UNO STUDIO SOCIO-GIURIDICO SUL DIRITTO D’ASILO: ITALIA E ... · 2 A Serenella, la cui forza e...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA DIPARTIMENTO “CESARE BECCARIA” DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA DEL DIRITTO CURRICULUM DI SOCIOLOGIA DEL DIRITTO XXIII CICLO- IUS 20 TESI DI DOTTORATO DI RICERCA UNO STUDIO SOCIO-GIURIDICO SUL DIRITTO D’ASILO: ITALIA E INGHILTERRA A CONFRONTO NEI RACCONTI DEI RIFUGIATI DEL DARFUR Tutor: Ch.mo Prof. Vincenzo Ferrari Co-tutor: Ch.ma Prof.ssa Letizia Mancini Coordinatore: Ch.mo Prof. Paolo Di Lucia Tesi di: Luce Bonzano Anno Accademico 2010/2011

Transcript of UNO STUDIO SOCIO-GIURIDICO SUL DIRITTO D’ASILO: ITALIA E ... · 2 A Serenella, la cui forza e...

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZADIPARTIMENTO “CESARE BECCARIA”

DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA DEL DIRITTOCURRICULUM DI SOCIOLOGIA DEL DIRITTO

XXIII CICLO- IUS 20

TESI DI DOTTORATO DI RICERCA

UNO STUDIO SOCIO-GIURIDICO SUL DIRITTO D’ASILO:

ITALIA E INGHILTERRA A CONFRONTO NEI RACCONTI DEI

RIFUGIATI DEL DARFUR

Tutor: Ch.mo Prof. Vincenzo Ferrari

Co-tutor: Ch.ma Prof.ssa Letizia Mancini

Coordinatore: Ch.mo Prof. Paolo Di Lucia

Tesi di: Luce Bonzano

Anno Accademico 2010/2011

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A Serenella, la cui forza e determinazione mi hanno stupito ed insegnato

qualcosa di nuovo ancora una volta.

“Avevano scelto la libertà abbandonando moglie, figli, famiglia e amici. Per

questo motivo nel club non c’erano donne. Le avevano lasciate in patria. Erano delle

ombre, dei paria, privi di mezzi, con lauree non riconosciute. Le loro mogli, i loro figli,

e il loro Paese erano in un cantuccio della loro mente e del loro cuore. Vi restavano fe-

deli. Parlavano poco del passato, preoccupati di guadagnarsi da vivere e di trovare una

giustificazione al loro vivere. Passando in Occidente, avevano rinunciato a case como-

de e a buone posizioni sociali. Non avevano immaginato che il domani sarebbe stato

così duro (…) Spesso dopo un lungo peregrinare si erano ritrovati in un paese dove era

stato loro concesso asilo politico. Sempre meglio che nei Paesi da cui li cacciavano.

Quella era la patria dei diritti dell’uomo, a condizione che tenessero a freno la lingua e

non fossero troppo esigenti. Non avevano niente, non erano niente, erano vivi. (…) Co-

me mi disse un giorno Sâsa: 'La differenza tra noi e gli altri è che loro sono vivi e noi

dei sopravissuti. Quando si è dei sopravvissuti, non si ha il diritto di lamentarsi della

propria sorte, sarebbe far torto a coloro che sono rimasti là'. Tra loro, al club non ave-

vano bisogno di dare spiegazioni o giustificazioni. Erano profughi e non avevano

l’obbligo di parlarsi per capirsi. Erano tutti sulla stessa barca.”

Jean-Michel Guenassia, “Il club degli incorreggibili ottimisti”.

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INDICE

PREFAZIONE 6

CAPITOLO I - IL DIRITTO D'ASILO CONTEMPORANEO: UN'I MPOSTAZIONE TEORICA

1.Origine storico-culturale del diritto d’asilo 11

2.La moderna nozione del termine "rifugiato" e le sue istituzionalizzazioni:il diritto d'asilo come

risposta ad una situazione emergenziale 18

3. Il ruolo dell'UNCHR e lo sviluppo di due differenti paradigmi di protezione nel Nord e nel Sud

del mondo 22

4. Il diritto d'asilo "diritto ad avere diritti" 29

5. La crisi dello stato-nazione e la globalizzazione 40

6.L’esercizio della sovranità degli stati e gli organismi sovranazionali di tutela dei diritti umani 47

CAPITOLO II - IL DIRITTO D’ASILO NELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE

1. La Convenzione di Ginevra del 1951, relativa allo status di Rifugiato e il successivo

Protocollo del 1969 55

2.La normativa comunitaria:verso una comune legislazione in materia di asilo 63

3.Gli strumenti di diritto derivato: l'evoluzione della normativa comunitaria in materia di asilo 71

CAPITOLO III - IL DIRITTO D'ASILO NELL'ORDINAMENTO ITALIANO

1.Il diritto d 'asilo e la sua costituzionalizzazione 84

2.La prima "disciplina" italiana dell'asilo: la Legge Martelli 90

3.La c. d. “Bossi-Fini”, l. n. 189/2002 e il suo regolamento applicativo 101

4.L’implementazione della normativa comunitaria: i Dlgs. N. 251/2007 e 159/2008 114

5.Gli accordi Italia-Libia 126

6. L'applicazione concreta della normativa: alcune sentenze 130

4

CAPITOLO IV - IL DIRITTO D'ASILO NELL'ORDINAMENTO B RITANNICO

1.Il sorgere della legislazione britannica sull'asilo 140

2.L'"Asylum and Immigration Act" del 1993, 1996 e 1999 149

3.La procedura d'asilo in Inghilterra oggi 161

4.Il sistema di appello contro il diniego di protezione internazionale 172

5.L'applicazione concreta della normativa: alcune sentenze 181

CAPITOLO V- METODOLOGIA E IPOTESI 189

CAPITOLO VI - IL CONFLITTO IN DARFUR: LA GUERRA CIV ILE

Cartina del Sudan: il territorio diviso per etnie 197

Cartina Geografica del Sudan 198

Cartina Geografica del Darfur 199

1.Il Sudan: un incrocio di popoli 200

2. L'origine del conflitto in Darfur e la presenza nel territorio della “Janjaweed” 207

3. I movimenti armati del Darfur 215

4. L'evoluzione del conflitto e Il processo di pace 221

6.Il Darfur ora: oltre 7 anni dopo l'inizio del conflitto 227

CAPITOLO VII - I RIFUGIATI DEL DARFUR- A CASE STUDY

1. Presenza e trattamento dei rifugiati sudanesi in Sudan e nel Mondo 232

2. Presenza e trattamento dei rifugiati del Darfur in Italia 241

3. Le voci dei protagonisti e dei testimoni privilegiati in Italia 253

4. Presenza e trattamento dei rifugiati del Darfur in Inghilterra 268

5. Le voci dei protagonisti e dei testimoni privilegiati in Inghilterra 280

CAPITOLO VIII - CONCLUSIONI: DUE SISTEMI A CONFRONT O

1. Analogie e differenze 296

2.Funzioni manifesti e latenti della normativa sull'asilo 303

5

3. Osservazioni conclusive 310

BIBLIOGRAFIA 313

GIURISPRUDENZA ITALIANA 332

GIURISPRUDENZA INGLESE 333

APPENDICE I

GRIGLIA RICHIEDENTI ASILO ITALIA 335

APPENDICE II

GRIGLIA INTERVISTA LIVIO NERI 336

APPENDICE III

GRIGLIA INTERVISTA LUCA CUMBO 339

APPENDICE IV

GRIGLIA INTERVISTA MARIA CRISTINA ROMANO 341

APPENDICE V

GRIGLIA INTERVISTA RICHIEDENTI ASILO INGHILTERRA 344

APPENDICE VI

GRILIA INTERVISTA AVVOCATI INGHILTERRA 345

APPENDICE VII

GRIGLIA INTERVISTA PROFESSORESSA CRAWLEY 346

RINGRAZIAMENTI 350

6

PREFAZIONE

Durante l’estate del 2004, ho avuto la possibilità di prendere parte ad una mis-

sione dell’Alto Commissariato Per I Rifugiati Delle Nazioni Unite presso i campi pro-

fughi allestiti in Chad, per accogliere le migliaia di rifugiati in fuga dalla regione suda-

nese del Darfur. Lo scopo principale della missione era quello di rendere nota la crisi

del Darfur della quale in Italia, ma più in generale in Europa, si era parlato pochissimo,

attraverso la conoscenza diretta di una delle sue conseguenze più disastrose: l’enorme

numero di rifugiati e profughi interni prodotti.

Un campo rifugiati in Chad può arrivare ad ospitare oltre duecentocinquantamila

persone, l’equivalente di una città italiana di piccole dimensioni. Ma non si tratta di una

città, si tratta nella migliore delle ipotesi di una tendopoli che dovrebbe rappresentare

una soluzione a carattere provvisorio. L’U.N.H.C.R. tende, generalmente, a prendere in

mano la situazione nelle zone di crisi, scegliendo una località idonea ad ospitare il cam-

po e delegando i vari compiti per il suo allestimento e la sua gestione ad organizzazioni

non governative minori. Un rifugiato può passare anni in un campo provvisorio, senza

potersene allontanare. Così è ancora oggi, oltre sette anni dopo l’inizio del conflitto, per

centinaia di migliaia di profughi del Darfur in Chad. I rifugiati in tali campi nella mag-

gior parte dei casi non possono fare ritorno nel paese d’origine perché temono per la

propria incolumità e non possono ricostruirsi una vita in un altro stato perché non pos-

siedono uno status giuridico che glielo consenta. Rimangono bloccati, sospesi, fuori dal

tempo e dallo spazio in attesa di un futuro dai connotati incerti ed indefiniti.

È stato proprio durante questo viaggio che ho iniziato ad interessarmi da un lato

alla dimensione giuridica e sociologica del fenomeno dell’asilo e del rifugio e dall’altro

alle particolari ragioni politiche ed economiche che si trovano alla base degli scontri in

Darfur. Ancora adesso, infatti, risultano esserci più di quattro milioni e mezzo di citta-

dini sudanesi in fuga dalle zone coinvolte nel conflitto di cui, oltre seicentomila vivono

come rifugiati o asilanti o, nella peggiore delle ipotesi, come immigrati clandestini nei

paesi occidentali. Da quella esperienza è nata l’idea di questa ricerca.

Lo scopo primario di questo lavoro è stato, infatti, quello di investigare le nor-

mative vigenti in materia d’asilo, partendo prima dalla loro teorizzazione internazionale,

onde comprendere quale tipo di tutela giuridica viene concretamente offerta a questa

particolare categoria di individui dalla comunità degli stati. Ho poi deciso di analizzare

7

la situazione specifica di due paesi e la loro implementazione degli obblighi internazio-

nali assunti in materia di asilo e mi sono concentrata sulla normativa italiana e britanni-

ca.

L’idea di porre Inghilterra e Italia a confronto è nata proprio dalla volontà di

studiare gli esiti in tale materia di due paesi così storicamente e normativamente diversi.

Da un lato infatti l’Inghilterra è un paese con una lunga storia coloniale, con la

quale ha necessariamente dovuto confrontarsi e che l’ha forzato a considerare le nume-

rose problematiche poste dai flussi migratori in un’epoca piuttosto remota, soprattutto

rispetto a numerosi altri stati della Comunità Europea, come l’Italia.

Dall’altro lato il Regno Unito geograficamente si trova in una posizione che, al-

meno a livello teorico, dovrebbe rendere sostanzialmente più complesso trovarlo una

meta appettibile e facilmente raggiungibile da parte dei richiedenti asilo che si muovono

clandestinamente. Diversamente l’Italia, nonostante le numerose lamentele dei suoi po-

litici, è un paese il cui passato è stato caratterizzato da un’esperienza coloniale piuttosto

modesta rispetto a quella dell’impero britannico e che ha iniziato ad affrontare, come

vedremo, solo in tempi relativamente recenti le problematiche poste dalle migrazioni e

la cui posizione geografica, protesa nel mediterraneo, in fondo non troppo distante dalle

coste del nord africa la rende, sempre almeno a livello teorico, più semplice da raggiun-

gere e anche da prediligere come meta finale del proprio viaggio clandestino in cerca di

asilo.

Il sistema normativo britannico, poi, è un sistema di common law con meccani-

smi e strumenti normativi radicalmente diversi da quelli del sistema normativo italiano

di civil law, ulteriore circostanza che ne rendeva interessante il confronto.

Il primo capitolo di questa ricerca analizza l’origine storica dell’istituto

dell’asilo, onde giungere a comprendere lo sviluppo della nozione legale contemporanea

di questo diritto e prosegue, analizzando i diversi problemi filosofico-sociologici che si

sono stati posti da tale istituto. In esso viene dunque presentato il lavoro di Hannah

Arendt e della nozione da lei elaborata del diritto d’asilo come diritto ad avere diritti,

ma trova corpo anche l’ipotesi che la normativa internazionale e nazionale in materia sia

in realtà inefficace per precise scelte politiche, adottate dagli stati, di controllare e chiu-

dere le frontiere al rifugiato, per proteggere la propria sovranità. Vi è una continua ten-

denza da parte degli stati nazionali a lottare per riaffermare la propria sovranità territo-

8

riale e a ribadire la propria indipendenza da eventuali organismi sopranazionali, onde

proteggere il proprio territorio da interferenze culturali. Ritengo, sostanzialmente, che

l’inefficienza del sistema di asilo sia dovuto, principalmente, al conflitto tra la sovranità

dello stato-nazione, indebolita dalla globalizzazione e la protezione dei diritti umani.

Per supportare questo impianto teorico mi sono servita, tra gli altri, degli studi di Ha-

bermas sulla crisi dello stato-nazione nonché di numerosi studi sul fenomeno della glo-

balizzazione e delle opere di Saskia Sassen che pongono in relazione tale fenomeno con

i flussi migratori e la sovranità degli stati. È, infatti, interessante notare che se da un lato

gli stati acconsentono ad una limitazione della propria sovranità per istituire un sistema

economico comune dall’altro quando si tratta dell’inclusione e della protezione di rifu-

giati e migranti, per dirlo con le parole di Saskia Sassen, “lo Stato-Nazione ribadisce

tutto il suo antico splendore nell’affermare il suo diritto sovrano a controllare le pro-

prie frontiere”. Ho inoltre illustrato, brevemente, tramite la critica compiuta da Bobbio,

ma non solo i limiti del sistema internazionale di protezione ed implementazione dei di-

ritti umani.

Il secondo capitolo è invece dedicato ad un’analisi normativa della disciplina

internazionale del rifugio e dell’asilo: dalla Convenzione di Ginevra del 1951, relativa

allo status di rifugiato, che pur con i suoi limiti rimane fino ad oggi il documento più

importante in questo settore sino alle recenti previsioni comunitarie in materia, di cui

vengono evidenziate lacune e i limiti.

Il terzo capitolo è dedicato alla normativa italiana, dalla teorizzazione dell’asilo

costituzionale sino all’analisi delle diverse norme volte ad implementare la Convenzio-

ne di Ginevra prima e la normativa comunitaria poi. La redazione di questo capitolo ha

presentato qualche difficoltà, dovuta al fatto che l’asilo e il rifugio risultano essere fe-

nomeni relativamente recenti nell’ordinamento italiano e la letteratura in proposito non

è ancora molto completa. Tuttavia, tramite la rete delle organizzazioni non governative

attive in questo settore, ed attraverso un esame della giurisprudenza amministrativa, di

merito e della Corte di Cassazione mi è stato possibile delineare un quadro abbastanza

completo delle lacune presenti nella normativa italiana e delle difficoltà affrontate quo-

tidianamente dagli asilanti durante l’iter legislativo.

Il quarto capitolo si propone di analizzare in modo speculare il sistema d’asilo

britannico, seguendone l’evoluzione dagli albori fino ai tempi recenti. La redazione di

9

questo capitolo è risultata più complessa perché più complesso si è rivelato per certi

aspetti il sistema legislativo inglese. La raccolta del materiale è però risultata notevol-

mente più semplice perché nel Regno Unito lo studio dell’asilo e delle migrazioni for-

zate in generale, è oggetto già da un certo tempo di numerosi attenzioni sia in ambito

strettamente giuridico che in altri ambiti multidisciplinari.

Dallo studio della normativa svolto in questi tre capitoli emerge, infatti, come la

disciplina dell’asilo sia spesso inefficacie e risulti tendenzialmente collegata a quella più

generale dell’immigrazione, in un tentativo continuo volto a respingere l’asilante stra-

niero oltre le frontiere della fortezza Europa, più che indirizzato ad offrirgli una tutela

effettiva. Le inefficienze rilevate nel sistema legislativo di protezione dei rifugiati, sono

a mio avviso da imputare a precise scelte politiche svolte dai governanti dei singoli Sta-

ti.

Il quinto, il sesto e il settimo capitolo sono invece stati dedicati allo studio di un

caso concreto. Ho voluto, cioè, verificare se quanto affermato nei capitoli precedenti

trovasse o meno riscontro nella realtà quotidiana, esaminando le condizioni e i tratta-

menti a cui vanno incontro i rifugiati del Darfur. La scelta di tale particolare gruppo di

richiedenti asilo come vedremo è stata determinata dalla natura stessa del conflitto in

Darfur, e dalla definizione dello stesso data dalla Corte Penale Internazionale, che ren-

dono coloro in fuga da tale regione, a mio avviso, idonei ad essere considerati persone

comunque bisognose di una forma di protezione internazionale. Nell’occuparmi parti-

colarmente di questo gruppo di rifugiati, ho ritenuto necessario investigare le cause

della crisi del Darfur e il ruolo svolto all’interno di essa dalla Comunità Internazionale.

Ho poi distinto tre tipologie di rifugiati del Darfur: i profughi interni, quelli che fuggono

nei paesi limitrofi e vi restano e quelli che, invece, raggiungono i paesi occidentali, in

particolare l’Italia e il Regno Unito. Oltre ai richiedenti asilo ho scelto altri due tipolo-

gie di testimoni privilegiati: gli avvocati e gli operatori sociali attivi nel settore, in en-

trambi i paesi. Le difficoltà incontrate nella ricerca empirica vengono meglio illustrate

nel capitolo V.

Il capitolo VIII conclusivo della ricerca espone in un’ottica comparativa i risul-

tati ottenuti e alla luce di essi si interroga su quali siano le funzioni manifeste e latenti

della normativa sull’asilo e il rifugio, e si conclude con alcune osservazioni sull’istituto.

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CAPITOLO I - IL DIRITTO D’ASILO CONTEMPORANEO:UN’IMPOSTAZIONE TEORICA

1.Origine storico-culturale del diritto d’asilo

2.La moderna nozione del termine "rifugiato" e le s ue istituzionalizzazio-

ni:il diritto d'asilo come risposta ad una situazio ne emergenziale

3. Il ruolo dell'UNCHR e lo sviluppo di due differe nti paradigmi di prote-

zione nel Nord e nel Sud del mondo

4. Il diritto d'asilo come "diritto ad avere diritt i"

5. La crisi dello stato-nazione e la globalizzazion e

6. L’esercizio della sovranità degli stati e gli or ganismi sovranazionali di

tutela dei diritti umani

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1. Origine storico culturale del diritto d’asilo

La scopo che questo lavoro si prefigge è quello di svolgere un’analisi sociologi-

co-giuridica della normativa internazionale e nazionale, italiana ed inglese, sull’asilo e il

rifugio, onde poter comprendere se la stessa sia efficace per raggiungere il risultato pri-

mario che la origina - offrire protezione a coloro che non la ricevono nel proprio stato di

origine - o se, invece, essa venga appositamente “disegnata” e strumentalizzata, per rag-

giungere scopi diversi ed ulteriori. In tale caso, inevitabilmente, l’analisi dovrà indiriz-

zarsi sul perché ciò avviene e su quali siano questi effetti e scopi diversi e ulteriori a cui

l’applicazione della normativa sull’asilo conduce.

Per fare ciò è necessario, a mio avviso, partire da un’analisi prima di tutto stori-

co culturale delle nozioni di “diritto d’asilo” e “diritto al rifugio” onde arrivare alla teo-

rizzazione giuridico-politica contemporanea, affrontandone al contempo i diversi aspetti

filosofici e sociologici e di tale analisi mi occuperò in questo primo capitolo.

Si tende a collocare il sorgere di un‘attenzione nei confronti dei diritti umani, e

fra essi del diritto d’asilo, nel periodo storico immediatamente successivo alle guerre

religiose in Francia, quando, dopo una serie di sanguinosi eventi, il diritto ad avere e ad

esprimere le proprie opinioni religiose fu consacrato in una serie di atti ed editti tra cui,

in particolare, l’Editto di Nantes, nel 1598.

Tuttavia ci vollero quasi duecento anni perché tali diritti venissero organica-

mente incorporati in un documento legislativo, che non fosse una mera concessione del

sovrano, ma un’effettiva conquista voluta ed ottenuta da tutti gli individui. Solo nel

1786, infatti, venne emanata la Dichiarazione di Indipendenza delle Colonie Americane,

e poco dopo (1789), in Francia, vide la luce la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino.

Il diritto d’asilo tuttavia verrà espressamente previsto compiutamente in un testo

normativo, solo in seguito, nella Costituzione Francese del 23 giugno 1793, articolo 20,

dove assumerà una connotazione squisitamente politica: “il [popolo francese] donne

asile aux étrangers bannis de leur patrie pour la cause de la liberté. Il la refuse aux ty-

rans” 1. Se tale disposizione segna sicuramente il principio di una caratterizzazione po-

1 F. A. Cappelletti, Dalla legge di Dio alla legge dello stato: per una storia del diritto d’asilo, in B. M.Bilotta e F. A. Cappelletti (a cura di), Il diritto d’asilo, Cedam, Padova 2006, pag. 28.

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litica e giuridica del diritto d’asilo, tuttavia le radici di tale diritto sono da cercarsi in

un’epoca molto più antica.

Ne troviamo infatti le prime tracce agli albori della tradizione religiosa araba,

così come in quella greca e latina ed, infine, anche in quella ebraico-cristiana.

La tradizione araba ha da sempre riservato un ruolo di primaria importanza al ri-

spetto e alla tutela dello straniero. L’antico concetto di ospitalità, nel mondo pre-

islamico, prevedeva che qualunque straniero fosse entrato nella tenda di un abitante del

deserto, e per qualunque ragione, sarebbe stato da quel momento in poi sotto la prote-

zione del suo ospite e di tutta la sua famiglia2. Bisogna infatti pensare che sebbene il ter-

ritorio arabo sia stato, anche, costellato dal sorgere di insediamenti e civiltà stabili, qua-

li, ad esempio, quella yemenita, per lo più esso era caratterizzato da popolazioni nomadi

che si spostavano continuamente, in condizioni climatiche avverse che rendevano la so-

pravvivenza un’incognita continua. È in questo contesto che le tribù nomadi del deserto

svilupparono, da un lato, un’elevatissima idea di libertà, dall’altro, un senso di profondo

attaccamento al gruppo etnico e sociale di appartenenza e con esso il bisogno di tutelar-

ne i valori fondanti, tra cui sopratutto quello dell’ospitalità. Violare tale valore avrebbe

portato ad un allontanamento immediato dalla comunità di appartenenza.

Il concetto di asilo, anche nell’era pre-islamica, si caratterizzò poi per essere per

lo più un concetto di tipo religioso. Vi erano, infatti, numerosi luoghi sacri sparsi per

tutto il territorio arabo e in essi era possibile richiedere ed usufruire di protezione e asi-

lo. Il più importante tra essi era indubbiamente quello presente alla Mecca, l’Harâm,

probabilmente il più antico luogo d’asilo della tradizione mussulmana. Una volta en-

trato in esso il viandante era perfettamente al sicuro3, a prescindere dalle motivazioni

che lo avevano ivi condotto.

Fu però solo in seguito, nel Corano, che la Sharia, “system of divine law; way of

belief and practice”4, creò l’istituto dell’amân5, ovvero l’obbligo di offrire protezione a

chiunque la cercasse all’interno del territorio dell’ Islam. L’amân doveva essere offerto

allo straniero direttamente da un musulmano ma, una volta ricevuto, questi diventava

2 G. Maârouf Arnaout, “Asylum in the Arab-Islamic Tradition”, in K. Musalo, J. Moore, R. A. Boswell(eds.), Refugee Law and Policy, Carolina Academic Press, Durtham, North Carolina 2002, pag. 5.3 Ibidem pag.12.4 “The term Sharia itself derives from the verb shara'a, which according to Abdul Mannan Omar's Dic-tionary of the Holy Qur'an connects to the idea of "spiritual law" (5:48) and "system of divine law; wayof belief and practice" (45:18) in the Qu’ran”. Cfr: http://www.savage-comedy.com/_Islamic_law .

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inviolabile e le autorità locali dovevano garantirgli tutela e protezione assoluta, per il

periodo di un anno. Se, trascorso tale periodo, il forestiero desiderava fermarsi ulterior-

mente, doveva accettare di diventare un membro del gruppo dei dhimmis, ovvero acqui-

siva lo status di non-musulmano residente in maniera definitiva nel territorio

dell’Islam6. L’istituto dell’amân, all’interno della sacra legge coranica, assume una

doppia connotazione: da un lato offre un’immediata protezione allo straniero che si tro-

va in una situazione di pericolo, dall’altro tale tutela, una volta concessa, non solo non

può essere rifiutata, ma non può neppure essere revocata.

La cultura araba non fu l’unica nell’antichità a sviluppare, seppur in maniera

embrionale, il concetto d’asilo. Anche nella antiche civiltà greco-latine troviamo tracce

di tale istituto, sempre fortemente connesso a costumi ed usanze religiose. Il carattere

mitologico di tali culture e religioni rende difficile distinguere, nella letteratura greco-

latina, tra fatti effettivamente appartenuti alla storia e racconti a carattere esclusiva-

mente mitologico. Tuttavia questi documenti ci hanno lasciato tracce significative di

come l’importanza di tale concetto fosse fortemente radicata nell’immaginario colletti-

vo. La parola stessa asilo deriva dal greco antico άσυλος, composto dalla particella α-

privativo e il verbo συλάω, ‘tolgo a forza’, ‘rubo’, volendo pertanto indicare

l’inviolabile e il sacro e, per questa ragione, fu poi esteso a tutti i luoghi sacri7. Molte

sono le leggende in cui si racconta l’inviolabilità dei templi dedicati agli dèi greci, o an-

che solo dei cimiteri in cui venivano sepolti gli eroi locali, ma ancor più rilevante era,

nel mondo greco, l’ira degli dèi, qualora tali sacri luoghi di ospitalità fossero stati pro-

fanati8. Non si trattava quindi di un diritto riconosciuto agli individui ma piuttosto di

una sacralità concessa ad un luogo specifico, e conseguentemente, a chi in esso si rifu-

giava. Tali luoghi, gli άσυλα ίερα, venivano infatti frequentati da colui che era in cerca

di protezione, il quale al momento dell’ingresso doveva eseguire il rito dell’hiketeia,

cioè richiedere formalmente alle divinità del santuario di poter accedere alla loro prote-

zione. Il rito si perfezionava davanti all’immagine di una divinità a cui colui che fuggiva

doveva espressamente dichiarare le ragioni della sua richiesta, il proprio nome e il nome

5 G. Maârouf Arnaout, “Asylum in the Arab-Islamic Tradition”, cit., pag. 5.6 G. Maârouf Arnaout, op. cit.7 Etimologia della parola greca ásulos dal Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana Pianigiani.8 Basti solo pensare all’aggressione perpetrata da Aiace nei confronti di Cassandra, rifugiatasi nel tempiodi Atena, e alla successiva ira della dea che si abbatté in seguito sui greci. In Karol Kereny (a cura di), Glidei e gli eroi della Grecia, 2 vol., Garzanti, Milano 1976.

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di colui che lo inseguiva. Non era infatti concessa alcuna forma di protezione a colui

che restava anonimo o non specificava le ragioni alla base della sua fuga.

Tale rito fu, probabilmente, la prima formalizzazione di quella che nel diritto

contemporaneo è ora la richiesta di protezione internazionale9.

Ben presto però si cominciò ad abusare di tale istituto al punto che, negli Annali

di Tacito, i templi greci vengono descritti come luoghi popolati da “debitori insolventi e

schiavi ribelli”10 e, nella tradizione romana, l’asilo iniziò ad essere abbandonato, o con-

cesso solo in seguito ad un formale esame della richiesta. In particolare, numerosi tem-

pli furono interdetti dall’offrire rifugio a chiunque, e tale potere fu concesso solo a quei

templi che ne facevano espressamente richiesta alle autorità romane e che erano di volta

in volta in grado di giustificare la protezione concessa.

La tradizione giudaico-cristiana istituì anch’essa un sorta di asilo, la cui inviola-

bilità era strettamente connessa alla sacralità di un luogo specifico. Nel Vecchio Testa-

mento, all’interno del libro dei Numeri (35: 6-34) troviamo narrata l’istituzione di sei

città rifugio raggiungibili a piedi, da ogni punto della Palestina, in un solo giorno, create

al fine di offrire protezione a chi si fosse macchiato di un omicidio, ma senza premedi-

tazione o per casualità. La pena normalmente prevista per i fatti di sangue era una ven-

detta, comportante un ulteriore fatto di sangue, ma nel caso degli omicidi involontari,

non potendo modificare tale usanza, si decise di raggirarla istituendo le città rifugio. In

seguito, tale inviolabilità fu estesa a tutte le città levitiche, dovendo però il richiedente

presentare una domanda formale e pagare una certa somma in cambio dell’ospitalità,

per tutta la durata della sua permanenza.

Per quanto riguarda la tradizione cristiana delle origini, nel codice di Teodosio

del 392 troviamo per la prima volta istituzionalizzata, in un documento legislativo,

l’inviolabilità delle chiese cristiane. Il rifugio veniva però concesso solamente a deter-

minate categorie di individui e solo per alcune fattispecie di reato, mentre era imperati-

vamente escluso per altre11. Il fuggitivo inoltre era ammesso solo nel sagrato e nelle

aree recintate annesse alla chiesa, ma non all’interno dell’edifico principale. La maggior

parte delle decisioni riguardanti l’asilo in chiese cristiane prevedeva l’utilizzo di tale

9 M. E. Price, Rethinking Asylum, Cambridge University Press, Cambridge U.K., pag. 27.10 F. A. Cappelletti, Dalla legge di Dio alla legge dello stato: per una storia del diritto d’asilo, cit., p. 7.11 Teodosio I escluse dall’asilo categorie quali i debitori del fisco, gli ebrei e i colpevoli del reato di lesamaestà.

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istituto come strumento per sottrarre gli schiavi, in fuga, all’ira dei padroni e assicurare

loro il perdono. L’inviolabilità era, in questo caso, più che una caratteristica del luogo,

strettamente connessa alla figura del vescovo, che si incaricava personalmente di trattare

con l’adirato padrone svolgendo, in tal modo, una funzione di mediatore e avvocato di-

fensore dello schiavo. Gli schiavi venivano, pertanto, restituiti solo qualora il padrone si

fosse sottoposto ad un giuramento in cui accordava il proprio perdono.

In questa sua prima fase, l’asilo cristiano crea non poche tensioni tra i vescovi e

il sovrano, in quanto rimane appannaggio esclusivo dei primi che trattano direttamente

con i padroni degli schiavi12. Successivamente la chiesa tende a staccarsi dall’antico

concetto d’asilo, basato prevalentemente su un dovere di ospitalità, per creare una ca-

ratterizzazione dell’istituto strettamente connessa da un lato ai valori propri della carità

cristiana, e dall’altro alla volontà di accogliere il reo in cerca di rifugio, con il preciso

intento di farlo pentire e redimere.

Le successive elaborazioni intorno all’istituto dell’asilo confluiranno poi nel Co-

dice Teodosiano del 438, dove il libro ΙX viene espressamente intitolato “De his qui ad

ecclesiam confugiunt”, rafforzando ulteriormente il potere della chiesa in questo settore,

e inasprendo ancora di più nei secoli successivi, i suoi rapporti con lo stato13. Nel tem-

po, l’asilo viene modificato e utilizzato a piacimento dal clero, che se ne serve anche per

sottrarre i propri beni ad eventuali confische da parte dei Sovrani. Questa situazione di

abuso continuo dell’istituto cristiano porta ad una sua totale soppressione nel XVII se-

colo e affida successivamente l’asilo alla disciplina secolare dello stato.

Già intorno al 1600 sorsero, infatti, i primi dibattiti tra i giuristi e i filosofi relati-

vamente alla definizione di una nozione di asilo e rifugio che avesse un carattere non

più religioso ma prettamente giuridico-politico. Tra essi ricordiamo l’opera del filosofo

Ugo Grozio14, il De Jure Bellis ac Pacis del 1625, nella quale lo stesso si propone di

delineare una teoria relativa al diritto penale internazionale volta a garantire rapporti pa-

cifici tra gli stati. Nello sviluppare tale teoria internazionalista Grozio affronta, in una

prospettiva del tutto nuova per l’epoca, anche le varie problematiche relativa alla nozio-

12 I. Bau, “This Ground Is Holy: Church Sanctuary and Central American Refugees”, in K. Musalo, J.Moore, R. A. Boswell (eds.), Refugee Law and Policy, cit., pag. 10.13 In F. A. Cappelletti, Dalla legge di Dio alla legge dello stato: per una storia del diritto d’asilo, cit.,pag. 7.

16

ne di asilo. Egli riteneva infatti che il fatto stesso che coloro che avevano commesso

qualche errore nel proprio paese di origine, in base alla tradizione fino allora consolidata

dell’asilo cristiano, potessero fuggire cercando asilo in un altro paese fosse una delle

possibili cause di conflitto fra gli stati. Dal che la necessità di delineare in maniera pre-

cisa tale concetto, in modo tale che lo stesso non divenisse causa di conflitto fra i paesi,

ma potesse essere unanimemente condiviso dalla comunità internazionale.

Grozio riteneva che ogni individuo e, a maggior ragione, ogni stato, avesse, se-

condo quanto stabilito dal diritto naturale, il diritto di perseguire chi gli avesse recato un

danno, ma che ciò non potesse implicare un corrispondente obbligo per gli altri stati di

estradare ogni asilante, ma solo coloro i quali “avevano fatto qualcosa di ingiurioso alla

società umana o ad un altro uomo”15. Ne discende, dunque, che l’asilo veniva concepi-

to, nell’opera groziana, per lo più come uno strumento di tutela contro l’estradizione, e

lo stesso veniva garantito solo quando l’estradizione avrebbe comportato per l’asilante

una punizione ingiusta. Per Grozio andavano in concreto tutelati solo coloro che veni-

vano di fatto perseguiti per una attività criminosa che non avevano in realtà compiuto.

Tuttavia nel suo rispetto totale per la legislazione penale dei singoli stati, Grozio ritene-

va che qualora l’asilante fosse stato effettivamente condannato in base alla legge penale

di uno di essi, non importa quanto cruenta la stessa fosse, l’estradizione dovesse essere

concessa e l’asilo negato. In alcuni passaggi della sua opera tuttavia si riscontrano alcu-

ni esempi in parte contraddittori con tale principio che lo stesso Grozio in realtà consi-

derava rare eccezioni. Erano tali solo quelle situazioni in cui, in base al diritto naturale,

tale condotta non poteva essere definita come criminale e quindi sanzionata penalmente.

Grozio identificava nella sua opera alcuni di questi casi specifici riferendosi ad esempi

concreti della propria epoca, ma non ne fornì alcuna definizione generale.

L’asilo groziano, dunque, aveva un carattere esclusivamente politico, poiché la

concessione dello stesso implicava necessariamente che lo stato ricevente giudicasse la

condotta dello stato da cui l’asilante proveniva e, di fatto offrendo la propria protezione,

interferisse nei rapporti tra questi e uno dei suoi cittadini16.

14 U. Grozio (Delft, 10 aprile 1583 – Rostock, 28 agosto 1645) è stato giurista, filosofo e scrittore. Lavoròcome giurista nelle Province Unite (oggi Paesi Bassi) e gettò le basi del diritto internazionale, basato suldiritto naturale.15 M. E. Price, Rethinking Asylum, op.cit, pag. 36.16 Ibidem pag. 37.

17

Successivamente altri giuristi e filosofi, quali Pufendorf, Wolff and Vattel

all’interno della loro vasta opera, formularono alcune interessanti teorie in merito alle

nozioni di asilo e rifugio.

Pufendorf17 in realtà sviluppò una teoria politica nella quale la protezione che

poteva essere concessa agli asilanti rimaneva residua. Lo stesso, infatti, partiva

dall’assunto che il potere di giudicare e punire fosse legato esclusivamente alla sovra-

nità statale e che non essendovi un organo titolare di sovranità a livello internazionale,

nessuno stato poteva arrogarsi il potere di punire un altro stato che avesse violato una, o

più, norme di diritto naturale nei confronti di uno dei propri membri. Per tale ragione lo

stesso non distingueva in realtà gli asilanti dagli altri stranieri, i quali potevano e dove-

vano essere ospitati quando non costituivano una minaccia per lo stato ospitante e, in

ogni caso, solo quando non fuggivano per aver commesso qualche reato in base alla

legge penale del paese di origine.

Wolff 18 fece propria la nozione di ospitalità dello straniero elaborata da Pufen-

dorf ma la estese quasi all’infinto, ritenendo che la stessa ricomprendesse anche la no-

zione di asilo e che quest’ultimo andasse offerto a tutti coloro i quali lo richiedevano ed,

eventualmente, anche a coloro che avevano compiuto atti criminali e che avrebbero me-

ritato per ciò di essere puniti. Nella teoria Wolfiana, che rielaborava le prime nozioni

dell’asilo cristiano, l‘asilo poteva divenire un modo per accogliere i criminali e dar loro

una possibilità di pentirsi e redimersi. Egli tuttavia elaborò anche una lunga lista di ra-

gioni giustificatrici per gli stati ospitanti di eventuali dinieghi, tutte legate al benessere e

alla sicurezza interna dello stato.

Da ultimo Vattel19 presentò un’opera, Le Droît des Gens, volta a rielaborare e ri-

dimensionare la teoria di Wolff. In essa l’asilo viene definito come obbligatorio nella

maggior parte dei casi, ma vengono espressamente esclusi coloro i quali hanno com-

17 Samuel Pufendorf (Dorfchemnitz, 8 gennaio 1632 – Berlino, 26 ottobre 1694) giurista e filosofo tede-sco. Figlio di un pastore protestante, nel 1650 iniziò gli studi di teologia a Lipsia, nel 1656 a si trasferì aJena, attratto dalla filosofia. Venne imprigionato in Danimarca a causa della guerra in corso tra danesi esvedesi, e, durante la sua reclusione, scrisse gli Elementorum Jurisprudentiæ Universalis Libri Duo in cui,attratto dalla filosofia politica, espose alcune sue riflessioni circa le tesi di Ugo Grozio e Thomas Hobbes.18Christian Wolff (Breslavia, 24 gennaio 1679 – Halle sul Saale, 9 aprile 1754) anch’esso filosofo e giuri-sta tedesco. Wolff fu considerato tra i più importanti filosofi tedeschi. La sua opera riguarda praticamenteogni aspetto della dottrina filosofica del suo tempo, esposta e spiegata con un metodo matematico dimo-strativo-deduttivo.19 Emerich de Vattel (25 Aprile 1714 Couvet – 28 dicembre 1767Couvet), filosofo, diplomatico e giuristadi origine svizzera, le sue teorie fortemente influenzate dall’opera di Wolff sono considerate fondamentodel diritto internazionale moderno e molto influenti anche nell’ambito della filosofia politica.

18

piuto nello stato d’origine crimini talmente gravi (crimina maiora), che l’accoglierli

implicherebbe una minaccia concreta per la sicurezza dello stato ospitante, ed identifica

tali crimini con l’omicidio, la pirateria e gli incendi dolosi. Sostanzialmente

l’estradizione avrebbe potuto essere concessa solo in quei casi in cui la generalità della

comunità internazionale, di allora, si fosse trovata d’accordo sul fatto che tale condotta

era un crimine da punire. Tale teoria tuttavia lasciava oscuri alcuni punti poiché, pur ri-

tenendo che gli stati fossero d’accordo su quali fossero i crimini sì gravi da escludere la

concessione dell’asilo, la stessa non contemplava l’ipotesi che l’asilante venisse sotto-

posto nel paese di origine ad un processo iniquo e che, di conseguenza, la sua condanna

non fosse affatto dovuta20.

Con l’avvento dello stato moderno dunque l’istituzione dell’asilo perde la sua

caratteristica di essere pertinente solo ad un determinato luogo, in quanto religioso, per

divenire una qualità del territorio statale, ed un potere esercitato dall’autorità sovrana in

tale territorio, che lo concede solo ed esclusivamente in alcuni casi, in particolare a

quelle categorie di persone che risultano perseguitate dalla tirannia.

È in questo contesto, in seguito alla Rivoluzione francese e alla promulgazione

della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che, come detto prece-

dentemente, il diritto d’asilo, nella sua formulazione laica, trova espressione per la pri-

ma volta, nella Costituzione Francese del 23 giugno 1793. Tale costituzione non entrò

mai in vigore ma il concetto di un diritto d’asilo a carattere prettamente giuridico si era

ormai affermato.

2. La moderna nozione del termine "rifugiato" e le sue istituzionalizzazio-

ni: il diritto d'asilo come risposta ad una situazi one emergenziale.

Con l’avvento dello stato moderno dunque l’asilo si caratterizza per lo più come

strumento politico per impedire l’estradizione, in svariati casi, la cui legittimità veniva

per lo più stabilita dal singolo sovrano.

I singoli sovrani si comportavano poi in modo molto diverso tra loro: il Regno

Unito in particolare era noto per avere una politica di estradizione molto restrittiva e,

conseguentemente, una politica d’asilo molto permissiva. Nel 1794 il Regno Unito ave-

va firmato trattati di estradizione solo con gli Stati Uniti, la Francia e l’Olanda ma, di

20 Ibidem, pagg. 38-44.

19

fatto, gli stessi erano quasi totalmente privi di implicazioni pratiche. Tale approccio fu

poi condiviso anche dal governo statunitense di Thomas Jefferson, che riteneva di non

potersi fidare pienamente del giudizio degli altri stati, numerosi dei quali all’epoca di-

sponevano ancora di governi e sovrani dispotici. Ciò che preoccupava maggiormente i

governi angolo-americani era soprattutto che gli stati verso i quali avrebbero concesso

eventualmente l’estradizione non sempre erano in grado di garantire un’applicazione

precisa e puntuale delle norme procedurali del giusto processo21.

Gli avvenimenti che si verificarono in seguito, nel XΙX e nel XX secolo, ed in

particolare il consolidamento di stati nazionali distinti l’uno dall’altro e che, per ben due

volte con la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, si trovarono schierati l’uno contro

l’altro, portarono al formarsi di una nuova tipologia di rifugiati, caratterizzata da spo-

stamenti di massa di persone rimaste senza terra, senza stato e, pertanto come vedremo,

senza diritti.

La Lega delle Nazioni, dopo la Prima Guerra Mondiale, avvertì la necessità di

affrontare il massiccio afflusso di sfollati, creatosi in seguito alla Rivoluzione Russa e

alla caduta dell’Impero Ottomano. La Lega fece fronte a questa situazione nominando,

nel 1921, il Dottor Fridtjof Nansen, High Commissioner For Russian Refugees22, e at-

tribuendogli i compiti di definire lo status legale dei profughi, di organizzare un even-

tuale rimpatrio o, in alternativa, di trovar loro una possibile dislocazione in un altro

stato. Successivamente il mandato conferito a Nansen fu esteso anche a profughi di altre

etnie, quali gli Armeni, gli Assiri, gli Assiri-Caldei e i Turchi. Nel 1938 fu creato The

Intergovernamental Commissioner for Refugees, destinato ad occuparsi

dell’involontaria e forzata emigrazione dei profughi dalla Germania e dall’Austria.

La Seconda Guerra Mondiale provocò lo spostamento e la deportazione di mi-

lioni di profughi da uno stato all’altro e fu per questa ragione che venne istituita, nel

1943, The United Nations Relief and Rehabilitation Administration, con il compito di

aiutare gli sfollati a rientrare nelle regioni di appartenenza. Tuttavia moltissimi profughi

rifiutarono di essere rimpatriati negli Stati di origine, in cui la situazione politica era

cambiata, e nei quali non si sentivano più al sicuro. Fu proprio la riluttanza di questi

21 M. E. Price, op. cit., pagg. 44 -45.22 Alto Comissariato per i Rifugiati dell’O.N.U. (ed), United Nations High Commissioner for Refugees.An Introduction to the International Protection, 1992, consultabile sul sito www.unhcr.org, pag. 3.

20

gruppi che sottolineò, per la prima volta, l’esistenza di problematiche più ampie legate

al concetto di asilo e rifugio.

Tali problematiche divennero uno dei punti focali dell’ordine del giorno della

prima riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 1946. Si richiedeva a

tutti gli Stati di affrontare tali tematiche in una prospettiva di più ampio respiro e so-

prattutto in un’ottica internazionale. Sostanzialmente, ci si rese conto che il diritto

d’asilo non poteva più essere appannaggio delle discipline dei singoli stati ma era, e

come tale doveva essere trattato, una tematica comune a tutti i Paesi ed un diritto umano

inviolabile.

Le Nazioni Unite, nel 1947, crearono l’I.R.O.23, che fu la prima organizzazione

ad occuparsi di tutte le tematiche connesse all’afflusso di rifugiati, quali la registrazione

dei dati personali, la determinazione o meno di uno status di rifugiato, l’eventuale rien-

tro in Patria o l’insediamento in un nuovo territorio e che, allo stesso tempo, offriva an-

che una sorta di consulenza politico-giuridico agli sfollati. Il lavoro dell’I.R.O. si svolse

però in un momento storico in cui le tensioni tra est e ovest in Europa erano giunte al

culmine e, nonostante il suo operato avesse dato ottimi risultati, fu aspramente criticato

da quei paesi che, contrari all’insediamento dei profughi in nuovi stati, propendevano

per il rimpatrio forzato. Gli elevatissimi costi di tale attività, inoltre, erano interamente

sostenuti solo da 18 degli allora 54 membri delle Nazioni Unite.

In questo panorama si inserisce la creazione dell’U.N.H.C.R., l’Alto Commissa-

riato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, frutto di un compromesso tra quegli stati che

ritenevano necessaria ed imprescindibile una posizione internazionale unitaria sulla

materia, e gli altri stati che rifiutavano l’idea di un’organizzazione con gli ampi poteri

operativi dell’I.R.O. L’U.N.H.C.R. fu istituito dall’art. 22 della Carta delle Nazioni

Unite come organo sussidiario delle stesse, cui fu devoluto un mandato temporaneo di

protezione internazionale, per un periodo di tre anni a partire dal 1º Gennaio del 1951.

L’Alto Commissario veniva, e viene tuttora, nominato dal Segretario Generale

ed eletto dall’Assemblea, alla quale risponde annualmente del proprio operato, e dalla

quale riceve linee-guida e direttive di comportamento24.

23 The International Refugee Organization, fondata nel 1947, rimase attiva fino al 1951.24Alto Comissariato per i Rifugiati dell’O.N.U. (ed), United Nations High Commissioner for Refugees, AnIntroduction to the International Protection, cit.

21

Contemporaneamente alla creazione di questi organismi internazionali di aiuto e,

quindi, sostanzialmente, ad un lavoro politico della comunità internazionale, per fron-

teggiare l’enorme afflusso di profughi durante le due Guerre si sviluppò anche un dibat-

tito teorico relativo all’individuazione di quelle categorie di persone che dovevano be-

neficiare della protezione internazionale, in quanto rifugiati. Tale dibattito teorico intor-

no alla definizione di rifugiato si sviluppò tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50, orbitando in-

torno a tre differenti approcci alla tematica.

Il primo di tali orientamenti, che caratterizzò gli anni dal 1920 al 1935 circa,

sviluppò una nozione di rifugiato in termini prettamente giuridici, occupandosi preva-

lentemente di gruppi di profughi, che erano stati privati della protezione del governo o

dello stato di origine. Tale definizione, de iure, mirava a colmare il vuoto lasciato dalla

normativa internazionale relativamente a quegli individui che non rientravano più sotto

la protezione legale di alcuno stato, e per i quali, pertanto, anche la semplice libertà di

movimento risultava preclusa. Solamente persone che richiedevano la tutela internazio-

nale trovandosi al di fuori del loro Paese d’origine potevano ottenerla.

Il secondo tipo di approccio, sviluppatosi tra il ’35 e il ’39, fu quello definito di

tipo sociale, poiché si concentrava non più sulle mancanze della disciplina internazio-

nale, per formulare una definizione di rifugiato, ma piuttosto sull’osservazione di una

determinata situazione reale, normalmente a carattere politico o sociale, che aveva co-

stretto gruppi di persone ad allontanarsi dalla propria società di origine. Non era più,

pertanto, individuata una caratteristica de iure, quanto piuttosto una caratteristica de

facto, che mirava a comprendere nella definizione quei gruppi di individui che erano

stati fortemente danneggiati dal regime nazional-socialista in Germania, ed in maniera

più generale quelle categorie di individui che erano state in qualunque modo coinvolte

in una serie di eventi politico-sociali a loro sfavorevoli.

Tuttavia fu solamente in seguito, tra il ’39 e il ’50, che sorse un orientamento

finalmente disposto ad abbandonare la visione “collettiva” della definizione di rifugiato,

per accostarsi al problema con una prospettiva più individualistica. In quest’ottica il ri-

fugiato è un individuo in fuga dall’autorità imperante nel suo paese d’origine che gli ha,

per diverse e svariate ragioni, impedito l’esercizio delle libertà fondamentali e reso,

pertanto, impossibile continuare a risiedere in tale stato. Si tratta cioè di un individuo

che si muove in cerca della propria libertà personale e che richiede protezione interna-

22

zionale in tale senso. La determinazione del fatto se una persona potesse, o non potesse,

essere compresa nella definizione di rifugiato, non era più basata sull’appartenenza a

determinati gruppi etnici, politici o sociali ma diventava una caratteristica intuitu perso-

nae, attinente perciò al singolo individuo e ai suoi rapporti con le autorità governanti lo

stato di origine. Tale definizione, pur incontrando fortissime opposizioni da parte degli

stati socialisti che ritenevano sbagliato conferire tutela internazionale anche ai dissidenti

politici, fu supportata dall’Alleanza occidentale e gettò così le basi della moderna disci-

plina internazionale sulla materia25.

3.Il ruolo dell’UNHCR e lo sviluppo di due differen ti paradigmi di

protezione nel Nord e nel Sud del mondo

Per meglio comprendere i limiti e i pregi che caratterizzano la contemporanea

normativa, internazionale e nazionale, sull’asilo e il rifugio non si può prescindere

dall’importante ruolo che, nello sviluppo di tale disciplina, ha avuto l’istituzione

dell’U.N.H.C.R.

L’ufficio dell’Alto Commissariato Per i Rifugiati dell’O.N.U., infatti fin dalla

sua fondazione ha avuto la possibilità, legalmente garantita dal suo stesso statuto26, di

occuparsi di tale problematica in una prospettiva globale anche se, di fatto, ci sono vo-

luti ancora molti anni dopo la sua istituzionalizzazione, perché le previsioni teoriche del

suo stesso statuto trovassero un applicazione concreta27. Lo statuto dell’ U.N.H.C.R.

(1950), al capitolo II, “Funzioni dell’Alto Commissario”, delineò una prima definizione

della nozione di rifugiato, la quale venne poi ripresa l’anno seguente dalla Convenzione

di Ginevra relativa allo status di rifugiato (1951) e che illustra le linee-guida che le Na-

zioni Unite avevano iniziato a prendere in questo senso28 .

L’U.N.H.C.R., come meglio illustrerò, pur essendo stato l’organismo a carattere

internazionale più attivo nello sviluppo della disciplina sull’asilo e il rifugio, ha sempre

25 J.C. Hathaway, The Law of Refugee Status, Butterworth, Toronto 1991.26 Statuto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Risoluzione n. 428,dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 14 Dicembre 1950, capitolo I, ”Disposizioni di ordine ge-nerale”, art. 1: http://www.unhcr.it/images/pdf/statuto_unhcr.pdf.27 Il primo passo in questo senso fu dato dalla Risoluzione 1167(1957), in cui le Nazioni Unite chieseroall’Alto Commissariato di usare i propri uffici per i rifugiati cinesi di Hong Kong. A. Suhrke e A. Zol-berg, “Issues In Contemporary Refugee Policies”, in A. Bernstein and M. Weiner (eds.), Migration andRefugee Policies: An Overview, Cromwell Press Ltd, Towerbridge, U.K. 1999.

23

ricoperto un ruolo molto problematico. Infatti, nonostante il sorgere di flussi di rifugiati

sempre più massicci avesse sottolineato la necessità di affrontare tale problematica da

un punto di vista internazionale, istituendo un organismo a carattere sovranazionale in

grado di imporre le proprie decisioni agli stati che vi avessero preso parte, non bisogna

dimenticare che coloro che tiravano i fili sulla scena della produzione della normativa

internazionale, erano sempre e comunque i singoli Stati-Nazione.

Uno degli obbiettivi principali dell’U.N.H.C.R. è, da sempre, quello di creare un

codice di comportamento internazionale a carattere universale in questo campo, ma nel

farlo tale istituto si è dovuto scontrare con le volontà dei singoli Stati-Nazione, da un

lato, di mantenere salda la propria sovranità territoriale e, dall’altro, di proteggere i

“propri interessi e la propria sicurezza nazionale” 29 .

In questo scenario, non risulta difficile immaginare quanto complesso sia stato

per l’Alto Commissariato, soprattutto alle origini del suo mandato e nella sua prima fase

di sviluppo, trovare un proprio posto ed affermare una propria autorevolezza nel mezzo

dei conflitti interni ed esterni tra i vari Stati.

Per un lungo periodo questa istituzione, come vedremo, ha lavorato come punto

principale di affermazione e sviluppo della legislazione internazionale in questo settore,

svolgendo altresì un controllo continuo sull’effettiva, o meno, implementazione da parte

dei singoli Stati della normativa internazionale e sul rispetto degli standard minimi di

protezione da questa richiesti. Ciò nonostante, spesso è emersa l’impotenza politica di

tale istituzione nel combattere le cause originarie dei flussi di rifugiati e nel gestire con-

cretamente la protezione e il rispetto dei diritti umani in generale e dei rifugiati in parti-

colare30.

Al principio, in realtà, la novità del fenomeno fece si che l’U.N.H.C.R. dispo-

nesse di un mandato abbastanza ampio per affrontare la problematica relativa alla prote-

zione internazionale ma, nel tempo, le politiche contemporanee sempre più restrittive

dei singoli stati in materia di immigrazione e la loro sempre più evidente volontà di

mantener chiuse le proprie frontiere, ha fortemente ridimensionato il ruolo dell’Alto

28 Statuto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Risoluzione n. 428,dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 14 Dicembre 1950, capitolo II, “Funzioni dell’Alto Com-missario”: http://www.unhcr.it/images/pdf/statuto_unhcr.pdf .29 G. Loescher, The UNCHR and World Politics: a Perilous Path, Oxford University Press, Oxford 2001,p. 44.

24

Commissariato, la sua autonomia e la sua capacità di influenzare concretamente lo svi-

luppo della normativa in questo settore. Secondo parte della dottrina infatti, in questi

ultimi anni, “l’ U.N.H.C.R. ha perso il suo primato di competenza ed informazione in questo

campo. Di conseguenza, la sua autorità e la sua legittimazione nel regno dell’asilo hanno su-

bito un inesorabile declino”31.

Nel passato tale agenzia ha cercato, in svariati modi, di modificare la propria

struttura rispetto a quella iniziale di istituzione priva di alcuna autonomia economica,

per arrivare ad ottenere un ruolo attivo non solo nella gestione dei rifugiati Europei, ma

anche per potersi occupare concretamente di tutte le problematiche inerenti i flussi di

rifugiati, in ogni regione del mondo.

A partire dal 1970, i vari movimenti migratori, provocati dai processi di decolo-

nizzazione che avevano coinvolto numerosi stati africani e sudamericani, sottolinearono

il bisogno di un approccio diverso e più globale al problema. Ciò nonostante, l’Alto

Commissariato non era stato concepito come un’organizzazione politica, né era stato

munito di un effettivo potere politico, ma era stato strutturato e finanziato solo ed esclu-

sivamente come un istituto di tipo umanitario.

Tale connotazione “umanitaria”, se da un lato gli è sempre stata utile per inter-

venire non solo nelle crisi interne dei singoli stati, ma nel loro stesso territorio, senza

compromettere la loro percezione della propria sovranità, dall’altro è stato anche il suo

enorme limite e gli ha impedito di trovare quell’autonomia, evidentemente necessaria,

per poter concretamente tutelare i diritti umani dell’individuo in quanto tale, nei con-

fronti di tutte le istituzioni. Tale limite è sempre stato connesso alla sua dipendenza po-

litica dai singoli Stati-Nazione, che gli hanno proibito di intervenire concretamente nei

conflitti politici anche quando gli stessi comportavano gravi violazioni dei diritti umani

fondamentali32.

Poiché l’Alto Commissariato, soprattutto al principio, si è sostenuto economi-

camente, per la maggior parte, con fondi investiti dai governi occidentali, la sua atten-

zione è sempre stata focalizzata più sulla risoluzione dei problemi relativi ai rifugiati,

originati dalle crisi europee che da quelli in fuga dai conflitti africani o sudamericani.

30 Si veda infra capitolo 7 paragrafo 1, in merito al trattamento ricevuto dai rifugiati in Egitto dallo staffdell’ U.N.H.C.R in loco.31 G. Loescher, op. cit., p.5.32 In proposito si veda la critica rivolta nei paragrafi seguenti alla struttura degli stati-nazionali e ai mec-canismi di tutela sovranazionali dei diritti umani.

25

Così facendo, l’.U.N.H.C.R. è sempre stato in “balia dei suoi donatori e dei go-

verni ospitanti”33, non potendo in alcun modo offrire aiuto e protezione alle popolazioni

in fuga in uno stato, se quello stesso stato non gli consentiva espressamente l’accesso al

proprio territorio. Molto spesso, per non perdere il sostegno dei propri donatori, l’Alto

Commissariato ha dovuto ignorare accadimenti interni ad alcuni Paesi, anche se caratte-

rizzati da gravissime violazioni dei diritti umani. La forte influenza subita dalla volontà

dei singoli Stati-Nazione, lo ha portato a sviluppare nuove politiche, volte al conteni-

mento dei rifugiati nei loro paesi di origine o, al massimo, negli stati ad essi limitrofi,

inasprendo al contempo il proprio atteggiamento nei confronti dei richiedenti asilo

giunti nei paesi occidentali.

Attualmente la maggior parte dei progetti sviluppati dall’Alto Commissariato,

sono volti a finanziare gli stati limitrofi alle aree di crisi, piuttosto che ad offrire ai ri-

chiedenti asilo una protezione effettiva nei “nostri”stati o a cercare soluzioni concrete ed

effettive che incidano sulle cause che originano i flussi di rifugiati.

Così facendo, come vedremo nei capitoli seguenti, il sistema di protezione inter-

nazionale è di fatto piombato in una sorta di crisi e sono andati via via affermandosi due

diversi paradigmi di protezione, uno nel Nord e uno nel Sud del mondo.

Nei paesi occidentali abbiamo sviluppato procedure volte al riconoscimento

della protezione internazionale, basate sulle caratteristiche del singolo individuo, sulla

sua esperienza personale vissuta nel paese di origine, e sulle prove che lo stesso può of-

frire onde giustificare se vi siano effettivamente quei criteri che, come meglio illustrato

nei capitoli successivi, la Convenzione di Ginevra richiede, per garantire lo status di ri-

fugiato. In modo completamente opposto ci siamo invece mossi nel Sud del mondo, ri-

chiedendo agli Stati di tale area geografica di affrontare il problema con una sorta di ap-

proccio regionale, accogliendo le masse in fuga, senza analizzare le singole richieste di

protezione internazionale, ma limitandosi ad offrire loro un minimo di assistenza mate-

riale immediata. I paesi del Sud del mondo non sono liberi di sviluppare le proprie pro-

cedure e strategie interne per offrire e garantire asilo o protezione umanitaria e, proba-

bilmente, non lo saranno mai. Essi si trovano ad affrontare, ed in qualche modo ci si

aspetta da loro anche che lo risolvano, il problema fin dall’origine, dovendo gestire la

33 G. Loescher, op. cit., p. 350

26

sistemazione di migliaia di persone in fuga da genocidi, guerre civili e altre catastrofi

umanitarie, in condizioni fisiche e psicologiche spesso disastrose.

Dopo la fine della Guerra Fredda, vi è stato uno spostamento dalla concezione

dei flussi di rifugiati determinati dalla lotta per “un valore ideologico e geopolitico”34

al prototipo dei c.d. “nuovi rifugiati”, in arrivo dall’Africa e dal Sud America, in fuga da

numerose atrocità che, purtroppo, non sempre risultano contemplate dall’articolo 1 della

Convenzione di Ginevra.

Questo cambiamento di prospettiva ha portato alla definizione del così detto

“non entrèe regime”35 che caratterizza, anche ora, l’approccio dei paesi del Nord del

mondo in questo settore.

Per supportare l’idea di due paradigmi di protezione differenti, l’attenzione è

stata focalizzata nel sottolineare le differenze tra i flussi di rifugiati che hanno caratte-

rizzato l’Europa dei primi del Novecento e i c.d. “nuovi flussi” che sono giunti in tempi

più recenti da varie aree del Terzo mondo.

L’idea che vi sia una differenza tra queste due tipologie di richiedenti asilo, è

stata enfatizzata anche dall’uso di politiche differenti nella loro regolamentazione. In-

fatti, mentre con i rifugiati europei l’obbiettivo era offrire loro una sorta di protezione a

lungo termine e il risultato fu quello del loro ricollocamento nei paesi ospitanti, con i ri-

fugiati del Terzo mondo l’obbiettivo è diventato quello di impedire loro di attraversare

le frontiere dei paesi occidenti o di rimpatriarli, qualora abbiano trovato una modo di

superarle.

È importante sottolineare che, in questo continuo tentativo di tenere divise que-

ste due tipologie di rifugiati, e conseguentemente la protezione loro offerta, i politici oc-

cidentali non hanno esitato a finanziare soluzioni immediate ma a carattere temporaneo,

nei paesi di origine o in quelli ad essi limitrofi, onde ridurre il numero di richiedenti

asilo che arrivano nella “nostra” area, aumentando però esponenzialmente il numero di

I.D.Ps.36 nel Sud del mondo. Allo stesso modo, non hanno esitato a implementare poli-

34 B. S. Chimni, “The Geopolitics of Refugee Studies: A View from the South”, in Journal of RefugeeStudies, Vol. 11, n.4, 1998, p.350.35Questa espressione viene ora usate per riferirsi a tutte le politiche restrittive adottate in questo campo. Siriferisce anche all’attitudine di non consentire ai rifugiati e ai richiedenti asilo di stabilirsi permanente-mente nei paesi occidentali, quanto piuttosto di “aiutarli” a rientrare nei loro paesi di origine, in quelli chesi suppongono essere “ritorni sicuri”.36 Internally Displaced Persons. Il dibattito intorno alla figura dei profughi interni agli stati di origine èmolto attuale. Gli stessi infatti, non avendo lasciato lo stato soggetto della persecuzione non possono, teo-

27

tiche di ritorno di fatto “involontario”, mascherato da ritorno “volontario e sicuro”. In

realtà non è stata prestata alcuna attenzione all’uso effettivamente fatto dai paesi del

Terzo mondo dei fondi ricevuti, né di quali siano gli strumenti di cui gli stessi si avval-

gono nell’impedire ai richiedenti asilo di raggiungere i paesi occidentali37.

In tal modo, come meglio illustrato prima, la struttura stessa dell’U.N.H.C.R. è

cambiata: dall’essere un agenzia focalizzata nello studio e nella ricerca di strumenti

normativi di protezione e di soluzioni a lungo termine per tutti i richiedenti asilo, nel

tempo è divenuta un ufficio volto a gestire le emergenze, il quale ha a che fare ogni

giorno con la necessità di supplire ai bisogni immediati, essenziali e materiali dei ri-

chiedenti asilo. Tale cambiamento fa si che da istituzione di promozione ed implemen-

tazione del diritto l’Alto Commissariato sia ora, piuttosto, un agenzia il cui “focus prin-

cipale ora è l’azione umanitaria”38.

Per attuare questa trasformazione, è stata particolarmente sottolineata la neces-

sità che certi paesi del Terzo mondo sviluppassero un proprio approccio regionale alle

crisi, sostenendo che i rifugiati del Terzo mondo sono un problema che deve rimanere

circoscritto ad esso e da esso risolto, con l’uso dei propri mezzi e della propria normati-

va, anche se in realtà è la Comunità occidentale a decidere, attraverso le proprie norme,

quale spazio d’azione lasciare alle singole legislazioni di tali paesi in questo settore39.

Nello scenario appena descritto, risulta evidente che i paesi di origine dei rifu-

giati non hanno, né avranno, scelta; essi possono solo accettare il ruolo scelto per loro

dalle politiche internazionali, normative ed economiche, attuate dai paesi occidentali.

L’assunto alla base di tale ragionamento – cioè che avere a che fare con i flussi

di rifugiati sia più semplice per i paesi appartenenti alla stessa area geografica, o che vi

siano analogie culturali tra tali stati40 e che, comunque, vi sia una inerente responsabilità

ricamente, rientrare nel mandato dell’UNHCR. D’altro canto le loro similitudini con i rifugiati tout courthanno reso difficile affidarli ad un agenzia diversa e indipendente. Peraltro portare loro anche solo aiutiumanitari è sostanzialmente impossibile, se non si è autorizzati dal governo dello Stato di origine ad en-trare nel suo territorio. Non è difficile immaginare come tale autorizzazione manchi tutte le volte in cui èil governo centrale stesso il soggetto autore delle persecuzioni.37 Un chiaro esempio della criticità di questa scelta politica è il caso degli accordi bilaterali con la Libiache vedremo di seguito.38 G. Loescher, op. cit., p. 363.39 B. S. Chimni, The Law and Politics of Regional Solution of Refugee Problems: The Case of South Asia,Regional Centre for Strategic Studies, p. 1, www.rcs.org .40 Questo assunto è stato utilizzato anche durante i processi di colonizzazione e di de-colonizzazione,quando i paesi occidentali hanno disegnato i confini dei moderni stati africani, senza considerazione alcu-na alle differenze culturali, etniche, linguistiche, religiose e dei sistemi di valore che caratterizzavano le

28

di tali stati nelle crisi alla base dei flussi di asilanti – è solo uno strumento per spostare

nuovamente l’attenzione dal ruolo attivo che invece i paesi occidentali hanno nel creare

tali flussi.

I flussi di rifugiati sono, ora più che mai, un problema di tutta la comunità inter-

nazionale che non può essere risolto semplicemente spostandoli da una regione ad una

altra o ignorando le ragioni politico-economiche che li hanno determinati.

Se nei paesi occidentali abbiamo il potere di decidere a chi offrire e garantire

protezione internazionale e a chi no, mentre ai paesi a sud del mondo tale potere non è

concesso, allora abbiamo d’arbitrio definito due differenti gradi di protezione, uno di

gran lunga più esaustivo, sicuro ed inclusivo dell’altro.

La creazione stessa del concetto di protezione temporanea sottolinea che vi è

un’enorme differenza tra le nozioni di “asilo” e “rifugio”, come sono state teorizzate

dopo la seconda guerra mondiale e il modello di protezione che gli stati sono disposti a

garantire oggi41.

L’inasprirsi delle politiche in questo settore, non è più solo un attitudine tenuta

dai singoli stati, ma assume un particolare carattere di internazionalità, sponsorizzata

prevalentemente dagli stati occidentali.

Basti pensare alla c.d. Direttiva Rimpatri, ultimo pilastro nel settore approvato

dal Parlamento Europeo nel 2008, di cui vedremo i dettagli nella prima pare di questo

lavoro.

Ancora una volta la comunità occidentale, attraverso un documento normativo

occidentale, si arroga il diritto di decidere quale tipo di protezione offrire ai migranti e

ai richiedenti asilo e dove e come garantirla.

I paesi occidentali devono smettere di vedersi come vittime del fenomeno dei ri-

fugiati e devono riconoscere il loro ruolo attivo nella creazione delle crisi che originano

gli esodi di massa dei richiedenti asilo.

Da un lato lasciare la responsabilità di gestire la protezione internazionale solo ai

paesi del sud del mondo e, dall’altro, adottare politiche sempre più restrittive in Europa

e in Occidente, non può e non è stata fino ad ora la soluzione del problema.

popolazioni dei diversi territori. Tale approccio ha avuto poi, come illustra il caso del Sudan, conseguenzeenormi nella creazione dei flussi dei rifugiati.41 C. Harvey, Seeking Asylum in U.K. Problems and Prospects, Buttherworths, London, Edinburgh, Dub-lin 2000, p. 57.

29

In concreto tale attitudine ha creato più problemi di quanti ne ha risolti. I richie-

denti asilo, lasciati a loro stessi, senza protezione e assistenza hanno come sola alterna-

tiva, quella di andare ad ingrossare le fila del lavoro nero e della microcriminalità.

4. Il diritto d'asilo come "diritto ad avere diritt i".

Dall’analisi dei paragrafi precedenti emerge in maniera abbastanza chiara come

l’evoluzione del concetto normativo di “rifugiato” o “asilante” nelle sue formulazioni

iniziali come nella sua evoluzione, sia stata altamente politicizzata. I movimenti di mas-

sa dei richiedenti asilo sono il risultato di numerosi fattori politici economici e sociali

che coinvolgono l’intera comunità internazionale degli stati e che non riguardano solo il

singolo paese o il singolo conflitto. Allo stesso tempo l’emergere di una problematica

contemporanea internazionale relativa alla gestione dei flussi di rifugiati, sottolinea co-

me i singoli stati siano stati, e siano ancora, incapaci da soli di offrire soluzioni efficaci

e concrete a tale problema.

Il ΧΧ secolo è stato il secolo dei rifugiati, come probabilmente lo sarà anche il

ΧΧΙ, anche se con problematiche simili ma non identiche. Le due guerre mondiali han-

no infatti prodotto un’enorme massa di profughi, rifugiati e apolidi in fuga da uno stato

all’altro senza patria e, come tale, senza diritti.

Hannah Arendt, già a metà del secolo scorso, individuò le nuove caratteristiche

di questo fenomeno migratorio, date non solo dai numeri molto più elevati di quelli del

passato, ma anche dalle motivazioni alla base di tali migrazioni e dalle conseguenze che

esse portarono. Inoltre la Arendt fu la prima a mettere in luce il legame tra il sorgere di

questo tipo di migrazioni c.d. forzate e la crisi della struttura dello stato-nazione42.

L’analisi che la stessa porta avanti nel capitolo“Tramonto degli Stati nazionali e la fine

dei diritti umani”43, ne Le origini del Totalitarismo, in particolare, dimostra come, nel

periodo tra le due guerre, i flussi di profughi, espulsi dagli stati d’origine a causa delle

rivoluzioni politiche, e le minoranze etniche inglobate all’interno di territori, (i cui con-

fini geografici erano stati definiti da scelte politiche e da trattati di pace successivi alla

caduta dell’impero austriaco e di quello zarista), erano un forte sintomo di disomoge-

42 Il termine stato-nazione è stato utilizzato per indicare il particolare tipo di stato sorto alla fine del ΧΙΧ,in cui l’entità geopolitica e politica che caratterizza lo stato, e la nazione intesa come entità culturale edetnica coincidono all’interno dello stesso territorio.43 A. Lotto, “Diritti umani e cittadinanza in Hannah Arendt”, in Deportate, Esuli, Profughe, Studi sullaMemoria Femminile, n. 5, dicembre 2006, consultabile sul sito www.unive.it .

30

neità e denotavano la fragilità dello stato-nazione, tradotta in un’incapacità di assicurare

gli stessi diritti a tutti i suoi membri.

La violazione dei diritti umani fondamentali dell’individuo operata dai governi

degli stati nazionali ha sempre posto numerosi problemi teorici e pratici. In modo parti-

colare è stato osservato come i paesi del terzo mondo e, anche se in percentuale minore,

quelli dell’ex blocco sovietico, abbiano presentato un livello di violazione dei diritti

umani più alta. Tale circostanza risulta essere dovuta a quattro fattori principali: a) la

dichiarazione internazionale sui diritti dell’uomo è completamente permeata di valori

occidentali, b) nei paesi del terzo mondo e anche dell’ex blocco socialista vi sono stati

per lungo tempo regimi autoritari che mantenevano, e a volte ancora mantengono, il

controllo attraverso la violazione dei diritti umani c) i paesi del terzo mondo in seguito

all’individuazione dei confini operata in epoca coloniale e a causa dei numerosi proble-

mi di natura economica e politica che affrontano tendono ad attribuire minore importan-

za ai diritti umani rispetto ai paesi occidentali d) per tali stesse ragioni sia i paesi del

terzo mondo che quelli dell’ex blocco socialista vivono un instabilità politica più ele-

vata rispetto ai paesi occidentali, e ciò porta nuovamente alla repressione del dissenso

politico44.

All’interno di tale quadro, dunque, come vedremo45, le problematiche relative

all’asilo divengono in realtà problematiche relative alla responsabilità degli stati nella

protezione dei diritti umani fondamentali, nonché problematiche volte alla definizione

di tale responsabilità. Ne consegue che

“nella sua essenza e nella sua sostanza la normativa in materia di

asilo/rifugio non è una normativa in materia di immigrazione (…) ma,

piuttosto, un sistema che surroga o si sostituisce a quello di protezione dei

diritti umani”46

o, almeno, così dovrebbe essere. Lo status di rifugiato si configura, dunque, come

44 W. M. Evan, “Diritti umani, stato nazione e diritto transnazionale”, in R. Treves e V. Ferrari (a cura di),Sociologia dei diritti umani, Franco Angeli Editore, Milano 1989 p.43.45 Infra, paragrafo 6.46 J. C. Hathaway, The Rights of Refugees under International Law, cit., pag.5.

31

“una designazione categorica che riflette un solo diritto consequen-

ziale ed etico a presentare domande (di protezione ndr) nei confronti della

comunità internazionale” 47.

Come vedremo, sia nei prossimi paragrafi sia nei prossimi capitoli, tuttavia, que-

sto appello ad affrontare le problematiche del rifugio e dell’asilo in maniera etica è ri-

masto sostanzialmente inascoltato da parte della comunità internazionale. I tentativi po-

litici di istituzionalizzare un diritto all’asilo, nella prospettiva umanitaria appena de-

scritta, anche solo all’interno del diritto internazionale, infatti, sono per lo più falliti di

fronte alla continua richiesta da parte dei singoli stati di rispettare la propria sovranità

territoriale48.

All’interno di un sistema politico basato sulla sovranità nazionale, infatti, lo

status principale è quello di cittadino i cui diritti e doveri, qualunque sia la forma di go-

verno adottata, sono tendenzialmente individuati da una costituzione o un corpo norma-

tivo.

Nei paesi del terzo mondo a causa delle devastanti crisi economiche, i diritti dei

cittadini tendono ad ottenere poca importanza. Sebbene gli stati tendano a ratificare, le

convenzioni internazionali in materia, istituzionalizzandole all’interno dei propri stru-

menti normativi, nella pratica spesso le violano49 e questo comporta l’inevitabile crea-

zione di flussi di rifugiati, spesso anche di ingenti dimensioni.

Anche se il rifugiato e l’apolide di cui parla la Arendt avevano caratteristiche di-

verse da quelli contemporanei, ora come allora, l’istituzione stessa dello stato-nazione

gioca un ruolo molto importante nello sviluppo di una legislazione idonea, o meno, ad

offrire protezione ai profughi e ai rifugiati.

Il diritto d’asilo è da ritenere come l’“unico dei diritti che avesse sempre cam-

peggiato come simbolo dei diritti umani nella sfera delle relazioni internazionali”50. H.

Arendt, infatti, riteneva che il legislatore nella Déclaration des droits de l’homme et du

citoyen, avesse inteso i diritti fondamentali come diritti legati esclusivamente all’essere

47 J. C. Hathaway, “Forced Migration Studies: Could We Agree Just to Date?”, in Journal of RefugeeStudies, vol.20, 2007, pagg. 349-352, cit. pag. 350.48G. S. Goodwin-Gill, J. MacAdam, The Refugee in International Law, 3 ed, Oxford University Press,Oxford 2007, pagg. 355-364.49 Ibidem pag. 45-47.50 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 389.

32

uomini, senza dare alcuna importanza allo status politico-giuridico del singolo51. Di

fatto, però, i diritti fondamentali sono sempre stati strettamente collegati ad uno status

giuridico ed in special modo a quello del cittadino, come membro appartenente ad una

determinata comunità politica, stanziata su un determinato territorio. Ne consegue che

l’esclusione stessa del rifugiato, operata anche attraverso la normativa contemporanea,

dipende molto dalle nozioni di sovranità e di cittadinanza democratica-sociale52.

Attraverso la nozione legale della cittadinanza53, dunque, vengono attribuiti agli

individui diritti e doveri in virtù della loro appartenenza ad una comunità definita, stan-

ziata su un determinato territorio.

Già Marshall nella sua nota opera Citizenship and Social Class and Other Es-

says, aveva definito la cittadinanza come “un corpo di diritti e doveri, quello status che

si acquisisce in virtù di una piena appartenenza ad una comunità o ad una società”54.

Marshall illustra come nel XVIII secolo furono istituzionalizzati i diritti civili dei citta-

dini come la libertà di parola e l’uguaglianza davanti alla legge, nel XIX secolo furono

riconosciuti i diritti politici come il diritto di voto, nel XX secolo con il sorgere degli

stati del benessere furono riconosciuti i vari diritti sociali ed economici.

Per appartenere effettivamente ad una comunità specifica, la cittadinanza deve

conferire all’individuo tutti e tre i diversi tipi di diritti allo stesso tempo55. Il modello di

cittadinanza che viene delineato nell’opera di Marshall fa riferimento ad una determi-

nata comunità, cha ha in comune un identità etnica e culturale, stanziata su un territorio

definito, all’interno dei confini di un organizzazione politica statale. In concreto, l’opera

di Marshall, osservava e traeva ispirazione da quella che era la cittadinanza nel Regno

Unito intorno agli anni quaranta e non era pertanto adeguata a confrontarsi con le evolu-

51 P. Belloli, Fenomenologia del diritto d’asilo, in B. M. Bilotta e F. A. (a cura di), Il diritto d’asilo, cit.,pag. 143.52 A. Babacan, “Citizeship Rights in a Global Era: The Adequacy of Human Rights Law in ProvidingProtection to Asylum Seekers”, in Uluslararası Hukuk ve Politika Cilt 3, No:9 ss.158-170, 2007.53 Non è questa la sede per un’analisi approfondita dell’evoluzione storico politica della nozione di citta-dinanza. Tuttavia per meglio comprendere i passaggi dalla nozione di cittadinanza repubblicana a quellaliberale ed, infine, a quella democratica e sociale si veda: R. Bellamy, Tre modelli di cittadinanza, in D.Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994 e anche B. S.Turner, Contemporary Problems in the Theory of Citizenship, in B. S. Turner (a cura di), Citizenship andSocial Theory, Sage, London 1993, nonché A. La Spina, Cittadinanza, diritti e stato regolatore, in V.Ferrari, P. Ronfani, S. Stabile (a cura di), Conflitti e diritti nella società transnazionale, Franco Angeli,Milano 2001.54 T.H. Marshall, Citizenship and Social Class and Other Essays, Cambridge University Press 1950,Cambridge pagg. 8-9.

33

zioni che la società contemporanea ha dovuto affrontare né con le problematiche sorte

in seguito all’avvento dei flussi massivi di rifugiati.

Tra le varie critiche mosse alla teoria della cittadinanza di Marshall due sembra-

no essere particolarmente attinenti alla situazione contemporanea onde individuare gli

attuali limiti della nozione stessa di cittadinanza: la prima riguarda il carattere espansivo

della cittadinanza e della sua tensione verso l’uguaglianza; la seconda riguarda il fatto

che l’autore non abbia in alcun modo considerato la relazione tra “insiders e outsiders”56, tra cittadini e immigrati, limitandosi a considerare i diritti che conferisce la cittadi-

nanza, ma non i limiti dei criteri di attribuzione della stessa .

Per numerosi autori, infatti, quali tra gli altri Danilo Zolo e Luigi Ferrajoli, la

cittadinanza non porta gli individui su un piano di uguaglianza, quanto, al contrario, di

disuguaglianza57; e sopratutto la nozione contemporanea di cittadinanza caratterizzante i

paesi occidentali rappresenterebbe anche “l’ultimo privilegio di status, l’ultimo fattore

di esclusione e discriminazione, l’ultimo relitto premoderno delle disuguaglianze per-

sonali in contrasto con la conclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamen-

tali”58. Nel pensiero di Ferrajoli dunque la dicotomia “diritti dell’uomo-diritti del citta-

dino” dovrebbe essere superata e i medesimi diritti fondamentali dovrebbero essere ri-

conosciuti a tutti gli uomini e a tutte le donne del mondo, semplicemente in quanto esse-

ri umani. Ciò potrebbe avvenire o sopprimendo la cittadinanza come status privilegiato

a cui conseguono diritti non riconosciuti ai non cittadini, o al contrario istituendo una

cittadinanza universale59. Infatti “soltanto se una cittadinanza di tipo democratico non si

richiude in senso particolaristico, essa può preparare la strada a quello status di cittadi-

nanza cosmopolitica già oggi profilantesi nelle comunicazioni politiche su scala plane-

taria”60.

55 S. Castles, “Citizenship and the other in the Age of Migration”, in A. Davidson e K. Weekley (a curadi), Globalisation and Citizenship in the Asia Pacific, MacMillan Press Ltd, Londra 1999, pagg. 27-4856 S. Benhabib, The Rights of the Others. Aliens, Residents and Citizens 2004, I diritti degli altri. Stranie-ri, Residenti e Cittadini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 138.57 D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità,diritti , Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 25-26.58 L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in D. Zolo (a cura di), Cittadinanza. Ap-partenenza, identità, diritti, cit., p. 288.59 L. Ferrajoli, op. cit., p. 291.60 J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischenRechtsstaats, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1992, ed. it. Morale, diritto, politica, trad. di L. Cep-pa, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 136.

34

Per quanto concerne il secondo punto critico evidenziato, oltre al silenzio di

Marshall sull’argomento, anche nella maggior parte delle teorie sulla cittadinanza elabo-

rate in epoca moderna, il problema del meccanismo attraverso il quale riconoscere chi

sia o non sia cittadino è stato a lungo tralasciato. Stante però le evoluzioni del mondo

contemporaneo non può non essere considerato paradossale il fatto che vi siano dei di-

ritti fondamentali garantiti a tutti gli individui in quanto tali, mentre allo stesso tempo,

nei fatti, la garanzia e l’implementazione degli stessi sia ancora affidata alla sovranità

dei singoli stati nazionali; in questo modo, infatti, i diritti e le rivendicazioni degli stessi

diventano universali, ma l’identità è tuttora concepita come particolaristica e legata a

determinate nazioni, regioni o etnie. In tale tensione dialettica,

“gli stati-nazione e i loro confini continuano ad esistere, riaffermati

dalle prassi sulla regolazione dell’immigrazione e dalle forti identità nazio-

nali, ma allo stesso tempo i diritti umani universali fanno emergere un nuo-

vo modello e un nuovo intendimento della cittadinanza. Di conseguenza, un

modello più universalistico di appartenenza e di diritti giunge a contestare

l’esclusivo modello di cittadinanza ancorato alla sovranità nazionale”61.

Se, dunque, nonostante le differenti premesse poste dall’illuminismo, l’avere ed

esercitare diritti è possibile solo attraverso l’appartenenza ad una comunità politica de-

terminata, il diritto d’asilo diviene una sorta di banco di prova dei diritti umani in

quanto tali, che non riescono ad essere garantiti, confrontandoli con quelli del cittadino.

La necessità stessa di un diritto d’asilo, d'altronde, sottolinea la differenza tra

chi appartiene ad una comunità politica, ad uno stato-nazione, e vi è dunque incluso e

possiede diritti, proprio in virtù di questa appartenenza, e chi, come i rifugiati o gli apo-

lidi, non vi appartiene più e ne è dunque escluso.

Hannah Arendt credeva che solo una comunità politica democratica e il diritto

potessero garantire l’uguaglianza e che solo l’uguaglianza giuridica e politica potessero

garantire il pluralismo e la giustizia62. L’appartenenza ad una comunità politica è un be-

ne primario e solo all’interno di essa, attraverso il diritto, gli uomini possono essere li-

beri ed uguali.

61 Y. Soysal, Limits of Citizenship. Migrants and Postnational Membership in Europe, The University ofChicago Press, London 1994, p. 8.62 J. De Lucas, “Fundamentos filosóficos del derecho de asilo”, Derechos y Libertades, 1995, 4, pp. 23-55.

35

Per questa ragione la non appartenenza ad una comunità politica priva l’uomo di

un luogo in cui essere e in cui godere dei suoi diritti: “La privazione dei diritti umani si

manifesta nella mancanza di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle

azioni un effetto”63. Ed è esattamente questa la situazione in cui, pur con caratteristiche

diverse, si trovano rifugiati ed apolidi.

Se l’appartenenza ad una comunità politica, la cui massima espressione si con-

cretizza nel vincolo della cittadinanza, è il solo modo di esercitare i proprio diritti, la

separazione tra cittadino e rifugiato, l’altro, l’escluso, aumenta sempre di più. Ed è pro-

prio questa contrapposizione tra il cittadino, interno alla comunità e, allo stesso tempo,

al territorio e il rifugiato, considerato un outsider sia politicamente che fisicamente, a

rendere la sovranità dello stato-nazione in questione l’ago della bilancia nel rapporto in-

clusione-esclusione dei c.d. altri64.

Lo stato infatti si serve del diritto per istituire sia la categoria dello straniero in

generale, che quella del rifugiato come straniero particolare, verso cui attua politiche di

esclusione che, nelle loro forme più estreme, ormai sempre più diffuse, realizzano un

allontanamento dello stesso oltre i confini65.

L’identità del rifugiato viene dunque ad essere disegnata dal diritto, che esclu-

dendolo dallo stato-nazione lo pone in una sorta di limbo, giuridico e politico, “in mezzo

agli stati sovrani”, invece che all’interno di uno di essi66.

Non solo ma, a differenza dei migranti economici, la posizione dei rifugiati di-

viene ancora più critica poiché nei loro confronti l’esclusione è si attuata dallo stato in

cui essi cercano di entrare ma, allo stesso tempo, sono privi di uno stato in cui tornare, o

in cui poter essere rinviati. Il migrante economico, pur ponendo dei problemi all’identità

culturale dello stato ospitante che cerca di escluderlo, si inserisce comunque nella nor-

male relazione stato-cittadinanza, in quanto lascia il proprio paese in cerca di migliori

condizioni di vita, facendo una scelta, ma continua ad appartenervi e può, eventual-

mente, farvi ritorno. Il rifugiato non ha avuto scelta nel lasciare la propria terra natia, è

stato costretto ad abbandonare la propria comunità politica di appartenenza e a pre-

sentarsi alle porte di un ipotetico stato ospitante chiedendo protezione67. È stato osser-

63 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pag. 410.64 J. De Lucas, Fundamentoso filosóficos del derecho de asilo, cit., pag. 32.65 J. De Lucas, op. cit., pag. 32.66 E. Haddad, The Refugee in International Society, Cambridge University Press, UK 2008, pag. 7.67 Ibidem.

36

vato, tuttavia, come in realtà le condizioni che originano i flussi di migranti economici

siano strettamente collegate alle condizioni alla base delle migrazioni forzate e come ciò

comporti la creazione di movimenti migratori di individui mossi da “motivazioni mi-

ste” 68 la cui gestione risulta, pertanto, sempre più problematica.

Il rifugiato è dunque un individuo che ha perso tutto; ove con questa espressione

si devono considerare non solo i beni materiali che possedeva, come la casa e le pro-

prietà, ma anche i c.d. beni immateriali, come il lavoro, le amicizie, la famiglia, la fami-

liarità con i luoghi, la cultura, la lingua e spesso anche con il clima. È un individuo che,

da un lato, ha sostanzialmente perso la propria identità e dall’altro, se resta privo di

qualsiasi status giuridico, perde anche il suo diritto ad essere titolare di diritti. Infatti,

nel momento in cui il suo governo gli nega in qualunque modo protezione, il rifugiato

resta privo di uno status giuridico nel suo paese di origine e non ne possiede uno in un

altro stato. Secondo H. Arendt è questo l’aspetto più difficoltoso dell’essere rifugiato:

perdere il legame giuridico con la propria comunità politica di appartenenza e non esse-

re membro della comunità politica in cui si giunge. Al rifugiato rimane, quale unica al-

ternativa, la possibilità di far valere i propri diritti solo nei confronti della comunità in-

ternazionale69.

In questo modo la figura del rifugiato pone in crisi la nozione stessa di

“umanità” dei diritti fondamentali dell’uomo, che non risultano in alcun modo garantiti

a chi non sia allo stesso tempo anche cittadino di uno stato. L’uomo in quanto tale, sen-

za status politico, risulta spogliato delle qualità necessarie per essere trattato dagli altri

individui come un loro simile70. Infatti, il rifugiato non ha solo perso tutti i suoi diritti,

ma allo stesso tempo non appartiene più ad una comunità politica e, come tale, ha perso

la sua dignità. “L’individuo può perdere tutti i cosiddetti diritti umani senza perdere la

sua qualità essenziale di uomo, la sua dignità umana. Soltanto la perdita di una comu-

nità politica lo esclude dall’umanità”71. Senza poter, dunque, ricorrere alle istituzioni

politiche a cui solo la cittadinanza consente di rivolgersi, i richiedenti asilo possono solo

sperare nel senso di umanità delle comunità a cui si rivolgono, nell’aiuto da parte di or-

68 S. Kneebone (a cura di), Refugees, Asylum Seeker and The Rule of Law, Cambridge University Press,Cambridge 2009, pag. 23.69 M. Kelly, “A New Humanitarian Paradigm for Understanding the Right of Asylum: Responses toArendt and Derrida”, 21.02.2010, The Journal of Humanitarian Assistance,http://sites.tufts.edu/jha/archives/649 .70 H. Arendt, op. cit., pag. 416.

37

ganismi non governativi e nella collaborazione della polizia di frontiera dei paesi limi-

trofi al loro, ma “non possono dare voce alle proprie necessità come (fossero ndr) una

questione di diritti”72.

Ci si rese conto dell’esistenza di un diritto ad avere diritti e della necessità di

appartenere ad una comunità politica per esercitarlo, solo quando il fenomeno dei flussi

dei profughi e dei rifugiati in Europa assunse dimensioni tali che non fu più possibile

ignorarlo. Ciò nonostante abbiamo visto come le varie organizzazioni internazionali che

hanno affrontato il problema in quegli anni e vedremo nello specifico come la Conven-

zione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, risultato finale del dibattito normativo e

politico illustrato nei paragrafi precedenti, non abbiano tenuto conto del carattere

“massivo” – (rectius: di massa) – degli esodi dei rifugiati e della necessità di regolare

quel particolare tipo di fenomeno ma abbiano istituzionalizzato, una definizione dello

status da accordarsi ai rifugiati, fondata su caratteristiche strettamente individuali.

Il diritto ad avere diritti non può, secondo la Arendt, essere cercato nelle catego-

rie dei diritti naturali del ΧVΙΙΙ secolo, perché “esse presuppongono che i diritti scatu-

riscano immediatamente dalla natura stessa dell’uomo” 73, cosa che nella realtà si è ri-

velata impossibile, poiché gli unici diritti che si è riusciti a riconoscere e a difendere so-

no i diritti civili o politici, cioè quelli strettamente connessi alla cittadinanza. Ella rite-

neva che il “diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo di appartenere

all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”74. È la stessa umanità,

pertanto, a dover elaborare un modo per riconoscere l’appartenenza ad una comunità

politica a tutti gli individui e non i governi dei singoli stati e neppure una singola istitu-

zione sopranazionale anche se, per la Arendt stessa “non è affatto certo che questo sia

possibile”75.

Il rifugiato, pertanto, se non ottiene il riconoscimento di uno status giuridico, il

rifugio o l’asilo politico, resta privo di una comunità di appartenenza e della possibilità

di godere ed esercitare i suoi diritti. Come tale, il diritto d’asilo risulta essere condizione

71 H. Arendt, op. cit., pag. 412.72 M. Kelly, op. cit., pag. 3.73 H. Arendt, op. cit., pag. 412.74 H. Arendt, op. cit., pag. 413.75 H. Arendt, op. cit., pag. 413.

38

non sempre “necessaria ma sufficiente per la garanzia del godimento dei diritti uma-

ni” 76.

Tale diritto può realizzarsi solo all’interno di una comunità politica in cui gli in-

dividui vengono riconosciuti e valorizzati per le proprie opinioni ed azioni77. Nono-

stante quella descritta da H. Arendt sembri essere una comunità politica simile a quella

della nazione civica in cui l’appartenenza, che corrisponde alla cittadinanza, viene ac-

quisita in base allo jus soli, l’autrice mantenne una forte diffidenza verso la capacità

dello stato-nazione di poter realizzare la giustizia e l’uguaglianza per tutti78, proprio a

causa della struttura stessa di tale modello di stato che genera l’esclusione di chi sia

esterno al territorio, perché privo dello jus soli e dello jus sanguinis.

Il sistema stesso degli stati nazionali si è da sempre dovuto scontrare con il con-

flitto tra tutela dei diritti umani e sovranità nazionale. H. Arendt riteneva che i naziona-

lismi fossero comunque sbagliati poiché ponevano l’accento su caratteristiche unifican-

ti, quali la cultura, l’etnia o la lingua che non erano elementi politici, ma venivano ap-

plicati alla politica79. Per poter parlare di uguaglianza all’interno di una comunità politi-

ca è necessario che essa venga distinta dal concetto di uguaglianza culturale, etnica o

religiosa. “L’uguaglianza civica non si riferisce all’identico, bensì prevede il rispetto

della differenza”80.

H. Arendt, pur criticando la struttura dello stato-nazione, lo considerò come un

dato da accettare e da cui non si poteva prescindere. Ed effettivamente sino alla metà del

secolo scorso era così. Tuttavia, gli stati nazionali, pur continuando ad esistere, hanno

subito vicende che ne hanno modificato l’assetto, così come si è modificato il mondo di

cui fanno parte.

Il fenomeno dei rifugiati, caratterizzato da una continua espansione e cambia-

mento dopo la seconda guerra mondiale, è stato affidato come abbiamo visto81 alla tu-

tela e alla gestione delle Agenzie delle Nazioni Unite che, tuttavia, allo stesso modo dei

singoli stati, non sono state in grado né di affrontare, né tanto meno di risolvere, i pro-

blemi ad esso inerenti. Nel tempo, le problematiche relative all’asilo, come avremo

76 P. Belloli, Fenomenologia del diritto d’asilo, in B. M. Bilotta e F. A. Cappelletti (a cura di), Il dirittod’asilo, cit., pag. 144.77 S. Benhabib, I diritti degli altri .Stranieri, Residenti, Cittadini, cit. pag. 47.78 S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, Residenti e Cittadini, cit., pag. 48.79 Ibidem.80 Ibidem.

39

modo di vedere nel proseguo di questo lavoro, sono state trasferite, da un lato, nelle

mani delle organizzazioni non governative locali e, dall’altro, in quelle della polizia82.

Come è emerso dalla lettura dell’opera di Hannah Arendt, la ragione di questo

fallimento non è dovuta solamente all’incapacità degli organi amministrativi di gestire

questo fenomeno, ma dalla struttura stessa dello stato-nazione che fa discendere

l’attribuzione e l’esercizio di determinati diritti alla nascita su un certo territorio e che

persiste nel voler esercitare il controllo sulle proprie frontiere e sui flussi migratori e,

quindi, all’interno di essi sui rifugiati e sui loro diritti83.

Come ho illustrato brevemente in precedenza, lo scopo di questa ricerca è quello

di analizzare la disciplina internazionale e quelle italiana e britannica in materia d’asilo

onde dimostrare come, di fatto, le stesse non siano sufficienti a garantire le protezione

che dovrebbero ai richiedenti asilo.

Tale circostanza non è semplicemente dovuto alla lentezza ed inefficienza degli

apparati amministrativi ma, come emerge dalle idee di H. Arendt appena esaminate, è

strettamente legata al sistema stesso dello stato-nazione. Infatti, all’interno della struttu-

ra politica di questo tipo di stato non c’è spazio per l’uomo in sé stesso84. Tale conside-

razione è confermata dal fatto che, anche nelle ipotesi in cui lo status di rifugiato viene

riconosciuto, esso ha quasi sempre carattere temporaneo prevedendosi, poi, la naturaliz-

zazione tramite acquisizione della cittadinanza o, nella maggior parte dei casi per i rifu-

giati c.d. de facto o per coloro destinatari della protezione temporanea, il rimpatrio che

dovrebbe essere, ma non sempre è, volontario. I nuovi fenomeni di globalizzazione che

da un lato hanno reso labili la sovranità e i confini dei singoli stati, e dall’altro hanno

dato vita a nuovi fenomeni economici che hanno alimentato i fenomeni migratori, hanno

ridisegnato la normativa internazionale e nazionale sull’asilo, improntandola più al

controllo dell’immigrazione irregolare e alle necessità di sicurezza dei singoli stati

ospitanti che non alla necessità di offrire concretamente protezione ai richiedenti asilo.

Gli stati, non disposti a cedere più dello stretto necessario della propria sovranità, hanno

reagito alle sollecitazione poste dalla globalizzazione con una sorta di chiusura delle

81 Si veda supra.82 G. Agamben, Mezzi senza fine, 1996, Means without end, University of Minnesota Press, Minneapolis2000.83 L. Morris, “Le politiche migratorie in Europa: un campo di battaglia per i diritti”, La Critica Sociologi-ca, n.143-144, Inverno 2002, pag. 81.84 Traduzione personale dall’inglese in G. Agamben, Means Whitout End, cit.

40

frontiere sempre più drastica e serrata. In questa lotta allo straniero, all’altro, in quanto

proveniente dall’esterno, sono rimasti coinvolti anche i rifugiati, gli asilanti e i profughi

interni, che ancora oggi faticano ad essere oggetto di normative che ne regolino la pro-

tezione e gli status giuridici in modo esauriente e soprattutto efficace.

5. La crisi dello stato-nazione e la globalizzazion e

Come ho accennato nel paragrafo precedente ritengo che la struttura giuridico-

politica dello stato-nazione sia in crisi e che questa crisi abbia portato gli stati stessi ad

attuare, soprattutto nel settore dell’immigrazione, delle politiche rigide, caratterizzate da

atteggiamenti e misure di forte chiusura.

Quando parlo di stato-nazione mi riferisco a quella tipologia di stato che iniziò a

svilupparsi in Europa dopo la firma della Pace di Westfalia85 e che assunse una serie di

connotati ben precisi, in seguito alla Rivoluzione Francese.

Questo modello di stato era caratterizzato dalla coesistenza all’interno di uno

stessa nazione di tre elementi: stato, società ed economia86, e, pur con i suoi difetti, era

stato il primo all’interno del quale i processi democratici repubblicani avevano potuto

radicarsi ed esprimersi, in maniera concreta. “Lo Stato moderno è nato sia come stato

amministrativo e fiscale, sia come stato territoriale dotato di sovranità; e solo nel qua-

dro di uno stato nazionale esso ha potuto svilupparsi diventando stato democratico di

diritto e stato sociale”87.

Tuttavia, vedremo come questa tipologia di stato sia stata messa duramente alla

prova dal verificarsi di tutta quella serie di eventi economici, politici, commerciali e

culturali che, considerati nel loro complesso, prendono il nome di globalizzazione88.

Tra le molte definizioni di tale nozione che sono state date e a cui si rinvia89, risulta in-

85 La Pace di Westfalia fu stipulata nel 1648 e pose fine alla Guerra dei Trent’Anni. In seguito iniziò asvilupparsi il concetto dello stato-nazione, che pertanto viene anche definito stato westfaliano.86 J. Habermas, Die Postanationale Konstellation, 1998, La costellazione postnazionale, Mercato globale,nazioni e democrazia, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Campi del Sapere, Milano 2002.87 J. Habermas, La Costellazione postnazionale, cit., pag 34.88 Per un’analisi accurata del fenomeno della globalizzazione, si veda Ulrich Beck, What Is Globaliza-tion?, Polity Press, Cambridge 2001, ove l’autore individua la natura del nuovo fenomeno, riassumibilenel motto “think global, act locally” (per indicare le connessioni tra gli spazi globali e quelli locali), inalmeno tre elementi: la capacità delle società multinazionali di “esportare lavoro in quelle parti del mon-do dove il lavoro costa di meno”; la tecnologia moderna che, attraverso i computer, annulla le distanzespaziali e fa sì che “la prossimità mondiale distribuisca beni e servizi”; la capacità del potere economicoglobale di “influire sulle decisioni politiche”.89 Si veda la nota precedente.

41

teressante ai nostri fini, come vedremo, quella coniata da A. Giddens il quale definì la

globalizzazione come “l’addensarsi di quelle relazioni internazionali che producono un

reciproco condizionamento tra eventi locali ed eventi geograficamente lontani”90.

La moderna forma di stato-nazione era, ed è ancora, fondata sulla presenza di

una comunità politica, stanziata all’interno di un determinato territorio. Il principio di

territorialità che la caratterizza fa sì che, onde regolare le relazioni internazionali e ri-

conoscere l’esistenza delle altre comunità politiche, debba essere rispettata la sovranità

nazionale di ciascuno stato. Devono, sostanzialmente, esserne rispettate le frontiere;

ogni superamento delle frontiere di uno stato che non sia espressamente autorizzato,

viene considerato una violazione del principio di sovranità statale.

Inoltre, un’ulteriore caratteristica dello stato nazionale è legata alla presenza

della popolazione, che non deve essere sparsa sul territorio per divenire parte della co-

munità politica ma, al contrario, deve essere “culturalmente integrata. Quest’obbiettivo

viene realizzato dall’idea di Nazione”91. Tuttavia, ciò che rende unico la stato-nazione

è “la modalità democratica della legittimazione del potere”92. Infatti lo stato-nazione

sostituisce l’antica idea dello stato governato da un sovrano dispotico ed unico detento-

re del potere, con quella di un governo basato sulla legittimità popolare e all’interno del

quale possono trovare finalmente espressione le voci di tutti i membri della comunità

politica ed essere affermati e protetti i diritti civili e politici. “L’invenzione della nazio-

ne” fece si che per la prima volta i sudditi potessero considerarsi, e diventare, cittadini

politicamente attivi. L’essere membri della stessa nazione creò tra di loro, originaria-

mente estranei, un “vincolo di solidarietà”. “Sulla base dunque di una nuova modalità di

legittimazione, lo stato-nazione rese possibile una più inedita e più astratta forma di in-

tegrazione sociale”93.

La legittimità della nozione stessa di stato-nazione è stata supportata dal con-

cetto di sovranità statale, che si sostanzia nell’esercizio del potere dello stato su un de-

terminato territorio, popolazione o area. La legittimità stessa della sovranità è dovuta sia

a fonti di legittimazione interne, derivando o dal consenso popolare o dalla capacità

90 A. Giddens, The Consequences of Modernity, Cambridge 1990, pag. 64 in J. Habermas, L’inclusionedell’altro, pag. 134.91 J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., pag. 36.92 Ibidem, pag. 37.93 J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Studien zur politischen Theorie, 1996, L’inclusionedell’altro, Universale Economica Feltrinelli –Saggi, Milano 2008, pag. 125.

