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V ALENTIN Y. MUDIMBE L’invenzione dell’Africa Meltemi, Roma 2007, 320 pp., e 24,00 Valentin Y. Mudimbe, congolese di nascita ma professore di Lingue roman- ze e di Letterature comparate presso la Duke University di Durham (North Carolina), è particolarmente preparato per offrire uno studio sull’Africa. Non solo perché è africano ma perché questo è solo il più importante di molti lavori su temi affini, come The Idea of Africa (1994), Nations, Iden- tities, Cultures (1997). Edito nell’originale inglese nel 1988, questo lavo- ro è tradotto in italiano da G. Muzzopappa. La tesi di fondo di questo contributo è, tutto sommato, chiara e provoca- toria. Mudimbe sostiene che l’insieme di studi storici, socio-antropologici e filosofici che hanno offerto una visione di sintesi del mondo, della cul- tura e della personalità africana, sarebbe il risultato di una applicazione al mondo africano di schemi culturali europei. L’immagine comune dell’Afri- ca sarebbe il risultato di una epistemologia europea che, nonostante il pro- prio etnocentrismo, ha preteso ed ha ottenuto di qualificarsi come univer- sale. Definendo l’Africa e gli africani in modo da salvaguardare la diffe- renza e la superiorità dell’Europa, questa epistemologia ha generato una ideologia che, a fronte dell’Europa civile e cristiana, ha descritto un’Afri- ca primitiva e pagana. Questa Africa è una pura invenzione al servizio del- la differenza e del potere occidentale. Proseguendo la sua analisi, il nostro autore richiama il fatto che una si- mile, falsa prospettiva doveva suscitare una legittima reazione africana. Tuttavia, secondo Mudimbe, né la rivendicazione del valore della Nègritu- de da parte di L.S. Senghor né lo sforzo per delineare i tratti di un pensie- ro africano con P. Tempels, M. Griaule ed E. Evans-Pritchard, né i dibatti- ti socio-filosofico-teologici aperti da A. Kagame e da F. Eboussi-Boulaga attorno a questi autori sarebbero approdati a risultati convincenti: anche questi autori rimarrebbero – ognuno a modo suo – nell’ambito degli sche- mi epistemologici occidentali. Da qui la sua tesi di una decostruzione di questo sapere, al seguito di M. Foucault (pp. 51-55); il risultato di questo capovolgimento sarà, per Mudimbe, un pluralismo culturale dove ogni universo culturale è geogra- ficamente determinato e culturalmente integrato, con il conseguente ri- schio che il sapere si trasformi in potere. Da qui la sua proposta di un sa- pere misurato e paziente, in grado di conciliare una coscienza critica con EUNTES DOCETE 1/2008 ANNO LXI 235 ED E U N T E S D O C E T E

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VALENTIN Y. MUDIMBE

L’invenzione dell’AfricaMeltemi, Roma 2007, 320 pp., e 24,00

Valentin Y. Mudimbe, congolese di nascita ma professore di Lingue roman-ze e di Letterature comparate presso la Duke University di Durham (NorthCarolina), è particolarmente preparato per offrire uno studio sull’Africa.Non solo perché è africano ma perché questo è solo il più importante dimolti lavori su temi affini, come The Idea of Africa (1994), Nations, Iden-tities, Cultures (1997). Edito nell’originale inglese nel 1988, questo lavo-ro è tradotto in italiano da G. Muzzopappa.

La tesi di fondo di questo contributo è, tutto sommato, chiara e provoca-toria. Mudimbe sostiene che l’insieme di studi storici, socio-antropologicie filosofici che hanno offerto una visione di sintesi del mondo, della cul-tura e della personalità africana, sarebbe il risultato di una applicazione almondo africano di schemi culturali europei. L’immagine comune dell’Afri-ca sarebbe il risultato di una epistemologia europea che, nonostante il pro-prio etnocentrismo, ha preteso ed ha ottenuto di qualificarsi come univer-sale. Definendo l’Africa e gli africani in modo da salvaguardare la diffe-renza e la superiorità dell’Europa, questa epistemologia ha generato unaideologia che, a fronte dell’Europa civile e cristiana, ha descritto un’Afri-ca primitiva e pagana. Questa Africa è una pura invenzione al servizio del-la differenza e del potere occidentale.

Proseguendo la sua analisi, il nostro autore richiama il fatto che una si-mile, falsa prospettiva doveva suscitare una legittima reazione africana.Tuttavia, secondo Mudimbe, né la rivendicazione del valore della Nègritu-de da parte di L.S. Senghor né lo sforzo per delineare i tratti di un pensie-ro africano con P. Tempels, M. Griaule ed E. Evans-Pritchard, né i dibatti-ti socio-filosofico-teologici aperti da A. Kagame e da F. Eboussi-Boulagaattorno a questi autori sarebbero approdati a risultati convincenti: anchequesti autori rimarrebbero – ognuno a modo suo – nell’ambito degli sche-mi epistemologici occidentali.

Da qui la sua tesi di una decostruzione di questo sapere, al seguito diM. Foucault (pp. 51-55); il risultato di questo capovolgimento sarà, perMudimbe, un pluralismo culturale dove ogni universo culturale è geogra-ficamente determinato e culturalmente integrato, con il conseguente ri-schio che il sapere si trasformi in potere. Da qui la sua proposta di un sa-pere misurato e paziente, in grado di conciliare una coscienza critica con

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l’importanza ed il valore di saperi regionali (pp. 250-257). Il risultato do-vrebbe essere una “gnosi africana”, ben diversa dalla pretesa di verità edalla argomentazione per idee chiare e distinte dell’Occidente. Essa an-drebbe intesa come “forma di vita” di una società abitualmente conside-rata muta ma che gli africani stessi devono prendersi la responsabilità diesprimere nelle sue dinamiche e nelle sue profondità: ne verrebbe «unacontinua rivalutazione dei limiti dell’antropologia come sapere, per tra-sformarla in un più credibile anthropou-logos, un discorso sull’essereumano; in secondo luogo una verifica della sua storicità» (pp. 254-258).

Di fronte a questo ampio discorso socio-culturale e storico-filosofico,vorrei qui soffermarmi su un aspetto particolare che ritengo particolarmen-te interessante per questa rivista e per i suoi lettori. Mi riferisco a quellaparte del discorso in cui Mudimbe indica negli antropologi e nei missio-nari alcuni dei più importanti attori della diffusione e della egemonia delsapere occidentale, in una parola del colonialismo culturale. Ai missiona-ri è dedicato soprattutto il capitolo terzo (pp. 77-144). Nel quadro di unavisione storica centrata sulla diffusione della civiltà e della religione occi-dentale, il missionario doveva «adeguarsi alle prospettive politiche e cul-turali del suo paese d’origine sulla colonizzazione, oltre che al punto di vi-sta cristiano sulla missione. [...] Si dovrebbe tener presente che la paroladel missionario è sempre predeterminata, preregolata, diciamo pure colo-nizzata» (p. 81). Termini simili che qualificano l’opera del missionario co-me riduttiva e intollerante sono poi ripresi da Eboussi-Boulaga (pp. 85-87); in pratica il discorso missionario si muoverebbe a partire dalla deri-sione, si svilupperebbe come confutazione e si concluderebbe nella richie-sta di adesione ad una intoccabile ortodossia. Anche una analisi del perio-do postcoloniale con le sue teologie della salvezza, le sue strategie dellaconversione e con il suo impegno per un cristianesimo africano (pp. 87-102), non convincono Mudimbe che discute la conversione (pp. 81-82) el’inculturazione della fede cristiana (p. 101).

