpi e una testa21. Si è fatto cenno a questa figura particolare scri-vendo dell’ambone di S. Liberatore alla Maiella, dove è visibile nell’architrave. Inbassorilievo troviamo nella regione qualche altro esempio di questo strano “essere”,mentre in tuttotondo, quello di Castelli è l’unico. La testa del leone è distinguibilein alcune fotografie degli anni Quaranta del Novecento; ora non c’è più, perché di-strutta dall’usura del tempo e dall’incuria dell’uomo: quest’ultima permane, perchénel corso di tanti anni nessuno si è interessato di sistemare questi pochi elementi inun luogo adeguato. Oltretutto la tragedia del terremoto del 6 aprile 2009, non age-vola la richiesta di una progettazione per una eventuale “messa in opera”.

BibliografiaNell’impossibilità, per limiti di spazio, di fornire una bibliografia dettagliata, si consiglia di con-sultare: DAMIANO VENANZIO FUCINESE, Arte e Archeologia in Abruzzo, Università degli Studi diRoma, Istituto di Fondamenti dell’Architettura, Officina Edizioni Roma 1978.- Il testo offre un’am-pia informazione bibliografica. Dopo il 1978 sono stati pubblicati diversi libri, tra i quali è essenziale la consultazione dei volu-mi della raccolta DAT-Fondazione Cassa di Risparmio di Teramo. Direzione Luisa Franchi del-l’Orto, Comitato di edizione Ferdinando Bologna, Mario Del Trecco, Antonio Giuliano, Comita-to di redazione Adelmo Marino, Nerio Rosa. Numerosi volumi e guide, pubblicati dalla casa editrice Carsa (Pescara), redatti da insigni studio-si, sono dedicati a costruzioni monastiche del romanico abruzzese. GABRIELLA ALBERTINI, Amboni e portali nel romanico abruzzese, Ediars, Pescara 1994. GABRIELLA ALBERTINI, Simboli d’arte nel romanico d’Abruzzo, Ediars, Pescara 1999. FRANCESCO GANDOLFO, Scultura medievale in Abruzzo, Carsa, Pescara 2004. AA. VV. Maestro Nicodemo (a cura di Giovanna Di Matteo), testi di Giovanna Di Matteo, ElsaFlacco e Lucio Taraborelli, Comune di Guardiagrele, 2004. Tra i periodici che trattano argomenti di abruzzesistica si citano: tutte le pubblicazioni della “De-putazione di Storia Patria”, “Rivista Abruzzese”, “Oggi e Domani”, “D’Abruzzo”, “Il Monitore”.

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Geografia e Clima

Il termine Gran Sasso d’Italia fu formulato dopo il 1860 e inizialmente era circoscrittoalle sole cime del Corno Grande e del Corno Piccolo; nella carta del 1785 dell’Abruz-zo Ulteriore e Citeriore (fig. 1), il gruppo montuoso non ha un nome comprensivo e lacima più alta era denominata Monte Corno circondata da diverse anticime, così comele descrisse lo studioso e gentiluomo teramano Orazio Delfico, quando nel 1794 mu-nito di barometri misurò l’altitudine della vetta orientale. Nella stessa carta risalta il to-ponimo di Monte Elvino, oggi suddiviso nelle cime di Monte Camicia, Monte Prena,Torri di Casanova, Infornace e Brancastello. Attualmente il gruppo montuoso del Gran Sasso comprende una serie di rilievi che siestendono su un’area lunga circa sessanta chilometri, dalle Gole di Popoli al Passo del-le Capannelle. Le cime si orientano in due allineamenti sub-paralleli, le catene, ad andamento est-ovest.La catena settentrionale, possiede le quote più elevate e va da Vado di Sole al Monte

Il Gran Sasso d’Italia, una montagna mediterranea

Gabriele Fraternali - IRSPS Università d’Annunzio, Pe

21. Per la conoscenza dei significati simbolici del leone con due corpi e una testa: O. BEIGBEDER, op. cit.,pp. 180-181.

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Corvo, la meridionale inizia dal Monte Capo di Serre e termina al Monte San Franco,(fig. 2). I due allineamenti sono separati da un’ampia depressione mediana, che è divisa a suavolta, nel lato occidentale da tre quinte trasversali: Sella di Monte Aquila, Sella dei Gril-li, Forchetta della Falasca, e in quattro distinte conche, gli ex bacini glaciali di CampoImperatore, anticamente denominato Campo Radduro, Campo Pericoli (fig. 3), Vena-quaro e Valle del Chiarino. Superato Vado di Sole, si distingue una sola catena che, flettendosi assume andamento me-ridiano e termina geograficamente nei pressi delle Gole di Popoli, ma geologicamente que-sta prosegue oltre il fiume Pescara nell’allineamento del Monte Morrone, (figg. 2, 3). La catena orientale si affaccia direttamente sulle colline adriatiche, non ci sono rilievidi raccordo e possiede caratteristiche morfologiche alpine, alquanto singolari nel con-testo geografico regionale e peninsulare. La vetta principale misura 2. 912 m s. l. m., èla montagna più elevata dell’Italia peninsulare e si trova al settimo posto nei rilievi delbacino mediterraneo, in cui occupa una posizione centrale. Le montagne maggiori della penisola Balcanica (Rodopi e Olimpo) sono di poco piùelevate, supera i 3. 000 m s. l. m. anche il più alto rilievo del Libano 3. 088, mentre lacima maggiore dei Pirenei misura 3. 141 m s. l. m., e 3. 478 è la vetta principale della

Fig. 1 - Carta dell’Abruzzo Ulteriore e Citeriore 1783.- Regione Abruzzo settore Turismo, 2005.

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Sierra Nevada, nel sistema Betico della penisola Iberica. La montagna mediterranea piùalta si trova in Anatolia negli Antitauri 3. 916 m s. l. m..Nel Gran Sasso le pendenze sono elevate, le vette piramidali e le creste sono molto ae-rate; nell’Intermesoli è presente una scarpata di 550 m inclinata di 51°, la vetta Orien-tale sormonta una parete di 1. 100 m di dislivello. Il versante nord del Camicia è costi-tuito da uno sbalzo di 1300 m con inclinazioni medie di 45°. Queste morfostrutture sono il risultato del connubio tra forze tettoniche e azione gla-ciale quaternaria che ha favorito lo scavo di circhi e truogoli che si raccordano alle de-pressioni con bruschi cambiamenti di pendenza, (fig. 3). La catena orientale si trova a circa 125 chilometri dal mare Tirreno e a 45 dall’Adriatico,ma nonostante la vicinanza a questo, non possiede caratteristiche spiccatamente marittime. Le precipitazioni aumentano con la quota diminuendo la differenza che sussiste tra idue versanti, più umido il settentrionale, arido il meridionale (Demageot, 1965). Il ver-sante settentrionale è sede di precipitazioni orografiche che hanno un contenuto idriconon paragonabile ai rilievi marittimi, l’apporto dell’umidità per opera del mare è im-portante ma ridotta, ad esempio, rispetto all’Appennino ligure e alle Alpi marittime. Una conseguenza dei tenori di umidità sono i diversi valori dei gradienti termici medi

Fig. 2 - Schema geologico - strutturale (L. Adamoli, 2002).

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che sono significativamente più elevati nei versanti meridionali rispetto a quelli setten-trionali e complessivamente minori in inverno rispetto all’estate (Pecci 2004). I valori termici e il gradiente sono influenzati dal vento che favorendo l’evaporazionee la sublimazione raffredda la superficie e mantiene il manto nevoso più a lungo neltempo e per un’estensione aerale maggiore. L’isoterma 0° C, in queste condizioni, siabbassa di quota e la primavera è ritardata; il vento produce quindi un importante ef-fetto di contrasto ai valori termici tipici di queste latitudini, garantendo coperture ne-vose riscontrabili in aree sicuramente più settentrionali. Alle alte quote si registrano 230 giorni di vento l’anno, sulla sommità del Corno Gran-de 300, di cui 53 giorni con velocità superiori ai 54 km/h e valori che raggiungono 120km/h e punte di 160 km/h. (Demageot, 1965).I versanti settentrionali sono più freddi dei meridionali, circa 1°C a parità di quota, eprovocano lo spostamento in basso dei livelli bioclimatici, circa 250/300 m; a 1. 000 msi registrano 55 giorni di neve all’anno che diventano 190 a 2. 000 m e 365 sulla som-mità del Corno Grande, (limite delle nevi perenni).L’innevamento è inferiore, a parità di quota, alle Alpi Marittime francesi ma superiore al-le Alpi Cozie (Colle del Monginevro, Col d’Izoard). L’Abruzzo è una delle regioni più ne-vose d’Europa (Demageot, 1965), neve e ghiaccio permangono a lungo sia al suolo sia nelsottosuolo, arrivando sovente a quote collinari e di pianura nei versanti nord-orientali. In questo lato della catena, protetto all’interno di una conca, giace il ghiacciaio più me-ridionale d’Europa, ora ridotto e suddiviso in due frazioni, l’unico del bacino mediter-raneo, il Calderone (42°, 28’ Lat. N.). Il primato l’ha conquistato all’inizio del XX secolo, dopo che si è estinto il ghiacciaiodel Corral di Veleta nella Sierra Nevada spagnola, posto a una latitudine inferiore ai 38°.Il soleggiamento, la distribuzione delle precipitazioni e il vento rivelano l’aspetto me-diterraneo della montagna che, nel versante aquilano, ricorda i paesaggi della Tessaglia(Grecia); l’energia solare assorbita, in assenza di copertura nuvolosa, produce forti in-nalzamenti termici in primavera che, fondendo il manto nevoso, provoca l’aumento delnumero di cicli gelo-disgelo con evidenti effetti, specialmente nei versanti meridionalie nel tardo periodo estivo in quota, del disfacimento dei versanti lapidei. L’influenza mediterranea si evidenzia soprattutto nella stagione arida estiva per l’e-spandersi verso nord dell’anticiclone africano che comporta temperature minime sem-pre superiori a 0°C, in quota, e due stagioni umide, a caratteristiche diverse. Le prime precipitazioni nevose iniziano alla fine dell’estate, ma solo tra ottobre e no-vembre la neve permane al suolo e resiste fino a maggio in alta quota, e in zone protet-te fino a giugno. L’intensità e la distribuzione stagionale della quantità idrica meteorica sono responsa-bili della genesi di forme di dilavamento superficiale caratteristici, di alvei aperti, asciut-ti e anastomizzati, di una rete idrica scarsamente organizzata, di un elevato carico soli-do e di aste che terminano a delta nella piana di Campo Imperatore che funge da baci-no endoreico.

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Forme riconducibili ai debris-flow (fig. 4), si aprono nella piana e in corrispondenza deicambiamenti di pendenza nelle valli maggiori, sono in stretta relazione con litologia emorfologia dei versanti dai quali estraggono materiali. Fiumi di pietre, block-stream, si articolano da nicchie di nivazione, nevati, accumuliclastici e bacini sommitali, questi sono sede di temporanei deflussi idrici superficiali eforniscono una certa alimentazione anche a stagione inoltrata. Queste forme si attivano allo scioglimento del manto nevoso e raggiungono la loro mas-sima intensità alla fine dell’estate/inizio autunno quando i contrasti termici atmosfericiscatenano forti rovesci e i suoli sono vulnerabili all’azione dilavante delle acque corren-ti e meteoriche per l’impoverimento della vegetazione e per l’azione termoclastica. Sono forme, tipiche dei paesaggi aridi mediterranei che si osservano nei versanti meri-dionali della catena e negli altopiani, dove l’effetto conca ne esalta la formazione e ladistribuzione, consentendo l’incontro tra il regime climatico mediterraneo e alpino. Nelle aree di accumulo il flusso dei detriti è soggetto a variazioni laterali, affiancandosi adepositi dinamicamente inattivi, evidenziati dallo spessore del suolo, dalla copertura vege-tale, dallo stato di ossidazione delle superfici lapidee e dall’immobilità dei clasti, (fig. 4).Nel periodo invernale la morfogenesi trae alimento dalla dinamica della neve e nella for-

Fig. 3 - La conca glacio-carsica di Campo Pericoli e la catena occidentale con il Passo della Portel-la e Pizzo Cefalone 2. 533 m s. l. m. (meteonetwork).

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mazione di permafrost che, per i ripetuti cicli di gelo-disgelo, ha una dinamica elevata. Le correnti aeree non trovano ostacoli in questa regione dell’Italia centrale, e in mon-tagna queste aumentano di velocità e intensificano i loro effetti.

Fig. 4 - Debris flow con terminazioni a delta nel bacino endoreico di Campo Imperatore; LocalitàStazzo del Lepre, (Tonelli).

La ventilazione si concentra per lo più tra aprile e novembre con durate, per ogni sin-golo evento, che può raggiungere la settimana. La direzione favorisce gli apporti da ovest, sud-ovest 60%, poi quelli da nord il 17% einfine da est nord-est il 14%. Dai quadranti occidentali giungono le perturbazioni atlantiche, apportatrici di umiditàche sono intercettate dalle meno elevate catene appenniniche poste a ovest: Simbruinie Velino-Sirente, e quando raggiungono il Gran Sasso, hanno perso una parte dell’umi-dità iniziale. Sono venti responsabili di una forte asimmetria del manto nevoso e accu-mulano notevoli spessori sottovento, neve soffiata, e formano cornici, (fig. 6). Queste perturbazioni sono spesso anticipate dal Libeccio, vento di sud-ovest che rag-giunta la cresta sommitale scende lungo i versanti settentrionali, vento di ricaduta, e siriscalda, riducendo lo spessore della neve. Queste condizioni meteo-climatiche sono vi-sibili anche a distanza per la formazione di nubi lenticolari a ridosso del lato orientaledelle cime più elevate. Dai quadranti meridionali la montagna riceve lo Scirocco, vento arido di origine afri-cana, che innalza velocemente le temperature nelle aree sopravento, e provoca effetti

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analoghi al Libeccio, e nel seme-stre invernale altera la stabilità peril rapido e generalizzato sciogli-mento del manto nevoso, au-mentando di conseguenza il peri-colo di valanghe. Questa massa d’aria asporta e dis-tribuisce materiale fine che rica-de come precipitazione secca nel-le zone sottovento (Pecci, 2009),colorando a volte il manto nevo-so di rosa, é sabbia del Sahara checi ricorda l’aspetto cromatico del-le montagne del Sinai. La deflazione eolica riduce il man-to fino a eliminarlo completa-mente nelle aree particolarmen-te esposte, sottoponendo cime,guglie e pareti a intense smeri-gliature, (fig. 3). Nelle superfici pianeggianti delleconche e su versanti omogeneiesposti è un intrecciarsi di ripples,sastrugi (Grigio e Maschio), fig.5, e dune di neve, les congères(Bianchi et alii 2003), che al cam-biamento delle condizioni meteoclimatiche, metamorfizzano e “congelano” le strutture sedimentologiche che possono ri-velare informazioni utili per comprendere la dinamica della variazione degli spessori la-terali del manto nevoso. A differenza degli accumuli eolici osservati in Antartide, Groenlandia e nelle Svalbardqueste forme hanno vita breve e non sempre sono facilmente visibili. La montagna è esposta ai venti provenienti da settori settentrionali e orientali che dal-la porta di Trieste e dai Balcani raggiungono velocemente le pareti del Gran Sasso. Sono venti artici freddi che portano rapidi abbassamenti nelle temperature; nella sta-zione di Campo Imperatore si registrano, in queste circostanze, valori uguali e/o infe-riori a -20°C in inverno. Il soffio da nord ripristina condizioni termiche alpine in quota, e nei versanti esposti aqueste masse d’aria.

Fig. 5 - Sastrugi. Forme d’erosione eolica nivale che cau-sano variazioni orizzontali di coesione del manto nevoso,quando le depressioni si colmano di neve ventata.

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In una valanga, come in una frana, si distingue un’area di distacco, una di scorrimentoe una di accumulo; l’area di distacco tende ad assumere una forma a imbuto, ma puòessere condizionata dalla forma del versante, (fig. 7). Può avvenire anche all’interno di un canale, con pendenze elevate (30°/45°) ed è in re-lazione con le caratteristiche meccaniche e strutturali del substrato e la periodicità de-gli eventi che, incidendo il solco di scorrimento, tende ad infossarlo e farlo retrocede-re all’interno del versante. Queste zone sono situate superiormente al limite della vegetazione evoluta e caratte-rizzano morfologicamente le aree concave del rilievo attuale; insistono frequentemen-te nei circhi glaciali quaternari fig. 3, dove si sostituiscono ai ghiacciai nell’azione geo-morfica (Fraternali-2009). Aree di distacco sono pure frequenti sulle pareti rocciose, dove la neve può accumu-larsi in quantità limitate, ed è per questo motivo, soggetta a svasamenti sommitali. Pendii morfologicamente meno evoluti con pendenze elevate e superfici omogenee, so-no aree di distacco che, quando sono prossime, alimentano un unico corpo valanghivoamplificandone gli effetti, (fig. 11).

Fig. 6 - Cornici nivali nei versanti sottovento, in secondo piano il M. Camicia 2. 564 m s. l. m. (Cetemps).

Geomorfologia nivale

Il trasporto periodico e sistematico di neve e ghiaccio a quote inferiori in aree più sta-bili a cui si associa del detrito, provoca una ben delineata morfologia nei versanti inte-ressati, che ha in comune con quella glaciale e periglaciale l’ambiente morfoclimatico,mentre con quella gravitativa la dinamica del trasporto.

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La zona di scorrimento si artico-la alla base della struttura a im-buto, in sezione longitudinale, halunghezza variabile, la base con-cava, in sezione trasversale, è do-vuta alla maggior erosione nellaparte centrale rispetto alle aree la-terali, come nel flusso gravitati-vo, e l’andamento si adatta allamorfologia del versante per le va-langhe radenti ed è tendenzial-mente rettilineo o leggermente si-nuoso. Nelle valanghe nubifor-mi, prevalendo la componente ae-rea, il movimento è indipenden-te dalla morfologia del versanteche non riesce a produrre ostacolie la velocità di scorrimento è mol-to elevata. Quando il flusso del-la neve è abbondante e s’intro-duce nelle aree del bosco, ri-mangono i segni dell’abbattimentounidirezionale e nastriforme del-la fustaia (fig. 10,11) che tendead assumere un profilo superio-re orizzontale digitiforme lungoil versante, in cui la faggeta e learee arbustive non soggette a valanghe e/o deflussi gravitativi, si innalzano di quota. La morfologia del substrato, in questi casi, si presenta generalmente convessa (semi-coni, semicilindri) e/o si trova su linee di spartiacque gravitativi fig. 11, oppure è a val-le di aree a basso rischio valanghivo. La causa della penetrazione del flusso di neve e ghiaccio nel bosco è da ricondurre al-le particolari condizioni meteo-climatiche, alla capacità della nicchia di distacco, allapendenza della zona di scorrimento ed alla coalescenza di diverse aree di deflusso chene amplifica la portata (fig. 11). Nel versante occidentale del Monte Siella 2. 027 m s. l. m, nella piana di Fonte Vetica1. 632 m s. l. m, sono visibili alcune di queste tracce che risultano dalla coalescenza dipiù nicchie di distacco che si sono attivate a marzo 2005, le quali hanno divelto e tra-sportato fusti di abeti che, dalle dimensioni, avevano presumibilmente trenta anni di età.Il luogo in cui fu effettuato il rimboschimento presenta le caratteristiche geomorfolo-giche di un area valanghiva, come è possibile verificare dalle immagini del versante ef-

Fig. 7 - Valanga a debole coesione. Direttissima per il Cor-no Grande: si distingue la morfologia dell’area di distaccoe della zona di scorrimento, (meteonetwork).

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fettuate prima del 2005. Le valanghe di maggiori dimensioni, che per loro natura rag-giungono le quote inferiori, tendono a ripetersi negli stessi luoghi con frequenze chehanno un periodo pluridecennale. I canali di deflusso hanno morfologie peculiari rilevabili geomorfologicamente e per-mettono di valutarne la vulnerabilità e la sua estensione alle quote inferiori. Nel periodo estivo, in questi solchi converge il movimento di pietrisco e detriti, resi in-stabili dall’azione criogenica e mobilitati dalla gravità e dal dilavamento superficiale. L’azione è particolarmente intensa durante i rovesci violenti e i clasti selezionandosidurante il percorso si accumulano a valle sedimentandosi sui coni di origine nivali,(Campo Pericoli, Campo Imperatore...).Si formano in questo modo dei conoidi poligenici, particolarmente sviluppati nella si-nistra idrografica della Val Maone, della Valle del Rio Arno e nelle pendici nord dellaVetta Settentrionale d’Intermesoli, (fig. 9). La zona di accumulo della neve in una valanga, è caratterizzata da una pendenza infe-riore che causa il rallentamento e/o l’arresto della massa in movimento, dove l’energiadella massa nevosa si riduce notevolmente fino ad azzerarsi. Un deflusso di neve in movimento si muove anche su pendii di 18° di pendenza (McClung-Schaerer, 1996).

Fig. 8 - Nevato di Fonte Rionne, 2. 190 m s. l. m. (settembre 2009).

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Il deposito di considerevoli volu-mi di neve, e il relativo costipa-mento, riducono la porosità, fa-vorendo l’aggregazione e la for-mazione di nevati che, per formee dimensioni, sono analoghi a pic-coli ghiacciai, alla base di questi,in zona frontale è possibile os-servare la formazione di ghiacciocompatto stagionale, (fig. 8). I nevati maggiori occupano par-ticolari zone depresse uno è pros-simo al limite superiore della ve-getazione evoluta (Fondo dellaSalsa), e distribuiscono e con-servano notevoli volumi di ne-ve e ghiaccio. Il fronte dell’accumulo ha unapendenza elevata poiché l’an-golo di attrito interno della ne-ve, a queste quote dopo il roto-lamento e successivo mescola-mento di strati a diverso gradodi metamorfismo, permette unastabilità maggiore. Le masse nevose che si accumu-lano a valle sono pertanto eterogenee nella struttura e composizione e inglobano detritirocciosi, e una parte organica in taluni casi rilevante, visibile nel tardo periodo estivo perla copertura che conferiscono alla superficie nevosa. Massi anche di un metro di diametro, rimangono inglobati e/o sospesi sulla coltre ne-vosa e solo nella fase di ablazione (fusione) si compattano, muovendosi e generandoinstabilità nella zona di accumulo. La superficie prospiciente al fronte di accumulo tende ad abbassarsi formando depres-sioni circondate da accumuli a festoni e a semiluna: le nivomorene (D’Alessandro, Pec-ci... 2003-2004). Nelle pendenze maggiori e dove avviene un’evidente variazione di ac-clività, gli accumuli detritici assumono la forma a ventaglio, e a conoide quando la pen-denza è elevata (fig. 9).

Fig. 9 - Conoide poligenico, Valle del Rio Arno.

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Conclusioni

Le morfostrutture valanghive attiveoccupano ora superfici ridotte e si tro-vano a quote superiori, se paragona-te a quelle non attive o relitte fig. 10,è lo stesso fenomeno che ha ridotto etraslato le forme glaciali: l’innalza-mento dell’isoterma 0 C° ha portatoil livello delle nevi perenni nel GranSasso a superare i 3000 m di quota,(Fraternali-2009).L’accumulo nevoso che si determinain aree protette da particolari condizionimorfologiche è causa di formazione emantenimento di glacio-nevati e neva-ti eccezionalmente sviluppati in di-mensioni e numero in questo gruppomontuoso. La diffusione di queste forme è co-munque insignificante rispetto ai ghiac-ciai rigenerati e alle relative nivomore-ne relitte che troviamo alle quote infe-riori, a ridosso di salti morfologici (Val-le delle Cornacchie). Questi ci ricordano gli accumuli gravi-tativi di ghiaccio e detriti avvenuti nel-le passate glaciazioni. Le nivomorene ei conoidi detritici valanghivi durante l’a-blazione estiva perdono il cemento dineve interno, cui segue la diminuzionedel valore di attrito interno di questi cla-sti che, nei versanti ripidi, rotolano a val-le come nel trasporto gravitativo. Gli accumuli di neve valanghiva alle quote inferiori prolungano i tempi di scioglimen-to e favoriscono l’alimentazione idrica superficiale e profonda nei mesi estivi. In una montagna carsica che si trova al di sotto del livello delle nevi perenni questa ali-mentazione risulta particolarmente importante e necessaria, dato che nei mesi estivil’apporto idrico meteorico a questa latitudine è modesto se non del tutto scarso. Il Gran Sasso è a rischio anche per valanghe sismo-genetiche, fenomeno che ha favo-rito il distacco della coltre nevosa nell’aprile 2009 di tre flussi paralleli nel versante me-ridionale della Cresta delle Malecoste a nord dell’abitato di Assergi - AQ, fig. 11.

Fig. 10 - Pizzo Intermesoli, Vetta settentrionale. Nicchia di distacco nell’ area prativa, e antico cana-le di scorrimento nel bosco parzialmente rimargina-to dalla vegetazione. In alto a sinistra in evidenza nic-chia di distacco su roccia e area di accumulo di va-langhe recenti nel bordo settentrionale del bosco.

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L’evento del 6 aprile 2009 ha causato crolli e caduta di neve nel versante orientale delCorno Piccolo e, in concomitanza con le scosse maggiori si sono verificati cedimentidel manto nevoso nell’area di Prati di Tivo. I versanti orientali sono soggetti, per la loro morfologia, a svasamenti e crolli nivali dal-le pareti e per le particolari condizioni termiche, di umidità e delle precipitazioni allaformazione di valanghe di neve a scarsa coesione. Le forme generate dal trasporto valanghivo, associate agli ambienti crio-nivali, hannoun’evoluzione rapida nell’Appennino Centrale in particolare nella catena del Gran Sas-so d’Italia. La latitudine e l’esposizione dei suoi versanti sottopongono questa montagna a nume-rosi e rapidi sbalzi termici che incidono sul metamorfismo della neve e sulla variazio-ne altimetrica dell’isoterma 0° C. Una delle conseguenze dell’innalzamento delle isoterme stagionali è la fusione del ghiac-cio presente nelle fratture di pareti rocciose in alta quota e delle condizioni di instabili-tà e pericolo di crolli che ne deriva, (frana versante nord-est vetta orientale, 23 agosto2006). Nelle aree di accumulo valanghivo si depositano ciottoli e brecce che lo scio-glimento della matrice nevosa mobilita (Val Maone).Nel semestre estivo, alla dinamica valanghiva si sostituiscono il dilavamento meteori-co e il trasporto gravitativo di ciottoli e brecce resi vulnerabili a questi agenti poichénon più protetti e legati dal ghiaccio e dalla neve.

Fig. 11 - Area valanghiva: Le Malecoste. Canali valanghivi e di distacco, deflusso e accumulo di pie-trisco. Analisi geomorfologica satellitare. (Fraternali-2009).

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Infinite volte il cammino ci porta attraverso la libera natu-ra e percepiamo, con i più diversi gradi di attenzione, albe-ri e acque, prati e campi di grano, colline e case, e tutti i mil-le cambiamenti della luce e delle nuvole - ma per il fatto cheosserviamo questi singoli particolari o anche vediamo in-sieme questo o quello di loro, non siamo ancora convinti divedere un «paesaggio». Anzi un tale singolo contenuto delcampo visivo non può continuare ad avvincere i nostri sen-si. La nostra coscienza ha bisogno di una nuova totalità, uni-taria, che superi gli elementi, senza essere legata ai loro si-gnificati particolari ed essere meccanicamente composta daessi - questo soltanto è il paesaggio. [GEORG SIMMEL, Saggi sul paesaggio, p. 53]

1. PREMESSA

Queste brevi riflessioni che accompagnano la mostra fotografica L’Abruzzo ne-gli scatti e nello sguardo di Mario Fondi rispondono a due precise esigenze. Laprima, piuttosto evidente, si connette strettamente e tecnicamente, a quel processodi selezione delle immagini e di costruzione degli itinerari possibili il cui esitoultimo è appunto la messa in posa dell’Abruzzo. La seconda, più ampiamente,cerca di riconnettere i numerosi fili che il lavoro di ricerca su fotografia e geo-grafia, e in particolare sulla storia del geografo Mario Fondi, ha in qualche mo-do innescato. In questo senso, il contributo che qui viene presentato, si compone essenzialmentedi due parti. Nella prima si opera il tentativo di far dialogare, come realmente èaccaduto nelle fasi di preliminari di costruzione della mostra, tre elementi che cisono apparsi centrali e impliciti nel discorso tra noi e soprattutto tra noi e lo stes-so Autore. Si tratta in buona sostanza delle tre parole chiave di questa mostra:paesaggio, memoria e rappresentazione che hanno trovato una loro collocazioneall’interno del lavoro preliminare. Si tratta evidentemente di termini e concettiche trascinano con sé implicazioni molto più ampie e articolate di quanto si pos-sa realmente fare nel contesto di un breve contributo e che tuttavia ci è parso in-dispensabile evidenziare. Nella seconda parte si tracciano invece le linee princi-pali della struttura portante della mostra. In particolare sono abbozzate le ragio-ni della stretta relazione tra geografia, fotografia e memoria nell’Autore e le se-zioni all’interno delle quali il vasto materiale fotografico è stato collocato. Un ringraziamento particolare e un abbraccio affettuoso è per il prof. Mario Fondi peraverci accordato il suo tempo e per averci raccontato una parte del suo sentiero.

Tra geografia e fotografia. Mario Fondi e l’Abruzzo

Marco Maggioli, Nadia Fusco*

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Conoidi di detrito poligenici particolarmente sviluppati arealmente raggiungono quoteconsiderevolmente elevate lungo i versanti della catena nel lato settentrionale testimo-niando l’intensità e la frequenza di questi fenomeni. I debris flow (La Canala, La For-naca...)nel versante orientale di Campo Imperatore, si formano quando la matrice si ar-ricchisce di materiali particolarmente fini come le miloniti che da monte Aquila attra-verso Vado di Corno risalgono il versante occidentale di monte Brancastello fino al Pre-na, oppure come le argille bituminose che dal Prena raggiungono il Camicia attraversoVado di Ferruccio (Adamoli-2002). L’attività valanghiva è in relazione con le condizioni meteo-climatiche e le caratteristi-che geomorfologiche del rilievo, e modifica i versanti creando morfostrutture che nelsemestre estivo converge dilavamento e trasporto di massa. Anche quest’ultime morfologie sono in relazione con le condizioni meteo-climatiche ela tipologia di rilievo. Le due azioni sono quindi connesse e interdipendenti e, quandosono giustapposte, scorrono all’interno degli stessi canali di deflusso e alimentano glistessi conoidi, concorrendo ad amplificarne gli effetti, (fig. 9).

* I contenuti del presente lavoro sono frutto di un lavoro comune. Tuttavia l’elaborazione del paragrafi 5 e 6 èda attribuire a Nadia Fusco, mentre quella dei paragrafi 1, 2, 3, 4 e 7 a Marco Maggioli.

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2. MEMORIA E PAESAGGIO

In un recente volume Jean Marc Besse sottolinea come l’essenza stessa del paesag-gio e le modalità di rapportarsi ad esso consista nella narrazione di qualcosa di rile-vante per la comprensione dell’essere umano. Una delle dimensioni caratterizzantiil paesaggio, dice il geografo francese, risiede infatti proprio nel rapporto intimo chel’uomo instaura con il visibile, oltre dunque la semplice rappresentazione geome-trica e quantitativa dello spazio: «Il paesaggio esprime innanzitutto la restrizione delmondo visibile al campo visuale che si apre a partire da questa ripartizione primor-diale» (Besse, 2008, p. VIII) e ancora «vi è innanzitutto questa parte invisibile del-lo spazio, che confina e sconfina costantemente con il visibile, e ricorda quanto ilpaesaggio, al tempo stesso delimiti un mondo e lasci intuire ai suoi margini la pre-senza di una vita tumultuosa» (ibid., p. IX).Per Besse, che fa riferimento qui all’ascesa di Petrarca al Monte Ventoso, l’esperien-za del e sul paesaggio rappresenta l’occasione per un lavoro sulla memoria che pren-de la forma della confessione e, in un certo senso, dell’esame di coscienza. Esperienza, questa della memoria, che in qualche modo, ricorda Simmel (2006), puòessere anche interpretata come vero e proprio atto crudele, una vera e propria “vio-lenza” che il paesaggio esercita sul soggetto. L’ascensione alla montagna si risolve ineffetti in una disillusione. Cosa scopre Petrarca nel momento in cui raggiunge la vet-ta del Ventoso? «Essenzialmente lo spazio, ma nella forma più crudele che quest’ulti-mo possa darsi, cioè sotto forma del lontano inespugnabile, sotto l’apparenza della di-stanza insuperabile, di un intervallo che, tanto sul piano geografico quanto su quellotemporale, non può essere colmato, ma solo percorso dallo sguardo e dalla riflessionedella coscienza. La separazione si vive su entrambi i piani: quello, topografico, del quie del laggiù, e quello, cronologico del presente e del passato» (ibid, p. 7). È la distan-za tra sé e il mondo, scoperta accompagnata da inquietudine e tormento. La memoria quindi come atto costitutivo degli individui e dei gruppi sociali, ma an-che la memoria che si colloca negli oggetti anche loro spesso avvolti dal lavoro del-la memoria che continuamente ne cambia il senso e la percezione. E ancora la me-moria dell’abitare, attenta fin dall’origine alle stesse configurazioni geologiche as-sunte come modello dalle collettività in perfetta sintonia con l’ambiente circostan-te. «Memorie dei luoghi che si rimescolano raccontando, attraverso tracciati invisi-bili, le storie di uomini e del loro lavoro o le comunità spezzate del disordine ano-nimo postindustriale» (Tarpino, 2008, p. 6). Questo tipo di lettura dei paesaggi, chesi fanno tali anche in relazione al ricordo, risulta - anche sulla scia di quanto LuisaBonesio citando il Tramonto dell’Occidente di Spengler suggerisce - effettivamen-te e «impietosamente efficace nella diagnosi dell’attualità e dello scempio (o anchesolo dell’incuria) riservato al patrimonio culturale che proviene dal passato, tratta-to o come inciampo e fastidioso fardello, oppure come morta congerie di oggetti,edifici e tradizioni la cui estraneità consente di archiviarli e magari spettacolarizzarlia fini economici» (Bonesio, 2007, p. 192)1.

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3. RAPPRESENTARE PER FRAMMENTI

Per altri versi, ci ricorda Martin Heidegger, uno dei tratti cruciali della modernitàconsiste nella riduzione del mondo ad immagine. È per questa via che l’essenza in-tima della ricerca consiste nella rappresentazione, nell’anticipazione cioè mentaledelle condizioni date in presenza delle quali qualcosa può rivelarsi per quello cheeffettivamente è. La ’cosa’ sta insomma come noi la vediamo. Per altri versi, e sen-za allontanarci troppo da quanto ci proponiamo in queste brevi note, ci appare al-trettanto evidente come questa riduzione ad immagine del mondo sia esplicita, oltreche nella fotografia, nella tendenza che la stessa carta geografica - la raffigurazionein piano della superficie sferica della terra - ripete per i mezzi di rappresentazionedella globalizzazione il processo di conquista del mondo (Slodertijk, 2006; Farinel-li, 2003). I planisferi mettono in secondo piano i globi, lo stesso Atlante non si pre-senta più come colui che sostiene il mondo, ma è comodamente disponibile e con-sultabile come libro. Se nel Rinascimento la fruizione e l’interesse delle classi me-die per le riproduzioni topografiche e geografiche ricoprirà un ruolo centrale sul mo-do di vedere il mondo contribuendo così a comunicare conoscenze - reali o meno -su luoghi ed eventi nuovi e a volte strani (Woodward, 2002) così la nascita e la di-vulgazione della fotografia a partire dalla prima metà dell’Ottocento avrà un ruolonon secondario nel disvelamento dell’alterità e nel progressivo ’annullamento’ del-le distanze. In questo senso le fotografie quindi, così come le cartografie, cercano di assicurareun qualche possesso dello spazio, un suo controllo e un suo dominio. Fruizione sog-gettiva e individuale dei luoghi o di porzioni di essi, mezzi, strumenti, per la for-mazione delle coscienze e per l’orientamento dell’opinione pubblica. Entrambe tut-tavia, cartografia e fotografia, impossibilitate a rappresentare completamente la real-tà ambientale e storico-culturale che raffigurano, ma che possono coglierne sola-mente frammenti e porzioni, punti di vista e scelte: «qualsiasi operazione di carto-grafia e di fotografia non può dare una riproduzione globale dei patrimoni o am-bientali o culturali di una data area, ma implica soluzioni e scelte fra le cose da met-tere a fuoco e cose da lasciare in ombra» (Gambi 1974, p. 271). Il problema, nel caso della fotografia, molto più che nella cartografia risiede, proba-bilmente, proprio in questa serie di “scelte”. Nella riduzione, ad un insieme di tipi ’spet-tacolari’ i soggetti rappresentati, un rito, un ritratto, un paesaggio, un borgo, costitui-scono l’occasione irrinunciabile e suggestiva, per un discorso anche su se stessi. Lafotografia diventa ed è il risultato inevitabile di una catena continua di scelte, razio-nali o meno, operate dai fotografi - e dai cartografi? - che come sosteneva Roland Bar-thes altro non sono che i testimoni della propria soggettività (Barthes, 1985)2.

1. Sul tema del rapporto tra paesaggio e processi identitari si veda anche quanto presente in Bonesio, 2001 e 2002e Raffestin, 2005. 2. Senza per questo entrare nel merito di osservazioni filosofiche sulla fotografia che non ci competono diretta-mente vanno tuttavia necessariamente ricordati alcuni punti fondamentali delle notissime tesi di Barthes: 1. la

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4. GEOGRAFIA E FOTOGRAFIA

Senza andare troppo lontano il rapporto tra fotografia e geografia risulta essere, giàal suo debutto, concretamente conflittuale3. Alexander von Humbolt ad esempio fariferimento al mezzo fotografico sia nel Kosmos (Farinelli, 1980) sia in qualità dimembro della commissione incaricata di verificare l’autenticità della scoperta di Da-guerre. Si tratta, nell’ipotesi humboldtiana, di una tecnica, di un ausilio della me-moria, di un mezzo per la registrazione della realtà, «non certo un linguaggio in gra-do di riuscire ad essere, al pari di quello pittorico, intermediario delle impressionisuscitate dalla natura e al tempo stesso dalle conoscenze sulle sue leggi» (Rossetto,2004, p. 881).Questo tipo di conflittualità sembra esprimersi soprattutto in relazione all’attribu-zione di significati e prospettive da conferire proprio al paesaggio. Per dirla con Co-sgrove, che si riferisce all’avvento del capitalismo industriale in Gran Bretagna: «Ladivisione intellettuale tra arte e scienze e l’innovazione tecnologica della fotografiasignificò la morte del paesaggio come era stato tradizionalmente concepito e comesoggetto dell’interesse culturale permanente. In questo periodo la scienza della geo-grafia iniziò ad appropriarsi del paesaggio come sua area particolare di interessescientifico mentre nelle fotografie e sui belvedere turistici il paesaggio assunse leproprietà di una merce, le cui connessioni con i mezzi della sua produzione eranouna volta di più mistificate» (Cosgrove 1990, p. 31). Cosgrove inserisce nel volume del 1990 un capitolo La macchina fotografica e ilpaesaggio (pp. 235-237) nel quale indicando come «la macchina fotografica abbiagiocato un ruolo importante nel declino della pittura figurativa» afferma che «la fo-tografia aveva un’integrazione più stretta con il paesaggio, un’integrazione che, non-ostante tutta la sfida della pittura, per alcuni aspetti dava luogo al modo tradiziona-le di vedere il paesaggio. All’epoca essa diede allo stesso tempo al soggetto indivi-duale la possibilità di un controllo visivo sulla realtà esterna - consentendogli di re-gistrarla per consumo puramente personale, soggettivo - attribuendo tuttavia al-l’immagine fotografica quella oggettività, quella precisione scientifica nel riprodurreil mondo che i paesaggisti dei primi anni del diciannovesimo secolo avevano cerca-to così ardentemente» (Cosgrove 1990, p. 236)4. Questa differenziazione tra la fruizione collettiva e individuale dello spazio ci ap-pare come lo scarto fondamentale che l’immagine fotografica, così come la carto-grafia, introduce nelle dinamiche sociali moderne.

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5. MARIO FONDI: TRA GEOGRAFIA, FOTOGRAFIA E MEMORIA

Ogni paesaggio costituisce dunque, nella coscienza collettiva e nella memoria indi-viduale, un vero e proprio museo immaginario sedimentato, attraverso l’esperienza,nelle molteplici strategie dello sguardo, nelle narrazioni, nelle descrizioni e nelleprogettualità (Turri, 2002 e 2003). Il paesaggio traduce così, per dirla con Turco,«iconicamente il processo di territorializzazione, o alcuni suoi segmenti» (Turco,2002, p. 44). Immagini e punti di vista diversi si accumulano e si sovrappongonoentrando a far parte della configurazione stessa dei paesaggi, proprio come perso-naggi di un testo letterario. Alla fotografia, e ai paesaggi, si accompagna al tempo stesso, un vissuto, un’espe-rienza individuale, un flusso di memorie. La fotografia suscita in ciascuno emozio-ni diverse, ma si offre a tutti, e per tutti, allo stesso modo quale richiamo a un ’pae-saggio reale’, mettendone in luce le componenti e gli elementi di connessione qua-li può cogliere lo sguardo. La mostra che qui si presenta è stata pensata proprio in questa ottica di molteplicescambio tra vissuto e descrizione, tra memoria e rappresentazione fotografica. Lamessa appunto dell’itinerario, la scelta delle immagini ’da far vedere’, l’allestimen-to stesso sono state l’occasione non solo per illustrare il percorso professionale eumano di Mario Fondi, un geografo che ha espresso in maniera del tutto originaleuno dei punti di vista possibili nelle vicende della disciplina geografica a cavallo tragli anni Cinquanta e Novanta del secolo scorso, ma anche per introdurre la praticamemoriale come una delle fonti possibili della narrazione geografica. Il valore scientifico di Fondi non lo si scopre certamente con la mostra. Come è bennoto la produzione scientifica dell’autore si è sedimentata nel corso del tempo an-che grazie alle ricerche sul terreno e ha trovato espressione in decine di scritti chespaziano da quelli sulla casa rurale, e più in generale sull’insediamento in regionirurali, alle indagini sui centri urbani e su intere regioni e subregioni, particolarmen-te meridionali (Campania, Molise e soprattutto Abruzzo), con una costante atten-zione al dato fisiografico come fondamento degli esiti dell’antropizzazione. Testi-monianza preziosa della peculiarità di Fondi è il suo essere, anche fotografo5.

fotografia è un messaggio senza codice; 2. il contenuto del messaggio fotografico è il reale preso alla lettera.La funzione documentaria si impone senz’altro, per il senso comune, non certo perché l’immagine viene scam-biata con la realtà ma perché l’immagine fotografica si presenta come l’analogo perfetto. Perfezione analogicache, pur comportando una riduzione (di proporzione, prospettiva e colore), non è mai una trasformazione (Bar-thes 1985, p. 7).3. Sul rapporto tra geografia e fotografia l’apparato bibliografico inizia ad essere del tutto rilevante. Uno dei pri-mi riferimenti al tema può essere rintracciato, per la geografia italiana, in Sensini, 1908. Per una trattazione piùsistematica e per alcuni versi più tecnica si veda Bergami, Bettanini, 1975. L’uso della fotografia in chiave di-

dattica è stato oggetto di numerosi interventi. Un contributo abbastanza recente in questa direzione è presentein Schwartz, 2002. Per un quadro d’insieme cfr. infine Rossetto, 2004. 4. Il rapporto tra rappresentazione pittorica, fotografica e geografia, soprattutto in riferimento all’oggetto del pae-saggio, è stato oggetto di numerosissime analisi. In questa sede si può ricordare, tra gli altri in Claval, 1976.L’autore, riprendendo qui una tesi che ci appare al centro di molte riflessioni da von Humboldt in poi sostienead esempio che: «la fedeltà meccanica di una fotografia è incapace di rendere le sfumature che il vero artista èin grado di cogliere» (p. 86). E ancora più avanti immagine fotografica e immagine pittorica rappresentano lametafora necessaria per un discorso sulla regione geografica : «ciò che un pittore traduce in un ritratto e chespesso sfugge alla fotografia è l’anima, quei tratti psicologici della personalità che non si possono acquisire inun istante, ma che solamente la vita che è trascorsa tradisce. Nello stesso modo, la comprensione di una regio-ne non può essere completa, se non se ne conosce la storia». Spunti molto suggestivi si possono inoltre rin-tracciare in Turco, 2002 e per alcuni versi anche in Bonollo, 2000. 5. Per un quadro completo dell’attività scientifica e delle opere di Mario Fondi cfr. Mautone, 1997.

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La passione per la fotografia, sviluppatasi fin da giovanissimo, ha trovato modo diconiugarsi con le sue esigenze professionali che nel caso dell’Abruzzo si concretiz-zano nella realizzazione della monografia regionale nella nota collana Le regionid’Italia è stata, tra l’altro, lo stimolo per conoscerne il territorio e per fotografarlo.Ma vi è qualcosa in più forse in quello che Renato Biasutti, con cui Fondi si laureanel 1951 a Firenze, afferma ne Il paesaggio terrestre (1947): «Vi è il paesaggio sen-sibile o visivo, costituito da ciò che l’occhio può abbracciare in un giro d’orizzonteo, se si vuole, percettibile con tutti i sensi; un paesaggio che può essere riprodottoda una fotografia (meglio se a colori) o dal quadro di un pittore, o dalla descrizione,breve o minuta, di uno scrittore. Quest’ultimo può già introdurvi qualche elementoche attenui l’immobilità dell’immagine, perché il paesaggio terrestre è sempre ani-mato, non foss’altro per effetto delle oscillazioni luminose termiche alle quali è espo-sta ogni parte della superficie della terra. La cinematografia perciò, più di ogni im-magine fissa, è giunta a rappresentare il mezzo più adatto a rendere con fedeltà, an-che nel loro dinamismo, gran parte degli elementi di questo paesaggio visibile» (p.1). E lo stesso Fondi ricorda nell’intervista realizzata in occasione della mostra co-me «fu Biasutti che iniziò a farmi vedere la casa rurale come elemento costituenteil paesaggio e che riflette un’economia».

