Variazioni di un concerto andante di Sabrina Grappeggia Bernard

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I PARTE Briciole di passato

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Sara è una ragazza di origine straniera che vive nel nord Italia. La sua storia si affianca a quella di altre donne venute da lontano: Bintu la bella somala, Ginni la bimba dalla pelle color cioccolato, Dani la signora armena perseguitata dal passato, Naima la mussulmana velata, Gisella l’indiana tormentata dai sensi di colpa e Ghaada la pakistana sfigurata dal marito. Sette personaggi che si incrociano e si sfiorano, sette spaccati di vita che offrono con il loro delicato esotismo, un quadro realistico visto “dal di dentro” sull’integrazione sociale al femminile.

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I PARTE

Briciole di passato

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Variazione numero unoConcerto di un ricordo erranteSeregno, agosto 1975

Mia madre apriva il cancello. Il suo corpo si muoveva flessuoso cercando di controllare le impercettibili convulsioni compresse nella sua anima. Sul suo bel viso si disegnava una smorfia. Con le labbra contratte, cercava di trattenere, nei bordi dei suoi oc-chi color bottiglia, quelle lacrime che inevitabilmente sarebbero uscite. Quando il momento della partenza arrivava, si squagliava in lei quel ripetuto dolore che la faceva piangere. Ma non voleva piangere. Non voleva.

La macchina di mio nonno usciva dal garage rombando im-pavida su per lo scivolo di cemento, oltrepassando con il suo sfacciato color arancio acceso, l’inferriata grigia che portava sul portico e poi sulla strada. Allora lui spegneva il motore e scen-deva seguito da sua moglie che trotterellava verso di noi per un ultimo rapido saluto. Ancora un bacio. Ancora un abbraccio.

Mia nonna mi stringeva forte con le sue esili braccia e mi dice-va di fare la brava. Poi si dirigeva verso mia madre e l’abbracciava tremando. Fronte contro fronte. Frangia contro frangia. Naso contro naso.

Il caschetto nero di mia nonna si fondeva con la lunga chioma platinata di mia madre. Le osservavo ed ogni volta era lo stesso rituale.

Con le pupille vibranti, gonfie di lacrime l’una diceva sempre all’altra:

«Non piangere! Non piangere!»In risposta a quel docile ordine, le vedevo scuotere la testa con

le corde vocali ghiacciate da un profondo dolore sordo.Allora mio nonno tirava la sua consorte per un braccio e le

diceva che dovevano andare.

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Era ora. Dopo ci sarebbe stato troppo traffico e alla frontiera avrebbero fatto la coda.

Controvoglia mia nonna si sistemava sul sedile, si allacciava la cintura, chiudeva la portiera e continuava a mandarci baci at-traverso il finestrino chiuso. Mio nonno accendeva il motore e lentamente il veicolo cominciava a muoversi mentre per qualche metro, io e mia madre correvamo dietro a quella carrozzeria fo-sforescente che nessun italiano avrebbe osato sfoggiare.

L’automobile si allontanava e noi li salutavamo ondulando le mani verso il cielo, come due pendoli capovolti, finché i nostri occhi offuscati scorgevano all’orizzonte solo una piccola chiazza arancione con una targa gialla.

Rientravamo in casa in silenzio.La tristezza si stendeva nell’aria come una coperta di lana. Pe-

sante, rigida, ruvida, impregnata di quell’odore grigio che solo la malinconia sa tessere con i suoi fili grezzi d’infelicità.

Vedevo mia madre sprofondare nella voragine dei suoi pensie-ri. L’osservavo vagare come una cieca in quella nuvola di scon-forto senza nemmeno cercare uno spiraglio di luce.

Poi si avvicinava alla finestra.Con le mani appoggiate al vetro, come una bambina davanti ad

un negozio di giocattoli, lasciava vagare il suo sguardo verso un punto immaginario. Quel punto aveva la forma e il colore del suo paese, con le sue alte montagne incappucciate di neve così simili alle nostre, ma allo stesso tempo così diverse. Quel punto stava lì sospeso nel vuoto e il suo sguardo si aggrappava impotente al ritratto ambulante dei suoi genitori e alla visione di quell’affetto squarciato che la dilaniava.

I singhiozzi le si spezzavano in gola e le lacrime le uscivano a fiotti mentre io la guardavo inerte.

Era fragile, giovane e bella come una principessa di una favola incantata. Avrei voluto trovare una formula magica per renderla felice, ma purtroppo non la conoscevo.

La sola cosa che mi restava in bocca era la muta voglia di chie-derle scusa di appartenere al mondo sbagliato.

