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1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO Facoltà di Scienze delle Formazione Corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Valutazione Motorio Sportiva e Tecniche di Analisi e Progettazione dello Sport per Disabili Tesi di Laurea Magistrale in Teoria, Tecnica e Didattica dello Sport per Disabili IL KARATE INTEGRATO Relatore Candidato Ch.mo Prof. Nicola La Marca Filippo Gomez Paloma Matr. 4422/200792 Anno accademico 2013-2014

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SALERNO

Facoltà di Scienze delle Formazione

Corso di Laurea Magistrale in Scienze delle Valutazione Motorio

Sportiva e Tecniche di Analisi e Progettazione dello Sport per

Disabili

Tesi di Laurea Magistrale in

Teoria, Tecnica e Didattica dello Sport per Disabili

IL KARATE INTEGRATO

Relatore Candidato

Ch.mo Prof. Nicola La Marca

Filippo Gomez Paloma Matr. 4422/200792

Anno accademico 2013-2014

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“Il vero Karate Do è questo:

ciò che nella vita quotidiana allena e sviluppa

la mente nello spirito di umiltà e,

nei momenti critici,

è totalmente devoto alla causa della giustizia.

Lo scopo ultimo del Karate Do

non risiede nella vittoria o nella sconfitta,

ma nella perfezione del carattere dei suoi praticanti

Come la superficie levigata di uno specchio

riflette qualunque cosa le stia intorno senza distorsioni

e una valle silenziosa riecheggia anche i rumori più deboli;

allo stesso modo lo studente di Karate

deve rendere vuota la mente da egoismi e debolezze

La mente è un tutt'uno con cielo e terra

Il ritmo circolatorio del corpo è simile al sole e alla luna

La legge include durezza è morbidezza

Agisci in armonia con tempo e mutamento

Le tecniche si portano quando esiste un apertura

La distanza "MA" richiede di avanzare e arretrare, separare e incontrare

Gli occhi non perdono neppure il più piccolo cambiamento

Le orecchie ascoltano in tutte le direzioni

Ciò che avete imparato ascoltando le parole altrui

lo dimenticherete molto rapidamente;

ciò che avete imparato con tutto il vostro corpo

lo ricorderete per il resto della vostra vita.”

GICHIN FUNAKOSHI

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INDICE

Introduzione

1.IL KARATE

1.1 Cenni storici 6

1.2 La storia di Gichin Funakoshi 8

1.3 Le basi del Karate : il Taiso e il Kihon 12

1.4 I Kata del Karate 14

1.5 Il Kumite 19

1.6 Differenze nell’allenamento del Kata e del Kumite 23

1.7 Il Karate nello sviluppo psico-fisico globale 27

2. LA DISABILITA’

2.1 Storia della disabilità 30

2.2 Caratteristiche peculiari del deficit 32

2.3 Sport e disabilità 37

3. IL KARATE INTEGRATO

3.1 I benefici della pratica del Karate 41

3.2 Il Karate Integrato 43

3.3 L’allenamento, il Kata e il Kumite nel Karate Integrato 45

3.4 Il Ruolo del Maestro nel Karate Integrato 52

Conclusioni 55

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INTRODUZIONE

Da qualsiasi ottica lo si guardi : biologica, medica, pedagogica, psicologica,

sociologica o economica, è indiscusso che lo sport svolga un ruolo essenziale nella

società d’oggi. Il fattore fondamentale che lo contraddistingue da altri tipi di attività

consiste, quindi, in questa sua pluridimensionalità, che va dalla normale ginnastica di

tipo domestico, alla rapida camminata o corsa quotidiana fino ad arrivare all’attività

svolta dai campioni olimpici o dai detentori dei record mondiali.

Ogni tipo di sport promuove un certo tipo di mentalità e di comportamento,

incoraggiando, allo stesso tempo, l’integrazione sociale integrando effetti

psicoregolatori. La ricerca scientifica rivolta allo studio delle attività motorie prese in

ogni singolo aspetto e disciplina, ha permesso lo sviluppo di veri e propri programmi

di allenamento che , da una parte, sono utili ed efficaci allo scopo di prevenire

malattie e salvaguardare il benessere fisico del soggetto, dall’altra ha permesso di

evidenziare l’immenso beneficio che l’attività sportiva crea non solo a livello fisico

ma anche a livello psico-comportamentale. Lo sport può considerarsi un importante

strumento educativo, promuove la piena fruibilità dei valori umani, quali la

progressiva scoperta e realizzazione dell’immagine di sé, la maturazione di una

profonda moralità sociale di percezione e di rapporto con gli altri. Un’attività motoria

o un programma motorio ben definito specialmente in età evolutiva costituisce un

importante fattore di crescita e di maturazione personale, specialmente quando i

processi di sviluppo sono turbati, modificati o alterati da difficoltà o handicap. In

quest’ambito lo sport non è più un semplice mezzo di allenamento, ma diventa una

risorsa essenziale per lo sviluppo senso motorio dello schema corporeo, un modo di

mettersi o rimettersi in gioco nonostante limitazioni o alterazioni psicofisiche.

Negli ultimi anni, si è posta l’attenzione sul ruolo essenziale che le arti marziali

svolgono sia in campo sportivo che in campo educativo e medico-preventivo. In

genere l’approccio alle arti marziali e alle discipline di combattimento nasce spesso

dall’insicurezza dovuta : cause fisiche o psichiche, problemi di aggressività o di

personalità repressa, problemi di mancata capacità di socializzazione o sfiducia in se

stessi. Da questo punto di vista la ricerca scientifica ha potuto appurare che, le arti

marziali, producono miglioramenti psicosociali decisamente migliori rispetto alle

altre attività fisiche. Vi sono casi in cui i risultati forniti da una terapia marziale,

risultino migliori della psicoterapia stessa. Ciò è dovuto principalmente al lavoro,

soddisfacente quanto estenuante, sul corpo e sulla mente. In questo trattato si porrà

l’attenzione su una delle arti marziali più antiche provenienti dal mondo orientale : Il

Karate , noto non solo come arte marziale e da combattimento, ma specialmente negli

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ultimi anni, viene impiegato come attività sportiva avente lo scopo di migliorare la

condizione psico-fisica del soggetto sia normodotato che disabile. Da questo punto di

vista il Karate (cosi come qualsiasi altra arte marziale), diventa un mezzo in più per

migliorare l’equilibrio psichico e fisico del soggetto che lo pratica. Come ogni arte

marziale, il Karate è improntato verso la filosofia marziale del conoscere se stessi, i

propri limiti e come superarli, nel caso delle persone disabili o affette da altri disturbi,

siano essi psichici che fisici, tale arte marziale diventa non solo un’attività sportiva

improntata alla prevenzione e cura del deficit, ma si trasforma in una vera e propria

opportunità, uno strumento con il quale il soggetto disabile può mettersi in gioco,

mostrare il proprio potenziale e la sua capacità di non arrendersi proprio come un

qualsiasi soggetto normodotato. Tramite il Karate il soggetto disabile può migliorare

e migliorarsi, sia dal punto di vista sociale, psicologico, comportamentale e fisico . In

questo trattato verrà messo in evidenza come un allenamento di Karate venga

aggiornato e adeguato a quelle che sono le capacità residuali del soggetto disabile,

vedremo come viene gestito un allenamento di Karate in base al tipo di disabilità e

quali migliorie apporta la pratica del karate su un soggetto disabile o affetto da

handicap particolari. Tale studio, pone in evidenza la storia secolare di un arte

marziale conosciuta a tutto il mondo, che non viene più vista come una disciplina da

combattimento, bensì come un’attività sportiva accessibile a tutti, un arte marziale

che permette a persone affette da handicap o limitate da deficit psico-fisici di

migliorare la loro condizione tramite programmi di allenamento marziale improntati a

migliorare le loro capacità residuali, cercando persino di recuperare quelle capacità

compromesse dalla disabilità stessa. Si metterà in evidenza il Karate, non più visto

come disciplina sportiva fatta di gare, eventi o incontri tra atleti allenati al solo scopo

del successo, ma si parlerà di Karate come opportunità, come vera e propria attività

sportiva dedita a migliorare la capacità psico-fisica del soggetto non solo disabile ma

anche normodotato, il cui scopo è quella di mettere a confronto queste due tipologie

di soggetti, i quali insieme cooperano per il miglioramento delle proprie capacità.

Vedremo come si gestisce un allenamento di Karate ai fini di prevenzione e cura dei

deficit psicofisici, come modificare un allenamento di karate con soggetti disabili, e

come fare a gestire un allenamento con una classe mista di normodotati e disabili.

Quali benefici comporta l’attività marziale al soggetto disabile non solo dal punto di

vista fisico, ma anche sociale e psicologico. Si tratta di uno studio, che pone le basi

sul concetto di Karate visto come arte marziale da una parte, mentre dall’altra si

cercherà di mostrare il Karate come opportunità, un metodo che permetta al soggetto

disabile di migliorarsi non solo dal punto di vista fisico, ma soprattutto dl punto di

vista psichico, combattendo le sue paure, mettendosi in mostra, cercando di

raggiungere livelli sempre più alti di comprensione di tecniche sempre più articolate e

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complesse. Vedremo come il Karate andrà a migliorare la vita del disabile dal punto

di vista sociologico, permettendogli di entrare a contatto con i soggetti normodotati,

sulla base del confronto marziale, ciò li permetterà quindi di relazionarsi con altri

soggetti, confrontarsi e entrare in contatti con altre persone diverse da lui ottenendo

quindi una spinta in più al processo di relazione e rapporto con persone che

appartengono a un mondo diverso rispetto a quello della sua famiglia.

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1. IL KARATE

1.1 CENNI STORICI

Secondo i dati e le testimonianze raccolte , il Karate nasce nell’isola di Okinawa,

una delle più grandi isole del Giappone. Si ritiene che i primi abitanti di Okinawa

non provenissero soltanto dalla Cina ma anche dalle isole settentrionali del

Giappone e dell’Asia Meridionale. Nel periodo in cui le arti marziali

cominciavano a svilupparsi, il popolo di Okinawa viveva in modo semplice,

sostenuto da semplici forme di agricoltura e pesca. Tuttavia le continue invasioni

militari in Giappone, costrinsero il popolo ad organizzarsi in piccoli gruppi

organizzati. Si crearono i primi tre regni rivali e Okinawa si ritrovò disunita. Più

tardi il più grande di questi regni iniziò ad avere delle relazioni commerciali con la

Cina, in seguito quando Okinawa fu unita sotto un unico regno e nacque la prima

dinastia Sho, si creò una fitta rete di vie commerciali che si estese non solo fino

alla Cina ma comprese anche la Thailandia, Indocina, Filippine, Malesia e Borneo.

Questa fitta rete di scambi commerciali, permise al popolo di Okinawa di scoprire

nuove culture. I nobili giapponesi di quel tempo, poterono studiare e apprendere

l’arte e le scienze cinesi e di altri popoli, avendo modo di approfondire la cultura

millenaria delle arti marziali cinesi e di altri popoli.

Un evento di fondamentale rilevanza nello sviluppo del Karate, fu la caduta della

dinastia Sho nel 1470, ciò creò un periodo di turbolenza politica e amministrativa

del Giappone, che fini nel 1477 con l’avvento di una nuova dinastia sempre nota

col nome Sho. In questo periodo, il nuovo monarca Sho Shin, per affrontare i

rivali, che miravano al controllo del Giappone, introdusse una norma che bandiva

l’uso , il trasporto e il commercio di armi da parte di chiunque senza distinzione

tra nobile e contadino. Furono sequestrate tutte le armi del paese e custodite nel

castello del monarca stesso.

Secondo gli studiosi, fu proprio questo evento che portò la nascita del TE ossia

l’arte marziale della mano, in cui il corpo si allena per trasformarsi in qualsiasi

arma per l’autodifesa. Il Karate-do cosi come lo conosciamo oggi, è un prodotto di

sintesi tra l’antica arte del TE del diciottesimo secolo originaria di Okinawa, e le

antiche arti cinesi provenienti dal tempio Shaolin con altri stili praticati nel sud

della Cina e altri paesi come Thailandia o Corea.

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L’arte originaria del TE quindi risale a circa 1000 anni fa, nel periodo in cui i

territori non erano ancora unificati e la coscienza di una forma di autodifesa

divenne necessaria. Si tratta forma di autodifesa progenitrice della forma di difesa

personale sviluppatasi tra quindicesimo e sedicesimo secolo, quando gli isolani

iniziarono gli scambi commerciali e incontrarono altre forme di combattimento

nel Sud dell’ Asia che finirono con l’influenzare l’arte locale del TE. Tutt’ora

molte tecniche di Karate appartengono ad antiche forme di combattimento,

tuttavia lo stile di Okinawa è unico in quanto tutto ciò che provenisse da altre parti

del mondo veniva ritrasformato e adattato ai principi di combattimento di

Okinawa.

