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VENEZIA E PIETRO EDWARDS. LA DIREZIONE DI PIETRO EDWARDS. Pietro Edwards era nato a Loreto nel 1744 da una famiglia di cattolici che avevano lasciato l’Inghilterra dopo il 1688; il figlio Giovanni ricordava spesso come il padre fosse considerato un uomo di indiscussa serietà e competenza professionale da mettere a disposizione delle politiche artistiche dei vari governi della Repubblica. Edwards, tra le altre mille attività, nel 1779 fu consultato per il progetto di una galleria pubblica che raccogliesse le principali pitture di Venezia: gli Inquisitori di Stato lo incaricarono di esaminare le pitture presenti in diverse chiese, nonostante lo stesso incarico fosse già stato affidato al Mengardi. Nel 1778, dunque, il Senato con un decreto, proprio per il suo successo, decise di nominarlo organizzatore del restauro di tutte le pubbliche pitture di Palazzo Ducale e degli uffici pubblici di Rialto; Edwards diede inizio alla sua attività fissando in due documenti i doveri degli esperti che avrebbero eseguito i lavori, e quelli dell’ispettore che li avrebbe controllati. Innanzitutto, ammise al restauro solo Bertani, Diziani e Baldassini, a cui erano permessi fino a 4 assistenti; ogni loro sostituzione doveva avvenire su consenso di Edwards, che poteva allontanare anche eventuali assistenti che si fossero dimostrati incapaci. Elencò, inoltre, gli impegni dei professori: restaurare i quadri senza pregiudicarne la “verginità” e nei limiti del fattibile; fermare il colore smosso e raddrizzare o connettere quando necessario le tavole dipinte; riparare i danni indotti dai tarli e preservare l’opera da attacchi futuri; trasportare la pellicola pittorica su altro supporto solo in casi del tutto eccezionali; foderare i quadri che ne avevano bisogno e sfoderare quelli che dalle fodere antiche erano pregiudicati; levare fumo e sporco, vernici crepate, macchie, tracce di insetti; eliminare i ritocchi non originali sovra dipinti; riportare l’originale tono dei colori quando non fossero stati irrimediabilmente modificati; ripristinare il colore caduto senza toccare il colore vecchio imitando lo stile; utilizzare solo ed esclusivamente prodotti reversibili. Edwards prevedeva che il lavoro da effettuare fosse valutato sulla base di tre classi di quadri; i restauratori avevano a loro carico le spese di collaborazione, trasporto, materiali, e in caso di cattivo restauro erano loro a rimettere le spese e a subire eventuali castighi personali se si fosse scoperta la malizia della cattiva riuscita del restauro. Infine, i restauratori, essendo dipendenti pubblici, rinunciavano ad ogni attività privata. Le classi dei quadri suddette prevedevano quadri di prima classe, o estremamente bisognosi (colore cauto e mancante in luoghi

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VENEZIA E PIETRO EDWARDS.