È giocoforza ammettere che, nella sua storia secolare, la missione non èstata solo trasmissione della fede cristiana ma si è strettamente collegataal movimento espansivo dell’Occidente mescolandosi, a volte, ad interes-si commerciali e nazionalistici. Tuttavia mi sembra che la posizione di Mu-dimbe sia non solo eccessiva ma anche ideologica: posta la tesi di un plu-ralismo culturale, ne ricava come conseguenza l’accusa di intolleranza edi pretestuosa pretesa di assolutezza per ogni discorso universale. La pro-spettiva di un cristianesimo inculturato nel mondo africano e partecipe di

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un suo cammino di liberazione non è veramente discussa ma piuttosto ri-fiutata come frutto dei missionari e dei suoi epigoni africani. «L’autoritàdella verità» rende il dialogo tra la fede cristiana ed il mondo africano «undialogo impensabile di per sé» (pp. 81-82; lo sforzo per una complemen-tarietà tra cristianesimo e religioni tradizionali è però risolto in un discor-so sulla differenza africana che manifesta «un’ambiziosa ed esplicita vo-lontà di verità» (p. 101) che si traduce in egemonia sulle realtà africane.Questa concezione accomuna «il missionario ed il suo successore africa-no» (p. 77) nello stesso servizio non ad una rivelazione, ad una Parola diDio ma ad una pretesa umana di potere. Questa radicale differenza marcala diversità di lettura tra Mudimbe e, credo, ogni teologo cristiano.

In particolare, poi, non vedo Mudimbe prendere seriamente in seriaconsiderazione il progressivo e continuo distacco del cristianesimo dallacultura e dal mondo occidentale. Può notare che «il cattolicesimo europeosembra pericolosamente invecchiare» mentre l’Africa presenta «l’incredi-bile miracolo» di una sua crescita (p. 90) ma non ne fa oggetto di appro-fondita riflessione. Forse, se lo facesse, potrebbe ricavare da questo unanuova visione del ruolo storico della fede cristiana e della sua maniera diintendere l’universalità in termini cattolici. In pratica, i limiti di questo la-voro stanno – per un credente – nella assolutizzazione di una immanenzastorica ma, con tutto questo, può rappresentare anche per il missionario eper il cultore cristiano di questi studi un necessario stimolo alla revisioneed al dialogo ed una utile provocazione.

Gianni Colzani

BARTOLOMÉ DE LAS CASAS – JUAN GINÉS DE SEPÚLVEDA

La controversia sugli Indiosa cura e con un’introduzione di S. Di LisoEd. di Pagina, Bari 2007, 246 pp., e 15,00

Il lavoro è una raccolta di cinque documenti, in originale spagnolo e nel-la traduzione italiana, riguardanti la controversia di Valladolid che, comesi sa, riguardava la dignità degli indios e le modalità della loro evangeliz-zazione. Svoltasi in due fasi, nell’estate del 1550 e nella tarda primaveradel 1551, la disputa fu un momento importante nella formazione dell’at-teggiamento ecclesiale sulla missione. I testi presentati in questo lavoro ri-guardano direttamente o indirettamente questo dibattito.

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Il primo testo è il Sommario steso da Domingo de Soto per incarico del-la Commissione e che rappresenta uno strumento fondamentale per lacomprensione del dibattito. Il Sommario presenta le diverse posizioni diLas Casas e di Sepúlveda al termine della prima fase: Sepúlveda avevapresentato una sintesi del suo Democrites Alter parlando per più di tre ore;Las Casas aveva parlato per cinque giorni leggendo notevoli stralci dellasua Apologia. Il Sommario di Soto era uno strumento che avrebbe dovutopermettere alla Commissione di approfondire più facilmente i temi in que-stione; di fatto, nella seconda fase, Sepúlveda estrasse da questo Somma-rio dodici obiezioni a cui Las Casas contrappose dodici risposte.

Gli altri quattro testi riguardano indirettamente la disputa di Valladolid.Il secondo è la bolla pontificia Veritas ipsa (1537) che vieta la schiavitùdegli indios; il terzo è la lettera (1549) di Las Casas a Soto, domenicanocome lui e confessore dell’imperatore, per denunciare l’erroneità di alcu-ne informazioni giunte a corte e per proporre alcuni rimedi; il quarto è unalettera di Sepúlveda (1551) all’inquisitore Martin de Oliva in cui riassu-me il dibattito di Valladolid come positivo per le sue posizioni e l’ultimo èuna lettera del Consiglio delle Indie al re (1554) in merito alla condannadelle conquiste formulata da Valladolid.

La pubblicazione di questi documenti è preceduta da una Introduzionedi Saverio Di Liso (pp. 3-67), curatore e traduttore dei testi, mentre una bi-bliografia (pp. 219-232) ed un indice dei nomi (pp. 235-242) arricchisco-no e rendono più utile il lavoro. Nella sua introduzione il prof. Di Liso, cheinsegna Storia della Filosofia presso la Facoltà Teologica Pugliese, inqua-dra il dibattito sulla “questione indiana” nell’ambito del dibattito sui dirit-ti umani; di conseguenza ferma la sua attenzione sulla legittimità dellaconquista, sulle guerras de conquista, sulle Leyes Nuevas del 1542 offren-do così una interpretazione storico-giuridica del dibattito. Questo non gliimpedisce di risalire alla problematica filosofica che regge l’impalcaturagiuridica ma non l’aiuta a cogliere la problematica missionaria che, pure,era componente non piccola del pensiero di Las Casas. Per questo non tro-vano menzione i lavori teologici che inquadrano il pensiero di Las Casassia nell’ambito della evangelizzazione sia nel contesto della liberazione edei poveri; i lavori di G. Gutierrez – Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo.Il pensiero di Bartolomé de Las Casas; Dio o l’oro. Il cammino di liberazio-ne di Bartolomé de Las Casas – non entrano nemmeno nella bibliografia ela sua citazione nella nota 75 di pagina 42 è solo per un breve postscritto.

G.C.

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ANDRZEJ GIENIUSZ – AMBROGIO SPREAFICO (edd.)La Bibbia nelle culture dei popoli. Ermeneutica e ComunicazioneUrbaniana University Press, Città del Vaticano 2008 220 pp., e 23,00

Il testo raccoglie gli Atti del Convegno Internazionale tenuto presso la Pon-tificia Università Urbaniana nel maggio 2007. Analizzando il profondo le-game tra la Bibbia e le culture, evidente tanto nel suo costiturisi quantonel suo uso, il testo raccoglie in forma organica più spunti: la centralitàdelle Scritture nella esperienza di fede, insegnata dal Vaticano II e più vol-te ribadita dal magistero, l’orizzonte missionario inevitabilmente legato al-l’utilizzo delle scritture per comunicare e approfondire la fede e, soprattut-to, l’ampio dialogo che questo testo ha intrattenuto con le culture di ognitempo e di ogni luogo. Ne viene una documentata illustrazione della crea-tività culturale delle scritture e della ricchezza dei suoi risultati.

Con ragione A. Spreafico ricorda, fin dall’introduzione, che il testo bi-blico è molto più di un libro perché fa riferimento ad un “mistero divinodi autocomunicazione”, ad un evento che è evento salvifico per chi crede.A fronte di questo mistero, la parola umana risulta inadeguata così che – nella sua comunicazione – opera un aspetto non concettuale ma che re-sta profondamente significativo. Anche questo aspetto apofatico ha datoorigine ad una sua singolare prospettiva culturale e mistica che qui, però,non è analizzata. È, forse, l’unico limite di impostazione del Convegno.

Il Convegno ed il volume dei suoi Atti si concentrano sul testo biblico,in cui la Parola di Dio si cala nella storia e nel linguaggio umano sotto laguida dello Spirito. Il sottotitolo dice con chiarezza gli orizzonti del Con-vegno: ermeneutica e comunicazione sono i due orizzonti che hanno ispi-rato il Convegno. Chiunque provasse ad accostare questo Convegno aquello del 1975 su Evangelizzazione e Culture, tenuto sempre all’Urbania-na, coglierebbe immediatamente che questo Convegno ha una logica di-versa: partendo dalla centralità del testo biblico, si concentra sul testo peresaltarne la ricchezza culturale e riconoscere così la fruttuosità del suodialogo con il mondo umano, la sua scienza e la sua cultura. “Ermeneuti-ca e Comunicazione” sono come le chiavi che permettono di accedere altesto biblico mentre precisano l’orizzonte culturale degli organizzatori.