6. LE SEZIONI DELLA MOSTRA

Gli itinerari che la mostra propone sono rintracciabili negli stessi scritti dell’autore.Si fa riferimento, in particolare, a due volumi. Nel primo caso si tratta del già ricor-dato dodicesimo volume della Collana Le Regioni d’Italia dedicato all’Abruzzo eMolise curato da Mario Fondi. Il secondo testo, più divulgativo, è la Guida d’Italiadell’editore Fabbri del 1986 che contiene anch’esso, fotografie e testi dell’aurore re-lativamente all’Appennino abruzzese e alla Marsica. Le sezioni sono le seguenti: tracce di paesaggi essenziali: tra memoria storica e natura. In questa sezione sonoesposte immagini che si riferiscono ai più rilevanti fulcri di polarizzazione umanaed economica dell’Abruzzo interno (conca del Fucino, aquilana e peligna). Qui sipossono rintracciare diverse conformazioni paesaggistiche dove l’abbondanza del-le acque e la struttura morfologica ha garantito protezione naturale e opportunità disfruttamento dei suoli più fertili. Ne è derivata, come è logico, una diversificata con-formazione paesistica come nel caso del paesaggio delle bonifiche della conca delFucino, dell’organizzazione policolturale tradizionale nella conca aquilana, della va-rietà dei paesaggi agrari della conca peligna. Ciascuna di queste conche costituisceun riferimento essenziale per la suddivisione del territorio abruzzese in unità regio-nali minori. Paesaggi urbano industriali e orizzonti marini. In questa sezione sono esposte im-magini che si riferiscono sostanzialmente a due macro paesaggi. Il primo La regio-ne urbano-industriale di Chieti e Pescara e la val Pescara definita già storicamen-te come ’porta dell’Abruzzo’, la seconda Il subappennino Frentano ampia fascia

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collinare, prevalentemente argillosa, che presenta diversificati paesaggi agrari, daiseminativi arborati ai vigneti, dagli orti agli oliveti alle vaste plaghe aperte e colti-vate a cereali.

7. CONCLUSIONI

La selezione degli scatti che Fondi ha realizzato per fissare, nella sua e nella nostramemoria, i paesaggi della varietà regionale abruzzese sono documenti di indubbiopregio, complessità e originalità; essi rappresentano un ideale “percorso”, ancorauna volta individuale e, forse anche generazionale, utile per una ricostruzione dellamemoria storica e dell’identità nell’Abruzzo attuale. I percorsi, gli itinerari, le sollecitazioni presenti in queste immagini costituiscono inqualche modo l’occasione per riflettere attorno a tematiche ancora oggi pienamen-te al centro dell’attenzione tanto della pratica pianificatoria quanto di più ampie que-stioni come la sostenibilità, la valorizzazione dei patrimoni materiali e immaterialiregionali, il turismo nelle aree interne, le forme del paesaggio, i processi di valoriz-zazione e di sviluppo delle aree montane. Lo sguardo di Fondi ci racconta le vicende stesse della natura, degli uomini che que-sti paesaggi hanno costruito materialmente e vissuto appassionatamente, proiettan-dovi incessantemente il loro senso del vivere e dell’agire. Ne deriva un invito a guar-dare, a ’leggere’ e ad interpretare il paesaggio, un esercizio che, nel paradosso del-la modernità, dove le immagini scorrono continue ma non si ’fissano’, ci appare pro-fondo ed essenziale. Da un altro punto di vista, quella cioè della concreta esperienza di ricerca che si èaccompagnata alla scelta e alla selezione delle immagini, si è resa possibile proprioa partire dalla conoscenza diretta con l’autore e ha riguardato non solo l’analisi del-le diverse articolazioni e forme del paesaggio, gli usi del territorio, e gli itinerari pos-sibili (turistici o più ampiamente geografici, storici e antropologici) ma anche, e inmaniera forse ancora più intensa, una ricerca sulle fonti possibili, e ancora solo par-zialmente esplorate, dell’indagine geografica come ad esempio la memoria storicae il racconto orale da un lato e l’apporto degli strumenti audiovisivi dall’altro. Fotografie che hanno l’intenzione di proporsi quali proiezioni dell’organizzazioneterritoriale ma che hanno la consapevolezza di essere solo una condizione episodi-ca, momentanea. Proprio come episodici e ’momentanei’ sono i modi di presentar-si del paesaggio. Mostra plurale dunque così come plurale ci appare l’Abruzzo in cui si intersecano edialogano linguaggi e generazioni, narrazioni e carta geografica, fotografia e audio-visivo, storia e geografia.

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PremessaUna montagna, così come la vediamo oggi con le sue rocce ed i suoi paesaggi geo-morfologici, è generalmente il risultato di una lunga e complessa storia geologica, lecui tappe fondamentali sono essenzialmente tre: la formazione delle rocce, il loro sol-levamento tettonico e quindi la “nascita” vera e propria della montagna, il modella-mento recente. Qui di seguito, dopo un breve accenno ai principali lineamenti orografici della catenadel Gran Sasso d’Italia, sarà prima descritta la successione stratigrafica delle varie for-mazioni geologiche affioranti, quindi sarà esaminata la complessa struttura tettonicadella catena stessa. L’analisi e l’interpretazione dei dati stratigrafici e tettonici consen-tiranno, quindi, la ricostruzione dell’affascinante storia geologica di questa montagna. Sempre in riferimento al massiccio del Gran Sasso d’Italia, saranno infine brevementeesaminate tematiche geologico-ambientali di particolare rilevanza sociale quali: le ri-sorse idriche sotterranee del grande acquifero carsico, che rappresenta la più importan-te fonte di alimentazione idropotabile dell’intero Abruzzo, i fenomeni franosi, che co-stituiscono un notevole rischio geologico per gran parte del territorio montuoso, i prin-cipali sistemi di faglie “attive”, storicamente “silenti”, ma potenzialmente in grado digenerare terremoti con epicentro locale anche di elevata magnitudo.

Lineamenti orograficiIl massiccio del Gran Sasso d’Italia domina in termini percettivi l’intero Abruzzo e puòessere suddiviso, per orientamento e caratteri morfologici, in due parti principali. Laprima si estende per quasi 40 km dall’alta Valle del F. Vomano alla Valle del F. Tavo ecomprende aspri ed accidentati rilievi montuosi allineati in direzione circa E-W; la se-conda parte, caratterizzata da rilievi meno accentuati, assume progressivamente un an-damento N-S e si estende per circa 20 km dall’alta Valle del F. Tavo fino alle Gole diPopoli incise dall’Aterno-Pescara. Il primo settore, più imponente e con caratteristiche geoambientali prettamente “alpi-ne”, è a sua volta suddiviso in due catene montuose allineate secondo due direttrici sub-parallele, separate da una profonda ed ampia depressione morfologica. La catena settentrionale, più vicina al mare, comprende le cime più elevate del GranSasso (M. Corvo, m 2623; Pizzo d’Intermesoli, m 2635; Corno Grande, m 2912; Cor-no Piccolo, m 2655; M. Aquila, m 2495; M. Brancastello, m 2385; M. Prena, m 2561;M. Camicia, m 2564; M. Tremoggia, m 2350; M. Siella, m 2027) ed incombe con pa-reti ripide, a tratti verticali e di notevole altezza e spettacolarità, sulla fascia collinareteramana caratterizzata da morfologie più dolci. La catena meridionale, più interna, raggiunge altitudini meno elevate (M. S. Franco, m

l Gran Sasso d’Italia: dal caldo mare tropicale alla nascita della catena montuosa

Leo Adamoli

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BIBLIOGRAFIA

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Nei settori centrale ed occidentaledella catena del Gran Sasso d’Italia(Corno Grande, M. Aquila, M. Ro-fano, ecc.), è possibile inoltre distin-guere anche sequenze stratigrafiche,essenzialmente giurassiche, di spes-sore notevolmente ridotto, lacunosee/o condensate, costituite soprattut-to da calcari nodulari e calcari emi-pelagici, depositatesi su estesi ed ar-ticolati “alti strutturali” (seamounts),cioè aree variamente rilevate rispet-to al resto del fondale del bacino ma-rino, in parte forse emersi ed in par-te sommersi. Ad iniziare dalle formazioni geolo-giche più antiche, i caratteri litologi-ci e biostratigrafici della successio-ne stratigrafica tipo delle rocce car-bonatiche, che con uno spessore com-plessivo di oltre tremila metri costi-tuiscono il massiccio del Gran Sas-so d’Italia, possono essere così rias-sunti (fig. 1).

Dolomia Principale Ben esposta nella parte basale dellagrandiosa parete SE del Corno Gran-de (fig. 2) e sul versante meridionale del tratto di catena M. Brancastello - M. Prena(fig. 3), la formazione, che raggiunge uno spessore massimo affiorante di circa 600 m,è costituita da dolomie biancastre, grigie e nocciola in banchi e strati medi e sottili, conintercalazioni di calcari dolomitici, organizzati in cicli lagunari tidali, con Megalodon-ti e lamine stromatolitiche. Essa, cioè, è costituita da una successione ciclica di dolo-mie subtidali (banchi con Megalodonti) e inter-sopratidali (strati con stromatoliti e pi-soliti). L’età della formazione, sulla base del contenuto macrofossilifero costituito dagrossi Lamellibranchi (Megalodon sp.) e Gasteropodi (Worthenia solitaria), e di quel-lo microfossilifero rappresentato da microforaminiferi (Triasina hantkeni) ed AlgheDasycladaceae (Dasycladales “Tr”), può essere attribuita al Trias superiore. La Dolo-mia Principale del Gran Sasso è simile, per caratteri litologici, per età e per significatopaleoambientale, alla Dolomia Principale delle Alpi, dove costituisce le famose Dolo-miti Bellunesi e Cadorine.

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2132; M. Ienca, m 2208; Pizzo di Camarda, m 2332; Pizzo Cefalone, m 2533; M. Por-tella, m 2385; M. Scindarella, m 2233; M. Bolza, m 1927) ed è limitata a Sud da pen-dii alti ed acclivi, in alcuni luoghi decisamente aspri. La restante area montuosa estesaa Sud della catena meridionale è caratterizzata da dorsali minori e depressioni interneallungate in direzione appenninica (NW-SE), che digradano verso la conca aquilana ela piana di Navelli. I due allineamenti montuosi sono separati da una depressione morfologica longitudi-nale di origine tettonica, ma sono ancora collegati, nel settore più occidentale, da trecontrafforti (Sella Venacquaro, Sella dei Grilli, Sella di M. Aquila) orientati in direzio-ne normale all’asse delle vette, i quali delimitano le conche intermontane del Venac-quaro e di Campo Pericoli. Queste conche si aprono verso Nord attraverso lunghe eprofonde valli modellate in passato dai ghiacciai: la Valle del Venacquaro e la Val Mao-ne-Valle del Rio Arno. Nel settore orientale invece i due allineamenti montuosi sonocompletamente separati e la depressione tettonica interna, subpianeggiante e di dimen-sioni imponenti, forma il grandioso altopiano di Campo Imperatore.

I “DOCUMENTI GEOLOGICI”La successione stratigraficaLe rocce sedimentarie del massiccio del Gran Sasso d’Italia si sono depositate in unambiente marino, in un lungo intervallo di tempo che va dal Trias superiore, 220 mi-lioni di anni or sono, al Miocene superiore, 5 milioni di anni fa. In linea generale possiamo distinguere un’area prevalentemente carbonatica (dolomiee calcari di vario tipo) costituita dalla catena vera e propria, ed una zona essenzialmen-te terrigena (arenarie ed argille) costituita da quasi tutta l’ampia fascia collinare pede-montana e dai Monti della Laga. Nell’ambito della catena si possono distinguere, nell’intervallo Trias superiore - Liasinferiore, due sequenze basali eteropiche. La prima, più estesa arealmente e magnifi-camente esposta sulla parete SE del Corno Grande e, parzialmente, sul versante meri-dionale del tratto di catena M. Brancastello - M. Prena, è costituita da dolomie a Me-galodonti e dolomie stromatolitiche seguite verso l’alto da calcari ciclotemici riferibiliall’ambiente di paleopiattaforma carbonatica. La seconda sequenza, affiorante alla ba-se del versante meridionale del tratto di catena M. Prena - M. Camicia - M. Siella, co-stituita essenzialmente da dolomie bituminose con livelletti carboniosi, è invece riferi-bile ad un ambiente di sedimentazione costituito da un paleobacino marino inizialmenteeuxinico, che diventa progressivamente sempre più aperto ed ossigenato. Al disopra diquesto articolato basamento calcareo-dolomitico segue, in continuità stratigrafica, il re-sto della successione (Lias medio - Miocene medio) costituita da calcari micritici conselce, calcari bioclastici, calcareniti e calciruditi risedimentate, spesso canalizzate e tor-biditiche, calcari marnosi e marne, riferibili ad un ambiente di scarpata - bacino pros-simale, posto tra il margine della Piattaforma carbonatica laziale-abruzzese e l’anti-stante Bacino pelagico umbro-marchigiano-sabino, caratterizzato da acque profonde.

Fig. 1 - Successione carbonatica della catena del GranSasso d’Italia.

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sastre e verdastre con clasti riferibili alla Scaglia bianca e rossa ed alla Scaglia cinereadel Cretaceo superiore - Oligocene, alle quote più elevate del Corno Grande. Il conte-nuto paleontologico del Calcare Massiccio è dato soprattutto da Alghe calcaree (Pa-laeodasycladus mediterraneus, Thaumatoporella parvovesiculifera) e Foraminiferi ben-tonici. Sempre nell’intervallo Trias superiore - Lias inferiore, come già accennato in prece-denza, nel settore orientale del Gran Sasso, alla base del versante meridionale del trat-to di catena M. Prena - M. Camicia - M. Siella, il basamento calcareo-dolomitico del-la paleopiattaforma carbonatica passa verso oriente ad una particolare ed interessantis-sima facies eteropica di paleobacino marino, costituita dal basso verso l’alto dalle se-guenti formazioni:

Dolomie Bituminose Riferibile al Norico (Trias superore), rappresenta la formazione geologica più antica af-fiorante sul Gran Sasso d’Italia, ed è costituita da dolomie bituminose grigio-scure sot-tilmente stratificate, alternate a sottilissimi straterelli carboniosi neri, fogliettati, rara-mente con noduli e livelletti di selce, ed a dolomie massive. A luoghi si possono osser-vare slumpings decimetrici e, soprattutto a Fornaca fra il M. Prena ed il M. Camicia,olistoliti calcareo-dolomitici provenienti dalla Dolomia Principale della vicina paleo-piattaforma. Lo spessore massimo affiorante delle Dolomie Bituminose è di circa 200metri, mentre il contenuto fossilifero è dato da Palinomorfi.

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Calcare Massiccio Alle dolomie triassiche segue, in modo sfumato e graduale, e con uno spessore che sulCorno Grande raggiunge i 600 metri, il Calcare Massiccio (fig. 2), riferibile al Lias in-feriore e costituito da calcari bianchi in strati (5-50 cm) e banchi (1-5 m) organizzati inuna tipica successione ciclotemica, spesso con strati basali parzialmente dolomitizzati.La sequenza ciclotemica è prevalentemente costituita da calcari con ooliti, oncoliti, bio-clasti, peloidi e livelli a pisoliti vadose. Il Calcare Massicio del Corno Grande, inoltre,è attraversato da numerosi “filoni sedimentari” modellati sulla geometria delle fessuresubverticali aperte, generalmente caratterizzati da una forma prismatica a sezione trian-golare chiusa verso il basso. Presentano una direzione prevalente E-W ed un andamentorettilineo e continuo che può superare anche i 600 m di lunghezza, con una profonditàmassima visibile in affioramento di circa 30 m. Il riempimento dei filoni è costituito siada micrite dolomitizzata riferibile alla Corniola del Lias medio (Conca degli Invalidi -Passo del Cannone - “Sentiero Ricci” alla Vetta Orientale) sia da brecce cementate ros-

Fig. 2 - Sulla parete SE del Corno Grande, alla Dolomia Principale, affiorante nella parte basale,segue verso l’alto il Calcare Massiccio.

Fig. 3 - Dolomia Principale affiorante sul versante meridionale del tratto di catena M. Brancastello- M. Prena.

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re, e pertanto sono da considerare eteropici del Calcare Massiccio del Corno Grande.

A partire dal Lias medio, in continuità stratigrafica sulle sequenze carbonatiche di pa-leopiattaforma e di paleobacino, su tutta l’area della catena del Gran Sasso si sedimen-ta una successione di scarpata-bacino prossimale costituita, dal basso verso l’alto, dal-le seguenti formazioni (fig. 1).

Corniola Databile Lias medio, affiora soprattutto nel settore centro-orientale della catena, con unospessore variabilissimo da oltre 400 metri fino a qualche decina di metri o addiritturacompletamente assente in corrispondenza degli “alti strutturali”. Litologicamente è ca-ratterizzata da calcari micritici nocciola in strati medio-sottili (10-50 cm), con lenti e no-duli di selce grigia e rossastra, e con spesse intercalazioni biocalcarenitiche e calcirudi-tiche, talora torbiditiche e canalizzate. La componente calcareo-clastica non è unifor-memente distribuita in tutta l’area del Gran Sasso, ma diminuisce evidentemente allon-tanandosi dal margine della piattaforma, e nella stessa direzione diminuiscono anche ledimensioni dei clasti. Spesso sono osservabili strutture sedimentarie tipo slumpings, men-tre meno frequentemente sono presenti, nel settore meridionale dell’area, ammassi cao-tici di elementi carbonatici anche di grosse dimensioni che costituiscono delle “mega-brecce”. In corrispondenza degli “alti strutturali”, dove gli spessori sono ridotti, la for-mazione è caratterizzata da sottili strati micritici grigio-scuri con selce senza le interca-lazioni calcareo-clastiche. Per quanto riguarda il contenuto fossilifero è presente, nei li-velli micritici, la biozona a Radiolari e spicole di Spugne, e sono altresì rinvenibili Fo-raminiferi (Orbitopsella praecursor, Haurania amiji), Alghe calcaree (Palaeodasycla-dus mediterraneus, Cayeuxia sp.) e resti di Idrozoi, Echinodermi e Molluschi.

Verde Ammonitico Affiorante con uno spessore variabile, ma comunque entro un valore massimo di circa100 metri, la formazione è costituita da sottili strati micritici con selce in liste e nodu-li, marne verdastre fogliettate e calcari marnosi nodulari, con intercalazioni di calcaribioclastici, calcareniti torbiditiche ed alcuni sottili, caratteristici livelli oolitici rossastri(Sella dei Due Corni, M. Aquila, M. Tremoggia, ecc.). Localmente sono presenti slum-pings e livelli di debris flow costituiti da elementi clastici provenienti dal margine del-la piattaforma, mentre in corrispondenza degli “alti strutturali” sono talora osservabili(M. Aquila) superfici nodulari rossastre ed incrostazioni ferro-manganesifere (hardgrounds) presenti a varie altezze stratigrafiche. Il contenuto paleontologico, oltrechè daRadiolari e spicole di Spugne, è caratterizzato dalla comparsa della biozona a “resti fi-lamentosi” (Lamellibranchi pelagici a guscio fine) e dalla presenza di Brachiopodi(Rhynconelle), Ammoniti, Antozoi e Idrozoi. L’età del Verde Ammonitico viene attri-buita al Lias superiore.

Calcari bioclastici inferiori Questa formazione, di età Dogger - Malm, affiora con uno spessore medio di circa 300metri e dà in genere origine a morfologie piuttosto aspre, come a Corno Piccolo (fig. 4).

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Dolomie di Vradda La sequenza di paleobacino, interamente osservabile a Vallone di Vradda salendo ver-so il M. Camicia, continua in modo sfumato con le Dolomie di Vradda, costituite da do-lomie grigio-chiare in strati medio-sottili con lenti e noduli di selce. La formazione rag-giunge uno spessore poco inferiore ai 150 metri, ed il contenuto paleontologico è rap-presentato unicamente da rari resti di Ostracodi. L’età può essere attribuita al Retico(Trias superiore). Questa, e la sottostante formazione delle Dolomie Bituminose, sonoeteropiche della Dolomia Principale.

Calcari Maculati e Strati Ammonitici di Vradda Seguono, con uno spessore di circa 150 metri, i Calcari Maculati, costituiti da calcarimicritici rosati in banchi con caratteristiche chiazzature, spesso dovute a bioturbazione,quindi gli Strati Ammonitici di Vradda che costituiscono un orizzonte di 30 metri, ca-ratterizzato da calcari micritici sottilmente stratificati, con selce grigia e calcareniti finicontenenti lumachelle ad Ammoniti. L’età delle formazioni è da riferire al Lias inferio-

Fig. 4 - Calcari bioclastici inferiori affioranti sulla parete orientale del Corno Piccolo.

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bianchi, e strati medio-spessi di calcareniti e calciruditi biancastre, più frequenti versola base. Il contenuto fossilifero è rappresentato da Foraminiferi planctonici (Globoro-talie, Globigerine), e macroforaminiferi (Lepidocycline, Discocycline, Nummuliti). In-teressante è la presenza di impronte di Zoophycos (tracce dell’attività di scavo di poli-cheti limivori) nei calcari marnosi rossastri affioranti al Passo delle Capannelle e sullependici nord-occidentali di M. S. Franco.

Calcareniti glauconiticheDi età Miocene inferiore, questa formazione, affiorante con uno spessore variabile da50 a poco più di 100 m, è costituita da calcareniti grigio-verdastre in strati e banchi, conabbondanti granuli di glauconite e con selce nera e grigiastra in lenti e noduli. Il conte-nuto fossilifero è dato essenzialmente da macroforaminiferi (Miogypsinidi e Rotaliidi)e spicole di Spugne.

Marne con cerrogna Affiorante lungo il bordo settentrionale del Gran Sasso, con uno spessore che può su-perare i 300 m, la formazione, riferibile alla parte alta del Miocene inferiore - Miocenemedio, è caratterizzata da marne e marne calcaree grigio-verdi con intercalazioni di stra-ti e banchi (spessi anche 10 m) di calcareniti e calciruditi flussotorbiditiche grigiastre enocciola. La frequenza e lo spessore degli orizzonti detritici raggiungono i valori mas-simi nell’area del Montagnone. Sono presenti resti di Pectinidi, Lamellibranchi ed or-me di limivori.

Marne a Pteropodi Affiorante a tratti alla base del fronte della catena, questa formazione, di spessore mo-desto (10-30 m), è costituita da marne calcaree e marne emipelagiche grigio-azzurre,talora argillose e di colore scuro, con sottili intercalazioni di calcari marnosi. L’asso-ciazione fossilifera è costituita da Pteropodi (Gasteropodi planctonici), e l’età si esten-de dal Tortoniano al Messiniano basale.

Formazione della LagaAlla base dei versanti settentrionale ed orientale della catena del Gran Sasso d’Italia enaturalmente nei Monti della Laga e nel restante territorio alto-collinare e pedemonta-no, alle formazioni calcareo-marnose del Miocene medio-superiore seguono, in conti-nuità stratigrafica, i depositi torbiditici silicoclastici di avanfossa. Si tratta di un’impo-nente successione terrigena sintettonica, nota in letteratura come Formazione della La-ga del Miocene superiore, che testimonia la presenza nel Mediterraneo, all’incirca dai7 ai 5 milioni di anni fa, di un profondo bacino di avanfossa, e testimonia altresì una fa-se importante del processo di costruzione dell’Appennino centrale. Tale formazione, ilcui spessore si aggira complessivamente intorno ai 3000 metri, è costituita da un corpoarenaceo-argilloso torbiditico, deposto cioè da correnti di torbida, caratterizzato da va-rie associazioni litologiche (arenacea, arenaceo-pelitica, pelitico-arenacea, pelitica) chepresentano rapporti variabili sia in senso verticale che laterale. L’evoluzione comples-

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Litologicamente è caratterizzata da spessi banchi amalgamati generalmente a geometrialenticolare, talora torbiditici, costituiti da calcareniti bioclastiche biancastre e nocciola,a volte oolitiche, inglobanti, a luoghi, brandelli di micrite e, più diffusamente, di selce.Alla base sono generalmente presenti strati medio-sottili di calcareniti e biocalcareniti avolte gradate, e calcari micritici nocciola in strati sottili. Al passaggio con la sovrastan-te Maiolica, sono localmente presenti, solo nel settore occidentale della catena (PizzoCefalone, Monte S. Franco), fitte alternanze centimetriche di calcari micritici silicei ediaspri, con intercalazioni di strati e banchi lenticolari di biocalcareniti. Il contenuto fos-silifero è costituito dalla biozona a “resti filamentosi“, oltre a microforaminiferi (Proto-peneroplis striata ) ed abbondanti resti di Ellipsactinie, Coralli ed Echinodermi.

Maiolica Affiora su tutta la catena del Gran Sasso, con uno spessore che in media si aggira in-torno ai 300 metri. Litologicamente è costituita da strati medio-sottili di calcari micri-tici di colore bianco-avorio (generalmente grigio-chiaro in prossimità degli “alti strut-turali”) con selce bianca, nera, rosata e violetta, in straterelli, lenti e noduli, con inter-calazioni di strati e banchi calcarenitici e biocalcarenitici biancastri, talora torbiditici,che tendono a diventare più frequenti e grossolani verso l’alto della formazione. Dalpunto di vista fossilifero, caratteristica è la comparsa, nei livelli micritici, di microfo-raminiferi planctonici tipo Tintinnidi (Calpionella alpina) che permettono di attribuirela formazione al Malm (parte alta) - Cretaceo inferiore.

Calcari bioclastici superiori La litologia di questa formazione, di spessore variabile da alcune decine di metri finoad oltre 100 metri, è caratterizzata da calcareniti e calciruditi bioclastiche biancastre inbanchi amalgamati, talora lenticolari e di notevole potenza (anche 10 metri), con inter-calazioni micritiche. Solo nel settore occidentale della catena, nella parte bassa dellaformazione, sono localmente presenti (Pizzo Cefalone, Pizzo di Camarda) sottilissimilivelli di calcari marnosi e marne verdastre. Fra i macrofossili compaiono i primi fram-menti di Rudiste e sono altresì osservabili resti di Coralli e Briozoi. L’età di questa for-mazione può essere attribuita alla parte alta del Cretaceo inferiore.

Scaglia bianca e rossa Affiorante su quasi tutta la catena del Gran Sasso, con uno spessore variabile, ma chepiù frequentemente è dell’ordine dei 200 metri, è costituita da calcari micritici bianchie rosati, in strati sottili, con lenti e straterelli di selce rossa e grigia ed intercalazioni dicalcareniti e calciruditi biancastre. Fra i microfossili è caratteristica la comparsa di Fo-raminiferi planctonici tipo Globotruncane che consentono di ascrivere la Scaglia bian-ca e rossa all’intervallo Cretaceo superiore - Eocene inferiore.

Scaglia cinereaDatabile Eocene medio - Oligocene, presenta uno spessore massimo di 150 m ed è co-stituita da alternanze di marne calcaree verdastre, sottili straterelli micritici verdastri e

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croplacche sardo-corsa ed adriatica (Adria). In particolare, la suddetta unità strutturalecostituisce parte integrante dell’edificio tettonico dell’Appennino centrale esterno, strut-turatosi essenzialmente nel Miocene superiore - Pleistocene inferiore, in seguito all’e-voluzione di un sistema orogenico (catena-avanfossa-avampaese) con migrazione del-le deformazioni compressive dai settori più occidentali tirrenici verso quelli orientaliadriatici, sul quale si sovrappone successivamente la tettonica distensiva associata al-l’apertura del Mar Tirreno, anch’essa in migrazione da Ovest verso Est. L’Unità del Gran Sasso costituisce una complessa e spettacolare struttura ad andamen-to arcuato e convessità nord-orientale, costituita da un segmento settentrionale a dire-zione E-W ed uno orientale ad andamento N-S, accavallata sull’Unità della Laga - Mon-ti Gemelli caratterizzata da pieghe e sovrascorrimenti a direzione meridiana. Il tratto orientale, che si estende all’incirca da Farindola a Bussi sul Tirino, è costituitoda una struttura anticlinalica con asse N-S e fianco orientale da verticale a rovesciato,parallela alla direzione del piano di sovrascorrimento basale che determina la sovrap-posizione della struttura sulla Formazione della Laga. Il segmento settentrionale dell’Unità del Gran Sasso, ad andamento E-W, corrispondeal settore più elevato della catena ove emerge l’imponenza e la grandiosità del suo edi-ficio strutturale, il cui assetto generale, nel dettaglio piuttosto complesso, mostra chia-ramente un progressivo aumento dell’entità dell’accavallamento sull’Unità della Laga- Monti Gemelli, procedendo da Ovest verso Est.

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siva della sedimentazione mostra comun-que, in generale, una tendenza alla diminu-zione verso l’alto della granulometria, del-lo spessore degli strati e del rapporto arena-ria/argilla.

Depositi continentaliAi sedimenti marini meso-cenozoici sonoinfine sovrapposti depositi continentali delQuaternario, di varie genesi e costituzionelitologica, quali ad esempio: - le brecce calcaree stratificate e ben ce-mentate del Pleistocene inferiore, affioran-ti sul versante settentrionale del Gran Sasso(Arapietra, Pietracamela, Macchia S. Pietro,ecc.);- i depositi morenici riferibili al Pleistocenesuperiore - Olocene ed affioranti in varie zo-ne della catena ed in particolare a CampoImperatore;- le lingue ed i cordoni di rock glaciers inat-tivi e di nivomorene, attribuibili al Pleisto-cene superiore - Olocene;- i depositi glacio-lacustri sabbioso-limosi,i depositi fluvio-glaciali ghiaioso-sabbiosi,gli imponenti conoidi alluvionali, tutti af-fioranti a Campo Imperatore e riferibili alPleistocene superiore - Olocene;- i coni detritici, i detriti di falda e le estesecoperture detritico-eluviali, che bordano iversanti del Gran Sasso e sono riferibili al-l’Olocene;- le alluvioni attuali e recenti ghiaioso-sab-biose, ed i depositi eluvio-colluviali postiessenzialmente sul fondo delle depressionitettono-carsiche chiuse, attribuibili sempreall’Olocene.

La struttura tettonicaL’Unità tettonico-stratigrafica del Gran Sasso rappresenta un’importante testimonian-za del processo di costruzione della catena appenninica, sviluppatosi essenzialmentenel Neogene, in seguito all’interazione tra le placche europea, africana e le relative mi-

Fig. 5 - Sulla parete SE del Corno Grande, ilpiano di faglia inversa (thrust superiore) so-vrappone le dolomie triassiche ai calcari giu-rassici.

Fig. 6 - Sul versante settentrionale del M. Prena,il thrust superiore sovrappone la Dolomia Prin-cipale triassica alla più recente successione giu-rassica coinvolta in vistose pieghe rovesciate.

Fig. 7 - Sul M. Corvo, nel settore occidentale della catena, è molto evidente la piega anticlinalicafrontale dell’Unità del Gran Sasso d’Italia.

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l’area in cui gli strati argilloso-arenacei della Laga, da rovesciati assumono una giaci-tura stratigrafica normale e dove sono talora visibili numerosi motivi di taglio inversi.Procedendo verso il settore più occidentale della catena, il thrust basale, dopo aver as-sunto anch’esso il carattere di sovrascorrimento cieco, si ricongiunge probabilmentecon il thrust superiore e tende progressivamente a radicarsi verso Ovest. Sul retro del fronte di sovrascorrimento del Gran Sasso, infine, si sviluppano le fagliedirette a direzione variabile da NW-SE ad E-W e subordinatamente quelle orientateNNE-SSW, le quali, a partire dal Pliocene superiore - Pleistocene inferiore, ribassanoprevalentemente verso SSW le unità accavallate dando origine ad una serie di blocchimonoclinali immergenti verso Nord. Le faglie dirette più importanti ad andamento medio WNW-ESE, che bordano a meri-dione i due allineamenti montuosi principali e tagliano o si raccordano ai preesistentipiani di sovrascorrimento, sono essenzialmente: la “Faglia delle Tre Selle-Corno Gran-de” e la “Faglia di Campo Imperatore”, che delimitano rispettivamente il tratto M. Cor-vo - Corno Grande ed il settore orientale della catena dove originano la piana di Cam-po Imperatore, nonché, più a Sud, la “Faglia di M. S. Franco - Pizzo Cefalone - Montidella Scindarella”. Tali sistemi di faglie raggiungono rigetti massimi di circa 1500 m esviluppi longitudinali continui fino a 10-15 km. Alcune di esse, inoltre, come per esem-pio la “Faglia delle Tre Selle - Corno Grande”, sono state riconosciute come faglie pre-sovrascorrimento riutilizzate durante la tettonica distensiva quaternaria.

Le tappe della storia geologicaL’analisi delle caratteristiche lito-stratigrafiche e dell’assetto strutturale della cate-na del Gran Sasso d’Italia, consente la ricostruzione di una lunga ed avvincente sto-ria geologica, tuttora in corso di svolgimento, che inizia nel Trias superiore, circa220 milioni di anni fa: questa, infatti, è l’età delle rocce più antiche affioranti nel-l’area montuosa in esame. In quel periodo, poco dopo l’inizio dell’Era Mesozoica, l’Oceano Atlantico ed il Me-diterraneo occidentale non esistevano ancora e tutte le terre emerse erano riunite in ununico grande blocco continentale chiamato Pangea (“tutta Terra”). Questo grande su-percontinente presentava lungo la costa orientale, più o meno all’altezza dell’equatore,un ampio golfo marino denominato Mare della Tetide, all’incirca di forma triangolare,incuneato e chiuso ad Ovest in corrispondenza dell’attuale area del Mediterraneo edaperto ad Est verso l’oceano sconfinato della Panthalassa (“tutto Oceano”). Nel momento in cui inizia la storia del Gran Sasso, il margine del Pangea ha appena co-minciato a frammentarsi (fase di rifting continentale), il Mare della Tetide penetra sem-pre di più nella massa continentale, inizia la fase embrionale che porterà gradualmenteall’apertura dell’attuale Oceano Atlantico e dell’Oceano Ligure-Piemontese (quest’ul-timo completamente scomparso durante la successiva collisione tra le placche Africa-na ed Euroasiatica), e cominciano a delinearsi i due grandi paleocontinenti: Laurasia(America settentrionale + Eurasia) nell’emisfero boreale e Gondwana (America meri-dionale + Africa) in quello australe.

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Nel settore centrale ed orientale della catena, all’incirca dal Corno Grande - Corno Pic-colo al M. Camicia, caratterizzato da un maggiore tasso di raccorciamento, la tettonicacompressiva ha determinato l’impilamento di tre principali unità tettoniche sovrappostecon vergenza verso NNE, separate da due piani di sovrascorrimento principali (thrust in-feriore e thrust superiore), ed interessate da piani inversi secondari, distribuiti secondoun sistema embricato, che danno localmente origine a scaglie tettoniche sovrapposte. L’unità tettonica intermedia (Unità dei Prati di Tivo - S. Colomba), affiorante sul fron-te compressivo della catena, dal settore medio-alto alla base del versante, è caratteriz-zata da vistose pieghe rovesciate nord-vergenti ed è costituita dalla successione di etàcompresa tra il Lias medio (Corniola) ed il Messiniano (Formazione della Laga). L’u-nità tettonica superiore (Unità di Corno Grande - M. Prena), sovrapposta alla prece-dente, si sviluppa invece lungo la cresta ed il versante meridionale della catena con unassetto a monoclinale delle formazioni triassico-liassiche. Sempre sulle pendici meri-dionali è comunque visibile, in “finestra tettonica”, l’unità intermedia, come per esem-pio a Fornaca fra il M. Prena ed il M. Camicia ed appena a Sud del M. Brancastello. La superficie di sovrascorrimento tra le due unità (thrust superiore), a prevalente dire-zione E-W e debolmente immergente a meridione, è uno dei tratti salienti della geologiadel Gran Sasso e può essere agevolmente seguita sul terreno dalla base del versante NWdi Corno Piccolo alla base della parete SE del Corno Grande, dove è ben visibile sul Fos-so della Valle dell’Inferno (fig. 5). Quindi si segue con molta evidenza nella parte me-dio-alta del fronte, dal Brancastello al Prena (fig. 6), fin sulla parete nord del M. Cami-cia dove, in prossimità del Dente del Lupo, assume un’immersione verso settentrione eprobabilmente si ricongiunge con il piano di sovrascorrimento basale (thrust inferiore)determinando così la terminazione laterale dell’unità tettonica intermedia. Procedendo verso il settore occidentale del fronte del Gran Sasso, ad Ovest del CornoGrande - Corno Piccolo, in corrispondenza del tratto compreso tra Pizzo d’Intermeso-li e M. Corvo , a causa della progressiva diminuzione verso Ovest dell’entità del rac-corciamento, il sistema di pieghe rovesciate sopra ricordato, acquisisce gradualmenteuna geometria sempre meno serrata, e la superficie di sovrascorrimento superiore, lecui ultime tracce sono ancora appena visibili sul versante orientale di Pizzo d’Interme-soli, andando verso il M. Corvo non raggiunge più la superficie topografica e tende ve-rosimilmente a svilupparsi come sovrascorrimento cieco (blind thrust). In questo set-tore, pertanto, il fronte del Gran Sasso è caratterizzato da un’anticlinale rovesciata chetende progressivamente a verticalizzarsi procedendo verso occidente (fig. 7), e con bru-sca terminazione periclinalica della piega appena ad Ovest di M. Corvo. Il piano di sovrascorrimento basale del Gran Sasso (thrust inferiore), che ne determinal’accavallamento sull’Unità della Laga - Monti Gemelli, è poco evidente sul terreno edè probabilmente ubicato all’interno della Formazione della Laga, la quale alla base del-la catena è caratterizzata da una associazione pelitico-arenacea, ed è in continuità stra-tigrafica con la sovrastante successione carbonatica rovesciata. Il piano può essere ve-rosimilmente localizzato a breve distanza dalla base del versante carbonatico, cioè nel-

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era caratterizzata dalla presenza di grossi molluschi lamellibranchi, i Megalodonti, iquali vivevano parzialmente infossati sul fondo fangoso delle lagune e dei bassi fon-dali marini antistanti. Quando invece il mare si ritirava, il fondo della piana, parzial-mente all’asciutto o interessato dai soli livelli dell’alta e bassa marea, veniva coloniz-zato da tappeti di Alghe cianoficee che intrappolavano il fango carbonatico, le cosid-dette stromatoliti, le quali potevano ricoprire anche vaste superfici. Durante l’esposi-zione subaerea, le umide superfici fangose, sottoposte al caldo e relativamente arido cli-ma triassico, potevano essiccarsi e brecciarsi variamente. Le condizioni paleoambientali rimasero sostanzialmente le stesse fino alla fine del Liasinferiore, circa 200 milioni di anni fa, salvo un clima sempre caldo ma decisamente piùumido rispetto a quello triassico. Così, in un ambiente di paleopiattaforma carbonaticadi acque marine basse, con ampie lagune protette da barre oolitiche e bioclastiche e sco-gliere a Coralli ed Alghe calcaree, molto simile all’attuale arcipelago delle Bahamas, sidepositò, in continuità stratigrafica sulla Dolomia Principale, il Calcare Massiccio, at-tualmente esposto nel settore più elevato del Corno Grande ed in diverse altre zone del-la catena (M. Aquila, versante Sud di Pizzo Cefalone, ecc.). Il Calcare Massiccio pre-senta anch’esso un’organizzazione ciclica, con unità subtidali massive, costituite da cal-ciruditi bioclastiche, calcari oolitici, oncoliti, biocostruzioni ad opera di Alghe calca-ree, testimonianti condizioni di acque marine generalmente più mosse rispetto a quel-le triassiche, e con frequenti livelli a pisoliti vadose che indicano invece le prolungateemersioni dei bassi fondali marini. La continuità dell’estesa paleopiattaforma carbonatica era localmente interrotta dallapresenza, sempre nell’intervallo Trias superiore - Lias inferiore, di un paleobacino ma-rino embrionale (Bacino del M. Camicia), inizialmente a sedimentazione euxinica, lacui genesi è da riferire alle iniziali fasi distensive triassiche del rifting tetideo. Questevistose eteropie di facies sono osservabili nel settore orientale della catena del Gran Sas-so, nel tratto M. Prena - M. Camicia - M. Tremoggia - M. Siella. Mentre infatti la suc-cessione del Corno Grande è costituita unicamente da facies di piattaforma carbonati-ca di acqua bassa (Dolomia Principale e Calcare Massiccio ), e sul versante meridio-nale di M. Prena affiora una facies di transizione piattaforma-bacino con Dolomie Bi-tuminose basali seguite dalla Dolomia Principale, poco più ad Est, invece, come a For-naca tra Vado di Ferruccio e M. Camicia, e lungo il Vallone di Vradda tra il M. Cami-cia ed il M. Tremoggia, è ben esposta una successione interamente bacinale testimo-niante la presenza in quest’area di un paleobacino che probabilmente si raccordava al-la più estesa paleopiattaforma carbonatica per mezzo di rampe poco inclinate, lungo lequali la piattaforma stessa poteva facilmente progradare, cioè accrescersi frontalmen-te. Tale bacino, inizialmente a circolazione ristretta e con fondali asfittici, come dimo-stra la sedimentazione delle dolomie grigio-scure bituminose con intercalazioni di stra-ti fogliettati neri (fig. 8), ricchi di sostanza organica (Dolomie Bituminose del Norico),divenne successivamente sempre più aperto ed ossigenato come indica la sedimenta-zione delle Dolomie di Vradda (Retico), dei Calcari Maculati e degli Strati Ammoniti-

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Le successioni carbonatiche che costitui-scono l’ossatura dell’Appennino centrale sisedimentano su un segmento crostale di ti-po continentale appartenente alla cosiddet-ta “microplacca Adria”, la quale rappresen-ta probabilmente un frammento disarticola-tosi dal margine settentrionale della grandeplacca africana all’inizio del Mesozoico. Sutale segmento crostale, i processi distensivilegati al progressivo ampliamento del Ma-re Tetide, determinano, a partire dal Triassi-co superiore, la formazione e lo sviluppo digrandi unità paleogeografico-strutturali co-me la Piattaforma carbonatica laziale-abruz-zese ed il Bacino pelagico umbro-marchi-giano-sabino, in continua subsidenza com-pensata da un’attiva sedimentazione, le qua-li hanno prima consentito la formazione dimigliaia di metri di spessore di rocce car-bonatiche e successivamente hanno svoltoun ruolo fondamentale nel controllare l’e-voluzione geodinamica e la costruzione delcomplesso edificio strutturale dell’Appen-nino centrale.

Le tappe fondamentali della storia geologica del Gran Sasso d’Italia, che rappresentapertanto un dettaglio dell’evoluzione geodinamica di tali grandi elementi paleogeogra-fico-strutturali, possono essere schematizzate come segue.

Da 220 a 200 milioni di anni fa (Trias superiore - Lias inferiore)Circa 220 milioni di anni or sono, sul margine meridionale della Tetide, il territorio mon-tuoso in esame faceva parte di una paleopiattaforma carbonatica di acque marine bas-se, estesa quanto l’attuale Appennino centrale, in cui si depositava la Dolomia Princi-pale, oggi magnificamente esposta nella porzione basale della parete SSE del CornoGrande (Valle dell’Inferno) e sul versante meridionale e su quello settentrionale (partealta) del M. Prena. La Dolomia Principale, caratterizzata da una successione ciclica di banchi di dolomiesubtidali, talora con Megalodonti, e di strati di dolomie inter-sopratidali con lamine stro-matolitiche e pisoliti vadose, testimonia chiaramente che la paleopiattaforma triassicaera soggetta a periodiche (più o meno ogni diecimila o centomila anni) fluttuazioni dellivello del mare ed era piuttosto simile, per caratteristiche ambientali e fisiografiche, al-le attuali piane di marea o piane tidali (tidal flat), passanti nel tempo e nello spazio a la-gune e bassi fondali marini. Quando era sommersa sotto qualche metro d’acqua, l’area

Fig. 8 - Dolomie Bituminose laminate con sot-tili livelli carboniosi affioranti al Vallone di Vrad-da, sul versante meridionale del M. Camicia.

Fig. 9 - Schema della situazione paleogeografi-ca nel Giurassico superiore, secondo un profi-lo orientato SSE-NNW.

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faglia discendenti all’incirca verso Nord. Lepaleofaglie che costituivano la scarpata, al-ta presumibilmente 200-300 metri, oggi nonsono osservabili sul terreno, ma si possonoorientativamente ricostruire tenendo contodi vari elementi quali le variazioni delle fa-cies e dello spessore dei sedimenti. Nell’area dell’attuale catena del Gran Sas-so si instaurò quindi un ambiente di piede discarpata-bacino prossimale, posto tra il mar-gine della piattaforma carbonatica ubicataimmediatamente a Sud della catena nella zo-na Castel del Monte - S. Stefano di Sessa-nio, ed il bacino pelagico che si sviluppavanelle aree più settentrionali (fig. 9). In par-ticolare, mentre sul margine della piattafor-ma, in un ambiente di acque basse ad ele-vata energia e ben ossigenate, si sedimenta-vano calcari granulari e/o biocostruiti qua-li: calcari oolitici, calcari bioclastici e co-struzioni organogene ad Alghe calcaree, An-tozoi, Idrozoi, Briozoi, con associati Mol-luschi, Echinodermi e Foraminiferi bento-nici, nello stesso intervallo di tempo, nel-l’ambiente di piede di scarpata-bacino pros-simale si depositavano, alternandosi varia-mente, i fanghi carbonatici (calcari micriti-ci) tipici dell’ambiente di mare profondo,contenenti organismi pelagici di vario tipo,ed i materiali detritici e bioclastici, da fini agrossolani, provenienti dal margine dellapiattaforma. L’instabilità tettonica delle scarpate di fagliae l’azione distruttiva del moto ondoso favo-rivano infatti lo smantellamento dei deposi-ti del margine della piattaforma, e quindi laproduzione di abbondante materiale detriti-co e bioclastico, il quale poteva formare ac-cumuli caotici di frana sottomarina ai piedidelle scarpate (megabrecce), oppure, più fre-quentemente, trasportato da correnti di tor-

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ci di Vradda (Lias inferiore) fino a per-dere la propria individualità nel Liasmedio, quando entrò a far parte del benpiù vasto Bacino pelagico umbro-mar-chigiano-sabino. Lo straordinario interesse scientificodelle Dolomie Bituminose del Gran Sas-so è dato non soltanto dalla loro età edal loro particolare significato pa-leoambientale ma anche dal fatto chetali rocce bituminose possono essereconsiderate le principali rocce madri delpetrolio attualmente estratto nel mareAdriatico.

Da 200 a 140 milioni di anni fa (Liasmedio - Malm)Poco meno di 200 milioni di anni fa,nella fase iniziale del Lias medio, un’ac-centuazione della tettonica distensiva,connessa con l’ampliamento della Te-tide occidentale, provocò la frammen-tazione della piattaforma carbonaticaed il suo parziale “annegamento”. È inquesta importante fase di rifting tetideo,pertanto, che avvenne la suddivisionedell’area corrispondente all’Appenni-no centrale, in due grandi settori paleo-geografici ben distinti: la Piattaformacarbonatica laziale-abruzzese a Sud,che rimase in condizioni di mare sotti-le, ed il Bacino pelagico umbro-mar-chigiano-sabino a Nord, che fu invececaratterizzato da un mare aperto e pro-fondo. In questo momento l’area del Gran Sas-so venne a trovarsi nella zona di trans-izione tra questi due grandi domini pa-leogeografici, la cui separazione avve-niva, piuttosto bruscamente, tramite unascarpata costituita da stretti gradini di

Fig. 10 - Schema paleogeografico del Gran Sasso d’I-talia all’inizio del Lias medio, poco meno di 200 mi-lioni di anni or sono. Risultano evidenti: il marginedella piattaforma carbonatica e la scarpata di fagliache lo raccorda bruscamente al bacino pelagico e l’e-steso ed articolato “alto strutturale”, forse in parteemerso, del Corno Grande - M. Rofano.

Fig. 11 - Ammonite presente nei calcari marnosidel Lias superiore.