42

dello stato di mantenere l’ordine sul territorio, sia a fonti di legittimazione esterne, es-

sendo basata sul reciproco riconoscimento degli altri stati94.

Questa struttura, pur essendo, secondo alcuni studiosi, in crisi già tra le due

guerre mondiali95, ha comunque mantenuto una certa forza e credibilità nello scenario

europeo fino alla fine degli anni settanta, quando hanno iniziato ad affermarsi i c.d.

“processi di globalizzazione” . Infatti, non solo i processi commerciali ed economici, ma

anche quelli culturali sono stati sempre più caratterizzati dalla velocità e dalla dimen-

sione globale. Le transazioni, così come le comunicazioni, non erano più vincolate

all’interno dei singoli stati nazionali, ma potevano avvenire praticamente ovunque ed in

qualunque momento. Le relazioni economiche furono tuttavia quelle più fortemente in-

fluenzate dalle nuove strutture e possibilità offerte dalla globalizzazione e, assumendo

sempre di più un carattere trasnazionale e globale, modificarono inevitabilmente anche

le economie nazionali. Basti semplicemente pensare all’aumento delle transazioni tra i

diversi stati riguardanti l’acquisto e la vendita di prodotti industriali, all’avvento delle

grandi corporations, dotate di catene di produzione vastissime sparse su tutti i conti-

nenti, nonché all’incredibile rapidità, ottenuta tramite la tecnologia, nello spostamento

di capitali e nella realizzazione di operazioni finanziarie. Il risultato è stato una crescita

incredibile della concorrenza a livello internazionale e l’avvento sostanzialmente di un

tipo di economia nuovo, “l’economia globale”96, non ancora regolato e, in realtà, date

le sue stesse caratteristiche, molto difficile da regolare.

La tecnologia e le nuove modalità di circolazione dei capitali hanno modificato

il controllo effettivo che si può avere su di essi. Per diventare più potenti e necessario

essere più veloci. “A comandare non è più chi ha la «sovranità sul territorio», bensì chi

dispone della «velocità superiore» , e questo fatto sembra minacciare l’autonomia dello

Stato nazionale” 97. Infatti i processi di globalizzazione hanno comportato necessaria-

mente “l’ampliamento e la fluidificazione dei rapporti di scambio e di comunicazione

94 A. Betts, Forced Migration and Global Politics, Wiley-Blacwell, UK 2009, pag.43.95 Si veda supra, paragrafo 1, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.96 R. Cox, “Democracy in Hard Times”, in A. Mc Grew, The Transformation of Democracy?, Cambridge1997, in J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., pag. 40.97 J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., pag. 40.

43

oltre le frontiere nazionali, che a sua volta innesca un processo di esautoramento dello

stato nazione e del sistema post-westfaliano”98.

La globalizzazzione, pertanto, ha comportato la necessità di elaborare una serie

di nuovi strumenti legali, idonei ad interagire e a regolare i nuovi fenomeni.

I governi degli stati-nazionali spaventati dalla fuga di capitali hanno messo in

moto una competizione continua onde abbassare i costi e attirare investitori attraverso i

c.d. processi di deregulation, che hanno però avuto come unico risultato concreto quello

di creare una disomogeneità molto elevata nei redditi, di aumentare la disoccupazione e

di marginalizzare ulteriormente le categorie di individui più povere. Gli Stati hanno per-

so, sostanzialmente, il controllo sulle proprie economie interne nel tentativo di seguire

l’evolversi di quella c.d. globale. La perdita di controllo sulle proprie economie si è tra-

dotta in una perdita di credibilità delle stesse strutture politiche e dei loro meccanismi di

funzionamento. “I presupposti fiscali della politica sociale si riducono proprio mentre

diminuisce la capacità di macroregolazione economica. […] si allenta anche

l’integrazione tradizionale della forma nazionale di vita, in quanto viene scossa la base

relativamente omogenea della solidarietà civica. Ad uno Stato nazionale limitato nel

proprio raggio d’azione e turbato nell’identità collettiva diventa sempre più difficile

coprire il proprio fabbisogno di legittimità”99.

Tali fenomeni influenzarono fortemente il ruolo stesso dello stato, “le tre colon-

ne su cui si reggeva la sovranità erano state incrinate e non le si poteva più restaurare.

L’autosufficienza militare, economica, e culturale o meglio, la capacità auto propulsiva

a sostenersi da parte di uno stato – di qualsiasi stato – cessò di essere una prospettiva

perseguibile” 100.

Come abbiamo visto101, gli stati hanno dovuto limitare e cedere parte della pro-

pria sovranità statale fin dalla Prima Guerra Mondiale, quando hanno delegato alla So-

cietà delle Nazione il compito di risolvere il problema creato dalle minoranze e quando,

dopo la Seconda Guerra Mondiale, hanno iniziato a divenire parte dei vari organismi

sovrastatali, onde gestire le loro relazioni reciproche. Con l’avvento della globalizzazio-

98 S. Masiello, Punti di Fuga. Prospettive sociologiche sul diritto di asilo e i rifugiati in Italia, LiguoriEditore, Napoli 2007, pag. 44.99 J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., pag. 58-59.100 Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences 1998, Dentro la globalizzazione. Le conseguen-ze sulle persone, Economica Laterza, Roma-Bari 2007, pag. 72.101 Si veda supra, paragrafo 1.

44

ne questo fenomeno si è ancora più accentuato e la sovranità si è spostata dalla sua ori-

ginaria posizione all’interno dello stato-nazione, verso una dimensione sopranazionale,

diventando così sempre più decentrata102.

Gli stati, infatti, volendo restare al passo con gli sviluppi della globalizzazione

hanno dovuto cedere frammenti, via via sempre più grandi, della propria sovranità ad

organismi quali l’Unione Europea, il WTO, la Banca Mondiale e le varie organizzazioni

istituite per l’implementazione e la tutela dei diritti umani.

Tuttavia, è apparso piuttosto evidente, nel corso di questi anni, che quando si

tratta di dover aprire le proprie frontiere per ragioni economiche a capitali esteri o ad

altre operazioni commerciali, gli stati risultano estremamente aperti e disponibili. Men-

tre non lo sono altrettanto quando si tratta di dover accogliere e gestire un’altra delle

conseguenze della globalizzazione e precisamente l’aumento dei flussi migratori.

Dalla prospettiva propria dei paesi occidentali l’aumento degli arrivi dei c.d.

migranti economici, così come quello dei rifugiati, viene percepito come un problema di

cui gli stati si sentono vittime, ma in cui ritengono di non avere nessun ruolo attivo.

Tuttavia le migrazioni, comprese quelle forzate dei rifugiati, sono una conseguenza di-

retta di quelle nuove condizioni economiche e geopolitiche create dalla globalizzazio-

ne103, che ho appena descritto.

In questo nuovo scenario la tradizionale divisione territoriale tra chi è dentro e

chi è fuori dallo stato e il rapporto inclusione/esclusione, iniziano, o dovrebbero inizia-

re, a perdere di senso. E con essa inizia ad essere svuotata dei suoi significati originali

anche la nozione tradizionale di “sovranità”, infatti “ciò che in realtà “non funziona”

quando i rifugiati appaiono è che la teoria e la pratica del sistema internazionale degli

stati e il concetto di sovranità su cui si basa non riescono più a coincidere”104

La crisi dello stato-nazione sostanzialmente finisce con l’erodere la sovranità

degli stati da una parte, ma offre loro la possibilità di riaffermarla e rafforzarla

dall’altra.

Il problema della protezione dei rifugiati ha portato alla luce in maniera sempre

più vistosa le tensioni tra la protezione dei diritti umani da un lato e l’affermazione della

102 Traduzione personale dall’inglese S. Sassen, Loosing Control. Sovereignty in an Age of Globalization,Columbia University Press, New York 1995, pag. 33.103 S. Sassen, Guests and Aliens, The New Press, New York 1999, pag. 1.104 Traduzione personale dall’inglese in E. Haddad, op. cit., pag.4.

45

sovranità statale dall’altro105. Offrire tutela effettiva ai rifugiati, che non sono più ap-

partenenti ad una comunità politica, equivale a garantire un tutela sempre più forte ai di-

ritti dell’uomo in quanto tale e a svuotare di valore il concetto della cittadinanza, come

veicolo necessario e sufficiente ad essere titolare di tali diritti106.

La reazione immediata degli stati nazionali è quella di mettere in moto una serie

di meccanismi difensivi; primo fra tutti quello, già accennato, della chiusura delle fron-

tiere, istituendo anche all’interno dei propri territori dei meccanismi di controllo sempre

più rigidi, onde riaffermare la propria sovranità.

Infatti, nella prima metà del secolo scorso, il rifugiato veniva considerato come

una categoria a parte rispetto al fenomeno generale dei migranti economici, in quanto si

riteneva che fuggisse per ragioni assolutamente fuori dal suo controllo, lasciando uno

stato che non solo non era in grado di garantirgli protezione, ma era anzi un agente di

persecuzione107.

Negli ultimi anni, tuttavia, questo orientamento è cambiato e le politiche degli

stati europei sembrano orientate sempre di più ad assorbire il fenomeno dei rifugiati e

degli asilanti all’interno del più vasto fenomeno dell’immigrazione, con particolari ac-

centi sul suo carattere clandestino. La criminalizzazione dell’immigrato clandestino si

ripercuote inevitabilmente sulle sorti del rifugiato, che non viene più distinto dal gruppo

generico degli stranieri agli occhi dell’opinione pubblica, ma anzi si trova in una posi-

zione a volte ancora più svantaggiata poiché nella quasi totalità dei casi raggiunge il

paese d’asilo in maniera clandestina.

I governi degli stati nazionali europei hanno improntato la loro attività legislati-

va in materia di immigrazione al fine di attuare una politica che sia sempre più rivolta al

controllo della sicurezza dello stato e al controllo dell’immigrazione di ogni tipo.

L’obbiettivo proprio delle politiche in materia d’asilo, cioè il garantire protezio-

ne all’asilante, è stato ora sostituito dalla volontà da parte degli stati europei di control-

lare l’accesso ai propri territori. Per questa ragione le legislazioni all’interno

dell’Unione Europea vengono sempre più costruite in modo non solo da rendere diffi-

cile l’eventuale riconoscimento dello status di rifugiato, ma soprattutto da impedire di-

rettamente l’accesso agli stati in cui poter presentare la domanda.

105 Si veda infra, paragrafo 3.106 S. Sassen, Loosing Control, Sovereignty in a Age of Globalization, cit., pag. 64.107 S. Sassen, Guests and Aliens, cit., pag. .

46

Inoltre, nel tentativo di mantenere il fenomeno dell’asilo ristretto si è mantenuta

una normativa internazionale, la Convenzione di Ginevra, la cui formulazione si è rive-

lata spesso obsoleta e, solo recentemente, si sono aperti alcuni spiragli con

l’implementazione della contemporanea normativa comunitaria. In particolar modo è

risultato evidente che “un sistema che tenta di condurre il problema non solo dei profu-

ghi e dei rifugiati ma anche quello dell’immigrazione 'attraverso la strettoia rappre-

sentata da una richiesta d’asilo individuale', è un sistema inevitabilmente destinato col

tempo a sovraccaricarsi”108. Nel momento in cui i sistemi sono risultati sovraccaricati,

tuttavia, non è stata ripensata la politica in materia d’asilo al fine di renderla più effi-

ciente ma si è semplicemente attuata anche a livello europeo una politica fortemente re-

strittiva.

La mancanza di orientamenti volti a garantire l’effettività del diritto d’asilo an-

che livello europeo è secondo me dovuta alle stesse motivazioni poc’anzi illustrate. In-

fatti, se gli stati nazionali hanno acconsentito che la propria sovranità venisse limitata

dall’Unione Europea o da altri meccanismi sovranazionali quando si tratta di problema-

tiche attinenti all’ambito economico, non hanno concesso altrettanto spazio quando si

tratta di politiche di immigrazione ed in particolar modo in materia d’asilo. Basti pensa-

re a come l’Unione Europea possa infliggere sanzioni, spesso anche pesanti, agli stati

che violano gli accordi economici mentre un analogo strumento non è presente quando

ad essere violati siano gli accordi sulle politiche sociali. Inoltre, il meccanismo stesso

attraverso cui vengono elaborate ed approvate le direttive dimostra ulteriormente quanto

poco della propria sovranità gli stati siano fino ad ora stati disposti a cedere. Basta in-

fatti, come il lungo iter di approvazione della Direttive sulle procedure del 2005 ha di-

mostrato109, che uno solo degli stati membri non sia d’accordo sul contenuto perché

queste non vengano approvate. In tal modo, abbiamo visto, il risultato è che le Diretti-

ve110, il cui compito dovrebbe essere quello di stabilire delle linee guida forti e unitarie

all’interno dell’Unione, rimangono in realtà a carattere generale rimandando ai singoli

stati il compito di disciplinare effettivamente la materia.

108 F. Belvisi, “Il diritto d’asilo tra garanzia dei diritti dell’uomo ed immigrazione nell’Europa Comunita-ria”, Sociologia del Diritto, 1995, XXII, 1, pp. 53-76.109 Si veda infra, capitolo IΙ.110 Mi riferisco a quelle che disciplinano questo specifico ambito.

47

6.L’esercizio della sovranità degli stati e gli org anismi sovranazionali di

tutela dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani, redatta dalle Nazioni Unite nel

1948, attraverso la formulazione dell’articolo 13, istituisce il diritto per ogni individuo

ad emigrare, ma non prevede un corrispettivo diritto ad immigrare. Stabilisce cioè la

possibilità per gli individui di muoversi e di lasciare liberamente un paese, ma, allo stes-

so tempo, non prevede un corrispettivo diritto alla libertà di entrare in un altro paese.

Ugualmente, all’articolo 14, istituisce il diritto d’asilo, inteso come il diritto a richiedere

asilo ma non come obbligo per gli stati di concederlo, e, all’articolo 15, il diritto ad ave-

re una cittadinanza, ma non stabilisce le modalità per concederla o ottenerla.

Nella formulazione della Dichiarazione, quindi, questi diritti non sembrano esse-

re concepiti per dei “destinatari specifici”111, né sembrano essere costruiti in modo tale

da comportare per gli stati aderenti degli “obblighi specifici”112. Nonostante la portata

universale di questi diritti, ancora una volta, a prevalere è stata la sovranità degli stati, i

quali vengono lasciati ampliamente liberi di stabilire se garantire tali diritti e di sceglie-

re le modalità e i meccanismi tramite i quali, eventualmente, farlo. “Una serie di con-

traddizioni interne tra diritti umani universali e sovranità territoriale appare quindi in-

corporata nella logica di uno dei più esaustivi documenti giuridici internazionali del

mondo”113 .

Il diritto d’asilo, in quanto diritto umano fondamentale, è pertanto anch’esso vit-

tima di questo conflitto continuo tra la sovranità degli stati nazionali e la necessità di

accordare protezione ai diritti umani. Ho già illustrato, nel paragrafo precedente, le ra-

gioni per le quali ritengo che il diritto d’asilo, in particolar modo, non sia oggetto di una

normativa volta a realizzarlo concretamente, ma voglio a questo punto approfondire,

anche se brevemente, l’analisi del conflitto tra sovranità statale e protezione dei diritti

umani, onde illustrare come, a causa di esso, il diritto d’asilo non sia l’unico dei diritti

umani non adeguatamente riconosciuto e protetto. Fino a quando questo conflitto non

sarà risolto o disciplinato in qualche modo, infatti i diritti dell’uomo in quanto tali corre-

ranno sempre il pericolo di essere violati.

111 S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, Residenti e Cittadini, cit., pag. 9.112 Ibidem.113 Ibidem.

48

Secondo alcuni autori114 non ci sarebbe alcuna contraddizione tra la sovranità e i

diritti umani. Gli individui appartenenti ad una comunità politica trasferiscono la sovra-

nità ad un’autorità che, come tale, viene incaricata di tutelarli115. Tuttavia, come abbia-

mo avuto modo di notare attraverso il lavoro di Hannah Arendt116, questo assunto, di

matrice hobbesiana e lockiana, può essere valido fino a che l’individuo appartiene ef-

fettivamente ad una comunità politica, e fino a quando l’autorità che detiene la sovranità

la esercita per tutelare i diritti degli individui117 e non per opprimerli. Queste sono in-

fatti le situazioni che sono più familiari a rifugiati ed asilanti e che li distinguono dagli

altri migranti.

La protezione dei diritti umani, posto il loro carattere universale118, ha sottopo-

sto a dura prova la sovranità degli stati nazionali perché essi si sono da subito119 rivelati

inadatti a tutelarli da soli. Pertanto, è risultato immediatamente necessario istituire degli

organismi internazionali ai quali delegare, in materia di tutela dei diritti umani, sostan-

zialmente almeno parte dei poteri statali. Abbiamo visto come già tra le due guerre

mondiali i nascenti stati nazionali non furono in grado di affrontare la problematica

delle minoranze da soli e dovettero ricorrere alla Società delle Nazioni, “destinata –

nella speranza dei suoi fondatori- a imbrigliare la violenza e porre le relazioni interna-

zionali su binari di specifica convivenza”120. Si iniziò a far strada il concetto secondo il

quale la relazione tra lo stato e i suoi cittadini non potesse più essere appannaggio esclu-

sivo dello stato stesso, ma dovesse essere un problema di tutta la comunità internazio-

nale. Si è, dunque, venuto a creare un nuovo quadro di governance in cui gli stati per-

dono la loro sovranità assoluta nella misura in cui violano standard e valori dell’ordine

internazionale, ovvero “si crea una sorte di ponte tra diritto ed etica che cambia la forma

114 Paine, in D. Levy e N. Sznaider, “Sovereignty transformed: a sociology of human rights”, The BritishJournal of Sociology, 2006, Volume 57, Issue 4, pag. 658.115 Paine, in D. Levy e N. Sznaider, “Sovereignty transformed: a sociology of human rights”, cit., pag.658.116 Si veda supra, paragrafi 2 e 4.117 Storicamente sappiamo che non è sempre così e gli avvenimenti in Darfur, di seguito descritti, ne sonoun’ulteriore conferma.118 Nonostante ancora oggi il dibattito tra “universalismo” e “relativismo” dei diritti umani sia apertissimoin questa sede daremo per presupposto il loro carattere universale, proprio alla luce della Dichiarazionedel 1948, e ai Patti del 1966. Sull’ampio dibattito in merito si veda tra i molto M. Mutua, “The Com-plexity of Universalism in Human Rights”, in A. Sajo ( a cura di), Human Rights with Modesty. TheProblem of Universalism, Martinus Nijhoff Publishers, Leiden/Boston, 2004, pagg. 58-63.119 Si veda supra, paragrafo 4.120 A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Edizioni Laterza, I. ed. 1988, Roma-Bari 2004,pag. 81.

49

e il contenuto della politica”121. Ciò non comporta necessariamente la fine dello stato e

la completa erosione dei suoi poteri ma piuttosto l’istituzione di una serie di agenzie,

comitati, commissioni con particolari competenze giuridiche con il compito di fornire ai

singoli governi “gli strumenti per la promozione dei diritti umani”122.

Nella creazione delle strutture internazionali a cui conferire la tutela dei diritti

umani ci si è però dovuti scontrare con la necessità, da un lato, di individuare le istitu-

zioni idonee a limitare la sovranità degli stati e, dall’altro, di stabilire quali fossero i

mezzi attraverso cui consentire a tali istituzioni di farlo123.

Quello che viene da chiedersi, a questo punto, è se il sistema sopranazionale ap-

prontato sino ad ora per offrire tutela ai diritti umani, e tra essi al diritto d’asilo, sia suf-

ficiente ed efficiente, oppure non lo sia. La risposta è purtroppo negativa e il diritto

d’asilo di cui si parla in questa ricerca, così come la guerra civile in atto nella regione

del Darfur, ne sono due chiari esempi. Vedremo infatti come in questi due casi, ma in

realtà nella maggioranza dei casi, i responsabili delle violazioni dei diritti umani siano

gli stessi stati firmatari della Dichiarazione universale del 1948. La responsabilità degli

stati nelle continue violazioni dei diritti umani è legata a diversi fattori. Il primo a mio

avviso è quello, precedentemente illustrato, che fa si che gli stati non siano disposti a

cedere porzioni ulteriori della propria sovranità. Ed è proprio questo fattore che si ri-

flette anche nella creazione delle strutture sopranazionali, le quali si rivelano, di fatto,

inadatte a tutelare i diritti umani.

Inoltre gli stati, nonostante la globalizzazione, restano, proprio in virtù del prin-

cipio di territorialità che tengono così strenuamente a ribadire, i titolari del “monopolio

sull’uso legittimo della forza”124 all’interno del proprio territorio. Tuttavia spesso gli

stati stessi, quando anche siano membri delle Nazioni Unite, si dimostrano incapaci di

controllare l’uso legittimo della forza e se ne sono serviti per compiere violazioni dei

diritti umani dei propri cittadini, all’interno del proprio territorio.

Prima di tutto poche norme sui diritti umani hanno acquistato validità universale,

trasformandosi in norme consuetudinarie. La maggior parte di esse rimane vincolata

all’esistenza di trattati ad hoc che le tutelino e al rispetto degli stessi da parte dei singoli

121 S. Masiello, op.cit., pag. 55122Ibidem.123 D. Archibugi e D. Beetham, Diritti umani e democrazia cosmopolita, Feltrinelli, Milano 1998.124 D. Archibugi e D. Beetham, Diritti umani e democrazia cosmopolita, cit., pag 17.

50

stati. Anche le norme per la protezione dei diritti umani istituite attraverso le Nazioni

Unite, presuppongono la volontà degli stessi stati di rispettarle altrimenti, una volta ve-

nuto meno il consenso, esse perdono il loro valore125. L’istituzione stessa delle Nazioni

Unite è stata determinata dalla volontà di “costruire delle capacità sopranazionali di in-

tervento le quali potessero promuovere quell’ordinamento globale di pace che continua

a restare ai blocchi di partenza”126.

Allo stesso modo gli stati, volendo mantenere il controllo sulla propria sovranità,

si sono sempre rifiutati di delegare a nuove istituzioni a carattere non governativo il po-

tere di controllo in merito alla tutela dei diritti umani. L’unico potere concesso a tali or-

ganizzazioni infatti è stato quello di presentare petizioni ad organismi internazionali e di

svolgere un’attività continua di lobbying in materia di diritti umani127. Le stesse, dun-

que, pur non essendo titolari di “diritti e poteri”128 hanno assunto un ruolo importantis-

simo sulla scena internazionale, agendo come “intermediari tra l’opinione pubblica e gli

stati”129.

Secondo determinati autori130, tuttavia, non si può criticare la struttura delle Na-

zioni Unite, essendo questa l’unica possibile, poiché è l’unica che gli stati almeno sino

ad ora, hanno accettato di darsi. Ci troviamo sostanzialmente in una posizione nella

quale gli stati sovrani hanno spontaneamente accettatori autolimitarsi, ma solo fino ad

un certo punto e, apparentemente, non vi è modo di imporre loro un grado di autolimita-

zione maggiore. Come se, suggerisce con un’immagine molto suggestiva Antonio Cas-

sese, “ci si rivolgesse ad un mercante di schiavi del Seicento, chiedendogli gentilmente

se è disposto ad accettare di abbandonare o limitare quella pratica commerciale”131.

Tuttavia, ritengo che sia interessante citare in questa occasione la critica rivolta

da Norberto Bobbio alle Nazioni Unite. Egli ritiene infatti che le Nazioni Unite vadano

riformate in quanto necessitano “di più potere e più democrazia”132. In particolare,

Bobbio insiste sulla necessita che esse divengano un organismo più democratico, da un

lato, con l’inserimento nelle sue strutture di più stati democratici, non essendo stato sino

125 A. Cassese, op. cit. pag. 90.126 J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., pag. 139.127 A. Cassese, op. cit., pag. 101.128 Ibidem, pag. 102.129 Ibidem.130 D. Archibugi e D. Beetham, Diritti umani e democrazia cosmopolita, cit., pag. 19.131 A. Cassese, op. cit. pag. 115.132 N. Bobbio, “Pace e Guerra”, in Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997, pag. 245.

51

ad ora la democraticità degli stati un requisito necessario per esserne parte, e, dall’altro,

con l’abolizione del diritto di veto attribuito alle grandi potenze. Infatti, risulta esserci

una sproporzione enorme tra il potere attribuito al Consiglio di Sicurezza, composto da

un numero limitato di stati potenti e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, compo-

sta da tutti gli stati membri ma priva, di fatto, di un concreto potere decisionale.

L’esercizio del diritto di veto è risultato in molti casi, infatti, l’elemento paralizzante

delle attività stesse del Consiglio. Come vedremo relativamente al Darfur, le Nazioni

Unite per molto tempo non hanno attuato provvedimenti contro il governo sudanese,

stante il dissenso della Cina, titolare appunto del diritto di veto, e da lungo tempo part-

ner economico di Khartoum in transazioni economiche a lei estremamente vantaggiose.

Ancora una volta, quindi, la triste e lucida critica svolta da Norberto Bobbio

ritorna puntuale e veritiera: “Nell’attuale sistema internazionale il terzo che fa da arbi-

tro o mediatore, o addirittura da detentore di un potere coattivo tale da prevenire la

guerra o da stroncarla quando è scoppiata, esiste soltanto sulla carta. Il terzo super

partes, il terzo-per-la-pace, dovrebbero essere le Nazioni Unite133”.

Purtroppo una riforma delle strutture delle Nazioni Unite e dei suoi meccanismi

di controllo, per quanto auspicabile, risulta essere difficilmente realizzabile.

Le problematiche attinenti ai diritti umani sono estremamente complesse e non

ritengo sia questa la sede per trattarle in maniera approfondita.

Ritengo, tuttavia, che il principio della sovranità nazionale, così difeso dagli stati

moderni, abbia conseguenze negative anche sul diritto, il quale resta, purtroppo, espres-

sione di una nazionalità territoriale e la sua pervasività ad elementi esterni, non risulta

sufficiente a renderlo un diritto aperto. In altre parole, l’atteggiamento ostile che gli stati

conservano nei confronti dell’altro è impresso, per ovvie ragioni, anche nel sistema giu-

ridico ed impedisce un rafforzamento di un diritto internazionale che sia effettivamente

in grado di tutelare i diritti di tutti gli uomini indistintamente. Quello che si vuole sotto-

lineare in questa sede, è che, ancora oggi, il concetto di diritto cosmopolitico di Kant,

secondo il quale la superficie terrestre è una proprietà comune a tutti gli uomini ed ogni

individuo è titolare di “un diritto soggettivo di visita” sul suolo altrui, non trova applica-

zione. “Ospitalità significa quindi il diritto di ogni straniero a non essere trattato

ostilmente quando arriva sul suolo altrui. Può esserne allontanato se con ciò non gli si

52

reca alcun danno; ma non si deve agire ostilmente contro di lui finché si comporta in

modo pacifico.[…]si tratta bensì di un diritto di visita appartenente a tutti gli uomini,

che consiste nel dichiararsi pronti a socializzare in virtù del possesso comune della su-

perficie della terra. A causa della forma sferica di tale superficie, infatti, gli uomini non

possono disperdersi all’infinito, e sono quindi costretti in definitiva a sopportarsi gli

uni accanto agli altri”134. Ed è proprio tramite questo diritto all’ospitalità, in base al

quale nessuno può essere respinto, se con tale allontanamento lo si mette in pericolo,

che nell’opera di Kant vengono poste le premesse necessarie alla “costruzione di una

costituzione civile universale”135, che sarà in grado di assicurare la Pace Perpetua. Il

pensiero di Norberto Bobbio si avvicina a quello di Kant nel sostenere che l’unica con-

dizione idonea a creare una pace stabile e duratura, è la configurazione di una cittadi-

nanza del mondo, che vada a sostituire le singole cittadinanze degli stati. “La democra-

zia è la società dei cittadini e i sudditi diventano cittadini quando vengono riconosciuti

loro alcuni diritti fondamentali; ci sarà una pace stabile, una pace che non ha la guerra

come alternativa solo quando vi saranno non più cittadini di questo o quello stato, ma

del mondo”136. Purtroppo, né Kant, né Bobbio illustrano come ottenere concretamente

la Pace Perpetua, sebbene il suo conseguimento, insieme alla tutela dei diritti umani,

sia indubbiamente un obbiettivo da perseguire.

Pace e diritti umani nell’analisi kantiana e bobbiana sono strettamente legati tra

di loro. Solo una condizione di pace, la cui pienezza, nella visione bobbiana, impedisce

a qualsiasi tipo di guerra di essere definita “guerra giusta”, può realizzare la tutela effi-

cace dei diritti umani. Ma, d’altronde, è pur vero che soltanto una efficace tutela dei di-

ritti umani, dei diritti dei più deboli e delle categorie più disagiate, potrà gettare le pre-

messe per una pace perpetua nel mondo. L’obbiettivo di quest’ultimo paragrafo è stato

quello di chiarire come le problematiche che investono il diritto d’asilo e, più in gene-

rale, le politiche in materia di migrazioni siano solo uno degli aspetti di un problema più

ampio, che si concretizza nella difficoltà di implementare concretamente i diritti umani

133 N. Bobbio, “Pace e Guerra”, in Autobiografia, cit., pag. 243. Sulla critica di questo autore alle NazioniUnite si veda anche N. Bobbio, Il terzo assente, Sonda, Torino 1989.134 I. Kant, Zum ewigen Frieden, 1797, Pace Perpetua, Rusconi, Milano, 1997, pag. 91. in S. Benhabib,“Sull’ospitalità”, in I diritti degli altri. Stranieri, Residenti e Cittadini, cit., pag. 23.135 P. Belloli, Fenomenologia del Diritto d’Asilo, in B. M. Bilotta e F. A. Cappelletti (a cura di), Il dirittod’asilo, cit., pag. 137.136 N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pag. 4.

53

e di istituire un organismo sovranazionale effettivamente in grado di farli rispettare a

tutti gli stati sovrani, suoi membri.

54

CAPITOLO II - IL DIRITTO D’ASILO NELL’ORDINAMENTO I N-

TERNAZIONALE

1. La Convenzione di Ginevra del 1951, relativa all o status di Rifugiato e il

successivo Protocollo del 1969

2.La normativa comunitaria: verso una comune legisl azione in materia di

asilo

3.Gli strumenti di diritto derivato: l’evoluzione d ella normativa comunitaria

in materia di asilo

55

1. La Convenzione di Ginevra del 1951, relativa all o status di Rifugiato e ilsuccessivo Protocollo del 1967.

Tra il 1948 e il 1951, le Nazioni Unite, avvalendosi dei servizi di alcune sue

agenzie, di una serie di comitati ad hoc e di una Conferenza di plenipotenziari, lavora-

rono alla stesura di una Convenzione che potesse definire la nozione e il conseguente

status legale di rifugiato, all’interno del diritto internazionale. Il risultato di tale lavoro

fu la redazione della Convenzione di Ginevra, relativa allo status di rifugiato. La defini-

zione di rifugiato in essa compresa fu il frutto di una mediazione tra un’ideologia più li-

berale degli stati dell’Europa dell’ovest, che miravano ad includervi anche i dissidenti

politici provenienti dall’est, e quella più restrittiva dei paesi del blocco sovietico, che

erano invece decisamente più riluttanti a concedere tale riconoscimento, temendo le

eventuali future ingerenze nel loro settore della politica interna. La soluzione trovata

mostra come, di fatto, gli stati dell’ovest furono abili nel rendere la definizione finale

più conforme ai valori occidentali.

La Convenzione del 1951 adottò, pertanto, una definizione generale di rifugiato

caratterizzata da una serie di limitazioni geografiche e temporali.

L’articolo 1 stabilisce infatti

“Definizione del termine "rifugiato":

Ai fini della presente Convenzione, il termine "rifugiato" si applicherà a

colui:

1) che sia stato considerato rifugiato ai sensi degli Accordi del 12 maggio

1926 e del 30 giugno 1928, o ai sensi delle Convenzioni del 28 ottobre 1933

e del 10 febbraio 1938 e del Protocollo del 14 settembre 1939, o in applica-

zione della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale per i Rifugiati;

Le decisioni di "non-eleggibilità" prese dalla Organizzazione Internazionale

per i Rifugiati nel periodo del suo Mandato non escludono che la qualifica

di rifugiato possa venire accordata a persone in possesso dei requisiti pre-

visti al paragrafo 2 della presente sezione;

2) che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio

1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religio-

ne, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue

opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non

vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese;

56

oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui

aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non

vuole tornarvi per il timore di cui sopra”137.

La formulazione di tale articolo introduceva quindi una definizione di rifugiato

volta a comprendere tutte le precedenti definizioni, ma anche idonea a calarsi nel conte-

sto storico-politico dell’epoca, ragione per la quale furono previste anche alcune limita-

zioni geografico-temporali nell’applicazione della stessa. La Convenzione, infatti,

estendeva tale definizione solo a coloro che erano divenuti rifugiati in seguito a fatti ve-

rificatesi anteriormente al 1º Gennaio 1951 e solo all’interno del territorio europeo (art.

1, sez. B, lett. a).

Questi limiti sono indicativi di quelle che erano le priorità delle Nazioni Unite in

quel momento e cioè, in primis, la necessità di istituire uno status legale e correlare ad

esso una normativa idonea a gestire gli enormi flussi di profughi, creati dalle due Guerre

Mondiali e, nel contempo, il bisogno di affermare l’importanza di quei diritti civili e

politici, che il blocco comunista sovietico continuava a negare. In questo senso è im-

portante notare che la Convenzione, nella sua definizione, escluse volontariamente i c.d.

diritti socio-economici, in modo da evitare che l’afflusso di migranti provenienti

dall’Est Europa, in cerca di migliori condizioni di vita, potesse trovare tutela nelle pre-

visioni dell’articolo 1138.

Tuttavia, ci si rese ben presto conto che le limitazioni a carattere geografico-

temporale dell’applicabilità della Convenzione stessa, ne riducevano ampliamente il ca-

rattere di universalità che le si voleva attribuire. In particolare, col sorgere di nuovi fe-

nomeni migratori involontari, provenienti da altre regioni tra cui, principalmente,

l’Africa, tale definizione non era più abbastanza esaustiva nell’affrontare il problema.

Per questa ragione fu adottato, nel 1967, il Protocollo relativo allo status di rifugiato,

volto ad eliminare, per gli stati aderenti, la limitazione temporale e, solo per quegli stati

137Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, 1951, testo integrale disponibile suhttp://www.unhcr.it. Lo statuto dell’U.N.H.C.R. citato contiene una definizione identica, con la sola diffe-renza che, avendo un carattere universale, non prevedeva alcun limite temporale o geografico.138 J.C. Hathaway, The Law of Refugee Status, cit.

57

che, anteriormente all’adozione del Protocollo non avessero già formulato riserve in

questo senso, anche quella geografica139.

La stessa definizione di rifugiato, così come introdotta dalla Convenzione, è

stata, almeno a livello teorico-dottrinale140, poi ampliata e modificata in un rapporto in-

terattivo e costruttivo con altre Convenzioni, aventi carattere regionale. In particolare il

Protocollo del 1967, pur potendolo fare, non modificò il carattere individuale della per-

secuzione sofferta dal rifugiato. Lasciò, pertanto, fuori dalla sua tutela quelle vittime di

fenomeni di massa, quali conflitti, guerre civili e violazioni massicce di diritti umani, e

rese necessario il ricorso ad altri strumenti normativi, onde ampliare l’originaria defini-

zione data dall’articolo 1 della Convenzione, alla luce dell’apparire di nuove categorie

di rifugiati.

Importante in questo senso è stata la Convenzione dell’O.U.A.141 che, pur se-

guendo le linee-guida date dalle Nazioni Unite, innovò la definizione di rifugiato preve-

dendo all’articolo 1, par. 2 :

“2. Il termine “rifugiato” designa chiunque sia costretto, a causa di

un’aggressione esterna, di un’occupazione o di una dominazione straniera,

o di gravi turbative dell’ordine pubblico, in tutto o in una parte del paese

d’origine o di cittadinanza, ad abbandonare la propria residenza abituale

per cercare rifugio in un altro luogo, fuori di tale paese...” 142.

L’articolo 2, par. 4, introduceva un altro principio molto importante, quale

quello della solidarietà tra stati, mentre l’articolo 3 esprimeva per la prima volta in ma-

niera inderogabile un obbligo di rispetto, all’interno del diritto internazionale, del prin-

cipio del rimpatrio volontario, secondo cui “nessun rifugiato può essere rimpatriato

contro la sua volontà”143. La terminologia e l’ampiezza della definizione adottata dalla

139 Sono state pertanto ammesse alcune eccezioni per quegli stati che avevano già manifestato una volontàa restringere geograficamente l’ambito applicativo della Convenzione, prima dell’entrata in vigore delProtocollo del 1967.140 J. Sztucki, “The Conclusions on the International Protection of Refugees Adopted by the ExecutiveCommittee of the UNHCR Programme, International Journal of Refugee law, 1, 1989, pagg. 285-318.141 Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, adottata il 10 settembre 1969; tale“Convenzione disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa”. Riconoscendo la Con-venzione ONU del 1951 come “lo strumento fondamentale e universale relativo allo status dei rifugiati”,fa propria la definizione di rifugiato ivi contenuta, innovando tuttavia per alcuni aspetti.142 Testo integrale della Convenzione dell’O.U.A. rinvenibile all’indirizzo internethttp://www.unhcr.it/images/pdf/altrenorme_oua.pdf .143 Articolo 3, Convenzione dell’O.U.A.

58

Convenzione dell’O.U.A. creò un nuovo precedente in diritto internazionale. Tale defi-

nizione infatti affrontava il problema dei rifugiati in una prospettiva più umanitaria e

pragmatica, rispetto alla Convenzione di Ginevra e numerosi termini che furono utiliz-

zati, all’epoca non erano ancora stati definiti dal diritto internazionale144.

Nello stesso senso si sono mosse anche la Dichiarazione di Cartagena sui Rifu-

giati e le Conferenze Internazionali sui Rifugiati Indocinesi. In seguito alla crisi dei ri-

fugiati in atto in America Centrale, un comitato di esperti, proveniente da tutto il Sud

America si riunì a Cartagena il 19-22 novembre dell’1984, introducendo una nozione di

rifugiato simile a quella presentata dalla Conv. dell’O.U.A. Il limite di tali documenti

alla realizzazione di una nuova ed innovativa definizione di rifugiato è stato dato, tutta-

via, dal loro carattere strettamente regionale.

Tornando invece ad esaminare la Convenzione di Ginevra, nella sua versione

così come modificata dal Protocollo di New York del 1967, sempre all’articolo 1 sono,

inoltre, previste una serie di clausole di cessazione al cui verificarsi lo status giuridico

di rifugiato, precedentemente concesso, può essere revocato. In questo senso non rien-

trerà più sotto la protezione della Convenzione colui che potrà usufruire nuovamente

della protezione del paese di cui ha la cittadinanza; colui che abbia riacquistato la citta-

dinanza perduta; colui che si sia spontaneamente ristabilito nel paese in cui temeva di

essere perseguitato; colui che, avendo acquisito una nuova cittadinanza, goda della pro-

tezione dello stato che gliel’ha concessa; colui per il quale sono venute meno le circo-

stanze per le quali aveva ottenuto lo status; colui che, pur essendo senza cittadinanza

ma, essendo venute meno le condizioni per le quali gli era stato concesso la status, pos-

sa ritornare nel paese in cui aveva la residenza abituale (articolo I, sez. C ). Così come

non si potranno più avvalere di tale protezione: coloro che godono di protezione e assi-

stenza da parte di altri organi delle Nazioni Unite, diversi dall’Alto Commissariato (ar-

ticolo I, sez. D); coloro a cui le autorità del paese nel quale hanno stabilito la residenza

riconoscano tutti i diritti e gli obblighi legati alla cittadinanza di tale paese (articolo I

sez. E); coloro che

“abbiano commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un

crimine contro l’umanità, ai sensi degli strumenti internazionali”; coloro

che “abbiano commesso un grave reato comune fuori dal paese di accogli-

144 E. Arboleda, “Refugee Definition in Africa and Latin America”, International Journal of Refugee

59

mento prima di esservi ammessi come rifugiati; coloro che si sano resi col-

pevoli di atti contrari ai fini e ai principi delle Nazioni Unite” (articolo I,

sez. E. lett. a, b, c).

La formulazione di tale articolo sottolinea la necessità, onde ottenere il ricono-

scimento dello status di rifugiato, da un lato dell’esistenza di un timore di essere perse-

guitato, e dall’altro della dimostrazione che tale timore sia fondato. Inoltre, la Conven-

zione riconosce una serie di obblighi e diritti, connessi con lo status di rifugiato e una

serie possibile di cause di esclusione e cessazione dello stesso. Tra essi sicuramente il

più importante è quello sancito dall’articolo 33, relativo al divieto di espulsione e re-

spingimento, il c.d. principio di non-refoulement, che prevede un divieto assoluto di re-

spingimento o espulsione

“del rifugiato verso le frontiere dello stato dove la sua vita e libertà

sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, ap-

partenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politi-

che” (articolo 33, 1).

L’unica eccezione ammessa a tale principio è dovuta all’esistenza di un pericolo

per la sicurezza dello stato in cui il rifugiato si trova o sia stato precedentemente con-

dannato “per un crimine o un delitto particolarmente grave” (articolo 33, 2 ).

Tale previsione legislativa esprime dunque l’importante principio per il quale, onde as-

sicurare un’applicazione concreta alla protezione dei rifugiati, è necessario garantire lo-

ro l’ingresso in un territorio in cui siano effettivamente protetti dal rischio di essere per-

seguitati145. Questa necessità si è, da sempre, scontrata con l’esercizio del potere sovra-

no degli stati di limitare l’accesso alle proprie frontiere, nei confronti dei non cittadini.

I rischi creati da un indiscriminato respingimento dei rifugiati alle frontiere sono

di due tipi: da un lato quello (maggiore) di rinviare il rifugiato verso la situazione di pe-

ricolo da cui stava scappando, dall’altro quello di alimentare il fenomeno dei c.d. rifu-

giati in orbita146, in cerca di uno stato che consenta loro l’ingresso.

Law, 1991, vol. 3, pagg. 185-207.145 J.C. Hathaway, The Rights of Refugees under International Law, Cambridge University Press, Cam-bridge, U.S.A. 2005, pag. 279.146 Relativamente al fenomeno dei “rifugiati in orbita” e alla sua trattazione normativa si veda infra, para-grafo 3, ove si parla della Convenzione di Dublino del 1990 e del Regolamento Dublino II. In proposito siveda anche E. W. Vierdag, “The Country of ‘First Asylum’: Some European Aspects”, in D. A. Martin(ed.), The New Asylum Seekers: Refugee Law in The 1980s, Nijhoff, Dordrecht 1988, pagg. 73-84.

60

Tuttavia il principio di non-refoulement non istituisce un vero e proprio diritto

all’asilo in quanto, pur vietando strettamente di respingere i richiedenti asilo verso

l’originaria area o paese di persecuzione, non prevede però un conseguente obbligo per

gli stati ad ammetterli, sempre e comunque, all’interno dei propri confini.

Infatti, né nell’originaria formulazione della Convenzione del 1951, né

nell’attuale, così come modificata dal Protocollo del 1967, si trova un esplicito riferi-

mento ad un obbligo di garantire un diritto d’asilo in senso assoluto. Gli stati contraenti

sono stati, in questo senso, discretamente liberi di interpretare le previsioni della Con-

venzione in relazione a quelle di altri documenti, quali l’Handbook on Procedures and

Criteria for Determining the Refugee Status dell’Alto Commissariato, una serie di di-

rettive, regolamenti e raccomandazioni degli organi della Comunità Europea, e una altra

serie di Convenzioni a carattere regionale147. Di fatto, ancora oggi, “il diritto d’asilo è

un privilegio concesso da uno stato. Non è una condizione inerente all’individuo”148.

A livello teorico, chiunque possieda i requisiti previsti dalla Convenzione di Gi-

nevra è un rifugiato, mentre a livello pratico lo diventa solo chi viene riconosciuto come

tale da un possibile paese ospitante. Lo status di rifugiato continua ad essere legato,

pertanto, all’esercizio di un potere discrezionale, inerente alla sovranità stessa dello

stato a cui la richiesta viene inoltrata.

In realtà, in tale sede, si deve anche evidenziare che gli stati non sono stati coin-

volti solamente nella protezione permanente di un ristretto numero di individui, ma si

sono trovati a dover gestire situazioni caratterizzate da spostamenti di massa tali da im-

plicare, inevitabilmente, per lo stato accogliente la necessità di limitare in qualche modo

l’uso di tale diritto.

Tuttavia il principio di non-refoulement deve essere letto non solo come un ob-

bligo a non respingere il rifugiato direttamente minacciato da una situazione di pericolo,

ma anche come la necessità di trovare “una soluzione duratura alla loro sventura” 149. In

questo senso, anche se probabilmente la formulazione della Convenzione di Ginevra ri-

sulta un po’ superata, in mancanza di un’altra fonte altrettanto autorevole

147 Si veda supra.148 J.H. Simpson, “The Refugee Problem”, Oxford University Press, Oxford 1939, in H. Lambert (ed.),Seeking Asylum: Comparative Law and Practice In Selected European Countries, Martinus Nijhoff Pub-lishers, Dordrecht-Boston-London 1995, pag. 4.149 Traduzione personale dall’inglese in Guy S. Goodwin-Gill, “The Refugee in International Law”, in K.Musalo, J. Moore, R.A. Boswell (a cura di), Refugee Law and Policy, cit., pag. 41.

61

sull’argomento, bisogna, probabilmente, darne una lettura dinamico-creativa. Tale ten-

tativo è stato sostenuto da quei teorici del diritto che hanno cercato di includere nel det-

tato della Convenzione un significato di persecuzione connesso a qualunque violazione

di diritti umani150. Nonostante il rifugiato sia, sicuramente, stato oggetto di una viola-

zione dei suoi diritti fondamentali, includere nella definizione di rifugiato qualunque

violazione di diritti umani implica una maggiore focalizzazione sugli effetti della perse-

cuzione, più che sulle sue cause151. Inoltre, quelle teorie che hanno cercato di includere

in tale definizione ogni tipo di violazione dei diritti umani si sono dovute scontrare col

fatto che la Convenzione stessa, pur potendo attingere al catalogo dei diritti previsti

dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, decise semplicemente di in-

cludere cinque espresse violazioni nella formulazione dell’articolo 1 e l’obbligo di ga-

rantire solo una serie determinata di diritti al rifugiato, una volta concessogli lo sta-

tus152.

In questo senso è importante notare anche l’articolo 42, che conferisce agli stati

la possibilità di accettare la Convenzione con alcune riserve ma, al tempo stesso, esclu-

de esplicitamente che tali riserve possano riguardare le previsioni degli articoli 1, 3, 4,

16(1), 33, e dal 36 al 46 incluso. La Convenzione sostanzialmente proibisce agli stati

firmatari la possibilità di adottare misure restrittive di diritti fondamentali quali il diritto

a non essere discriminati, il principio di non-refoulement, la libertà di religione e il libe-

ro accesso ai tribunali dello stato ospitante. Tuttavia la Convenzione concede agli stessi

stati la possibilità di pronunciare riserve in tutti gli altri settori, ed è importante sottoli-

neare che gli articoli maggiormente soggetti a riserve sono stati da principio, l’articolo

17 relativo alle attività salariate e alla concessione ai rifugiati di un trattamento pari a

quello dei cittadini in tale settore e, anche se con un’incidenza minore, gli articoli 22

(“Istruzione pubblica”), 23 (“Assistenza Pubblica”) e 24 (“Legislazione del lavoro ed

assicurazioni sociali”). Non bisogna inoltre dimenticare che i diritti concessi dalla Con-

venzione del 1951, sono accessibili per i rifugiati solo quando sia stato loro garantito

uno status permanente.

150 Su tutti si veda T. A. Aleinikoff, “The Refugee Convention at Forty: Reflections on the IJRL Collo-quium”, International Journal of Refugee Law, 1991, vol. 3, pag. 617-625.151 D. J. Steinbock, The Refugee definition as law: issue of interpretation, in F. Nicholson e P. Twomey(eds.), Refugee Rights and Realities: Evolving International Concepts and Regimes, Cambridge Univer-sity Press, Cambridge, U.K. 1999, pag. 29.152 Ibidem.

62

La realtà contemporanea è caratterizzata da enormi flussi di profughi che vengo-

no per lo più accolti nei c.d. paesi di prima accoglienza, nel Sud del mondo, e a cui vie-

ne garantito un diritto, a carattere strettamente temporaneo, a trattenersi nel paese rag-

giunto sulla base di ragioni politiche o umanitarie. Questa categoria di rifugiati non è ri-

conosciuta come rifugiati della Convenzione, ma è stata ricompresa in una serie di nuo-

ve definizioni tra cui quella dei paesi scandinavi, che li riconosce come rifugiati de fac-

to, o quella adottata in Belgio, che li definisce rifugiati di tipo B. In altri paesi europei,

poi, una definizione mancava del tutto e tale categoria di rifugiati è semplicemente tolle-

rata, senza che possa essere loro attribuito alcuno status giuridico153. Pertanto anche il

diritto di scegliere liberamente il luogo di residenza e l’annessa libertà di circolare sul

territorio ospitante, così come garantito dall’articolo 26, sono strettamente legati al rico-

nosciuto status giuridico e al suo carattere permanente.

La Convenzione tuttavia, in mancanza di un accordo tra gli stati, relativamente

all’obbligo di accogliere sempre e comunque gli asilanti, ha indirettamente tentato di

ovviare a tale mancanza prevedendo il divieto per gli stati contraenti di adottare misure

e sanzioni penali nei confronti di individui che entrano o soggiornano illegalmente nel

paese, così come di coloro che arrivano direttamente dal paese in cui la loro vita e li-

bertà sono in pericolo, sempre che si presentino davanti alle autorità nazionali illustran-

do la propria situazione (articolo 33, 1), e adducendo le opportune prove richieste

dall’articolo 1. Si è cercato, sostanzialmente, di aggirare il problema garantendo un

margine temporale al rifugiato, così da lasciare, successivamente, allo stato ricevente il

tempo di valutare adeguatamente la richiesta.

La Convenzione non tratta, tra le altre omissioni, neppure il tema

dell’estradizione del rifugiato, ma si limita a prevedere, all’articolo 32, un divieto di

espulsione del rifugiato “regolarmente residente sul territorio se non per motivi di sicu-

rezza nazionale e ordine pubblico”154. Al rifugiato, inoltre, deve essere garantita la pos-

sibilità di difendersi, e l’eventuale espulsione deve essere adottata tramite provvedi-

mento previsto dalla legge, articolo 32.2, e con un’adeguata tempistica in modo tale da

consentirgli, eventualmente, di cercare e di trovare asilo in un altro stato. Come è stato

precedentemente osservato, la Convenzione è stata fortemente influenzata dal momento

153 Per esempio in Inghilterra, Svizzera e Germania. H. Lambert, Seeking Asylum: Comparative Law andPractice In Selected European Countries, cit.154 Articolo 32.1 Convenzione di Ginevra 1951, testo integrale disponibile su http://www.unhcr.it .

63

storico-politico in cui è stata concepita, e questo fa sì che la realtà contemporanea si

scontri continuamente con questo limite. In seguito vedremo come spesso l’ampia por-

tata del dettato di questo documento, sia stata utilizzata dagli stati per limitare il ricono-

scimento dello status, e la conseguente acquisizione di diritti da parte dei rifugiati. Non

si può tuttavia dimenticare che, pur integrata da altri strumenti legislativi, tra cui so-

prattutto quelli predisposti dalla Comunità Europea, e con i limiti poc’anzi sottolineati,

la Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato, è senz’altro, ancora oggi, il

più importante documento di diritto internazionale volto a disciplinare la materia.

2.La normativa comunitaria: verso una comune legisl azione in materia

d’asilo.

Con l’avvento degli anni settanta lo scenario internazionale cambiò notevol-

mente sia per quanto riguarda le caratteristiche dei flussi dei rifugiati, che iniziarono ad

differenziarsi da quelli a carattere strettamente politico che avevano portato alla defini-

zione adottata dalla Convenzione di Ginevra, come sopra specificato, sia per l’approccio

adottato dagli Stati occidentali nello sviluppo e nell’adozione delle politiche relative

all’asilo e all’immigrazione.

Mentre, infatti, la crisi del petrolio del 1973 portò ad una destabilizzazione del

contesto sociale anche nei paesi occidentali, i flussi di rifugiati iniziarono ad aumentare,

grazie alle nuove facilitazioni introdotte dai progressi logistico-tecnologici sia nel setto-

re dei trasporti che della comunicazione.

Un documento del Consiglio D’Europa del 1975155, riferisce che il numero dei

c.d. rifugiati de facto156, giunti in Europa in quegli anni si aggirava intorno ai 30.000, di

cui 26.000 provenienti dai paesi in via di sviluppo o con mezzi autonomi o con l’ausilio

offerto dai canali dell’immigrazione irregolare. Nel periodo tra il 1980 e il 1989, gli ar-

rivi di richiedenti asilo quadruplicarono e i governi occidentali risposero a questi nuovi

flussi adottando politiche di volta in volta più restrittive. Le nuove linee guida nel setto-

re dell’asilo, per lo più fondate sull’erronea convinzione che la maggior parte degli asi-

155 Rapporto all’assemblea parlamentare del Consiglio D’Europa in merito alla situazione dei rifugiati defacto, di M. Dankert e M. Forni, Doc. 3642 del 05 agosto 1975 in A. Hurwitz, The Collective Responsibi-lity of States to Protect Refugees, Oxford University Press, Oxford 2009, pag. 17.156 Si veda infra.

64

lanti fossero in realtà migranti economici che cercavano di sfruttare il sistema di prote-

zione internazionale, possono riassumersi nell’adozione di misure sempre più comples-

se per accedere ai paesi occidentali quali: a) l’imposizione di multe per le compagnie di

trasporto che aiutavano i migranti irregolari, visti per tutti i cittadini dei paesi che po-

tenzialmente potevano creare rifugiati, l’intercettazione dei migranti in mare; b) misure

volte a diminuire l’accesso alle procedure di asilo attraverso l’imposizione di tempi

strettissimi per la presentazione delle domande e degli eventuali ricorsi giudiziali contro

i dinieghi; c) l’introduzione del concetto del paese d’origine sicuro157 e al contempo

l’adozione di interpretazioni sempre più restrittive dell’art. 1 della Convenzione di Gi-

nevra e la creazione di nuove forme di protezione parziale come la protezione tempora-

nea o la protezione sussidiaria, la creazione di strutture di supporto nei paesi limitrofi e

comunque nella regione di origine158; d) la riduzione dell’offerta di prestazioni sociali

per i richiedenti asilo e l’introduzione di misure di detenzione per gli stessi, quale deter-

rente alla presentazione delle domande159. Queste politiche restrittive e di contenimento

riferite ai flussi di rifugiati hanno di fatto contribuito alla creazione, nell’immaginario

collettivo, di quel legame tra l’immigrazione in generale e l’asilo che ancora oggi, im-

pedisce all’opinione pubblica di attuare una concreta distinzione tra i due fenomeni.

Con la nascita della Comunità Europea, tuttavia, divenne immediatamente ne-

cessario portare avanti anche un intervento unificativo delle politiche in materia d’asilo

e di migrazione, all’interno degli stati membri. Nonostante l’urgenza in tale campo il

processo di c.d. comunitarizzazione fu lungo e complesso, creando non pochi problemi

agli stati membri, che da principio rifiutarono di fare concessioni, oppure, guardando da

un’altra prospettiva, di accettare limitazioni, relativamente alla propria sovranità territo-

riale e al potere di decidere liberamente relativamente alla circolazione nei propri terri-

tori non solo di non-cittadini ma, soprattutto, di persone estranee alla Comunità160. In

particolare l’idea alla base del dibattito politico comunitario in questo settore era sostan-

zialmente che i richiedenti asilo, allo stesso modo dei terroristi e dei criminali comuni

erano potenzialmente pericolosi per la sicurezza dei singoli stati membri e che in qual-

157 D. Winterbourne e P. Shah, Refugees and Safe Countries of Origin, in P. Shah e C.F. Doebbler (eds.),United Kingdom Asylum Law and Its European Context, Gems Soas Pubbications, London 1999, pagg.66-80.158 Si veda il paragrafo 3 del primo capitolo.159 A. Hurwitz, The Collective Responsibility of States To Protect Refugees,cit., pagg. 17-20.

65

che modo era necessario compensare i rischi creati dall’abolizione delle frontiere tra gli

stati161.

Il processo di armonizzazione si sviluppò, sostanzialmente, in due fasi: la prima

che durò dal 1985 al 1999, e terminò con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam e

la comunitarizzazione del c.d. Terzo Pilastro; la seconda dal 1999 al 2004/2005 con

l’adozione del Programma dell’Aja162 e l’adozione di quattro importanti direttive, volte

ad unificare nei vari stati membri la disciplina della protezione temporanea in caso di

afflussi massivi di rifugiati (Dir. 2001/55/CE), standards minimi di accoglimento dei ri-

chiedenti asilo (Dir. 2003/9/CE), la qualificazione della protezione internazionale (Dir.

2004/83/CE) e, da ultimo le procedure volte al riconoscimento della protezione interna-

zionale (Dir. 2005/81/CE).

Il primo passo, in questa direzione, fu compiuto tramite l’istituzione, a Londra

nel 1986, del gruppo ad hoc “Immigrazione”, composto da 12 ministri degli Interni e/o

della Giustizia, degli stati membri. A tale gruppo furono affidati svariati compiti nel

settore, poi ridistribuiti tra una serie di sottogruppi, tra cui due, in particolare, si occupa-

rono specificatamente di asilo e di controllo alle frontiere esterne163. All’operato di tale

gruppo furono mosse diverse critiche, principalmente connesse ai suoi stretti rapporti

con le istituzioni comunitarie, in particolare il Consiglio e la Commissione che, in qual-

che modo, ne minavano il carattere intergovernativo. Tuttavia molti documenti in mate-

ria sono dovuti al suo operato e tra essi sono particolarmente importanti la Convenzione

di Dublino del 15 giugno 1990164, la bozza di Convenzione sulle frontiere esterne165, e

una bozza di Risoluzione, poi approvata dal Consiglio dell’Unione Europea nel 1992,

sulle domande d’asilo manifestamente infondate. Il gruppo lavorò anche alla bozza di

160 E. Guild, The Legal Elements of European Identity: EU Citizenship and Migration Law, University ofNijmegen, Kluwer European Law Library, The Hague 2004.161 D. Bigo, Polices en réseaux: l’expérience européeene, Fondation Nationale des sciences politiques,Parigi 1996.162 Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, del 10 maggio 2005 – Ilprogramma dell’Aia: dieci priorità per i prossimi cinque anni. Partenariato per rinnovare l'Europa nelcampo della libertà, sicurezza e giustizia, COM(2005) 184 definitivo – Gazzetta ufficiale C 236 del24.9.2005.163 M. Pastore, “La cooperazione intergovernativa nei settori dell’immigrazione, dell’asilo e della sicurez-za interna”, in B. Nascimbene (a cura di), Da Schengen a Maastricht, Giuffrè, Milano 1995; D. Bigo, Po-lices en réseaux: l’expérience européeene, Fondation Nationale des sciences politiques, cit.164 Il testo integrale della Convenzione di Dublino può essere letto e scaricato dal sito web della Cameradei Deputati, http://www.camera.it/_bicamerali/schengen/fonti/convdubl.htm .165 Allora non si trovava un accordo sullo stretto di Gibilterra tra Portogallo, Spagna e Regno Unito. Tut-tavia non affronterò in questa sede la disciplina di tale Convenzione.

66

una convenzione per la creazione di un sistema centralizzato per la raccolta delle im-

pronte digitali che fu però adottato solo successivamente all’entrata in vigore del Trat-

tato di Amsterdam, in forma di Regolamento166.

La Convenzione di Dublino, in particolare, ebbe un’influenza importantissima

sull’evolversi di una politica comunitaria in materia di asilo, anche se poi, di fatto, di-

mostrò di non funzionare correttamente. Il punto focale di tale Convenzione fu il tenta-

tivo di introdurre e di estendere a tutti gli allora stati membri la c.d. “regola della possi-

bilità unica”, con cui si voleva garantire che tutte le domande d’asilo presentate

all’interno della Comunità sarebbero state esaminate dallo stato competente in base ai

criteri previsti dal Trattato. In sostanza, la Convenzione voleva porre un limite al feno-

meno dei c.d. rifugiati in orbita, attraverso l’adozione di criteri comuni e condivisi da

tutti gli stati membri. Tuttavia la Convenzione di Dublino, che entrò poi in vigore solo

nel settembre del 1997, istituì una politica talmente restrittiva che fu spesso accusata di

aver risolto il problema dei rifugiati in orbita, limitando e riducendo però semplice-

mente la possibilità stessa di divenire rifugiato167. La Convenzione di Dublino introdus-

se, infatti, il principio “del paese di primo arrivo” come paese competente ad esaminare

la domanda d’asilo, considerando in tale categoria qualunque paese in cui il rifugiato

fosse passato e in cui avesse avuto la possibilità di presentare la sua richiesta e cancel-

lando completamente la possibilità che uno stato potesse essere più idoneo di un altro ad

accogliere il rifugiato. Ai sensi degli articoli 4, 5, 6, 7, e 8, erano infatti considerati ido-

nei, in ordine discendente, quegli stati in cui il rifugiato avesse una moglie o un figlio

minore di anni 18, che fossero già stati riconosciuti come rifugiati ex Convenzione di

Ginevra; lo stato in cui l’applicante fosse stato provvisto di un permesso di soggiorno, o

di un visto di ingresso; lo stato attraverso il quale il richiedente fosse entrato illegal-

mente in Europa salvo che, precedentemente, avesse aspettato, per più di sei mesi, la ri-

sposta ad una richiesta presentata legittimamente in un altro stato membro; lo stato che

avrebbe dovuto essere responsabile del controllo delle frontiere esterne e in tutti gli altri

casi, lo stato della prima richiesta d’asilo, inclusi tutti gli stati in cui la richiesta fosse

stata precedentemente respinta. Gli stati inoltre furono lasciati liberi di decidere indi-

166 Regolamento n.2575 del 1 dicembre 2000, riguardante l’istituzione del sistema Eurodac di controllo ecomparazione delle impronte digitali. Si veda infra.167 M. Pastore, “La cooperazione intergovernativa nei settori dell’immigrazione, dell’asilo e della sicurez-za interna”, cit.; A. Hurwitz, “The 1990 Dublin Convention: A Comprehensive Assessment”, Internatio-nal Journal of Refugee Law, 1999, 11, pag. 646 e ss.

67

pendentemente se applicare o meno criteri più generosi e se concedere o negare la pro-

tezione per ragioni umanitarie. L’unica innovazione positiva, prevista da tale documento

all’articolo 3.1, fu l’introduzione di un obbligo, per gli stati membri, di esaminare sem-

pre la richiesta del rifugiato che si fosse presentato ai confini di tali stati. L’avere isti-

tuito una responsabilità relativamente all’esame della domanda non implicò, tuttavia, un

divieto per lo stato membro interessato di rinviare il rifugiato in un altro paese, fuori

dalla Comunità, secondo quanto stabilito dalla propria normativa nazionale. Il problema

dei rifugiati in orbita non fu, pertanto, risolto, ma la Convenzione si limitò ad identifica-

re, tramite i già esaminati criteri, una serie possibile di primi paesi di ritorno168. In parti-

colare, è stato sottolineato che, se essa avesse avuto un’applicazione fedele alla sua

formulazione, lo spostamento di domande verso gli stati dislocati lungo i confini della

Comunità – in quanto, nella maggior parte dei casi, paesi di primo arrivo – sarebbe stato

enorme mentre, di fatto, non fu così. Nel lungo periodo, si notò anche che tale normati-

va, non solo non riduceva le tempistiche delle procedure (allungandole addirittura), ma,

inoltre, violava il diritto al ricongiungimento familiare169.

Un altro limite insito in tale documento fu che il rifugiato riconosciuto ai sensi

della Convenzione di Dublino avrebbe ottenuto solo l’accesso allo stato membro in cui

la domanda era stata presentata, e non a tutta l’Unione, dovendo per questo aspettare di

essere riconosciuto come cittadino dello stato in cui aveva presentato richiesta d’asilo.

Le tempistiche per questa procedura non erano però regolate dalla Convenzione, ma la-

sciate alla normativa nazionale, e questo favoriva più un processo di diversificazione

che di comunitarizzazione.

In seguito all’adozione di tale Convenzione, furono mossi altri passi verso

un’unificazione della disciplina in materia di asilo e immigrazione, inserendo l’attività

del gruppo “Immigrazione”, all’interno di un vero e proprio strumento normativo. La

redazione del Trattato di Maastricht nel 1992 fece in primo luogo confluire nel Primo

Pilastro le previsioni del Trattato della Comunità Europea del 1957, in secondo luogo

fece rientrare la politica estera e di sicurezza comune nel Secondo Pilastro, soggetto

solo ad un controllo comunitario parziale e, in terzo luogo, creò il Terzo Pilastro, per la

cooperazione in materia di giustizia ed affari interni, in cui rientravano anche

168 N. Blake, The Dublin Convention and Rights of Asylum Seekers in the European Union, in G. Harlow(ed.), Implementing Amsterdam, Hart Publishing, Oxford 2001.169 Ibidem.

68

l’immigrazione, l’asilo e la disciplina relativa ai controlli alle frontiere. Relativamente

al Terzo Pilastro si decise di utilizzare il c.d. metodo della “Cooperazione Intergoverna-

tiva”, onde attribuire il potere decisionale ai governi degli stati membri e non alle isti-

tuzioni comunitarie.

L’ultimo, e forse più rilevante, passo verso la comunitarizzazione della materia

dell’asilo, in questa prima fase, fu compiuto con l’adozione del Trattato di Amsterdam,

nel 1997, che si preoccupò di integrare il Terzo Pilastro e le previsioni di Schengen nel

Trattato della Comunità Europea, anche se con alcune notevoli eccezioni.

Il Titolo IV del Trattato, entrato in vigore nel 1999, si riproponeva come obbiet-

tivo la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, relativamente ai visti,

all’asilo, all’immigrazione e a tutte le altre politiche connesse alla libera circolazione

delle persone.

In modo particolare l’art. 63 del Trattato stabiliva una serie di misure che Il Con-

siglio di Europa si impegnava ad adottare entro 5 anni dall’entrata in vigore del Trattato

di Amsterdam, anche nel settore dell’asilo. Tali misure includevano: i criteri e i mecca-

nismi per determinare quale Stato Membro era competente ad esaminare le domande

d’asilo; standards minimi di protezione nel ricevimento dei richiedenti asilo negli Stati

Membri; standards minimi in materia dei criteri di qualificazioni dello status di rifugia-

to, standards minimi nelle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato non-

ché standards minimi in materia di protezione temporanea per persone comunque biso-

gnose di protezione internazionale e che non possono comunque fare ritorno nel proprio

paese di origine.

È importante sottolineare come alcuni Stati, il Regno Unito, la Danimarca e

l’Irlanda non accettarono che l’implementazione del Trattato di Amsterdam portasse

all’abolizione totale delle frontiere e dei controlli delle stesse, posto che ciò avrebbe

consentito anche ai cittadini di paesi terzi presenti, a qualunque titolo, in uno Stato

Membro, di muoversi liberamente e senza controllo in tutto il territorio della Comunità

Europea . In particolare il Regno Unito, e con esso l’Irlanda, rifiutarono in maniera as-

soluta la comunitarizzazione del Terzo pilastro, in materia di giustizia e affari interni e

mantennero il diritto di effettuare controlli alle proprie frontiere e di non aderire alle mi-

sure previste dal titolo IV del Trattato di Amsterdam170. In realtà, pur non avendo mai

170 Tali misure furono istituzionalizzate attraverso due Protocolli aggiuntivi al Trattato stesso.

69

formalmente rinunciato a tali diritti, il Regno Unito è stato uno degli stati più attivi

nell’adozione dei cinque strumenti di comunitarizzazzione sopra elencati ed ha anche

aderito al Regolamento 2725/2000, per l’istituzione di un archivio comune di impronte

digitali 171.

Si imponeva però la necessità di chiarire l’esatto significato da attribuire al Ti-

tolo IV, dato che la sua formulazione si prestava, almeno originariamente, a molteplici

interpretazioni. Il Consiglio di Europa, riunitosi a Tampere nel 1999, si prefisse proprio

di fissare gli obbiettivi dell’Unione nella nuova area, con particolare attenzione alle

materie relative all’immigrazione e all’asilo. In particolare, il Consiglio riconobbe che

le problematiche relative all’asilo e all’immigrazione, andavano sì valutate separata-

mente, ma con una profonda attenzione ai tratti che le accomunavano e che, proprio per

questa ragione, era importante che ricevessero un trattamento in modo unitario a livello

Comunitario.

Le nuove politiche, all’interno degli stati membri, andavano pertanto improntate

a linee-guida definite dal Consiglio, in seguito a inputs della Commissione che tenesse-

ro conto non solo della capacità di accoglienza dei singoli stati, ma anche di loro even-

tuali legami storico-culturali, con i paesi d’origine172. La Conclusione del Consiglio fu

che

“[l]'obiettivo è un’Unione europea aperta, sicura, pienamente impe-

gnata a rispettare gli obblighi della Convenzione di Ginevra relativa allo

status dei rifugiati e di altri importanti strumenti internazionali per i diritti

dell'uomo, e capace di rispondere ai bisogni umanitari con la solidarietà.

Deve altresì essere messo a punto un approccio comune per garantire l'in-

tegrazione nella nostra società dei cittadini di paesi terzi che soggiornano

legalmente nell'Unione”173.

Tale affermazione segnò probabilmente, uno dei momenti di maggior coesione

nella creazione di un C.E.A.S.174, diretto all’applicazione totale della Convenzione di

171 A. Hurwitz, The Collective Responsibility of States to Protect Refugees, cit., pagg. 42-43.172 S. Guibunda, “Politiche di Immigrazione nella UE”, Seminario Jean Monnet “L’UE: Organizzazionepolitica e socio-economica”, 2005, Roma, file scaricabile dal sito webhttp://w3.uniroma1.it/jeanmonnet/tesine_2005/ImmigrazioneGuibunda.doc.173 Conclusioni della Presidenza, Consiglio Europeo di Tampere, 15-16 ottobre 1999http://europa.eu.int/council/off/conclu/oct99/oct99_it.htm#milestones .174 Common European Asylum System.

70

Ginevra e volto ad assicurare che nessun richiedente, non solo non sarebbe mai più stato

respinto verso l’originario paese in cui la sua vita e la sua libertà erano state messe in

pericolo, ma sarebbe anche stato considerato, e come tale trattato, come tutti gli altri

cittadini dell’Unione. Per la realizzazione di tali obbiettivi il Consiglio si propose di

realizzare forme di “partenariato con i paesi terzi interessati, al fine di promuovere lo

sviluppo comune”.

Nonostante queste forti affermazioni, il Consiglio Europeo sui Rifugiati e gli

Esiliati ha pubblicato un rapporto nel 2004 che, analizzando gli anni intercorsi tra il

Consiglio di Tampere nel 1999 e quello di Bruxelles del 2004, tende a dimostrare come

in realtà poco sia stato fatto per la concreta attuazione di uno spazio C.E.A.S. effettiva-

mente proteso verso gli obbiettivi poc’anzi citati175.

In questo senso, infatti, già durante il Consiglio di Siviglia, nel 2002, si era no-

tato un cambiamento, quanto meno degli orientamenti, in questa materia. Durante tale

incontro, si era infatti voluto puntualizzare come fosse necessario che l’esame delle do-

mande di protezione internazionale presentate dai richiedenti asilo venisse svolta in ma-

niera veloce ed efficiente, e come fosse assolutamente necessario evitare un abuso del

sistema, rinviando i falsi richiedenti, il più rapidamente possibile, verso il loro paese di

origine. L’importanza dell’adozione di procedure rapide ed efficienti fu poi ribadita an-

che durante il Consiglio di Salonicco, nel 2003.

La direzione presa dal Consiglio e dagli stati membri in generale, in tale periodo

sembrava essere rivolta alla produzione di limiti all’accesso ad una serie di eque proce-

dure, più che a garantire un’effettiva tutela ai richiedenti protezione. Tale orientamento

fece si che le istituzioni si sentissero legittimate a lasciare, comunque, un’ampia auto-

nomia agli stati membri in questo settore e ad un allontanamento da quella esigenza di

unitarietà, precedentemente avvertita.

Risulta dunque naturale chiedersi se effettivamente questo processo di armoniz-

zazione della normativa abbia raggiunto il suo scopo di rendere più forti ed aderenti agli

obbiettivi internazionali relativi alla protezione dei diritti umani le misure europee o se,

invece, lo stesso non sia più che altro servito agli stati membri per adottare una parvenza

di standars minimi di protezione, in realtà fortemente influenzati dal desiderio di gestire

175 D. Stevens, Asylum Seekers in the New Europe: Time for a Rethink?, in Prakash Shah (ed.), TheChallenge of Asylum to Legal Systems, Cavendish Publishing, London 2005.

71

in maniera autonoma a livello regionale la politica relativa alle migrazioni in generale. È

stato rilevato come a partire dal 1999, in realtà

“ l’Unione Europea abbia investito milioni di euro per incrementare

il numero delle guardie di frontiera, per rafforzare i controlli in alto mare,

nell’utilizzo di elicotteri e attrezzature di sorveglianza come gli apparecchi

ad infrarossi, per sperimentare l’utilizzo di satelliti onde intercettare indivi-

dui che passano le frontiere e nell’utilizzo di speciali attrezzature biometri-

che e per la rilevazione delle impronte”176

Non è mancato poi chi ha criticato questa prima fase del sistema comune di asi-

lo, poichè in realtà la stessa si è concretizzata attraverso un’enorme confusione tra le

misure relative all’asilo e quelle, invece, relative all’immigrazione in generale distor-

cendo di fatto le misure di protezione al fine di utilizzarle nell’ambito delle strategie

volte al controllo delle migrazioni 177. Tale circostanza risulterà altresì confermata in

seguito dall’analisi della nuova Direttiva sulle Procedure del 2005178.

3. Gli strumenti di diritto derivato: l’evoluzione della normativa comunita-

ria in materia di asilo

In seguito a quanto stabilito con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam179

e alle politiche decise durante il Consiglio di Tampere, gli organismi comunitari hanno

elaborato una serie di norme vincolanti, con il preciso intento di fissare una serie di pa-

rametri in materia di asilo. Sono importanti da considerare, soprattutto, la Direttiva

2001/55/CE, relativa alla protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di profu-

ghi, la Direttiva 2003/9/CE, riguardante l’accoglienza dei richiedenti asilo, la Direttiva

sulla qualificazione dello straniero in cerca di protezione internazionale 2004/83/CE, e il

Regolamento c.d. Dublino ΙΙ, “Criteri e meccanismi di determinazione dello stato

176 Traduzione libera dall’inglese da European Council Refugees and Exiles (ECRE), Broken Promises –Forgotten Principles: An ECRE Evaluation of the Development of EU Minimum Standards for RefugeeProtection, Tampere 1999–Brussels 2004, www.ecre.org 2008.177J. Mac Adam, “Regionalising International Refugee Law in The European Union: Democratic RevisionOr Revisionist Democracy?”, Victoria University of Wellington Law Review, 28, 2007 pag. 261.178 S. Craig e M. Fletcher, Deflecting Refugees: A Critique of the EC Asylum Procedures Directive, inPrakash Shah (ed.), The Challenge of Asylum to Legal Systems, cit.179 Il Trattato di Amsterdam fu firmato il 02 ottobre del 1997 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale C 340,il 10 novembre 1997, entrò però in vigore solo successivamente nel 1999, abrogò sia il Trattato di Romache il Trattato di Maastricht. In proposito si veda A. Duff, The Treaty of Amsterdam, Federal Trust forEducation and Research and Immigration Law Practioners Association European, 1997.

72

membro competente per l’esame di una domanda d’asilo”, testo che si riproponeva so-

stanzialmente di ovviare alle mancanze della, già citata, Convenzione di Dublino.

La Direttiva 2001/55/CE aveva il compito, e con esso il merito, di colmare al-

cune delle lacune create dalla formulazione della Convenzione di Ginevra, e dalla nor-

mativa internazionale in generale. Per la prima volta veniva riconosciuto istituzional-

mente il bisogno di offrire protezione anche “alle persone fuggite da zone di conflitto

armato, o violenza endemica”, e anche “alle persone […] soggette a rischio grave di

violazione”180.

Tale norma (art. 3, co. 1), concedeva inoltre una protezione temporanea a carat-

tere straordinario che non contrasta, e non intendeva pertanto sostituire, la possibilità,

qualora ne sussistano i requisiti, di essere riconosciuti rifugiati ai sensi dell’articolo 1,

della Convenzione di Ginevra. La norma, pertanto, introduceva un criterio alternativo,

ma non sostitutivo o concorrenziale, a quello previsto dall’articolo 1 della Convenzione.

Tale direttiva si limitava a stabilire gli standard minimi per i casi, eventuali, in cui il

Consiglio della U.E. decida, votando a maggioranza qualificata, di aprire le proprie

frontiere all’esodo di massa di profughi che richiedono, e sono qualificabili, come de-

stinatari di protezione umanitaria temporanea (art. 5). In seguito a tale decisione il Con-

siglio può anche dichiarare lo stato di emergenza ed adottare misure volte ad assicurare

la concreta implementazione di tale protezione temporanea181. La concreta realizzazione

di tali misure rientra nella Decisione 2004/904/CE del Consiglio, pubblicata sulla Gaz-

zetta Ufficiale della Comunità Europea il 28/12/2004, che ha istituito il “Fondo Europeo

per i rifugiati”, per il periodo che va dal 1° gennaio 2005 al 31 dicembre 2010.

L’istituzione di tale Fondo mirava ad aiutare gli stati membri nel coordinamento e nella

realizzazione delle misure di accoglienza dei rifugiati ex Convenzione di Ginevra e di

qualsiasi cittadino di un paese terzo o apolide che beneficiasse di una forma di protezio-

ne sussidiaria ai sensi della Direttiva 2004/83/CE182. Tale Direttiva, infatti, reca norme

minime sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o

di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul

contenuto della protezione riconosciuta; di qualsiasi cittadino che abbia domandato di

180 Crf Considerando della direttiva 2001/55/CE.181D. Luca, “Questioning Temporary Protection”, International Journal of Refugee Law, 6, 1994, pag.535-561.182 In proposito si veda anche O. F. Sidorenko, The Common European Asylum System, T.M.C. AsserPress, The Hague 2007.

73

essere ammesso ad una delle forme di protezione precedenti; ed infine, di qualsiasi cit-

tadino di paesi terzi o apolidi che benefici di un regime di protezione temporanea ai sen-

si della direttiva 2001/55/CE. Il Fondo sostiene gli stati membri in tutte le politiche ri-

guardanti l’accoglienza e le procedure per il riconoscimento dell’asilo, l’integrazione e,

quando ve ne siano le condizioni, l’eventuale rimpatrio volontario. Inoltre, nel caso di

attuazione dei meccanismi di protezione temporanea previsti dalla Direttiva

2001/55/CE, il Fondo può essere utilizzato per finanziare misure urgenti a favore degli

stati membri183. L’articolo 4 di tale Direttiva prevede che la protezione temporanea sia

pari ad un anno, salvo proroga massima di sei mesi in sei mesi, per un periodo di mas-

simo un anno, con la possibilità di proroghe ulteriori, qualora continuino a sussistere le

condizioni che hanno motivato la concessione iniziale della protezione. Tale protezione

può essere ritirata anche prima dello scadere dell’anno, qualora le condizione che

l’hanno resa necessaria vengano meno e sia possibile procedere a rimpatri volontari e

sicuri verso i paesi di origine. Tale norma si preoccupa, sostanzialmente, di garantire

standards minimi per offrire una tutela immediata agli sfollati anche se, in realtà, la sua

operatività dipende, di volta in volta, da una decisione adottata dal Consiglio

dell’U.E.184 La sua formulazione si inseriva nel percorso per raggiungere una politica

comune a livello europeo, in tema di asilo, avviato dal Consiglio di Tampere del 1999.

Alcuni punti di tale Direttiva sono tuttavia suscettibili di critiche185. In particolare, non è

fatto alcun riferimento alla possibilità per i profughi, destinatari di protezione umanita-

ria temporanea, di un diritto alla libera circolazione nei vari stati membri, e all’interno

dell’Unione. Inoltre, è stata fortemente criticata la previsione dell’articolo 12 che, pur

garantendo a tali rifugiati il diritto al lavoro, prevede anche che tale diritto possa essere

ristretto per favorire i cittadini degli stati membri dell’U.E., o quelli appartenenti allo

spazio economico europeo o quelli appartenenti ad uno stato terzo, ma legalmente resi-

denti nel territorio dell’Unione.

Successivamente, la Direttiva 2003/9/CE si è occupata dell’istituzione di stan-

dard minimi di trattamento e di accoglienza da applicare ai richiedenti asilo, a cui devo-

no sottostare tutti gli stati membri. Tali standard vanno rispettati in tutte le fasi della

183 E. Guild, The Legal Elements of European Identity: EU Citizenship and Migration Law , cit.184 Tale direttiva non è stata applicata, ad esempio, né agli sfollati dei bombardamenti in Afghanistan, néai rifugiati provenienti dall’attuale guerra in Iraq.185 P. Troianello, Il diritto di asilo nell’Unione Europea, in B. Bilotta e F. Cappelletti (a cura di), Il dirittod’asilo, cit., pag. 91.

74

procedura e vanno applicati nei confronti di qualunque richiedente. Vengono anche de-

lineate alcune categorie in cui la protezione è ulteriormente rafforzata. In particolare,

sono suscettibili di maggior tutela i minori che raggiungono l’Unione senza la presenza

di un adulto. Gli stati venivano però lasciati liberi di introdurre, eventuali normative con

previsioni più vantaggiose, ma dovevano adattare la disciplina nazionale a quella comu-

nitaria entro il 6 Febbraio 2005. Le disposizioni contenute in tale Direttiva non si appli-

cano quando ci si trova nel campo di applicazione della Direttiva 2001/55/CE. Gli ob-

biettivi di tale norma sono di raggiungere, tramite l’istituzione di standards minimi di

accoglienza, un tenore di vita omogeneo per tutti i rifugiati all’interno degli stati mem-

bri. Inoltre vengono previste regole che possono garantire l’unità del nucleo familiare,

composto dal coniuge o dal convivente e dai figli minori, affinché gli appartenenti allo

stesso nucleo non vengano divisi e sparpagliati fra i diversi stati. Tale Direttiva prevede

poi che all’asilante venga rilasciato un documento che gli concede uno status di richie-

dente, entro tre giorni dalla proposizione della domanda, per il periodo in cui “la do-

manda è pendente o in esame” (art. 6)186.

Le singole normative nazionali possono limitare la libertà di movimento dei ri-

chiedenti asilo e anche confinarli in una determinata zona, al fine di rendere più rapide

ed efficaci le procedure. Tali limitazioni però dovrebbero essere previste solo in una se-

rie di circostanze a carattere straordinario e temporaneo mentre, di fatto, il dettato di tale

norma riconosce agli stati un potere discrezionale grazie al quale tali limiti hanno as-

sunto carattere ordinario e permanente. È stato, inoltre, osservato187 che tale previsione,

negli attuali termini, si pone in contrasto con l’art. 2, comma 3, del Protocollo 4 della

C.E.D.U., secondo cui non può essere imposta nessuna restrizione della libertà di libero

movimento, se non nei casi previsti dalla legge, al fine di garantire la sicurezza nazio-

nale, il mantenimento dell’ordine pubblico, la prevenzione delle infrazioni penali, la

protezione della salute e della morale o dei diritti e delle libertà altrui.

Il richiedente asilo, secondo tale direttiva, poteva accedere al mercato del lavoro

solo quando, scaduto il primo anno, non avesse ottenuto risposta alla sua richiesta e tale

ritardo non fosse dovuto a cause a lui direttamente imputabili. Tuttavia anche in questo

ambito, la discrezionalità concessa agli stati membri è amplissima. Gli stati membri si

186 L. Neri, “Profili sostanziali: Lo status di rifugiato”, in B. Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranie-ri , CEDAM, Padova 2004.187 P. Troianello, op. cit., pag. 92.

75

dovrebbero anche impegnare a garantire che i richiedenti asilo, autorizzati a soggiornare

negli stati membri, abbiano accesso alle strutture sanitarie, di alloggio, alimentari ed

educative, prestando particolare attenzione alle categorie di richiedenti più deboli quali

minori, donne, anziani o persone che siano state vittime di violenze fisiche o psicologi-

che. Inoltre al richiedente deve essere garantita la possibilità di ricorrere davanti ad un

organo giudiziario dello stato membro interessato per contestare o comunque agire av-

verso il diniego di fornirgli assistenza materiale ed economica.

Ma ancora più importante nel processo di armonizzazione delle procedure co-

munitarie fu l’adozione, nell’aprile del 2004 della Direttiva 2004/83/CE, c.d. “Direttiva

sullo status di rifugiato”. Tale norma si prefiggeva come obbiettivo principale la riela-

borazione dei confini della definizione di rifugiato, sempre all’interno del “progetto”

delineato durante il Consiglio di Tampere, volto alla creazione di un regime comune in

materia d’asilo. Tale Direttiva è rivolta a creare un sistema comune, all’interno

dell’Unione, per il riconoscimento di quei richiedenti asilo che hanno bisogno di una

concreta tutela internazionale e per il conferimento di un insieme di benefici e diritti

fondamentali. L’introduzione di questa previsione mirava a ridurre fortemente il numero

dei criteri per i riconoscimenti, all’interno degli stati membri, onde eliminare il c. d. fe-

nomeno dell’ ”asylum shopping” 188, dovuto alla diversità di criteri per il riconoscimento

dello status di rifugiato all’interno dei vari stati. Tale fenomeno, infatti, portava i richie-

denti ad “eleggere” uno stato dove recarsi, invece di un altro, in base al livello di sem-

plicità della procedura e all’esistenza di requisiti più accessibili.

Tale documento, introduceva inoltre importanti novità per quelle categorie che

non rientravano nelle previsioni della Convenzione di Ginevra, quali le vittime delle

guerre civili, oltre ad importanti innovazioni interpretative della già citata Convenzione,

prevedendo considerazioni relative al genere, in modo da fare rientrare nella definizione

di rifugiato colui che nutre fondati timori di essere perseguitato in ragione del sesso o

dell’orientamento sessuale. Alla luce di tale innovazione, dovrebbero essere ricono-

sciute come fondate anche le eventuali richieste di asilo presentate da donne per atti di

violenza sessuale, o mutilazioni genitali femminili, o quelle presentate da persone per-

seguitate per i propri gusti sessuali.

188 Sul fenomeno si veda F. P. Miller, A.F. Vandome, J. McBrewester, Asylum Shopping, Alphascrit Pub-lishing, London 2010.

76

La Direttiva citata ha poi innovato completamente la nozione di “responsabile”

della persecuzione nei confronti del richiedente asilo, che viene estesa anche “ai partiti

e alle organizzazioni che controllano lo stato o una parte consistente del suo territorio”

(art. 6, lett. b), così come anche soggetti non statuali, quali le milizie. È stato tuttavia

sottolineato che tale previsione tende, ancora una volta, a marcare la differenza di tutela

tra i rifugiati de facto, destinatari di protezione sussidiaria, rispetto a coloro che sono ri-

conosciuti rifugiati in base alla Convenzione di Ginevra189, più che ad individuare nuovi

orizzonti nell’ambito della definizione dello status di rifugiato.

In questo processo di armonizzazione della disciplina europea si è inserito anche

il Regolamento 343/2003, c.d. Dublino II, che ha sostituito la Convenzione di Dublino,

stabilendo nuovi, ma comunque simili, criteri e meccanismi per l’individuazione dello

stato competente per l’esame di una domanda presentata in uno degli stati membri da un

cittadino di un paese terzo. Tale Regolamento, applicabile in tutti i paesi della U.E., mi-

ra ad evitare che nessun richiedente asilo venga rinviato nel paese in cui rischia di esse-

re sottoposto a persecuzione e che, quindi, la sua e ogni altra richiesta venga corretta-

mente valutata, da uno degli stati membri che sono ritenuti paesi sicuri. Tale Regola-

mento si ispira, pertanto, ad un rispetto assoluto del principio di non-refoulement, ex art.

33 Convenzione di Ginevra, alle linee-guida del Consiglio di Tampere e alla necessità di

accelerare e allo stesso tempo rendere più efficienti le procedure d’esame delle doman-

de. Sono previsti tre mesi, dal giorno in cui uno stato membro riceve una domanda

d’asilo, per presentare una richiesta di presa in carico ad un altro stato, se

l’amministrazione interpellata ritiene di avere valide ragioni per ritenere che

quest’ultimo sia competente all’esame della domanda. Se in questo lasso di tempo non

viene presentata alcuna domanda di presa in carico, il primo stato ricevente la domanda

è considerato competente e deve procedere senz’altro all’esame della domanda ricevuta.

È stata anche introdotta una sanzione per lo stato che non trasferisca il richie-

dente asilo entro sei mesi da quando ha ricevuto l’accettazione dello stato competente.

Scaduto tale periodo lo stato inadempiente sarà comunque considerato competente.

Il Regolamento Dublino II istituisce, poi, una serie di criteri gerarchici per

l’individuazione dello stato membro competente all’esame della domanda d’asilo, ri-

guardanti tutti i richiedenti asilo, entrati legalmente o non, in uno degli stati membri.

189 P. Troianello, op. cit., pag. 92.

77

Vengono anche previsti una serie di criteri residuali, tra i quali è importante sottolineare

quello relativo all’applicazione della Clausola Umanitaria, volta ad assicurare il ricon-

giungimento dei membri di una stessa famiglia per ragioni umanitarie, basate su fattori

e affinità culturali, anche quando tale stato non avrebbe dovuto essere, in base ai criteri

principali, competente.

Il richiedente asilo può sempre presentare ricorso contro il trasferimento nello

stato che è stato ritenuto competente, ma tale ricorso, salvo che l’autorità giudiziaria

non stabilisca diversamente, non ha efficacia sospensiva.

La novità più importante riguarda, probabilmente, la presentazione di domande

d’asilo nelle zone internazionali di transito degli aeroporti. In passato è, infatti, capitato

che gli stati membri si servissero di una finzione giuridica relativa a tali zone interna-

zionali, onde evitare di ammettere i richiedenti sul proprio territorio e in base al princi-

pio di non-refoulement, ex Convenzione di Ginevra, e dover poi analizzare le loro do-

mande d’asilo. Il Regolamento Dublino II introduce, in questo senso, l’obbligo per lo

stato membro in cui l’aeroporto è situato di esaminare la domanda.

L’ultimo passo verso il raggiungimento di una disciplina comune in questo setto-

re è stato compiuto dalla Direttiva sulle Procedure, 2005/83/CE, che avrebbe dovuto

completare la prima fase di costruzione di un Sistema Comune Europeo di Asilo190.

Come ho detto in precedenza, gli orientamenti più recenti del Consiglio (Sivi-

glia, Salonicco), hanno dimostrato come le priorità degli stati membri in questo settore

sembrino cambiate. All’interno di tale cambiamento s’inserisce anche l’accordo rag-

giunto dal Consiglio Giustizia e Affari Interni, in Lussemburgo, il 29 aprile 2004, rela-

tivamente alla Direttiva sulle Procedure. Dopo un’ulteriore serie di negoziati politici la

Direttiva fu realizzata, solamente nel 2005, con l’obbiettivo di regolare le modalità con

cui le decisioni sulle domande d’asilo vengono prese e gli standard minimi relativi alle

procedure per il riconoscimento. Le reazioni a questo documento furono molteplici. In

particolare, la Commissione manifestò il proprio entusiasmo affermando che tale nor-

mativa avrebbe garantito “all’interno dell’Unione Europea che tutte le procedure”

avrebbero avuto “le stesse caratteristiche pur mantenendo coerenza con le altre previ-

190 C.E.A.S.

78

sioni internazionali” 191. Al contrario l’U.N.H.C.R.192, in una conferenza stampa del 30

aprile 2004, ha fortemente criticato alcune previsioni di questa Direttiva, affermando

che se il punto di partenza offerto dalle linee-guida, indicate dalla Commissione sulla

materia, era stato certamente positivo, invece l’accordo in seguito raggiunto dagli stati

ha portato a risultati quanto mai deludenti. La formulazione di tale norma ha, ancora una

volta, lasciato troppa autonomia alle singole legislazioni nazionali, consentendo così un

elevato rischio che le domande d’asilo ricevano trattamenti peggiori. L’opinione

dell’U.N.H.C.R. è che gli stati si stiano allontanando da quella serie di principi enun-

ciati a Tampere nel 1999 e che avrebbero dovuto portare ad una disciplina unitaria della

materia.

Il testo attuale è decisamente meno incisivo dell’originaria proposta della Com-

missione, ed è spesso “oscuro e incoerente”193. Le reazioni del Consiglio Europeo per i

Rifugiati e gli Esiliati194 sono state altrettanto severe.

Il largo margine di discrezionalità lasciato agli stati membri nel decidere le Pro-

cedure da adottare, produce il risultato di compiere numerosi passi indietro rispetto ai

risultati raggiunti con gli strumenti precedentemente adottati, sulla scia del Consiglio di

Tampere195. Ad esempio, la normativa non introduce alcuna novità riguardante le don-

ne, parti dei nuclei famigliari, poiché continua a prevedere che solo il richiedente prin-

cipale, normalmente il padre di famiglia, venga intervistato. La Direttiva stabilisce an-

che che ai richiedenti che abbiano reso dichiarazioni incoerenti, contraddittorie, con de-

scrizioni confuse o inconsistenti, possa essere rifiutata anche l’intervista. Inoltre, le pre-

visioni di questo articolo risultano in contrasto con quanto l’U.N.H.C.R. ha stabilito

(1992) e ribadito nel tempo con la redazione del Manuale per le procedure e i criteri per

la determinazione dello status di rifugiato. Ivi è espressamente statuito che ai richiedenti

191 Traduzione personale dall’inglese, S. Craig e M. Fletcher, “Deflecting Refugees: A Critique of the ECAsylum Procedures Directive”, in Prakash Shah (ed.), The Challenge of Asylum to Legal Systems, cit.,pag. 59.192 In “UNHCR regrets missed opportunity to adopt high EU asylum standards”, 30 Aprile 2004, rin-venibile on-line al seguente indirizzo-http://www.unhcr.org/cgibin/texis/vtx/news/opendoc.htm?tbl=NEWS&id=40921f4e4&page=news e in“UNHCR comments on proposed E.U. Asylum Procedures Directive”, 29 Marzo 2005, inhttp://www.unhcr.org .193 Traduzione personale dall’inglese in S. Craig e M. Fletcher, op. cit., pag. 60.194 E.C.R.E.195 Mi riferisco al precedente blocco di Direttive, 2001/55/CE, 2003/9/CE, 2004/83/CE, commentato su-pra.

79

debba sempre essere lasciato il beneficio del dubbio196. Inoltre, pur prevedendo che gli

Stati membri non possono rifiutare l’esame di una domanda tardiva, la stessa disposi-

zione non prevede la possibilità di avvalersi delle procedure accelerate, quando non sia

stato dimostrato che tale ritardo sia dovuto a cause inevitabili. La Direttiva, pur contem-

plando la necessità per gli stati membri di garantire l’accesso all’assistenza legale, lascia

una immutata discrezionalità per la quale tale diritto non è effettivamente garantito in

tutti gradi di giudizio.

Ma l’innovazione maggiore, che risulta anche essere la più criticata, è

l’istituzione del concetto di “paese terzo sicuro”, introdotta dall’articolo 27, il quale sta-

bilisce che i richiedenti possono essere rinviati verso altri paesi terzi sicuri, diversi dal

paese di origine, o dal paese in cui soffrono la persecuzione. Lo scopo, e il risultato di

tale previsione finiscono per essere che l’esame delle domande viene allontanato

dall’asse europeo, per essere sottoposto all’attenzione dei c.d. paesi di primo arrivo, ov-

vero i paesi limitrofi a quello da cui l’asilante è in fuga197.

La direttiva prevede anche che gli stati membri debbano provvedere il richie-

dente di un documento che certifichi la sua provenienza e il fatto che la sua richiesta

non sia stata esaminata nel merito, e debbano riaccettarlo, qualora il paese terzo gli ri-

fiuti l’ingresso. Ma nessuna di queste previsioni può garantire che nel paese terzo, anche

qualora il richiedente sia ammesso, la sua domanda sia sottoposta ad un’idonea proce-

dura. È inoltre previsto un diritto d’appello contro il diniego della richiesta, basato

esclusivamente sul principio del paese terzo, sicuro ma, ancora una volta, gli stati ven-

gono lasciati liberi di decidere relativamente alle procedure e alla possibilità che tale

appello abbia o meno efficacia sospensiva. Non conferendo un obbligo sospensivo a tale

diritto all’appello questa previsione si pone in aperto contrasto con il principio di non-

refoulement, sancito dall’art. 33 della Convenzione.

L’ultimo passo verso la comunitarizzazione di questo, come di altri settori,

avrebbe dovuto originalmente essere portato dal Trattato che istituisce una Costituzione

per l’Europa, firmato a Roma il 29.10.2004, il quale però non entrò mai in vigore, stante

il rifiuto espresso da Francia e Olanda, dovuto al negativo esito dei referendum popolari

indetti in proposito. Tuttavia da tale fallimento è poi nato il Trattato di Lisbona, il quale

ne riprende in parte i contenuti, tralasciando quelli più spinosi, quali la nozione di una

196 S. Craig e M. Fletcher, “Deflecting Refugees”, cit., pag. 63.

80

comune cittadinanza europea e l’adozione di una costituzione unica. Dopo un iter lungo

e travagliato198, il Trattato di Lisbona, è finalmente entrato in vigore il 1 dicembre del

2009. Le numerose modifiche in esso incluse riguardano sia le istituzioni dell’Unione

Europea che le sue competenze. Esso conferisce tutta la competenza in materia di liber-

tà, sicurezza e giustizia al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea 199, versione

nuova e ampliata dell’antico Trattato della Comunità Europea, il quale al titolo V capo

II, prevede espressamente la regolamentazione in merito alle Politiche relative ai con-

trolli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione (artt. 77-80). In base all’art 67, par.2,

del TFUE, l’Unione Europea assume l’obbligo di sviluppare una politica comune in

materia di frontiere, visti, immigrazione e asilo. Ciò che differenzia tale formulazione

da quella contenuta in passato nel Trattato della Comunità Europea, è che in esso gli

Stati si limitavano ad impegnarsi ad adottare norme minime (minimum standards), la-

sciando poi ampia discrezionalità nella formulazione e nell’implementazione delle nor-

me, come abbiamo visto, ai singoli legislatori nazionali.

Trattandosi ora di una politica comune ciò consentirà all’Unione di adottare

qualsiasi atto normativo, a scelta tra Decisioni, Direttive e Regolamenti. In particolare

l’adozione di Regolamenti in questo ambito, un’assoluta novità, vincoleranno gli Stati

in ogni loro elemento e saranno direttamente applicabili senza necessitare di una nor-

mativa nazionali di attuazione, come invece le direttive.

La competenza in materia di asilo e immigrazione viene definita, dall’art. 4

TFUE, come competenza concorrente, ovvero in cui la titolarità è sia degli Stati che

dell’Unione. Ovvero in tali materia l’Unione interviene solo qualora l’obbiettivo perse-

guito non sia realizzabile autonomamente dagli Stati ed essa sia meglio in grado di per-

seguirlo, senza mai però adottare azioni che per forma o contenuto vadano oltre quanto

necessario per conseguire l’obbiettivo che l’azione si propone200.

L’art. 78 TFUE definisce la politica in materia di asilo, che è ora espressamente

definita come comune e soggetta ai meccanismi sopra descritti. In particolare tale arti-

colo individua come vincolanti i principio di non refoulment e il rispetto della Conven-

197 P.Balbo, Rifugiati e asilo, Halley Editrice, Avellino 2007, pagg. 63-69.198 La Germania si era opposta alla ratifica, volendo attendere la pronuncia della propria Corte Costituzio-nale, a cui si erano rivolti diciotto deputati e l’Irlanda aveva indetto un referendum popolare in meritoche, avendo avuto esito negativo, ha comportato ulteriori ritardi.199 TFUE.

81

zione di Ginevra, per l’adozione di ogni futuro strumento normativo nel settore. Viene

poi illustrato il concetto di protezione internazionale, già adottato dalle Direttive sopra

citate che si articola nei tre differenti istituti dell’asilo europeo, della protezione tempo-

ranea e della protezione sussidiaria. L’asilo viene per la prima volta definito come euro-

peo probabilmente con l’intento da un lato di differenziarlo da quello offerto in altre

aree geografiche201 e dall’altro di renderlo omogeneo, anche se così per il momento an-

cora non è, all’interno dei vari Stati Membri.

Allo Stato non si hanno ancora dati recenti sulle modifiche introdotte dal TFUE

e bisognerà pertanto aspettare ancora qualche tempo per vederne gli effetti in concreto.

Non è questa la sede più opportuna per proseguire in un’analisi più profonda di

tale normativa, dovendo rivolgere la nostra attenzione principalmente a come l’Italia e

l’Inghilterra abbiano poi recepito queste innovazioni, ma da quanto detto sino ad ora

appare, a mio avviso, evidente che l’orientamento definito in seguito al Consiglio di

Tampere, dettato sostanzialmente dalla necessità di definire una normativa comune, in

un settore quale quello dell’asilo, è stato in qualche modo ristretto e parzialmente raggi-

rato. Il settore del diritto d’asilo si è, da sempre, dovuto scontrare con le difficoltà date

da un lato dal voler garantire una tutela a coloro che fondatamente la necessitano e

dall’altro con le remore dei singoli stati a rinunciare alla propria sovranità. Viene da

chiedersi, a questo punto, se però abbia un senso continuare a definire e regolare questo,

così delicato, settore del diritto con una previsione internazionale, la Convenzione di

Ginevra, la quale, nonostante il suo voluto carattere di universalità, è stata formulata più

di cinquanta anni fa, in un mondo che era storicamente e politicamente molto diverso da

quello attuale. Vero è anche che dall’analisi storica - normativa svolta in questo capitolo

e in quelli precedenti, è emerso come le politiche in materia di asilo, originariamente fo-

calizzate su obbiettivi umanitari e motivate dall’intento di offrire una concreta protezio-

ne agli asilanti in fuga, siano ora generalmente più orientate dal discorso sicuritario, che

ha portato negli anni ad adottare norme sempre più restrittive. In particolare è divenuto

comune rifiutare le domande di asilo sulla sola base che la protezione, poteva e di con-

seguenza, doveva essere chiesta altrove202.

200 C. Favilli, “Il Trattato di Lisbona e la politica dell’Unione europea in materia di visti, asilo e immigra-zione”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n.2, 2010, pag. 19.201 Ibidem, pag. 26.202 Basti pensare alle nozioni di paese terzo sicuro e alla normativa della Convenzione di Dublino e delRegolamento Dublino II, sopra descritte.