Quando l’imperatore Sho Rin disarmò l’intera isola di Okinawa, si svilupparono

diversi tipi di arti marziali. Da una parte vi erano i nobili che unendosi impararono

a sviluppare il combattimento a mano nuda (TE), dall’altra vi erano i contadini ed

i pescatori che iniziarono a sviluppare un’arte marziale che usava armi provenienti

dal mondo del lavoro come falci, falcetti, bastoni per la mietitura ecc.

Ben presto a Okinawa si vennero a creare tre stili differenti in 3 centri urbani

vicino la capitale. Tali tre stili prendevano il nome di : Shuri Te praticata dai

samurai della corte imperiale che abbracciava lo stile e la filosofia Shaolin, mentre

nella vicina Shuri la gente sviluppò diversi tipo di Te, come il Naha Te fatta di

tecniche morbide e taoiste che comprendevano la respirazione e il controllo del

Ki, il Tomari Te che deriva da una fusione tra queste due correnti.

Alla fine del diciannovesimo secolo questi stili cambiarono, l’arte Shuri e Tomari

si fusero andando a creare lo Shorin-Ryu (scuola del pino flessuoso). Il Naha-te si

trasformo in Goju-Ryu (scuola dura e morbida). Nel 1935, infine, un comitato

formato da maestri di stili diversi si riunì, al fine, di decidere un nome da dare alla

loro Arte . Cosi nacque il termine Karate-Do ossia “via della mano vuota” o “arte

della difesa senza armi”. Nel Karate originale il numero di tecniche è

incredibilmente vasto,il repertorio di colpi, si avvale di tutte le tecniche di pugno

del pugilato , più altre ancora, frutta proiezioni e strangolamenti provenienti dal

judo, adopera il sistema di leve provenienti dall’Aikido, non disdegna alcun tipo

di percossa e trasforma ogni parte del corpo in un’arma potenziale. Oggi molte

scuole di Karate sia europee che internazionali, hanno perso gran parte di quel

baglio di tecniche tramandate dalla cultura giapponese. Molti maestri spinti dal

desiderio della competizione, ritengono che basti la conoscenza di un paio di

tecniche fondamentali per conoscere bene il Karate, tutto ciò ha causato un lento,

quanto degradante percorso di commercializzazione del Karate, che lo ha

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lentamente limitato di gran parte delle sue tecniche più antiche che lo hanno reso

un arte marziale commercializzata. In questo modo, da una parte si è cercato di

rendere il Karate meno cruento e, quindi, più accessibile in modo da favorire

l’adesione di un gran numero di allievi, dall’altra parte questo processo di

limitazione ha allontanato il Karate da quell’arte originaria del passato nata come

strumento di difesa assoluta, intrisa di tecniche, a volte mortali, che l’hanno resa

famosa in tutto il mondo.

1.2 LA STORIA DI GICHIN FUNAKOSHI

Gichin Funakoshi comincia a praticare il Karate a 12 anni sotto la direzione di Anko

Asato uno dei più brillanti allievi di Sokon Matsumura, per tutta la vita egli rimarrà

legato agli insegnamenti del suo maestro, l’allenamento si svolgeva di notte

all’aperto. In seguito con l’inizio della sua carriera nell’insegnamento scolastico,

Gichin Funakoschi conosce Anko Itosu, anch’egli allievo di Matsumura quindi

anch’egli un grande maestro, ma a differenza di Asato, Itosu si soffermava sui

problemi dell’educazione nel sistema scolastico ancora in via d’elaborazione e su

come introdurre il karate all’interno di tale sistema. Cosi Funakoschi diventerà ben

presto il discepolo di questi due maestri.

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Nel 1921 la corte imperiale si ferma a Okinawa, e in tale occasione G. Funakoschi è

incaricato di dirigere una dimostrazione di karate fatta dagli scolari. Un anno dopo

tale avvenimento Funakoschi viene mandato a Kyoto a presentare il Karate

nell’esposizione nazionale dell’educazione fisica.

In seguito J. Kano, il fondatore del judo, il quale ricopre importanti funzioni al

ministero dell’educazione, lo invita a tenere una presentazione del karate nel suo dojo

Kodokan a Tokyo. Cosi comincia la storia di Funakoshi a Tokyo il quale abbandonò

famiglia e lavoro, per trasferirsi nella capitale per lavorare come maestro di karate.

Nel 1935 Funakoshi scrive la sua opera più importante, intitolata Karate-do Kyohan.

Il primo dojo di karate viene costruito dai suoi allievi, Funakoshi chiama questo dojo

Shotokan (casa del fruscio della pineta). A sette anni dalla sua costruzione, nel 1945

il dojo Shotokan viene distrutto dai bombardamenti, al termine della guerra

Funakoshi lascia Tokyo a 77 anni per raggiungere la moglie a Oita. Nel 1947 la

moglie di Funakoshi muore, intanto gli studenti hanno ripreso l’allenamento, cosi

Funakoshi ritorna a Tokyo e fonda, nel 1949, la Japan Karate Association (J.K.A.).

Tuttavia, agli inizi degli anni 50 nasceranno alcune divergenze tra studenti

riguardanti i modi di praticare e insegnare Karate e anche sull’organizzazione della

scuola . Funakoshi muore nel 1957 all’età 89 anni. Grazie alle testimonianze riportate

dai suoi allievi e ai testi scritti e pubblicati da Funakoshi stesso, possiamo dire che

egli fu l’autore dei principi del Karate. Nel suo libro “Karate - do Kyohan”, introduce

quelli che noi oggi conosciamo come i venti precetti del Karate stesso :

Il Karate comincia e finisce con il saluto

Il Karate non è mezzo di offesa o danno

Il Karate è rettitudine, riconoscenza

Il Karate è capire se stessi per capire poi gli altri

Nel Karate lo spirito viene prima dell'azione

Il Karate è lealtà e spontaneità

Il Karate insegna che le avversità colpiscono quando c'è rinuncia

Il Karate non si pratica solo nel dojo

Il Karate è regola per tutta la vita

Lo spirito del Karate deve animare tutte le azioni

Il Karate va tenuto vivo con il fuoco dell'anima

Il Karate non è vincere, ma l'idea di non perdere

Lo spirito si adegua agli avversari

Concentrazione e rilassamento devono essere usati al momento giusto

Usare mani e piedi come spade

Pensare che tutto il mondo può esserti nemico

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Il praticante mantiene sempre la posizione di guardia; la posizione naturale è

solo per i livelli elevati

Il Kata è perfezione della forma: l'applicazione è un'altra cosa

Come l'arco, il praticante deve usare contrazione, espansione, velocità ed

analogamente in armonia, rilassamento, concentrazione, lentezza

Lo spirito deve sempre tendere al livello più alto

Si tratta di una serie di principi, i quali sono punti fondamentali che un Karateka

deve seguire, non solo durante l’allenamento ma anche durante l’arco della sua

vita. Una serie di punti fondamentali che ispirano e influenzano la vita dentro e

fuori dal dojo e che fanno del karate una discipline marziali basate non solo sul

concetto di miglioramento e allenamento del corpo ma anche dello spirito.

Oggi il Karate Shotokan è una delle discipline marziali più praticate nel mondo, i sui

Kata le sue tecniche di Kumite vengono tramandate da generazioni, ed è lo stile che

più si avvicina al Karate originario introdotto da Matsumura. In Giappone esistono

varie scuole di Karate , le più famose sono:

Shito Ryu fondato da Kenwa Mabuni, tale stile è la combinazione di vari stili

di karate, usa movimenti circolari e alterna tecniche dure e morbide ponendo

attenzione sulla respirazione. Si tratta di uno stile estremamente veloce, ma

che allo stesso tempo risulta essere artistico e potente.

Goju Ryu fondato da Chojun Miyagi, si tratta di uno stile che combina

insieme tecniche dure e molli, in esso vi sono presenti tecniche a mano chiusa

con attacchi lineari e dritti, alternati ad altrettante tecniche a mano aperta e

movimenti circolari. In esso sono presenti tecniche e metodiche che portano

alla fortificazione e al condizionamento del corpo.

Shotokan Ryu, fondato da Gichin Funakoshi, si tratta di uno degli stili più

moderni del Giappone. Si tratta di uno stile che divide l’allenamento in tre

parti. Il kihon ossia le tecniche fondamentali, il Kata che sono forme e

sequenze di movimenti e il Kumite ossia il combattimento vero e proprio. Le

tecniche eseguite nel Kata e nel Kihon sono caratterizzate da posizioni lunghe

e profonde che consentono stabilità, permettono movimenti forti e rinforzano

le gambe. Le tecniche di Kumite rispecchiano tali posizioni e movimenti ma

con maggiore esperienza diventano più flessibili e fluide

Wado Ryu fondato da Hironori Otsuka,al contrario dagli altri stili che si sono

sviluppati a Okinawa, tale stile è originario del Giappone, le caratteristiche di

questo stile si basano su posizioni molto alte con una distanza di

combattimento medio-corta. Tale stile pone l’accento sulla mobilità, sulla

velocità e soprattutto alla fluidità delle tecniche. In esso vi è uno studio

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approfondito sull’utilizzo di tecniche di proiezioni, leve articolari,

immobilizzazioni o strangolamenti che si accompangnano all’uso di tecniche

di percussione derivati dal Karate originario il cui scopo fondamentale è

quello di causare un trauma a zone sensibili del corpo umano per neutralizzare

l’avversario in modo più rapido possibile.Uno stile che al classico “attacco-

parata-contrattacco”, sostituisce un più efficace “attacco-contrattacco”

rifiutando il contrasto e prediligendo l’evasione o la schivata. Ogni tecnica del

Wado Ryu pone l’accento sul principio di flessibilità con l’adozione del

principio di circolarità dell’Aikido. Il tutto basato su un attanto controllo della

respirazione e della muscolatura mediante la contrazione al momento

dell’impatto per tornare a una rapida decontrazione

Kyokushinkai fondato da Masutatsu Oyama, si tratta di uno stile a contatto

pieno o “Full Contact Karate”, improntato su una severa disciplina e un

allenamento estremamente rigoroso. Il sistema di allenamento è quello tipico

dello Shotokan e del Goju Ryu, ma incorpora anche precetti di allenamento

tipici della Boxe o della Kickboxe. In questo stile, quindi, si pone piena enfasi

sul combattimento a contatto pieno attuato a mani nude senza protezione, il

tutto si basa su una filosofia ispirata al concetto di circolo, comincia in un

punto e termina in un cerchio.

Ognuno di questi stili si presenta come Karate, tuttavia si differenziano tra loro su

alcuni particolari rilevanti ad esempio : lo Shito Ryu utilizza un gran numero di Kata

e pone l’enfasi sulla potenza nell’esecuzione delle tecniche, il Goju Ryu da

importanza alla combinazione di parate circolari morbide seguite da forti e veloci

tecniche di contrattacco,il Wado Ryu combina movimenti di base del jujitsu con

tecniche di evasione dando enfasi alla fluidità e alla disciplina dell’armonia spirituale,

lo Shotokan è caratterizzato da potenti tecniche lineari e posizioni solide nel Kata

mentre nel Kumite predilige una certa armonia, morbidezza e velocità di esecuzione

in parate e contrattacco, cosi come il Kyokushinkai (Oyama era allievo di

Funakoshi). Tuttavia ognuno di questi stili si basa su due pratiche fondamentali del

Karate : il Kata e il Kumite.

Si tratta di due pratiche, che fanno parte della stessa disciplina. Tramite il Kata

l’allievo impara il concetto di posizione, comincia ad apprendere ciò che sono le

tecniche e le combinazioni fondamentali nel Karate, comincia a capire come attuare

la respirazione e il concetto di concentrazione e contrazione del corpo, in modo da

ottenere movimenti fluidi, ben saldi con tecniche potenti e veloci, morbide e fluide.

Nel Kumite, invece, l’allievo si avvicina al concetto di artista marziale devoto al

combattimento, in questa fase si presuppone che il soggetto abbia acquisito un

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bagaglio di tecniche, sia di difesa che d’attacco, tale da permettergli di affrontare un

combattimento contro altri allievi. Tramite il Kumite l’allievo cerca di superare le sue

paure, impara a misurarsi con altre persone, a capire quali sono i suoi limiti e come

superarli, e avvia quel processo di autocritica che gli permette di capire quali sono i

punti in cui deve migliorare.

Kata e Kumite quindi sono due facce della stessa medaglia, tramite queste due

pratiche l’allievo si avvicina al mondo del Karate, avviando quel processo di

conoscenza di una disciplina millenaria che ancora oggi, affascina molte persone.

1.3 LE BASI DEL KARATE : IL TAISO E IL KIHON

La parola Kihon, potremmo tradurla in itasliano con le parole “basilare” o

“rudimenti”. In effetti si tratta di un termine giapponese, divisa in due sezione, Ki il

quale sta a significare fondamenta, e Hon che significa base. La parola nella sua

interezza ha il significato di porre delle solide fondamenta, delle profonde radici per

poter costruire qualche cosa di duraturo. Nella cultura giapponese, viene data molta

importanza alla preparazione, prima di mettere mano a qualunque progetto ed è

importante essere padroni delle basi di qualunque disciplina, prima di progredire in

essa.