Per questo, dopo la relazione introduttiva di A. Spreafico (pp. 17-27), ilConvegno si è articolato in quattro sessioni. Le prime due sessioni hannoprovato ad articolare l’ottica della comunicazione affrontando così di pet-

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to la questione linguistica: per essere comunicata, la Bibbia deve esseretradotta e la traduzione è sempre una sorta di ermeneutica, di ricompren-sione del testo. Così l’interesse si è fermato sulle traduzioni. La prima ses-sione (pp. 29-89) si è fermata sulle traduzioni in senso tecnico; il prof. L. H. Schiffman della New York University ha esaminato il modo giudaicodi tradurre le Scritture e di renderle significative attraverso il commentodei Targum e del Talmud mentre il dott. A. Schenker di Fribourg ha ana-lizzato la traduzione greca dei LXX e quella latina di Gerolamo. Infine ilprof. G. Rizzi dell’Urbaniana ha offerto uno squarcio sul patrimonio di tra-duzioni della Bibbia presente nella biblioteca di questa Università: 1291volumi per 160 lingue diverse. La seconda sessione (pp. 91-146) ha af-frontato dei saggi di analisi della traduzione delle Scritture ebraico-cri-stiane in alcuni popoli del sud del mondo, sul significato e sul valore chequeste traduzioni hanno avuto presso i rispettivi popoli. Il prof. I. Himba-za di Fribourg ha parlato del Rwanda, sua terra natale, il prof. W. Lo diHong Kong si è fermato sulla Cina mentre il prof. M. López Barrio di Cit-tà del Messico e Guadalajara ha affrontato il mondo latino-americano.

La terza e la quarta sessione, pur mantenendosi nell’orizzonte della er-meneutica e della comunicazione, hanno privilegiato forme particolari dilinguaggio come la pittura prima, la letteratura ed il teatro poi. Certamen-te diversi dalla traduzione e dallo studio, questi linguaggi sono tra le mo-dalità più diffuse di fruizione della Bibbia: raggiungono larghi strati di po-polazione e, anche, di specialisti. La terza sessione (pp. 147-181), dedi-cata alla pittura, si è articolata attorno alla relazione del prof. T. Spidlik,del Centro Aletti di Roma, che ha affrontato il tema della immagine in ge-nere e della icona in particolare mentre il prof. M. Naro, di Palermo, si èfermato sul ciclo musivo di Monreale. La quarta sessione (pp. 183-208) haaffrontato il mondo della letteratura e del teatro con la relazione di S. Ecc.Mons. G. Ravasi presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e conquella della prof.ssa A. Cascetta della Università Cattolica di Milano. Ilprimo ha collocato la Bibbia al centro della cultura occidentale mentre laseconda, dopo una ampia introduzione, si è fermata sul teatro del novecen-to ed, in particolare, su P. Claudel, G. Testori e S. Beckett.

Anche se sommarie, queste brevi note bastano a lasciar intuire l’am-piezza di orizzonti del Convegno e l’utilità di questi Atti. Ovviamente, inun tema così ampio come quello della lettura delle Scritture alla luce del-l’ermeneutica e della comunicazione, molte altre cose e molti altri spuntisi sarebbero potuti formulare. A me piace sottolineare la relativa origina-

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lità del ricorso ad una molteplicità di linguaggi in una Università che fadella teologia e della missione il suo normale orizzonte di studio; l’inter-disciplinarietà, che così si fa strada, appare ormai una strada obbligata perogni autentico approfondimento. Forse una più generosa valorizzazionedell’aspetto missionario avrebbe dato ulteriore lustro al Convegno; è nel-l’ambito missionario di questi ultimi decenni che comincia, infatti, ademergere una attenzione ai molteplici linguaggi di una fede ispirata e ani-mata dalla Bibbia: dalla pittura al canto, dalla letteratura ad ogni tipo diarte. In questo ambito missionario, molto la Bibbia ha dato e sta dando al-le diverse culture ma molto anche le diverse culture stanno dando allacomprensione delle Scritture.

G.C.

Omelie su Giosuè. Lettura origenianaa cura di M. Maritano – E. Dal Covolo LAS, Roma 2007, 104 pp., e 9,00

Le letture origeniane, che i Padri Salesiani coordinano a Roma ormai qua-si da un decennio, con competenza e amore, sono ormai una realtà che ri-chiama i migliori studiosi italiani e un buon seguito di appassionati del-l’Alessandrino. Il volume che presentiamo raccoglie le cinque lezioni sul-le Omelie su Giosuè tenute nel 2005 da studiosi di chiara fama: la prima(I omelia) da Manlio Simonetti, la seconda (VIII omelia) da EmanuelaPrinzivalli, la terza (XV omelia) da Emanuela Valeriani, la quarta (XXIIIomelia) da Gaetano Lettieri, la quinta (XXVI omelia) da Maria CristinaPennacchio. I valenti studiosi giungono, pur tra diversi itinerari, a indivi-duare una chiave interpretativa fortemente unitaria, adottata dallo stessoOrigene fin dalla prima Omelia della raccolta: «Questo libro non sta tan-to ad indicarci le gesta di Giosuè, figlio di Nave, quanto a descrivere i mi-steri del mio Signore Gesù» (1,3). Si tratta dunque di un’esegesi stretta-mente cristologica, tesa ad individuare le prefigurazioni di Cristo nell’An-tico Testamento.

Tre principali istanze orientano le omelie origeniane sul libro di Giosuè,come spiega Scognamiglio nella prefazione: la prima, che possiamo defi-nire pastorale, consiste nello spiegare che nei saccheggi e negli eccidi pre-sentati nel libro biblico non si nascondono scandali, bensì messaggi edifi-

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canti, indicazioni dello Spirito Santo, suggerimenti per l’impegno cristia-no. La seconda istanza risiede nel confronto con il mondo giudaico: va te-nuto presente che Origene svolge la sua predicazione sul libro di Giosuènegli anni 245-247 a Cesarea di Palestina. Il maestro alessandrino svilup-pa in questo contesto il rapporto tipologico tra Giosuè e Gesù, giocandosulla vicinanza dei nomi, per evidenziare il progresso dal primo al secon-do, cioè il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, dove il secondo èsuperiore al primo, nel senso che l’Antico prefigura e prepara il Nuovo.Una terza istanza rende difficile il dialogo con il dualismo gnostico, inquanto non trae occasione per distinguere il Dio dell’Antico Testamento,bensì per notarne la continuità con quello del Nuovo Testamento.

«Il contenuto del libro di Giosuè, inteso spiritualmente, in questo casoallegoricamente, si prestava benissimo a illustrare due temi maggiori del-la sua spiritualità: uno è il tema della conquista della terra promessa, cheè dire dell’itinerario spirituale che porta il cristiano asceticamente impe-gnato fino alla meta ultima del suo percorso, che è appunto la terra pro-messa escatologica, stillante metaforicamente latte e miele, in definitivaCristo stesso; l’altro è quello del combattimento spirituale che tale vian-dante deve affrontare per progredire nell’itinerario e raggiungere la meta,combattimento contro ogni genere di tentazioni che continuamente si frap-pongono lungo il percorso e in definitiva si assommano nell’ostilità del-l’antico avversario, il diavolo e i suoi demoni» (Simonetti, pp. 9-10).

Armando Genovese

ANIELLO SALZANO

Agli inizi della poesia cristiana latina. Autori anonimi dei secc. IV-VEdisud, Salerno 2006, 154 pp., e 20,00

Quando la Chiesa si estese dalla Palestina al mondo greco e poi a quellolatino, sviluppò per forza di cose forme innodiche nuove, adattando le tra-dizioni non solo ebraiche, ma anche orientali alla nuova lingua che incon-trava. Plinio il Giovane nell’Epistola a Traiano sull’attività dei cristiani inAsia Minore, ci fornisce una preziosa testimonianza sui primi sviluppi del-l’innologia popolare: «Affermavano che erano soliti riunirsi nel giorno sta-bilito, prima dello spuntar dell’alba, per rivolgere insieme degli inni a Cri-sto come a Dio» (Plinio, Ep. 96,7). Tale costume, largamente diffuso pres-

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so i cristiani dell’Asia Minore, venne illustrato più tardi da Tertulliano, ilquale nel 197, riferendosi nell’Apologeticum allo scambio epistolare traPlinio e Traiano, attesta che l’espressione carmen dicere doveva essere in-tesa secondo l’uso classico, nel senso di «cantare» un inno (Apol. 2,6). Ilcanto liturgico cristiano si svolgeva «nel giorno stabilito», presumibilmen-te di domenica, e consisteva quasi certamente nell’ufficio dell’alba.