Fig. 12 - Coralli delle barriere organogenepresenti nel Dogger - Malm sul margine dellapiattaforma carbonatica.

Fig. 13 - Rudista (organismo costruttore discogliera) rinvenuta nei calcari del Cretaceosuperiore.

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zoi, Antozoi e Briozoi (fig. 12), proteggevano le zone più interne della piattaforma, ca-ratterizzate da uno scarso ricambio delle acque. L’instabilità tettonica favoriva lo smantellamento penecontemporaneo dei depositi delmargine della piattaforma, i quali andavano ad accumularsi, in maniera più o meno cao-tica, nelle parti più interne del bacino dove brandelli di selce e di micrite pelagica giàparzialmente diagenizzati, potevano essere strappati dal fondo stesso ed inglobati nel-la pasta biodetritica. Questi depositi (Calcari bioclastici inferiori), in banchi spessoamalgamati e raramente intervallati da sedimenti pelagici, sono oggi ben esposti so-prattutto a Corno Piccolo, e la variazione dello spessore della formazione testimonia lapersistenza di fondali articolati con differenti batimetrie.

Da 140 a 10 milioni di anni fa (Cretaceo inferiore - Miocene medio)Nel Cretaceo inferiore, 140 milioni di anni fa, con la deposizione della Maiolica, ca-ratterizzata da calcari micritici bianco-avorio con selce, alternati a strati calcareniticipiù spessi, si ebbe una netta diminuzione dell’attività tettonica sinsedimentaria, una pro-gressiva diminuzione della pendenza della scarpata ed un minore apporto di materialedetritico nel bacino, testimoniato dalla generale minore granulometria delle facies de-tritiche e dalla sporadicità dei grossi corpi canalizzati indicativi di flussi ad alta densi-tà. Contemporaneamente sul margine della piattaforma le barriere organogene furonovia via sostituite da costruzioni algali incrostanti che intrappolavano sabbie organoge-ne e tutta l’area assunse l’aspetto di un vasto bassofondo. La scarpata a pendio più dol-ce, inoltre, tendeva a dissipare l’energia del moto ondoso e delle correnti che investi-vano il margine della piattaforma e di conseguenza, in questo periodo, l’ambiente dimargine ad alta energia tendeva a ridursi arealmente. Nell’antistante bacino pelagico intanto, una generale subsidenza portò ad un’ulterioreriduzione dell’alto strutturale Corno Grande-Monte Rofano, di cui permase probabil-mente solo il Corno Grande. In generale persisteva, comunque, una certa articolazionebatimetrica del fondale ereditata dal Giurassico. Alla fine del Cretaceo inferiore, circa 100 milioni di anni fa, una nuova intensa fase tet-tonica sinsedimentaria interessò sia le aree bacinali che quelle di piattaforma e favorìl’accumulo nel bacino dei Calcari bioclastici superiori, in banchi talora amalgamati. Successivamente, dal Cretaceo superiore all’Oligocene, con la sedimentazione primadelle micriti della Scaglia bianca e rossa e poi delle marne calcaree verdastre della Sca-glia cinerea, si ebbe un sempre più rado apporto detritico dal margine della piattafor-ma, dove nel Cretaceo superiore, con l’avvento delle Rudiste (fig. 13), si ebbe lo svi-luppo di nuove scogliere organogene. Nello stesso periodo si attenuarono ulteriormen-te i dislivelli della preesistente, articolata morfologia dei fondali e le condizioni pa-leoambientali del bacino divennero più uniformi. La diminuzione dell’apporto detritico dalla piattaforma al bacino, nonchè le lacune stra-tigrafiche cretacico-paleogeniche riconosciute nell’area, sono da mettere in relazionenon tanto con le oscillazioni eustatiche quanto con i primi eventi collisionali Africa-Eu-

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bida o da flussi gravitativi ad alta densità (tipo debris flow), andava a depositarsi sulfondo del bacino marino antistante, percorrendo distanze chilometriche. La risedimen-tazione torbiditica, innescata da frane sottomarine originatesi sia sul margine della piat-taforma sia lungo la paleoscarpata, avveniva preferenzialmente entro estesi solchi tipovalli sottomarine, formatisi a causa dell’azione erosiva esercitata sul fondo marino dal-le torbide ad elevata densità durante l’avanzamento. Esempi di riempimenti di profon-di e larghi solchi di erosione orientati all’incirca S-N, costituiti da voluminosi corpi len-ticolari di calcareniti e calciruditi torbiditiche incassati entro i sedimenti micritici di ma-re profondo, sono visibili in varie zone della catena del Gran Sasso d’Italia, come peresempio a Monte S. Franco ed a Monte S. Vito. La fisiografia del fondo marino, inoltre, era piuttosto articolata, con differenze batime-triche di notevole entità anche fra zone molto vicine. Dai fondali emergevano infatti al-cuni blocchi di piattaforma rimasti in posizione rilevata e variamente rialzati (alti strut-turali), i quali costituivano montagne sottomarine in parte probabilmente emerse (Cor-no Grande, M. Rofano) ed in parte variamente sommerse (M. Aquila). Su questi ultimisi deposero, essenzialmente nel Giurassico, successioni di spessore fortemente ridotto,lacunose e/o condensate, con incrostazioni ferro-manganesifere, calcari nodulari e cal-cari pelagici. In questo quadro paleogeografico (fig. 10), nel Lias medio, mentre nell’area Castel delMonte - S. Stefano di Sessanio, la sedimentazione del margine della piattaforma erarappresentata soprattutto da calcari algali alternati a sabbie oolitiche, nell’area della ca-tena del Gran Sasso si depositava invece la Corniola, costituita da calcari micritici conlenti e noduli di selce, ai quali si intercalavano, soprattutto nella parte bassa della for-mazione, strati e banchi di calcareniti e calciruditi frequentemente torbiditici, spesso incorpi canalizzati, megabrecce e slumpings, cioè strutture deformate prodotte da franesottomarine, intercalate tra strati indisturbati. Spessa fino a 400-500 m nelle zone baci-nali più profonde, la Corniola si riduce drasticamente di spessore (pochi metri) in cor-rispondenza degli “alti strutturali”, dove si depositavano essenzialmente strati sottili dicalcari micritici grigio-scuri. Nel Lias superiore, poco più di 180 milioni di anni or sono, la situazione paleogeo-grafica rimase immutata, diminuirono gli apporti torbiditici dal margine della piat-taforma, la relativa bassa velocità di sedimentazione favorì nel bacino la presenzadegli Ammoniti (fig. 11), diminuì l’energia ambientale e una certa quantità di argil-la, di incerta provenienza, invase l’area bacinale dove, mescolandosi ai fanghi car-bonatici diede luogo all’episodio marnoso del Verde Ammonitico. Analogamente al-la Corniola, anche lo spessore di questa formazione diminuisce notevolmente nellesuccessioni di “alto strutturale”. Dopo il periodo di relativa calma, nell’intervallo Dogger - Malm, da 180 a 140 milio-ni di anni fa, in relazione ad una ripresa dell’attività tettonica distensiva delle paleofa-glie che formavano la scarpata, si ebbe una sedimentazione bacinale essenzialmente de-tritica, mentre sul margine della piattaforma, imponenti barriere organogene ad Idro-

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ropa che, seppure per il momento distanti, portarono ad un’attenuazione della subsi-denza e quindi a fasi di locale emersione della piattaforma, margini compresi. Le lacu-ne stratigrafiche riconosciute nella successione paleogenica del Gran Sasso, variabilicome estensione nei diversi settori della catena, sono tentativamente interpretabili co-me fasi di non sedimentazione in regime subacqueo o come conseguenza di scivola-menti gravitativi dei sedimenti pelagici lungo scarpate instabili. Nell’intervallo Miocene inferiore - Miocene medio, più o meno dai 24 ai 10 milioni dianni fa, mentre sulla piattaforma riprese la sedimentazione carbonatica con depositi dibassa profondità costituiti da biocalcareniti a macroforaminiferi, nell’area del Gran Sas-so s’instaurò un ambiente deposizionale di tipo rampa carbonatica, dove si deposita-rono prima le Calcareniti glauconitiche e successivamente le Marne con cerrogna.

Da 10 milioni di anni fa ad oggi (Miocene superiore - Quaternario)Poco meno di 10 milioni di anni fa (Miocene superiore), la deposizione di alcune deci-ne di metri di sedimenti marnosi scuri (Marne a Pteropodi), segnò l’inizio delle primefasi di flessurazione di questo settore dell’Appennino che, trasformatosi di lì a poco inbacino di avanfossa, consentì un veloce accumulo (quasi 2 mm/anno) di migliaia di me-tri di depositi terrigeni torbiditici. È in questo momento, pertanto, che prese l’avvio lastoria orogenetica del Gran Sasso d’Italia, e la sedimentazione carbonatica, che avevadominato la scena a partire dal Trias superiore, lasciò repentinamente il posto alla de-posizione terrigena silicoclastica della Formazione della Laga. In questo momento, l’in-terazione tra le placche europea, africana e la microplacca Adria, aveva già sostanzial-mente prodotto, da circa 50 milioni di anni, la strutturazione della catena alpina, ed ave-va avviato, da circa 15 milioni di anni, la costruzione della catena appenninica a parti-re dai settori occidentali. Riferendoci al settore dell’Appennino centrale, si può dire che la strutturazione dellacatena, costituita da diverse unità tettoniche derivanti dalla deformazione sia del basa-mento che delle coperture sedimentarie della microplacca Adria, sia avvenuta in seguitoal suo coinvolgimento nel sistema orogenico catena, avanfossa, avampaese, in migra-zione dal Tirreno verso l’Adriatico con una velocità di circa 2-3 cm/anno. In particola-re, la subduzione della litosfera continentale della microplacca Adria verso SW al di-sotto di quella tirreno-appenninica, ha causato un progressivo arretramento verso orien-te della zona di flessura della litosfera dell’avampaese adriatico e tale arretramento hadeterminato la migrazione dell’avanfossa e della catena verso Est. Sul fronte della ca-tena che avanza, cioè verso l’Adriatico, si hanno settori in compressione, alle sue spal-le invece, cioè verso Ovest, nei settori in distensione si è aperto il bacino tirrenico, tut-tora in espansione. Nel territorio montuoso in esame, la sedimentazione nel Tortoniano delle Marne a Pte-ropodi segna, come già detto, l’inizio della flessurazione cioè della subsidenza tettoni-ca di questo settore di avampaese, e quindi rappresenta il primo momento del coinvol-gimento di quest’area nel sistema catena-avanfossa. Successivamente, la sedimenta-

zione terrigena della Formazione della Laga nel Messiniano, testimonia la formazionee lo sviluppo del bacino di avanfossa, la migrazione verso oriente del depocentro tor-biditico, e quindi il pieno coinvolgimento dell’area nel sistema orogenico in migrazio-ne verso l’Adriatico. Infine, la deposizione nel Pliocene inferiore, in forte discordanzaangolare su un substrato carbonatico meso-cenozoico già ampiamente deformato, deiConglomerati di Rigopiano (interpretabili come depositi di bacino satellite posto sulbordo di una catena in via di strutturazione), testimonia l’incorporazione dell’area neldominio di catena. Chiarito il quadro generale dell’evoluzione del sistema orogenico, le tappe fondamen-tali del processo di costruzione del massiccio del Gran Sasso d’Italia possono esserecosì sintetizzate. Nel Messiniano, circa 7 milioni di anni fa, le deformazioni compressive dell’orogene-si appenninica, in propagazione da Ovest verso Est, investirono l’area in esame e si eb-be lo sviluppo dell’ampio bacino della Laga, come già precedentemente descritto, ilquale assunse i caratteri di una avanfossa in forte subsidenza. Tale bacino si estendevaverso Est lungo una blanda rampa di avampaese fino alle aree centrali dell’Adriatico,ed era delimitato, verso Sud, da una zona di alto sinsedimentario ad andamento all’in-circa E-W, localizzato in corrispondenza della piattaforma carbonatica e della relativafascia di transizione al bacino pelagico. Esso inoltre presentava il fondale articolato indorsali e depressioni longitudinali ed era suddiviso, da una dorsale corrispondente al-l’attuale struttura Monti Gemelli - Montagnone, in due sub-bacini principali: uno occi-dentale più interno, corrispondente all’attuale zona dei Monti della Laga, ed uno orien-tale più esterno, ad est dei Monti Gemelli. La ridotta circolazione dell’acqua e quindila mancanza di ossigeno nella massa idrica inferiore del bacino, inibiva inoltre la vitaorganica sul fondo, mentre nelle acque superficiali a stento sopravvivevano pochi or-ganismi planctonici come testimonia lo scarso contenuto microfossilifero della For-mazione della Laga. Nel corso del Messiniano, in soli due milioni di anni (da 7 a 5 m. a.), si ebbe un veloceriempimento del bacino con dispersione dei sedimenti principalmente da Nord a Sud.È da settentrione, infatti, che provenivano le correnti torbide le quali, dopo aver per-corso lunghi tragitti trasportando in sospensione ingenti quantità di materiali sabbiosi,colmarono velocemente l’avanfossa, dando vita ad un enorme apparato arenaceo-ar-gilloso torbiditico, interpretabile come un sistema di conoidi sottomarine coalescenti. Sempre nel Messiniano, contemporaneamente alla formazione ed al riempimento del-l’avanfossa, iniziarono le prime fasi della costruzione della catena del Gran Sasso, lequali si realizzarono attraverso lo sviluppo iniziale di sovrascorrimenti ciechi (blindthrust) nella successione carbonatica di piattaforma a comportamento prevalentemen-te fragile, e di grandi pieghe anticlinali, anche rovesciate, nella sovrastante successio-ne di scarpata-bacino prossimale a prevalente comportamento deformativo duttile. L’an-damento arcuato del sovrascorrimento del Gran Sasso (E-W che passa gradualmente aN-S) è probabilmente ereditato dalla paleogeografia giurassica ed è dovuto al fatto che

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e generò, lungo sistemi di faglie dirette, vaste depressioni tettoniche come quella diCampo Imperatore. In questo momento le dorsali raggiunsero le quote attuali e i linea-menti orografici del Gran Sasso erano già sostanzialmente acquisiti. L’attività tettoni-ca naturalmente è continuata fino ai tempi attuali, ed è tuttora in corso di svolgimentocome testimoniano le faglie “attive” presenti sul Gran Sasso e delle quali si parlerà piùavanti. Nel corso del Quaternario poi, l’azione demolitrice e modellatrice dei ghiacciai, delleacque superficiali e della gravità, modellano gli originari rilievi montuosi che assumo-no gradualmente l’attuale aspetto geomorfologico. È questa, per il momento, l’ultimapagina “scritta” della storia geologica di questa montagna, una pagina nella quale sipossono iniziare a leggere anche gli avvenimenti che riguardano la preistoria e la sto-ria dell’uomo.

LA RISORSA ACQUA ED I MOVIMENTI RECENTI

L’acquifero carsico del Gran Sasso d’ItaliaI depositi carbonatici, i depositi terrigeni silicoclastici, nonché i depositi continentaliquaternari, affioranti nel territorio montuoso in esame, presentano caratteri idrogeolo-gici piuttosto differenziati. In generale, mentre la successione carbonatica, permeabileper fessurazione e per carsismo, assume il ruolo di serbatoio per le acque sotterranee,la successione terrigena, data la scarsa permeabilità, svolge il ruolo di “acquiclude” neiconfronti dell’acquifero carbonatico; vario, invece, data la permeabilità per porositàpiuttosto variabile, è il ruolo idrogeologico svolto dai depositi detritici continentali qua-ternari. Nell’ambito delle suddette successioni è possibile, comunque, riconoscere e valutaredelle differenze idrogeologiche fra le varie formazioni, le quali, sulla base dei caratterilitologici, sedimentologici e strutturali, illustrati in precedenza, possono essere rag-gruppate nei seguenti complessi idrogeologici aventi caratteri abbastanza omogenei.

Complesso dei depositi detritici continentali (Quaternario)È costituito essenzialmente dalle coltri detritiche pedemontane caratterizzate da etero-geneità litologica e da spessori molto variabili. I depositi poggiano sia sopra un sub-strato carbonatico permeabile sia sopra un substrato impermeabile o poco permeabilecostituito dalle associazioni pelitico-arenacee della Formazione della Laga. Il com-plesso può contenere acquiferi di spessore ed estensione variabili con la geometriae la prevalente natura litologica del deposito. L’alimentazione dell’acquifero è datadall’infiltrazione di acque meteoriche e/o da perdite laterali degli acquiferi carbo-natici o arenacei.

Complesso dei depositi torbiditici arenacei, arenaceo-pelitici e pelitico-arenacei(Messiniano)È costituito dalle sequenze terrigene silicoclastiche caratterizzate da alternanze varia-bili di arenarie in strati e banchi e peliti in prevalenti strati medi e sottili. Nell’insieme

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le paleofaglie che delimitavano a Nord ed a oriente la piattaforma, analogamente a quel-le che delimitavano gli “alti strutturali”, controllarono lo sviluppo iniziale dei sovra-scorrimenti ciechi, e la successiva traslazione di tutto l’edificio tettonico avvenne riuti-lizzando i blind thrust che tagliarono tutta la successione carbonatica. L’inizio dellastrutturazione, con vergenza verso NNE, viene riferito al tardo Messiniano in quantonel settore orientale della catena, in particolare nella zona di Farindola tra Rigopiano ela Valle del Tavo, i Conglomerati di Rigopiano, del Pliocene inferiore, ricoprono in for-te discordanza i piani di accavallamento e le pieghe frontali della catena, ed essendo aloro volta piegati con geometria discordante rispetto al substrato e, unitamente a que-sto sovrascorsi sulla sottostante Unità della Laga, testimoniano la persistenza delle de-formazioni compressive verosimilmente fino al Pliocene medio-superiore. Nel Pliocene inferiore, circa 5 milioni di anni fa, il bacino della Laga, raggiunto dallespinte tettoniche compressive dirette verso l’Adriatico, iniziò anch’esso a strutturarsi incatena e l’assetto definitivo di tutto il sistema a pieghe e sovrascorrimenti ad andamentoN-S e vergente ad Est, venne raggiunto nel Pliocene medio in quanto a tale età sono ri-feribili i livelli più recenti implicati. Nel Pliocene medio-superiore, circa 3 milioni di anni or sono, sempre nel quadro di unaprogressione in sequenza della deformazione verso l’avampaese adriatico, si ebbe ladefinitiva messa in posto del fronte di sovrascorrimento E-W del Gran Sasso d’Italia.In questo momento, infatti, soprattutto lungo il piano di sovrascorrimento basale, sicompletò l’accavallamento sull’Unità della Laga del sistema a pieghe e sovrascorri-menti nord-vergenti del Gran Sasso, con avanzamento frontale ed entità di raccorcia-mento progressivamente decrescente da Est ad Ovest del fronte. Lungo il piano di so-vrascorrimento più interno e geometricamente più elevato (thrust superiore), ben visi-bile in superficie, si ebbe una traslazione dell’Unità di Corno Grande - M. Prena sul-l’Unità di Prati di Tivo - S. Colomba, di entità variabile da almeno 2 km in corrispon-denza del M. Prena (fig. 6), a circa 500 m all’altezza del Corno Piccolo, fino a radicar-si nei pressi del M. Corvo dove il thrust superiore tende a svilupparsi come sovrascor-rimento cieco (fig. 7). Un ruolo determinante nel controllare l’evoluzione strutturale della catena del Gran Sas-so d’Italia hanno sicuramente avuto, come già accennato, le preesistenti faglie disten-sive giurassiche responsabili delle differenziazioni paleogeografiche mesozoiche, la cuiriattivazione si è manifestata sia con le medesime direzioni di movimento che in modoopposto. Evidente è per esempio l’inversione tettonica nell’area del Corno Grande, do-ve le faglie distensive giurassiche, che isolavano a Nord gli “alti strutturali”, durante lacostruzione della catena sono state ruotate e riutilizzate con cinematica inversa. Tra la fine del Pliocene superiore e l’inizio del Quaternario, poco meno di 2 milioni dianni or sono, mentre il fronte della compressione raggiunse la costa adriatica, l’area delGran Sasso cominciò ad essere sottoposta ad un’intensa tettonica distensiva associataal sollevamento che, talora riutilizzando in profondità i più antichi piani di sovrascor-rimento e le preesistenti discontinuità giurassiche, disarticolò le strutture compressive

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incerto a SW, lungo la valledell’Aterno, dove è quasi cer-ta la possibilità di importantitravasi idrici dalla vicina cate-na del Sirente verso la sorgen-te di Capo Pescara. L’idrostruttura del Gran Sassoè costituita da tutti i comples-si carbonatici descritti. I carat-teri litologici e lo stato di fa-gliazione e fratturazione dellerocce, nonché la presenza inquota di una fascia a carsismodiffuso di circa 100 m di spes-sore, la notevole diffusione diforme carsiche superficiali e lapresenza a quote elevate di de-pressioni endoreiche tettono-carsiche, favoriscono l’infil-trazione della maggior partedell’afflusso pluviometrico enivale e quindi l’alimentazio-ne di un imponente acquiferobasale di tipo compartimenta-to che a sua volta alimenta, conuna portata complessiva annuaattualmente valutabile intornoa 23,5 m3/s (pari ad un volumeidrico annuo di 740 milioni dimc), le sorgenti poste ai mar-gini dell’idrostruttura, e quin-di il reticolo fluviale (fig. 14).La compartimentazione del-l’acquifero carsico, che nonostante la complessità della struttura può essere ritenuto, insenso regionale, unico, è determinata dalla presenza sia di discontinuità litostratigrafi-che che di faglie caratterizzate da spesse fasce di cataclasiti finissime, le quali, fungen-do da diaframmi impermeabili sotterranei limitano, ma non impediscono totalmente, lecomunicazioni tra i diversi e contigui settori dell’acquifero. La circolazione idrica nella falda profonda, la cui principale area di ricarica è costitui-ta dalla vasta depressione tettonica di Campo Imperatore, risulta comunque sostanzial-mente condizionata, oltrechè dal reticolo carsico a prevalente sviluppo orizzontale in

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queste successioni torbiditiche, per la presenza di livelli impermeabili, limitano le pos-sibilità di infiltrazione e di immagazzinamento in profondità delle acque meteoriche,svolgendo la funzione di “acquiclude” nei confronti dell’acquifero carbonatico. Doveperò le sequenze arenacee raggiungono spessori consistenti e sono più fratturate, la con-seguente maggiore permeabilità e capacità d’immagazzinamento favoriscono la pre-senza di modesti acquiferi che alimentano sorgenti caratterizzate da un regime stagio-nale e da portate molto basse, di solito inferiori ad 1 l/sec.

Complesso marnoso-calcarenitico (Miocene medio-superiore)Costituito dalla successione marnoso-calcarenitica miocenica (Marne con cerrogna eMarne a Pteropodi), il complesso è presente nella parte basale del versante settentrio-nale del Gran Sasso e nell’area del Montagnone. Le rocce, generalmente piuttosto frat-turate e localmente interessate da processi carsici in profondità dove prevale la litofa-cies calcarenitico-calciruditica delle Marne con cerrogna, presentano una permeabili-tà d’insieme medio-bassa. L’infiltrazione efficace media annua, per precipitazioni di 1.000 mm/anno, può essere stimata circa 300 mm.

Complesso calcareo-silico-marnoso (Lias medio - Oligocene)Molto esteso arealmente, il complesso è costituito dalla successione calcareo-silico-marnosa di scarpata - bacino prossimale, che sulla catena del Gran Sasso presenta fre-quenti e talora potenti intercalazioni calcarenitiche e calciruditiche risedimentate chene aumentano la capacità di immagazzinamento e la permeabilità d’insieme. I pochi li-velli marnosi, presenti a varie altezze stratigrafiche, possono sostenere localmente mo-deste “falde sospese” poste a quote diverse. Prevale comunque un drenaggio verticalelungo le faglie distensive che attraversano i livelli marnosi. L’infiltrazione efficace me-dia annua può essere stimata intorno ad un minimo di 750 mm per precipitazioni di1000 mm/anno.

Complesso dolomitico e calcareo-dolomitico basale (Trias superiore - Lias inferiore)Si tratta di affioramenti poco estesi arealmente, alla base stratigrafica del complesso cal-careo-silico-marnoso. È caratterizzato da una successione di dolomie e calcari dolomi-tici, fratturati e cataclasati soprattutto lungo le superfici di faglia. La cataclasite, finis-sima, può riempire le fratture e ridurre così la permeabilità d’insieme, generalmente ca-ratterizzata da valori piuttosto bassi; elevata è invece la capacità di immagazzinamen-to. L’infiltrazione efficace può essere stimata intorno a 200÷300 mm per precipitazio-ni di 1000 mm/anno.

Caratteri dell’idrostrutturaIl massiccio carbonatico del Gran Sasso d’Italia costituisce una struttura idrogeologicaindipendente la cui area di alimentazione si estende su un territorio di circa 970 km2,posto a quote comprese fra 2912 e 250 m s. l. m. Il limite dell’idrostruttura, ben defi-nito a Nord e ad oriente, nei tratti in cui il massiccio carbonatico si sovrappone ai sedi-menti terrigeni silicoclastici che rappresentano l’acquiclude regionale, appare invece

Fig. 14 - Idrostruttura del Gran Sasso d’Italia con le principa-li linee di flusso dell’acquifero profondo e l’ubicazione dellepiù importanti sorgenti alimentate.

Fig. 15 - La frana di crollo si è avuta alla base del “4° Pila-stro”, sulla parete ENE del Corno Grande, chiamata per anto-nomasia “il paretone”. È evidente la nicchia di distacco dellafrana, appena sopra il canalone Jannetta.

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della vetta orientale del Corno Grande, detta per antonomasia “il paretone”, dove nel1897 una frana di crollo di notevolissime dimensioni diede origine, nella zona di distac-co, ad una gigantesca sagoma di farfalla, ancora oggi ben visibile sulla parete a causadella differenza di colore dovuta all’alterazione superficiale della roccia. Sulla stessa pa-rete, alla base di quello noto alpinisticamente come “quarto pilastro”, all’incirca a q. 2600s. l. m., il 22 agosto 2006 si è verificata l’ennesima, importante frana di crollo, con undistacco di un rilevante volume (quasi 20. 000 mc) di roccia calcarea biancastra intima-mente fratturata (fig. 15), riferibile al Calcare Massiccio, il quale precipitando per circa1100 m si è completamente frantumato ed i detriti si sono accumulati alla base del ver-sante lungo le “Coste di S. Nicola”. L’impatto lungo alcuni tratti della parete ed ai piedidel versante degli ammassi calcarei cataclasati ha prodotto la formazione ed il solleva-mento di imponenti nuvole di “polvere” bianca, di grande effetto scenografico e media-tico, che hanno raggiunto il paese di Casale San Nicola e l’autostrada, provocandone latemporanea chiusura a causa di problemi di visibilità (fig. 16). È opportuno rilevare chesia l’abitato che l’autostrada non sono a rischio in quanto protetti dai rilievi collinari diColle Castello e il Moio che fanno da sbarramento naturale ad eventuali massi lapideiche dovessero provenire dalla parete ENE del Corno Grande.

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quota, anche dai sistemi di faglie dirette ad andamento appenninico che costituisconozone a maggiore permeabilità e quindi a maggiore drenaggio. Le linee di flusso idricosotterraneo sono pertanto tendenzialmente orientate nella medesima direzione e cioèdalle aree più elevate del massiccio verso la zona più depressa a SE, costituita dalla Val-le del Tirino e dalla profonda incisione del fiume Aterno a Popoli. La maggior parte dell’acqua immagazzinata nell’acquifero carbonatico profondo vaquindi ad alimentare le sorgenti di Capodacqua del Tirino, di Capestrano, di S. Calistoe di Capo Pescara poste appunto alla base SE della catena. La restante parte alimentaprincipalmente le sorgenti del Chiarino, di Rio Arno, del Ruzzo e della Vitella d’Oro,sul fronte esterno della catena, e le sorgenti di Vetoio, Tempera e Capo Vera sul fronteinterno aquilano. Le acque di queste sorgenti presentano tutte un identico chimismo ditipo bicarbonato-calcico, in quanto l’acquifero compartimentato è caratterizzato da set-tori con litofacies più o meno simili. Alle quote medio-alte, inoltre, sono presenti nu-merose sorgenti minori a regime variabile e con portate di 0,1 - 5 l/sec, alimentate dalocali falde sospese di limitata estensione, generalmente contenute nei depositi quater-nari o localmente sostenute dai livelli marnosi presenti nelle sequenze carbonatiche. Gli scavi in sotterraneo, eseguiti negli anni ’70 per la realizzazione del Traforo auto-stradale del Gran Sasso, hanno comportato il drenaggio e quindi la mobilizzazione dienormi volumi idrici, i quali sono stati sottratti in parte alle sorgenti, che hanno subitoun deciso decremento delle portate (fino al 50-60% in meno) rispetto ai valori pre-tra-foro, ed in parte alle riserve permanenti dell’acquifero determinandone un consistenteed irreversibile impoverimento.

I fenomeni gravitativiIl paesaggio geomorfologico del Gran Sasso d’Italia, così come lo vediamo oggi con isuoi scenari di incommensurabile bellezza, è il risultato di diverse cause quali soprat-tutto: l’azione morfogenetica dei ghiacciai quaternari, il fenomeno carsico, l’azione del-le acque correnti superficiali e della gravità. Relativamente ai processi gravitativi, tuttii versanti della catena, data la complessità orografica e l’elevata energia del rilievo, ri-sultano interessati da numerosi e diffusi fenomeni franosi di diversa tipologia ed esten-sione, la cui distribuzione è strettamente influenzata dalle condizioni lito-strutturali,geotecniche e morfologiche dei pendii nonchè dallo stadio di evoluzione geomorfolo-gica raggiunto nelle diverse zone. Nei settori più elevati della catena, le strapiombanti pareti carbonatiche sono soggette anumerose frane di crollo, condizionate prevalentemente dalla presenza di numerose dis-continuità strutturali (fratture, faglie etc.). Porzioni più o meno rilevanti di ammassi roc-ciosi e blocchi poliedrici isolati di varie dimensioni, a volte notevoli e in equilibrio pre-cario, sono presenti lungo tutte le pareti principali e il loro improvviso distacco ed ac-cumulo al piede dei ripidi versanti alimenta estese falde detritiche. Fenomeni di crollodi grandi dimensioni hanno interessato nel passato soprattutto il versante nord del setto-re centro-orientale della catena, ed in particolare la grandiosa e strapiombante parete ENE

Fig. 16 - La polvere bianca prodotta dall’impatto ai piedi del versante degli ammassi calcarei fra-nati avanza in direzione dell’autostrada.

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che si manifestano su una scala spazio-temporale molto ampia, assumendo i caratteripropri delle Deformazioni Gravitative Profonde di Versante. Le DGPV consistono in movimenti di massa molto complessi che in genere coinvolgo-no grandi volumi di roccia, con superfici di rottura e di distacco generalmente imposta-te lungo discontinuità preesistenti quali faglie, fratture, piani di stratificazione o contra-sti litologici. Il processo deformativo della massa rocciosa è per lo più lento e progres-sivo (velocità media di deformazione dell’ordine di grandezza dei mm/anno o cm/anno),e le evidenze morfologiche più significative consistono in: trincee anche di notevoli di-mensioni parallele al versante, scarpate, grandi e piccoli ripiani in contropendenza nel-le porzioni intermedie del versante, sdoppiamento della cresta, fratture di tensione neisettori sommitali dei versanti e rigonfiamenti nelle zone basali. In tale contesto di insta-bilità geomorfologica generalizzata, determinata dai processi gravitativi sull’intero si-stema crinale-versante-fondovalle per profondità che superano il centinaio di metri, siinseriscono generalmente fenomeni franosi superficiali a piccola scala, la cui disposi-zione areale ed i cui caratteri genetici ed evolutivi sono verosimilmente connessi, con re-lazioni causa/effetto, ai movimenti profondi. Esempi di DGPV si osservano lungo i versanti settentrionali di Corno Piccolo e di Piz-zo d’Intermesoli. Uno dei casi più eclatanti è costituito dall’area di Pietracamela, doveil movimento è in atto, e dai versanti degli abitati di Cerqueto, Intermesoli, Fano Adria-no e Nerito. A Pietracamela registrazioni inclinometriche ottenute attraverso sondaggiprofondi hanno consentito di individuare una superficie di scorrimento ad una profon-dità di circa 150 m a cui sono associati fenomeni franosi superficiali che interessano lafascia superiore di spessore massimo pari a circa 30 metri. Aconclusione dell’argomento si segnala che in questi ultimi anni, nell’area del Gran Sas-so, è stato osservato un deciso incremento dei movimenti franosi, consistenti non solonella riattivazione di frane quiescenti ma anche nell’innesco di nuovi fenomeni gravita-tivi di varia genesi ed estensione.

Faglie attive e sismicitàNell’area della catena del Gran Sasso d’Italia sono osservabili, nelle formazioni car-bonatiche e per tratti chilometrici, numerose evidenze geologiche e geomorfologichedi fagliazione recente ed attiva (scarpate e “nastri di faglia”, faccette triangolari e tra-pezoidali, ecc.) che caratterizzano le faglie dirette quaternarie, le quali, indubbiamen-te, sono tra le più spettacolari dell’intero Appennino. Frequente, inoltre, è il contattotettonico tra i terreni carbonatici ed i depositi continentali del Pleistocene superiore -Olocene (morenici, alluvionali e di versante), che testimonia l’attività recente di talifaglie, analizzata da numerosi lavori scientifici che hanno studiato ed indagato le sud-dette evidenze neotettoniche su basi geologico-strutturali, morfotettoniche, sismolo-giche e paleosismologiche. Durante il progressivo sollevamento del massiccio del Gran Sasso, i processi estensio-nali hanno vistosamente sgradonato verso SSW i rilievi più alti, dando origine ad una

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Le principali cause scatenanti questi movimenti sono da ricercare nelle forti sovrap-pressioni provocate dall’acqua all’interno delle fratture e legate agli eventi meteorologi-ci e di scioglimento delle nevi, così come alle quote più alte la presenza di neve per lun-ghi periodi e i cicli gelo-disgelo diurni e stagionali. Infine anche gli scuotimenti dovutiad eventi sismici possono costituire un’importante causa scatenante. Altri fenomeni franosi molto diffusi sono costituiti dagli scorrimenti traslativi delle col-tri detritiche, soprattutto lungo i versanti settentrionali e la fascia pedemontana della ca-tena del Gran Sasso. Frane di questo genere hanno spesso dimensioni chilometriche einteressano spessori più o meno potenti di coperture detritiche con velocità di movimentogeneralmente lente, come nel caso del versante di Intermesoli. Qui è presente una co-pertura (spessore fino a 40-50 m) costituita da accumuli caotici di frammenti litici di va-rie dimensioni fino ai grandi blocchi, con matrice siltoso-sabbiosa più o meno abbon-dante. La copertura stessa è attualmente interessata da movimenti che avvengono lungola superficie di contatto con il substrato a profondità di 40 - 50 m. Meno frequenti e soprattutto di dimensioni generalmente ridotte appaiono gli scorrimentirotazionali che si verificano soprattutto nelle sequenze marnoso-calcaree e che frequen-temente interessano anche le spesse coltri detritiche. Altri fenomeni franosi, di genesi complessa, sono presenti lungo i versanti settentriona-li del massiccio del Gran Sasso d’Italia dove crolli e scorrimenti rotazionali spesso evol-vono in scorrimenti traslativi e/o colamenti delle estese colti detritiche. Un esempio spet-tacolare di questi movimenti è costituito dalla Lama Bianca, ad est di Vado di Corno, do-ve il fenomeno gravitativo, derivante dalla combinazione di frane di crollo nella partealta della parete e di uno scorrimento traslativo dei detriti nella parte bassa del pendio,ha uno sviluppo complessivo in lunghezza di oltre 1,5 km. Un altro spettacolare esem-pio di frana complessa di notevoli dimensioni (scorrimento rotazionale che evolve in co-lamento di detrito e terra) è osservabile sul versante teramano del Gran Sasso, sulla de-stra idrografica del Fosso della Valle dell’Inferno, a monte di Casale San Nicola. Il fe-nomeno franoso, che si è innescato nella primavera del 2005 ed ha interessato la faciespelitico-arenacea della Formazione della Laga e la sovrastante coltre detritica, si svi-luppa in lunghezza dalla base del versante (contatto carbonatico-terrigeno) a q. 1300 m,fino oltre il canale di gronda dell’Enel, all’incirca a q. 1000 m. Abbastanza diffuse, inoltre, sono le frane di colamento le quali presentano caratteristi-che e velocità piuttosto variabili in relazione ai terreni coinvolti. Le più frequenti nel set-tore montuoso, come ad esempio sul versante orientale del tratto Pizzo d’Intermesoli -Sella dei Grilli, sul versante settentrionale del Monte Brancastello, o sul versante meri-dionale del M. Prena, sono costituite dalle colate di detrito (debris flow): in genere si trat-ta di movimenti rapidi con spessori di detrito coinvolto molto variabili, i quali si verifi-cano in corrispondenza dei principali eventi meteorici o dello scioglimento delle nevi e,localmente, possono essere associate a fenomeni valanghivi. Le peculiari condizioni morfologiche e lito-strutturali hanno infine favorito l’innesco elo sviluppo di processi gravitativi che coinvolgono considerevoli porzioni di versante e

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mente interconnesse alla profondità di enucleazione ipocentrale degli eventi sismici (5-15 km) e, sulla base di considerazioni strutturali e geomorfologiche, possono essere rag-gruppate nei seguenti tre sistemi principali: 1) Tre Selle - Corno Grande; 2) Campo Im-peratore; 3) Monte San Franco - Monte Ienca - Pizzo Cefalone - Monti della Scinda-rella - M. Bolza. Il Sistema di faglie delle Tre Selle - Corno Grande si sviluppa in lunghezza per oltre 11km, lungo i versanti meridionali del Monte Corvo, Pizzo d’Intermesoli e Corno Gran-de, attraversando le tre selle: Sella di Monte Corvo, Sella dei Grilli e Sella del CornoGrande. La maggior parte del rigetto geologico associato alla faglia, valutabile fino adun massimo di circa 1. 000 m, è da riferire all’attività sinsedimentaria meso-cenozoica,pre- e sin-orogenica. Il piano di faglia è osservabile solo localmente e le migliori espo-sizioni si hanno nella Valle del Venacquaro e nella Val Maone dove, per esempio, lascarpata di faglia attiva, alta fino a quasi 2 m ed immergente a sud, taglia trasversal-mente l’alta Val Maone, dislocando i Calcari bioclastici inferiori (fig. 17). La rotturadi pendenza che ne deriva costituisce un’anomalia geomorfologica nel profilo longitu-dinale della valle e suggerisce un’attività post-glaciale della struttura stessa. Ricerchee studi paleosismologici condotti da A. A. a Solagne, nel Venacquaro, a Campo Peri-coli e nella Val Maone, hanno evidenziato la dislocazione di depositi glaciali ed allu-vionali nel Pleistocene superiore-Olocene, consentendo di identificare almeno 4 even-ti di fagliazione di superficie negli ultimi 18. 000 anni, e propongono un probabile in-tervallo di ricorrenza dei terremoti tra 2. 500-3. 000 e 6. 000-7. 000 anni. Il Sistema di faglie di Campo Imperatore si sviluppa in lunghezza per circa 20 km, daVado di Corno a M. S. Vito, e quindi sui versanti meridionali del M. Brancastello, delM. Prena, del M. Camicia, che bordano a nord la depressione tettonica di Campo Im-peratore. Il piano principale si sviluppa per buona parte al limite tra il substrato ed i de-positi quaternari e quando si rinviene sul Calcare Massiccio dolomitizzato (tratto Va-do di Corno - Stazzo del Lepre) la zona di deformazione è costituita da una fascia ca-taclastica ampia decine di metri, dove il substrato ha originato tipiche morfologie “ca-lanchive”. A Monte Faeto si può osservare il contatto tettonico tra le brecce di versan-te attribuibili al Pleistocene superiore e il substrato mesozoico lungo un piano di fagliadiretta con pendenze di 50°-60°. Alla base del versante, sepolta dai depositi olocenicidi conoide alluvionale, è presente un’altra faglia, sub-parallela a quella principale, chegenera delle faccette triangolari (Monte Faeto, Le Mandrucce) e trapezoidali (Stazzodel Lepre), localmente impostate sui depositi del Pleistocene superiore. Indagini pa-leosismologiche di A. A. hanno evidenziato una ripetuta attivazione della Faglia di Cam-po Imperatore nel corso dell’Olocene e magnitudo massime attese tra 6. 5 e 7. 0. Il Sistema di faglie di Monte San Franco - Monte Ienca - Pizzo Cefalone - Monti dellaScindarella - M. Bolza costituisce senz’altro l’elemento tettonico più evidente e conti-nuo della catena del Gran Sasso d’Italia (complessivamente oltre 25 km). Tale sistemapuò essere sudiviso in almeno tre segmenti maggiori disposti in modo en-echelon sini-stro, rappresentati dalle faglie del Monte San Franco, da quelle che bordano i versanti

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serie di depressioni tettoniche, collocate a quote variabili dai 1500-1800 m di CampoImperatore ai 500-600 m dell’Aterno (L’Aquila). Le principali faglie distensive dellacatena, alle quali può essere riferita l’attività quaternaria, mostrano in affioramento unadominante orientazione WNW-ESE con immersione verso SSW ed inclinazioni varia-bili dai 45° agli 80°, e sono organizzate in “sistemi” allungati fino a 20-30 km e dispo-sti secondo un assetto en-echelon sinistro, con ampi tratti di sovrapposizione. Tali fa-glie attive, che in superficie si presentano segmentate e discontinue, sono verosimil-

Fig. 17 - L’alta Val Maone è tagliata trasversalmente da una scarpata di faglia “attiva”, immergentea sud ed alta fino a due metri. La rottura di pendenza costituisce un’anomalia geomorfologica nelprofilo longitudinale della valle e suggerisce un’attività post-glaciale della faglia.

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Il territorio abruzzese rappresenta, nel panorama geologico e geomorfologico italiano,uno splendido esempio della varietà e della complessità di processi e fenomeni che ca-ratterizzano e rendono unico l’intero territorio nazionale. La coesistenza all’interno del-l’areale regionale delle tracce di una storia evolutiva tuttora in corso rende l’Abruzzoun’area ad alto rischio sismico, perchè le tessere della sua storia geologica sono anco-ra di difficile interpretazione e lo sono ancor di più da riposizionare in una ideale spi-rale del tempo e dello spazio. Il 6 Aprile 2009 alle ore 03:32 la zona de l’Aquila è stata colpita da un forte terremoto(magnitudo Richter (Ml) 5. 8, magnitudo momento (Mw) 6. 3). La sequenza sismica èiniziata alcuni mesi prima della scossa del 6 aprile e continua la sua evoluzione conmoltissime repliche monitorate in continuo dall’INGV. Tre eventi di M>5 sono avve-nuti il 6 aprile (Ml=5. 8), il 7 aprile (Ml=5. 3) e il 9 aprile (Ml=5. 1). I terremoti di Mlcompresa tra M=3. 5 e 5 sono stati in totale 31. Dall’esame dei segnali riconosciuti au-tomaticamente alla stazione INGV MedNet de L’Aquila, sono state conteggiate oltre20. 000 scosse. Il terremoto, come evidenziato dai dati sismologici inquadrati nel contesto geologico egeomorfologico dell’area aquilana, è stato legato all’attività di faglie di tipo estensio-nale e con piani orientati prevalentemente NW-SE, immergenti a SW, e l’estensione sisviluppa su direzioni antiappenniniche. Le scosse hanno interessato tutta la zona che siestende dall’Aquila verso sud, verso la valle dell’Aterno per una lunghezza di circa 30km: L’Aquila, Paganica, Tempera, Onna, ed altre, tutte gravemente colpite, addiritturaalcune quasi completamente rase al suolo. Nell’area epicentrale, si sono verificati dif-fusamente effetti geomorfologici come frane di crollo, cadute di detrito, riattivazionedi frane di piccole dimensioni, fratture e fessure di direzioni estremamente superficia-li variabili su depositi di diversa genesi, fratture del manto stradale, crolli dalle scarpa-te degli argini fluviali, fenomeni di liquefazione, ed anche piccole slavine. Le osservazioni di tali effetti di superficie e della distribuzione dei danni, non risultanoin linea con gli effetti attesi in relazione all’entità del sisma secondo quanto riportato inletteratura nella Scala delle intensità ESI 2007. Le analisi e gli studi condotti nell’immediato dopo terremoto hanno fatto emergereaspetti ormai chiari, ma anche problematiche ancora aperte, nel quadro geomorfologi-co strutturale e geologico quaternario dell’area. Questo è particolarmente evidente inriferimento alle relazioni fra depositi continentali quaternari, elementi geomorfologicidi superficie e elementi geomorfologici sepolti, che si ritiene possano aver avuto un ruo-lo importante nella distribuzione degli effetti cosismici di superficie (fig. 1).

Scienza, coscienza e conoscenza. Il rischio sismico si può prevenire? Si può e si deve fare.

Enrico Miccadei - Docente di Geografia Fisica e Geomorfologia strutturale Università d’Annunzio Chieti-Pescara

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meridionali del M. Ienca, Pizzo Cefalone e Monti della Scindarella e dalle faglie del M.Bolza. La faglia del versante meridionale del Monte S. Franco, per esempio, mostra unaspettacolare esposizione del piano di faglia nei calcari, su cui spesso poggiano in con-tatto tettonico i depositi continentali tardo-quaternari. Nel tratto più orientale della strut-tura, uno spettacolare liscione di faglia pone a contatto la Maiolica con una sequenzadi depositi del Pleistocene superiore, vistosamente deformata, testimoniando un’attivi-tà tardo-quaternaria. I dati della sismicità storica documentano l’assenza di terremoti storici importanti (M>6),ma le suddette chiare evidenze geologiche di fagliazione recente testimoniano che sulmassiccio del Gran Sasso d’Italia sono possibili, anche se con tempi di ritorno moltolunghi, riattivazioni dei suddetti sistemi di faglie attive e quindi terremoti con epicen-tro locale anche di elevata magnitudo (fino a M 7).Il più alto livello di sismicità storica è concentrato nel territorio aquilano, recente-mente interessato da una serie di eventi culminati nella notte del 6 aprile 2009, conuna scossa principale (mainshock) di magnitudo Richter Ml=5,8 e magnitudo mo-mento Mw=6,3, avvenuta a circa 9 km di profondità. A questo terremoto sono se-guiti altri due eventi importanti con magnitudo Ml>5 e profondità ipocentrale di cir-ca 15 km. Più precisamente il 7 aprile con Ml=5,3 ed epicentro nella parte setten-trionale della media Valle dell’Aterno ed il 9 aprile con Ml=5,1 ed epicentro in pros-simità del Lago di Campotosto. Le analisi dei dati geologici, geofisici e macrosismici disponibili indicano che l’attivi-tà sismica, caratterizzata da meccanismi focali di tipo distensivo (confermati dai carat-teri dello sciame, duraturo e con ipocentri migranti) e con energia distribuita, nel tem-po, lungo l’asse di massima distensione avente direzione NE-SW, è concentrata ad unaprofondità ipocentrale variabile dai 5 ai 18 km e si è sviluppata lungo due segmenti difaglie dirette ad attività tardo-quaternaria: la Faglia di Paganica, immergente verso SWed attivata per una lunghezza di circa 15-20 km, e la più settentrionale Faglia dei Mon-ti della Laga, immergente verso WSW e solo parzialmente attivata.