82

Anche i recenti risultati delle politiche comunitarie non possono non porci di

fronte ad un interrogativo, per quello che riguarda il significato ed il valore da attribuire

ad una serie di norme che dovrebbero unire, o comunitarizzare, la disciplina, ma fini-

scono, almeno fino all’adozione del Trattato di Lisbona, i cui effetti sono ancora da ve-

nire, poi per conferire ai singoli stati un margine di discrezionalità tale che il risultato

sembra caratterizzato, e non potrebbe essere diversamente, da una mancanza totale di

omogeneità e coerenza. Nonostante le mancanze ora sottolineate, come vedremo nel

prossimo capitolo, tuttavia, la necessità di adeguarsi a quanto stabilito dalla normativa

comunitaria ha avuto il pregio di far si che l’Italia, rimasta per molto tempo priva di una

disciplina organica nel settore dell’asilo, abbia invece approvato recentemente due de-

creti legislativi che hanno finalmente chiarificato la qualificazione degli status di prote-

zione internazionale e le procedure relative alle richieste di protezione internazionale,

rendendole in parte meno aleatorie e più sicure.

83

CAPITOLO III - IL DIRITTO D'ASILO NELL'ORDINAMENTOITALIANO

1. Il diritto d 'asilo e la sua costituzionalizzazi one

2. La prima "disciplina" italiana dell'asilo: la Le gge Martelli.

3. La c. d. “Bossi-Fini”, l. n. 189/2002 e il suo r egolamento applicativo

4.L’implementazione della normativa comunitaria: i Dlgs. N. 251/2007 e

159/2008.

5. Gli accordi Italia-Libia

6. L'applicazione concreta della normativa: alcune sentenze

84

1. Il diritto d’asilo e la sua costituzionalizzazio ne.L’ Italia è stata per lungo tempo, l’unico stato dell’Unione Europea a non

avere una legge organica e specifica che disciplinasse il diritto d’asilo, le sue basi, i suoi

criteri e le sue caratteristiche. Solo in tempi recentissimi e con grave ritardo, in applica-

zione delle Direttive Comunitarie 2004/83/CE e 2005/85/CE, infatti il nostro paese ha

approvato i D.Lgs 251/2007 e 25/2008, per meglio regolamentare tale area anche se, in

concreto, ancora oggi la normativa di tale settore è frammentata in diverse leggi e de-

creti e appare spesso disorganica e confusa, soprattutto nella sua applicazione.

Per diverse ragioni, per lo più legate a scelte ed opportunità politiche, nel nostro

paese la disciplina di tale istituto è stata, in un passato ancora recente, completamente

ignorata o solo marginalmente contemplata all’interno di una cornice normativa disci-

plinante il più ampio e generale settore dell’“immigrazione”.

Eppure non è così che l’assemblea Costituente italiana ha concepito, difeso e,

fortemente, voluto il diritto d’asilo. Il dibattito svoltosi in seno alla Costituente non fu

certo privo di opinioni e pareri discordanti, in merito alla costituzionalizzazione o meno

del diritto d’asilo e, in particolare, alla definizione delle categorie a cui concedere o, al-

ternativamente, negare tale protezione. Leggendo, ad esempio, alcuni degli interventi203

dei deputati partecipanti ai lavori preparatori dell’Assemblea emerge una prima tenden-

za volta a limitare la concessione di tale tutela solo a quelle categorie di individui sog-

gette nel paese d’origine a “gravi forme di persecuzione per aver difeso i diritti di li-

bertà e del lavoro”204.

Tuttavia, alla fine dei lavori, in seguito ad un ampio e vivace dibattito che aveva

portato alla luce diverse possibili definizioni della nozione costituzionale di asilo, pre-

valse un orientamento volto a sostenere una sua formulazione, sufficientemente ampia e

generale, sì da offrire tutela a tutti coloro ai quali fosse stato negato, nel paese d’origine,

l’esercizio di tutti quei diritti e libertà fondamentali che la nuova Costituzione Italiana si

era, sopra ogni cosa, prefissata di tutelare.

Il prevalere di tale orientamento si sostanziò dunque, da un lato, nella formulazione

dell’articolo 10, co. 3, Cost., il quale stabilisce:

203 Emendamento presentato dai Deputai Comunisti, Onorevoli Ravagnan, Grieco, e Laconi (A.C. sed.Ant. 11 aprile1947, vol. 1, pag. 792) in Camera dei Deputati, Segretariato Generale, La Costituzione dellaRepubblica nei Lavori Preparatori, Roma, 1970.204 Ibidem.

85

“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio

delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha

diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni

stabilite dalla legge”;

e dall’altro, nell’inserimento di tale previsione non in un punto qualunque della neonata

carta ma all’inizio di questa, sotto la rubrica più importante, rappresentativa e fondante

della stessa, intitolata ai “Principi Fondamentali”.

L’introduzione di una norma dai contorni così ampi fu sicuramente dovuta ad un

diffuso sentimento di solidarietà, da contestualizzare nel periodo storico-politico che i

Costituenti e, con essi, tutta l’Italia, avevano dovuto affrontare nei duri anni del regime

fascista prima e della guerra poi.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, l’Italia205 aveva dovuto fare i

conti con i segni e le ferite lasciate dalle continue violazioni dei diritti umani e delle li-

bertà fondamentali dell’individuo ad opera della precedente dittatura fascista e

dell’occupazione nazista.

L’intento dei Costituenti, alcuni dei quali avevano provato di persona l’esilio in

seguito alle severe e violente repressioni fasciste, era quello di garantire una tutela con-

creta a chiunque si fosse trovato nell’impellente necessità di fuggire da un regime tota-

litario e dittatoriale.

L’immediato dopoguerra, inoltre, fu caratterizzato da continui esodi di massa dai

paesi dell’est, in parte occupati dall’Unione Sovietica, e dalla necessità di offrire tutela e

protezione ai profughi sfollati e perseguitati dal regime nazista, che erano sparsi su tutto

il territorio europeo. Fu proprio questa serie di eventi storici, come abbiamo visto nel

capitolo precedente, a favorire l’affermarsi di una moderna nozione di rifugiato e la de-

finizione dello status giuridico ad essa connesso.

I Costituenti italiani, attraverso la formulazione dell’articolo 10, co. 3, Cost., si

inserirono perfettamente all’interno del dibattito internazionale sulla materia, avviato

proprio in quegli anni. Essi ritennero importante affermare il principio per cui una con-

creta protezione dovesse essere assicurata, all’interno del territorio italiano, a tutti colo-

ro i quali venivano privati dei propri diritti fondamentali nel proprio paese di origine, a

205 L’ Assemblea Costituente Italiana, alla fine del conflitto, si trovò davanti agli occhi non solo gli effettidella dittatura fascista, ma anche quelli prodotti da altre dittature, che avevano interessato numerosi statieuropei.

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prescindere dalla motivazione alla base di tali privazioni.

Come si evince dalla sua formulazione, tale articolo propone una nozione di

“protezione” dalla portata più ampia, rispetto a quanto previsto dalla successiva Con-

venzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato. Proprio per tale ragione, nel corso

degli anni, l’art.10 c.3 Cost. ha creato non pochi problemi interpretativi tali da obbliga-

re, in diverse occasioni, le corti italiane ad emettere pronunce tra loro discordanti e con-

trarie206. A questi problemi intepretativi si aggiunsero anche quelli creati

dall’introduzione della legge 23 luglio 1954, n. 772, che rendeva esecutiva in Italia la

Convenzione di Ginevra. Parte della dottrina207 e della giurisprudenza ritenne infatti che

la legge attuativa della Convenzione fosse da considerarsi come esecutiva del dettato

costituzionale, alimentando ulteriormente la confusione tra lo status di rifugiato e il di-

ritto costituzionale all’asilo. In realtà la differenza tra questi due istituti, il “rifugio” e

l’“asilo”, è proprio da cercarsi nelle previsioni di tale Convenzione208. L’articolo 1 elen-

ca infatti una serie di requisiti specifici, necessari per acquisire lo status di rifugiato, a

carattere strettamente individuale e, pertanto, in contrasto con la previsione a carattere

generale della nostra Costituzione. Infatti la formulazione dell’articolo 10, co. 3, Cost. è

stata concepita in maniera tale da ricomprendere, sotto la sua tutela, tutti coloro che cor-

rano il rischio, nel loro paese di origine, di essere privati della protezione normalmente

dovuta, e accordata, ad una determinata serie di diritti e libertà209. Diversamente, invece,

aveva previsto la Convenzione di Ginevra, la quale, onde accordare lo status di rifugia-

to, richiedeva espressamente che fosse provata “l’esistenza di una persecuzione subita o

ragionevolmente temuta”210, nonché il carattere strettamente individuale della stessa.

Tuttavia l’assenza di una legge attuativa del precetto costituzionale fece sì che

l’articolo 10, co. 3, Cost. fosse considerato, da principio, una norma a carattere pura-

mente programmatico211 anche nella prassi amministrativa ottenendo, in tal modo, che i

206 F. Rescigno, “Il diritto d’asilo tra previsione costituzionale, spinta europea e ‘vuoto’ normativo”, Poli-tica del diritto, n. 1/2004.207 Cfr. ad esempio G. Conetti, Norme di conflitto uniforme sullo statuto personale dei rifugiati ed apolidie diritto privato internazionale italiano, in Studi in onore di M. Udina, Vol. II, Giuffrè, Milano 1975.208 Vedi supra, capitolo I.209 I c.d. diritti umani fondamentali. Non a caso l’Assemblea Costituente ha inserito le previsionidell’articolo 10, co. 3, relative all’asilo, nella sezione rubricata come “Principi Fondamentali”.210Articolo 1, Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati. Il testo integrale è disponibile on-line all’indirizzo http://www.unhcr.it .211 Sentenza del Cons. di Stato, sez. IV, 27 febbraio 1952, in Foro it., 1952, ΙΙΙ, c. 180.

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due istituti si confondessero e che il diritto d’asilo, espressamente sancito dalla nostra

Costituzione, venisse relegato ad un’ipotesi puramente residuale.

Solo intorno alla metà degli anni sessanta, infatti, nell’acceso dibattito sorto in-

torno alla problematica identificazione delle categorie del rifugio e dell’asilo, s’inserì

una pronuncia della Corte d’Appello di Milano, la quale affermò per la prima volta in

maniera chiara ed esaustiva, che i due istituti non dovevano mai essere

“concettualmente identificati”212. Tale sentenza si prefisse, inoltre, di chiarire che

l’inerzia dimostrata dal legislatore italiano nel disciplinare con una legge specifica il

settore dell’asilo non poteva, in alcun modo, essere “d’ostacolo alla forza cogente

dell’articolo 10, co. 3, Cost.”213.

Pur essendo ormai datata, tale pronuncia, costituisce un autorevole precedente,

rispettato e poi confermato in una pronuncia della Corte di Cassazione del 1997214, nella

quale fu ribadito il carattere immediatamente precettivo del dettato costituzionale.

Tuttavia, come si è precedentemente sottolineato, la formulazione generale

dell’articolo 10, co. 3, Cost., ha spesso dato origine a pronunce tra loro discordanti,

tanto che nello stesso 1997, il Tribunale di Roma215, pur riconoscendo il carattere di di-

ritto soggettivo fatto valere dall’asilante nel richiedere l’applicazione di tale norma, ri-

tenne necessario affermare che, in mancanza di una legge specifica, tale articolo non

poteva essere applicato non avendo “carattere immediatamente precettivo” 216.

I problemi interpretativi sono, per la maggior parte, dovuti proprio alla riserva di

legge prevista nella formulazione dell’articolo 10, co. 3, Cost. e al vuoto legislativo che

ne è seguito. Sarebbe infatti stato necessario un successivo intervento legislativo volto a

delineare i caratteri e i confini di tale diritto, così come le categorie di individui a cui la

norma costituzionale era diretta. È interessante notare come solo una volta, durante la

XIII legislatura, sia stato proposto un disegno di legge volto a disciplinare la materia217,

che prevedeva l’inclusione di entrambi gli istituti. L’intento era, sostanzialmente, quello

di creare una nuova figura giuridica di rifugiato, in modo tale da semplificare la proce-

212Sentenza della Corte d’Appello di Milano, 17/11/1964, in Foro it., 1964, II, c. 127.213 Ibidem.214 Cassaz. civile, sez. un., 26 maggio 1997, n. 4674, in Dir di famiglia.215 Trib. Di Roma, 13 febbraio 1997, in “Giustizia Civile”, 1998, I, pag. 283. In A. Scerbo, Il passo sospe-so della libertà, in B.M. Bilotta e F. A. Cappelletti (a cura di), Il diritto d’asilo, cit., pag. 105-109.216 Ibidem.217 Disegno di legge n. 5381, poi non approvato per scadenza del mandato dell’Esecutivo.

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dura relativa al suo riconoscimento e da garantire protezione a categorie di individui

più estese218.

La volontà di attribuire un carattere esteso all’articolo 10, co. 3, Cost. e di improntarlo

ai principi di un ordinamento democratico è stata anche ravvisata nel comma seguente

dello stesso articolo che non consente l’estradizione dall’Italia per colui il quale abbia

compiuto reati politici219. Sì è voluto, sostanzialmente, garantire un diritto a richiedere

asilo politico a tutti coloro i quali risultassero perseguitati, nel loro paese d’origine, per

aver preso parte ad attività politiche. Esemplificativo in questo senso, è stato il caso del

leader curdo del P.K.K.220 Abdullah Ochalan. Il Tribunale di Roma221, chiamato a deci-

dere sul caso, respinse quanto affermato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e

dal Ministro degli Interni, i quali ritenevano che il dettato costituzionale avesse mero ca-

rattere programmatico e affermarono, pertanto, l’incompetenza del giudice ordinario

adito. Inoltre, lo stesso Tribunale stabilì che al giudice ordinario, dato il dettato costitu-

zionale, fosse rimesso il compito di analizzare la democraticità, o meno, dello stato

d’origine del richiedente e che tale compito non potesse essere sottratto allo stesso, nep-

pure dalla futura introduzione di una normativa volta ad attuare il precetto contenuto

nell’articolo10, co. 3, Cost.222

L’inserimento delle due previsioni, da un lato quella riguardante l’asilo,

dall’altro quella ostativa all’estradizione dello straniero per reati politici, nel medesimo

articolo ha reso le due ipotesi reciprocamente connesse, ed è indice di quel carattere

strettamente politico che i costituenti hanno voluto conferire all’istituto dell’asilo223.

218 N. Gennari, “Dallo status di rifugiato al diritto d’asilo: la strada verso la comunitarizzazione della ma-teria”, in Diritto e Diritti, gennaio 2002, rivista giuridica on-line,www.diritto.it/materiali/europa/gennari.html 219 Articolo 10, comma 4, Cost.220 Il P.K.K. è il Partîya Karkerén Kurdîstan, diffuso nelle aree della Turchia popolate dall'etnia curda, èun partito d’ispirazione marxista che rivendica la creazione di uno stato, sovrano e indipendente, del Kur-distan. Ochalan è tuttora considerato il leader del P.K.K. dalla popolazione curda, mentre il governo turcolo considera un terrorista. Egli chiese asilo politico in Italia, nel 1998, e la Turchia richiese l’estradizioneche fu però negata. Il leader curdo fu allontanato coattivamente dall’Italia prima che gli venisse concessol’asilo politico in base all’articolo 10, co. 3, Cost.221 Trib. Roma, II Sez. Civile, 1 ottobre 1999, in Questione Giustizia, 1999, pag. 1179.222 L. Chieffi, “La tutela costituzionale del diritto d’asilo e del rifugio a fini umanitari”, Relazione pre-sentata nel corso della II Jornadas ítalo-españolas de justicia constitucional, Facultad de Derecho de laUniversidad de Cadiz, istituto de Derecho Publico Comparado de la Universidad Carlos ΙΙΙ, Puerto deSanta Maria, 3-4 ottobre 2003, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, II, 2004, Franco Angeli Editore,Milano.223 N. Zorzella, “Brevi Riflessioni sul caso Ocalan”, Diritto, Immigrazione e cittadinanza, I, 1999, FrancoAngeli Editore, Milano, pag. 54-59.

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Recentemente però la prima sezione della Corte di Cassazione ha ribaltato il

proprio orientamento a Sezioni Unite sopracitato, affermando che in una domanda di

asilo debba essere considerata “come esclusivamente finalizzata al riconoscimento dello

status di rifugiato” che il diritto costituzionale si sostanzia semplicemente nel diritto per

il richiedente asilo di accedere al territorio della Repubblica “al fine di essere ammesso

alla procedura di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato poli-

tico”224, nonché “di ottenere un permesso di soggiorno per la durata dell’istruttoria della

pratica”225. Non è questa la sede per approfondire tale nuovo orientamento ma lo stesso

ha ricevuto non poche contestazioni da numerosi esponenti della dottrina di diversi set-

tori226.

Come già precedentemente accennato, le proporzioni e le caratteristiche del fe-

nomeno dell’asilo si sono modificate nel tempo, specialmente in seguito ad una serie di

eventi politico-economici che hanno cambiato la struttura stessa delle relazioni interna-

zionali. In questo nuovo scenario, sempre più caratterizzato dai vari e complessi aspetti

della globalizzazione, anche per l’Italia si è venuta a creare la necessità di rivedere i

propri strumenti normativi, soprattutto alla luce di quanto stabilito dagli accordi interna-

zionali di cui è parte ma ancor di più dall’evolversi della disciplina comunitaria relativa

a tale settore.

Come detto, infatti, fino a tempi recenti la normativa italiana sull’asilo era pres-

soché inesistente. La legge 28 febbraio 1990, n 39, la c.d. legge Martelli, e le sue suc-

cessive modifiche, la c.d. legge Turco-Napolitano227, e la c.d. legge Bossi-Fini228 si era-

no semplicemente limitate a regolare, sempre all’interno di un testo omnicomprensivo

di tutte le tematiche connesse all’immigrazione, solo alcuni aspetti e procedure del rifu-

gio, lasciando la normativa italiana retrograda e carente. Tale vuoto legislativo ha reso

ancora più discrezionale e confusa l’interpretazione del dettato costituzionale, lasciando

224 Cass. Sez. I, sent. 25028/2005, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, I, 2006 pag. 98.225 Ibidem. Analogamente però anche Cass. Sez. I, sent.18353/2006 e 18940/2006, Diritto, Immigrazionee Cittadinanza, II, 2006 pag.57226 Si veda in proposito M. Benvenuti, “Andata e Ritorno per il diritto di asilo costituzionale”, Diritto,Immigrazione e Cittadinanza, II, 2010, pagg. 36-58; L. Melica, “La Corte di Cassazione e l’asilo costitu-zionale: un diritto negato? Note alle recenti sentenze della 1ª Sezione della Corte di Cassazione”, Diritto,Immigrazione e Cittadinanza, IV, 2006 pag. 57 e ss; P. Passaglia, “Eutanasia di un diritto”, Il Foro italia-no, 2006, pt.I, pagg. 2852-2853; G. M. Ruotolo, “Diritto d’asilo e status di rifugiato in Italia alla luce deldiritto internazionale e della prassi interna recente”, in Diritto pubblico comparato europeo, 2008,pagg.1819 e ss.227 D. Lgs. 286/98, Testo Unico sull’immigrazione, abrogò la legge Martelli, escluso l’articolo 1.228 L. 30 luglio 2002, n. 189 e il suo regolamento attuativo D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303.

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ai giudici amministrativi e ordinari il compito di delineare limiti e caratteristiche

dell’asilo e ottenendo, come sopra dimostrato, pronunce troppo spesso discordanti. Le

ragioni che hanno costantemente portato al ripetersi di queste lacune legislative verran-

no meglio esposte e analizzate nei prossimi paragrafi.

2.La prima "disciplina" italiana dell'asilo: la Leg ge Martelli.La prima legge ad introdurre in Italia la moderna nozione di rifugiato, come pre-

cedentemente accennato, è stata la l. 24 luglio 1954, n. 722, la quale si occupò di auto-

rizzare la ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951. Nel ratificare tale documento,

l’Italia accettò, pertanto, di offrire tutela solo ai rifugiati provenienti da altri paesi euro-

pei, e solo in seguito ad eventi verificatesi prima del 1951229, secondo quanto stabilito

dalla formulazione originale di detta Convenzione.

Con la successiva ratifica del Protocollo di New York del 1967 la limitazione

temporale fu abrogata, ma l’Italia continuò a mantenere in vigore la riserva geografica.

La conservazione di tale riserva per un periodo nettamente più lungo rispetto a quello

degli altri stati firmatari della Convenzione, fu più volte giustificata da ragioni di tipo

politico-economico e di pubblica sicurezza. Veniva infatti ribadita, dai vari rappresen-

tanti dell’esecutivo succedutisi negli anni, la necessità di conservare la riserva territo-

riale a causa della particolare posizione geografica del nostro paese, che lo rendeva meta

sia dei profughi in fuga dai paesi dell’Est, sia di quelli provenienti dall’area africana.

Per questa ragione, per quasi quarant’anni, l’Italia rimase un paese c.d. “di primo asilo”

o di passaggio per gli asilanti, che venivano poi indirizzati verso altri paesi europei,

provvisti di una disciplina d’accoglienza più sviluppata, nonché più omogenea e coe-

rente230.

La c.d. legge Martelli, l. 39/1990, insieme ai suoi due regolamenti di attuazio-

ne231, ha rappresentato il primo intervento legislativo volto a disciplinare in maniera or-

ganica tutto il settore dell’immigrazione. Si è infatti occupata della disciplina relativa

all’ingresso, al soggiorno, all’attività lavorativa, all’espulsione degli immigrati e pur

229 Per tali limitazioni spazio-temporali relative all’applicabilità della Convenzione si veda supra, capitolo1, paragrafo 2.230 Mi riferisco a Francia, Germania ed Inghilterra i quali, avendo abolito subito, nel 1967, la riserva geo-grafica si erano trovati a dover gestire il fenomeno degli asilanti molto presto.231 D.P.R. n. 136/1990, e Decreto del Ministero dell’Interno 237/1990.

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non trattando, come il titolo avrebbe lasciato pensare232, espressamente il diritto d’asilo,

ha reso esecutiva in Italia la Convenzione di Ginevra del 1951, istituendo una disciplina

per il riconoscimento dello status giuridico di rifugiato. Di fatto, data la sua stessa for-

mulazione, la legge Martelli non solo non offrì una disciplina del diritto d’asilo, ma si

limitò a stabilizzare la, già citata233, confusione tra le due categorie dell’asilo e del rifu-

gio234. La legge 39/1990 fu, di fatto, concepita per far fronte con una certa urgenza al

crescente fenomeno dell’immigrazione clandestina, il quale venne per lo più affrontato -

inaugurando così una modalità politica di fronteggiare tale tipo di problematica che ca-

ratterizza il nostro paese ancora oggi - come un problema di ordine pubblico.

Non stupisce che, in tale scenario, alla disciplina della procedura di asilo sia

stato dedicato solo un articolo, i cui contenuti, come vedremo, si sono spesso rivelati

inadeguati a regolare la materia. Le lacune lasciate dalla formulazione della legge Mar-

telli sono state, successivamente, integrate da norme consuetudinarie e dalla prassi am-

ministrativa, producendo, in alcuni casi, risultati ancora più confusi e, per lo più, carat-

terizzati da una mancanza totale di omogeneità di trattamento. Tuttavia l’articolo 1 della

legge Martelli, il solo, peraltro, intitolato ai “rifugiati”, ebbe il pregio, finalmente, di

abolire non solo la riserva geografica, ma anche le riserve, apposte dall’Italia in sede di

ratificazione, agli articoli 17 e 18 della Convenzione di Ginevra, i quali erano volti a ga-

rantire ai rifugiati un trattamento omogeneo a quello riconosciuto agli altri cittadini

stranieri nei settori delle attività salariate ed autonome. È interessante notare come, no-

nostante l’abolizione della riserva geografica, il numero dei richiedenti lo status ex

Convenzione di Ginevra in Italia sia rimasto generalmente molto basso e in alcuni anni

addirittura irrilevante235.

Successivamente, nel 2002, la legge Martelli è stata quasi interamente abro-

gata e sostituita dalla l.189/2002, c.d. legge Bossi-Fini. L’unico articolo di tale docu-

mento che è stato conservato, anche se parzialmente modificato ed integrato, è stato

proprio l’articolo 1. Tuttavia la legge 189/2002 rinviava, per la sua applicazione,

all’entrata in vigore del suo regolamento attuativo che è stato promulgato, con grave ri-

232 “Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e diregolarizzazione dei cittadini extracomunitari già presenti sul territorio dello stato”, l. 39/1990.233 Si veda supra, paragrafo precedente.234 L. Neri, “Profili sostanziali: Lo status di rifugiato”, in B. Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranie-ri , CEDAM, Padova 2004.

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tardo, solo nel 2005. Proprio per questa ragione ho ritenuto importante analizzare prima

il dettato della legge Martelli che, a causa dei ritardi nell’attuazione della l. 189/2002,

ha trovato applicazione anche oltre il 2002. Nei paragrafi successivi, illustrerò anche le

più recenti innovazioni nel settore introdotte dai D. Lgs n. 251/2007 e 25/2008, in attua-

zione della normativa comunitaria.

Ai sensi della legge Martelli, articolo 1, co. 5, la domanda d’asilo doveva essere

presentata dall’asilante alla polizia di frontiera, o alla questura territoriale, entro otto

giorni dal suo arrivo nel territorio dello stato. Eventuali richieste tardive sarebbero state

accettate in presenza di giustificati motivi, tra i quali era compresa anche l’ipotesi in cui

il timore di subire una persecuzione fosse sorto successivamente all’ingresso nel territo-

rio italiano. Contestualmente, al richiedente veniva notificato un invito a presentarsi

successivamente in questura per svolgere le necessarie pratiche di verbalizzazione della

domanda. La questura adita sarebbe stata anche competente al rilascio dell’eventuale

permesso di soggiorno della durata di un mese, c.d. “permesso Dublino” . Tale lasso di

tempo veniva destinato alla verifica della competenza effettiva, dell’Italia ad occuparsi

di tale specifica richiesta, ove la stessa fosse stata ritenuta dubbia. Una volta accertata

tale competenza, la stessa questura avrebbe potuto, eventualmente, rilasciare un ulterio-

re permesso di soggiorno della durata di tre mesi, in attesa che il richiedente venisse

convocato a Roma avanti alla Commissione Centrale per il riconoscimento dello status

di rifugiato.

Un’analisi attenta dei dati, relativi a quegli anni, raccolti dalle varie organizza-

zioni ed associazioni presenti sul nostro territorio ha dimostrato come, di fatto, non vi

fosse una prassi omogenea ed ugualmente seguita da tutte le questure relativamente al

ricevimento della domanda d’asilo. Contrariamente al dettato legislativo, infatti, alcune

questure spesso o, comunque, nella maggior parte dei casi236, si erano rifiutate di riceve-

re la domanda, ritenendo questo un compito della polizia di frontiera. È stato osservato

che la prassi di rinviare i rifugiati da una sede della polizia all’altra adducendo sempre

come giustificazione la propria incompetenza e scaricando continuamente la responsa-

bilità sulla polizia di frontiera, aveva creato un fenomeno simile a quello dei c.d.

235 Basti pensare che nel 1996 le domande inoltrate furono solo 675, e i rifugiati riconosciuti ex Conven-zione solo 172. Dati reperibili sul sito ufficiale dell’ U.N.H.C.R. : www.unhcr.it236 Risulta sia capitato talvolta a Lodi e Brescia, mentre sempre a Firenze, Napoli ed Arezzo. In I.C.S., Laprotezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, M. S. Olivieri (a cura di), Gian GiacomoFeltrinelli Editore, “Nuova Serie”, Milano 2005, pag. 46.

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“rifugiati in orbita”237, ma collocato all’interno del territorio del nostro stato. Tali rifiuti

ingiustificati avevano, inoltre, comportato un sovraccarico di lavoro per le questure che

invece applicavano correttamente il dettato legislativo. L’illegittimità di questa prassi

venne, infine, dichiarata da alcune pronunce dei tribunali amministrativi238, i quali non

hanno riscontrato, all’interno della normativa italiana, “alcuna ipotesi di decadenza o

inammissibilità connessa alla presentazione dell’istanza di riconoscimento alla Questu-

ra (che è comunque competente allo svolgimento dell’istruttoria preliminare) anziché

all’ufficio della polizia di frontiera” 239.

Negli anni, sono anche stati segnalati casi in cui l’accettazione, o meno, della

domanda era risultata subordinata a valutazioni discrezionali e discriminatorie, basate

sul paese di origine del richiedente. Tale era stato, ad esempio, il caso della questura di

Trento, nota per essersi sempre rifiutata di accogliere le domande dei richiedenti asilo

kossovari. La dirigenza di tale questura, interpellata sull’accaduto, aveva motivato tale

prassi affermando che i cittadini del Kossovo non potevano presentare domanda dal

momento che il Kossovo poteva considerarsi uno stato sicuro. Invero, in base alla scar-

na disciplina della legge Martelli, la questura o l’ufficio di polizia investiti della do-

manda dovevano limitarsi a riceverla, non avendo alcun potere in merito alla fondatezza

o meno della stessa240. Inoltre, dato il carattere strettamente individuale della persecu-

zione temuta, o subita, di cui il richiedente deve dare prova in base alle previsioni della

Convenzione di Ginevra, risulta evidente come il paese di provenienza non possa essere

astrattamente considerato ragione sufficiente di un eventuale rifiuto.

In altri casi, è stata richiesta la prova documentata di avere già un domicilio

all’interno del territorio italiano, presso amici, connazionali o centri d’accoglienza, onde

poter consegnare la domanda d’asilo all’ufficio di polizia competente per tale domicilio,

nonostante tale requisito non sia contemplato in alcun passaggio della normativa. La

polizia di frontiera avrebbe dovuto, infatti, limitarsi ad “accertare l’inesistenza delle

237 Si ricorda che i rifugiati in orbita erano rifugiati rinviati da uno stato all’altro dell’Unione Europea,poiché detti stati si rifiutavano di accogliere le domande di rifugio, proclamandosi incompetenti. Il pro-blema era stato, parzialmente, risolto dalla Convenzione di Dublino e dal Regolamento Dublino ΙΙ. Si ve-da supra, capitolo I.238 T.A.R. del Lazio sentenza n. 103, 27 gennaio 1992, in Dalla solidarietà al diritto, ciclo di conferenzetenutosi presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, Facoltà di Giurisprudenza, Responsabile A.Colleoni, 24 Maggio 2004, pag. 112.239 T.A.R. dell’Emilia Romagna, sentenza n. 776, del 12 ottobre 1994, ibidem.240 In I.C.S., La protezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, cit., pag. 47.

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situazioni preclusive” di cui all’articolo 1, co. 4, della legge 39/1990241. L’articolo 1,

co. 4, della l. 39/1990, inoltre, prevedeva una serie di situazioni in cui all’autorità di

frontiera era concesso respingere il richiedente asilo, sempre nel rispetto del principio di

non-refoulement, ex articolo 33 della Convenzione di Ginevra. In particolare, in base

alla lettera a), l’ingresso doveva essere negato a coloro che fossero stati già riconosciuti

come rifugiati in un altro stato. La formulazione di tale disposizione risulta ancora oggi

un po’ oscura, in quanto agli asilanti a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato in

un altro stato europeo è comunque consentito l’ingresso e la circolazione sul territorio

italiano242. In realtà, la ratio dell’articolo 1, co. 4, lettera a), risiedeva nel tentativo di

impedire la presentazione di una nuova domanda per il riconoscimento dello status da

parte di colui che avesse già ricevuto un diniego, in un altro degli stati membri

dell’Unione243, ma la norma veniva sovente strumentalizzata per contenere i già pochi

diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

In base poi all’articolo 1, co. 4, lettera b), non era consentito l’ingresso a coloro

che provengano da un altro stato, diverso da quello di origine, contraente la Convenzio-

ne di Ginevra, e in cui si sarebbe potuta presentare la domanda d’asilo. La lettera c) del

medesimo articolo rinviava alle condizioni di non applicabilità della Convenzione elen-

cate all’articolo 1, paragrafo F. Mentre, in ultimo, la lettera d) vietava l’ingresso a colui

che fosse stato condannato in Italia per uno dei reati previsti dall’articolo 380, co. 1 e 2

del codice di procedura penale, o che risultasse pericoloso per la sicurezza dello stato, o

essere membro di associazioni di tipo mafioso, o dedite al traffico di stupefacenti o al

terrorismo.

Le varie fasi della procedura, dall’accettazione della domanda alla sua verbaliz-

zazione fino, in fine, al rilascio eventuale del permesso di soggiorno avevano spesso ri-

chiesto svariati mesi a causa della lentezza nello svolgimento delle pratiche della mag-

gior parte degli uffici di polizia. Tali pratiche erano spesso ulteriormente rallentate dalla

mancanza di interpreti244 e di personale sufficientemente preparato sulle tematiche e

sulle norme riguardanti l’asilo. Molte questure non disponevano infatti neppure di un

241 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 12 marzo 2002, n. 4667, consultabile sul sito www.giustizia-amministrativa.it .242 Accordo Europeo relativo alla soppressione dei visti ai rifugiati, Strasburgo 20 aprile 1959, e Accordoeuropeo sul trasferimento di responsabilità verso i rifugiati, Strasburgo 18 ottobre 1980.243 Tali problemi sono in realtà stati ampiamente superati dall’informatizzazione delle banche datei relati-va all’immigrazione nei vari stati dell’Unione.

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ufficio competente esclusivamente per l’esame delle domande d’asilo, ma erano dotate

di un ufficio unico, destinato allo svolgimento generico di tutte le pratiche relative

all’immigrazione. Qualora l’asilante fosse riuscito a presentare domanda d’asilo, la pro-

cedura continuava attraverso la verbalizzazione, la fotosegnalazione e il racconto del

viaggio svolto per raggiungere il nostro paese.

In questura, dunque, veniva redatto il verbale attraverso il quale lo straniero di-

chiarava di voler richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato, secondo quanto

previsto dalla Convenzione di Ginevra. Tale atto doveva, teoricamente entro sette gior-

ni, essere inviato alla Commissione Centrale a Roma che ne teneva particolarmente

conto, dato che su di esso e, a volte, sull’audizione del richiedente stesso, avrebbe poi

basato la proprio decisione.

Il verbale consisteva in un modulo prestampato in cui erano elencate una serie di

domande riguardanti i dati personali dell’asilante, informazioni relative al suo viaggio e

alle cause che lo avevano costretto a fuggire dal suo paese. La domanda secondo quanto

previsto dall’articolo 1, co. 5, della legge 39/1990 doveva essere “in quanto possibile

documentata”. Tale previsione ha creato non pochi problemi di interpretazione data la

difficoltà di dimostrare effettivamente l’esistenza di una persecuzione. In questo senso

si è pronunciato il T.A.R. del Friuli Venezia Giulia245 secondo cui tanto più la persecu-

zione è grave tanto più è difficile dimostrarne gli effetti con prove certe e, come tale, “le

prove che si possono legittimamente (e ragionevolmente) richiedere, non posso essere

che di carattere indiziario legate a fatti notori” 246. Tale pronuncia mirava a ribaltare gli

orientamenti giurisprudenziali troppo rigorosi relativamente alle prove documentate da

presentare come base della domanda dell’asilante, che si erano affermati in passato.

Una volte rilasciato il permesso di soggiorno della durata di tre mesi e rinnova-

bile fino a quando la domanda d’asilo non fosse stata esaminata, l’ufficio di polizia in-

viava la domanda alla Commissione Centrale, istituita dal D.P.R. 136/1990 e compente

per il riconoscimento della status di rifugiato, in base alla legge Martelli247.

244 I quali dovrebbero, invece, essere garantiti secondo la sopraccitata normativa comunitaria.245 T.A.R. del Friuli Venezia Giulia, Sentenza 22 ottobre 1998, in Diritto ,Immigrazione e Cittadinanza,1999, n. 2, Franco Angeli Editore, Milano.246 L. Neri, “Profili sostanziali: Lo status di rifugiato”, in B. Nascimbene (a cura di), Il diritto degli stra-nieri, cit., pag. 1223.247 M. Pavone, Asilo politico ed espulsione, Articolo reperibile sulla rivista on-linehttp://www.filodiritto.com/diritto/penale/asilopoliticoespulsionepavone.htm .

96

La Commissione stabiliva una data per l’audizione dell’asilante e in seguito si

pronunciava sulla richiesta d’asilo. Essa poteva riconoscere lo status di rifugiato in base

alla Convenzione di Ginevra, o non riconoscere lo status, oppure negare il riconosci-

mento ma inviare una raccomandazione alla questura onde far rilasciare al richiedente

un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Infatti, la legge Martelli non disciplina-

va direttamente l’istituto del c.d. ”asilo umanitario”, ovvero quello che avrebbe potuto

essere concesso al richiedente asilo che, pur non possedendo i requisiti per ottenere lo

status di rifugiato, previsti dall’articolo 1 della Convenzione di Ginevra, non può tutta-

via essere espulso, giacché il rientro nel suo paese d’origine lo esporrebbe ad una situa-

zione di pericolo grave ed oggettivo per la propria incolumità248. La Commissione Cen-

trale non poteva pertanto né respingerlo, in base all’articolo 33 ex Convenzione di Gi-

nevra, né accordargli uno status giuridico diverso, non espressamente definito o con-

templato in alcuna normativa. Si era pertanto ricorsi ad una sorta di finzione giuridica,

applicata per un lungo periodo fino a quando non è stata, recentemente, incorporata in

una norma ad hoc, attraverso la quale la questura competente, su suggerimento della

Commissione Centrale, rilasciava un permesso di soggiorno temporaneo per ragioni

umanitarie, della durata di un anno, rinnovabile fintanto che si ritenga perdurante la si-

tuazione di pericolo249. Il permesso viene dunque rilasciato sulla base del principio del

non-refoulement, trasposto nella normativa italiana dall’articolo 19, della l. 286/1998250.

Vi è poi un particolare tipo di protezione, accordata in situazioni di grave emergenza

umanitaria, non a singoli asilanti ma a gruppi di individui appartenenti alla stessa etnia,

o gruppo sociale, attraverso l’emanazione di un Decreto del Presidente del Consiglio dei

Ministri, sulla base dell’articolo 20 della l. 286/1998251. Tale protezione ha durata limi-

248 G. Schiavone, Alcune osservazioni giuridiche sulla condizione di rilascio del permesso di soggiornoper ragioni umanitarie a fronte di diniego di riconoscimento dello status di rifugiato nei riguardi di pro-fughi dalla regione del Kosovo/Jugoslavia, nota a cura del Consorzio Italiano di Solidarietà, Ufficio Ri-fugiati. Reperibile sul sito web http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/1999/novembre/schiavone.html , Trieste, 1999.249 S. Fachile, “Il permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 18 co.6 T.U. 286/98: un importantestrumento di tutela delle persone straniere che scontano una pena”, Diritto, Immigrazione e cittadinanza,IV, 2005, Franco Angeli Editore, Milano, pag. 66-79.250 La legge 286/1998, c.d. Turco-Napolitano, Testo Unico sull’immigrazione, abrogò la legge Martelli,mantenendo però in vigore l’articolo 1, ed integrandolo con altre previsioni quali appunto quelle previsteagli articoli 19 e 20.251 L’art. 20 recita: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, (…) sono stabilite, (….), lemisure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, perrilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravitàin paesi non appartenenti all’Unione Europea” .

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tata nel tempo e può essere rinnovata solo da un ulteriore Decreto del Presidente del

Consiglio. Decreti di questo tipo sono stati emessi a favore degli albanesi in fuga du-

rante la guerra in Bosnia Erzegovina e a favore dell’etnia kossovara e, recentissima-

mente, a favore dei cittadini di alcuni paesi nord-africani in fuga dalle rivoluzioni in essi

scoppiate negli ultimi mesi dell’anno 2010252. Vedremo in seguito come tale istituto sia

stato poi modificato dalla l. 189/2002 e dalla normativa comunitaria, e come di fatto sia

concretamente disciplinato nella prassi odierna.

Apparentemente, in base a quanto detto sino ad ora, la disciplina delle legge

Martelli, per quanto non esaustiva, può sembrare tuttavia soddisfacente. In realtà, com-

piendo un’analisi dei risultati da essa acquisiti, le sue lacune emergono in maniera anco-

ra più evidente.

La procedura per il riconoscimento della status appena descritta, ha spesso com-

portato tempi d’attesa anche superiori ai diciotto mesi253, durante i quali al richiedente

non era consentito lavorare, essendogli conferito solo un permesso di soggiorno tempo-

raneo. Onde “garantire” un aiuto al sostentamento, l’articolo 1, co. 7, della legge Mar-

telli prevedeva l’erogazione di un contributo giornaliero di prima assistenza per un pe-

riodo massimo di 45 giorni, del valore di odierni euro 17,56254. L’erogazione di tale ci-

fra cessava il giorno stesso in cui al richiedente fosse stato riconosciuto la status di rifu-

giato.

È importante svolgere una breve analisi della prassi seguita dalla Commissione

Centrale nei suoi quasi quindici anni di attività, onde sottolineare le conseguenze di

quelle lacune legislative poc’anzi citate.

La Commissione Centrale, istituita con D.P.R. 136/1990 secondo quanto previ-

sto dall’articolo 1, l. 39/1990, era articolata in tre sezioni, ognuna delle quali era presie-

duta da un prefetto. Era poi composta da un membro dirigente presso il Consiglio dei

Ministri, uno presso il Ministero degli Esteri e due presso il Ministero degli Interni255.

Alle sedute della Commissione aveva diritto d’accesso con funzioni puramente consul-

252 D.P.C.M. 05 aprile 2011 “ Misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini provenienti dalNord-Africa affluiti nel territorio italiano dal 1 gennaio 2011 alla mezzanotte del 5 aprile 2011”.253 In I.C.S., La protezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, cit., pag. 40.254 Cfr l’uniformità della prassi presso i seguenti indirizzi on-line: http://www.prefettura.lucca.it,www.prefettura.livorno.it/?p=rifugiatopolitico, www.prefetturacampobasso.it/02_27_stranieri.htm .255 N. Corvino, S. Scolaro, Lo straniero in Italia, dall’ingresso all’integrazione, Edizioni Sant’Arcangelodi Romagna, Rimini 2002, pag. 65.

98

tive un rappresentante dell’U.N.H.C.R. I presidenti delle tre sezioni si riunivano poi nel

Consiglio di Presidenza onde stabilire le linee guida e i criteri da seguire durante le au-

dizioni. La Commissione era competente all’esame di tutte le domande degli asilanti, i

quali potevano anche richiedere di essere ascoltati di persona. Le audizioni non avevano

carattere pubblico e al richiedente non era garantita assistenza legale, mentre era previ-

sta la presenza di un membro dell’U.N.H.C.R. e anche di un interprete qualora lo stesso

non fosse stato in grado di esprimersi in italiano, francese o inglese. Terminata

l’audizione, la Commissione aveva quindici giorni per emettere un provvedimento mo-

tivato relativamente alla domanda ma, di fatto, le tempistiche sono spesso state più lun-

ghe, richiedendo a volte fino a due mesi.256 La Commissione aveva il compito di svol-

gere tutte le audizioni a Roma. Tuttavia, secondo quanto stabilito dalla circolare n.

3242/02 del Presidente del Consiglio dei Ministri, furono ammesse una serie di deroghe

dovute a situazioni straordinarie in cui essa si spostava in altre zone di Italia, per lo più

di frontiera, onde velocizzare le procedure e smaltire l’analisi delle domande presentate

da stranieri entrati illegalmente nel territorio italiano.

Un altro fenomeno che stupisce, analizzando le attività della Commissione cen-

trale, è quello dei c.d. irreperibili , ovvero di quei richiedenti asilo che, dopo aver pre-

sentato regolare domanda d’asilo alla polizia di frontiera, o presso una questura, non si

presentavano all’audizione davanti alla Commissione Centrale. Relativamente a questo

fenomeno il sottosegretario dell’Interno Mantovano, allora in carica, ha dichiarato che:

“circa l’80% delle domande respinte sono di stranieri che, per i

motivi più diversi, non hanno portato a termine la domanda rendendosi ir-

reperibili. È difficile in questo caso non immaginare un uso strumentale

della richiesta d’asilo”257.

In realtà, spesso, i richiedenti asilo al momento della consegna della domanda

non avevano eletto un domicilio, o perché ne erano privi, oppure perché la questura a

cui si erano rivolti non aveva voluto riconoscere come domicilio quello che veniva indi-

256 In I.C.S., La protezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, cit., pag 50.257 A. Mantovano, Sottosegretario al Ministero degli Interni, Audizione presso la Commissione straordi-naria del senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, 4 febbraio 2004.

99

cato e, pertanto, non era poi stato possibile far pervenire loro la notifica della convoca-

zione per l’audizione.

Trovo sia importante menzionare, in questa sede, due sentenze in tema di irrepe-

ribilità, onde dimostrare come l’autorità giudiziaria abbia tentato di impedire il diffon-

dersi di questo fenomeno, in parte generato dalla mancata collaborazione delle questure.

La prima vuole tutelare il diritto del richiedente all’audizione e, a questo fine, stabilisce

che

“nell’ipotesi di incertezza sulla reale portata della situazione perso-

nale della straniero che chieda il riconoscimento della status di rifugiato,

ove sussistano seri dubbi sulla reale comprensione da parte dell’interessato

della possibilità di essere ascoltato, ed egli non si presenti il giorno fissato

per l’audizione, la Commissione è tenuta a riconvocarlo curando che abbia

piena cognizione della possibilità di essere ascoltato, il che implica l’uso

della lingua proprio dello straniero, o di quella inglese, francese e spagno-

la” 258.

La seconda, invece, istituisce in capo al richiedente il diritto alla riapertura del

procedimento in caso di cessazione dell’irreperibilità:

“In caso di comprovata cessazione dell’irreperibilità del richiedente questi

ha diritto all’audizione avanti alla competente Commissione e, pertanto,

alla riapertura della procedura”259.

Un altro dato significativo, relativo alla competenza della Commissione e alle

attività dalla stessa svolte, riguarda le caratteristiche stesse dell’audizione. Sebbene la

Commissione Centrale fosse, come precedentemente detto, un organo collegiale, pare,

tuttavia, che in un elevato numero di casi, circa il 30,4%, le audizioni venissero svolte

da un solo commissario, mentre solo nel 43,5%260 ne erano presenti due. Questo tipo di

prassi, oltre a non essere conforme al dettato legislativo, il quale configurava appunto la

Commissione come un organo collegiale, impediva anche che si creassero effettiva-

mente delle linee guida e degli orientamenti comuni, all’interno del processo decisorio.

258 Consiglio di Stato, sez. ΙV, n. 400, del 10 marzo 1998, in Foro It. 1998, III, 218.259 T.A.R. Lombardia, n. 404, del 9 febbraio 2001, in http://www.giustizia-amministrativa.it.260 In I.C.S., La protezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, cit., pag. 63. I dati sonostati raccolti da oltre 35 enti ed associazioni, attivi nel settore.

100

Un’altra delle critiche mosse all’operato della Commissione era quella riguar-

dante la durata dell’audizione, che nella maggior parte dei casi non superava, inclusi i

tempi tecnici per l’eventuale traduzione, i venti minuti. In così poco tempo era pratica-

mente impossibile per gli asilanti illustrare correttamente le ragioni della loro richiesta.

Le domande più frequenti rivolte ai richiedenti risultavano avere un carattere particola-

re, soprattutto se si considera che obbiettivo principale della Commissione era, o avreb-

be dovuto essere, la valutazione della fondatezza della domanda d’asilo alla luce

dell’esistenza, o meno, di una persecuzione effettiva. Sono state spesso ripetute doman-

de di questo genere: “Quanto è costato il viaggio?”, ”Che paesi hai attraversato prima di

venire in Italia?”, “Lavoravi nel tuo paese?”, “Sei venuto in Italia per lavorare?”, “Hai

intenzione di portare la tua famiglia in Italia?”, “Pensi di ritornare nel tuo paese?”,

“Come ti mantieni in Italia?”261. Il tenore stesso di tali domande dimostrava come

l’intento della Commissione non fosse sempre quello di accertare l’esistenza o meno di

una persecuzione, temuta o in atto.

Contro le decisioni della Commissione Centrale era ammesso, ex articolo1, co.

5, legge 39/1990, il ricorso al giudice amministrativo. Tale norma è stata poi abrogata

dall’articolo 46, legge n. 40/1998. Tuttavia il ricorso non era uno strumento di cui gli

asilanti si avvalevano spesso. Questo fenomeno è comprensibile per diversi motivi.

Principalmente, i lunghi tempi d’attesa e i costi della giustizia italiana scoraggiavano la

maggior parte dei richiedenti. In secondo luogo, coloro che avevano ricevuto il diniego

accompagnato dal decreto d’espulsione, si vedevano impossibilitati a soggiornare in

Italia per tutta la durata del ricorso. Quando l’espulsione non era contestuale al diniego,

al richiedente veniva successivamente notificato un atto del Questore in cui gli si inti-

mava di allontanarsi dal territorio dello stato entro quindici giorni. La sola presentazione

del ricorso non era sufficiente per rimanere in Italia. Era infatti necessario richiedere un

ulteriore permesso di soggiorno al medesimo giudice a cui era stato presentato il ricor-

so. Si era instaurata così la prassi di rilasciare al ricorrente un permesso di soggiorno per

motivi umanitari a carattere temporaneo per la durata del procedimento giurisdizionale,

in tutti i suoi gradi.

261 I.C.S., op. cit., pag. 65.

101

Relativamente al ricorso, un’importante novità era stata introdotta dalla sentenza

della Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 907, del 17 dicembre 1999262, che

stabiliva, definitivamente, la competenza del giudice ordinario anche per le questioni

inerenti al diniego di riconoscimento dello status di rifugiato e non più solo per le que-

stioni inerenti l’asilo costituzionale ex articolo 10, co. 3., come era invece stato prece-

dentemente stabilito dalle stesse Sezioni Unite Civili 263. Conseguenza di tale pronuncia

è stata che il ricorso contro le decisioni della Commissione Centrale veniva presentato

davanti al giudice ordinario civile, secondo la normale procedura di contenzioso. Tutta-

via parte della giurisprudenza264 aveva ritenuto possibile che, relativamente al ricono-

scimento dello status di rifugiato, la controversia possa instaurarsi secondo i principi

della giurisdizione volontaria265.

L’attuale quadro normativo delineato, come precedentemente accennato, si riferisce

esclusivamente all’applicazione della legge 39/1990, e della sua successiva modifica,

attuata tramite la legge 286/1998. Si è ritenuto importante parlarne in questa sede, nono-

stante le successive modiche apportate dalla legge Bossi-Fini e poi

dall’implementazione della normativa comunitaria con i decreti legisltaivi n. 251/2007 e

25/2008, non solo per illustrare come nel nostro paese, da sempre, vi sia stata una certa

riluttanza ad offrire un’effettiva tutela giurisdizionale agli asilanti, ma anche per propor-

re una panoramica delle implicazioni pratiche di un dettato legislativo così confuso.

Inoltre, come vedremo meglio in seguito, la legge 189/2002 ha comunque mantenuto in

vigore parte delle previsioni della legge Martelli, rendendo impossibile la comprensione

delle nuove procedure senza un’attenta analisi di quelle precedenti.

3. La c. d. “Bossi-Fini”, l. n. 189/2002 e il suo r egolamento applicativo

La legge 189/2002, “Modifica alla normativa su immigrazione ed asilo”, non si è, in

realtà, occupata di colmare il vuoto legislativo allora caratterizzante il settore dell’asilo,

262 Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 907, del 17 dicembre 1999, Riv. Amm. 2000, 229.263 Cassazione, Sez. Unite Civili, n. 4674, 12 dicembre 1996- 26 maggio 1997, in Riv. Dir. Int. 1997, 843.264 Tribunale di Firenze, 28 marzo 2003, e Tribunale di Perugia, 6 novembre 2003, in Diritto, Immigra-zione e Cittadinanza, 2004, Vol. 1, Franco Angeli Editore, Milano.265 Espulsione, accompagnamento alla frontiera e trattenimento dello straniero, Magistratura Democrati-ca e A.S.G.I. (a cura di), fascicolo reperibile su www.magistraturademocratica.it .

102

ma ha piuttosto rinviato, per l’ennesima volta, la trattazione completa ed esauriente di

tali problematiche ad una normativa successiva, da emanarsi in data da “definirsi”. In-

fatti, tale testo, pur parlando di “Disposizioni in materia d’asilo” e pur rivolgendosi ai

“richiedenti asilo”, disciplina solamente l’istituto del “rifugio” che, come precedente-

mente illustrato266, è da tenersi ben distinto da quello dell’“asilo”. L’obbiettivo princi-

pale di tale legge è stato, piuttosto, quello di sveltire ed inasprire le procedure per il ri-

conoscimento dello status di rifugiato, onde scoraggiare la presentazione delle c.d.

“domande strumentali”267.

Tale testo ha fortemente modificato, tramite due articoli, l’art. 31 e l’art. 32, la

disciplina dell’asilo in Italia introducendo una serie di novità, la maggior parte delle

quali erano da considerarsi indice di preoccupazione, poiché da un lato limitavano la li-

bertà personale dei richiedenti asilo, dall’altro non garantivano un efficace grado di tu-

tela in tutte le fasi del procedimento. L’art. 31 e 32, infatti, modificando in parte l’art. 1

della legge Martelli, introducevano altri sei articoli, dall’ art. 1-bis all’art. 1-septies.

Le principali novità introdotte da questa normativa riguardavano l’istituzione di

sette Commissioni Territoriali, dislocate nelle zone più interessate dall’arrivo degli asi-

lanti, alle quali veniva affidato il compito di sostituire in prima istanza il ruolo della

Commissione Centrale, e l’introduzione della c.d. procedura semplificata che, come

vedremo in seguito, avrebbe dovuto accelerare i tempi di esame soprattutto di quelle

domande che si supponeva fossero state presentate esclusivamente per mascherare un

ingresso clandestino, motivato da ragioni economiche. In realtà, la formulazione della

legge in questo senso era tale che la maggior parte dei richiedenti asilo veniva sottopo-

sto alla c.d. procedura semplificata.

Data l’elevata complessità delle modifiche introdotte, la legge stessa, secondo

l’art. 34, co. 3, rinviava per la sua attuazione ad un regolamento esecutivo da emanarsi

entro un termine massimo di sei mesi. Di fatto però, il regolamento esecutivo della l.

189/2002 è stato emanato, con grave ritardo, solo nel 2005268, creando, per oltre due an-

ni, un notevole grado di confusione nella prassi da seguirsi.

266 Si veda supra, paragrafo 1.267 Per “domande strumentali” s’intendono quelle domande presentate da migranti che non sono rifugiati,e che, appunto, tentano di strumentalizzare il sistema.268 D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, applicabile dal 21 aprile 2005.

103

L’inserimento di previsioni a carattere repressivo riguardanti l’asilo in un testo

volto a contrastare l’immigrazione clandestina è stato fortemente criticato da numerose

associazioni e organizzazioni, tra cui anche l’U.N.H.C.R. Tuttavia nella relazione illu-

strativa al D.D.L. del Governo Berlusconi, poi convertito nella legge 189/2002, si af-

fermava il carattere temporaneo di tale normativa in attesa che venissero approvate le

norme comunitarie in materia, onde poter formulare, in seguito, una disciplina organica

del diritto d’asilo, corrispondente agli standard stabiliti per tutti gli stati membri

dell’Unione. Di fatto, nella fretta di affrontare il problema delle richieste strumentali e

dell’immigrazione clandestina, e dietro il paravento dell’emanazione futura di una di-

sciplina ad hoc, il governo sembrava essersi scordato di formulare una, seppur tempora-

nea, normativa in grado di offrire tutela a coloro che “fondatamente richiedono, anzi

sono costretti a chiedere asilo”269.

La prima fase della procedura, cioè la presentazione della richiesta d’asilo alla

polizia di frontiera, secondo quanto previsto dall’art. 1, legge 39/1990, non era stata

modificata di molto. Si era cercato, infatti, di limitare i casi in cui la presentazione tar-

diva della domanda alla questura veniva ammessa, stabilendo come limite il solo caso in

cui l’asilante fosse entrato sul territorio italiano da “un luogo privo di frontiera”. Ri-

sulta chiaro come la portata di tale limitazione fosse in realtà ridotta, non essendo facil-

mente individuabile, in caso di ingresso clandestino, il luogo e il momento di ingresso

in Italia. Va però specificato che il respingimento alla frontiera, ai sensi dell’articolo 3

del D.P.R. 394/1999, avrebbe dovuto essere considerato come provvedimento ammini-

strativo e, come tale, avrebbe dovuto essere suscettibile di controlli da parte dell’autorità

giudiziaria e anche di eventuali ricorsi. Secondo quanto poi previsto dall’articolo 11, co.

6, l. 286/1998, presso i valichi di frontiera, gli scali portuali ed aeroportuali avrebbero

dovuto essere istituiti dei servizi di accoglienza ed informazione per i richiedenti asilo.

Tali centri d’accoglienza, in base ad accordi con le singole prefetture, venivano e ven-

gono per lo più gestiti dalla Caritas e dal Consiglio Italiano per i Rifugiati270. Nella

prassi è stata riscontrata una carenza di tali centri che non sono numerosi come dovreb-

bero e che, non sempre, vengono collocati all’interno delle aree di transito. In questo

modo, anche se astrattamente presente, il personale di tali associazioni non ha modo di

269 B. Nascimbene, “Nuove norme in materia di Immigrazione. La legge Bossi-Fini: perplessità e criti-che”, in Corriere Giuridico, n. 4, 2003, pag. 539.270 In I.C.S., La protezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, cit., pag. 99.

104

esserlo fisicamente mentre la polizia di frontiera svolge i primi controlli e decide even-

tualmente di negare l’ingresso agli asilanti271.

L’art. 1-bis, co. 1, introdotto dalla nuova normativa, stabiliva il principio secondo cui

non può disporsi il trattenimento del richiedente asilo, solo al fine di esaminare la sua

domanda e, al contempo, le successive lettere a), b), c) del medesimo articolo, elimina-

vano il rilascio automatico del permesso di soggiorno da parte del questore all’asilante.

Infatti, tale permesso avrebbe potuto essere rilasciato solo qualora il richiedente non

fosse stato trattenuto presso una dei c.d. centri di identificazione personale, o presso

uno dei c.d. centri di permanenza temporanea272, oppure qualora fossero stati superati i

termini massimi per il trattenimento presso tali centri. La gamma delle ipotesi in cui il

richiedente non rischiava di essere trattenuto in uno di questi centri era, tuttavia, tal-

mente residuale che, per quanto la norma non avesse abolito espressamente il rilascio

automatico del permesso di soggiorno, eliminava, di fatto, la possibilità concreta per la

maggior parte degli asilanti di ottenerlo. Il rilascio del permesso di soggiorno o, al con-

trario, la detenzione presso uno dei C.D.I. era una fase estranea e precedente all’esame

della domanda ed atteneva, pertanto, a fatti inerenti l’ingresso dello straniero sul territo-

rio dello stato italiano.

Le misure introdotte dall’art. 1-bis, lettera a), b), c), avevano carattere tempora-

neo e potevano perdurare per il solo

“tempo strettamente necessario alla definizione delle autorizzazioni

alla permanenza nel territorio dello Stato in base alle disposizioni del testo

unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e nor-

me sulla condizione dello straniero di cui al Decreto Legislativo n.

286/1998”.

Inoltre le tre ipotesi di trattenimento contemplate in tale articolo avevano caratte-

re facoltativo e, pertanto, avrebbe dovuto essere il questore a decidere se disporre tale

trattamento o meno.

271 G. Schiavone, “L’asilo negato, alcune riflessioni sulle nuove disposizioni introdotte dalla “Bossi-Fini”in materia di diritto d’asilo”, in A. Leogrande, G. Naletto (a cura di), Bada alla Bossi-Fini! Contenuti,"cultura" e demagogia della nuova legge sull'immigrazione, Altraeconomia, Asgi, I.C.S., Lo straniero,Lunaria, Terre di mezzo, ottobre 2002.272 I C.P.T. non sono una novità introdotta dalla l. Bossi- Fini, essi furono introdotti dall’art. 14 della l.Turco-Napolitano per gli stranieri in attesa di espulsione, tuttavia vedremo che anche all’interno della l.189/2002 hanno un ruolo importante.

105

La previsione più importante, era quella descritta dalla lettera a), art. 1-bis, co. 1,

che disponeva il trattenimento del richiedente asilo che si fosse avvalso di documenti

poi risultati falsi, o che avesse fornito informazioni palesemente false. Risulta, da su-

bito, chiaro che anche in questo caso la generalità della norma era tale da lasciare

un’ampia discrezionalità all’autorità competente.

L’articolo 1-bis, co. 1, lettera b) riguardava poi un’altra ipotesi di trattenimento

facoltativo nel caso in cui fosse “opportuno verificare gli elementi su cui si basa la do-

manda d’asilo, qualora tale elementi non siano immediatamente reperibili”, così se-

condo quanto statuito dalla lettera c) del medesimo articolo, secondo cui il trattenimento

facoltativo poteva essere disposto quando sia “in dipendenza del procedimento concer-

nente il riconoscimento del diritto ad essere ammesso nel territorio dello Stato”.

L’articolo 1-bis, co. 2, disponeva invece, alle lettere a) e b) due casi in cui il

trattenimento del richiedente era obbligatorio. La lettera a) prevedeva infatti che

l’asilante dovesse essere obbligatoriamente trattenuto “a seguito della presentazione di

una domanda di asilo presentata dallo straniero fermato per avere eluso o tentato di

eludere il controllo di frontiera o subito dopo, o, comunque, in condizioni di soggiorno

irregolare”, mentre la lettera b) stabiliva che il trattenimento fosse obbligatorio: “a se-

guito della presentazione di una domanda d’asilo da parte di uno straniero già desti-

natario di un provvedimento di espulsione”. Relativamente al trattenimento previsto

dall’articolo 1-bis, co. 2, lettera b), dovevano essere osservate le norme previste

dall’articolo 14 della legge n. 286/1998, e quindi il trattenimento avrebbe dovuto essere

effettuato presso i c.d. centri di permanenza temporanea ed assistenza, previsti da tale

normativa. Anche per quanto riguarda la disciplina del trattenimento e la relativa proce-

dura di convalida del trattenimento si seguiva il dettato dell’articolo 14, l. 286/1998, se-

condo cui il provvedimento relativo al trattenimento, così come quello che prevedeva

l’accompagnamento coattivo alla frontiera, rientrava nella competenza del questore.

Una volta convalidato, il provvedimento non avrebbe potuto protrarsi per un periodo

superiore ai 30 giorni. Inoltre, il giudice adito in merito alla convalida del trattenimento

doveva

“nel valutare la legittimità del provvedimento emesso, determinare autonoma-

mente anche l’ulteriore tempo di permanenza necessario, in modo da recuperare il

106

principio dell’adeguatezza e della proporzione fra la misura restrittiva e le esigenze

statuali di disciplina e controllo dell’immigrazione” 273.

Qualora fosse necessario all’accertamento dell’identità o della nazionalità, il

termine avrebbe potuto essere prorogato, su richiesta del questore, per altri trenta giorni,

con provvedimento motivato del giudice. La motivazione sia della richiesta che del

provvedimento di proroga, dato l’elevato grado di compressione della libertà personale

che comportava, avrebbe dovuto essere ben articolata, coerente e proporzionata a tale

restrizione. Tuttavia, relativamente al trattenimento del richiedente asilo era risultato di

difficile individuazione il giudice competente ad emettere il provvedimento di convali-

da. In base alle modifiche introdotte dalla l. 217/2004, infatti, avrebbe potuto essere

considerato competente il giudice di pace, mentre secondo la formulazione dell’articolo

1-ter, co. 3, l. 39/1990, come modificata dalla legge 189/2002, il quale statuisce che:

“ […] il questore chiede al tribunale in composizione monocratica la proroga del pe-

riodo di trattenimento per ulteriori trenta giorni per consentire l’espletamento della

procedura di cui al presente articolo […] ” sarebbe risultato competente il giudice ordi-

nario, appunto in composizione monocratica274.

È interessante notare come la legge, nonostante le numerose modifiche intro-

dotte, non prevedesse una disciplina relativamente al trattenimento degli asilanti presso

i c.d. “centri di identificazione”. La mancanza di una norma che disciplinasse espressa-

mente il trattenimento in tali centri ha suscitato numerose perplessità relativamente alla

sua o meno conformità alla nostra costituzione.

Il trattenimento nei centri di identificazione, diversamente da quello nei

C.P.T.A., non avrebbe dovuto avere carattere coattivo. Come tale, nel caso in cui un ri-

chiedente asilo si fosse allontanato da un centro di identificazione alla polizia non era

consentito intervenire. Tuttavia l’articolo 1-ter, co. 4, l. 39/1990, così come modificato

dalla l. 189/2002, prevedeva che l’allontanamento non autorizzato da uno dei centri di

identificazione, potesse essere considerato come rinuncia alla domanda di riconosci-

mento dello status di rifugiato.

Per quanto il regolamento attuativo della legge Bossi-Fini avesse poi istituito un

termine massimo di venti giorni per il trattenimento facoltativo presso tali centri, e

273 Tribunale di Milano, 27 gennaio 2001, in Giur. Merito, 2002, p. 472.274Espulsione, accompagnamento alla frontiera e trattenimento dello straniero, Magistratura Democraticae A.S.G.I. (a cura di), cit., pag. 89.

107

avesse previsto la possibilità, per l’asilante, di un allontanamento autorizzato dalle ore

otto del mattino alle ore venti275, la mancanza di convalida da parte dell’autorità giudi-

ziaria rendeva fortemente criticabile questo istituto che correva il rischio di configurarsi

come “un’ulteriore forma di “detenzione amministrativa”276. Risultava inoltre evidente

che l’allontanamento non avesse poi un carattere così “facoltativo” se ad esso veniva,

almeno originariamente, automaticamente fatta seguire la rinuncia alla domanda. Era

evidente, infatti, che nessun richiedente asilo si sarebbe mai avvalso della sua facoltati-

va possibilità di allontanarsi dal centro di identificazione a queste condizioni.

L’ampio margine di discrezionalità lasciato dalla formulazione di tale legge alle

autorità di pubblica sicurezza, aveva creato un elevato numero di problemi connessi

all’istituzione e alle gestione stessa dei c.d. centri di identificazione e c.d. centri di per-

manenza temporanea e assistenza.

Ritengo che sia opportuno citare in questa sede il rapporto “Italia, presenza tem-

poranea, diritti permanenti”277 redatto, sull’argomento, dall’organizzazione Amnesty

International, e pubblicato nel giugno del 2005. L’obbiettivo principale di tale rapporto

era quello di svolgere un’analisi completa delle condizioni in cui si trovavano le perso-

ne, per lo più immigrati irregolari, ma spesso anche richiedenti asilo, che venivano de-

tenute presso tali centri. Dato il suo momento di pubblicazione, questo documento ave-

va anche avuto modo di esaminare la situazione dei nuovi centri di identificazione.

Un dato non irrilevante che emerge dal rapporto, è quello relativo agli organi che

hanno svolto denunce relativamente alle condizioni dei C.P.T.A. e anche dei C.D.I. Si è

trattato per la maggior parte di organizzazioni non governative e associazioni private at-

tive nel settore, tuttavia numerose denunce sono anche state presentate da avvocati, me-

dici, parlamentari e, nel maggio del 2004, anche da quattro sindacati di polizia, operanti

presso alcuni centri. I rappresentanti di tali sindacati si sono dichiarati molto preoccu-

pati per le condizioni precarie in cui venivano amministrati certi C.P.T.A.278.

Nel gennaio 2004 è stato anche pubblicato un rapporto dall’associazione Medici

senza Frontiere, i cui membri avevano ottenuto l’accesso ai C.P.T.A., previa autorizza-

275 Tale allontanamento non è però consentito a coloro che rientrino sotto le previsioni dell’articolo 1-bis,co. 1, lettera a) e co. 2, lettera a).276 Ibidem, pag. 89.277 Italia, presenza temporanea, diritti permanenti, Amnesty International (a cura di), giugno 2005, con-sultabile sul sito www.amnesty-eu.org .278 Ibidem, pag. 7.

108

zione del Ministro dell’Interno279. In tale documento, tra le altre cose, veniva anche pe-

santemente denunciato il mancato rispetto di condizioni igienico-sanitarie minimamente

accettabili280. Inoltre la mancanza di accesso al mondo esterno e gli scarsi contatti con-

cessi persino agli operatori sociali, nonché la mancanza di un servizio di interpretariato

idoneo, hanno fatto sì che, spesso, i detenuti non abbiano ricevuto informazioni suffi-

cienti relativamente all’accesso, alle procedure per il riconoscimento dello status di ri-

fugiato, o alla possibilità di presentare ricorso contro il provvedimento di espulsione.

Sono stati anche segnalati casi in cui le domande d’asilo sarebbero state inoltrate

alle autorità preposte in modo discrezionale, prestando maggior attenzione al paese

d’origine dei richiedenti invece che alle loro singole situazioni personali. Questo esame

sommario e, spesso, grossolano delle domande d’asilo ha comportato anche l’attuazione

di una serie di espulsioni collettive, “in violazione delle norme di diritto internazionale

e in materia di diritti umani”281.

L’istituzione dei centri di identificazione è stata compiuta in parte tramite la tra-

sformazione dei preesistenti centri “di prima accoglienza”, caratterizzati dall’essere

centri “aperti” e, in parte, attraverso la costruzione di nuovi edifici nelle stesse aree già

destinate ai C.P.T.A.

Un esempio importante da considerare è stato quello del Centro pugliese di Bor-

go Mezzanone, dapprima qualificato come “centro di prima accoglienza”, e poi usato in

maniera sperimentale per testare le nuove norme relative agli asilanti, della legge Bossi-

Fini. In questo centro, infatti, già nel 2001 riqualificato come centro di identificazione,

veniva attuata la procedura semplificata, appunto istituita dalla nuova normativa, per

altro approvata solo nel 2002282.

Un altro esempio particolare è stato quello del Centro di identificazio-

ne/accoglienza di Sant’Anna, nei pressi di Crotone. Alcuni parlamentari ed avvocati,

autorizzati a visitare il centro nel giugno 2005, hanno riferito casi di detenzione, non

convalidati dall’autorità giudiziaria, nonché la presenza di minori, anche non accompa-

279 L’accesso ai C.P.T.A., come ai C.I.E. non è libero, il Ministro dell’Interno deve espressamente auto-rizzarlo. Spesso tale autorizzazione è stata negata al personale medico, ad avvocati, e ai membri stessi diAmnesty International. Ibidem.280 Ibidem, pag. 21.281 Ibidem, pag. 22. In relazione alle espulsioni collettive attuate in base agli accordi con la Libia si vedaanche Libya: Refugees Face Imminent Expulsion, 23 dicembre 2004, 19/022/2004, consultabile suwww.amnesty.org .

109

gnati, e di un elevato numero di persone ferite. I “detenuti” in questione hanno denun-

ciato percosse e punizioni corporali di vario genere ma l’autorità di polizia presente nel

centro, pur negando qualunque tipo di responsabilità, non ha saputo fornire spiegazioni

soddisfacenti in merito al verificarsi di tali “incidenti”283.

Non è questa la sede per svolgere un’analisi dettagliata delle condizioni in cui

vertono gli asilanti rinchiusi nei C.P.T.A.e nei C.D.I. tuttavia, dato il numero elevato di

richiedenti asilo che in virtù della Bossi-Fini veniva trattenuta preso tali centri, ho rite-

nuto importante offrirne, almeno, una breve panoramica. Inoltre, dato il supposto carat-

tere non obbligatorio, e pertanto differente dalla detenzione, dei C.D.I. ho ritenuto im-

portante sottolineare come di fatto nella pratica tali centri non differissero molto dai

C.P.T.A., che sono invece stati concepiti proprio come centri di detenzione amministra-

tiva. A questo proposito, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei

migranti, in visita ai C.D.I. e C.P.T.A. italiani nel giugno del 2004, ha affermato:

"Vi sono poche e poco evidenti differenze tra la detenzione nei C.P.T.A. e quella

nei centri di identificazione. La Relatrice speciale desidera esprimere la proprio preoc-

cupazione per la graduale trasformazione dei centri di accoglienza locale in centri di

identificazione. Desidera inoltre esprimere preoccupazione circa le conseguenze e le

limitazioni intrinseche alla gestione privata di tali centri. In assenza di una istituzione

nazionale per i diritti umani, ritiene che sia necessario un ente indipendente per super-

visionare la gestione dei centri, il rispetto dei diritti umani delle persone che vi sono

trattenute e la fornitura di assistenza medica, psicologica e legale. Questo ente dovreb-

be anche supervisionare l’accesso di O.N.G. e di avvocati ai suddetti centri. La Relatri-

ce speciale ritiene che la costruzione di nuovi centri non sia la soluzione per

l’immigrazione illegale”284.

L’articolo 1-ter, l. 39/1990, così come modificata dall’articolo 32, l. 189/2002,

introduceva la procedura c.d. semplificata, da considerarsi eccezionale rispetto a quella

ordinaria, perché volta a disciplinare le domande d’asilo presentate da asilanti in condi-

zione di soggiorno irregolare, o entrati clandestinamente e trattenuti pertanto presso un

C.D.I., o già soggetti a provvedimenti di espulsione e, quindi obbligatoriamente tratte-

282 In I.C.S., La protezione negata: primo rapporto sul diritto d’asilo in Italia, cit., pag. 106.283 In Italia, presenza temporanea, diritti permanenti, Amnesty International (a cura di), cit., pag. 27-28.284 Rapporto della Relatrice speciale della N.U. sui diritti umani dei migranti, in Italia, presenza tempora-nea, diritti permanenti, Amnesty International, cit., pag. 9.

110

nuti presso un C.P.T.A. Questo particolare tipo di procedura, eccezione fatta per le ca-

ratteristiche del trattenimento, non prevedeva trattamenti differenziati in merito alle

domande presentate dai c.d. “irregolari” o dagli “espulsi”. Di fatto, data la formulazio-

ne dell’articolo 1-bis, la procedura semplificata finiva per essere la norma, mentre

quella ordinaria risultava avere carattere eccezionale. Secondo quanto stabilito dall’art.

1-ter il Questore, appena ricevuta la domanda per il riconoscimento dello status di rifu-

giato, disponeva il trattenimento del richiedente e, entro due giorni, inviava la docu-

mentazione alla Commissione Territoriale competente la quale doveva provvedere ad

ascoltare l’asilante entro i successivi quindici giorni. Una volta svolta l’audizione, la

Commissione Territoriale aveva poi altri 3 giorni per emettere la sua decisione.

L’innovazione, apparentemente positiva, apportata tramite l’introduzione di termini

brevi per l’esame delle domande rischiava però di non funzionare correttamente nella

pratica, data l’impossibilità di verificare, in così poco tempo, l’esistenza di una persecu-

zione già in atto o anche solo temuta. Criterio di riferimento delle Commissioni territo-

riali ha finito, pertanto, per essere, in tale periodo, quello del paese d’origine conside-

rato astrattamente per così dire sicuro.

L’articolo 1-bis, co. 5, prevedeva poi la disciplina della procedura ordinaria da

adottarsi in quei casi nei quali non fosse stato disposto il trattenimento del richiedente,

oppure questo fosse cessato, e pertanto in quei rari casi in cui lo stesso fosse riuscito ad

entrare regolarmente sul territorio italiano.

Parte della dottrina285 si è a lungo chiesta se la procedura ordinaria differisse da

quella semplificata solo relativamente alla durata o se vi fossero altre differenze:

l’articolo 1-quater, co. 2, prevedeva infatti che la stessa dovesse durare un massimo di

trenta giorni, invece dei venti previsti per quella semplificata.

La definizione di una procedura ordinaria diversa da quella prevista nella l.

39/1990 era dovuta alla modifica dei compiti della Commissione Centrale trasformata in

Commissione Nazionale, che da organo giudicante diventava organo di coordinamento

e indirizzo, e dall’avvenuta istituzione delle Commissioni Territoriali. La Commissione

Nazionale, oltre a funzioni di coordinamento, aggiornamento e indirizzo, aveva, ed ha

tuttora, potere eccezionale in ordine ai casi di cessazione e revoca degli status concessi.

285 B. Nascimbene, “Nuove norme in materia di Immigrazione. La legge Bossi-Fini: perplessità e criti-che”, cit.

111

Le Commissioni Territoriali erano e sono designate presso ogni prefettura, ma il

regolamento attuativo della l. 189/2002 ne aveva istituite, originariamente solo sette,

nelle aree di massima affluenza degli asilanti286. Queste erano nominate dal Ministero

dell’Interno, presiedute da un funzionario della carriera prefettizia, e composte da un

funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante dell’ente territoriale designato

dalla Conferenza Stato-città ed autonomie locali, e da un rappresentante

dell’U.N.H.C.R.287. Secondo quanto stabilito dal D.P.R. n. 303/2004, che ha regolato le

attività delle Commissioni Territoriali, l’audizione del richiedente asilo avrebbe dovuto

svolgersi davanti alla Commissione competente, in seduta non pubblica e alla presenza

di tutti i suoi membri. Le decisioni adottate in assenza anche di uno solo dei membri

erano da considerarsi adottate in difetto di legittimazione. Sulle richieste la Commissio-

ne decideva a maggioranza, tuttavia secondo quanto stabilito dall’art. 1-quater, in caso

di parità prevaleva il voto del Presidente, funzionario della carriera prefettizia.

L’articolo 32 della legge 189/2002 aveva introdotto un’importante novità relati-

vamente all’istituto dell’asilo umanitario. Aveva infatti stabilito, all’articolo 1-quater,

che durante l’esame della domanda la commissione avrebbe dovuto anche tenere conto

dell’esistenza “di seri motivi, in particolare di carattere umanitario risultanti da obbli-

ghi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, secondo quanto stabilito

dall’articolo 5, co. 6, della legge 268/1998. La novità introdotta dalla c.d. legge Bossi-

Fini era proprio quella di aver reso obbligatoria, per le Commissioni Territoriali, la veri-

fica dell’esistenza dei presupposti per concedere l’asilo umanitario. La Commissione

Centrale, infatti, aveva instaurato una prassi a carattere discrezionale in merito all’asilo

umanitario, onde non violare il principio di non-refoulement, ex articolo 33, Conven-

zione di Ginevra, ma non agiva in virtù di una norma precisa.288 Relativamente alle

condizioni idonee a concedere l’asilo umanitario sia la legge 286/1998 che il D.P.R.

303/2004, rinviano alla necessità di valutare i fatti alla luce delle Convenzioni Interna-

zionali, con particolare attenzione all’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti

dell’uomo, che proibisce la tortura, le pene e i trattamenti inumani e degradanti.

286 Erano state istituite presso le prefetture di Milano, Gorizia, Roma, Foggia, Crotone, Siracusa e Trapa-ni.287 G. Vitale, “La nuova procedura di riconoscimento dello status di rifugiato: dall’audizione avanti laCommissione territoriale all’impugnativa giurisdizionale.”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, Fasc.4, 2005, Franco Angeli Editore, Milano.

112

Secondo quanto stabilito nel regolamento attuativo della legge 286/1998, come

modificato dal D.P.R. 303/2004, il permesso di soggiorno per motivi umanitari consente

all’asilante di lavorare e può, successivamente, essere trasformato in un permesso di

soggiorno per motivi di lavoro.

Per quello che riguarda il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanita-

ri, la norma non specificava la procedura da adottare e si riteneva, pertanto, che fosse un

compito affidato alla Commissione Territoriale. Il permesso avrebbe dovuto essere rin-

novato a meno che la Commissione non avesse ritenuto che fossero cessati i motivi ido-

nei a concedere tale status289.

La decisione assunta dalla Commissione doveva essere notificata in forma scritta

all’interessato, in una lingua a lui comprensibile e deve essere motivata. Doveva, inol-

tre, contenere informazioni relativamente alle possibilità di esperire i mezzi

d’impugnazione. Qualora la richiesta dell’asilante fosse stata respinta, l’articolo 15 del

D.P.R. 303/2004, stabiliva che lo straniero dovesse lasciare il territorio dello stato, salvo

che potesse richiedere ed ottenere un permesso di soggiorno per altri motivi. Una volta

respinta la domanda relativa la riconoscimento dello status il Questore doveva adottare

un provvedimento di accompagnamento alla frontiera nei confronti dell’asilante, oppure

doveva intimare allo straniero a cui era già stato concesso il permesso di soggiorno di

allontanarsi dall’Italia entro quindici giorni.

Destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo alla frontiera sa-

rebbero dunque stati, i richiedenti asilo già detenuti all’interno di un C.P.T.A., ai sensi

dell’articolo 1-bis, co. 2, lettera (b, legge 39/1990 e quelli che, secondo quanto stabilito

nelle medesima previsione, erano trattenuti presso un C.D.I., avendo presentato doman-

da d’asilo in seguito all’essere stati fermati per aver eluso o tentato di eludere i controlli

di frontiera, o all’essere stati trovati in condizione di soggiorno irregolare.

Il provvedimento di espulsione adottato nei confronti dei richiedenti asilo tratte-

nuti nei C.D.I. doveva comunque ritenersi sospeso nei cinque giorni successivi alla sua

emanazione e nel caso fosse stato richiesto il riesame, fino alla decisione relativa a tale

richiesta290.

288 S. Fachile, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari ex art. 18 co.6 T.U. 286/98: un importantestrumento di tutela delle persone straniere che scontano una pena, op. cit.289 G. Vitale, La nuova procedura di riconoscimento dello status di rifugiato: dall’audizione avanti laCommissione territoriale all’impugnativa giurisdizionale, cit., pag. 49.290 Ibidem, pag. 53.

113

L’articolo 16 del D.P.R. 303/2004, infatti, istituiva la possibilità, solo per i ri-

chiedenti asilo trattenuti nei C.D.I., ai sensi dell’articolo 1-bis, co. 2, lettera a), di pro-

porre, entro cinque giorni dalla notificazione della decisione, istanza di riesame della

stessa. Il riesame aveva la funzione di sottoporre all’attenzione della Commissione Ter-

ritoriale integrata da un componente della Commissione Nazionale, elementi nuovi o

anche preesistenti che non era stato possibile acquisire in passato. L’utilità di tale ricor-

so era, evidentemente, discutibile dato che sul riesame si pronunciava, di fatto, una

Commissione di poco differente da quella che aveva negato il riconoscimento e posto

che la decisione sul riesame veniva presa quindici giorni dopo il diniego, il che rendeva

praticamente impossibile che il richiedente potesse effettivamente addurre nuovi ele-

menti di prova.

Contro le decisioni della Commissione Territoriale, in prima istanza oppure a

seguito di riesame, era ammesso ricorso al tribunale ordinario, entro quindici giorni

dalla notifica. Durante tale periodo il richiedente poteva trattenersi sul territorio italiano,

previa richiesta di autorizzazione al prefetto. Tale richiesta doveva avere forma scritta

ed essere motivata da

“fatti sopravvenuti, che comportino gravi e comprovati rischi per

l’incolumità personale o la libertà, successivi alla decisione della Commis-

sione territoriale, ed a gravi motivi personali o di salute che richiedono la

permanenza dello straniero sul territorio dello Stato” 291.

Nuovamente il termine breve per proporre ricorso rendeva impossibile che i

fatti contemplati nella prima ipotesi della norma fossero sopravvenuti tra un’audizione e

l’altra, mentre la seconda ipotesi si riferiva ai casi in cui il richiedente potesse aver bi-

sogno di cure o fossero presenti in Italia suoi prossimi congiunti a loro volta bisognosi

di cure o aiuto.

Nel caso in cui la domanda fosse stata esaminata secondo quanto previsto per la

procedura semplificata il termine per proporre il ricorso era di quindici giorni, mentre

per quanto riguardava il ricorso avverso procedura ordinaria l’articolo 1-quater, co. 5,

non prevedeva un termine di decadenza ma stabiliva solo la competenza del tribunale

291 Articolo 17, D.P.R. 303/2004.

114

ordinario, in composizione monocratica. Rimaneva comunque possibile all’asilante pre-

sentare domanda per il riconoscimento del diritto d’asilo, ex articolo 10, co. 3, Cost.

Tuttavia, come abbiamo visto precedentemente, la competenza in materia di ri-

corsi era ancora in tale periodo particolarmente dibattuta, e dava luogo continuamente a

pronunce giurisprudenziali tra loro contrastanti.

Solo negli ultimi anni, come vedremo nel paragrafo seguente, in virtù

dell’implementazione della normativa comunitaria, la disciplina del rifugio e dell’asilo

in Italia, hanno ottenuto una redazione più organica e completa.

4. L’implementazione della normativa comunitaria: i decreti legislativi

251/2007 e 25/2008.

Fino a tempi recenti, dunque, l’Italia non solo era priva di una disciplina organi-

ca in materia di riconoscimento dello status di rifugiato, ma violava apertamente i propri

obblighi internazionali in tale settore. Il legislatore italiano, infatti, aveva lasciato scade-

re sia il termine per il recepimento della Direttiva 2004/83/CE (Recante norme minime

sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di per-

sona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul con-

tenuto della protezione riconosciuta), fissato al 10 ottobre 2006, sia quello per il rece-

pimento della successiva Direttiva 2005/85/CE (Recante norme minime per le procedu-

re applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di

rifugiato), fissato al 10 dicembre 2007. Solo con grande ritardo292 infatti, nel nostro

paese sono stati pubblicati rispettivamente il 04 febbraio 2008 il Dlgs 251/2007 attuatti-

vo della direttiva 2004/83/CE e, il 16 febbraio 2008, il Dlgs 25/2008 in attuazione della

direttiva 2005/85/CE.

La Relazione illustrativa del decreto293 251/07, ha sottolineato da subito gli

aspetti essenziali della direttiva comunitaria cui dava attuazione, definendolo come

“il primo strumento unitario a livello di diritto dell'Unione europea

nel settore, volto ad assicurare criteri comuni per il riconoscimento della

protezione accordata dalla Convenzione di Ginevra, nonché un livello mi-

nimo di prestazioni che gli Stati membri si impegnano a garantire ai richie-

292 Peraltro quando la Commissione Europea aveva già iniziato le pratiche per avviare la procedura di in-frazione contro l’Italia e contro gli altri 13 stati in ritardo sull’attuazione della direttiva citata.293 Allegata allo schema di D. Lgs., nel testo finale licenziato il 9.11.07.

115

denti asilo e, ancora più importante, ad attribuire un significato uniforme e

condiviso al principio di non refoulement previsto dalla Convenzione di Gi-

nevra, estendendone la portata a tutti coloro che, pur in assenza dei requi-

siti specifici per accedere allo status di rifugiato, correrebbero "un rischio

effettivo di subire un grave danno (…) nel Paese di origine, delineando for-

me sussidiarie di protezione con carattere complementare rispetto alla

protezione dei rifugiati"294.

Da tale relazione295 emerge altresì come il legislatore, pur ammettendo che nel

sistema normativo previgente non esistesse alcun istituto analogo alla protezione sussi-

diaria, le cui caratteristiche vedremo di seguito, esso si ispiri ad un principio già emerso

in precedenza, all’art. l'art. 1quater, co. 4 della c.d. Legge Martelli, come innovato dalla

Legge n. 189/02, ove si stabilisce che, in sede di esame della domanda di

asilo, la Commissione territoriale competente valuta l'eventuale sussistenza di "seri mo-

tivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o inter-

nazionali dello Stato italiano" che giustifichino la non espulsione, alla luce delle conse-

guenze che il rimpatrio avrebbe in termini di violazione dell'art. 3 CEDU296, ed il rila-

scio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. In realtà, trattasi di due forme di

protezione internazionale differenti che coesistono nello stesso ordinamento: il titolare

di un permesso per motivi umanitari non è infatti titolare di uno status giuridico defini-

to, mente colui a cui viene riconosciuta la protezione sussidiaria gode di uno status di-

sciplinato dalla nuova normativa297, al quale corrispondono diritti e doveri specifici.

Diversamente da quanto illustrato nella Relazione citata, secondo parte della

dottrina298 il DLgs 251/07, integrato da parte del Dlgs 25/08 che vedremo in seguito, e

dalle previsioni del T.U. Immigrazione ancora in vigore, fa si che per la prima volta

nell’ordinamento italiano l’asilo costituzionale previsto ex art. 10 Cost.299, come illu-

294 Sull’importanza di una protezione alternativa riconosciuta dal diritto internazionale a coloro che nonrientrano nel campo di applicazione della Convenzione di Ginevra si veda J. Mcadam, ComplementaryProtection in International Refugee Law, Oxford, 2007.295 Relaz. ill., cit., p. 2.296 Art. 3 Dichiarazione Europea dei Diritti dell’Uomo: “Proibizione della tortura. Nessuno può esseresottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.297M. Malena, Il Diritto d’asilo tra ordinamento costituzionale e sistema di protezione europeo multili-vello, Dottorato di Ricerca in Diritto Costituzionale Ius/08, Alma Mater Studiorum Università di Bologna.298 P. Bonetti, “Il diritto d’asilo in Italia dopo l’attuazione della direttiva comunitaria sulle qualifiche esugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria”, Diritto Immigrazione e Cittadinanza X, 1- 2008,p.13-53.299 Si veda in proposito il paragrafo 1 del presente capitolo.

116

strato al paragrafo uno, trovi pienamente attuazione secondo tre forme di protezione

alternative e tra loro differenti. Le prime due, lo status di rifugiato e la protezione sussi-

diaria, coincidono con quelle ugualmente garantite in tutti gli stati membri e vengono

concesse a coloro che abbiano presentato un apposita domanda di protezione interna-

zionale mentre la terza, invece, si configura come un genus a parte, che viene ricono-

sciuto, solo in Italia, anche a colui che non abbia presentato un’apposita domanda di

protezione internazionale. A tali forme se ne aggiunge, peraltro come già nella normati-

ve previgente, una quarta che si sostanzia in un provvedimento del Governo con il qua-

le, in casi particolari, viene riconosciuta d’ufficio una forma di protezione indistinta a

tutti i membri di un determinato gruppo, paese o etnia300.

Il Dlgs 251/07 individua all’art. 3 gli elementi fondamentali della domanda di

protezione internazionale nelle dichiarazioni del richiedente e nella documentazione re-

lativa alle circostanze da questo illustrate, da cui si possono individuare elementi utili al

fine di valutare la stessa. L’esame della domanda deve sempre essere effettuato indivi-

dualmente e prevede la valutazione:

“a)di tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine al mo-

mento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese, ove

possibile, le disposizioni legislative e regolamentari del Paese d’origine e

relative modalità di applicazione;

b) della dichiarazione e della documentazione pertinenti presentate dal ri-

chiedente, che deve anche rendere noto se ha già subito o rischia di subire

persecuzioni o danni gravi;

c) della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente,

in particolare la condizione sociale, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in

base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o po-

trebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

d) dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente, dopo aver lasciato il

Paese d’origine, abbiano mirato, esclusivamente o principalmente, a creare

le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione

internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a

persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese;

300 P. Bonetti, op. cit., pag. 19.

117

e) dell’eventualità che, in considerazione della documentazione prodotta o

raccolta o delle dichiarazioni rese o, comunque, sulla base di altre circo-

stanze, si possa presumere che il richiedente potrebbe far ricorso alla pro-

tezione di un altro Paese, di cui potrebbe dichiararsi cittadino.

Il richiedente deve, dunque, fare tutto il possibile per circostanziare in maniera

dettagliata e precisa, le proprie dichiarazioni anche se alle stesse dovrebbe essere co-

munque applicato “un principio di verosimiglianza della domanda sulla base di due

criteri di tipo presuntivo favorevoli al richiedente”301. Si prevede infatti, ai commi 4 e 5

dell’art 3, che il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o

minacce dirette di persecuzioni o danni, costituisce un serio indizio in merito alla fon-

datezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire

danni gravi, e che gli elementi delle dichiarazioni del richiedente i quali non siano suf-

fragati da prove, debbano comunque essere considerati veritieri se l’autorità competente

a decidere sulla domanda ritiene che:

a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la

domanda;

b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata

fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi

significativi;

c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non

sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti

al suo caso, di cui si dispone;

d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il

prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato

motivo per ritardarla;

e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile.

L’art. 4 del citato decreto, prevede poi anche l’ipotesi in cui il bisogno di prote-

zione internazionale in capo al richiedente sia sorto in virtù di avvenimenti verificatisi

dopo la partenza dello stesso dal suo Paese di origine ovvero da attività svolte dallo

stesso dopo la partenza dal Paese d’origine, purché ovviamente non risulti che le stesse

301 Ibidem, pag. 32.

118

sono state svolte in maniera strumentale alla richiesta di protezione e, in ogni caso,

qualora sia accertato che le attività addotte costituiscono l’espressione e la continuazio-

ne di convinzioni od orientamenti già manifestati nel Paese d’origine. L’art 5 individua

poi i responsabili della persecuzione che, diversamente dal passato, possono essere non

solo lo Stato, ma anche i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte

consistente del suo territori e anche i soggetti non statuali, se lo Stato e le organizzazio-

ni internazionali non possono o non vogliono fornire protezione in loco.

Nel delineare poi all’art 6. i vari soggetti che possono offrire protezione è im-

portante evidenziare come l’Italia, diversamente da altri stati membri e dal Regno Unito,

non abbia ritenuto necessario inserire la c.d. internal flight rule, in base alla quale in ca-

si di conflitti e violenze circoscritte ad una sola parte del paese dì origine, viene ritenuto

sufficiente a garantire protezione il trasferimento del richiedente in altra regione dello

stesso. In base all’esperienza di chi scrive302, personale e riferita da colleghi delle diver-

se province, tuttavia, nella pratica sia le Commissioni Territoriali in sede di audizione,

sia i Tribunali Ordinari in sede di ricorso avverso il diniego di protezione internaziona-

le, pongono nella quasi totalità dei casi ai richiedente domande relative alla possibilità

dello stesso di spostarsi a vivere in altra parte del paese che ritengono astrattamente si-

cura e valutano le motivazioni dallo stesso fornite in merito a tale impossibilità, ai fini

del riconoscimento o meno di uno degli status sopra descritti.

L’art.7 definisce poi, in maniera dettagliata, la forma rilevante degli atti di per-

secuzione ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato nonché gli interessi che tali

atti devono ledere per tale riconoscimento. In modo particolare deve trattarsi di una

“violazione grave dei diritti umani fondamentali” da taluni autori individuati303 in quei

diritti di cui all’art.15, paragrafo 2 della CEDU304, valutati in maniera estensiva, da altri

invece ritenuti tutti i diritti relativi alle libertà democratiche garantite dalla nostra Co-

stituzione ai propri cittadini305. Tale violazione deve avvenire attraverso atti di violenza

fisica psichica, atti discriminatori o sproporzionati del pubblico potere, atti contro chi

302 Dovuta all’esercizio dell’attività di avvocato per i richiedenti asilo, sia presso la Commissione Territo-riale di Milano che presso il Tribunale di Milano e quale socio attivo dell’Associazione Studi Giuridicisull’Immigrazione.303 E. Codini, “I presupposti della protezione internazionale”, in E. Codini, M. D’Onrico e M. Gioiosa, (acura di), Per una vita diversa, Franco Angeli Editore, Milano 2009, pag.48.304 Tali diritti sono il diritto alla vita, a non essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani de-gradanti, a non essere tenuto in condizione di schiavitù, a non essere condannato in sede penale per unacondotta non prevista dalla legge come reato o con una pena superiore a quella prevista.

119

rifiuti di prestare servizio militare in un conflitto che potrebbe comportare la commis-

sione di illeciti e gravi crimini contro l’umanità o di atti specificatamente diretti contro

un genere sessuale o contro l’infanzia. Le motivazioni alla base della persecuzione ri-

mangono quelle previste dalla convenzione di Ginevra e pertanto, la razza, la religione,

l’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, la nazionalità e le opinioni politiche. Le

definizioni relative a ciascuno di tali motivi adottate nell’art.8306, sono in realtà defini-

zioni che consentono eventualmente all’interprete di costruire nozioni più ampie di

quelle specificamente indicate307. Circostanza che non si verifica praticamente mai du-

rante l’audizione amministrativa ma sovente in sede di ricorso giurisdizionale.

Al fine del riconoscimento della protezione internazionale non rileva poi che il

richiedente possegga effettivamente le caratteristiche per le quali viene perseguitato,

purché le stesse gli vengano imputate dagli autori delle persecuzioni.

Gli articoli 9 e 10 del decreto citato, prevedono poi le cause di cessazione ed

esclusione dello status di rifugiato, rifacendosi a quanto già stabilito dalla Convenzione

di Ginevra. Per quanto riguarda però la cessazione dello status il decreto, in ottemperan-

za a quanto previsto dalla Direttiva da cui origina, apporta alcune migliorie rispetto alla

citata Convenzione. La cessazione, infatti, può essere dichiarata qualora siano venute

meno le ragioni per le quali lo status è stato concesso ma purchè sia provato, in base ad

305 P. Bonetti, op. cit.306 Art. 8 Dlgs 251/2007 “Motivi di persecuzione 1. Al fine del riconoscimento dello status di rifugiato, gliatti di persecuzione di cui all’articolo 7 devono essere riconducibili ai motivi, di seguito definiti:a) "razza": si riferisce, in particolare, a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza oall’appartenenza ad un determinato gruppo etnico;b) "religione": include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, ol’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri attireligiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credoreligioso o da esso prescritte;c) "nazionalita": non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, o all’assenza di cittadinanza, ma desi-gna, in particolare, l’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o lingui-stica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato;d) "particolare gruppo sociale": è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innatao una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che ècosì fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinun-ciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perchè vi è percepito comediverso dalla società circostante. In funzione della situazione nel Paese d’origine, un particolare grupposociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, fermo re-stando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana;e) "opinione politica": si riferisce, in particolare, alla professione di un’opinione, un pensiero o una con-vinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’articolo 5 e alle loro politiche o ailoro metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o con-vinzione in atti concreti.307 E. Codini, op.cit., pag.51.

120

un’analisi individuale del singolo caso, che il cambiamento delle circostanze abbia ca-

rattere non temporaneo e non sussistano al contempo gravi motivi umanitari che impe-

direbbero, in ogni caso, il ritorno nel paese di origine. L’art. 12 prevede poi le cause di

diniego dello status di rifugiato nei casi in cui non ne sussistano i presupposti, in pre-

senza di una delle cause di esclusione indicata dall’art. 10 cit. ma anche qualora il ri-

chiedente sia pericoloso per la sicurezza dello stato, per l’ordine e la sicurezza pubblica,

essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato di particolare gravità. Da

ultimo l’art.13 delimita le ipotesi di revoca dello status di rifugiato già concesso a due

soli casi: a)qualora l’avvenuto riconoscimento sia stato determinato da fatti erronei o

falsa documentazione o non siano stati considerati fatti comunque determinanti;

b)qualora vengano accertate successivamente le condizioni che in base al citato arti.12

avrebbero dovuto dare luogo ad un diniego.

Come sopra accennato, il procedimento di valutazione delle domande di prote-

zione internazionale non necessariamente si conclude con la concessione dello status di

rifugiato, ma può anche concludersi con il riconoscimento della protezione sussidiaria,

in capo a colui che non ha le condizioni specifiche per ottenere lo status, ma che si trova

in una situazione tale da non poter comunque far ritorno nel proprio Paese di origine

senza subire un grave danno, inteso ex art. 14 dlgs 251/07 quale rischio di subire tortu-

ra, condanna a morte o trattamenti disumani o degradanti od minacce per la sua vita nei

casi di conflitti armati interni od internazionali.

Il legislatore non ha voluto inserire in tale definizione anche quanto previsto

dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in merito alla definizio-

ne dei trattamenti inumani e degradanti, affermando che l’istituto stesso trova il suo

fondamento nell’art. 3 della Convenzione e che eventuali specificazioni non erano dun-

que necessarie, ma tale affermazione non è stata condivisa da quella parte della dottrina

che ha individuato nella giurisprudenza della CEDU, spesso e volentieri interpretazioni

più ampie e articolate di tale nozione308. In ogni caso la giurisprudenza della CEDU do-

vrà sempre essere tenuta presente da parte degli interpreti, stante quanto stabilito

308 Per una visione di insieme della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo in materia diasilo si veda N. Mole e C. Meredith, Asylum and the European Convention of Human Rights, pubblicatodal Consiglio d’Europa, Human Rights Files n. 9, 2010.

121

dall’art.117 comma 1 Cost. e dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e 349 del

2007309 in proposito.

Definire invece la nozione di danno derivante da un conflitto internazionale è

complesso e ancora oggi, quasi quattro anni dopo l’entrata in vigore del decreto citato,

la giurisprudenza di merito è molto varia nell’interpretazione di tale norma. Per la dot-

trina prevalente la minaccia deve comunque riguardare direttamente il richiedente non

essendo sufficiente la sola esistenza in generale di un conflitto e deve essere grave; il ri-

chiedente deve essere un civile e non un militare e la minaccia deve derivare da una si-

tuazione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o interna-

zionale non essendo sufficiente la presenza di disordini isolati o di sporadici episodi di

violenza310.Come sopra accennato le procedure volte al riconoscimento della protezione

internazionale, nei suoi diversi aspetti sopra descritti, sono regolate dal Dlgs 25/2008311.

Tale decreto, diversamente da quanto previsto in precedenza dalla c.d. legge Bossi-Fini,

ha delineato un’unica procedura volta al riconoscimento della protezione internazionale,

nei suoi diversi aspetti, sopra descritti.

Come stabilito dalla normativa precedente, la procedura viene avviata attraverso

la presentazione della domanda da parte del richiedente asilo, ma diversamente che in

passato la domanda può ora essere presentata ex art. 6 Dlgs 25/08, sia alla polizia di

frontiera al momento dell’ingresso sia successivamente alla Questura del luogo di dimo-

ra abituale. In tal modo dovrebbe essere eliminata completamente la discrezionalità

delle Questure nell’accettazione delle domande che, abbiamo visto ai paragrafi prece-

309 Le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 chiariscono la portata e gli effetti del limite del rispetto dei vin-coli derivanti dagli obblighi internazionali, previsto dall’art. 117, primo comma, Cost. quale limite per lapotestà legislativa statale e regionale, con riferimento alle norme della Cedu. L’art. 117, primo comma,Cost., non consente di “attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, og-getto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della Cedu”, ma determina“l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionaleincompatibile con la norma della Cedu e dunque con gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, primocomma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale”. Le disposizioni della Cedu diventano, dunque,“norme interposte” nel giudizio di legittimità costituzionale in relazione al parametro degli obblighi inter-nazionali previsto dall’art. 117, primo comma, Cost. Si veda in proposito S. Foà, “Un conflitto di inter-pretazione tra Corte Costituzionale e Corte Europea Dei Diritti dell’Uomo: leggi di interpretazione auten-tica e ragioni imperative di interesse generale”, in Federalismi.it, 20 luglio 2011,http://www.uilpadirigentiministeriali.com/Documentazione/Articoli,%20interventi,%20contributi/2011/luglio%202011/26-7-2011/UN%20CONFLITTO%20DI%20INTERPRETA.pdf, nonché D. Tega, “ Lesentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007: la Cedu da fonte ordinaria a fonte “sub-costituzionale” del diritto.”, consultabile su www.forumcostituzionale.it.310 P. Bonetti, op.cit, pag.42.311 Attuativo della Direttiva 2005/85/CE.

122

denti, precludeva spesso l’accesso alla protezione internazionale312. Essa può essere pre-

sentata anche da un minore non accompagnato, garantendo in tal caso la necessaria assi-

stenza tramite la nomina di un tutore. Diversamente che in passato ora esiste un solo ti-

po di procedura valida per tutti i richiedenti.