Se prendiamo in considerazione soprattutto l’ambito latino, notiamo chelo stile, per molti aspetti ancora debitore delle forme e dei procedimenti del-la poesia classica, è originale, volto a proporre il mistero cristiano nelle for-me seducenti dei temi della religiosità tardo-antica: una poesia popolare, dicarattere polemico e sommariamente dottrinale, di cui ci offrono un esempiole Instructiones di Commodiano. Lattanzio, in particolare, è riuscito a giusti-ficare l’impiego del mito e l’uso del simbolismo e del metodo allegorizzantenell’ambito della poesia cristiana, mentre Giovenco, col suo tentativo di met-tere in versi virgiliani il vangelo e di avviare i primi saggi di un’esegesi di-dascalica, ha inaugurato il poema epico-cristiano. Dopo di loro l’epopea bi-blica e il ritorno alle leggi dell’antica prosodia troveranno progressivo impie-go negli autori cristiani e negli stessi grandi innografi del IV secolo.

Non ci sono però soltanto grandi innografi e poeti: altri autori, ingiusta-mente ritenuti minori, giocano un ruolo importante, dei quali gli studi diLetteratura cristiana antica e le Patrologie si limitano a fare brevi recen-sioni. Aniello Salzano, docente di Letteratura cristiana antica nell’Univer-sità di Salerno, con il libro che presentiamo fa un servizio di tutto rispettonon soltanto ai suoi studenti, come esplicitamente afferma nella premessa,ma anche agli studiosi della materia, dando giustizia a testi ed autori chedi solito vengono relegati in secondo piano.

Psalmus responsorius. Si tratta di un inno abbecedario dedicato alla Ver-gine Maria, giunto a noi in maniera incompleta. L’autore non ha intenzio-ne di comporre un’opera originale, bensì di introdurre un’assemblea, pro-babilmente liturgica, al culto della Vergine Maria. Più precisamente, po-tremmo dire che si tratti di un racconto dell’infanzia di Gesù, compresi glieventi che l’hanno preceduta.

La teologia mariana è abbastanza naïve: l’annunciazione, che viene de-scritta nel VI quadro, ci presenta l’incontro tra Maria e l’angelo a un poz-zo: «Facta est ad fontem sola venire. / Vocem angelicam tunc ibi audibit /et neminem vidit. / Verbum in utero ferens, sic inde ibit. / Spasmum passa,mirari coepit...» (vv. 42-46). Il vangelo parla di pozzo, ma nel caso dell’in-contro di Gesù con la Samaritana di Gv 4, mentre la scena in questo modo

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è presente nel Protovangelo di Giacomo 11, che evidentemente costituiscela fonte del nostro documento.

Al verso 100 la risposta di Gesù a Maria: «mihi et tibi quid est?» è tra-duzione letterale dell’originale greco: «che cosa c’è tra me e te?». Ossia: dadove nasce la fiducia che hai nel miracolo che io posso compiere? Ed è unadelle espressioni più dure e difficili da comprendere in tutto il vangelo.

Salzano fa propria la tesi del recensore, L.M. Peretto, e ritiene questopsalmus «una testimonianza tra le più antiche di culto liturgico alla Ma-donna». In realtà, secondo la tradizione dei primi secoli, Maria non appa-re mai come l’oggetto diretto della devozione, mai ci si rivolge a Maria co-me termine di preghiera, la quale invece viene presentata bensì comeexemplum per il credente: se tiriamo un’immaginaria linea orizzontale, chedivida il cielo dalla terra, Maria sta dalla parte degli uomini. Le vienechiesto di diventare la Madre di Dio, ed appare come totalmente disponi-bile e umile, riservata e contemplativa, immacolata, come diciamo conun’espressione dogmatica di alcuni secoli dopo, una che soffre molto econdivide la vita e la missione di Gesù con grande fede e forza di donna.È capace di concepire la vita, nutrirla, proteggerla e promuoverla. È capa-ce di creare in se stessa spazio per gli altri, entrando in profonde relazio-ni con loro. Comunica i suoi più profondi sentimenti, emozioni, impulsi,gioie, angosce, e porta avanti al tempo stesso nuova vita con il proprio san-gue. Ha la naturale capacità di ogni donna di tenerezza, recettività, sensi-bilità, ascolto, coscienza dei bisogni e desideri degli altri. Sono segni delmistero della sua vocazione nel cuore dell’umanità.

Proprio per la teologia espressa in questo salmo, pensiamo che sia cor-retto datarlo alla prima metà del quarto secolo, senza sopravvalutarlo nel-la sua incidenza mariologica, in quanto si tratta di una catechesi dell’in-fanzia. Notiamo anche, come ulteriore elemento per una datazione antica,la completa assenza dello Spirito Santo, anche là dove la presenza delloSpirito Santo sarebbe naturalmente richiesta dall’evidenza del testo evan-gelico, cioè nell’Annunciazione.

Le Laudes Domini cum miraculo quod accidit in Aeduico sono un pane-girico in 148 esametri di stile virgiliano, composto in Gallia, probabilmen-te tra il 317 e il 323, da un autore quasi certamente residente a Flavia Ae-dua (la moderna Autun). «Il poemetto riveste grande importanza non soloperché potrebbe essere il primo esempio significativo di poesia di ispira-zione cristiana in lingua latina, ma anche perché inaugura un genere poe-tico destinato ad avere successo nei secoli successivi» (Salzano, p. 57), e

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cioè cantare le lodi di Cristo ripercorrendo le orme virgiliane e lucreziane.Va detto che il nostro autore si era già confrontato con le Laudes nel 2001,producendo una pregevolissima edizione, e che l’opera continua a richia-mare l’attenzione degli studiosi1.

«Le Laudes Domini narrano di un miracolo avvenuto nella terra degliEdui in Gallia: una tomba occupata da una donna viene riaperta per acco-gliere la salma del marito, e la defunta, avvolta dalle bende mortuarie, losaluta con la mano sinistra» (p. 58). Il fatto straordinario porge l’occasio-ne per un inno di lode al Cristo, figlio incorruttibile di Dio, che vive in co-munione con il Padre dalla creazione, che viene nel mondo per la salvez-za e opera numerosi miracoli. L’elogio finale dell’imperatore Costantino ciregala la possibilità di datare le Laudes al 317-323 e proprio dalla loroanalisi si può inferire l’atteggiamento nuovo che gli scrittori cristiani han-no nei confronti dell’autorità politica.

La lettura delle Laudes presenta una cristologia arcaica e anche qui, co-me già osservato per il Psalmus responsorius, l’assenza della presenza del-lo Spirito Santo: si vedano i versi 89-93: «Sed Pater ille tuus, secreta in se-de locatus, / nec cuiquam visu facilis cunctisque tremendus, / te misit domi-num terris vitaeque magistrum. / Et quisquis natum iusto veneratur honore /ambobus sua vota dicat vitamque perennem». Siamo certamente prima delConcilio di Costantinopoli del 381, e in presenza di una «quasi-identifica-zione» tra Padre e Figlio con buona probabilità anche prima del Conciliodi Nicea del 325.

Salzano nota, con molta padronanza, tutti gli elementi poetici e i richia-mi virgiliani dell’opera. Troviamo assolutamente notevole il rilievo dato alv. 36: «Tu, quem venturum sancti cecinere poetae»: il nostro autore difendecon forza la lezione poetae, al posto di prophetae, tant’è vero che la santi-tà dei poeti viene affermata da Ennio a Cicerone (Pro Archia 18) fino allostesso Virgilio (Aen. 6,645 e 662ss).