Nel Karate, come in qualsiasi altra disciplina, senza la perfetta e impeccabile

padronanza degli esercizi di base, non è possibile progredire e raggiungere notevoli

livelli di pratica. Le basi del Karate, i primi esercizi insegnati all’allievo, portano a

imparare il corretto uso del proprio corpo, sia esso in movimento statico, che in

quello dinamico. Sotto questo profilo, il Kihon è la forma di allenamento di base, di

parata e di attacco, su cui si basa il Karate. Nella pratica del Kihon si impara a

migliorare la propria rsistenza, a ottenere una maggiore rapidità nell’esecuzione, aiut

anche a rafforzare lo spirito combattiv e l’allievo apprande come gestire le armi del

proprio corpo.

Agli inizi del secolo, i primi maestri di Okinawa praticavano e insegnavano pochi

Kata che conoscevano alla perfezione, in effetti lo stesso Kata poteva essere ripetuto

per lunghissimi periodi, prima di progredire al Kata successivo. L’allenamento di

Karate in quel periodo si svolgeva essenzialmente su due basi : il Taiso e il Kihon. Il

primo è un tipo di allenamento strettamente associato alla preparazione atletica di chi

tutt’ora pratica arti marziali. Il Taiso nel Karate viene utilizzato in modo più generico

per indicare un particolare tipo di ginnastica, svincolata dalla pratica maziale, tale

connotazione si riferisce al fatto che, a causa dell’incredibile quantità di tecniche che

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comprende, il Taiso risulta una pratica estremamente variabile, in grado di adattarsi

alla preparazione dell’atleta agonista, cosi come alla riabilitazione muscolo-

articolare. Ogni singolo movimento del Taiso non esiste se non è accompagnato dalla

giusta dose di respirazione, attraverso l’emissione e l’immissione continua di aria,

mette in moto il Ki ossia l’energia vitale. Nella sua versione dolce il Taiso, si

presenta come un insieme di esercizi volti a riportare e mantenere in equilibrio il

livello energetico dell’organismo, attraverso tecniche di auto massaggio, di

allungamento del sistema muscolo-tendineo e di sblocco delle articolazioni,

accompagnate da una corretta respirazione e un intenso e costante ascolto del proprio

sé interiore. Nella versione forte, invece, permette al praticante di potenziare i

muscolo, allungare e allo stesso tempo rafforzare i tendini, aumentare la capacità

polmonare, migliorare l’efficienza del sistema cardiovascolare e sviluppare la

concentrazione.

La pratica del Kihon, comincia subito dopo il Taiso, ogni singola tecnica

fondamentale del Kihon, veniva studiata interamente nella sua essenza. Si tratta di

dare origine a uno studio primario della gestualità, in modo da aiutare i praticanti ad

apprendere in modo automatizzato ciò che inizialmente è razionalizzato. Strutturare

un gesto tecnico, permettendone l’esecuzione in modo spontaneo e naturale attraverso

l’apprendimento induttivo e deduttivo, è compito specifico del Kihon.

Un elemento fondamentale nel Kihon è il Kime. Nella pratica del Karate, il Kime,

può essere definito come la focalizzazione della massima potenza esplosiva del colpo

in un punto stabilito. Lo studio e la corretta comprensione di ogni singola tecnica di

Karate impressa ed eseguita nel Kihon, ad opera dell’allievo, dovrà trovare un suo

naturale coronamento nel Kime, conferendo ad ogni attacco e ad ogni parate la

massima incisività, potenza e pulizia. Nessun praticante di Karate può aspirare a

progredire verso gradi superiori della disciplina se non è in grado di applicare un

buon Kime durante l’esecuzione delle tecniche. Lo stesso principio si applica, a

maggior ragione, nelle manifestazioni agonistiche, nelle quali uno degli elementi

fondamentali di valutazione dell’atleta, è proprio l’esplosione del Kime nella tecnica

finale.

A livello agonistico, la pratica del Kihon risulta particolarmente importante al fine del

perfezionamento tecnico di ogni singolo gesto. Le continue e infinite ripetizioni di

combinazioni di attacco e parata, calci e pugni, non devono solo produrre un

coinvolgimento emotivo, ma devono portare l’atleta una consapevolezza del proprio

grado di abilità, tramite la ripetizione costante delle tecniche nel Kihon, l’atleta

impara ad attuare una sorta di valutazione del proprio bagaglio tecnico, comincia a

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capire quali movimenti deve effettuare per ottenere una tecnica perfetta, quale base

migliorare affinchè il suo colpo sia impeccabile, come posizionarsi in modo da

ottenere una base più salda e attuare un rapido spostamento. Tramite il Kihon l’allivo,

attua quella sorta di autocritica, fondamentale nell’arte marziale, in quanto

rappresenta il primo passo verso la perfezione dell’atleta, e un passo in più verso la

Via del Maestro di Karate.

1.4 I KATA NEL KARATE

La parola Kata nella lingua giapponese, assumeva il significato di simbolo per

enfatizzarne il contenuto spirituale, in seguito assunse un significato più semplice di

“forma”. Un kata è un succedersi di tecniche di parate a attacco prestabilite contro più

avversari immaginari e forme. Nell’esecuzione dell’esercizio, riveste grande

importanza la qualità delle singole tecniche, delle posizioni e degli spostamenti.

Ma non ci si dee fermare solo sull’aspetto estetico, il kata infatti è un vero e proprio

combattimento, seppur codificato, quindi deve sprimere efficacia, sia dal punto di

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vista tecnico che strategico. Per i praticanti di Karate, esso esprime l’essenza stessa

dell’arte marziale, perché racchiude in sé sia lo studio delle tecniche fondamentali,

ossia i Kihon, che il ritmo e la tattica di combattimento, il kumite. Quindi tale pratica

risulta importante nel Karate in quanto pratica di insegnamento e avvicinamento

all’apprendimento del Karate stesso. Dal punto di vista tecnico si può dire che

studiare i Kata, è l’equivalente di studiare il Karate nella sua completezza senza

quelle limitazioni imposte dal Karate agonistico, le caratteristiche di ogni singolo

stile possono essere comprese appieno soltanto dopo lo studio dei Kata propri dello

stile steso.

Non si deve commettere l’errore di interpretare ciò che si è detto, nel senso che uno

stile è completo quanto più elevato è il numero dei Kata che in esso si praticano. Ciò

che conta non e il numero dei Kata presenti in uno stile, ma ciò che conta è che in tali

Kata siano rappresentati gli elementi distintivi e caratterizzanti dello stile stesso.

L’esercizio dei Kata si pratica, infatti, in tutte le discipline di arti marziali che

abbiano come scopo la ricerca della Via o del Do, si prenda, ad esempio, il judo,

l’aikido, il taekwondo e tanti altri. In tutte queste discipline ci si propone di fondere,

attraverso la respirazione, le componenti fisica e mentale eseguendo una

predeterminata sequenza di gesti per raggiungere una più elevata condizione

spirituale. Ogni Kata è composto da una serie di movimenti che costituiscono la

caratteristica evidente, ma presenta altri elementi che sfuggono alla comprensione più

immediata, i maestri che li hanno creati hanno spesso mascherato il significato di

alcuni passaggi per evitare che altri se ne impadronissero. Molti Kata infatti vennero

mimetizzati sottoforma di danze innocue, specialmente nel periodo in cui vigeva la

proibizione di praticare qualsiasi tipo di arte marziale.

Vi sono vari punti che caratterizzano l’esecuzione di un Kata nel Karate, ad esempio :

ogni Kata inizia e finisce col saluto, tale inchino testimonia un mutato atteggiamento

mentale dell’esecutore, che da quel momento esprime tutta la sua forza interiore. Tale

stato di massima concentrazione, si evidenzia soprattutto nel momento del saluto e

nel Kiai ossia il grido che accompagna i momenti più importanti di un Kata. Tramite

il Kiai l’individuo esprime tutta la sua energia vitale, che viene manifestata in ogni

singolo tratto del Kata stesso. Ogni tecnica deve essere sostenuta da un corretto uso

della respirazione e della contrazione addominale che, in due particolari momenti

esplodono poi col kiai. Dimenticare il grido, o eseguirlo fuori tempo, è indice di

emotività incontrollata, significa che l’allievo ancora non ha la massima padronanza

delle sue emozioni, e ciò rappresenta un erro nelle arti maziali.

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I kata si sviluppano su di un tracciato determinato, se spostamenti e cambi di

direzione vengono eseguiti correttamente, il punto di arrivo del Kata, corrisponde

perfettamente a quello di partenza. Ogni karateka deve individuare un “Tukui Kata”,

ossia una forma preferita, scelto in funzione dell’abbiettivo da raggiungere, che si

tratti di gara, esame o miglioramento tecnico. Tale forma, quindi, deve cambiare nel

tempo per le diverse fasi di evoluzione del praticante.

Si tratta di una sequenza prestabilite di tecniche composte da gesti formalizzati e

codificati che simulano un combattimento contro avversari immaginari. Una sorta di

danza da combattimento basata su tecniche di braccia e di gambe accompagnate da

una giusta respirazione e capacità di equilibrio mentale e fisico.

Ogni Kata,quindi, è composto da una serie di combinazioni di blocchi, parate, pugni,

calci effettuati con spostamenti in tutte le direzioni, i quali, vengono ripetuti e variati

in modo da allenare e associare i vari i differenti gruppi muscolari del nostro corpo

alle differenti tecniche, migliorando le capacità coordinative, la velocità ed il ritmo

di esecuzione.

Il Karate tradizionale prevede una trentina di Kata, ai quali vengono ad aggiungersi le

varianti in base agli stili. Ognuno degli stili appartenenti al Karate presenta un

numero svariato di Kata, ad esempio : nel Wado Ryu vi sono i Kata di base per

cinture inferiori e i kata superiori praticati da cinture nere e maestri, nello Shotokan vi

sono un numero imprecisato di Kata sia di base che superiori che porta a dividerli

nelle sottocategorie di Kata Shorin (agili e veloci), e Shorei (potenti con posizioni

stabili). Lo Shito Ryu, come lo Shotokan, presenta anch’esso molti Kata ma la

maggior parte sono tutti Kata superiori, mentre il Goju Ryu suddivide i Kata in quelli

di base, intermedi e, infine, superiori.

L’importanza di tale sequenza di movimenti, è dovuta al fatto che, tali Kata sono la

testimonianza pratica tramandata dai maestri che per secoli si sono susseguiti alla

guida del Karate, ogni Kata è l’eredità delle conoscenze acquisite da antichi maestri.

Ogni Kata può essere eseguito in base a vari criteri : Omote (sequenza con una

normale direzione), Ura (direzione opposta a Omote), Ko-No Omote (sequenza

normale ma se il Kata avanza, si indietreggia e viceversa), Ko-ni Ura (direzione

opposta a Ko-no Omote).

Ma la vera essenza del Kata non consiste nei gesti in sé, ma nel modo in cui lo spirito

li rende precisi, ineluttabili. Secondo il maestro Zen Deshimaru “ bisogna saper

creare un gesto totale dove, in un istante, si ritrovi tutto il Ki (forza spirituale). Vivere

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il vero spirito del gesto: il Kata, attraverso l'allenamento, deve fondersi con lo spirito.

Più lo spirito sarà forte, più sarà forte il Kata."

Da questo punto di vista, ogni Kata è che l’esternazione codificata di un

combattimento immaginario tra più avversari, dove le situazioni possono variare e di

volta in volta richiederanno tecniche di attacco e difesa diverse, in risposta ai

movimenti degli avversari.

Non essendo creati da un unico maestro, ogni Kata proviene dall’esperienza

accumulata da molte generazioni, a ogni tecnica gli allievi possono dare

un’interpretazione personale, ogni Karateka, quindi, individua in maniera personale il

significato dei gesti che compie in base all’esperienza raggiunta. Pertanto non

esistono delle interpretazioni sicure ogni Karateka di un certo livello interpreta il

Kata alla luce della propria esperienza.

Un altro aspetto fondamentale dei Kata è la loro applicazione pratica in un

combattimento “simulato”. Nel Karate tale pratica viene chiamata Bunkai, il quale

altro non è che la rappresentazione pratica del Kata fatta con due o più avversari. A

ogni Kata corrisponde un Bunkai correlato il quale viene anch’esso personalizzato in

base all’interpretazione che il maestro o l’allievo fa del Kata stesso.

Il termine Bunkai, è un termine giapponese utilizzato per indicare la spiegazione

testuale e palese di un gesto simbolico contenuto in un esercizio formale qual è,

appunto, il Kata. Ogni Bunkai, di solito, viene eseguito nel dojo con un partner o un

gruppo di partner, che danno dimostrazione del significato delle tecniche eseguite in

un Kata, oppure mettono in patic un attacco predefinito cui occorre rispondere con un

determinato Kata.

In questo modo, l’allievo, comprende i vari movimenti sui quali si compone il Kata,

migliorando la propria capacità tecnica, imperando a valutare i tempi di reazione e il

ritmo predefinito di attacco e contrattacco, impara ad aggiustare le distanze e adattare

la tecnica alle dimensioni e alle tipologie divers di avversario che si troverà ad

affrontare.