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All’inizio nessuno sapeva che nelle mie vene scorreva un san-gue straniero. Niente poteva farlo supporre. Né il colore della mia pelle, pallido e chiaro, né i miei lineamenti forse un po’ spi-golosi, ma assolutamente conformi a quelli degli altri bambini dell’epoca. Solo quando le mie piccole amiche incontravano mia madre, sembravano sorprese dal suo stravagante accento e realiz-zavano che le mie origini erano diverse dalle loro:

«Sara, ma… tua mamma è straniera?»«Beh, sì…»«Cos’è Polacca? Tedesca? Rumena? Ungherese? Olandese? In-

glese?»Allora io rispondevo.«Francese.»«Che fortuna! Che bel paese! Che bell’accento, è davvero bel-

lissimo. E come si chiama tua mamma?»«Christiane con l’acca dopo la C, e la e finale che però non si

pronuncia. Ma tutti in Italia la chiamano Cristina…»Restavano sempre qualche minuto imbambolate a guardare i

suoi lunghi capelli biondi che le cadevano dritti sulle spalle, poi distoglievano lo sguardo, si dirigevano verso di me e andavamo a giocare.

A casa non mangiavamo pastasciutta tutti i giorni, non parla-vamo in milanese, non andavamo a messa tutte le domeniche e non era Gesù bambino che mi portava i regali a Natale. Per anni ho aggiunto una erre o una t a dei nomi comuni che storpiavo, imitando inconsapevolmente il canto zoppo di mia madre.

Ma non mi sentivo diversa perché non lo ero.Mi sembrava normale saper parlare due lingue sin dalla più

tenera età e faticavo a capire l’ammirazione di coloro che scopri-vano il mio precoce bilinguismo. Lo sguardo degli altri sulla mia “stranierità” aveva il sapore della meraviglia.

Molti anni sono trascorsi da allora.L’andamento lento e andante del concerto migratorio che ha

investito l’Europa negli ultimi anni ha cambiato le attitudini e lo sguardo di molti di noi.

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Solo oggi mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se le mie origini fossero state quelle di un altro paese. Ed è facile imma-ginarne le ambiguità, la sofferenza e le ingiustizie che sarebbero potute sorgere da tale differenza.

Come avrei avanzato nei primi passi sociali?Quali ferite supplementari si sarebbero aggiunte a quelle che la

vita s’incarica d’infliggere a tutti noi senza distinzione?Queste domande restano per me senza risposta.Come un dubbio.Un dubbio che aleggia nei miei pensieri, come una croce o

una medaglia capace di far nascere in me ipotesi svariate e poco piacevoli.

Poche erano le differenze che percepivo nei solchi dorati della mia infanzia. Eppure le differenze c’erano.

Il cibo, le usanze, le tradizioni sembravano amalgamarsi con naturalezza nella mia vita di tutti i giorni. Queste due culture apparentemente così simili avanzavano in una docile sincronia senza scosse.

Una sola cosa mi straziava d’incomprensione: la religione.I miei nonni materni erano atei. Atei e comunisti. Nei loro

sguardi leggevo di continuo un chiaro stupore: perché la loro adorata bambina, mia madre, si era convertita?

Perché nonostante la scarsa assiduità agli appuntamenti liturgi-ci domenicali io e mio fratello continuavamo a definirci cattolici?

I loro discorsi sulla religione erano semplici e dissacranti: la chiesa era un’istituzione bugiarda nata per gestire il popolo attra-verso una tirannia di credenze, Gesù Cristo un simpatico propul-sore dei primi orientamenti di sinistra, la Madonna una sfortu-nata adolescente alle prese con le sue prime esperienze sessuali e l’angelo Gabriele una visione allucinogena o fantasiosa creata per giustificare una maternità non programmata.

Ridevano. Ridevano ironici delle sacre scritture appoggiando-si, con esperta agilità intellettuale a fatti storici che conoscevano meglio di qualsiasi teologo affermato. Mi sentivo spiazzata.

Da un lato c’era l’educazione scolastica e sociale italiana che prendeva radici nei dogmi inappellabili della fede cristiana, dall’al-

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tra c’erano i miei nonni, Mum e Pop, come li chiamavamo affet-tuosamente in famiglia, che contraddicevano questa intoccabile sacralità con sarcasmo. L’immagine ridicola delle mie credenze si scontrava con il timore che fossero loro, i miei nonni che adora-vo e stimavo, ad essere in torto.

Mi sentivo combattuta tra queste due parti. Dovevo convin-cerli o lasciarmi convincere?

Salvarli dall’imprudente cammino che avevano intrapreso ver-so il sentiero degli inferi, o avere come loro, il coraggio di accet-tare una visione scientifica e razionale, lontana da qualsiasi mani-polazione ecclesiastica?