Il S. Paulini epigramma è un testo di autore ignoto, abbastanza difficileda inquadrare e presentare: probabilmente è un dialogo a tre voci tra l’A-bate, molto avanti negli anni, il monaco Thesbon e il suo amico Salmon, ri-tornato nell’eremo dove era già vissuto. I nomi sono di matrice biblica, tut-

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1 Ricordiamo tra gli altri l’edizione polacca: Pochwały na czecs Pana wraz z cudem,który wydarzył sięw kraju Eduów (Laudes Domini cum miraculo quod accidit in Aeduico,CPL 1386). Anonimowy galijski poemat z IV wieku po Chrystusie, wstęp, kom. i tł. Ro-bert Sawa, in Pomoerium, voll. 46-47 (24), 2004, ss. 623-634.

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tavia l’ambientazione e i versi sono evidenti reminiscenze del mondo buco-lico di Virgilio. L’Abate chiede a Salmon come sia la vita in città, nonostan-te le scorribande barbariche (vv. 1-14). Salmon risponde che ben peggioridelle invasioni sono i peccati degli uomini, e fornisce una serie di esempiin merito (vv. 15-51). Thesbon spiega che normalmente, un certo tipo dipeccati appartengono soltanto al sesso maschile (vv. 52-54). In realtà nonè così, e Salmon si impegna in un elenco di nomi femminili, che stanno asignificare altrettanti casi di corruzione. Tutte cose che si potrebbero evita-re se il cuore fosse aperto a Cristo: «Si falcem verbi cordi imprimeremus etillinc / vellemus veterum vitiorum abscidere nodos, / adversus Christi famulosvis nulla valeret» (vv. 91-93). Ci sono ancora persone buone, obietta The-sbon, Salmon lo riconosce, e chiede all’Abate di raccontargli la bellezza del-la vita monastica. L’Abate acconsente, ma ormai è tardi, e invita ad unirsialle adunanze dei santi («ad sacros sanctorum occorrere coetus», v. 111), echiude con uno splendido verso: «Crastina lux verbis accedet libera nostris».

Salzano osserva che lo sguardo dell’autore è sottilmente positivo, pro-prio nel momento in cui presenta un mondo in disfacimento: e «il mondodei campi può diventare il mondo dei monaci... è il luogo di armonia bu-colica lontano dalla corruzione della città, della violenza bruta dei barba-ri invasori» (p. 88). Il S. Paulini epigramma fornisce evidenza dell’usobellico dell’arco e della freccia da parte dei barbari («nos densa telorumnube fatigat», v. 16). Inoltre, descrive l’invasione del 406, in cui un certonumero di barbari, compresi gli Alani, passarono il Reno (vv. 87-96).

De Iesu Christo Deo et Homine. Si tratta di un poemetto in 137 versi sul-l’opera redentrice di Cristo, di difficile attribuzione, che in passato qual-che studioso ha assegnato a Vittorino di Pettau o a Mario Vittorino, tutta-via per la complessità delle posizioni sembra esprimere una teologia po-steriore. Dopo un’introduzione sul tema dell’incarnazione (1-32), l’autoreconduce i suoi lettori attraverso la vita di Gesù, a partire dalle nozze di Ca-na e continuando con brevi cenni sui miracoli da lui compiuti, come lamoltiplicazione dei pani per i 5.000, la risurrezione di Lazzaro, e l’emor-roissa (32-64). Dopo aver presentato i successi di Gesù nella realizzazio-ne dei miracoli, il poeta continua raccontando la consegna delle chiavidella Chiesa a Pietro, la preparazione dell’Ultima Cena con i discepoli, eil tradimento di Giuda. Nei vv. 76-106 viene descritta la passione di Ge-sù, e in 107-122 le storie della risurrezione e delle apparizioni finali aisuoi discepoli. Gesù ascende al cielo negli ultimi versi del poema (123-137), dove viene glorificato dalle creature celesti in tripudio.

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L’opera contiene varie reminiscenze di passaggi di Sedulio: tra le altre,l’autore del De Iesu Cristo, come Sedulio (Paschale Carmen 4,290), descri-ve Lazzaro come haeres che succede a se stesso, dopo che viene richiama-to in vita da Gesù (v. 57). È possibile che Sedulio abbia fatto uso di que-st’opera, ed è possibile il contrario, data la relativa oscurità del breve poe-ma, che cioè l’autore sia indebitato con il Paschale carmen. Salzano sostie-ne, a ragione, che si tratti di un intellettuale convertito al cristianesimo,che conosce gli autori pagani meglio di quanto conosca la fede che ha ab-bracciato: la cosa è particolarmente evidente dal dominio della lingua chel’autore dimostra. Siamo poco convinti, invece, che l’appellativo al v. 4:«Sine matre Deum» significhi vicinanza al nestorianesimo, dal momentoche l’espressione è abbastanza comune e certamente non eterodossa2.

C’è un solo poema che rompe con le abitudini tendenzialmente farisai-che della letteratura del tempo e costituisce un’eccezione nel panorama: èun Carme attribuito a Giovenco e il cui tema è il trionfo di Cristo, Trium-phus Christi Heroicus. Vi si trovano procedimenti poetici arditi e un nuovotono di composizione. Il Triumphus è un poemetto di autore sconosciuto,consta di 108 versi e ci è pervenuto come tanti altri brevi componimentidella stessa epoca: inseriti in codici o edizioni di opere di autori famosi.

Il Cristo appare alle porte dell’inferno con le sue piaghe e tracce di san-gue sul corpo. Satana (che qui conserva il suo nome mitologico di Plutone)getta un grido disperato e con parole energiche richiama alle armi, spingel’esercito infernale a combattere. Si fanno barricate e ci si appresta all’as-sedio, in attesa del nemico, in un pauroso silenzio. Il Cristo si mostra conun verso che non lascia nulla a desiderare né per vigore né per l’eleganza:«Ecce autem Christus per tetra silentia rupit / lumine sidereo» (vv. 19-20).

Al vederlo tutto l’esercito infernale cade nella paura e comincia a fug-gire. Ed ecco che da tutt’altra parte accorrono i beati e i santi, Adamo,Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Aronne, Giosuè, i Maccabei, che adora-no il liberatore e alla testa del coro dei salvati, il re della stirpe di Jesse,loro interprete, fa sentire intorno all’Agnello l’inno di benedizione: «Sal-ve, vincitore dell’inferno, trionfatore della morte, distruttore del peccato,restitutore della vita perduta... Guarda l’opera delle tue mani, o Creato-re...» (vv. 55-58).

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2 Si ricorderà certamente quel che sant’Agostino dice del Cristo incarnato: «Ille sin-gulariter natus de patre sine matre, de matre sine patre; sine matre deus, sine patre ho-mo; sine matre ante tempora, sine patre in fine temporum» (Io. Ev. 8, 8).

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L’autore è un poeta dell’età cristiana che si muove entro le forme che ilgenere letterario e la sua fede gli consentono. In esametri di straordinariaforza evocativa e musicale l’autore riesce a farci sentire il rumore assor-dante delle armi e dei ferri, dei cardini pesanti delle porte di bronzo e deichiavistelli, le voci chiassose, gli ordini che si rincorrono e le grida deidannati. Riesce a far immergere anche il lettore in un’atmosfera surrealefatta di ombre, di castelli presidiati, di demoni inferociti e insieme spaven-tati dalla legge della giustizia di Dio. A questo quadro disperato, tratteg-giato con buona maestria, succede rapida la seduzione della parola di Cri-sto che parla ai profeti e alle anime dei dormienti. Egli alle tenebre d’or-rore, alle urla dei dannati fa seguire la luce delle sue parole e della suapossente presenza divina.

Egli scrive nella lingua che parla e che dimostra di conoscere non peraverla imparata solo sui testi scolastici. Per lui il latino è ancora un mododi esprimersi naturale. Gli riesce facile trovare le forme giuste e le paroleappropriate e come accade ai poeti del suo tempo ricorre agli autori pre-cedenti solo per prendere il meglio, cosicché il suo latino risulta pieno direminiscenze poetiche.

Concludendo. Pure in questa nostra epoca, segnata da un’esplosione distudi sui primi secoli‚ ci sono percorsi ancora da esplorare, o quanto me-no da ordinare e sintetizzare. Il lavoro di Salzano costituisce un apprezza-bile tentativo e al tempo stesso un invito alla ricerca ulteriore nel ricono-scimento del valore della poesia cristiana e dei suoi rappresentanti, capa-ci di divulgare, in una corretta latinitas, la verità cristiana.