Nel Bunkai, si presuppone che a ogni tecnica del Kata corrisponda una precisa

decodificazione in termine di difesa da un attacco, al quale segue una tecnica di

contrattacco. Ogni Bunkai associato al Kata si fonda su queste combinazioni di difesa

e contrattacco che permettono all’allievo di capire il perche di quelle tecniche a

vuoto, e come applicarle in un combattimento simulato. In pratica il bunkai

rappresenta una ulteriore via di conoscenza e avvicinamento al mondo del Karate,

una vera e propria forma di rappresentazione del Kata, il quale viene letto e codificato

sottoforma di combattimento simulato, in modo tale da poter capire cosa si cela dietro

tutto quel susseguirsi di tecniche di Kihon, e interpretare in maniera perfetta il

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momento cruciale del Kata ossia l’esplosione del Kime finale corrispondente alla

focalizzazione della massima potenza esplosiva del colpo in un punto stabilito.

Oggi il Kata e il suo Bunkai, vengono utilizzati non solo per eventi di grande

importanza come gare nazionali o mondiali, ma ogni Kata viene studiato, applicato e

memorizzato dall’allievo, in modo tale da poter comprendere il livello di “maturità

marziale” raggiunto.

Ogni Karateka sa, che esistono delle gerarchie nel Karate, tali gerarchie vengono

impresse nel colore della cintura che il Karateka possiede. A ogni cintura corrisponde

un certo livello di maturazione. Ogni anno, o quando il Maestro stesso lo ritiene

opportuno, l’allievo viene chiamato a svolgere una prova. Si tratta di un vero e

proprio esame in cui l’allievo mostra, al proprio maestro, ai compagni o a una

commissione d’esame composta da maestri di un certo grado, il proprio livello

raggiunto. Si tratta di un esame che prevede l’esecuzione del Kata standard,

necessario per raggiungere il prossimo livello, il Kihon ossia l’esecuzione di una serie

di tecniche di difesa e attacco richieste dal maestro o dalla commissione stessa, e

infine il Kumite, ossia il combattimento, dove l’allievo può mostrare quale livello, di

maturazione marziale, ha raggiunto. A ogni grado o cintura corrisponde un Kata, un

Kihon e un Kumite determinato, ognuno di questi Kata varia di tecniche e soprattutto

di difficoltà nell’esecuzione man mano che l’allievo avanza di cintura.

In ordine Gerarchico a ogni cintura corrisponde un Kata diverso, nel libro “Ryukyu

Karate Kenpo”, Funakoshi afferma che i Kata possono essere di due tipi :

Shorin riferito a Kata veloci e dinamici . Funakoshi stesso afferma che i primi

cinque Heian, ossia i Kata utilizzati dalle cinture inferiori

(bianca,gialla,arancione, verde e blu) sono Shorin e quindi utilizzati

dall’allievo nei primi anni del suo apprendimento.

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Shorei fa riferimento a Kata eseguiti con lentezza e potenza. Sono Kata che

mettono in risalto quello che Funakoshi chiama Zanshi ossia condizione

mentale, si tratta di una serie di tecniche apportate in mniera potente e veloce

dove i piedi e la posizione del corpo rimane ben salda a terra in perfetto

equilibrio con l’esecuzione delle tecniche. Ninjushiho o Sochin sono un

esempio di questi Kata dove si alternano colpi e spostamenti lenti ad altrettanti

spostamenti veloci e potenti.

Ancora oggi l’esecuzione di un Kata, Shorin o Shorei, viene tramandata di dojo in

dojo: lo stato di concentrazione tipico di chi si sente attaccato, il susseguirsi di

tecniche di attacco e difesa, il grado di forza da utilizzare in ogni momento del Kata,

il grado di velocità con cui eseguire una ecnica, la concentrazione e l’espansione dei

muscoli del corpo, la respirazione in sintonia con i movimenti, il significato che deve

avere ogni tecnica e l’immediata visualizzazione mentale dell’avversario, il Kiai,

ossia l’urlo causato dalla contrazione della parete addominale che va a migliorare la

respirazione in un momento di particolare necessità di potenza nel Kata, la corretta

posizione da eseguire in ogni movimento, il rispetto delle posizioni,lo stato mentale

di allerta e di guardia da tenersi fino alla fine del kata, e infine il Bunkai fatto in

gruppo con altri allievi, sono tutti elementi essenziali che permettono di capire quali

siano le basi del Karate stesso. Agli occhi di un karateka il Kata cerca di mostrare la

vera essenza del Karate, ossia non si tratta di una semplice arte marziale bensì di un

insieme di tecniche combinate che ci sono state tramandate in eredità dai più grandi

maestri del passato.

1.5 IL KUMITE

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Come i Kata, una delle altre componenti fondamentali del Karate è il Kumite, e

consiste nell’allenamento con un avversario. Infatti mentre le tecniche di Kihon, e

l’esecuzione del Kata avvengono singolarmente, il Kumite avviene in coppia o con

più avversari. Il termine giapponese Kumite, viene tradotto con la parola

“Combattimento”, anche se, volendo essere più specifici, tal termine è l’unione di due

termini : Kumi che vuol dire “mettere insieme”, e la sillaba Te che significa “mano”.

Letteralmente si intende quindi l’incontrarsi con le mani, ossia, nel confronto reale.

Lo scopo vero del combattimento tipico della Boxe o della KickBoxe, è quello di

abbattere l’avversario, quello del Kumite tipico delle discipline orientaliè la crescita

reciproca dei praticanti.

Ogni Kumite presuppone due fasi ben distinte : l’apprendimento delle tecniche dal

punto di vista formale e la loro applicazione. In questo contesto, riveste particolare

importanza la forma, ossia il Kata, in funzione del combattimento, in quanto sia il

Kata e il Kihon racchiudono le basi del Karate stesso. La ilosofia del Karate si basa,

in sostanza, sul migliorarsi reciprocamente e continuamente, in modo tale da ricercare

la massima padronanza tecnica e mentale, cosi da raggiungere uno stabile equilibrio

interiore, stabilità e consapevolezza.

Per allenare il combattimento, nel Karate, esistono vari tipi di Kumite fondamentale :

Gohon Kumite ossia il combattimento a cinque passi, e il Sanbon Kumite che

conta solo tre passi. Sono le prime forme di combattimento a cui viene

avvicinato l’atleta, hanno lo scopo di far assimilare l’aspetto pratico e formale

delle tecniche, di perfezionare, calci, pugni e parate che vanno collegati agli

spostamenti propri e a quelli dell’avversario. La distanza e la precisione sono

gli aspetti che maggiormente vengono evidenziati ed appresi in tale fase. In

questa fase viene utilizzto il termine “Maai”, per evidenziare la distanza da

mantenere nei confronti dell’avversario non solo in termini spaziali, ma anche

temporali. Riguarda il ritmo, un intervallo tra due fasi temporali, un

movimento di avvicinamento ed allontanamento variabile ai fini dell’attacco e

della difesa. Tale forma di distanza, non va misurata, ma intuita tramite un

buon atteggiamento mentale, con la percezione istintiva della spazialità delle

tecniche, basta pensare che un errore di distanza nel combattimento caua

l’immediato attacco d parte dell’avversario e la perdita dell’inconro come

conseguenza.

Kihon Ippon Kumite ossia combattimento a un solo passo. Si tratta della forma

più essenziale del combattimento, i due atleti posti ad una distanza

corrispondente all’estensione del del loro braccio, prestabiliscono l’area verso

il quale indirizzeranno l’attacco : viso, tronco o bacino. Quindi

alternativamente e senza fine, attaccano e parano. La relativa facilità strategica

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e coordinativa del combattimento a un solo passo, ha lo scopo di fare emergere

la massima intenzione durante l’attacco e di annullare il tempo intercorrente tra

la parata e il contrattacco.

Jiyu Ippon Kumite, corrisponde al combattimento semilibero. Esso è lo stadio

preliminare al combattimento libero. I contendenti si pongono in guardia a

distanza libera, l’attaccante dichiara l’area su cui porterà la tecnica, il difensore

esegue una parata libera e contrattacca. Questo tipo di allenamento è

finalizzato allo studio dell’applicazione in campo reale delle tecniche del

Karate. Chi attacca deve sapere sfruttare ogni singola apertura che l’avversario

gli offre, utilizzando finte e spostamenti liberi, ed entrambi i praticanti devono

acquisire abilità nella respirazione quanto nella distanza e nel giusto tempo di

azione e reazione, parata e contrattacco.

Jiyu Kumite, è il combattimento in cui sfociano le precendeti modalità di

Kumite. In esso nulla è prestabilito, i due atleti si afrontano, esprimendo le

priprie capacità tecniche e psicologiche. Nella maggior parte degli stili,

elemento fondamentale rimane, però, il controllo, cioè la capacità di portare la

tecnica con potenza e precisione a pochi millimetri dal bersaglio. Nel

Kyokushinkau, e negli altri stili di karate a contatto pieno esistenti, i colpi si

possono affondare, in altri è previsto un semplice tocco con il Kiai finale. Per

poter praticare il combattimento libero, questi elementi dovranno essere già

interiorizzati, dato che su di essi si imperniano le scelte strategiche di parata e

contrattacco, attacco al momento della partenza dell’avversario, attacco sul

primo movimento dell’avversario e infine la tecnica di anticipo e di intuizione.

Ad Okinawa, anticamente, il Karate veniva allenato attraverso esercizi individuali. Lo

studio del combattimento fondamentale si sviluppò dopo l’introduzione del Karate in

Giappone, e ilKumite apparve molto tempo dopo le pratiche del Kihon e del Kata.

Nella sua variante “sportiva”, esso è sempre l’incontro tra due avversari che

utilizzano tecniche di gambe e di braccia, proiezioni, atterramenti, con colpi precisi

sopra la cintura ma che “non affondano” ossia non infliggono un danno massimo

all’avversario. Si tratta di un leggero contatto o low contact. Nella sua variante

sportiva secondo le regole della Fijilkam o W.k.f (world Karate Federation) il Kumite

si svolge in un tempo prestabilito con la presenza di un arbitro o giudice di gara e

quattro guardalinee, i quali si accertano che un colpo sia portato a segno o meno, in

modo da conferire il punto o una penalità nell’eventualità che il colpo sia stato

“affondato” o abbia recato danno all’avversario.

Il regolamento delle gare, e i punti assegnati per la qualità delle tecniche, quali,

Wazari ossia tecnica buone, e Ippon ossia tecnica eccezionale, prevede l’utilizzo di

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diverse penalità a seconda della gravità delle scorrettezze commesse. Recentemente il

sistema di puntggio è variato, il nuovo regolamento, ora, assegna i punti in base alla

parte del corpo colpita e la tecnica, vi sono tecniche da tre punti come le spazzate o

calci al viso, da due punti come colpi al busto o alla schiena o da un punto come una

normale percussione di braccio.

Nel Kumite la perfetta conoscenza delle qualità tecniche è essenziale, e lo sono

altrettanto la padronanza mentale e la convinzione di combattere utilizzando tutte le

proprie risorse, come se si stesse simulando un combattimento per la vita o per la

morte. Non è importante il numero di colpi, bensì la loro efficacia, e la dimostrazione

della padronanza e del dominio di sé e dell’avversario. Il senso della distanza, la

capacità di comprendere come e quando entrare, o uscire dallo spazio del’avversario,

introducono nel combattimento un aspetto non sempre razionale, il presentimento

dell’attacco, l’istinto alla parata o al contrattacco, sono tutti elementi essenziali nella

pratica del Kumite.

In sostanza stiamo parlando di una forma primordiale ma allo stesso tempo

controllata e disciplinata di combattimento, eseguito in coppia che richiede la

padronanza di varie abilità, in primis, il controllo degli attacchi in modo da mantenere

l’incolumità degli atleti, ciò richiede la totale padronanza delle azioni specialmente

quando si porta a segno un colpo o una parata, un corretto uso della distanza e della

scelta di tempo in cui colpire seguito da una buona tattica, la quale richiede

organizzazione, razionalità e creatività sia in fase d’attacco che in fase di difesa il

tutto accompagnato da una buona dose di reattività e riflessi.

Anche in questo caso il Kumite in tutte le sue forme viene utilizzato come prova

d’esame per la cintura, ognuna di queste forme di Kumite variano in base al grado di

maturazione del Karateka, quanto più è alto il grado tanto più grande sarà il bagaglio

di tecniche e movimenti che l’artista marziale può utilizzare al fine di creare un

Kumite adatto al suo grado raggiunto

Ogni singolo giorno maestri come Funakoshi, Matsumura, Oyama e gli allievi di

quest’ultimi, allenavano il proprio corpo a resistere ai colpi e a colpire l’avversario

avvalendosi delle tecniche, dei movimenti, delle posizioni sviluppate nel Karate.