LA DIREZIONE DI PIETRO EDWARDS.Pietro Edwards era nato a Loreto nel 1744 da una famiglia di cattolici che avevano lasciato l’Inghilterra dopo il 1688; il figlio Giovanni ricordava spesso come il padre fosse considerato un uomo di indiscussa serietà e competenza professionale da mettere a disposizione delle politiche artistiche dei vari governi della Repubblica. Edwards, tra le altre mille attività, nel 1779 fu consultato per il progetto di una galleria pubblica che raccogliesse le principali pitture di Venezia: gli Inquisitori di Stato lo incaricarono di esaminare le pitture presenti in diverse chiese, nonostante lo stesso incarico fosse già stato affidato al Mengardi. Nel 1778, dunque, il Senato con un decreto, proprio per il suo successo, decise di nominarlo organizzatore del restauro di tutte le pubbliche pitture di Palazzo Ducale e degli uffici pubblici di Rialto; Edwards diede inizio alla sua attività fissando in due documenti i doveri degli esperti che avrebbero eseguito i lavori, e quelli dell’ispettore che li avrebbe controllati. Innanzitutto, ammise al restauro solo Bertani, Diziani e Baldassini, a cui erano permessi fino a 4 assistenti; ogni loro sostituzione doveva avvenire su consenso di Edwards, che poteva allontanare anche eventuali assistenti che si fossero dimostrati incapaci. Elencò, inoltre, gli impegni dei professori: restaurare i quadri senza pregiudicarne la “verginità” e nei limiti del fattibile; fermare il colore smosso e raddrizzare o connettere quando necessario le tavole dipinte; riparare i danni indotti dai tarli e preservare l’opera da attacchi futuri; trasportare la pellicola pittorica su altro supporto solo in casi del tutto eccezionali; foderare i quadri che ne avevano bisogno e sfoderare quelli che dalle fodere antiche erano pregiudicati; levare fumo e sporco, vernici crepate, macchie, tracce di insetti; eliminare i ritocchi non originali sovra dipinti; riportare l’originale tono dei colori quando non fossero stati irrimediabilmente modificati; ripristinare il colore caduto senza toccare il colore vecchio imitando lo stile; utilizzare solo ed esclusivamente prodotti reversibili. Edwards prevedeva che il lavoro da effettuare fosse valutato sulla base di tre classi di quadri; i restauratori avevano a loro carico le spese di collaborazione, trasporto, materiali, e in caso di cattivo restauro erano loro a rimettere le spese e a subire eventuali castighi personali se si fosse scoperta la malizia della cattiva riuscita del restauro. Infine, i restauratori, essendo dipendenti pubblici, rinunciavano ad ogni attività privata. Le classi dei quadri suddette prevedevano quadri di prima classe, o estremamente bisognosi (colore cauto e mancante in luoghi principali dell’opera, ridipinture eccessive, colore polveroso e cadente in quasi tutto il dipinto; trasporto su nuovo supporto); quadri di seconda classe o gravi (messi un po’ meglio dei primi); quadri di terza classe o poco bisognosi (quadri semplicemente sporchi il cui colore facilmente poteva essere fissato). Edwards doveva garantire sul restauro vari punti: che non venissero usate sostanze corrosive capaci di danneggiare il dipinto; che prima di tutto era necessario fissare il colore prima di proseguire con le operazioni; che non si omettesse la rifoderatura solo a causa delle ingenti spese delle tele; che se facente parte della prima classe il dipinto venisse a prescindere trasportato; che non venissero mantenuti i dipinti in luoghi malsani per la loro conservazione; che non venisse assolutamente tolto qualcosa dall’originale o aggiunto; che le operazioni meccaniche fossero eseguite con grande accuratezza; che venisse previsto il sito idoneo per l’esposizione del quadro; che i restauratori non portassero a casa il lavoro; che al buio si lavorasse solo ad operazioni meccaniche; che nessuno copiasse i dipinti; che nessuno oltre il professori avessero copie delle chiavi del laboratorio; che gli assistenti fossero adoperati solo nelle attività più banali. Il direttore, ossia Edwards, percepiva uno stipendio fisso e non partecipava agli utili dei restauratori; aveva, infine, il compito di redigere le relazioni dei lavori e di organizzare la divisione delle attività.La prima referta redatta da Edwards riguardò i danni riscontrati nel soffitto di Paolo Veronese nella sala della bussola: in essa, dopo una descrizione sommaria del soggetto rappresentato, elencava la ridipintura effettuata da mano inesperta, indicava le scabrosità della superficie del quadro, affermava con indignazione di essersi accorto dell’errore di disegno di un angelo che era stato ridisegnato arbitrariamente, osservava come il colore originario fosse quasi tutto staccato e come il dipinto fosse stato sottoposto a lavaggi corrosivi. Edwards si occupò anche delle tele decorative di contorno: i due pezzi più grandi rappresentanti due Vittorie (nel medesimo stato di conservazione del dipinto centrale), e due chiari scuri rettangolari rappresentanti

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l’ingresso trionfale di un imperatore (su imitazione dei bassorilievi romani), non dipinti, secondo Edwards, dal Veronese, dai quali erano cadute alcune figure. Nello stesso stato versava un terzo chiaroscuro rappresentante un imperatore in trono e guerrieri, mentre altri tre chiaroscuri mostravano solo annerimenti e patina artificiale, forse per nascondere i danni delle lavature. Ancora quattro quadretti più piccoli erano dilavati e biancastri, imbrattati di mosche probabilmente a causa delle vernici, e corrosi dalla presenza degli insetti; infine, sei quadretti raffiguranti teste di leone si erano conservati perfettamente. Descritto lo stato delle tele, Edwards procedette con il preventivo dei lavori da compiere: il colore doveva essere fissato, i quadri rifoderati per intero e le ridipinture eliminate; le figure eventualmente danneggiate dovevano essere restituite allo stile del pittore, patine, affumicature e macchie dovevano essere eliminate (soltanto nella parte esterna, per evitare di danneggiare il colore originario), la superficie doveva essere uniformata. Tutte le indicazioni erano valide per tutti i dipinti annoverati prima, soprattutto per il soffitto, nel quale le ridipinture e i rimaneggiamenti rimanevano più evidenti che altrove.