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La valle dell’Aterno e la valle del Tirino,nel quadro dell’assetto morfostrutturale del-l’Appennino centrale, sono valli tettonichemolto complesse e articolate, risultato difenomeni di sollevamento regionale e dif-ferenziale, legati a una tettonica estensio-nale sviluppatasi lungo elementi tettonici adirezione prevalentemente NW-SE ma ageometria complessa; esse fungono da de-pocentri, interni alla catena appenninica,della deposizione di articolate successionicontinentali quaternarie che registrano al-ternate fasi di erosione e deposizione. Numerosi, infatti, sono gli studi che hannoaffrontato l’analisi degli aspetti geologicoquaternari e geomorfologici ed in partico-lare relativi all’assetto neotettonico a par-

tire dagli studi di Beneo (1940), Ge. Mi. Na. (1963), Demangeot (1972) e Raffy (1976,1982), poi di Bertini e Bosi (1970, 1993), Bosi (1975), per passare agli studi finalizza-ti alla Carta Neotettonica (CNR-PFG, 1987); poi gli studi di Bagnaia et alii (1992, 1996),Bertini et alii (1992), D’Agostino et alii (1994), Blumetti et alii (1995, 2002, 2007), Ba-sili et alii (1997, 1999), Miccadei et alii (1999), Bosi et alii (2000), Galadini e Galli(2000), Moro et alii (2002), Serva et alii (2002), Tallini et alii (2002), D’Alessandro etalii (2003), Boncio et alii (2004a,b), per citare solo alcuni dei lavori principali che si so-no occupati dei depositi continentali quaternari e delle caratteristiche geomorfologiche.I fogli geologici 359 L’Aquila e 368 Avezzano, 369 Sulmona, costituiscono, infine, ilquadro cartografico più recente relativamente all’area in oggetto.

I geologi, grandi assenti dell’evento sismico del 6 aprile 2009, studiano come già det-to da anni tutto il territorio italiano, che è uno dei più difficili al mondo, soprattutto perl’imprevedibilità dei terremoti. Questi avvengono perchè l’Appennino abruzzese è gio-vane e sta crescendo: ogni volta che cresce è come se strappasse i suoi vestiti e questocrea un terremoto. I geologi possono studiare il territorio attraverso le analisi storico-statistiche e attraver-so le indagini di terreno fondamentali per la pianificazione territoriale. Per questa for-te conoscenza del territorio non vengono mai chiamati ai tavoli, anzi vengono classifi-cati cassandre, portasfortuna fino a non ultimo terroristi. Questo è non cultura... è ve-dere i propri figli passare davanti alle bare... come è stato purtroppo a L’Aquila. Una analisi attenta delle rocce e delle forme e quindi della storia geologica e geomor-fologica dei terreni del territorio della Valle Peligna ci indica che è una zona a rischiosismico. I terremoti storici (come quello del 1706, celebrato, discusso ed analizzato inun congresso tenuto a Sulmona quattro anni fa) ce lo ricordano continuamente. Questo

Fig. 1- Sezione geologico-geomorfologica del-l’area interessata dal terremoto aquilano.

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è lavorare in maniera corretta ed intelligente da parte dei cittadini e delle istituzioni peril futuro dei propri figli, nipoti e pronipoti. Partendo da questo, quindi, conoscendo si deve pianificare, ma non in maniera scelle-rata e senza criterio. Perché le case sono sì fatte con cemento armato, calcestruzzo, le-gno... ma poggiano su un suolo, su un terreno, su una roccia che risponde da luogo aluogo in maniera diversa alle sollecitazioni di un terremoto. I geologi studiano i terremoti su base statistica, oltre che storica (basata sulle memoriedei terremoti occorsi nel passato).I geologi studiano i terremoti sul terreno cercando di capire attraverso le rocce, le fa-glie, le espressioni geomorfologiche del terreno quali e quanto devastanti possano es-sere stati i terremoti già accaduti in un’area.La conoscenza dei terremoti si accresce ogni volta che ne accade uno nuovo, ogni vol-ta che gli effetti indotti da un terremoto aprono nuove prospettive interpretative.Il territorio italiano, e soprattutto l’Appennino centrale, è tutto geologicamente moltogiovane e vengono da tutto il mondo gli studiosi che vogliono confrontarsi con le pro-blematiche di un territorio geologicamente in evoluzione.La regione abruzzese è studiata da centinaia di anni da quando la geologia e la geo-morfologia del Quaternario rappresentavano nell’area discipline quasi pionieristiche,seguite da pochi studiosi e insegnata da docenti che credevano fortemente che la cono-scenza è alla base del progresso e della civiltà di un popolo. Nelle ricerche effettuate siè cercato di fornire un contributo per risalire alle età delle rocce presenti; per capire co-me sistemi fluviali, palustri, lacustri e di versante possano aver interagito nel tempo(non quello che tutti conoscono ma in quello geologico, in cui l’unità di misura non èil minuto, ma le migliaia di anni...). Tutto ciò può rappresentare un utile contributo perla pianificazione antropica di queste aree. Questo è avere conoscenza dalla scienza e quindi coscienza...I terremoti, allo stato attuale delle conoscenze, non sono prevedibili in nessuno modo,ma sono prevenibili, perché sappiamo che avverranno. Noi dobbiamo imparare a co-noscere per evitare nuovi dissesti come ad Onna (fig. 2).In questo momento è più facile pensare a come difendersi da un terremoto, piuttostoche prevedere quando e dove possa avvenire e con quale intensità.Gli studi che effettuano i geologi sono quindi per PREVENIRE e non per PRE-VEDERE. Il terremoto de L’Aquila diventerà il tema di base per centinaia di pubblicazioni scien-tifiche... tutto ciò deve diventare materiale per l’educazione ambientale geologica e de-ve essere recepito dal legislatore affinché dalla tragedia possano nascere norme e leg-gi che aiutino a far bene una PIANIFICAZIONE TERRITORIALE, con uno spirito in-terdisciplinare in cui i geologi preparati e motivati possano dire la loro, certi di poteressere ascoltati e non derisi.Per l’ennesima volta, come dopo ogni tragedia del genere, si scopre che la gente nonsa che esistono studi geologici; la gente non sa che esistono ricercatori e professioni-

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A un anno e mezzo dal sisma stanno ve-nendo fuori tutti i problemi nella lororeale complessità. Va innanzitutto evidenziata l’inade-guatezza delle soluzioni adottate nellafase di emergenza . Già la Legge iniziale mentre ha deli-neato la (lungimirante) soluzione FIN-TECNA società finanziario-immobi-liare per l’acquisizione-recupero di pa-trimonio immobiliare privato, non havoluto riconoscere in analogia agli al-tri terremoti un rinvio di almeno 5 an-ni delle tasse e il rimborso al 100 % deidanni per qualsiasi tipologia di pro-prietà. Le stesse soluzioni praticate nella fasedi emergenza hanno imposto, per i pic-coli comuni, nuovi villaggi MAP (so-stitutivi!) e, per L’Aquila, un Piano C.A. S. E. (per 4. 500 alloggi) sottodi-mensionato, sperequante e costoso (persolo il 30 % delle famiglie - circa 13.000 - con alloggi “E” a più lungo tem-po di rientro).Particolarmente devastante nel comu-ne di L’aquila è stata anche la sceltadell’A. C. di consentire per 36 mesi (almomento!) interventi in precario (ba-racche) dovunque e comunque con laconseguenza, oggi evidente, di averaperto una falla difficilmente ricondu-cibile a norma e ordine urbanistico edi aver causato un conseguente degra-do-consumo di territorio. Siamo infat-ti ormai, nel comune di L’Aquila, (traC. A. S. E., MAP. MUSP, e baracche

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sti che operano diligentemente nell’ottica della PREVENZIONE.Conoscere oggi significa che la geologia oggi non è più la Cenerentola delle scienze...la geologia oggi è pronta ad aiutare a legiferare bene oppure a far conoscere e rispetta-re le leggi che già esistono. “Usando” opportunamente un geologo si può conoscere be-ne il territorio, si può fare una diagnosi accurata e individuare la cura migliore per il no-stro futuro. Curare e pianificare sono gli obiettivi dei geologi e dei ricercatori delle Scien-ze della Terra. Oggi esistono tante specializzazioni geologiche, tante quante le specia-lizzazioni mediche, e tutte concorrono ad un unico obiettivo: migliorare la qualità del-la vita dell’uomo. La gente della regione abruzzese deve sapere che i terremoti sono un fenomeno natu-rale, non dipendente dall’uomo, con il quale, in un’area come quella del Centro Abruz-zo, bisogna convivere. L’UNESCO ha dichiarato il triennio 2007-2009 Anno Internazionale del Pianeta Terrae nell’art. 1 dice di “Ridurre per la società i fattori di rischio naturali ed antropici”. Pochi o nessuno hanno divulgato questo. Prevenire si può e si deve.

Fig 2- Onna vista dall’alto oggi: a sinistra la parte distrutta dall’evento sismico, a destra le case ricostruite.Si ringrazia il Corpo Forestale dello Stato per la foto ed in particolare il Nucleo Elicotteri di Pescara.

Un primo bilancio sul terremotoAntonio Perrotti

Prefettura a L’Aquila

S. Pietro a L’Aquila

Piazzale Paoli a L’Aquila

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ture ricettive universitarie per 62 ha, altre strutturedirezionali a Piazza D’Armi e, (addirittura!), a Par-co di Sole. Con l’ultima ordinanza viene aggiunto un nuovoCommissario fiduciario del mondo immobiliare ec-clesiastico, Cicchetti già noto a questa città per glisperperi fatti per “la Perdonanza” e soprattutto ven-gono delineate ulteriori espansioni MAP/MAR percirca 20 ha in zone irrigue o alluvionali. Un vero e proprio “assalto alla diligenza” che avrànella variante per le “zone bianche” un ulteriore col-po letale per la qualità dell’abitare e per la tutela delsuolo; infatti tutte queste zone destinate nel PRG vi-gente ad uso pubblico (verde, servizi e attrezzatu-re), preordinate all’esproprio e a vincolo decaduto,devono essere rinormate... “possibilmente - dice lapartitocrazia! - a residenziale con un indice che va da 0,20 a 0,40 mq/mq di SU”. Alcuni autorevoli personaggi di Giunta e Consiglio si sono da tempo spesi per ta-le ipotesi e, ignorando le stesse esigenze (evidenziate dal terremoto) di aree libe-re preordinate ad un più aggiornato ed esteso Piano per l’Emergenza, vogliono ri-proporre tale sconsiderato atto con la conseguenza di contaminare almeno altri 1.120 ha di aree libere interne all’abitato consolidato. Anche in campo energetico nel cratere si vanno addensando campi eolici e alme-no due/tre centrali “bio”, senza che alcuno si preoccupi di verificarne praticabili-tà economica, bacino di rifornimento per le biomasse e eventuali interrelazioni ne-gative aggiuntive. Bisogna arrestare questo processo di proliferazione di inziative estemporanee por-tandole a Valutazione Ambientale Strategica e inibirne gli effetti aggiuntivi cor-relati che nel loro insieme possono produrre sulla piana agricola aquilana e più ingenerale sulle aree del cratere. In tale ottica è ormai improrogabile che la Regione, superando l’illegittima fasedi commissariamento, si riappropri dei compiti di coordinamento della ricostru-zione e adotti un Progetto Speciale regionale per le aree del cratere che dia indi-cazioni produttive, direzionali e infrastrutturali e che delinei un vero e proprio Pia-no Pluriennale di Attuazione supportato economicamente capace di dare certezzeai comuni e ai cittadini. Va altresì superata l’attuale pletora di momenti di verifica (CINEAS; RELUISS;FINTECNA; Comuni; Genio Civile; Sovrintendenza) che ha portato a tempi lun-ghissimi di istruttoria, per istituire “uno Sportello Unico” che verifichi e valuticontestualmente e in 60/90 giorni tutte le istanze di ricostruzione. 27 settembre 2010.

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varie), a circa 300 ha di insediamentirealizzati in contrasto con la pianifi-cazione previdente e a danno del suo-lo agricolo.Con la reiterazione a inizio anno 2010del “commissariamento” a Chiodi-Cia-lente-Fontana, sono poi sopravvenutelinee ed indirizzi “dilatori e fuorvian-ti”, tesi ad imporre defatiganti (quan-do non inutili!) fasi di pianificazione,(dal Piano Strategico a quello di Rico-struzione), fino alla soluzione obbliga-toria dei comparti-aggregati con an-nesso Statuto-tipo. A tale riguardo, in-fatti, è bene sottolineare che non è sta-ta delineata nessuna copertura finan-ziaria per i piani e che, a tutt’oggi, è ri-masto inevaso il problema del supera-mento dei limiti di rimborso per la so-la “prima casa del residente”, che ren-de inutile ed impraticabile tutta la filo-sofia degli aggregati (vogliamo qui ri-cordare che nei comparti del C. S. diL’Aquila le case principali sono poche,mentre nel resto dei centri storici delcratere, ci troviamo di fronte ad un pa-trimonio edilizio esistente appartenen-te a emigrati, turisti di ritorno, o sen-za referenti per mancate divisioni e suc-cessioni).A questo magma gestionale e pro-grammatico, mentre nei piccoli centrialcuni Sindaci provano a riproporre ana-cronistiche visioni impiantistico-ricet-tive al servizio del turismo e, di contro,la situazione langue e si affacciano ifantasmi dell’abbandono, nel comunedi L’Aquila (ormai... terra di conqui-sta!), si vanno aggiungendo nuove ope-razioni immobiliari per nuovi capan-noni industriali per 16 ha, nuove strut-

Villa Sat’Angelo

Villa Sant’Angelo

Hotel Duca degli Abruzzi aL’Aquila

Villa Sant’Angelo

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Lo zafferano è conosciuto da millenni in alcune zone del Mediterraneo e dell’Asia peri suoi stimmi scarlatti utilizzati per le qualità medicinali, aromatiche e coloranti. È in-fatti raffigurato in papiri egiziani del 2° secolo a. C. ed in pitture parietali - il raccogli-tore di zafferano - del palazzo minoico di Cnosso, a Creta (circa 1600 a. C.), citato nel-l’Iliade (IX e XII libro), riportato nella Bibbia fra le piante aromatiche e profumate, nelCantico dei Cantici, IV, 14. Anche per il Kashmiri (India) le segnalazioni della coltiva-zione dello zafferano risalgono al V secolo a. C. (Forbes, 1961; Madam et al., 1966;Basker et Negbi, 1983; Moazzo, 1983; Stearn, 1983). Numerosi sono le citazioni e gliusi nel mondo romano, medioevale e rinascimentale (Tammaro, 1987).Lo stesso nome scientifico Crocus deriva dal greco Krokos, cioè filo dei tessitori, in ri-ferimento alla lunghezza degli stimmi, mentre il nome volgare nelle principali lingueeuropee (zafferano, saffron, azafran, safran, zafoura) deriverebbe dall’arabo zaafaranderivato dal persiano sahafaran e cioè da asfar che significa giallo. Lo zafferano (Crocus sativus L., Iridaceae) è una pianta alta circa 15 cm., che superal’avversa stagione - il periodo caldo-arido dell’estate - perdendo totalmente le foglie econservandosi unicamente come sotterraneo in forma di bulbo-tubero (geofita bulbo-tuberosa).Il suo centro di origine è ignoto. Tenendo conto della distribuzione attuale delle entitàaffini a Crocus sativus ritengo possa essere stato il territorio compreso fra il MedioOriente, Asia Minore, Creta e la Grecia Orientale meridionale insulare. La pianta non esiste allo stato spontaneo, è incapace di produrre frutti e semi, essendouno sterile triploide con 2n=24 (Matthew, 1977). La sua diffusione avviene solo con lacoltivazione. Essa pertanto non costituisce una specie biologica, il cui concetto è in riferimento allapossibilità di interfecondità e fertilità da parte delle popolazioni, ma una specie tasso-nomica, cioè un complesso di popolazioni, riconoscibili con appropriato nome scienti-fico per un insieme di caratteri.

OriginiVi sono differenti ipotesi circa l’origine dello zafferano. Ibridazione: lo zafferano potrebbe essere derivato dall’incrocio in natura fra Crocuscartwrighitianus Herbert (syn. C. graecus Chapp.), pianta fertile a 2n=16 (mathew,1977), la cui attuale distribuzione abbraccia la Grecia meridionale ed insulare, con C.oreocreticus pianta endemica delle montagne di Creta. Taluni autori non concordanocon tale ipotesi poiché C. oreocreticus sarebbe solo una forma montana di C. cart-wrightianus. Noi ipotizziamo, in base agli areali che l’ibridazione naturale possa essere avvenuta fraCrocus cartwrightianus e C. Pallasii, essendo gli areali in parte sovrapposti e coinci-

Lo zafferano dell’Aquila

Fernando Tammaro

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denti, o fra Crocus pallasii e C. thomasiiTen., specie questa strettamente affine a C.sativus L., tanto da essere ritenuta dagli an-tichi sistematici (Fiori, 1929) una varietà(fertile) di C. sativus L. Questo taxon ha unareale (Paradies, 1957) che si estende dal-l’Italia meridionale (da Bari alla Calabria)fino alla Penisola Balcanica Meridionale,ed è assai prossimo, nella porzione più me-ridionale, a quello di Crocus pallasii. Il prodotto dell’incrocio - C. sativus L. - haacquisito dimensioni di gigantismo sia nel-

le parti vegetative (foglie, bulbi, asse fiorale, brattee) che fiorali (stami, stimma, tepa-li), di molto superiori rispetto a quelle di altri Crocus. Vi sono autori che ipotizzano l’origine dello zafferano per effetto di una selezionecolturale dalle piante spontanee di Crocus cartwrightianus (Mathew, 1983) operatadall’uomo. Vi è infine chi ritiene (Chicchiriccò, in press) che lo zafferano sia derivato per un pro-cesso di autopoliploidia (triploidia) da specie affini, probabilmente da C. thomasii(2n=16) per la notevole affinità, nelle varie fasi dello sviluppo embriologico, con C. sa-tivus, o anche da C. cartwrightianus (2n=16).C sativus L. essendo sterile triploide si riproduce solo per via vegetativa, questa fun-zione è favorita dalla coltivazione. L’uomo intervenendo periodicamente evita il gra-duale rimpicciolimento dei bulbi lasciati per lungo tempo nel terreno e con le conci-mazioni li riporta alle “normali” dimensioni. L a propagazione è avvenuta da secoli edavviene per via clonale: le piante di zafferano di differente provenienza, asiatica o me-diterranea, manifestano caratteristiche biologiche omogenee, stabili e comuni (morfo-logia floreale e fogliare, corredo cromosomico ecc.); esse appartengono pertanto adun’entità tassonomica e cioè a Crocus sativus L. (Brighton, 1977). Si riscontra inveceuna apprezzabile diversità fra piante di differente provenienza.

Lo zafferano di Navelli: la coltivazioneLa coltura dello zafferano di Navelli si trova in un territorio atipico e quasi limite te-nendo conto delle caratteristiche bio-ecologiche della pianta. Le coltivazioni aquilanericadono infatti in un territorio submontano (le colture sono impiantate fra 650-1100m), il più elevato dell’area mediterranea ove si coltiva lo zafferano, con piovosità an-nua di circa 700 mm e precipitazioni anche in estate (oltre 40 mm). Per circa tre mesie mezzo le medie minime mostrano valori negativi (da dicembre a gennaio), da ottobrea maggio si possono avere minimi assoluti negativi. L’innevamento può durare 30 gior-ni. Lo zafferano di Navelli sopporta senza danno le basse temperature invernali. Pos-sono nuocere le nevicate precoci soprattutto se è in fioritura. I fiori gelano e si decom-pongono ed il bulbo-tubero si spacca e marcisce.

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La coltura annuale è pertanto da ritenere ilrisultato plurisecolare di una strategia mes-sa in atto dall’uomo per far sopravviverelo zafferano in un ambiente per tale entitàmediterraneo-subdesertica. Probabilmente se lo zafferano fosse statauna pianta spontanea non avrebbe mai po-tuto radicare coi mezzi naturali nell’aqui-lano. In conclusione lo zafferano italianocioè lo zafferano di Navelli prospera in zo-ne non aride, ma temperato fresche. Que-ste condizioni sono del tutto dissimili daquelle di altre zone a zafferano del Medi-terraneo. Come vuole la tradizione (Piccioli, 1932)fu un frate di Navelli, di ritorno dalla Spa-gna, che modificò nel secolo XV le prati-che coltuali spagnole adattandole al climaed al suolo del suo paese. In particolare,specifico adattamento a Navelli fu di svi-luppare la coltura di un ciclo annuale. Ognianno i bulbi-tuberi a Navelli vengono ca-vati dal terreno all’inizio dell’estate e reim-piantati a fine agosto, dopo essere stati se-lezionati sia in ordine alle dimensioni chead eventuali altri fatti (marciume, parassi-ti, virosi, ecc.). Tale ininterrotta selezioneha determinato il reimpianto delle sole piante migliori e perciò la conservazione dei mi-gliori caratteri morfologici e fitochimici. Da ciò deriva che il materiale aquilano risul-ta il più selezionato nel mondo e perciò massimamente pregiato.

Principali pratiche agrarieLa coltivazione richiede una lavorazione profonda di circa 30 cm mediante aratu-ra nei mesi precedenti l’impianto dei bulbi-tuberi. La concimazione avviene in-terrando letame ovino o bovino ben maturo. Il terreno è suddiviso in aiuole. L’aiuo-la si prepara aprendo con apposita zappa a punta, quattro solchi paralleli a 2 a 2,profondi circa 10 cm, distanti 10-15 cm. I bulbi sono poggiati o leggermente in-fissi con la punta verso l’alto, in genere a contatto tra loro. Il bulbo viene rincal-zato con la terra che si apre dal solco vicino. Ogni 4 file costituiscono una aiuola,denominata rasa; ciascuna è larga circa 80 cm, leggermente sopraelevata di 10-15cm, lunga circa 50 m. Da giugno a luglio i bulbo-tuberi vengono cavati dal terreno con zappa o mezzo mec-

Il fiore di zafferano (Crocus sativus)

Il fiore di zafferano (Crocus sativus e stimmi)

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canico, trasportati a casa e conservati in sacchi di canapa. Prima di essere risemina-ti sono distesi su teli e singolarmente esaminati e scelti. A Navelli i bulbi-tuberi non subiscono trattamenti di disinfestazione e non sono effet-tuate irrigazioni. La fioritura avviene in autunno, circa 40 giorni dopo l’impianto, e si prolunga per circatre settimane, da metà ottobre al 7-10 novembre. Durante il periodo antesico si è notato(Tammaro, 1982) che la maggior concentrazione fiorale - oltre il 60% di piante fiorite con-temporaneamente - si ha nell’ultima decade di ottobre. È il periodo che gli Spagnoli in-dicano come “giorni del manto”, quando cioè si verifica la massima esplosione antesica,ed il paesaggio agrario rimane abbellito come se avesse indossato un manto floreale.La raccolta del fiore è manuale. Il raccoglitore avanza nello stradello dell’aiuola rac-cogliendo nelle due fila si sinistra e destra alternativamente. Il fiore viene colto strin-gendolo tra pollice ed indice di una mano e reciso con l’unghia. I fiori recisi vengonoraccolti in canestri di vimini per evitare il loro pressamento. I cesti, portati a casa, sonosvuotati su tavole di legno e prontamente, nella stessa mattinata, inizia l’azione di “mon-datura”, cioè l’apertura del fiore e la separazione degli stimmi dalle altre parti florali. Ifiori vengono raccolti al mattino presto, a fiore ancora chiuso a tubulo, prima che siaprano le corolle. In questo stato il fiore si raccoglie più rapidamente e successivamentesi riesce ad aprire con maggiore facilità e velocità per staccarne gli stimmi. La produzione dei fiori a Navelli dipende soprattutto dalle condizioni climatiche sta-gionali e dall’attacco dei parassiti. Da un ettaro di zafferano si ottengono 40-50 qli difiori freschi. Per ogni kg di stimmi freschi occorrono circa 75 kg di fiori recisi. Dopo la “sfioratura” o “mondatura” gli stimmi vengono sistemati in un setaccio ben ste-si e messi ad asciugare sopra la brace viva di legna di quercia roverella, a circa 20 cm didistanza. Il setaccio è collegato da tre corde ad un unico punto di sostegno e può esserefacilmente fatto ruotare. In tal modo la tostatura è uniforme. Con l’essiccazione alla bra-ce lo zafferano conserva il colore rosso porpora, fragranza ed aroma.

Usi Lo zafferano ha perso molti degli usi che ebbe nella medicina del passato fino al seco-lo scorso, quale abortivo, stimolatore di appetito, sedativo della tosse, analgesico den-tale e per molti altri usi medicinali. Nel mondo classico veniva anche usato come pro-fumo e nelle cerimonie religiose o celebrative. Lo zafferano fu anche usato come colo-rante per veli, fili di ricamo, vetri e ceramiche. Attualmente è considerato un’importante fonte di vit. B2 con circa 100 gamma per g distimmi secchi. Sembra inoltre che la crocetina abbia effetti nella cura dell’arterioscle-rosi e delle malattie cardiovascolari. I principali usi attuali sono nell’industria liquoristica (aperitivi, fernet, vermouth) e dol-ciaria per le qualità coloranti ed aromatizzanti dei principi attivi. Nell’industria ali-mentare ed in cucina ha uso quale colorante di paste alimentari, formaggi e per la pre-parazione di piatti tipici (risotto alla milanese, paella valenciana, ecc.).

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Riassunto: il Gran Sasso ed in minor misura i Monti della Laga si caratterizzano per ilcospicuo contingente di entità relitte del glacialismo quaternario, alpine e circumborea-li. Numerose sono anche le orofite endemiche, le S e le SE europee, non poche delle qua-li a distribuzione illirico-appenninica (anfiadriatiche) e le mediterraneo-montane. Parole chiave: diversità floristica, orofite, Appennino centrale, montagne, Abruzzo,Italia.

IntroduzioneIl Parco del Gran Sasso-Monti della Laga è costituito da due imponenti massicci mon-tuosi appenninici. Il Gran Sasso è esteso da da Passo delle Capanelle (1300 m, a Nord)alle Gole di Popoli (250 m, a Sud); i Monti della Laga si protraggono a Nord di Passo

Diversità floristica e vegetazionale sul Gran Sasso e suiMonti della Laga

Fernando Tammaro

Torrioni rocciosi, Corno Grande, Vetta Orientale del Gran Sasso

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LE DIVERSITÀ DI SPECIE SUL GRAN SASSO

Manca uno studio di sintesi, ma verosimilmente sono circa 1500-1600 le entità flori-stiche di questo territorio. Almeno 300-350 sono alberi ed arbusti. Le principali categorie corologiche sono:A - Piante mediterranee e relitti xericiLe piante mediterranee si rinvengono nelle zone basali ed assommano a circa il 25%della flora totale del massiccio. Gli elementi xerici e steppici sono accantonati in con-che interne aride. Sono relittuali di periodi interglaciali, secchi e caldi. Esempi di spe-cie mediterranee: Matthiola fruticulosa (Conca di Capestrano, Conca Aquilana, Mar-sica); di piante steppico-continentali: Stipa Capillata. B - Piante boreali ed alpineProvenienti dalle Alpi o da zone boreali ancora più settentrionali nel corso delle gla-ciazioni quaternarie, al ritiro dei ghiacciai le piante sopravvissute si sono rifugiate neisettori più elevati del massiccio. Rimaste isolate geograficamente, si sono conservatecome relitti (Dryas octopetala, Vaccinium myrtillus, Juniperus communis subsp. alpi-na, Gentiana nivalis, Silene acaulis, ecc.) o si sono differenziate in entità endemiche,spesso di valore geografico locale (razze geografiche) (es., Matthiola italica da M. va-lesiaca gr.; Viola magellensis da Viola cenisia; Vitaliana primuliflora subsp. praetutia-na, ecc.)Gli elementi nordici assommano a circa il 10% della flora totale del massiccio. Ricor-diamo, oltre quelli già citati, il ginepro sabino (Juniperus sabina), il salice erbaceo (Sa-lix herbacea), l’anemone di montagna (Anemone narcissiflora), la carice rupestre (Ca-rex rupestris), il giunco trifido (Juncus trifidus).C - Piante europeo-orientali ed asiaticheDi particolare interesse sono le specie appennino-balcaniche, la cui distribuzione ab-braccia anche territori al di là dell’Adriatico. Nella flora del Gran Sasso la componen-te orientale s. l. assomma a circa il 25% (con oltre 350 entità); di esse circa il 5% sonoappenninico-illiriche. Appartengono a tale contingente sia piante di altitudine (Leontopodium alpinum subsp.nivale, Gentiana dinarica, Aster alpinus subsp. cylleneus) che delle conche internecollinari e submontane (Chamaecytisus spinescens, Ranunculus illyricus, Linum te-nuifolium, Dianthus ciliatus, Quercus pubescens, Onosma echioides, ecc.). alcune diesse sono presenti, relativamente all’Italia, solo in Abruzzo e talvolta in regioni lii-mitrofe: Aster alpinus subsp. cylleneus; Papaver degenii, Silene parnassia, Gentia-na dinarica, ecc. D - EndemismiSi tratta di piante esclusive di un territorio, talvolta di una sola località. Sul Gran Sassogli endemismi e sub endemismi (di varia ampiezza di areale)sono circa il 6% (oltre 100entità). Insieme alle piante ornamentali ed ai relitti glaciali gli endemismi sono gli ele-menti floristici di maggiore importanza scientifica della Flora abruzzese.

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delle Capanelle attraverso il lago di Campotosto, fino ai territori sovrastanti Amatrice(Rieti) ed Acquasanta Terme (Ascoli Piceno). Geograficamente il Parco è compresoperciò per larga parte nel settore nord-occidentale della Regione abruzzese con pro-paggini che rientrano in territorio marchigiano e laziale. Amministrativamente interessa 3 Regioni (Abruzzo, Lazio, Marche) e 4 Province(L’Aquila, Teramo, Rieti, Ascoli Piceno). E copre una superficie di 148.935 ha, dicui 125. 151 nella Regione Abruzzo. I due complessi montuosi che costituiscono ilterritorio del Parco Nazionale del Gran Sasso-Laga risultano notevolmente diversitra loro per substrato geologico, struttura e morfologia, ed in parte anche per le com-

ponenti biologiche vegetali.

Il Massiccio del Gran Sasso

Il Gran Sasso, massiccio montuoso che an-novera la vetta più elevata degli Appennini(Corno Grande, 2.912 m) nel settore setten-trionale si caratterizza per le pareti precipi-ti, i paesaggi alpestri, le conche glaciali e lemorene, con evidenti aspetti di paesaggio dimontagna alpina, dove gli allineamenti mon-tuosi delimitano splendide valli a morfolo-gia glaciale: Campo Pericoli, Venacquaro eChiarino. Tra i due versanti del massiccio vi sono dif-

ferenze notevoli sia dal punto di vista climatico che floristico-vegetazionale. Nel ver-sante rivolto a Nord-Est si registra una maggiore piovosità. La vegetazione prevalenteè del tipo suboceanico, con dense faggete. Alle quote più basse di questo versante pre-valgono molasse ed argille. Al contrario, il versante orientale e meridionale appare spo-glio di boschi e con vaste praterie aride, sia per la minore quantità di precipitazioni cheper il substrato calcareo, maggiormente permeabile. Il clima presenta caratteri più spic-catamente continentali. Il versante settentrionale racchiude bellissime valli boscose efresche (Valle del Chiarino, Valle del Venacquaro, Val Maone), con dense faggete e ve-getazioni erbacee microtermiche (seslerieto appenninico, festuceto dimorfo). Oltre il li-mite del bosco, sul versante Nord, sottostanti le cime, si osservano relitte brughiere amirtillo nero (Vaccinium myrtillus), su suoli decalcificati e a reazione acida. I vaccinietisono localizzati soprattutto sulle pendici di M.te San Franco, M.te Ienca, M.te Tremoggiae soprattutto M.te Corvo. Sotto la vetta del Corno Grande si trova, anche se in fase di sempre più accentuata re-gressione, il Ghiacciaio del Calderone, l’unico dell’Appennino, relitto della glaciazio-ne wurmiana. Nel versante meridionale prevalgono nelle vaste praterie xeriche le pian-te steppico-continentali; tra queste le conche dei dintorni di Santo Stefano di Sessanio,di Barisciano, di Castel del Monte sono quelle più caratteristiche.

Doline di Campo Imperatore, Gran Sasso

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interne dell’Abruzzo (Valle di Capestrano, Valle dell’Aterno), sistematicamente vicinaa piante congeneri delle steppe rumene ed ucraine. b) Astragalus aquilanus (Leguminosae), pianta dedicata alla città dell’Aquila nelle cuivicinanze è stata per la prima volta rinvenuta in pascoli aridi. c) Matthiola italica (Cruciferae), endemismo delle alte quote dei principali monti abruz-zesi, con una variante geografica anche in Dalmazia, sistematicamente collegata conspecie affini del Vallese e della Carnia. d) Carex flacca Schreber subsp. praetutiana (Cyperaceae), pianta delle piccole torbie-re montane abruzzesi, dedicata dall’illustre botanico di Firenze, F. Parlatore, all’anticopopolo italico dei Pretuzi, abitanti l’attuale territorio di Teramo, essendo per la primavolta rinvenuta nei Monti della Laga teramana. Tale entità è vicariante nell’Appenninoabruzzese di Carex flacca Schreber subsp. claviformis (Hoppe) Br.-Bl., rinvenibile inanaloghi ambienti umidi delle Alpi. e) Gentiana majellensis (Gentianaceae), sistematicamente affine a genziane dei Car-pazi e delle Alpi, propria delle praterie di vetta delle montagne abruzzesi.

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GENERI PIÙ RAPPRESENTATI

È interessante sottolineare che nella Flora del Gran sasso i generi più riccamente rap-presentati sono, oltre quelli tipicamente nordici ed alpini [Gen. Alchemilla (9 specie),Gentiana (12 specie), Saxifraga (18 specie), Androsace (4 specie), Dryas, Vaccinium,Juncus, Adoxa, ecc.], soprattutto quelli steppico-continentali [Astragalus/Oxytropis conAstragalus sesameus, A. depressus, A. australis, A. danicus, A. glycyphyllos, A. vesica-rius, A. aquilanus, Oxytropis campestris, O. pilosa; Anthemis (7specie), Achillea (10specie), Gen. Bromus (14 specie), Gen. Linum (10 specie), tra cui L. capitatum subsp.serrulatum, L. viscosum, L. hirsutum, L tommasinii; Gen. Euphorbia con 9 specie tracui E. samnitica, E. myrsinités, E. Nicaeensis All. subsp. japygica, Gen. Stipa con 5specie, tra cui S. capillata, S. dasyvaginata subsp. apenninicola, S. pennata subsp. erio-caulis, S. martinovskyi].

PIANTE DI MAGGIORE INTERESSE E RARE SUL GRAN SASSO

Tra le piante del Gran Sasso, di più particolare interesse sono gli endemismi puntifor-mi, le piante cioè tipiche ed esclusive del massiccio. a) Goniolimon italicum (Pulmbaginaceae), pianta dei pascoli parasteppici delle valli

Macchia grande di Assergi, siepi e querceto

L’abetina di Fonte Vetica è un bosco di conifere impiantato per adattare sul Gran Sasso alcune specieforestali delle Alpi. Sovrasta l’erta emergenza di Monte Camicia, che nel versante Teramano (Adria-tico) sviluppa pareti a picco di centinaia di metri, conferendo al paesaggio un aspetto dolomitico.

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Numerosi sono i cambiamenti che hanno interessato il rapporto tra il consumatore e ilcibo, intervenuti nell’ultimo ventennio. Alcuni di questi sono stati attivati dall’evolu-zione metodologica, che ha interessato alcune discipline come la storia, l’economia po-litica e le scienze sociali. Si è, infatti, avuta una maggiore attenzione nei confronti ditutti gli aspetti della vita materiale, delle catene produttive, delle reti di prodotto, dellosviluppo locale, ed infine nella qualità piuttosto che nella quantità, anche come risulta-to di una maggiore attenzione verso i consumi tipici di una società articolata e com-plessa come la nostra. Una società sempre più in movimento è naturalmente interessa-ta ai cibi ’esotici’, prima assaggiati nei paesi di produzione e poi resi disponibili nel su-permercato sottocasa. Di queste nuove tendenze si sono accorti ben presto anche i me-dia, che hanno cominciato a inserire nei giornali, nei programmi televisivi e nei film te-matiche relative ai cibi, alla loro preparazione e al loro consumo. L’attenzione verso ilcibo è divenuta anche preoccupazione nevrotica, quando l’internazionalizzazione del-le produzioni e dei consumi alimentari ha lasciato spazio a truffe e a manipolazioni pe-ricolose per la salute dei cittadini. Il mondo contemporaneo si trova di fronte ai dilem-mi di una società del benessere, che nei paesi industrializzati rischia la salute per gli ec-cessi di cibo e nei paesi in via di sviluppo soffre la fame e la malnutrizione. Due geo-grafi britannici, Atkins e Bowler (2001), hanno identificato, a partire dagli anni Ottan-ta, un terzo régime alimentare, che è il risultato delle crisi economiche degli anni Set-tanta, della crescita dei flussi commerciali, dall’insorgenza di multinazionali nel setto-re agroalimentare, e dei cambiamenti nei rapporti di forza e nei diversi ruoli assunti dal-le grandi potenze economiche, tanto da far prevedere per il prossimo futuro una vera epropria rivoluzione che interesserà il cibo, la nutrizione e le politiche agricole (Lang T.,Heasman M., 2004).

La geografia del gustoIn questo complesso di approcci interdisciplinari il geografo ha provato ad inserire lacomponente del territorio. Alla territorializzazione del cibo hanno certo contribuito glieccessi di globalizzazione e le conseguenze negative per la salute umana generate daalimenti prodotti con i metodi dell’industrializzazione avanzata. Proprio negli Stati Uni-ti, inoltre, dove le grandi catene di fast food si vantavano di servire milioni di pasti algiorno si è ormai da tempo sviluppata una tendenza salutista che, sebbene ancora mi-noritaria, ha contribuito a formare una nuova cultura del cibo. Negli anni novanta al-cuni studiosi, per esempio i geografi Shortridge e Shortridge (1998), hanno utilizzatoper la prima volta il concetto di gusto in relazione ad un luogo, e quindi alla geografia,

Geografia del gusto. La filiera del latte e dei formaggi ovini*

Armando Montanari - Università di Roma “La Sapienza”

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f) Stipa martinovskyi (Graminaceae), scoperta sui costoni assolati basali del Gran Sas-so, presso Pizzoli, S. Vittorino (AQ) e zone limitrofe.

PIANTE RARE DELLA FLORA ITALIANA PRESENTI SUL GRAN SASSO

Un interessante gruppo di piante abruzzesi è costituito da entità rare per la Flora italia-na; alcune sono solo di località abruzzesi. Tra esse ricordiamo:Orlaya daucorlaya, presente in ambienti incolti e margini di strade dei dintorni de L’A-quila e presso Salle e Caramanico, nella Valle dell’Orte;Ranunculus marsicus, sui pascoli acquitrinosi di Scanno, Roccaraso, Piano di Fugno diPaganica e Piana di Voltigno;Erigeron epiroticus, sulle pietraie di vetta dei principali monti abruzzesi e del Vettore(Marche).

IL GRAN SASSO E LE PIANTE MEDICINALI

Sul Gran Sasso si è mantenuto un ricco patrimonio di usi fitoterapici ed una notevolericchezza di piante medicinali (Tammaro, 1976). Alcuni usi di piante sono strettamen-te localizzati e tipici di alcune valli dell’Aquilano e del Gran Sasso teramano. Alcunisettori del Gran Sasso orientale (Farindola e dintorni) abbondano di piante officinali. Sirinvengono sia piante mediterranee (nelle zone basali, quali issopo, marrobio, elicriso,ononide, assenzio, rosa canina, ecc.) che montane (nelle zone più elevate, quali gen-ziana maggiore, ginepro comune, belladonna, iperico, colchico, uva orsina, genepì ap-penninico). Anche le zone umide (Capo d’Acqua) sono habitat ricchi di piante offici-nali quali equiseti, valeriana, dulcamara, ulmaria, ecc.

*Articolo pubblicato sulla Rivista “L’Universo”, edizione dell’Istituto Geografico Militare n. 4luglio-agosto 2009 - Tutti i diritti riservati - Autorizzazione prot. n. 6595 del 09/09/2010.

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come espressione di cibo regionale o etnico. Il ‘cibo locale’ si era perduto, come pro-dotto e come cultura, spazzato via dagli effetti indesiderabili della globalizzazione del-l’alimentazione, e invece andava ricercato, studiato, riportato alla luce come contribu-to alla cultura, ma, anche e soprattutto, alla salute del cittadino. Sulla base di analogheconsiderazioni, negli anni Novanta erano stati sviluppati, in Italia e in Europa, marchidi qualità, in cui il territorio e la geografia assumevano un ruolo rilevante nella defini-zione ed operatività dei prodotti alimentari (Papotti D., 2007).La geografia ‘ufficiale’ ha invece usato per la prima volta il termine ‘geografia del gu-sto’ in occasione del 29o Congresso Mondiale della UGI, che nell’anno 2000 si è tenu-to in Corea del Sud: il tema scelto, Living in diversity, faceva riferimento alla necessi-tà di assumere la diversità come riferimento di sviluppo per il nuovo secolo, da con-trapporre all’omologazione, che era stata imposta dai processi di internazionalizzazio-ne del secolo appena concluso. La geografia per definizione studia le relazioni e le dif-ferenze tra luoghi diversi. La ‘diversità’ contribuisce alla stabilità del sistema ambien-tale, sociale ed economico e, quindi, è essenziale per lo sviluppo sostenibile. La ‘di-versità’ mette in evidenza e promuove le caratteristiche specifiche di ciascuna società,aiuta le diverse società a svilupparsi, poiché lo sviluppo è facilitato dalla presenza dielementi che interagiscono tra le culture. La ‘diversità’ amplia le capacità della societàa svolgere attività creative, in quanto la creatività meglio si sviluppa in una società checresce e pensa sulla base delle proprie caratteristiche culturali e, quindi, non dipende dauna cultura dominante. Il Comitato promotore del Congresso ebbe il merito di chiede-re a Jean-Robert Pitte di presentare, durante la sessione plenaria, una riflessione sull’a-limentazione e la qualità del cibo applicati al tema della diversità. Pitte era già assai no-to per i suoi studi sulle dimensioni sensibili della realtà geografica, quindi i paesaggi, isapori (Pitte J. R.,1991; 2004), gli odori (Dulau R., Pitte J. R.,1998), che poi gli hannovalso l’elezione nel 2003 a Rettore della Università Sorbonne. Intorno al lavoro di Pit-te, e sulla base di ulteriori incontri e discussioni promossi nell’ambito della IGU e del-la Società Geografica Italiana, sono stati raccolti altri contributi, in cui la diversità è sta-ta considerata non solo in termini geografici, ma anche dal punto di vista di altre disci-pline come la sociologia, l’economia, la storia, la geologia e la chimica dell’alimenta-zione (Montanari A., 2002). Secondo Pitte (2002) l’uomo, al contrario degli altri esse-ri viventi, non si ciba unicamente per una necessità biologica, ma lo fa per conoscere equindi per migliorare le proprie condizioni economiche, sociali e culturali. Per soddi-sfare questo stimolo di conoscenza è anche disposto a viaggiare e a migrare. Per Pittela ‘geografia del gusto’si deve intendere come studio della ‘diversità geografica del gu-sto’, al fine di recuperare quelle diversità che sono state banalizzate dai processi di glo-balizzazione e che, sebbene desiderate, si riescono a recuperare solo con grande diffi-coltà. In uno studio promosso nel 2004 dalla Università dello Iowa si ritorna a far rife-rimento alla geografia del gusto, per auspicare la produzione di determinati prodottiesclusivamente da parte di quelle aree che ne sono naturalmente e culturalmente voca-te. In questo modo i produttori potrebbero meglio controllare la quantità e la qualità del

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prodotto che viene immesso sul mercato e,quindi, garantirne il marchio: per ’geografiadel gusto’ si intende quindi il territorio cheè in grado di produrre al meglio un deter-minato prodotto enogastronomico di quali-tà (Pirog R., Paskiet Z., 2004).La geografia del gusto cui si fa riferimentoin questo saggio, prevede invece un approcciometodologico alternativo (Montanari A.,2002; 2006). Questa geografia ha infatti co-me oggetto le componenti naturali, cultura-li, economiche e sociali di quel filo invisi-bile che lega le varie fasi della produzionealimentare, dal produttore al consumatore;il modo in cui sono organizzate le singolefasi; le misure di prevenzione e controllo chedevono essere introdotte per rassicurare iconsumatori e per creare quei presuppostiscientifici che permettano uno sviluppo so-stenibile. La filiera dei prodotti gastronomici deve avere un profondo radicamento nelterritorio, quindi deve essere collegata alle risorse naturali e culturali, e costituire unelemento del suo sviluppo. Nella figura 1 si fa riferimento alla filiera di produzione del latte e dei formaggi ovini.Si tratta di una filiera totalmente integrata, in cui un solo produttore decide la scelta del-le razze ovine da allevare, in funzione delle risorse naturali e culturali di una determi-nata area, e sulla base di queste scelte preliminari egli produce latte e formaggi, lana,carne, cultura, informazione ed anche energia e li fornisce direttamente al consumato-re. Si è provato ad indicare la filiera di produzione, differenziando con colori diversi iluoghi dove queste attività avvengono e, quindi, si collegano con le primitive risorsenaturali e culturali.

Il gusto della geografiaCon queste modalità la geografia del formaggio ovino di qualità costituisce per il con-sumatore avvertito l’oggetto di ciò che Urry (1990) definisce gaze. Prima ancora di vi-sitarlo il consumatore è attratto da quel territorio, da ciò la definizione di gusto dellageografia. Le fasi di produzione sono inserite nell’ambiente e nella cultura del luogo,si arricchiscono di quel fascino e di quella poesia che rende la visita una esperienza in-dimenticabile, poiché ripetibile con la mente ogni volta che si sentirà il profumo o siassaggerà il formaggio di quei luoghi. Il consumatore verifica la qualità, ne certifica diper sé la denominazione di origine e ne definisce il disciplinare etico. Se esiste una geo-grafia del gusto allora deve esistere anche un gusto della geografia. Il concetto elabo-

Figura 1. Allevamento ovino, filiera del gusto.