Tramite il Kumite si allenava il corpo per renderlo “un’arma” pronta ed efficace. Si

tratta, però, di una pratica che non ha nulla a che vedere con le forme di

combattimento brutali , il Kumite non è solo combattimento, si tratta di un metodo

efficace d’allenamento basato non solo sul perfezionamento dell’efficacia delle

tecniche, tramite il Kumite l’allievo o il maestro, imparano a sviluppare una

percezione tattica e personale dell’ambiente esterno e interno. Ogni giorno, il

Karateka prova e riprova tecniche di parate e di offesa fino a quando non diventano

degli automatismi, fino a quando l’esecuzione della tecnica stessa diventa fluida,

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lineare e automatica. Quando infine l’allievo raggiunge il possesso pieno della

tecnica, allora, la applica nel Kumite, non si tratta di una concessione del maestro, ma

è l’allievo stesso che provando e riprovando capisce che, ha il pieno possesso della

tecnica che ha allenato, e quindi può applicarla nel Kumite. Ed è proprio questo il

motivo per cui la pratica del Kumite nel Karate è importante, il Karateka grazie al

Kumite riesce a capire quali sono i suoi limiti, e quindi farà di tutto per riuscire a

migliorarli, si tratta di una sorta di auto-critica essenziale nello spirito del Karate. Nel

Kumite capire quali sono i propri limiti sia fisici che mentali è uno dei punti

importanti, tramite questa auto-critica il Karateka comincerà un percorso di

allenamento che lo porterà a superare questi limiti e a raggiungere un grado più alto

di performance. Un ruolo essenziale nella pratica del Kumite lo gioca anche

l’esperienza, un’ottima tecnica d’esecuzione, una buona reattività e agilità, una buona

padronanza delle combinazioni sono tutti elementi essenziali per un buon Karateka,

tuttavia nel Kumite entrano in gioco una serie di fattori interni che il più delle volte

tendono a bloccare il Karateka stesso. Mi riferisco a fattori come la paura, o

l’aggressività, la paura di essere colpito o di colpire recando danno all’avversario può

bloccare il Karateka, cosi come l’eccessiva aggressività può indurlo a usare colpi

potenti ma lenti e quindi facilmente prevedibili. Paura e aggressività sono sentimenti

che influiscono negativamente sulla performance del Karateka nel Kumite, tuttavia si

tratta di elementi negativi che possono essere superati solo tramite l’esperienza stessa

del combattimento, in questi casi di solito interviene il maestro stesso il quale si pone

come avversario dell’allievo. Tramite questa pratica il Karateka sa che può uscirne

migliorato, il desiderio di misurarsi col maestro è insito in ogni Karateka, più che

desiderio si tratta di curiosità, le ore di allenamento il continuo ripetersi di tecniche e

combinazioni, l’allenamento agli spostamenti alle parate fanno nascere nel Karateka

questa voglia di voler “misurare” il proprio grado raggiunto, e il maestro lo

accontenta. Tramite il Kumite, quindi, il maestro mostra all’allievo che deve ancora

maturare, quali tecniche migliorare, come fare per abbattere quei sentimenti negativi

che lo bloccano o lo rendono poco efficace nel Kumite.

1.6 DIFFERENZE NELL’ALLENAMENTO DEL KATA E DEL KUMITE

Kumite e Kata sono due pratiche sportive che fanno parte di un’unica arte marziale.

Entrambe richiedono un grosso dispendio di energie muscolari e fisiche, tuttavia si

tratta di due tipi di lavoro muscolare completamente diverso. Nel Kata

principalmente si parla di lavoro isometrico. Ogni tecnica viene scandita in ogni suo

dettaglio tecnico, ogni colpo deve esprimere l’enfasi di un combattimento

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immaginario. Nel Kata l’allenamento comincia con tecniche di stretching e

allungamento muscolare, in modo da ottimizzare il range muscolare fino a quando

l’allievo non sarà in grado di eseguire la tecnica in maniera impeccabile e simmetrica

senza sbavature. Ogni tecnica viene scandita ed esaltata in ogni suo movimento, in

ogni Kata viene messo in risalto : lo stato mentale il quale deve esprimere la stessa

contrazione di un individuo mentre viene attaccato, la forza che deve essere dosata in

ogni momento del Kata e in ogni sua posizione, la velocità che varia in ogni tecnica,

la contrazione e il grado di espansione del corpo, la posizione la quale deve essere

corretta e perfettamente bilanciata, il tutto deve essere accompagnato da una

rappresentazione realistica del Kata , come se il Karateka stesse simulando un vero e

proprio combattimento. Un allenamento specifico per il Karateka impegnato in gare

di Kata, si basa, pertanto in un allenamento di perfezionamento delle tecniche e del

Kata stesso. Al fine di migliorare le tecniche, l’allievo non si limiterà a ripetere

infinite volte il Kata, bensì si eserciterà in tecniche di allungamento muscolare in

modo da ottenere quella perfezione tecnica-esecutiva che gli permettono di

mantenere una posizione salda e duratura per tutto il corso del Kata. A questo

proposito si lavora molto su esercizi isotonici che mirano a conferire all’allievo una

contrazione e una condizione muscolare tale che ogni tecnica venga eseguita in ogni

suo minimo dettaglio tecnico e nel massimo impiego del suo range muscolare. Si

tratta di esercizi di stretching, e allungamento muscolare, improntati sul concetto di

isometria, l’allievo tramite questi esercizi, isometrici e isotonici, cercherà di

sviluppare una muscolatura tale da permettergli di eseguire ogni singola tecnica del

Kata in maniera impeccabile. Lo scopo di ogni singolo esercizio di stretching, è

quello di portare al massimo, il rendimento del range articolare, in modo tale da

conferire all’allievo una flessibilità articolare e muscolare accettabile, in modo da

ottenere un’esecuzione del Kata in maniera impeccabile e stilisticamente perfetta.

Si tratta di esercizi di allungamento standard, come la spaccata, o altri esercizi di

allungamento delle gambe tipici della ginnastica o dell’atletica. Esercizi rivolti

essenzialmente a tenere costante il livello di allungamento muscolare.

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Nel Kumite, il discorso dell’allenamento è completamente differente, non si tratta di

mantenere la posizione ed eseguire delle tecniche combinate. Si tratta di un

combattimento realistico, dove i riflessi, la scelta del tempo in cui attaccare, la

reattività e la velocità dei colpi sono i punti fondamentali. Un allenamento di Kumite

sportivo si basa sullo sviluppo della forza esplosiva di gambe e braccia. Il Karateka

deve esercitare la propria reattività, i propri riflessi, scoprire quando è il momento

giusto per attaccare e come riuscire a combinare tecniche di difesa con tecniche di

attacco allo stesso tempo. Si tratta di caratteristiche fondamentali, un allenamento del

Kumite, comincia con esercizi per la reattività, dove l’allievo si posiziona in guardia

e aspetta un input vocale o sonoro che gli permetta di scattare ed effettuare la tecnica.

In seguito si passa a un incontro in modalità “rallenty”, ossia un incontro in modalità

rallentata in modo da riuscire a percepire le aperture dell’avversario e apportare il

colpo nel momento giusto. Ci si esercita molto sul migliorare la forza esplosiva del

colpo, a migliorare la mobilità, a eseguire cambi veloci di posizione seguiti da

tecniche di difesa e attacco veloci ed esplosivi.

Nel Kumite, l’allievo esegue esercizi basati sul controllo del ritmo di attacco e difesa,

impara a visualizzare le aperture dell’avversario, e capire il tempo giusto in cui

sfruttare l’attacco efficace. Ogni esercizio del Kumite, si basa sul far acquisire

all’allievo una velocità e forza esplosiva nei colpi tele, da permettergli fronteggiare

l’avversario, avvalendosi di tecniche e combinazioni veloci ed efficaci. Si lavora

molto sui riflessi, sul migliorare la capacità di risposta e adattamento dell’allievo ai

vari colpi che gli vengono apportati, e come rispondere in maniera efficace e

impeccabile. Un esercizio standard è quello del Jiyu Ippon Kumite , ossia il

combattimento semilibero fondamentale a un passo, dove la distanza è libera, e i

contendenti si scambiano rispettivamente colpi d’attacco, seguiti da colpo di difesa

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con contrattacco finale, entrambi sono liberi di eseguire qualsiasi tecnica di attacco e

di difesa.

Ma il vero fattore che tende a dividere le due pratiche è il ritmo. Difatti nel Kata

possiamo osservare, praticanti che eseguono tecniche potenti e ben coordinate ed

equilibrate a vuoto, ma tali tecniche risulteranno inadeguate nel Kumite contro un

avversario, a causa di una tipologia di “timing” o ritmo del tutto differente, o a causa

di una scelta di esecuzione molto diversa da quella del Kata.

Nell’esecuzione di tecniche di Kata o Kihon, è fondamentale sostenere la

componente emotiva necessaria all’espressione assertiva, postura, mimica,

respirazione e respirazione sono fondamentali. Se il pratcante durante l’esecuzione

del Kata sembra ansioso, poco concentrato su se stesso e con l’energia che parte solo

dalla parte superiore del corpo, è utile suggerire di abbassare il baricentro del corpo,

appoggiarsi sui piedi e gestire la respirazione. Se, invece, il praticante apporta

tecniche in maniera isterica poco determinata, potrebbe essere utile farlo concentrare

sul movimento energetico della tecnica e sul punto finale di scarico energetico di ogni

tecnica. Durante l’esecuzione di tecniche di coppia è fondamentale il livello di

aggressività col quale un compagno le applica sull’altro : se tali tecniche sono

eseguite con un’aggressività trattenuta e poco efficace, l’osservazione delle parti del

corpo deputate all’espressione potrebbe mostrar che la muscolatura antagonista è

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quella che trattiene il movimento. Nel caso contrario, quando la tecnica viene

eseguita con un’aggressività esagerata, bisogna imparare a convogliare e canalizzare

questa energia con modalità più adatte, lavorando sul ritmo e sul tempo di

combattimento. Di fronte a kumite frenetici e compulsivi, gli orientali preferiscono

cadenze ritmiche di quiete alternate a repentine azioni micidiali. In questo caso i

momenti di quiete sono densi di attività strategica e occasioni per concentrarsi e

trovare il momento giusto per attaccare l’avversario : si scarica il peso al suolo

correttamente, con la respirazione si accumula energia e si gestiscono al meglio gli

stati d’ansia, poi, una volta individuato un varco nella difesa avversaria, la quiete si

trasforma in un attacco preciso e determinato.

Ogni tipologia di allenamento nel Karate è basata su ore ed ore di esercitazioni, che si

tratti di Kata o di Kumite, l’allenamento comincia sempre con esercitazioni

specifiche nell’esecuzioni di tecniche di difesa e attacco. Si tratta di un passaggio

fondamentale, senza la conoscenza specifica delle peculiarità tecnica-esecutiva delle

coniazioni attacco e difesa, sia il Kata che il Kumite non avrebbero modo di esistere.

L’allievo deve capire, tramite ore di esercitazioni, come apportare la tecnica in

maniera efficace, col minor dispendio energetico, ma in maniera efficace ai fini della

sua performance. Quindi se nel Kata l’allievo deve riuscire a percepire che la tecnica

apportata deve essere eseguita senza sbavature e in maniera impeccabile, cosi anche

nel Kumite l’allievo dovrà capire che la tecnica deve essere eseguita in maniera più

efficace e precisa possibile in modo da raggiungere il bersaglio. Si tratta di dettagli

rilevanti, che ci permettono di capire come nel Karate solo la pratica, cosi come le ore

di allenamento siano essenziali al fine di creare e sviluppare un Karateka completo.

Ecco perche Funakoshi ripeteva sempre ai suoi allievi “Non è in gara che si vede il

Karateka, ma nel Dojo. Il vero Karate non risiede nelle gare di Kata o Kumite, ma

nelle interminabili ore di allenamento, dove l’allievo con sacrifico e devozione

migliora se stesso e il suo concetto di Karate”.

1.7 IL KARATE NELLO SVILUPPO PSICO – FISICO GLOBALE

Sappiamo che per i bambini l’agonismo è essenziale, la funzione del gioco, in questo

contesto diventa una realtà vissuta dal bambino in modo particolare, che si fonda sul

confronto e la cooperazione. Il gioco è una scuola maturale, un mezzo fondamentale

per decodificare il mondo e ha una funzione primaria in relazione alle successive fasi

di vita adulta. L’esperienza ludica, quindi, è essenziale allo sviluppo fisico e

intellettuale del bambino. Inoltra sembra che il gioco più praticato dai bambini sia la

lotta, e si manifesta in forma istintiva, in rapporto dialettico con la contropartee si

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identifica, attraverso lo scambio fisico, come forma di interazione e comunicazione

più completa e immediata.

Difatti al bambino non basta il ricorso alla verbalizzazione, per poter esprimere

volutamente se stesso nell’ambito della quotidianità interpersonale. Per quanto

riguarda le arti marziali e gli sport di combattimento in generale, l’aggressività,

caratteristica naturale di ogni essere umano a garanzia della sopravvivenza , non deve

venire repressa, col rischio di produrre deleterie deviazioni ed esplosioni verso altre

direzioni, ma dovrà essere incanalata positivamente sotto forma di determinazione e

di forza interiore, Sarà opportuno vigilare sugli aspetti negativi e devastanti delle

paure nascoste, che molte volte possono essere la motivazione di chi si accosta alle

arti marziali, che possono sfociare in episodi di aggressività repressa e violenza

gratuita.