IL LABORATORIO AI SANTI GIOVANNI E PAOLO. I restauri di Edwards non furono i primi, e neanche gli ultimi: al Palazzo Ducale si continuò a lavorare fino al 1793, e molti degli interventi del direttore furono rivisti a Parigi dopo le requisizioni napoleoniche; anche dopo, la scelta di adattare molti quadri a cornici nuove per le pinacoteche, ne avrebbe modificato l’aspetto. Alcune di quelle opere, ad oggi, sono ancora in quello stato deplorevole evidenziato dal restauro settecentesco. Caso emblematico che ci consenta di seguire meglio i criteri usati dall’Edwards, si tenga presente una tela di Andrea Busati, restaurata come si legge dalla referta, da Diziani (e si vedeva nella vanità delle operazioni!), il quale, oltre alla pulitura e alla coesione del colore sgretolato, era riuscito a rinnovare le parti antiche senza che si vedessero differenze tre le due parti (almeno secondo Edwards). Delle opere restaurate nel ‘700 di cui restano solo documenti fotografici, si ricordi la Deposizione di Bellini, sempre a palazzo ducale, della quale Edwards voleva evitare il restauro in quanto bisognava operare necessariamente sopra l’aggiunta e l’originale, ed era convinto che non sarebbe mai potuto riuscire a pulire quell’opera. Del resto, aggiungeva Edwards, fintanto che v’erano state macchie e fumo, allora il pubblico guardava a questo quadro con ammirazione, mentre una volta pulito il tutto, chiunque avrebbe potuto accorgersi delle “sgaiataggini” del dipinto.I documenti in cui Edwards affrontò gli obblighi di restauratori e direttore, non nominano mai i materiali e i criteri con cui essi erano eseguiti, ma da qualche indicazione si può anche trarre un quadro bene o male esauriente. La Merrifield ricorda che per la rintelaiatura il colore veniva protetto con carta e colla di farina, e la tela distesa, in modo da ricevere l’applicazione della fodera con un impasto di colle e fiele di bue, fissata con sabbia calda versata dietro la tela, in modo da eliminare le bolle d’aria. Sulla pulitura dei quadri a olio, la risposta data da Edwards all’architetto Selva fu la seguente: se lo stato dei quadri è buono, inutile procedere ai lavaggi; se lo stato di conservazione richiede l’intervento, allora sarà necessario applicare lavaggi di acqua fredda, che comunque danneggeranno il dipinto a meno che esso non sia ricoperto da vernice molto grassa. Come tuttora si afferma, anche Edwards diceva che tutto dipendeva dalla situazione e dalla coscienza del restauratore. Edwards fa riferimento diretto ai metodi di pulitura: stendere la chiara d’uovo sulla superficie pulita con acqua, lasciarla riposare per 3, 4 giorni, rimuoverla con acqua tiepida, vino bianco, latte; ricorrere ad acquavite e sapone non era indicato. Infine, Edwards sottolinea come la pulitura dell’opera a partire dalle parti luminose e finendo a quelle a mezza tinta, riportasse il quadro allo stato di quadro “nuovo”, con un consequenziale sconcerto fra luci senza intermedia gradazione di toni; ciò avrebbe portato la necessità di applicare patine artificiali.Dopo i ritocchi con colori a vernice, il dipinto veniva verniciato a scopo di protezione, trattandolo anche con una sostanza che ingiallendo con il tempo, avrebbe facilmente accompagnato i caratteri originali dell’olio senza annerimenti.