A.G.

MARTIN HEIDEGGER

Introduzione all’estetica Le lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schillera cura di A. ArdovinoCarocci, Roma 2008, 170 pp., e 18,00

Adriano Ardovino, docente di estetica all’Università “G. D’Annunzio” diChieti-Pescara e conoscitore del pensiero di Heidegger, ha curato l’edizio-ne italiana di un seminario di studi che il filosofo tedesco tenne all’Uni-versità di Friburgo nel semestre invernale 1936-1937 per matricole della

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Facoltà filosofica, intrattenendole sulle Lettere Estetiche di Friedrich Schil-ler. Nella sua ampia introduzione, il curatore si impegna a presentare le le-zioni heideggeriane come vera e propria introduzione all’estetica moderna.

Di tale seminario Heidegger non ha lasciato documenti né tracce. L’edi-zione tedesca (2005) del testo, a cura di U. von Bülow, della quale viene da-ta versione in postfazione, si rifà ad appunti degli uditori, a protocolli semi-nariali sottoposti al giudizio del docente e costituenti il punto d’avvio dellevarie lezioni. Vi si fa menzione di vari alunni ma il grosso del materiale losi deve al medico friburghese sessantaquattrenne Wilhelm Hallwachs chefrequentò per interesse personale vari seminari e corsi di lezioni di Heideg-ger annotandoli scrupolosamnte. Sull’affidabilità di questi appunti vengonoespresse riserve ma ambedue i curatori convengono nel giudizio di trovarcidi fronte al linguaggio immediato, parlato, tipico dell’illustre cattedraticocon riprese, insistenze e approfondimenti di un’idea portante.

L’aver trovato degli appunti sul pensiero estetico di Schiller nel dossierheideggeriano su Nietzsche pone la questione di sapere se la riflessioneschilleriana di Heidegger abbia influenzato il corso coevo di lezioni suNietzsche: La volontà di potenza come arte (col richiamo alla “lepre di Dü-rer”, fatta oggetto di considerazioni nelle lezioni schilleriane del 3 e 10febbraio ’37) e il successivo scandaglio del pensiero nietzschiano nel se-minario estivo del ’37 (e seguenti). Queste e simili disquisizioni filologi-che, annotate da von Bülow, restano a tutt’oggi senza risposta per mancan-za di documentazione; taluni accenni epistolari del Filosofo non dissipanole incertezze.

Dobbiamo pertanto accontentarci di tracce scrittorie indirette nel segui-re il movimento di pensiero che prende rilevanza in Heidegger, suggestio-nato da Schiller, al quale viene riconosciuto il merito di aver tematizzatol’estetica moderna in rapporto con la coscienza storica dell’uomo, su indi-cazioni di Hegel. L’uditorio di queste lezioni seminariali ha imposto al do-cente il condizionamento dell’esposizione sommaria del testo schilleriano,senza tuttavia scadere nel risaputo. Anzi è fin troppo marcato lo stile er-meneutico originale col quale si affronta la tematica schilleriana. La mae-stria di Heidegger si palesa nel modo in cui sa accerchiare il problemadella bellezza e dell’arte facendone emergere domande essenziali alle qua-li gli allievi erano invitati a dare riposte personali. E sovviene al riguardociò che Gadamer annota a proposito del discepolato: «pensare è porre inrelazione. Heidegger mi ha insegnato che pensare è mostrare, portare amostrarsi» (I sentieri di Heidegger, Marietti, Genova 1988, p. 33). Il ri-

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scontro pertinente di questa affermazione lo si ha nelle pagine 91-99 e ss.di queste lezioni.

L’autore si premura di offrire una panoramica delle 27 lettere schilleria-ne e si sofferma, ermeneuticamente, su alcune di esse: quelle che megliosi prestano a caratterizzare la visione estetica dell’uomo quale viene a evi-denza in un pensiero atteggiato alla corrispondenza degli effetti di risonan-za del dettato schilleriano. Temi dominanti sono: 1) la condizione esteticacome stato fondamentale dell’uomo effettivo; 2) la volontà/libertà di cia-scun individuo di rendersi uomo autonomo pur nel consorzio umano; 3) laproduzione e la fruizione della “forma” legata alla coscienza storica del-l’uomo; 4) il regno della pura apparenza.

Rilievo generale: «queste lettere trattano della nobiltà dell’uomo stori-co» (p. 56). Il concetto di nobiltà dell’uomo emerge dalla caratterizzazio-ne dell’estetico, dell’arte e del pensiero. Eccone i rispettivi contrassegni:«L’estetica – caricando l’espressione – è la segnatura di uno stato dell’a-nimo umano» (p. 39) che è entrato nella dimensione consapevole e moder-na della storicità. «L’arte che riguarda il rendere sensibile l’idea di una co-sa singola, nell’opera, è arte dell’ideale» (p. 55) con allusione al pensierodi Kant e di Hegel che vengono mezionati qua e là. «Il pensiero è il risul-tato del pensare, il pensato in quanto tale. Ora che cos’è il pensiero? (At-tività assoluta dello spirito)» (p. 59).

Queste tre definizioni costituiscono un’emblematica indicazione di let-tura reattiva delle esercitazioni seminariali anche per il lettore odierno.Mettono conto dell’intreccio dialettico, simultaneamente problematico echiarificatore, che può essere enunciato in forma sillogistica: aísthesis– pensiero – arte dell’ideale. Il termine medio, cioè il gioco del pensieroche eleva l’uomo pensante dalla constatazione di identità sensibile-razio-nale alla funzione educativa della bellezza che si trasforma in “uomo” rea-le autoconsapevole nello stato acquisito della forma bella, ossia dell’“artedell’ideale”, dove per l’appunto l’idea concettuale di umanità si condensae si rende visibile nell’individuo hic et nunc.

Quanto alla sensibilità, che nelle Lettere estetiche viene opposta alla ra-gione, Heidegger non accentua il contrasto moralistico kantiano tra questedue facoltà ma le dichiara destinate l’una all’altra nel produrre l’uomo in-tero (Ganzmensch): soggetto vivente ed operante al di qua della connota-zione culturale di ente sensibile e razionale con ciò che l’una sfera com-porta di negativo quando prevarica sull’altra: selvatichezza del senso obarbarie dell’intelletto, specifica Schiller. Lo stato estetico è definito dal

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genio di Marback sul Neckar «stato di determinabilità reale e attiva» (L.XX). Heidegger ritorna a più riprese su questa definizione. Ed esplicita:l’uomo vive in balia di due impulsi o “orientamenti”: quello “oggettuale”e dell’effusione della sensibilità in tutto ciò che si fa incontro disidentifi-cando il soggetto pensante e quello “formale” che coincide col pensiero.

L’attività del pensiero in noi determina qualcosa in quanto tale per il fat-to che l’uomo se lo porta-innanzi e lo caratterizza soggettivamente: per cuiil pensiero determina anzitutto l’uomo stesso nell’autonomia del proprio“sé”. Sensibilità e pensiero sono orientamenti opposti e tuttavia assegnatil’uno all’altro nell’identità personale del titolare che li esprime come«qualcosa di totale ed autentico». Il pensiero, in quanto capacità di deter-minazione dell’uomo, lo “costruisce” semanticamente. Non è questionegnoseologica di analizzare separatamente i due impulsi né questione dia-lettica di intrecciare l’una e l’altro in vista dell’esito antropologico armoni-co ma di pensare “l’unità di entrambe” le facoltà, facendo “il passo indie-tro” rispetto all’esperienza comune e alla cultura diffusa, nel convincimen-to che in noi esiste propriamente l’unica potenza della volontà/libertà a co-stituirci effettivamente e storicamente. Il “passo indietro” ci situa nel ber-saglio della bellezza. Ne è esempio il genio che “vive” lo stato estetico e loproduce in quanto uomo libero, creativo, capace di “forma” universale.