Quando presenta la domanda il richiedente dovrebbe essere informato da parte

della Questura, che raccoglie su un apposito modulo, comunemente definito C3, le pri-

me dichiarazioni dello stesso assistito da un interprete, dei punti fondamentali della pro-

cedura. Lo stesso viene poi sottoposto a rilievi dattiloscopici in base al regolamento

comunitario 2725/2000 che ha istituito il sistema Eurodac313 ed ha il diritto a contattare

l’UNHCR o altra organizzazione di sua fiducia competente in materia di asilo e a farsi

eventualmente assistere, a proprie spese, da un avvocato. L’eventuale presentazione tar-

diva della domanda non è di per sé più ragione sufficiente al rigetto della stessa, ma per

lo più tale elemento verrà valutato dalla Commissione Territoriale, a sostegno o a di-

scredito delle affermazioni del richiedente314. Presso alcune Questure, come ad esempio

quella di Roma, è necessario recarsi più volte sia per la presentazione della richiesta che

per svolgere le varie attività sopra descritte315. Dopo la presentazione della domanda la

Questura avvia la procedura amministrativa prevista dal Regolamento Dublino II, e va-

luta se sussistano le condizioni per un eventuale accoglimento in un CARA o per un

trattenimento in un CIE316 del richiedente. Il Dlgs 25 ha infatti abrogato il trattenimento

nei Centri di Identificazione previsti dalla Bossi Fini, ma prevede ora una sorta di ospi-

talità presso i CARA per un periodo massimo di 20 giorni, quando sia necessario proce-

dere a verifiche sulla nazionalità o identità del richiedente, o qualora lo stesso sia stato

fermato con documenti contraffatti o falsi e per un periodo fino a 35 giorni quando lo

stesso abbia tentato di eludere i controlli di frontiera o sia stato fermato in condizioni di

soggiorno irregolare o fosse già destinatario di un provvedimento di espulsione. È stata

poi abrogata anche la norma che prevedeva che l’allontanamento non autorizzato da un

312 M. Gioiosa, “Il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale”, in E. Codini, M.D’Odorico e M. Gioiosa, (a cura di) Per una vita diversa, Franco Angeli Editore, Milano 2009, pag. 61-124.313 Sistema di confronto delle impronte digitali raccolte tra i vari stati membri.314 E. Codini, M. Goiosa, “La disciplina di accoglienza degli asilanti”, in F. Grandi (a cura di), Il dirittod’asilo in Lombardia. Il Quadro normativo e la rete territoriale dei servizi di accoglienza e integrazione.Rapporto 2007, Fondazione ISMU, Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multi etnicità, Milano2008.315 Centro Astalli, Storie di diritti negati, pag. 25. www.centroastalli.ti316 Centro Accoglienza Richiedenti Asilo e Centri di Identificazione e Espulsione.

123

CARA (prima CID), comporti la rinuncia tacita alla domanda. Con la nuova disciplina il

richiedente verrà privato dell’assistenza ma la Commissione territoriale competente do-

vrà comunque procedere all’esame della sua domanda, allo stato degli atti. Nel caso di

apertura della c.d. fase Dublino, e fino a quando non viene effettivamente inviato e ac-

colto nello Stato membro eventualmente competente per l’esame della domanda il ri-

chiedente è comunque destinatario dei diritti previsti dalla normativa nazionale. La

Commissione competente dovrà limitarsi a sospendere l’esame della domanda all’esito

della fase Dublino. Preme sottolineare come non possa essere considerato astrattamente

competente ogni singolo stato che applica il Regolamento Dublino, ma debba in ogni

caso essere esaminato in concreto se non sussistano gravi motivi umanitari che impedi-

scano l’invio del richiedente in tale stato membro. Numerose sono state negli anni le

pronunce, ad esempio, che hanno ritenuto illegittimi i provvedimenti del Ministero

dell’Interno volti a rinviare richiedenti asilo in Grecia in base al Regolamento Dublino

II317, non perché tale stato non fosse competente, ma bensì in ragione della violazione di

gravi motivi umanitari. Nota è infatti la grave situazione di mancanza di effettiva tutela

per i richiedenti asilo in Grecia, più volte segnalata anche dall’UNHCR318.

Una volta presentata la domanda il richiedente è autorizzato, ex art. 7 decreto

citato, a restare in Italia fino al termine della procedura amministrativa, salvo che lo

stesso non debba essere estradato o consegnato ad un tribunale penale internazionale

oppure avviato presso un altro stato della Comunità europea, competente all’esame della

sua domanda in base al Regolamento Dublino II.

In numerosi casi per ragioni di tipo organizzativo delle varie questure i richie-

denti non vengono ascoltati e registrati immediatamente, in attesa di essere poi sentiti

dalla Commissione Territoriale ma gli viene dato, a volte anche verbalmente un appun-

tamento successivo. Presso la Questura di Milano viene normalmente consegnato al ri-

chiedente un foglietto quadrato con scritta a penna la data in cui ripresentarsi, di solito a

distanza di alcune settimane se non mesi, da parte dell’addetto al servizio informazioni

317 Tra tutte TAR Lecce 1870/08, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, X, 3-4,2008, pag. 201 e ssnonché, recentemente, Tar Lazio n. 1363 dell’11 febbraio 2011, consultabile nell’archivio legislativo diwww.meltingpot.org.318 D. Consoli e G. Schiavone, “Verso una migliore tutela dello straniero che chiede asilo? Analisi delleprincipali novità in materia di diritto d’asilo introdotte a seguito del recepimento della direttiva2005/85/CE con il Dlgs 25/2008 e il Dlgs 159/2008”, Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, X, 3-4, 2008,pag. 88-119.

124

dell’ingresso319. Per tutto il periodo di attesa i richiedenti restano dunque in uno stato di

limbo privi di alcun documento idoneo a dimostrare il loro status di richiedenti asilo.

Inutile dire come spesso questi crei notevoli problemi, soprattutto qualora vengano fer-

mati per dei controlli dalle autorità di pubblica sicurezza.

Una volta espletate le procedure amministrative sopra descritte la domanda vie-

ne trasmessa alla Commissione Territoriale che convoca il richiedente per l’audizione

individuale, che si svolge con l’ausilio di un’interprete della lingua madre dello stesso o

di altra di sua conoscenza.

In base al Dlgs. 159/2008 tali Commissioni sono nominate non più con decreto

del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro dell’Interno, bensì

con decreto di quest’ultimo. Il richiedente ha l’obbligo, se convocato, di comparire per-

sonalmente davanti alla Commissione territoriale. Ha altresì l’obbligo di consegnare i

documenti in suo possesso pertinenti ai fini della domanda, incluso il passaporto.

L’audizione dovrebbe, ex art. 12 decreto citato, avvenire entro trenta giorni dal

ricevimento della domanda e può essere esclusa solo nel caso in cui la stessa Commis-

sione ritenga che dalla documentazione emergano elementi sufficienti per la concessio-

ne dello status di rifugiato. All’audizione deve essere ammesso il legale del richiedente

il quale, ex art 17 Dlgs 85, ha accesso a tutte le informazioni relative alla procedura.

Dell’audizione è redatto verbale ed entro i tre giorni feriali successivi alla stessa la

Commissione territoriale dovrebbe decidere sulla domanda. Nella prassi la notifica della

decisione avviene per lo più alcuni mesi dopo l’audizione oppure quando il richiedente

si presenta spontaneamente in Questura per il rinnovo del permesso temporaneo in sca-

denza320. La decisione con cui viene respinta una domanda è corredata da motivazione

di fatto e di diritto. Tale motivazione non è prevista nel caso di accoglimento della do-

manda. Ed in questo caso ci si è chiesti se ciò possa dare luogo a situazioni di minor tu-

tela per quei soggetti a cui viene riconosciuta, anziché lo status di rifugiato, la protezio-

ne sussidiaria321.

319 E. Codini, M. Goiosa, La disciplina di accoglienza degli asilanti, in F. Grandi (a cura di), Il dirittod’asilo in Lombardia. Il quadro normativo e la rete territoriale dei servizi di accoglienza e integrazione.Rapporto 2007, cit.320 M. Gioiosa, “Il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale”, cit., pag. 105-106.321 D. Consoli e G. Schiavone, “Verso una migliore tutela dello straniero che chiede asilo? Analisi delleprincipali novità in materia di diritto d’asilo introdotte a seguito del recepimento della direttiva2005/85/CE con il Dlgs 25/2008 e il Dlgs 159/2008, cit.

125

Il rigetto della domanda può avvenire quando non sussistano i presupposti per il

riconoscimento della protezione internazionale fissati dal Dlgs. 251/2007, o ricorra una

delle cause di cessazione od esclusione prevista dallo stesso, ovvero il richiedente pro-

venga da un Paese sicuro e non abbia addotto motivi gravi per ritenere il Paese di origi-

ne insicuro. Accanto a tali presupposti di cui al comma 1 dell’art. 32, il legislatore

nell’ottobre 2008, con l’entrata in vigore del c.d. pacchetto sicurezza, ne ha introdotto

un altro, specificando che la domanda deve essere rigettata per manifesta infondatezza

quando risulta la palese insussistenza dei presupposti previsti dal Dlgs. 251/2007, ovve-

ro quando risulta che essa sia stata presentata al solo scopo di ritardare od impedire

l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento.

Avverso la decisione della Commissione territoriale ex art 35 decreto citato è ammesso

ricorso entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento di diniego, al Tribunale or-

dinario in composizione del capoluogo del distretto di corte d’appello ove ha sede la

Commissione stessa, il quale deciderà in composizione monocratica secondo le moda-

lità dei procedimenti in camera di consiglio.

Nei casi di accoglienza o trattenimento disposti ai sensi degli artt. 20 e 21 Dlgs.

25/2008, come modificato dal Dlgs. 159/2008, sopra descritti, il termine per

l’impugnazione è di quindici giorni ed è proposto al tribunale del capoluogo di distretto

di corte d’appello dove ha sede il centro.

La presentazione del ricorso sospende l’efficacia del provvedimento impugnato

e il richiedente ha diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta asilo, fino

al termine del grado di giudizio. Tale permesso gli consente di lavorare. Alcune Questu-

re tra cui quella di Milano, non rilasciano tale permesso se non quando il richiedente

può già presentare un certificato di pendenza della causa rilasciato dal tribunale con la

fissazione della prima udienza e dietro presentazione di una “dichiarazione di ospitali-

tà”, requisiti che non sono però contemplati in nessun punto della normativa vigente.

Tali richieste rendono ancora più complicata la già precaria situazione dei richiedenti

asilo. Basti pensare che in numerosi casi passano anche alcuni mesi prima che il Giudi-

ce assegnatario della causa fissi l’udienza di comparizione, mesi in cui, di nuovo il ri-

chiedente è privo di alcun documento idoneo al soggiorno ed è a rischio continuo di

espulsione322. Durante il corso del giudizio di primo grado il Ministero dell’Interno può

322 Caritas/Migrantes, Immigrazione Dossier Statistico 2010.

126

stare in giudizio per il tramite di un membro della Commissione Territoriale. All’esito

del procedimento istruttorio, ex art. 35 comma 10, entro tre mesi dalla presentazione del

ricorso il Tribunale, riunitosi in camera di consiglio, dovrebbe decidere con sentenza in

merito all’accoglimento o al rigetto del ricorso. Tale termine non viene nella pratica ri-

spettato mai e per quanto la procedura sia ora molto più celere di quella precedente,

spesso nei tre mesi indicati non viene neanche fissata l’udienza di comparizione del ri-

chiedente. Contro tale sentenza è ammesso reclamo alla Corte D’appello, entro dieci

giorni dalla sua comunicazione. Il reclamo non sospende gli effetti della sentenza ma il

richiedente può farne richiesta per gravi e fondati motivi. Tale richiesta deve essere fatta

contestualmente al deposito del reclamo.

Avverso la sentenza della Corte di appello può essere proposto ricorso per Cas-

sazione, entro trenta giorni dalla comunicazione della stessa. Emerge chiaramente,

dall’analisi ora svolta, come negli ultimi anni la disciplina italiana in materia di asilo

sia, in applicazione della normativa comunitaria, migliorata. Tuttavia per essa valgono

le stesse critiche già mosse nel capitolo precedente alle Direttive che l’hanno originata.

Ancora oggi le procedura, stante l’invariata composizione delle Commissioni Territo-

riali, la mancanza di fondi e servizi per il settore, le lungaggini burocratiche, sono spes-

so lunghe ed inefficaci per offrire una protezione concreta ai richiedenti asilo. Questi si

trovano spesso ad aspettare mesi per ottenere un diniego scarsamente motivato dalla

Commissione Territoriale competente e devono poi attendere ancora lungamente per

l’esito del ricorso giurisdizionale, quando hanno gli strumenti e le conoscenze per ri-

uscire a proporlo. Pur esistendo nei Tribunali specifiche sezioni addette all’esame di tali

ricorsi, gli stessi vengono affidati a giudici ordinari, precedentemente specializzati in

altre materia a cui non viene fornita alcuna formazione specifica e tale dato emerge

chiaramente dalle enormi differenze fra le pronunce di merito e si sostanzia in una man-

canza di criteri uniformi che gli stessi possono applicare. Ancora oggi dunque, pure in

presenza di una normativa più completa che in passato, l’Italia non garantisce in manie-

ra uniforme e specifica protezione ai richiedenti asilo che, dopo aver atteso per lungo

tempo, spesso se la vedono ingiustamente negata.

5. Gli accordi bilaterali Italia – Libia

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come, dopo un percorso lungo e trava-

gliato, anche l’Italia sia finalmente giunta all’emanazione di una disciplina organica e,

127

almeno sulla carta, più efficace nel settore dell’asilo. Purtroppo, come è noto, a partire

dal gennaio 2009 l’Italia ha messo in pratica una serie di respingimenti in mare di mi-

granti, tra i quali numerosi potenziali richiedenti asilo, in virtù di una serie di accordi

bilaterali con la Libia, volti al controllo dell’immigrazione clandestina, che hanno so-

stanzialmente violato il principio di non refoulment previsto dalla Convenzione di Gi-

nevra, rendendo di fatto l’asilo “un diritto negato”323.

Nel agosto 2008, infatti il governo Berlusconi ha firmato “un vero e proprio ac-

cordo politico”324 con l’allora leader libico Gheddafi, volto ad attuate in maniera con-

giunta una serie di respingimenti in mare dei c.d. barconi dei migranti irregolari, diretti

verso le coste del sud Italia. In tale accordo si stabiliva, nello specifico, di offrire una

sorta di risarcimento alla Libia per i danni inflitti in epoca coloniale, in cambio di un

pattugliamento serrato delle coste libiche al nord e del confine libico nel deserto a sud

del paese, in applicazione dell’accordo di pattugliamento congiunto firmato dal governo

Prodi nel 2007, che prevedeva l’invio in acque libiche di sei motovedette della Guardia

di Finanza, per respingere verso la Libia i migranti intercettati in mare, i quali in prece-

denza, in virtù del diritto internazionale, venivano invece scortati a Lampedusa. Conte-

stualmente veniva prevista la “delocalizzazione” della Commissione Territoriale di Tra-

pani sull’isola di Lampedusa con

“una decisione che suscitava gravi preoccupazioni per le minime

possibilità di tutela legale che saranno garantite ai richiedenti asilo che ri-

ceveranno un diniego in prima istanza e che potranno essere deportati im-

mediatamente verso i paesi di origine o di transito”325.

Tale accordo fu poi convertito in legge dal parlamento italiano, nel febbraio

2009 e i primi respingimenti attuati nel mese di maggio dello stesso anno. Il primo, in-

fatti, avvenne la notte tra il 6 e il 7 maggio, quando 227 persone a bordo di

un’imbarcazione di fortuna partita dalla Libia e diretta verso le coste italiane furono in-

tercettate da navi italiane in acque internazionali e rinviate verso le coste libiche, dove

furono consegnate alle autorità locali. Nessuna delle 227 persone allora respinte è stata

323 Cfr Titolo del Rapporto I.C.S. già citato.324 F. V. Paleologo, Fallisce la politica delle intese bilaterali con la Libia. Sempre a rischio la vita deimigranti, www.meltingpot.org, 29.12.2008.325 F. V. Paleologo, Accordi bilaterali e tutela dei diritti fondamentali dei migranti: il caso Italia-Libia,www.meltingpot.org, 15 gennaio 2009.

128

identificata, né ha avuto modo di presentare domanda di protezione internazionale. Sono

semplicemente state rinviate in Libia e sono sparite dalle cronache.

Nello stesso giorno il Ministro dell’Interno Maroni si è dichiarato pubblicamente

soddisfatto “della svolta storica nella lotta all’immigrazione clandestina” attuata.

L’U.N.H.C.R., contestualmente, in un comunicato stampa ha invece espresso “profondo

rammarico e grave preoccupazione” per la sorte dei possibili richiedenti asilo respinti326.

Peraltro l’Italia, già nel 2005 era stata ampiamente criticata dal Parlamento Eu-

ropeo proprio per alcuni respingimenti attuati verso la Libia. Il Parlamento Europeo

aveva ritenuto che

“ le espulsioni collettive di migranti verso la Libia, compresa quella

del 17 marzo 2005, costituiscano una violazione del principio di non espul-

sione collettiva e che le autorità italiane siano venute meno ai loro obblighi

internazionali omettendo di assicurarsi che la vita delle persone espulse

non fosse minacciata nel loro paese d’origine”.

In una risoluzione del Parlamento Europeo su Lampedusa, venivano infatti citati

numerosi strumenti internazionali che l’Italia, procedendo ai respingimenti collettivi

verso la Libia, avrebbe violato (tra i quali la dichiarazione universale dei diritti

dell’uomo, e in particolare il suo articolo 14, la Convenzione di Ginevra del 1951, la

Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in particolare il suo protocollo IV, articolo

4, in base al quale “le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”, la dichiarazione e il

programma di lavoro del 28 novembre 1995, adottai dalla Conferenza di Barcellona per

quanto concerne la promozione e la difesa dei diritti fondamentali nella regione mediter-

ranea, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, in particolare, il suo arti-

colo 18 relativo al diritto d’asilo, visti l’articolo 6 del trattato dell’Unione europea e

l’articolo 63 del trattato che istituisce la Comunità europea). Peraltro, a differenza di

quanto sostenuto nuovamente nel 2009 dal Governo italiano, il Parlamento Europeo già

allora aveva chiarito come la Libia “non può essere affatto considerato esattamente un

paese sicuro per il diritto d’asilo”327. Non si può poi non considerare che la Libia non ha

mai ratificato la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948 né, tanto meno, la Con-

326 M. Benvenuti, op.cit., pag. 44.327 W. Lobada, Respingimenti in mare: l’Italia sul banco degli imputati alla Corte europea dei DirittiUman, www.secondoprotocollo.org, 20 giugno 2011.

129

venzione di Ginevra relativa alla status di rifugiato. Secondo Savino Pezzotta, Presi-

dente del Consiglio Italiano per i Rifugiati

“ l’Italia con il respingimento in Libia ha violato la Convenzione di

Ginevra ed ha esposto 238 rifugiati e migranti a rischio di tortura e di

trattamento inumano nei paesi di provenienza, ha violato anche la Conven-

zione Europea sui Diritti Umani”328.

In merito a tale episodio, seguito poi da altri analoghi, ventiquattro asilanti, di

cui undici somali e tredici eritrei, hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti

dell’Uomo329 rappresentati dagli avvocati Antonio Giulio Lanna e Andrea Saccucci,

membri del direttivo dell’Unione forense per i diritti dell’uomo. In discussione è proprio

la legittimità o meno, della condotta tenuta delle autorità italiane. Secondo quanto rife-

rito da uno degli avvocati dei migranti:

“Nel ricorso solleviamo diverse questioni, relative principalmente

alla non ottemperanza di quanto previsto dall'articolo 3 della Convenzione

per i diritti dell’uomo (divieto di tortura e di maltrattamenti, ndr), dall'arti-

colo 4 del quarto protocollo allegato alla Convenzione europea dei diritti

dell’uomo (divieto di espulsioni collettive di stranieri, ndr) e l'articolo 13

della stessa Convenzione (diritto a un ricorso effettivo)” 330.

La decisione verrà presa dalla Grande Chambre della Corte, composta da dicias-

sette giudici, presumibilmente nei mesi di settembre-ottobre 2011.

Da quanto sopra descritto risulta ancora più evidente come in Italia il diritto

d’asilo, nonostante la sua formale codificazione a livello legislativo, nella pratica sia

spesso negato da quelle stesse autorità che dovrebbero invece garantirne l’applicazione

e la tutela.

Come è noto, i rapporti Italia-Libia sono recentemente cambiati, a causa della

guerra civile che interessa attualmente il territorio libico ed è difficile dire cosa riserverà

su tale fronte ai richiedenti asilo il futuro331.

328 Ibidem.329 Ricorso 27765/2009.330 G. Cerino, Respingimenti, Italia in tribunale."Rifugiati politici rimandati in Libia", www.repubblica.it,21 giugno 2011.331 Si segnala che a causa dei vari conflitti che hanno interessato il Nord Africa recentemente, il Parla-mento italiano ha provveduto all’approvazione del D.P.C.M. del 5 aprile 2011 ex art. 20 T.U. Immigra-zione, contenente l'indicazione delle misure umanitarie di protezione temporanea per i cittadini apparte-nenti ai Paesi del Nord Africa, affluiti nel territorio italiano dal 1° gennaio 2011 alla mezzanotte del 5

130

6. L’applicazione concreta della normativa: alcune sentenze

Abbiamo visto, nel corso di questo capitolo, il tormentato percorso che la disci-

plina del diritto d’asilo ha percorso in Italia e i risultati a cui ha portato nella prassi quo-

tidiana. Per completare questa analisi ed offrire una visione d’insieme di tutte le varie

problematiche ritengo importante compiere una breve panoramica di alcune pronunce

giurisdizionali in tema d’“asilo” e di “rifugio”, onde illustrare i riflessi che le incom-

pletezze, le lacune e le contraddizioni di questa disciplina hanno comportato.

Abbiamo visto, da principio, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto in-

torno ai due istituti dell’“asilo”, basato sull’articolo 10, co. 3, Cost., e quello del

“rifugio” disciplinato dalla legge 39/1990, così come modificata dalla legge 189/2002.

La giurisprudenza, più volte intervenuta per far luce sulle differenze tra i due

istituti, ha affermato la diversa natura giuridica delle situazioni soggettive individuate

dalle due norme e, come diretta conseguenza, le diverse autorità giudiziarie competenti

a valutare la fondatezza delle domande riguardanti ora l’uno, ora l’altro istituto.

Relativamente al carattere immediatamente precettivo o programmatico del det-

tato costituzionale, ritengo sia importante ricordare la già citata sentenza n. 4674, del 26

maggio 1997332, nella quale la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, intervenne moti-

vando:

“come è stato osservato in dottrina il carattere precettivo e la conseguente

immediata operatività della disposizione costituzionale sono da ricondurre

al fatto che essa, seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di

attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che

fa sorgere in capo alo straniero il diritto d’asilo, individuando

nell’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche la causa di giusti-

ficazione del diritto ed indicando l’effettività quale criterio di accertamento

della a situazione ipotizzata.”

La stessa pronuncia chiarisce poi anche come al diritto d’asilo non si possa applicare la

disciplina prevista per il rifugio in quanto

aprile 2011, in cui si affermava la possibilità di richiedere un permesso per protezione temporanea, entro8 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Per le problematiche suscitata da tale iniziativa in am-bito europeo si rinvia alla stampa di quel periodo tra cui www.corriere.it, La Francia: «Schengen, non vasospeso ma sono da rivedere alcune clausole», 24 aprile 2011.

131

“Il precetto costituzionale e la normativa sui rifugiati politici, infatti, non

coincidono dal punto di vista soggettivo perché la categoria dei rifugiati

politici è meno ampia di quella degli aventi diritto all’asilo, in quanto la

citata Convenzione di Ginevra prevede quale fattore determinante per la in-

dividuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto un fondato

timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato ne-

cessario dall’art. 10, terzo comma, Cost.”

e stabilisce che, a colui che riceve l’asilo costituzionale, a differenza di colui al quale

viene riconosciuto lo status di rifugiato, “null’altro viene garantito se non l’ingresso

nello stato”333.

Il carattere strettamente personale della persecuzione, subita o temuta dal richie-

dente asilo ex Convenzione di Ginevra, è stato poi riaffermato in una pronuncia del

T.A.R. del Friuli334, in cui è stato stabilito che:

“Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato non è sufficiente

l’appartenenza ad una etnia in posizione di difficoltà, sia pure

nell’attuale situazione di alcune aree non caratterizzate dal rispetto

dei diritti umani, in quanto è necessario un quid pluris dato da una

persecuzione specificamente rivolta al richiedente, ancorché

eventualmente collegata a ragioni razziali o etniche”.

La Corte di Cassazione335 si è, inoltre, pronunciata sul ricorso di un cittadino

congolese, a cui la Commissione Centrale aveva negato il riconoscimento dello status ai

sensi della Convenzione di Ginevra, e il quale aveva presentato un ricorso davanti al

T.A.R. ma, in pendenza di giudizio, chiedeva alla Corte di Cassazione che venisse di-

chiarata la competenza del giudice ordinario. L’incertezza interpretativa in merito a

questo argomento era dovuta al vuoto legislativo in materia di impugnazione dei dinie-

ghi emessi dalla Commissione Centrale, secondo quanto stabilito dalla l. 39/1990. Tale

vuoto è stato lasciato dalla l. 286/1998 che ha abrogato l’articolo 2, e seguenti, della

legge 39/1990, nei quali veniva stabilita la competenza del tribunale amministrativo re-

332 Cassaz. Civile, Sez. Unite, 26 maggio 1997, n. 4674, Riv. dir. internaz., 1997, 843.333 Ibidem.334 T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, n. 1176, del 27 ottobre 1998, Giur. amm. Friuli-Venezia Giulia, 1999,fasc. 1, 15.

132

gionale in materia di ricorsi avverso le decisioni della Commissione Centrale. Ricono-

sciuta l’abrogazione dell’art. 2 e seguenti della legge 39/1990, la Corte di Cassazione

aveva dunque stabilito che

“la giurisdizione deve essere determinata in base ai principi generali

dell’ordinamento, secondo i quali tutte le controversie concernenti lo status

delle persone rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario. La quali-

fica di rifugiato politico, secondo le previsioni della Convenzione di Gine-

vra del 28 luglio 1951, che garantisce ad ogni rifugiato il libero e facile ac-

cesso ai tribunali nel territorio degli stati contraenti, con conseguente so-

stanziale parificazione del rifugiato al cittadino ai fini della delibazione

relativa alla sussistenza della giurisdizione, costituisce come quella di

avente diritto all’asilo — dalla quale si distingue, perché richiede, quale

fattore determinante, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un re-

quisito che non è considerato necessario dall’art. 10, 3° comma, Cost. —

uno status, un diritto soggettivo, con la conseguenza che tutti i provvedi-

menti, assunti dagli organi competenti in materia, hanno natura meramente

dichiarativa e non costitutiva, per cui le controversie riguardanti il ricono-

scimento del diritto di asilo o la posizione di rifugiato rientrano nella giuri-

sdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”.

A questo proposito è, però, interessante richiamare una pronuncia del Consiglio

di Stato del 2000336, e pertanto successiva alla precedente, in cui viene riaffermata la

competenza dell’autorità amministrativa in materia di ricorsi avverso i dinieghi del ri-

conoscimento dello status di rifugiato. In tale sede, infatti, il Consiglio di Stato affermò

che

“ad avviso del Collegio, poi, le questioni relative al riconoscimento dello

status di rifugiato politico rientrano nella giurisdizione del giudice ammini-

strativo. Infatti l’abrogazione per effetto dell’articolo 46 della legge 6 mar-

zo 1998 n. 40, del già ricordato articolo 5, comma 2 del D.L. n.

335 Corte di Cassazione, Sez. Unite Civili, sentenza del 08 ottobre 1999, consultabile sul sitohttp://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2000/febbraio/cassazione-8-10-99.html.336 Consiglio di Stato, Sezione ΙV, sentenza n. 6710, 27 ottobre 2000, consultabile sul sito www.giustizia-amministrativa.it .

133

416/1998337, che attribuiva espressamente al giudica amministrativo la co-

gnizione dei provvedimenti di diniego dello status di rifugiato, non com-

porta, in mancanza di un’apposita diversa disposizione normativa,

l’automatico passaggio di tali controversie al giudice ordinario, ma impone

al contrario di individuare l’autorità giudiziaria competente sulla base dei

principi generali circa il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e

giudice amministrativo”.

Questo orientamento è stato poi seguito anche dal T.A.R. della Liguria, che nella sen-

tenza n. 1045, del 28 ottobre 2002338, ha affermato che il Collegio

“non ignora il diverso indirizzo delle Sezioni Unite della Cassazione Civi-

le[…], tuttavia tale giurisprudenza non appare condivisibile…”.

Come abbiamo visto, il problema è stato definitivamente risolto con la nuova di-

sciplina stabilita dal Dlgs. 51/2008.

All’interno del secondo paragrafo abbiamo avuto modo di osservare la prassi,

ora superata, un po’ confusa delle questure che rifiutavano di accettare le domande degli

asilanti, affermando la competenza della polizia di frontiera. In merito a questo argo-

mento appare opportuno rinviare alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. ΙV, n. 5943,

del 30 aprile 2002339:

“Passando all’esame del merito, si osserva che la questione si incentra

esclusivamente sulla rilevanza della modalità di presentazione della do-

manda per il riconoscimento della status di rifugiato politico, ed in parti-

colare sulla sua mancata presentazione all’ufficio della polizia di frontiera

all’atto dell’ingresso nel territorio italiano, come stabilito dall’articolo 1,

comma 5,[…], convertito[…] dalla legge[…]39/1990, implichi decadenza

della possibilità di ottenere detto riconoscimento[…]. Invero nel sistema

normativo delineato[…] è previsto che sulla domanda di riconoscimento

dello status politico si pronunci un’apposita commissione, denominato

Commissione Centrale[…] . Solo alla predetta Commissione spetta, dunque

337 Poi convertito in legge 39/1990.338 T.A.R. della Liguria, sentenza n. 1045, del 28 ottobre 2002, consultabile sul sito www.giustizia-amministrativa.it .339 Consiglio di Stato, Sez. ΙV, sentenza n. 5943, del 30 aprile 2002, consultabile sul sito www.giustizia-amministrativa.it .

134

di valutare le domande di riconoscimento dello status di rifugiato, non solo

per quanto attiene alla sussistenza dei relativi presupposti sostanziali, ma

anche per quanto attiene alle questioni procedurali di ritualità delle loro

presentazione. Ciò implica, infatti, per l’Amministrazione soltanto l’obbligo

di attivare il normale procedimento previsto dalla legge per l’esame delle

domande di riconoscimento dello status di rifugiato politico.”

Abbiamo anche visto come i criteri di giudizio usati dalla Commissione per va-

lutare l’attendibilità delle prove fornite dai richiedenti asilo circa l’esistenza di una per-

secuzione, in atto o temuta, non siano sempre stati omogenei e chiari. In questo senso

trovo interessante citare la massima di una sentenza del T.A.R. del Lazio, n. 152, del 12

febbraio 1992340, dove si stabilisce che:

“ai sensi dell’articolo 1, comma 4 della legge 28 febbraio 1990 n. 39, i casi

di diniego dello status di rifugiato devono basarsi non su situazioni for-

malmente o astrattamente ritenute, ma su situazioni accertate. La mera pro-

venienza da uno Stato firmatario della Convenzione di Ginevra non legitti-

ma di per sé il diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, essendo

comunque necessario che sopravvenute situazioni non consentano di fatto

nello Stato di provenienza la effettiva protezione dell’interessato”.

Relativamente alla condotta che la Commissione deve tenere nel valutare la do-

manda dell’asilante si veda anche la sentenza del T.A.R. della Calabria, n. 363, del 26

gennaio 2001341, in cui è stabilito che

“La valutazione della domanda di riconoscimento dello status comporta

l’obbligo, in capo alla competente commissione, di dare specifico conto

delle circostanze riferite dal richiedente, con riferimento all’incidenza delle

stesse rispetto ad un eventuale rischio di persecuzioni”.

340 T.A.R. del Lazio, n. 152, del 12 febbraio 1992, in Dalla solidarietà al diritto, ciclo di conferenze te-nutosi presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, Facoltà di giurisprudenza, Responsabile A. Col-leoni, 24 Maggio 2004, pag. 54.341 T.A.R. della Calabria, sentenza n. 363, del 26 gennaio 2001, consultabile sul sito www.giustizia-amministrativa.it .

135

Per quanto concerne l’onere della prova, l’orientamento iniziale è stato più pro-

penso a ritenere che esso facesse capo tanto al richiedente, quanto all’esaminatore. In-

fatti la Corte d’Appello di Catania, decreto n. 1, del 22 marzo 2002342, ha stabilito che:

“la determinazione dello status di rifugiato non ha l’effetto di conferire la

qualità di rifugiato ma constata solamente l’esistenza di detta qualità. Se-

condo un principio generale di diritto, l’onere della prova spetta al richie-

dente; tuttavia in subiecta materia accade spesso che il richiedente non sia

in grado di sostenere le proprie dichiarazioni con prove documentali o di

altro genere: anzi i casi in cui il richiedente può fornire delle prove a soste-

gno di tutte le sue dichiarazioni costituisce l’eccezione e non la regola.

Pertanto quantunque l’onere della prova spetti in linea di principio al ri-

chiedente, l’accertamento della valutazione di tutti i fatti rilevanti fa carico

congiuntamente al richiedente e all’esaminatore. In alcuni casi, invero, sarà

compito dell’esaminatore utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per rac-

cogliere le prove necessarie a sostegno della domanda”.

Dal tenore letterale di tale sentenza si evince che, quasi in opposizione al testo normati-

vo allora vigente, ci sia un’inversione dell’onere probatorio, a carico dell’esaminatore

che, non soltanto deve procedere a valutazioni concrete e non astratte – come previsto

dalle precedenti sentenze succitate (su tutte T.A.R. della Calabria sent. 363/2001) ma,

nei casi in cui per il richiedente l’onere probatorio si trasformi in una probatio diaboli-

ca, impossibile da fornire, deve addirittura sostenere e collaborare per la raccolta degli

elementi a sostegno della domanda. Tuttavia la recente Direttiva 2004/83/CE ha modifi-

cato la disciplina dell’onere della prova. Tale orientamento è stato, poi, seguito anche

dal Tribunale di Milano, sez. Ι, sentenza n. 2878, del 9 marzo 2005343 che, nel recepire

la Direttiva Comunitaria, ha così statuito:

“deve in via generale ritenersi attenuato l’onere probatorio incombente sul

richiedente lo status di rifugiato, così come risulta desumible anche dal te-

nore della recente Direttiva 2004/83/CE, del 29 aprile 2004, che reca il

termine del 10 ottobre 2006 per il recepimento da parte dei singoli stati na-

zionali, ma i cui principi possono comunque essere utilmente richiamati in

342 Corte d’Appello di Catania, decreto n. 1, del 22 marzo 2002, in Dalla solidarietà al diritto, Responsa-bile A. Colleoni, cit., pag. 33.

136

questa sede, che nell’articolo 4 comma 5, prevede che nel caso in cui le di-

chiarazioni del richiedente non siano suffragate da prova documentale, o

di altro tipo, la loro conferma non sia necessaria nel caso in cui il richie-

dente abbia compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda, abbia

prodotto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso, le sue dichiarazioni

possano ritenersi coerenti e plausibili, e non in contraddizione con le in-

formazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso in cui si dispone, ab-

bia presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile e

possa ritenersi in generale attendibile”.

Non solo, ma successivamente anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con

la sentenza n. 27310/2008, in materia di onere probatorio ha stabilito che, anche sotto il

vigore dell’art. 1 del d.l. n. 416 del 1989, conv. in l. n. 39 del 1990, i principi regolatori

dell’onere della prova, incombente sul richiedente, devono essere interpretati prendendo

in considerazione i criteri della Direttiva 2004/83/CE (attuata con d.lgs. n. 251 del

2007), nonostante la mancata scadenza del termine di recepimento interno. Alla luce di

questi criteri ermeneutici, applicabili anche alle norme non di derivazione comunitaria,

la S.C. ha ritenuto che si deve tenere conto della credibilità del richiedente e della con-

creta possibilità di fornire i riscontri probatori necessari, ravvisando a carico del giudice

un dovere di cooperazione e più ampi poteri istruttori officiosi, nell’accertamento dei

fatti rilevanti per il riconoscimento dello status di rifugiato, peraltro pienamente compa-

tibili con il rito camerale, ritenuto applicabile anche nel vigore dell’art. 1 d.l. n. 416 del

1989 conv. in l. n. 39 del 1990, prima dell’entrata in vigore dell’art. 35 d.lgs. n. 25 del

2008, attuativo della Direttiva 2005/85/CE344.

Anche il diritto del richiedente ad esprimersi nella propria lingua, per quanto non

sempre garantito nella prassi per la mancanza di mezzi delle strutture competenti, è sta-

to, comunque, ribadito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, del 19 aprile

2000, la quale ha affermato che:

343 Tribunale di Milano, sez. Ι, sentenza n. 2878, del 9 marzo 2005.344 In Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n.1/2009, con commento di M. Acierno, “Il riconoscimentodello status di rifugiato politico: il procedimento e l’onere della prova al vaglio delle Sezioni unite dellaCassazione”, pagg. 79- 86, Franco Angeli Editore.

137

“l’articolo 3 DPR, 15 maggio 1990, n. 136,345 contenente norme sulla co-

stituzione della Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di

rifugiato, laddove prescrive che i richiedenti hanno diritto ad esprimersi

nella propria lingua, intende riferirsi non già alla lingua ufficiale del paese

di origine bensì alla lingua, anche dialettale, per essi conosciuta e com-

prensibile”.

La sentenza della Corte di Cassazione n. 26253 del 27 ottobre 2009, - accogliendo il ri-

corso di un cittadino nepalese contro l’espulsione disposta a seguito dell’ingresso irre-

golare attraverso scalo aeroportuale mentre era trattenuto nello scalo stesso, senza poter

avviare la procedura di riconoscimento della protezione internazionale – ha poi ribadito

che

“il diritto dello straniero clandestinamente entrato nel territorio dello Stato

di presentare la istanza di riconoscimento della condizione di rifugiato e di

permanere nello Stato stesso, munito del permesso temporaneo o ristretto

nel Centro di identificazione, sino alla definizione della procedura avente

ad oggetto la verifica della sussistenza delle condizioni per beneficiare

dello status ovvero della protezione umanitaria”.346

Trattandosi di un diritto soggettivo - l’ottenere la verifica delle condizione di protezione

- la Polizia di Frontiera ha dunque l’obbligo di trasmettere alla Questura la domanda di

protezione internazionale e questa deve garantire l’inoltro della domanda alla Commis-

sione territoriale competente.

Illegittimo quindi il rifiuto, opposto dalla Polizia aeroportuale, a ricevere l’istanza nella

fase di svolgimento dei primi controlli identificativi presso lo scalo aeroportuale347.

In materia di protezione sussidiaria poi la Corte di Appello di Napoli, con sentenza n.

38/2010, ha accolto il reclamo presentato da un richiedente asilo della Sierra Leone av-

verso sentenza del Tribunale di Napoli, che aveva confermato il diniego alla protezione

internazionale deciso dalla Commissione territoriale asilo di Caserta, riconoscendogli

però lo status di protezione sussidiaria di cui agli artt. 17 e s.s. del d.lgs n. 251/07, aven-

do considerato credibile il racconto dell’interessato circa il suo vissuto di bambino sol-

345 Norma prevista dall’articolo 14, co. 2, D.P.R. n. 303/2004.346 Corte di Cassazione n. 26253 del 27 ottobre 2009, consultabile nell’archivio legislativo diwww.meltingpot.org.

138

dato durante il conflitto civile in Sierra Leone, ritenendo che le cicatrici presenti sul suo

corpo e le analisi medico-psicologiche confermanti la sofferenza da "disturbo post-

traumatico da stress" suffragassero sufficientemente quanto da lui dichiarato in merito

ad identità e provenienza348.

L’analisi delle sentenze riportate ha il pregio di offrire una visione chiara dei vari

orientamenti seguiti dalla giurisprudenza nell‘applicazione della legge sul riconosci-

mento dello status di rifugiato e della protezione internazionale fino ad ora.

Obbiettivo di questo resoconto è stato, comunque, quello di dimostrare come tutt’ora

l’applicazione della legge sul riconoscimento dello status di rifugiato in Italia abbia, a

causa della sua stessa formulazione, contorni incerti e nebulosi e come, spesso,

l’autorità giudiziaria debba dovuto in via interpretativa colmare gli enormi vuoti lasciati

in questa materia dal legislatore.

347 Ibidem.348 Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 38/2010, consultabile nell’archivio legislativowww.meltingpot.org .

139

CAPITOLO IV - IL DIRITTO D'ASILO NELL'ORDINAMENTO B RI-TANNICO

1.Il sorgere della legislazione britannica sull'asilo

2. L'"Asylum and Immigration Act" del 1993, 1996 e 1999

3. La procedura d’asilo in Inghilterra oggi

4. Il sistema d’appello contro il diniego di protezione internazionale

5. L'applicazione concreta della normativa: alcune sentenze

140

1.Il sorgere della legislazione britannica sull'asi lo

Nella storiografia britannica si trovano riferimenti al Regno Unito come paese

d’asilo almeno dall’inizio del tredicesimo secolo349. Gli stranieri raggiungevano infatti

l’isola britannica per lo più in fuga dalle guerre di religione che infiammavano l’Europa

continentale. L’affluenza dei richiedenti asilo per motivi religiosi aumentò soprattutto

dopo la spaccatura netta che si creò tra la chiesa anglicana e quella cattolica nel sedice-

simo secolo. Il più consistente di questi primi gruppi di individui in cerca di protezione

fu, infatti, quello degli ugonotti che raggiunse le coste britanniche la prima volta intorno

al 1559, dopo quasi trenta anni di guerre religiose, alla morte del sovrano francese Enri-

co II.

Poco dopo, sempre per motivi religiosi, numerosi protestanti fuggirono anche

dall’Olanda, sotto il dominio del Duca di Alva, cercando protezione in Inghilterra. La

generosità della monarchia e del governo inglese nei confronti dei rifugiati di religione

protestante era, per lo più, dettata da ragioni politiche volendo questi rafforzare il potere

della propria chiesa rispetto a quella cattolica. L’arrivo di grossi gruppi di stranieri era

poi tollerato soprattutto nei casi in cui si riteneva che gli stessi portassero con sé impor-

tanti competenze tecnico-scientifiche, come fu con gli ugonotti.

Inutile dire che il fenomeno aumentò ancor di più nel secolo successivo, quando

nel 1685, con l’Editto di Fointanbleu, Luigi XIV revocò l’Editto di Nantes del 1598, che

aveva posto fine alle guerre di religione in Francia e aveva ammesso il credo calvinista

nel proprio territorio. L’Editto di Fointanbleu stabilì anche l’espulsione immediata degli

Ugonotti dalla Francia. Si stima che in quel periodo fuggirono dal territorio francese

circa 50.000 ugonotti per rifugiarsi in Inghilterra, la maggior parte dei quali erano o

provenienti da famiglia facoltose, o artigiani specializzati o, in ogni caso, individui di

cultura elevata350. Dato il loro apporto alla società britannica, il governo inglese garantì

loro il diritto a risiedere permanentemente nel Regno, e gli riconobbe anche alcuni dei

diritti garantiti ai propri cittadini. Successivamente, nel 1709 fu approvato un atto del

349 D. Stevens, The Case of UK Asylum Law and Policy: Lessons from History ?, in F. Nicholson e P.Twomey (eds.), Current Issues of UK Asylum Law and Policy, Ashgate Publishing, Hampshire 1998, pag.2.350 Sul contributo portato dagli ugonotti alla società inglese si veda R.D. Gwynn, Huguenot Heritage: TheHistory and Contribution of the Huguenots in Britain, Routledge & Kegan Paul, London 1985.

141

Parlamento che consentiva ai rifugiati ugonotti di divenire cittadini inglesi351. In tale pe-

riodo il termine “rifugiato” veniva però utilizzato solo con riferimento agli ugonotti e fu

solo a partire dal 1796 che lo stesso fu esteso “a tutti coloro che avevano lasciato il pro-

prio paese in momenti di pericolo”352.

Allo stesso tempo però il governo britannico decise che era necessario procedere

ad una regolamentazione degli ingressi nel Regno ed adottò, nel 1793, un atto del Par-

lamento il cui obbiettivo principale era quello di assicurarsi che tutti coloro entrati nel

Regno dopo la sua adozione, comunicassero agli ufficiali di frontiera con una dichiara-

zione scritta i propri nomi, il proprio rango o la propria professione e i dettagli del loro

futuro luogo di residenza in Inghilterra. Furono poi introdotti obblighi di controllo an-

che ai capitani dei velieri in arrivo, i quali dovevano sempre indicare il numero di stra-

nieri che trasportavano e il loro luogo di provenienza e, in mancanza, ricevevano multe

molto elevate353. Lo stesso atto stabilì anche che il Re potesse arbitrariamente negare

l’entrata agli stranieri nel Regno Unito, qualora ciò fosse necessario per la sicurezza e la

tranquillità dello stesso354.

L’istituto dell’asilo e del rifugio fu però introdotto in un atto normativo solo in

seguito, con la promulgazione di una serie di documenti volti ad abrogare e migliorare

l’atto del 1793, la cui validità era solo annuale. Nella versione del 1798 già viene de-

scritta l’eventualità che tra i richiedenti protezione in quel periodo ve ne fossero di fa-

sulli che cercavano di sfruttare il sistema e che gli stessi dovessero essere espulsi dal

Regno355.

Nel 1826 fu approvato l’Act for the Registration of Aliens che riprendeva parte

dei contenuti di quello del 1793 e lo stesso fu poi modificato nuovamente ed inasprito

nel 1836 dall’Aliens Registration Act, la cui forza consistette più che altro nel non esse-

re soggetto alle scadenze annuali previste per le norme precedenti. Lo stesso, infatti, ri-

mase in vigore fino al 1905 ma, ciò nonostante, alcuni storici di tale epoca riferiscono

351 A. R. Zolberg, “The Formation of New States as a Refugees-generating Process”, Annals of the Ameri-can Academy of Political and Social Science, 467, 1983, pagg. 24-38 in E. Haddad, The Refugee in Inter-national Society, cit., pagg. 49-53.352 M.R. Marrus, The Unwanted: European Refugees in the Twentieth Century, Oxford University Press,Londra 1985, pag. 8 citazione dall’Enciclopedia Britannica, 1796.353 D. Stevens, “The Case of UK Asylum Law and Policy: Lessons from History ?”, op.cit. , pag.12.354 M.R. Marrus, op.cit.355 D. Stevens, “The Case of UK Asylum Law and Policy: Lessons form History?”, op. cit.

142

che il Regno Unito, tra il 1823 e la fine del secolo non mise in pratica alcuna espulsione

nei confronti di cittadini stranieri356.

Sul finire del diciannovesimo secolo, a causa del primo esodo degli ebrei dalla

Russia e dai paesi dell’est, l’approccio britannico al problema cambiò significativa-

mente. Dopo una serie di interrogazioni parlamentari sul tema, nel 1903 la Commissio-

ne Reale per l’Immigrazione Straniera357 fu incaricata di preparare un rapporto esausti-

vo, al cui esito la stessa Commissione suggerì l’applicazione, a questo punto concreta,

delle misure previste nell’atto parlamentare del 1836, rimaste sino ad allora in disuso.

Allo stesso tempo fu istituito un apposito dipartimento per l’immigrazione, incaricato di

decidere sull’ammissibilità o meno del singolo migrante, tramite propri ufficiali presenti

nei porti, all’arrivo di ogni nave. Sulla scia di tali raccomandazioni fu emanato nel 1904

il primo Aliens Bill, poi abrogato da quello del 1905 che, per la prima volta, escludendo

l’applicazione delle norme restrittive introdotte dalla Commissione in materia di immi-

grazione nei confronti dei rifugiati per motivi politici e religiosi, differenziava lo status

di migrante economico da quello di rifugiato358. Furono poi istituiti dei consigli per

l’Immigrazione, in ogni porto, incaricati di ascoltare gli appelli eventuali presentati

contro le decisioni degli ufficiali dell’immigrazione e che, a loro volta, dovevano riferi-

re le proprie decisione al Segretario di Stato.

Negli anni seguenti il verificarsi di numerosi episodi criminosi da parte di alcuni

stranieri presenti nel Regno Unito e l’aumento delle tensioni internazionali, portarono

all’adozione nel 1914 dell’Aliens Restrictions Act che diede il potere al Re, - il quale lo

esercitava attraverso il Segretario di Stato - , di ordinare tutte le limitazioni dei diritti

degli stranieri, a qualunque titolo presenti sul territorio inglese, che ritenesse necessa-

rie359. Tuttavia essendo rimasto in vigore l’Alien Act del 1905, che proibiva

l’applicazione di misure restrittive arbitrariamente ai rifugiati, si crearono spesso situa-

zioni contraddittorie. I rifugiati iniziarono ad incontrare numerosi problemi perché la lo-

ro domanda venisse esaminata, dovendo spesso ricorrere ai tribunali per vedersi ricono-

scere tale diritto.

356 B. Porter, The Refugee Question in Mid-Victorian Politics, Cambridge University Press, Cambridge1979.357 Royal Commission on Alien Immigration.358 D. Stevens, op. cit., pag. 17.359 A. Bloch, The Migration and Settlement of Refugees in Britain, Pelgrave, London 2002, pag. 26.

143

Negli anni seguenti furono emanati l’Aliens Restrictions Act del 1919 e l’Aliens

Order del 1920. In nessuno di essi fu prevista la possibilità di appellarsi contro le deci-

sioni prese dal Segretario di Stato in materia di espulsioni360. Allo stesso tempo però il

Ministero dell’Interno361 garantì che le richieste di protezione da parte dei rifugiati

avrebbero continuato a ricevere un forte supporto sia dal Segretario di stato che dal Mi-

nistero stesso, ma nella pratica l’Aliens Order del 1920, e le sue previsioni in materia di

espulsione e detenzione, furono applicate indiscriminatamente anche ai richiedenti pro-

tezione362.

Nonostante il governo inglese, nel periodo tra le due Guerre avesse insistito per

applicare le regole generali sull’immigrazione anche ai richiedenti asilo, il Regno Unito

dovette comunque partecipare al dibattito internazionale sorto in quegli anni sul tema.

Nel 1922 era stato istituito, come abbiamo visto nel primo capitolo, il documento di

viaggio per i rifugiati, chiamato Certificato di Nansen, riconosciuto da 50 stati tra cui

l’Inghilterra, e nell’ottobre del 1933 vide la luce la prima Convenzione internazionale

sullo status di rifugiato.

L’applicazione di tale Convenzione rimase riservata ai rifugiati che già erano

sotto la protezione della Lega delle Nazioni: ovvero quelli Russi, Assiro-Caldei, Armeni

e Turchi, e la stessa fu ratificata da circa 60 stati, seppure con alcune limitazioni.

Il Governo britannico assunse un comportamento molto ostile nei confronti di

tale documento e, dopo un lungo dibattito363, accettò di ratificarlo in presenza però di

alcune limitazioni. La più importante tra esse fu la clausola di limitazione temporale se-

condo la quale, nel Regno Unito la Convenzione si sarebbe applicata solo a coloro che

al momento della sua entrata in vigore erano già fuori dal paese di origine. Lo stesso

atteggiamento fu tenuto nei confronti della successiva Convenzione internazionale sullo

status dei rifugiati in fuga dalla Germania, nel 1938. Alla conferenza di Evian che seguì,

la delegazione inglese rassicurò i presenti sulla propria volontà di continuare ad offrire

protezione a coloro che ne facevano richiesta, ma in realtà continuò nella pratica di ap-

plicare la legislazione generica in materia di immigrazione ai richiedenti asilo364.

360 L’appello era invece previsto, come detto, nel Aliens Act del 1905.361 Home Office.362 D. Stevens, op. cit., pagg. 20-22.363 R. J. Beck, “Britain and The 1933 Refugee Convention: National or State Sovereignty?”, InternationalJournal of Refugee Law, Vol.11, 1999, pagg. 597-624.364 M.R. Marrus, op.cit., pagg. 170-172.

144

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Regno Unito si trovò a dover fronteggiare

la ricostruzione delle proprie infrastrutture e la necessità di rilanciare la propria econo-

mia ed anche per tale ragione cambiò il proprio atteggiamento nei confronti dei richie-

denti asilo, divenuti all’occorrenza potenziale manodopera a basso costo.

Nel 1946 il governo inglese istituii l’European Volunteer Forces Scheme, attra-

verso il quale, tra il 1946 e il 1948, centinaia di migliaia di rifugiati, provenienti dalla

Polonia, dalla Lituania, dalla Yugoslavia, dalla Ucraina e dalla Lativia, furono collocati

in quelle aree del Regno Unito dove la manodopera più mancava. I rifugiati così accolti

non erano però liberi di cercarsi lavoro altrove e la loro presenza era considerata tempo-

ranea365. Non essendo ciò sufficiente a coprire il bisogno di manodopera per la ricostru-

zione e il rilancio dell’economia inglese, successivamente il governo britannico riaffer-

mò, tramite il British Nationality Act del 1948, quel principio, fino ad allora in realtà

poco implementato, per il quale tutti i cittadini del Commonwealth avevano un diritto

all’ingresso libero in Inghilterra, onde ivi stabilirsi e cercare lavoro. Così facendo offrì

sostanzialmente un diritto all’ingresso legale nel proprio territorio ad oltre ottocento

milioni di residenti britannici, oltre oceano366.

In breve tempo risultò evidente che i nuovi migranti provenienti dalle varie aree

del Commonwealth erano arrivati in Gran Bretagna per restare e che sarebbero in breve

tempo diventati parte integrante della Comunità, la cui struttura sociale e culturale sa-

rebbe stata inevitabilmente modificata dal loro arrivo. Allarmato da questa considera-

zione il Parlamento, privo di alcun controllo superiore e di alcun limite al proprio potere

di legiferare, stante la mancanza di una Costituzione e di una Corte Costituzionale che

vegliasse sul suo rispetto, introdusse nel 1962 il requisito di un voucher per poter entra-

re in Inghilterra a lavorare, anche per i cittadini del Commonwealth.

Il Governo inglese iniziò così a decidere a chi consentire l’ingresso, emettendo

un numero di vouchers limitato all’anno e verificando le competenze di chi faceva ri-

chiesta e a cui, eventualmente il voucher veniva assegnato367. Al principio i vouchers

venivano assegnati con una certa liberalità, ma quando, nonostante la loro introduzione,

365 T.Rees, “Immigration Policies in the United Kingdom”, in C. Husband (a cura di), Race in Britain:Continuity and Change, Hutchinson, London 1982, pagg. 81-82.366 M. J. Gibney, The Ethics and Politics of Asylum, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pag.111.367 T. E. Smith, Commonwealth Migration: Flows and Policies, Macmillan, London 1981, pag.106.

145

l’immigrazione dagli stati del Commonwealth continuò a crescere, il numero di vou-

chers emesso ogni anno fu drasticamente ridotto.

Nel 1953 venne approvato un nuovo Alien Act, in materia di immigrazione ma

anche in esso non fu inclusa alcuna previsione particolare per i richiedenti asilo. Ancora

nel 1963, i tribunali interpellati sulla questione ritenevano che le problematiche relative

alle domande di asilo politico fossero un problema di competenza esclusiva del Ministe-

ro dell’Interno368, sulla quale nessuna normativa li autorizzava ad intervenire.

Peraltro poco aveva inciso il fatto che, l’11 marzo del 1954, il Regno Unito

avesse ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, poiché la stessa

non venne subito incorporata nel diritto inglese. Negli anni successivi nuove restrizioni

furono introdotte non solo per i cittadini del Commonwealth ma in tutto il settore

dell’immigrazione.

Nel 1971 le previsioni normative precedenti furono incorporate in un più com-

prensivo e generale Immigration Act, che ancora una volta non fece alcuna menzione di

un trattamento differenziato da riservare ai richiedenti asilo.

Tuttavia è importante sottolineare che proprio tali norme disciplinarono in prin-

cipio l’esame delle domande di asilo. Infatti l’Immigration Act del 1971, e successive

modifiche, prevedeva che coloro che non fossero titolari di un passaporto britannico o

comunque di un domicilio britannico ad altro titolo, per entrare lavorare e vivere nel

Regno Unito avevano bisogno di uno speciale permesso, ex sez. 3 della norma citata.

Chi si trovava in Inghilterra senza permesso poteva essere arrestato ed espulso secondo

quanto stabilito dalla sezione 4 dell’Immigration Act369.

Non essendo disciplinata altrove la domanda di asilo rientrò nelle previsioni

dell’Immigration Act. La stessa doveva, dunque, essere presentata ad un ufficiale del

Ministero dell’Interno al momento dell’ingresso o, successivamente, quando il richie-

dente era già presente sul territorio. Il richiedente veniva intervistato e all’esito di tale

esame370 il Segretario di Stato si pronunciava sull’ammissibilità, o meno, del richiedente

nel territorio dello stato, sulla base della considerazione che la sua eventuale espulsione

368 T.E. Smith, Commonwealth Migration: Flows and Policies, Macmillan, London 1981, pag. 119.369 C. Sawyer e P. Turpin,' Neither Here Nor There', International Journal of Refugee Law, vol.17, 2005pagg. 688-728.370 Immigration Rules HC, par. 359.

146

avrebbe comportato, o meno, una violazione della Convenzione di Ginevra371. La deci-

sione presa dal segretario di Stato, dunque, era un decisione in materia di immigrazio-

ne372 e si concretava prevalentemente sul diritto o meno all’ingresso e al soggiorno, in

base alle caratteristiche che vedremo in seguito. Ugualmente i Tribunali aditi in sede di

appello non si potevano pronunciare sul riconoscimento o meno dello status di rifugiato,

ma si limitavano a pronunciarsi sulla legittimità della decisione con cui non era stato

concesso l’ingresso o il diritto al soggiorno al richiedente asilo373 o ne era stata disposta

la sua espulsione. Se la domanda veniva rigettata, il Ministero dell’Interno avrebbe

provveduto a notificare una lettera di diniego, motivando in merito. Il diniego sarebbe

poi stato accompagnato da una ordine di espulsione verso uno specifico paese.

L’ Immigration Act del 1971, sez. 3, stabiliva anche le modalità con cui emanare

le Immigration Rules sopra descritte, che venivano delineate dal Segretario di Stato e

che il Parlamento poteva, e in realtà può tuttora, adottare nella loro interezza o respinge-

re interamente, ma non emendare. Esse sono ora meglio conosciute come HC 395, poi-

ché sono state raccolte nel 1994 per un totale di 395, dalla House of Commons, ed han-

no disciplinato a partire da quegli anni la fase amministrativa delle domande di asilo.

In quegli anni però l’U.N.H.C.R. insistette e, in fine, ottenne di poter essere in-

formato delle domande di asilo eventualmente presentate ai posti di frontiera e di poter

essere parte negli appelli contro le decisioni negative, anche se il suo ruolo nella pratica

restò marginale ancora per lungo tempo374. Nel 1978, il rappresentante inglese dell’Alto

commissariato si lamentò375, ancora una volta, della mancanza di norme precise in ma-

teria di procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato e del mancato inseri-

mento nella normativa nazionale delle previsioni della Convenzione di Ginevra e del

suo successivo protocollo, criticando

“ il fatto che le persone che cercano asilo siano trattate secondo

quanto previsto dall’Immigration Rules, come se fossero una sorta di mi-

grante qualunque (tale circostanza ndr) ha portato, prima di tutto nella

mente degli ufficiali che amministrano le Rules stesse, poi anche tra i pro-

371 Questo avveniva nella prassi anche prima che la Convenzione fosse menzionata in una norma del di-ritto interno come vedremo nel prossimo paragrafo.372 Disciplinata dall’Immigration Act del 1971, sez. 3 par.327-352.373 G. Clayton, Immigration and Asylum Law, Oxford University Press, Oxford 2010, pag. 415.374 D. Stevens, op.cit., pag.27.

147

fessionisti che discutono le politiche e le leggi in materia di immigrazione, e

in fine anche in una considerevole porzione dell’opinione pubblica, ad una

completa confusione nella distinzione tra immigrato e rifugiato”376.

Il British Nationality Act del 1981 creò “una cittadinanza inglese esclusivamente

per il Regno Unito”377, volendo escludere l’ingresso per tutti gli stranieri compresi

eventuali cittadini del Commonwealth, ma negli anni seguenti furono ammesse alcune

eccezioni per i cittadini delle Isole Falkland e di Hong Kong378. A questo punto

l’attenzione del parlamento inglese si spostò dalla necessaria gestione del riconosci-

mento o meno della cittadinanza britannica per gli abitanti degli stati del Com-

monwealth, onde regolarizzare i flussi migratori nel paese, per rivolgersi ai problemi

creati dalla presentazione delle richieste d’asilo.

I primi riferimenti alla Convenzione di Ginevra furono dunque inseriti nelle Im-

migration Rules del 1981, ma le stesse non disciplinarono ancora la procedura per

l’esame delle richieste d’asilo.

In pochi anni il Regno Unito stabilì politiche molto restrittive per il rilascio dei

visti nei confronti di quei paesi che potenzialmente producevano un elevato numero di

richiedenti asilo. Nel 1985 iniziò a richiedere i visti per tutti coloro che detenevano un

passaporto Srilankese, per arginare l’afflusso dei rifugiati Tamil e successivamente

adottò la stessa politica nei confronti dell’India, del Bangladesh, del Ghana e del Paki-

stan.

Tale periodo della politica inglese in materia di asilo è stato definito come quello

“durante il quale il discorso che riguardava i rifugiati fu alterato

sensibilmente…Da lì in poi divenne la norma descrivere i richiedenti asilo

come 'manifestamente fasulli', 'migranti economici' o addirittura 'bugiardi,

imbroglioni e salta fila', come un membro del parlamento ha dichiarato fa-

cendo riferimento agli asilanti Tamil” 379.

375 Select Committee on Race Relations and Immigration, 1977-1978, “The Effect of the UK’s Member-ship of the EEC on Race Relations and Immigration”, in D. Stevens, op.cit., pag.27.376 Ibidem pag. 28.377 R. Hansen, “British Citizenship after Empire: A Defence”, The Political Quarterly, 71, 1, pag. 43, inM.J. Gibney (ed.), The Ethics and Politics of Asylum, cit., pag.119.378 Prima che l’isola passasse alla Cina.379 D. Stevens, UK Asylum Las and Policy: Historical and Contemporary Perspectives, Sweet and Max-well, London 2004, pag. 97.

148

Nel 1992, poi, il parlamento inglese decise di imporre il requisito del visto anche

ai profughi in fuga dalla guerra civile in Bosnia, anche se nel momento in cui imple-

mentò tale normativa le domande di asilo che aveva ricevuto ammontavano in realtà a

poche migliaia. Il risultato fu che il Regno Unito concesse l’ingresso nel proprio territo-

rio e la propria protezione ad un numero esiguo di profughi bosniaci, a differenza di altri

stati dell’Unione e nonostante le indubbie persecuzioni ai sensi della Convenzione di

Ginevra, dagli stessi subite.

Allo stesso tempo con l’Immigration Act del 1987, introdusse sanzioni pesantis-

sime nei confronti delle compagnie aeree e navali che trasportavano stranieri irregolari,

non facendo alcuna distinzione per gli stranieri eventualmente clandestini che volevano

però presentare domanda d’asilo. Perché la compagnia non incorresse in sanzioni, infat-

ti, era necessario che la domanda d’asilo oltre ad essere effettivamente presentata, an-

dasse a buon fine. Inutile dire come tale normativa fece calare drasticamente i numeri

degli arrivi dei richiedenti asilo380. Imponendo la responsabilità su organismi privati di

controllare e prevenire l’immigrazione, tale atto inaugurò un nuovo approccio britanni-

co alle problematiche migratorie.

Dall’analisi storica sopra svolta risulta che l’Inghilterra, anche rispetto ad altri

stati dell’Unione, adottò politiche restrittive in tempi remoti, probabilmente anche a

causa della sua precedente esperienza con il massiccio afflusso di migranti provenienti

dai paesi del Commonwealth.

Grazie a tali politiche preventive e alla sua posizione geografica, per lungo tem-

po il Regno Unito riuscì a mantenere l’afflusso di rifugiati sulle sue coste piuttosto bas-

so. Inoltre come sopra accennato la mancanza di una costituzione scritta che ponesse

limiti all’operato del Parlamento rendeva relativamente semplice l’approvazione di leg-

gi in materia di immigrazione, a volte anche discutibili, essendo sufficiente per la loro

adozione che su di esse vi fosse l’accordo della maggioranza di governo.

Prima del 1993 tutto il settore dell’asilo era nebuloso, e la possibilità di presenta-

re un appello contro le decisioni negative prese dal Ministero dell’Interno, legata per lo

più all’ingresso regolare o meno dell’asilante. In caso di ingresso irregolare, l’appello

infatti poteva essere presentato solo dopo che il richiedente asilo era stato allontanato

dal Regno Unito. Non vi era alcuna previsione normativa che regolasse la procedura per

149

presentare e analizzare la domanda d’asilo, la cui gestione era lasciata alla discreziona-

lità del Segretario di Stato, anche se in pratica le decisioni sulle domande di asilo veni-

vano prese dall’Asylum Division presso il Ministero dell’Interno.

Quanto sino ad ora illustrato si è spesso scontrato con le dichiarazioni dei parla-

mentari inglesi dell’epoca, i quali ritenevano che l’Inghilterra avesse sempre “accettato i

rifugiati in virtù di un dovere morale” 381.

In realtà la politica inglese è sempre stata improntata, ora come allora, più che

altro ad escogitare rimedi per ridurre il numero di asilanti in grado di raggiungere fisi-

camente l’Inghilterra e a respingere coloro che l’avevano raggiunta onde evitare di do-

ver analizzare le loro domande di protezione internazionale, piuttosto che a dare con-

creta applicazione a quei principi di carattere umanitario sui quali si dovrebbe fondare la

legislazione in materia.

2.L'"Asylum and Immigration Appeals Act" del 1993, 1996 e 1999.

L’aumento esponenziale delle domande d’asilo tra la fine degli anni 80 e i primi

anni 90382 e l’inizio del processo di comunitarizzazione del settore immigrazione e asilo

in Europa383, resero evidente anche ai politici britannici la necessità emergente di disci-

plinare in maniera almeno parzialmente più definita il diritto d’asilo.

Poiché la procedura in merito alla domanda d’asilo presentata dal richiedente si

concludeva sempre con una decisione in materia di diritto, o meno, all’ingresso e alla

permanenza nel territorio britannico, il sistema normativo in materia di asilo si sviluppò

come un sistema volto da un lato a impedire tale ingresso e ad ordinare l’allontanamento

del richiedente verso un altro stato, e dall’altro a disciplinare il sistema di appello contro

i dinieghi emessi dal Segretario di Stato in materia.

L’ Asylum and Immigration Appeals Act384 del 1993 fu il primo strumento nor-

mativo di diritto interno inglese che si occupò specificatamente di regolare il settore

dell’asilo. Gli obbiettivi principali di tale legge, a carattere procedurale, furono però da

A. Cruz, “Carrier Sanctions in Four European Community States: Incompatibilities Between InternationalCivil Aviation and Human Rights Obligations”, Journal of Refugee Studies, 4, 1981, pagg. 63-81.381 Dal discorso del deputato laburista R. Hattersley del 1991, in D. Stevens, “The Case of UK AsylumLaw and Policy: Lessons from History ?”, cit., pag. 31.382 Nel 1987 le richieste di asilo furono 4.256. Nel 1995 erano diventate oltre 40.000. Home Office Stati-stical Bullettin, 1995, 9/96.383 Descritto nel capitolo II.384 Di seguito A.I.A.A.

150

un lato quello di velocizzare le procedure di esame delle domande e dall’altro di legitti-

mare il più possibile le espulsioni dei richiedenti asilo verso paesi terzi, prima ancora

dell’esame della domanda. In tal senso fu disposta l’assunzione di nuovi impiegati che

seguissero solo ed esclusivamente le domande di asilo385 e furono introdotte numerose

misure volte a disincentivare la presentazione delle domande stesse. Tale iniziativa pre-

se l’esemplificativo nome di “Spend to save”, ovvero spendere per risparmiare, dicitura

che ben mostra quali fossero le reali priorità del parlamento inglese all’epoca386.

Per la prima volta però fu data una definizione della nozione “claim for asy-

lum”387, quale “domanda presentata da un individuo la cui espulsione coattiva sarebbe

risultata contraria agli obblighi assunti dal Regno Unito in base alla Convenzione di

Ginevra” 388.

Di fatto l’A.I.A.A. del 1993 non incorporava direttamente la Convenzione di Gi-

nevra nella legislazione inglese, ma si limitava ad inserire alcuni riferimenti alla stessa,

onde renderla comunque il limite istituzionale da tenere presente nell’applicazione della

previsioni legislative in materia di asilo e di espulsione degli asilanti.

Nonostante infatti la procedura amministrativa per la presentazione della do-

manda di asilo venisse descritta dalle Immigration Rules389, l’A.I.A.A. del 1993, preve-

deva come limite alla stessa che “nulla all’interno delle Immigration Rules può istituire

alcun tipo di pratica che sia contraria alla Convenzione di Ginevra”390.

La sezione n.6 di tale legge proibiva poi l’espulsione coattiva dei richiedenti

asilo fino a quando la loro domanda non fosse stata esaminata e decisa, ma nulla speci-

ficava in merito alla possibilità di attuare espulsioni, o allontanamenti, verso paesi terzi,

considerati astrattamente sicuri.

La domanda di asilo di coloro che venivano considerati espellibili verso un altro

paese, infatti, in base all’Immigration Rules391 veniva esaminata dal Segretario di Stato,

il quale non svolgeva però alcuna analisi del merito, ma si limitava a valutare se il re-

385 Basti pensare che gli impiegati dell’Asylum Division crebbero da 120 nel 1991 a 723 nel 1995. HomeOffice Statistical Bullettin, 1995, 9/96.386 C. Harvey, “Restructuring Asylum: Recent Trends in United Kingdom Asylum Law and Policy”, In-ternational Journal of Refugee Law, vol.9, 1997, pagg. 60-73.387 Domanda di asilo.388 The Asylum and Immigration Appeals Act del 1993, sezione 1.389 Intese come quelle previste dall’Immigration Act del 1971, si veda paragrafo 1 del presente capitolo.390The Asylum and Immigration Appeals Act del 1993, sezione 2, sotto la rubrica “Primato della Conven-zione”391 Immigration Act del 1971, HC 395, par. 337, ora abrogato.

151

spingimento verso il paese terzo considerato sicuro, nel quale l’asilante aveva transitato

per raggiungere il Regno Unito, non avrebbe comportato per lo stesso alcuna infrazione

della Convenzione di Ginevra ed in particolare del principio di non refoulment, discipli-

nato dall’art.33 della Convenzione stessa.

I dinieghi che non comportavano infrazioni della Convenzione di Ginevra per

l’Inghilterra erano considerati quelli in cui l’espulsione avrebbe avuto luogo verso un

paese di cui l’asilante non era cittadino; dove la sua vita e la sua sicurezza non erano

messe in rischio ai sensi dell’art. 33 della Convenzione; dove non sarebbe stato espulso

verso un altro paese, non considerato sicuro ai sensi della Convenzione di Ginevra; do-

ve l’asilante era già passato prima di giungere nel Regno Unito e dove avrebbe potuto

presentare domanda di protezione internazionale; infine dove vi fosse un prova evidente

di possibile ammissibilità da parte di un paese terzo392.

Era poi disciplinata da un’altra norma l’espulsione degli asilanti che avevano già

chiesto asilo e la cui domanda era stata rifiutata393. Peraltro la scoperta che l’asilante

avesse viaggiato attraverso un paese sicuro, in cui avrebbe potuto presentare la domanda

e avesse invece deciso di non farlo, veniva considerato indizio della manifesta infonda-

tezza della stessa e, quando non dava luogo ad un espulsione verso tale paese, compor-

tava inevitabilmente un rifiuto nel merito secondo quanto stabilito dall’A.I.A.A., ta-

bella 2, par.5 (a) e (b).

La procedura delineata in tale norma prevedeva che una domanda venisse consi-

derata “manifestamente infondata” nel caso in cui “non comportasse alcuna violazione

degli obblighi assunti dal Regno Unito in base alla Convenzione di Ginevra e fosse in

ogni caso frivola e irritante”. In tal caso veniva disposta una procedura accelerata394, di-

rettamente alla frontiera e il richiedente veniva automaticamente espulso.

In realtà tale norma, in seguito alla pronuncia Special Adjudicator s ex parte

Mehari (1993)395, fu poi applicata solo all’espulsioni verso i paesi terzi c.d. sicuri e non

a tutte le domande ritenute manifestamente infondate.

L’intera procedura doveva svolgersi rapidissimamente e la “certificazione” del

Segretario di Stato, attraverso la quale l’asilante veniva espulso verso un paese terzo,

392 I. A. Macdonald, F. Weber (eds.), Immigration Law and Practice in the United Kingdom, Butter-worths, UK 1983, 5 ed. 2001, pag. 547- 548.393 Immigration Act del 1971, HC 395, par. 347 ora abrogato.394 C.d. Fast track procedure.395 P. Tuitt, False Images, op.cit., pag. 117-118.

152

veniva considerata inattaccabile, comportando per lo più l’espulsione immediata del ri-

chiedente verso altri paesi della comunità europea, considerati de facto sicuri. Era poi

prevista la possibilità di presentare appello entro 7 giorni contro tale espulsione, prima

che la stessa venisse attuata.

In realtà, data la allora recente istituzione del Refugee Legal Centre, in sostegno

dei richiedenti asilo, numerose certificazioni vennero poi completamente riviste ed an-

nullate in sede di appello396. In breve tempo il Segretario di Stato si vide costretto a ri-

nunciare a espellere i richiedenti asilo verso la Grecia, l’Italia e il Portogallo, a causa

delle numerose prove prodotte in appello sull’insoddisfacente livello delle procedure di

asilo, in tali paesi.

L’implementazione nella realtà del concetto stesso di stato terzo sicuro, crea, ora

come allora, dei problemi di ordine sia legale che etico. Mentre legalmente l’adozione

di tale concetto è stata giustificata dal fatto che l’unica proibizione espressa della Con-

venzione di Ginevra riguarda le espulsioni attuate verso i paesi dove il richiedente possa

correre il rischio di subire un danno grave, come meglio illustrato dalla Convenzione

stessa, senza nulla dire in merito all’espulsione dello stesso verso un paese astrattamente

sicuro, giustificarla dal punto di vista etico diventa più complesso. Infatti non si può non

valutare come tale concetto venga implementato all’interno di una comunità internazio-

nale, che dietro una formale uguaglianza giuridica nasconde ancora numerose diversità

e ineguaglianze concrete397. L’applicazione di tale principio finisce dunque per scaricare

la maggior parte delle domande di protezione internazionale sui paesi del sud del mon-

do398 i quali, nella maggior parte dei casi, non hanno le risorse necessarie neppure ad

occuparsi della popolazione residente399.

La sezione 8 dell’A.I.A.A. del 1993 ebbe però il pregio di introdurre il diritto

alla presentazione di un atto di appello contro le decisioni amministrative prese dal Mi-

nistero dell’Interno in prima istanza, all’interno del territorio britannico400, prima che

396 I.A. Macdonald, cit.397 Basti pensare che la Romania, allora inserita tra i paesi di origine sicuri, adottava, come è noto, praticaaltamente discriminatorie nei confronti delle popolazioni di origine Rom.398 Si veda supra capitolo introduttivo, par.3399 Per un approfondimento di tale nozione si veda anche Goodwin-Gill, The Refugee in InternationalLaw, 2nd. ed, Claredon Press. Oxford 1996, pagg. 333-344; UK Delegation, 'Sending Asylum Seekers toSafe Third Countries', International Journal of Refugee Law, 7, 1995, pagg. 119; Amnesty International,Playing Human Pinball: Home Office Practice in Safe Third Country Asylum Cases, 1995.400 L. Schuster e J. Salomon, “Asylum, Refuge and Public Policy: Current Trends and Future Dilemmas”,Sociological Research Online, Vol. 6, n.1, 2001, www.socresoinline.org.uk/6/1/schuster.html.

153

l’espulsione venisse in concreto attuata. Tale diritto all’appello era riconosciuto ad ogni

richiedente asilo, a prescindere dalle modalità del suo ingresso, e consentiva loro di re-

stare fino al termine dello stesso, conferendo il diritto ad un colloquio orale avanti ad

uno special adjudicator401. Tale diritto poteva essere esercitato solo da coloro che ave-

vano comunque presentato la propria domanda di asilo prima di essere espulsi o trovati

in una situazione di soggiorno irregolare. Se lo special adjudicator concordava con la

certificazione rilasciata dal Segretario di Stato sulla manifesta infondatezza della do-

manda, l’asilante non poteva più presentare appello allo I.A.T.402 e veniva espulso403.

L’appello doveva essere presentato al massimo entro dieci giorni dal ricevi-

mento del diniego amministrativo, o certificazione del Segretario di Stato, a meno che

lo stesso non fosse notificato al richiedente direttamente alla frontiera in quanto la sua

domanda era stata ritenuta manifestamente infondata: in tal caso il tempo per presentare

appello si riduceva a solo due giorni.

Entro cinque giorni dalla presentazione dell’appello, lo special adjudicator do-

veva fissare l’udienza di comparizione innanzi a sé, all’esito della quale decideva se

rinviare o meno al Segretario di Stato la domanda perché la analizzasse nuovamente, in

base alle motivazioni illustrate nella propria richiesta di riesame.

Contro la decisione dello special adjudicator poteva essere presentato ricorso al

Immigration Appeal Tribunal, accompagnato da una richiesta di autorizzazione a per-

manere. Lo I.A.T. aveva poi un massimo di 42 giorni per pronunciarsi ed eventualmente

rinviare l’esame della domanda allo special adjudicator404.

Pur innovando rispetto al passato risulta evidente come tale normativa fosse in-

completa e motivata da principi di molto differenti da quelli alla base della Convenzione

di Ginevra, come sopra descritta.

Nel mese di novembre del 1995, dopo solo due anni dall’approvazione delle

norma sopra illustrate, fu adottato un nuovo Asylum and Immigration Appeals Act en-

trato in vigore nel 1996, giustificato dall’allora segretario di Stato Michael Howard dal

fatto che il Regno Unito era

401 A.I.A.A. sez. 7-11 e tabella 2.402 Immigration Appeal Tribunal.403 A.I.A.A. sez. 8 (a).404 P. Tuitt, cit., pagg. 136-142.

154

“Una destinazione troppo attraente per i richiedenti asilo fasulli e

per i migranti irregolari. La ragione è semplice: è molto più facile ottenere

accesso al lavoro e ad altri benefici qui che da qualunque altra parte”.405

Alla base della stesura di tale documento vi era dunque l’assunto generale per il

quale gli asilanti arrivano nel Regno Unito, più per approfittare delle sue numerose op-

portunità economiche che per fuggire da gravi e spesso violente persecuzioni attuate

nei loro confronti.

L’A.I.A.A. del 1996 si prefiggeva, dunque, di creare numerosi nuovi ostacoli nel

già travagliato percorso che i richiedenti asilo dovevano affrontare per ottenere prote-

zione in Inghilterra.

In particolare la sezione 1 dell’A.I.A.A. del 1996, modificando quanto stabilito

dalla normativa precedente, ampliò i casi in cui potevano trovare applicazione le c.d.

fast track procedures, estendendone di molto l’uso. Venne abolita la distinzione tra i ca-

si manifestamente infondati e quelli che non lo erano e fu statuito che tutti i casi anda-

vano comunque decisi anche nel merito dal Segretario di Stato e, eventualmente se pos-

sibile, rifiutati.

In caso di appello anche la decisione relativa al merito sarebbe stata presa diret-

tamente dallo special adjudicator e il riesame da parte del Ministero dell’Interno venne

abolito. Sarebbero dovuti essere trattati con la procedura accelerata tutti quei casi in cui:

a)era possibile procedere ad un espulsione verso un paese della c.d. white list; b)quelli

in cui l’asilante non era riuscito a produrre un valido passaporto e c)quelli in cui si veri-

ficavano alcune particolari condizioni specificamente elencate, relative al merito della

domanda o al tempo della sua presentazione406.

La creazione della c.d. white list dei paesi di origine presumibilmente sicuri, da

parte del Parlamento, si basava, secondo le dichiarazioni del Segretario di Stato Ho-

ward, su tre assunti:

“si trattava di paesi dove non vi era in generale un serio rischio di persecuzio-

ne, che generavano un significativo numero di domande di asilo nel Regno unito, e dove

un elevato numero di esse finivano per risultare infondate”407.

405A. Bloch, The Migration and Settlement of Refugees in Britain, cit., pag. 48.406 K. McGuire, 'No entry' A Critical Reading of the Asylum and Immigration Act 1996', in P. Shah e C.F.Doebbler (eds.), United Kingdom Asylum Law and Its European Context, cit., pagg. 57-65.407 Ibidem, pag. 59. I primi paesi ad essere inclusi furono la Bulgaria, Cipro, il Ghana, l’India, il Pakistane al Polonia.

155

Nei confronti dei richiedenti asilo provenienti da tali paesi, già prima dell’esame

della domanda, si creava dunque una presunzione negativa, ai fini del riconoscimento

dello status di rifugiato, oltre a venir loro applicata automaticamente la procedura acce-

lerata. Nel 1996 in Inghilterra veniva, dunque, per la prima volta codificata la nozione

di paese di origine sicuro, la quale però non teneva conto del fatto che anche in quei

paesi per i quali venivano emessi numerosi dinieghi vi era sempre e comunque un certo

numero di casi che veniva accolto, dopo essere stato sottoposto ad una profonda a com-

pleta analisi408.

Nel caso in cui il Segretario di Stato avesse dunque emesso una certificazione

negativa, per i motivi sopra illustrati, la domanda era sottoposta alle restrittive regole

procedurali già illustrate, introdotte dall’A.I.A.A. del 1993.

L’A.IA.A. del 1996 non statuiva però nulla in merito a come gli special adjudi-

cators dovessero affrontare gli appelli presentati contro queste nuove possibilità di cer-

tificazione da parte del Ministero dell’Interno. Si è ritenuto in dottrina409 che la validità

della certificazione in virtù della quale il caso era stato esaminato con la procedura ac-

celerata dovesse essere esaminata come questione preliminare. Nel momento in cui,

dunque, l’adjudicator non si fosse trovato d’accordo con il Segretario di Stato sulla va-

lidità della certificazione, tale caso avrebbe dovuto essere rimesso in termini come una

procedura di appello normale e, solo in seguito, valutato nel merito. Ma fu solo dopo la

pronuncia dell’I.A.T. nel caso Salah Ziar, del 22 maggio 1997, che si stabilì come prin-

cipio generale che l’adjudicator dovesse valutare il prima possibile la validità della cer-

tificazione del Segretario di Stato e che l’onere di dimostrare tale validità gravasse sul

Segretario stesso.

Per quanto riguarda poi la sindacabilità da parte dell’adjudicator in merito

all’effettiva sicurezza dei paesi inseriti nella c.d. White List, essa era per lo più esclusa.

L’ adjudicator non avrebbe dunque potuto pronunciarsi in proposito, poichè tale ele-

mento era già stato valutato dal Parlamento, in sede di adozione della lista stessa. Ciò

che gli rimaneva dunque da valutare era se, nel singolo caso specifico, fosse stata at-

408 D. Winterbourne e P. Shah, Refugees and Safe Countries of Origin, in P. Shah e C.F. Doebbler (eds..),United Kingdom Asylum Law and Its European Context, cit., p.67.409 Ibidem, pag. 70.

156

tuate una violazione degli obblighi del Regno Unito nei confronti della Convenzione di

Ginevra410.

Lo I.A.T. nella pronuncia Salah Ziar, sopra citata, ha sostanzialmente fornito le

linee guida da seguire per gli adjudicators in caso di disaccordo con la certificazione del

Segretario di Stato. In essa lo I.A.T. ha stabilito infatti che, nonostante, secondo le nuo-

ve norme approvate nel 1996, il Segretario di Stato avesse già compiuto un esame del

merito della singola domanda, l’adjudicator avrebbe potuto comunque rinviargliela per

un nuovo esame, almeno in alcuni rarissimi casi411. Inoltre lo stesso avrebbe dovuto

valutare se l’applicazione della procedura accelerata, là dove la stessa non fosse stata

giustificata, avesse leso i diritti di difesa dell’appellante e dargli nuovi termini per pre-

parare la propria difesa.

L’A.I.A.A. del 1996 introdusse anche numerose limitazioni nell’accesso al si-

stema di previdenza sociale, onde disincentivare la presentazione delle domande di asi-

lo, distinguendo nettamente tra i richiedenti asilo che avevano presentato la propria do-

manda al posto di frontiera al momento dell’ingresso, ritenuti generalmente più credibili

e coloro che l’avevano presentata solo qualche tempo dopo il proprio ingresso, e come

tale ritenuti asilanti fasulli. I primi avevano diritto al 90% dei benefici concessi dalla

previdenza sociale ai cittadini, mentre i secondi non avevano praticamente alcun tipo di

assistenza, se non il diritto d’accesso ad alcuni contributi marginali rilasciati a discre-

zione dalle singole autorità locali 412. Fu però anche introdotta una norma in virtù della

quale, colui che era stato privato dei benefici assistenziali per aver presentato la doman-

da successivamente al proprio arrivo, una volta che gli fosse stato riconosciuto lo status

di rifugiato aveva diritto a reclamare la concessione di tali benefici413.

Una ricerca condotta dal Refugee Council nel 1998, dimostrò come la distinzio-

ne, che si era voluta apportate con tali misure tra applicanti c.d. genuini e fasulli, non

trovasse in realtà alcun riscontro nella realtà. Risultò infatti che nel 1997 la maggioranza

di coloro che avevano in fine ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, aveva-

410 Ibidem pag. 78.411 Ibidem.412 A.I.A.A. 1996, sezioni 8-11, tabella 1.413 A.I.A.A. 1996, s.11(2). Per un’analisi più dettagliata di questa parte della normativa si veda M. Feria-Tinta e C. F. Doebbler, 'The Basic Rights of Subsistence ad Asylum Seekers in The United Kingdom', in P.Shah e C.F. Doebbler (eds.), United Kingdom Asylum Law and Its European Context, cit., pagg. 80-92.

157

no presentato la domanda quando già si trovavano in Inghilterra da qualche tempo e non

al momento dell’arrivo al posto di frontiera414.

Abbiamo visto415, come in quegli stessi anni a livello europeo sia stata approvata

la Convenzione di Dublino, onde regolare la responsabilità degli Stati nell’esame delle

domande di asilo. Essa tuttavia non aveva, al tempo, effetti diretti nella legislazione in-

glese e la giurisprudenza, interpellata in proposito, con molte pronunce tra cui spicca R

v Secretary of State for the Home Department, Ex p Behluli416 del 1998, ribadì che, no-

nostante tale Convenzione fosse stata ratificata dal Regno Unito, la stessa non dava luo-

go al riconoscimento di alcun diritto o obbligo nella legislazione nazionale.

Meno di tre anni dopo l’entrata in vigore delle norme nazionali sopra descritte il

parlamento inglese ha approvato un nuovo Asylum Immigration Appeals Act, nel 1999,

che ha proseguito nel percorso tracciato dalle norme precedenti in materia di inaspri-

mento delle politiche d’asilo ed ha incorporato le previsioni della Convenzione di Du-

blino nel diritto nazionale britannico. Ciò che ha distinto l’approvazione di tale discipli-

na rispetto al passato è stato che per la sua elaborazione fu creato un Comitato speciale e

ciò comportò all’epoca, un dibattito molto più acceso in merito alle singole norme.

Nuovamente l’obbiettivo principale del Governo era quello di impedire di fatto che gli

asilanti arrivassero nel Regno Unito più che quello di consentire loro l’accesso ad una

procedura equilibrata e onesta. Se, infatti, i richiedenti asilo non potevano arrivare in

Inghilterra, questo di per sé rendeva l’elaborazione delle procedure in materia molto più

semplice e le stesse più scorrevoli417.

All’esito di tale dibattito fu evidenziato come il sistema di appello fino ad allora

adottato avesse creato tre problemi principali: il primo dato delle decisioni inconsistenti

del Segretario di Stato, il secondo dato dalle troppe decisioni riformate dalle Corti di

appello e il terzo dalle troppe cause rimesse dallo I.A.T. agli special adjudicators418 per

una seconda analisi. Il risultato fu che il sistema di appello ne uscii completamente stra-

volto, come vedremo di seguito.

414 A. Bloch, op. cit.415 Si veda il capitolo 2.416 Citata in I. A. Macdonald, F. Weber, op. cit., pag. 558.417 C. Harvey, Seeking Asylum in the UK, Problems and Prospects, Butterworths, London, Edinburgh,Dublin, 2000, pag. 155.418 Ibidem pag. 156.

158

In primo luogo l’A.I.A.A. 1999 si occupò di inasprire ancora di più i controlli

precedenti l’ingresso stesso dei richiedenti asilo. Fu aumentato esponenzialmente il nu-

mero degli ufficiali di collegamento delle compagnie aeree negli aeroporti dei paesi che

potenzialmente potevano produrre elevati numeri di richiedenti asilo e, allo stesso tem-

po, furono introdotte sanzioni analoghe anche per le compagnie che si occupavano del

trasporto via terra, prima esentate da tali particolari tipi di controlli e multe.

Allo stesso tempo fu creato un servizio per amministrare la previdenza sociale

nei confronti dei richiedenti asilo, il National Asylum Support Service (NASS). I richie-

denti asilo ricevevano dal NASS circa il 70% del supporto sociale normalmente desti-

nato ai cittadini britannici, di cui nel 1999, dieci sterline in moneta contante ed il resto

in vouchers419, da spendere in negozi convenzionati per l’acquisto di prodotti identifi-

cati. In materia di alloggi, il NASS iniziò la c.d. politica di dispersione, la quale peraltro

vige ancora oggi, in base alla quale i richiedenti asilo indigenti vengono collocati in

abitazioni libere nelle varie aree del paese senza possibilità di scelta, e senza poter

mantenere i legami con eventuali amici o parenti. Erano poi stabilite norme, ancora oggi

in vigore, molto rigide sul tempo che il richiedente poteva legittimamente passare lonta-

no dalla propria “area di dispersione” senza perdere il beneficio dell’alloggio. Le strut-

ture che fornivano l’alloggio avrebbero dovuto aiutare i richiedenti ad inserirsi nella zo-

na, ma ciò ancora oggi accade di rado420.

L’A.I.A.A. 1999 ha poi, notevolmente, inasprito le norme in materia di allonta-

namento o espulsione dei richiedenti asilo verso i c.d. paesi terzi sicuri, alle sezioni n.11

e 12, abrogando tutte le norme precedenti in materia e introducendone di nuove. Ha,

dunque, introdotto la possibilità di procedere all’espulsione dei richiedenti asilo, anche

in violazione delle norme che normalmente impedivano il loro allontanamento, nei casi

in cui il Segretario di Stato abbia certificato che: a) un altro stato membro della Comu-

nità Europea si fosse dichiarato responsabile dell’esame di tale caso, in virtù di una serie

di standing arrangements tra i due stati421; b) il richiedente, nell’opinione del Segreta-

rio di Stato, non era cittadino dello stato in cui veniva espulso; c) la certificazione di

419 A. Bloch, op. cit., pagg. 50-52420 Ibidem.421 In realtà la norma inglese usa l’espressione “standing arrangements” traducibile in italiano con la no-zione “accordi permanenti”. Nella pratica però il riferimento riguardava prevalentemente la Convenzionedi Dublino.

159

espellibilità non era stata messa in discussione dalla presentazione di un appello per

violazione dei diritti umani422, previsto dalla sez. 65 dello stesso A.I.A.A.

In ogni caso, la decisione in merito all’allontanamento del richiedente verso un

altro stato in virtù delle norme ora citate, poteva avvenire solo se lo stato membro inte-

ressato poteva essere considerato un luogo nel quale il richiedente non avrebbe subito

alcuna violazione della Convenzione di Ginevra e dove non avrebbe corso il rischio di

essere espulso verso un altro paese, magari non firmatario della Convenzione stessa423.

Tale norma consentiva dunque l’espulsione verso qualunque Stato Membro, senza che

le modalità di attuazione della Convenzione nello stesso potessero essere in concreto

sindacabili424, se non una volta che l’asilante era stato allontanato dal territorio nazio-

nale.

Un’altra inquietante novità introdotta da tale legge, fu quella incorporata nella

sez. 72 (2) (a), che sostanzialmente rendeva vana la possibilità di presentare un appello

per violazione dei diritti umani ex sez. 65, sopracitata, stabilendo che il diritto

all’appello fosse negato, qualora il Segretario di Stato avesse emesso una nuova certifi-

cazione nella quale deliberava semplicemente che “l’affermazione secondo cui

l’espulsione aveva dato luogo ad una violazione dei diritti umani era manifestamente in-

fondata”. L’unica soluzione rimasta al richiedente era, a questo punto, presentare ricorso

direttamente all’I.A.T. ma anche in quel caso la presunzione di generale sicurezza degli

stati membri, ex sez. 11(1) A.I.A.A., avrebbe comunque trovato applicazione425.

La presunzione in merito alla “sicurezza” degli stati membri poteva infatti essere

vinta solo se veniva espressamente provato il contrario, secondo quanto stabilito dalle

regole interpretative prescritte nello Human Rights Act del 1998426. In realtà in numerosi

casi, dove vi erano contenziosi aperti in merito alla affidabilità dello stato membro verso

il quale il Segretario di Stato voleva espellere il richiedente in base alle norma della

Convenzione di Dublino, il Ministero dell’Interno evitava per lo più di attuare le espul-

sioni, fino all’esito dello stesso. Nei mesi di ottobre e novembre del 2000 il Segretario

422 A.I.A.A. 1999, s. 11 (2) (a) e s.11(2) (b).423 A.I.A.A. 1999, s. 11(1) (a) e s. 11(1) (b).424 I . Macdonald, op.cit. pag. 562.425 P. Shah, Refugees, Race and the Legal Concept of Asylum in Britain, Cavendish, London 2000, pag.426 P. Shah, “The Human Rights Act 1998 and immigration law”, Immigration and Nationality Law andPractice, Vol. 14, No. 3, pp. 151-158.

160

di Stato evitò di procedere alle espulsioni di 65 asilanti verso la Germania, in attesa

della risoluzione del contenzioso aperto in merito all’affidabilità di tale stato427.

La sezione 12 dell’A.I.A.A. 1999, regolava poi le espulsioni verso gli Stati

membri e non, non determinate dall’applicazione delle norme della Convenzione di Du-

blino. In tali casi la possibilità di presentare appello ex sez. 65 erano maggiori e il ri-

chiedente aveva diritto a rimanere nel territorio britannico, fino all’esito dello stesso.

Come sopra accennato, lo A.I.A.A. del 1999, ha radicalmente modificato anche

il sistema di appello regolato dalla sezione 69 e dalla sezione 2 (1) dello Special Immi-

gration Appeals Commission Act del 1997. Gli appelli in merito alle domande di asilo

vennero tenuti separati da quelli in materia di violazione dei diritti umani, anche se le

sezioni 74 e 75 dello AI.A.A. 1999, uniscono entrambi gli elementi nella creazione dei

c.d. appelli one-stop428.

Lo schema per la presentazione degli appelli rimase sostanzialmente lo stesso

delineato dall’A.I.A.A 1993, e oggetto dell’appello rimase non il rifiuto della protezione

internazionale ma la decisione in merito alla possibilità di entrare e/o permanere nel ter-

ritorio britannico o meno , conseguente al rifiuto della domanda d’asilo.

L’appello non poteva essere presentato per motivi inerenti al diritto d’asilo se in

prima istanza non era stata presentata una domanda di asilo, ma non tutte le domande di

asilo davano ugualmente diritto a presentare un appello. Nel caso di un espulsione verso

uno stato membro in applicazione dei criteri della Convenzione di Dublino, l’asilante

poteva presentare un appello solo dopo essere stato espulso. L’unico appello presenta-

bile nel territorio era quello per violazione dei diritti umani ex sez. 65, ma che avrebbe

comunque potuto essere impedito dalla certificazione del Segretario di Stato che la pre-

sunta violazione dei diritti umani era manifestamente infondata. Anche nel caso in cui il

Segretario di Stato intendesse procedere all’espulsione del richiedente verso un Stato

specifico, incluso tra il Canada, la Norvegia, la Svizzera e gli Stati Uniti, considerati si-

curi al pari degli stati membri, l’asilante poteva presentare appello solo una volta giunto

in tale paese. Nel caso in cui, invece, l’espulsione fosse avvenuta verso un paese diverso

da quelli sopra elencato, un appello poteva essere presentato nel territorio britannico,

sulla base del fatto che tale allontanamento avrebbe comportato una violazione della

427 I. Macdonald, op.cit., pag. 563.428Si veda infra.

161

Convenzione di Ginevra e lo stesso avrebbe avuto efficacia sospensiva dell’espulsione

stessa429.

Una volta eventualmente rimosso l’ordine di allontanamento ed ottenuto il di-

ritto all’ingresso, anche temporaneo, la causa veniva rimessa al Segretario di Stato per

una nuova decisione nel merito430.

Alcuni passi avanti furono invece compiuti nel settore della c.d. White List dei

Paesi d’origine sicuri con la pronuncia Javed and Ali V. Secretary for The Home De-

partment, con la quale la Corte d’Appello stabilì che la decisione del Segretario di Stato

di segnalare il Pakistan come paese in cui non c’è un rischio generale di essere perse-

guitati era stata presa in base ad un erronea visione dei fatti o del diritto. Per tale motivo

nell’A.I.A.A. non vi era più traccia di norma in merito alle domande che potevano esse-

re certificate e respinte dal Segretario di Stato, in relazione ad una serie di paesi di ori-

gine identificati come sicuri.

Alcune delle norme sopra elencate sono in vigore tutt’ora, integrate e modificate

dalla produzione normativa successiva, e costituiscono, come vedremo nel prossimo pa-

ragrafo, il sistema di asilo contemporaneo nel Regno Unito.

Trattandosi di un paese con un sistema legislativo di Common Law è evidente

come la produzione giurisprudenziale sia importante nel delineare i limiti di una materia

come il diritto d’asilo e ciò verrà meglio illustrato nell’ultimo paragrafo.

3.La procedura d’asilo in Inghilterra oggi

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, diversamente da quanto avviene

nella normativa italiana, il diritto d’asilo nell’ordinamento inglese non viene definito

come un istituto autonomo, almeno al principio, ma viene delineato da varie norme che

si occupano di stabilire quando, e su quali basi, ad un cittadino straniero viene consen-

tito di entrare e soggiornare nel Regno Unito e quando invece no, nonché quando tale

diritto gli viene concesso in virtù dell’applicazione della Convenzione di Ginevra.

Per quanto invece attiene strettamente alla procedura relativa alla domanda di

asilo e i principi in base ai quali la stessa deve essere esaminata e decisa, essi sono defi-

429 A.I.A.A. 1999, sez. 72 (2) (a) e sez.72 (2) (b) sez 71.430 Se l’asilante era già stato allontanato doveva essere richiamato su ordine dello special adjudicator edessere autorizzato a rientrare legalmente.

162

niti, come detto, dalle Immigration Rules, (HC 395), ai paragrafi 327-352431, nonché

dalle APIs e APGs432, due raccolte di istruzioni ad hoc elaborate dal Ministero

dell’Interno. Le APIs sono attualmente quarantatre, divise per aree tematiche, che riferi-

scono le novità in materia di legislazione e giurisprudenza, sia per quanto riguarda

l’asilo che per quanto riguarda il rifugio. Tali “norme” sono reperibili sul sito della

UKBA433, la quale ha espressamente dichiarato che esse sono l’espressione “della poli-

tica del Governo in materia di asilo”434.

Fino al 2005, dunque, la normativa sull’asilo era sostanzialmente costituita solo

dalle previsioni generali della Convenzione di Ginevra, dalle Immigration Rules e dalla

giurisprudenza nonché dalle varie norme in materia di appelli contro le espulsioni con-

tenute nei diversi A.I.A.A. e nei più recenti Nationality Immigration and Asylum Acts

del 2002435 e 2004.

Nel 2005 il governo inglese ha proceduto all’adozione di una serie di emenda-

menti delle proprie norme e regolamenti considerati in contrasto con la Direttiva

2003/9/CE, in materia di standards minimi di accoglienza per i richiedenti asilo. In par-

ticolare ha modificato le Immigration Rules HC 395, creando una nuova sezione -(Parte

11B) - incaricata di gestire l’obbligo di fornire informazioni scritte agli asilanti; di forni-

re agli stessi un documento attestante il loro status di richiedenti asilo, di creare una se-

rie di accordi per fornire ai richiedenti asilo un permesso per lavorare trascorsi oltre 12

mesi dalla presentazione della domanda e di gestire l’obbligo per l’asilante di comunica-

re la propria residenza al Ministero dell’Interno per tutta la durata della procedura436.

Nel 2006, è stato poi approvato il Refugee or Person in Need Of International

Protection Regulations 2006, SI 2006/2525, volto ad implementare la Direttiva

2004/83/CE, il quale per la prima volta cerca di uniformare le procedure in materia di

riconoscimento della protezione internazionale nel Regno Unito a quelle degli altri stati

membri.

431 M. Phelan e J. Gillespie, Immigration Law Handbook 2011, Oxford University Press, Oxford 2010,pag. 607 e ss.432 Asylum Policy Instructions e Asylum Process Guidance. www.homeoffice.gov.uk433 U.K. Border Agency, l’agenzia del Ministero dell’Interno che si occupa della gestione delle frontiere edei problemi ad esse connessi.434 J. A. Sweeney, “Credibility, Proof and Refugee Law”, International Journal of Refugee Law, 2009,vol.4, pag. 703.435 Si veda in proposito D. Stevens, UK Asylum Law and Policy: Historical and Contemporary Perspec-tives, Sweet and Maxwell., London 2004.

163

Ciò nonostante ancora oggi, come vedremo, “presentare una domanda di prote-

zione internazionale rispettando la legge”, in Inghilterra, “risulta molto complesso se

non impossibile”437.

In base al Nationality, Immigration and Asylum Act del 2002 le domande di asilo

devono essere presentate di persona al posto di frontiera al momento dell’arrivo o, suc-

cessivamente, ad una sede dell’ U.K.B.A. presente sul territorio. A partire dal 14 ottobre

2009, le domande degli asilanti già presenti sul territorio devono essere presentate

esclusivamente all’Asylum Screening Unity di Croydon438.

Le domande presentate al posto di frontiera vengono trasmesse immediatamente

al Segretario di Stato preso il Ministero dell’Interno. Fino a quando la procedura non si

è conclusa il richiedente, e coloro che da questi dipendono439, non possono essere espul-

si dal Regno Unito440. Per tale periodo di tempo al richiedente sarà concesso un permes-

so di soggiorno temporaneo441.

A partire dal mese di marzo 2007, tutte le nuove domande di asilo vengono esa-

minata attraverso il N.A.M., New Asylum Model, il cui scopo è stato quello di sveltire

ulteriormente la procedura e di cui vedremo in seguito i dettagli.