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rato nell’ambito della disciplina geografica (Montanari A., Costa N., Staniscia B., 2007)è stato, in realtà, introdotto da uno storico, Massimo Montanari (2002 e 2004), che lousa per spiegare, negando la storia in un apparente controsenso, che archetipi storicinon erano mai esistiti. «Il gusto della geografia non appartiene al passato», poiché l’in-teresse per la cucina cosiddetta regionale si sviluppa proprio a partire dalle prime fasidei processi di industrializzazione. Egli ammette che differenze regionali siano sempreesistite e, quindi, esalta la geografia, quando afferma che è proprio il concetto di terri-torio, inteso come dato positivo, ad essere una «invenzione nuova» (Montanari M.,2004, pp. 114-115). Assolutamente in linea con Calvino (1995), che in un articolo del1982, allora intitolato “Sapore Sapere”, ci spiega che il vero viaggio implica la neces-sità di «inghiottire il paese visitato», non solo il cibo o le pratiche della cucina, ma an-che «l’uso dei diversi strumenti con cui» si opera per produrre. Immagino che lo scrit-tore si riferisse alla necessità di assaggiare, «far passare per le labbra e l’esofago», guar-dare, ma anche toccare, riconoscere il profumo e i suoni, del risultato di una specificamanualità. Il rapporto biunivoco tra la geografia del gusto e il gusto della geografia sialimenta della creatività del produttore e della sua capacità di introdurre innovazione,mentre conserva le peculiarità naturali e culturali del territorio, così come avviene neiprodotti di quella soft economy descritta da Cianciullo e Realacci (2005). Per meglioidentificare le proprietà positive di questo binomio ‘conservazione - innovazione’ gio-verà ricordare che, per attivare il gusto della geografia, bisogna avvicinare almeno trecondizioni essenziali: la qualità del prodotto enogastronomico, l’innovazione dell’of-ferta, una efficace comunicazione per promuovere prodotti che sono esclusivi, perchéirripetibili e irriproducibili al di fuori di quel territorio. Il gusto della geografia attivanuovi flussi di visitatori e turisti disposti a pagare il giusto - che non è poco - per pro-dotti di cui riescono a percepire la qualità e, quindi, contribuisce a creare quel valoreaggiunto necessario per assicurare la sopravvivenza dell’impresa, anche nel passaggiogenerazionale. La filiera del latte e dei formaggi ovini

Nella figura 2 è rappresentata una produzione di ‘gusto della geografia’come viene pro-posta in un’azienda della Associazione Regionale Produttori Ovi-caprini (ARPO) del-la Regione Abruzzo. La filiera produttiva è stata immessa sul territorio ed è divenutaoggetto di attività culturale da parte del produttore, che invita il consumatore a visitarele pecore, i formaggi, la lana, la carne e i luoghi di produzione dell’energia rinnovabi-le. Tutte attività strettamente collegate ad un territorio particolarmente prezioso al con-fine del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e a poca distanza dai confini delParco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e del Parco Nazionale della Ma-jella. In particolare nella figura vengono indicati percorsi di turismo enogastronomicolegati all’allevamento della pecora, che sono stati scelti per presentare specifici temi eprogrammi. Si tratta di programmi di 3-5 giorni di durata, che invitano a seguire il greg-ge e a svolgere le normali attività del pastore, a identificare le specie vegetali di cui si

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nutrono le pecore, a partecipa-re alla mungitura e alla prepa-razione del formaggi, a segui-re i processi di affinatura e sta-gionatura. Una variabile di que-sto programma, realizzabile nelperiodo primaverile, prevedela partecipazione a tosatura, pre-parazione, lavorazione e colo-ritura della lana mediate l’usodi piante tintorie. Questi dueprogrammi prevedono il per-nottamento nelle abitazioni del-l’antico centro di Anversa, conla formula dell’albergo diffu-so, e l’assaggio dei formaggi nell’azienda agrituristica. Vi è anche la possibilità di se-guire i pastori per una settimana, dormendo all’addiaccio insieme al gregge, percepen-do la presenza degli animali selvatici del Parco Nazionale.

Il programma “adotta una pecora”Tra gli elementi innovativi questa azienda dell’ARPO ha ‘proposto’di adottare una pe-cora e, quindi, di mantenerla e di poterne ricevere quanto da questa prodotto in formaggie in lana. Il messaggio ha avuto grande successo con un investimento puramente ‘in-tellettuale’, l’idea innovativa, piuttosto che economico. La spesa per la pubblicità sa-rebbe stata comunque sproporzionata per l’azienda, troppo costosa ed inutile, perchéavrebbe sollecitato una domanda presumibilmente in quantità tali da non essere facil-mente esaudibile per la dimensione di una produzione diqualità. Il messaggio è stato talmente forte che ha supera-to i confini regionali e nazionali ed ha prodotto un migliaiodi articoli, sia in Italia sia all’estero, e trasmissioni sulle te-levisioni di tutto il mondo. L’azienda ha stabilito una filie-ra per la produzione di salumi di pecora, lane, formazionediffusa, servizi turistici, assistenza all’affitto di abitazionied, infine, di pecorini di qualità, che hanno vinto i primipremi nelle principali manifestazioni del settore, tra cui ilrecente Biocaseus tenutosi a Pienza nel settembre 2007. Lacuriosità suscitata ha richiamato turisti, visitatori, consu-matori, ma anche giovani provenienti da tutto il mondo,che chiedono di lavorare nell’azienda per apprendere la fi-losofia dei processi e, contemporaneamente, lasciando ilsapere della propria cultura e delle proprie tradizioni.

Fig. 2 Allevamento ovino. Gusto della Geografia

Programma “adotta una peco-ra”: certificato di adozione.

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Nella società preindustriale, quale quella abruzzese fino al secondo conflitto mondiale,l’identità femminile veniva rappresentata attraverso l’esibizione dell’ornamento, ne so-no esempio emblematico le donne riferite ad ogni età ritratte dai grandi artisti del “ve-rismo” abruzzese di fine ottocento ed è grazie alla loro documentazione pittorica se siè conservata memoria dell’antico repertorio di gioielli tradizionali altrimenti sconosciutiperché caduti in disuso negli anni trenta del novecento (fig. 1).L’oreficeria tradizionale corrispondeva aigusti ed alle esigenze delle persone “co-muni”, provenienti dalle classi subalterneche, per consuetudine culturale, coniuga-vano la valenza estetica ed economica del-l’ornamento con quella simbolica e fun-zionale, risultando poco inclini a seguire icapricciosi dettami stilistici nell’alternan-za delle mode, invece, appannaggio dei ce-ti più abbienti. Caratteristica dei gioielli di questo tipo erala bassa percentuale di oro utilizzato nellalega con altri metalli, soprattutto con il ra-me e l’impiego di vetri colorati e pietre se-mi-preziose, come corniole, granati, ma-dreperla, perle “barocche” (scaramazze).La produzione si avvaleva delle tecnichedella fusione, dello sbalzo e del cesello ma,soprattutto in alcuni centri quali Pescoco-stanzo e Sulmona, i maestri orafi eccelle-vano nella realizzazione di gioielli in filigrana.1

In un’epoca in cui il costo del lavoro era di molto inferiore a quello della materia pri-ma, questa lavorazione permetteva di realizzare manufatti leggerissimi di grande effet-to decorativo, consistenti in sottilissimi fili di metallo prezioso intrecciati, battuti e sal-dati attorno ad un telaio in lamina, disegnando motivi floreali e spiraliformi che arric-chivano il risultato estetico. Comunque, più che nelle tecniche, l’oreficeria popolare si distingueva per le decora-zioni con motivi simbolici magico-religiosi, spesso ispirati al mondo naturale, asso-ciando il risultato estetico dell’oggetto con quello magico-simbolico, anche di tipo apo-tropaico (protezione dalle influenze nefaste e dal malocchio).Nella storia dell’ornamento prezioso, infatti, non bisogna dimenticare l’importante ruo-

Per una geografia del gioiello - Il caso “Presentosa”

Adriana Gandolfi

Fig. 1 - F. P. Michetti, Donna in costume

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Il programma “Enduring Cheese” in Afghanistan

La internazionalizzazione importata è dive-nuta esperienza esportata nel progetto “En-during Cheese”, che l’ARPO ha promossoin Afghanistan. Il nome del progetto rientranelle finalità del più noto programma “En-during Freedom”, proponendosi di insegnareai nomadi pastori Kuchi l’arte tutta medi-terranea di rendere ’durevole’nel tempo, ap-punto trasformandolo in formaggio, il latte.Alcuni soci dell’ARPO sono già andati inAfganistan a prendere contatto con i pasto-ri Kuchi, i quali verranno, in una fase suc-cessiva, sulle montagne abruzzesi per me-glio apprendere l’arte del casaro e per di-ventare a loro volta promotori di nuove mi-cro-realtà economiche.

BibliografiaATKIN P., BOWLER I., Food in Society: economy, culture, geography, Londra, Arnold, 2001. CALVINO I., Sotto il sole giaguaro, Milano, Mondadori, 1995. CIANCIULLO A., REALACCI, E., Soft economy, Milano, RCS Libri, 2005. DULAU R., PITTE J. R., Géographie des odeurs, Parigi, L’Harmattan, 1998. LANG T., HEASMAN M., Food Wars. The global battle for mouths, minds and markets, Londra, Earth-scan, 2004. MONTANARI A. (a cura di), Food and Environment. Geographies of taste, IGU Home of GeographyPublication Series, Vol. 2, Roma, Società Geografica Italiana, 2002. MONTANARI A., “Il turismo abruzzese come elemento di integrazione e riequilibrio del territorio at-traverso l’utilizzo delle risorse locali. Il ruolo dell’ecoturismo e del turismo enogastronomico” inBUZZETTI L., MONTANARI A. (a cura di), Nuovi scenari turistici per le aree montane. Abruzzo e Tren-tino: sviluppo locale e competitività del territorio, Trento, Artimedia, 2006, pp. 81-121. MONTANARI A., COSTA N., STANISCIA B., Geografia del Gusto, Ortona, Menabò, 2007. MONTANARI M., “From the geography of taste to the taste for geography” in MONTANARI A. (a curadi), Food and Environment. Geographies of taste, IGU Home of Geography Publication Series, Vol.2, Roma, Società Geografica Italiana, 2002, pp. 29-32. Montanari M., Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2004. PAPOTTI D., “Geografie del gusto: prospettive territoriali sull’alimentazione”, in PICCHIARELLI I., BA-RONO E. (a cura di), Alimentazione e cultura, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 163-184. PIROG R., PASKIET Z., A geography of taste: Iowa’s potential for developing place-based traditionalfood, Ames, Iowa State University, 2004. PITTE J. R., Gastronomie française. Histoire et géographie d’une passion, Parigi, Fayard, 1991; PITTE J. R., “Geography of taste: between globalization and local roots”, in MONTANARI A. (a curadi), Food and Environment. Geographies of taste, IGU Home of Geography Publication Series, Vol.2, Roma, Società Geografica Italiana, 2002, pp. 11- 28. URRY J., The tourist gaze: leisure and travel in contemporary societies, Londra, Sage, 1990.

Agosto 2006, prove di formaggio a Kabul daparte dei soci ARPO con il caldaio e gli stru-menti acquistati nel bazar locale (fotografia diN. Marcelli).

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lo svolto, nei secoli passati, dall’abbigliamen-to tradizionale, in special modo nei centri diPescocostanzo e Scanno tuttora interessati sia,da una discreta produzione orafa che, dalla per-sistenza nell’uso del “costume femminile” fi-no ad epoca recente. In tale contesto, risulta evidente come il gioiel-lo, contribuiva a caratterizzare l’individuo insenso etnografico, rivelandone non solo la con-dizione civile e sociale ma soprattutto, segna-landone il territorio di provenienza. (fig. 2)Destinati ad ornare ed a fornire precise conno-tazioni culturali, soprattutto al genere femmi-nile, la maggior parte degli ornamenti prezio-si era destinata all’occasione nuziale e tra que-sti, risalta la cosiddetta presentosa, emblema-tico gioiello di dannunziana memoria:«Portava agli orecchi due grevi cerchi d’oro esul petto la presentosa: una grande stella di fi-ligrana con in mezzo due cuori»2

Si presenta come un medaglione riproducente unsimbolo solare, realizzato in lamina ritagliata, contornata da volute in filigrana (fig. 3).Veniva donata alla ragazza prescelta dal pretendente, in occasione del primo incontrotra le due famiglie, come presentènze e rappresentava nei confronti del contesto socia-le la promessa di matrimonio, da quel momento la ragazza risultava impegnata, da cuila denominazione presentòsa. Per tale caratteristica, la decorazione centrale riportava come motivo prevalente sim-boli cuoriformi o comunque di ispirazione amorosa, offrendo numerose varianti al mo-

tivo originario. Probabilmente ogni orafo am-biva a differenziare ed arricchire la sua opera,spesso creando uno stile personale, oppure siadeguava alle richieste specifiche del fidanza-to committente, in tal modo la presentosa si ar-ricchiva di contenuti semantici specifici, anchedi matrice apotropaica, a seconda dell’occa-sione e dell’inventiva personale. Erano famose le collane prodotte ad Agnone eL’Aquila nella prima metà dell’800, costituiteda festoni in lamina traforata collegati a pre-sentose di varie dimensioni che scendevano acoprire tutto il petto dell’abito nuziale, allora

Fig. 2 - Abito nuziale antico del paese diScanno, Tav. XVIII del vol. di E. Canzia-ni, 1928

Fig. 3 - Presentosa, Agnone metà ’800

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piuttosto di colore scuro e non candido come quello attuale, proprio per favorire l’o-stentazione dell’oro. A L’Aquila questo vistoso pettorale era denominato cròna de pet-to, poiché “incoronava” il mezzobusto della donna maritata come una regina e venivaereditato da una generazione all’altra, ogni passaggio si arricchiva di nuove catenelle epresentose (fig. 4). Cosicché, in mancanzadi marchi di identifica-zione, oltre alle diffe-renze tecnologiche i mo-tivi simbolici che ne de-corano i repertori di-vengono “indicatori” geo-grafici per le manifattu-re di provenienza, ri-scontrabili presso depo-siti votivi, collezionistie musei.3

Infatti dalla ricerca sulterritorio, sono emerseben otto tipologie co-siddette “storiche” del-le quali ben sei riporta-no il simbolo del cuorecon varianti: cuori af-fiancati, uniti da un cre-scente lunare, fiammeg-gianti, sanguinanti o la-crimanti, uniti da chia-ve, cuore singolo. Aqueste fanno riscontroaltrettante zone e/o bot-teghe orafe di riferimen-to, distribuite per granparte del territorio degli“Abruzzi”, eccettuandol’area picena e teramana. Cuore semplice, cuore ac-coppiato, prevalgono nel-la lavorazione pescolana (fig. 5), i cuori sormontati da fiammelle provengono da bot-teghe aquilane (fig. 6), mentre il motivo dei cuori uniti da crescente lunare di distinguenella produzione agnonese, guardiese e scannese (fig. 7).

Fig. 4 - Collana a festoni, Agnone, sec. metà ’800Fig. 5 - Pescocostanzo, Primi ’900

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La donna, in quanto tramite necessa-rio e fondamentale per trasmettere di-scendenza alla famiglia, doveva pre-servare e propiziare la sua fecondità,per questo i suoi ornamenti suggeri-vano simbolici riferimenti allusivi difertilità e benessere. Il cuore unito da mezzaluna, infatti,evoca unione feconda della coppia,così come la chiave “serra” i cuoriper riservarli l’uno in potere dell’al-tro (fig. 8). Anche la figura di una nave, segnalametaforicamente alla ragazza la pro-messa d’amore da conservare, in unmedaglione sul cuore, finchè non tor-nerà, per sposarla, il fidanzato emi-grato oltre oceano (fig. 9).Invece, una colomba dello “spirito san-to” con eucaristia nel becco rappre-senta il ricordo della “prima comu-nione”4 (fig. 10). Oltre alla decorazione centrale, la dif-ferenza stilistica risulta anche dall’e-secuzione dell’elaborato in filigrana. Il termine “filigrana” indica general-mente manufatti prodotti in filo me-tallico, anche solamente ritorto e av-volto in cordellina semplice, ma la tec-nica originaria consiste nell’intreccio“martellato” di un doppio filo che, os-servato di profilo, mostra segmenti tra-sversali a “spiga di grano”.Ebbene, soltanto gli esemplari di Pe-scocostanzo, Sulmona e Scanno5 ri-portano ornati in filigrana vera e pro-pria, il resto delle manifatture preferi-sce realizzare elaborati più semplici,talvolta arricchendo la composizionecon gemme e smalti.

Fig. 6 - L’Aquila, sec. metà ’800Fig. 7 - Scanno, primo ’900

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Dal riscontro archivistico, relativoquesto gioiello, se ne desume un’o-rigine settecentesca a partire dalle ec-cellenti manifatture orafe di Pesco-costanzo, Guardiagrele, Agnone6, perscavalcare l’Appennino peligno - fren-tano e diffondersi su gran parte de-l’allora Regno Borbonico, soprattut-to in area garganica e campana (fig.11).Probabilmente, tale diffusione stili-stica venne favorita dalla pratica del-la pastorizia transumante; migrazio-ne stagionale di andata e ritorno chegli armentari dell’Appennino abruz-zese effettuavano verso le pianuremeridionali, sin da epoca preroma-na. Tanto successo riscosse infatti que-sto modello, che nell’ultimo secoloè stato riprodotto persino in versione“sarda” dove viene chiamato “su so-le” (fig. 12).Anche in questo caso sono stati i con-tatti di lavoro intercorsi, nel dopoguerra,tra pastori dei mari opposti, Adriatico-Tirreno, a permetterne rielaborazioniin stile “isolano”, soprattutto dagli ora-fi di Oliena e Dorgali.

Nonostante la crisi di tutte le arti ap-plicate intervenuta negli ultimi de-cenni per la massiccia produzione in-dustriale intervenuta in nome “del-l’economia di mercato” e grazie ad un’appropriata “acculturazione” per il recuperodei valori caratterizzanti l’identità del territorio, nell’ultimo periodo l’oreficeria sirivela di protagonista di rinnovata arte che nella presentosa ha ritrovato la sua crea-zione più rappresentativa. Attualmente, operano nella regione un discreto numero di laboratori capaci sia di ri-visitarne il repertorio tradizionale che di realizzarne accattivanti rielaborazioni, ope-ranti non soltanto in centri di antica “vocazione professionale” ma anche in località

Fig. 8 - Sulmona, sec. metà ’800Fig. 9 - Agnone, fine ’800

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Pescocostanzo - il cui nome è formato dal termine Pesco, di derivazione osca (signifi-ca “roccia, arce”), e dal nome di un personaggio rimasto sconosciuto - ha le sue origi-ni nel generale fenomeno dell’“incastellamento” delle popolazioni dell’Appenninoabruzzese nell’XI secolo. Appare già come Universitas, con un suo stemma, nel seco-lo XIV e mostra chiari segni di crescita nel secolo successivo, quando gode di una cer-ta libertà che le proviene dall’essere a più riprese sotratta a feudatari e tenuta nel de-manio regio. Attesta le sue buone condizioni economiche l’immediata ricostruzione dopo il terre-moto del 1456: nel 1466 è già risorta, in dimensioni notevoli che saranno via via in-grandite (fino alle attuali cinque navate), la chiesa di Santa Maria del Colle. Ma ciò chela caratterizza subito, e le darà un volto inconfondibile per il futuro, è l’acquisizione sta-bile di un folto gruppo (anzi, di più gruppi giunti a ripetizione) di quelle maestranzelombarde affluite in Abruzzo dopo il sisma. La ricca committenza locale, la colloca-zione del paese su un itinerario stradale di forte dinamismo (la “Via degli Abruzzi” checollegava Napoli alla Toscana da una parte e alle Maqrche, all’Emilia e alla Lombar-dia dall’Altro), la reperibilità di ottima pietra da taglio nelle cave dell’area circostante

PescocostanzoFrancesco Sabatini

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meno storiche come quelle costiere,ampliando così la geografia di unarinnovata consapevolezza culturaleattorno ad un emblematico e prezio-so simbolo d’amore.

Fig. 10 - Casoli, primi ’900

Fig. 11 - Presentosa variante di Monte San-t’Angelo - FG

Fig. 12 - variante sarda dell’orafo S. Mastroni,primo ’900 Oliena - NU

Pescocostanzo, Piazza Municipio

1. Per eventuali approfondimenti sull’argomento, cfr. A. Gandolfi, E. Mattiocco, “Ori e argenti d’Abruzzo. Dalmedioevo al XX secolo; PE 19962. G. D’Annunzio: “Il trionfo della morte”, 1894. 3. Cfr. gli esiti della ricerca pubblicati nel saggio A. Gandolfi, “La presentosa. Un gioiello abruzzese fra tradi-zione e innovazione”, IV ediz. Dic. 2007 4. Un orafo di Casoli la realizzò personalmente per ricordare alla figlia la sua “prima comunione”, un raro casodi donativo extra-nuziale. 5. In questa località la presentosa è stata riprodotta soltanto a partire dal primo ’9006. Attualmente in provincia di Isernia, ma assegnata al tenimento di Chieti fino al 1811

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(qualcuna conserva i loro nomi sulla roccia), attrassero in modo particolare a Pescoco-stanzo i “Lombardi”, i quali vennero a inserire nella comunità una compatta categoriadi artigiani delle diverse specialità: della pietra e del marmo, dell’intaglio ligneo, delferro battuto. L’arrivo anche delle loro donne introdusse il merletto a tombolo (del tipoa “punto Milano”). La colonia lombarda addirittura importò e impose alla comunità in-tera un elemento del rito liturgico ambrosiano, il battesimo per immersione, praticatoancora oggi; e gli artigiani conservarono gelosamente il loro gergo di mestiere, la “lin-gua lombardesca”, di cui c’è ancora traccia (qui come a Vasto, l’altro centro di forte lo-ro insediamento).Nella prima metà del ’500 si era già creato quel circolo virtuoso che, mettendo insiemela forte capacità finanziaria della classe abbiente (fatta di armentari), il suo alto livelloculturale (testimoniato dalle numerose biblioteche) e la disponibilità in loco di raffina-te maestranze, avviò Pescocostanzo a diventare una città d’arte, addirittura dotata di unaspecie di magistratura per l’edilizia (approvata nel 1535 dalla feudataria Vittoria Co-lonna). Ne fa fede un insieme di tratti urbanistici: l’ampiezza delle strade, l’espansionedei nuovi quartieri in aree pianeggianti, il fissarsi di un’edilizia minore tipica (la casacon scala e ballatoio esterni, che costituivano il “vignale”), l’allinearsi di una ventinadi palazzi e palazzetti (Manzi, D’Amata, Schieda, Ricciardelli, De Massis, Grilli, Gril-lo, Mosca, Cocco-Palmeri, Colecchi, Cocco, Sabatini, Pitassi, Colabrese, Vulpes, DeCapite e altri), sulle vie principali, la presenza di artistiche fontane, edicole, colonne

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commemorative, la fantasia dei cento portali, la profusione di motti e stemmi su portee finestre. A metà del ’500 questa città di alta montagna ha perfino il suo poeta, Anto-nio De Matteis, un ricco e colto armentario che decanta la nobiltà di questo ambiente ela fonte della sua ricchezza, la pecora. Vi sorsero 16 chiese, tra cittadine ed extraurbane, e tre sono particolarmente grandi, unadelle quali addirittura basilicale. Riassumerne la storia è qui impossibile. Mi limito adalcune considerazioni generali e a un cenno speciale per la Collegiata di Santa Mariadel Colle, divenuta il vero museo della civiltà pescolana. Nell’insieme degli edifici religiosi si stratificano pochi resti due-trecenteschi (il gran-de portale della Collegiata, la statua lignea della Madonna del Colle), più consistentiopere di età rinascimentale (gli edifici principali e vari altari lapidei e lignei) e poi laprofusione delle più fantasiose ma ben calibrate realizzazioni barocche. Intorno al 1620-30 il grande architetto e scultore Cosimo Fanzago (lombardo-napoletano) dirige a Pe-scocostanzo più cantieri e vi introduce, realizzando un grandioso altare nella chiesa deiFrancescani, l’arte dei marmi “commessi”, che poi fiorisce in loco per altri tre secoli.Si afferma una scuola di architetti delle facciate delle chiese barocche (i Cicco) e deigrandi soffitti lignei scolpiti, dorati e dipinti (in questo genere opere spettacolari eseguenella Collegiata Carlo Sabatini, venuto da Anversa nel 1653; celebre sarà nel ’700 Fer-dinando Mosca). Tra i maestri del ferro battuto, il fabbro pescolano Sante di Rocco rea-lizza (nel 1699-1705) uno dei capolavori di quest’arte in Italia, il cancello della Cap-

Pescocostanzo, Santa Maria del Colle Pescocostanzo, Piazza Municipio

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CENNI FISIOGRAFICI

Il Parco della Majella si trova nella porzione orientale dell’Appennino centrale, a po-che decine di chilometri dalla costa adriatica. Esso è caratterizzato fondamentalmentedalla presenza di due grossi massicci montuosi che occupano la porzione centrale e set-tentrionale del territorio del Parco, la Majella, da cui il Parco prende il nome, ed il Mor-rone, separati dalla sella di Passo S. Leonardo. Il massiccio della Majella ha la forma di una possente e compatta cupola calcarea, il cuimotivo strutturale dominante è rappresentato da una grandiosa anticlinale. Nella por-zione centrale del massiccio si ergono le cime più elevate, tra cui M. Acquaviva (2740m), M. Focalone (2676 m), M. S. Angelo (2669 m), M. Rotondo (2656 m), Pescofal-cone (2657 m) e M. Macellaro (2631 m), che culminano nei 2793 m di Monte Amaro,seconda vetta dell’Appennino. Un tavolato ondulato, posto ad un’altitudine di 2100-2300 m, costituisce il cuore delmassiccio ed è ricoperto da detrito e lastroni calcarei che formano immensi ghiaioni suiversanti acclivi. I fianchi della montagna, nelle porzioni orientale e settentrionale, sono incisi da pro-fondi valloni che nella loro porzione inferiore formano strette forre dominate da spet-tacolari pareti rocciose. Il massiccio del Morrone, la cui cima più elevata è M. Morrone (2061 m), è una lungae stretta catena montuosa allineata in direzione NO-SE, affusolata nella parte setten-trionale alla cui estremità le Gole di Popoli segnano il passaggio alle prime propagginimeridionali del Gran Sasso. A sud dei due massicci, oltre la depressione di Campo di Giove, M. Porrara (2137 m),M. Pizzalto (1966 m) e M. Rotella (2129 m), tre dorsali parallele allineate in direzioneNW-SE declinano negli ampi pianori carsici degli Altipiani Maggiori, formati dalle uni-tà del Piano delle 5 miglia e dei Quarti. I Monti Pizzi, all’estremità sudorientale del Parco, sono costituiti da una serie di pic-coli monti allineati in direzione SW-NE, tra cui M. Secine (1883 m), Serra Tre Monti(1822 m), M. S. Domenico (1612 m), M. Lucino (1626 m).Fondamentalmente, la Majella è formata da poderose stratificazioni calcaree, nelle qua-li sono rappresentati in pratica tutti i periodi geologici dal Triassico in poi. Intenso è sta-to il modellamento glaciale; forme di erosione e di accumulo dei ghiacciai sono moltofrequenti nel settore centrale, con circhi, valli e morene. Comuni sono anche i fenome-ni carsici, come, tra quelli epigei, le “polje” (ad es. la valle ed il Fondo di FemminaMorta) e le doline (ad es. tra i Tre Portoni e M. Amaro, o tra Cima dell’Altare e Tavo-

Il Parco Nazionale della Maiella: aspetti della flora e dellavegetazione

Gianfranco Pirone* e Giampiero Ciaschetti***Dipartimento di Scienze Ambientali, Università dell’Aquila;

**Parco Nazionale della Majella;

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pella del Sacramento, unico per la lavorazione a tutto tondo di figure umane, ferine efantastiche. Per la pittura, invece, si attinge all’esterno, soprattutto a Roma e a Napoli:nel 1614 viene commissionata una grande tela addirittura al caravaggesco Tanzio daVarallo. Pescocostanzo era in quel secolo all’apogeo della sua fortuna. La popolazione am-montava a circa 2200 abitanti; le aziende armentizie mettevano insieme 32. 000 capiovini. Ma da allora, gradatamente questa industria andò ridimensionandosi, un po’ peruna tendenza generale, un po’ perché andava crescendo il ceto degli artigiani (marmo-rari, intagliatori, scalpellini, orafi) e degli artisti, che accumulavano ottimi guadagni conla loro arte, fortemente richiesta anche fuori della loro patria. Furono tutti questi i fat-tori che dettero alla comunità la forza per giungere all’atto più emblematico della suastoria civica: la “ricompra”, ossia riscatto con denaro proprio, nel 1774, dal feudatariodel tempo, un Testa Piccolomini di Roma. Da quel momento Pescocostanzo si intitolòUniversitas Sui Domina ,“Comunità padrona di sé”. Ma dalla fine del ’700 la fioritura artistica si esaurì. Fece in tempo a giungervi il neo-classico, ma ai soffi di una modernità artistica di più ampio respiro questo mondo erairrimediabilmente chiuso. Invece fu questo il periodo in cui vi fiorì decisamente la mo-derna cultura intellettuale e scientifica, irradiata da Napoli: in perfetta sintonia con ilformarsi della grande generazione degli intellettuali e scienziati, e ferventi patrioti perla causa italiana, emersero qui ai primi del secolo XIX le figure di Ottavio Colecchi edi Benedetto Vulpes, ricordate in apertura di questo saggio. Le trasformazioni generali prodotte dall’unificazione nazionale portarono in questo am-biente un improvviso generale abbassamento del tono di vita. La classe dirigente, ric-ca e colta, emigrò e si distaccò quasi del tutto; si interruppe il fecondo rapporto con Na-poli, non subentrò quello con Roma. L’artigianato artistico non trovò più sbocchi. Il ce-to popolare si dimezzò con l’emigrazione transoceanica. Il paese si chiuse davvero inse stesso e non fu raggiunto da nuovi stimoli, nemmeno quando, ai primi del ’900, sicominciò a scoprire dall’esterno (grazie al fitto rapporto tra Gaetano Sabatini e Corra-do Ricci) il suo patrimonio d’arte. Una scoperta sostanzialmente senza frutti: il turismo,che aveva portato nuova intensa vita nella vicinissima Roccaraso e a Scanno, per oltrecinquant’anni qui non attecchì. Il soggiorno di alcuni intellettuali di spicco (AdolfoOmodeo, Giuseppe Tucci, Ugo Cerletti) non fece mai notizia. Il decollo turistico di Pescocostanzo data agli anni ’60 e ’70 del secolo appena trascor-so: successivo, ma non ben definito, è anche il suo programma di “riattivazione” di unafunzione culturale, che potrebbe tra l’altro svolgere pienamente (ma il processo si è ap-pena avviato) nella cornice del Parco Nazionale della Maiella, del quale è uno dei cen-tri vedetta.

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la Rotonda) e, tra quelli ipogei, le grotte (Grotta del Cavallone, Grotta Nera, Grotta Scu-ra, Grotta delle Praie, ecc.).Più o meno stessa natura geologica hanno il massiccio del Morrone e l’allineamento M.Porrara-M. Pizzalto-M. Rotella, quest’ultimo appartenente però ad una autonoma piat-taforma carbonatica, sebbene i fenomeni glaciali siano molto meno evidenti per via del-le quote più modeste. Sui Monti Pizzi prevalgono i flysch pelitico-arenacei di formazione sia autoctona chealloctona. Nel Parco sono inoltre presenti altri depositi di origine terrigena risalenti alCenozoico tra cui marne, calcareniti, evaporiti e argille varicolori, nonchè depositi qua-ternari quali brecce e conglomerati, terre rosse e depositi detritico-colluviali. Ai particolari caratteri geomorfologici e litologici è legata la rete idrografica, fortementecondizionata dal carsismo sui massicci calcarei. Qui, infatti, le sorgenti sono quasi deltutto assenti al di sopra dei 900 metri, e sono invece molto diffuse a quote inferiori do-ve alimentano i bacini di vari fiumi (Orta, Foro, Verde, Aventino, ecc.).Una fitta rete idrografica superficiale è invece presente sui Monti Pizzi e nell’ampia fa-scia di flysch che caratterizza la valle dell’Orta. Relativamente al clima, l’ampia estensione territoriale ed altitudinale del Parco fa sì chevi siano rappresentati numerosi tipi inquadrati nei bioclimi Mediterraneo, che si realiz-za all’estremità nordoccidentale del Parco, e Temperato, nettamente prevalente. Note-vole è infatti l’articolazione sia dei tipi termici, che variano prevalentemente in rela-zione all’altitudine, sia di quelli ombrici. Le precipitazioni, nel territorio magellense,superano generalmente i 1000 mm annui, con massimo tra novembre e dicembre; i me-si meno piovosi sono luglio e agosto. I temporali sono molto frequenti, improvvisi eviolenti, tanto che la Maiella è ricordata da Rigo (1872), famoso botanico ottocentesco,come “capricciosa di tempeste”. Le nevicate, abbondanti, si concentrano nel periodoche va dalla metà di settembre alla fine di maggio, ma non è improbabile che nevichianche negli altri mesi dell’anno.

LA FLORA1

La copertura vegetale del Parco della Majella è ricca, complessa e variamente articola-ta, come conseguenza delle più svariate condizioni climatiche, della notevole estensio-ne altitudinale e dell’aspra morfologia, oltre che della millenaria presenza dell’uomo. Le esplorazioni botaniche sulla Majella sono iniziate nel secolo scorso ad opera di Mi-chele Tenore (1780-1861) e sono poi proseguite nello stesso secolo con Vincenzo Ce-sati, Gregorio Rigo, Emile Levier, per citare i botanici più famosi. Numerosi sono sta-ti i contributi floristici di questo secolo (cfr. Tammaro e Pirone, 1995).Notevole è la ricchezza floristica della Majella. Dal Repertorio Sistematico della Floradel massiccio (Tammaro, 1986) e dai successivi contributi (Conti, 1987; Conti e Pelle-grini, 1989; Conti et alii, 2002, 2006; Conti & Tinti, 2006), si deduce che le entità cen-

1 Per la nomenclatura si fa riferimento, salvo qualche eccezione, alla Checklist della Flora Italiana (Contiet alii., 2005).

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site fino ad oggi sono oltre 2100, pari a circa il 30% della flora italiana e ad oltre il 15%di quella europea, dall’Atlantico agli Urali. Numerose sono le entità il cui epiteto specifico deriva dal nome del massiccio (Ranun-culus majellensis, Aquilegia majellensis, Viola magellensis, Cynoglossum magellense,ecc.), in quanto scoperte e descritte per la prima volta sulla Majella o anche perché mol-to diffuse sul massiccio. La Majella costituisce per molte entità (oltre 50) il “locus classicus”, cioè la località dacui provengono i campioni con cui gli Autori hanno descritto le specie; ne sono esem-pi Adonis distorta, Alyssum cuneifolium subsp. cuneifolium, Androsace mathildae, Aqui-legia magellensis, Artemisia umbelliformis subsp. eriantha, Ptilotrichum rupestre subsp.rupestre, Ranunculus magellensis. La flora magellense è caratterizzata, dal punto di vista corologico, dalla prevalenza del-le entità eurasiatiche e nordiche che, complessivamente, ne costituiscono quasi la me-tà. Abbondanti sono anche le entità mediterranee, soprattutto nei settori basali, che par-tecipano per un terzo circa. Elevato è anche il numero delle entità orientali, tra cui spiccano le balcanico-appenni-niche, il cui areale principale gravita nei settori balcanici; ne sono esempi Leontopo-dium nivale, Gentiana dinarica, Sesleria juncifolia subsp. juncifolia, Artemisia umbel-liformis subsp. eriantha. Altra importante peculiarità della flora magellense è costituita dal nutrito contingentedi entità endemiche, che ammontano a 142, pari a quasi il 7% della flora del Parco. Nel seguente quadro sono riportati alcuni esempi di endemismo.

A - Endemiche esclusive delParco della Maiella

B - Endemiche dell’Ap-pennino centrale

C - Endemiche dell’Ap-pennino (non ristrette al-l’Appennino centrale)

B - Endemiche dell’Ap-pennino centrale

Pinguicula fiorii, Soldanella minima subsp. samnitica, Centaureatenoreana

Adonis distorta, Androsace mathildae, Aquilegia magellensis, Pti-lotrichum rupestre subsp. rupestre, Minuartia glomerata subsp.trichocalycina, Cymbalaria pallida, Campanula fragilis subsp. ca-volini, Anthemis cretica subsp. petraea, Euphorbia gasparriniiBoiss. subsp. samnitica, Leontodon montanus subsp. breviscapus,Saxifraga italica, Thlaspi stylosum, Viola magellensis

Acer cappadocicum subsp. lobelii, Astragalus aquilanus, Cera-stium tomentosum, Galium magellense, Carum flexuosum, Car-duus affinis subsp. affinis, Festuca violacea subsp. italica, Myo-sotis ambigens, Lomelosia crenata subsp. pseudisetensis, Cyno-glossum magellense, Crepis lacera, Geranium austroapenninum,Ophrys bertoloniiformis, Sedum magellense subsp. magellense.

Melampyrum italicum, Micromeria subsp. tenuifolia, Salix apen-nina, Scabiosa holosericea, Scabiosa holosericea.

Il massiccio è sede di accantonamento di numerose specie relitte, legate alle trascorsevicissitudini geologico-climatiche ed in particolare all’alternanza di periodi glaciali ed

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interglaciali nel Quaternario. Esempi di relitti glaciali sono Dryas octopetala, Vacci-nium myrtillus, Anemone narcissiflora subsp. narcissiflora, Moneses uniflora, Cypri-pedium calceolus. Tra i relitti xerotermici citiamo, invece, Matthiola fruticulosa, Car-duus corymbosus, Dianthus vulturius subsp. vulturius.

La vegetazione Anche il quadro vegetazionale risulta ampio e articolato, soprattutto in relazione ai dif-ferenti piani bioclimatici. A questi ultimi corrispondono alcune formazioni vegetali piùevolute: così al piano collinare sono legati i boschi di caducifoglie termofile, a domi-nanza di roverella, e semi-mesofile, a dominanza di cerro e/o carpino nero, oltre che inuclei extrazonali di leccio; al piano montano le foreste di caducifoglie mesofile, so-prattutto faggete; al piano subalpino le brughiere ipsofile (mugheta, ginepreti a ginepronano, ecc.); al piano alpino le praterie di altitudine e la tundra alpina. In realtà l’articolazione del paesaggio vegetale è molto più complessa, sia per la pre-senza, in particolari condizioni stazionali, di numerosi tipi di vegetazione azonale(cioè non legata alle caratteristiche climatiche ma alla presenza di un fattore edaficoquali, ad esempio, la presenza di acqua o di roccia), sia perchè situazioni morfologi-che particolari, come i valloni, favoriscono la risalita in quota di stirpi mediterraneee, per contro, la discesa di piante tipiche delle zone culminali. A questo c’è da ag-giungere l’azione millenaria dell’uomo che ha trasformato pesantemente il paesag-gio vegetale distruggendo le foreste originarie per far posto alle praterie ed ai colti-

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vi. Solo negli ultimi tempi della storia della presenza umana nel Parco si è assistito atentativi di ricostituzione delle foreste, spesso però attraverso l’uso di materiale ve-getale non in linea con le caratteristiche ecologiche e biogeografiche dei siti. Alla luce di queste considerazioni si può affermare, quindi, che la vegetazione del mas-siccio risulta caratterizzato da un numero molto elevato di comunità vegetali, legate traloro secondo rapporti sia di tipo dinamico, cioè che evolvono l’una nell’altra, sia sem-plicemente di tipo topografico.

Piano collinareLa vegetazione di questa fascia, nella sua componente forestale, è molto frammentataa causa degli antichi ed intensi disboscamenti ed è rappresentata da cenosi miste di ca-ducifoglie con dominanza di roverella (Quercus pubescens subsp. pubescens), cui si ac-compagnano più frequentemente l’orniello (Fraxinus ornus subsp. ornus), il carpinonero (Ostrya carpinifolia), la carpinella (Carpinus orientalis subsp. orientalis), il sor-bo domestico (Sorbus domestica), l’acero campestre (Acer campestre) e quello mino-re (Acer monspessulanum subsp. monspessulanum). Queste formazioni si presentanocome boscaglie aperte e luminose, storicamente governate a ceduo e solo recentemen-te più o meno convertite all’alto fusto. La copertura non totale della volta forestale fa-vorisce lo sviluppo di un folto strato erbaceo nel quale spesso prevale spesso il falasco(Brachypodium rupestre) e, tra gli arbusti, quelli maggiormente amanti della luce (bian-cospini, citisi, rose, ginepri, ecc.). Non mancano tuttavia le specie più schiettamente ne-

1. La Valle di Femmina Morta, ampia depressione tettonica, carsificata e rimodellata dai ghiac-ciai; sullo sfondo il M. Amaro (foto G. Ciaschetti).

2. Le Murelle ed il M. Acquaviva, visti dal Martellese (foto G. Ciascheti).

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morali, quali Viola alba subsp. dehnhardtii, Cyclamen hederifolium subsp. hederifo-lium, Buglossoides purpurocaerulea, Brachypodium sylvaticum subsp. sylvaticum, Ta-mus communis, ecc. e, tra le legnose, la berretta da prete (Euonymus europaeus), il cor-niolo (Cornus mas), i caprifogli (Lonicera etrusca, L. caprifolium, L. xylosteum), il li-gustro (Ligustrum vulgare), ecc. Sotto il profilo della composizione floristica, si distinguono due tipologie che in lineadi massima si avvicendano su base altimetrica. I querceti posti alle quote meno eleva-te e alle esposizioni più favorevoli sono caretterizzati dalla presenza di diverse specietipiche della macchia mediterranea quali, ad esempio, la rosa di S. Giovanni (Rosa sem-pervirens), la robbia selvatica (Rubia peregrina subsp. peregrina), l’asparago selvati-co (Asparagus acutifolius), il ciclamino primaverile (Cyclamen repandum subsp. re-pandum) e, talora, l’alaterno (Rhamnus alaternus subsp. alaternus) e la fillirea (Philly-rea latifolia). Alle quote più elevate del piano collinare, la seconda tipologia assume invece caratte-ri floristici di transizione con i boschi della fascia altimetrica superiore, evidenziati dal-la presenza di specie più mesofile quali il citiso a foglie sessili (Cytisophyllum sessili-folium), l’acero opalo (Acer opalus subsp. obtusatum), il nocciolo (Corylus avellana)e, tra le erbacee, Poa nemoralis, Festuca heterophylla, Hepatica nobilis, ecc.

A testimonianza dei notevoli influssi mediterranei, nel piano collinare sono relativa-mente frequenti le cenosi miste di sclerofille sempreverdi e di caducifoglie, in stazionifavorevoli dal punto di vista termico e su substrati generalmente calcarei o arenacei, ge-neralmente su pendii acclivi e con affioramenti rocciosi. Trattandosi di consorzi legati,nelle loro espressioni più tipiche, al clima mediterraneo, nel territorio del Parco assu-mono significato di extrazonalità. Sotto il profilo strutturale, queste formazioni si pre-sentano generalmente come macchia alta o, nelle stazioni più favorevoli sotto il profi-lo edafico, come boscaglia più o meno fitta. Alla costruzione di queste fitocenosi par-tecipano prevalentemente il leccio (Quercus ilex), il terebinto (Pistacia terebinthus), la

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fillirea (Phillyrea latifolia), il carpino orientale (Carpi-nus orientalis), l’orniello (Fraxinus ornus), l’acero mi-nore (Acer monspessulanum), la roverella (Quercus pu-bescens) ed il carpino nero (Ostrya carpinifolia) e, limi-tatamente allo strato arbustivo, la robbia selvatica (Rubiaperegrina subsp. peregrina), l’asparago selvatico (Aspa-ragus acutifolius), il laurotino (Viburnum tinus subsp. ti-nus), la fiammola (Clematis flammula), la rosa di S. Gio-vanni (Rosa sempervirens), il caprifoglio mediterraneo(Lonicera implexa subsp. implexa), la salsapariglia (Smi-lax aspera) e, soprattutto nelle conche interne, la dafneolivella (Daphne sericea) ed il terebinto (Pistacia tere-binthus subsp. terebinthus). Lo strato erbaceo è geral-mente molto povero ed è costituito prevalentemente daiciclamini primaverile ed autunnale (Cyclamen repandumsubsp. repandum, C. hederifolium subsp. hederifolium),cui si associano poche altre specie quali, ad esempio, Asple-nium adiantum-nigrum subsp. adiantum-nigrum e Carexhallerana.

Nel piano collinare sono molto appresentati anche i boschi misti di caducifoglie meso-file e semi-mesofile, di cui i più diffusi sono quelli a Carpino nero (Ostrya carpinifo-lia). Gli ostrieti si affermano soprattutto sui versanti freschi esposti ai quadranti setten-trionali o all’interno di valli strette, spesso in contatto, superiormente, con la faggeta,generalmente su substrati calcarei e suoli superficiali, ricchi di scheletro. Probabilmente,la ceduazione secolare dei boschi del Parco della Majella, come nel resto dell’Italia pe-ninsulare, ha favorito queste formazioni per via dell’elevata capacità pollonifera del car-pino nero, specie tra l’altro assai frugale e pertanto molto indicata negli impianti di ri-forestazione. Come già visto per i querceti a roverella, anche i boschi a dominanza di carpino nero sidifferenziano su base floristica a seconda che il corteggio sia differenziato da specie ter-mofile a carattere mediterraneo o da specie mesofile. Un aspetto particolare, che si in-sedia su substrati acclivi ricchi di detrito, è caratterizzato dalla massiccia affermazionedi Sesleria nitida, una graminacea cespitosa molto pioniera, che spesso forma un tap-peto erbaceo abbastanza compatto.

I mantelli di vegetazione, cioè quelle particolari comunità vegetali arbustive che si in-sediano ai margini del bosco, sono edificati principalmente da specie pioniere ed elio-file quali i ginepri (Juniperus communis subsp. communis, J. oxycedrus subsp. oxyce-drus), la ginestra comune (Spartium junceum), il biancospino (Crataegus monogyna),il prugnolo (Prunus spinosa), il citiso a foglie sessili (Cytisophyllum sessilifolium), l’e-mero (Emerus majus), i caprifogli (Lonicera etrusca, L. caprifolium), la marruca (Pa-

4. Il pino mugo (Pinus mugo)edifica impenetrabili bosca-glie nel piano subalpino (fotoG. Pirone).

3. La dorsale di Scrimaca-vallo colonizzata dalla mu-gheta; sullo sfondo la sago-ma tabulare del Block-Haus(foto G. Pirone).

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liurus spina-christi) e, qualche volta soprattutto all’interno delle conche intermontane,il bosso (Buxus sempervirens). Le specie sopra ricordate spesso invadono i vicini pa-scoli ed i campi abbandonati, talora anche coprendo superfici ampie, formando nucleidi ricostruzione nella dinamica della vegetazione forestale.