Lo stato estetico, regno dell’uomo autentico, è disposizione d’animo nel-le concrete condizioni storiche in cui vive. Ciò equivale a dire che l’uomoè in grado di situarsi nell’êthos del tempo e dello spazio, configurando sim-bolicamente ciò che esperisce. L’opera d’arte è espressione di un’intuizio-ne che, resasi forma visibile e sensibile, viene al linguaggio variegato e si-gnificativo dell’uomo. Nella forma artistica si condensa una tipica visionedel mondo che l’uomo deve saper interpretare, esprimere e fruire. Da quigli approfondimenti ontologici tipicamente heideggeriani che travalicanodi molto gli schemi schilleriani.

Sono riflessioni dense sulla natura del linguaggio e sull’universalità del-la forma artistica che germinano dalla kantiana “immaginazione produtti-va”, scandiscono tappe riflessive antiche e moderne sull’idea di essenza,vengono speculativamente a capo della realtà (natura, physis = essentia,éidos, koinon) nella flessione storico-filosofica che, con Duns Scoto e Oc-kam marcia verso il “singulare” sostanziale, con Galileo Cartesio e Kantenuncia la realtà stessa come trama di connessioni di fenomeni fisici ordi-nata secondo leggi precise, con Leibniz ritiene la forma singularis comeperfectio existentiae, scontando gli esiti aberranti dei “realisti” del secolo

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XIX che hanno fatto attenzione al “singolo” (ente) e si sono disinteressa-ti del tutto al problema dell’essenza delle cose. Donde l’inversione di mar-cia che Schiller suggerisce nell’intuire ed esprimere la “forma” delle/nel-le cose e che Heidegger esemplifica commentando magistralmente la poe-sia di Christian Friedrich Meyer, la fontana romana, e intrattenendosi a“leggere” con tocco originale “la lepre di Dürer”, famoso disegno del1502, riportato nel volume a p. 103.

Forma è “regolamentazione del sensibile”; essa «è ciò che porta a “sta-re” a quel che ci si fa incontro». L’apertura dell’uomo alla forma bella lonobilita nel senso che lo rende attento e co-rispondente alle seduzioni del-la bellezza che rifulge nell’opera d’arte, cioè nella dimensione “simboli-ca” di ciò che si sa “vedere” e che la coscienza moderna si è conquistatain proprio. L’uomo postkantiano e postschilleriano è divenuto signore delregno della bella apparenza nel fenomeno, nel qual regno deve saper “sta-re” con stile idoneo a fomentare e a cementare anche la “cerchia socialedelle belle relazioni” secondo l’indicazione “politica” che ne dà Schiller.

Nulla si dice del monito schilleriano a conquistare lo stato estetico aprezzo di una «rivoluzione totale nell’intero modo di sentire dell’uomo» (L.XXVII). Schiller e Heidegger si femano a decantare la formazione esteti-ca dell’uomo. Non li sfiora il sospetto che la natura umana esige un impe-gno altrettanto arduo e nobilitante di educazione morale, giacché il malenell’uomo non è solo disarmonia della sensibilità ma problema terapeuti-co della volontà debole dell’uomo, che esperisce lo status naturae lapsae.Se n’è accorto Tolstoj nella Suonata a Kreuzer.

Paolo Miccoli

MÉTHODE GAHUNGU

Le sfide dell’inculturazione in AfricaRiflessioni alla luce del Sinodo speciale del 1994LAS, Roma, 2007, 269 pp., e 18,00

Inculturare la vita consacrata in Africa. Problemi e prospettiveLAS, Roma 2007, 183 pp., e 12,00

L’A., presbitero della diocesi di Bujumbura (Burundi), presenta in questidue volumi il frutto di una ricerca personale, elaborata in un corso di for-mazione per formatori, organizzato all’Università Pontificia Salesiana di

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Roma, presso la quale il Gahungu svolge la propria attività professoraledal 1998. I due volumi sono qui recensiti congiuntamente, data la conti-guità dell’oggetto trattato e la metodologia seguita; lo stesso A. richiama lacorrelazione dei suoi due studi: l’inculturazione della vita religiosa vacompresa e condotta nell’orizzonte più ampio dell’inculturazione del cri-stianesimo in Africa, giacché la vita religiosa qua talis è appunto vita cri-stiana ed ecclesiale (cf. Inculturare, pp. 10-11).

Il primo volume – Le sfide dell’inculturazione in Africa – presenta unarilettura critica di aspetti dell’inculturazione del messaggio cristiano nelcontesto africano, condotta nell’orizzonte dei testi preparatori alla celebra-zione del Sinodo speciale per l’Africa (1994) e della correlata esortazioneapostolica post-sinodale Ecclesia in Africa (EIA) di Giovanni Paolo II. Ladisamina delle fonti mette in luce punti di contatto, ma anche differenzee, soprattutto, rimandi e silenzi; si tratta di indicatori utili e necessari perricostruire un quadro d’insieme, configurato, da un lato, dalla complessaarticolazione dei processi d’inculturazione in Africa e, dall’altro, dalla lo-ro odierna necessità proprio in vista di un più adeguato radicamento e diun maggior sviluppo del Vangelo in Africa. Nella prospettiva dell’incultu-razione, radicamento e sviluppo non alludono meramente a una crescitanumerica; essi rimandano piuttosto a una maggiore e più feconda correla-zione tra l’annuncio evangelico e la cultura, la cui necessità è reiterata-mente affermata dall’A. che riferisce, citandolo abbondantemente e peresteso soprattutto nelle note a pie’ di pagina, il pensiero di prelati e di teo-logi africani, spesso sconosciuti al di fuori del loro contesto continentale.

I primi due capitoli dell’opera sviluppano argomenti di carattere genera-le: il I presenta in forma breve e diacronica il quadro missionario e missio-logico entro il quale si è sviluppato il concetto di inculturazione; il II neprecisa piuttosto il significato e le implicazioni. Attraverso e mediante taliindicazioni di profilo globale, il lettore è condotto in prossimità dello spe-cifico oggetto della ricerca. Proprio perché il concetto di inculturazione im-plica quello più ampio di cultura, è necessaria una precisazione, che il Ga-hungu comincia a tratteggiare a partire dal III capitolo, dedicato alla pre-sentazione di alcune difficoltà afferenti ai processi d’inculturazione; se inun primo momento l’A. si muove ancora su un orizzonte più generale, sot-tolineando soprattutto la difficoltà di una traduzione in pratica del concet-to di inculturazione – non fosse altro perché sui processi d’inculturazione ènecessario operare un non facile discernimento, che ne valuti la coerenzacon la Tradizione –, in un secondo momento e nella prospettiva dell’Instru-

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mentum laboris del Sinodo introduce problemi di natura culturale, sociale,morale, pastorale, vere e proprie sfide per l’inculturazione in Africa.

I capitoli IV-VI, assumendo come angolo di osservazione l’esortazioneapostolica post-sinodale EIA, presentano rispettivamente le proposte delSinodo recepite da Giovanni Paolo II (IV cap.), i problemi rimasti ancoraaperti e, per così dire, rimandati alle Chiese africane per un ulteriore sup-plemento d’indagine teorica e teologica (V cap.) e i temi non ripresi (VIcap.). Pur non sottacendo aspetti problematici conseguenti la scelta di re-cepire o meno, compiutamente o in parte, le indicazioni dei lavori sinoda-li – va ricordato al riguardo il valore puramente consultivo del Sinodo deiVescovi –, l’A. elabora questi capitoli evitando perlopiù toni polemici o op-positivi. La recezione in EIA del dibattito e delle indicazioni dell’assem-blea sinodale riguardano la presentazione della Chiesa quale famiglia diDio, la sua articolazione in piccole comunità e la promozione umana qua-le risposta al problema della giustizia, della pace e dello sviluppo. Sul ver-sante dei temi rimasti aperti, in termini generali si può osservare che essiriguardano la vita interna della Chiesa africana, le sue relazioni con laChiesa universale e il dialogo con le religioni tradizionali dell’Africa. So-no qui in gioco la promozione di una liturgia che valorizzi riti e simboli lo-cali; l’elaborazione di una teologia propria non aliena dall’universo cultu-rale africano (con il correlato dell’insegnamento della teologia in lingueafricane); i ministeri delle donne nel senso sia dell’istituzione di nuovi mi-nisteri sia dell’accesso delle donne a quei ministeri già istituiti che nonpresuppongono la ricezione del sacramento dell’ordine; la promozione del-l’autonomia economica delle Chiese del continente; l’elaborazione di undiritto canonico particolare; la rivalutazione dell’attenzione agli antenati ead altri aspetti delle religioni tradizionali, che spesso informano la menta-lità e la vita degli stessi cristiani. Il quadro è certamente complesso e arenderlo ancora maggiormente complesso, come se tutto ciò ancora nonbastasse, sono gli argomenti non ripresi. Il silenzio di EIA su taluni sog-getti non ne diminuisce affatto la loro incidenza sulla vita e sulla pastora-le della Chiesa africana. Basti pensare che essi riguardano la prassi sacra-mentaria (matrimonio religioso per tappe, confessione comunitaria, cele-brazione eucaristica), i ministeri ordinati (il modo di esercizio dell’autori-tà episcopale, il modello di presbitero africano) e quelli laicali (ministerodelle guarigioni, animatori e responsabili parrocchiali laici).