Le Immigration Rules, paragrafo 333A, stabiliscono che il Segretario di Stato

deve garantire che ogni singola domanda d’asilo sia esaminata da un suo ufficiale e che

una decisione in proposito venga presa il prima possibile, entro un termine massimo di

sei mesi. Se tale termine viene superato l’ufficiale incaricato deve necessariamente in-

formare il richiedente del ritardo ed eventualmente, se questi lo richiede, fornire infor-

mazioni in merito alla possibile data in cui avverrà la decisione.

La prima intervista del richiedente viene dunque ora svolta per stabilire quale

percorso debba seguire la domanda stessa, che in alcun modo viene esaminata nel me-

rito. Il N.A.M prevede infatti cinque diversi percorsi che stabiliscono a) la velocità a cui

la domanda verrà esaminata; b) come il richiedente può, o meno, ottenere assistenza le-

436 A. Baldaccini, “Asylum support and EU obligations: implementation of the EU Reception Directive inthe UK”, Immigration, Asylum and Nationality Law vol.19,n.3, 2005 pagg. 152- 160.437 G. Clayton, Immigration and Asylum Law, op. cit,. pag. 417.438 M. Symes e P Jorro, Asylum Law and Practice, Bloomsbury Professional, West Sussex 2010, pag.641.439 E interessante notare come, diversamente dalla normativa italiana, il diritto inglese riconosce come“dependants” dell’asilante, ovvero “persona a carico”, non solo il coniuge e i figli minori, ma anche ilpartner civile e il partner dello stesso sesso, con cui lo stesso abbia condiviso una vita in comune almenoper i due anni precedenti alla data di presentazione della domanda HC 395, paragrafo 349.440 Nationality, Immigration and Asylum Act 2002, s.77.

164

gale; c) il tipo di alloggio a cui ha diritto; d) come e ogni quanto deve contattare la

U.K.B.A.; e) se è necessario che i movimenti del richiedente siano monitorati attraverso

un attrezzatura elettronica.

Prima dell’approvazione del N.A.M., l’intervista del richiedente asilo era prece-

duta da una serie di dichiarazioni scritte, raccolte nel modulo standard, chiamato

S.E.F.442, le quali sarebbero poi state riprese e chiarite nel corso del colloquio orale. Le

decisioni relative alle domande presentate dopo l’implementazione del N.A.M., invece

vengono prese solo ed esclusivamente in base a quanto dichiarato e prodotto diretta-

mente all’intervista dall’asilante.

In merito all’importanza delle interviste proprio le A.P.I.s del Ministero

dell’Interno, già in passato, avevano stabilito che:

“ lo scopo dell’intervista dell’asilante è di determinare i fatti relativi ad una do-

manda di asilo. Nonostante possa accadere che il richiedente asilo abbia fornito infor-

mazioni al Ministero dell’Interno in precedenza, l’intervista sarà la sua maggiore op-

portunità per esporre chiaramente il proprio caso e per il responsabile dello stesso di

esaminare tutti i dettagli che ritiene necessari” 443.

Nella realtà però la situazione era, ed è tuttora, molto differente. Una ricerca

svolta da Amnesty International444 nel 2004 ha, infatti, evidenziato come la maggior

parte dei responsabili dell’esame delle domande di asilo, non considerasse l’intervista,

come un momento collaborativo per scoprire come si fossero effettivamente svolti i fat-

ti, ma piuttosto come un occasione per raccogliere materiale che potesse minare la cre-

dibilità del richiedente asilo, sottolineando eventuali discrepanze tra le dichiarazioni

scritte dallo stesso nel S.E.F. e quelle rese in sede orale, per meglio motivare le lettere di

diniego.

A partire dal 1 aprile 2008 è stato introdotto poi un nuovo paragrafo 333 C alle

Immigration Rules, in base al quale se il richiedente asilo non si presenta alla intervista

la domanda si considera abbandonata, a meno che lo stesso non si presenti entro un

tempo ragionevole a giustificare la propria assenza e, comunque, la sua credibilità ne ri-

sulta compromessa.

441 D. Stevens, op. cit., pagg. 192-213.442 Statement of Evidence Form.443 Asylum Policy Instructions, paragrafo 2.2., www.homeoffice.gov.uk444 Amnesty International (ed.), Get it Right: How Home Office Decision-making Fails Refugees, 2004,pag.20, www.amnesty.org.uk

165

Poiché a partire dal mese di aprile 2004 non è più stato possibile per il richie-

dente asilo avere accesso all’assistenza legale durante la prima intervista, la Corte di

Appello, nella causa R.Vs SSHD del 2005, ha stabilito che qualora il richiedente non

possa accedere a fondi pubblici per ottenere assistenza legale e un interprete della sua

lingua allo stesso “deve essere concesso di registrare al propria intervista in maniera

tale che egli possieda una prova della stessa, diversa da quella nella disponibilità del

Ministero dell’Interno”445. Dopo tale pronuncia l’obbligo di registrare le audizioni dei

richiedenti asilo, dietro loro specifica richiesta, è stato introdotto nelle A.P.I.s del Mini-

stero dell’Interno e implementato notevolmente anche nella pratica. Il meccanismo di

tutela così approntato si è però inceppato in quanto gli avvocati del Legal Services

Commission non sono stati in grado di esaminare tutto il materiale registrato relativo ai

dinieghi, per servirsene in appello, per carenza di fondi e strutture446.

Numerose organizzazioni attive nel settore hanno poi criticato le modalità di

analisi, da parte del Ministero dell’Interno, delle domande in prima istanza. In particola-

re è stato rilevato che “metodi di analisi iniqui e arbitrari erano la norma e numerose

persone con valide ragioni per chiedere protezione internazionale in Inghilterra hanno

ottenuto un diniego a causa di analisi frettolose e negligenti nonché di una generale

ignoranza sulla situazione specifica dei rifugiati”447.

L’U.N.H.C.R. ha poi svolto diverse ricerche sulla qualità del lavoro svolto dagli

ufficiali dell’Home Office448, su incarico dello stesso, dalle quali è emerso che molti di

essi, oltre ad avere un atteggiamento tendenzialmente ostile nei confronti dei richiedenti

asilo, interpretavano in maniera scorretta alcuni dei principi alla base della normativa.

Nonostante l’influenza esercitata da tali ricerche abbiano portato un certo mi-

glioramento, nel suo quarto Quality Reports del 2007449, l’U.N.H.C.R ha evidenziato

come valutare la credibilità degli asilanti e stabilire lo svolgimento dei fatti sia ancora

ritenuto da numerosi ufficiali alquanto complesso e problematico.

445 R.Vs SSHD, 2005, EWCA Civ 321446 Immigration Law Updated, Vol.8, n.11, pag. 28.447 Asylum Aid (ed.), Still no Reason at All, 1999.http://www.asylumaid.org.uk/data/files/publications/46/Still_No_Reason_At_All.pdf In proposito si vedail rapporto precedente Asylum Aid, No Reason at All, 1995.448 UNHCR (a cura di), Quality Initiative Project: Second Report to the Minister, London UNHCR 2003e 2005.www.bia.homeoffice.gov.uk/ sitecontent/ documents/ aboutus/ reports/ unhcrreports.449 UNHCR (a cura di), Quality Initiative Project: Fourth Report to the Minister, London UNHCR 2007.www.bia.homeoffice.gov.uk/ sitecontent/ documents/ aboutus/ reports/ unhcrreports.

166

Le Immigration Rules forniscono i criteri per l’analisi delle domande dei richie-

denti asilo che devono sempre essere considerate “su base individuale, oggettiva ed im-

parziale” 450. Tali criteri sono sostanzialmente gli stessi contenuti nella Convenzione di

Ginevra, come esplicata ed implementata dalla Direttiva Qualifiche del 2006 e dalle

Immigration Rules. In particolare il paragrafo 334 di quest’ultime, sotto la rubrica

“Riconoscimento dell’asilo”, stabilisce che:

“sarà riconosciuto al richiedente un diritto all’asilo nel Regno Unito, se il Se-

gretario di Stato sarà convinto che: a) lo stesso si trova già nel Regno Unito o è appena

giunto alle frontiere del Regno Unito; b )lo stesso è un rifugiato come definito dalla

norma seconda del Refugee or Person in Need of International Protection Regulations

2006; c) non vi sono fondate ragioni per temere che tale individuo sia un pericolo per

la sicurezza del Regno Unito; d) il richiedente non è stato condannato con sentenza de-

finitiva per un crimine particolarmente grave e non è considerato un pericolo per la

comunità del Regno Unito; e)rifiutare la sua richiesta comporterebbe per lo stesso

l’espulsione verso un paese, in violazione delle norme della Convenzione di Ginevra,

dove la sua vita e la sua libertà potrebbero essere in pericolo per ragioni dovute alla

sua razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato

gruppo sociale”.

Al tempo stesso però tali norme fanno riferimento all’ Asylum and Immigration

Treatment of Claimants Act del 2004, sezione 8, imponendo, ai fine dell’esame della

domanda, una sorta di esame della credibilità degli asilanti. Tale norma stabilisce, infat-

ti, che:

“Nel determinare se credere ad una dichiarazione resa da una persona che pre-

senta una domanda di asilo o di protezione per motivi umanitari, o resa in suo favore,

l’autorità incaricata della decisione dovrà considerare come lesivo della credibilità del

richiedente ogni comportamento espressamente previsto da questa sezione”451.

Vengono a tal fine considerati lesivi della credibilità del richiedente tutti quei

comportamenti che l’autorità ritiene siano stati programmati per nasconderle delibera-

tamente delle informazioni o per ingannarla oppure siano volti, in qualunque modo, a

ritardare o a complicare la definizione del procedimento d’asilo. Non solo ma ulteriore

indice di poca credibilità è pure considerato il fatto che il richiedente non abbia presen-

450 Hc 395, paragrafo 339J.

167

tato domanda di protezione internazionale in uno dei paesi di transito dove avrebbe po-

tuto, oppure l’abbia presentata nel Regno Unito, successivamente all’ingresso e solo nel

momento in cui è stato fermato ed ha ricevuto un ordine di espulsione in quanto pre-

sente clandestinamente452.

Le Immigration Rules, HC 395, paragrafo 339I453, istituiscono per il richiedente

asilo l’obbligo di presentare il prima possibile al Segretario di Stato, tutti gli elementi

materiali volti a sostenere la sua domanda di asilo. Sono considerati elementi materiali,

a tal fine, le dichiarazioni in merito alla necessità di protezione internazionale; tutta la

documentazione a disposizione dell’asilante in merito alla propria persona, età, lavoro,

identità, nazionalità, parentela; le informazioni relative al viaggio svolto; eventuali do-

mande di protezione precedentemente presentate anche altrove; eventuali documenti di

viaggio.

Qualora le prove prodotte non siano sufficienti a supportare le dichiarazioni del

richiedente le stesse devono essere considerate come valide qualora: il richiedente abbia

fatto tutto il possibile per circostanziare la domanda; tutti gli elementi materiali a sua di-

sposizione siano stati presentati e il richiedente abbia fornito informazioni soddisfacenti

in merito alle eventuali mancanze; le sue affermazioni siano risultate coerenti e plausi-

bili e non in contrasto con altre informazioni generali sulla sua persona; abbia presen-

tato domanda di protezione internazionale il prima possibile; sia stata individuata una

generale credibilità del richiedente.

La lettura combinata della sezione 8, ora citata, e delle Immigration Rules, porta

a ritenere, dunque, che il Segretario di Stato possa procedere a diniegare una richiesta di

protezione internazionale ogni qualvolta: a) il richiedente non riesca a fornire una spie-

gazione “ragionevole” della mancanza di elementi materiali a sostegno delle proprie di-

chiarazioni; b) il richiedente manchi di cooperare nell’elaborazione della propria do-

manda, ovvero non si presenti per il rilevamento delle impronte digitali, non si presenti

all’audizione oppure non compili un questionario consegnatogli dall’ufficiale

dell’UKBA; c) il richiedente non possa produrre un passaporto o altro documento senza

alcuna spiegazione ragionevole in proposito; d)il richiedente abbia prodotto un docu-

451 Section 8, Asylum and Immigration Treatment of Claimant 2004.452 R. McKee, ‘An outline of some salient provisions of the 2004 Act’, Immigration Law Digest, Vol. 10,No. 3, pagg. 13-20.453 Introdotto il 09 ottobre 2006.

168

mento che non è un passaporto come se lo fosse; e) lo stesso abbia distrutto senza alcun

motivo i propri documenti di viaggio; f) non abbia presentato domanda di protezione in

un paese terzo sicuro; g) non abbia presentato la domanda se non quando è stato fermato

e arrestato per essere espulso.

Non si vede come l’autorità incaricata dell’esame della domanda possa ancora

trovare domande delle quali esaminare la fondatezza nel merito, se tutti gli elementi ora

citati la “costringono” a non ritenere credibili i richiedenti asilo454. Tale problema, di

non poca rilevanza, è stato affrontato dalla giurisprudenza che, in numerose pronunce ha

ribadito il principio affermato nella causa SM (Section 8 Judge’s Process) Iran del

2005, per il quale “anche nei casi in cui la sezione n.8 dovrebbe applicarsi, un giudice

specializzato in immigrazione dovrebbe comunque guardare alle prove nel loro insieme

e decidere quali parti sono più importanti e quali meno. La sezione n. 8 non deve porta-

re a ritenere che il comportamento a cui si applica sia il solo punto di partenza della

credibilità del richiedente” 455.

Peraltro numerose critiche sono state rivolte da varie organizzazioni non gover-

native che si occupano di vittime della tortura, quali la Medical Foundation, sul fatto

che ai fini della credibilità del richiedente non viene adeguatamente valutato l’impatto

che gli effetti dei traumi e delle violenze subite, possono avere sia sulla memoria di que-

sti che sulla chiarezza espositiva degli eventi vissuti456.

Le Immigration Rules prevedono, in applicazione della Direttiva Qualifiche, an-

che la possibilità che un richiedente si trovi nella necessità di presentare una domanda di

protezione internazionale, per eventi che si sono verificati dopo la sua partenza dal pae-

se di origine, o a causa di attività in cui lo stesso è rimasto coinvolto dopo aver lasciato

il proprio paese457. L’applicazione di tale norma ha generato un ampio dibattito giuri-

sprudenziale sul diritto, o meno, alla protezione internazionale per colui il quale abbia

preso parte a tali attività successive, in modo fraudolento, con il solo fine di porsi in una

situazione di pericolo volta a sostenere la fondatezza della propria domanda. La Corte

d’Appello, interpellata su tale problematica, con la pronuncia Danian del 09 giugno

454 M. Symes e P Jorro, Asylum Law and Practice, cit., pag. 671.455 SM (Section 8 Judge’s Process) Iran, UKAIT, 2005 00116, in M. Symes e P Jorro, Asylum Law andPractice, cit., pag. 672. Per altre sentenze critiche sulla sezione 8 si veda Ibidem, nota 8, pag. 672.456 D. Rhys-Jones e S. Verity-Smith, “Medical Evidence in Asylum and Human Rights Appeals”, Inter-national Journal of Refugee Law, vol.16, n.3, pagg. 381-410, cit, pag. 383.

169

1998458, concluse che concedere protezione a colui che, attraverso vari stratagemmi, si

era deliberatamente posto in una situazione di pericolo tale da creare una possibilità

concreta di essere oggetto di persecuzione, - possibilità che in precedenza non esisteva -

, non può ritenersi portatore di quel “fondato timore”, che la Convenzione di Ginevra,

richiede per la concessione dello status di rifugiato. Non solo ma “concedere in tal

modo la possibilità di manipolare la procedura per il riconoscimento dello status di ri-

fugiato coprirebbe di discredito tutto il sistema d’asilo”459. In proposito tuttavia il rap-

presentante inglese dell’UNHCR, parte nel procedimento AA (Involuntary Returns to

Zimbawe) Zimbawe, 2005, deciso dall’ Asylum Immigration Tribunal460, il 7 ottobre

2005, ha manifestato il proprio disaccordo sostenendo che il semplice fatto che il ri-

chiedente abbia preso parte ad attività successive alla sua fuga, intenzionalmente dirette

a porsi in una situazione di potenziale persecuzione, non può di per sé escludere lo stes-

so dall’accesso alla protezione internazionale quando concretamente lo stesso venga a

trovarsi in una situazione suscettibile di rientrare nella definizione dell’art 1 della Con-

venzione di Ginevra461. Ciò nonostante le corti superiori, più volte incitate a rivedere

tale orientamento, almeno fino ad ora, non hanno inteso modificare le posizioni assunte

con la sentenza Danian, in proposito.

Le ragioni per le quali una domanda d’asilo può essere rifiutata sono sostanzial-

mente quelle previste dalla Convenzione di Ginevra e dalla Direttiva Qualifiche, come

implementata nel 2006, ma come detto l’applicazione di tali norme nella pratica è anco-

ra alquanto arbitraria.

Qualora, invece, l’ufficiale dell’Home Office decida di concedere lo status di ri-

fugiato o altra forma di protezione internazionale al richiedente, lo stesso riceverà una

lettera con la quale, se ha presentato la propria domanda al posto di frontiera gli verrà

concessa un’autorizzazione all’ingresso e al soggiorno, se ha presentato la propria do-

457 HC 395, paragrafo 339P, inserito il 09.10.2006 dal CM 6918. In merito ai c.d. fresh claims si veda ilparagrafo seguente.458 IAT, Danian, (16494; 9 giugno 1998).459 M. Symes e P Jorro, Asylum Law and Practice, op. cit., pag. 332460 L’Asylum and Immigration Tribunal è stato creato proprio nel 2005, dall’Asylum and ImmigrationTreatment of Claimants Act del 2004. Lo stesso è organizzato secondo una stretta gerarchia alla cuisommità siede il Presidente, seguito da una serie di Presidenti deputati, a loro volta seguiti dai giudicianziani dell’Immigrazione e poi dai Giudici semplici dell’Immigrazione. In proposito si veda M. Shaw,“The Asylum and Immigration Tribunal”, Immigration Asylum and Nationality Law, vol. 19, n. 2, 2005,pagg. 86-107.461 Così il rappresentante legale dell’UNHCR in AA (Involuntary Returns to Zimbawe) Zimbawe, 2005,UKAIT 00144, 7 ottobre 2005.

170

manda successivamente gli verrà concessa un’autorizzazione a permanere462. Lo stesso,

come vedremo, avviene qualora in sede amministrativa tale autorizzazione gli sia stata

negata e l’asilante abbia poi presentato appello. Dal 1997 al 29 agosto 2005,

l’autorizzazione all’ingresso e alla permanenza sul territorio veniva rilasciata a tempo

indeterminato. A partire da settembre 2005, coloro che ai quali viene riconosciuto lo

status di rifugiato sono ora autorizzati a permanere per un periodo di cinque anni, tra-

scorso il quale la loro situazione personale può essere riesaminata463. Numerosi richie-

denti asilo, la cui domanda era stata presentata molto prima dell’approvazione della

modifica normativa ora descritta, ma la cui risposta, a causa dei ritardi della pubblica

amministrazione, è giunta in seguito, si sono lamentati della applicazione alla loro fatti-

specie della nuova disciplina, ma senza ottenere alcun risultato.

La protezione umanitaria britannica, corrisponde all’istituto europeo della prote-

zione sussidiaria, introdotto negli Stati Membri dalla Direttiva 83/2004/CE464, sopra de-

scritta.

Fino al 31 marzo 2003, qualora l’asilante fosse stato destinatario di un provve-

dimento di diniego dello status di rifugiato, veniva valutata la possibilità di garantirgli

comunque una sorta di protezione straordinaria, c.d. “exceptional leave to remain”, per-

ché allontanarlo dal Regno Unito avrebbe comportato una violazione dei suoi diritti

umani, come definiti e tutelati dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani, o comun-

que perché altre ragioni di carattere umanitario ne avrebbero impedito

l’allontanamento465. Tale status eccezionale veniva tendenzialmente garantito a tutti i

richiedenti asilo provenienti da un determinato paese a cui lo status di rifugiato veniva

negato solo in virtù dei rapporti politici tra l’Inghilterra e il paese di origine. Dal mese

di aprile 2003, il Segretario di Stato ha abbandonato tale tipo di politica e sono stati de-

lineati gli istituti della protezione umanitaria e dell’autorizzazione discrezionale del Mi-

nistero dell’Interno all’ingresso e al soggiorno, c.d. “discretionary leave”.

Nell’esaminare una domanda di protezione internazionale, dunque, l’ufficiale del Mini-

462 HC 392, paragrafo 335. L’autorizzazione a permanere concessa in virtù di una domanda di asilo, si dif-ferenzia ovviamente da quella concessa ad altri cittadini stranieri per motivi differenti.463 In proposito si vedano le APIs, in particolare quella riguardante il “refugee leave”, section 2.464 H. Lambert, “The Eu Asylum Qualification Directive, its Impact in the Jurisprudence of the UnitedKingdom and International Law”, International and Comparative Law Quarterly, 55(1), pp. 161-192. Inproposito si veda anche M. Symes, The Refugee Qualification Directive, Electronic Immigration Network2006.

171

stero doveva prima valutare la sussistenza dei requisiti per la concessione dello status di

rifugiato, in mancanza la sussistenza di quelli richiesti per la protezione umanitaria e per

ultimo di quelli per la concessione dell’autorizzazione discrezionale al soggiorno. La

protezione umanitaria da ora diritto ad un autorizzazione a permanere per un periodo di

almeno cinque anni e a partire dal 2006, anche ad un permesso di soggiorno britannico,

della validità di cinque anni e rinnovabile salvo che ragioni di sicurezza nazionale ne

impediscano il rinnovo466. In via residuale poi il c.d. “discretionary leave”, viene rico-

nosciuto in una serie specifica di circostanze tra le quali rientravano tutti quei casi in cui

l’espulsione avrebbe comportato una violazione dell’articolo 8 della CEDU, il diritto

all’unità familiare, trattandosi di nucleo familiare stanziato regolarmente sul territorio

britannico; i casi in cui l’espulsione avrebbe comportato una violazione dell’art. 3 della

CEDU per motivi medici o per altre gravi ragioni umanitarie; richiedenti asilo minori

non accompagnati che non sarebbero comunque inseriti in una struttura idonea nel paese

di origine; altri casi in cui le circostanze sono così particolari da dover garantire comun-

que una forma di protezione467.

Qualora poi il Segretario di Stato non ritenga di poter riconoscere nessuno degli

status sopra descritti, o perché ritiene che sia competente all’esame della domanda un

altro stato, oppure perché il richiedente non è riuscito a dimostrare il proprio diritto ad

uno di essi, procederà con il notificare allo stesso un diniego all’ingresso o alla perma-

nenza sul territorio britannico e se necessario provvederà ad espellerlo, in quanto mi-

grante clandestino secondo le previsione dell’Immigration and Asylum Act del 1999,

sopra illustrate. Contro l’ordine di espulsione e di eventuale allontanamento coattivo è

previsto un elaborato sistema di appelli, che meglio affronteremo nel prossimo paragra-

fo. Risulta comunque evidente come ancora oggi, nonostante le novità legislative intro-

dotte recentemente nel Regno Unito, soprattutto in virtù della necessità di adeguarsi agli

standards minimi europei, gli status di protezione internazionale siano difficili da con-

seguire e come la determinazione degli stessi sia troppo spesso influenzata dalle politi-

che del Governo inglese.

465 H. Lambert, “The Eu Asylum Qualification Directive, its Impact in the Jurisprudence of the UnitedKingdom and International Law”, cit., pagg. 162-163.466 HC 395, paragrafo 339Q(iv), introdotto dal mese di ottobre 2006 dal CM 6918. In proposito si vedaanche M. Symes e P Jorro, Asylum Law and Practice, op. cit., pag. 686.467 In proposito si veda la sezione delle APIs destinata all’istituto del “Discretionary Leave”.

172

4. Il sistema d’appello contro il diniego di protezion e internazionale

L’istituzione di un sistema di appello efficiente contro le decisioni amministrati-

ve in materia di asilo è molto importante per comprendere l’effettivo funzionamento, o

meno, della normativa britannica in tale settore. Non si può infatti non considerare come

gli organi giudiziari, in genere, ma quelli relativi all’asilo in particolare, occupino “una

difficile posizione nel mezzo tra i settori esecutivi e giudiziari all’interno del gover-

no”468. Tale continua tensione si riflette nel conflitto tra due possibili modelli di proce-

dure amministrative in materia di asilo: una basata su un modello di tipo burocratico,

l’altra su un modello di tipo legale. L’obbiettivo principale di un’eventuale procedura

basata sul modello burocratico sarebbe quello di avere un sistema amministrativo effi-

ciente, volto all’implementazione accurata delle politiche pubbliche, nel quale i singoli

casi sono rilevanti solo in quanto aiutano a conseguire gli obbiettivi del governo in ma-

teria di asilo. Come vedremo tale modello è quello strutturato ed adottato dal Ministero

dell’Interno britannico: “l’asilo è, infatti, un area molto importante all’interno della

politica pubblica e i governi ritengono un’elevata priorità il ricercare che tali politiche

siano amministrate in maniera efficiente” 469.

Purtroppo, la ricerca continua di questa presunta efficienza amministrativa, come

abbiamo visto e vedremo nel corso di questo lavoro, si scontra con la natura stessa

dell’istituto normativo dell’asilo, il cui obbiettivo principale dovrebbe essere quello di

tutelari i diritti fondamentali dell’individuo in quanto tale. Per questa ragione è necessa-

rio che i dinieghi di protezione internazionale emessi dall’autorità amministrativa pos-

sano essere soggetti ad un controllo “legale” da parte degli organi giudiziari di appello

e, se necessario, da parte delle corti di livello più alto470.

Il sistema d’appello contro i dinieghi di protezione internazionale era origina-

riamente costituito su due livelli: in primis l’eventuale appello veniva sottoposto, come

visto nei paragrafi precedenti, all’esame degli special adjudicators nominati dal Segre-

tario di Stato; successivamente contro tale decisione il richiedente poteva presentare ap-

pello solo ed esclusivamente all’Immigration Appeal Tribunal471. Abbiamo in parte già

468 R. Thomas, “Asylum Appeals: The Challenge of Asylum to The British Legal System”, in P. Shah,(ed.) The Challenge of Asylum to Legal Systems, cit., pag. 202.469 Ibidem.470 Ibidem, pag. 203.471 I.A.T. La sua istituzione fu prevista dall’Immigration Appeals Act del 1969, e poi attuata in concretodall’ Immigration Act del 1971.

173

visto come tale sistema a due soli livelli sia sorto e si sia evoluto in passato fino alla sua

definizione con l’Immigration and Asylum Act del 1999472. Negli anni la pressione eser-

citata sugli special adjudicators, affinchè esaminassero gli appelli in maniera sempre

più spedita ed efficiente, mise però in serie difficoltà il funzionamento di tale sistema.

L’ Immigration Appelate Authority aveva adottato un sistema d’appello definito

informalmente “1+1”, in base al quale gli adjudicators erano tenuti a svolgere l’udienza

di appello – generalmente per almeno tre casi al giorno – un giorno e a scrivere la loro

decisione in proposito il giorno seguente, in maniera tale che la stessa potesse essere re-

sa pubblica quasi immediatamente. Svolgere tale analisi in maniera rapida ma, allo stes-

so tempo, assicurandosi di prendere decisioni corrette e di esaminare le prove, spesso

con il necessario ausilio di un interprete, aveva comportato un’enorme pressione sugli

special adjudicators che alla lunga aveva iniziato a compromettere il loro lavoro473.

Non riuscendo, dunque, a rispettare le tempistiche troppo ristrette sopra descritte, il Di-

partimento per gli Affari Costituzionali e il Ministero dell’Interno, raggiunsero un ac-

cordo in base al quale l’obbiettivo da raggiungere era che “almeno il 65% degli appelli

venisse esaminato e deciso entro un periodo massimo di 12 settimane”474.

L’aspetto più contraddittorio dell’approccio sopra descritto risiedeva nel fatto

che pur essendo proprio il Ministero dell’Interno ad esercitare forti pressioni affinchè le

domande di protezione internazionale e i relativi appelli, venissero esaminate nel minor

tempo possibile, spesso anche a scapito della qualità dell’esame svolto, la maggior parte

dei ritardi nella procedura erano proprio dovute ad inefficienze burocratiche del Mini-

stero stesso.

Tale sistema è poi stato completamente innovato negli anni seguenti e viene ora

prevalentemente regolato dalla parte quinta del Nationality, Immigration and Asylum

Act del 2002 che, entrando in vigore il 1 aprile del 2003, ha interamente abrogato la

parte quarta dell’Immigration and Asylum Act del 1999.

Per un primo periodo, a carattere transitorio, il sistema a due livelli sopra de-

scritto è rimasto in essere, ma a partire dal 4 aprile 2005, lo stesso è stato sostituito da

un sistema ad un solo livello, costituito dalla possibilità di presentare appello contro la

decisione negativa amministrativa direttamente e soltanto, all’Asylum and Immigration

472 Si vedano i paragrafi 1 e 2 del presente capitolo.473 R. Thomas, op. cit., pag. 211.474 Department for Constitutional Affairs, Annual Report, 2003/4 (2004), pag. 43.

174

Tribunal, dotato di un organico specializzato esclusivamente nelle materie relative al

settore dell’immigrazione e dell’asilo475.

Il nuovo sistema d’appello è stato elaborato in maniera tale da garantire che tutti

i procedimenti siano affrontati nel modo più “ragionevole, efficiente e rapido” possibi-

le476.

La struttura gerarchica dell’A.I.T. era composta da un Presidente, generalmente

scelto fra i giudici della High Court, a cui riferivano due presidenti deputati477, ai quali

a loro volta facevano riferimento due livelli diversi, uno superiore ed un inferiore, di

giudici specializzati nelle materie relative all’immigrazione478. Se, fino al 2005, la pre-

sentazione di un appello basato su motivi di diritto poteva avvenire solo previa autoriz-

zazione in tal senso da parte dell’I.A.T.479, con l’abolizione dello stesso, viene istituita

la possibilità di presentare appelli, per motivi sia di merito che di diritto, direttamente

all’A.I.T.

Il N.I.A.A. del 2002 come successivamente modificato dal N.I.A.A. 2004, ha poi

introdotto una serie di tempi brevissimi e a carattere ordinatorio, per la presentazione

degli appelli. In particolare le Procedure Rules 2005, esplicative del N.I.A.A. 2004,

hanno stabilito che l’eventuale appello contro una decisione negativa del Ministero dell’

Interno deve essere presentato entro dieci giorni480 lavorativi dalla notifica della stessa;

oppure entro cinque giorni qualora il richiedente sia in stato di detenzione amministrati-

va ed entro un massimo di ventotto giorni qualora il richiedente sia già stato allontanato

dal Regno Unito481. L’appello, in seguito a tali modifiche doveva essere presentato di-

rettamente all’A.I.T. e non al Ministero dell’Interno. La struttura dell’atto di appello è

stata innovata ed è stato redatto un apposito formulario molto più dettagliato e preciso

del precedente. Qualora l’appello sia stato presentato fuori dai tempi prescritti, allo

stesso deve essere allegata una specifica richiesta volta a giustificare la tardività

475 N.I.A.A. 2002, sch 4 come modificato dal successivo Asylum and Immigration Treatment of Claim-ants 2004.476 Procedure Rules 2005, s. 4.477 NIAA 2002, sch 4, paragrafo 5.478 M. Shaw, op. cit., pag. 86-87.479 NIAA 2002, s. 101.480 Ogni riferimento ad un periodo di dieci giorni, o meno, riguarda giorni lavorativi. Ogni riferimento aperiodi superiori ai dieci giorni riguarda giorni di calendario. I giorni che non vengono considerati comelavorativi sono, secondo le Procedure Rules 2005, i sabati, le domeniche, Bank Holydays, il venerdì santoed il 25 e 31 dicembre.481 2005 Procedure Rules, r.4 e M. Shaw, op. cit., pag. 87.

175

dell’appello. In ogni caso l’A.I.T. ha il potere di prorogare i termini anche d’ufficio,

qualora ritenga vi siano fondate ragioni per farlo482.

Un volta notificato l’appello, ad opera dell’A.I.T., anche al Ministero

dell’Interno, lo stesso può presentare memorie e documenti difensivi. In seguito viene

fissata la prima udienza, chiamata Case Management Review, alla quale devono presen-

ziate tutte le parti in causa. A tale udienza presenzia normalmente un solo giudice e i

tempi di svolgimento della stessa si aggirano sui trenta minuti al massimo. Lo scopo

principale di tale udienza era ed è ancora quello che di decidere il tipo di rito da appli-

care e le modalità da seguire nello stesso.

Le ragioni per le quali un appello poteva, e può tuttora, essere presentato

all’A.I.T. come definite dal NIAA 2002 sezione 84(1), erano le seguenti: a) qualora la

decisione non sia stata presa in accordo con le Immigration Rules; b) qualora la decisio-

ne sia stata presa in maniera discriminatoria per motivi di razza secondo quanto previsto

dal Race Relations Act del 1976; c) qualora la decisione stata presa in violazione della

normativa prevista dallo Human Rights Act del 1998, sezione 6, e comporti una viola-

zione dei diritti umani dell’appellante; d) qualora l’appellante sia cittadino, o familiare

di un cittadino, di uno stato membro e la decisione violi la normativa comunitaria in

proposito; e) qualora la decisione sia per qualunque altro motivo stata presa in violazio-

ne di una legge del Regno Unito; f) qualora la persona che ha assunto la decisione

avrebbe potuto esercitare in maniera differente il potere discrezionale concessogli

dall’Immigration Rules; g) qualora l’espulsione dell’appellante dal Regno Unito, quale

conseguenza di una decisione in materia di immigrazione comporterebbe una violazione

delle obbligazioni della Convezione di Ginevra e sarebbe in contrasto con quanto previ-

sto dallo Human Rights Act 1998, sezione 8, causando una violazione dei diritti umani

dell’appellante stesso483 . Pur non essendoci una previsione esplicita di appello contro il

diniego della protezione umanitaria, l’A.I.T. nella prassi include l’appello contro tali di-

nieghi tra quelli genericamente catalogati per violazione dei diritti umani.

La possibilità di presentare un appello all’interno del paese, in base a quanto sta-

bilito dalla sezione 92 del NIAA 2002, riguarda i soli appelli contro le decisioni in ma-

teria di immigrazione prese in seguito al diniego di una domanda di asilo. Ci sono però

alcune importanti eccezioni a tale diritto.

482 Ibidem, pag. 88.

176

La prima di queste si ha qualora la domanda di protezione internazionale pre-

sentata dall’asilante sia stata “certificata” dal Segretario di Stato, come manifestamente

infondata484. Tale tipo di certificazione485 crea non pochi problemi al richiedente asilo

stante che “il vero aspetto draconiano di tale tipo di certificazione è che l’asilante non

ha diritto ad un appello con efficacia sospensiva, contro una decisione negativa in ma-

teria di immigrazione, nonostante si trovi già nel Regno Unito”486. Ciò comporta che

l’asilante può essere espulso immediatamente dal territorio britannico e che il suo

eventuale appello dovrà essere presentato mentre questi si trova all’estero. Inutile dire

come la presentazione di un appello da un paese estero, soprattutto in un paese dove il

richiedente teme di essere perseguitato svuoti sostanzialmente tale diritto delle sue pre-

rogative principali, rendendolo privo di valore487. La giurisprudenza ha poi chiarito che

per manifestamente infondato si debba intendere “destinato a fallire”488 o, addirittura,

che il caso è “indifendibile” 489. Stante la gravità delle conseguenze di tale previsione

normativa, le corti hanno sempre richiesto un elevato grado di certezza al Segretario di

Stato, onde non contestare la legittimità di tali certificazioni. Il Segretario di Stato dovrà

sempre valutare se la domanda di protezione internazionale era credibile nel suo com-

plesso o almeno in alcune sue parti, tenendo come riferimento le previsioni della Con-

venzione di Ginevra. È stato infatti affermato che l’interrogativo in merito alla manife-

sta infondatezza della domanda di protezione internazionale può avere “una sola rispo-

sta razionale. Se un solo ragionevole dubbio che la domanda possa avere un esito posi-

tivo esiste, allora la stessa non può essere manifestamente infondata”490. Purtroppo non

è possibile sapere quale sia l’incidenza precisa dell’uso di tale istituto, poiché nelle sta-

tistiche in materia di asilo lo stesso non viene differenziato dagli altri tipi di diniego.

È rimasto poi l’istituto della certificazione per manifesta infondatezza, a priori,

delle domande d’asilo provenienti dai paesi terzi considerati astrattamente sicuri, già il-

lustrato nei paragrafi precedenti, sempre caratterizzato dall’efficacia non sospensiva nei

483 NIAA 2002, sezione 84 (2).484 In inglese l’espressione è “clearly unfounded”.485 NIAA 2002, sezione 94 (1) e 94 (2).486 M. Symes e P. Jorro, op. cit. pag 697.487 G. Clayton, op. cit., pag. 424-425.488 L’espressione inglese usata è in questo caso “bound to fail” in R. v Secretary of State for the HomeDepartment, ex p Thangasara and Yogathas, 2002, UKHL 36.489L’espressione inglese è “the case is unarguable” in R, (on the application of Razgar) v Secretary ofState for the Home Department, 2003 EWCA civ. 840.490 Lord Philips, in ZT (Kosovo) v SSHD, 2009, UKHL 6, cit. in G. Clayton, op.cit., pag. 424.

177

confronti di un’eventuale espulsione e dalla conseguente necessità di presentare appello

all’estero in seguito all’esecuzione coattiva della stessa. Il criterio per identificare un

paese, o parte di esso, come sicuro rimane quello generale per cui nello stesso non si ri-

scontra un “serio rischio di subire una persecuzione” 491. La novità rispetto al passato, -

introdotta dall’Asylum Procedures Regulations 2007, SI, 2007/3187, normativa interna

di recepimento della Direttiva 2005/85/EC - , si sostanzia nel fatto che il Segretario di

Stato per emettere tale certificazione deve ora : a) considerare tutte le circostanze relati-

ve a tale Stato o a parti di esso, incluse le sue leggi e come le stesse vengono applicate e

b) deve considerare ogni tipo di informazione che si può acquisire, comprese anche

quelle fornite da altri Stati o da organismi non governativi. Non solo ma in applicazione

della Direttiva citata, la giurisprudenza è andata oltre, stabilendo una serie di criteri da

applicarsi al fine di certificare un caso come manifestamente infondato. In ZL e VL v

SSHD and Lord Chancellor’s Department492, la Corte d’Appello statuendo sul processo

da seguire per giungere a tale certificazione ha infatti affermato che bisogna prima con-

siderare la sostanza fattuale della domanda e i suoi dettagli, poi come la stessa si colloca

all’interno dei dati di background in possesso della corte, procedendo infine a valutare

se la domanda nel suo complesso, o almeno una parte di essa, possa essere ritenuta cre-

dibile e da ultimo, se la parte ritenuta credibile possa rientrare nelle previsioni della

convenzione di Ginevra. La conclusione emersa da tale pronuncia è dunque che non vi

sia modo di ritenere un paese terzo astrattamente sicuro, se non seguendo tale tipo parti-

colare di ragionamento493.

Allo stato attuale i paesi considerati sicuri secondo gli Asylum Designated States

Orders in vigore sono l’Albania, la Jamaica, la Macedonia, la Moldavia, la Bolivia, il

Brasile, l’Ecuador, il sud Africa, l’Ucraina494, nonché l’India495, la Mongolia496, la Bo-

snia-Herzegovina, le Mauritius il Montenegro la Serbia e il Perù497.

Il NIAA 2004, ha poi introdotto un potere ulteriore per il Segretario di Stato in

materia di certificazione dei paesi terzi sicuri. Lo stesso può infatti ora ritenere uno stato

491 NIAA 2002, sezione 94 (5).492 ZL e VL v SSHD and Lord Chancellor’s Department, 2003, 1 All ER 1062.493 C. Costello, “The Asylum Procedures Directive and the Proliferation of Safe Country Practices: Deter-rence, Deflection and the Dismantling of International Protection?”, European Journal of Migration andLaw, vol.7, n.1, March 2005 pagg. 35-70.494 Asylum Designated States Order 2003, SI 2003/1919.495 Asylum Designated States Order 2005, SI 2005/330.496 Asylum Designated States Order SI 2005/3306.

178

sicuro con riferimento ad un particolare gruppo di persone498. Tale potere è stato usato

alcune volte nel 2005, per designare come sicuri solo per gli uomini, in maniera gene-

rale, il Ghana e la Nigeria e di nuovo nel 2007, sempre con riferimento agli uomini il

Gambia, il Kenya, la Liberia , il Malawi, il Mali e la Sierra Leone499.

Sempre dal NIAA 2002 sono previsti alcuni limiti alla diritto di presentare ap-

pello, per motivi di sicurezza nazionale, per la sicurezza delle relazioni tra il Regno

Unito e un altro stato ed in ogni caso per motivi relativi al pubblico interesse500. In tutti

e tre i casi, è il Segretario di Stato in persona che emette una “certificazione” volta a li-

mitare il diritto di appello del cittadino straniero. In tal caso, contro la certificazione, è

possibile presentare un appello a carattere speciale presso la Special Immigration Ap-

peals Commission501.

In parallelo con l’istituzione degli appelli non sospensivi degli effetti

dell’espulsione, a partire dal 2000, per le domande considerate in prima battuta manife-

stamente infondate, è stata implementata una politica volta a detenere il maggior nume-

ro possibile di asilanti, ritenendo probabile che in tali casi, la loro domanda potesse es-

sere decisa rapidamente. Tale politica venne implementata attraverso la c.d. fast truck

procedure, già presente in passato ma ora affinata. Alcuni centri di detenzione, rinomi-

nati centri di espulsione, furono espressamente designati per il trattenimento dei richie-

denti inseriti nella fast truck procedure. Nel 2003 è stato istituito un nuovo sistema fast

truck, sulla base del principio che tutta la procedura, dalla domanda amministrativa

all’esito dell’appello, dovesse essere portata a termine in un periodo massimo di due

settimane, durante le quali l’asilante rimaneva in detenzione502. Fino al 2008, la fast

track procedure veniva applicata soprattutto ai richiedenti asilo provenienti da determi-

nati paesi specificatamente identificati dal Ministero dell’Interno. La lista veniva modi-

ficata spesso ma la sua istituzione è poi stata abrogata, e rimpiazzata dalla presunzione

che “la maggioranza delle domande di asilo sono di quelle in cui una decisione può es-

497 Asylum Designated States Order SI 2007/2221.498 NIAA 2004, sezione 27(5), il quale ha modificato NIAA 2002, sezione 94 (5A).499 G. Clayton, op. cit., pag. 426.500 NIAA 2002, sezione 97.501 Special Immigration Appeals Commission Act del 1997, come modificato dal NIAA 2002 edall’Immigration, Asylum and Nationality Act del 2006. In proposito si veda R. McKee, “The Immigra-tion, Asylum and Nationality Act 2006 (and other developments)”, Immigration, Asylum and NationalityLaw, vol. 20, numero 2, 2006, pagg. 81-90.

179

sere presa rapidamente, a meno che non vi siano prove specifiche che suggeriscano di

agire diversamente” 503, e a meno che l’asilante non rientri in una categoria di individui

vulnerabili504. Attualmente in una fast truck procedure, la domanda viene analizzata e

decisa in massimo tre giorni. L’appello deve essere presentato nei due giorni successiva

la comunicazione della decisione negativa e comunicato alla controparte entro tre gior-

ni. La stessa ha poi altri due giorni per costituirsi. L’udienza di appello viene fissata due

giorni dopo la scadenza del termine di costituzione avversaria. La presenza di un legale

non è sempre garantita505.

Numerose critiche sono state mosse a tale procedura; in particolare il B.I.D., nel

2006506, ha rimarcato come: il 77% dei detenuti non avesse accesso all’assistenza legale

gratuita durante le proprie udienze in appello, non vi fosse tempo sufficiente per prepa-

rare i casi, le domande relative a torture subite venivano registrate ma non approfondite

sufficientemente, i detenuti non sapevano perché erano stati inseriti nella fast truck pro-

cedure e cosa ciò comportasse, ben oltre due mesi dopo la prima udienza un terzo dei

detenuti era ancora in detenzione.

In concreto la fast truck procedure è una procedura amministrativa istituita dal

Ministero dell’Interno senza alcuna base giuridica, infatti, come è stato osservato, “non

vi è alcuna differenza tra gli asilanti rinchiusi nel centro di detenzione di Har-

mondsworth o presenti altrove, se non che il Ministero dell’Interno ha deciso che i casi

di Harmondsworth possono essere processati più rapidamente degli altri”507.

Stante la rapidità con cui vengono esaminate le domande di protezione interna-

zionale e i relativi appelli, vi è da chiedersi a che punto l’analisi della situazione specifi-

ca di un richiedente asilo si debba effettivamente fermare. Ovvero, come si debba com-

portare il governo britannico, qualora la situazione di un richiedente asilo muti, perché

mutano le condizioni nel paese di origine, dopo che lo stesso abbia già presentato e per-

so il proprio appello contro il diniego amministrativo di protezione internazionale. La

difficoltà maggiore nel procedere ad una nuova analisi della domanda, in presenza di

502 National Audit Office, Improving the Speed and Quality of Asylum Decisions, rapporto del Comptrol-ler and Auditor General HC 535 Session 2003-2004, giugno 2004,http://www.nao.org.uk/whats_new/0304/0304535.aspx?alreadysearchfor=yes.503 APGs paragrafo 2.2.2.504 Donne incinte, malati mentali e nuclei famigliari composti anche da minori.505 Immigration and Asylum Appeal Rules 2005, SI 2005/560, fast truck procedure.506 Bail For Immigration Detainees, Working against the Clock: Inadequacy and Injustice in the FastTruck System, 2006 www.biduk.org/download.php?id=16 .

180

eventuali nuove prove, consiste nel fatto che, una volta esaurito il sistema d’appello so-

pra descritto all’A.I.T., gli altri eventuali appelli che possono essere presentati devono

essere tutti basati su motivi di diritto e non più su motivi di fatto, mentre il mutare delle

circostanze e l’introduzione di nuove prove attiene strettamente alla parte fattuale e con-

creta della domanda. Tale problematica è dunque stata affrontata con l’introduzione

dell’istituto c.d. del fresh claim508. Secondo quanto stabilito dalle Immigration Rules pa-

ragrafo 353, infatti, un fresh claim, può essere presentato qualora vengano presentati dei

nuovi elementi a sostegno della domanda, significativamente diversi dal materiale pro-

dotto la prima volta. In particolare i nuovi elementi per essere considerati significativa-

mente rilevanti devono: “a) possedere un contenuto che in alcun modo è stato conside-

rato precedentemente; b) considerati in unione con il materiale precedentemente consi-

derato creano una realistica possibilità di successo, nonostante il precedente rigetto509.

Stante i lunghi periodi di tempo che, nonostante l’almeno apparente volontà del

governo britannico di svolgere le procedure rapidamente, la maggior parte degli asilanti

trascorre nel Regno Unito, la possibilità di presentare un fresh claim, in caso di mutate

condizioni di fatto, è di notevole rilevanza510.

In alcuni casi il Ministero dell’Interno stesso, modificando le proprie linee guida

in merito ad uno specifico paese, ha aperto la possibilità ai richiedenti asilo di presenta-

re una serie di fresh claim in modo massivo.

Il sistema d’appello sopra descritto è poi stato nuovamente modificato a partire

dal 2007. Infatti, il Tribunals, Courts and Enforcement Act del 2007, ha creato una sola

struttura unificata per raggruppare i tribunali delle diverse materie. L’A.I.T. è dunque

stato abolito, e le sue funzioni incorporate in un nuovo Tribunale, istituito attraverso il

Transfer of Functions Asylum and Immigration Tribunal Order 2010, S1 2010/21 in vi-

gore dal 15 febbraio 2010. Il nuovo sistema è strutturato su due livelli, il First Tier e

l’Upper Tribunal, entrambi dotati di un Immigration and Asylum Chamber. I giudice

dell’A.I.T. sono stati trasferiti al First Tier. Gli appelli all’Upper Tribunal possono esse-

507 J. Farbey, 2004 citata in G. Clayton, op.cit. pag. 431.508 Letteralmente “nuova domanda”.509 Immigration Rules, paragrafo 353.510 Già nel 1996, la Corte di appello con la sentenza Onibiyo v Secretary of State for the Home Depart-ment, 1996, qb 768, All ER 906, aveva evidenziato la necessità per presentare un fresh claim, chel’applicante dovesse produrre elementi nuovi i quali la prima volta non aveva potuto addurre non per suacolpa e tali da modificare sostanzialmente le condizioni fattuali alla base della propria richiesta di prote-zione internazionale.

181

re presentati solo per motivi di diritto e lo stesso può decidere il caso sia nel merito che

rimettendolo al First Tier perché riveda la sua decisione iniziale511. Se l’Upper Tribu-

nale rifiuta l’appello, ritenendolo infondato, tale decisione diventa inappellabile512.

La creazione del nuovo sistema ha consentito di rivedere le procedure e le regole

che gestivano il funzionamento dell’A.I.T., anche se in concreto la base del funziona-

mento delle neo formate corti in materia di asilo ed immigrazione rimane ancora

l’Asylum and Immigration Procedure Rules 2005, SI 2005/230 sopra descritto, poi inte-

grato dal Tribunale Procedure Rules 2008. Il nuovo rito prevede che il richiedente pre-

senti il proprio appello al First Tier e che lo stesso ne dia comunicazione al Ministero

dell’Interno, sempre in un’ottica volta a velocizzare tutto il procedimento.

Le funzioni dell’Asylum Chamber al First Tier sono sostanzialmente le stesse ri-

coperte in precedenza dall’A.I.T. L’Upper Tribunal è invece una corte di livello supe-

riore, già considerata l’alter ego della Corte Suprema nella materia di asilo.513

Per quanto riguarda le tempistiche e le procedure relative all’appello le stesse

sono rimaste sostanzialmente invariate514.

Il sistema di appello britannico, come sopra illustrato, è molto complesso e arti-

colato. Risulta però evidente, dall’analisi svolta, come lo stesso sia sempre stato svilup-

pato per ottenere risultati “amministrativamente efficienti” e in accordo con le politiche

del governo britannico in materia di immigrazione, più che per garantire il rispetto delle

obbligazioni internazionali in materia d’asilo e, in generale, per offrire una protezione

concreta ai richiedenti asilo in fuga dal proprio paese.

5. L’applicazione concreta della normativa: alcune sentenze

Abbiamo visto, nel corso di questo capitolo, il tormentato itinerario che la disci-

plina del diritto d’asilo ha percorso nel Regno Unito nonché alcuni risultati a cui ha

portato nella prassi quotidiana. Per completare questa analisi ed offrire una visione

d’insieme di tutte le varie problematiche, ritengo importante compiere una breve pano-

ramica di alcune pronunce giurisdizionali in tema d’“asilo” e di “rifugio”, onde illustra-

511 T.C.E.A., sez. 12.512 T.C.E.A., sez. 13 (8).513 Cart e Ors v The Upper Tribunal e Ors (2009), EWHC 3052 (ADMIN).514 Per un approfondimento del tema si veda R. Carnwath, “Tribunale Justice – A New Start”, PubblicLaw, January 2009, pagg. 48-69 e anche R. Buxton, “Application of Section 13(6) of the Tribunals Courts

182

re i riflessi che le incompletezze, le lacune e le contraddizioni di questa disciplina hanno

comportato.

Abbiamo visto, da principio, come raggiungere il Regno Unito e presentare do-

manda di protezione internazionale rimanendo nell’ambito della legalità non solo non

sia semplice ma sia sostanzialmente impossibile. Si veda in proposito Yassine v SSHD,

Imm AR 345-259, là dove statuisce:

“L’effetto del Carriers’Liability Act 1987 in combinato con l’azione portata

avanti dal Segretario di Stato nel presente caso, è quello di creare degli

ostacoli sostanziali sul cammino dei rifugiati che desiderano arrivare in

questo paese. Questo avviene perché: 1.I visti nazionali richiedono (per es-

sere concessi ndr) un passaporto; 2.Non si può ottenere un visto in un paese

in cui si è perseguitati, perché in quello momento il richiedente non è anco-

ra fuori dal suo paese di origine e come tale non ricade nella nozione di ri-

fugiato né vi è alcuna norma in proposito nelle Immigration Rules; 3. In

applicazione del Act del 1987, i vettori sono disincentivati dal trasportare

coloro che sono senza visto”515.

Abbiamo anche visto come la normativa britannica abbia sempre cercato di smi-

nuire, attraverso indici presuntivi, la credibilità del richiedente protezione internazionale

al fine di rigettarne la domanda. Nel caso Chiver il tribunale affermò che lo special

adjudicator aveva sottolineato le incoerenze nella storia del richiedente con il solo ob-

biettivo di:

“elencare i fatti che erano contrari al caso del richiedente e che gli

stessi però non modificavano il nocciolo della sua storia. Lo stesso ha dun-

que adottato l’approccio diffuso tra gli special adjudicators di soppesare le

prove prodotte e indicare quali riteneva attendibili e quali no”516.

Nella stessa sentenza il Tribunale però rilevò anche come ci possano essere nu-

merose e comprensibili ragioni per le quali i richiedenti asilo esagerano le loro storie e

and Enforcement Act 2009 to Immigration Appeals from the Proposed Upper Tribunal”, Judicial Review,Vol. 14, n. 3, 2009 pagg.225-227515 Yassine v SSHD, Imm AR 345 at 359.516 Chiver, (10758), del 24 marzo 1994.

183

non dicono sempre il vero, ma che ciò non può comportare automaticamente che la loro

domanda di protezione internazionale venga ritenuta non fondata517.

Sempre in materia di credibilità del richiedente si veda, anche, HD V SSHD, do-

ve il tribunale aveva rilevato come, pur essendo i fatti descritti dall’asilante “inusuali e

particolari”, non vi erano contraddizioni nel racconto del richiedente e le prove portate

a sostegno dello stesso erano risultate attendibili, tanto che lo stesso aveva poi affermato

:

“Un livello di probabilità inerente, che può essere utile (da ricercare

ndr) nei casi nazionali, può essere un fattore molto difficile, se non addirit-

tura inappropriato da valutare nei casi di asilo. La maggior parte delle

prove, infatti, sono riferibili a società con costumi ed abitudini che sono

molto differenti da quelle delle quali gli esaminatori dei casi in tribunale

hanno avuto alcuna esperienza. Anzi è assolutamente plausibile che il paese

che il richiedente asilo ha lasciato possa soffrire di una serie di problemi

con i quali la maggior parte dei residenti di questo paese non ha alcuna fa-

miliarità” 518.

In merito ai criteri di valutazione della credibilità del richiedente abbiamo visto

la rilevanza dell’applicazione di quanto previsto dalla sezione 8, del NIAA 2004, e co-

me la stessa si ha stata ampliamente criticata. Tra le molte pronunce si segnala la sen-

tenza JT (Cameroon) v SSHD, nella quale si legge :

“ La sezione 8 può a mio parere essere interpretata in maniera tale

da non essere contraria ai principi costituzionali. Non è, infatti, niente di

più di un richiamo per i tribunali (sul fatto ndr) che alcuni comportamenti

rientranti nelle categorie previste dalla sezione 8, debbano essere conside-

rati al fine di valutare la credibilità del richiedente. Se vi è stato un orien-

tamento del tribunale volto a ignorare tali indici nel determinare la credi-

bilità dell’asilante, esso era sbagliato. Infatti è necessario considerarli. In

ogni caso, vi possono essere casi in cui le condotte del tipo descritto dalla

sezione 8 possono non avere alcun peso in merito alla credibilità generale

517 G. Clayton, op. cit., pag. 433.

184

di specifici fatti. (…) Nei casi in cui la sezione 8 è suscettibile di avere del

peso, il peso che effettivamente deve essere ricollegato a tale comporta-

mento è interamente un problema di colui che analizza i fatti”519.

Nella famosa pronuncia R v. SSHD ex p. Sivakumaran, al fine di decidere il caso

se sei richiedenti asilo srilankesi, di etnia Tamil, avessero o meno un fondato timore di

subire persecuzioni nel proprio paese di origine a causa della propria etnia, è stato af-

fermato che:

“Nella nostra opinione il requisito che il timore del richiedente debba esse-

re ben fondato significa che egli deve dimostrare con ragionevole verosimi-

glianza che correrebbe il rischio di essere perseguitato per una delle ragio-

ni previste dalla Convenzione di Ginevra se fosse rinviato nel proprio paese

di origine. (…) My Lords, perché il timore di essere perseguitati possa con-

siderarsi ben fondato deve esistere un pericolo per il richiedente lo status di

rifugiato che lo stesso, rinviato nel proprio paese di origine, andrà incontro

a persecuzione certa. La Convenzione non consente al richiedente di deci-

dere se la persecuzione esiste o meno.”520

Tale sentenza ha, dunque, affermato per la prima volta come l’onere della prova

per i richiedenti asilo debba essere considerato ridotto, rispetto al normale approccio ci-

vilistico e come lo stesso debba essere valutato sulla base del requisito della

“ ragionevole verosimiglianza”. Di orientamento simile anche la pronuncia Asuming v.

SSHD che ha ribadito:

“I casi relativi all’asilo si differenziano notevolmente dalla maggior

parte degli altri casi per la serietà delle conseguenze nel futuro di una deci-

sione erronea e per le inerenti difficoltà ad ottenere prove oggettive.”521

Abbiamo anche analizzato, nei paragrafi precedenti, i problemi creati dalle

certificazioni del Ministero dell’Interno, in materia di espulsione dei richiedenti

asilo verso paesi considerati astrattamente sicuri. In particolare con riferimento

alla presunta sicurezza degli Stati membri della Comunità Europea nonché alla lo-

518 HK v SSHD, (2006), EWCA civ 1037.519 JT (Cameroon) v SSHD, (2008) EWCA, civ 878, paragrafo 21.520 R v. SSHD ex p. Sivakumaran, 1 AC 958, HL, 1988.

185

ro applicazione della Convenzione di Ginevra, con riferimento alla Germania, in

R. v SSHD ex p. Adan, Lord Slynn ha affermato:

“La domanda non è se il Segretario di Stato ritenga che

l’interpretazione alternativa (della Convenzione praticata dalla Germania

ndr) sia ragionevole, tollerabile, legittima oppure discutibile, ma se il Se-

gretario di Stato sia soddisfatto che l’applicazione data all’interpretazione

della Convenzione dall’altro stato possa significare che l’individuo non sa-

rà respinto, se non in accordo con quanto previsto dalla Convenzione stes-

sa. Il Segretario di Stato deve formare il proprio punto di vista in base a ciò

che è richiesto dalla Convenzione.”522

Da sottolineare l’importanza della pronuncia Horvath v SSHD, su un appello

presentato da un cittadino slovacco di etnia Rom, il quale aveva dichiarato di essere

stato perseguitato a lungo da gruppi di skinheads nel proprio paese e aveva lamentato

che la polizia slovacca non era stata, in alcun modo, in grado di offrirgli una protezione

soddisfacente. L’appello del sig. Horvath fu rigettato sulla base del fatto che, sebbene lo

stesso avesse dimostrato di avere un fondato timore di essere perseguitato ai sensi della

Convenzione di Ginevra, non era stato in grado di dimostrare che lo Stato slovacco ave-

va fallito i proprio obblighi di protezione:

“L’interpretazione della parola persecuzione comporta un falli-

mento dello stato nel rendere inaccessibile la propria protezione contro ag-

gressioni e violenze che la persona soffre a causa dei suoi persecutori”523.

Abbiamo anche visto come il Regno Unito abbia sempre considerato rilevante la

possibilità di ricollocare i richiedenti asilo in un’area del paese di origine ritenuta sicura.

In proposito si veda la pronuncia Januzi, Hamid, Gaafar and Mohammed v SSHD, nella

quale il tribunale in applicazione delle linee guida dell’UNHCR sul tema ha stabilito

che :

“ la ricollocazione dei richiedenti asilo, richiede, da una prospettiva

pratica una valutazione sul fatto che i diritti che non potrebbero essere ri-

spettati e protetti siano, o meno, diritti fondamentali dell’individuo, e se la

521 Asuming v SSHD, (11530) del 11 novembre 1994.522 R. v SSHD ex p. Adan,(1998) INLR, 325 HL, in C. Harvey, “Judging Asylum”, in P. Shah (a cura di),The Challenge of Asylum to Legal Systems, op. cit., p. 180.

186

deprivazione di tali diritti potrebbe essere sufficientemente dolorosa da

rendere la ricollocazione in tale area irragionevole” 524.

In materia di domanda di protezione internazionale motivata da attività svolte

dal richiedente asilo dopo aver lasciato il proprio paese si ricorda la già citata pronuncia

Danian del 09 giugno 1998, nella quale il Tribunale, respingendo l’appello del sig. Da-

nian, nonostante il parere favorevole dell’UNHCR, ha affermato anche che:

“bisogna sempre tenere presente che l’esercizio di attività opportu-

nistiche in seguito alla propri fuga dal paese di origine non crea necessa-

riamente un rischio reale di persecuzione nel paese di origine del richie-

dente sia perché spesso tali attività non vengono neppure notate dalle auto-

rità di tale paese, sia perché la loro natura opportunistica in alcuni casi ri-

sulta evidente a tutti, incluse le autorità in questione”525.

Abbiamo già visto nel paragrafo precedente come nella pronuncia ZL e VL v

SSHD and Lord Chancellor’s Department la Corte d’Appello abbia fornito linee guida

per la “classificazione” di un caso come manifestamente infondato, ma per meglio com-

prendere quanto sopra accennato, ritengo sia utile il seguente passaggio:

“Il test da effettuare è un test oggettivo: non dipende dal punto di vi-

sta del Segretario di Stato ma da un criterio che un tribunale possa facil-

mente ri applicare, una volta che sia in possesso dello stesso materiale in

possesso del Segretario di Stato. Una domanda di protezione internazionale

o è chiaramente infondata o non lo è. (…) Se in almeno una visione legitti-

ma dei fatti o del diritto posti alla base della domanda la domanda potrebbe

essere valutata positivamente, la stessa non può essere manifestamente in-

fondata. Se tale punto si raggiunge, l’ufficiale che deve decidere non può

concludere diversamente. Lui o lei, dovranno per definizione essersi con-

vinti che la domanda non è manifestamente infondata” 526.

I Tribunali britannici si sono pronunciati più volte, per definire esattamente

l’istituto del c.d. fresh claim. In particolare, fin dal 1996 con la pronuncia Onibiyo, poi

523 Horvath v SSHD, (2000), 1 AC 489 (HL).524 Januzi, Hamid, Gaafar and Mohammed v SSHD, (2006), UKHL 5 paragrafo 20.525 Danian v SSHD, (16494) del 9 giugno 1998.526 ZL e VL v SSHD and Lord Chancellor’s Department, (2003), EWCA, civ. 25.

187

confermata da numerose pronunce successive527, la Corte di Appello inglese, ha statuito

che l’avere già ottenuto un primo diniego di protezione internazionale non di per sé un

impedimento alla presentazione di una nuova domanda poiché:

“La vera verifica deve sempre essere se, paragonando la nuova do-

manda con la precedente già rifiutata e escludendo il materiale sul quale il

richiedente avrebbe ragionevolmente potuto contare nella domanda prece-

dente, la nuovo domanda è sufficientemente diversa dalla precedente da far

ammettere che in una prospettiva realistica potrà esservi una visione più fa-

vorevole della nuova domanda nonostante la negativa conclusione della

precedente”528.

Come già specificato nel paragrafo precedente dunque, qualora il fresh claim si

basi su nuove prove, le stesse devono superare il test della “precedente indisponibilità,

nuova rilevanza e credibilità”529.

I tribunali inglesi si sono anche pronunciati in merito alla legittimità, o meno,

delle liste dei paesi sicuri, di volta in volta emanate dal Ministero dell’Interno. In parti-

colare con la sentenza Nasseri, la House of Lords, ha chiarito che la presunzione asso-

luta per la quale i richiedenti asilo espulsi verso un determinato paese non correrebbero

astrattamente il rischio di essere inviati verso un terzo paese, in cui la loro vita potrebbe

essere in pericolo530, non si pone necessariamente in contrasto con il divieto di tratta-

menti inumani e degradanti stabilito dall’art. 3 della CEDU. Il caso riguardava un citta-

dino afgano che aveva contestato la legittimità della decisione presa dal Ministero

dell’Interno, di inviarlo in Grecia in applicazione della Convenzione di Dublino, quale

primo paese nel quale il sig. Nasseri avrebbe potuto chiedere asilo. La difesa del sig.

Nasseri contestava che un diritto all’asilo fosse effettivamente garantito in Grecia e

sottolineava il suo timore che l’asilante avrebbe potuto essere rispedito verso il paese

d’origine dove correva il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti

secondo quanto stabilito dall’art. 3 della CEDU. La Camera dei Lords, ritenne tuttavia

che il diritto greco si fosse negli ultimi anni evoluto, in applicazione della normativa

comunitaria e che, in ogni caso, la responsabilità di un eventuale violazione del princi-

527 Tra le altre R v SSHD, ex p Senkoy Department (2001) EWCA Civ 328, R v SSHD ex p Kabala (1999)Imm AR 176, MA (Fresh Evidence) Sri Lanka, (2004) UKAIT 00161, paragrafi 61-62.528 Onibiyo v SSHD, (1996) QB 768.529 Ladd v Marshall, (1954) 3 All er 745 come utilizzata in R v SHHD, ex p. Onibiyo, (1996) QB 768.530 NIAA 2004, Sch, 3 paragrafo 3(2)

188

pio di non refoulment da parte della Grecia dovesse essere affrontata davanti alla Corte

Europea per i Diritti dell’Uomo, chiamando in causa le autorità greche ma che nessuna

accusa poteva in tal caso essere mossa al governo britannico531.

Abbiamo anche visto come nonostante lo sviluppo della normativa britannica

sull’asilo sia stata improntata prevalentemente sulla necessità di esaminare le domande

in maniera rapida ed efficace i risultati nella pratica siano stati spesso diversi. Nel caso

Shala, per la decisione del quale il Ministero dell’Interno ha impiegato ben quattro anni,

il tribunale in sede di appello ha commentato:

“Le procedure avrebbero dovuto durare al massimo alcuni mesi

mentre senza nessuna colpa del richiedente, il Ministero dell’Interno ha im-

piegato molti anni”532.

Le pronunce citate sono tra le più note agli esperti del settore e lungi dall’offrire

un quadro esaustivo della giurisprudenza del settore, consentono però di rilevare come,

nonostante la profusione di leggi, regolamenti e atti emanati negli ultimi anni per rego-

lare la materia dell’asilo e del rifugio, tale campo sia ancora molto nebuloso e soggetto

alle variazioni politiche all’interno del Regno Unito.

Non solo, ma spesso sullo stesso punto i diversi tribunali britannici hanno opi-

nioni di molto differenti e la definizione di un concetto in maniera uniforme può arriva-

re a richiedere anni. Non si può dunque non guardare con occhio critico la normativa

esaminata la quale ancora una volta sembra strutturato su obbiettivi differenti rispetto a

quelli che dovrebbero essere posti alla base del diritto al riconoscimento dello status di

rifugiato o di altra forma di protezione internazionale.

531 R (Nasseri) v SSHD, (2009) UKHL 23, in M. Symes e P. Jorro, op. cit., pag. 792.532 Shala v SSHD, (2003), INLR 349.

189

CAPITOLO V- METODOLOGIA E IPOTESI

L’obbiettivo di questa ricerca è, come meglio specificato nell’introduzione,

quello di comprendere, da un lato attraverso l’esame della normativa internazionale e

nazionale, con particolare riferimento all’esperienza italiana e britannica, dall’altro at-

traverso l’osservazione empirica di un caso concreto, ovvero l’esperienza dei richie-

dente asilo provenienti dal Darfur, il funzionamento o meno nella pratica, della norma-

tiva vigente in materia di asilo e rifugio.

Nel corso dell’analisi della normativa internazionale e delle due legislazioni in-

glese e italiana in materia d’asilo, sopra svolta, sono stati illustrati moltissimi punti.

Tuttavia l’obbiettivo principale dell’analisi è stato quello di mostrare come sia nel si-

stema internazionale sia in quelli nazionali italiani e britannici, e nella loro applicazione

pratica, vi siano sostanzialmente delle carenze normative e delle contraddizioni che ren-

dono difficile, e a volte impossibile, garantire una protezione effettiva ai richiedenti

asilo. Mi sono poi interrogata sulla natura di queste lacune e contraddizioni, le quali

sembrano dovute più che altro ad una precisa volontà politica degli stati di chiudere le

proprie frontiere tramite legislazioni sempre più severe e di utilizzare, di conseguenza,

la normativa sull’asilo come strumento di gestione dei flussi migratori, più che a rag-

giungere quello che dovrebbe essere lo scopo principale di tale normativa, ovvero la ga-

ranzia che i diritti fondamentali dell’individuo in quanto tale, quand’anche violati dallo

stato di appartenenza, verranno tutelati dalla comunità internazionale. Non ci si può

quindi non chiedere quale sia l’effettiva funzione del diritto d’asilo oggi e quali le moti-

vazioni alla base delle sue modifiche ed evoluzioni.

Nei capitoli precedenti, onde evidenziare tali lacune e mancanze mi sono servita

non solo di una critica attenta alla normativa in vigore, ma anche di un esame della giu-

risprudenza volto a certificare le contraddizioni intrinseche ai due sistemi normativi os-

servati. Ho anche fatto uso delle testimonianze e dei rapporti di numerose organizzazio-

ni e associazioni non governative che mi hanno permesso di individuare i nodi più spi-

golosi della norma concretamente applicata e di inquadrare la situazione dei rifugiati in

Italia e in Inghilterra, da un punto di vista più generale.

Nei prossimi capitoli, invece, mi concentrerò specificamente sulla situazione dei

richiedenti asilo e dei rifugiati, (a seconda dell’obbiettivo raggiunto o meno dalla loro

domanda di protezione internazionale al momento dell’intervista), sudanesi provenienti

190

dalla regione del Darfur. Per meglio comprendere questo caso specifico svolgerò prima

un analisi storico politica del conflitto in Darfur, dalla quale emergerà come la popola-

zione di profughi in fuga dallo stesso sia astrattamente idonea a rientrare nella nozione

internazionalistica di “rifugiato o altra persona comunque bisognosa di protezione in-

ternazionale” come sopra meglio illustrata. Proseguirò poi analizzando la situazione

concreta affrontata quotidianamente dai richiedenti asilo darfuriani in Italia e in Inghil-

terra, nel loro percorso per l’accesso alla protezione internazionale.

Tramite l’ausilio di alcuni siti web e istituti di ricerca mi è stato possibile svolge-

re una breve e, sicuramente, non esaustiva analisi della situazione degli asilanti del Dar-

fur non solo in Italia e nel Regno Unito, ma anche in altre parti del mondo.

La ricerca empirica di seguito illustrata e relativa invece alla situazione specifica

degli asilanti del Darfur in Italia e in Inghilterra, ha presentato non poche difficoltà.

Da un lato ho cercato di reperire, in entrambi i paesi, sentenze e/o decisioni am-

ministrative relative alla posizione specifica dei richiedenti asilo del Darfur ma mentre

in Inghilterra la ricerca si è rivelata relativamente semplice e, come vedremo, il mate-

riale prodotto abbastanza vario, in Italia la ricerca, svolta presentando un’interrogazione

a tutti i professionisti e operatori sociali, soci dell’Associazione Studi Giuridici per

l’Immigrazione533 e un’analisi delle principali banche dati relative alla giurisprudenza,

ha dato un esito piuttosto esiguo. Le richieste presentate all’ASGI hanno fornito infor-

mazioni solo in merito ad un caso specifico ancora pendente avanti al Tribunale di Mi-

lano, quello del sig. Kariem Abdoule, assistito dall’avv. Susanna Pelzel e ad una sola

sentenza.

Soprattutto, per quanto riguarda la situazione dei richiedenti asilo darfuriani in

Italia, stante il carattere relativamente recente, seppur in continua crescita, del fenomeno

dell’asilo nel nostro paese, è stato molto difficile non solo reperire dati precisi, ma an-

che entrare in contatto con i richiedenti asilo e/o rifugiati provenienti dal Darfur.

Per svolgere un’analisi più precisa delle realtà e delle difficoltà che incontrano i

rifugiati del Darfur in Italia ho contattato l’Ambasciata Italiana a Khartoum e numerose

associazioni, presenti sul territorio, attive nel settore dell’asilo, tramite le quali ho po-

tuto essere messa in contatto con alcuni rifugiati del Darfur. I contatti con l’ambasciata

533 www.asgi.it .

191

italiana a Khartoum sono avvenuti prima nel 2007, ma un tentativo di contattarla nuo-

vamente nel 2010 non ha portato alcun esito.

Nel corso del periodo tra la fine del 2007 e la primavera del 2011, sono entrata

in contatto con comunità di rifugiati darfuriani a Roma, a Torino, a Milano e a Palermo.

A Milano ho anche tentato di contattare alcuni rifugiati presenti durante lo sgombero di

Via Lecco nel 2005 di cui vedremo in seguito534 ma, essendo usciti dal circuito

dell’assistenza istituzionale, non è stato possibile rintracciarli.

Il Comitato Cittadino dell’Arci di Torino mi ha introdotto ad un gruppo di rifu-

giati del Darfur ospitati presso la loro associazione, consentendomi di raccogliere in-

formazioni di prima mano535.

Ho anche avuto modo di sentire le esperienze di alcuni rifugiati e richiedenti

asilo che si trovavano a Palermo, dove sono stati assistiti e ospitati dall’organizzazione

Laboratorio Zeta.

A cavallo tra la fine dell’anno 2010 e l’inizio del 2011 ho preso contatto con

l’associazione Arci Darfur, di recentissima istituzione a Milano, e con l’Arci Dravelli di

Torino ed ho potuto svolgere alcune interviste più recenti.

In totale i richiedenti asilo o rifugiati intervistati sono stati 12, di età compresa

tra i 20 e i 45 anni. Nonostante abbia cercato, tramite le varie associazioni contattate di

parlare anche con alcune donne, ciò non è stato possibile per ragioni varie che vedremo

di seguito.

Per quanto riguarda la situazione dei richiedenti asilo darfuriani in Inghilterra, i

contatti sono stati più semplici. Ho infatti avuto modo di contattare senza troppo diffi-

coltà due associazioni britanniche l’Aegis Trust e Article 1536, che collaborano specifi-

catamente con i richiedenti asilo del Darfur che mi hanno messo in contatto con alcune

comunità locali a Londra, a Nottingham e a Newcastle.

Anche in questo caso le interviste svolte sono state 12 in totale, delle quali 11 a

uomini di età compresa tra i 20 e i 45 anni e una ad una donna di anni 45.

534 Si veda infra, capitolo 7, paragrafo 2.535 La delicatezza dell’argomento e al tempo stesso la decisività dell’approccio e del primo “contatto” coni rifugiati oggetto della mia ricerca sociologica ha reso necessario la lettura preliminare del manuale diAnthony Giddens, Fondamenti di sociologia, di Anthony Giddens, Il Mulino, Bologna 2006, soprattuttonell’investigazione, svolta dall’autore, sull’interazione sociale e sulla rilevanza delle componenti spazio etempo nella relazione che si stabilisce tra sociologo ed oggetto della ricerca.536 Si veda infra capitolo 7, paragrafo 4.

192

In Inghilterra era stata pianificata anche un’intervista al sig. Ahmed Ari, in attesa

del riesame della sua domanda di protezione internazionale presso l’Oakington Deten-

tion Centre. Tale contatto mi era stato fornito dall’associazione Article1 e, dopo averlo

contattato telefonicamente, ho seguito la normale procedura descritta sul sito del centro

di detenzione amministrativa per ottenere il permesso per una visita. Mi è però stato ri-

chiesto di fornire spiegazioni sui motivi della mia visita e la mia richiesta è stata inol-

trata a Susan Ward, ufficiale della U.K.B.A. presso Oakington, la quale dopo aver con-

tattato i suoi superiori mi ha negato il permesso all’ingresso. Secondo Olivia Wharam

dell’associazione Article1, che mi aveva messo in contatto con il sig. Ari, il permesso

mi è stato negato poiché avevo specificato di stare svolgendo una ricerca universitaria,

anche se non mi ero dilungata nei dettagli.

In entrambi i paesi, nell’intervistare i rifugiati ho privilegiato un approccio di ti-

po qualitativo537 e ho, quindi, svolto una serie di interviste a risposta aperta, sulla base

delle griglie allegate in appendice.

Stante le difficoltà incontrate nell’organizzare le interviste, le stesse sono stata

svolte in periodi diversi e il campione finale è risultato un po’ esiguo perché lo stesso

possa essere considerato rappresentativo della situazione generale degli asilanti darfu-

riani. Come tale tali interviste, lungi dall’essere esaustive del fenomeno, sono state va-

lutate ai fini della presente ricerca quali racconti di vita dei protagonisti e di testimoni

privilegiati538, ma hanno comunque consentito di svolgere un’osservazione interessante

del fenomeno539.

Ho ritenuto questo tipo di intervista più idonea data la delicatezza

dell’argomento e date anche le numerose difficoltà di comprensione linguistica. Un que-

537 Sull’opportunità di utilizzare i metodi qualitativi nella ricerca sociologica, nonché sulla necessità dicompiere scelte qualitative anche quando “le emergenze empiriche raccolte vengano espresse in grandez-ze matematiche”, si veda V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto - I. Azione giuridica e sistemanormativo, Laterza, Roma-Bari 1997, ove l’autore, nel chiarire le differenze tra metodologia quantitativae metodologia qualitativa precisa che “le correnti interazionistiche, per esempio, hanno comunementecontrapposto ai metodi quantitativi i cd, metodi qualitativi, che pongono l’osservatore in diretto contattocon la realtà da interpretare e lo lasciano libero di esprimere, anche a livello intuitivo, il frutto della suaosservazione”.538 In proposito si veda M. Marzano, Etnografia e ricerca sociale, GLF editori Laterza, Roma 2006; G.Fele, Etnometodologia, Carocci, Roma 2002; A. Marradi, Metodologia delle scienze sociali, Il mulino,Bologna 2007; A. Dal Lago, R. De Biasi (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all’etnografiasociale, Laterza, Roma-Bari 2002.539 Sull’importanza di un approccio biografico per condurre ricerche in materia di migrazioni forzate acontatto diretto con i richiedenti asilo si veda M. O’Neill, R. Harindranath, “Theorising narratives of exile

193

stionario sarebbe risultato troppo macchinoso e complicato da compilare e avrebbe co-

munque rischiato di lasciare scoperti alcuni punti importanti. Stante il carattere aperto

delle domande e la delicatezza dei temi affrontati, le interviste svolte con i richiedenti

asilo/rifugiati si sono spesso discostate dalla griglia iniziale, che è però rimasta sempre

la traccia fondamentale del discorso. Nella preparazione delle interviste e dei questiona-

ri mi sono servita del manuale redatto dall’U.N.H.C.R. “Intervistare i richiedenti asi-

lo”540, che mi ha permesso di strutturare le domande in maniera idonea alla situazione.

Ai rifugiati presenti a Palermo, ho dovuto sottoporre un questionario a risposta

aperta, che è stato tradotto loro in arabo da un mediatore culturale sudanese e che ha an-

che fornito le traduzioni delle risposte, affiancato dall’operatore sociale Luca Cumbo, i

quali collaboravano entrambi con il Laboratorio Zeta541.

Ho però ritenuto che, dato l’alto livello di coinvolgimento emotivo, le difficoltà

linguistiche e la sommaria conoscenza legislativa dei singoli rifugiati, potesse essere

importante ascoltare altri punti di vista. Ho quindi svolto due brevi interviste anche a

Stefano e Valentina nel periodo tra il 2007-2008, operatori sociali della rete dei circoli

Arci di Torino e a T., un mediatore culturale sudanese sempre a Torino incontrato sia a

fine 2010 che nella primavera del 2011. Sempre a fine 2007, ho svolto un’intervista te-

lefonica anche con Luca Cumbo, operatore sociale dell’organizzazione Laboratorio Ze-

ta, di Palermo, e collaboratore del poliambulatorio di Emergency, sempre a Palermo.

In Inghilterra ho invece svolto due interviste a David Brown, addetto stampa

della Aegis Trust e a Olivia Wharam, responsabile della comunicazione per Article1, la

prima nella primavera del 2009, la seconda nel febbraio 2010. Sempre a febbraio 2010

ho avuto occasione di incontrare Peter Verney, che svolge la funzione di esperto sul

conflitto del Darfur, in numerosi tribunali inglesi. Tale figura non ha, come abbiamo ac-

cennato, alcun corrispondente nel sistema italiano ma la sua intervista illustra aspetti

molto interessanti del sistema britannico. Ho poi avuto un colloquio informale, che è

stato registrato al pari delle interviste, con un’interprete sudanese che collabora con lo

studio Lawrence Lupin Sollicitors.

and belonging: the importance of Biography and Ethno-mimesis in understanding asylum”, QualitativeSociology Review, Volume II, Issue 1- April 2006, pagg. 39-53.540 Intervistare i richiedenti asilo, U.N.H.C.R. (a cura di), consultabile sul sito www.unhcr.it .541 Il Laboratorio Zeta è uno spazio occupato di Palermo, attivo da anni nel settore dell’asilo e nella difesadei diritti umani dei migranti.

194

Come è emerso dalla precedente analisi il ruolo delle associazioni di volontariato

è fondamentale sia nel sistema d’accoglienza italiano che in quello britannico e spesso i

loro membri sono le persone che meglio conoscono entrambi gli aspetti della situazione,

quello soggettivo dei rifugiati e quello tecnico del sistema giuridico.

In Italia, per avere un punto di vista più tecnico ho poi svolto due interviste a

professionisti del settore: l’avvocato Livio Neri di Milano alla fine del 2007 e una

all’avvocato Maria Cristina Romano, nell’ottobre 2010, in seguito all’implementazione

della nuova normativa sull’asilo. Ho anche cercato di intervistare il rappresentante le-

gale dell’U.N.H.C.R., a Roma, ma dopo una prima disponibilità iniziale, non è stato

possibile realizzare l’incontro. Ugualmente avevo preso accordi con l’ufficio stampa del

Consiglio Italiano per i Rifugiati542 per svolgere un’intervista telefonica al loro rappre-

sentante legale. Successivamente, dato l’elevato numero di impegni di quest’ultimo, ho

redatto e inviato un questionario a risposta aperta, composto da una ventina di domande.

Tuttavia dopo la disponibilità iniziale dimostrata e gli accordi presi telefonicamente, il

questionario non è mai stato restituito e i miei continui tentativi di contattare l’ufficio

stampa e ottenere spiegazioni non hanno dato alcun risultato.

In Inghilterra ho cercato di contattare diversi avvocati specializzati nella materia

in diverse regioni, ma dopo numerosi tentativi inutili sono riuscita ad entrare effettiva-

mente in contatto con un solo studio a Londra, Lawrence Lupin Sollicitors, e dopo alcu-

ni contatti con Gabriella Bettiga, responsabile del settore immigrazione ho potuto nel

dicembre 2010 ottenere la restituzione di soli due questionari543 compilati da due avvo-

catesse di tale studio, che hanno però preferito restare anonime. Ho anche contattato

personalmente più volte la professoressa Heaven Crawley544, che dopo una prima di-

sponibilità iniziale a partecipare ad un’intervista, poi trasformata nella più semplice di-

542 Insieme all’UNHCR è forse l’organizzazione non governativa più attiva in Italia nel settore. Tuttavia iloro contatti con le comunità di rifugiati o con le organizzazioni più piccole attive sul campo è risultatoesiguo e l’aiuto che hanno potuto fornirmi per reperire contatti non particolarmente articolato www.cir-onlus.org .543La cui griglia è prodotta in appendice.544 La professoressa Crawley, professoressa di International Migration alla Swansea University, ha colla-borato a numerose ricerche del Refugee Council, ed è autrice di numerose pubblicazioni in materia tra lequali: H. Crawley, 'No one gives you a chance to say what you are thinking’: finding space for children’sagency in the UK asylum system', Area 42(2), 162-9; H. Crawley, “Chance or Choice? Understandingwhy asylum seekers come to the UK”, Refugee Council, London 2010; H. Crawley e T. Crimes,Refugees Living in Wales: A Survey of Skills, Experiences and Barriers to Inclusion, Centre for MigrationPolicy Research, Swansea 2009; H. Crawley, “, Innocent Working Paper No. 2009-18, UNICEF InnocentResearch Centre, Firenze 2009; H. Crawley, “Forced migration and the politics of asylum: the missingpieces of the international migration puzzle?”, International Migration 44 (1), 2006, pagg. 21-26.

195

sponibilità a rispondere ad un questionario545 per lei appositamente preparato, ha rite-

nuto che lo stesso fosse troppo lungo e che le avrebbe portato via troppo tempo e si è ri-

fiutata anche di rispondere ad una versione più breve che le avevo successivamente in-

viato.

Ho anche cercato di intervistare il responsabile legale del Refugee Council546 di

Londra, ma mi è stato comunicato che per policy dell’associazione non vengono rila-

sciate interviste ai dottorandi.

Ho scelto le tre tipologie diverse di intervistati sopra citate, onde avere una pa-

noramica completa sulla legge in materia di asilo e rifugio e la sua applicazione, e non

un unico e necessariamente parziale punto di vista. In un progetto di ricerca più ampio

potrebbe essere interessante indubbiamente ampliare il campione dei rifugiati osservato,

ma la situazione precaria in cui si trovano spesso i rifugiati, che li porta a sparire in poco

tempo dai circuiti istituzionali nonché l’elevata sensibilità del tema, che ha fatto si che

numerosi tra essi si rifiutassero di sottoporsi alle interviste non l’ha reso possibile in

questo contesto.

545 In appendice.546 Il Refugee Council è la maggiore organizzazione non governativa britannica attiva nel settoredell’asilo e del rifugio in numerose regioni. Si occupa sia di fornire assistenza legale ai richiedenti asiloche di fornirgli assistenza pratica per l’accesso ai vari programmi di integrazione e assistenza. Svolgonoun attivo ruolo di lobbing e policy nell’ambito sociale e politico dell’asilo, con numerose campagne eprogetti. Svolgono formazione per gli operatori sociali e i mediatori e si occupano anche di coordinare larete delle associazioni per porle in contatto tra loro. www.refugeecouncil.org.uk .

196

CAPITOLO VI – IL CONFLITTO IN DARFUR: LA GUERRA CIV ILE

1. Il Sudan: un incrocio di popoli

2. L'origine del conflitto in Darfur e la presenza nel territorio della

“Janjaweed”.

3. I movimenti armati del Darfur

4. L’evoluzione del conflitto e il processo di pace

5. Il Darfur ora: oltre 7 anni dopo l'inizio del co nflitto

197

547

547 Cartina del Sudan relativa agli stanziamenti delle diverse etnie sul territorio, trattahttp://gulf2000.columbia.edu/maps.shtml, School of International and Pubblic Affair, Columbia Univer-sity, New York.

198

548

548 Sudan, Map No. 3707 Rev.10, April 2007, reperibile al sitohttp://www.un.org/Depts/Cartographic/english/htmain.htm pubblicata con autorizzazzione delle NazioniUnite del 14 aprile 2011.

199

549

549 Darfur Planning Map, Map No. 4262 Rev. 1, December 2007, reperibile al sitohttp://www.un.org/Depts/Cartographic/english/htmain.htm pubblicata con autorizzazzione delle NazioniUnite del 14 aprile 2011.

200

1. Il Sudan: un incrocio di popoli

Il Sudan è un paese dalle mille sfaccettature etniche e culturali, la cui identità è

stata spesso alterata da lotte intestine, la cui origine veniva identificata in problematiche

a carattere etnico-religiose mentre, nella maggior parte dei casi, si è poi rivelata essere

dovuta a scontri di tipo politico o alla lotta per il potere di pochi.

Per avere una visione chiara delle ragioni alla base del conflitto che ormai da ol-

tre nove anni imperversa nella regione del Darfur, situata nella parte occidentale del ter-

ritorio sudanese, è necessario approfondire il succedersi degli avvenimenti storici che

hanno reso il Sudan la nazione che è diventata oggi.

Come in molti stati africani, i confini del Sudan sono stati tracciati dalla volontà

delle potenze coloniali, impegnate ad unire tra loro territori differenti, abitati da popola-

zioni non solo molto diverse, ma spesso addirittura in conflitto tra loro, senza tenere in

alcun conto le conseguenze di tali unioni.

Il Sudan, nel suo disegno attuale, occupa un territorio estremamente vasto, con

una superficie totale di circa 2.503.890 kmq, e confina con una moltitudine di paesi di-

versi tra loro. I suoi territori infatti confinano a nord con l’Egitto, ad est con l’Eritrea e

l’Etiopia, a sud-est con il Kenya e l’Uganda, a sud con il Congo, la Repubblica Centro-

Africana, ad ovest con il Chad e a nord-ovest con la Libia. La regione a nord-est è poi

dotata di uno sbocco sul Mar Rosso.

Proprio la sua posizione geografica e l’essere circondato da stati così diversi tra

loro, hanno fatto sì che le etnie presenti sul territorio siano numerosissime e caratteriz-

zate da profonde differenze etnico-culturali.

In passato, infatti, si contavano più di seicento gruppi etnici sparsi sul territorio

che parlavano più di quattrocento idiomi diversi, tra lingue e dialetti. Con il passare del

tempo alcune etnie minori sono state assorbite da quelle più numerose e potenti e, at-

tualmente, il Sudan viene considerato diviso tra due grossi gruppi etnici distinti. Il nord,

infatti, è occupato prevalentemente dalla popolazione arabo-musulmana, fortemente in-

fluenzata dalla vicinanza con l’Egitto, mentre al sud si sono stanziati i gruppi nilotici,

divisi tra animisti e cristiani.

201

Le diverse etnie arabe, che dominano il nord, di religione mussulmana, sono le

più numerose all’interno del paese (49%)550, e vivono per la maggior parte nelle grandi

città.

I Dinka, invece, etnia dominante a sud del paese (11%)551, si dividono in nume-

rosi sottogruppi, tribù e famiglie, e vivono per la maggior parte dell’anno come nomadi.

Inoltre, come la maggior parte delle etnie presenti nel sud del paese, sono animisti.

Prima dell’invasione turco-egiziana del 1821, dunque, il Sudan era composto di

svariati regni e comunità tribali. Successivamente l’impero ottomano, spinto dal deside-

rio di espandersi e dalla ricerca di materia prime tra cui l’oro, l’avorio e schiavi per co-

struire le sue nuove città, invase il Sudan accordandosi con le popolazioni delle regioni

a Nord e compiendo continue razzie nei territori a sud del paese.

Nonostante l’occupazione turco-egiziana sia durata oltre sessanta anni, non ri-

uscì in alcun momento a prendere il controllo di tutto il territorio sudanese552.

La presenza di Napoleone in Africa, poi, cambiò drasticamente le sorti politico-

culturali del Sudan. Napoleone, infatti, dopo aver sconfitto nella battaglia delle Piramidi

(1797) i mammalucchi, la classe dirigente egiziana al potere in quel momento, creò le

possibilità per una rapida ascesa al potere del soldato Muhammad Mi, il quale in breve

tempo ingaggiò una rivolta contro l’Impero Ottomano e guidò il Sudan verso

l’indipendenza.

Nel 1889, però, il Sudan fu nuovamente conquistato e posto sotto il dominio di

una forza congiunta anglo-egiziana anche se, di fatto, il potere veniva quasi esclusiva-

mente gestito dai britannici. Tuttavia, la cogestione anglo-egiziana aumentò le spaccatu-

re tra i due maggiori gruppi etnici, dando vita ad amministrazioni separate del nord e del

sud del territorio.

Per garantire l’effettività della separazione amministrativa del territorio gli In-

glesi promulgarono nei primi anni 20, una serie di ordinanze relative alla chiusura geo-

grafica e amministrativa dei singoli distretti arrivando, nel 1922, con l’ordinanza

“passaporti e permessi” a richiedere l’uso di passaporti e permessi di viaggio e di sog-

550 “Sudan” Scheda a cura dell’associazione ARIF, consultabile sul sito internet www.cir.org .551 Ibidem.552 R. Machar Teny-Durgon, “South Sudan: A History of Political Domination – A case of self-determination”, African Studies Centre, University of Pennsylvania,http://www.africa.upenn.edu/Hornet/sd_machar.html.

202

giorno, peraltro molto difficili da ottenere, per i viaggiatori che volessero spostarsi tra il

nord e il sud del Paese.

Nel 1925 il governo inglese emanò una nuova legge in materia di permessi di

viaggio e di commercio, che imponeva a tutti i commercianti del Sudan settentrionale di

ottenere speciali autorizzazione per svolgere le loro attività nelle regioni a sud, e vice-

versa.

Infine, nel 1928, in sud Sudan venne istituita una politica del linguaggio, in virtù

della quale la lingua ufficiale parlata in tale area divenne quella inglese ed era consen-

tito parlare solo un numero limitato di dialetti locali: Dinka, Bari, Nuer, Latuko, Shilluk

e Zande.

La lingua araba fu completamente bandita dai territori nel sud del paese.

Il risultato di tale politica fu quello di delineare effettivamente nella cultura e

nell’immaginario delle popolazioni locali, due differenti e separati stati: uno al nord e

l’altro al sud.

Nel 1943 fu poi fondato l’”Advisory Council” per la gestione di sei province

della regione nord, in particolare per l’area di Khartoum, del Kordofan, del Darfur e

delle province del Nilo Est, Nord e Blu.

Il consiglio doveva decidere la gestione delle risorse naturali in tale area e i suoi

membri erano tutti, esclusivamente, sudanesi del nord.

Le attività di tale Consiglio non contemplavano minimamente la gestione delle

risorse delle regioni del sud né, tanto meno, venne ritenuto di nominare un consiglio con

la stessa struttura e gli stessi poteri che si occupasse di tale area. Invece, nel 1946, al

termine della Conferenza Amministrativa tenutasi a Khartoum, fu deciso che il nord

Sudan avrebbe colonizzato il sud.

Tale decisione risultò esemplificativa di quanto avvenne successivamente nel

Paese, soprattutto là dove si consideri che la stessa era stata indetta solo per gli ammini-

stratori dei distretti situati nel nord del paese e che nessun rappresentante delle comunità

a sud era stato invitato.

Emerse così la volontà del governo britannico di allearsi con le etnie del nord

Sudan, fortemente supportate anche dall’Egitto, per attuare una vera e proprio coloniz-

zazione politico-culturale dei territori a sud.

203

Tali propositi vennero poi concretizzati alla Conferenza di Juba del 1947, orga-

nizzata con il solo scopo di informare i comandanti in capo delle regioni a sud, della de-

cisione definitiva di gestire tali territori come colonie del nord.

L’Assemblea Legislativa Sudanese, nel 1948, formalizzò tale intento e tredici

delegati delle aree meridionali furono obbligati con la forza a rappresentare fisicamente

il sud all’interno di essa, senza però avere alcun potere effettivo553.

Negli stessi anni, intorno al 1945, in Sudan iniziarono ad emergere due grandi

forze politiche locali, da un lato il Partito Unionista Nazionale, guidato da Al-Azhari e

fortemente interessato ad un’annessione del Sudan all’Egitto, dall’altro il Partito Um-

ma, guidato da Sir al-Mahdi, che lottava, invece, per l’indipendenza assoluta sia

dall’Inghilterra che dall’Egitto.

Nel 1953 il Regno Unito concesse un periodo di autogoverno limitato al Sudan,

durante il quale fu avviato un graduale processo verso l’indipendenza. Furono indette le

prime elezioni, sotto la guida e il controllo di una commissione internazionale. Alle ele-

zioni risultò vincitore il Partito Unionista Nazionale che nominò il suo leader Al-

Azhari, primo ministro.

Tuttavia, una volta al potere, il governo arabo infranse le promesse fatte ai grup-

pi politici nel sud del paese, relativamente al progetto di una stato federale e fu, pertan-

to, rovesciato da un colpo di stato militare guidato dal generale Abboud. Nel 1966 Sir

al-Mahdi, a capo del Partito Umma, prese il potere e fu nominato primo ministro. Pro-

prio in quel periodo la situazione all’interno del paese cominciò a degenerare: le tensio-

ni tra i due gruppi etnici dominanti si inasprirono fino a diventare di difficile gestione,

sfociando in una guerra civile che durò, pur in modo intermittente, per oltre cin-

quant’anni.

Il conflitto originale, caratterizzato da obbiettivi secessionisti, vedeva schierati

da un lato il governo centrale, di etnia araba, insediato nel nord, con capitale Khartoum,

dall’altro le etnie, considerate “ribelli”, del sud.

In seguito ad una lunga serie di scontri violenti, nel 1972 fu trovata una prima

intesa e furono firmati gli accordi di Addis Abeba, nei quali veniva garantita, alle regio-

ni del sud una parziale autonomia.

553 Ibidem.

204

Ironicamente la validità di tali accordi fu cancellata dallo stesso uomo che ne era

stato l’artefice, Gaafer Nimeiri, il quale riprese le ostilità contro le popolazioni del sud,

nel 1983554. Nimeiri infatti condusse una politica fortemente improntata ai precetti della

religione musulmana, reintroducendo l’applicazione della sharia, ed includendo le pene

corporali in essa previste all’interno del codice penale sudanese.

Nimeiri decise, inoltre, di ridisegnare i confini del paese in modo da far rientrare

i giacimenti petroliferi presenti nel sud del paese sotto il controllo dell’amministrazione

dei territori settentrionali e progettò una canalizzazione delle acque volta principalmente

a dirottare le sorgenti del sud verso le coltivazioni del nord.

Nel 1983, il dottor J. Garang de Mabior, il cui obbiettivo originale era la crea-

zione di un nuovo stato sudanese in cui le differenti culture ed etnie avrebbero potuto

convivere in pace, fondò il Movimento per la Liberazione del Popolo Sudanese555, atti-

vo nelle regioni a Sud del paese. L’ideologia di Garang si basava sull’idea che i conflitti

a base etnica tra il nord e il sud fossero “immaginari” 556, in quanto tutte le etnie pre-

senti in Sudan erano riconducibili a razze miste arabo-africane e, come tali, non si diffe-

renziavano molto l’una dall’altra né avevano, pertanto, ragioni etnico-culturali per com-

battersi l’un l’altra. La vera motivazione dei conflitti era, invece, secondo il pensiero di

Garang, da ricercarsi nella religione islamica, diffusa al Nord, ed unico vero motore dei

numerosi scontri orchestrati dalle popolazioni ivi stanziate.

Nel 1985 il governo di Nimeiri fu rovesciato da un colpo di stato e la Costituzio-

ne, recentemente approvata, fu sospesa.

Fu istituito un governo di transizione e il presidente generale Abdel Rahman

Suwar al Dahab, simpatizzante dei gruppi estremisti islamici, decise di sferrare un nuo-

vo attacco contro lo S.P.L.A., avvalendosi per la prima volta in maniera organizzata, di

una milizia di mercenari, composta da membri delle tribù di etnia araba bagarra, appo-

sitamente istruiti da generali dell’esercito ufficiale. Tali gruppi armati adottarono subito

comportamenti violenti contro la popolazione civile e divennero tristemente noti nel

1987, quando massacrarono bruciandoli vivi più di mille dinka, nella città di Da’ien nel

554 F. M. Deng, “African Renaissance: Towards a New Sudan”, in M. Couldrey e T. Morris (eds.), Sudan:Prospects for Peace. Forced Migration Review, Refugees Studies Centre, Oxford, 24 novembre 2005.555 S.P.L.M./A.556 F. M. Deng, “African Renaissance: Towards a New Sudan”, cit., pag. 6, traduzione personaledell’inglese fictional.

205

sud-est Darfur, come vendetta per la morte di numerosi militanti arabi avvenuta nei

combattimenti contro lo S.P.L.A.

Nel 1989, però, con un ulteriore colpo di stato il governo del paese tornò nelle

mani di un regime militare comandato dal Consiglio del Comando Rivoluzionario per la

Salvezza Nazionale ed il 30 giugno dello stesso anno, il generale Omar Hassan Ahmed

al Bashir fu posto a capo del Paese, anche e soprattutto grazie al sostegno del Fronte

Nazionale Islamico di Hassan-al-Turabi.

In poco tempo emerse chiara la politica di Al Bashir, interamente improntata

sulla violenza: fu abolito il parlamento e la libertà di stampa, qualunque dissidente poli-

tico venne immediatamente arrestato e i partiti di opposizione furono banditi.

Con l’avvento del N.I.F. al potere, l’obbiettivo principale del governo divenne

quello di consolidare il Sudan, sia a nord che a sud, in uno stata islamico. Il N.I.F. con-

tinuò a servirsi delle milizie mercenarie per attaccare ed indebolire la popolazione civi-

le, senza però appoggiarle apertamente ma finanziandole ed addestrandole in campi se-

greti nelle montagne557.

I non mussulmani nel sud del Paese sarebbero stati convertiti con la forza se ne-

cessario e, pertanto, la guerra contro lo S.P.L.A. riprese più agguerrita di prima.

Nello stesso momento, una serie di fazioni che non condividevano in pieno

l’ideologia di Garang si separarono dallo S.P.L.M./A. e crearono un nuovo movimento

chiamato S.P.L.A./U (Esercito per la Liberazione del Popolo Sudanese Unito).

Poco tempo dopo essere salito al potere Bashir dissolse, per ragioni di mera op-

portunità politica, il N.I.F. e fece arrestare Turabi e il suo braccio destro Ali Osman

pretendendo di voler instaurare un governo civile. Di fatto Bashir, all’inizio del suo

mandato, fu una sorta di presidente di facciata, mentre le decisioni strategiche venivano

prese dai due estremisti islamici Turabi e Alì Osman, apparentemente agli arresti domi-

ciliari.

Solo nel 1990 a causa dell’impazienza di Turabi, emerse chiaramente anche agli

occhi della comunità internazionale, quale era la vera natura del nuovo governo sudane-

se. Poco dopo l’invasione del Kuwait, infatti, Turabi dichiarò pubblicamente di sostene-

re Saddam Hussein dimostrando di fatto chi prendeva le decisioni più importanti e

557 D. Cheadle e J. Prendergast, Not on Our Watch, Hyperione, New York 2007, pag. 57-60.

206

aprendo le frontiere sudanesi a tutti i mercenari e terroristi del mondo islamico. Con-

temporaneamente Ali Osman fu nominato ministro degli affari sociali e successiva-

mente nel 1995, primo ministro.

I conflitti nel sud del paese continuarono ad intensificarsi negli anni novanta ri-

chiamando l’attenzione della comunità internazionale che, intervenendo solo nel 1994,

aiutò nella definizione di una Road Map, volta a garantire un periodo duraturo di tran-

quillità. In seguito a tali attività diplomatiche il Sudan è stato diviso in 26 stati federali.

Lo S.P.L.M./A., il Partito Umma, il Partito Democratico Unionista e un’altra

serie minori di partiti d’opposizione si unirono creando l’Alleanza Democratica Nazio-

nale. L’istituzione di tale partito cambiò in parte gli orientamenti della discussione poli-

tica poiché al suo interno risultarono presenti anche partiti antigovernativi dei territori a

nord.

Dopo un’ulteriore serie di negoziati, nel 1998 fu approvata la Costituzione, inte-

ramente progettata da Turabi, con cui furono istituiti una forma limitata di multipartiti-

smo ed un sistema giudiziario basato sul modello della common law anglosassone, mi-

sto alla legge islamica.