Attualmente il Karate può essere suddiviso in due principali correnti: la prima è

quella tradizionalista che lo considera come un’arte marziale che evidenzia l’aspetto

della difesa personale come costruzione della forza interiore ricerca introspettiva;

l’altra invece lo identifica come disciplina prettamente sportiva dandogli

connotazioni di carattere ludico, ricreativo, formativo e competitivo o agonistico.

Tuttavia entrambe le vie si propongono lo stesso obbiettivo, ossia, la possibilità di

salvarsi da un’eventuale aggressione o di vincere una competizione sportiva. Lo sport

di combattimento può, identificarsi come una ritualizzazione socio culturale dell’arte

marziale, conservandone appieno l’aspetto formativo ed educativo.

Nel Karate in particolare, in aggiunta alle linee programmatiche specifiche finalizzate

ad una utilizzazione armonica delle abilità motorie, dovranno essere considerate

anche le strategie di intervento pedagogico, per loro natura assai complesse, che

richiederanno maggiori competenze sia nell’ambito della psicologia che in quello

psico-sociologica. Quindi ogni intervento particolare, dovrà essere visto nella

prospettiva di un ottimale raggiungimento, realizzato tramite l’utilizzo di tutti i mezzi

psico-pedagocici e non, che si hanno a disposizione. Nelle arti marziali, e il Karate in

particolare, anche nella fascia giovanile, vi si accosta lo scopo di superare

determinate insicurezze di fondo ed allontanare paure e timori caratteristici dell’età

evolutiva e connesse al tipo di personalità. L’atleta a qualsiasi livello, deve essere

incline a seguire le disposizioni impartitegli dall’insegnante, e pronto ad affrontare

tutti gli impegni e oneri previsti da un determinato piano di lavoro. L’insegnante

tecnico dovrà essere capace di far leva sulle motivazioni del praticante, difatti se la

pratica del karate viene ottimamente eseguita, può condurre all’ottimizzazione delle

prestazioni personali, in ambito multi direzionale, promuovendo le abilità evolvibili

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in ognuno, e supplendo con tali abilità acquisite alle eventuali carenze costituzionali

di origine. Cosi alla scarsità di forza possiamo supplire con l’acquisizione e

l’applicazione dell’azione sinergica e coordinata, alla carenza di rapidità gestuale o

lentezza di riflessi possiamo supplire con una corretta coordinazione gestuale,

all’insufficiente velocità motoria possiamo supplire con la fluidità e destrezza frutto

della pratica costante.

In genere la pratica del Karate viene figurata come una sorta di psicoterapia mirata al

riequilibrio delle funzioni psico-fisiche, che consente di recuperare una relazione più

gratificante col mondo e se stessi. Attraverso la pratica del Karate, l’aggressività

viene incanalata in modo corretto, la distanza dagli altri, diminuisce tramite le forme

di combattimento, si stabiliscono relazioni più intime e affettive mediante il contatto

corporeo, che non sarà vissuto come un’aggressione ma come un sano confronto.

Vengono favoriti corretti comportamenti relazionali, acquisizione di abilità, capacità

di controllo e soluzione di problemi. Tramite il confronto con gli altri, l’allievo

conseguirà la necessità di rispettare le regole ed il rispetto delle stesse. Misurarsi con

gli altri, scoprendo la possibilità di muoversi in modo più disinvolto e coordinato nel

suo ambiente vitale. La nuova consapevolezza delle possibilità del proprio corpo,

porterà l’allievo a stabilire rapporti interpersonali più gratificanti, agevolando nel

contempo, sia la comunicazione che la maturazione della personalità.

Attraverso le esperienze dei esplorazione e scoperta, toccando, esaminando ed usando

le varie parti dl corpo, sarà favorita la costruzione dello schema corporeo nel suo

aspetto globale e segmentario, statico e dinamico. Con l’aggiunta di attività più

complesse potrà essere raggiunta una motricità più ricca ed armoniosa, con un netto

aumento della fiducia in se stessi e nelle proprie capacità.

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2.LA DISABILITA’

2.1 Storia della disabilità

L’inserimento sociale della persona disabile non veniva nemmeno considerato prima

del 19° secolo, in effetti è solo negli ultimi 20 anni che si può parlare di inserimento

dei diversamente abili. Si può dire che il primo documento che afferma i diritti del

diversamente abile è la Costituzione stessa, la quale afferma il diritto alla studio di

tutti i cittadini e la rimozione di ostacoli, da parte dello Stato, che impediscono la

piena affermazione.

Con la dichiarazione dei diritti del fanciullo, si stabilisce che ogni bambino con

menomazione fisica mentale e sociale ha diritto a ricevere trattamento educazione e

cure speciali di cui ha bisogno. Con l’inserimento di nuove riforme per l’integrazione

del disabile in un contesto scolastico e sociale, negli anni 90 si pone al centro

dell’attenzione la persona disabile in tutta la sua globalità. Ed è proprio grazie a tali

nuove riforme che si è potuto attuare un piano di ricerca più specifico riguardo la

disabilità, si tratta di un tipo di ricerca basto sull’individuazione dell’handicap da

parte di specialisti che attuano una diagnosi funzionale il cui obbiettivo è quello i

capire cosa comporta dal punto di vista anatomico, funzionale, strutturale e

psicologico lo stato di handicap. Si delinea cosi un profilo dinamico funzionale per

ogni tipo di handicap in modo tale da riuscire a immaginare e apprendere

informazioni fondamentali sul tipo di handicap, e in base a questo, attuare un piano

educativo e formativo individuale.

Questo nuova visione del soggetto disabile, cambia completamente il modo di

approcciarsi con la disabilità. Non si tratta più di considerare la disabilità come una

condizione di assoluto svantaggio, ma si crea una visione del tutto nuova basata

principalmente sul considerare il soggetto disabile come persona dotata di un certo

grado di autonomia. Da questo punto di vista, possiamo considerare prima la persona

disabile in quanto soggetto dotato di determinate capacità residuali, in seguito tramite

un attento studio si crea il profilo della disabilità a cui il soggetto è afflitto. In tal

modo possiamo attuare una distinzione efficace tra le varie patologie, cercando di

capire quali tipi di svantaggi comporti una determinata patologia rispetto a un’altra,

quali sono le caratteristiche anatomiche, strutturali e funzionali che ne vengono

compromesse e quali riescono e mantenere il normale funzionamento.

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Spesso si utilizza in modo improprio il termine handicap, ritenendolo un concetto

generale che racchiude in sé sinonimi di menomazione, minorazione e disabilità. Ciò

ha creato una sorta di diffusione e utilizzo sbagliato di tali termini, i quali venivano

utilizzati in forma generale per definire una serie di condizioni del tutto diverse tra

loro.

Nel 1980 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha introdotto un documento

dal titolo International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps nel

quale venivano definite e, quindi, diversificate i termini Menomazione, disabilità e

handicap

La Menomazione corrisponde a qualsiasi perdita a carico di strutture

funzionali, psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Essa può essere

permanente o transitoria

La disabilità è la riduzione parziale o totale, della capacità di svolgere una data

attività nei tempi e nei modi considerati normali. Puo’essere la conseguenza

diretta di una menomazione, e quindi anch’essa può essere transitoria o

permanente, reversibile o irreversibile, progressiva o regressiva

L’Handicap consiste nella condizione di svantaggio derivante da un danno o

una disabilità che limita o impedisce lo svolgimento di un ruolo normale in

rapporto a diversi fattori, quali l’età, sesso, fattori sociali. L’handicap viene

considerato come fenomeno sociale, in effetti esso non viene considerato in

maniera assoluta, bensì in relazione alla situazione sociale e culturale in cui la

persona vive.

Nel considerare l’entità e la gravità del danno della disabilità vanno considerati fattori

che non sono desumibili dal tipo e dalla gravità del danno di partenza, ma

dall’insieme di elementi personali e del contesto che gravitano intorno alla persona.

In seguito, si ritenne che il termine handicap visto sotto questa prospettiva, risultava

inadeguato , in quanto occorreva evidenziare le potenzialità e le abilità residue di una

persona e non solo il limiti o le peculiarità della disabilità in quanto condizione

limitante.

Oggi l’OMS utilizza due sistemi di classificazione e definizione della disailità :

l’icdh-2 ossia l’International Classification of Functioning and Disability and

Handicap; l’ ICF che corrisponde a International Classification of Functioning,

Disability and Health. Le caratteristiche di questi sistemi di classificazione sono

riferite a tutte le persone e non solo a quelle con disabilità, esse considerano le

diverse dimensioni della menomazione, della disabilità e handicap, le quali non sono

più collegate in modo unidirezionale, ma sono considerate nella loro interazione

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reciproca. In questo modo si tiene in considerazione l’intero contesto delle disabilità

comprendendo anche i fattori ambientali e personali, quindi interagisce a tutti i livelli

e non solo nel determinare problemi di partecipazione alla vita sociale

In questo contesto, risulta importante il ruolo della diagnosi attuata al fine di ottenere

una valutazione che analizzi il bilancio del deficit e del potenziale residuo, ed è

finalizzata alla compilazione del piano educativo individuale. Tramite la diagnosi

funzionale è possibile visualizzare un profilo completo del soggetto disabile, creadno

un programma di intervento idoneo a conoscere le peculiarità specifica del deficit e i

sintomi causati da esso, i modi con cui interagire con il soggetto disabile e come

intervenire al fine di rafforzare il profilo dinamico, fisico e personale del soggetto

stesso. Si rende necessario, quindi, trovare un equilibrio tra la necessità di descrivere

in maniera analitica i livelli di funzionamento e qulla di tracciare un profilo globale

della persona. Gli interventi in quest’ambito possono comprendere vari ambiti : si

può passare da interventi medici-psicologici, attuati per prevenire un’estensione del

danno globale o danni secondari in forma morbosa in modo da favorire i processi di

sviluppo e di tipo riabilitativo, a interventi di tipo educativo-sociale in modo da

favorire il campo della socializzazione, apprendimento tramite l’attuazione di

comportamenti adattivi che eliminino le barriere di tipo sociale o fisico. In questo

contesto si rende necessaria la partecipazione attiva del bambino e della sua famiglia

in modo tale da migliorare la qualità di vita in maniera globale, scoprendo ciò che

sono i bisogni psicologici della persona rapportati al contesto in cui vive, cercando di

soddisfare tali bisogni in base a un’attenta valutazione delle risorse presenti nel

contesto stesso.

2.2 Caratteristiche peculiari dei deficit

Lo studio dei soggetti diversamente abili, parte dalla potenzialità ossia da ciò che il

soggetto è in grado di esprimere dal punto di vista psichico e fisico nonostante la sua

disabilità. Da questo punto di vista è possibile attuare una classificazione delle

disabilità cercando di raggrupparle in diverse aree :

Disabilità Uditiva, ci riferiamo a termini come audioleso o ipoacusico, i quali

vanno ad indicare persone che conservano, nell’ambito uditivo, delle

potenzialità. Le tipologie sono diverse a seconda della localizzazione del

danno, abbiamo sordità trasmissive che interessano le parti dell’apparato

uditive deputate alla trasmissione del suono e sono sordità lievi facili da

recuperare; sordità percettive in cui la trasmissione delle onde sonore avviene

normalmente ma è compromessa la trasformazione di queste vibrazioni in

percezione uditiva. La sordità può essere un ostacolo nella creazione di un

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legame di attaccamento, dovuto alla scarsa reciprocità del bambino a

riconoscere la voce della mamma. Tuttavia ciò non risulta essere

particolarmente dannoso per lo sviluppo del bambino, molte persone non

udenti raggiungono alti livelli di istruzione, pertanto qualora vi fosse un ritardo

nell’acquisizione delle competenze, esso non può essere attribuito totalmente

alla sordità in sé. In genere lo strumento di sviluppo del bambino o dell’adulto

sordo più utilizzato è il metodo bimodale, il quale ha come obbiettivo quello di

raggiungere una buona competenza linguistica orale. In esso il linguaggio dei

segni viene utilizzato come supporto della lingua parlata

Disabilità Visiva, in questo caso parliamo di disabilità e non di handicap,

perché non per tutti i soggetti comporta la situazione di handicap. I parametri

fondamentali nella diagnosi sono : l’acuità visiva riferita alla capacità di

distinguere, a una data distanza, forme si esprime in decimi; il campo visivo, il

quale corrisponde all’ampiezza della scena visibile quando lo sguardo è fisso

in un punto. Il grado di menomazione visiva può variare da : cecità totale con

impossibilità di percepire qualsiasi stimolo visivo, cecità legale con un residuo

visivo inferiore al minimum stabilito, ipovisone con parziali capacità visive. In