I pascoli del piano basale possiedono una netta impronta xerica e molti rientrano nel ti-po indicato con il termine di “parasteppa”, ricca di elementi mediterranei. Se ne distin-guono di due tipi, a seconda che le erbe caratterizzanti la fionomia siano annuali (tero-fite) o perenni (emicriptofite). Nel primo caso si tratta di cenosi spesso derivanti dal-l’abbandono di aree coltivate e fortemente condizionate dall’aridità estiva. Tra le spe-cie più rappresentate vi sono le graminacee Trachynia distachya, Cynosurus echinatus,Triticum ovatum, Catapodium rigidum subsp. rigidum, Vulpia sp. pl. e inoltre Crepissancta subsp. sancta, Cerastium semidecandrum, Holosteum umbellatum s. l., Trifo-lium stellatum, Saxifraga tridactylites, ecc. Nel secondo tipo, che generalmente si sviluppa, nelle sue forme più tipiche, a partiredagli 800 metri circa, dominano graminacee cespitose tra cui prevalentemente Bromuserectus, al quale si accompagnano altre emicriptofite come ad esempio Hieracium pi-losella, Galium lucidum s. l., Eryngium amethystinum, ecc. e numerose camefite qualiAsperula purpurea subsp. purpurea, Teucrium chamaedrys subsp. chamaedrys, Arte-misia alba, Sedum rupestre subsp. rupestre, Sideritis italica ecc. Anche questi pascoliassumono talora, soprattutto in corrispondenza delle conche intermontane, un caratte-

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re parasteppico, testimoniato dalla dominanza di graminacee perenni del genere Stipa(Stipa capillata, S. dasyvaginata subsp. apenninicola).

Alla dinamica regressiva delle cenosi miste di sempreverdi e di caducifoglie, come an-che a quello dei querceti a roverella e di altre caducifoglie termofile e semimesofile, al-loquando i suoli sono molto erosi per l’intenso pascolamento, appartengono le garighe,formazioni vegetali tipicamente mediterranee a struttura discontinua, edificate da pic-coli arbusti generalmente alti non più di qualche decina di centimetri e spesso con por-tamento prostrato o pulvinato. La struttura è data prevalentemente dalla santoreggia(Satureja montana subsp. montana), dal citiso spinoso (Cytisus spinescens), dal rannospaccasassi (Rhmnus saxatilis), dagli eliantemi (Helianthemum oelandicum subsp. in-canum, H. apenninum), dal camedrio polio (Teucrium capitatum subsp. capitatum), dal-le fumane (Fumana thymifolia, F. procumbens), dall’elicriso (Helichrysum italicumsubsp. italicum), dai timi (Thymus sp. pl.) e dall’issopo meridionale (Micromeria grae-ca s. l.), ecc. Alle quote inferiori, fino ai 500-600 m s. l. m., queste garighe sono carat-terizzate da specie termofile come i cisti (Cistus creticus subsp. creticus, C. creticussubsp. eriocephalus, C. salvifolius), l’euforbia spinosa (Euphorbia spinosa) e la gine-strella (Osyris alba), mentre a quote più elevate sono differenziate da entità a caratterepiù montano quali le vedovelle (Globularia meridionalis), l’erba stregonia (Sideritisitalica), l’assenzio bianco (Artemisia alba), la peverina tomentosa (Cerastium tomen-tosum) ed il fiordaliso giallo (Centaurea rupestris) (Pirone e Tammaro, 1997). Lungoil versante orientale della Majella vi sono inoltre aspetti di gariga basso-montana ca-

5. La dorsale del Morrone (foto G. Ciaschetti). 6. Una veduta primaverile del Quarto di S. Chiara (foto G. Pirone).

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ratterizzata dalla presenza di scabiosa cre-nata (Lomelosia crenata subsp. pseudise-tensis).

La vegetazione rupicola è anch’essa presentein questa questa fascia bioclimatica. Le ti-pologie individuate sono a dominanza diAdiantum capillus-veneris, negli aspetti le-gati alle rupi con stillicidio. Sulle rupi asciut-te si assiste, di volta in volta, alla dominan-za di Campanula fragilis subsp. cavolinii,specie endemica dell’Appennino centrale,di valeriana rossa (Centranthus ruber subsp.ruber), soprattutto alla base dove dove si ac-cumulano sostanze azotate, e di crassulaceedel genere Sedum, negli aspetti con rocciapiù o meno fratturata.

I popolamenti igrofili lungo i corsi d’acquasono costituiti da nuclei pionieri di salici (Sa-lix alba, S. triandra, S. purpurea, S. elaea-gnos) e pioppi (Populus nigra, P. alba, P.).Le cenosi elofitiche sono formate soprattut-to da specie dei generi Phragmites, Typhae, molto raramente, Schoenoplectus e Bol-boschoenus (Pirone, 1987).

Piano montanoLa vegetazione più evoluta e stabile di questa fascia è rappresentata dalla faggeta, checostituisce la formazione forestale più estesa e caratterizzante del massiccio, tra gli 800-900 ed i 1700-1800 metri. Il bosco di faggio (Fagus sylvatica subsp. sylvatica), di cuisi rinvengono esempi notevoli al Pizzalto ed ai Monti Pizzi, è contrassegnato, alle quo-te inferiori, da aspetti di faggeta mista, con diverse specie accompagnatrici come ace-ri, cerri, carpini, frassini, maggiociondoli, tigli, tassi e agrifogli; generalmente si trattadi cedui a volte molto invecchiati. Più in alto, intorno ai 1400 metri, il faggio, con l’ac-centuarsi di un clima fresco-umido, diventa il dominatore incontrastato. Il sottobosco èin genere piuttosto povero, costituito prevalentemente dalla rosa cavallina (Rosa ar-vensis), dal rovo ghiandoloso (Rubus hirtus), dalla berretta da prete maggiore (Euony-mus latifolius), varie felci (Polistichum sp. pl., Dryopteris sp. pl., Polystichum sp. pl.),dentarie (Cardamine sp. pl.) e inoltre Galium odoratum, Sanicula europaea, Viola rei-chenbachiana, Anemone ranunculoides, A. apennina, ecc. Una nota di grande effetto paesaggistico è costituita dalle radure, che in alcuni casi so-no punteggiate dalle vistose fioriture purpuree delle peonie (Paeonia officinalis subsp.

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italica) o, più frequentemente, dalle compatte cortine roseo-lillaci-ne di Epilobium angustifolium. Ad aspetti particolari della faggeta è legata la presenza di specie mol-to rare quali, ad esempio, il caprifoglio nero (Lonicera nigra) di cuila Majella costituisce l’unica stazione in tutta la catena appenninica,il rovo erbaceo (Rubus saxatilis), la bella orchidea scarpetta di Ve-nere (Cypripedium calceolus) ed altre ancora. Per questa fascia ricordiamo ancora i nuclei di pino nero di VillettaBarrea (Pinus nigra subsp. nigra var. italica), presente sul versanteorientale del massiccio, nelle valli di S. Spirito e del Fossato, e nel-la valle dell’Orfento (Tammaro e Ferri, 1982; Pellegrini, 1984; Bru-schi et alii, 2006). Si tratta di relitti di più ampie popolazioni bo-schive relative all’antica vegetazione montana mediterranea a faciesxerofila dell’Appennino, che ebbe vasta diffusione durante il gla-ciale (Tongiorgi, 1938; Chiarugi, 1939; Marchetti, 1936). Il suo in-sediamento sull’Appenino è antichissimo e secondo alcuni AA. ri-salirebbe addirittura al Terziario (Giacomini e Fenaroli, 1958).Uno studio specifico meriterebbero le comunità di ginepro sabino (Juniperus sabina),specie rara presente in diverse località del Parco (Conti et alii, 1986; Conti, 1987; Mar-cantonio, 2000; Conti & Manzi, 1998). Citiamo, inoltre, l’interessantissimo popolamento, anch’esso relittuale, di betulla (Be-tula pendula), posto ai margini della faggeta di Macchia Lunga nel Vallone di Fara S.Martino (Bortolotti e Pierantoni, 1984).

Gli arbusteti secondari di sostituzione della faggeta sono dominati per lo più dal gine-pro comune (Juniperus communis) e, alle quote più elevate, dal ranno alpino (Rham-nus alpina s. l.), accompagnati da lentaggine (Viburnum lantana), lampone (Rubusidaeus), varie specie di ribes (Ribes sp. pl.) e di cotognastri (Cotoneaster sp.) e, più spo-radiche, alcune rose selvatiche (Rosa spinosissima, R. pendulina, R. montana). Allequote più elevate di questa fascia, nelle situazioni caratterizzate da suoli calcarei sotti-li, sono presenti anche arbusteti prostrati a ginepro nano (Juniperus communis var. sa-xatilis) e, più sporadicamente, a uva orsina (Arctostaphylos uva-ursi), nella cui com-posizione specifica entrano altri bassi arbusti quali alcune dafne (Daphne oleoides, D.mezereum), i cotognastri (Cotoneaster integerrimus, C. tomentosus), il citiso spinoso(Cytisus spinescens), ecc.

Relativamente ai pascoli montani, oltre alle comunità a dominanza di Bromus erectusgià ricordate per il piano collinare, che qui si diversificano anche con aspetti più meso-fili (Pirone, 1992), risultano presenti anche altre a dominanza di Sesleria nitida, che rea-lizza un pascolo discontinuo su substrati ricchi di detrito, o di Festuca circummediter-ranea, che si insedia prevalentemente sui versanti debolmente acclivi e su suoli più evo-luti. Relativamente frequenti, soprattutto lungo linee d’impluvio o come prime forme

7. Il profondo canyon inciso dal fiume Orta(foto G. Pirone).

8. Il tasso (Taxusbaccata) è un com-ponente, ormai ra-ro, dei boschi fre-schi montani (foto G. Pirone).

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di colonizzazione dei pascoli abbandona-ti, sono le fitocenosi dominate da Brachy-podium rupestre e, alle quote più elevate,da Brachypodium genuense. Più frammentari invece sono altri tipi di pa-scolo pioniero tra cui uno rupestre a domi-nanza di Lomelosia crenata subsp. pseudi-setensis, presente lungo gli acclivi versan-ti orientali del massiccio della Majella (Pi-rone, 1998) ed uno a Plantago holosteumed Helianthemum oelandicum subsp. in-canum identificato nel territorio degli Al-tipiani Maggiori (Pirone, 1997).Ai pascoli montani secondari è legata lapresenza di specie stenoendemiche rare, tracui spicca Centaurea tenoreana, esclusivadel Parco. Un cenno meritano anche, per la loro im-portanza, alcune vegetazioni di prato e diprato-pascolo presenti negli Altipiani Mag-giori (Pedrotti, 1969; Pirone, 1997) e nel-l’alta valle dell’Orta-P. so S. Leonardo (oss.pers.). Si tratta di comunità ad elevata bio-massa che si insediano su suoli umidi o pe-riodicamente inondati. Aseconda della for-

ma d’uso e del grado d’umidità nel terreno, le specie dominanti risultano essere Arrhe-natherum elatius s. l., Cynosurus cristatus, Deschampsia caespitosa subsp. cespitosa,Serratula tinctoria subsp. tinctoria, Filipendula ulmaria e Juncus inflexus.

Di grande importanza fitogeografica in quanto rappresentano le propaggini più meri-dionali, penetrate nella regione mediterranea, dell’areale eurosiberiano, sono le fitoce-nosi palustri edificate da grandi carici, anch’esse presenti agli Altopiani Maggiori (Pi-rone, 1988) oltre che al Lago Ticino di Campo di Giove (Pirone, 1998). Si tratta di co-munità paucispecifiche in cui dominano, di volta in volta, Carex acuta, C. vesicaria, C.otrubae e C. paniculata subsp. paniculata. Da noi possono essere considerate come deirelitti di aggruppamenti favoriti in passato dal clima quaternario più freddo ed umido.La loro importanza è accresciuta poi dalla presenza di specie molto rare e significativesotto il profilo geobotanico quali Dactilorhyza incarnata subsp. incarnata, Triglochinpalustre, Epilobium palustre e Carex panicea.

Molto diffusi, soprattutto nei valloni, sono gli ambienti rupestri. In questo piano bio-climatico è presente un’associazione a dominanza di Campanula cavolini, Potentilla

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caulescens e Saxifraga callosa subsp. callosa (Feoli e Foli-Chiapella, 1976); in corri-spondenza delle nicchie stillicidiose questa comunità vegetale è differenziata da Aqui-legia magellensis e Adiantum capillus-veneris. Altri aspetti legati alle rupi asciutte so-no caratterizzati dalla presenza di Trisetaria villosa (Pirone, 1998). Di grande interes-se è anche la vegetazione a Pinguicula fiorii, endemismo esclusivo della Majella, in-sediata su rupi stillicidiose in ambiente di forra, ricchi di muschi ed epatiche (Tamma-ro & Pace, 1987).

Per il severissimo e selettivo ambiente dei brecciai, sono state individuate diverse tipologievegetazionali, che si differenziano prevalentemente sulla base delle dimensioni dei clasti edel grado di mobilità degli stessi (Pirone, 1998). In particolare. gli aspetti individuati sono:- a Festuca dimorpha e Drypis spinosa subsp. spinosa (Migliaccio, 1970; Bonin, 1978;Feoli-Chiapella, 1983), che si sviluppa su brecciai mobili con clasti minuti, in una fa-scia altitudinale ampia, compresa tra i 1100 ed i 2000 metri;- a Festuca dimorpha e Galium magellense, nell’intervallo altitudinale di 1600-2350metri. È l’aspetto più maturo e può essere considerato come termine di passaggio ver-so forme di vegetazione più stabili come i seslerieti;- a Cymbalaria pallida, specie endemica dell’Appennino centrale, che si sviluppa suibrecciai mediamente consolidati con elevata acclività ed esposti prevalentemente a nord;- a Drypis spinosa subsp. spinosa e Ligusticum lucidum subsp. cuneifolium, quest’ulti-ma entità endemica dell’Appennino centrale. Si insedia su ghiaioni di falda in prossi-mità di accumuli argillosi fluvio-glaciali. Sulla Majella è stato rinvenuto alla Rava delFerro di S. Eufemia e a Feudo Ugni (Pirone, 1998);- a Festuca dimorpha e Geranium macrorhizum, descritto da Conti e Manzi (1992) perle Mainarde nel Molise e citato per la Majella da Giglio e Tammaro (1995).

Piano subalpinoAl piano subalpino sono legati i popolamenti ad arbusti prostrati, che sulla Maiella so-no rappresentati dalla mugheta e dal ginepreto nano. La vegetazione di maggiore interesse è, indubbiamente, quella, a carattere relittuale, apino mugo (Pinus mugo), che già il Chiarugi (1939) definiva come “brughiera ipsofiladi tipo nordico”, quasi del tutto assente lungo l’Appennino e conservatasi in modo co-sì evidente ed esteso solo sulla Majella. Tale vegetazione, descritta da Migliaccio (1966),costituisce la vegetazione climacica dell’orizzonte subalpino del massiccio, alla qualetenderebbero dinamicamente le associazioni di prateria. Per la distinzione delle due ti-pologie cenologiche individuate sul massiccio, nonché per le considerazioni di caratte-re fitogeografico, ecologico e dinamico, si rimanda al lavoro di Stanisci (1997).Nei settori meridionali, più caldi, gli arbusteti prostrati sono dominati dal ginepro na-no (Juniperus communis var. saxatilis). Rispetto a quelli già visti per il piano montano,questi sono differenziati da un contingente di specie di altitudine quali Phyteuma orbi-culare, Saxifraga paniculata e Aster alpinus subsp. alpinus.

Per i pascoli, oltre a quelli già ricordati per il piano montano, la cenosi più caratteriz-

9. L’efedra dei Nebrodi (Ephedra nebroden-sis subsp. nebrodensis), rarissimo relitto ter-ziario osservabile sulle rupi delle valli del-l’Orfento e dell’Orta (foto G. Pirone).

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Relativamente alle cenosi di prateria, sono state distinti diversi tipi. Uno a Leontopo-dium nivale, la bellissima stella alpina dell’Appennino, e Sesleria juncifolia subsp. jun-cifolia è stato rinvenuto a Femmina Morta, alla Tavola Rotonda ed in Valle Cannella(Blasi et alii, 2005). Rispetto ai seslerieti subalpini, questo presenta una copertura qua-si continua e si afferma sulle creste che bordano gli ampi bacini tettonici. Tra le speciepiù rappresentate vi sono Aster alpinus subsp. alpinus, Iberis saxatilis subsp. saxatilis,Carex kitaibeliana subsp. kitaibeliana, C. humilis e Sempervivum aracnoideum. Un’altra tipologia, che si presenta in chiazze erbacee discontinue che colonizzano areea debole pendenza nelle zone di contatto tra i fianchi e le valli o aree pianeggianti tra do-line (Blasi et alii, 2005), è caratterizzata da Helianthemum oelandicum subsp. alpestre eFestuca violacea subsp. italica, cui si accompagnano più frequentemente Leontopodiumnivale, Poa molinerii, Anthyllis vulneraria subsp. pulchella ed Avenula praetutiana. Nelle stesse aree, ma su suoli ricchi di detrito, si afferma una terza comunità a domi-nanza di Plantago atrata subsp. atrata e Leontodon montanus subsp. breviscapus, ri-levata a Femmina Morta e Grotta Canosa (Blasi et al., 2005). Nel corteggio floristicole specie più abbondanti sono Armeria magellensis subsp. majellensis, Potentilla crant-zii subsp. crantzii, Festuca violacea subsp. italica e Poa alpina subsp. alpina. Nelle depressioni in corrispondenza delle vallette nivali, con suolo umo-carbonatico,sono state individuate una comunità a Gnaphalium hoppeanum subsp. magellense ePlantago atrata subsp. atrata (Feoli Chiapella e Feoli 1977), cui si accompagnano Ra-nunculus apenninus, Ranunculus magellensis e Soldanella minima subsp. samnitica eduna a dominanza di Nardus stricta (Blasi et alii, 2005) con, tra le più abbontanti, Luzu-la spicata subsp. bulgarica, Potentilla crantzii subsp. crantzii ed Erigeron epiroticus. Pure sul fondo di depressioni, su suoli completamente decarbonatati e privi di schele-tro, sono state individuate a Femmina Morta e tra M. Amaro e Pesco Falcone (Blasi etal., 2005) comunità a Taraxacum apenninum e Trifolium thalii con Taraxacum glacia-le, Gnaphalium oppeanum subsp. magellense, Crepis aurea subsp. glabrescens. Per i suoli di tipo rendzina (originatisi da calcare finemente suddiviso e mescolato a ma-teria organica) Feoli Chiapella e Feoli (1977) hanno descritto una prateria chiusa a do-minanza di Kobresia myosuroides, vicariante degli elineti delle Alpi e ricca, come le al-tre cenosi di altitudine, di specie importanti quali, ad esempio, Oxytropis neglecta, O.campestris e Leotopodium nivale. In ambienti simili, su pendii detritici umidi, è stata segnalata, per Valle Cannella (Tam-maro, 1986), anche la presenza di Salix breviserrata, orofita alpico-pirenaica, diffusain Italia sulle Alpi e, sull’Appennino, nota solo per l’Appennino Emiliano e, poi, GranSasso, Maiella e Parco Nazionale d’Abruzzo. Su pendii stabili a bassa acclività comein corrispondenza del Terzo Portone ed a Piano Amaro (Di Fabrizio et alii, 2006) è pre-sente, inoltre, una prateria discontinua a dominanza Carex kitaibeliana subsp. kitaibe-liana, fisionomicamente simile a quella già vista per il piano subalpino, in cui speciecodominanti sono Potentilla crantzii subsp. crantzii, Armeria majellensis subsp. ma-jellensis, Thymus praecox subsp. polytrichus, Anthyllis vulneraria subsp. weldeniana

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zante di questo orizzonte è quella a Sesleria juncifolia subsp. juncifolia, che si insediageneralmente sui versanti più acclivi con esposizioni meridionali e suoli superficiali,poco evoluti e ricchi di scheletro. È un pascolo discontinuo, dal tipico aspetto gradina-to; accanto alla sesleria, nettamente dominante, sono presenti numerose altre specie tracui diverse di importanza fitogeografica o conservazionistica, come ad esempio Gen-tiana dinarica, Androsace villosa subsp. villosa, Anthemis cretica subsp. petraea, Bi-scutella laevigata subsp. australis, Achillea barrelieri subsp. mucronulata, ecc. Nelle zone più elevate della catena del Morrone è stato rilevato (Pirone 1998) un aspet-to diverso di seslerieto, già descritto da Biondi et alii (1988) per l’Appennino centrale,che si insedia prevalentemente nelle situazioni di cresta, di cui sono specie dominanti,oltre a Sesleria juncifolia subsp. juncifolia, anche Carex humilis, Festuca circummedi-terranea, Oxytropis campestris, Carex kitaibeliana subsp. kitaibeliana, Trinia dale-champii e Globularia meridionalis. A Feudo Ugni (Pirone 1998) è presente un altro pascolo dominato da Festuca laeviga-ta subsp. crassifolia, già descritto da Petriccione e Persia (1995) per i massicci calcareidell’Appennino centrale. Il tipo di pascolo più evoluto, insediato sui suoli più profondi generalmente sui versan-ti settentrionali, è il Luzulo-Festucetum macratherae, caratterizzato da Festuca viola-cea subsp. italica, Luzula spicata subsp. bulgarica e Trifolium thalii.

Per quanto riguarda le rupi, è stata descritta (Pirone, 1997), per la fascia subalpina del-la Majella-Morrone e dell’Aremogna, una comunità Saxifraga exarata subsp. ampul-lacea e S. italica, entrambe endemiche dell’Appennino centrale. Questa vegetazione siinsedia con i compatti pulvini delle sassifraghe citate su rupi, nicchie e cenge con espo-sizioni ai quadranti settentrionali. Interessanti cenosi rupicole sono quelle a Silene pusilla, Pinguicula fiorii e Soldanellaminima subsp. samnitica, che si insediano alla base delle rupi ombrose con esposizionisettentrionali, spesso in corrispondenza di sgrottamenti (Pirone e De Nuntiis, 2002). Ledue entità citate per seconde rivestono una grande importanza fitogeografica in quantoesclusive del massiccio della Majella. Nella composizione specifica di queste fiocenosientrano, inoltre, Saxifraga sedoides, Veronica aphylla, Cystopteris fragilis, C. alpina eRanunculus magellensis, quest’ultima specie endemica dell’Appennino centrale. La vegetazione di ghiaione è costituita prevalentemente dal tipo già visto per il pianomontano a Festuca dimorpha e Galium magellense

Piano alpinoAl di sopra dei 2200-2300 metri si estende il regno delle fitocenosi erbacee primarie,incontrastate protagoniste della vegetazione di alta quota. Questo difficilissimo am-biente, rappresentato prevalentemente da aride pietraie punteggiate da zolle pioniere divegetazione, permette, attraverso una severa selezione, l’affermazione solo di poche especializzate cenosi di enorme interesse fitogeografico, ricche come sono di specie en-demiche e relitte.

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e Silene acaulis subsp. bryoides. Recentemente sul massiccio della Majella (Di Fabrizio et alii., 2006; Di Pietro et alii, 2008)sono state individuate due altre tipologie di prateria mesofila del piano alpino, una a do-minanza di Trifolium noricum subsp. praetutianum ed una a Poa alpina subsp. alpinaLa vegetazione ad elevata discontinuità della tundra alpina è formata dai pulvini di Si-lene acaulis subsp. bryoides e di Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa. La prima spe-cie, in particolare, è una efficace colonizzatrice di questo ambiente estremo e molte al-tre specie sopravvivono solo all’interno dei suoi cuscinetti (Blasi et alii 2005; Di Fa-brizio et alii 2006).

Per la vegetazione dei brecciai culminali, allo stato attuale delle conoscenze le comu-nità presenti sono (Migliaccio, 1970; Feoli Chiapella e Feoli 1977; Feoli Chiapella,1983; Di Pietro et alii, 2008):- a Isatis apennina e Thlaspi stylosum, in cui relativamente abbondante è anche Hera-cleum sphondylium subsp. orsinii, che si afferma su substrati molto instabili;- a Crepis aurea subsp. glabrescens e Leontodon montanus subsp. breviscapus, che sisviluppa in prossimità degli apici di alimentazione con granulometria medio-fine; - a Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa e Papaver alpinum subsp. ernesti-mayeri,tipico dei brecciai più o meno consolidati ed a clasti grossolani, pressoché privi di hu-mus;- ad Adonis distorta e Ranunculus seguierii subsp. seguierii, che si afferma in corri-spondenza di suoli “a strisce” caratterizzati da una alternanza di linee di detrito e lineedi particelle fini di suolo. Sui ghiaioni consolidati, in corrispondenza di stazioni particolarmente umide e a lungoinnevate, sono presenti anche praterie chiuse paucispecifiche a dominanza di Salix re-tusa, arbusto strisciante al suolo che ospita tra i suoi rami diverse specie tipiche dellepraterie altomontane (Blasi et alii, 2005; Di Fabrizio et alii, 2006).Per le rupi altomontane è stata descritta da Feoli e Feoli Chiapella (1976) una tipologiadi vegetazione a dominanza di Potentilla apennina subsp. apennina, cui si accompa-gnano Saxifraga porophylla subsp. porophylla, Saxifraga paniculata e Ptilotrichum ru-pestre subsp. rupestre. Un altro tipo, che si rinviene sulle rupi più elevate in situazioni di cresta ed è invece do-minato dal genepì appenninico (Artemisia umbelliformis subsp. eriantha), è stato os-servato a M. Acquaviva-Cima delle Murelle e a M. S. Angelo (Pirone, 1998; oss. pers.).Alla base delle pareti rocciose o su terrazzi e gradoni delle rocce su cui si accumula suo-lo, generalmente ad esepsizioni settentrionali, è presente una comunità vegetale a do-minanza di Saxifraga sedoides e S. italica (Di Fabrizio et alii, 2006).Come già visto per il piano subalpino, anche qui si rinvengono, sulle rupi ombrose, lecenosi caratterizzate da Silene pusilla, Pinguicula fiorii e Soldanella minima subsp.samnitica.

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Introduzione

Il Parco Naturale Regionale Sirente-Velino, istituito dalla Regione Abruzzo con L. R.n. 54 del 13 luglio 1989, si estende su circa 55.000 ettari ed è, sotto il profilo naturali-stico, uno dei più pregevoli territori dell’Appennino. Geograficamente, il Parco è delimitato a nord-est dalla Valle del fiume Aterno, ad ovestdalla Piana di Campo Felice e a sud dalla Conca del Fucino. Nel territorio è presenteuna grande varietà di emergenze geomorfologiche ed ambientali: altopiani tettonico-carsici, come L’Altopiano delle Rocche ed il Piano di Pezza; habitat rupestri, come leGole di Celano ed il Vallone di Teve; imponenti montagne di natura carbonatica, supe-ranti i 2000 metri di altitudine, come il Monte Velino (m 2486), il Monte Sirente (m2348) ed i Monti della Magnola (m 2220), che si contrappongono alle morfologie pe-litico-arenacee, dalle linee più morbide, come quelle della Valle dell’Aterno. Queste unità paesaggistiche e geomorfologiche racchiudono una elevata biodiversitàespressa dal ricchissimo patrimonio floristico, vegetazionale e faunistico, cui si ag-giungono centri abitati di notevole importanza storica e architettonica, castelli, conventie aree archeologiche, oltre a una ricca e varia tradizione etno-gastronomica. Nel Parco Sirente-Velino anche l’azione dell’uomo sulla natura è stata molto diluita neltempo e nello spazio. Nel territorio si interpretano facilmente i segni delle lente tra-sformazioni dovute alle attività tradizionali che, forse paradossalmente, hanno in effet-ti contribuito a “migliorare” il paesaggio vegetale. Solo a tratti, come ferite inferte sulterritorio, si notano i segni dell’antropizzazione recente e anche l’occhio più distrattosa cogliere lo stridente contrasto di questi elementi estranei che non si sono inseriti enon si potranno inserire mai nelle linee del paesaggio appenninico. Il clima del Parco mostra caratteristiche non molto diverse da quelle di altre aree del-l’Appennino Abruzzese. Si tratta di un clima temperato, caratterizzato da una certa in-cidenza del freddo invernale che diventa notevole alle maggiori altitudini. Il regime plu-viometrico presenta un massimo in autunno-inverno ed un minimo in estate. Le scarseprecipitazioni lungo il versante meridionale dell’allineamento Sirente-Magnola-Velinone determinano condizioni di discreta continentalità. Notevole è, comunque, la diver-sificazione dei singoli bioclimi sulla base dell’altitudine, dell’esposizioni e della topo-grafia.

Un cenno alla Flora Tra la moltitudine di specie vegetali, annuali o perenni, modeste di aspetto erbaceo, o so-lenni e monumentali legnose, vistose nelle fioriture o poco appariscenti, alcune più di al-tre stimolano interesse scientifico o semplice curiosità. I motivi sono diversi e vanno dal-

Lineamenti vegetazionali del Parco Naturale Regionale Sirente-Velino

Gianfranco Pirone e Anna Rita Frattaroli*Dipartimento di Scienze Ambientali, Università dell’Aquila

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la pura e semplice rarità alla particolarità della distribuzione geogra-fica, dalla storia evolutiva alla peculiarità degli adattamenti, dalla ca-ratteristica di essere sensibili campanelli di allarme delle modificazioniambientali (i cosiddetti bioindicatori) alla grande plasticità di adatta-mento alle situazioni più diverse, dalla possibilità di utilizzazione dialcune piante al pericolo immediato di estinzione di altre.

È possibile quindi stilare delle liste ragionate in cui le specie sono at-tribuite a varie categorie, quasi sempre su base biogeografica, che rap-presentano uno strumento di immediata comprensione dell’impor-tanza della flora di un territorio. Prima quindi di tracciare i lineamenti della vegetazione, è utile fareun breve cenno alle peculiarità floristiche del Parco. Dai dati noti fi-no ad oggi risulta che la flora ammonta a circa 1650entità tra speciee sottospecie, pari ad oltre il 50% della flora dell’Abruzzo, che an-novera oltre 3260 entità: si tratta di un patrimonio biologico di note-vole importanza, se si pensa che all’elevato numero di specie si som-ma anche una grande qualità della flora, evidenziata dalla presenzadi numerose piante di interesse fitogeografico (in particolare le en-demiche e quelle relittuali).

Tra le specie endemiche si riportano i seguenti esempi*:- endemiche dell’Abruzzo: Biscutella laevigata subsp. australis, Her-niaria bornmuelleri, Minuartia glomerata subsp. trichocalycina, Pti-lotrichum rupestre subsp. rupestre;- endemiche dell’Appennino centrale: Androsace vitaliana subsp.praetutiana, Adonis distorta, Asperula neglecta, Cerastium thoma-sii, Euphorbia gasparrini subsp. samnitica, Iris marsica, Leontodonmontanus subsp. breviscapus, Leucanthemum tridactylites, Ligusti-cum lucidum subsp. cuneifolium, Ononis cristata subsp. apennina,Paeonia officinalis subsp. italica, Ranunculus magellensis, Saxifra-ga italica, Saxifraga oppositifolia subsp. speciosa, Silene cattarinia-na, Thlaspi stylosum, Nigritella widderi (quest’ultima presente anchesulle Alpi orientali);

- endemiche dell’Appennino centro-meridionale: Ajuga tenorei, Astragalus aquilanus,Brasica gravinae, Ranunculus pollinensis, Saxifraga exarata subsp. ampullacea. Tra le specie relitte del glacialismo quaternario ricordiamo le seguenti:Androsace maxima, Allium strictum, Betula pendula, Carex vesicaria, Carex vulpina,Crepis pygmaea subsp. pygmaea, Dactylorhiza incarnata subsp incarnata, Orchis spit-zelii, Sesleria uliginosa, Succisa pratensis, Triglochin palustre. Altre specie rare per l’Abruzzo sono:

Hieracium naegelianum, Klasea lycopifolia, Orlaya daucorlaya, Pseu-dolysimachion barrelieri, Pulsatilla montana subsp. montana, Sapo-naria bellidifolia, Andracne telephioides, Carex depressa subsp. ba-silaris, Myosotis stricta, Myosotis speluncicola, Quercus crenata, Ra-nunculus polyanthemos subsp. polyanthemoides. Le specie citate, di grande prestigio nel panorama regionale ed ita-liano, sono quasi tutte inserite nelle Liste Rosse Regionali delle Pian-te d’Italia. Tuttavia se dovessimo scegliere una specie vegetale emblematica delParco Sirente-Velino, il pensiero andrebbe subito alla specie più fa-mosa per lo meno dell’area sirentina: il narciso (Narcissus poeticus),ben noto per la celebre festa di Rocca di Mezzo. Ma se controlliamola lista delle emergenze floristiche del Parco il narciso non è incluso,perché non è raro, non è un endemismo, né, tantomeno, un relitto gla-ciale. Eppure è una pianta che ha molto da raccontarci sotto il profi-lo storico e mitologico, che imprime una peculiare fisionomia al pae-saggio dell’Altopiano delle Rocche. La conoscenza per così dire “scientifica” della flora e delle problema-tiche connesse a volte ci allontana dalla percezione dell’intenso rap-porto uomo-piante che ha avuto molta più importanza in passato mache ancora oggi ha una sua ragione d’essere profonda e motivata. I boschi, i prati, le praterie d’altitudine sono state la fonte primariadelle economie delle aree montane del Parco (e la pastorizia e le uti-lizzazioni forestali ne sono esempi evidenti), ma gli ambienti natura-li sono stati anche fonte primaria per l’approvvigionamento di quel-le piante i cui principi attivi, spesso veleni dalla potenza inaudita, ve-nivano comunemente usati, in adatte dosi, nella cura di malanni e ma-lattie vere o ipotetiche. Quindi per centinaia e centinaia di anni stregoni, sacerdoti pagani emonaci cristiani hanno raccolto la belladonna (Atropa belladonna) ne-gli stessi luoghi, ai margini delle faggete, dove anche oggi la possiamo ritrovare, per cu-rare il mal di denti o per lenire i dolori reumatici. E poi ancora, nei pascoli d’alta quota,la genziana maggiore (Gentiana lutea) insuperabile nei principi digestivi, il cui uso è sta-to tramandato dalla medicina popolare fino ai nostri giorni, ma anche il veratro (Vera-trum album) la cui somiglianza con la precedente è talmente sconcertante, quando lepiante non sono fiorite, che ha provocato, nel volgere dei secoli, non pochi casi di avve-lenamento per chi la utilizzava erroneamente come digestivo invece di impiegarlo, inpiccolissime dosi, come sedativo, anestetico ed antiparassitario esterno. Assai ricercatoanche l’iperico (Hypericum perforatum) o cacciadiavoli, i cui principi benefici antide-pressivi e quelli come cicatrizzante per le piaghe da decubito, le scottature solari e leustioni, trovano oggi più che mai impiego in erboristeria e nella medicina omeopatica.

* Per la nomenclatura si fa riferimento alla recente Checklist della Flora Italiana (Conti et al., 2005).

Tulipano monta-no (Tulipa au-stralis), vistosapianta dei pratipingui (foto di G.Pirone).

Primula orecchiad’orso (Primulaauricula), tipicapianta rupicola(foto di G. Piro-ne).

Genziana met-timborsa (Gen-tiana pneumo-nanthe), rarissi-mo relitto glacia-le di Campo diRovere (foto diG. Pirone).

Adonide curva-ta (Adonis dis-torta), rarissimoendemismo deighiaioni culmi-nali dell’Appen-nino centrale (fo-to di G. Pirone).

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Molte specie, ricche in oli essenziali, come la santoreggia (Saturejamontana), i timi (Thymus sp. pl.), la mentuccia (Calamintha nepeta),ecc. sono state e sono tuttora impiegate in cucina e nella medicina na-turale e rappresentano un patrimonio culturale di grande importanza,ma anche una potenziale risorsa economica da incentivare favoren-done la coltivazione rigorosamente biologica.

La VegetazioneSe la diversità floristica del Parco è elevata, non meno complesso è ilpanorama della vegetazione, come conseguenza dell’articolato mo-saico ambientale, della tormentata geomorfologia e dei numerosi ti-pi bioclimaticiIl territorio del Parco Sirente-Velino è considerato, a ragione, d’im-portanza strategica nella logica della “connettività ambientale” inquanto costituisce un “corridoio” naturale che, senza soluzione di con-tinuità, mette in relazione l’Appennino centro-meridionale con quel-lo centro-settentrionale, consentendo alla fauna di spostarsi lungo l’as-se della catena senza incontrare barriere insormontabili. Un ragionamento analogo può essere fatto per le comunità e per lespecie vegetali non tanto in senso longitudinale quanto trasversale. IlParco Sirente-Velino rappresenta un mosaico d’ aspetti ecologica-mente distinti che idealmente collegano il mondo mediterraneo, lecui vestigia sono ancora ben identificabili nelle Gole di San Venan-zio e nella bassa valle dell’Aterno, a quello alpino molto ben rappre-sentato nei settori sommitali delle catene del Sirente e del Velino, pas-sando attraverso il mondo continentale delle praterie, delle garighe,delle steppe e dei querceti caducifogli, largamente diffusi nei settoriinterni, arricchendosi in questo percorso della componente oceanicarappresentata delle grandi faggete che ammantano soprattutto i suoiversanti esposti a settentrione. Una sintesi veramente peculiare di am-bienti assai diversi che pure sfumano gli uni negli altri a costituireun’”unità ambientale” di grande valore, che trova analogia solo ne-gli altri gruppi montuosi abruzzesi non a caso divenuti essi pure nonsolo aree protette ma anche Parchi Nazionali: il Gran Sasso-Montidella Laga e la Majella. In questa nota la descrizione della vegetazione segue, per semplici-tà, il criterio fisionomico. Si ricorda, comunque, che le comunità ve-getali sono distribuite in fasce altimetriche (o piani altitudinali) cor-rispondenti alle condizioni climatiche legate alle diverse quote. Perogni piano si ammette l’esistenza potenziale di poche comunità sta-bili in equilibrio con il macroclima. In realtà, nell’ambito di ciascunpiano vari fattori (esposizione, natura del suolo, disponibilità idrica,

ecc.) diversificano il paesaggio vegetale imprimendo al territorio una particolare fisio-nomia. Per il territorio del Parco il rapporto tra piani climatico-altitudinali e vegetazio-ne stabile si può schematizzare nel seguente modo:piano collinare: querceti e boschi misti termofili e semi-mesofili; cenosi extrazonali

di sclerofille sempreverdi;piano montano: faggete e altri boschi mesofili;piano subalpino: arbusteti prostrati;piano alpino: praterie di altitudine.

Pascoli collinari e montaniNella fascia collinare-montana sono molto diffusi i pascoli secondari, derivati cioè daltaglio del bosco. Sono aspetti che all’occhio del naturalista abituato al paesaggio cen-tro appenninico possono risultare comuni, quasi banali, ma la loro importanza nel con-testo europeo è stata ben evidenziata dagli esperti che hanno stilato le liste degli habi-tat prioritari inseriti nella Direttiva Habitat 92/43 dell’Unione Europea. Pur essendo co-munità vegetali seminaturali derivate dal taglio e dal pascolo rappresentano un serba-toio di biodiversità straordinario sia in termini floristici che cenologici, soprattutto quan-do si arricchiscono delle variegate fioriture di orchidee. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di gramineti xerofili a dominanza di erbe peren-ni, che occupano superfici acclivi, spesso con elevata pietrosità e rocciosità. La specievegetale più diffusa e caratterizzante è il forasacco eretto (Bromus erectus). In aree particolarmente aride si affermano i prati a dominanza di specie annuali. Più ra-ramente, su suoli profondi con maggiore disponibilità idrica, i pascoli sono caratteriz-zati da corteggi floristici di tipo mesofilo. A mosaico con i pascoli xerici, nelle aree con più marcati affioramenti rocciosi o conmaggiore pietrosità, sono frequenti le fitocenosi con fisionomia di gariga, nella qualediventano dominanti le piante basso-cespugliose, spesso aromatiche. Tra le varie tipologie di pascolo arido, diffuse su suoli poco evoluti con roccia madrecarbonatica, accenniamo alle seguenti:- Asperulo-brometo; è ampiamente diffuso nel piano collinare dei rilievi calcarei del-l’Appennino centrale, su suoli poco evoluti. Le specie più frequenti e caratteristiche so-no la stellina purpurea (Asperula purpurea), l’eringio ametistino (Eryngium amethysti-num), l’aglio delle bisce (Allium sphaerocephalon), il garofano cigliato (Dianthus ci-liatus) e la radicchiella laziale (Crepis lacera). - Santoreggio-brometo; fitocenosi ad elevata componente basso-cespugliosa, con san-toreggia montana (Satureja montana subsp. montana), piantaggine sempreverde (Plan-tago sempervirens), citiso spinoso (Chamaecytisus spinescens), timo goniotrico (Thymuspulegioides) e vedovelle appenniniche (Globularia meridionalis).- Seslerio-brometo; pascolo discontinuo a dominanza di sesleria dei macereti (Seslerianitida), tipico dei suoli poco evoluti, ricchi di scheletro; altre specie ad esso legate sonola carice appenninica (Carex macrolepis), il kümmel rupestre (Carum heldreichii), il car-do alpino (Carduus carlinaefolius) e la poligala maggiore (Polygala major).

La stella alpinadell’Appennino(Leontopodiumnivale), rara edemblemat icapianta delle pra-terie culminali.

Pulvino di vita-liana abruzzese(Androsace vita-liana subsp. prae-tutiana), ende-mismo cenro-ap-penninico (foto G. Pirone).

La genziana ap-penninica (Gen-tiana dinarica),altra specie dellepraterie di altaquota (foto G. Pi-rone).

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leo annuale (Brachypodium distachyum),il trifoglio scabro (Trifolium scabrum), l’e-liantemo annuale (Helianthemum salicifo-lium), il bupleuro odontite (Bupleurum bal-dense). Si rinvengono nelle aree più bassee aride del Parco ed anch’essi, come i pa-scoli sopra descritti, formano spesso deimosaici con le garighe.

Garighe La gariga è un tipo di vegetazione a domi-nanza di piccoli cespugli xerofili, che si af-ferma lungo pendii rocciosi molto acclivi,derivanti generalmente dalla degradazionedella macchia mediterranea o dei boschi ter-mofili di latifoglie decidue. Sono aspettimolto peculiari del paesaggio che danno l’i-dea del forte potere colonizzatore del mon-do vegetale su substrati difficili, un mondodi profumi e colori che sfida l’ostilità del-l’ambiente e offre e riceve un importantecontributo dalla frequentazione degli inset-ti impollinatori, api in primo luogo. Mentre la fisionomia della gariga è relati-vamente costante, la sua composizione flo-ristica varia invece in dipendenza delle con-dizioni bioclimatiche e del substrato. Nella fascia collinare-submontana del-l’Appennino centrale le specie più frequentiche caratterizzano la gariga sono la santo-reggia montana (Satureja montana subsp.montana) e quella greca (Micromeria grae-ca), l’elicriso (Helichrysum italicum subsp.italicum), le fumane (Fumana procumbense F. thymifolia), gli eliantemi (Helianthe-mum oelandicum subsp. incanum e H. apen-ninum), il citiso spinoso (Cytisus spine-scens), il ranno spaccasassi (Rhamnus sa-xatilis), il camedrio polio (Teucrium poliumsubsp. capitatum) e quello montano (Teu-crium montanum). Una nota caratteristica delle garighe è la

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- Brachipodieto a Brachypodium rupestre;è diffuso nella fascia collinare-montana,dove in genere sostituisce le associazionixeriche nelle aree più fresche con esposi-zioni settentrionali. - Brachipodieto a Brachypodium genuense;si afferma a quote più elevate (generalmen-te tra i 1600 ed i 2100 metri), dove vicariail pascolo descritto precedentemente; tra lespecie caratteristiche ricordiamo lo spillonedella Majella (Armeria majellensis), la cin-quefoglia di Rigo (Potentilla rigoana) e ilmillefoglio di Tenore (Achillea tenorii). Inaree subpianeggianti e su suoli più profon-di, talora resi compatti ed asfittici dallo sta-zionamento del bestiame, si insedia un bra-chipodieto ricco di nardo (Nardus stricta).- Serratulo-globularieto; pascolo disconti-nuo a vedovelle appenniniche (Globulariameridionalis) e cerretta maggiore (Serra-tula nudicaulis), si insedia sui depositi flu-vio-glaciali del Piano di Pezza, con tipicastruttura aperta ad isole di vegetazione; al-tre specie presenti sono il forasacco eretto

(Bromus erectus), l’eliantemo candido (Helianthemum oelandicum subsp. incanum),l’ononide appenninica (Ononis cristata subsp. apennina), l’iberide rupestre (Iberis sa-xatilis) e l’euforbia di Nizza (Euphorbia nicaeensis).Un pascolo peculiare, che si discosta da quelli sopra descritti, è il cirsio-seslerieto, a do-minanza di sesleria palustre (Sesleria uliginosa), raro relitto glaciale, e cardo nano (Cir-sium acaule). E’ una fitocenosi mesofila a cotico chiuso, che si insedia in aree pianeg-gianti su suoli bruni profondi generatisi da sedimenti lacustri fini, nota per il Parco Si-rente-Velino (Piano di Pezza, Campo Felice) e per Campo Imperatore sul Gran Sasso. I pascoli mesofili più tipici sono legati ai suoli pesanti, con buona disponibilità idrica,ad esempio quelli derivanti dal flysch, e le fitocenosi che li rappresentano sono carat-terizzate da corteggi floristici ricchi di entità dei prati pingui o periodicamente inonda-ti; tra le specie più rappresentative citiamo i sonaglini comuni (Briza media), la covet-ta dei prati (Cynosurus cristatus), il caglio zolfino (Galium verum), il lino irsuto (Li-num hirsutum), il trifoglio dei prati (Trifolium pratense) e il paleo odoroso (Anthoxan-thum odoratum). I prati a sviluppo stagionale limitato al periodo primaverile, infine, sono dominati daspecie annuali di piccola taglia, a distribuzione generalmente mediterranea, quali il pa-

La radicchiella dei ghiaioni (Crepis pygmaea),il cui nome volgare indica l’habitat di elezione(foto G. Pirone).

Il camedrio alpino (Dryas octopetala), esem-pio notevole di relitto glaciale (foto G. Pirone).

La sassifraga a foglie opposte (Saxifraga oppo-sitifolia subsp. speciosa), endemica dell’Ap-pennino centrale, dove vive sulle ghiaie alto-montane (foto di G. Pirone).

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evoca le grandi distese erbose della Pannonia ed il vistoso narciso (Narcissus poeticus). Una tipologie peculiare è quella a dominanza di euforbia sannitica (Euphorbia ga-sparrini subsp. samnitica), endemica dell’Appennino centrale e molto diffusa al Pianodi Pezza ed ai Prati del Sirente. Un altro gruppo riunisce i prati sottoposti ad inondazione nei periodi invernali e prima-verili. Le condizioni litologiche ed idriche favoriscono l’insediamento di queste comu-nità nelle aree più depresse dei pianori e le cenosi più significative sono quelle a domi-nanza di orzo perenne (Hordeum secalinum), migliarino maggiore (Deschampsia cae-spitosa) e serratula comune (Serratula tinctoria), nelle quali sono presenti anche la co-da di topo ovata (Alopecurus rendlei), la gramigna bionda (Trisetum flavescens), il fo-rasacco palustre (Bromus racemosus) e la coda di topo comune (Alopecurus pratensis).Nelle aree più depresse di Campo di Rovere (Altopiano delle Rocche), si insedia unprato-pascolo la cui fisionomia è conferita dalla sesleria palustre (Sesleria uliginosa),cui si è già fatto cenno a proposito dei pascoli. In questo caso la vegetazione si avvaledi una maggiore umidità edafica, con conseguenti maggiori valori di biomassa. Tra lespecie presenti citiamo le rarissime Klasea lycopifolia e Gentiana pneumonanthe, ol-tre a Molinia caerulea, Succisa pratensis, Astragalus danicus, Luzula multiflora e Fi-lipendula vulgaris. Percorrendo in maggio l’altopiano delle Rocche si avrà l’occasione di osservare le dis-tese dei prati da sfalcio che, qualche settimana dopo, saranno falciate e composte neicuriosi rotoloni di fieno lasciati ad asciugare al sole. Una tecnica relativamente recen-te questa che, attraverso l’innaturalità di queste forme, conferisce “valore aggiunto” al-la qualità della percezione ambientale.