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CONSIDERAZIONI SUL RESTAURO DELLE PITTURE. Al resoconto generale dell’attività svolta fino al 1785 fu unita una Dissertazione sul comportamento delle pitture a olio e su come arrestarne il decadimento, e una trattazione sulle precauzioni necessarie alla buona custodia dei dipinti e del loro ambiente. La Dissertazione esaminava anche le cause del deperimento dei dipinti che a Venezia era dovuta al clima e alla presenza di grandi quantità di sali disciolti come aerosol nel vapore acqueo, oltre al fatto che nello stesso legante delle pitture ad olio si trovava la causa dell’eccessiva essiccazione, della rigidità, del rapprendimento di alcuni colori. L’analisi diventa più “scientifica” quando Edwards descrive che nelle pitture ad olio dopo l’evaporazione dello stesso rimaneva sulla tela un composto che i chimici chiamavano terra infiammabile, perché analizzandolo vi si trovavano elementi, come lo zolfo, che precedentemente non erano stati implicati. Edwards continua affermando che alcuni di questi danni “interni” vengono eliminati da ritrovati “industriosissimi” che agiscono sulla materia-struttura e non sulla materia-aspetto. Grande modernità di pensiero egli la mostra quando afferma che non si può, se non incorrendo in imperizia o in ignoranza, portare a termine su un dipinto qualsiasi operazione si voglia (p.e. separare gli strati di colore come se fossero lamine sottilissime), perché l’arte stessa, afferma, possiede dei difetti “naturali”: la pittura ad olio rimane pittura ad olio, e non è pensabile estrarne la parte fissa e annerita da quella che non si è esaltata. Però, uno spiraglio resta aperto: si può certo diminuire la forza di questi agenti interni, ma non cambiare la natura del tutto che possiede questi “difetti” interni. Per assurdo, ciò si potrebbe fare solo evitando il contatto della pittura con l’aria, e poiché si pensava che con la vernice fosse possibile, Edwards ammonisce: non ci si può aspettare dall’uso della vernice buoni risultati. Del resto, se la vernice più incorruttibile è una vernice che indurisca quanto il vetro, essa non potrà essere applicata a delle tele che, a causa degli allentamenti di tensione, delle distensioni e degli ondeggiamenti, porterebbero alla frantumazione dello strato di vernice e con esso anche i colori. Inoltre, se una vernice fosse troppo dura, renderebbe il dipinto diafano e specchiante, mentre se fosse leggera non basterebbe alla protezione della pittura; se fosse infine tenera e porosa, offuscherebbe i colori. Va da sé che tutti i tipi di vernice, poi, ingialliscono al passare del tempo. Edwards dà ancora più forza al proprio discorso sulle vernici affermando che coloro che portano l’esempio dei quadri fiamminghi, non sanno che quella sostanza che i pittori stendevano sulla superficie si chiamava vernice perché non esisteva un termine tecnico che riconoscesse quella sorta di liquore simile a quella usata all’interno della sua “scuola”, costituita da essenza di spico. Pertanto, la convinzione che il restauro possa dare al dipinto incorruttibilità e resistenza che non ebbe neppure al momento della nascita viene fugata, eppure, Edwards continua, comunque dopo un restauro l’aspetto generale di un quadro almeno i colori riemergono meno offuscati e sicuramente più solidi e stabili sulla tela. In queste operazioni si condensa ciò che più brama il restauratore: la conservazione dell’aspetto e della struttura (o sussistenza). Carattere proprio del restauro è quindi rimediare agli effetti, e non alle cause: i restauri dovranno essere molteplici, non esiste un restauro definitivo.Da queste premesse si capisce che Edwards escludesse determinate pitture, come affermerà anche nel 1786 nel resoconto generale: egli ripropone il discorso delle classi di dipinti già analizzato