effetti una distinzione più sintetica viene fatta distinguendo: tra cecità reale

dove è oggettivamente cieco colui che non ha nessuna percezione visiva

derivante da stimoli luminosi provenienti dall’ambiente esterno; e cecità

funzionale, dove è funzionalmente cieco colui che, pur disponendo di

percezioni visive non può organizzare l’input sensoriale in percezioni utili

rispetto alla necessità di sviluppare strategie adattive almeno in un settore di

vita quotidiana. Tale patologia può essere dovuta a cause congenite quale la

trasmissione genica di alterazioni organiche, cause perinatali dovute al

momento della nascita come la prematurità, o cause post natali come infezioni

virali o fattori immunitari. Nei bambini non vedenti la deprivazione sensoriale,

incide sulla motricità e sulle conoscenze spaziali, che vengono assunte in

maniera lenta con difficoltà, ciò è dovuto agli effetti diretti che la cecità

provoca sul ruolo del feedback visivo nel coordinare i movimenti verso uno

scopo preciso e nel coordinare la postura. In effetti ciò comporta delle

difficoltà, non solo motorie, ma anche dal punto di vista cognitivo che sfociano

in ritardi di acquisizione. Di conseguenza, la deprivazione sensoriale comporta

delle riorganizzazioni funzionali che utilizzano processi secondari per la presa

in carico di informazioni e per la loro elaborazione. In quest’ottica, i vari

sistemi di apprensione senso-motoria del soggetto non vedente, si basato

principalmente sull’utilizzo di espedienti linguaggi grafici come il Sistema

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Braille costituito da una scrittura con punti di rilievo, finalizzato a facilitare

l’apprendimento e il rafforzamento delle strutture cognitive,

Disabilità Motoria in questo caso la classificazione del disturbo viene attuata in

base alla localizzazione del danno, nel caso in cui è periferico esso provoca un

disturbo della funzione motoria dovuta a un danno dell’apparato esecutore, che

comporta una degenerazione progressiva delle fibre muscolari e di quelle

nervose sino a una totale compromissione dell’attività motoria. Un danno

centrale, invece, provoca un disturbo della funzione motoria dovuta a danno

del Sistema Nervoso Centrale, il quale a sua volta si divide in : disturbo da

danno specifico provocato da un danno alle arre deputate alla motricità, e

disturbo da danno non specifico in cui la lesione non riguarda le aree di

motricità. Un deficit motorio è accompagnato anche da deficit cognitivi la cui

gravità e tale che l’impoverimento della componente motoria diventa

secondario. I principali disturbi che determinano disabilità motorie sono : la

Paralisi Cerebrale Infantile ossia un disordine del movimento e della postura

dovuta a un difetto, o una lesione del cervello ancora immaturo che può

provocare disordino motori come la Sindrome spastica, atassica o discinetica,

in questo caso, è possibile che si possano verificare disturbi cognitivi

imputabili all’estensione della lesione delle aree. Altro disturbo è la Spina

Bifida, ossia una fenditura ossea attraverso cui sporgono le membrane che

rivestono la spina dorsale, dovuta alla mancata chiusura del tubo neurale

dell’embrione. In questo caso il grado di disabilità è variabile, ma oltre ai danni

alla zona lombosacrale, si presentano altri disturbi come la difficoltà

nell’apprendimento, problemi di coordinazione visuo-motoria o iperattività, e

difficoltà nella comprensione delle regole sociali.

Altro punto di rilevante importanza è la definizione e la visualizzazione di

Handicap Mentale legato principalmente alla concezione di disabilità mentale.

La classificazione di handicap mentale, deve tener conto non solo al concetto

multidimensionale dell’intelligenza, ma anche delle differenze culturali e

linguistiche che possono influenzare la prestazione della persona. Nel

visualizzare un handicap mentale, bisogna considerare tre punti fondamentali :

la capacità del soggetto, gli ambienti di vita e il funzionamento reale del

soggetto stesso. Pertanto, da questo punto di vista, un handicap mentale si

riscontra in delle abilità inferiori alla media, che comportano delle limitazioni

in due o più aree di abilità adattive come quelle della comunicazione,

dell’autonomia, dell’abilità sociali o lavorative. I nuovi sistemi di

classificazione ci permettono di attuare una descrizione attenta e meticolosa dei

punti di forza e di debolezza del disabile mentale, permettendo un intervento di

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supporto nelle varie aree. Questo tipo di disabilità, tuttavia, fa capo a una serie

eterogenea di cause. Esistono fattori biologici cromosomici e genetici, o fattori

biologici prenatali, perinatali o post natali, una serie infinita di cause

individuabili come fattori scatenanti la disabilità mentale. In molti casi il

ritardo mentale, è associato ad altre patologie, fra i principali ruoli neurologici

associati, c’è un’alta incidenza di epilessia e della paralici cerebrale infantile.

Tali soggetti sono incapaci di raggiungere il pensiero astratto e non riescono a

superare lo stadio delle operazioni concrete, mostrano delle difficoltà

nell’estensione di una conoscenza a situazioni diverse da quelle d’acquisizione

e ciò comporterebbe una limitata capacità di andare al di là dei propri sensi,

ossia un’incapacità di integrare diversi dati percettivi in unità strutturate e a

cogliere le relazioni fra le diverse parti di una configurazione. Hanno difficoltà

nella concentrazione, con evidente ritardo del tempo di reazione a uno stimolo,

e nell’immagazzinamento di dati e nel loro recupero mnemonico. La

componente linguistica, infine, risulta particolarmente deficitaria sia a livello

di comprensione che di produzione verbale.

Un’altra patologia importante è l’Autismo, essa rappresenta una delle più gravi

manifestazioni, che colpiscono il bambino nella sua capacità di comunicare e di

instaurare relazioni con il mondo esterno. La caratteristica del bambino autistico, è un

atteggiamento di chiusura volontario, causato da un grave disordine nella

comunicazione che costituisce un impedimento o una limitazione alla socializzazione

e all’integrazione nei normali processi di vita. Una diagnosi dell’autismo presenta

non pochi problemi, basti pensare che non esiste un test specifico di carattere medico

o comportamentale, non esiste un gente patogeno o un assetto genetico che porti in

modo definitivo a diagnosticare l’autismo. In effetti viene identificato come autistico,

quel soggetto che fin dalla primissima infanzia, ha avuto evidenti difficoltà nel capire

ed esprimere sentimenti ed inserirsi in modo reciproco negli scambi sociali. Il

disturbo autistico, quindi, viene definito come sviluppo anormale o blocco di diverse

aree, ossia quella del linguaggio recettivo o espressivo, quella dello sviluppo delle

relazioni sociali privilegiate, quella del gioco funzionale o simbolico. Un soggetto

autistico presenta una totale assenza di reciprocità socio affettiva, dal punto di vista

motorio si può evidenziare, un’inadeguatezza nell’uso dello sguardo reciproco, della

postura e delle espressioni facciali, che di conseguenza portano a un fallimento nello

sviluppo di interazioni che implichino condivisione di interessi, di attività con altri

soggetti. L’autistico, presenta un carattere estremamente routinario e ripetitivo, che

interessano non solo il campo motorio come gesti o altri parti del corpo, ma anche la

sfera sociale con una compulsiva propensione alla routine rituali specifici.

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Quest’incapacità del contatto intersoggettivo, impedisce al bambino autistico di

conoscere le persone e i loro stati psicologici, le carenze dello sviluppo comunicativo

e linguistico portano a una compromissione dei rapporti interpersonali, doe il amino

autistico non sembra mostrare delle preferenze tra le persone che li accudiscono

rispetto a delle persone estranee.

In linee generali l’intervento sul disabile va effettuato con un’immediata presa di

coscienza alle dimensioni cognitive e comunicative, che sembrano essere quelle più

colpite dai deficit elencati. La persona non va considerata come soggetto facente

parte di una categoria, ma come portatore di un’individualità propria, come un

soggetto avete un’autonoma personalità, la valutazione pertanto non deve basarsi solo

sul deficit, ma soprattutto sulle potenzialità di superamento. Qualsiasi intervento, sia

esso in ambito medico, psichico, sociale e persino sportivo, deve partire da un’attenta

analisi costi-benefici, ossia vale la pena lavorare con disabilità gravi o meno gravi,

solo se i passi avanti raggiunti migliorino le qualità di vita del disabile altrimenti

meglio rinunciare. Ovviamente l’intervento nei confronti di queste persone, non può

tradursi in un accanimento riabilitativo centrato su singole abilità, ma l’obbiettivo

principale, in questi casi, deve essere quello di lavorare per un assetto migliore della

globalità della persona e l’intervento va orientato al benessere e alla qualità della vita.

Per un disabile la pratica motoria regolare crea diversi vantaggi che investono :

Il piano cognitivo in quanto lo sport migliora la conoscenza del proprio

corpo dello spazio, del tempo e della velocità

Il piano fisico creando un incremento della forza muscolare della capacità

di equilibrio, della cinestesia e della coordinazione motoria tramite le

ripetizioni consapevoli e finalizzate degli atti motori

Il piano sportivo tramite l’acquisizione delle conoscenze tecniche delle

varie discipline sportive, regolamenti e confronti in gara

Piano psicologico in quanto la pratica sportiva produce uno stato di

soddisfazione generale, favorisce la disciplina e l’allenamento che portano

al contenimento degli stati emotivi incrementando la capacità di

autocontrollo

Piano socio-educativo dove lo sport aiuta ad acquisire quel senso di

autonomia, in quanto il soggetto viene spinto e stimolato a utilizzare una

serie di atti volontari e del tutto autonomi

Da questo punto di vista, la metodologia dell’insegnamento deve tener conto di quelle

che sono le tappe evolutive dello sviluppo psicofisico dell’allievo, in quanto la sua

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capacita di ricezione ed assimilazione dei contenuti e proposte pratiche è strettamente

collegata alla maturazione psicofisica del soggetto disabile. Si rende necessario la

conoscenza dei diversi aspetti del deficit psico-fisico, in modo da poter attuare una

buona programmazione didattica. La funzione socio-educativa dell’attività motoria

aiuta l’individuo a sviluppare al massimo le sue potenzialità evidenziando ciò che

egli è già in grado di fare. In questo modo, il soggetto disabile impara prima a

conoscere se stesso, il suo corpo, in seguito esprimerà e assimilerà la motricità altrui,

imparando a osservarla, interpretarla e riconoscendo il valore espressivo e motorio. In

questo modo il disabile si troverà ad aumentare le proprie attività, ampliando il

proprio volume d’azione e allargando i suoi orizzonti fisici

2.3 Sport e Disabilità

I grandi movimenti sportivi internazionali sviluppatosi in questi anni tramite il

coinvolgimento di migliaia e migliaia di atleti disabili di tutte le parti del mondo, ha

dimostrato come lo sport sia, per il portatore di handicap, non solo un mezzo

insostituibile di recupero psicofisico, ma anche un mezzo stimolante di integrazione

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sociale. Ogni disciplina sportiva accortamente adattata ove necessario ha una sua

utilità per il conseguimento di risultati terapeutici, lo sport infatti consente a quasi

tutti i disabili di svolgere, a seconda delle condizioni in cui si trovino, una qualche

attività motoria attuando cosi una migliore conoscenza del proprio corpo, una corretta

concezione dello spazio e del tempo, un miglioramento dell’equilibrio e della

coordinazione motoria, il tutto unito a un miglioramento psichico.

Lo sport acquisisce una funzione educatrice e di riequilibrio tra corpo e psiche e,

attraverso le implicazioni che ciò comporta, tende a compensare tensioni e

frustrazioni fino a scaricare, tramite l’atto agonistico l’aggressività che potrebbe

venire indirizzata verso l’interno ossia verso se stessi accentuando meccanismi di

isolamento sociale. Qualsiasi competizione, anche la più modesta, stimola l’autostima

specialmente in persone disabili che passando da una condizione passiva a quella di

soggetti attivi si sentono coinvolti in eventi dove loro stessi sono i protagonisti

ritrovando nella sport il desiderio di affermarsi, il piacere di esprimersi, la gioia di

competere.

Per il disabile lo sport rappresenta il primo, decisivo passo verso l’integrazione nella

società. Lo aiuta a riprendere contatto con il mondo che lo circonda, facilitandone e

accelerando l’inserimento in famiglia,nella scuola e nel lavoro inducendolo ad uscire

dal proprio isolamento, a ritrovarsi con gli altri ad associarsi e ad accettare categorie

comuni di valori, acquistando il senso di partecipazione sociale e abituandosi ad

assumersi le proprie responsabilità. L’appartenenza a una squadra e la pratica di sport

di gruppo, favoriscono l’adozione di determinati ruoli, rafforzando in loro l’identità

personale tramite la migliore conoscenza degli altri.

In alcune discipline sportive come il Karate, tiro con l’arco, tennis da tavolo ecc. i

disabili gareggiano insieme con gli altri non disabili. Questi incontri, oltre a

sviluppare migliore comprensione, stimolano spesso rapporti di amicizia duraturi. Più

portatori di handicap crescono insieme ai non disabili, più la diversità sarà accettata

da entrambi i lati.