Cariceti e altre comunità palustriI popolamenti a grandi carici (magnocariceti) e ad altre elofite di piccola taglia sono os-servabili lungo i fossi degli altopiani (Altopiano delle Rocche e Val d’Arano). Qui so-no presenti le praterie palustri a dominanza di carice palustre (Carex acuta), più diffu-sa, e di carice vescicosa (Carex vesicaria) e carice volpina (Carex otrubae), più rare. Sitratta di comunità di grande importanza fitogeografica in quanto alle nostre latitudinipossono essere considerate come dei relitti di aggruppamenti favoriti in passato dal cli-ma quaternario più freddo ed umido. Altre comunità palustri sono quelle a giunchina comune (Eleocharis palustris), a gra-mignone minore (Glyceria notata), a lisca maggiore (Typha latifolia) a coltellaccio mag-giore (Sparganium erectum).Si ricordano infine, per le stesse località, i popolamenti sommersi a ranuncolo acquati-co (Ranunculus trichophyllus subsp. trichophyllus) ed a brasca comune (Potamogetonnatans), delle acque stagnanti o lentamente fluenti.

Pascoli alpini e subalpiniIl Parco Sirente-Velino, con le sue cime che superano spesso i 2000 metri, offre una bel-la panoramica del mondo di alta quota dove le condizioni di vita sono difficili sia per le

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presenza di piante aromatiche appartenenti alla famiglia delle Labiate, alcune delle qua-li già citate, che nella stagione primaverile colorano queste fitocenosi con mille sfuma-ture e diffondono il loro gradevolissimo profumo. Ed è sempre a primavera che nellagariga fioriscono tante graziose orchidee quali Ophrys sphegodes, O. crabronifera, Or-chis pauciflora, O. morio, O. italica, O. purpurea, ecc. Nel territorio del Parco le garighe sono molto diffuse in tutte le aree collinari-montanexeriche; le tipologie più significative sono:- gariga a cisto di Creta (Cistus creticus subsp. creticus), ginestrella (Osyris alba) e eu-forbia spinosa (Euphorbia spinosa), ad impronta submediterranea; è tipica delle zonepiù basse fino ad un’altitudine di 600-700 metri. Un aspetto meno xerofilo è quello abosso (Buxus sempervirens), presente nell’area delle Gole di S. Venanzio. - gariga a erba stregonia (Sideritis italica) e vedovelle appenniniche (Globularia me-ridionalis), legata a quote generalmente superiori ai 600-700 metri, in climi di tipotemperato;- gariga a salvione giallo (Phlomis fruticosa), cespuglio a distribuzione mediterraneo-orientale ed a carattere spiccatamente xerofilo. Esempio notevole di relitto xerotermi-co legato al mediterraneismo del Fucino, è presente lungo le pendici sud-occidentalidell’allineamento Colle della Forchetta-Colle del Rascito-Costa Murata, tra gli 850 edi 1100 metri circa, ai margini sud-orientali del Parco. - gariga a lino delle fate capillare (Stipa capillata), ad impronta steppica, che si affer-ma nei piani collinare e submontano delle valli intermontane dell’Abruzzo Nel territo-rio del Parco è poco frequente, limitata ad alcuni settori caldo-aridi che si affaccianosulla Conca del Fucino.

Prati permanenti Le superfici dei pianori (Altopiano delle Rocche, Val d’Arano) sono occupate da pratimesofili stabili, falciati, che si diversificano in varie fitocenosi con composizione flo-ristica e biomassa dipendenti dalle condizioni idriche del substrato e dalle pratiche agro-pastorali. A primavera i prati sono caratterizzati dalle esuberanti e coloratissime fiori-ture di varie specie, soprattutto ranuncoli e narcisi, ma anche cicerchie selvatiche, eu-forbie e tarassachi. Tra i vari tipi di prati pingui, vi sono le fitocenosi a dominanza di avena maggiore (Ar-rhenatherium elatior) e di covetta dei prati (Cynosurus cristatus), di loglio (Lolium pe-renne) e trifoglio ladino (Trifolium repens), di gramigna bionda (Trisetum flavescens),di avena maggiore (Arrhenatherum elatius), di Klasea lycopifolia, specie di origine sud-est europea fino a qualche tempo fa non conosciuta nel territorio italiano. In essi sonofrequenti anche il trifoglio pratense (Trifolium pratense), la piantaggine pelosa (Plan-tago media), la codolina comune (Phleum pratense), il paleo odoroso (Anthoxanthumodoratum), la fienarola comune (Poa trivialis), la bistorta (Polygonum bistorta), il ra-nuncolo comune (Ranunculus acris), il tulipano selvatico (Tulipa australis), un proba-bile progenitore delle tante varietà selezionate dall’uomo a fini ornamentali, un piselloselvatico (Lathyrus pannonicus subsp. asphodeloides), pianta di origine steppica che

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- Luzulo-festuceto, con erba lucciola d’Italia (Luzula italica) e festuca appenninica (Fe-stuca violacea subsp. italica). Si tratta di una cenosi a cotico chiuso, insediata in sta-zioni con maggiore disponibilità idrica e con suoli profondi e ben umificati, dove glistress ecologici dell’ambiente alpino sono ridotti. - Pascolo a trifoglio di Thal (Trifolium thalii) e festuca dei nardeti (Festuca microphyl-la). E’ localizzato in stazioni pianeggianti o in depressioni umide con copertura nevo-sa prolungata, suoli bruni calcarei, a volte subacidi, ben sviluppati. - Nardeti. Al di sopra dei 1800-1900 metri, in aree generalmente poco acclivi, sono pre-senti delle cenosi erbacee poco estese, compatte, dominate dal nardo (Nardus stricta),graminacea cattiva foraggera che predilige suoli acidi, compatti e asfittici e che vienequindi favorita dallo stazionamento degli animali al pascolo.

Arbusteti altomontaniSulle montagne del bacino del Mediterraneo, oltre il limite del bosco sono frequenti gliarbusteti prostrati, formati soprattutto da ginepri, pini, dafni, cotognastri, rose e ranni.Dove le attività dell’uomo sono state, nelle varie epoche, limitate, queste formazioni sipresentano molto estese e compatte, spingendosi in altitudine fino a 2300-2500 metri.Invece sulle montagne molto frequentate le pratiche del pascolo, con tagli ed incendi,hanno portato alla drastica riduzione, a volte alla totale scomparsa, degli arbusteti, dicui rimangono spesso solo esigue e isolate presenze. Nel territorio del Parco queste formazioni sono ben rappresentate e, in alcuni casi, laddo-ve le condizioni ecologiche sono loro favorevoli, scendono anche a quote molto basse, fi-no a 1500 metri circa, in contesti di vegetazione zonale di pertinenza della faggeta. Gli ar-busti più frequenti sono il ginepro nano (Juniperus communis subsp. nana) e l’uva orsina(Arctostaphylos uva-ursi); altri arbusti meno diffusi sono la dafne spatolata (Daphne oleoi-des), il cotognastro bianco (Cotoneaster nebrodensis) e la rosa alpina (Rosa pendulina).

Mantelli di vegetazione e arbusteti collinari e montaniNello studio dei rapporti dinamici esistenti tra i vari tipi di vegetazione appenninica as-sumono particolare importanza quelle formazioni a struttura arbustiva che si insedianoai margini del bosco (note con il termine di “mantelli di vegetazione”) o che coloniz-zano i campi ed i pascolo abbandonati. Nel Parco Sirente-Velino sono state riconosciutevarie comunità di mantello e di arbusteto, riconducibili a due principali gruppi. Il primo è quello che riunisce le associazioni del piano collinare dell’Appennino su sub-strati calcarei e marnoso-arenacei, a contatto con i boschi misti di caducifoglie a pre-valenza di roverella, cerro e carpino nero. Gli arbusti più rappresentativi sono il citisoa foglie sessili (Cytisus sessilifolius), l’emero (Coronilla emerus subsp. emeroides), laginestra odorosa (Spartium junceum), il caprifoglio etrusco (Lonicera etrusca) ed il gi-nepro rosso (Juniperus oxycedrus subsp. oxycedrus). Aspetti del tutto peculiari sonoquelli con bosso (Buxus sempervirens) o con sommacco selvatico (Cotinus coggygria).Il secondo gruppo è formato dai mantelli e arbusteti del piano montano, a contatto conla faggeta e, in qualche caso, degli ostrieti più freschi. Gli aspetti più diffusi nel Parco

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piante che per gli animali. Al di sopra del limite del bosco di faggio, collocato intorno ai1800 metri, inizia, sul Sirente, ma ancora di più sulle aspre cime del Velino, l’arido e se-vero mondo delle praterie sommitali, dei ghiaioni, delle pietraie, delle rupi. Quasi tuttele specie che vivono in questi ambienti non sono mai banali, molte sono rare o endemi-che, alcune testimoniano antichi collegamenti con altri settori geografici come le Alpi ola Penisola Balcanica. Altre piante richiamano alla memoria i paesaggi montani del-l’Europa centrale e dell’Asia fino alle lontane e leggendarie vette himalayane.

Oltre il limite della faggeta e degli arbusteti prostrati, spesso compenetrate con questiultimi, sono insediate le fitocenosi erbacee altomontane, protagoniste dei difficili am-bienti di alta quota, dove a volte riescono a vivere solo esigue zolle pioniere di vegeta-zione, molto specializzate e di notevole interesse fitogeografico perché ricche di entitàendemiche e relitte. Il panorama di questa vegetazione che, nelle espressioni più tipiche, è di origine pri-maria e quindi svincolata dalla dinamica del bosco, è articolato in un complesso mo-saico che sfuma, verso le quote inferiori, nei pascoli secondari, con frequenti fenome-ni di compenetrazioni. Tra le forme di pascolo alpino presenti sulle montagne del Parco, descriviamo breve-mente le seguenti:- Seslerieto a sesleria a foglie sottili (Sesleria juncifolia). Nell’aspetto più tipico si in-sedia lungo le creste ed i ripidi pendii di altitudine, oltre i 2000 metri, esposti a mezzo-giorno e spesso battuti da forti venti, su suoli primitivi di tipo rendzina con abbondan-te scheletro. Tra le specie che lo caratterizzano citiamo, oltre alla sesleria, la pedicola-re appenninica (Pedicularis elegans subsp. elegans), la carice di Kitaibel (Carex kitai-beliana), l’eliantemo candido (Helianthemum oelandicum subsp. incanum) e la cam-panula graminifolia (Edraianthus graminifolius subsp. graminifolius).- Carici-seslerieto a carice umile (Carex humilis) e sesleria a foglie sottili (Sesleria jun-cifolia). E’ un pascolo discontinuo, che si sviluppa su suoli poco evoluti nelle aree conprocessi di crioturbazione. Ha il suo optimum nel piano montano e, in condizioni favo-revoli dal punto di vista microclimatico, sale notevolmente in quello altomontano. - Sassifrago-sileneto, fisionomicamente dominato dalla sassifraga a foglie opposte (Sa-xifraga oppositifolia subsp. speciosa), endemica dell’Appennino centrale, e dalla sile-ne a cuscinetto (Silene acaulis subsp. bryoides), prestigioso relitto glaciale. Questa par-ticolare associazione vegetale costituisce la vegetazione a cuscinetti della tundra alpi-na. E’ legata alle aree di alta quota, oltre i 2300 metri, a debole pendenza, molto vento-se e con esposizioni settentrionali; il suolo è poco evoluto, del tipo protorendzina, conintensa azione crioclastica, ghiacciato per molti mesi e con notevoli fenomeni perigla-ciali. Altre piante di notevole importanza presenti nel sassifrago-sileneto sono l’achil-lea di Barrelier (Achillea barrelieri subsp. mucronulata), il dente di leone montano(Leontodon montanus subsp. melanotrichus), la valeriana saliunca (Valeriana saliun-ca) e la vitaliana abruzzese (Androsace vitaliana subsp. praetutiana).

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zioni soleggiate, fino a 1200 m circa. L’optinum termico si trova nel pieno della fasciabasale in posizione sopramediterranea; quello edafico corrisponde a suoli profondi, fre-schi e ricchi di basi; è tollerante nei confronti dei suoli argillosi, nei limiti di una suffi-ciente umidità. Sull’Appennino edifica boschi puri o misti con altre latifoglie (roverella, carpini, ace-ri, ecc.) nella fascia generalmente posta al di sopra di quella della roverella. Nel Parco le cerrete non sono molto diffuse e la loro composizione floristica ricordaquella degli altri boschi semimesofili come gli ostrieti o, in qualche caso, delle fagge-te termofile.

BOSCHI DI FAGGIO

Le faggete del Parco occupano un intervallo altitudinale compreso tra 900 e 1800-1900metri circa e sono le cenosi forestali meglio rappresentate, sia per estensione che percondizioni strutturali. Il settore in cui è maggiormente presente il bosco di faggio (Fa-gus sylvatica) è quello di pertinenza della catena del Sirente, dove sono localizzati i con-sorzi meglio conservati, mentre le faggete sono poco diffuse sul massiccio del Velino(Valle Cerchiata, Vallone di Teve, Vallone di Sevice). In relazione alle forme di gover-no, si tratta nella maggior parte dei casi di cedui, a volte molto invecchiati e in via diconversione; in qualche caso sono presenti anche delle fustaie, come nel caso della Vald’Arano e dell’Anatella. Nel territorio del Parco vi sono faggete termofile, insediate nel piano basso-montano,e faggete microterme, legate al piano alto-montano. Le prime sono caratterizzate dallapresenza dell’agrifoglio (Ilex aquifolium), oltre che della melica comune (Melica uni-flora), dell’anemone dell’Appennino (Anemone apennina) e della cicerchia veneta(Lathyrus venetus). Le seconde sono differenziate da alcune cardamine (Cardamine en-neaphyllos, C. kitaibelii) e felci (Polystichum aculeatum, Dryopteris filix-mas), oltreche dall’epilobio montano (Epilobium montanum), dalla sassifraga a foglie rotonde (Sa-xifraga rotundifolia) e dal cavolaccio verde (Adenostyles glabra subsp. glabra).Alle problematiche del bosco di faggio sono legati i popolamenti di betulla (Betula pen-dula), localizzati generalmente ai margini della faggeta, anche in stazioni molto accli-vi e su pendici detritiche, grazie alla frugalità e capacità colonizzatrice della betulla. Es-si hanno significato relittuale e per il territorio del Parco sono note nelle località di Val-le di Teve, Piano di Pezza, Colle Jalone, Monte Rotondo e Neviera, M. Pidocchio.

BOSCHI DI CARPINO BIANCO

Negli ambienti di fondovalle, alla base degli impluvi, a volte a contatto con le bosca-glie igrofile a salici e pioppi, si afferma un bosco mesofilo a dominanza di carpino bian-co (Carpinus betulus), spesso con abbondante nocciolo (Corylus avellana). Nello stra-to arbustivo sono presenti anche il sanguinello (Cornus sanguinea), la fusaggine ver-rucosa (Evonymus verrucosus), la lentaggine (Viburnum lantana), la rosa arvense (Ro-sa arvensis), il sorbo montano (Sorbus aria), l’acero minore (Acer monspessulanum),la dafne mezereo (Daphne mezereum) e l’acero campestre (Acer campestre).

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sono quelli a dominanza di lentaggine (Viburnum lantana), ribes (R. una-crispa e R. al-pinum), crespino ( Berberis vulgaris), spinocervino (Rhamnus catharticus), cotogna-stro minore (Cotoneaster integerrimus), ranno alpino (Rhamnus alpina).

Vegetazione forestaleLa copertura forestale del territorio del Parco copre una superficie di circa 16. 500 et-tari (pari al 28% circa) ed è articolata, in rapporto alle fasce altitudinali ed ai fattori eco-logici, in boschi termofili a roverella, semimesofili a carpino nero e cerro, mesofili afaggio o carpino bianco, igrofili a salici e pioppi e, infine, misti a sclerofille sempre-verdi e caducifoglie.

BOSCHI DI ROVERELLA

I querceti a dominanza di roverella (Quercus pubescens) occupano i versanti meridio-nali del piano collinare e sono molto frammentati e degradati a causa delle intense uti-lizzazioni del passato. Si tratta per la loro totalità di cedui aperti e luminosi, favorevo-li allo sviluppo di un folto strato erbaceo nel quale prevalgono le specie di pascolo edin particolar modo il falasco (Brachypodium rupestre), oltre che gli arbusti eliofili co-me i biancospini, i citisi e le rose selvatiche. Nel territorio del Parco questi boschi risalgono in qualche caso fino a 1300 metri ed oltre, acausa delle particolari caratteristiche climatiche e geomorfologiche. Sono insediati general-mente sui calcari fortemente drenanti, sui materiali sciolti delle conoidi fluvio-glaciali e sul-le falde di detrito pedemontane. La struttura, come accennato, è aperta e le altezze dello stra-to arboreo spesso non superano i 7-8 metri. Spesso è alto anche il grado di pietrosità che con-tribuisce ad aumentare le condizioni di xericità. Il limite superiore del bosco è generalmen-te netto (a volte vi sono individui arborei isolati nei pascoli) ed è segnato dalla presenza de-gli xerogramineti a Bromus erectus; in qualche caso le condizioni morfologiche favorisco-no la risalita di propaggini boschive lungo le linee di deflusso ed i canaloni.

BOSCHI DI CARPINO NERO

I boschi a dominanza di carpino nero (Ostrya carpinifolia) occupano i versanti più fre-schi, in linea con il carattere più mesofilo del carpino: si tratta, quindi, di pendii conesposizioni settentrionali o di suoli a maggiore capacità di ritenzione idrica. Il carpinonero è inoltre specie a spiccato temperamento pioniero, per cui spesso colonizza sub-strati anche molto primitivi, come i ghiaioni in via di stabilizzazione. Il corteggio del-le specie arboree annovera l’orniello (Fraxinus ornus), la roverella (Quercus pubescens),l’acero campestre (Acer campestre) il sorbo montano (Sorbus aria), il sorbo domesti-co (Sorbus domestica) ed il cerro (Quercus cerris), mentre tra gli arbusti vi sono l’e-vonimo verrucoso (Evonymus verrucosus), il citiso a foglie sessili (Cytisus sessilifolius)ed il sanguinello (Cornus sanguinea). Anche questi boschi sono stati molto utilizzatinel passato e si presentano sempre governati a ceduo.

BOSCHI DI CERRO

Sull’Appennino il cerro è presente nella fascia submontana con risalite, nelle esposi-

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Per la vegetazione delle rupi, citiamo l’associazione a campanula di Cavolini (Campa-nula fragilis subsp. cavolini) e cinquefoglia penzola (Potentilla caulescens), tipica dellerupi montane fino a 1400-1500 metri, e quella a cinquefoglia dell’Appennino (Potentillaapennina), delle rupi calcaree montano-alpine, dai 1200-1300 fino ai 2700 metri. Tra le altre specie presenti negli anfratti rupestri, molte delle quali endemiche, vi sonola sassifraga meridionale (Saxifraga callosa subsp. callosa), la sassifraga porosa (Sa-xifraga porophylla), la sassifraga alpina (Saxifraga paniculata), l’alisso rupestre (Pti-lotrichum rupestre subsp. rupestre), la primula orecchia d’orso (Primula auricula), lacampanula di Tanfani (Campanula tanfanii), il ranno spaccasassi (Rhamnus pumilus)e varie piccole felci (Asplenium trichomanes, A. ruta-muraria, Ceterach officinarum).Aspetti del tutto peculiari sono quelli con aubrezia di Colonna (Aubrieta columnae),endemica dell’Appennino centro-meridionale, osservabili alle Gole di Celano e zonecontermini. Tra le fitocenosi di brecciaio, ricordiamo le associazioni con:- festuca dei brecciai (Festuca dimorpha) e caglio della Majella (Galium magellense);costituisce il tipo di vegetazione glareicola più maturo e viene considerato il termine dipassaggio verso vegetazioni più stabili come le praterie a Sesleria juncifolia. L’asso-ciazione si sviluppa su brecciai consolidati con clasti di medie dimensioni, in una fa-scia altitudinale compresa tra i 1600 ed i 2200 metri. Nella composizione di questo brec-ciaio entrano specie di grande prestigio fitogeografico quali Viola eugeniae, Arenariabertolonii, Pulsatilla alpina, Crepis pygmaea, Robertia taraxacoides e Thlaspi stylo-sum.;- dripide comune (Drypis spinosa); si insedia su brecciai mobili a clasti minuti, di pre-ferenza tra i 1100 ed i 2000 metri, ma si può trovare anche a quote più basse; oltre aDrypis, tra le specie dominanti anche in questa associazione vi è Festuca dimorpha;- glasto di Allioni (Isatis allioni) e panace di Orsini (Heracleum sphondylium subsp. or-sinii); è tipica dei breccai mobili e molto acclivi, tra i 1800 ed i 2300 metri; tra le spe-cie più frequenti citiamo Robertia taraxacoides, Galium magellense, Adenostyles gla-bra subsp. glabra, Arabis alpina subsp. caucasica e Rumex scutatus;- motellina lucida (Ligusticum lucidum subsp. cuneifolium); si insedia sui brecciai difalda alla base delle rupi, in prossimità di accumuli argillosi fluvio-glaciali con forte ri-tenzione idrica, tra i 1200 ed i 2100 metri di altitudine; le specie più frequenti sono Ru-mex scutatus, Galeopsis angustifolia, Digitalis micrantha, Sedum rupestre e Cerastiumtomentosum; alcuni aspetti sono caratterizzati dalla dominanza di Brachypodium ge-nuense. È presente quasi esclusivamente nel settore meridionale del massiccio, in par-ticolare nella Valle Majelama , Valle del Bicchero e Val di Teve.

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BOSCHI IGROFILI DI SALICI E PIOPPI

Lungo i corsi d’acqua e nei fossi sono insediate boscaglie igrofile a struttura arbustivao arborea, differenziate sulla base del gradiente altitudinale. Nei tratti a pendenza pocoaccentuata e su substrati limoso-sabbiosi, generalmente in ambito planiziario-collina-re, si affermano boscaglie arboreo-arbustive a dominanza di salice bianco (Salix alba)e pioppo nero (Populus nigra). Nei tratti montani, con pendenza accentuata e su sub-strati sabbioso-ghiaiosi le cenosi igrofile, a struttura arbustiva, sono dominate dal sali-ce rosso (Salix purpurea) e da quello ripaiolo (Salix elaeagnos), spesso accompagnatidal salice dell’Appennino (Salix apennina).

BOSCHI MISTI DI SCLEROFILLE SEMPREVERDI E DI CADUCIFOGLIE

In alcune zone a clima submediterraneo o meso-mediterraneo, ad esempio nelle Goledi S. Venanzio e zone contemini, sono rinvenibili cenosi miste a dominanza di leccio(Quercus ilex) e altre sclerofille sempreverdi e di caducifoglie termofile, con laurotino(Viburnum tinus), corbezzolo (Arbutus unedo), pungitopo (Ruscus aculeatus), fillirea(Phillyrea latifolia), asparago selvatico (Asparagus acutifolius), clematide fiammola(Clematis flammula), orniello (Fraxinus ornus), carpino nero (Ostrya carpinifolia), car-pino orientale (Carpinus orientalis), emero (Coronilla emerus subsp. emeroides), ro-verella (Quercus pubescens), terebinto (Pistacia terebinthus), acero minore (Acer mon-spessulanum), rosa sempreverde (Rosa sempervirens) e dafne olivella (Daphne seri-cea). Nello strato erbaceo di questi boschi vi sono Cyclamen repandum, Carex halle-rana, Viola alba subsp. denhardtii, Buglossoides purpurocaerulea, Stipa bromoides,Scutellaria columnae, Melica uniflora, Asplenium adianthum-nigrum, Hedera helix edaltre specie ancora. La struttura di queste cenosi è generalmente di macchia mediamentealta 5-6 metri, a contatto con boschi di carpino nero o di roverella.

VEGETAZIONE DELLE RUPI E DEI BRECCIAI

Le rupi ed i brecciai ospitano comunità vegetali pioniere, legate a fattori edafico-sta-zionali come la forte acclività o il movimento dei clasti, che bloccano l’evoluzione deiprocessi pedogenetici e quindi il dinamismo della vegetazione. Queste fitocenosi, oltre ad interessi ecologici, possiedono anche peculiarità fitogeogra-fiche e storiche di grande importanza, in quanto gli ambienti che le ospitano sono sededi accantonamento di entità relitte o di processi di isolamento che favoriscono la sele-zione di stirpi vegetali sempre più autonome dalle quali si originano gli endemismi, dicui le rupi ed i brecciai sono spesso ricchi. Si tratta inoltre di comunità molto aperte, acopertura rada, in quanto il severissimo ambiente permette la vita a poche specie ed apochi individui. Il panorama della vegetazione delle rupi e delle coltri clastiche del Parco è molto arti-colato, in funzione dell’elevata presenza di questi ambienti, che in non pochi casi co-stituiscono la parte preponderante della fisionomia del paesaggio. In particolare, sonodominanti gli accumuli a lenta reptazione superficiale, oltre a quelli degli apici di ali-mentazione e le clastiti delle aree di vetta.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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* Direttore del LA.CAR.TOPON.ST.** A S. Siniscalchi vanno attribuiti il commento della fig. 5 e la compilazione delle schede tecnico-archivistiche. Il rilevamento dei toponimi delle carte è stato effettuato da I. Cutolo. La stesura del-l'intero lavoro ha carattere provvisorio.

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PER OMAGGIO

al dolore dei morti e dei sopravvissuti del terremoto abruzzese del 2009nel dominante cinismo dei “potenti” pubblici e privati

Introduzione

Un breve antefatto…

L’idea di allestire un siparietto cartografico in occasione del convegno nazionale del-l’AIIG in Abruzzo nacque a Roma il 3 giugno di quest’anno, durante lo svolgimen-to della Consulta dei presidenti regionali. Discutendosi dei vari problemi organiz-zativi e didattico-scientifici, nell’apprendere che il versante cartografico era com-pletamente scoperto, ebbi un moto di “ribellione” come vecchio cultore di questoàmbito di ricerca e proposi alla principale responsabile, professoressa Agnese Pe-trelli, e a tutti i presenti (a partire dal presidente nazionale), di fare l’omaggio di al-meno una bella carta storica, corredata da opportuno commento geografico, da espor-re nella sede congressuale, quasi a “salvare l’onore” di un settore mai così trascura-to nei precedenti convegni.Un’offerta garibaldina, la mia, fatta d’istinto e dedicata de corde alle vittime del re-cente terremoto, ben accolta nella sua “miseria” da tutti i convenuti, la quale proprioper questo non poteva essere disattesa né, per converso, confermata in seguito neitermini tanto minimali con cui era stata formulata. Difatti, col passare dei giorni,subentrando lo scrupolo personale e professionale del sottoscritto – pur sempre di-rettore e fondatore del La.Car.Topon.St. (Laboratorio di Cartografia e Toponoma-stica Storica) all’Università di Salerno – l’offerta lievitò, nonostante il poco tempoa disposizione: pensai cioè di innalzare almeno a tre il numero delle carte, ovvia-mente selezionando le più significative possibili, da esporre in una “Minimostra”,sotto l’egida appunto del suddetto laboratorio.Dato che “l’appetito vien mangiando”, per parte sua il proponente si è innamorato– come spesso gli accade – delle geocarte con le quali si è messo in contatto, dal-l’altro lato la parte “beneficiaria” lo ha esortato “ingordamente” a fare di più e, an-zi, ha pensato fosse utile ai convegnisti avere in mano da subito, tra gli altri, un te-sto sia pur provvisorio del catalogo, in attesa della vera e propria esposizione “a pa-rete” (e della versione definitiva negli Atti), che si spera essere un poco più copiosanumericamente e più profondamente meditata nella parte esegetica.Ecco dunque la preistoria di questo “mini-Catalogo”, curato e stilato in buona par-te delle sue pagine dallo scrivente, con la collaborazione delle dr.sse Silvia Sini-scalchi e Ida Cutolo, le quali comunque hanno firmato un individuale contributo, co-me viene precisato a margine del titolo, non a caso formulato con una metafora cu-linaria in ossequio a quanto appena raccontato…Consegnando alle stampe questo testo e prima di illustrarne in breve le linee metodolo-giche e gli scopi prefissati, mi corre l’obbligo di ringraziare la prof.ssa Monica Meini, chemi ha fornito materialmente tre delle carte esaminate e candidate all’esposizione nella se-de del convegno: trattasi di cimeli geocartografici, posseduti dall’Istituto Regionale pergli Studi Storici del Molise “V. Cuoco”, che questa valida e generosa collega ha illustra-to, ma solo per la parte attinente al Molise, in una recente e brillante pubblicazione.

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cosiddetti «macrotoponimi», per i quali si riscontrano per lo più differenze di for-mulazione estrinseca), vuoi specialmente di quelli indicanti i centri minori e mini-mi (i cosiddetti «microtoponimi»). Ciò è dipeso sia dagli oggettivi mutamenti terri-toriali avvenuti nel tempo e riverberati nella copertura toponimica, sia dalla varia-bile sensibilità onomaturgica collettiva delle popolazioni locali (creatrici di voca-boli dal basso) e degli addetti “ufficiali” all’attribuzione di toponimi dall’alto, sen-za che restino escluse le deformazioni provenienti da entrambi i livelli designanti(Aversano, 2008).Proprio nell’intento di comprendere al meglio possibile le carte, senza barare, oltreche per offrire un preliminare modello di analisi, le abbiamo comparate con rappre-sentazioni di altri autori-enti o epoche, di diversa scala e diversamente finalizzate(vedute satellitari da Google Maps, carte topografiche I.G.M.), il che spiega, tra l’al-tro, perché alla fine “i pezzi” esaminati e destinati all’esposizione sono in numeromaggiore di cinque.In definitiva, poiché le carte prese in considerazione portano date del ‘600, ‘700,‘800 e del nostro secolo, ne è risultato un profilo diacronico, assai discontinuo perforza di cose, vuoi dei caratteri della regione per come si è evoluta nei secoli, vuoidella “storia” delle tecniche di rappresentazione e della progressiva acquisizione del-le conoscenze territoriali, nel nostro caso rese assai difficoltose dall’aspra e tor-mentata morfologia abruzzese e dal disordine idrogeologico delle zone piane fino atempi non troppo lontani.Avendo puntato ai suesposti obiettivi, nonostante il ridotto campione cartograficoesaminato, il commento non poteva ridursi a poche, brevi e schematiche note illu-strative, attente più al “genere” che alla “specie”, e perciò molto facili da costrui-re ma di valore scientifico e didattico-divulgativo assai scarso. In questo mini-Ca-talogo abbiamo “osato” di più, in un linguaggio che nella sua stringatezza talorapuò apparire non troppo piano, nonostante le intenzioni in contrario, ma che era ilsolo a permetterci di leggere, sia pur in primo approccio, la complessità dell’og-getto di indagine; e, dunque, “pretendiamo” dal lettore, scusandocene, un impegnoe una sensibilità attentiva maggiore del solito, di talché Egli possa, avvalendosi an-che delle ampie referenze bibliografiche offerte, andare autonomamente oltre que-sto preliminare percorso interpretativo, scoprendo significati diversi e aggiuntivi,dei quali il curatore sarebbe ben lieto (e grato) di essere portato a conoscenza inqualsiasi momento.

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Metodo, procedimenti e obiettivi perseguiti

La “filosofia interpretativa” adottata nei confronti dei prodotti iconici e toponimiciesibiti in questo mini-Catalogo parte dalla consapevolezza, ormai consolidata tra glispecialisti, che l’immagine (e quella cartografica in particolare) non possa ridutti-vamente intendersi quale mera e neutrale rappresentazione dello spazio, giacché co-stituisce, al di là degli aspetti tecnico-formali e contenutistici “oggettivi”, l’espres-sione e la testimonianza di un preciso modello territoriale e, quindi culturale, ossiacomunicazionale, sociale, simbologico e simbolico-soggettivo, improntato a valorie finalità particolari, nonché a palesi e talora nascoste “ideologie”. I più recenti stu-di, infatti, basandosi su punti di vista molteplici e diverse teorie interpretative, pun-tano a evidenziare la problematicità della carta geografica e il suo significato socia-le, a partire dal contesto d’origine, dall’appartenenza a un determinato periodo sto-rico e a un preciso progetto politico.Proprio in considerazione della diversità degli approcci metodologici possibili in ta-le vasto campo di ricerca, in questa sede che esige una forte curvatura didattica nonsi è optato per la fredda applicazione alla carta, onde decodificarne il significato (me-glio sarebbe dire i significati), di astratti modelli teorico-interpretativi, ma si è cer-cato di presentare con semplice e lineare descrizione l’analisi filologica del testo, insé molto problematica, che può solo essere di natura interdisciplinare, con la chia-mata in causa di fonti, approcci e conoscenze (locali e generali) forniti da altre di-scipline, storiche, geo-pedo-morfologiche, etno-antropo-sociologiche, economiche,giuridiche, cartografiche (tecnico-tematiche), iconologiche, diplomatistiche e viaenumerando.È appunto quel che, nei limiti del possibile e con linguaggio sintetico, si è tentato difare nella decodifica dei cinque reperti relativi all’Abruzzo (regione ritratta da solao contornata dalle “Provincie” contermini o dal Regno di Napoli) raccolti in questamodesta “Guida alla lettura”. Di essi, talora veri “cimeli” geocartografici per il lo-ro enorme pregio documentale-identitario e artistico, ci si è sforzati di volta in vol-ta di comprendere, con un approccio fondamentalmente “filologico-testuale”, for-ma e contenuto, sotto il profilo non tanto tecnico quanto umanistico-culturale. Nontutta l’attenzione che meritano è stato possibile per ora riservare ai toponimi, da noiconsiderati “l’altra metà del cielo” in una carta: costituendo già di per sé una pre-ziosa testimonianza territoriale, si è comunque ritenuto utile e opportuno offrire sem-plicemente un loro elenco parziale a una preliminare attenzione del più o meno cu-rioso lettore (cfr. Appendice). Questi nomi locali saranno esaminati, nella stesura definitiva del testo, come docu-menti e “beni culturali immateriali”, secondo un delicato protocollo d’indagine, dachi scrive ideato, atto a sviscerare da essi i caratteri identitari del contesto geografi-co di riferimento (Aversano, 2006[b]). Per ora basterà notare la notevole “volubili-tà” e “volatilità” crono-spaziale, vuoi dei toponimi riferiti alle città più importanti (i

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LEGGIAMO LE CARTE…

SCHEDA 1Titolo Aquila e dintorni Autore/i Ing. Vincenzo Di Carlo Luogo NapoliEditore Officio Topografico dei BorboniAnno 1858Tipologia Copia in acquerello della minuta di campagna “Aquila e dintorni”

dello stesso AutoreMisure Cm 70x102 Scala 1:5.000Orientamento Nord in altoCollocazione Istituto Geografico Militare di Firenze(Armadio 93, Cartella 74, Docum. 8624)

A fronte del recente disastro sismico, che vede in gran parte rovinate le strutture edili-zie della città, ma soprattutto in omaggio ai tanti morti e ai patimenti dei sopravvissu-ti, oltre che per auspicio di una rapida riedificazione e rinascita urbana, ci è sembratodoveroso, più che opportuno, aprire e centrare questa piccola mostra cartografica su unacarta topografica dell’Aquila, prodotto eccellente di un apprezzato ingegnere dell’Of-ficio Topografico dei Borboni, V. Di Carlo, autore di altre impareggiabili piante di cit-tà (come Caserta e Maddaloni), che dopo l’Unità passò nel corpo di Stato Maggioredell’esercito italiano (per ragguagli sulla biografia professionale, cfr. Valerio, 1993, pp.518-519 e passim).

Fig. 1 - Aquila e dintorni (1858).

Fig. 2 - Veduta satellitare dell’Aquila (Google Maps, 2010).

Benché la genesi di questo vero gioiello di scienza e arte rientri nel novero della “cartografiarepressiva” ad uso dei militari, voluta dai governanti napoletani dopo i moti del 1848 a scapi-to del progetto di una carta di tutto il Regno (Valerio, 1993, pp. 300-303), esso appare quasi un“atto d’amore” verso la città e il suo intorno, per la delicatezza dei passaggi tonali dal verdemarcio agli azzurrini fino al rosso dell’incasato, dove la plastica del terreno, con quel che so-pra vi è disegnato, risalta “emozionalmente” grazie a quasi invisibili isoipse e a uno sfumo te-neramente lumeggiato. Non basta, dunque, se non a carpire gli aspetti meramente tecnici, quanto nell’attuale Catalo-go I.G.M. si legge: «Bella carta, pregevole per l’artistica ed evidente rappresentazione orogra-fica resa mediante curve di livello tracciate all’equidistanza di 35 palmi e sfumo a luce obliquae per la nitidezza del disegno. Abitati e costruzioni sono in rosso, acque in azzurro, vegetazio-ni e colture in verde, rimanente della planimetria in nero. Le quote dei vari punti di elevazio-ne sono calcolate in palmi». Né coglie totalmente nel segno l’elogio che il capitano FrancescoVerneau, scrivendo nel 1858 al direttore dell’Officio Topografico, faceva al Nostro: «Infine lapianta della città di Aquila e contorni alla scala dell’1/5.000 eseguita dall’ingegnere di Carlo è

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La forma urbis di metà Ottocento, grossolanamente rotondeggiante entro un ap-prossimativo triangolo col vertice in giù (direzione ovest/sud-ovest), riporta di mas-sima, all’interno delle mura medievali, rimaste ancora sostanzialmente integre, i li-neamenti attuali, ovviamente con alcuni spazi verdi e slarghi in più e, soprattutto,con molte sfrangiature ai margini, fino ad allora indenni da costruzioni. Dagli anniSettanta del secolo scorso, invece, prima ancora che si verificasse la paurosa ce-mentificazione extra-moenia, quegli stessi spazi vuoti cominciarono a colmarsi in-tra-moenia, sicché oggi osserviamo un triangolo edificato compattamente al suo in-terno, salvo il settore di nord-ovest (cfr. fig. 2, da Google Maps, 2010), che lasciaappena immaginare l’unica digitazione esistente in età tardo-borbonica e registratanella coeva pianta. In quel periodo, da cui ci separa un secolo e mezzo, le uniche ro-buste cellule separate dal nucleo centrale appaiono, sempre in questa rappresenta-zione, a nord-est, il castello (decentrato ma comunque entro le mura) e, su modestirialzi del terreno, S. Basilio a nord, S. Maria del Soccorso, S. Maria di Collemaggioe i Cappuccini di fuori, rispettivamente a est e a sud-est.Un simbiotico rapporto città-campagna si intuisce dalla presenza nel più vasto in-torno di tante località isolate, talora ospitanti edifici sacri e profani, che punteggia-no il tappeto verde-giallo contrastante col rosso degli edifici urbani (La Torretta,Santa Veronica, Cappuccini di Dentro, Fontecchia, Ocri, Ercole, S. Sisto, Le Pe-trare, ecc.); ed ecco ancora bianche strade e coltivi, soppiantati da boschi ai margi-ni più lontani e più alti (Coppa), un largo tratturo sub-parallelo all’Aterno, che a suddell’asta principale “dilaga” e divaga in ampi bracci racchiudenti isole fluviali, crean-do una situazione alquanto repulsiva per l’insediamento: peccato che esso inveceoggi ha preso piede, lasciando tuttavia, tra sud-ovest e sud-est (specie nella falcatu-ra tra l’Aterno e Poggio di Roio) estesi spazi alla natura e all’agricoltura intensiva,dove il paesaggio è diviso in particelle varicolori di campi coltivati (cfr. fig. 2, daGoogle Maps, 2010).Il “delirio edificatorio” degli ultimi decenni ha avuto molto più successo al di fuoridelle mura settentrionali, dove gli antichi terreni appaiono, sempre nell’immaginedi Google Maps, quasi tutti “tremendamente” soppiantati da edifici e infrastrutturestradali e autostradali, tra cui la più invadente risulta l’Autostrada “L’Aquila-Chie-ti”, che tuttavia ha funto in qualche modo da ostacolo a una più pesante espansioneedilizia in direzione nord (ma purtroppo non verso nord-ovest e nord-est): in effettiè stata quasi totalmente distrutta l’agricoltura sia della conca nordoccidentale, limi-tata dalle ultime pendici del Gran Sasso, sia di quella sudorientale, spinta verso ladorsale del Monte d’Ocre, estrema appendice del Massiccio del Velino.Il che, ove si riguardi la poetica carta del Di Carlo, non può che suscitare una co-

cente nostalgia di cose perdute...

un modello di diligenza, esattezza e rara perseveranza al lavoro, e tenendo presente la confi-gurazione eseguita con molte curve elevate e con molteplici quote e profili, presenta un insie-me degno di ogni encomio, di cui Ella stessa ha dato l’esempio. Tale benemerito operatore siè precedentemente distinto in consimili lavori graditi da tutti i superiori» (A.S.N., Ufficio To-pografico I, f.s. 21/15, cit. da Valerio, 1993, p. 518).L’impianto urbano prevalentemente angioino (in parte conservatosi fino a oggi), sorto su unaconoide formata dai detriti scivolati dal sovrastante vallone biforcantesi più in alto, si ricono-sce facilmente nell’impaginato, dove spicca l’asse viario sud-ovest/nord-est, che parte dall’at-tuale C.so Federico II (zona S. Agostino) e continua [cito sempre secondo l’attuale odonoma-stica] come C.so V. Emanuele, lasciandosi alla sinistra Piazza Duomo, ben oltre l’incrocio deiQuattro Cantoni e S. Maria di Paganica ancora a sinistra. Altrettanto ben segnato appare l’as-se sud-est/nord-ovest, perpendicolare al primo pure se un po’“spezzato” ai Quattro Cantoni,dove Via S. Bernardino lascia il posto a Via Barile e, in dritta successione, a Via Roma.

Questa immagine è stata inserita sia per mostrare il contesto geografico del capoluogo abruzze-se, sia soprattutto per la palese affinità con la carta del Di Carlo nelle tecniche usate per la resa“artistica” del rilievo (sfumo e lumeggiamento): si tratta di una delle serie più pregevoli nella tra-dizione della cartografia topografica I.G.M., certamente ispirata alle eccellenti esperienze del-l’Officio Topografico dei Borboni.

Fig. 3 - Foglio: 359, L’Aquila (scala 1:50.000). Anno di produzione: 1994. Edizione:1 - Data Ri-cognizione: 1987 - Edizione Serie 50L: 1 - Data Serie 50L: 1993.

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l’intera Campania attuale, affacciata su una Maris Tirreni Pars. Una “accoppiata” re-gionale insolita, questa, rifiutata dal grande Magini e dalla più avvertita corografia,ma che comunque risponde a canoni eruditi ed esigenze di mercato, piuttosto che al-la esatta conoscenza della realtà geografica: si tenga tuttavia conto che questa regio-ne, nel periodo contrassegnato dalla cartografia empirica, viene spesso rappresenta-ta unitamente al Molise (Comitato di.., Contea di.., Contado di.., ma non è il nostrocaso), che a sua volta trovasi talora configurato insieme al confinante Principato Ul-tra (o Ulteriore), corrispondente alle attuali province di Benevento e Avellino.La sagoma della regione, così tratteggiata ma senza l’indicazione dei limiti ammi-nistrativi, di strade e di ponti sui fiumi, con un piccolo sforzo immaginativo asso-miglia, piuttosto che a un rettangolo (come dovrebbe), a un trapezio col lato mag-giore orientato da sud-ovest a nord-est (in pratica, il corso del fiume Tronto) e il la-to minore più corto del dovuto, assimilabile quasi al vertice di un triangolo. I rilie-vi, segnalati con uno o più mucchi talpa allineati e ombreggiati a destra, ma tutti piùo meno della stessa dimensione, mostrano direzioni assolutamente diverse dal rea-le, giungendo talvolta quasi fino al mare, ma non danno l’idea del grossolano alli-neamento nord-ovest/sud-est, tipici dell’Abruzzo montuoso tra i Monti della Laga,il Gran Sasso e la Maiella, né delle differenti altezze e volumetrie dei monti. Ciò di-mostra la difficoltà, anche per un grande cartografo come il Mercatore (inventore diuna nota proiezione, le cui carte furono riprodotte con varie edizioni dallo Hondiusnel tempo), di fotografare le fattezze di una regione “a tavolino”, solo sulla base dinotizie sparse e non controllate, provenienti dall’esterno.È tanta la confusione circa la contrastata morfologia dell’Abruzzo che, mentre si ri-nuncia a disegnare la presenza di boschi, da un lato viene ignorato il nome di sin-goli plessi o di catene, dall’altro i pochi oronimi si ripetono: ad esempio Maiellamons compare ben tre volte in posizioni improprie, mentre l’autore si rifugia quat-tro volte nella generica coronimia Apenninus mons, alludendo forse al Gran Sassocon l’oronimo M. Real, a nord di Aguila: una trascrizione toponimica, quest’ultima,che meglio richiama il probabile etimo, legato alle tantissime micro sorgenti sgor-ganti dal terreno carsico circostante e sottostante. Il futuro capoluogo è indicato conun prospettino turrito, al pari di altri considerati tra i più importanti (Pescara, Thie-ti, Lazano, Trigno, Bucello, Celano, Alba, Aufidena), mentre Teramo e Sermona (Sul-mona?) sono riportate solo con un semplice tondino, non si sa se più per effetto didisinformazione che a testimonianza d’una antica gerarchia di quelle sedi, che le ve-deva confinate all’epoca in una posizione di retroguardia.I nomi di luoghi, in verità, sono tanti (circa 300), talora riferiti a centri scomparsi(Sara destructa alla foce del Sangro; S. Fabiano ruinato, tra i fiumi Tronto e Libe-rata, ecc.), ma la loro trascrizione, spesso diversa da quella giunta fino a noi, ne ren-de ancora più problematica la decodifica geo-etimologica, congiurando ad accre-scerne l’intrinseca difficoltà una scorretta posizione, sia in assoluto, sia in senso re-lativo, degli abitati di riferimento. Stesse imperfezioni ritrovansi a riguardo della di-

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SCHEDA 2Titolo Abruzzo et Terra di LavoroAutore/i Mercatore [al secolo Gerhard Kremer]Luogo AmsterdamEditore Jodocus Hondius (stampatore)Anno 1619Tipologia StampaMisure Cm 46x33Scala Miliaria Italica CommuniaOrientamento Ovest in altoCollocazione Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “Vincenzo Cuoco” (Inv. 64)

Fig. 4 - Abruzzo et Terra di Lavoro (1619).