precedentemente, elencando i casi in cui egli rifiutava l’incarico: dipinti in buono stato, dipinti in pessimo stato (per i quali non c’era più niente da fare), pitture necessitanti di un restauro ma prive di merito artistico intrinseco. Queste esclusioni spesso fecero adirare i Magistrati, e alcuni quadri gli furono addirittura imposti, come un quadro di S. Antonio Abate che, perduto per metà, Edwards pensava di poter recuperare quanto rimasto, e non riuscendovi, egli non volle neppure percepire un pagamento. Alcuni quadri di Bonifacio lo condussero ad indicare le operazioni realizzate, valide per generali considerazioni sul restauro: sodezza del colore, tensionamento della tela, appianamento della superficie, l’eliminazione parziale almeno dei danni provocati dalle lavature precedenti; prendendo poi in consegna altri quadri del pittore in seguito, egli avrebbe anche affermato che se gli errori di disegno e prospettiva erano dovuti all’autore, allora non ci si poteva permettere di agire in quel senso, nonostante il dipinto potesse acquisire maggiore armoniosità. Per quanto riguarda le buone puliture, Edwards pone due paletti: rispetto delle intenzioni dell’autore e rispetto della patina naturale, essendo assolutamente contrario alle patine artificiali, nonostante, per integrare correttamente le integrazioni del restauro, egli ricorreva alla simulazione “delle affumature”.

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RESTAURI DOPO IL 1786. Dopo il resoconto generale, le referte di Edwards furono meno numerose. Con l’occupazione francese i lavori vennero interrotti nel 1797, e il laboratorio dovette essere sgomberato in tutta fretta, con conseguenti danni anche per le tele ivi in lavorazione; l’anno successivo, dopo la cessione di Venezia all’impero austriaco, Edwards compilò un elenco di tutti i dipinti che erano stati tolti da chiese soppresse o uffici, una cinquantina in tutto. Sotto il dominio austriaco i restauri delle pitture da ricollocare nei luoghi di origine furono ultimati, e ne furono presi in consegna altri dal Palazzo Ducale; purtroppo, la morte di Baldassini e del Bertani (che per volere di Edwards non fu sostituito), escluse dal restauro opere che erano state a loro affidate. Infine, la morte di Diziani e il trasferimento a Roma di un altro restauratore portarono allo scioglimento del laboratorio, contemporaneamente alla dispersione delle pitture pubbliche dopo il passaggio di Venezia al Regno Italico, destinate in parte a dimore e gallerie, in parte chiuse nei depositi. Esemplare è il caso del Trasporto del corpo di S. Marco del Tintoretto, ritagliato per adattarlo alla parete scelta per la sua esposizione; tali adattamenti, che Edwards aveva assolutamente bandito, non dovettero comunque essere estranei alle attività del laboratorio. D’altronde, qualche riduzione poteva anche salvare determinate tele dal disordine dei magazzini o dal rischio di una destinazione lontana; l’episodio dell’opera suddetta, però, trovò la sua spiegazione anche nel fatto che Edwards non ne ebbe mai una grande considerazione.Gli ultimi anni dell’Edwards, divenuto custode della galleria dell’accademia, furono condotti all’insegna delle polemiche con il presidente per i restauri che egli aveva fatto condurre da Florian, di formazione del tutto diversa rispetto ai restauratori del laboratorio. Uno degli ultimi scritti di Edwards riguardò la necessità di preparare i restauratori allo stile degli antichi maestri (pose grande attenzione su mani e piedi, panneggi, capelli, ali), all’uso dei colori a vernice, ai giusti criteri di pulitura. Ben poco Edwards ci fu nei restauratori veneziani dell’800: nel 1849 la Merrifield lamentava di pratiche scellerate di alcuni di loro, e neppure Giovanni Edwards potè pubblicare uno scritto critico tratto dai manoscritti del padre.Pietro Edwards morì nel 1821.