Turabi fondò anche un nuovo partito, il Fronte Nazionale, prendendo il potere in

maniera aperta e riducendo Bashir ad una sorta di presidente “fantoccio”.

Tuttavia, poco tempo dopo, anche il suo braccio destro Ali Osman, stanco dei

suoi continui colpi di testa ed estremismi, lo abbandonò e, nel dicembre del 1999,

Bashir dichiarò lo stato di emergenza privando Turabi di ogni potere. Consolidato il

potere, questa volta solo tra loro, Bashir e Ali Osman cercarono di fare recuperare un

minimo di rispettabilità al paese, quanto meno per attrarre investimenti internazionali

sufficienti per iniziare a ripagare il debito pubblico sudanese.

Di fatto però i combattimenti continuarono e il governo centrale di Khartoum,

almeno fino al “cessate il fuoco” del 2002, si servì nuovamente, all’interno delle regio-

ni a sud, di milizie mercenarie assoldate per attaccare ancora le popolazioni civili, stra-

tegia che avrebbe poi adottato anche contro i ribelli del Darfur558.

Dopo oltre tre anni di trattative, il 31 dicembre del 2004, venne firmato un ac-

cordo, c.d. C.P.A.559, tra il governo centrale di Khartoum e lo S.P.L.M./A e successiva-

558 A. De Waal and J. Flint, Darfur: A Short History of a Long War, Zed Books, Cape Town, 2005.559 Comprenhesive Peace Agreement.

207

mente nel 2005, fu istituito un governo di Unità Nazionale a cui presero parte anche i

movimenti ribelli del sud del paese.

Il governo centrale di Khartoum ha acconsentito a ratificare tali accordi solo in

seguito a forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti d’America. Secondo quanto stabilito

negli accordi, in cui il governo centrale si è impegnato a lasciare una certa autonomia

alle regioni del sud, dopo un periodo di sei anni di pace il sud avrebbe potuto, tramite

referendum, decidere un’eventuale separazione politico amministrativa definitiva dal

nord.

Il referendum, dopo una serie continua di rinvii, si è concretamente tenuto nel

mese di gennaio 2011 e i risultati definitivi accettati, almeno apparentemente, anche dal

governo centrale hanno confermato, il 7 febbraio 2011, la volontà del 99% della popo-

lazione stanziata nel sud del paese di divenire indipendente dal nord 560.

Negli anni il processo di pace avviato tra il nord e il sud in Sudan ha spesso tolto

spazio al conflitto in Darfur, iniziato negli anni 2000/2002, a scapito di centinaia di mi-

gliaia di morti e profughi.

La centralità del conflitto nord- sud, ha fatto si che numerosi politici e studiosi

sia sudanesi che stranieri, abbiano focalizzato la loro attenzione relativamente alle que-

stioni irrisolte del paese, concentrandosi solo sulle problematiche inerenti a tale asse e

individuando le ragioni dello scontro solo nelle divergenze etniche e religiose delle po-

polazioni che occupano da sempre tali aree.

Come vedremo, il conflitto sorto in Darfur, ha dimostrato che gli interessi alla

base degli svariati conflitti con il governo centrale di Khartoum succedutisi nel tempo,

ora come in passato, sono in realtà decisamente più complessi e vari.

2. L'origine del conflitto in Darfur e la presenza nel territorio della

“Janjaweed”.

Contemporaneamente ai negoziati di pace tra nord e sud, in una delle regioni ad

ovest del territorio, il Darfur561, si è sviluppato un conflitto di proporzioni enormi.

560BBC Africa News, South Sudan backs independence – results, 07.02.11,http://www.bbc.co.uk/news/world-africa-12379431.561 La parola Dar significa dimora, mentre la parola Fur indica l’etnia più diffusa sul territorio. Il Darfurè, per l’appunto, la dimora dei Fur. A. De Waal and J. Flint, op. cit.

208

Il Darfur occupa un’area corrispondente a circa il 20% dell’intero territorio del

Sudan, ma la disperata situazione economica in cui versa, e versava anche prima

dell’inizio della guerra, non gli ha consentito di sfruttare al meglio le risorse naturali che

possiede, tra cui il ferro, lo zinco, il gas naturale e il petrolio.

Storicamente il Darfur (al tempo denominato Dar - Fur) era uno dei più potenti

sultanati dell’antichità e rimase tale ed indipendente fino al 1916, quando l’esercito in-

glese lo invase incorporandolo al Sudan.

Fino all’occupazione britannica il sultanato del Dar Fur era un regno molto pro-

spero, originariamente insediato nelle montagne a nord del territorio fino alle porte della

città di Dor562.

Nel tempo il regno, guidato dalla dinastia Keira, si espanse nei territori meridio-

nali della regione includendo le diverse comunità agricole locali nel proprio territorio, le

quali si integrarono completamente iniziando a parlare Fur, a seguire la religione di

stato islamica e a fare riferimento a livello istituzionale agli emissari del sultano.

La gestione del territorio nel sultanato del Dar Fur era fondata sull’istituto

dell’hakura, con cui il governo del territorio veniva delegato ad alcuni funzionari locali

del sultano, i quali erano incaricati di raccogliere dalle popolazioni stanziate sui loro ter-

ritori tributi relativi alla gestione dei terreni e di corrisponderne parte al sultano.

Nel tempo tale istituto divenne ereditario e la parte che i singoli funzionari do-

vevano consegnare al sultano si ridusse sempre di più lasciando, di fatto, agli stessi

un’enorme autonomia nel controllo e nella gestione dei territori loro affidati.

Nel sultanato ampliato del Dar Fur, solo una piccola parte della popolazione era

di etnia Fur o lo era diventata in seguito alle varie unioni tra clan tribali, vi erano poi

numerosi altri gruppi etnici tra i quali i più importanti erano i Tunjur e gli Zaghawa nel

Nord, i Berti e Birgidi nell’aree ad est e i Masalit stanziati nelle regioni ad Ovest.

Le etnie arabe non originarie della regione, arrivarono invece nel sultanato del

Dar Fur tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo dopo cristo, in due gruppi. Uno,

per lo più costituito da singoli studiosi e commercianti originari dei paesi limitrofi ad

est, l’altro composto dai beduini Juhayna che arrivarono dal Nord-Ovest, probabilmente

dall’Arabia, cercando un territorio più ospitale e fertile.

562 Cfr cartina del Darfur, pag. 3.

209

Tale secondo gruppo si installò a sud della città di Jebel Marra, dedicandosi alla

pastorizia, e divenne conosciuto come Bagarra, o popolazione del bestiame, mentre il

primo si installò nelle regioni a nord, occupandosi esclusivamente dell’allevamento dei

cammelli, diventando conosciuto come Abbala, o uomini dei cammelli.

I quattro maggiori gruppi bagarra, ricevettero dai sultani darfuriani un hakura di

grandi dimensioni ciascuno e si istallarono su tale territorio mentre i loro conoscenti ab-

balla, collocatisi nel nord del paese, ma rimasti di fatto nomadi, ricevettero solo occa-

sionalmente alcuni terreni, senza avere su di essi alcun potere.

Ancora oggi, molti dei discendenti arabi abbala coinvolti nel conflitto odierno,

attribuiscono la loro partecipazione allo stesso al mancato riconoscimento in passato dei

diritti di proprietà fondiaria al loro popolo563 .

Tutte le varie etnie stanziate nelle diverse aree del Darfur sono sempre state di

religione islamica. La religione islamica era, infatti, la religione di stato imposta dal

sultano e le popolazioni locali vi hanno sempre aderito.

Dopo l’occupazione britannica, come meglio illustrato nel paragrafo precedente,

gli inglesi investirono tutte le risorse nello sviluppo della regione di Khartoum e delle

terre vicino al Nilo, emarginando lo sviluppo delle altre aree, compresa quella del Dar-

fur.

Durante il governo di Sadiq-al Mahdi venne attuata una politica volta a mettere

una contro l’altra le popolazioni darfuriane, ad origine etnica mista, affermando la re-

sponsabilità delle tribù arabe nel mancato sviluppo della regione.

La confusione, relativamente ai rapporti tra popolazioni arabe e africane, au-

mentò ulteriormente quando il presidente della Libia, Gheddafi, sviluppò il progetto di

un’unione politica di stati arabi, volta ad affermarne la supremazia etnica564 e il governo

centrale gli concesse l’uso di parte del Darfur per i suoi campi di reclutamento e adde-

stramento militare.

In seguito Neimeiri si servì della regione come base d’appoggio per i gruppi ri-

belli anti-Gheddafi, ma la considerò sempre un’area marginale e non investì mai nel suo

sviluppo.

563 In A. De Waal and J. Flint, op. cit, pagg. 8 e 9.564 G. Prunier, Darfur: The Ambiguous Genocide, Cornell University Press, Ithaca 2005.

210

Questa area è stata caratterizzata, dunque anche in passato, da scontri tra la po-

polazione nera, composta per la maggior parte da agricoltori stanziati in villaggi e pic-

cole comunità rurali, e le popolazioni arabe nomadi.

Ma diversamente da oggi, in passato, alla base del conflitto tra la popolazione

araba musulmana e quella nera, anch’essa musulmana, vi era la lotta per le poche risorse

naturali sfruttate e sfruttabili del territorio, tra cui principalmente l’acqua e la terra. La

lotta tra questi due gruppi è sempre stata caratterizzata da connotati più tribali che poli-

tici.

Nel 1988 tuttavia, il governo di Khartoum appoggiò l’Alleanza Araba che di-

chiarò “guerra ai Neri” 565, e che sfruttò l’appoggio governativo per consolidare una

milizia armata, chiamata Janjaweed566, il cui ruolo divenne, in seguito, tragicamente

importante all’interno del conflitto.

Contemporaneamente in Darfur, scoppiò un conflitto tra gli agricoltori Fur e le

popolazioni arabe nomadi che cercavano di appropriarsi della terra dei Fur. Il conflitto

durò poco, tra il 1987 e 1989, ma oltre 2.500 Fur e circa 500 arabi di gruppi misti, ba-

garra e abbala, persero la vita.

La milizia Janjaweed si appropriò di oltre 40.000 capi di bestiame di proprietà

Fur e bruciò almeno 400 villaggi. Già allora i rappresentanti della popolazione Fur de-

nunciarono che la milizia Janjaweed, aggredendo la popolazione e distruggendone il si-

stema economico, stava di fatto tentando di sterminarli per prendere il controllo

dell’intero territorio, ma tali accuse rimasero inascoltate567.

Non bisogna dimenticare che è proprio in tale periodo, il 30 giugno del 1989,

Omar al Bashir prese il potere in Sudan.

A giugno del 1990, il governo appoggiò una conferenza volta a dirigere i proces-

si di pace tra le varie tribù. Pur essendo stato raggiunto un accordo, i rapporti delle Na-

zioni Unite di quel periodo riferiscono che gli attacchi da parte delle milizie arabe con-

tinuarono raggiungendo elevati livelli di violenza e commettendo aperte violazioni dei

565 Traduzione personale da “War on Blacks”, in P. Verney, FMO Cuntry Guide: Sudan, febbraio 2007,consultabile sul sito http://www.forcedmigration.org/guides/fmo040/, pag. 18.566 La parola araba Janjaweed significa diavoli a cavallo. Questa milizia, famosa per l’efferatezza dei suoicrimini, è infatti composta da mercenari a cavallo. In A. De Waal e J. Flint, Darfur: a Short History of aLong War, cit.567 D. Cheadle e J. Prendergast, op. cit..

211

diritti umani contro le popolazioni civili. Si riferì anche di oltre 300.000 persone coatti-

vamente accompagnate alla frontiera con il Chad e l’Egitto.568

Nel 1994 il governo centrale promosse una sorta di riforma costituzionale, volta

a creare una nuova gestione federale del territorio sudanese.

Il Darfur venne diviso in tre diversi stati: il Nord Darfur con capitale al-Fasher;

il Sud Darfur con capitale Nyala e il Darfur Ovest con capitale Genuina.

Lo scopo di tale divisione, e il risultato che Khartouhm così ottenne senza diffi-

coltà, fu quello di dividere il gruppo tribale dei Fur, il più numeroso e potente in Darfur,

tra i tre nuovi stati, rendendoli una minoranza in ognuno di loro e riducendone grande-

mente la supremazia politica-culturale569.

La nuova ripartizione del territorio comportò altresì la creazione di nuovi appa-

rati politici e amministrativi e l’attribuzione della maggior parte delle nuove cariche di-

rigenziali all’interno di essi, a membri delle etnie arabe, onde meglio controllare il ter-

ritorio. I nuovi governatori degli stati del Darfur, di etnia araba non avevano il diritto

all’hakura, ma nelle direttive ricevute dal governo centrale veniva specificato un loro

proprio diritto ad impossessarsi della terra e ad abolire l’istituto stesso dell’hakura nella

regione.

I Fur non furono gli unici ad essere danneggiati da questa nuova ripartizione del

territorio: i comandanti Masalit, infatti, furono privati del loro tradizionale potere giudi-

ziario e legislativo. Gli fu anche proibito di occuparsi della risoluzione dei conflitti tri-

bali, ruolo che avevano tradizionalmente sempre ricoperto nei secoli. Numerosi giovani

intellettuali, avvocati e dottori di etnia Masalit furono obbligati ad entrare nell’esercito e

furono mandati a combattere in Sud Sudan contro i movimenti indipendentisti.

Anche nei confronti dei Masalit, l‘intento evidente di Khartoum era quello di di-

sgregare le fasce giovani e attive della popolazione per indebolire tutto il gruppo etnico

nel suo complesso. I Masalit, non potendo assistere inermi alla distruzione della loro

tradizionale struttura sociale, si ribellarono e tra il 1996 e il 1999 molti di loro furono

uccisi in attacchi organizzati dalla milizia Janjaweed, su istigazione del governo cen-

trale. Proprio in questi primi anni i metodi della Janjaweed, volti a disgregare ed inde-

bolire intere comunità di civili inermi, si affermarono con forza:

568 Ibidem, pag. 19.569 A. De Waal e J. Flint, Darfur: a Short History of a Long War, cit.

212

“Molti degli attacchi avvenivano di notte, quando gli abitanti dei villaggi stava-

no dormendo. Dopo aver raggiunto il villaggio gli assalitori iniziavano tipicamente

dando fuoco alle case. Coloro che riuscivano a fuggire alle fiamme, venivano colpiti

dai membri della milizia mentre scappavano dalle loro abitazioni. Bruciando i campi

non appena erano pronti per essere seminati o distruggendo le colture giusto prima che

venissero raccolte, la milizia ha distrutto anni di coltivazioni destinando gli agricoltori

Masalit ad anni di fame. Le atrocità erano ben pianificate e dirette dal Governatore

Militare Sudanese presente nella regione” 570.

A partire dal 2001, il Darfur è stato governato con decreti d’emergenza e sono

stati istituiti tribunali speciali per giudicare presunti detentori di armi, bombe e altra ar-

tiglieria pesante mentre, di fatto, si è trattato solo di un sistema per abusare del potere

giudiziario a sfavore di presunti affiliati dei movimenti ribelli.

I conflitti sono continuati con un’intensità medio-bassa fino all’inizio del 2003,

quando i due gruppi politici presenti nella regione, il Justice and Equality Mouvement e

il Sudan Liberation Army571, hanno apertamente accusato il governo centrale di attuare

politiche volte a sostenere le etnie arabe discriminando quelle non arabe.

Anni prima572 era uscito un opuscolo abusivo, distribuito gratuitamente un po’

ovunque nel territorio, dal titolo “Il libro nero: squilibrio tra potere e benessere in Su-

dan573” , che raccontava dettagliatamente come tutte le strutture di potere in Sudan fos-

sero sempre state gestite da tre tribù arabe che avevano, apertamente, difeso solo i pro-

pri interessi, trascurando non solo il sud del paese ma anche e specialmente l’ovest e

parte dell’est.

Il malessere per questa continua emarginazione crebbe e il conflitto, una volta a

matrice tribale, divenne in breve un conflitto politico. I ribelli, in Darfur, in realtà ave-

vano incominciato ad attaccare una serie di postazioni amministrative pubbliche, avam-

posti militari e stazioni di polizia, tra cui l’aeroporto di El Kasher, già un anno prima,

nel 2002, suscitando una risposta molto forte del governo di Khartoum che aveva con-

570 Traduzione libera dall’inglese da Dawud Ibrahim Salih, Muhammad Adam Yahya, Abdul Hafiz OmarSharief and Osman Abbakorah, Representatives of the Massaleit Community in Exile, "The HiddenSlaughter and Ethnic Cleansing in Western Sudan." Cairo, Egypt, 8 Aprile 1999,http://www.massaleit.info/reports/internationalcommunity.htm (accesso Aprile 29, 2007).571 J.E.M. e S.L.M.572 Nel 2000, in A. De Waal and J. Flint, Darfur: A Short History of a Long War, cit., pag. 17.

213

trattaccato, sia per via aerea che tramite truppe di terra, distruggendo la roccaforte dei

ribelli nei monti Mahara.

Autori574 presenti sul territorio ritengono che l’inizio della ribellione possa esse-

re ricondotto ad un incontro avvenuto tra alcuni membri dei gruppi etnici Zaghawa e

Fur, nel luglio 2001, durante il quale giurarono di creare un movimento capace di di-

fendere i membri dei loro gruppi dagli attacchi del governo575.

Dopo i primi attacchi dei ribelli e in particolare dopo la conquista della città di

confine di Tine, il governo sudanese minacciò di inviare l’esercito in Darfur, ma le ri-

sorse di cui disponeva in quel momento erano, di fatto, molto scarse a causa della lunga

guerra nel sud del paese che al tempo non si era ancora conclusa.

La presa di Tine e dell’aeroporto di El-Fashir e le continue vittorie dei ribelli nel

corso di tutto il 2003, da un lato misero in luce l’incapacità dell’esercito di far fronte

alla situazione, dall’altro esasperarono ancora di più il governo di Khartoum. Fu adot-

tata una nuova strategia e le operazioni contro i ribelli furono affidate a tre diversi orga-

nismi: l’intelligence militare, l’aeronautica e la milizia Janjaweed.

La milizia, composta da mercenari di tribù nomadi dell’etnia Bagarra che già,

precedentemente, si erano scontrati con le etnie sedentarie del Darfur per il controllo

della terra e dell’acqua, divenne la punta di diamante dell’attacco contro i ribelli. Il go-

verno di Khartoum, pur avendo sempre negato ogni coinvolgimento, sapeva esattamente

cosa stava facendo, si servì della conoscenza del territorio e del deserto della Jan-

jaweed, come aveva già fatto in passato576, potenziandone le risorse militari e tecnolo-

giche.

Ben presto la situazione in Darfur divenne tragica, gli attacchi della milizia furo-

no, per la maggior parte, rivolti contro civili inermi, furono bruciati villaggi, stuprate

donne, rapiti ed uccisi persino bambini.

Nei soli primi due anni del conflitto, furono uccise oltre 250.000 persone e si

calcolò che il numero di sfollati interni alla regione (I.D.Ps.577) aveva raggiunto in breve

573 Traduzione personale dall’inglese “The Black Book: Imbalance of Power and Wealth in Sudan”, in A.De Waal, Sudan: The Turbulent State, in A. De Waal (ed.), War In Darfur, Global Equality InitiativeHarvard University, Harvard 2007, pag. 4.574 Mi riferisco ad Alex de Waal e Julie Flint che hanno seguito la vicenda da vicino e si dedicano allostudio del Sudan e del Darfur da molti anni. A. De Waal and J. Flint, op. cit.575In A. De Waal and J. Flint, op. cit., pagg. 76 e 77.576 Si veda il paragrafo precedente.577 Internally Displaced Persons.

214

tempo gli 1.8 milioni; inoltre enormi flussi di rifugiati (si stimano almeno 300.000 per-

sone), cercarono di fuggire verso i territori degli stati vicini578.

Allo stesso tempo, il governo arrestò, con procedimenti giudiziari molto discuti-

bili, non solo numerosi capi delle diverse tribù presenti in Darfur, ma anche membri

della classe medio-alta, tra cui maestri, avvocati e dottori.

La crisi umanitaria in Darfur è andata accentuandosi sempre di più, aiutata anche

dalla mancanza di cooperazione del governo centrale che, continuando a negare il pro-

prio coinvolgimento con la Janjaweed e volendo mantenere la comunità internazionale

il più possibile all’oscuro, ha ostacolato ripetutamente l’arrivo degli aiuti umanitari

nella regione, negando, spesso, i visti necessari alle O.N.G.

Durante il mese di marzo 2004, le agenzie delle Nazioni Unite presenti sul ter-

ritorio hanno denunciato la sistematica attuazione di fenomeni di pulizia etnica in Dar-

fur. I funzionari dell’O.N.U. testimoniarono, infatti, che i villaggi presi di mira dai

Janjaweed erano, solo ed esclusivamente, quelli abitati da tribù non-arabe, mentre quelli

della popolazione araba venivano risparmiati.

Alla fine del 2004, furono firmati degli accordi temporanei per un periodo di

“cessate il fuoco” tra il governo del Sudan e i due partiti ribelli, il J.E.M. e il S.L.M.

Ciò nonostante gli attacchi della milizia Janjaweed contro i civili e gli scontri

con i ribelli continuarono senza sosta.

Il Governo centrala a Khartoum ha, per lungo tempo, rifiutato gli interventi della

comunità internazionale volti ad avviare un processo di pace nella regione, arrivando a

dichiarare che ogni intervento esterno non autorizzato sarebbe stato ritenuto una viola-

zione della propria sovranità statale579.

È comunque importante sottolineare che l’intervento della comunità internazio-

nale è stato da principio inesistente e, in seguito, lento ed inefficace. Durante gli anni

2003 e 2004, degli avvenimenti che stavano scuotendo il Darfur, sulla stampa occiden-

tale non si faceva praticamente menzione.

Non solo, ma per molti anni, non fu attuato nessun tipo di pressione sul governo

centrale per paura che questo inficiasse i negoziati di pace nel sud del paese, regione

578 Sopratutto in Chad.579 W. Hodge, Sudan Drops Objections to U.N. Aid in Darfur, in The New York Times, 16 aprile 2007,www.nytimes.com .

215

notoriamente disseminata di giacimenti petroliferi e pertanto decisamente più in vista

nell’agenda della comunità internazionale.

Una commissione delle Nazioni Unite, nel gennaio del 2005, dichiarò che in

Darfur venivano perpetrati crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Fu tuttavia escluso che si stessero perpetrando atti di genocidio in quanto, pur

essendo vero che la milizia Janjaweed rivolgeva i propri attacchi solo contro le popola-

zioni non-arabe stanziate sul territorio, non risultava riscontrabile la presenza di dolo

specifico, necessario ad integrare la fattispecie di crimine di genocidio580.

La Commissione inoltre segnalava l’incapacità del sistema giudiziario sudanese

di investigare ed, eventualmente, punire i responsabili di tali crimini ed indicava la

Corte Penale Internazionale come organismo più idoneo ad affrontare la situazione.

Il 31 marzo dello stesso anno, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con

la risoluzione n. 1593, richiamò l’attenzione del Procuratore della Corte Penale Interna-

zionale sugli avvenimenti verificatisi in Darfur. Il giorno successivo il governo sudane-

se dichiarò espressamente “nessun cittadino sudanese sarà mai affidato al giudizio di

una corte straniera”581.

Tuttavia nel mese di giugno dello stesso anno il Ministro degli Esteri sudanese,

Mustapha Osman Ismail, in visita in Italia, aprì uno spiraglio affermando che il Sudan

era disposto ad offrire: “collaborazione totale con gli investigatori del tribunale e fine

dell'impunità”582 ed aggiunse, durante un’intervista al “Corriere della Sera”,

“chi è colpevole deve essere punito. Solo così ci si può incamminare verso

la pace. E non c'è pace senza giustizia. Gli investigatori della Corte posso-

no venire quando vogliono. Il Paese è aperto”.

Tuttavia, la volontà di Khartoum di collaborare così apertamente non è emersa

dai suoi comportamenti nei mesi e negli anni successivi.

580 C. Ragni, “La crisi del Darfur: banco di prova del rapporto tra Consiglio di sicurezza e Corte PenaleInternazionale”, in La comunità Internazionale, Fasc. 4/2005, pag. 697, Editoriale Scientifica Srl.581 P. Verney, FMO Cuntry Guide: Sudan, cit., pag. 22.582 M. Alberizzi, Il Sudan apre al Tribunale Internazionale, in “Corriere della Sera”, 22 giugno 2005,www.corriere.it .

216

3. I movimenti armati del Darfur.

Alla luce di quanto meglio esposto nel paragrafo precedente, non appare strano che le

popolazioni, Zaghawa, Masalit e Fur, presenti in Darfur e continuamente attaccate

dall’esercito regolare sudanese ma, soprattutto, dalla milizia Janjaweed, si siano nel

tempo organizzate in gruppi e movimenti armati, il cui obbiettivo di partenza comune

era quello di difendere le popolazioni civili e riprendere il controllo del territorio.

Tali gruppi armati, con caratteristiche simili ma comunque tra loro diversificati,

hanno poi subito nel tempo evoluzioni, lotte intestine e mutamenti che, da un lato, gli

hanno impedito di unirsi in un fronte comune capace di contrastare effettivamente

Khartoum e, dall’altro, gli hanno impedito di trovare una soluzione non violenta al con-

flitto.

La maggior parte dei membri originari dei gruppi armati in Darfur non erano, in

realtà, uomini dediti alla politica né tanto meno alla guerriglia, ma uomini comuni

sfiancati da anni di ingiustizia e di attacchi contro i propri conoscenti, amici e familiari

che non potendo più sopportare le umiliazioni subite e non avendo nulla da perdere, de-

cisero di organizzarsi contro il governo centrale e contro la Janjaweed.

Fin dal principio, l’amministrazione sudanese ha definito questi gruppi come

“assassini armati” che scorazzavano impuniti per il territorio, quando in realtà gli stessi

erano per lo più ex agricoltori, ex insegnati, ex commercianti che al massimo avevano

prestato servizio militare nell’esercito sudanese, i quali iniziarono ad organizzarsi in

gruppi armati più che altro per necessità.

Tali gruppi iniziarono a formarsi in periodi differenti nelle diverse aree, ma tutti

più o meno a partire dall’inizio degli anni 90.

Si fanno, infatti, risalire le origini del Sudan Liberation Army, uno dei principali

gruppi ribelli in Darfur, ad un tentativo di ribellione organizzato da Yahya Bola, un atti-

vista Fur che aveva già combattuto nello S.P.L.A. per la liberazione del Sud Sudan e

che nel 1991 tentò di fomentare un prima ribellione nel suo territorio natio.

Bola tentò infatti di “invadere” il Darfur, guidando una unità dello S.P.L.A. ed

entrando nel territorio dal sud Sudan583, ma un gruppo misto composto da esercito re-

golamentare e milizia Janjaweed, respinse l’attacco uccidendo Bola e i suoi ufficiali e

583 J. Flint, Darfur’s Armed Movements, in A. De Wall (ed.), War in Darfur ”, Global Equality Initiative,Harvard University, Harvard 2007, pag. 142-143.

217

bruciando numerosi villaggi Fur dell’area. Da quel momento per i Fur, il N.I.F.584 di-

venne il nemico numero uno.

Contemporaneamente alcuni studenti di etnia Fur, riunitisi a Khartoum decisero

di organizzare una ribellione armata. A loro avviso, l’attacco di Bola aveva fallito per-

ché lo stesso non era a capo di un gruppo armato darfuriano e non aveva quindi potuto

ottenere l’appoggio incondizionato della popolazione locale.

L’unico modo di formare una resistenza armata in Darfur, sufficientemente forte

e stabile da contrastare Khartoum, il suo esercito e la sua milizia, era riunire la popola-

zione e i giovani in movimenti armati nella regione, che lottassero esclusivamente per la

liberazione del Darfur.

Fu così che, mentre nell’area di Dar Masalit la popolazione iniziò a creare le

prime unità di difesa dei villaggi intorno al 1996, contemporaneamente a Khartoum si

tenne un incontro tra tre attivisti di etnia Fur, Abdel Whaid Mohamed al Nur, Ahmad

Abdel Shafi e Abdu Abdalla Ismail, e uno di etnia araba Hafiz Yousif, ove si gettarono

le basi per la futura fondazione dello S.L.A.585. I quattro giovani avevano in realtà poca

esperienza di politica, ma avevano tutti un livello medio alto di scolarizzazione ed in

poco tempo riuscirono a raccogliere una quantità di fondi inaspettata e ad organizzare i

primi gruppi armati.

In oltre furono rapidamente coinvolti alcuni Fur che avevano, per diversi motivi,

già lasciato il paese e che incominciarono ad occuparsi di raccogliere fondi all’estero,

per finanziare i movimenti ribelli in patria.

Originariamente, lo scopo principale di tali gruppi era quello di attaccare esclu-

sivamente obbiettivi strategici militari e di intervenire in difesa della popolazione civile.

In realtà, come vedremo, nel tempo tali obbiettivi cambiarono e così le loro priorità.

Poco tempo dopo tale incontro, i Fur decisero di organizzare i vari dissidenti che

stavano emergendo un po’ ovunque in Darfur in un unico gruppo, focalizzando la loro

resistenza non nei confronti delle popolazioni arabe ma del Governo centrale.

Prima della fine del 1997, l’area intorno a Jebel Marra era stata interamente

smobilizzata e Abdel Wahid el Nur, nascosto da qualche tempo in Siria, aveva comin-

584 National Islamic Front, partito al potere all’epoca.585 Sudan Liberation Army.

218

ciato ad organizzare gruppi armati ai piedi delle montagne, nella area di Zalingei586, di-

ventando in breve tempo l’esponente più importante e conosciuto dello S.L.A.

Allo stesso tempo i gruppi di etnia Zaghawa si erano, invece, organizzati per

combattere i continui attacchi da parte dei nomadi Awlad Zeid di etnia araba. I primi

tentativi di coinvolgerli nella lotta diretta contro il governo centrale furono però inutili

perché questi erano riluttanti a sferrare attacchi contro un governo che conoscevano po-

co e la cui capitale era situata a centinaia di chilometri di distanza, ritenendo unica causa

dei loro problemi le popolazioni nomadi arabe con cui si dovevano dividere il territorio.

Con il passare del tempo però anche le popolazioni Zaghawa si resero conto che

il governo non solo non li difendeva dagli attacchi organizzati dagli Awlad Zeid, ma an-

zi supportava questi ultimi, rifornendoli di armi e di beni di prima necessità. La situa-

zione precipitò definitivamente quando nel 2001, alcuni gruppi Awlad Zeid uccisero

oltre settanta persone di etnia Zaghawa nell’area di Kornoi, nota per le sue sorgenti di

acqua potabile.

A partire da quel momento la popolazione Zaghawa diresse la sua lotta anche

contro il governo centrale e, nel mese di luglio 2001, un suo attivista Dadu Taher Hariga

incontrò Abdel Wahid a Kahrtoum e i due decisero di unire le loro forze. Da lì si reca-

rono a Gueina nella speranza di coinvolgere anche le popolazioni Masalit ma, non riu-

scendoci, fondarono la prima alleanza Fur-Zaghawa.

Gli Zaghawa, che avevano già combattuto in Chad negli anni 80, erano militar-

mente e strategicamente più preparati dei Fur ed iniziarono ad organizzare campi di ad-

destramento per questi ultimi nell’area di Jebel Marra.

L’unione tra questi due gruppi tuttavia durò poco e già all’inizio del 2002, ap-

parvero evidenti le prime divisioni anche a livello strategico.

I capi Zaghawa ritenevano di dover attaccare prima l’esercito sudanese a nord di

Jebel Marra mentre i comandanti Fur insistevano per attaccare prima la milizia Jan-

jaweed nel sud della regione587. Le discussioni tra i due gruppi continuarono e dopo

numerosi tentativi di tenerli uniti, nel maggio 2002, gli Zaghawa decisero di organizzar-

si autonomamente ponendo a capo della loro fazione indipendente dello S.L.A., il co-

mandante Abaker Minni Minawi.

586 In A. De Waal and J. Flint, A Short History of a Long War, cit., pag. 70 e 71.587 Ibidem.

219

I Masalit si mantennero a loro volta indipendenti, fondando il Darfur Liberation

Front guidato da Khamis Abdalla Abaker.

Nell’anno 2003 lo S.L.A. annunciò il suo prima attacco militare organizzato, ma

emerse subito come un gruppo diviso al suo interno da lotte intestine per il potere e se-

parato in base alle differenti appartenenze tribali.

Le origini del Justice and Equality Mouvement, l’altro importante movimento

ribelle in Darfur, seguirono in realtà un percorso differente.

Esse vanno ricercate nel tentativo di Hassan al-Turabi588 di coinvolgere anche le

popolazioni del Darfur nel suo movimento islamico estremista. Nel 1991 egli infatti or-

ganizzò una Conferenza Araba Popolare e Islamica e ne divenne il segretario generale.

Originariamente Turabi se ne servì per raccogliere consensi coinvolgendo in essa anche

mussulmani africani delle aree periferiche, come il Darfur, reclutandoli nel suo movi-

mento e promettendo loro una divisione dei poteri.

Quando Bashir, nel 1999, estromise Turabi e tutti i suoi sostenitori dal governo i

darfuriani furono i primi ad essere allontanati dalle loro cariche e da Khartoum.

Furono proprio i membri dei gruppi etnici africani mussulmani, estromessi dal

governo e che avevano collaborato con Turabi a fondare poi il J.E.M.589

Proprio il capo del J.E.M., Khalil Ibrahim Muhammad fu l’autore de “Il libro

nero: squilibrio tra potere e benessere in Sudan”, sopracitato.

Militarmente il .J.E.M. si organizzò solo nel 2002, dopo che Khalil incontrò Mi-

nawi e Wahid, e decisero una temporanea cooperazione durante i primi mesi della ribel-

lione. Nel tempo però lo S.L.A., manifestò di essere diffidente nei confronti del J.E.M.

proprio a causa del suo passato islamico estremista e dei suoi legami con Turabi.

Le divisioni interne allo S.L.A. da un lato, e con il J.E.M. dall’altro furono alla

base di numerose sconfitte subite dai movimenti ribelli durante il conflitto.

Dopo le numerose vittorie sopradescritte nel 2003, nel corso dell’anno 2004 en-

trambi i movimenti collezionarono numerose sconfitte dovute agli attacchi congiunti

dell’esercito e della milizia Janjaweed. Quando Whaidi rimase bloccato dalle truppe

governative nell’area di Jebel Marra, Minawi rifiutò di mandare i suoi soldati in aiuto,

588 Si veda il primo paragrafo.589 M. Plaut, Who Are Sudan's Darfur Rebels?, BBC News, http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/3702242.stm, 05 maggio 2006, UK:

220

intimandogli di farsi aiutare dallo S.P.L.A di Garang, che da qualche tempo finanziava

le operazioni dei Fur.

Da quel momento le truppe Zaghawa collocate a Jebel Marra e le truppe Fur, di-

slocate fuori da tale area, furono comandate separatamente.

Lo S.L.A. tentava comunque di presentarsi unito di fronte alla Comunità Inter-

nazionale soprattutto in vista di possibili colloqui di pace, ma la realtà in Darfur era dif-

ferente590.

Wahid si trasferì in una sorta di comando distaccato a Nairobi e cercò di dirigere

le operazioni militari da lì. Col passare del tempo, i ribelli Fur che sempre lo avevano

rispettato iniziarono a perdere fiducia. Il suo legame con Garang e i negoziati di pace

che quest’ultimo aveva organizzato per il sud Sudan, facevano temere ai più che anche

Wahid si sarebbe lasciato coinvolgere e che gli interessi del Darfur sarebbero stati messi

da parte, per favorire la pace nel Sud del Paese.

Prima della fine del 2004, numerosi ribelli Zaghawa abbandonarono le armi e

passarono la frontiera con il Chad cercando di trasferirsi con le loro famiglie nei campi

profughi ivi allestiti.

La leadership dello S.L.A. fu duramente criticata tra il 2004 e il 2005, ma per i

Fur, dislocati sui terreni più lontani dalle frontiere, fu impossibile abbandonare i gruppi

armati e furono costretti a rimanere, spesso con metodi discutibili.

I membri Zaghawa rimasti iniziarono ad imporre tasse alle popolazioni civili

Fur, cercando di imporre la propria supremazia, arrivando addirittura ad aggredire i ci-

vili 591. Wahid, veniva considerato a capo della sua ala del movimento solo formalmente,

ma essendo lontano dal territorio, i ribelli in realtà si erano organizzati in piccole bande

capeggiate dai singoli ufficiali, senza alcuna coesione e lontani dagli obbiettivi originari

della guerriglia.

Il .J.E.M., che aveva inizialmente cooperato con lo S.L.A., se ne distaccò defini-

tivamente quando la popolazione civile iniziò a lamentarsi degli attacchi ricevuti dai

membri dello S.L.A. verso la fine del 2005.

590 In A. De Waal and J. Flint, A Short History of a Long War, cit. pag. 86-87.591 J. Flint, Darfur’s Armed Movements, in A. De Wall (ed.), War in Darfur, cit. pag. 154-155.

221

Minawi operò un rapido voltafaccia e servendosi delle truppe dello S.L.A. al suo

comando, supportato dalla Janjaweed, uccise “più di settanta persone, ne ferì oltre

cento e stuprò trent’uno donne nella regione di Korma, in nove giorni”592.

Egli continuò a negare il suo coinvolgimento ma la popolazione locale iniziò a

definire il suo gruppo “Janjaweed 2”.

Il 7 agosto del 2006, Minny Arkoy Minawi fu nominato consulente anziano per

il Darfur del presidente della Repubblica del Sudan, El Bashir.

La popolazione Zaghawa che sempre lo aveva seguito, lo abbandonò ma egli

non necessitava ormai più del loro appoggio.

Parallelamente, come detto, Wahid aveva iniziato a perdere potere e non veniva

più riconosciuto come comandante dello S.L.A.

Ahmad Abdel Shafi, pur rimanendogli fedele, tentò dunque una ristrutturazione

del movimento, cercando di riorganizzare le truppe con membri dei diversi gruppi etni-

ci, onde impedire le divisioni che fino a quel momento avevano travagliato lo S.L.A.

Dopo un primo periodo di riorganizzazione, il 28 luglio 2006, Shafi fu ufficial-

mente nominato capo in comando dello S.L.A., ma lo stesso era irrimediabilmente divi-

so.

Nel periodo successivo, il ruolo centrale dello S.L.A. nel conflitto, fu oscurato

dall’emergere di un nuovo gruppo ribelle chiamato il movimento dei 19, composto ap-

punto da diciannove comandanti del nord Darfur, contrari al percorso di pace fino ad

allora intrapreso dagli altri movimenti armati e determinati a portare al movimento indi-

pendentista una nuova leadership.

La mancanza di coesione e di leadership, come abbiamo visto, hanno negli anni

paralizzato i movimenti armati in Darfur e li hanno resi deboli nei confronti del Gover-

no Centrale di Khartoum. Proprio a causa di questa mancanza assoluta di unione e di

organizzazione, il conflitto ha potuto prendere la piega che vedremo di seguito, sempre

a scapito della popolazione civile.

4. L’evoluzione del conflitto e il processo di pace

Mentre, come illustrato nel paragrafo precedente, i gruppi armati iniziarono ad

organizzarsi in Darfur, la comunità internazionale, in seguito anche alla discussa inva-

592 Amnesty International Country Report 2006.

222

sione statunitense dell’Iraq, ritenne più prudente evitare un intervento non autorizzato,

da parte di truppe occidentali in territorio sudanese e decise che ad intervenire dovesse

essere, almeno al principio, l’Unione Africana.

Per tale motivo nel 2005, fu inviato un contingente di 7000 uomini dell’Unione

Africana con il compito di far osservare il “cessate il fuoco” ed impedire che i crimini

da parte della Janjaweed continuassero ad essere perpetrati. Da un rapporto di J. Pronk,

inviato speciale delle Nazioni Unite, redatto alla fine del 2005, risultò che le risorse

dell’Unione Africana erano però troppo esigue e non idonee per gestire quel particolare

tipo di situazione, in quel particolare territorio. Nello stesso rapporto fu evidenziato che,

anche in questo frangente, il governo sudanese non solo si rifiutava di collaborare ma,

anzi, rendeva ancora più arduo per i peacekeepers africani, l’esercizio dei propri compi-

ti. I governi occidentali vennero, invece, accusati di non aver fornito l’appoggio econo-

mico necessario all’Unione Africana, onde equipaggiarla per gestire in modo idoneo la

situazione in Darfur593.

Nel corso del 2005, le tensioni con il governo del Chad si acuirono a causa di ri-

petute incursioni dei miliziani Janjaweed oltre il confine. Il governo del Chad richiese

quindi ai propri cittadini di tenersi pronti a mobilitarsi contro il nemico comune594.

Nell’aprile del 2006 fu avviato un ulteriore tentativo di giungere ad un accordo

di pace nella regione del Darfur. I negoziati furono coordinati dal vice segretario di

Stato statunitense R. B. Zoellick e da Salim Ahmed Salim, rappresentante dell’Unione

Africana. L’accordo, che prevedeva il disarmo della milizia Janjaweed e l’inserimento

dei ribelli nell’esercito ordinario sudanese, incontrò forti ostilità da parte dei ribelli stes-

si i quali affermarono, tramite il portavoce del Sudan Liberation Army, Esam Elhag,

che:

“non vengono date sufficienti garanzie sul disarmo delle milizie Janjaweed

che secondo quella bozza di accordo viene affidato al governo. Ma come? Il

governo ha diretto, organizzato e finanziato i Janjaweed come si può pensa-

593 Da una dichiarazione dell’organizzazione Refugees International, in P. Verney, FMO Cuntry Guide:Sudan, cit., pag. 22.594 M. Alberizzi, “Ciad e Sudan, scontri e saccheggi al confine”, Corriere della Sera, 25 dicembre 2005,www.corriere.it .

223

re che ora li smantelli? No, quel compito andava assegnato a un organo in-

dipendente, alle Nazioni Unite o alla stessa Unione Africana”595.

Durante l’estate del 2006, il precario equilibrio trovato durante i negoziati si in-

franse nuovamente e gli scontri ricominciarono.

L’osservatrice speciale delle Nazioni Unite S. Samar, inviata per monitorare la

situazione dei diritti umani in Sudan, osservò nuovamente come l’attività del governo

sudanese fosse insufficiente rispetto agli impegni presi596. Nei mesi successivi il gover-

no centrale respinse ancora la possibilità di ammettere l’ingresso di una forza delle Na-

zioni Unite e si rifiutò di partecipare ad una riunione del Consiglio di Sicurezza, in cui

avrebbe dovuto garantire l’invio di proprie truppe a stabilizzare la regione del Darfur, in

sostituzione di quelle dell’O.N.U.

A settembre del 2006, in seguito a numerosi nuovi attacchi di cui l’Unione Afri-

cana riferì alle Nazioni Unite, il governo sudanese chiese ai peacekeepers africani di

abbandonare la regione del Darfur, affermando: “non verrà ammesso sul territorio nes-

sun altro organismo”. Nei mesi successivi, nonostante svariati tentativi, risultò evidente

che il governo di Khartoum non avrebbe accettato la presenza di un contingente armato

delle Nazioni Unite sul proprio territorio.

Ai primi del mese di marzo del 2007 il procuratore della Corte Penale Interna-

zionale, Luis Moreno-Ocampo, formulò 51 capi d’accusa nei confronti di uno dei lea-

der delle milizie Janjaweed, Ali Muhammad Ali Abd al-Rahman, anche conosciuto co-

me Ali Kushayb, e nei confronti del Ministro sudanese per gli Affari Umanitari, Ah-

med Mohammed Haroun. L’evento raccolse molti consensi tra le principali organizza-

zioni umanitarie, che speravano si fosse, finalmente, aperta una strada per la giustizia597.

Tuttavia, successivamente, il Ministro degli Esteri sudanese dichiarò alla

B.B.C.598 che il Sudan, non essendo membro del Trattato di Roma istitutivo della Corte

Penale Internazionale, non poteva in alcun modo essere soggetto alla giurisdizione della

Corte stessa e non aveva, come tale, intenzione di cooperare. Il Procuratore Moreno

595 M. Alberizzi, “No al piano di pace dai ribelli del Darfur”, Corriere della Sera, 1 maggio 2006,www.corriere.it .596 Dichiarazione di Ms. Sima Samar, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Sudan,60th Session of the General Assembly Third Committee, Item 71 (c): Human rights situations and reportsof special rapporteurs and representatives, New York, 27 October 2005.597 M. Alberizzi, “Darfur, processo ai criminali di guerra”, Corriere della Sera, 27 febbraio 2007.www.corriere.it .

224

Ocampo aveva, allora, ribattuto che una volta provata senz’ombra di dubbio la colpe-

volezza dei due indagati, il governo del Sudan non avrebbe comunque potuto esimersi

dall’adottare misure idonee599.

Amnesty International, nella primavera del 2007, ha fornito prove che Cina e

Russia hanno venduto armi al governo sudanese, contravvenendo all’embargo stabilito

dall’O.N.U.600 Inoltre, il ruolo della Cina, primo partner del Sudan nel commercio del

petrolio, e suscettibile di esercitare il suo diritto di veto in ogni momento, è risultato ne-

vralgico, soprattutto in passato, nell’evolversi della politica delle Nazioni Unite nei con-

fronti del autorità di Khartoum.

Il 28 dicembre del 2006 il Presidente del Sudan Omar Al Bashir ha sottoscritto

l'accordo per il dispiegamento nel territorio di una forza ibrida ONU-UA.

Nel successivo mese di gennaio 2007, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni

Unite ha richiesto l’allestimento di una forza multinazionale per il Darfur, in Sudan601,

composta da almeno 22.000 unità.

Nel 2007, furono organizzati nuovi negoziati di pace nel tentativo di coinvolgere

anche il J.E.M,. che non partecipò a quelli di Abuja del 2006, ma con scarsi risultati.

L’arrivo del contingente UNAMID, composto in realtà da sole 8.000 unità, creò

un’apparente stabilità nella regione, ma in realtà gli scontri ripresero ben presto con in-

tensità medio alta.

Nel mese di ottobre 2008, il governo sudanese organizzò nella capitale Khar-

toum una conferenza di pace sul Darfur, a cui parteciparono delegati provenienti da

Egitto, Eritrea, Qatar, Unione Africana e della Lega Araba.

A tali negoziati presero parte anche Kiir Mayadrit, allora leader del S.P.L.M.,

vicepresidente del Sudan e presidente del Sud Sudan e Minni Minnawi.

Quest’ultimo, in realtà, era rientrato nella capitale solo in settembre, dopo quat-

tro mesi di assenza come segno di protesta nei confronti di El Bashir, per l'insufficiente

implementazione degli accordi di pace. Alla conferenza partecipò anche il leader storico

del partito Umma, Sadiq al-Mahdi. A tali colloqui rimasero, invece, assenti i rappre-

598 “Sudan Will Defy Darfur Warrants” , BBC News, 3 maggio 2007 www.news.bbc.co.uk .599 Ibidem.600 “Darfur, Amnesty: Russia e Cina violano embargo su armi”, La Stampa, 8 maggio 2007,www.lastampa.it .601 Senato della Repubblica Italiana, Missioni umanitarie ed internazionali: Il Conflitto in Darfur, marzo2007, http://www.senato.it/notizie/136525/136526/139567/genpagina.htm.

225

sentanti del partito di Hassan el Tourabi. I movimenti ribelli in guerra con il governo di

Khartoum non hanno partecipato alla conferenza e Abdel Wahid Al-Nur, leader del-

l'S.L.M., ha dichiarato che la stessa era solo una mossa del presidente Bashir per far

credere all'opinione pubblica internazionale che vi fosse effettivamente in corso un pro-

cesso di pace per il Darfur602.

L’esito dei colloqui fu in realtà disastroso, l'Umma Party di Sadiq Al-Mahdi, il

Popular Congress Party di Hassan Al Turabi e il partito comunista guidato da Ibrahim

Nugud, il 28 novembre, attraverso una lettera inviata al presidente Bashir, non aderiro-

no al piano per il Darfur presentato dal governo perché in realtà corrispondente solo alla

volontà del National Congress, ovvero del partito del presidente Bashir.

L’anno successivo Rodolphe Adada, capo della missione congiunta Onu-Ua

nella regione, dichiarò che il conflitto in Darfur era ormai diventato “una guerra di tutti

contro tutti trasformandosi da una guerra vera e propria, come era nel 2003-2004,

quando migliaia di persone sono state uccise, a un conflitto di bassa intensità603”. Egli

specificò anche che “Il Darfur oggi è un conflitto di tutti contro tutti: le forze governati-

ve si scontrano con i movimenti armati. I movimenti armati lottano tra loro; i membri

delle forze di sicurezza governative combattono l'uno contro l'altro e contro le milizie.

Tutte le parti hanno ucciso civili604.

Il procuratore Moreno Ocampo, già nel corso del 2008 aveva infatti manifestato

più volte l’intenzione di processare Omar el Bashir per crimini contro l’umanità, ma

solo nel marzo 2009 riuscì effettivamente a spiccare un mandato di arresto internazio-

nale con cinque capi di accusa per crimini contro l'umanità e due per crimini di guerra,

tra cui omicidio, sterminio, trasferimenti forzati, tortura e stupro. Per la prima volta

nella sua stessa storia, la Corte Penale Internazionale spiccò un mandato contro un pre-

sidente ancora in carica605.

Poco dopo il presidente Bashir intimò ad oltre 13 organizzazioni non governati-

ve presenti sul territorio di lasciare il paese, accusandole di collaborare con la Corte Pe-

nale Internazionale. Dopo tale decisione, Minny Minawi, consigliere del presidente

602 Scommessa Sudan, News Letter 19, 01 novembre 2008, http://www.campagnasudan.it .603 Scommessa Sudan, News Letter 32, 01 maggio 2009, http://www.campagnasudan.it .604 Ibidem.605 “Arrestate il presidente del Sudan: Al Bashir incriminato da Corte Aja”, La Repubblica, 4 marzo 2009http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/bashir-mandato-cattura/bashir-mandato-cattura/bashir-mandato-cattura.html .

226

Bashir per il Darfur e unico leader ribelle ad avere firmato un accordo con il governo,

dichiarò che la situazione umanitaria in Darfur stava decisamente peggiorando e accusò

il partito di Bashir di boicottare sistematicamente l'applicazione dell'accordo di pace per

il Darfur firmato nel 2006.

Nuovi negoziati furono pianificati per il mese di agosto 2009, a Doha in Qatar,

tra governo sudanese e gruppi ribelli armati attivi nella regione occidentale del Darfur.

Il mediatore della missione congiunta dell'Onu e dell'Unione Africana (Unamid)

Djibril Bassolé, rimase in contatto constante con il capo dello S.L.A., Abdul Wahid che

fin ad allora aveva sempre rifiutato di sedersi al tavolo dei negoziati - per convincerlo a

partecipare ai prossimi colloqui. Contemporaneamente il .J.E.M. richiese colloqui sepa-

rati con il governo ma Bassolé insistette perchè il capo del movimento, Khalil Ibrahim,

prendesse parte ai negoziati in Qatar, quale unica soluzione per una pace durevole.

A fine agosto il comandante della missione congiunta Unamid, Martin Luther

Agwai dichiarò che il conflitto in Darfur era ormai ridotto ad attacchi sporadici ed epi-

sodi di banditismo e che l’unico movimento ancora in grado di avviare campagne mili-

tari, il J.E.M., era comunque sotto controllo. Agwai sostenne che la frammentazione dei

gruppi ribelli contribuiva a rendere meno concreto il rischio di nuovi scontri e violenze

ma rendeva, allo stesso, impossibile il controllo del territorio.

Tali dichiarazioni sono poi state smentite da Edmond Mulet, assistente del se-

gretario generale dell'Onu per le azioni di peacekeeping, il quale ha dichiarato: “Che si

tratti di guerra o non, la realtà è che le minacce nei confronti dei civili rimangono tutte.

Sebbene il livello dei combattimenti sia diminuito altre 140.000 persone hanno cercato

rifugio nei campi profughi dallo scorso gennaio. Dunque siamo ancora ben lontani

dalla pace”.606

Nuovi colloqui di pace tra il governo di Khartoum e il J.E.M., avrebbero dovuto

svolgersi a partire da metà novembre dello steso anno sempre a Doha, capitale del Qatar

ma gli stessi furono rinviati a data da destinarsi. Al posto di quelli ufficiali, si sono

svolti però - sempre a Doha - una serie di incontri di esponenti della società civile, tra

cui rappresentanti della diaspora, donne e intellettuali, per parlare della situazione nel

Darfur607.

606 Scommessa Sudan, News Letter 39, 01 settembre 2009, http://www.campagnasudan.it .607 Scommessa Sudan, News Letter 44, 15 novembre 2009, http://www.campagnasudan.it .

227

5. Il Darfur ora: oltre 7 anni dopo l'inizio del c onflitto.

Nel mese di gennaio 2010 i rappresentanti delle principali formazioni armate

antigovernative attive in Darfur ed esponenti della società civile e dei gruppi tradizionali

si sono incontrati di nuovo a Doha, in Qatar con l’obbiettivo di dichiarare formalmente

la pace in Darfur prima delle elezioni generali sudanesi, che avrebbero dovuto tenersi

nella successiva primavera.

Tuttavia, dopo un primo periodo di relativa tranquillità e nonostante la promessa

di un accordo di pace quasi definitivo, nei mesi immediatamente successivi alle elezio-

ni, in Darfur si è tornati a combattere,

A metà maggio 2010, l’esercito di Khartoum ha dichiarato di aver conquistato le

alture Jabel Moon, una delle roccaforti dei ribelli del J.E.M.

Le versioni date dalle due parti sono apparse molto discordanti: mentre per

l'esercito le operazioni militari hanno provocato la morte di oltre cento ribelli, il J.E.M.

sostiene invece di essersi ritirato spontaneamente, onde evitare nuovamente vittime ci-

vili.

Le Nazioni Unite, nei giorni precedenti, avevano confermato che da alcune set-

timane esercito sudanese e ribelli combattevano nella zona montuosa a nord del Darfur,

nei pressi del confine con il Ciad.

Allo stesso tempo nel Darfur meridionale i combattimenti tra ribelli del J.E.M. e

la polizia sudanese avevano causato oltre una sessantina di morti.

In seguito a tali eventi, il J.E.M. si è ritirato nuovamente dai colloqui di Doha,

accusando Khartoum di aver violato il cessate il fuoco in vigore dal mese di febbraio.

Il governo sudanese aveva replicato accusando il J.E.M. di aver violato gli ac-

cordi per primo608.

Solo dopo molti mesi di scontri, a fine ottobre, il J.E.M. si è nuovamente dichia-

rato disponibile a partecipare ai negoziati e ha dichiarato che avrebbe inviato in Qatar

una delegazione per valutare la possibilità del ritorno del gruppo ai colloqui di pace or-

ganizzati dai mediatori internazionali.

Allo stesso tempo, il governo centrale sudanese ha dichiarato che avrebbe asse-

gnato oltre due miliardi di dollari al Darfur, come fondi per la ricostruzione e lo svilup-

po, nel caso si arrivasse a una pace stabile.

608 Scommessa Sudan, News Letter 58, 03 giugno 2010, http://www.campagnasudan.it .

228

Il 31 ottobre il governo di Khartoum ha firmato a El Kasher, nel Darfur setten-

trionale, un nuovo accordo con la fazione del S.L.M., capeggiata da Minni Minnawi,

Il 12 novembre, cinque mesi dopo aver sospeso la loro partecipazione al proces-

so di pace in corso a Doha, il J.E.M. ha inviato nell'emirato una delegazione, guidata dal

vicepresidente del movimento, Mohamed Bahr Hamadein, per discutere La ripresa dei

colloqui.

Oggetto della mediazione are anche la “liberazione” di Khalil Ibrahim, il leader

del J.E.M., che dal mese di maggio era bloccato in Libia dopo che il governo del Ciad

gli aveva impedito l’accesso al suo territorio per rientrare in Darfur.

Il governo di Khartoum è da principio apparso disposto a riaprire i colloqui con

tutti i protagonisti politici presenti nella regione occidentale, volendo concludere ogni

problematica relativa al Darfur, entro la fine dell’anno 2010, prima del referendum per

l’autodeterminazione del Sud Sudan, previsto il 9 gennaio 2011.

Nonostante l’apparente volontà di entrambe le parti di trovare un sbocco diplo-

matico e politico alla guerra in Darfur, verso fine anno gli scontri si sono nuovamente

intensificati.

In assenza di testimoni indipendenti non è stato ancora possibile ricostruire la

dinamiche di tali scontri.

La versione ufficiale dell’esercito sudanese è stata che i ribelli sarebbero stati

costretti ad abbandonare alcune posizioni precedentemente occupate nel Darfur setten-

trionale, nei pressi del confine con il Ciad mentre nuovi scontri sarebbero avvenuti nel

Darfur meridionale e nello stato del Kordofan.

L’espansione del conflitto nella regione limitrofa del Kordofan ha molto preoc-

cupato la comunità internazionale poiché tale regione è già stata per lungo tempo teatro

degli scontri nella guerra civile tra il nord e il sud del paese.

Sia Djibril Bassole, il mediatore a capo dei negoziati di pace in Qatar, sia Ibra-

him Gambari, capo della missione Unamid in Darfur, hanno confermato la ripresa degli

scontri609.

. Parallelamente, dopo una guerra civile durata oltre 20 anni, tra il 9 e il 15 gen-

naio 2011, il 98,83% dei sudanesi del sud, ha votato in favore della secessione da

Khartoum e per l’indipendenza del Sud Sudan. I dati definitivi del referendum, svoltosi

609 Scommessa Sudan, News Letter 68, 15 novembre 2010, http://www.campagnasudan.it .

229

tra i 9 e il 15 gennaio, sono stati ufficializzati dalla commissione referendaria durante

una cerimonia svoltasi a Khartoum l'8 febbraio, in presenza dei vertici del governo su-

danese e di numerose personalità africane.

Il vice-presidente Ali Osman Taha ha confermato la volontà di cooperare del

governo centrale, nonostante l’area di Abyei resti ancora teatro di scontro e molto con-

tesa, dati i suoi numerosi giacimenti petroliferi.

Secondo Jean Ping, presidente della Commissione dell'Unione africana, per una

piena applicazione degli accordi di pace del 2005 relativi all’asse Nord-.Sud, i nodi da

risolvere sono ancora molti610.

Effettivamente dopo i risultati del referendum la situazione è tutt’altro che paci-

fica e avvengono quotidianamente scontri in cui rimangono troppo spesso coinvolti i ci-

vili.

In Darfur gli scontri sono ripresi con una nuova intensità e ai primi di marzo

2011 l'esercito sudanese ha dichiarato di aver attaccato e conquistato postazioni di ri-

belli della fazione dello S.L.M., guidata da Abdel Wahid Al-Nur.

Il 3 marzo il nuovo consigliere del presidente Bashir per il Darfur, Ghazi Sa-

lahuddin, al ritorno dai colloqui di pace in Qatar ha garantito l’organizzazione nei pros-

simi mesi di un referendum per decidere lo status del Darfur, anche al fine di unificare

in una sola amministrazione i tre stati in cui la regione del Darfur è ancora oggi divisa.

Il J.E.M. ha dichiarato di non aver preso alcun accordo in questo senso ed ha

nuovamente accusato il governo centrale di voler risolvere le problematiche del Darfur

unilateralmente.

I nodi principali, allo stato ancora irrisolti, dei negoziati di pace tra i ribelli e

Khartoum rimangono dunque quale sarà lo status del Darfur nonché l’eventuale istitu-

zione di un indennizzo alle vittime del conflitto maggiormente colpite negli anni tra il

2003 e il 2007.

Secondo numerosi analisti, la divisione del territorio del Darfur è stata volonta-

riamente favorita dal governo sudanese, che se ne sarebbe servita per evitare l’insorgere

di un movimento separatista unitario e per meglio controllare il territorio.

Nell’ultimo anno la Corte Penale Internazionale ha formulato capi d’accusa an-

che nei confronti di alcuni membri dei movimenti ribelli.

610 Scommessa Sudan, News Letter 73, 02 febbraio 2011, http://www.campagnasudan.it .

230

In particolare all’inizio del mese di marzo i giudici delle Corte penale interna-

zionale hanno formalizzato le accuse contro due leader delle formazioni ribelli in Darfur

- Abdallah Banda Abakaer Nourain e Saleh Mohammed Jerbo Jamus - che nel 2007

avrebbero attaccato i soldati della missione di pace dell'Unione Africana, uccidendo al-

meno 12 militari611.

Dopo oltre otto anni dall’inizio del conflitto, i dati raccolti dalle Nazioni Unite,

contano oltre 300.000 vittime e almeno 3 milioni di sfollati.

Tali dati, tuttavia, non tengono presente la ripresa degli scontri avvenuta nel di-

cembre 2010 e di cui ancora ora, dopo oltre quattro mesi, si sa bene poco se non che la

loro violenza raggiunge i livelli già raggiunti solo nel periodo compreso tra il 2003 e il

2007.612

611 Scommessa Sudan, News Letter 74, 16 febbraio 2011, http://www.campagnasudan.it .612 Articolo21, Rapporto sulla situazione in Darfur 2010-2011,http://www.articolo21.org/userFiles/rapporto2010_2011.pdf .

231

CAPITOLO VII - I RIFUGIATI DEL DARFUR: A CASE-STUDY

1. Presenza e trattamento dei rifugiati sudanesi in Sudan e nel Mondo

2. Presenza e trattamento dei rifugiati del Darfur in Italia

3. Le voci dei protagonisti e dei testimoni privile giati in Italia

4. Presenza e trattamento dei rifugiati del Darfur in Inghilterra

5. Le voci dei protagonisti e dei testimoni privile giati in Inghilterra

“Quello che per loro contava nella Terra promessa non era la terra. Era la promessa.”

J.M. Guenassia, Il Club degli Incorreggibili Ottimisti

232

1. Presenza e trattamento dei rifugiati sudanesi i n Sudan e nel Mondo

Il Sudan, dopo essere stato per lungo tempo meta di rifugiati in fuga dagli altri

paesi africani, è diventato, come è emerso dall’analisi storico-politica appena svolta,

scenario negli ultimi trenta anni di disordini e conflitti interni che hanno coinvolto la

maggior parte della popolazione civile, e che hanno creato un fenomeno sempre più va-

sto di I.D.Ps.613 e di rifugiati in fuga in cerca di protezione verso i paesi limitrofi e verso

quelli occidentali. A partire dall’inizio della guerra civile tra il nord e il sud del paese,

dopo il 1980, più di due milioni di cittadini sudanesi sono morti a causa del conflitto,

circa un milione sono fuggiti nei paesi limitrofi e all’incirca sei milioni risultano sfollati

all’interno del territorio, anche se ora dopo il referendum secessionista parte degli sfol-

lati sta facendo lentamente rientro in Sud Sudan.

Dall’inizio del conflitto nella regione occidentale del Darfur la situazione è net-

tamente peggiorata e, in oltre nove anni, risultano sfollate in totale più di due milioni e

mezzo di persone614.

Gli sfollati interni al territorio sudanese, c.d. Internally Displaced Persons, han-

no vissuto in condizioni precarie e terribili, dovendo aspettare mesi prima di essere rag-

giunti ed assistiti dalle associazioni umanitarie a causa della politica di Khartoum, che

ha lungamente negato l’accesso al territorio sia ai convogli che ai voli umanitari.

In seguito alla firma degli accordi di pace tra il governo e l’S.P.L.A./M., nel

gennaio 2005, si era aperta la speranza per gli sfollati della prima guerra civile di poter

finalmente fare ritorno alle loro case, nei territori meridionali. Purtroppo tale speranza

ha, come abbiamo visto, dovuto aspettare ancora numerosi anni per realizzarsi a causa

da un lato dell’instabilità degli accordi di pace e, dall’altro, delle carenza di infrastruttu-

re che nella regione sud, dopo oltre vent’anni di conflitto, erano scarse, in pessime con-

dizioni e mal gestite.

Offrire tutela ai profughi interni è stato reso ancora più difficile dalla mancanza

di effettive previsioni legislative che regolino la materia. La lentezza della risposta of-

ferta dalle Nazioni Unite alla crisi del Darfur è stata, in parte, dovuta anche alle diffi-

coltà incontrate nell’individuare un’agenzia competente ad affrontare il problema delle

613 Internally Displaced Persons è un’espressione difficile da tradurre, ma forse l’espressione che più lecorrisponde è quella di sfollati interni al territorio.

233

I.D.Ps.615 Il governo di Khartoum, approfittando di questa incertezza, ha al principio af-

fidato il compito di allestire campi profughi nella regione del Darfur all’Organizzazione

Mondiale per le Migrazioni, la quale non fa parte delle agenzie delle Nazioni Unite e

non ha esperienza nel settore della protezione agli sfollati.

I problemi relativi alla definizione dello status giuridico delle I.D.Ps., alla defi-

nizione di una normativa internazionale che possa assicurare loro un livello sufficiente

di protezione e all’individuazione di un organismo internazionale competente in questo

settore, sono creati principalmente dalla impossibilità di imporre ad uno stato determi-

nate strutture e linee di condotta all’interno del suo territorio, senza il suo consenso. In

questo senso il governo di Khartoum ha lungamente negato ogni possibilità di inter-

vento all’interno del proprio territorio, da un lato per non dover rispondere del proprio

coinvolgimento e delle proprie, discutibili, strategie di guerra, dall’altro per non voler

mostrare al resto del mondo le vere ragioni alla base di uno sfollamento di tali propor-

zioni. Infatti nelle regioni a sud del paese, la maggior parte della popolazione fu obbli-

gata dai combattimenti a spostarsi e a disperdersi, lasciando, casualmente, l’area dei

giacimenti petroliferi pressoché disabitata. Nel perseguire i suoi scopi il governo cen-

trale ha, coattivamente, spostato numerosi gruppi di persone, ricollocandoli in aree

scelte dai suoi funzionari e spesso prive delle condizioni minime necessarie alla soprav-

vivenza. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, durante la presenta-

zione del suo Rapporto sul Sudan, nell’ottobre 2005, aveva dichiarato che, contraria-

mente a quanto affermato dal Governatore dello Stato di Khartoum, Abdel Haleem I-

smail al-Mudafie,

“migliaia di persone sono state forzatamente spostate verso siti in aree de-

sertiche, a decine di chilometri da Khartoum dove non vi sono, o sono lar-

gamente insufficienti, i servizi minimi di sostentamento […], queste

ricollocazioni e la violenza che le accompagna […] violano il diritto degli

sfollati ad un ritorno volontario, sicuro e dignitoso…”616.

614 P. Verney, FMO Cuntry Guide: Sudan, cit.615 M. Rafiqul Islam, “The Sudanese Darfur Crisis and Internally Displaced Persons in International Law:The Least Protection for the Most Vulnerable”, International Journal of Refugee Law, giugno 2006, 18,pag. 358.616 Traduzione personale dall’inglese K. Annan, Report on Sudan, ottobre 2005, consultabile on-lineall’indirizzo www.un.org .

234

Questi continui tentativi di ricollocare gli sfollati in aree diverse da quelle di ap-

partenenza e, spesso, inadatte alla creazione di stanziamenti stabili, ha dato luogo a

scontri continui tra la polizia e la popolazione sfociati poi in una serie di accuse false,

arbitrarie ed esagerate nei confronti dei civili, i quali venivano nuovamente arrestati e

maltrattati .

Diversa, ma non necessariamente migliore, è la situazione dei rifugiati sudanesi

che cercano protezione nei paesi africani limitrofi. Nei territori del Kenya e dell’Uganda

sono presenti decine di migliaia di rifugiati fuggiti a causa dei conflitti della prima guer-

ra civile. Un’intera generazione è nata e cresciuta nei campi profughi kenioti e non ha

mai conosciuto una vita diversa. Più di due milioni e mezzo di persone sono fuggite dal

Darfur verso i paesi di confine, principalmente verso il Chad, che ne ospita attualmente

più di 300.000. L’arrivo dei rifugiati in Chad è stato descritto dall’U.N.H.C.R. come “il

più vasto esodo del mondo”617.

Trovare dati statistici relativi alla sola situazione dei rifugiati in Darfur o prove-

nienti dal Darfur, è molto difficile e gli stessi non sono aggiornati per tutti gli anni di

osservazione. Esistono però dati relativi alla situazione generica del fenomeno dei rifu-

giati in Sudan, che possono tuttavia essere interessanti da considerare per rendersi conto

della portate generale del fenomeno nel paese ma anche nelle aree limitrofe.

In proposito si veda la tabella di seguito riportata, elaborata dall’UNHCR nel

gennaio 2011618, dalla quale emerge che i rifugiati, o coloro cmq destinatari di un’altra

forma di protezione internazionale, fuggiti dal Sudan tale periodo erano ben 387,288 ai

quali devono aggiungersi gli oltre 23.000 richiedenti asilo la cui domanda è risulta an-

cora in attesa di essere esaminata.

Statistical Snapshot*

Residing in Sudan [1]

Refugees [2] 178,308

Asylum Seekers [3] 6,046

Returned Refugees [4] 7,070

Internally Displaced Persons

(IDPS) [5]

1,624,100

IDP figure inSudan includes

76,100 people

617 Traduzione personale dall’inglese in P. Verney, FMO Country Guide: Sudan, cit., pag. 18.618http://www.unhcr.org/pages/49e483b76.html

235

Statistical Snapshot*

who are in an

IDP-like situa-

tion.

Returned IDPs [6] 143,000

Stateless Persons [7] 0

Various [8] 0

Total Population of Concern 1,958,524

Originating from Sudan [1]

Refugees [2] 387,288

Asylum Seekers [3] 23,713

Returned Refugees [4] 7,070

Internally Displaced Persons

(IDPS) [5]

1,624,100

IDP figure in

Sudan includes76,100 people

who are in an

IDP-like situa-

tion.

Returned IDPs [6] 143,000

Various [8] 0

Total Population of Concern 2,185,171619

La vita nei campi profughi nei paesi limitrofi è generalmente precaria e senza

possibilità di miglioramenti in futuro. I rifugiati presenti nei campi sono considerati c.d.

rifugiati de-facto: vengono ospitati dal paese confinante e l’U.N.H.C.R. provvede, o

619 Note:* As at January 2011

1. Country or territory of asylum or residence. In the absence of Government estimates, UNHCRhas estimated the refugee population in most industrialized countries based on 10 years of asy-lum-seekers recognition.

2. Persons recognized as refugees under the 1951 UN Convention/1967 Protocol, the 1969 OAUConvention, in accordance with the UNHCR Statute, persons granted a complementary form ofprotection and those granted temporary protection. It also includes persons in a refugee-likesituation whose status has not yet been verified.

3. Persons whose application for asylum or refugee status is pending at any stage in the procedure.4. Refugees who have returned to their place of origin during the calendar year. Source: Country of

origin and asylum.5. Persons who are displaced within their country and to whom UNHCR extends protection and/or

assistance. It also includes persons who are in an IDP-like situation.6. IDPs protected/assisted by UNHCR who have returned to their place of origin during the calen-

dar year.7. Refers to persons who are not considered nationals by any country under the operation of its

laws.8. Persons of concern to UNHCR not included in the previous columns but to whom UNHCR ex-

tends protection and/or assistance.9. The category of people in a refugee-like situation is descriptive in nature and includes groups of

people who are outside their country of origin and who face protection risks similar to those ofrefugees, but for whom refugee status has, for practical or other reasons, not been ascertained.

236

tenta di provvedere, alla realizzazione di campi sufficienti ad ospitare tutti, nel tentativo

di soddisfare i bisogni primari e di gestire i rapporti con la popolazione e il governo

dello stato ospite. Ma la vita dei profughi si svolge in una sorta di sospensione ed attesa

nella speranza di poter rientrare, in un futuro incerto, in patria. Dalla tabella sopra ri-

portata risulta come in realtà, rispetto a coloro che lasciano effettivamente il Sudan co-

me profughi il numero di coloro che rientrano è quasi irrisorio. Alcuni, stanchi di conti-

nuare a trovarsi in una c.d. refugee protracted situation, lasciano i campi profughi cer-

cando di raggiungere le città dove si perdono nei grandi numeri dei migranti clandestini

e dove le condizioni di vita non sono certo migliori.

La situazione in Chad si è, negli anni, aggravata a causa dell’estremo livello di

povertà in cui versa il paese, e ha causato scontri tra la popolazione locale, stremata

dalla fame ma non assistita dalle O.N.G., e i rifugiati sudanesi soccorsi, invece,

dall’U.N.H.C.R. Inoltre le continue incursioni della milizia janjaweed all’interno dei

territori chadiani hanno inasprito le relazioni tra i due stati e hanno posto il governo di

N’djamena620 di fronte alla necessità di decidere se tutelare la propria popolazione o i

rifugiati del Darfur621.

Alcuni dati, aggiornati al 2008/2009, riferiscono che a partire dal 2003 il con-

flitto in Darfur aveva allora coinvolto oltre 4.2 milioni di persone, delle quali circa 2.4

milioni vivevano in una situazione di nomadismo come profughi sfollati interni al Dar-

fur stesso622. Oltre 1.8 milioni del totale sono ragazzi minori di anni 18623.

La situazione affrontata dei rifugiati sudanesi che cercano protezione nei paesi

arabi è stata ed è, tuttora, ancora più complessa. Infatti nella maggior parte dei paesi

arabi è praticamente impossibile che essi ricevano il riconoscimento dello status di rifu-

giato, non vivono organizzati in campi e pochi sono effettivamente assistiti

dall’U.N.H.C.R., vivendo pertanto in condizione di illegalità e precarietà624.

The data are generally provided by Governments, based on their own definitions and methods of datacollection. A dash (-) indicates that the value is zero, not available or not applicable.Source:UNHCR/Governments. Compiled by: UNHCR, FICSS.620 Capitale del Chad.621 In merito alle storie dei richiedenti asilo del Darfur, profughi nella regione del Darfur o accolti in Chadsi veda J. Marlowe, A. Bain e A. Shapiro, Darfur Diaries: Stories of Survival, Nation Books, NY, 2006.622 John Holmes, U.N. sottosegretario per gli affair umanitari durante un discorso Avanti al Consiglio diSicurezza, in merito alla situazione del Darfur nel 2008.623 UNAMID http://unamid.unmissions.org .624Comittee in Civil Project, Invisible Citizens’: Refugees, Expatriates and Internally Displaced Persons,Issue Paper F 5, consultabile sul sito www.nubasurvival.com .

237

Ne è stato un esempio la situazione affrontata dai rifugiati del Darfur in Egitto.

La situazione dei profughi sudanesi in Egitto ha caratteristiche particolari a causa delle

relazioni che sono intercorse in passato tra i due paesi. In particolare in Egitto, ma anche

in Libano e in Siria625, numerosi rifugiati del Darfur si sono lamentati del trattamento

ricevuto dal personale locale dell’U.N.H.C.R., e hanno sostanzialmente asserito di

“essere tenuti bloccati in un “limbo” amministrativo”626, in cui sono costretti ad aspetta-

re, senza alcun tipo di assistenza, quasi due anni per vedere le proprie richieste d’asilo

almeno esaminate. In Egitto, in particolar modo, le tensioni tra i rifugiati del Darfur, la

sede locale dell’U.N.H.C.R. e le autorità locali sono sfociate in uno scontro molto vio-

lento alla fine di dicembre del 2005. Dalle fine di settembre dello stesso anno infatti, un

gruppo di circa 3000 rifugiati provenienti dal Darfur si era accampato in un piccolo par-

co, nel quartiere di Mohandiseen, di fronte alla sede dell’U.N.H.C.R. del Cairo, per

protestare contro la sospensione dell’esame delle loro richieste d’asilo. I rappresentanti

dell’U.N.H.C.R. avevano infatti interrotto l’esame delle domande d’asilo, affermando

che il Sudan, in seguito alla firma degli accordi di pace nel sud non era più un paese in

guerra ed era, pertanto, considerato un luogo sicuro627 a cui far ritorno. Dopo tre mesi di

proteste e trattative fallite, la notte del 29 dicembre, la polizia egiziana aveva comin-

ciato lo sgombero dei profughi, tra cui donne e bambini, utilizzando dei cannoni a getto

d’acqua e minacciando di intervenire con la forza. In seguito all’ennesimo rifiuto da

parte dei rifugiati di abbandonare il parco, un gruppo composto da 5000 agenti della

polizia egiziana, in tenuta antisommossa, aveva caricato gli asilanti, inermi e disarma-

ti628.

Le fonti ufficiali delle autorità locali dichiararono la morte di 28 persone a se-

guito degli scontri. Ma le associazioni sudanesi presenti al Cairo e alcuni rappresentanti

della stampa estera calcolarono un totale di almeno 265 vittime. Le autorità egiziane,

interrogate sugli avvenimenti, dichiararono di essere intervenute su richiesta del perso-

nale dell’U.N.H.C.R.

625 In Siria vi furono numerosi scontri nel 2000 che videro coinvolti i rifugiati sudanesi provenienti dalleregioni a sud del Sudan. In P. Verney, FMO Cuntry Guide: Sudan, cit.626 Traduzione personale dall’inglese in P. Verney, FMO Cuntry Guide: Sudan, cit., pag. 24.627 D. Morse, Murder from Darfur to Cairo, 13 gennaio 2006, consultabile sul sito www.salon.com .628 Ibidem.

238

Il Parlamento Europeo, il 19 gennaio del 2006629, emise una risoluzione

“sull'Egitto e le violenze nei confronti dei rifugiati sudanesi”, nella quale venivano illu-

strati i fatti verificatisi al Cairo e venivano considerate anche precedenti violazioni dei

diritti umani in Egitto. Furono anche ascoltate le testimonianze della stampa internazio-

nale presente in loco sul numero delle vittime e sui successivi arresti degli asilanti e

l’Egitto venne invitato al rispetto degli accordi internazionali, in particolare al rispetto

del principio del non-refoulement, ex Art. 33, della Convenzione di Ginevra. La risolu-

zione del Parlamento Europeo, pur dimostrando un interesse dell’Unione relativamente

all’accaduto, rimase un documento a valenza esortativa ma con poche possibilità di in-

fluenzare in maniera concreta i comportamenti delle autorità egiziane.

Peraltro, ai sensi della Direttiva sulle Procedure630, del 2005, prescindendo dai

recenti eventi che ne hanno sconvolto l’assetto politico istituzionale, l’Egitto veniva

considerato nel novero dei c.d. “paesi terzi sicuri”.

I rifugiati proveniente dal Darfur hanno poi incontrato forti ostilità anche in

Israele. Infatti nonostante fino al mese di agosto 2007, fossero stati accolti circa 500 ri-

fugiati provenienti dal Darfur, ai quali era stato concesso un permesso per motivi uma-

nitari, il portavoce israeliano David Baker dichiarò che a partire dal 20 agosto 2007, “la

politica di rispedire chiunque entri in Israele illegalmente, (dal confine a sud del paese

con l’Egitto ndr) a partire da oggi verrà applicata a chiunque, inclusi coloro che arri-

vano da Darfur”631. Durante la notte precedente le autorità israeliane avevano già prov-

veduto a respingere oltre confine almeno 48 richiedenti protezione internazionale pro-

venienti dal Darfur senza esaminarne le domande.

Le autorità israeliane si sono giustificate spiegando che delle oltre 2.800 persone

in cerca di protezione internazionale entrate illegalmente nel paese negli ultimi anni

(sempre con riferimento agli anni precedenti il 2007), oltre 1.160 erano provenienti dal

Sudan e che offrire protezione a tutte diventava impossibile. Peraltro, poichè prove-

nienti dall’Egitto, a parere delle autorità israeliane, le stesse potevano presentare do-

manda di protezione internazionale in tale stato632. Nonostante poi le autorità egiziane

629 Risoluzione del Parlamento europeo sull'Egitto e le violenze nei confronti dei rifugiati sudanesi, 19gennaio 2006, consultabile sul sito www.europarl.europa.eu .630 Si veda supra, capitolo Ι.631 D. Baker, “Israel turns away Darfur refugees”, BBC News, 20.8.2007http://news.bbc.co.uk/2/hi/6954663.stm .632 Ibidem.

239

avessero rassicurato l’opinione pubblica che non avrebbero a loro volta respinto i ri-

chiedenti asilo darfuriani in Sudan, la polizia egiziana ha smentito tale circostanza

all’Associated Press, sostenendo che gli stessi sarebbero stati rispediti in Sudan. Un im-

piegato del Ministero degli Esteri egiziano, rimasto anonimo, ha poi confessato alla

stampa americana che l’Egitto non aveva in alcun modo garantito alle autorità israeliane

l’accoglimento dei richiedenti asilo darfuriani e che queste, in realtà non avevano chie-

sto alcuna rassicurazione in merito633.

La situazione dei rifugiati sudanesi che riescono a raggiungere i paesi occidentali

non è certamente più rosea. Prima del 1990, i pochi cittadini sudanesi che riuscivano a

lasciare il paese erano membri appartenenti alla borghesia ricca ed intellettuale. Agli

inizi degli anni ‘90, con l’avvento del regime musulmano-estremista, il flusso dei rifu-

giati sudanesi aumentò, ma l’apertura dei pozzi di petrolio e l’intensificarsi delle rela-

zioni commerciali in questo settore, fecero in modo che, per molto tempo, l’occidente

legittimasse il governo di Khartoum, respingendo pertanto gli asilanti provenienti dal

Sudan634.

Non ho potuto reperire dati relativi alla situazione dei richiedenti asilo del Dar-

fur in Australia e Nuova Zelanda, ma trovo interessante citare qui alcuni passaggi di una

sentenza di appello, contro un diniego di protezione internazionale presentato da un ri-

chiedente asilo del Darfur, con la quale la Refugee Status Appeal Authority di Auckland,

ha riconosciuto allo stesso lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Gine-

vra635. Si legge in essa, infatti:

“Bisogna qui considerare che l’appellante ha esposto un rischio di

essere perseguitato se venisse riinviato in Sudan, fondato su due motivi. Il

primo basato sul fatto che teme, quale persona di origine etnica mista rei-

zegat/al-mesalit ma con numerosi tratti somatici africani (invece che arabi),

di essere gravemente a rischio di persecuzione fisica da parte della milizia

janjaweed e delle forze di governo. In secondo luogo, ha illustrato come

data la sua età, idonea allo svolgimento del servizio militare, egli si oppon-

ga ad essere arruolato nel Sudanese Army poiché lo stesso si è reso respon-

633 E. Knickmeyer, “ Israel to Block New Refugees From Darfur”, Washington Post, 20.8.2007,www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2007/08/19/AR2007081900391.html .634 P. Verney, FMO Country Guide: Sudan, cit.635 Refugee Status Appeal Authority, n. appeal 76173, Auckland, 8 maggio 2008,http://www.unhcr.org/refworld/pdfid/482430852.pdf .

240

sabile di gravi violazioni dei diritti umani contro la popolazione del Darfur,

per lo più di etnia africana, in particolare contro coloro che come lui di-

scendono dalle etnia al-Mesalit. La presente autorità è soddisfatta e ritiene

che vi sia un pericolo concreto che il richiedente, qualora fosse rinviato in

Sudan potrebbe essere oggetto di persecuzione. Nel raggiungere tale con-

clusione sono considerati anche i seguenti fattori. Abbiamo in nostro pos-

sesso numerosi rapporti che documentano i rischi corsi dai darfuriani che

hanno cercato protezione oltre mare una volta rinviati all’aeroporto di

Khartoum (…). In secondo luogo se anche sopravvivesse e lasciasse

l’aeroporto e fosse riportato in Darfur, l’appellante verrebbe posto in tale

condizione, pur essendo già ora un profugo. Con la morte del padre, la fuga

della madre e dei suoi fratelli e la distruzione della casa di famiglia, infatti

le possibilità che l’appellante si ristabilisca in maniera sicura nel proprio

villaggio sono poche. Se anche vi riuscisse il rischio che nello stesso vi sia-

no nuove incursioni della Janjaweed rimane elevato. (…) L’effetto di forza-

re i darfuriani in condizione di marginalità costituisce di per sé “essere

perseguitato” ai sensi della Convenzione di Ginevra. Tali persone soffrono

numerose violazione dei diritti umani, inclusa (ma non certo in maniera

esaustiva) la violazione arbitraria della loro privacy, della sicurezza della

loro persona, dell’unità familiare, della sicurezza fisica e dell’abilità di la-

voro e/o di provvedere a loro stessi.636”

Tale sentenza illustra in maniera molto chiara, in numerosi altri passaggi, come

la Corte abbia fondato la propria decisione anche su una conoscenza puntuale e detta-

gliata della situazione dei richiedenti asilo del Darfur in Sudan e in altri paesi, basata sui

rapporti di numerose organizzazioni non governative, nonché su alcuni precedenti giuri-

sprudenziali e come, ciò nonostante, in sede amministrativa tali fattori non siano stati

considerati e il richiedente asilo, giunto in Australia nel marzo 2007 e pur aver presen-

tato immediatamente domanda di protezione internazionale, ha dovuto attendere oltre

14 mesi per vedersi riconoscere lo status di rifugiato.

La narrazione ora effettuata della situazione affrontata dai richiedenti asilo pro-

venienti dal Darfur in Sudan e nel mondo non pretende certo di essere esaustiva, non

636 Ibidem. Traduzione personale dall’inglese.

241

formando peraltro l’oggetto principale di questa ricerca, ma serve ad avere una visione

generale di come gli stessi sono trattati da diverse autorità e come, per essi, ottenere il

riconoscimento dello status di rifugiato o di altra forma di protezione internazionale sia

sempre stato complicato quando non impossibile.

2. Presenza e trattamento dei rifugiati del Darfur in Italia

In Italia, come precedentemente specificato637, il fenomeno dell’asilo è relativa-

mente recente. Tuttavia, data la particolare posizione geografica del nostro paese, negli

ultimi anni gli sbarchi di rifugiati, provenienti soprattutto dall’Africa, si sono intensifi-

cati.

In seguito ad un breve colloquio telefonico, avvenuto nel 2007, con il Primo Se-

gretario, presso l’Ambasciata Italiana a Khartoum, Andreina Marsella, è risultato che la

maggior parte dei rifugiati, in fuga verso l’occidente, lasciavano allora il Sudan illegal-

mente attraverso le frontiere con il Chad, più facili da superare e proseguivano poi da lì

verso la Libia dove, tramite associazioni criminali, s’imbarcavano per raggiungere le

coste italiane. La signora Marsella aveva anche riferito che i visti rilasciati

dall’Ambasciata Italiana a cittadini sudanesi, nel corso dell’anno 2006, erano risultati

essere circa 900, ma non esistevano dati su quanti di coloro in possesso di un visto tem-

poraneo avessero poi fatto ritorno. Il tipo di visto e le motivazioni per cui era stato rila-

sciato non furono specificati. La signora Marsella, inoltre, non aveva potuto fornirmi

dati precisi relativamente all’effettivo numero di profughi interni presenti nel territorio e

di rifugiati che lasciavano il paese, in quanto le autorità sudanesi, più volte interpellate

sull’argomento, non avevano fornito risposte attendibili. Un tentativo più recente di ot-

tenere dati aggiornati dall’Ambasciata Italiana a Khartoum non ha fornito risultati.

Secondo i dati elaborati dal programma di ricerca statistica dell’UNHCR, i ri-

chiedenti asilo provenienti dal Sudan, - non sono purtroppo disponibili dati relativi ai

soli darfuriani - , che hanno presentato domanda di protezione internazionale in sede

amministrativa, tra il 2006 e il 2010 sono riportati nella tabella di seguito638:

637 Si veda supra, capitolo III.638 UNHCR Statistical Online Population Database, United Nations High Commissioner for Refugees(UNHCR), Dati estratti il 30.03.2011,www.unhcr.org/statistics/populationdatabase.

242

-Asylum Seekers -> Applied during year (First Instance Only) -> Originating from -

> World -> A/S (Applied during year) Originating fr om -> Sudan in Italy

(Periodicity: Year, Applied Time Period: from 2006 to 2010)

2006 2007 2008 2009 2010

Italy 0 383 493 90 38

Tali dati, come vedremo non collimano completamente con quanto riferito dai

rappresentanti delle comunità locali sulla popolazione darfuriana effettivamente pre-

sente sul territorio, in parte a causa degli arrivi precedenti a tale periodo, ma anche al

fatto che non tutti hanno presentato domanda di protezione internazionale immediata-

mente all’arrivo o direttamente in Italia e alcuni sono poi stati ricongiunti da altri paren-

ti, ma non se ne discostano neppure in maniera significativa.

Relativamente alla presenza dei rifugiati del Darfur in Italia, ritengo sia interes-

sante riferire cinque diverse situazioni, verificatesi in quattro diverse città italiane negli

ultimi anni, che possono illustrare in modo chiaro le conseguenze dovute alle mancanze

del sistema italiano di accoglienza e protezione dei rifugiati.

Mi riferisco, in particolare, ai 53 rifugiati sudanesi “fantasmi” a Palermo, nel

2003, allo sgombero dello stabile situato in Via Lecco 9, a Milano, nel dicembre del

2005639, alla protesta di un gruppo di circa 190 rifugiati, la maggior parte proveniente

dal Darfur, in cerca di una sistemazione stabile, avvenuta a Torino, nel febbraio del

2007, all’iniziativa assunta da un’O.N.G. di Parma per ospitare un gruppo di 25 asilan-

ti, anch’essi privi di una sistemazione, ad aprile del 2007, all’occupazione abusiva di

una palazzina abbandonata a Torino, in via Bologna da parte di un gruppo di circa dieci

darfuriani titolare di protezione sussidiaria, nel 2009.

Il primo caso citato si è verificato a Palermo, nel 2003 ed ha poi avuto dei ri-

svolti in tempi recenti. Un gruppo di rifugiati sudanesi,la maggior parte proveniente dal

Darfur, i quali avevano raggiunto Lampedusa in barca, nel 2001, ed erano poi stati rin-

chiusi per oltre venti giorni nel C.P.T.A. di Agrigento640, sono infine giunti a Palermo.

Nei mesi seguenti grazie all’aiuto di un centro d’accoglienza per immigrati, allestito da

Padre Meli presso la Parrocchia di Santa Chiara, gli asilanti sudanesi hanno potuto pre-

639 Contestualmente agli scontri tra i rifugiati del Darfur e la polizia, al Cairo.640Il C.P.T.A. di Agrigento è stato poi chiuso.

243

sentare domanda d’asilo e hanno percepito per qualche tempo uno scarso sussidio, elar-

gito dalla prefettura locale. In seguito si sono spostati presso la “Missione di speranza e

carità”, gestita dal frate laico Biagio Conte. Si trattava di uno spazio d’accoglienza per

immigrati allestito all’interno di un ex-caserma dell’aeronautica, occupata abusivamen-

te. Lo spazio era riempito ben oltre le sue possibilità e le condizioni di vita al suo inter-

no erano rese sempre più inadeguate dalla sovrappopolazione e dalle regole rigidissi-

me641, istituite all’interno della Missione. In seguito ad un diverbio avvenuto, alla fine

di febbraio del 2003, tra tre asilanti sudanesi e un altro immigrato proveniente da

un’altra regione africana, e alla conseguente espulsione dei tre ragazzi, l’intera comunità

sudanese, inclusi i darfuriani, decise di abbandonare la Missione, per trovare una siste-

mazione più idonea e dignitosa. Dopo aver vagato per Palermo per giorni senza che fos-

se proposta alcuna soluzione istituzionale, gli stessi sono stati accolti ed ospitati presso

lo spazio occupato dal Laboratorio Zeta, un centro socio-culturale molto attivo nella

lotta all’antirazzismo. Luca642, uno degli operatori del Laboratorio Zeta, ha spiegato:

“Sono arrivati qui perché a Santa Chiara non c’era più spazio, visto che parte della

struttura è stata danneggiata dal terremoto di qualche mese fa. Hanno trascorso qualche

tempo nella missione di Biagio Conte, un frate laico che nel suo centro ha regole rigi-

dissime: non possono entrare le donne, non si può guardare la televisione, non si può

stare a chiacchierare in gruppi maggiori di tre...”. La sistemazione presso il Laboratorio

Zeta doveva essere temporanea, “un paio di notti al massimo”643, in realtà dopo poco,

divenne evidente che sarebbe diventata quasi permanente. Tuttavia il Laboratorio Zeta,

essendo allora una spazio occupato, non poteva essere riconosciuto come una soluzione

dalle istituzioni che non erano però neppure disposte a trovare agli asilanti sudanesi dar-

furiani una sistemazione differente. Non potevano ufficialmente riconoscere che vive-

vano lì, in uno spazio abusivo da sgomberare; così non concedettero al Laboratorio la

possibilità di allacciarsi all’acqua corrente, ma periodicamente rifornivano il centro,

tramite un’autocisterna per consentire un minimo di igiene personale agli “ospiti”. Inol-

tre ben presto i sussidi finirono e il Laboratorio Zeta dovette organizzarsi autonoma-

mente per fornire il vitto agli “ospiti”. Gli operatori del Laboratorio Zeta intanto parte-

cipavano alle riunioni coi rappresentanti di prefettura, comune e provincia, per cercare

641 Si veda infra, paragrafo 3, la testimonianza diretta su questa esperienza.642 P. Abbate, “Cinquantatrè sudanesi ‘fantasmi’ a Palermo”, Il Manifesto, 21 aprile 2003.643 Ibidem.

244

soluzioni istituzionali, adeguate e soddisfacenti. Concretamente, solamente la provincia

si era impegnata a concedere quattro case cantoniere fuori Palermo, ma solo per un pe-

riodo di tre mesi e solamente per 24 persone. All’impegno formale tuttavia non fece se-

guito alcuna iniziativa concreta. Nello stesso momento venne presentata

un’interpellanza del consigliere comunale Antonella Monastra al sindaco, per sapere

«che fine hanno fatto i 500 mila euro versati da stato e regione al Comune come fondi

per i rifugiati»644, a cui tuttavia non seguì alcuna risposta. In seguito alle attività di

Emergency, del Ciss, dell’Asgi, del centro di documentazione Peppino Impastato, del

Forum sociale siciliano, e di Libera si propose di istituire proprio al Laboratorio Zeta

uno spazio interculturale, punto di partenza per la creazione di un centro di accoglienza

«pubblico, laico e autogestito» a Palermo. E venne anche lanciata una sottoscrizione

popolare “Pro rifugiati sudanesi”, per garantire loro tramite il Centro i mezzi minimi di

sostentamento e per coprire le spese legali necessarie per la presentazione delle doman-

de d’asilo. In questo primo caso ma, come vedremo in seguito, anche negli altri

l’assenza delle istituzioni nel fornire assistenza, legale e non, ai richiedenti asilo è lam-

pante e, al tempo stesso, sconcertante.

Dopo numerosi anni nel quale il Laboratorio Zeta di Palermo ha continuato ad

operare offrendo accoglienza ed aiuto ai rifugiati sudanesi in prevalenza del Darfur

sempre a margine della legalità, il 20 gennaio 2010, lo stesso è stato sgomberato. Il

Comune di Palermo non è stato capace di chiudere la mediazione allora in corso da al-

cuni mesi “per assegnare agli occupanti la gestione della struttura, sita in via Boito a

Palermo, nonostante i numerosi riconoscimenti dell`utilità sociale delle attività del La-

boratorio Zeta e le forniture di acqua, luce e provviste”645, nonostante persino il portale

web del Comune di Palermo descrivesse il laboratorio Zeta come uno dei luoghi di ac-

coglienza per i richiedenti asilo che la città offriva. Quella notte oltre venti titolari di

protezione internazionale, sgombrati dalla struttura hanno dovuto dormire all’aperto,

perchè il Comune non ha saputo, o voluto, trovare alcuna soluzione alternativa per la

notte646.

644 Ibidem.645 F. V. Paleologo, Sgomberato lo Zetalab. Feriti ed arresti, cacciati i rifugiati sudanesi, 20 gennaio2010, terre libere.org, http://www.terrelibere.org/3942-palermo-sgomberato-lo-zetalab-feriti-ed-arresti-cacciati-i-rifugiati-sudanesi.646 Ibidem.

245

Il 9 febbraio 2010 i rifugiati sudanesi hanno inoltrato una lettera alle autorità

palermitane chiedendo loro aiuto647:

“Nel Darfur, che è la regione da dove noi arriviamo, dal 2003 c’è

una terribile guerra civile che ha causato circa 500.000 morti e 2 milioni di

profughi. Noi siamo stati costretti a scappare, a lasciare le nostre famiglie,

il nostro lavoro, la nostra terra per non rischiare ogni giorno di morire.

E in Sudan i problemi politici stanno aumentando sempre più.

Qui in Italia abbiamo ottenuto l’asilo politico.

Da quando siamo a Palermo (alcuni arrivati nel 2003, altri negli anni se-

guenti) viviamo in via Boito 7, al Laboratorio Zeta, che è diventato la no-

stra casa. Assieme ai ragazzi italiani abbiamo ricominciato a vivere, quan-

do è possibile a lavorare ed anche a studiare l’italiano e conoscere i nostri

diritti. Dal 19 gennaio, dopo uno sgombero, dormiamo nelle tende. E da

allora ci chiediamo se un paese dove l’asilo politico è un diritto, non deve

anche garantire la nostra permanenza nel luogo che ci ha accolti quando

non avevamo nessuno che ci aiutava.

Abbiamo passato più di venti giorni all'aperto con pioggia, gelo e vento

forte, ma per noi la questione non è solo quella di un letto per dormire.

Al Laboratorio Zeta abbiamo vissuto anche un sacco di eventi sociali: ab-

biamo festeggiato matrimoni, abbiamo pianto insieme i nostri morti, abbia-

mo gioito quando sono nati nuovi bambini.648”

In maniera simile sono indicativi anche gli eventi di Via Lecco 9, a Milano, che

ebbero origine durante l’estate del 2005, quando un gruppo composto da circa duecento

africani, di cui parte provenienti dal Darfur, alloggiati in pessime condizioni in una ex

caserma dell’Aeronautica Militare, situata alla periferia della città, decisero di cercare

una differente sistemazione. I rifugiati, dopo aver atteso per alcuni mesi una soluzione

istituzionale, il 15 novembre, dello stesso anno procedettero ad occupare illegalmente

uno stabile abbandonato in Via Lecco, al civico 9. Quando, nei giorni seguenti, la Pre-

fettura controllò i documenti degli occupanti, contò 269 persone, tra cui 25 donne e 10

bambini. Tra essi 23 risultarono avere lo status di rifugiato ex Convenzione di Ginevra,

647 Il testo integrale è disponibile sul sito dello Zetalab al seguente indirizzohttp://www.inventati.org/zetalab/index.php?mod=read&id=1265735449 .648 Ibidem.

246

32 erano asilanti in attesa dell’audizione davanti alla Commissione e 214 avevano il

permesso di soggiorno per motivi umanitari649. L’edificio di Via Lecco era composto da

una struttura pericolante di 4 piani e, benché privo di luce, acqua e riscaldamento, venne

considerato dai rifugiati più idoneo e dignitoso della precedente sistemazione offerta lo-

ro dal Comune di Milano. Dopo alcuni giorni di resistenza pacifica, il 27 dicembre del

2005 la polizia procedette allo sgombero dell’edificio. Per i 269 rifugiati sgomberati

non era, tuttavia, stata prevista un’alternativa idonea. Dopo una notte passata all’aperto,

il giorno successivo, i rifugiati furono portati al Centro della Protezione Civile, in Via

Barzaghi, a Milano. Senza apparenti ragioni vennero trattenuti presso tale centro tutto il

giorno, senza che venisse fornito loro neppure un pasto. Alle delucidazioni che furono

richieste in proposito, l’Assessore alla Sicurezza, G. Manca, eletto nelle liste di A.N.,

dichiarò: “Non abbiamo previsto nessun pasto caldo perché prima dovevano accettare

le nostre condizioni” 650. La stessa sera, non essendo stato trovato un accordo, i rifugiati

si accamparono sotto la neve, in Piazza del Duomo e solo allora il Presidente della Pro-

vincia Penati decise di sistemarli temporaneamente nel Palazzo della Provincia, in Via

Isimbardi. La soluzione, evidentemente adottata in una situazione di emergenza, diede il

via ad una scontro sulle competenze tra Provincia e Comune651. Il giorno seguente, gra-

zie alla mediazione della Provincia, venne trovato un accordo e i rifugiati acconsentiro-

no ad essere sistemati temporaneamente, fino al 10 gennaio 2006, in container e dor-

mitori sparsi tra Milano e Legnano. L’allora Sindaco Albertini, chiamato a rispondere

della propria assenza durante le trattative, dichiarò: “Innanzitutto facciamo chiarezza

sullo status delle persone di cui parliamo: 15 sono rifugiati, 15 richiedenti asilo e 231

clandestini ma dotati di permesso di soggiorno provvisorio per motivi umanitari”652.

Ritengo che tale dichiarazione sia esemplificativa della posizione assunta da certe forze

politiche italiane in materia d’asilo nonché della loro ignoranza in materia. Come ab-

biamo avuto modo di approfondire nel terzo capitolo, infatti, l’allora permesso di sog-

giorno per motivi umanitari, peraltro molto diffuso tra i darfuriani, ora titolari di prote-

zione sussidiaria, escludeva automaticamente che gli stessi fossero clandestini conce-

649Via Lecco 9, Reportage a cura di Daniela Padoan, in onda a gennaio del 2006 su Rainews24, reperibileon-line all’indirizzo www.rainews24.it .650 Presentazione del Reportage Via Lecco 9, D. Padoan (a cura di), reperibile sul sitohttp://www.speakers-corner.it/bompiani/_minisiti/testimonianze/via_lecco9.htm .651 Ibidem.652 Ibidem.

247

dendo loro un titolo idoneo alla permanenza e al soggiorno nel territorio italiano. Le si-

stemazioni offerte dal Comune si rivelarono in breve tempo insufficienti e, in seguito

alla pubblicazione di foto che testimoniavano le scarse condizioni igienico-santarie of-

ferte dai container e alla visita di un rappresentante dell’U.N.H.C.R., l’Assessore

Maiolo acconsentì a cercare altre soluzioni temporanee che furono, alla fine, giudicate

soddisfacenti. Una sola soluzione, quella che prevedeva che il gruppo di rifugiati suda-

nesi, la maggior parte dei quali provenienti dal Darfur, fossero alloggiati nel dormitorio

di Viale Ortles, data la mancanza di spazio e strutture, non fu accettata. Secondo, però,

quanto sostenuto dal rappresentante dei 63 rifugiati sudanesi, l’Assessore Maiolo li mi-

nacciò di privarli dei permessi di soggiorno per ragioni umanitarie qualora non avessero

accettato la soluzione offerta. Per questa ragione i rifugiati abbandonarono il dormitorio

di Viale Ortles, nell’intento di raggiungere la sede dell’O.N.U. a Ginevra, per denuncia-

re il trattamento subito a Milano653. Dopo essere stati fermati e arrestati dalle autorità

svizzere e in seguito a numerose conversazioni intercorse tra le Nazioni Unite, il gover-

no svizzero e quello italiano, rientrarono in Italia, dove grazie ad una mediazione della

Provincia e di alcune O.N.G. locali, acconsentirono a sistemarsi nuovamente in Viale

Ortles, dove però a quel punto fu loro concesso di trattenersi solamente durante le ore

notturne. Dopo alcune settimane furono destinati al Convitto di Viale Piceno, soluzione

che fu ritenuta idonea da tutte le parti in causa.