La carta fa parte dell’Italiae Sclavoniae et Greciae Tabulae Geographicae, raccoltaedita ad Amsterdam da Hondius nel 1619. Questa volta l’Abruzzo, monco del Moli-se, è a prima vista irriconoscibile in quanto – per l’orientamento della carta – il Ma-re Adriatico (segnalato come Golfo di Venetia) è in basso a destra mentre la sezionein alto a sinistra coincide con la Terra di Lavoro, maldestramente indicata come unterritorio estesissimo fra il Garigliano e il Vallo di Diano, coincidente cioè quasi con

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rezione e della lunghezza dei fiumi, che però vantano rispetto ai rilievi un maggiornumero di denominazioni, così disposte sull’Adriatico da nord-ovest a sud-est: Tron-to, Liberata, Tondino, Vomano, Piomba, Sino, Tano, Pescara, Lento, Tortus, Mero,Sanguino vel Sangrus, Sento, Trigno, Trento over Tifernus. Ignorate totalmente neldisegno le torri costiere, seppure ben presenti, ma per noti motivi militari tenute car-tograficamente segrete dal governo centrale del Regno.La presenza lacustre è numericamente scarsa ma molto spiccata: sul limite ovest siconfigura un estesissimo e stretto ovale (Celano Lago), la futura Conca prosciuga-ta del Fucino, alimentato da un solo immissario (Teverone fl.) e incoronato da pa-recchi centri (Camerata, Gaiano, Transacco, Paterno, S. Giona, Celano, Venere,Aguto, Ortuchio, Bordella, Sotrone, Sambuca, Marano). Si segnala a parte l’attua-le Lago Matese campano, non idronimicamente denominato (ma a nord è riportatoun Mathessus mons), dalla forma ampia e circolare, con sulla riva occidentale dueabitati, Aylono e S. Angelo di rippa canina, laddove i centri di Alifas e Piedimontesono al nord e non al sud del lago. Di errori come questi se ne ritrovano tanti, ma i più marchiani sono proprio in Cam-pania, dove, ad esempio, l’isola di Capri (minuscola nella realtà) ha le stesse di-mensioni della tanto più estesa consorella Ischia, e dove inoltre la Penisola Sorren-tina ha una inaccoglibile forma corta e larga, mentre il fiume Solofrana, anziché con-fluire nel Sarno, passa per Cava e sbocca a Salerno, al posto dell’Irno.Alla luce delle difficoltà di acquisire nel tempo una esatta conoscenza regionale, spe-cie per territori aspri e selvaggi come il nostro Abruzzo, si apprezza di più a questopunto la preziosità delle future acquisizioni geografiche, di cui è testimone attualis-sima la carta del T.C.I. presentata nel commento della scheda n. 5.

SCHEDA 3Titolo Typus Regni Neapolitani in suas provincias diligenter divisi Autore/i Christoph Weigel [Christoph Weigelium]Luogo NorimbergaEditore s.e.Anno 1740 ca.Tipologia StampaMisure Cm 40x33Scale Milliaria Germanica communia 15 in uno Gradu; Milliaria Gallica communia

sive horae itineris 20 in uno Gradu; Milliaria Italica magna 60 in uno GraduOrientamento Nord in altoCollocazione Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “Vincenzo Cuoco” (Inv. 282)

Fig. 5 - Typus Regni Neapolitani in suas provincias diligenter divisi (1740 ca).

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Tra le numerose ricopiature, nazionali e internazionali, dell’”Italia” del Magini fi-gura anche questa, di marca tedesca, dovuta al Weigel, noto incisore di Norimberga(1654-1725), in collaborazione con Johann Baptist Homann (1664-1724), la qualecon molta probabilità si giova degli “ampliamenti” apportati allo stesso Magini daDomenico de Rossi ai primi del Settecento. Che sia destinata a “far cassa” sul mercato colto europeo ce lo dicono non solo le trescale, indicate sotto a sinistra, di miglia germaniche, francesi e italiane, ma ancheuna serie di “intingoli” assai attrattivi per il “cliente”: i colori diversi delle provin-ce o isole; l’invasiva e accattivante vignetta in alto a destra, raffigurante il Vesuviofumante con ai piedi vari allineamenti insediativi piuttosto che una Napoli presup-ponente un abitato compatto e, in primo piano, il paesaggio di una imprecisabilemarina della costa tufacea tra Posillipo e i “Campi Flegrei”, dove alcuni pescatoristanno catturando grosse “prede”; l’uso della lingua latina sia nell’intestazione, so-vrastata da un cartiglio che allude alla marittimità (due granchi di mare) e alla ci-viltà musicale napoletana (uno spartito su pergamena); l’indicazione erudita dei va-ri mari (Adriaticum, Tyrrhenum sive Thuscum, Ionium) e delle isole (Lipareae olimÀeoliae et vulcaniae insulae); infine, la Legenda (Notarum Explicatio), in basso asinistra. Quest’ultima è di particolare rilevanza antropogeografica perché raccoglie ben die-ci simboli, relativi alla gerarchia urbana, civile-culturale-militare (Urbes Praeci-puae, minores sive oppida, Oppidula et Burgi, Pagi, vici et turres, Academiae, Ca-stella) o religiosa (Archiepiscopatus, Episcopatus, semplici o abbinati: alteris uni-ti) e fa tutt’uno con lo scarso interesse alla geografia fisica.Infatti, i rilievi, nella solita forma di piramidi o coni sfumati, sono poco presenti etoponimizzati, e altrettanto vale per i soli sei fiumi segnalati con idronimo tra Abruz-zo e Molise. Tra le componenti naturali spicca naturalmente il Lago di Celano, ma-ginianamente ampio, rotondeggiante e alimentato da una raggiera di immissari.Ben risaltata è la sagoma della regione, con le linee confinarie esterne tratteggiateo puntinate e sempre rimarcate con larga striscia colorata, nonché la partizione in-terna, resa con semplici puntini (Aprutium Ulterius, A. Citerius, Comitatu Molisius:si noti ancora l’uso del latino). Le sole città principali, indicate con un esteso ab-bozzo di pianta affiancato da croci doppie o singole, a seconda che si tratti di sedidi arcivescovado o vescovado, sono Aquila, Civita di Chieti e Molise (Campobas-so è ancora declassata a un semplice cerchietto), mentre i centri di rango minore,più o meno fortificati, sono Solmona, Ortona a mare, Lanciano, Celano, Teramo,Civita di Pena.Il numero di toponimi (un centinaio), ovviamente ridotto rispetto alle carte di sca-la più grande in questa sede commentate, se per un verso impoverisce questa rap-presentazione, per l’altro offre un’idea dell’effettiva importanza geografica dellacostellazione dei centri riportati, essendo il frutto di una selezione “ufficiale” dal-l’alto.

SCHEDA 4Titolo L’Abruzzo Ulteriore e Citeriore e la Contea di Molise Autore/i Giovanni Maria CassiniLuogo RomaEditore Calcografia CameraleAnno 1790Tipologia StampaMisure Cm 48,4x35Scale Miglia comuni d’Italia di 60. a grado; Miglia Romane di 74?. a gradoOrientamento Nord in altoCollocazione Istituto Regionale per gli Studi Storici del Molise “Vincenzo Cuoco”

(Inv. 358)

Fig. 6 - L’Abruzzo Ulteriore e Citeriore e la Contea di Molise (1790).

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Siamo di fronte a una tavola del tomo I dell’Atlante Generale Geografico, disegnato e inci-so dal Chierico regolare Somasco G. M. Cassini (1745-1824 circa), un cognome che richia-ma gli esponenti della omonima e prestigiosa “dinastia”, che lavorò in Francia tra Sette e Ot-tocento. A questo atlante in tre tomi e ben 182 fogli, commissionato e finanziato dalla Cal-cografia Camerale di Roma, l’autore, che era anche geografo, lavorò per circa 15 anni tra l’ul-timo decennio del Settecento e i primi del successivo secolo. «La Corte pontificia fu ben lie-ta di sostenere il lavoro di G.M. Cassini, oltre che per lustro che gliene derivava – erano glianni nei quali vi era un grande fervore di opere geografiche in tutte le nazioni europee – an-che per la necessità di aggiornare le ormai vecchie carte dell’atlante del Cantelli», scrive Vla-dimiro Valerio (1994, p. 86), che ci consegna inoltre questa assai condivisibile valutazione:«Si tratta di un’opera prestigiosa, curata tanto negli aspetti tipografici quanto in quelli stretta-mente incisori e decorativi, che si colloca tra i migliori atlanti realizzati in Italia» (Ibidem).In effetti, quanto a nitidezza del segno e complessiva leggibilità, non si poteva trovare di me-glio all’epoca e, mutatis mutandis, può sostenersi che, anche rispetto a carte attuali, la pre-sente compete molto bene. Essa afferma sicuramente una propria spiccata modernità: per unverso, con un cartiglio (racchiudente titolo, editore ed anno del prodotto) non più baroccheg-giante ma fortemente identitario, consistente in una specie arbustiva quasi unita in alto – si di-rebbe “a galleria” – con la chioma di un albero, dalla cui cima un cacciatore spara a due orsi

marsicani, mentre sta accorrendo un lupo famelico e qualche serpente striscia nell’erba; perl’altro, adottando una scala di esclusive miglia italiane e romane, quasi a confermare un or-goglio regionale e nazionalistico dell’autore, che trova riscontro nell’esclusivo uso dell’ita-liano per le scritte esterne e per la toponomastica (il latino è definitivamente bandito!) e delquale c’è sentore nella stessa introduzione all’atlante. Nella quale infatti egli dichiara con unplurale maiestatis di essere «animati ancor noi da un vero desiderio di giovare ai nostri na-zionali» (cit. da Meini, 2009, p. 71): espressione che porta l’appena citata Autrice a ritrovareun «intento sociale del Cassini, geografo che indirizza la sua opera al pubblico più che allacorte pontificia”(Ibidem) e che, aggiungerei, forse è anche inattesamente anticlericale...La sagoma è abbastanza simile a quella disegnata dal Weigel e da considerarsi, quindi,come ultima “propaggine” semica del Magini, con netti miglioramenti nella esattezzadella scala latitudinale se non del tutto nelle longitudini: qui si vede meglio che altrovecome l’Abruzzo avesse un rigonfiamento nella parte nord-occidentale, grazie ai territo-ri che nel 1927, in seguito alla nota riforma amministrativa del Fascismo (tendente tral’altro a costruire il “grande Lazio” a spese delle regioni vicine: Aversano, 1995, pp. 252-260), passarono alla provincia di Rieti (cfr. anche scheda 5). Dentro tale sagoma, per-fettamente rimarcata da una doppia striscia, colorata in verde-giallo sui puntinati confi-ni con la Capitanata, la Terra di Lavoro e il Principato (fuori cornice s’immagina la scrit-ta: Ultra), e in rosa-verdechiaro sul tratteggiato scelto per confine con lo Stato Pontifi-cio e la Marca, si distinguono bene anche le partizioni interne tra l’Abruzzo Ulteriore,Abruzzo Citeriore e la Contesa di Molise, grazie a due strisce gialle su puntinato. Entrando più francamente nel campo di rappresentazione, si vede come la morfologia re-gionale trovi già una sua cifra precisa, che prelude alla conoscenza più profonda acquisitadai geografi nei decenni successivi, distinguendo chiaramente un Abruzzo montano e unocostiero, secondo linee di disegno che prospettano un quasi-allineamento nord-ovest/sud-est delle tre catene principali (Monti della Laga, Gran Sasso, la Maiella), nonché i retro-stanti rilievi e conche interne e il grande Lago di Celano. Ovviamente la resa tecnica dellealture si affida ancora a piramidi lumeggiate, che però variano opportunamente di gran-dezza e talvolta di forma a seconda delle dimensioni spaziali e dell’energia del rilievo, ol-tre che rispettare di massima la sua continuità (o discontinuità, nel caso di cime isolate).Inoltre, il Cassini spalma un colore giallino scuro ai margini sia dei laghi che di alcune al-ture e, più compattamente e diffusamente, in quelle zone dove ritiene esserci paesaggio col-linare (a latere, corre l’obbligo di avvertire – e ciò vale per tutte le carte antiche esamina-te – che i colori originari potrebbero essere mutati nel tempo per degradazione).Anche la rete idrografica si lascia apprezzare nel suo complesso, a partire dai fiumi, chenotoriamente erano già stati disegnati dal Magini con buona approssimazione geografi-ca. Ad una rapida osservazione, qui non appaiono grossi perfezionamenti rispetto al “mo-dello” originario, se non per la direzione complessiva delle aste che, a nord del Pescara siorientano di massima da ovest ad est e, a sud di quel fiume, tutte vanno da sud-ovest anord-est: il Pescara-Aterno, in particolare, mi sembra meglio rappresentato nel suo cor-so, che non si spinge troppo all’interno prima di svoltare decisamente verso nord-ovest,

Osservando questa immagine di Google Maps, dove il rilievo spicca assai meglio che nella comu-ne cartografia, si può apprezzare la serietà del lavoro del Cassini nel rendere, pur con una simbolo-gia impari (‘piramidi’ irregolari lumeggiate), i lineamenti morfologici della regione Abruzzo.

Fig. 7 - Veduta satellitare dell’Abruzzo in modalità “rilievo” (Google Maps, 2010).

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penultimo gradino della classazione…Al terzo livello (indicato, come detto, dai pro-spettini) sono inquadrati più di una cinquantina di centri, mentre centinaia sono i rima-nenti, collocati più o meno alla base della piramide gerarchica. Da notare che sono completamenti assenti le torri costiere lungo il litorale, il che si spiega conl’ormai totale cessazione delle incursioni turchesche, e che viene citato un solo scalo maritti-mo (Porto Salino). In totale i toponimi, come si vede nell’annessa tabella, superano i 450 (lostesso numero dell’attuale carta del T.C.I: cfr. fig. 5), ma risultano spesso assai differenti da-gli attuali, talora con varianti trascrittive nel caso di conservazione del nome originario, percui sarà interessante una comparazione futura. Asolo esempio si ricordano: Aquila senza l’ar-ticolo, Civita Ducale per Cittaducale, M. Majello per La Maiella, e tante sorprese, soprattut-to sul versante dell’oronimia; basti pensare che, nell’area dei Monti della Laga, si leggono te-stimonianze connotative del tipo M. Fultone, M. Fiore, Colle delle Api, oppure che, dove orasi legge Terminillo, allora si diceva Monti Gurguri o M. Sassuolo, tutte denominazioni mol-to lontane dalle fredde e denotative attribuzioni nominali dei tempi nostri.Non c’è tempo e spazio per illustrare quanto sia approssimata la posizione assoluta delle se-di umane e quella relativa tra le stesse o rispetto ai fiumi, ai monti e alla costa, ma certamen-te non mancano errori, talora anche madornali, che il successivo rilevamento su base geode-tica ha già contribuito a rettificare definitivamente.

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al contrario di quanto ci riporta il disegno maginiano e quello di molti suoi ricopiatori edepigoni. Gli specchi lacustri vedono primeggiare, giustamente, quello di Celano, che con-serva solo in parte la folta raggiera di immissari accreditati dal Magini e che sulle imme-diate sponde registra solo la presenza di S. Benedetto e Trasacco.Quanto agli altri laghi di minori dimensioni, appare abbastanza ampio quello di Bariscianosotto l’attuale Gran Sasso, inesistente tuttavia come oronimo (ai piedi di Monte Corno e Pie-tra Fiorita: toponimi segnalati in carta); c’è poi uno specchio d’acqua nell’alto corso del Ve-lino tra Civita Ducale e Paterno e una serie di laghi di montagna sulla Meta (toponimi d’e-poca: M. Cacaccio, M. Marso, M. di Schienaforte), disposti radialmente rispetto al declivio,di cui tre si susseguono come grani di un rosario.Abbastanza fedele la linea di costa, abbellita a ridosso della battigia da un tratteggiato mar-rone, affiancato da una più larga fascia di colore giallo-sporco verso l’avanmare. Su di essasversano i soliti fiumi, tutti denominati alla foce e, in caso contrario, quasi sempre identifica-ti con l’idronimo lungo l’asta, specificazione riservata sempre ai grandi fiumi. Restando suisimboli lineari, cominciano a comparire anche le arterie stradali, segnata con due linee paral-lele, quella interna più marcata dell’altra: trattasi di un solo collegamento con Aquila, prove-niente da Venafro e passante per Sulmona, da dove si diparte una diramazione per Popoli (Po-polo in carta), comunque diretta autonomamente al capoluogo, salvo una confluenza, a sud-est dello stesso, nell’ultimo tratto della strada principale.Data la ricchezza del simbolismo e dei toponimi richiamanti i centri, non è possibile svol-gere un’analisi profonda delle “rete urbana” e delle sue funzioni. Ci si limiterà perciò apoche osservazioni, rinviando un esame più completo alla definitiva stampa degli “attidel Convegno AIIG”. Basta osservare i simboli, tuttavia, per avere una visione d’insie-me del rapporto tra le città principali (piantine murate e schiacciate a terra, con una o duecroci a dire le funzioni vescovili o arcivescovili), quelle “intermedie” (prospettini di edi-fici con torre e cerchietto incorporato) e gli altri centri di rango minore o minimo, tipiz-zati con un cerchietto vuoto, più grande o più minuscolo a seconda dei casi. Aiuta poimolto nel riconoscimento dei singoli “nodi” delle fragile rete urbana la scelta autorale divariare il tipo e la misura del carattere tipografico della scritta toponimica a seconda del-la rilevanza del centro disegnato.A caratteri cubitali si stagliano infine sul campito i co-ronimi dei due Abruzzi e del Molise, con una direzione da sud-ovest a nord-est ma leg-germente ed elegantemente curvata al centro, quasi a reiterare l’andamento dei confinimeridionali delle due province e della stessa Contea di Molise.La pianta di Aquila (non c’è ancora l’articolo), nome a carattere maiuscolo come Chie-ti e Sulmona, è leggermente sovradimensionata rispetto agli altri maggiori “poli urbani”,che costituiscono il secondo livello della gerarchia di rete: Civitella del Tronto, CivitaDucale (che faceva ancora parte dell’Abruzzo), Campoli, Teramo, Atri, Civita di Pen-na, Pescara, Chieti, Pianella, Capistrano, Lanciano, Celano, Sulmona, Pescina, Orto-na. A latere, può interessare che nel Molise, oltre Isernia, hanno un tal rango alto Tri-vento, Guardia Alfieri, Larino e Bojano, laddove Termoli e Ururi ricadono ancora nellaCapitanata e Campobasso mal compete, confinato col suo semplice cerchietto grande al

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Alle quattro geocarte storiche risalenti ad altrettanti e diversi secoli, il curatore ha volu-to aggiungere anche una quinta, attualissima, e tratta dall’Atlante di uno degli enti ita-liani di maggiore prestigio in campo cartografico e, più ampiamente, geografico. Poichétutti sono più o meno in grado di comprendere una carta geografica odierna, questo com-mento potrebbe sembrare inutile e quasi una sorta di “offesa” al consesso dei geografiche si riunisce in Abruzzo. Al contrario, intento del curatore è stato di onorare un prin-cipio sacro della Geografia storica, quello di rapportare sempre al presente le ricostru-zioni geografiche del passato.Più precisamente, sarà utile procedere all’analisi di questa raffigurazione, giacché essa,per i contenuti aggiornati e le modernissime tecniche di rappresentazione adottate, rap-presenta l’anello finale vuoi dei principali processi di trasformazione territoriale verifi-catisi in Abruzzo negli ultimi secoli, vuoi dell’evoluzione delle tecniche di rappresenta-zione cartografica.Già la legenda della carta (fig. 8 bis), naturalmente molto più ricca e articolata delleprecedenti, offre un primo indizio sulla molteplicità e complessità dei nuovi oggetti efenomeni territoriali dei tempi attuali. Basti pensare ai numerosi simboli denotanti in-frastrutture di comunicazione (autostrade, gallerie, ferrovie, aeroporti, ecc.), taglia de-mografica dei centri abitati (articolata in dodici classi), «emergenze isolate» (grotte,rifugi, fari, ecc.), elementi orografici, misure batimetriche, fenomeni idrografici (ca-nali, impianti portuali, ecc.): simboli che, anche per la loro diversificazione cromati-ca, sono più facilmente identificabili rispetto a quelli delle carte antiche.L’esattezza delle superfici è poi garantita dall’uso della proiezione conica di De L’Isle(cfr. l’introduzione dell’Atlante), mentre la scala 1:450.000 offre un “contenitore” ab-bastanza ampio per ospitare un bel numero di simboli ritraenti i dettagli del terreno.Inoltre, rispetto alle precedenti carte, il ricorso alle tinte ipsometriche per raffigurare ilrilievo rende qui molto più agevole intuire il rapporto percentuale tra le tre classiche fa-sce altimetriche della regione (montagna, collina, pianura), quasi con la stessa appros-simazione, ove si usasse un semplice planimetro, delle statistiche ufficiali (secondo cuiil territorio abruzzese è situato, per oltre il 65%, al di sopra dei 700 m).Per quanto riguarda la sagoma attuale dell’Abruzzo, i confini amministrativi (da meappositamente rimarcati in fig. 9), risultano modificati rispetto al passato, soprattuttolungo il limite nord-occidentale, attualmente decurtato nella superficie; lo rivela, “acolpo d’occhio”, lo ‘spostamento’dei centri di Civita Ducale e Petrella, corrispondentiall’alto bacino idrografico del fiume Velino e fisicamente appartenenti alla Sabina: in-clusi da sempre nell’Abruzzo Ulteriore (lo si vede meglio nella carta del Cassini, cheha una scala più grande delle precedenti) e assorbiti dalla provincia dell’Aquila finoalla riforma amministrativa del 1927 (T.C.I., p. 12), ricadono attualmente nel Lazio,con i nomi di Cittaducale e Petrella Salto (fig. 9).Il confine settentrionale, invece, appare sostanzialmente invariato: corrisponde per unaventina di km al solco del Tronto, quindi, allontanandosi da Ascoli Piceno, segue perun lungo tratto il corso del torrente Castellano, per poi risalire fino alle parti culmi-

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SCHEDA 5Titolo Abruzzo. Chieti, L’Aquila, Pescara, Teramo. Carta fisico-politica.Autore/i Touring Club ItalianoLuogo MilanoEditoreAnno 2002Tipologia StampaMisure Cm 38x 32Scala 1: 450.000Orientamento Nord in altoCollocazione Nuovissimo Atlante Geografico Mondiale

Fig. 8 - Abruzzo. Chieti, L’Aquila, Pescara, Teramo. Carta fisico-politica (2002).

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è dato dalla presenza nelle carte storiche dell’antico lago di Celano, a sud-est del pia-no di Tagliacozzo (sede della storica battaglia tra Corradino di Svevia e Carlo d’An-giò nel 1268), che, ancora alla fine del Settecento, il Cassini rappresentava con un sem-plice cerchietto e al posto del quale, dopo la nota bonifica, l’Atlante T.C.I. non può chemostrare la florida conca del Fucino e l’area urbanizzata di Avezzano. È interessante,infine, rimarcare la sostanziale continuità dei rapporti gerarchici tra i centri abruzzesidal punto di vista delle funzioni religiose: L’Aquila, Pescara, Teramo e Chieti, ad esem-pio, hanno conservato i propri rispettivi ruoli di arcidiocesi e diocesi, già ben rappre-sentati dalle carte dei secoli passati.La recente geografia dell’Abruzzo, peraltro oggetto di un convegno nazionale nel cui am-bito si colloca la presente mostra, è troppo nota per giustificare una trattazione analiticain una semplice scheda di commento cartografico qual è la presente. Si lascia pertanto allettore l’opportunità di confrontare autonomamente, sulla base penta-cartografica qui of-ferta, i mutamenti spaziali verificatisi nella regione tra il “prima” e il “dopo”…

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nanti dei Monti della Laga (Monte Gorzano), che costituiscono lo spartiacque secon-dario fra l’alto Tronto e il fiume Castellano e sui quali convergono tre confini regio-nali (Marche, Lazio e Abruzzo). Si tratta, infatti, di uno dei limiti amministrativi sto-ricamente persistenti, dove vennero a contatto, per secoli, i domini di Napoli con quel-li della Chiesa. Non a caso in questa zona, sia nell’Atlante attuale sia nella carta delCassini, si nota la presenza dell’antica fortezza di Civitella del Tronto, ultimo baluar-do di resistenza dell’esercito borbonico nel 1861. Abbastanza invariati appaiono an-che i confini amministrativi meridionali riportati dalla carta del T.C.I. rispetto a quel-li del passato (anche in questo caso ben rimarcati dal Cassini), fatta eccezione per lafoce del fiume Trigno (oggi ricadente nel Molise).La posizione assoluta dei centri, naturalmente, è perfetta e ci consente di riscontrare glierrori, talora madornali, delle carte precedenti, perfino di quella più accreditata del Cas-sini (come, per es., Campo di Giove, che l’autore posiziona a sud est di Rocca di Raso[Roccaraso] laddove nella carta del T.C.I. appare a nord-est, a meno che non si tratti diun altro centro omonimo). Grazie ai simboli diversificati su molte classi di grandezzademografica, è ovviamente ora possibile avere un’idea della loro importanza relativa. Sotto questo profilo emergono innanzitutto i centri costieri o prossimi al litorale adria-tico (tra cui Giulianova, Montesilvano, Francavilla al Mare, Ortona, Lanciano e Vasto),particolarmente nel tratto compreso tra il confine con le Marche (Martinsicuro) e la cit-tà di Pescara (capoluogo di provincia). Si tratta di centri in buona parte già presenti nel-la carta cassiniana di fine Settecento, dove però erano indicati con semplici cerchietti(fatta eccezione per Ortona e Lanciano), non avendo ancora assunto la recente impor-tanza economica e sociale. È noto, infatti, che lo sviluppo più accentuato dell’Abruzzoè iniziato solo negli anni Settanta del secolo scorso, portando la regione a differenziar-si dal Mezzogiorno, senza però riuscire a raggiungere i livelli del Nord Italia. Uno degli indici di tale progresso consiste nell’istituzione di numerose aree di rispet-to naturalistico, ben visibili sulla carta del T.C.I.: dal Parco Nazionale d’Abruzzo (inau-gurato nel 1922, primo del genere in Italia) a quelli del Gran Sasso e Monti della La-ga, della Maiella, al Parco Regionale del Sirente-Velino, oltre a diverse riserve natu-rali che testimoniano il tentativo di qualificazione ambientale e turistica di zone untempo selvagge. È emblematico, sia nei territori eretti a parco che in altri, valorizzatianche dalla presenza delle comunità montane, lo sviluppo di centri quali Campo diGiove, Pescocostanzo, Rivisondoli e Roccaraso, divenuti rinomate stazioni turistichee sciistiche, laddove erano assenti, o raffigurati come anonimi paesini di montagna,dediti all’agricoltura, alla pastorizia e all’artigianato, nelle precedenti carte. Tra le qua-li fa eccezione la rappresentazione del Cassini, i cui segni grafico-simbolici (illustra-ti nella scheda precedente) lasciano già intravedere i centri incamminati sulla via del-lo sviluppo. Ne sono un esempio Roccaraso, Sulmona, Lanciano, Ortona e Vasto, non-ché, ovviamente, il capoluogo di regione L’Aquila. Alla persistenza delle antiche gerarchie territoriali si oppone d’altra parte la visibiletrasformazione di alcune zone dell’Abruzzo: l’esempio più significativo, in tal senso,

La complessità di questa legenda lascia intuire l’articolata molteplicità degli attuali oggetti di ricer-ca geocartografica.

Fig. 8/bis - Legenda della carta fisico-politica dell’Abruzzo con scala 1:450. 000 (Nuovissimo At-lante Geografico Mondiale, T. C. I., 2002).

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L’accostamento tra la carta del Cassini e la carta dell’Abruzzo del T. C. I. evidenzia i principali muta-menti territoriali riguardanti la regione negli ultimi due secoli. A tale scopo, sulla carta del T. C. I. ho ri-marcato i confini amministrativi attuali (in nero); su entrambe le carte, inoltre, ho evidenziato il capo-luogo di regione e gli altri tre capoluoghi di provincia (in rosso), alcuni centri abitati (in verde) ed ele-menti idrografici (in azzurro) selezionati per il confronto.

Fig. 9 - L’Abruzzo Ulteriore Citeriore e la Contea di Molise del 1790 (Atlante Generale Geografi-co di Giovanni Maria Cassini) e la carta fisico-politica dell’Abruzzo con scala 1:450. 000 (Nuovis-simo Atlante Geografico Mondiale, T. C. I., 2002).

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1. desunti da C. Weigel, TypusRegni Neapolitani in suas pro-vincias diligenter divisi, No-rimberga, 1740.AfferigoAsinello fl.AielloAlbiAmatriceAmiternoAnatognaApressoAprutium Citerius Aprutium Ulterius AquilaAriettaAtriAuzzanoBellariteBorgnettoBrianoCastilientoCalascioCampoCasoliCelanoCeleroCellebagnoCequetoCittà DucaleCivita di PenaCivitas del CorteCivitellaCotte Duo

APPENDICE

Elenco dei Toponimi Abruzzesi(a cura di Ida Cutolo)

FarinosaFianoFuglienaGabianoGiulia nuovaGoriaGuasto di AmoneLa MoroneLa Piomba fluLa PostaLago di CelanoLatusciLeonessaLenciano LenzanoLenzanoLi CottiLo CasaleLucaM. BelloM. ItrinoMorreaNerciNuovaOrfognaOrtona a MarePaganicaPallanoPazoPescaraPescara fluPescoPesco CanalePetacci

PetraferoPorto di SalinoR. de BotteR. di CerroRegaRipalvaS. AngeloS. BuonoS. SalvoS. StefanoS.CelioS.ValentinSalinello fluSangro o Sanguino fl.ScazanoScontroneSeccoSilvaSilvano MSolmonaSparricciolaT. SicuroTardino fluTefeinoTengaTeramoTevaraTianoToficoTorreTorreTrendicolaTrigno fl. Tritafacco

AA.VV., La cartografia italiana… cit., 1993, pp. 149-201.VALERIO V., “Immagini del Principato dagli Aragonesi ai Borbone”, in AA.VV., Tra il castello e ilmare: l’immagine di Salerno, capoluogo del Principato [Soprintendenza ai beni ambientali, architet-tonici, artistici e storici delle province di Avellino e Salerno, Assessorato ai beni culturali], 1994, pp.27-31.VALERIO V., “Atlanti italiani dal XV al XVII secolo”, L’Universo, 1999, 1, pp. 103-132.VALERIO V., Costruttori di immagini. Disegnatori, incisori e litografi nell’Officio Topografico diNapoli (1781-1879), Napoli, Paparo Ed., 2002.Valerio V., Società Uomini e Istituzioni Cartografiche nel Mezzogiorno d’Italia, Firenze, Istituto Geo-grafico Militare, 1993.VALERIO V., CASTI MORESCHI E., ROMBAI L., La Cartografia italiana. Cicle de conferènciessobre Història de la Cartografia. Tercer curs, 1991, Barcelona, Institut Cartogràfic de Catalunya,1993, pp. 15-80.

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Colle LungoColle Truglio ColledonicoColli di LavareteColognaCorcumelloCrudoliCugnoloCusanoDogliolaF. CalimeraF. FeltrinoF. MerolaF. SaltoF. TrignoFalloFanoFano d’AdrianoFarinolaFarneroFettrino F.FontecchioForca BovalinaForca di CocciaForca di PalenaForca di PennaForca LeonardaForca PanaraForcellaForcellaFornarolo FossaFrainoFrancavillaFrattaraFrisaFrisa GrandinariaGalianoGamagnaGambaraleGammerolo F.GastignanoGenga F.GeßoGesso di PalenaGiulianovaGriggio

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TriventoValbaVecchiaVecchioVeletta

2. desunti da G. Maria Cassini,L’Abruzzo Ulteriore e Citerio-re e la contea di Molise, Roma,presso la Calcografia Camera-le, 1790.AccianoAielloAjelloAlbaAlbanellaAlbaretoAltinoAngeloAntroscianoAnversaAquilaArchiAriello ArpignanoAschiAsinella F.AtriAvezzanoBacuccio Sott.BacuccoBagnoBeffeBellanteBisegnaBombaBonagnieloBorbona BorghettoBorgo S. PietroBorgonovoBozzaBrisentoBucchianico

BugnaraC. d’Acqua bellaC. del FiumeC. delli GiudiciC. di MonteC. di SenataC. di VenereC. NuovoC. S. Ang.C. S. SovescoC. VecchioC. VecchioC. VecchioCagnanoCalascio CamardaCampanaCampo di GioveCampoliCanaleCanistroCantalupoCanzanoCanzanoCapadociaCapelleCapistranoCapistrelloCapitignanoCaporcianoCapradossoCaramanicoCarapelleCarbure del ConteCarpinetoCarpinetoCarsoliCasa CandidellaCasal BordinoCasalanguidaCasaleCasaleCasanovaCasentinoCasoliCastelnovoCastelvecchio

CastiglioneCastiglione CastiglioneCastiglioneCastiglioneCastrolentoCelanoCelenzaCeleràCellinoCerquetoCerquetoCervaraCeseCesura ChiarinoChietiChirazzo F.CicoliCivitaCivita AquaraCivita BorellaCivita d’AntinoCivita di PennaCivita DucaleCivita LuparellaCivita S. AngeloCivita TomassaCivitella CivitellaCivitella del Conte Civitella del TrontoCivitella dell’AbaziaCognoCollaltoColleColle AngeloColle ArmenoColle BrincioniColle CandidoColle CorvinoColle di CastiglioneColle di CornoColle di MacineColle di mezzoColle di PietragentileColle di Vigliano

GuardiaGuardiabrunaGuardiagrido In tempestaIntrodacquaIntroducoIntromesoleIsolaLa CastellaLa PalataLa Posta Lago di CelanoLancianoLavareteLe CopelleLe GrotteLegnanoLenta F.LentellaLeonessaLettoLetto di Palena li PizziLiofriniLioneLisciaLiscianoLorantoLoretoLucoLucoliM. AccerellaM. AgatoneM. BelloM. BelloM. CalvoM. CaraccioM. CarbonaroM. CornoM. di FerranteM. di SchienaforteM. Elvino M. Falco M. FioreM. FultoneM. GrottoloM. Gualtiero

M. GurguriM. la TegliaM. LampalloM. longoM. LucoM. MajelloM. MarsoM. MattellaM. MoroneM. NegroM. PaganoM. PallianaM. PolicornoM. PrataM. S. NicolaM. SeccoM. SilvanoM. SorboM. SorboM. TurchioM. Turchio ScannoM. VelinoMacchiatimoneMaglianoMaglianoMaone F.MaranoMareriMaripelleMassa inf.MassacoronaMassianoMazzagrugnanoMiglianicoModina VittoritoM-OdorisioMontecchioMontereale MontorioMoriconeMorraMorreaMortoneMoscianoMotta di RovetoMujano Navelli

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NeretoNoccianoOndaOpenaOrtonaOrtonaOrtucchioP. di AsinellaP. di AvignoneP. FilippoP. OmbrecchioP. PicenzaP. SanfeniscoPadernoPaganicaPagliaraPaglietaPalenaPaternoPaterno PedininoPenna d’AmmonePenna S. AndreaPentinaPeretoPescaraPescara F.PeschioPeschio AsieroloPescinaPesco CostanzoPetranicoPetranzieriPetrellaPetrellaPettoPettoranoPianellaPiano di 5 MigliaPianolaPietra AbbondantePietra CamelaPietra FioritaPietraseccaPietraSolidaPino F.Pizzo ferrato

TornareccioTornareccioTornimparteTorre di TagliaTorrebrunaTorrizetta TossicciaTra saccoTreglioTreviTrontinello F.Trontino F.Trontino F.TuffoTuranoTurriTuscioTutilloV. CoretaV. del Conte Mo ScutoV. di ForcaV. GiovanellaV. NovaV. RomanaV. S. SilvestroV. SimboliV. TorricellaValle d’UgnoValle RegiaValle SicilianaVallePutridaVasco CanaleVasteoVeneVicolliVilla AlfonsinaVilla CapraraVilla MainaVilla marinaVisoVocriVomano F.Zugnano

Poggio PomponeroPolicornoPollutroPopoloPopplicoPorto SalinoPratolaPreturoPreturoPrezzaQuainoQuindoleR. del RasoR. di 5 MigliaR. di CalascioR. di CeroR. di FondiR. di MezzoR. di ValleR. MoriceR. OdorisiR. PetruroR. VenutiRapino RendenaraRimognaRipaRipaRipa di FagnanoRipatoneRiscioloRocca di VivoRocchettaRoioRoscianoRosielloRovereRovetoRoveto MarinoS. AnatoliaS. Ang.di TerdoneS. ApollinaroS. BenedettoS. Benedetto in GorianoS. DonatoS. Giacomo S. Jona

S. LiberatoreS. LuciaS. M. a MareS. M. d’ArabonaS. MariaS. Maria del PonteS. MartinoS. MartinoS. OgnaS. PellinoS. PetitoS. Pietro S. PietroS. PioS. SebastianoS. SpiritoS. StefanoS. ValentinoSalino F.Sangro F.SantobuonoScaffoliScanzanoScierniScurcola SeccaSecena SenaricaSento F.Sette FruttiSoraSpoltoreStiffeStornazzaroSulmonaTagliacozzoTaglieraTarantaTaverna F.Tavo F.TeatinaTeramoTermoliTescinoToccoTondicodaTorino

3. desunti da T.C.I., NuovissimoAtlante Geografico Mondiale-Abruzzo. Chieti, L’Aquila, Pe-scara, Teramo. Carta fisico-po-litica, Milano, 2002.AbbateggioAccianoAcquaratolaAielliAielloAlannoAlba AdriaticaAlfedenaAltinoAncoranoAnversa degli AbruzziArchiAriArielliArischiaArsitaAteletaAtessaAtriAvezzanoBadia di S. BartolomeoBagno GrandeBalsoranoBareteBariscianoBarreaBascianoBazzanoBellanteBisegnaBisentiBocca di ValleBogaraBolognanoBombaBominacoBorrelloBrecciarolaBrittoliBucchianicoBugnaraBussi sul Tirino

Cagnano AmiternoCalascioCamardaCampliCampo di GioveCampo valanoCampotostoCanistroCanosa SannitaCansanoCanzanoCapestranoCapistrelloCapitignanoCaporcianCappadociaCappelle sul TavoCaramanico termeCarapelle CalvisioCarpineto della NoraCarpineto SinelloCarsoliCarunchioCasacanditellaCasalanguidaCasalbordinoCasalincontradaCasamainaCasentinoCasoliCastel CastagnaCastel del Monte Castel di IeriCastel di SangroCastel FraianoCastel FrentanoCastelferratoCastelguidoneCastellafiumeCastellaltoCastellaltoCastelliCastelnuovoCastelvecchio CalvisioCastelvecchio SubequoCastiglioneCastiglione a Casauria

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Castiglione Messer MarinoCastiglione Messer RaimondoCastilentiCatignanoCelanoCelenza sul TrignoCellino AttanasioCepagattiCerchio CermignanoCermoneCerquetoCerratinaCerretoCesanoChietiChieti ScaloCittà Sant’AngeloCivita d’AntinoCivitaluparellaCivitaquanaCivitatomassaCivitella AlfedenaCivitella CasanovaCivitella del TrontoCivitella Messer RaimondoCivitella RovetoCoculloCollarmeleColle SpaccatoCollebrincioniCollecorvinoColledaraColledimacineColledimezzoCollelongoColleminuccioCollepietroCollepietroColleranescoCollevecchioCollimentoColognaColonnellaControguerraCoppitoCorfinio

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M. TricellaM.CaracenoMacchia da soleMagliano de’ MarsiManoppelloMaraneMarina di S. VitoMartinsicuroMassa d’AlbeMiglianicoMolina AternoMontagne del MorroneMontazzoliMontebello di BertonaMontebello sul SangroMonteferranteMontefinoMontelapianoMontenerodomoMonteodorisioMontereale MontesilvanoMonticchioMontorio al VomanoMorinoMorriceMorro d’OroMosciano Sant’AngeloMoscufoMozzagrognaNavelliNerettoNeritoNoccianoNocellaNotarescoOcreOfenaOlmiOpi Oricola,OrsognaOrtona Ortona dei MarsiOrtucchioOvindoliPacentro

CorropoliCortinoCorvara CottiCrecchioCrognaletoCrognaletoCugnoliCupelloCuscianoDogliolaElice Eremo di S. AntonioFagnano AltoFaianoFallascosoFallo Fano a CornoFano AdrianoFara Filiorum PetriFara San MartinoFarindolaFilettoFontecchioForca di PenneFossa FossacesiaFossacesia MarinaFraineFrancavilla al MareFratturaFresagrandinariaFrisaFurci Gagliano AternoGamberaleGessopalenaGessopalenaGioia dei MarsiGissiGiuliano TeatinoGiulianovaGiuliopoliGoriano SicoliGuardia VomanoGuardiabrunaGuardiagrele

GuarennaGuastameroliGuilmiImposteIncoronataIntrodacquaIsola del Gran Sasso d’ItaliaLama dei PeligniLancianoL’AquilaLecce nei MarsiLegnanoLempaLentellaLettomanoppelloLettopalenaLido di CasalbordinoLido RiccioLisciaLoreto AprutinoLuco dei MarsiLucoliLucoli AltoM . RuzzaM. AmaroM. BilanciereM. CagnoM. CalvarioM. CalvoM. CappucciataM. CavaM. d. ScindarellaM. d’AragnoM. GenzanaM. la PennaM. LencaM. LungoM. morroneM. OcreM. OrselloM. PiziM. PizzaltoM. PorrarraM. PrenaM. PrezzaM. RotellaM. S. Domenico

PacentroPaganicaPaglietaPalenaPalmoliPalombaroParco Nazionale della MaiellaPenna Sant’AndreaPennadomoPennapiedimontePennePeranoPeretoPescaraPescasseroliPescinaPescocostanzoPescosansonescoPettorano sul GizioPianellaPiano d. FontiPiazzanoPiccianoPiè la CostaPietracamelaPietraferrazzanaPietraltaPietranicoPinetoPizzoferratoPizzoliPoggio di RoioPoggio LicenzePoggio MorelloPoggiofioritoPollutriPonzanoPopoliPrata d’AnsidoniaPratola PelignaPretaraPretoroPreturoPrezzaPunta CavalluccioPunta d. PennaPunta di Acquabella

Punta di FerruccioPutignanoQuadriRaianoRapinoRipa TeatinaRivisondoliRizzacornoRocca di BotteRocca di CambioRocca di MezzoRocca PiaRocca San GiovanniRocca Santa MariaRoccacaramanicoRoccacasaleRoccamontepianoRoccamoriceRoccarasoRoccascalegnaRoccaspinalvetiRoianoRoio del SangroRoscianoRoselloRoseto degli AbruzziS. Angelo del PescoS. Benedetto dei MarsiS. Eusanio del SangroS. GiorgioS. GregorioS. MarcoS. Maria ArabonaS. Maria d. PennaS. Maria dei CintorelliS. Nicola S. Panfilo d’OcreS. PaoloS. PietroS. Pietro ad OratoriumS. TommasoSalcitoSalleSan Benedetto dei MarsiSan Benedetto in PerillisSan BuonoSan Demetrio ne’Vestini

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Indice

Presentazione della Presidente AIIG Abruzzo pag. 5

Discorso di apertura del Presidente Nazionale ” 7

La Geografia in mostra, Mario Fondi ” 9

Tra bottega e piccola industria: prodromi per una geografia economica

della regione teramana tra XVIII e XIX sec., Vladimiro Furlani ” 11

Geografia, Franco Farinelli ” 25

Gli amboni in Abruzzo, Gabriella Albertini ” 27

Il Gran Sasso d’Italia, una montagna mediterranea, Gabriele Fraternali ” 49

Tra geografia e fotografia. Mario Fondi e l’Abruzzo, Marco Maggioli,Nadia Fusco ” 63

Il Gran Sasso d’Italia: dal caldo mare tropicale alla nascitadella catena montuosa, Leo Adamoli ” 71

Scienza, coscienza e conoscenza. Il rischio sismico si può prevenire?Si può e si deve fare, Enrico Miccadei ” 103

Un primo bilancio sul terremoto, Antonio Perrotti ” 107

Lo zafferano dell’Aquila, Fernando Tammaro ” 111

Diversità floristica e vegetazionale sul Gran Sassoe sui Monti della Laga, Fernando Tammaro ” 115

Geografia del gusto. La filiera del latte e dei formaggi ovini, Armando Montanari ” 121

Per una geografia del gioiello. Il caso “Presentosa”, Adriana Gandolfi ” 127

Pescocostanzo, Francesco Sabatini ” 133

Il Parco Nazionale della Maiella: aspetti della florae della vegetazione, Gianfranco Pirone e Giampiero Ciaschetti ” 137

Lineamenti vegetazionali del Parco Naturale Regionale

Sirente-Velino, Gianfranco Pirone e Anna Rita Frattaroli ” 155

L’Abruzzo “Alla Carta”. Saggi e assaggi cartografico-toponimicida cinque figurazioni territoriali (secoli XVII-XX), mini-Catalogo a curadi Vincenzo Aversano con interventi di Silvia Siniscalchi e Ida Cutolo ” 171

San Giovanni in VenereSan Giovanni LipioniSan Giovanni TeatinoSan Martino s. MarrucinaSan Pio delle CamereSan SalvoSan Valentino in Abruzzo Citerio-reSan Vincenzo Valle RovetoSan Vito ChetinoSant. d. Madonna d. MiracoliSanta Maria ImbaroSante MarieSant’Egidio alla VibrataSant’Eufemia a MaiellaSant’Eusanio del SangroSant’Eusanio ForconeseSanto Stefano di SessanioSant’OmeroSassaScafaScannoScerniSchiavi di AbruzzoScontroneScoppitoScurcola MarsicanaSecinaroSerramonacescaSilviSpoltoreSt. di Tollo-CanosaSannitaSulmonaTagliacozzoTaranta PelignaTavernaTeoraTeramoTerraneraTione degli AbruzziTocco da CasauriaTolloTorano NuovoTordinaTorino di SangroTorino di Sangro MarinaTornareccio

TornimparteTorre de’ PasseriTorrebrunaTorremontanaraTorrevecchia TeatinaTorricella PelignaTorricella SicuraTortoretoTossicia,Tra saccoTreglioTufilloTurrivalignaniTussioVacriValle CanzanoValle CastellanaValle S. GiovanniVallecupaVaranoVastoVesteaVicoliVilla BadessaVilla CanaleVilla CelieraVilla GrandeVilla PassoVilla PassoVilla RomagnoliVilla S. TommasoVilla Santa Lucia degli AbruzziVilla Santa MariaVilla Sant’AngeloVilla VallucciVillalagoVillalfonsinaVillamagnaVillanovaVillareiaVillavallelongaVilletta BarreaVittorito

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Stampato nel mese di ottobre 2010 presso Editpress, Castellalto, Te,

per conto di Verdone Editore, Castelli, Te.