Difficile per me trovare la giusta posizione in questo dibattito che mi torturava.

Difficile per una bambina di dieci anni saper far fronte a questi dubbi.

Mia madre, quando si parlava di Chiesa, taceva.Non capivo ciò che pensava.Raccontava però, in assenza dei suoi genitori, che si era con-

vertita donando una gran gioia al vescovo che l’aveva seguita nel-la sua formazione tardiva.

Ma davanti a Mum e Pop non si esprimeva.L’amore senza limiti che provava per loro le impediva di for-

mulare un suo proprio giudizio sulla questione.

Per la politica invece era diverso. Mia madre aveva l’audacia di affermare la sua posizione con chiunque e ovunque.

L’educazione comunista che i miei nonni le avevano inculcato sin da piccola avevano edificato in lei solide certezze.

Mio padre spesso la chiamava scherzosamente la “Rossa” e lei ogni volta si offendeva imbronciando il suo bel viso in un buffo grugno. Non ammetteva derisioni relative a quello che lei considerava un argomento serio. Amavo ascoltarla quando evo-cava certi episodi della sua vita. Ce ne era uno che mi piaceva particolarmente.

Mia madre all’età di quattro anni aveva dovuto subire un inter-vento chirurgico e doveva essere sottoposta a un’anestesia totale. Stesa sul lettino, mentre stava per essere trasportata verso la sala

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operatoria l’apprensione e la paura l’avevano colta all’improvviso.Le pareti bianche dell’ospedale si erano fatte opprimenti. Pur-

troppo essendo stata educata lontana dalla fede cristiana non co-nosceva le preghiere e le suppliche divine in cui trovare rifugio. Allora aveva escogitato un altro semplice stratagemma. Gli ideali politici seminati nella fertile terra della sua infanzia cominciavano già a dare i loro frutti.

Fu così che una frase fiorì nella sua mente come un grande girasole capace di calmare le sue angosce.

«Non devo avere paura» aveva pensato «Non devo. Io sono forte come i bambini russi. I piccoli russi non hanno mai paura ed io sono un piccolo russo! Sono un piccolo soldato russo…»

L’anestesia si era dileguata nel suo sangue e lei si era addor-mentata come un piccolo eroe. Un piccolo guerriero di sinistra pronto a combattere le sue prime battaglie, senza timore.

Oggi, mia madre sorride molto più di allora. Tante cose sono cambiate. I suoi ideali politici si sono incrinati nel dubbio. I suoi lunghi capelli biondi si sono accorciati e sono ora cosparsi di fili grigi. I suoi genitori si sono incamminati verso la strada dell’eter-nità o del nulla lasciando una profonda voragine nella sua anima.

Mia madre ha lasciato mio padre e con lui questo paese a for-ma di stivale che non è mai stato il suo. È ritornata nella città delle sue origini con le sue alte montagne incipriate di neve che osserva dalla casa in cui era cresciuta da bambina.

Io invece sono rimasta in Italia. Per una strana sorte del desti-no le nostre esistenze hanno ritrovato le sequenze del passato. Ma i ruoli, ora, si sono invertiti.

Mia madre viene a trovarmi ogni estate e quando, il giorno della partenza arriva, sono io che apro il cancello. La macchina bianca di mia madre sale su per lo scivolo rombando, oltrepas-sando l’inferriata che dà sulla strada.

Poi spegne il motore e scende. Si avvicina. Mi stringe forte nelle sue braccia. Fronte contro fronte. Frangia contro frangia. Naso contro naso.

I suoi capelli biondi spruzzati di grigio si confondono con i miei. I nostri occhi si riempiono di lacrime.

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«Non piangere. Ti prego non piangere…» le dico.Lei scuote la testa senza parlare e manda giù quelle lacrime

calde pronte a rigare il suo viso.Poi risale in macchina, accende il motore e si allontana. La mia mano alzata verso il cielo, la saluta.L’automobile accelera mischiandosi nel traffico.Ma io rimango lì e continuo a scrutare: guardo lontano verso

un orizzonte troncato.Guardo, continuo a guardare e alla fine non so più cosa vedo.

Non lo so più. I ricordi si frantumano nel presente ed il ciclo di un instancabile ritorno sembra riaffiorare nell’aria. Guardo, con-tinuo a guardare e non so più cosa vedo. Non so più.

L’automobile di mia madre si allontana diventando un’ombra, un’illusione un dolore, una fitta, un ricordo.

O forse solo un minuscolo puntino bianco, che corre, che cor-re, che corre, che corre nella scia di una piccola chiazza arancione con la targa gialla.