Al termine della vicenda l’Assessore Maiolo, che aveva già rilasciato dichiara-

zioni molto forti e, peraltro, dubbie in precedenza, dichiarò ai giornali:

“con questa gente si rischia di diventare razzisti. I cittadini mi rimprovera-

no di troppa cedevolezza, la cosa più leggera che dicono dei rifugiati è fo-

eura di ball”654.

Nella città di Torino655, dove era stata registrata la presenza di un gruppo di circa

200 asilanti, la maggior parte proveniente dal Darfur, nel mese di febbraio del 2007 un

gruppo composto da circa 50 di loro, sbarcati sulle coste italiane nel mese di dicembre,

organizzò una protesta davanti al Palazzo del Comune, richiedendo alle autorità locali

che fosse fornita loro una sistemazione stabile. I primi ad intervenire furono i membri

653 Ibidem.654 Ibidem.

248

del Comitato Cittadino dell’ARCI, che prestarono assistenza al gruppo di rifugiati di-

rettamente sul luogo della protesta e che misero a disposizione i locali di due circoli

ARCI, come sistemazione temporanea. Stefano, operatore sociale del Circolo Arci la

Fucina del Lampadiere, ha dichiarato: “Il Comune ci chiese di ospitarli per pochi giorni,

una settimana al massimo. All’inizio alloggiammo presso la sede del Circolo 27 rifu-

giati, la maggior parte del Darfur, tutti dotati di permesso di soggiorno per motivi uma-

nitari. La sede del nostro Circolo però era troppo piccola, non c’era la cucina, i servizi

erano inadatti e riscaldarla era un problema. Si sono fermati da noi dal 4 dicembre al 15

gennaio, nell’attesa che il Comune trovasse delle soluzioni più durature, e intanto ab-

biamo costruito la cucina, messo a posto i bagni e ricavato una stanza da otto, costruen-

do un muro di cartongesso”. I rifugiati darfuriani, però, necessitavano di una soluzione

più duratura onde poter stabilire la residenza, frequentare corsi di formazione professio-

nale e cercare lavoro. Per questa ragione il Comitato Cittadino dell’A.R.C.I. si mise in

contatto con il Tavolo per i Rifugiati Politici, composto da Amnesty International, Ser-

mig, Pastorale per i Migranti, Associazione Frantz Fanon, Asgi e numerose altre asso-

ciazioni, in modo da poter trovare una soluzione. Dopo una serie di trattative tra le auto-

rità locali, i rappresentanti dei rifugiati e quelli del Tavolo per i Rifugiati Politici si tro-

vò un accordo che prevedeva la sistemazione non solo di coloro che avevano parteci-

pato alla protesta, ma di tutti i 190 rifugiati provenienti dal Darfur, in alcuni edifici ge-

stiti da un ente locale per un periodo abbastanza lungo (9 mesi), e in un’altra serie di si-

stemazioni.

La rete dei Circoli Arci di Torino, ha presentato due progetti al Comune di Tori-

no, onde fornire un alloggio, ma anche un percorso di formazione e inserimento nella

società italiana e nel mondo del lavoro, al gruppo di rifugiati.

All’inizio del 2008 otto ragazzi rifugiati del Darfur, erano ospitati presso il Cir-

colo Arci, la Fucina del Lampadiere, una ventina presso il Circolo Arci Dravelli, e altri

erano stati dislocati presso appartamenti da sei o otto persone.

Stefano, operatore presso la Fucina del Lampadiere, ha dichiarato: “Non aveva-

mo mai gestito situazioni di questo tipo prima. Per quel primo mese in cui erano qui in

27 non abbiamo mai ottenuto i rimborsi. Ora (nel 2007) il Comune di Torino, ci rimbor-

sa circa 17 euro al giorno, per ognuno degli otto ragazzi che sono ospitati presso il no-

655 Emergenza Darfur, Arci Nuova Associazione, Comitato di Torino (a cura di), 10 febbraio 2007, con-

249

stro circolo. Con quei soldi cerchiamo di fare la spesa, che poi si gestiscono e cucinano

da soli, e cerchiamo di dar loro piccole cifre per le spese quotidiane.”

Al Circolo Arci Dravelli, la situazione è un po’ più complessa dato l’elevato

numero degli ospiti. Valentina, operatrice sociale della rete degli Arci torinesi, mi spie-

ga: “Non è stato possibile dar loro la possibilità di cucinare al Dravelli, perché in venti

la gestione della cucina sarebbe troppo caotica, pertanto è sempre necessario che vi sia

qualcuno che organizzi i pasti, mentre i ragazzi sono a scuola o al lavoro. Inoltre, data

l’esiguità dei rimborsi è difficile anche offrire loro una dieta variata. La cosa più sem-

plice e più economica da cucinare è la pasta. Alla lunga, però, anche loro un po’ si sono

stufati di mangiare sempre pasta”.

I Circoli Arci, all’interno dei loro progetti, hanno previsto anche un percorso di

formazione che prevede l’insegnamento della lingua italiana e la frequenza di corsi pro-

fessionali di avviamento al lavoro.

Per i corsi di italiano presso la Fucina del Lampadiere, Stefano mi ha spiegato

che si sono rivolti alla facoltà di lingue dell’università di Torino, dove hanno trovato tre

ragazzi, frequentanti i corsi di arabo, che si sono offerti di dare delle classi di italiano

nel fine settimana, mentre per i corsi professionali hanno inserito i ragazzi rifugiati in

una serie di scuole professionali dove studiano per diventare tornitori, saldatori e fale-

gnami. In seguito è la scuola stessa che cerca di procurare loro uno stage presso

un’azienda, nella speranza che si possa poi trasformare in un lavoro stabile.

Ancora una volta le soluzioni approntate dal sistema italiano d’asilo sono risul-

tate insufficienti e ancora una volta è stato necessario l’intervento delle Organizzazioni

Non Governative per trovare sistemazioni pratiche e concrete. Data la mancanza di

strutture pubbliche destinate a questo settore e date le lacune del nostro sistema legisla-

tivo in materia di asilo, garantire protezione ed assistenza ai rifugiati, in Italia, risulta

davvero arduo, se non addirittura impossibile.

Un caso analogo656, ma a cui non fu mai trovata una soluzione definitiva, si è

verificato a Parma, a metà del mese di aprile del 2007. Un gruppo di circa 25 persone

provenienti da diverse aree africane, tra le quali il Darfur, dopo essere state trattenute

sultabile sul sito http://www.arcitorino.it/darfur .656 E. Ferri, Rifugiati dal Darfur – L’accoglienza italiana, Redazione Progetto Melting Pot Parma, 16aprile 2007, consultabile sul sito www.meltingpot.org .

250

nei centri di identificazione e aver ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umani-

tari, erano state rilasciate ma senza alcun tipo di assistenza.

Arrivati nella città di Parma, durante l’inverno del 2006/2007 sono stati allog-

giati, su iniziativa di un gruppo di associazioni locali, in un dormitorio che però è stato

chiuso alla fine della stagione. Trovatisi nuovamente senza una sistemazione stabile,

sono stati aiutati dal Comitato Antirazzista locale e hanno occupato un edificio abban-

donato. Di loro non è più stato possibile reperire alcuna informazione.

Alla fine dell’anno 2010 sono entrata in contatto a Torino con un mediatore

culturale di origine sudanese, in Italia ormai da oltre vent’anni, T.657, che da oltre quat-

tro collabora con vari centri di accoglienza sostenuti dal Comune di Torino presso i

quali sono stati ospitati numerosi richiedenti asilo del Darfur. Grazie al suo aiuto sono

entrata in contatto con un gruppo di circa dieci ragazzi provenienti dal Darfur, ai quali

nel periodo tra il 2007 e il 2008 è stato concesso il permesso di soggiorno per motivi

umanitari, ora convertito in protezione sussidiaria. Nonostante la regolarità del loro

soggiorno in Italia, gli stessi si sono trovati privi di alcuna assistenza e insieme ad altri

piccoli gruppi di asilanti hanno occupato uno stabile sito in Via Bologna a Torino, dove

ormai risiedono da quasi tre anni. T. e altri operatori del Comune hanno cercato di por-

tare avanti un dialogo tra questi richiedenti e le istituzioni, ma da un lato è risultato che

“i darfuriani non si fidano, un po’ per le terribili esperienze vissute

in patria con le istituzioni un po’ perché anche in Italia, sono rimasti delusi

troppe volte, preferiscono restare uniti in una situazione al limite della le-

galità che essere separati e sparsi per il territorio. Dall’altro lato il Comu-

ne non si è troppo applicato per trovare soluzioni effettive al problema. So-

stanzialmente la soluzione di Via Bologna ha fatto comodo a tutti, non so di

chi sia la proprietà ma il Comune ben sapendo che lo stabile è occupato

non ha mai cercato di sgomberarlo e dall’altra parte gli asilanti, rassicurati

dal potervi restare si sono ben guardati dall’avanzare richieste di assisten-

za o aiuti”.

Esemplificativa delle difficoltà incontrate dai richiedenti asilo darfuriani, è an-

che la storia di Suleiman Ahmed, rappresentante in Italia del movimento ribelle S.L.M.,

657 Alcune dichiarazioni della sua intervista sono riportate nel prossimo paragrafo.

251

giunto in Italia a Lampedusa, attraverso la Libia il 31 maggio 2003658. La sua domanda

fu esaminata nell’allora C.P.T.A. di Crotone e gli venne riconosciuto lo status rifugiato,

anche grazie agli evidenti segni di tortura che aveva su tutto il corpo. Nel 2005 si recò in

Chad e dopo aver visitato numerosi campi profughi, riuscì a rintracciare il suo unico fi-

glio superstite Muhammad Suleiman. Rientrato in Italia chiese il ricongiungimento fa-

miliare del figlio ma le autorità chadiane e italiane si rimbalzarono la responsabilità su

tale decisione per molto tempo. Solo il 25 ottobre del 2007 il figlio ancora minorenne,

fuggito dal Darfur anche per essersi sottratto al servizio militare, riusciì finalmente ad

entrare in Italia. Il 13 giugno dell’anno seguente Ahmed si è recato nuovamente in

Chad, in cerca di sopravvissuti della propria famiglia, e per portare avanti il proprio la-

voro di promozione delle storie dei richiedenti asilo darfuriani, ma è stato arrestato per

spionaggio dal governo di N’Djamena che ha motivato l’arresto collegando Ahmed agli

agenti dei movimenti ribelli da sempre impegnati a destabilizzare l’autorità dello Stato

confinante659. Non se ne sono più avute notizie.

Notizie più recenti, risalenti al 23 marzo 2011660, riferiscono invece la nascita a

Trento del “Coordinamento dei Darfuri del Nord-Est”, un ulteriore tentativo di riunire la

folta comunità di rifugiati del Darfur in Italia, presenti anche a Roma, Parma, Torino e

Milano. L’iniziativa è coordinata, tra gli altri, da Abdulwahab Ahmed, rifugiato del Dar-

fur il quale ha dichiarato:

“Solo a Trento abbiamo già un gruppo di dieci giovani, attivamente

impegnati nella divulgazione nelle scuole di quanto accade in Darfur, la

nostra amata terra. Abbandonarla non è stata facile, rompere con la fami-

glia, soprattutto per me, così legato a mia madre, morta mesi fa. Sono qui

dal 2005, e grazie a mio padre che era già qui in Italia come rifugiato, sono

stato più fortunato di altri miei connazionali, spesso senza lavoro, perduti

tra l’alcool e la manovalanza nella vendita di prodotti contraffatti. Io invece

voglio crescere, studiare, lavorare. Con il nostro gruppo testimoniamo,

658 Si veda il documentario “Darfur chiama Italia. Ciad risponde?”, di V. Brigida, prodotto da Donneli-bertàdistampa, reperibile http://www.youtube.com/watch?v=Hv_3s37A_hw.659Articolo “Rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia arrestato in Ciad, Accusato di spionaggio”,del 25 giungo 2008,www.partitodemocratico.it/dettaglio/53717/rappresentante_dei_rifugiati_del_darfur_in_italia_arrestato_in_ciad .660 M. Annarumma, Nasce a Trento il Coordinamento dei Darfuri del Nord-Est, Italian Blogs For Darfur,23 marzo 2011, http://itablogs4darfur.blogspot.com/2011/03/nasce-trento-il-coordinamento-dei.html.

252

ognuno con le proprie storie, il dramma di un popolo in fuga, vittima, prima

della guerra, del razzismo arabo del Nord, che mal vede i darfuriani”.

Il Coordinamento dovrebbe occuparsi di far conoscere la storia del Sudan e del conflitto

del Darfur nelle realtà locali, di promuovere azioni politiche e di lobbying a favore dei

profughi del conflitto. Ahmed, in merito alla attuale situazione in Libia e al ruolo di

tale paese nei movimenti migratori degli asilanti, ha dichiarato:

“al contrario di quanto si creda, Gheddafi era si un dittatore, ma ha sempre

fatto il doppio gioco, aiutava il governo sudanese, ma anche i ribelli. A noi

permetteva di arrivare in Libia, di fermarci o di proseguire per l’Europa, al

contrario di molti altri Paesi vicini, come l'Egitto.”

Come meglio specificato nel capitolo 5, nonostante le ricerche svolte in Italia non sono

riuscita a reperire sentenze relative alla situazione specifica degli asilanti del Darfur se

non una del Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia la sentenza n. n.1398, del

26 marzo 2008 nella quale pur rilevando il difetto di giurisdizione del TAR in materia di

riconoscimento della protezione internazionale è al contempo stato affermato:

“Per il resto, invece, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento

del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, adottato dalla Questura

di Lecce. Al riguardo, si deve osservare che il ricorrente è originario della

regione sudanese del Darfur, la quale negli ultimi anni (e la cosa costituisce

fatto notorio, vista la risonanza che tali eventi hanno avuto sui mass media

di tutto il mondo. In ogni caso, in allegato al ricorso è stata depositata do-

cumentazione che comprova la gravissima situazione esistente nel Paese

africano) è stata teatro di sanguinosi scontri ed eccidi. Fra le vittime di tali

accadimenti è ricompreso il fratello del ricorrente, a causa della religione

professata.

Pertanto, pur non avendo il sig. A. fornito la prova che le persecuzioni di

cui si è detto lo riguardavano uti singulus (per la qual cosa la Commissione

Centrale gli ha negato lo status di rifugiato), è evidente che egli, qualora

dovesse far ritorno in Sudan potrebbe essere comunque vittima di atti di

violenza e/o di torture.

253

Se così è, ne consegue che l’Amministrazione ha violato il disposto dell’art.

5, comma 6, del T.U. n. 286/1998, nella parte in cui la norma vieta il rifiuto

o la revoca del permesso di soggiorno nel caso in cui ricorrano seri motivi

di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazio-

nali assunti dall’Italia. Nel caso di specie, non c’è dubbio che tali motivi

sussistano, per cui il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno va an-

nullato”661.

3. Le voci dei protagonisti e dei testimoni privile giati in Italia

Come ho accennato precedentemente l’investigazione empirica è stata svolta in

luoghi e con modalità tra loro differenti, a seconda delle possibilità e delle situazioni.

Le interviste ai rifugiati, svolte a Torino e a Milano, in epoche diverse hanno in

alcuni casi presentato qualche difficoltà dovuta alla mancanza di un mediatore culturale

e linguistico e alla delicatezza degli argomenti trattati. Inoltre la conoscenza effettiva

che gli asilanti hanno dimostrato di possedere, relativamente alle procedure che hanno

dovuto espletare, è risultata essere piuttosto bassa e ritengo, pertanto, che i contributi

portati dagli avvocati di Milano, Livio Neri e Maria Cristina Romano e dall’operatore

sociale del Laboratorio Zeta, di Palermo, Luca Cumbo662 nonché dal mediatore culturale

T. residente a Torino, siano fondamentali per avere una visione chiara e completa della

situazione affrontata dagli asilanti del Darfur in questi anni.

Gli asilanti intervistati663, tutti provenienti dal Darfur, sono uomini di età com-

presa tra i venti e i quarantacinque anni. Alcuni sono giunti in Italia relativamente di re-

cente, in momenti diversi, ma il grosso degli arrivi risulta essersi concentrato negli anni

2006/2007 e sono pertanto stati soggetti, principalmente, alle politiche e alla normativa

introdotta dalla c.d. legge Bossi-Fini. Pochi invece sono giunti precedentemente e sono

stati soggetti alla disciplina della legge Martelli mentre solo I.M.A., giunto nel 2009 ha

661 tale sentenza mi è stata segnalata sempre in seguito alla richiesta di collaborazione avanzata a tutti isoci ASGI italiani da Sergio Briguglio. Tar Puglia decreto 1398 del 2008, reperibile sul sito webhttp://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2008/settembre/sent-tar-puglia-rinnovo.html.662 Luca Cumbo, operatore sociale del Laboratorio Zeta di Palermo e collaboratore presso il poliambulato-rio di Emergency, sempre a Palermo.663 Tra essi sono inclusi anche i rifugiati del Darfur residenti a Palermo che, come sopra specificato sonostati sottoposti a questionari a risposta aperta, tradotti in arabo dal mediatore culturale del LaboratorioZeta.

254

presentato domanda dopo l’entrata in vigore della nuova procedura su cui però non ha

saputo fornire informazioni specifiche.

Il Signor Cumbo ha dichiarato che, a fine 2007, i rifugiati del Darfur presenti in

Italia andavano “dai 250 ai 400 massimo, prima erano di più, in ogni caso sono pochi

quelli “stanziali”. Girano tutti per l’Europa, sono pochi quelli che si fermano e che vo-

gliono restare in Italia. Almeno questi sono i dati forniti da alcuni dei responsabili delle

loro associazioni”. Tale dato è cresciuto nel tempo, anche se non in modo elevato, come

affermato nella primavera 2011, dal mediatore culturale incontrato a Torino, T. “penso

che ora le cifre si aggirino sui 500 al massimo, in seguito ai nuovi arrivi dovuti al con-

flitto in Libia. Alcuni asilanti, magari giunti in Libia anni fa, vi si erano infatti fermati,

un po’ per carenza dei soldi sufficienti a continuare il viaggio un po’ magari per solu-

zioni lavorative che nel tempo si erano consolidate in Libia, ma hanno poi lasciato il ter-

ritorio in seguito all’inizio del conflitto. Prima di allora in realtà gli arrivi degli asilanti

del Darfur in Italia erano diminuiti”.

Relativamente alle ragioni che li hanno spinti a fuggire dal Darfur quasi tutti

hanno risposto in maniera generale indicando la guerra civile come principale causa

della loro fuga e dichiarando di non volerne però parlare più diffusamente. S.L.M., nato

nel 1968 in Darfur, dove svolgeva le attività di militante politico e militare ha afferma-

to: “Siamo fuggiti dal Darfur, insieme ad altri connazionali, perché volevamo denuncia-

re all’Europa la guerra e le atrocità commesse nel nostro paese”. Uno dei rifugiati ospi-

tato presso il Circolo Arci di Torino, la Fucina del Lampadiere, che preferisce restare

anonimo664 aveva, poco prima del nostro incontro, ricevuto notizia della morte di uno

dei suoi fratelli durante una delle incursioni della milizia Janjaweed nel suo villaggio e

molti altri ragazzi, sentiti nel 2007/2008, hanno dichiarato che, nonostante i negoziati di

pace allora in atto, ricevevano continue notizie da parte di parenti e amici, rimasti in

Darfur, di attacchi, razzie e rapimenti compiuti nei villaggi contro i membri delle etnie

non arabe. Ad esempio, W.665, un ragazzo nato nel nord del Sudan, nel 1977, ma che ha

risieduto poi per la maggior parte del tempo in Darfur, dove svolgeva l’attività di com-

merciante di vestiti, ha dichiarato che è fuggito “a causa della guerra, perché qualsiasi

attività era diventata impossibile. È diventato impossibile muoversi, cosa che per il mio

664 Alcuni asilanti per il tenore delle dichiarazioni, oppure perché si trovano ancora in una condizione diclandestinità hanno autorizzato il trattamento delle risposte a patto di restare anonimi.665 Si veda supra, nota precedente.

255

lavoro era fondamentale e nessun luogo era sicuro, sostanzialmente è diventato impos-

sibile vivere in Darfur. Allora ho deciso di partire”. E T.B., nato in Darfur nel 1963, ha

aggiunto: “Sono stato imprigionato perché insegnavo ai bambini in una scuola non rico-

nosciuta ufficialmente, pensavano che facessi propaganda antigovernativa. Quando ho

potuto, corrompendo i miei carcerieri, sono scappato”. Diversamente Issa Abubakar,

nato nel 1977 invece, intervistato a Torino nel 2011 ma arrivato in Italia nel 2007 e allo-

ra riconosciuto titolare di un permesso per motivi umanitari ha affermato “In realtà la

mia famiglia ha avuto problemi già negli anni 90, il nostro villaggio è stato aggredito e

le nostre terre occupate da una tribù araba, così all’inizio ci siamo spostati a Malik, un

altro villaggio del Darfur da cui proveniva mia madre. Poi verso il 2001 ho lasciato il

Darfur insieme a mio fratello e mio cognato, la situazione non era ancora così grave ma

non riuscivamo a mantenerci, così abbiamo deciso di lasciare il Darfur.”

Tutti i ragazzi ascoltati hanno dichiarato di essere giunti in maniera clandestina

in Italia attraverso quello che è stato da molti hanno definito un percorso obbligato at-

traverso il Ciad, la Libia e poi via mare verso l’Italia666.

Sempre T.B., ha dichiarato: “Diciamo che ci sono come delle piccole carovane

con dei percorsi quasi obbligati ed organizzati. Io sono andato prima a piedi, poi su un

camion e poi in barca. Ho viaggiato per quasi un anno prima di arrivare in Italia”.

M., (anni 29), nato e cresciuto in Darfur, ha dichiarato di aver svolto lunghi tratti

del viaggio “a piedi nel deserto e quando avevo fortuna su un cammello, mi sono poi

spostato su un camion fino in Libia e da lì su una barca fino a Lampedusa”, similmente

ha affermato anche W.: “Sono giunto in Italia raggiungendo il Ciad in macchina e da li

ho preso un camion per la Libia e alla fine una nave per l’Italia”.

Issa Abubakar ha aggiunto: “Mi sono recato in Libia con una macchina attraver-

so il Sahara, abbiamo pagato il passatore che ci portava circa 500 euro a testa. Non c’è

modo di lasciare il Darfur regolarmente. Poi una volta giunto in Libia sono rimasto lì

non avevo soldi per lasciare anche la Libia ho cercato un lavoro”.

Abbiamo visto come la formulazione stessa della normativa renda sostanzial-

mente impossibile entrare nel paese di asilo regolarmente, ragione per la quale non sor-

prendono le risposte rilasciate dagli intervistati. La domanda d’asilo può essere presen-

tata solo una volta entrati nello stato ospitante e non è difficile immaginare come, alla

256

luce di quanto sopra detto, il governo centrale di Khartoum non consentisse ai darfuriani

di lasciare il paese diretti verso l’occidente in maniera regolare.

Uno dei ragazzi ospitati presso il Circolo Arci Dravelli di Torino nel 2007, Abun

Babekr, di anni 28, ha dichiarato che: “una volta fuggiti dal Darfur, il problema più

grande è lasciare la Libia nel minor tempo possibile, perché in Libia non sanno cosa so-

no i diritti dell’uomo e per noi africani del Darfur, non arabi, è molto pericoloso rimane-

re in quel paese”. Interessante notare come, anni dopo667, la Libia pur non firmataria

della Convenzione di Ginevra sia risultata astrattamente idonea a prendersi in carico

centinaia di persone, a cui non era stato concesso di presentare domanda di asilo in Italia

e sulla cui identità non era stato fatto alcun accertamento.

Più di uno dei ragazzi ospitati al Dravelli, inoltre, ha dichiarato che il passaggio

clandestino per l’Italia in barca può arrivare a costare fino a 1500 dollari americani, a

seconda di chi si trova che proponga il viaggio in quel particolare momento in Libia, e

che, quindi, a volte è necessario aspettare “molte settimane se non mesi prima di trovare

un passaggio che uno si possa permettere di pagare”. Non hanno però voluto specificare

come si può pagare il viaggio se non si riescono a raccogliere tali cifre.

Issa Abubakar, intervistato nel 2011, ha poi aggiunto “Sono rimasto in Libia 6

anni a lavorare come meccanico, dopo il lavoro non andava più bene e ho deciso di an-

dare in Italia. Il viaggio mi è costato 1.000 euro.” T.H., sentito nel 2010, ha dichiarato”

sono rimasto in Libia mesi bloccato per guadagnare i soldi necessari a pagare il viaggio,

lavoravo tantissimo in nero, oltre al passatore dovevi pagare anche la polizia libica, se ti

fermava, per poter continuare a restare e a lavorare”.

Il viaggio via mare è avvenuto, secondo le descrizioni, ora su navi ora su barche

di medie o piccole dimensioni, in pessime condizioni e riempite ben oltre la loro capa-

cità.

Quando ho chiesto loro se avevano presentato domanda d’asilo in altri paesi la

totalità degli intervistati ha risposto di no e, con esclusione di Issa Abubakar, ha anche

dichiarato di non aver “scelto” l’Italia. Secondo W., ad esempio: “non c’è stata nessuna

scelta, era una via quasi obbligatoria”, e M. ha ribadito: “Non ho scelto l’Italia, era

l’unico posto che potevo raggiungere da dove mi trovavo”. E ancora S.L.M. ha preci-

666 Questo dato era stato anche precedentemente confermato anche dal Primo segretario pressol’Ambasciata Italiana a Khartoum, Sig.na Andreina Marsella.667 Si veda supra, capitolo 3, paragrafo 5.

257

sato: “Nessuna scelta, dipende da quale tratto della costa parti. Dal punto della Libia

dove ho iniziato la traversata, la direzione è verso l’Italia. Il problema è che non sai se

arrivi”. La scelta dell’Italia come paese d’asilo, non è dunque una scelta vera e propria:

gli asilanti restano bloccati, come merci, nei percorsi obbligati che di volta in volta i

trafficanti di uomini riescono ad elaborare. Y.668, a cui è stato riconosciuto lo status di

rifugiato quasi subito nel 2004, dato la nota carica politica ricoperta in Darfur, ha con-

fermato: “L’Italia non è mai stata una scelta per i darfuriani, si limitavano a seguire le

vie indicate dai trafficanti, quelle più accessibili e quelle più economiche. Tuttavia dopo

le esperienze che molti di noi hanno avuto negli anni il consiglio che si è diffuso tra i

membri delle nostre comunità qui, ma anche in altri paesi in attesa di espatriare in occi-

dente, è se possibile di non presentare domanda di protezione in Italia, ma di lasciare il

paese e presentarla in Francia o in Inghilterra, persino in Germania, dove l’assistenza

agli asilanti e l’integrazione sono più garantite”.

I primi contatti con l’autorità italiana sono avvenuti in mare, secondo molti

quando “è arrivata una grande barca di militari”, e come W. ha aggiunto “È stato in ac-

qua, noi abbiamo dovuto chiedere aiuto perché il motore era in avaria”, mentre M. ha

dichiarato “La barca dei militari si è messa accanto a noi e per poco la nostra barca non

si capovolgeva”. E T.B. ha anche specificato: “Nel mio caso si è trattato di una grande

imbarcazione, forse della polizia, in vista di Lampedusa, che ci ha trainato in porto”.

Tuttavia nessuno di loro ha saputo indicare di che corpo di pubblica sicurezza si trattas-

se, in maniera più specifica. La maggior parte degli intervistati è arrivata dunque via

mare sulle coste della Sicilia o a Lampedusa e le loro domanda sono quindi state attri-

buite o alla competenza della Commissione Territoriale di stanza a Lampedusa o a

quelle di Crotone o Agrigento.

M. in proposito ha poi aggiunto: “Una volta arrivato sono stato a Lampedusa un

mese, o più, non ricordo. Eravamo tanti, lo spazio e l’assistenza non bastavano mai, mi

sentivo come in prigione”. E S.L.M. ha continuato: “Quando sono arrivato nessuno mi

ha spiegato nulla, a me come a tutte le persone che erano con me. Ci hanno fatto un nu-

mero con un pennarello sul braccio, noi eravamo dei numeri. Ci hanno portato in un

campo con dei container, il tutto circondato con il filo spinato. Non c’era nessuno a tra-

durre. Dopo alcuni giorni ci hanno portato con una nave ad Agrigento, ci hanno portato

668 Intervistato a Milano nel dicembre 2010.

258

alla stazione dei treni e lì ci hanno dato un foglio (che poi ho scoperto essere

un’espulsione) ed un foglietto con scritto 'Palermo' ”, e ancora “Sono stato nel C.P.T.A.

di Lampedusa, ma non ricordo quanto tempo. Tanti giorni comunque, ho avuto il dub-

bio di non essere in Italia, non capivo perché mi tenevano imprigionato nel campo visto

che non avevo fatto niente di male, ho pensato davvero di essere ancora in Africa. Tutto

era sporchissimo, feci e pipì ovunque. Mi ricordo che ho pensato che, infondo, erano

meglio le galere in Sudan”. Anche T.B. è stato a Lampedusa ed ha affermato: “A Lam-

pedusa sono stato qualche giorno e poi circa un mese nel C.P.T.A. di Agrigento669.

C’era un grande capannone e faceva un caldo soffocante, non c’erano bagni e dormiva-

mo in mezzo a feci ed urine. Mi ricordava la prigione sudanese dove ero stato, ho pianto

ed ho pregato Dio di liberarmi perché non avevo fatto del male a nessuno”.

Alcuni dei ragazzi ascoltati a Torino hanno dichiarato invece di non aver avuto

problemi particolari all’arrivo in Italia, ma di aver semplicemente aspettato “alcune set-

timane”, o circa “un mese” a Lampedusa e di essere stati poi mandati presso la questura

di Foggia o quella di Bari. Hanno però dichiarato di essere a conoscenza delle vicende

di alcuni connazionali che hanno atteso anche sette o otto mesi prima di riuscire ad esse-

re ascoltati. Non hanno però saputo dire da che tipo di commissione, loro e i loro con-

nazionali, sono stati ascoltati.

Tarek Ali670, (31 anni), ha espletato le sue procedure presso la questura di Fog-

gia, dove ha dichiarato “Non avevo un avvocato e non conoscevo nessuna associazione

a cui rivolgermi, non potevo allontanarmi dal campo, ma in questura c’era una ragazza

marocchina che parlava arabo e che traduceva per noi, ci hanno chiesto del Darfur e

della guerra, ma solo per pochi minuti. Poi ho aspettato un altro mese e ho avuto il per-

messo di soggiorno per ragioni umanitarie”.

Tarek è stato ascoltato direttamente a Foggia, così come Mohamed Ishaq Marji

(22 anni), ospite nel 2008 del Circolo Arci Dravelli, di Torino, è stato ascoltato diretta-

mente a Bari dove ha ottenuto anche lui il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Completamente diverse sono state, invece, le esperienze di W. che ha dichiarato:

“Nessuno mi ha detto quali diritti c’erano. A me e ai miei compagni ci hanno portato ad

Agrigento e dopo la polizia ci ha dato un foglio e mi hanno rilasciato. Mi hanno spie-

669 Il C.P.T.A. di Agrigento è stato chiuso nel 2007.670 Tarek è uno dei ragazzi, provenienti dal Darfur che, nell’ambito del progetto gestito dai Circoli Arcidi Torino, è stato alloggiato presso un appartamento autonomo, dove vive con altri 5 connazionali.

259

gato dopo alcuni amici italiani che nel foglio c’era scritto che dovevo lasciare l’Italia

entro pochi giorni. L’avrei anche fatto, ma con quali soldi? Avevo speso tutto quello

che avevo per arrivare in Italia” e similmente M. ha aggiunto: “Quando sono arrivato a

Lampedusa nessuno mi ha spiegato che diritti avevo, io non sapevo neppure che potevo

chiedere asilo politico. Mi hanno dato un foglio dopo che mi hanno portato ad Agri-

gento. Poi ho scoperto che era l’espulsione.” E anche T.B. ha affermato: “Nessuno mi

ha spiegato nulla a Lampedusa, né ad Agrigento, mi è solo stato dato il foglio con

l’espulsione, poi sono andato a Palermo e sono riuscito a presentare la domanda

d’asilo”. W. ha anche raccontato che con l’aiuto del Laboratorio Zeta è riuscito a pre-

sentare, in seguito, la domanda d’asilo affermando che: “Quando mi hanno accompa-

gnato i ragazzi dell’organizzazione non ho avuto problemi a fare la richiesta, ma prima

so che loro hanno dovuto fare annullare la mia espulsione. Da solo non avrei saputo co-

sa fare”.

Dalla maggior parte delle dichiarazioni emerge come ai richiedenti non sia stata

fornita alcuna informazione in merito alla possibilità di presentare domanda di protezio-

ne internazionale e come gli stessi siano stati per lo più informati di tale possibilità o dai

proprio connazionali o dai componenti di o.n.g. che hanno avuto la fortuna di incontra-

re.

Sulle difformità di trattamento avute dai ragazzi incontrati a Torino e quelli con-

sultati a Palermo, e sulle norme in vigore in materia di protezione umanitaria tempora-

nea nel 2007, il Signor Cumbo671 ha affermato “Il problema non è tanto la normativa ma

come viene poi applicata. La protezione umanitaria temporanea sulla carta è ricono-

sciuta anche dalla attuale legge, ma all’atto pratico è spesso disattesa” e inoltre “le que-

sture hanno troppa discrezionalità nei permessi di soggiorno, compresi quelli per motivi

umanitari, questo dipende più da una volontà politica che giuridica. Gli abusi sono con-

tinui, sia alle frontiere che nelle questure, che nei C.P.T.A.”. L’avvocato Neri ha, an-

che, affermato che la presenza di personale non adeguatamente preparato può effettiva-

mente creare pregiudizio all’esito favorevole della domanda d’asilo: “Il personale di

P.S. è raramente formato in materia di diritti dei rifugiati; presso alcune questure (come

quella di Milano), ma non presso tutte, sono quasi sempre presenti interpreti e mediatori

culturali (per tutti gli stranieri, non solo per i richiedenti asilo)” e ancora: “se un richie-

260

dente asilo non ha nessuno che l’aiuti a compilare il modulo per la richiesta di asilo può

essere che ometta o non sottolinei particolare importanti”.

Anche l’avvocatessa Romano, sentita in tempi più recenti672, ha sottolineato co-

me le carenze principali del sistema di protezione siano: “la mancanza di un sistema di

accoglienza adeguato per tutti i richiedenti protezione, la mancanza di un servizio di as-

sistenza sanitaria specifica per le vittime della tortura. Infatti le uniche strutture che vi

sono in Italia sono in realtà associazioni di volontari, che non sempre vengono tenute in

debita considerazione dalle istituzioni. A questo si aggiunge la totale mancanza di con-

sulenti medici, psicologici ed anche linguistici presso le Commissioni territoriali che

rendono l’attendibilità del verbale ivi redatto quanto meno dubbia”, non solo ma a suo

parere “la mancanza di formazione del personale non consente che le persone trauma-

tizzate o che soffrono di sindrome post-traumatica da stress siano trattate in modo ade-

guato. Inoltre ritengo che la prima intervista non dovrebbe essere affidata a personale di

polizia. Così facendo si crea subito un imbarazzo e una diffidenza nel richiedente”.

Relativamente alla prassi seguita dalla Commissione Centrale, M. ha dichiarato

di essere stato ascoltato a Roma, e ha aggiunto che durante la sua audizione “c’erano

solo due persone, credo i commissari, e in più l’interprete. Non c’era un legale, io ho

avuto un legale a Palermo, tramite il Laboratorio Zeta, ma non a Roma. Mi hanno fatto

parlare poco, solo nome cognome e il percorso che ho fatto per arrivare in Italia. Poi mi

hanno chiesto se volevo lavorare in Italia ed io ho detto sì. Non mi hanno chiesto niente

sul Darfur”. Anche W. è stato ascoltato a Roma, “Sono potuto andare all’audizione solo

perché il Laboratorio Zeta mi ha pagato il biglietto”, però durante la sua audizione

“c’erano solo due persone; uno era l’interprete e l’altro il commissario, io avevo parlato

con un avvocato a Palermo, che mi ha spiegato cosa dovevo fare e chi incontravo, ma in

commissione ero solo. L’audizione sarà durata dieci minuti, sicuramente non di più”.

Anche T.B. è stato ascoltato a Roma ed ha aggiunto: “Sono andato a Roma davanti alla

Commissione Centrale, c’erano tre persone tra cui l’interprete, ma non c’erano avvocati,

la mia audizione sarà durata 7-8 minuti circa, non di più. Ho parlato dei luoghi, della

mia famiglia, ho indicato date e posti dove c’erano stati bombardamenti, ho pensato che

671 Luca Cumbo, operatore sociale del Laboratorio Zeta di Palermo e collaboratore presso il poliambulato-rio di Emergency, sempre a Palermo.672 L’avvocatessa Maria Cristina Romano, socia Asgi, esercita come avvocato da oltre dieci anni a Milanosoprattutto nel settore dell’asilo e dell’immigrazione in generale. La sua intervista è avvenuta nel mese diottobre 2010.

261

il rappresentante dell’U.N.H.C.R. in Commissione (perché mi hanno detto che avrebbe

dovuto esserci) avrebbe potuto confermare le notizie dettagliate che ho portato, ho pen-

sato che sarebbe passato del tempo per controllare, invece mi hanno tenuto solo qualche

minuto e poi mi hanno mandato via”. E ancora S.L.M.: “Sono stato anch’io a Roma,

c’erano tre persone. Uno era l’interprete, che era tunisino, non c’era l’avvocato, e avrò

parlato al massimo per dieci minuti. Mi hanno chiesto le generalità, ho descritto il mio

viaggio, il luogo da dove è partita la barca per Lampedusa, ho spiegato della guerra in

Sudan ed ho raccontato di essere un militante giunto in Italia per entrare in contatto con

i mezzi di comunicazione ed i governi perché raccontino quello che succede e fermino

la guerra. Ho esibito anche la tessere con il mio nome di appartenenza al mio gruppo

politico. Avevo un ruolo importante all’interno del movimento. Ho mostrato la protesi

alla gamba ed un certificato medico che attestava la compatibilità del moncone con lo

scoppio di una mina”. Nonostante questa serie evidente di prove S.L.M. continua: “ Non

ho ottenuto né lo status, né il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, hanno giu-

dicato la mia storia non credibile. Almeno questo c’era scritto nel foglio che mi hanno

spedito dopo mesi. E dopo aver atteso più di un anno per essere convocato a Roma”.

Mentre T.B. riferisce: “Dopo 3 anni di audizioni, dinieghi, riesame e ricorso alla fine ho

avuto un permesso per motivi umanitari”. Anche l’avvocato Neri sulla prassi della

Commissione Centrale ha riferito: “Mi risulta che la Commissione Centrale pur doven-

do decidere in maniera collegiale abbia spesso agito anche in assenza di alcuni suoi

membri; gli effetti di questa prassi sono stati proprio la difformità nelle decisioni ed uno

scarso reciproco controllo dei commissari sul proprio lavoro” e, relativamente alla du-

rata delle audizioni, ha aggiunto: “Davanti alla Commissione Centrale la situazione era

assurda; in questo, però, le cose sono sicuramente mutate: presso tutte le commissioni

territoriali, che io sappia, le audizioni adesso durano infatti almeno un’ora”.

Tale circostanza ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di I.M.A. di anni 21,

giunto in Italia nel 2009, e quindi destinatario delle nuove norma previste dal Dlgs

251/07, “l’audizione è durata oltre mezz’ora, ho solo avuto qualche difficoltà linguistica

perché il traduttore parlava ovviamente arabo classico, credo fosse egiziano, io conosco

l’arabo ma avrei preferito essere ascoltato nella mia lingua”. La maggior parte

dell’audizione risulta essere avvenuta in arabo classico e gli interpreti erano spesso ori-

262

ginari di altri paesi, questo ha creato spesso disagi per i darfuriani che tendono a non fi-

darsi delle popolazioni di etnia araba, per le ragioni già esposte.

Inoltre relativamente alle previsioni dell’articolo 1-quater della c.d. legge Bossi-

Fini ora abrogato, secondo il quale durante l’esame della domanda la commissione deve

anche tenere conto dell’esistenza “di seri motivi, in particolare di carattere umanitario

risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” e alle prove

richieste ai richiedenti asilo, l’avvocato Neri ha affermato “Non dovrebbero essere ri-

chieste prove in senso stretto; la Commissione, in applicazione dei principi in materia di

onere della prova di cui all’art. 4 direttiva 2004/83/CE, dovrebbe limitarsi a valutare la

complessiva credibilità delle dichiarazioni del richiedente”. Tuttavia il signor Cumbo

ha specificato: “Nella mia esperienza673 le Commissioni Territoriali (come quella Cen-

trale a suo tempo) sono fantocci, lo status di rifugiato viene concesso 'a percentuale',

non di certo sulla base delle testimonianze dei richiedenti asilo. Anche i richiedenti asilo

del Darfur subiscono ed hanno subito la stessa sorte”. Inoltre a parere dell’avvocato Ne-

ri la composizione delle Commissioni influisce sulle decisioni assunte dalle stesse:

“Non ritengo sia opportuna la presenza, in una commissione che debba decidere sul ri-

conoscimento dello status di rifugiato, di membri dell’autorità di P.S.; sarebbe invece

opportuna la consulenza di tecnici quali antropologi o esperti in conflitti internazionali.

Sarebbe inoltre opportuno che la Commissione Nazionale non dipendesse dal Ministero

dell’Interno ma fosse un’autorità indipendente” e similmente il signor Cumbo ha affer-

mato: “Sono necessari meno componenti governativi, ci vogliono commissioni vera-

mente indipendenti, magari composte anche da associazioni umanitarie. Purtroppo non

si può togliere l’U.N.H.C.R., ma sarebbe un bene poiché di fatto non è più un organi-

smo indipendente.” Da ultimo anche l’avvocato Romano ha confermato “Ritengo che

ancora oggi vi sia una composizione squilibrata in favore delle forze di polizia, sarebbe

più utile avere personale civile esperto in materia di asilo, consulenti medici e psicologi.

Le audizione dovrebbero sempre essere svolte in maniera collegiale mentre spesso sono

svolte da un solo membro”.

I ragazzi ascoltati a Torino hanno dato indicazioni sommarie relativamente ai

tempi d’attesa “uno o due mesi credo”, oppure “non ricordo”, mentre l’avvocato Neri ha

673 Sono circa sei anni che Luca Cumbo si occupa di diritto d’asilo e rifugiati, l’organizzazione Laborato-rio Zeta di cui fa parte ha collaborato a numerose iniziative intraprese in Sicilia per il rispetto dei dirittiumani dei migranti ed egli ha preso parte attivamente a numerose iniziative nei C.P.T.A.

263

testimoniato: “I tempi d’attesa per l’esame della domanda da parte della Commissione

Centrale o della “sezione stralcio”674 della Commissione Nazionale hanno raggiunto e

superato anche i trentasei mesi. I tempi con le Commissioni territoriali si sono sicura-

mente abbreviati ma ormai (perlomeno a Milano) stanno raggiungendo e superando i

dodici mesi”. Mentre sullo stesso argomento il signor Cumbo ha aggiunto “Con le

Commissioni territoriali i tempi si sono ridotti ma raramente sono rispettati i tempi pre-

visti. Non sempre la brevità è un bene comunque”.

In proposito si segnala anche il contributo dell’avv. Susanna Pelzel del Foro di Milano,

socia ASGI che ha risposto all’interrogazione descritta al capitolo 5, riferendo che un

suo assistito darfuriano sig. Kariem Abdoule, giunto in Italia nel settembre 2009 è stato

ascoltato dalla Commissione Territoriale di Milano nell’agosto 2010, quindi dopo

l’entrata in vigore del Dlgs 251/07, e dopo aver ricevuto un diniego è attualmente anco-

ra in attesa dell’esito del ricorso presentato al Tribunale ordinario di Milano nel settem-

bre 2010. Il diniego del sig. Kariem, ha dichiarato l’avv. Pelzel, “è stato motivato ricor-

rendo ad una formula standard e stereotipata che viene utilizzata in moltissimi altri casi

di diniego, quale “non sussistono i presupposti previsti dall'art. 14 Dlgs. n. 251/2007 in

quanto non vi sono fondati motivi di ritenere che, se l’interessato tornasse nel paese di

origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno”. L’art. 8 del Dlgs. n.

25/08 impone, tuttavia, che ciascuna domanda di protezione internazionale venga esa-

minata "alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esi-

stente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi

sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dal-

l'ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione

stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente ag-

giornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali (...)” . E’ evidente,

invece che, nel caso del sig. Kariem, tali informazioni non sono state reperite

dall’amministrazione in quanto si sarebbe pacificamente appreso che, nel Darfur, il con-

flitto tra forze governative e ribelli continua ancor oggi”.

Ho anche chiesto agli asilanti quali erano stati gli aiuti ricevuti, e se c’erano sta-

ti. Quasi tutti ragazzi consultati a Torino hanno dichiarato di non aver ricevuto nessun

tipo di assistenza economica dallo stato, Mohamed ha specificato “Quando è arrivato il

674 La sezione stralcio è la commissione che era stata incaricata di smaltire le pratiche rimaste inevase

264

permesso di soggiorno, che è valido solo per un anno, ci hanno lasciato andare ma non

avevamo soldi e non sapevamo dove andare, ci siamo subito mossi vero il nord perché

alcuni amici sudanesi ci avevano spiegato che era più facile trovare lavoro. Eravamo

tutti spaventati, non parlavamo italiano per niente e non avevamo soldi, è anche per

questo che abbiamo l’abitudine di spostarci in gruppi un po’ numerosi, per non restare

soli”. Un altro dei ragazzi assistiti dai progetti dei Circoli Arci di Torino, Abun ha ag-

giunto: “Quando siamo arrivati a Torino faceva freddo e non sapevamo come fare; sia-

mo andati in Comune ma nessuno sapeva dirci niente, allora abbiamo organizzato una

manifestazione in Piazza e finalmente si sono accorti di noi”. Ma come ha specificato

Tarek, “Se non fosse stato per l’Arci non avremmo davvero potuto fare niente. Loro ci

hanno dato un posto per dormire e mangiare, e ci hanno aiutato con i corsi professionali

e di italiano. La scuola è un po’ lontana ci vuole un’ora di autobus per andare, ma noi

siamo molto contenti, impariamo un lavoro e forse potremo restare, non dovremo torna-

re in Darfur… spero.”

E M., che si trovava a Palermo, ha dichiarato: “Ho ricevuto un po’ di soldi dalla

prefettura i primi tempi, poi niente”, e così anche W.: “Un po’ di soldi dalla prefettura i

primi tempi, come altri, ma poi basta. Non ho ottenuto nessun permesso di soggiorno, e

non lavoro se non saltuariamente. Spesso nelle campagne”. E S.L.M., che ora non si

trova più in Italia, ha aggiunto: “Ho ricevuto il contributo previsto dalla prefettura, ma è

bastato solo per i primi mesi. Poi sono stato in centri di accoglienza a Palermo, per poi

andare presso il Laboratorio Zeta. Non si poteva stare alla Missione di Biagio Conte675,

non ci faceva neanche riunire tra noi, poiché temeva che tramassimo contro di lui.

Niente TV, niente scuola d’italiano, niente avvocati. Nella missione di Biagio Conte

eravamo trattati come essere inutili: 'mangia, bevi e stai zitto'. Solo il Laboratorio Zeta

ha lottato con noi per i nostri diritti (e questa è stata la cosa più importante) e ci ha dato

un letto, del cibo, aiuto con avvocati. Insomma ci hanno ascoltato. Ora io, per fortuna,

non sono più in Italia”. Anche T.B. ha raccontato: “Solo i ragazzi dello Zetalab mi han-

no aiutato ad avere il buono casa, ho affittato una piccola casa e ora lavoro saltuaria-

mente”. Il Signor Cumbo ha anche puntualizzato: “L’assistenza è praticamente nulla al

sud, un po’ meglio al nord. Inoltre, c’è una lentezza spaventosa nel rilasciare i contributi

per i richiedenti asilo e una mancanza totale di strutture di reale accoglienza”, e ancora

dalla Commissione Centrale durante l’interregno tra la legge Martelli e la legge Bossi-Fini.

265

“Coloro che sono stati riconosciuti rifugiati hanno avuto la fortuna (rara) di avere un

permesso di soggiorno, ma non hanno null’altro. In Inghilterra e Francia, ad esempio,

ricevono un sussidio e la casa”. Anche l’avvocato Neri illustrando questo punto ha af-

fermato: “Il permesso di soggiorno per motivi umanitari non prevede nessun tipo di

aiuto o mezzo di sostentamento, i rifugiati possono solo lavorare regolarmente e se mai

convertire il permesso, alla sua scadenza, in uno per motivi di lavoro (solo, però, in pre-

senza di passaporto)” e ancora: “anche se ritengo che gli strumenti normativi possano

essere sufficienti (esiste infatti, ad esempio il D. Lgs. 85/2003 sulla protezione tempora-

nea) quello che manca spesso è una corretta ed equilibrata applicazione degli stessi” .

Inoltre come mi hanno illustrato Valentina e Stefano, sentiti nel 2007, i Circoli

Arci di Torino si trovano a dover affrontare due tipi di problemi. “Il primo è dato dal

fatto che il nostro progetto di assistenza è stato approvato solo per sei mesi e scade

quindi a breve. Abbiamo chiesto un rinnovo anche perché non tutti i ragazzi hanno fi-

nito i corsi e trovato un lavoro, ma per ora non sappiamo ancora nulla. E il secondo è

dato dai tempi biblici della pubblica amministrazione per svolgere le pratiche relative

alla residenza”. Valentina mi ha spiegato poi più in dettaglio: “Abbiamo fatto la richie-

sta di residenza in anagrafe a Torino, il 2 di febbraio di quest’anno. L’anagrafe inoltra

poi la richiesta ai vigili in modo che possano passare nelle case oppure nei Circoli, che

in alcuni casi abbiamo indicato come luogo di residenza, a controllare che le persone

abitino effettivamente dove hanno dichiarato. A questo punto, di norma, è già passato

più di un mese e mezzo. In seguito i vigili danno conferma, oppure no: con tre ragazzi

non l'hanno data, hanno annullato la pratica e abbiamo dovuto cominciare tutto da capo.

La conferma viene eventualmente data all'anagrafe che manda le richieste nelle questu-

re676 dove i migranti hanno fatto i permessi di soggiorno per ulteriori controlli. Il pro-

blema più grosso è che, senza residenza, non possono fare la carta di identità e finché

non hanno la carta d’identità difficilmente possono trovare lavoro o un’abitazione diver-

sa da quella che gli offriamo noi. Dopo circa sei mesi, su 40 persone, solo in 8 (e sola-

mente perchè ci presentiamo spessissimo in anagrafe, a rompere le scatole) hanno rice-

vuto la residenza”. Stefano, anche lui operatore presso un Circolo Arci a Torino, ha ag-

giunto “Un ulteriore problema si è verificato con alcune agenzie di lavoro interinale che

hanno accettato di far lavorare i ragazzi anche senza la carta d’identità, ma ora si rifiu-

675 Si veda supra, paragrafo precedente.

266

tano di pagarli proprio perché sono privi di questo documento”. Inoltre ha aggiunto: “Il

permesso di soggiorno per ragioni umanitarie è valido solo per un anno, e finché non

ottengono la residenza sono obbligati a recarsi nella questura che l’ha rilasciato per rin-

novarlo. Nei nostri casi si tratta delle questure di Foggia o di Bari, con uno spreco di

tempo e denaro pazzesco. Non stupisce che spesso allo scadere dell’anno alcuni rifugiati

si rendano irreperibili. Se non sono supportati da un’associazione i costi di un viaggio

tale sono inaffrontabili, la clandestinità diventa la via più veloce e sicura di restare e,

alla lunga, anche di lavorare.” L’avvocato Romano sul punto ha poi aggiunto, “le sorti

dei richiedenti asilo al loro arrivo è affidata alla fortuna. Molto dipende da dove e come

arrivano e se in tale momento sono presenti volontari se c’è posto in un centro di acco-

glienza oppure no, se riescono a presentare subito la domanda ” e ancora “l’accoglienza

per i richiedenti asilo sulla carta esiste, ma in concreto le risorse non sono sempre suffi-

cienti per tutti e non vengono ben distribuite”.

Ho poi svolto alcune brevi domande a carattere tecnico all’avvocato Neri, al Si-

gnor Cumbo e all’avvocato Romano. In particolare relativamente alle lacune della nor-

mativa in vigore fino al 2008 l’avvocato Neri ha affermato: “A mio avviso le lacune

principali sono la mancata regolamentazione del giudizio avverso il diniego dello status

di rifugiato; la lacunosa regolamentazione della condizione del richiedente asilo nelle

more del giudizio avverso il diniego; la mancata previsione di una specifica tutela, in

termini di misure di accoglienza, in favore del titolare di protezione umanitaria” inoltre

“in materia di protezione umanitaria le misure sono sicuramente insufficienti; il motivo

è da rinvenirsi nel ritardo (al momento dell’intervista 2007) nell’attuazione della c.d.

“direttiva qualifiche” (direttiva 2004/83/Ce); il testo del relativo decreto legislativo di

recepimento è tuttavia all’esame del governo e dovrebbe essere emanato nei prossimi

mesi. Pare, inoltre, che debba prevedere la possibilità del ricongiungimento, una più

estesa durata del titolo di soggiorno e maggiore facilità nel rilascio del documento di

viaggio” e ancora “il termine per il recepimento della direttiva 2004/83/Ce è scaduto

nell’ottobre ’06, l’inadempimento più grave dell’Italia in questa materia però penso che

non sia tuttavia nei confronti degli obblighi internazionali (spesso assai tenui), ma nei

confronti di quelli costituzionali (si veda art. 10, co. 3, Cost.)”.

676 In questo caso si tratta delle questure di Bari e Foggia.

267

Il Signor Cumbo, sempre in merito al periodo precedente all’implementazione

della normativa comunitaria sopra descritta, ha anche lui specificato: “In Italia non c’è

una legge sul diritto d’asilo, ma vista la concezione attuale dei migranti in Italia e in Eu-

ropa, è meglio che non la facciano. In ogni caso, il problema non è solo la norma, ma

soprattutto chi stabilisce come applicarla. L’articolo 10, co. 3, Cost., non trova attuazio-

ne principalmente per tre ragioni; la prima è di natura politica: ovviamente data la

portata enorme dei contenuti costituzionali una qualsiasi legge sul diritto d’asilo non

potrà che essere restrittiva e quindi incostituzionale; la seconda è, invece, culturale: non

avere mai avuto immigrati in passato ed il ritenere quindi che non fosse un argomento

prioritario da affrontare; mentre la terza è di tipo economico: la logica emergenziale

fomentata nell’affrontare i problemi dell’immigrazione, è un business di milioni e mi-

lioni di euro (gestione C.P.T.A., rimpatri & affini)” . L’avvocato Romano ha invece ag-

giunto “Ritengo che l'attuazione della direttiva qualifiche operata con il Dlgs 251/07 co-

stituisca una pietra miliare del diritto di asilo in Italia. In particolare l'aver incluso un

membro dell'UNHCR nelle Commissioni territoriali e l’aver introdotto il beneficio del

dubbio nella valutazione della credibilità del richiedente così come l’aver chiarito in

maniera specifica cosa costituisce persecuzione e chi possano essere gli agenti che ope-

rano la persecuzione, sia stato determinante. Altro pregio del decreto è avere discipli-

nato l’istituto della protezione sussidiaria specificando non solo le motivazioni in virtù

delle quali possa essere concessa ma anche il range dei diritti di chi gode di tale forma

di protezione”. Tuttavia, ha infine aggiunto “Rimangono aspetti critici per quanto attie-

ne alla carenza di accoglienza e di assistenza legale nella fase amministrativa iniziale

del procedimento. Ulteriori carenze sono costituite dalla carenza di informazioni sul

paese di origine accessibili a tutti, le banche dati delle Commissioni Territoriali non so-

no pubbliche, e vi è una totale mancanza di consulenti tecnici presso le stesse (medici,

psicologi, antropologi)”.

Relativamente al carattere alternativo della procedura semplificata precedente-

mente in vigore e al trattenimento presso i C.D.I., l’avvocato Neri ha anche spiegato:

“Un’interpretazione corretta della norma è stata fornita dal Ministero dell’Interno con la

circolare 400/B/2005/460/P/15.1.7.7 del 31.10.2005: il richiedente deve essere tratte-

nuto, ai sensi dell’art. 1-bis co. 2 lett a) solo quando viene fermato (o perché ha eluso o

tentato di eludere i controlli di frontiera o in condizioni di soggiorno irregolare); non

268

dovrà esserlo, invece, tutte le volte che, anche in condizioni di irregolarità, si presenti

spontaneamente a proporre l’istanza. La procedura semplificata potrà pertanto essere

adottata solamente nei confronti di coloro che presentino domanda di asilo dopo essere

stati espulsi o respinti o dopo essere stati fermati nelle condizioni sopra indicate. Inoltre

per quanto riguarda la procedura semplificata sono convinto che vada abolita, così come

il trattenimento nei C.D.I, inutile anche da un punto di vista di controllo delle frontiere”.

Anche il Signor Cumbo in proposito ha ribadito: “L’ingresso dei potenziali rifugiati in

Italia è di fatto impedito per tutti, non solo per i sudanesi, del Darfur. La Bossi-Fini è

incostituzionale in quasi ogni sua parte: chi l’ha fatta lo sa bene, ma sa anche che la

Corte Costituzionale impiega tempi biblici per pronunciarsi. Per esempio, è palesemente

incostituzionale che sia un giudice di pace a pronunciarsi sulla detenzione o meno in un

C.P.T.A. e sulla conseguente espulsione. Secondo la Costituzione i diritti della persona

possono essere oggetto di giudizio solo da parte della magistratura ordinaria, non certo

dai giudici di pace. Sarà ovvia la sentenza della Corte Costituzionale, ma nel mentre la

mattanza continua”.

Inoltre il Signor Cumbo ha sollevato una problematica interessante, che merita

sicuramente di essere analizzata in futuro: “Come è possibile accogliere i rifugiati con

l’istituzione di Frontex677? Quest’organizzazione è una palese e gravissima violazione

del principio di non-refoulement, sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Gine-

vra”. Anche l’avvocato Romano, risentita solo su questo punto poco tempo fa, ha ag-

giunto “Il problema dei respingimenti in Libia è stato ora temporaneamente accantonato

a causa della guerra civile, ma rimane: il diritto d’asilo è stato in molti casi violato con i

respingimenti attuati in mare senza previa verifica delle identità dei migranti e senza

concedere loro la possibilità di presentare una domanda d’asilo”.

4. Presenza e trattamento dei rifugiati del Darfur in Inghilterra

Il Regno Unito, come abbiamo avuto modo di vedere è un paese con una storia

di immigrazione particolarmente antica dovuta soprattutto al suo passato coloniale678.

677 L’organizzazione Frontex, dal francese Frontières extérieures, ha sede a Varsavia, in Polonia ed èl’agenzia per la sicurezza delle frontiere dell’Unione Europea. All’interno delle sue attività le è consentitofermare l’afflusso dei clandestini spingendosi fin in acque internazionali e impedendo l’accesso alle im-barcazioni. Tuttavia così facendo non c’è alcun controllo sulle persone presenti a bordo delle suddetteimbarcazioni, le quali potrebbero benissimo essere asilanti.678 Si veda supra, capitolo IV

269

La presenza di folte comunità di stranieri e l’almeno apparente maggior apertura nei

confronti degli stessi ha spesso influenzato la scelta di tale paese come paese di asilo.

Nonostante infatti la posizione geografica delle isole britanniche e la maggior difficoltà

di raggiungere le stesse, il numero dei richiedenti asilo in Gran Bretagna è sempre stato

piuttosto elevato.

Secondo i dati elaborati dal programma di ricerca statistica dell’UNHCR, i ri-

chiedenti asilo provenienti dal Sudan, - non sono purtroppo disponibili dati relativi ai

soli darfuriani - , che hanno presentato domanda di protezione internazionale in sede

amministrativa, tra il 2006 e il 2010 sono riportati nella tabella di seguito679:

-Asylum Seekers -> Applied during year (First Instance Only) -> Originating from -

> World -> A/S (Applied during year) Originating fr om -> Sudan in UK

(Periodicity: Year, Applied Time Period: from 2006 to 2010)

2006 2007 2008 2009 2010

United Kingdom of Great Brit-

ain and Northern Ireland

755 400 290 250 640

Da tali dati risulta immediatamente, come nonostante le diverse posizioni geo-

grafiche, quasi paradossalmente nel Regno Unito siano negli ultimi 5 anni arrivati molti

più richiedenti asilo di quanti non ne siano arrivati in Italia680. Come vedremo tali dati

non si discostano poi di molto da quanto riferito dai rappresentanti della comunità locali

sulla popolazione darfuriana effettivamente presente sul territorio.

La situazione dei rifugiati darfuriani in Inghilterra si è caratterizzata prevalente-

mente per due diversi approcci adottati dal Ministero dell’Interno nei confronti di questa

particolare categoria di richiedenti protezione.

Infatti la politica adottata dall’Home Office fin dagli albori del conflitto e dai

primi arrivi nel Regno Unito tra il 2003 e il 2005, è stata improntata per lo più a respin-

gere con ogni strumento e scusa possibile gli asilanti del Darfur, in Sudan.

Al principio il Ministero dell’Interno britannico ha, infatti, frainteso le caratteri-

stiche stesse del conflitto, motivando le proprie lettere di rifiuto con una catalogazione

679 UNHCR Statistical Online Population Database, United Nations High Commissioner for Refugees(UNHCR), Dati estratti il 30.03.2011,www.unhcr.org/statistics/populationdatabase.680 Il totale degli arrivi, per gli anni 2006-2010 in Italia è stato pari a 1004 richiedenti asilo, contro i 2335,oltre il doppio, arrivati nel Regno Unito.

270

generica del conflitto come “tribale” e non considerandolo invece come una persecuzio-

ne diffusa su base etnica, con affermazioni del seguente tenore:

“ Il Foreing e Commonwealth Office, ha reso noto il 18 aprile del

2001, che nonostante vi siano rapporti di conflitti tribali in Darfur, non ci

sono prove di genocidio né di una persecuzione sistematica, anche se po-

trebbe essere stata una politica del governo ad un certo punto, quella di de-

stabilizzare le leadership tribali locali (…). Il Segretario di Stato, di conse-

guenza non accetta che vi sia alcuna prova recente che le agenzie del go-

verno o altri gruppi etnici, con o senza il supporto del governo, continuino a

perseguitare i Fur o altre tribù sulla base della loro etnia.”681

Seppure non possa essere negato che il governo inglese si trovò a dover esami-

nare domande di richiedenti asilo darfuriani molto presto, quando il conflitto, o forse

più correttamente la sua conoscenza in occidente, erano ancora al principio, tale circo-

stanza non può di per sé essere considerata una giustificazione sufficiente, date le con-

seguenze che tale interpretazione erronea degli eventi ha poi, come vedremo, portato.

Inoltre il difficile percorso, che ora analizzeremo, compiuto dal Ministero dell’Interno

prima e dalle corti britanniche poi, in merito alla legittimità delle domande di protezione

darfuriane è un preoccupante indice dell’incapacità del sistema di asilo di valutare il ve-

rificarsi o meno di una “persecuzione” come definita dalla Convenzione di Ginevra.

Ancora nel 2005, quando i profughi del Darfur in Chad erano già oltre

300.000682 infatti, il sistema continuava a non saper definire correttamente le cause e le

conseguenze del conflitto in tale paese:

“Non accetto che vi sia nella sua(del richiedente ndr) storia nulla

che lo metterebbe in Sudan più a rischio di qualunque altro membro di una

tribù Fur/Zaghawa. Ritegno in realtà che lo stesso corra un rischio minore

poichè lui e sua padre erano in affari in quella che ha descritto come una

città abbastanza grande e non stava dunque conducendo una vita di tipo

pastorale, che avrebbe potenzialmente attratto le attenzioni della Janjaweed

681 Traduzione dall’inglese di alcuni estratti dalla ‘Reasons for Refusal’ letter del Ministero dell’Internoinviata a Faisal Hussain Omar, 21 gennaio 2003, in Aegis Trust (a cura di), Lives in Our Hands, U.K.2003, www.aegsitrust.org, pag. 43.682 Si veda in proposito supra il capitolo 6.

271

in quello che è essenzialmente un conflitto rurale per la proprietà della ter-

ra e i diritti di pascolo”683.

Il secondo approccio seguito dal Ministero dell’Interno per respingere le richie-

ste di protezione internazionale degli asilanti darfuriani, fu quello di ritenere che, anche

ammettendo che il conflitto potesse essere animato da motivazioni diverse da quelle fi-

no ad allora esaminate e che di conseguenza alcune aree del Darfur non fossero da rite-

nere sicure, i richiedenti asilo provenienti da tali aree potessero essere tranquillamente

rinviati in Sudan e ricollocati a Khartoum, nella capitale, peraltro motivando in maniera

identica tutte le lettere di rifiuto:

“non ci sono prove che i sudanesi di etnia Fur, Massaleit e Zagha-

wa, siano sistematicamente perseguitati in ragione della loro appartenenza

etnica a Khartoum e in altre parti del Nord Sudan, in ogni caso fuori dalle

aree del Darfur. (…) Vi è un parte del Sudan in cui lei non avrebbe un fon-

dato timore di persecuzione e dove è ragionevole aspettarsi che lei

vada”684.

Per cercare di combattere questo atteggiamento di chiusura, e onde sostenere con

più forza le domande di protezione internazionale degli asilanti del Darfur, l’Aegist

Trust nel mese di marzo 2006 ha iniziato a rintracciare, ora in Sudan ora in altri paesi,

alcuni asilanti che erano stati rinviati a Khartoum, per riportare le loro testimonianze.

David Brown in proposito ha dichiarato:

“Abbiamo avuto la collaborazione di alcuni giornalisti esperti di

Sudan ma rintracciare i richiedenti non è stato facile. In generale gli asi-

lanti sono abbastanza paranoici, in particolare dopo essere stati rinviati dal

paese da cui fuggivano. Cambiano casa continuamente, non riuscivamo ad

instaurare alcun contatto, inoltre le autorità sudanesi non rendevano le co-

se più semplici ai nostri inviati in loco, come è facile immaginare. Anche di

coloro che abbiamo intervistato poi si sono spesso perse le tracce a di alcu-

683 Estratti dalla decisione di appello del sig. Ismail Mohamed Jabor del 9 febbraio 2005, Aegis Trust (acura di), op. cit., pag. 44.684 Tra le altre si vedano gli estratti identici delle ‘Reasons for Refusal’ letters del Ministero dell’Internodel sig. Mohammed Abbakir Bakhit del 16.12.2004, nonché del sig. Mokhtar Mursal Mahmood del23.12.2004 e del sig. Abdo Yahya Abdullah del 17.1.2005, ibidem.

272

ni di loro, allo stato attuale non sappiamo riferire se siano vivi oppure

no” 685.

Nonostante le difficoltà descritte, nella primavera 2006, l’associazione è riuscita

ad intervistare almeno tre persone che erano stata rinviate a Khartoum: Hatem Moham-

med Hussein e AC e AA, le cui dichiarazioni fornirono numerose ragioni di preoccupa-

zione per tutti gli addetti ai settori. Non solo ma alle loro dichiarazioni nel gennaio

2007, un ex militare disertore dei servizi di sicurezza Sudanese, che ha preferito restare

anonimo, rendendo la propria testimonianza all’Aegis Trust ha rafforzato le preoccupa-

zioni del mondo dell’associazionismo in proposito. Ha infatti confermato che:

“la vita di ogni africano del Darfur che dall’Europa viene espulso

verso Khartoum è in pericolo, poiché su di esso non appena rientra in Su-

dan, vengono effettuate numerose indagini su come è giunto in Europa e

perché. Ognuno di loro viene sottoposto a lunghissimi interrogatori, può es-

sere detenuto a tempo indeterminato e senza processo e le loro vite sono in

pericolo”686.

Nel mese di gennaio 2007, l’Aegis Trust prese parte alle operazioni per far fug-

gire una seconda volta dal Sudan due darfuriani che dopo aver ricevuto un diniego di

protezione internazionale sulla base delle motivazioni sopra citate erano stati rinviati a

Khartoum: Mohamed Hussein Degues Baraker e Sadiq Adam Osman. Nel caso di

quest’ultimo le descrizioni delle torture subite una volta rientrato in Sudan, furono am-

piamente supportate non solo dalle descrizioni di coloro che lo avevano aiutato a fuggi-

re la seconda volta, ma anche dai medici e dagli psicologi che lo assistettero dopo la fu-

ga, nonchè dalla testimonianza del giornalista inglese Inigo Gilmore, che riportò la sto-

ria di Sadiq al Guardian e a Channel Four News, il 28 marzo 2007687. Il giornalista ha

poi prestato la propria esperienza in numerosi casi davanti all’Home Office, ma le sue

parole per lungo tempo non sono state considerate. Il rapporto dello psicologo dopo la

seconda fuga, anche esso con il consenso di Sadiq, utilizzato a supporto di altre doman-

de di asilo, riferiva che:

685 Intervista a David Brown, responsabile della comunicazione di Aegis Trust, 04 novembre 2009, pressol’Holocaust Educational and Memorial Centre di Laxton, Newark nel Nottinghamshire, Regno Unito.686 In Aegis Trust (a cura di), Lives We Trow Away, U.K. 2007, www.aegsitrust.org, pag. 2.687 Ibidem pag. 3.

273

“C’erano (sul suo corpo ndr) numerose prove visibili di cicatrici

piuttosto recenti. Nonostante io non sia un esperto di cicatrici, ho una certa

esperienza con la visione di tali cicatrici e con il loro processo di guarigio-

ne. Era mia opinione che le stesse fossero si recenti, ma risalenti ad almeno

tre o quattro settimane prima. Vi erano anche multiple abrasioni su en-

trambi i polsi e sulle caviglie. Le stesse erano compatibili con l’essere stato

legato mani e piedi e avrebbero potuto essere causate da corde di paglia.

C’erano multiple ferite sottili sulla parte superiore del suo torso e sulle

braccia (…) Ho visto simili ferite in persone che sono state colpite con fru-

ste sottili o con un flessibile elettrico. (…) Le ferite da me osservate erano

compatibili con la storia narrata e non avrebbero potuto avvenire acciden-

talmente. (...) Quest’uomo ha descritto la sua storia di fuga dovuta alle

violenze che si verificano in Darfur e il suo viaggio nel Regno Unito dove

ha cercato rifugio. Quando la sua domanda e il suo appello sono stati ri-

gettati è stato portato all’ambasciata sudanese per ottenere dei documenti

di viaggio. (…) Arrivato a Khartoum è stato consegnato alla polizia suda-

nese a cui ha continuato a dire di non essere cittadino sudanese, ma è stato

sottoposto a ripetute forme di tortura.(…) Durante l’intervista non ho mai

creduto che stesse esagerando o recitando sui suoi sintomi, anzi il suo stoi-

cismo lo portava più che altro a minimizzarli.(…) È mia opinione che sia

stato torturato e che i suoi sintomi siano coerenti con il suo racconto. Inol-

tre ritengo che i suoi sintomi rientrino nei parametri della sindrome post

traumatica da stress e che soffra di una depressione di una gravità mode-

rata. Questi sintomi sono strettamente legati e conseguenza diretta delle

torture subite quando è stato rinviato in Sudan. Gli stessi sono poi mante-

nuti dalla instabilità della sua situazione attuale (…)”688.

In realtà in materia di ri insediamento all’interno del Sudan, nelle

c.d. aree sicure, si era già pronunciata la House of Lords, con la nota senten-

za Januzi, Hamid Gaafar e Mohammed689, affermando che :

“ il re insediamento, da un punto di vista pratico richiede una defini-

zione del fatto che i diritti che non sarebbero rispettati e protetti siano fon-

688 Ibidem, pagg. 20-21.

274

damentali o meno per l’individuo, in maniera tale che la deprivazione di tali

diritti sarebbe sufficientemente nociva da rendere tale area un alternativa

non ragionevole per il richiedente”690.

In seguito al lavoro portato avanti dalla Aegis Trust e dalle varie organizzazione

che la assistevano, l’orientamento del Ministero dell’Interno non cambiò ma iniziarono

ad aprirsi alcuni spiragli in sede di esame dei dinieghi da parte delle Corti d’Appello.

Notizie simili furono anche riportate dalla stampa locale. Il Times692, ad esem-

pio, riferì la storia della sig.ra Ibraim, di anni 33 che nel mese di aprile 2007, diciotto

mesi dopo il suo arrivo nel Regno Unito, ricevette una lettera di diniego accompagnata

dall’ordine di presentarsi immediatamente agli ufficiali della U.K.B.A. per essere rin-

viata a Khartoum. Insieme a lei, negli stessi giorni almeno 60 asilanti in attesa da mesi,

avevano ricevuto la medesima lettera di diniego.

La fretta nel predisporre tali rifiuti di massa era principalmente dovuta all’attesa

per una decisione in merito alla legittimità o meno dei rimpatri verso Khartoum, da

parte della Corte d’Appello inglese, che doveva essere presa a giorni e che avrebbe po-

tuto bloccare definitivamente la politica di tali espulsioni. John Bercow, il membro del

governo conservatore aveva richiamato l’attenzione dei Commons sull’argomento pro-

prio in quella settimana, chiedendo al Governo stesso di sospendere le espulsioni fino

alla pronuncia della Corte d’Appello:

“È inaccettabile che il Governo continui a tutti i costi con una politi-

ca che potrebbe essere giudicata prestissimo fuori luogo. Continuando ad

espellerli il Governo sta esponendo persone vulnerabili a possibile deten-

zione, tortura o morte”693.

Anche in quel caso deludente fu la risposta del Ministero dell’Interno per giusti-

ficare le proprie azioni:

“Monitoriamo costantemente la situazione in Sudan e in accordo con

gli attuali casi giuridici riteniamo che sia sicuro rimpatriare i cittadini su-

689 Januzi, Hamid Gaafar e Mohammed v. SHHD, 2006 UKHL 5, in G. Clayton, op. cit. pag. 479.690 Ibidem, par. 20.

692 The Times on line, Britain Rush to send back asylum families before the Court ruling, 2 aprile 2007,allora disponbile al link www.timesonline.co.uk/tol/.../article1599808.e ora soggetto a pagamento.693 Ibidem.

275

danesi, inclusi coloro che provengono dal Darfur, ritenendo che non abbia-

no alcun bisogno di protezione internazionale” 694.

La Corte d’appello emise la propria sentenza il successivo 4 aprile 2007 ribal-

tando l’orientamento fino allora seguito sia dal Ministero che, successivamente, in sede

di riesame delle domande in primo grado da parte dell’A.I.T.

L’espulsione degli asilanti darfuriani verso il Sudan e il loro re insediamento

presso i campi profughi presenti in varie aree urbane, prossime a Khartoum, di tale pae-

se, è stato valutato dalla Corte d’appello come “eccessivamente difficoltoso” a causa

delle oppressive condizioni di vita nei campi, della mancanza totale di risorse economi-

che per sopravvivere e della totale alterazione della vita dei rifugiati. Tuttavia anche in

tale caso, la Corte d’Appello pur garantendo da lì in avanti, protezione a numerosi asi-

lanti, rifiutò di esaminare l’argomentazione secondo la quale i rimpatriati erano a rischio

di essere torturati una volta nella disponibilità del governo sudanese695.

Nei mesi seguenti il Segretario di Stato presentò appello contro tale decisione

alla House of Lords. Nell’attesa della decisione la campagna e le indagini condotte da

Aegis Trust e altre organizzazioni sono continuate. James Smith capo dell’Aegis Trust

in tale occasione dichiarò: “Abbiamo prove inoppugnabili che coloro che sono stati de-

portati a Khartoum vengono spesso prelevati direttamente all’aeroporto e torturati”696.

Gli attivisti per i diritti umani esercitarono un forte pressing perchè le prove de-

gli abusi subiti dai richiedenti asilo rimpatriati venissero considerate dalla House of

Lords, ma non essendo le stesse state considerate neppure dalla Corte di Appello, tale

esame risultò impossibile697.

Infatti la House of Lords si pronunciò nei mesi seguenti accogliendo l’appello

del Segretario di Stato, poichè ai fini di un’eventuale violazione dell’art. 3 della CEDU,

il semplice fatto che il re inserimento in un campo profughi a Khartoum potesse essere

“eccessivamente duro” per i darfuriani provenienti da una regione agricola, non poteva

694 Ibidem.695 The Guardian, Darfur Refugees allowed to stay in UK, 4 aprile 2007,http://www.guardian.co.uk/uk/2007/apr/04/immigration.immigrationandpublicservices .696 J. Smith, in M. Clark, Darfur Refugees risk Deportation from UK, Londra, 10 ottobre 2007, VoaPress, http://www.voanews.com/english/news/a-13-2007-10-10-voa27-66695862.html .697 Ibidem.

276

essere considerato un elemento sufficiente a garantire un livello di protezione generaliz-

zata a tutti i richiedenti asilo dal Darfur in Inghilterra698.

La questione della legittimità o meno della ricollocazione interna in Sudan, dei

darfuriani è rimasta oggetto di un acceso dibattito giuridico per vari anni.

In KH, QA, BK e KA v SSHD (2008), EWCA Civ 887, la Corte d’Appello ha

ribadito che la decisione della House of Lords non aveva comunque impoverito la pre-

cedente decisione della Corte stessa poiché, in ogni caso, le domande di asilo presentate

dai darfuriani di etnia non araba, avrebbero dovuto essere esaminate singolarmente nel

merito e non in modo identico per tutti i richiedenti699.

È interessante osservare come contemporaneamente all’evolversi delle vicende

giudiziarie sopra descritte, nelle Operational Guidance Note sul Sudan del 2009700, si

legge:

“Fonti confermano che alcuni Darfuriani sono stati arrestati in anni

recenti, per esempio, poiché sospettati di collaborare con i ribelli, anche se

vi sono state relativamente poche segnalazioni di persone del Darfur arre-

state mentre vivevano a Khartoum, almeno fino (all’ultimo ndr) attacco del

JEM. Praticamente tutti gli arresti e persecuzioni riportate hanno riguar-

dato persone che sono o attivisti umanitari di alto livello o opponenti del

regime. Gli arresti o altri tipi di persecuzione nei confronti delle persone

del Darfur che vivono a Khartoum non sembrano verificarsi in ragione solo

della loro provenienza regionale o etnica. (…) Coloro che in Darfur sono

stati leaders tribali, persone che si sono distinte come oppositori del regime,

tra i quali coloro classificati come “intellettuali”( studenti, avvocati, com-

mercianti professionali o mercanti) o noti attivisti per i diritti umani prove-

nienti da gruppi etnici non arabi che siano stati identificati attraverso la lo-

ro attività politica o l’espressione delle loro idee anti governative., non pos-

sono cercare la protezione dal governo. (…) Tali richiedenti non possono

neppure essere ri insediati all’interno (del territorio ndr) poiché verrebbero

698 AH, IF, NM v SSHD, (2007), UKHL 49 in G. Clayton, op. cit. pagg. 480-481.699 Ibidem.700 Si tratta di rapporti emessi dall’Home Office ogni anno per ogni paese, come aggiornamento costanteper i propri ufficiali, onde affermare la propria politica nei confronti dei richiedenti asilo. OperationalGuidance Note Sudan aprile 2009 reperibile sul sitowww.unhcr.org/refworld/country,UKHO,,SDN,456d621e2,49e476982,0.html .

277

probabilmente rintracciati dal governo. I darfuriani ordinari non arabi non

corrono un rischio generale di persecuzione al di fuori degli stati del Dar-

fur e non sarebbe eccessivamente duro per loro ri insediarsi in un’altra

area sicura all’interno del Sudan. In ogni caso, alcune circostanze indivi-

duali suggeriscono che potrebbe non essere possibile ricollocarli

all’interno del paese, soprattutto a Khartoum. Dopo l’attacco del JEM a

Omdruman, le autorità sudanesi hanno arrestato e maltrattato alcuni darfu-

riani non arabi di etnia Zaghawa. In tali casi, dopo un esame su base indi-

viduale, il riconoscimento dell’asilo potrebbe essere appropriato. (…) I

darfuriani non arabi ordinari (che esercitano un’attività ordinaria ndr) di

altre etnie non sono generalmente soggetti a persecuzione fuori dal Darfur

e la maggior parte può essere ri insediata in modo sicuro in un’altra area

del Sudan.”701.

E ancora:

“Un numero significativo di richiedenti presenterà una domanda di

asilo o di protezione internazionale sulla base dei maltrattamenti perpetrati

dalle milizie sponsorizzate dal governo, dovuti alla loro appartenenza ai

gruppi etnici Massaleit, Zaghawa, Fur, o ad altri gruppi etnici non arabi

presenti negli stati del Darfur. I darfuriani non arabi ordinari o di altre et-

nie non sono generalmente soggetti a persecuzione fuori dal Darfur e la

maggior parte di loro potrebbe ri insediarsi in un'altra area sicura del Su-

dan. Tuttavia il bisogno di protezione può variare sensibilmente e ogni fat-

tore deve essere valutato con attenzione in ogni singolo caso, applicando le

linee guida definite (nella sentenza ndr) Januzi e AH (considerando per

esempio, l’età il genere, la salute, le competenze, le origini familiari), per

stabilire per ogni individuo se sarebbe ragionevole che si ri insediasse.” 702

Peraltro è dello stesso periodo la notizia che un richiedente asilo diniegato espul-

so con destinazione Khartoum, all’uscita dell’aeroporto sudanese è stato seguito da al-

cuni ufficiali del Servizio di Sicurezza Sudanese e ucciso brutalmente a colpi di pistola,

701 Ibidem, pagg. 18-21.702 Ibidem, pag. 21.

278

davanti alla moglie e al figlio piccolo, non appena rientrato in Darfur703. Rimane dun-

que un mistero come il governo britannico, anche alla luce delle indagini svolte dalla

Corte Penale Internazionale sul coinvolgimento del governo sudanese nei crimini per-

petrati contro la popolazione del Darfur, abbia potuto considerare in qualunque mo-

mento degli ultimi otto anni, sicuro per un darfuriano in fuga stabilirsi nella capitale do-

ve ha sede il governo stesso.

La politica del Ministero dell’Interno è finalmente cambiata, solo alcuni mesi

dopo gli eventi sopra descritti, anche in seguito all’espulsione delle organizzazioni in-

ternazionali non governative dal territorio sudanese e, nella successiva edizione

dell’Operational Guidance Note del 2 novembre 2009, si legge:

“Non si ritiene che i darfuriani ordinari di etnia non-araba siano

oggetto di persecuzione sistematica fuori dal Darfur e le Corti hanno rile-

vato come non sia eccessivamente gravoso aspettarsi che gli stessi si ri in-

sedino a Khartoum. In ogni caso, tali decisioni sono antecedenti gli sviluppi

e i rapporti citati ai paragrafi 3.9.4-3.9.7 di cui sopra e le restrizioni delle

operazioni delle NGOs – una risorsa chiave per avere informazioni sul Su-

dan - hanno comportato che non siamo in grado di ottenere affermazioni

credibili per assicurare in modo accurato che continui a non esserci un ri-

schio elevato per i darfuriani di etnia non araba a Khartoum. Alla luce del

fatto che non abbiamo informazioni sufficienti per fronteggiare i timori

espressi nei rapporti di cui sopra, i case owners non devono ritenere che i

darfuriani di etnia non araba possano essere ri collocati all’interno del Su-

dan. Conclusioni: Tutti i darfuriani di etnia non araba, non importa quale

sia la loro affiliazione politica o di altro tipo, corrono un rischio fondato di

persecuzione in Darfur e una ri collocazione altrove in Sudan, allo stato

attuale non è affidabile. I richiedenti che provano di essere darfuriani di et-

nia non araba e che non ricadono in una delle cause di esclusione

dall’asilo, sono qualificati per l’asilo stesso.”704.

703 R. Verkaik, Sent Back by Britain Executed in Darfur, 17 marzo 2009, UKhttp://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/sent-back-by-britain-executed-in-darfur-1646507.html.704 Operational Guidance Note Sudan novembre 2009 reperibile sul sitohttp://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/reliefweb_pdf/node-332017.pdf, pag. 21.

279

Olivia Wharham705, ha riferito in proposito:

“Stiamo cercando di rintracciare il maggior numero di richiedenti

asilo possibile che abbiano già avuto un diniego, ma che non siano stati an-

cora allontanati dall’Inghilterra per fargli preparare un fresh claim. Gli

avvocati con cui collaboriamo sono oberati di lavoro ma è una svolta trop-

po importante per farsela sfuggire. Certo non si può non pensare a coloro

che non sono stati così fortunati e che sono già stati rimandati in Sudan do-

ve probabilmente sono stati arrestati e torturati”.

Nonostante però tale svolta positiva e nonostante l’orientamento dell’Home Of-

fice espresso nelle Operational Guidance Note da allora non sia più cambiato, è di pochi

mesi fa una notizia che ha suscitato numerose perplessità anche nel mondo

dell’associazionismo. La giornalista del Darfur, Abeer Awooda, di anni 26, aveva infatti

presentato domanda di protezione internazionale in Inghilterra, dove era giunta dopo es-

sere già stata arrestata e torturata in Sudan e alla luce di quanto sopra esposto avrebbe

dovuto avere accesso all’asilo automaticamente, essendo di orgine della tribù Beri, di

etnia non araba. La giornalista invece è stata destinataria di un provvedimento di dinie-

go ed è stata contestualmente presa in custodia nel centro di detenzione di Yarl’s Wood,

senza che il suo legale fosse informato, e dove erano già pronti i documenti per rinviarla

in Sudan. Il suo avvocato ha presentato appello non appena chiamato dalla stessa.

L’associazione Waging Peace706, attiva nella protezione degli asilanti darfuriani,

ritiene che il Ministero dell’Interno non abbia proceduto all’esame della domanda della

sig.ra Awooda in modo corretto. Sophie McCann, direttrice dell’associazione ha dichia-

rato:

“Waging Peace è estremamente preoccupata dei rischi che questa

giovani donna correrebbe se venisse rinviata nelle mani di un regime che la

aveva già arrestata e torturata. Lei era una giornalista che ha preso più

volte posizione contro le brutali misure prese nei confronti delle voci dissi-

denti in materia di diritti delle donne e contro un presidente che è indagato

705 Intervistata il 18 febbraio 2010 a Londra presso la sede dell’associazione Article1, 105a WestbourneGrove.706 http://www.wagingpeace.info .

280

dalla Corte Penali Internazionale per genocidio contro la sua popolazio-

ne”707.

Il portavoce della UK Border Agency ha replicato che

l’orientamento del Ministero dell’Interno nei confronti dei darfuriani di et-

nia non araba non è cambiato e che:

“Prendiamo seriamente le nostre responsabilità internazionali e ab-

biamo una storia orgogliosa di offerta di rifugio nei confronti di coloro che

hanno effettivamente bisogno della nostra protezione. Ogni caso è conside-

rato nei suoi singoli aspetti individuali, tenendo in considerazione la situa-

zione nel paese di origine. In ogni caso quando riteniamo che qualcuno non

abbia bisogno effettivamente di protezione ci aspettiamo che costoro ritor-

nino a casa volontariamente”708.

Nel momento in cui si scrive l’esito dell’appello della sig.ra Awooda è ancora scono-

sciuto.

5. Le voci dei protagonisti e dei testimoni privile giati in Inghilterra

Come ho accennato anche l’investigazione empirica in Inghilterra è stata svolta

in luoghi e con modalità tra loro differenti, a seconda delle possibilità e delle situazioni.

Le interviste709 ai rifugiati, svolte a Nottingham e a Londra e a New Castle, in

epoche diverse tra il 2008 e la fine del 2010, si sono svolte in inglese lingua parlata

fluentemente da tutti gli asilanti che ho incontrato. Le difficoltà principali sono state

dovute alla delicatezza per gli intervistati degli argomenti trattati. Anche in questo caso,

la conoscenza effettiva che gli asilanti hanno dimostrato di possedere, relativamente alle

procedure che hanno dovuto espletare, non è risultata altissima anche se padroneggian-

do meglio la lingua erano più coinvolti nell’intera procedura. Rimane comunque fon-

damentale l’apporto dei contributi delle due avvocatesse di Londra dello studio Lupin

Sollecitors, R.R. e S.B. e dello specialista in country of origin informations sul Sudan,

707 R. Hastings, Torture Victim fights decision to deport her back to Sudan, 14 febbraio 2011,http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/torture-victim-fights-decision-to-deport-her-back-to-sudan-2213855.html .708 Ibidem.709 Tutte le interviste si sono svolte in lingua inglese e sono state tradotte da me personalmente dopo esse-re state registrate.

281

Peter Verney710 nonché di Olivia Wharham e David Brown, responsabili della comuni-

cazione rispettivamente presso le associazioni Article1 e Aegsit Trust, per avere un

punto di vista completo sull’argomento.

Gli asilanti intervistati sono undici uomini di età compresa tra i venti e i quaran-

tacinque anni e una donna, Awa Ibrahim di anni 45. Alcuni sono giunti in Inghilterra

relativamente di recente, in momenti diversi, ma il grosso degli arrivi risulta essere av-

venuto in due fasi: prima nel biennio 2003/2004 e poi nuovamente a cavallo tra la fine

del 2009 e l’inizio del 2010. Molti di loro, come vedremo, hanno ottenuto dei rigetti e

hanno poi presentato dei fresh claim, in seguito al mutamento di politica tenuto dal Mi-

nistero dell’Interno, descritto nel paragrafo precedente.

David ha dichiarato che, a fine 2009, i rifugiati del Darfur presenti in Inghilterra

“si aggiravano intorno al migliaio. I dati non sono molto precisi perché non tutti hanno

presentato domanda di protezione. Le donne difficilmente lasciano il Sudan, piuttosto se

possibile i mariti cercano di farsi raggiungere in un secondo momento se ottengono il

riconoscimento di una forma di protezione internazionale”. Tale dato è cresciuto nel

tempo, “soprattutto, in seguito all’emanazione delle Operational Guidance Note del no-

vembre 2009, con cui il Ministero ha garantito che sarebbe stata concessa una forma di

protezione a tutti gli asilanti del Darfur di etnia non-araba. Attualmente secondo quanto

riferito dai rappresentanti delle loro comunità si aggirano sui 2000”, ha commentato

Olivia.

In merito al conflitto in Darfur e all’approccio del governo britannico allo stesso

Peter Verney ha dichiarato “L’Home Office ha, almeno al principio, aderito alla versio-

ne del conflitto che veniva fornita dal governo sudanese, ritenendo che lo stessi si limi-

tasse ad una serie di scontri tribali di lieve entità, motivati per lo più dalla volontà di

controllare le zone fertili. Non ha considerato, invece, il ruolo svolto dal governo suda-

nese stesso nell’orchestrare il conflitto e nel servirsi della milizia Janjaweed per lo stes-

so.”

Relativamente alle ragioni che li hanno spinti a fuggire dal Darfur quasi tutti i ri-

chiedenti hanno risposto in maniera generale indicando il conflitto e le persecuzioni su-

710Peter Verney è uno specialista in Storia e politica Sudanese, ha vissuto in Sudan per oltre 15 anni e alsuo ritorno in Inghilterra nel 1999 è diventato un Sudan Court Affairs Specialist. Ha vissuto in Darfurper oltre due anni tra il 1994 e il 1996 e vi ha fatto ritorno spesso. Collabora con numerose università ed ècapo redattore del sito Sudan Update. www.sudanupdate.org .

282

bite dalle milizie Janjaweed. Jaafar, nato nel 1983 a Fogadiko, in Darfur, dove svolgeva

l’attività di agricoltore e dove la famiglia aveva una piccola proprietà terriera, ha dichia-

rato: “Anche prima della guerra c’era una forma di marginalizzazione da parte del go-

verno, monopolizzavano il sistema scolastico e quello lavorativo e imponevano molte

tasse, le nostre tribù soffrivano pressioni più forti da parte del governo di quelle di altre

regioni” e ancora “Ho lasciato il Sudan e sono venuto in Inghilterra e sono un soprav-

vissuto ai crimini di genocidio. Ho perso la mia famiglia nella guerra ed è per questo

che sono scappato, per trovare un posto sicuro dove sopravvivere”. Md Saleh, il quale

esercitava la professione di giudice e professore universitario in Sudan, ha dichiarato

“Siamo dovuti fuggire subito nel 2003 quando il conflitto è esploso. Ho dovuto portare

via mia moglie e i miei figli. Mia moglie era stata violentata da alcuni membri della

Janjaweed. Coloro che avevano un’educazione e coprivano posti di qualche rilevanza

nella nostra società sono stati i primi a divenire bersagli della Janjaweed. Cercavano di

demolire la base culturale del nostro popolo”. Parzialmente diversa la storia di J.L. “Ho

lasciato il Sudan perché non era più sicuro né per me né per la mia famiglia ci sono

sempre stati molto combattimenti nella regione del mio villaggio tra le tribù di etnia

araba gli abbala e la mia tribù foulane di etnia non araba, ma negli anni hanno raggiunto

livelli esponenziali. Gli abbala venivano armati dal governo ma non sapevamo come

provarlo e nessuno ci offriva aiuto. Quando mio padre che era un leader della nostra tri-

bù è stato ucciso ho cercato di fuggire a Niala ma sulla strada sono stato aggredito e

torturato dai Janjaweed. Non voglio parlare di quello che è successo alla mia famiglia”.

Non tutti coloro che sono stati intervistati hanno ancora contatti in Darfur, ma

molti hanno riferito che ancora nel periodo a cavallo tra il 2009 e il 2010, i combatti-

menti continuavano e che non si sarebbero mai sentiti sicuri a rientrare. Md Saleh ha

aggiunto: “finché questo governo resterà al potere non ci sarà pace per i popoli del Dar-

fur”. S.M,. un interprete che collabora con Lawrence Lupin Sollicitors con il quale ho

avuto un breve colloquio, ha aggiunto “Il conflitto in Darfur ha assunto le proporzioni

che conosciamo quando il governo vi è intervenuto. I piccoli scontri tribali che vi erano

in passato non c’entrano nulla, erano problematiche che si sarebbero risolte a livello re-

gionale. Le cose sono degenerate quando il governo ha armato le milizie arabe per eli-

minare la popolazione civile di etnie non arabe. Anche se la situazione ora è migliorata i

profughi del Darfur, pur volendo moltissimo fare ritorno, non si fidano almeno fino a

283

quando ci sarà questo governo al potere. Non si sentono sicuri. Inoltre non hanno più un

posto dove tornare: i Janjaweed hanno distrutto tutto è rimasto solo un paese devasta-

to”.

Coloro che ricevono aggiornamenti costanti da conoscenti rimasti in Darfur rife-

rivano ancora nel 2010 di attacchi, razzie e rapimenti compiuti nei villaggi contro i

membri delle etnie non arabe ma hanno anche specificato che la situazione è cambiata.

Ora anche i gruppi ribelli indipendentisti hanno un ruolo importante.

Mahdi, il quale è arrivato in Inghilterra nel 2004 e ha presentato domanda di

protezione internazionale quando era ancora minorenne, ha aggiunto “io ero giovane e

non avevo una chiara percezione di cosa stesse succedendo, sapevo solo che vivere in

Darfur non era più sicuro per nessuno della mia gente”e ancora “sono fuggito a causa

della guerra, perché qualsiasi attività era diventata impossibile”. Anche Ahmed, di anni

33 originario di Bere, nel Nord Darfur ha commentato “anche se non avevi l’esatta per-

cezione politica di cosa stesse succedendo, quando vedi il tuo villaggio bruciare e vedi

cosa i Janjaweed possono fare…Hanno attaccato Bere tre volte, chi non è stato ucciso è

scappato. Quando me ne sono andato io non c’era più nessuno nel mio villaggio”. B. M.

ha invece saputo, dopo il suo arrivo in Inghilterra, che le sue due sorelle e i suoi due

fratelli e la madre, sono stati uccisi dopo la sua partenza nel 2003 e che apparentemente

nessuno del suo villaggio è sopravvissuto.

Tutti gli intervistati, tranne Md Saleh e la sig.ra Awa Ibrahim, hanno dichiarato

di essere giunti in maniera clandestina in Inghilterra e solo alcuni hanno espressamente

dichiarato di aver scelto questo come paese di asilo volontariamente. Molti sono passati

per il deserto e hanno raggiunto la Libia, e da lì si sono imbarcati per una destinazione a

loro ignota.

Md Saleh e la sig.ra Awa Ibrahim, invece, hanno viaggiato in aereo da Khar-

toum e sono atterrati in Inghilterra insieme alle loro famiglie. Il viaggio è stato organiz-

zato, in entrambi i casi, da due passatori che li hanno muniti di documenti falsi. Lasciare

il Sudan con i propri documenti ed entrare legalmente in Occidente è per la totalità degli

intervistati “semplicemente impossibile”.

Sempre Jaafar, ha dichiarato: “Prima di venire in Inghilterra sono arrivato in

Francia, a Marsiglia su una piccola barca e ho presentato domanda di asilo lì, ma non

c’era alcuna assistenza, vivevo per la strada e non sapevo come fare. Sapevo che nume-

284

rosi miei connazionali erano in Inghilterra e ho deciso di provare anche io. Sono arri-

vato clandestino qui dalla Francia, nascosto in un camion”. Bokhit di anni 27, originario

di Kasambaso un villaggio situato a 14 km a Nord di Tine, è arrivato in Inghilterra nel

2005 “su una nave, ma non sapevo dov’ero né sapevo di poter chiedere asilo” e anche

I.M. “ho lasciato il Darfur in un modo molto difficoltoso, prima sono andato a Tine, al

confine con il Chad e poi da lì in auto fino a Port Sudan, dove ho aspettato cinque giorni

e mi sono poi imbarcato su una nave diretta in Inghilterra, solo che io non lo sapevo,

l’ho scoperto solo in seguito.” Osman Abdullah Oman, ha invece seguito un percorso,

sempre clandestino, ma differente “ho raggiunto Il Cairo con documenti falsi e da lì il

Marocco dove ho dovuto aspettare un mese per avere dei nuovi documenti falsi per ve-

nire in Inghilterra.”

Abbiamo visto come da un lato la formulazione stessa della normativa inglese,

dall’altro l’atteggiamento delle autorità sudanesi che impediscono ai darfuriani di lascia-

re il paese, renda sostanzialmente impossibile, raggiungere il paese di asilo regolar-

mente, ragione per la quale non sorprendono le risposte rilasciate dagli intervistati.

La maggior parte degli intervistati ha avuto il suo primo contatto con la polizia

inglese in aeroporto o in porto, oppure in casi minori quando si sono presentati volonta-

riamente, in un momento successivo all’ingresso, per chiedere asilo ad una sede della

U.K. Border Agency.

Awa Ibrahim ha affermato “Quando siamo arrivati in Inghilterra con i documenti

falsi il passatore ci ha portato fuori dall’aeroporto e poi presso una sede dell’Home Of-

fice, dove ci ha detto che dovevamo chiedere asilo e ci ha lasciati lì. Solo dopo ho sa-

puto che si trattava di Croydon.” In proposito l’avvocato R.R. mi ha spiegato “Le do-

mande possono essere presentate direttamente in aeroporto, o in porto, all’arrivo ed in

quel caso le dichiarazioni vengono raccolte dal personale ivi presente. Se invece vengo-

no presentate successivamente all’arrivo, devono essere sempre presentate alla sede

della U.K.B.A. a Croydon. Prima c’erano altre sedi sparse per il paese ora non più. In

realtà in molti casi se il personale aeroportuale non è disponibile i richiedenti vengono

comunque mandati a Croydon”.

Dalla maggior parte delle dichiarazioni emerge come ai richiedenti non sia stata

fornita alcuna informazione in merito alla possibilità di presentare domanda di protezio-

ne internazionale e come gli stessi siano stati per lo più informati di tale possibilità o dai

285

traduttori o dai propri connazionali, una volta raggiunta l’Inghilterra o dai componenti

di associazioni a cui si sono rivolti. Una volta però manifestata tale intenzione tutti i ri-

chiedenti sono stati informati della possibilità di farsi assistere da un rappresentante le-

gale.

L’avvocato R.R. mi ha confermato infatti “Arrivano da noi un po’ per passa pa-

rola, un po’ mandati da varie associazioni. In ogni caso per la procedura inglese il ri-

chiedente asilo ha diritto ad avere l’assistenza gratuita in ogni fase del giudizio, quindi

anche durante quella amministrativa. Il nostro studio, come altri, ha una convenzione

con la Legal Services Commission, che ci assegna i fondi direttamente e a cui dobbiamo

poi giustificare l’uso che ne è stato fatto. Per concedere l’assistenza legale gratuita dob-

biamo prima valutare se il richiedente è effettivamente senza mezzi di sostentamento e

se, a nostro parere, ha più del 50% di possibilità che la sua domanda abbia successo.

Non possiamo assistere con tali fondi richiedenti i cui casi non sembrano ragionevol-

mente fondati.”

Awa, non ha avuto subito accesso al free legal aid: “Il primo avvocato a cui ci

siamo rivolti ce l’aveva presentato un connazionale, lo dovevamo pagare e non ci siamo

trovati molto bene.” Anche Osman “avevo un avvocato nigeriano che mi aveva presen-

tato un mio amico, ma voleva essere pagato moltissimo, e non mi sembrava sapere

molte cose sul Darfur, non mi chiedeva niente”.

Quasi tutti gli intervistati, con eccezione della moglie di Mad Saleh secondo

quanto da lui stesso riferito711, hanno avuto una prima letter of refusal dall’Home Office

ed hanno dovuto presentare almeno un appello. La moglie di MD Saleh ha ottenuto il

riconoscimento dello status immediatamente a causa dei numerosi segni di tortura pre-

senti sul suo corpo e delle tracce della recente violenza sessuale subita. Lui e la moglie

però sono stai intervistati da due case owners diversi e non hanno potuto testimoniare

l’uno per l’altro, pertanto in prima istanza la sua pratica è stata rifiutata. “Ho dovuto

presentare appello e portare il caso di mia moglie a sostegno delle mie dichiarazioni

prima di poter ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato”.

711 Non ho potuto incontrarla personalmente.

286

Anche Awa Ibrahim ha ottenuto un diniego e poi “Ho presentato due appelli ed

un fresh claim con l’aiuto di Olivia di Article1 e solo recentemente712, io e la mia fami-

glia abbiamo ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato”.

Ahmed non parlava inglese quando è sbarcato dalla nave su cui aveva viaggiato

e continuava a ripetere di provenire dal Sudan “Mi hanno portato una traduttore ma era

curdo e parlava pochissimo arabo, e quindi ne hanno cercato un altro. Il secondo era

palestinese ma non riuscivo a capirlo perché l’arabo parlato in Darfur è differente. Ho

chiesto a lui se c’era qualcuno che parlasse il mio dialetto Zaghawa, ma era solamente il

2004 ed era molto difficile trovare qualcuno che parlasse correttamente inglese e Za-

ghawa. Ora so che l’Home Office ha molti traduttori Zaghawa. È stato il traduttore Pa-

lestinese a dirmi che potevo chiedere asilo, quando me l’ha detto ho capito di cosa si

trattava perché anche noi abbiamo molti rifugiati in Sudan”.