Se la necessità dell’inculturazione tocca la Chiesa africana quale sog-getto globale, di conseguenza e nello specifico essa riguarda anche ciascu-

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no dei soggetti ecclesiali, tra i quali si annovera la vita consacrata. Il Ga-hungu rimanda al volume sulle sfide dell’inculturazione in Africa perquanto attiene alla nozione teorica, epistemologica ed antropologica e aglisviluppi storici sul tema dell’inculturazione; struttura quindi il suo studioin tre capitoli, il primo dei quali ripropone il concetto d’inculturazione conriferimento specifico alla vita consacrata. Pur presentando dati già teori-camente conosciuti, anche se non sempre condivisi nella prassi, le paginedi questo primo capitolo sono utili, in quanto delineano la trama di fondodi una riflessione successivamente più puntuale. In questo primo segmen-to della ricerca, che si avvale, tra l’altro, sia dell’Instrumentum laboris delSinodo speciale per l’Africa, sia di altre fonti magisteriali sulla vita reli-giosa, la necessità d’inculturare la vita consacrata è spiegata fondamental-mente mediante l’individuazione dei protagonisti (i consacrati; si focaliz-za qui il tema della formazione), dei campi (carisma, spiritualità, forma-zione, governo dell’istituto, vita comunitaria, economia, stile materiale divita...) e dei livelli (la persona che vive il carisma; l’istituto con la sua ra-tio e i suoi progetti formativi inculturati; i diversi istituti in reciproca re-lazione operativa e dialogica).

Poste tali premesse, l’accento si sposta su aspetti problematici specificiche configurano attualmente la vita consacrata in Africa, la cui soluzione èconditio sine qua non per l’avvio e il buon esito di congrui processi d’in-culturazione. Dopo una rapida premessa sulla vita consacrata nel Sinodospeciale del 1994, il Gahungu dedica il secondo capitolo a una loro sinte-tica recensione. Gli aspetti negativi posti in risalto non sono pochi e si col-locano su differenti livelli, che l’A. precisa, prendendo le mosse dal fattoche una visione d’insieme sulla vita consacrata africana mette in luce in-nanzitutto la mancanza di un carisma vero e proprio con riferimento a variistituti, la cui fondazione si situa di conseguenza sulla linea di una merarisposta in senso funzionale a necessità di vario genere. Speculare a talemancanza è l’offerta di una formazione debole e non inculturata e una com-prensione parziale, se non erronea, della vocazione alla vita consacrata,che comporta l’assunzione di stereotipi vocazionali e di ruoli da tappabu-chi, la ricerca di una vita tranquilla a fronte a situazioni di miseria ende-mica, l’annientamento della personalità. Su un altro livello, non sfuggonoimplicazioni negative della provenienza della vita consacrata dall’esternodell’Africa, delle non sempre facili e corrette relazioni con i membri afri-cani delle congregazioni di fondazione non africana, della sottovalutazionedella vocazione dei religiosi fratelli e l’insorgenza – spesso disattesa – di

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alcuni problemi specifici della vita consacrata femminile; di non poco ri-lievo sono poi anche i rapporti non cordiali con presbiteri e vescovi dioce-sani. A tutto ciò, va aggiunto infine il fatto che certi rimandi alla culturaafricana – la fecondità e la solidarietà ambiguamente intesa – possono in-cidere negativamente sulla comprensione del senso valoriale e delle formedi vita consacrata; a ciò vanno associati problemi derivanti dall’apparte-nenza etnica e tribale, dall’abuso dell’autorità e dalla corsa al potere.

Tali elementi, che si dispiegano sul triplice livello delle relazioni all’in-terno delle differenti forme di vita consacrata e dei rapporti con altri sog-getti ecclesiali e con elementi anche significativi della cultura di origine,configurano negativamente la vita consacrata africana. La loro disaminadelinea conseguentemente un quadro non del tutto positivo, lanciando altempo stesso una sfida nella prospettiva non soltanto di un cambiamentoper una più coerente assunzione degli impegni propri di una vita di con-sacrazione, ma anche dell’inculturazione della vita consacrata in Africa.Questo argomento impegna il Gahungu che, nel terzo capitolo del suo stu-dio, spiega le prospettive per una rilettura dinamica, attualizzante e am-bientata del carisma e dello spirito degli istituti africani di vita consacra-ta. Assumendo come postulato il fatto che le «culture africane offrono tan-te possibilità e tanti elementi per inculturare la vita religiosa» (p. 156),l’A. si muove in più prospettive e a differenti livelli – tale modo di proce-dere è speculare a quello dei primi due capitoli –, puntualizzando una de-cina di aree tematiche, imprescindibili per un effettivo processo d’incul-turazione, che riguardano la vita e la missione dei singoli istituti e di cia-scun loro membro, le relazioni tra gli istituti di vita consacrata e quelle congli altri soggetti ecclesiali. Formalizzazione della ratio e definizione chia-ra dell’identità vocazionale; offerta di una formazione solida; modalità divivere i voti di povertà, castità e obbedienza e possibilità di altri tipi di vo-to per l’Africa; vita di comunione; rito di consacrazione religiosa; abito re-ligioso; preghiera; modo di vivere e mezzi di sostentamento; modalità diesercizio dell’apostolato e della missione; collaborazione con vescovi epresbiteri; dialogo tra gli istituti sono le direttrici da seguire per un’effet-tiva inculturazione della vita consacrata in Africa.

Apprezzabili per la sintesi di una materia effettivamente complessa, perla bibliografia suddivisa per settori tematici e attenta soprattutto alla pro-duzione di saggi, articoli, monografie ecc. di autori africani, per la ricchez-za dei testi citati nelle note, i due volumi delineano uno spaccato interes-sante della complessità dei processi d’inculturazione del Vangelo in Afri-

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ca, processi globalmente intesi e con riferimento specifico alla vita consa-crata. Pur nei limiti dell’insieme, in parte dipendenti dal contesto nel qua-le è nata la ricerca e in parte dall’impegno di sintetizzare una materia cheè, per così dire, oggettivamente tentacolare e magmatica, la consultazionedi questa doppia ricerca del Gahungu può risultare utile innanzitutto peruna conoscenza preliminare del complesso tema dell’inculturazione delVangelo e dalla vita consacrata in Africa; poi, nonostante il fatto che i duevolumi non possano essere considerati in senso proprio una ricerca scien-tifica, per prendere le mosse per quelle ulteriori ricerche, che lo stesso A.ipotizza e auspica come possibili. L’esperienza ecclesiale qui profilata sul-lo sfondo dell’inculturazione è quella di una realtà di una Chiesa in ricer-ca; una realtà a tratti problematica – a tale proposito si segnala comeesemplare l’equilibrata e leale presentazione anche dei suoi innegabili li-miti, non tutti riconducibili alla pregressa storia dell’evangelizzazione inAfrica –, ma pur sempre viva e vivace che, senza sciocche e infondateidealizzazioni, può aiutare le Chiese che soffrono di una certa vecchiezzanon soltanto cronologica a riflettere se anche per loro non sia giunto il tem-po di incamminarsi sulla via dell’inculturazione dell’annuncio evangelicoo di riprendere con più vigore cammini interrotti.

Sandra Mazzolini

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