Anche altri richiedenti hanno incontrato numerosi problemi di traduzione T.M.,

di anni 26, quando è arrivato “nel maggio 2008 mi hanno portato un traduttore arabo

cha capivo poco. Mi hanno fatto una prima intervista veloce e poi mi hanno portato in

un centro di detenzione dove sono stato tre giorni. Dopo ho avuto un’altra intervista ma

il traduttore era palestinese e io capivo quello che diceva mentre lui non capiva me.”

B.E.M. ha avuto una letter of refusal principalmente per le difficoltà incontrate

nella traduzione “Mi avevano assegnato un traduttore arabo, non so di dove, ma il suo

accento era molto diverso da quello sudanese. Nessuno considerava che noi in Darfur

studiamo arabo ma solo come seconda lingua, non è la nostra lingua madre. Nei piccoli

villaggi soprattutto parliamo solo dialetto e la nostra conoscenza dell’arabo è limitata.

Inoltre il traduttore era molto ostile, continuava a darmi del bugiardo e a dirmi che mi

avrebbero rimandato in Sudan”.

L’importanza di una corretta traduzione e le difficoltà incontrate in questo am-

bito sono state sollevate anche da Peter Verney “una corretta traduzione è forse la cosa

più importante per la buona riuscita di una domanda di asilo. L’Home Office cerca di

minare la credibilità dei richiedenti chiedendo loro numerosi dettagli, se tali dettagli si

perdono nella traduzione, è la credibilità stessa del richiedente che ne esce sminuita. I

case owners non hanno un back ground culturale sufficiente a verificare l’esattezza di

tali dati e spesso non capiscono che nella traduzione vi sono degli errori di traslittera-

712 L’intervista si è svolta nel febbraio 2010.

287

zione che rendono difficile identificare un villaggio un’area da un’altra. Mi è capitato di

dover riascoltare numerose interviste per dimostrare che il richiedente non aveva in-

ventato il nome del villaggio di origine ma che semplicemente il traduttore non l’aveva

capito o che lo stesso era stato traslitterato in modo scorretto” e ancora “in alcuni dia-

letti del Darfur c’è una parola “owtana” 713 che significa “la lingua del mio villaggio”. In

numerose interviste i case owners hanno sottolineato come i richiedenti che dicevano di

parlare “owtana”, stessero mentendo poiché avevano verificato su internet come tale

lingua non esistesse. Nei miei rapporti ho spiegato ormai centinai di volte il significato

di tale parola ma l’Home Office persisteva nell’ignorare tale dato. Mi colpisce sempre

questa totale mancanza di memoria istituzionale”714.

Anche S.B., una delle avvocatesse intervistate, ha aggiunto “In numerosi casi la

Screnning Interview, che è la prima intervista svolta dal case owner, avviene con un in-

terprete che parla un dialetto diverso da quello del richiedente e questo rovina

l’intervista poiché spesso le risposte sono sbagliate e divergono da quelle poi presentate

in appello e di ciò viene considerato responsabile l’asilante, la cui credibilità risulta

compromessa e non il traduttore” e anche l’avvocato R.R. ha affermato “I problemi più

grandi della screening interview, sono gli interpreti. Tutto il nostro sistema è basato

sulla credibilità, ma se l’interprete non parla la stessa lingua dell’asilante non potrà mai

riferire in maniera dettagliata ciò che questi sta dicendo. Fino al 2003 vi erano fondi suf-

ficienti perché un legal rapresentative accompagnasse alla screnning interview tutti gli

asilanti ora si riesce a garantirne la presenza solo per i minorenni, non accompagnati.

Ora l’intervista viene trascritta dal case owner, ma anche registrata su cassetta, solo che

non ci sono i fondi per avere qualcuno che le ri-ascolti tutte. Credo però che il fatto che

le dichiarazioni del richiedente vengano comunque registrate e ne resti una traccia fun-

zioni come un deterrente. In passato i case owners facevano affermazioni anche aggres-

sive e irrispettose nei confronti degli asilanti mentre ora si controllano di più.”

Secondo entrambi gli avvocati intervistati, il 90% delle domande di protezione

internazionale presentate vengono respinte dai case owners in prima istanze. “I case

owners non hanno alcuna formazione legale, né svolgono alcun training specifico sono

semplici impiegati della UKBA, spesso le letter of refusal sono illogiche ed immotivate

713 Stante la necessità di traslitterare dal dialetto del Darfur non posso garantire la correttezza di tale pa-rola.714 La frase inglese esatta è “lack of institutional memory”:

288

o danno risposte in base a modelli predefiniti senza alcuna attenzione al caso specifico”

mentre diversamente “in sede di appello è meglio, il Tribunale è competente specifica-

mente per la materia e conosce bene le tematiche afferenti ai singoli paesi nonchè la

giurisprudenza delle corti superiori in merito.”

J., di anni 31, membro del partito politico JEM in Darfur, in proposito ha com-

mentato “ho avuto una letter of refusal ma non capivo bene il perché. Mi sono rivolto ad

un avvocato e durante la prima udienza con il giudice ho capito subito che le cose si sa-

rebbero sistemate. Sapeva tutto del JEM e del conflitto e ho ottenuto subito il ricono-

scimento dello status di rifugiato.”

Purtroppo, come detto, non tutti gli intervistati sono stati così fortunati. Princi-

palmente il problema secondo Peter Verney è stato che “l’Home Office ha adottato due

politiche diverse nei confronti dei darfuriani, in due periodi diversi. Al principio infatti

non era ritenuto sufficiente l’aver provato la propria appartenenza ad una etnia non ara-

ba del Darfur, per veder riconosciuto lo status. Infatti era necessario che il singolo ri-

chiedente svolgesse attività politica nel JEM o nel SLM e che riuscisse a provarlo per-

ché lo status venisse loro riconosciuto. Solo dopo il novembre 2009, cambiando orien-

tamento, lo status è stato riconosciuto a tutti coloro che riescono a dimostrare la propria

appartenenza ad una delle etnie del Darfur non arabe”.

J.L. in proposito mi ha spiegato “Quando il tribunale ha rifiutato il mio appello,

mi hanno spiegato che ne potevo presentare un altro entro sette giorni, ma non avevo

nessuna nuova prova. Non conoscevo nessuno a parte un mio amico del South Arabia e

non avevo documenti particolari. Inoltre non parlavo ancora inglese e dovevo farmi tra-

durre tutto quello che riguardava il mio caso in arabo per riuscire a capire. Non ero mai

stato un rifugiato prima, non sapevo come fare. Ho presentato un fresh claim, ma per

me è stato molto difficile perché il mio non era proprio un caso politico perché c’erano i

combattimenti tra due tribù715 e anche se io sapevo che l’altra era supportata dal gover-

no non sapevo come provarlo. Sembrava non capissero che si inseriva nel contesto del

conflitto in Darfur. Lo classificarono solo come una caso di scontri tribali”.

Tutti gli intervistati concordano nell’affermare che la screening interview è stata

piuttosto lunga: Awa ha commentato “Non avevamo documenti poichè quando la poli-

zia sudanese ha arrestato mio marito aveva portato via tutto. Ci hanno chiesto molti

715 Abbala e Foulane si veda supra.

289

dettagli per capire se eravamo davvero del Darfur. Mi avranno fatto almeno 300 do-

mande, sono stata lì dentro almeno 12 ore. Di alcune domande non capivo il senso”.

Osman ha dichiarato di essere stato intervistato per oltre 6 ore, mentre Mahdi per quasi

10 ore.

Secondo l’avvocato S.M. “le interviste durano moltissime ore ma i case owners

si focalizzano sempre su dettagli non molto rilevanti. Cercano di stancare i richiedenti e

di vedere se si confondono” e Peter Verney ha aggiunto “Spesso fanno domande stan-

dard tipo “qual è il colore della bandiera di quella città” o cose simili che ben presto si

diffondono tra i richiedenti che se le studiano e preparano risposte standards”.

Parte degli intervistati aveva ricevuto un diniego sulla base dell’assunto, come

illustrato nel paragrafo precedente, che in Sudan vi fossero aree urbane, vicino a Kahr-

toum dove poteva essere considerato ragionevole che i richiedenti facessero ritorno.

Così B.E.M. “il mio appello è stato rifiutato poiché il giudice riteneva che anche

se effettivamente correvo dei pericoli in Darfur non ne avrei corsi a Khartoum. Dopo di

che ho cercato di presentare un ulteriore appello da solo, ma mi hanno detto che dovevo

avere obbligatoriamente un avvocato. Non sono riuscito a trovarne uno, mi hanno inti-

mato di lasciare l’alloggio e non mi hanno più dato assistenza, però mi hanno offerto di

ridarmela se accettavo volontariamente di essere rimpatriato in Sudan. Mi sono rifiuta-

to” e anche B.M. “La mia domanda è stata rigettata all’inizio poiché ritenevano che fos-

si sicuro in altre regioni del Sudan, soprattutto a Khartoum, mi hanno rimandato indietro

una volta il 04 aprile 2005. Non volevo salire sull’aereo, mi hanno obbligato e picchiato

per farmi entrare in aereo. Il capitano non ha voluto prendermi sull’aereo. Dopo di che

mi hanno rinchiuso di nuovo in prigione e mi hanno picchiato per alcuni giorni, alla fine

il 06 aprile mi hanno riportato in aeroporto e in cinque mi hanno caricato su un aereo e

mi hanno rimandato a Khartoum. Le autorità sudanesi non mi hanno accettato dicendo

che non ero sudanese. Due giorni dopo, l’8 aprile 2005 mi hanno rimandato in Inghilter-

ra dove sono stato in prigione per mesi.”

Come sopra dichiarato da Olivia non tutti coloro che hanno ottenuto dei dinieghi

prima dell’emanazione dell’Operational Guide Note del novembre 2009, sono riusciti

ad ottenere lo status di rifugiato dopo aver presentato un fresh claim. “Alcuni diniegati

sono entrati nel circuito della clandestinità e ne abbiamo perso le tracce, non abbiamo

neanche potuto informarli della possibilità di ri-presentare la domanda”.

290

In proposito entrambe le avvocatesse intervistate hanno dichiarato “Per quanto

ne sappiamo tutti i fresh claim presentati dopo il mese di ottobre 2007 venivano gene-

ralmente rifiutati, a prescindere dalla nazionalità del richiedente e spesso con le mede-

sime motivazioni adottate in precedenza. Questo riguardava anche gli asilanti del Dar-

fur, prima. Dalla fine del 2009 però loro sono un caso a parte.”

Osman mi ha confessato “Ho cambiato avvocato dopo aver perso il primo ap-

pello, perché quello che avevo voleva molti soldi. Sono andato in uno studio ma mi

hanno detto che dovevo trovare degli esperti che garantissero sulle mie origini. Alcuni

rappresentanti del JEM, presenti in Inghilterra hanno scritto delle lettere per me ma non

bastava serviva la relazione di un esperto solo che non avevo soldi. Quando ho incon-

trato Olivia e Sophy716 mi hanno informato della possibilità di presentare un fresh claim

e mi hanno aiutato moltissimo.”

Quando l’Home Office ha cambiato orientamento rispetto alla posizione degli

asilanti del Darfur, il problema è stato, per coloro i quali “l’appartenenza etnica non era

già stata accertata nel primo grado di giudizio e la domanda rifiutata solamente per la

mancanza di collegamenti con attività e partiti politici” 717 quello appunto di riuscire a

dimostrare la propria appartenenza ad una delle tribù del Darfur di etnia non araba.

“Provare l’appartenenza etnica di qualcuno è molto complesso. Dal 2003 ho esaminato

e relazionato circa 900 casi di asilanti sudanesi, e di essi oltre il 60% erano persone di

etnia non araba provenienti dal Darfur. Negli ultimi anni avrò svolto almeno 200 face to

face interviews, per raccogliere più dettagli possibili. All’inizio l’Home Office ha ade-

rito all’intepretazione data dal governo sudanese, che in realtà non vi fosse in atto una

pulizia etnica o un genocidio ma che si trattassero solo di un conflitto tribale per i pos-

sedimenti terrieri. Il governo inglese ci ha messo un sacco a capire che le persone erano

a rischio se riportate in Sudan solo per la loro etnia e che per lo stesso motivo sarebbero

state considerate automaticamente simpatizzanti dei ribelli. Dopo l’Operational Guide

Note del novembre 2009 è molto importante provare l’etnia dei rifugiati. Però c’è una

stigmatizzazione da parte dei case owners dell’Home Office su come siano i membri

delle varie etnie, si aspettano che se uno appartiene ad una determinata etnia si comporti

nello stesso identico modo degli altri membri della stessa. Inoltre sottopongono ai ri-

chiedenti domande formulate su come noi occidentali percepiamo l’appartenenza ad una

716 Olivia Wharham di Article1 e Sophie Mc Cannan di Waging Peace.

291

determinata etnia e non considerano come loro percepiscono loro stessi. Per i sudanesi è

molto difficile dover spiegare la loro appartenenze etnica, che per loro è qualcosa di ine-

rente, che non hanno mai dovuto spiegare fuori da loro stessi. Gli ufficiali dell’Home

Office non hanno una conoscenza del Sudan tale da poter individuare dettagli che sono

tipici della loro identità” secondo l’esperienza di Peter Verney che invece nel redarre le

proprie relazioni si concentra su dettagli specifici di singoli villaggi dove è stato, chiede

la collocazione dei ristoranti o dei negozi, la maniera di cucinare e servire un determi-

nato piatto oppure l’esistenza o meno di particolari leggende locali.

L’avvocato S.M. ha poi aggiunto “Ho lavorato con numerosi richiedenti asilo del

Darfur, la maggior parte dei problemi vengono incontrati da coloro che dichiarano di

appartenere alla tribù Tama. L’Home Office continua a rifiutare le loro richieste di pro-

tezione internazionale per ragioni poco chiare. Pare che si servano di informazioni as-

sunte da membri della tribù Tama in Chad, che ha però necessariamente connotazioni

identitarie diverse. Per esempio le tribù Zaghawa e Tama in Chad hanno rapporti tra lo-

ro conflittuali mentre così non è mai stato in Sudan. Inoltre pare, ma non si capisce con

quale motivazione che l’Home Office rifiuti di riconoscere i membri Tama come darfu-

riani.” Mentre l’avvocato R.R. ha aggiunto “Nella mia esperienza il nuovo orientamento

dell’Home Office fa si che i case owners siano più disposti a riconoscere lo status a co-

loro che dimostrano la propria appartenenza etnica ad una tribù del Darfur non araba

che ai membri dei gruppi ribelli o agli attivisti politici” e anche “Coloro che ricevono il

riconoscimento dello status per la loro attività politica sono per lo più coloro che riesco-

no a dimostrare la loro appartenenza al J.E.M. o al S.L.M. Un discorso completamente

diverso riguarda coloro che hanno preso parte alle attività del S.L.M./A.. Le stesse in-

fatti sono spesso state valutate come crimini di guerra ed entrano quindi in gioco le

clausole di esclusione previste dalla Convenzione di Ginevra. Dall’altro lato rimandarli

in Sudan equivarrebbe a condannarli a morte o tortura e sarebbe quindi contrario all’art.

3 della CEDU, per cui il governo inglese dà loro dei permessi di soggiorno temporanei

con scadenza semestrale aspettando il momento propizio per rimpatriarli.”

Per quanto riguarda il sistema di accoglienza tutti i richiedenti asilo intervistati

hanno usufruito di un qualche tipo di aiuto fornito dal governo britannico ma non hanno

potuto lavorare. Come ha spiegato l’avvocato R.R. “tutti i richiedenti asilo che presenti-

717 Come dichiarato dall’avvocato S.M.

292

no domanda al posto di frontiera o comunque entro tre giorni dal loro ingresso in In-

ghilterra, hanno diritto ad entrare nel N.A.S.718 che provvede loro un alloggio, dei soldi

settimanalmente e la possibilità di partecipare non solo ai corsi di lingua inglese ma an-

che ad altri corsi nei College britannici. Il problema principale rimane l’alloggio che

non può essere garantito nel luogo in cui il richiedente ha le proprie conoscenze ma anzi

molto spesso è lontano da queste. In molti casi, dunque, i richiedenti vi rinunciano per

essere ospitati da parenti o amici”.

Awa, in proposito ha dichiarato “Nei cinque anni di attesa, tra un diniego un ap-

pello e i due fresh claims, avevamo un permesso di soggiorno temporaneo, ci hanno

dato una casa e ci hanno fatto partecipare ai corsi di inglese. I miei figli hanno iniziato

frequentare la scuola dell’obbligo qui. Io ho anche frequentato al College corsi di in-

formatica. Svolgo delle attività di volontariato per la Darfur Union UK. C’è un ufficio a

Birmingham dove aiutiamo chi fa le domande di asilo. Abbiamo avuto l’assistenza me-

dica e frequentiamo il college gratis. Per tutta la famiglia (sono in 6 nda) riceviamo in

totale cento sterline a settimana”. E J. “Mi hanno trovato un alloggio recentemente a

Swansea ma ero iscritto al College qui in East London e quindi ora vado e vengo. Sto da

alcuni amici perché ho gli esami. Preferirei stare a Londra ma per il momento va bene

così. Mi hanno anche dato una specie di carta che posso usare per pagare in alcuni ne-

gozi convenzionati sia per la spesa alimentare che per i vestiti. Vi caricano circa trenta-

cinque sterline ogni settimana ma se non le spendi te le detraggono da quelle della set-

timana dopo non le puoi accumulare.” Diversa invece l’esperienza di Jaafar che è stato a

lungo detenuto per aver presentato prima domanda d’asilo in Francia, quando poi il Re-

gno Unito si è dichiarato disposto ad esaminare la sua domanda nel merito lo stesso non

ha però avuto accesso ad alcun servizio e per lui ha dovuto garantire un amico, sia

l’ospitalità che il sostentamento. Jaafar al tempo dell’intervista aspettava l’esito del suo

fresh claim, ma era munito di una cavigliera elettronica che ne controllava continua-

mente la posizione. “Non posso lavorare e questa cosa mi sta facendo impazzire se non

puoi lavorare, come fai a vivere? Posso andare al College e sto frequentando tutti i corsi

che posso, ma non vedo l’ora di poter iniziare a lavorare”. Olivia ha illustrato come il

caso di Jaafar fosse molto particolare, perché era stato detenuto per oltre 11 mesi in

violazione della normativa e Article1 lo aveva appoggiato per presentare una causa di

718 National Asylum Support, si veda supra capitolo 4.

293

risarcimento danni. Allo stesso tempo era però ancora pendente il suo fresh claim per il

riconoscimento dello status e quindi si stava cercando di trovare una mediazione tra le

due posizioni.

Ahmed ha avuto accesso ai sussidi del N.A.S. per tutta la durata della procedura

Ha studiato Inglese, Matematica ed Informatica al College ma non ha avuto la possibi-

lità di lavorare “Sento parlare spesso qui in Inghilterra dei diritti umani fondamentali ma

come si può parlare di diritti umani fondamentali quando si lascia una persona a casa

senza il diritto fondamentale a lavorare?”. Bhokit a sua volta ha confermato “Non posso

lavorare. Sono stato al College qui, ho dovuto aspettare oltre sette mesi in lista d’attesa

per partecipare a dei corsi di inglese. Sono passato dal livello 1 al livello 7, parlo e scri-

vo bene in inglese ma non posso ancora lavorare.”

È interessante notare come quasi tutti coloro che hanno poi ottenuto il ricono-

scimento della protezione internazionale in Inghilterra abbiano ottenuto lo status di rifu-

giato ai sensi della Convenzione di Ginevra e non un forma di protezione temporanea o

meno piena. Tale circostanza è stata confermata dagli intervistati, da Olivia e David e

dall’avvocato S.M. “I darfuriani, salvo rarissimi casi precedenti al 2009, ottengono tutti

lo status di rifugiato e con esso tutti i diritti garantiti dalla Convenzione di Ginevra. Ot-

tengono un permesso di soggiorno per cinque anni e possono poi presentare domanda di

cittadinanza”.

Fa eccezione solo la posizione di Bhokit che nel 2005 aveva ottenuto un permes-

so di soggiorno per motivi umanitari in sede di appello, ma l’Home Office aveva pre-

sentato appello al Second Tier contro tale decisione e aveva vinto. Successivamente

David mi ha informato che anche Bhokit ha presentato un fresh claim, e che stante la

sua già provata appartenenza ad una tribù Zaghawa ha ottenuto il riconoscimento dello

status di rifugiato.

Ho poi rivolto alcune domande più tecniche ai due avvocati intervistati su alcuni

aspetti specifici del sistema d’asilo britannico. L’avvocato R.R. sulla prima parte della

procedura ha commentato “Penso che il personale dell’Home Office non sia sufficien-

temente preparato e sia troppo incompetente e questo causa il rifiuto della maggior parte

dei casi in prima istanza. Ciò comporta la presentazione di un elevatissimo numero di

appelli e di conseguenza una spesa enorme di fondi pubblici. Se i fondi fossero meglio

investiti nella parte della formazione dei case owners, vi sarebbero meno appelli e meno

294

sprechi. Ma non penso vi sia una concreta volontà politica in questo senso”. L’avvocato

S.M. invece, ragionando sull’eccessiva rapidità della procedura ha aggiunto “La

U.K.B.A. lavora sempre più rapidamente per soddisfare le istruzioni dell’Home Office

in tal senso. Ci sono state domande che erano corredate da elementi di prova che in nes-

sun caso sono stati considerati. In ogni caso non c’è mai il tempo sufficiente per valuta-

re in maniera appropriata una domanda. I richiedenti asilo devono ottenere prove dal lo-

ro paese di origine in tempi molto brevi. L’Home Office è sempre riluttante a concedere

tempo ulteriore per raccogliere prove.”

Da ultimo ho chiesto ad entrambi se ritengono che il Regno Unito stia adem-

piendo ai suoi doveri internazionali in materia di asilo e S.M. mi ha fatto notare

“Rispetto a numerosi altri paesi europei, indubbiamente il Regno Unito si comporta

molto bene. In ogni caso ho visto domande fondate di richiedenti asilo assolutamente

genuini che l’Home Office ha rifiutato senza alcuna ragione” e R.R. ha concluso “Io

penso che vi sia spazio per notevoli miglioramenti ma non posso dire che il Regno

Unito, non stia almeno provando ad adempiere ai propri obblighi internazionali in que-

sto settore, soprattutto se lo si paragona ad altri paesi europei.”

Da ultimo trovo molto stimolante il commento di Peter Verney in merito alla po-

sizione specifica degli asilanti del Darfur e alle posizioni assunte in proposito dal go-

verno britannico “L’Inghilterra ha dimenticato che siamo stati colonizzatori in Sudan e

che il Sudan è quello che è anche a causa nostra. Penso sia ora che ci prendiamo le no-

stre responsabilità e che facciamo i conti con le conseguenze del nostro passato. I suda-

nesi si ricordano di noi, noi invece non ricordiamo i nostri legami con il Sudan. La re-

sponsabilità di questo conflitto è anche nostra non possiamo fare finta di niente”.

295

CAPITOLO VIII - CONCLUSIONI: DUE SISTEMI A CONFRONT O

1. Due sistemi a confronto: analogie e differenze

2. Funzioni manifesti e latenti della normativa sul l'asilo

3. Osservazioni conclusive

296

1.Due sistemi a confronto: analogie e differenze

Sia dall’analisi della normativa svolta nei capitoli III e IV, sia dagli esiti della ri-

cerca empirica emerge come l’Italia e il Regno Unito abbiano affrontato le problemati-

che relative al diritto d’asilo in generale, e ai richiedenti del Darfur in particolare, in

modi simili per alcuni versi ma anche spesso tra loro differenti.

In primis mi preme sottolineare come alcune di tali differenze siano certamente

dovute ai diversi percorsi storico, politici e normativi che tali stati hanno vissuto e come

in realtà tali diversità intrinseche siano state poste alla base della scelta stessa dei paesi

da osservare in questa ricerca. L’idea, infatti, di porre Inghilterra e Italia a confronto è

nata proprio dalla volontà di studiare gli esiti in materia di diritto d’asilo di due paesi

così storicamente e normativamente diversi.

Da un lato infatti l’Inghilterra è un paese con una lunga storia coloniale, con la

quale ha necessariamente dovuto confrontarsi e che l’ha forzato a considerare le nume-

rose problematiche poste dai flussi migratori in un’epoca piuttosto remota, soprattutto

rispetto a numerosi altri stati della Comunità Europea, come l’Italia.

Dall’altro lato il Regno Unito geograficamente si trova in una posizione che, al-

meno a livello teorico, dovrebbe rendere sostanzialmente più complesso considerarlo

una meta appettibile e facilmente raggiungibile da parte dei richiedenti asilo che si

muovono clandestinamente. Diversamente l’Italia, nonostante le numerose lamentele

dei suoi politici, è un paese dal passato coloniale non troppo esteso che ha iniziato ad

affrontare, come abbiamo visto, solo in tempi relativamente recenti le problematiche

poste dalle migrazioni e la cui posizione geografica, protesa nel mediterraneo non trop-

po distante dalle coste del nord africa la rende, sempre almeno a livello teorico, più

semplice da raggiungere e anche da prediligere come meta finale del proprio viaggio

clandestino in cerca di asilo.

Il sistema normativo britannico, poi, è un sistema di common law con meccani-

smi e strumenti normativi radicalmente diversi da quelli del sistema normativo italiano

di civil law, ulteriore circostanza che ne rendeva interessante il confronto.

La prima differenza che certamente emerge è come il diritto d’asilo in Italia sia

stato considerato almeno all’origine della Repubblica Italiana, talmente importante da

essere non solo costituzionalizzato ma anche incluso in quella parte della nostra costitu-

zione dedicata ai “Principi Fondamentali”, mentre nel Regno Britannico l’assenza stessa

297

di una carta costituzionale ha poi in concreto consentito, in più di un’occasione come

abbiamo visto, ai diversi governi al potere di agire in maniera restrittiva sulla normativa

in materia di asilo, senza avere sostanzialmente alcun limite.

In entrambi i casi è poi emerso, come fondamentale sia stato, anche se con ri-

sultati diversi, l’intervento della Comunità Europea nel disciplinare tale materia, e la ne-

cessità di doversi uniformare ai suoi dettami normativi.

Dall’analisi storica del fenomeno è anche emerso come in Inghilterra i primi atti

normativi scritti in materia di asilo risalgano alla fine del settecento mentre in Italia, una

volta abolito l’asilo cattolico, non ve ne sia stata più traccia fino all’emanazione della

Carta Costituzionale. Da lì in poi il percorso dell’asilo nel panorama normativo italiano

è comunque rimasto piuttosto travagliato, rimanendo per lo più confinato a pochi e mi-

seri articoli all’interno della più generale disciplina normativa dell’immigrazione, alme-

no fino all’implementazione della normativa comunitaria con l’approvazione recente dei

Dlgs 251/2007 e 85/2008.

In Inghilterra nonostante l’applicazione di una normativa specifica ai rifugiati

fosse emersa già nei secoli scorsi e sia poi stata ribadita con l’Alien Act del 1905, ab-

biamo poi visto come però la gestione di tale settore sia stato considerato appannaggio

esclusivo del Ministero dell’Interno, almeno fino al 1971 e abbia poi risentito

dell’implementazione della normativa sulla concessione della cittadinanza alle ex colo-

nie dei primi anni 80719. Tuttavia, con un certo anticipo rispetto all’Italia, l’asilo appare

già come istituto autonomo negli Asylum and Immigration Acts degli anni 90, anche se

per l’approvazione di una disciplina più completa del settore si dovranno comunque

aspettare, anche in Inghilterra, gli anni 2005-2007 e l’implementazione della previsioni

comunitarie.

Dall’analisi del sistema inglese è emerso, inoltre, come lo stesso abbia prestato,

sin da tempi remoti, molta attenzione allo sviluppo di normative volte a respingere i ri-

chiedenti asilo verso altri paesi terzi o, eventualmente, verso altre aree del paese di ori-

gine considerate astrattamente sicure, prassi invece quasi del tutto assente nella norma-

tiva italiana se non, recentemente, introdotta in quanto applicazione della normativa

comunitaria prevista prima dalla Convenzione di Dublino e poi dal Regolamento Dubli-

no II.

719 Cfr capitolo IV, paragrafo 1.

298

Nonostante poi l’Italia sia un paese di Civil Law e il Regno Unito un paese di

Common Law, è chiaramente emerso come in entrambi il ruolo svolto dalla giurispru-

denza di merito, ma soprattutto da quella delle corti superiori720, sia stato fondamentale

da un lato per lo sviluppo della normativa in tale settore dall’altro per contenere le pre-

tese dei vari governi succedutisi nel tempo nei due paesi, volte per lo più a restringere le

possibilità di accesso agli istituti di protezione piuttosto che a garantirne una corretta de-

finizione.

La fase amministrativa di esame delle richieste di protezione internazionale è poi

risultata differente sotto molti aspetti. Nel Regno Unito infatti il responsabile ammini-

strativo del procedimento, lo special adjudicator, è uno solo, non ha alcuna formazione

giuridica, anzi è un impiegato del Ministero dell’Interno e svolge la propria opera se-

guendo principalmente le Guide Lines distribuite dal Ministero stesso in merito alla si-

tuazione dei singoli paesi. Le audizioni hanno dei tempi spesso molto lunghi, fino a do-

dici ore, ma non vi è un modulo standard con una serie di domande predefinite. Interes-

sante è, poi, come pur nell’assenza dei fondi necessari a riascoltarle, tutte le audizioni,

su richiesta dell’interessato, possano essere registrate e le registrazioni eventualmente

richieste e prodotte in sede di appello. Diversamente in Italia, le Commissioni Territo-

riali sono composte da almeno tre membri di cui uno rappresentante dell’UNHCR e

solo previa autorizzazione dell’interessato l’audizione può avvenire alla presenza di uno

solo di essi. Le audizioni hanno ora tempi certamente più lunghi di quelle che avveniva-

no avanti alla Commissione Centrale, ma comunque si mantengono sempre nell’ambito

delle due ore circa, almeno secondo quanto emerso da questa ricerca. Non è invece

emerso un ruolo troppo rilevante del Ministero dell’Interno nel nostro paese, nel fornire

linee guide sugli stati di origine, anche se la normativa prevede che le Commissioni,

l’UNHCR e la neo istituita Commissione Nazionale che ha appunto specifici compiti di

coordinamento, lavorino congiuntamente nella raccolta di materiali sui paesi d’origine

dei richiedenti. Tali banche dati, diversamente da quanto avviene nel Regno Unito dove

i diversi materiali elaborati dalla pubblica amministrazione, comprese numerosissime

sentenze, sono pubblicamente accessibili sul web, sono invece private e ad uso esclusi-

vo delle Commissioni. Non è, dunque possibile, sapere esattamente cosa le stesse con-

tengano. Tutti gli esperti sentiti hanno lamentato, in entrambi i paesi, una mancanza so-

720 Si veda l’analisi giurisprudenziale svolta nei paragrafi conclusivi dei capitoli III e IV.

299

stanziale di personale con competenze specifiche in questa prima fase del procedimento

e, per quanto riguarda l’Italia in particolar modo il fatto che le Commissioni siano per la

maggior parte composte dai membri della carriera prefettizia.

Peraltro è emerso come le Questure, soprattutto in passato, ma per alcuni aspetti

ancora oggi, agiscano in modo discrezionale. Non è però emerso dai dati raccolti se tale

discrezionalità sia dettata da istruzioni precise ricevute dal Ministero dell’Interno o se

invece la stessa sia veramente determinata nella singola questura dal dirigente locale.

Il sistema di appello contro le decisioni amministrative è poi molto diverso nei

due paesi e nel Regno Unito, come abbiamo visto nel IV capitolo, molto complesso e

ramificato. Il sistema di appello italiano invece è molto più semplice e, nonostante re-

centissime modifiche721, mantiene una struttura sostanzialmente unitaria722. In merito a

tale fase della procedura in Inghilterra, penso sia molto interessante l’istituzione della

figura dell’esperto sui paesi di origine, utilizzata per rendere più attendibili le dichiara-

zioni del richiedente e per confutare eventualmente le inesatte Guide Lines emanate

dall’Home Office. Tale figura è del tutto assente nel nostro sistema dove al massimo

vengono considerate eventuali relazioni medico-psicologiche sullo stato psicofisico del

richiedente.

Non solo ma colpisce come nel Regno Unito vi siano, ora come in passato anche

se con caratteristiche diverse e numerosi limiti, tribunali specifici incaricati di occuparsi

della materia dell’asilo mentre in Italia tali procedimenti vengano destinati ad una sin-

gola sezione del tribunale civile, che però al contempo si occupa anche di altro, e che

non è affatto specializzata, posto anche che almeno una volta all’anno quando vengono

indetti i concorsi interni per i posti vacanti nei singoli tribunali, i magistrati possono ri-

chiedere di essere trasferiti ad altra materia lasciando la sezione priva dell’esperienza

fino ad allora, eventualmente, accumulata.

Da ultimo, sempre con riferimento alla situazione generale, è emerso con una

certa evidenza come in Inghilterra il sistema assistenziale predisposto per i richiedenti

721 Il Dlgs. n. 150 del 2011 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di ridu-zione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione), in vigore dal 06 ottobre 2011, ha modifi-cato anche l’art.35 del Dlgs 251/2007 prevedendo che il ricorso contro il diniego di protezione interna-zionale, prima procedimento di volontaria giurisdizione che si svolgeva secondo le norme proceduraliproprie dei procedimenti in camera di consiglio, avvenga ora secondo quanto stabilito per il procedimentosommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. e ss.722 Per quanto riguarda il fondamento effettivo dei due sistemi si rimanda ai capitoli III e IV.

300

asilo723, pur con alcune pecche, sia molto più sviluppato e garantisca l’accesso ad una

serie di servizi per la quasi totalità dei richiedenti che fanno domanda mentre, diversa-

mente, in Italia pur esistendo previsioni normative in tal senso il funzionamento in con-

creto dello stesso lascia fortemente a desiderare.

Per quanto riguarda invece la situazione in concreto vissuta e raccontata dai ri-

chiedenti asilo del Darfur nei due paesi e quindi le differenze o analogie rilevate dalle

loro esperienze in merito all’applicazione dei due diversi sistemi normativi, sono emersi

i seguenti dati.

In entrambi i paesi, pur avendo gli stessi posizioni geografiche differenti, nella

maggioranza dei casi i richiedenti sono giunti clandestinamente, senza scegliere il paese

di destinazione ma affidandosi alle destinazioni scelte dai c.d. “passatori”. Tale dato a

mio avviso, fa presumere che nelle rotte delle migrazioni clandestine entrambi i paesi

vengano ritenuti, almeno dal Sudan, accessibili in maniera sostanzialmente omogenea.

Anzi il dato macroscopico724 sulla presenza dei richiedenti sudanesi in Inghilterra, supe-

riore e non di poco a quella in Italia, fa in realtà pensare che l’isola britannica sia in

qualche modo considerata più raggiungibile della nostra penisola. Peraltro è emerso

come, tra i pochi che abbiano invece espressamente scelto il paese di destinazione, a

parte un singolo caso in Italia in tempi recenti725, la scelta sia caduta sull’Inghilterra.

Ugualmente è emerso come, soprattutto negli ultimi anni, siano le stesse comu-

nità di darfuriani presenti sul territorio italiano a sconsigliare la presentazione della do-

manda d’asilo nel nostro paese, sia per l’inaffidabilità delle procedure che per la man-

canza di forme di assistenza e integrazione, lungo il percorso. Tutti i richiedenti asilo

intervistati in Inghilterra hanno, invece avuto accesso ad un alloggio e alla frequenta-

zione di vari corsi universitari nei college inglesi. In Italia, nonostante la cooperazione

di numerose organizzazioni non governative, (e nonostante il dettato normativo preveda

l’istituzione di un sistema di accoglienza, lo SPRAR), è emerso come ottenere un livello

di assistenza anche basica sia spesso stato molto complesso, quando non impossibile.

Dalle interviste svolte, come dalla mancanza di risposte nell’interrogazione

svolta agli avvocati e operatori soci ASGI, nonché dalla mancanza di pronunce giuri-

723 Il NAS, si veda in proposito sia l’analisi normativa svolta nel capitolo IV ma soprattutto le dichiara-zioni degli intervistati in proposito riportate nei paragrafi IV e V del capitolo VII.724 Si vedano supra i paragrafi II e IV del capitolo VII per un confronto.725 Cfr. supra, paragrafi III e V, capitolo VII:

301

sprudenziali specifiche sul Darfur, emergono, a mio avviso tre dati rilevanti. Il primo

riguarda certamente una maggiore difficoltà nel reperire dati specifici sul fenomeno in

Italia. Il secondo riguarda il fatto che nei primi anni immediatamente successivi allo

scoppio del conflitto, quando ancora esisteva la Commissione Nazionale, l’esame delle

domande fosse abbastanza sommario e i dinieghi ai darfuriani fossero la norma. Peraltro

alcuni di essi hanno poi rinunciato a presentare appello in Italia ed hanno lasciato il pae-

se in seguito al primo diniego.

Il terzo riguarda invece il fatto che, almeno negli anni a cavallo tra il 2007 e il

2008, periodo di maggior afflusso dei richiedenti sudanesi nel paese e quando il con-

flitto era ormai alla ribalta nei media, l’orientamento delle Commissioni Territoriali fos-

se nel riconoscere ai darfuriani il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi uma-

nitari, (rinnovabile finché permangono le condizioni per le quali è stato concesso), poi

convertito in protezione sussidiaria negli anni seguenti.

Peraltro negli ultimi anni gli arrivi dal Darfur in Italia, o almeno i dati ufficiali in

proposito, poiché molti arrivano magari anche in Italia ma cercano di presentare do-

manda di protezione internazionale altrove, come detto, si sono ridotti e sono quasi ces-

sati.

Diversamente è invece avvenuto nel Regno Unito. Dalle interviste svolte e dai

dati giurisprudenziali raccolti sono emersi due diversi orientamenti seguiti dalle istitu-

zioni britanniche. Il primo è stato quello di non considerare il conflitto in Darfur come

un conflitto etnico, sottovalutando il ruolo ivi svolto dal governo centrale

nell’orchestrarlo, e ritenendo quindi applicabile a tutti i richiedenti asilo di tale area la

c.d. internal flight rule, e il reinsediamento in Sudan, nello specifico nell’area di Khar-

toum. Tale orientamento, abbiamo visto, dopo una serie di appelli si è modificato ed ha

portato prima a ritenere da parte dei giudici britannici, il reinsediamento nell’area di

Khartoum non sicuro, poi a riconoscere il carattere etnico del conflitto stesso e ricono-

scere lo status di rifugiato a chiunque riuscisse a dimostrare la propria appartenenza ad

un gruppo etnico non arabo del Darfur. In concreto l’implementazione di tali orienta-

menti ha comportato per i richiedenti nella totalità dei casi il ricevimento di almeno un

diniego in sede amministrativa, quando non anche la perdita dell’appello, e la possibilità

di presentare un fresh claim una volta modificato l’orientamento dell’Home Office.

Particolare invece è che, nonostante in quest’ultima fase, il riconoscimento nel Regno

302

Unito sia avvenuto in maniera generalizzata a tutti coloro che riuscivano a provare la

propria appartenenza etnica, a prescindere dalle singole esperienze personali vissute, lo

status loro riconosciuto sia stato proprio quello di rifugiato ai sensi della Convenzione

di Ginevra, e quindi uno status che invece si basa, per definizione, sulla persecuzione

strettamente individuale subita dal richiedente. Ma la cosa più rilevante di tale tipo di

riconoscimento è il fatto che lo stesso porta con sé una serie di diritti e garanzie per il

richiedente maggiore a qualunque altro. Infatti il rifugiato riconosciuto ai sensi della

Convenzione di Ginevra, in entrambi i paesi, ha diritto al rilascio di un permesso di

soggiorno per un periodo superiore – cinque anni – rispetto agli altri status; può chiede-

re il ricongiungimento di consorte e figli a prescindere dal proprio reddito effettivo; ha

accesso a numerosi programmi di integrazione; può richiedere la cittadinanza dopo un

periodo di residenza continuativa nel paese ospitante di soli cinque anni, termine infe-

riore che per tutti gli altri migranti regolari. Inoltre tale status, come abbiamo visto, può

essere dichiarato cessato o revocato solo in casi specifici e piuttosto rari. Il permesso di

soggiorno per motivi umanitari che, come abbiamo visto, veniva rilasciato nella mag-

gior parte dei casi almeno al principio dei loro arrivi, agli asilanti del Darfur in Italia,

non comportava il riconoscimento in capo al richiedente di uno status giuridico specifi-

co e non si accompagnava al riconoscimento di particolari diritti se non quello a sog-

giornare temporaneamente nel territorio della Repubblica e ad accedere al mondo del

lavoro. Solo in seguito all’emanazione del Dlgs 251/2007, norma attuativa con il con-

sueto italico ritardo della Direttiva 2004/83/CE, e alla regolamentazione precisa dello

status di protezione sussidiaria, tali permessi sono stati convertiti e alla loro emanazione

sono stati ricollegati una serie determinata di diritti, pur sempre, salva la possibilità di

convertire tale permesso in uno per lavoro subordinato, a carattere temporaneo. Peraltro,

come abbiamo visto nel capitolo precedente, lo status di rifugiato ai sensi della Conven-

zione di Ginevra in Italia, è stato concesso solo a singoli individui in virtù della loro

particolare esperienza personale.

Dalla ricerca svolta e dall’analisi dei dati raccolti, i quali come ho già detto non

hanno alcuna pretesa di esaustività, emerge, a mio avviso, come entrambi i sistemi os-

servati presentino non poche lacune e come, in entrambi i casi, le norme in materia di

protezione internazionale vengano dettate e scritte da un agenda politica che ha obbiet-

303

tivi ben diversi da quello che dovrebbe essere alla base di tale normativa, ovvero

l’offrire e il garantire concretamente protezione agli asilanti in pericolo.

Ciò nonostante mi sembra evidente come dalla comparazione sia teorica che

empirica effettuata, il sistema britannico risulti, pur con le sue storture già sottolineate,

più completo ed efficiente nell’offrire protezione sotto numerosi aspetti, sia nella sua

formulazione generale che nella realtà vissuta dal richiedenti asilo del Darfur.

Lungi dall’essere perfetto, e solo dopo un percorso certamente lungo e trava-

gliato, il sistema d’asilo britannico, almeno nel caso concreto dei darfuriani è giunto a

riconoscere la necessità di una protezione concreta per gli stessi e ad implementarla.

Restano numerosi interrogativi, sia sulle ragioni alla base del ritardo accumulato

in tale percorso, sia sui limiti stessi di tale normativa che, necessariamente, si riflette-

ranno sui richiedenti asilo provenienti da altri paesi nel futuro.

Il sistema italiano si è, invero, rivelato ancora più inadeguato di quello inglese,

poco strutturato, certamente anche a causa della sua istituzione relativamente recente, e

molto discrezionale nella sua applicazione. Unica nota positiva i miglioramenti appor-

tati dalla normativa comunitaria e gli ampliamenti introdotti dalla lungimiranza della

Corte di Cassazione in materia, supra evidenziati.

Certo è che se le sorti di un richiedente asilo devono essere lasciate al giudizio

completo ed esaustivo della Corte di Cassazione il quale, come è noto, giunge solo dopo

molti anni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale in sede am-

ministrativa, rimane certamente da chiedersi quale sia, e se vi sia, un’efficacia della

normativa in materia.

2.Funzioni manifesti e latenti della normativa sull 'asilo

Dovendoci interrogare sull’efficacia della normativa sull’asilo, sia quella inter-

nazionale che quella nazionale i cui limiti sono già stati illustrati nei capitoli precedenti,

vi sono diversi fattori che devono essere considerati.

In primis la mancata o erronea interpretazione di una norma può essere dovuta

certamente a problemi legati sulla sua implementazione, ma nel caso appena analizzato

ritengo che l’inefficacia della normativa sull’asilo vada ricercata più che altro nella di-

cotomia tra funzioni manifeste e funzioni latenti del diritto.

304

Lo studio del rapporto dicotomico tra funzioni manifeste e funzioni latenti delle

pratiche sociali è stato per la prima volta affrontato da Robert King Merton, il quale,

nell’analizzare le ragioni che si trovano alla base del mantenimento di alcune pratiche

sociali consolidate, il cui scopo “manifesto” non viene chiaramente conseguito, ha teo-

rizzato l’esistenza di una funzione latente inerente alle pratiche stesse. Tale funzione

latente può non solo essere molto diversa da quella manifesta, ma anche spesso non

voluta e non conosciuta dai soggetti che pongono in essere tali specifiche pratiche726. Il

discorso sulle funzioni manifeste e latenti delle pratiche sociali può, evidentemente, es-

sere esteso anche al diritto.

Non è detto, tuttavia, che le funzioni latenti del diritto, quand’anche non dichia-

rate, non possano essere in realtà conosciute e volute da chi lavora alla stesura ed ema-

nazione di una legge.

Una delle funzioni latenti più considerata in ambito legislativo è, a titolo di

esempio, quella motivata dal fine politico di ottenere il più ampio consenso possibile.

Una legge può infatti essere approvata e promulgata pur nella consapevolezza

che la stessa non verrà mai applicata semplicemente perché il solo averla proposta ed

emanata serve a rassicurare l’elettorato. Per Vilhelm Aubert le leggi non applicate svol-

gono anche un’altra funzione latente, conosciuta in genere da tutte le parti politiche in

gioco, che si sostanzia nel ridurre il tasso di conflittualità tra le parti politiche contrap-

poste, l’una soddisfatta della mera esistenza della legge, l’altra della sua non applicazio-

ne nella pratica727.

Il diritto, dunque, a causa del suo forte potere simbolico, può essere manipolato

dai vari gruppi politici per raggiungere i diversi obbiettivi che si propongono, consi-

stenti spesso nell’ottenimento di un consenso che sia il più ampio possibile. Non è dun-

que un caso che essi utilizzino deliberatamente il diritto per finalità e con funzioni di-

verse e “latenti” rispetto a quelle originarie e “manifeste”.

Possiamo, dunque, individuare almeno tre tipologie diverse di funzioni del di-

ritto: 1) le funzioni manifeste, dichiarate, conosciute e talvolta (ma non sempre) volute

726 R. K. Merton, Social Theory and Social Structure (1949), The Free Press, Glencoe 1957, trad. it. di C.Merletti e A. Oppo, Teoria e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1966, pp. 104 ss.; anche V. Ferrari, Li-neamenti di sociologia del diritto, I, cit., pp. 19 ss.727 Cfr. V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto - I. Azione giuridica e sistema normativo, EditoriLaterza, Milano 2006, pp. 90, 264 e C. Sarzana, “Osservazioni in tema di disapplicazione della legge”, inRiv. trim. sc. amm., 1976, 48.

305

da chi pone in essere le leggi e in generale dai membri di una determinata società; 2) le

funzioni latenti non dichiarate, e non conosciute né volute dai membri di una determi-

nata società, le quali permettono che leggi non applicate continuino ad esistere per fini

diversi da quelli per i quali sono state create, come ad esempio per la coesione sociale

che esse comportano; 3) le funzioni latenti non dichiarate ma sì conosciute e volute da

chi pone in essere le leggi, le quali perseguono fini ulteriori e diversi, solitamente politi-

ci, da quelli tipici riconducibili al diritto728.

Queste ultime funzioni latenti, non dichiarate ma conosciute e volute da coloro

che pongono in essere le leggi, vengono anche denominate “funzioni simboliche” del

diritto729; l’effetto simbolico del diritto può anche essere ottenuto grazie a “norme mani-

festo”, scritte, esistenti e diffuse dai media ma non realmente applicate. La funzione

simbolica del diritto viene considerata già nell’opera di Arnold, The Symbols of Go-

vernment, nella quale l’autore statuisce che l’idea del diritto come meccanismo di inte-

grazione sociale basata sull’interpretazione dei valori della società può essere mantenuta

nonostante le diversità di aspirazioni e credi dei singoli individui. Il diritto ha dunque,

secondo Arnold, una funzione specifica che è quella di manipolare una serie di ideali

astratti in maniera tale da celare l’impossibilità della loro realizzazione nella pratica. Per

fare ciò il diritto proclama simboli così vaghi che la maggior parte dei membri di una

società possono comunque accettarli e sostenerli almeno in alcune delle loro possibili

interpretazioni730. Ciò che però manca nell’analisi di Arnold è l’individuazione di quelle

forze che decidono chi, come ed in quale modo il diritto deve essere manipolato731.

La funzioni simboliche del diritto e della politica sono poi state anche conside-

rate nell’analisi svolta da Murray Edelman, il quale, nel suo The Symbolic Uses of

Power, sostiene che il sistema politico statunitense sia meramente simbolico, un insieme

di simboli politici; esso infatti, a suo parere, non rappresenta realmente le persone, né

rende loro beneficio, ma ciononostante riesce a far credere al popolo di avere un im-

portante ruolo nel sistema732. L’autore, nella sua analisi dei simboli usati in politica,

considera quattro tipi distinti: il sistema amministrativo, la leadership politica, le impo-

728 Ne sono un chiaro esempio numerose norme in materia di immigrazione. Tra tutte quella che prevedel’istituzione del reato di immigrazione clandestina.729 Cfr. V. Ferrari, Lineamenti di sociologia del diritto, cit., p. 268.730 T. Arnold, The Symbols of Government, Yale University Press, New Haven-London 1935, pagg. 247-249.731 R. Cotterrell, The Sociology of Law: An Introduction, Butterworths, London 1984 pag. 109.

306

stazioni politiche e il linguaggio politico, arrivando alla conclusione che il popolo, vo-

lendo credere che i politici governanti abbiano il potere e le conoscenze atte a produrre

particolari risultati favorevoli sebbene in realtà non sia così, crede che le sue rivendica-

zioni vengano accolte solo a causa delle rassicurazioni simboliche rese dai governan-

ti733.

L’idea che il diritto abbia funzioni simboliche suggerisce che l’efficacia di una

legge non dipenda necessariamente da ciò che può essere richiamato della stessa o ciò

che di essa si riesce ad implementare.

Abbiamo visto nei capitoli precedenti come la normativa in materia di asilo, sia

in Italia che in Inghilterra si sia rivelata spesso inefficace e come la stessa non riesca a

perseguire il fine ultimo che dovrebbe. Non possiamo a questo punto non chiederci

quali siano effettivamente gli scopi e le funzioni, manifeste e latenti della normativa in

materia di asilo.

Abbiamo visto come alla base di questo specifico tipo di normativa vi sia

l’assunto che gli stati hanno il diritto di escludere dal proprio territorio i non cittadini734

e come il diritto d’asilo sia sostanzialmente concepito come una sorta di “eccezione

umanitaria”735 a tale principio. Nonostante, infatti, stiamo assistendo in epoca contem-

poranea ad una lenta erosione della nozione di sovranità statale, gli stati insistono

nell’adottare un approccio fortemente restrittivo e repressivo ai fenomeni migratori. La

capacità di controllare i flussi migratori rimane centrale alla comprensione di sé che

hanno molti stati nazionali ed è connessa alla nozione stessa di autodeterminazione dei

singoli paesi. In questo senso, dunque, il diritto d’asilo rimane, o almeno dovrebbe, una

eccezione alla regola generale, la cui regolamentazione però pone non pochi problemi in

merito alla struttura stessa degli stati moderni736.

La funzione “manifesta” o lo scopo principale che la normativa sull’asilo si pro-

pone di raggiungere, attraverso in primis l’istituzionalizzazione del principio di non re-

foulment sopra descritto, è quella di assicurare che gli individui abbiano una garanzia

concreta di non essere rinviati verso uno stato dove potrebbero essere soggetti a gravi

732 M. Edelman, The Symbolic Uses of Politics, University of Illinois Press, Urbana 1964.733 Ibidem, p. 193-194.734 In proposito si veda supra il primo capitolo.735 C. Harvey, cit., pag. 142.736 M.J Gibney, “Liberal Democratic States and Responsibilities to Refugees”, (1999), 93, American Po-litical Science Review, 169.

307

violazioni dei diritti umani fondamentali. Tale considerazione comporta necessaria-

mente l’accettazione che l’attuale struttura dello stato moderno, fondata sul rapporto

esclusivo stato-cittadino può crollare e che in tal caso spetta alla comunità internazio-

nale intervenire. Ne consegue che “il diritto d’asilo è l’espressione legale di un obbligo

morale. E’ il riflesso legale dell’obbligo morale di proteggere coloro che possono plau-

sibilmente soffrire gravi violazioni dei diritti umani fondamentali in altri stati”737. Agli

stati viene dunque richiesto, “attraverso il diritto, di rispettare le implicazione pratiche

del loro utilizzo del discorso sui diritti umani”738. Purtroppo come abbiamo avuto modo

di notare, nella pratica non sempre è così, numerosi richiedenti asilo del Darfur sono

stati rinviati dal Regno Unito a Khartoum, capitale del Sudan e sede di quel governo che

da anni li perseguita oppure in Italia, sono stati lasciati privi di qualsivoglia riconosci-

mento giuridico che ne impedisse la clandestinità e la possibile espulsione in Sudan.

Da quanto descritto nel presente lavoro emerge chiaramente come al di là della

sua asserita funzione manifesta, la normativa sull’asilo abbia, a mio avviso, altre fun-

zioni latenti tra loro coordinate.

La prima è certamente quella di volere e potere comunque controllare gli ingres-

si degli stranieri nel proprio territorio, posto che comunque i richiedenti asilo sono e ri-

mangono stranieri. Vengono dunque investiti sforzi, energie e spesso denaro

nell’assicurarci che i richiedenti asilo non giungano in Occidente e se lo fanno,

nell’impedire attraverso procedure lunghe e complesse, attraverso la mancanza di assi-

stenza lungo tale percorso e attraverso una strumentalizzazione politica di ciò che è loro

accaduto in patria, che possano concretamente ottenere il riconoscimento dello status di

rifugiato o di persona comunque bisognosa di un’altra forma di protezione internazio-

nale. Viene dunque utilizzata anche la normativa sull’asilo, al pari della normativa gene-

rale sull’immigrazione, per garantire la sicurezza e il controllo delle frontiere esterne

degli stati-nazionali, per riaffermare e delineare la sovranità territoriale in crisi.

Le contemporanee politiche in materia di asilo, come le ha definite Alain Mori-

ce, sono dunque la “morte e sepoltura” 739 dell’istituto stesso. In epoca moderna infatti

“si sta verificando un arretramento totale e coordinato rispetto alla promessa secondo

737 C. Harvey, cit., pag. 144.738 Ibidem.739 Z. Bauman, Europe. An Undefined Adventure, Polity Press, Cambridge 2004, ed. italiana, L’Europa èun’avventura, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pag. 106.

308

cui, in conseguenza del diritto di ciascuno alla vita, sarà garantita l’incolumità di coloro

la cui vita è in pericolo; la differenza di trattamento tra chi chiede asilo e gli immigrati

per meri motivi economici è ormai cancellata del tutto”740.

Allo stesso tempo è stato evidenziato741 come la funzione latente prioritaria alla

base dell’elaborazione normativa internazionale sull’asilo sia sempre stata quella di ri-

durre i costi c.d. esterni742 dei fenomeni che originano i flussi di rifugiati. Intendendo

per costi esterni tutti quei costi, politici, amministrativi, sociali ed economici che si ac-

cumulano per gli stati che svolgono la funzione di stati ospiti, per coloro che subiscono

violazioni dei diritti umani fondamentali e di conseguenza per gli stati occidentali. Per

costi interni, invece, si intendono quelli che si dovrebbero sostenere per affrontare le

crisi umanitarie alla fonte, o meglio all’interno dei territori stessi in cui hanno avuto ori-

gine. Infatti, a differenza di ciò che può apparire ma come abbiamo avuto modo di di-

mostrare in questa ricerca, la normativa sul rifugio non è affatto motivata e delineata

solo sulla base di motivazioni di carattere umanitario, ma anzi le stesse nel disegnare

tali norme occupano, in realtà solo una posizione marginale. Infatti “la normativa in

materia di rifugio non deriva da un incontro tra umanitarianismo e diritti umani ed è

stata, soprattutto a partire dal 1950 in avanti, strettamente collegata dalla volontà degli

stati di realizzare i propri obbiettivi personali”743.

L’intento latente della normativa sull’asilo di realizzare una riduzione dei costi

esterni del fenomeno dei rifugiati è stato dunque posto in essere assegnando a tale nor-

mativa tre sotto funzioni che hanno comunque pur sempre lavorato per ridurre tali costi.

“Per prima cosa, definendo il rifugiato come “l’altro”, la normativa sul rifugio mantiene

i più vulnerabili tra i rifugiati, e quindi quelli più costosi, all’interno degli stati stessi che

li producono”744. Infatti, come abbiamo visto745, è stato sviluppato un sistema di prote-

zione molto più inclusivo nei paesi africani, di quello che è stato invece sviluppato nella

normativa occidentale.

740 Ibidem.741 P. Tuitt, False Images. The Law’s Construction of the Refugee, Pluto Press, London 1996, pag. 7. Siveda anche P. Tuitt, Racist Authorisation: Interpretative Law anche the Changing Character of TheRefugee, in P. Fitzpatrick (ed.), Nationalisim, Racism and the Rule of Law, Aldershot, Dartmouth, 1995.742 P. Tuitt, False Images. The Law’s Construction of the Refugee , cit.743 J. Hathaway, International Refugee Law: Humanitarian Standard or Protection Ploy, in A. Nash (ed.),Human Rights and the Protection of Refugees Under International Law, Canadian Human Rights Foun-dation, Montreal 1988, pag. 184.744 P. Tuitt, False Images. The Law’s Construction of the Refugee , cit., pag. 7.745 Si veda supra, capitolo I, paragrafo III.

309

“In secondo luogo la normativa sull’asilo opera al fine di ridurre l’identità stessa

del rifugiato privilegiando alcune forme di violazioni dei diritti umani rispetto ad altre e

così delegittimando le forme che producono il maggior numero di rifugiati; in questo

modo il numero di “altri” legali rimane strettamente controllato”746. Infatti è proprio ri-

ducendo l’identità del rifugiato in maniera tale che la stessa comprenda solo una porzio-

ne minima di coloro che subiscono violazioni dei diritti umani fondamentali che, ancora

una volta, gli stati occidentali sono riusciti a ridurre i costi esterni del fenomeno747.

“Terzo, la normativa sul rifugio assicura che i rifugiati contribuiscano al rag-

giungimento degli obbiettivi politici degli stati occidentali e questo sostiene i costi

esterni”748. Tale funzione di “ambasciatore” degli scopi occidentali della normativa sul

rifugio viene definita da Gill Loescher che specifica “I rifugiati sono usati sia simboli-

camente che strumentalmente per perseguire obbiettivi di politica estera (…) essi infatti

possono rendere più potente uno stato avversario in esilio (…)”749. Fin dalla sua origine

infatti la nozione di rifugiato, come delineata dalla Convenzione di Ginevra, è stata uti-

lizzata quale strumento per condannare il paese da cui i rifugiati provenivano, a volte a

favore di un partito di opposizione presente nel territorio stesso. In seguito gli stati occi-

dentali se ne sono serviti per implementare una normativa che risulti essere uno stru-

mento utile per unirli nella lotta alle migrazioni. Non servendo per tali scopi, le defini-

zioni della nozione di rifugiato a carattere regionale previste dalla Carta dell’O.U.A. o

nella Dichiarazione di Cartagena, a carattere più inclusivo non sono mai state conside-

rate adottabili a livello universale.

Da ultimo, operando pur sempre per ridurre i costi esterni del fenomeno, le nor-

me sul rifugio si occupano anche di distribuire, in una logica tutta occidentale come ab-

biamo visto750, i costi del fenomeno tra gli altri stati. Non solo ma ora gli stati occiden-

tali tendono a finanziare gli stati limitrofi a quelli in cui la crisi è in atto (nel caso del

Sudan il Chad, ad esempio), onde costruire dei campi in cui i potenziali rifugiati possa-

no essere trattenuti per impedire loro di raggiungere qualsiasi altra destinazione751. O,

peggio ancora, finanziano stati non firmatari della Convenzione, quale ad esempio la

746 P. Tuitt, op. cit., pag. 7.747 Ibidem pag. 11.748 Ibidem pag. 7.749 G. Loescher, L. Monahan, Refugees and International Relations, Oxford University Press, London -NY, 1990 pagg. 12 e 13.750 Sempre capitolo I, paragrafo III.

310

Libia, per trattenere i richiedenti asilo nel proprio territorio ed impedire loro di accedere

ai paesi occidentali. A nulla sembra portare l’amara constatazione che in alcun modo

tali previsioni hanno impedito concretamente ai richiedenti asilo di tentare almeno di

raggiungere i paesi occidentali, con costi altissimi in termini di perdite umane.

Ne consegue che tutte le funzioni latenti della normativa sul rifugio ora eviden-

ziate, sono state la causa concreta per la quale il sistema di protezione attuale sia limi-

tato ed inaccessibile ancora oggi per la grande maggioranza dei rifugiati, riducendo

dunque tale normativa ad uno strumento volto ad impedire loro di raggiungere i paesi

occidentali e a ridurre i costi esterni del fenomeno.

3. Osservazioni conclusive

L’analisi svolta in questa ricerca ha evidenziato come il sistema di protezione

internazionale e nazionale dei rifugiati e degli asilanti sia contraddittorio ed inefficiente.

I rifugiati del Darfur, infatti, incontrano enormi difficoltà nel tentativo di ottenere uno

status giuridico che gli assicuri una tutela effettiva, in Italia così come in Inghilterra a

causa dei deficit delle due normative nazionali, sopra evidenziati. Tali deficit sono poi

stati ricollegati ad una serie di funzioni latenti della normativa in materia di asilo che

impediscono alla stessa di portare a termine quella che è la sua funzione manifesta: assi-

curare protezione a coloro che subiscono nel proprio paese di origine gravi violazioni

dei diritti umani fondamentali.

Abbiamo poi visto, soprattutto con riferimento alla situazione italiana, come an-

che nei casi in cui riescano ad ottenere un qualche tipo di riconoscimento giuridico il si-

stema d’accoglienza non è sufficientemente organizzato per fornire loro l’aiuto necessa-

rio a stabilizzarsi e cominciare a costruirsi un futuro all’interno del nostro paese. Le

strutture sono fatiscenti e mal gestite, il personale è poco e scarsamente preparato.

Risulta evidente a chiunque che istituire una disciplina efficace nel settore del

diritto d’asilo sia un compito arduo. Il mondo contemporaneo è caratterizzato da una se-

rie continua di conflitti interni e catastrofi che rendono, indubbiamente, preoccupante

una totale ed incontrollata apertura delle frontiere. Due stati come da un lato l’Italia, ca-

ratterizzata da un basso livello di crescita economica e da un alto livello di disoccupa-

zione, e dall’altro l’Inghilterra la cui economia un tempo florida è stata negli ultimi anni

751 Z. Bauman, L’Europa è un’avventura, cit., pag. 106.

311

fortemente provata dalla crisi economica, sarebbero indubbiamente messi a dura prova

dall’arrivo di oltre quattro milioni di rifugiati provenienti dal Darfur, sostanzialmente

privi di tutto e da aggiungersi a quelli provenienti da altre zone di crisi del mondo. Tut-

tavia, non è ignorando il fenomeno dei flussi di rifugiati o criminalizzando l’asilante che

il problema può essere risolto.

Gli stati occidentali devono smettere di ritenersi solo vittime di questo fenomeno

e rendersi conto che hanno un ruolo attivo di responsabilità anche nel verificarsi delle

crisi che rendono, costantemente, più elevato il numero dei rifugiati. Il caso del Darfur

è, in questo senso, emblematico. La comunità internazionale ha infatti ignorato la crisi

fino a quando questa non ha assunto delle dimensioni spropositate e le sue conseguenze

non sono risultate evidenti agli occhi di tutti. Sarebbe interessante che l’agenda della

comunità internazionale si orientasse un po’ di più verso un tentativo di evitare che si

producano le condizioni che creano le c.d. migrazioni forzate, piuttosto che nel come

proibire l’accesso ai propri stati, una volta che le crisi sono iniziate. Stephen Castles,

uno dei massimi studiosi contemporanei in materia di migrazioni forzate, ha più volte

evidenziato come le stesse siano più legate allo sviluppo economico e alle disuguaglian-

ze che lo stesso comporta che alle singole crisi a cui vengono invece collegate. La poli-

ticizzazione continua di questo tema viene utilizzata per celare la sua origine nelle disu-

guaglianze globali, di cui gli stati occidentali sono i primi responsabili752.

La persistenza delle c.d. “protracted refugee situations”, quale quella vissuta da-

gli asilanti del Darfur, dimostra che soluzioni affidabili o durevoli al problema non sono

ancora state trovate.

Affidare la gestione delle procedure in materia di rifugio ed asilo a normative

sempre più severe e complicate non risolve il problema, ma si limita a crearne uno nuo-

vo. I rifugiati privati di protezione ed assistenza, rischiano di andare ad ingrossare le fila

degli immigrati clandestini e a fomentare il mercato del lavoro nero e della microcrimi-

nalità. Dall’altro lato finanziare governi dispotici e privi di scrupoli delegando loro il

compito di trattenere i richiedenti asilo lontano dai c.d. muri della fortezza Europa, viola

direttamente il diritto d’asilo e contribuisce a finanziare il traffico clandestino di esseri

umani.

752 S. Castles, “Towards a Sociology of Forced Migration and Social Transformatio”, Sociology, Vol. 77,pagg. 13-34, 2003.

312

La Costituzione italiana riconosce il diritto d’asilo come un diritto fondamentale

e ugualmente, pur essendo privo di una costituzione, fa l’ordinamento britannico im-

plementando la Convenzione di Ginevra. Peraltro è la Dichiarazione Universale dei Di-

ritti dell’Uomo, del 1948, in primis a riconoscere il carattere fondamentale del diritto

d’asilo. Ciò nonostante lo stato contemporaneo non è ancora riuscito ad affrontare, non

dico a risolvere, questo problema in maniera costruttiva.

Ci siamo serviti di strumenti legislativi obsoleti pensati in un contesto storico-

politico completamente diverso da quello attuale. La società e il mondo contemporaneo,

infatti, sono in continuo cambiamento e non è fingendo di non vedere questi cambia-

menti che i problemi potranno essere affrontati e risolti. Bisogna prendere atto dei cam-

biamenti e attuare le modifiche necessarie ad affrontarli.

Come Seyla Benhabib ha lucidamente notato nel suo libro “I diritti degli altri”

in questo momento “Siamo come viaggiatori che esplorano un terreno sconosciuto con

l’aiuto di vecchie mappe, disegnate in tempi diversi e in risposta a bisogni differenti.

Mentre il terreno su cui stiamo procedendo, la società mondiale degli stati, è cambiato

le nostre mappe normative non lo sono. Non pretendo di avere una nuova mappa da so-

stituire alla vecchia, ma spero di poter contribuire alla comprensione delle maggiori

asperità del terreno sconosciuto che stiamo attraversando. Le crescenti incongruenze

normative tra le norme sui diritti umani in particolare se riferite ai «diritti degli altri»-

migranti, rifugiati e richiedenti asilo-, e le affermazioni della sovranità territoriale sono

le insolite caratteristiche di questo nuovo paesaggio” 753 .

Uno spiraglio in questo senso, pur con i limiti già evidenziati, si è aperto con

l’implementazione sia in Italia che nel Regno Unito della Direttiva Qualifiche e della

Direttiva Procedure, ma siamo ben lontani da un risultato soddisfacente. Fino a quando

infatti i rifugiati non saranno considerati come soggetti di diritto e parti attive nel dialo-

go relativo alle loro sorti, non potranno neppure essere titolari di diritti.

753 S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006,pag. 5.

313

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WINTERBOURNE D. e SHAH P., “Refugees and Safe Countries of Origin”, in United

Kingdom Asylum Law and Its European Context, P. Shah e C.F. Doebbler (a cura di),

Gems Soas Publications, London 1999, pagg. 66-80.

332

ZOLBERG A.R., “The Formation of New States as a Refugees-generating Process”,

Annals of the American Academy of Political and Social Science 467, 1983, pagg.24-38

in E. Haddad, The Refugee un International Society, op. cit., pagg.49-53.

ZOLO D. (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma

Bari 1994.

ZORZELLA N., Brevi Riflessioni sul caso Ocalan, in “Diritto, Immigrazione e cittadi-

nanza”, I, 1999, Franco Angeli Editore, Milano, pag. 54 e ss.

GIURISPRUDENZA ITALIANA CONSULTATA

Giurisprudenza amministrativa:

Consiglio di Stato, sez. IV, sent. del 27 febbraio 1952, in “Foro it.”, 1952, ΙΙΙ, c. 180;

TAR del Lazio, sent. n. 103 del 27 gennaio 1992, in Dalla solidarietà al diritto, ciclo di

conferenze tenutosi presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, Facoltà di giuri-

sprudenza, Responsabile A. Colleoni, 24 Maggio 2004, p. 112;

TAR Emilia Romagna, sent. n. 776 del 12 ottobre 1994, Dalla solidarietà al diritto, ci-

clo di conferenze tenutosi presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, Facoltà di

giurisprudenza, Responsabile A. Colleoni, 24 Maggio 2004, p. 112;

Consiglio di Stato, sez. IV, sent. del 12 marzo 2002, n. 4667, consultabile sul sito Inter-

net: www.giustizia-amministrativa.it

TAR del Friuli Venezia Giulia, sent. del 22 ottobre 1998, in “Diritto, Immigrazione e

Cittadinanza”, 1999, n. 2, Franco Angeli Editore, Bologna;

Consiglio di Stato, sez. ΙV, sent. n. 400 del 10 marzo 1998, in “Foro It”. 1998, III, 218;

TAR Lombardia, sent. n. 404, del 9 febbraio 2001 consultabile sul sito Internet:

http://www.giustizia-amministrativa.it

Consiglio di Stato, Sezione ΙV, sent. n. 6710 del 27 ottobre 2000, consultabile sul sito

Internet: www.giustizia-amministrativa.it

TAR della Liguria, sent. n. 1045 del 28 ottobre 2002, consultabile sul sito

www.giustizia-amministrativa.it

Consiglio di Stato, Sez. ΙV, sent. n. 5943 del 30 aprile 2002, consultabile sul sito Inter-

net: www.giustizia-amministrativa.it

333

TAR del Lazio, sent. n. 152 del 12 febbraio 1992, in Dalla solidarietà al diritto, ciclo di

conferenze tenutosi presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, Facoltà di giuri-

sprudenza, Responsabile A. Colleoni, 24 Maggio 2004, p. 54;

TAR della Calabria, sent. n. 363 del 26 gennaio 2001, consultabile sul sito Internet:

www.giustizia-amministrativa.it

Giurisprudenza Corte di Cassazione:

Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 907, del 17 dicembre 1999, in “Riv. Amm.”, 2000,

229;

Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 4674, 12 dicembre 1996- 26 maggio 1997, in “Riv.

Dir. Int.”, 1997, 843;

Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza del 08 ottobre 1999 consultabile al sito Inter-

net:

http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2000/febbraio/cassazione-

8-10-99.html

Tribunale di Roma, sent. del 13 febbraio 1997, in “Giustizia Civile”, 1998, I, p. 283;

Corte d’Appello di Milano, sent. del 17 novembre 1964, in “Foro it.”, 1964, II, c. 127;

Tribunale di Roma, II Sez. Civile, sent. del 1 ottobre 1999, in “Questione Giustizia”,

1999, p. 1179;

Tribunale di Firenze, sent. del 28 marzo 2003, e Tribunale di Perugina, 6 novembre

2003, in “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza”, 2000, Vol. 1, Franco Angeli Editore,

Bologna;

Tribunale di Milano, sent. del 27 gennaio 2001, in “Giur. Merito”, 2002, p. 472;

Corte d’Appello di Catania, decreto n. 1, del 22 marzo 2002, in Dalla solidarietà al di-

ritto, ciclo di conferenze tenutosi presso l’Università degli studi di Milano Bicocca, Fa-

coltà di giurisprudenza, Responsabile A. Colleoni, 24 Maggio 2004, p. 33.

GIURISPRUDENZA INGLESE CONSULTATA

I.A.T. nel caso Salah Ziar, del 22 maggio 1997;

R v Secretary of State for the Home Department, Ex p Behluli Citata in I. A. Macdonald,

F. Weber, op. cit., pag. 558;

Javed and Ali V. Secretary for The Home Department;

R.Vs SSHD, 2005, EWCA Civ 321;

334

SM (Section 8 Judge’s Process) Iran, UKAIT, 2005 00116, in M. Symes e P Jorro,

Asylum Law and Practice, op. cit., pag. 672;

I.A.T., Danian, (16494; 9 giugno 1998);

AA (Involuntary Returns to Zimbawe) Zimbawe, 2005, UKAIT 00144, 7 ottobre 2005;

R. v Secretary of State for the Home Department, ex p Thangasara and Yogathas, 2002,

UKHL 36;

R, (on the application of Razgar) v Secretary of State for the Home Department, 2003

EWCA civ. 840;

ZT (Kosovo) v SSHD, 2009, UKHL 6, cit. in G. Clayton, op.cit. pag. 424;

ZL e VL v SSHD and Lord Chancellor’s Department, 2003, 1 All ER 1062;

Onibiyo v Secretary of State for the Home Department, 1996, qb 768, All ER 906;

Cart e Ors v The Upper Tribunal e Ors (2009), EWHC 3052 (ADMIN);

Yassine v SSHD, Imm AR 345 at 359;

Chiver, (10758), del 24 marzo 1994;

HK v SSHD, (2006), EWCA civ 1037;

JT (Cameroon) v SSHD, (2008) EWCA, civ 878, paragrafo 21;

R v. SSHD ex p. Sivakumaran, 1 AC 958, HL, 1988;

Asuming v SSHD, (11530) del 11 novembre 1994;

R. v SSHD ex p. Adan,(1998) INLR, 325 HL, in C. Harvey, “Judging Asylum”, in P.

Shah (a cura di), The Challenge of Asylum to Legal Systems, op. cit., p. 180;

Horvath v SSHD, (2000), 1 AC 489 (HL);

Januzi, Hamid, Gaafar and Mohammed v SSHD, (2006), UKHL 5 paragrafo 20;

Danian v SSHD, (16494) del 9 giugno 1998;

ZL e VL v SSHD and Lord Chancellor’s Department, (2003), EWCA, civ. 25;

R v SSHD, ex p Senkoy Department (2001) EWCA Civ 328, R v SSHD ex p Kabala

(1999) Imm AR 176;

MA (Fresh Evidence) Sri Lanka, (2004) UKAIT 00161, paragrafi 61-62;

Onibiyo v SSHD, (1996), QB 768;

Ladd v Marshall, (1954) 3 All er 745 come citata in R v SHHD, ex p. Onibiyo, (1996)

QB 768;

R (Nasseri) v SSHD, (2009) UKHL 23, in M. Symes e P. Jorro, op. cit. pag. 792.

Shala v SSHD, (2003), INLR 349.

335

APPENDICE I

Griglia Intervista asilanti Italia

Dati personali dell’intervistato.

Nome e Cognome:

Data di nascita:

Luogo di nascita:

Nazionalità:

Lavoro svolto nel paese d’origine:

Da il consenso all’utilizzo e pubblicazione dei suoi dati personali e delle risposte a que-

sto questionario, a fini di ricerca?

Data:

Domande

1)Per quali ragioni lei ha dovuto fuggire dal Sudan?

2)Ha presentato richiesta d’asilo in altri paese prima che in Italia?

3)In che modo lei ha lasciato il Sudan ed è giunto in Italia?

4)Per quale ragione ha scelto l’Italia?

5)Quale è stata la prima autorità italiana (polizia di frontiera, questura, carabinieri …)

con cui è entrato in contatto? Se possibile indicare anche di che luogo.

6)In che modo? All’arrivo? O successivamente o tramite l’aiuto di organizzazioni non

governative? Altro?

7) Come è stato l’incontro? Come si sono comportati gli ufficiali italiani? È stato aiutato

nello svolgimento delle pratiche oppure no? Era presente un interprete?

8) Gli sono state spiegate le procedure necessarie per presentare la richiesta d’asilo, è

stato aiutato nella redazione del verbale oppure no?

9)Hanno accolto senza problemi la sua richiesta? Se no quali tipi di problemi ha incon-

trato?

10)Davanti a quale commissione è stato ascoltato? Comm. Centrale, Stralcio o Territo-

riale?Se territoriale quale?Si ricorda quanti membri c’erano?

11)C’era l’interprete durante l’audizione?

12)C’era un legale durante l’audizione?

13)Il legale e l’interprete se c’erano, erano forniti dallo Stato o da un organizzazione o

ha avuto modo di procurarsi un legale da solo?

336

14)Quanto è durata l’audizione?

15)Che tipo di prove ha dovuto produrre? Come ha dimostrato di provenire dal Darfur?

16)È stato in un C.I.D. o in un C.P.T.A.?Se si in quale e per quanto tempo?Come erano

le condizioni di vita e il trattamento?(in quanti erano, erano correttamente assistiti, nu-

triti, era pulito etcc)

17) Che risultato ha avuto l’audizione? Ha ottenuto lo status di rifugiato o il permesso di

soggiorno per ragioni umanitarie, oppure la sua richiesta è stata negata? Che tipo di

permesso di soggiorno ha ottenuto? Per quanto tempo? Quando e come lo deve rinnova-

re?

18)Ha ottenuto assistenza da parte dello Stato? Di che tipo?( Economica, nella sistema-

zione, corsi di avviamento al lavoro, e simili..)

19)Ha già trovato lavoro e una sistemazione stabile? Se si di che tipo ? È stato aiutato a

trovare lavoro e alloggio dalle istituzioni statali o da organismi indipendenti(emergency,

cir, unhcr, amnesty, caritas e altre)?

APPENDICE II

Griglia Intervista avv. Livio Neri

Dati personali dell’intervistato.

Nome e Cognome:

Data di nascita:

Luogo di residenza:

Contatto e-mail:

Attività svolta:

Da il consenso all’utilizzo e pubblicazione dei suoi dati personali e delle risposte a que-

sto questionario, a fini di ricerca?

Data:

Domande

1) Quali ritiene che siano le principali lacune dell’attuale normativa in materia d’asilo in

Italia?

2) Quali ritiene che siano le motivazioni alla base della mancata attuazione del dettato

costituzionale, Articolo 10 co. 3?

3)Relativamente alla protezione umanitaria temporanea ritiene che le previsioni della

attuale legge in materia siano soddisfacenti, e in caso negativo, per quali ragioni?

337

4) Secondo alcuni dati da me raccolti risulta che la prassi seguita sia dalle questure che

ricevono le domande d’asilo, sia dalla polizia di frontiera non abbia carattere uniforme

ma abbia, al contrario, un carattere abbastanza discrezionale. Cosa risulta dalla sua

esperienza? Ritiene che questo carattere discrezionale sia imputabile alle lacune e alla

poco chiarezza del dettato legislativo?

5)Il personale presente nelle sedi della Questura è, a sua avviso, sufficientemente prepa-

rato per ricevere e svolgere le pratiche relative alle domande d’asilo? Sono presenti in-

terpreti? Esiste un’assistenza legale fornita dalle istituzioni e non solo dalle o.n.g.?

6)L’eventuale mancanza di personale sufficientemente preparato non risulta possedere

elevato carattere preclusivo data l’importanza del verbale redatto in questura e poi con-

segnato prima alla Commissione Centrale e ora alle Commissioni Territoriali?

7)I richiedenti asilo che si rivolgono al vostro studio lo fanno in maniera individuale o

tramite associazioni?

8)Quali ritiene possano essere le aspettative di un asilante che arriva in Italia clandesti-

namente e non conosce la lingua?

9) Relativamente alla Procedura semplificata l’articolo 1-bis, co. 2, lettera a) prevede

che l’asilante debba essere obbligatoriamente trattenuto “a seguito della presentazione

di una domanda di asilo presentata dallo straniero fermato per avere eluso o tentato di

eludere il controllo di frontiera o subito dopo, o, comunque, in condizioni di soggiorno

irregolare”. Ma in questo modo non le pare che la maggior parte dei richiedenti asilo

venga, pertanto, automaticamente sottoposta alla procedura semplificata? Ma tale pro-

cedura non dovrebbe avere carattere straordinario? E cosa pensa relativamente alla pro-

cedura semplificata e al trattenimento nei c.i.d.?

10)L’Articolo 32 della legge 189/2002 ha stabilito, introducendo l’Articolo 1-quater,

che durante l’esame della domanda la commissione debba anche tenere conto

dell’esistenza “di seri motivi, in particolare di carattere umanitario risultanti da obbli-

ghi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, secondo quanto stabilito

dall’Articolo 5, co. 6, della legge 268/1998. Sa indicarmi in base a quali criteri vengono

identificati i seri motivi a carattere umanitario? Che tipo di prove vengono normalmente

richieste agli ailanti?

11)Tale norma inoltre è in vigore sola dal 2005, ( D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, ap-

plicabile dal 21 aprile 2005), come venivano trattati i rifugiati che necessitavano di

338

protezione umanitaria temporanea e che non potevano essere respinti in virtù

dell’articolo 33 della Conv. Di Ginevra del 1951, prima dell’entrata in vigore di questa

norma? Che tipo di assistenza ottenevano?

12)Quali sono i tipi di assistenza e i mezzi di sostentamento previsti ora per i titolari del

permesso di soggiorno per ragioni umanitarie?

13) Sebbene la Commissione Centrale sia un organo collegiale, pare, tuttavia, che in un

elevato numero di casi, circa il 30,4%, le audizioni venissero svolte da un solo commis-

sario, mentre solo nel 43,5% ne erano presenti due. Quindi pur essendo un organo col-

legiale nella prassi spesso decideva pur in assenza di alcuni suoi membri, adottando

pratiche e criteri difformi di volta in volta. Nella sua esperienza è stato riscontrata que-

sta prassi? Quali ne sono stati secondo lei gli effetti?

14)La composizione delle Commissioni Territoriali influisce sui criteri decisionali delle

stesse? In che modo? Quale ritiene potrebbe essere una composizione più idonea?

15)Ritiene che l’attuale sistema normativo internazionale sia idoneo a gestire i flussi di

rifugiati prodotti da crisi (come quella del Darfur) che producono sempre di più flussi

massicci di asilanti (tenuto anche conto del carattere strettamente individuale della per-

secuzione temuta e subita ex Articolo 1, Conv. Di Ginevra del 1951)?

16)Ritiene che la normativa Italiana ottemperi agli obblighi internazionali e comunitari

in materia d’asilo?

17)I tempi d’attesa per l’esame della domanda da parte della Commissione Centrale

hanno spesso superato i diciotto mesi, le Commissioni territoriali sino ad ora hanno ri-

spettato i tempi più brevi previsti dalla nuova normativa?

18)La durata dell’audizione davanti alla Commissione Centrale aveva spesso una durata

(nella media) di circa 20 minuti, compresi i tempi tecnici per la traduzione, non ritiene

che si tratti di una fascia di tempo troppo esigua per il richiedente, onde poter esporre

correttamente le sue motivazioni e problematiche?

19)L’instaurarsi della procedura relativa al ricorso contro le decisioni della Commissio-

ne Centrale prima, e avverso quelle delle Commissioni Territoriali ora, non prevede un

effetto sospensivo del provvedimento di espulsione che dovrebbe essere eseguito im-

mediatamente. È effettivamente così nella prassi? Ma in questo modo non vengono

violate alcune garanzie procedurali e il diritto dell’imputato ad essere presente in ogni

fase e grado del processo?

339

20) La nuova normativa prevede la possibilità di proporre una richiesta di riesame della

decisione adottata dalla Commissione Territoriale. Il riesame ha la funzione di sottopor-

re all’attenzione della Commissione Territoriale integrata da un componente della

Commissione Nazionale, elementi nuovi o anche preesistenti che non era stato possibile

acquisire in passato. La richiesta non va motivata e tali elementi potranno essere pre-

sentati direttamente durante la seconda audizione davanti alla Commissione integrata.

La Commissione si deve pronunciare entro dieci giorni. L’utilità di tale ricorso è, evi-

dentemente, discutibile dato che sul riesame si pronuncia, di fatto, una Commissione di

poco differente da quella che aveva negato il riconoscimento. Dato che la decisione sul

riesame viene presa quindici giorni dopo il diniego non le sembra che risulti molto dif-

ficile, se non impossibile, addurre nuovi elementi di prova?

APPENDICE IIIGriglia Intervista Luca CumboDati personali dell’intervistato.

Nome e Cognome:

Data di nascita:

Luogo di residenza:

Contatto e-mail:

Attività svolta:

Da il consenso all’utilizzo e pubblicazione dei suoi dati personali e delle risposte a que-

sto questionario, a fini di ricerca?

Data:

Domande

1) Quali ritiene che siano le principali lacune dell’attuale normativa in materia d’asilo in

Italia?

2) Quali ritiene che siano le motivazioni alla base della mancata attuazione del dettato

costituzionale, Articolo 10 co. 3?

3)Relativamente alla protezione umanitaria temporanea ritiene che le previsioni della

attuale legge in materia siano soddisfacenti, e in caso negativo, per quali ragioni?

4) Secondo alcuni dati da me raccolti risulta che la prassi seguita sia dalle questure che

ricevono le domande d’asilo, sia dalla polizia di frontiera non abbia carattere uniforme

ma abbia, al contrario, un carattere abbastanza discrezionale. Cosa risulta dalla sua

340

esperienza? Ritiene che questo carattere discrezionale sia imputabile alle lacune e alla

poco chiarezza del dettato legislativo?

5)Il personale presente nelle sedi della Questura è, a sua avviso, sufficientemente prepa-

rato per ricevere e svolgere le pratiche relative alle domande d’asilo? Sono presenti in-

terpreti? Esiste un’assistenza legale fornita dalle istituzioni e non solo dalle o.n.g.?

6)L’eventuale mancanza di personale sufficientemente preparato non risulta possedere

elevato carattere preclusivo data l’importanza del verbale redatto in questura e poi con-

segnato prima alla Commissione Centrale e ora alle Commissioni Territoriali?

7)Sa indicarmi, approssimativamente, il numero dei richiedenti asilo e rifugiati del Dar-

fur presenti in Italia?

8)Quali ritiene possano essere le aspettative di un asilante proveniente dal Darfur che

arriva in Italia clandestinamente e non conosce la lingua?

9) Relativamente alla Procedura semplificata l’articolo 1-bis, co. 2, lettera a) prevede

che l’asilante debba essere obbligatoriamente trattenuto “a seguito della presentazione

di una domanda di asilo presentata dallo straniero fermato per avere eluso o tentato di

eludere il controllo di frontiera o subito dopo, o, comunque, in condizioni di soggiorno

irregolare”. Data la situazione di guerra in Sudan, e le posizioni adottate dal governo di

Khartoum non ritiene che sia praticamente impossibile per gli asilanti del Darfur entrare

in Italia in altro modo? Vengono, pertanto, automaticamente sottoposti alla procedura

semplificata? Ma tale procedura non dovrebbe avere carattere straordinario? E cosa

pensa relativamente alla procedura semplificata e al trattenimento nei c.i.d.?

10)L’Articolo 32 della legge 189/2002 ha stabilito, introducendo l’Articolo 1-quater,

che durante l’esame della domanda la commissione debba anche tenere conto

dell’esistenza “di seri motivi, in particolare di carattere umanitario risultanti da obbli-

ghi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, secondo quanto stabilito

dall’Articolo 5, co. 6, della legge 268/1998. Ritiene che i rifugiati del Darfur rientrino in

questo caso? Questa norma non riconosce però uno status giuridico, quali sono le con-

seguenze sulla vita quotidiana dei rifugiati del Darfur?

11)Tale norma inoltre è in vigore sola dal 2005, ( D.P.R. 16 settembre 2004, n. 303, ap-

plicabile dal 21 aprile 2005), come venivano trattati i rifugiati del Darfur e, più in gene-

rale, quelli che necessitavano di protezione umanitaria temporanea e che non potevano

341

essere respinti in virtù dell’articolo 33 della Conv. Di Ginevra del 1951? Che tipo di as-

sistenza ottenevano?

12)Quali sono i tipi di assistenza e i mezzi di sostentamento previsti ora per i titolari del

permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, tra i quali i rifugiati del Darfur?

13)Ritiene che siano sufficienti?

14)Sa indicarmi i criteri secondo i quali il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie

è stato concesso ad alcuni rifugiati del Darfur?

15)È a conoscenza di casi in cui gli è stato negato e per quali motivi?

16)La composizione delle Commissioni Territoriali influisce sui criteri decisionali delle

stesse? In che modo? Quale ritiene potrebbe essere una composizione più idonea?

17)Sebbene la Commissione Centrale sia un organo collegiale, pare, tuttavia, che in un

elevato numero di casi, circa il 30,4%, le audizioni venissero svolte da un solo commis-

sario, mentre solo nel 43,5% ne erano presenti due. Quindi pur essendo un organo col-

legiale nella prassi spesso decideva pur in assenza di alcuni suoi membri, adottando

pratiche e criteri difformi di volta in volta. Nella sua esperienza è stato riscontrata que-

sta prassi? Quali ne sono stati secondo lei gli effetti?

18)I tempi d’attesa per l’esame della domanda da parte della Commissione Centrale

hanno spesso superato i diciotto mesi, le Commissioni territoriali sino ad ora hanno ri-

spettato i tempi più brevi previsti dalla nuova normativa

19)Ritiene che l’attuale sistema normativo internazionale e nazionale sia idoneo a gesti-

re i flussi di rifugiati prodotti da crisi come quella del Darfur, (tenuto anche conto del

carattere strettamente individuale della persecuzione temuta e subita ex Articolo 1,

Conv. Di Ginevra del 1951)?

20)C’è qualcosa che vuole aggiungere?

APPENDICE IVGriglia Intervista avv. Maria Cristina RomanoDati personali dell’intervistato.

Nome e Cognome:

Data di nascita:

Luogo di residenza:

Contatto e-mail:

Attività svolta:

342

Da il consenso all’utilizzo e pubblicazione dei suoi dati personali e delle risposte a que-

sto questionario, a fini di ricerca?

Data:

Domande

1) Quali ritiene che siano, se ce ne sono ancora, le principali lacune dell’attuale norma-

tiva in materia d’asilo in Italia?

2) E d’accordo con quella parte della dottrina che ritiene che l’art. 10 c. 3 cost sia ora

stato attuato dal dlgs 251/2007 o ritiene che vi sia ancora una mancata attuazione del

dettato costituzionale?

3)Relativamente alla protezione umanitaria temporanea ritiene che le previsioni della

attuale legge in materia siano soddisfacenti, e in caso negativo, per quali ragioni?

4) Secondo alcuni dati da me raccolti risulta che la prassi seguita sia dalle questure che

ricevono le domande d’asilo, non abbia carattere uniforme ma abbia, al contrario, un ca-

rattere abbastanza discrezionale. Cosa risulta dalla sua esperienza? Ritiene che questo

carattere discrezionale sia imputabile alle lacune e alla poco chiarezza del dettato legi-

slativo?

5)Il personale presente nelle sedi della Questura è, a sua avviso, sufficientemente prepa-

rato per ricevere e svolgere le pratiche relative alle domande d’asilo? Sono presenti in-

terpreti? Esiste un’assistenza legale fornita dalle istituzioni e non solo dalle o.n.g.?

6)L’eventuale mancanza di personale sufficientemente preparato non risulta possedere

elevato carattere preclusivo data l’importanza del verbale redatto in questura ora alle

Commissioni Territoriali?

7)I richiedenti asilo che si rivolgono al vostro studio lo fanno in maniera individuale o

tramite associazioni?

8)Quali ritiene possano essere le aspettative di un asilante che arriva in Italia clandesti-

namente e non conosce la lingua?

9) Il dlgs 251/07 ha per la prima volta, offerto in Italia una disciplina organica delle

domande d’asilo. Come ha innovato secondo lei rispetto al passato? Le audizioni in

Commissione ne hanno giovato? Quali sono secondo lei gli aspetti tutt’ora critici di

questa normativa?

10) Le elevate percentuali di riconoscimenti di almeno una fattispecie di protezione in-

ternazionale ora disciplinata dalla legge, dovuta alle decisioni dell’AG in sede di ricorso

343

contro le decisioni della commissione territoriale, sono secondo lei indicative di una

particolare problematica che riguarda la fase amministrativa del procedimento per il ri-

conoscimento della prot. internazionale? se si quale?

12)Quali sono i tipi di assistenza e i mezzi di sostentamento previsti ora per i richiedenti

asilo durante la pendenza della domanda?

13)La composizione delle Commissioni Territoriali influisce sui criteri decisionali delle

stesse? In che modo? Quale ritiene potrebbe essere una composizione più idonea?

14)Ritiene che l’attuale sistema normativo internazionale sia idoneo a gestire i flussi di

rifugiati prodotti da crisi (come quella del Darfur) che producono sempre di più flussi

massicci di asilanti?

15)Ritiene che la normativa Italiana ottemperi agli obblighi internazionali e comunitari

in materia d’asilo?

16)I tempi d’attesa per l’esame della domanda da parte della Commissione Centrale

avevano spesso superato i diciotto mesi, le Commissioni territoriali riescono a suo pare-

re a rispettare i tempi più brevi previsti dalla nuova normativa?

17)La durata dell’audizione davanti alla Commissione Centrale aveva spesso una durata

(nella media) di circa 20 minuti, compresi i tempi tecnici per la traduzione, non ritiene

che si tratti di una fascia di tempo troppo esigua per il richiedente, onde poter esporre

correttamente le sue motivazioni e problematiche?. Cosa ci può dire in merito alle audi-

zioni presso le Commissioni Territoriali?

18)L’instaurarsi della procedura relativa al ricorso contro le decisioni delle Commissio-

ni Territoriali ora prevede la sospensione automatica dell’ordine di allontanamento in-

timato insieme al diniego all’asilante. Ci può illustrare se nella pratica è così e quali so-

no effettivamente le difficoltà che i richiedenti asilo nell’ottenere il permesso di sog-

giorno in sede di ricorso, se ve ne sono?

19)Quali sono le sue opinioni in merito alla nuova procedura davanti all’autorità giudi-

ziaria? Quali sono le principali carenze della stessa? E quali sono le difficoltà che si in-

contrano nella redazione del ricorso ex art. 35 dlgs 251/07 e nel rendere attendibili le di-

chiarazioni dell’asilante?

20) Quali sono a suo avviso gli aspetti più problematici dell’istituto della protezione in-

ternazionale, come disciplinati in Italia attualmente?

344

APPENDICE VGriglia intervista asilanti Inghilterra

Personal Data

First and Last Name:

Date and Place of Birth:

Domicile:

E-mail:

Profession in the country of origin:

Do you agree at the use and publication of his data and his answer for research pur-

poses?

Date:

Questions

1)Why did you have to leave Sudan? Can you tell me about your story?

2)Which ethnicity you are?

3)Did you try to ask asylum in another state before trying in UK?

4)How did you leave Sudan and how did you reach UK?

5)Why did you decide to come UK to ask for asylum?

6)Which has been the first English authority did you meet ( as border police, Police,

Interiors Police) and where?

7)How did you get in contact with them? At your arrival? After trough N.g.os? In an-

other way?

8) How has been this first meeting? What did the English police? Did they help you

with procedures? Did you get an interpreter?

9) Did they explain you how to introduce your asylum claim? Did they help you to

write your request?

10)Did they believe you? If not which kind of problems did you have?

11)Did they listened to you personally?

12)Did You have documents with you?

13)If they refused your claim, what did you do after?

14)Did you get any legal aid from the Government? If not how you found some legal

aid?

345

15)If they listened to you how long? How many questions they did to you?

16)What they asked you about Darfur?

17)Have you been in a detention centre? Can you tell me about your experience there?

18) Did you get any status? Any help? Which kind of help? Did you get a permit? For

how long?

19)Does the Government helped you?(housing, looking for a job, improving your Eng-

lish)?

20)Did you find a job and a stable solution?

APPENDICE VI

Griglia Intervista Avvocati Inghilterra

Personal Data

Initials:

Year of Birth:

Sex:

Do you agree at the use and publication of your data and your answer for research pur-

poses?

Date:

Questions

1) Which do you think are the foremost lacks of the UK Legislation concerning Asy-

lum?

2) What do you think it is mostly changed after the Implementation of the Nationality,

Immigration and Asylum Act of 2006?

4) It is true that now the procedures are lot faster but this implicated a lower quality of

them?

5)What do you think (if you experienced) about the asylum claims which take place

while the asylum seekers is in detention?

6) It is true that the new system reduced the legal aid to asylum seekers and how this af-

fect all the procedure?

7)It is in practice an attitude from the Home Office of denying appeal rights to asylum

seekers from certain countries deemed to be generally safe?

346

8)Do you think that in the examination of the first asylum request the composition of

the Home Office Commission influences the results?

9) Does the single Commission influences the choice of giving or denying asylum? Or

they follow pretty much the General Home Office Guide Lines?

10) Do you think that the police staff which received the asylum claims at the ports it is

enough prepared in the field and if not how this affect the procedure?

11)The Asylum and Immigration Tribunal how uses to examine the claims? Which kind

of evidences are taking in account?

12)The asylum seekers which ask for your help how did they found you? By the gov-

ernment, privately or by N.g.os?

13) Which are the conditions in the detention centres? Do you think that this kind of

treatment it is not in violations of the international norms?

14)What can you tell about the NAM ( New Asylum Model)??

15)Did you work with some Darfur asylum seekers? Which kind of problems did you

experience in this particular case?

16) Which kind of status can get a Darfur Asylum seeker and what does it contemplate?

17) Do you think that the orientation of the Home Office of sending Darfuri refugees

back to Khartoum it is not a violation of the non refoulment principle?

18)Do you think that the UK Asylum System it is accomplishing its international obli-

gations?

19)There is anything else that you want to tell or to point out about the UK asylum

system?

APPENDICE VII

Questionario professoressa Crawley

Personal Data

First and Last Name:

Date and Place of Birth:

Domicile:

E-mail:

Profession:

Do you agree at the use and publication of your data and answers for research purposes?

347

Date:

Questions

1) Which do you think are the foremost lacks of the UK Legislation concerning Asy-

lum?

2) What do you think it is mostly changed after the Implementation of the Nationality,

Immigration and Asylum Act of 2002, 2004 and 2006?

4) It is true that now the procedures are lot faster but this implicated a lower quality of

them?

5)What do you think (if you experienced) about the asylum claims which take place

while the asylum seekers is in detention?

6) It is true that the new system reduced the legal aid to asylum seekers and how this af-

fect all the procedure?

7)It is in practice an attitude from the Home Office of denying appeal rights to asylum

seekers from certain countries deemed to be generally safe? This, from your point of

view, it is not in contrast with the Geneva Convention statements?

8)Do you think that in the examination of the first asylum request the composition of

the Home Office Commission influences the results? There is an high level of discre-

tionary power in the way the claims are analysed?

9) Does the single Commission influences the choice of giving or denying asylum? Or

they follow pretty much the General Home Office Guide Lines?

10) Do you think that the police staff which received the asylum claims at the ports it is

enough prepared in the field?

11)The lack of the preparation of the police staff does not influenced the result of the

first presentation of the asylum claims?

12)The Asylum and Immigration Tribunal how uses to examine the claims? Which kind

of evidences are taking in account?

13) The asylum seekers which ask for your help how did they found you? By the gov-

ernment, privately or by N.g.os?

14)Which do you think could be the life expectancy of an asylum seeker arriving in

UK? And which do you think there will be effectively?

348

15) Do you think that the general idea that improving the living conditions for asylum

seekers in UK will act as a “pull factor” has determined the policy makers in restricting

these measures?

16) Which are the conditions in the detention centres? Do you think that this kind of

treatment it is not in violations of the international norms?

17)What can you tell about the NAM ( New Asylum Model)?

18)Which kind of assistance can get an asylum seeker while is claim is under examina-

tion? And what after if he gets any kind of status?

19)Which do you think are the foremost differences between the refugees status, the

humanitarian protection, the discretionary leave and the ILR?

20)Did you never work with some Darfur asylum seekers? Which kind of problems

could you tell me about those experiences?

21) Which kind of status can get a Darfur Asylum seeker and what does it contemplate?

22) Do you think that the orientation of the Home Office of sending Darfuri refugees

back to Khartoum (application of the internal flight rule) it is not a violation of the non

refoulment principle?

23)Do you think that the UK Asylum System it is accomplishing its international obli-

gations?

24)What do you think are the factors determining the asylum seekers choice of coming

to UK instead that another country?

25)Do you think that there is a stronger link for asylum seekers coming from old British

colonies?

26)How is important the role covered by agents in determining the country where to

seek asylum?

27) Do you think that when asylum seekers arrive in UK they have any idea of the Eng-

lish legal system and of the asylum procedures?

28)How strong is the influence of social networks and of historical and cultural origins

in the choosing the country of asylum?

29)How do you think that the British asylum system can be modified to better offer

protection to asylum seekers and which do you think are the possible short and long

term solutions?

30)Which are the most difficulties you found in interviewing asylum seekers?

349

31)There is anything else that you would like to point out generally about the British

asylum system and specifically about your work?

350

RINGRAZIAMENTI

I miei più sinceri ringraziamenti vanno al Professor Vincenzo Ferrari e alla Pro-

fessoressa Letizia Mancini, per la pazienza e la disponibilità dimostrate ma soprattutto

per gli stimoli, gli spunti di riflessione e la fiducia che mi hanno dato.

Voglio poi ringraziare tutti i richiedenti protezione del Darfur che ho avuto il

privilegio e l’onore di incontrare in Chad, in Italia ed in Inghilterra per avermi dedicato

il loro tempo e per avermi parlato di momenti così difficili e delicati della loro vita.

Un ringraziamento particolare va a tutti gli operatori sociali, gli avvocati e gli

studiosi della materia che mi hanno aiutato in questi anni, permettendomi di portare

avanti questo lavoro e soprattutto a tutti coloro che vi hanno espressamente preso parte

tra i quali l’avv Livio Neri, l’avv. Romano, l’avv. Pelzel, Gabriella Bettiga gli operatori

dei circoli Arci di Torino, David Brown, Luca Cumbo, T., Article 1 e la Aegist Trust,

gli avvocati R.R. e S.M. nonché Peter Verney.

Ringraziamenti speciali vanno inoltre:

A Serenella, Dino e Luca per essere ognuno a suo modo una continua fonte di

ispirazione e forza;

A Mauro per avermi sostenuto ancora una volta e per aver supportato il mio im-

pegno e, soprattutto, sopportato il mio umore;

A Valeria e Claudia, semplicemente per tutto;

A Massi, Roberta, Nicola, Ivan, Giuseppe, Barbara, Antonella, Daniela, Giovan-

ni, Rosalba, Simona, Riccardo, Salvatore, Chiara, Valerio, Realino, Luigi e tutti coloro

con i quali ho potuto discutere e confrontarmi, non solo su questa tesi ma su moltissimi

temi, sull’isola di Capraia, senza le cui opinioni e consigli mi sarei sicuramente un po’

persa;

351

A tutte le mie fantastiche amiche;

All’Annina, a Lucia, a Valentina, a Francesca, a Orsola e a Chiara;

Ad Alberto e Livio che mi ha insegnato che non si è mai troppo occupati o stan-

chi per difendere i diritti degli altri;

A tutti i colleghi del mio studio per aver sopportato le mie continue assenze e ri-

solto i miei vari casini durante le stesse, per l’amicizia e l’impegno condiviso;

Ad Anna per il sostegno e l’amicizia dimostratami e perchè mi ha insegnato che

volendo si riesce sempre a fare tutto (o almeno lei ci riesce);

E a tutte le persone che mi sono sempre state vicine e che ho avuto la fortuna e il

piacere di incontrare e conoscere.