Tramite la competizione, le gare internazionali, si profila un’immagine del disabile

non più bisognoso d’assistenza. Lo sport, diventa cosi un’eccezionale occasione per il

disabile migliorandone le capacità motorie e sensoriali, favorendo l’aggregazione ed i

rapporti sociali, stimolandolo ad affrontare le difficoltà contribuendo cosi alla

costruzione o alla ricostruzione della propria identità. Lo sport quindi si rivela utile a

ridimensionare la separazione tra normodotati e disabili.

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Da questo punto di vista possiamo parlare di sport per disabili sotto due punti di vista

: lo sport–terapia e lo sport inteso come pratica agonistica entrambi indirizzati verso il

soggetto disabile.

lo sport terapia ha due momenti diversi : l’inserimento dell’attività

all’interno di protocolli riabilitativi e preventivi per l’avviamento allo sport

nelle palestre, per diverse persone con disabilità qualunque sia la causa, e ha

lo scopo preciso di migliorare il gesto fisico, le capacità sensoriali e di

conseguenza migliorare le capacità motorie o di movimento, contribuendo

alla costruzione e ricreazione della propria identità. Discipline praticate in

piedi o in carrozzina, introducono una serie di esercizi preparatori o di base

che consentono di realizzare una serie miglioramenti generali

nell’esecuzione di un movimento. Si tratta quindi di utilizzare esercizi che

favoriscono il miglioramento senso- motorio della persona disabile. Stiamo

parlando di un tipo di attività motoria praticata dai disabili, avente come

fine il miglioramento psico-motorio del soggetto disabile che la pratica

Lo sport inteso in senso agonistico, negli ultimi anni sta avendo molti

consensi da parte dei soggetti disabili. Vi sono molte società sportive, nate

spontaneamente per garantire la pratica dello sport. Ovviamente gli spazi e

le risorse economiche e di personale sono esigui. Tuttavia grazie a

competizioni internazionali come le Paralompiadi o special olimpics sempre

più persone disabili hanno modo di approcciare con la pratica sportiva di

tipo agonistico. Ciò permette al soggetto disabile di rimettersi in gioco, e

tramite il raggiungimento di determinati risultati agonistici, può essere in

grado di affrontare le varie difficoltà lungo il suo percorso di vita

La pratica sportiva, da questo punto di vista, diventa un mondo del tutto nuovo dove

si sperimenta il confronto con l’altro e i propri limiti. Lo sport diventa non solo uno

strumento di prevenzione, ma anche uno strumento di confronto con gli altri nel

rispetto dell’impegno e dell’accettazione delle regole. Si tratta di una carica intensa di

umanità, di conquista, di coraggio, di pazienza, diventando un’avventura che riempie

la vita del disabile di segni, obbiettivi e di speranza.

Quindi l’attività sportiva, può svolgere un ruolo importante nell’esperienza di ogni

individuo, tanto più per i portatori di Handicap, e non si tratta solo dal punto di vista

dell’integrazione, ma parliamo anche delle possibilità che lo sport offre nel campo

della comunicazione e della socializzazione, dal punto di vista dell’acquisizione di

quell’immagine del se e delle proprie capacità e nell’apprendimento di abilità motorie

generali e residuali. Tramite lo sport è possibile confrontare se stessi, soffrire, gioire,

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perdere o vincere, ma soprattutto è importante imparare ad affrontare le sfide della

vita nel rispetto dei propri limiti e degli avversari, qualsiasi siano le differente in

campo.

L’importanza di svolgere l’attività sportiva per le persone disabili, sotto questo punto

di vista, assume diversi significati, la possibilità di migliorare le proprie condizioni

fisiche, intellettive o sensoriali, la possibilità di poter partecipare ad un’attività ben

organizzata e ben strutturata che garantisca ai disabili la reale percezione di

appartenenza ad un gruppo nel quale rispecchiarsi e sentirsi parte integrante.

Compiere nuove esperienze, tramite le quali sia possibile confrontarsi e crescere

insieme, in modo da poter raggiungere risultati che riescano a ricompensare di tutta la

fatica psichica e fisica e di tutte le difficoltà affrontate, sono elementi fondamentali

che permettono la visione di un sport per disabili non più ritenuto solo come qualcosa

di terapeutico data la condizione, ma un completo riconoscimento dell’attività

sportiva agonistica o amatoriale che sia.

Ognuna delle discipline sportive, praticate dai disabili, individua una serie di esercizi

o tipologie di allenamento, preparatori o di base, che consentano di realizzare un

miglioramento generale delle condizioni cliniche della persona disabile. Tuttavia per

rendere l’attività sportiva idonea alla pratica del soggetto disabile, il più delle volte,

sono necessarie attrezzature o materiali adatti con cui poter svolgere gli allenamenti.

Fortunatamente le discipline marziali. come il judo o il karate, o altre discipline a

corpo libero, non richiedono l’utilizzo di strutture specifiche, le arti marziali in

generali sono l’arte dell’impegno controllato delle proprie risorse, per questo motivo

risultano essere utili per i disabili specialmente per coloro che dispongono di risorse

minori e che vogliono impiegarle al meglio.

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3. IL KARATE INTEGRATO

3.1 I benefici della pratica del karate

Il Karate, può essere definito in base a quattro elementi psicologicamente importanti :

movimento, gioco (attività ludica), norma (regola da seguire), agonismo (confronto).

In base a questi elementi, possiamo dire che esso rappresenta un elemento

fondamentale, per uno sviluppo armonico e psichico del bambino e dell’adulto. Il

karate può essere concepito come una sorta di psicoterapia, Fuller riteneva che alcune

arti marziali possedevano la qualità di sostegno della salute psicologica e

promuovevano cambiamenti personali in una direzione desiderabile, secondo Setz le

arti marziali erano utili nella psicoterapia, in termini di energia ossia il Ki o Chi.

Un’efficace gestione dell’energia è una componente importante nelle arti marziali,

come nelle professioni riguardanti la salute mentale. La pratica degli esercizi delle

arti marziali, può direttamente migliorare la salute mentale , favorendo l’integrazione

tra mente e corpo, il rilassamento, l’attenzione, la comunicazione, l’auto accettazione,

una psicoterapia conclusa con successo che accentua sentimenti di armonia, di

controllo e di autostima.

Nel Karate, il gesto atletico si basa sulla capacità di soddisfare un comportamento di

difesa e attacco, sotto restrizioni specifiche nei movimenti corporei, dettate da

sequenze motorie preordinate. Ogni tecnica viene studiata in ogni sua componente,

sia psicologica che motoria, si studia il grado di contrazione muscolare, il livello di

concentrazione esprimibile tramite un’espressione facciale impassibile e determinata,

il tempo di reazione, il ritmo cadenzato della respirazione, ogni tecnica viene

apportata con l’intenzione visibile di colpire o difendersi. Tutti questi elementi e

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molti altri forniscono i dati necessari per poter dar vita a un’arte marziale efficace e

che ia risultati sia dal punto di vista motorio che fisiologico.

Oggi grazie ai media, e ad altri strumenti mediatici, sappiamo che esistono sport

praticati da disabili, sia motori che mentali, ne sono un esempio le paralimpiadi o le

special olympics, si tratta di grandi eventi che si svolgono annualmente, e che hanno

come protagonisti le competizioni tra disabili. Il numero di sport e di gare

pubblicizzati da questi eventi è molto vasto, si va dal nuoto all’atletica leggera, dal

judo al tiro con l’arco. Una serie di discipline sportive dove i disabili possono

gareggiare, mettersi in gioco e dimostrare che la loro preparazione e il loro livello di

competizione non è affatto inferiore a quella dei normodotati. Anzi negli ultimi anni

si sta delineando una figura i disabile sportivo che è in grado di competere

tranquillamente in competizioni sportive per normodotati, si prenda come esempio

l’atleta Oscar Pistorius che nelle Olimpiadi del 2012 ha gareggiato, con le su protesi

alle gambe, nelle gare di atletica leggera con gli altri atleti normodotati, arrivando

quarto nella categoria dei 400 metri. Un risultato eccezionale se si pensa che Pistorius

era la prima volta che si trovava ad affrontare atleti normodotati.

Il caso Pistorius, e i suoi risultati ottenuti nelle olimpiadi 2013, hanno sollevato una

questione che da anni sta tormentando il mondo dello sport, soprattutto quando si

tratta di tali competizioni internazionali. Com’è possibile che un atleta disabile sia in

grado di competere, a livello mondiale, con atleti normodotati, com’è possibile che

un uomo dotato di protesi meccaniche sostitutive delle gambe, sia stato in gado di

battere e arrivare quarto in una competizione dove gareggiano i migliori atleti

normodotati del mondo. Ma ancora una volta, si sta facendo l’errore di dividere il

mondo tra disabili e normodotati, ancora una volta si volge lo sguardo verso la

disabilità e non verso l’atleta. Pistorius, prima di essere disabile è innanzitutto un

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atleta, e come tale i media e il mondo dovrebbe vederlo, ossia come un soggetto

dotato di capacità innate in grado di competere in maniera straordinaria con gli altri

atleti di stampo mondiale. Si tratta di un caso che ha portato il mondo intero a

chiedersi se sia possibile, quindi, portare i disabili a gareggiare con i normodotati.

Nel Karate cosi come nelle altre discipline marziali, questa problematica è al centro

di importanti discussioni e valutazioni, ma che al momento non stanno portando da

nessuna parte, oggi esistono molte società che fanno corsi di Karate, di judo, di

Taekwondo o altre discipline marziali che tengono corsi per disabili e normodotati,

divisi tra loro. Molte società di Karate, pensando di più al risultato agonistico e

pubblicitario, tengono corsi di karate esclusivamente per disabili, quasi a ritenerli

inadatti ad eseguire l’allenamento insieme con allievi normodotati. Si sta mettendo

sempre di più in secondo piano, ciò che è il ruolo del Karate stesso, ossia crescita e

conoscenza, uno studio sul miglioramento non solo del corpo ma anche del campo

cognitivo, il Karate si svolge con tutti gli allievi proprio per creare quello spirito di

unione e comune sacrificio, che porterà alla nascita di un sentimento comune in tutti

gli allevi, ossia crescere e migliorare insieme in un clima di sana competizione e

rispetto. Ciò dovrebbe portare a una nuova visione dell’atleta, non più visto come

disaile, ma come artista marziale dotto di capacità competitive, in grado di poter

competere nelle più grandi competizioni internazionali.

3.2 IL KARATE INTEGRATO

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Quando si parla i Karate integrato, non si fa altro che parlare di una disciplina

marziale che gestisce allenamenti tra allievi disabili e normodotati insieme. Un

allenamento di Karate integrato non ha nulla di specifico o particolare, si tratta

essenzialmente di una normale lezione di Karate, svolta senza particolari

accorgimenti, se non alcune modifiche apportate nel caso in cui nella lezione sia

presente un disabile motorio in carrozzina. Nella foto, è possibile vedere come in una

normale lezione di Karate è possibile eseguire ogni tipo di esercizio senza creare

divisioni specifiche tra allievi normodotati e disabili.

In questo caso, ci troviamo di fronte a due soggetti disabile, il disabile motorio che

usa la carrozzina per muoversi,e il disabile mentale (nella lezione è presente un

soggetto autistico anch’esso cintura gialla). La particolarità dell’allenamento si basa

esclusivamente sull’integrazione tra normodotati e disabili, ma non i sono alcune

modifiche nell’allenamento, non ci sono divisioni strutturali, entrambi si allenano nel

medesimo luogo e nel medesimo orario. In Italia, non ci sono molte palestre che

attuano questa metodologia di Karate, se ne contano poche e in quel caso non hanno

un alto numero di partecipanti, evidentemente ciò è dovuto allo scetticismo da parte

di molte persone, il più provenienti dal Karate stesso, che non credono sia possibile

che un progetto del genere . In verità, stiamo parlando di un arte marziale, che come

tutte le altre, si basa essenzialmente sul concetto di miglioramento del proprio corpo,

sia in campo cognitivo che in campo pratico. La caratteristica essenziale del Karate,

non si basa esclusivamente sul migliorare e migliorarsi, altrimenti si tratterebbe di

un’arte marziale svolta da un singolo individuo senza che abbia contatti con le altre

persone. In effetti, non è questo che Funakoshi chiama : lo spirito del dojo, un

allenamento di Karate viene svolto con tutti allievi, senza fare distinzioni tra etnie,

lingua, società e quindi anche di integrità fisica o mentale, al fine di poter migliorare

insieme supportarsi al fine di raggiungere uno scopo comune qual è non il

raggiungimento del risultato agonistico, bensi il miglioramento di se stessi

mentalmente, fisicamente e spiritualmente.

In una lezione di Karate integrato gli unici accorgimenti che si devono apportare sono

quelli di adattare il Karate al disabile fisico, che si tratti di menomazioni o di varie

categorie di paralisi che costringono il soggetto all’uso della carrozzina, è ovvio che

in questo caso bisogna apportare le opportune modifiche all’allenamento, modifiche

che, tuttavia, non impediscono al disabile a partecipare all’allenamento insieme con

gli altri soggetti. Non si tratta di applicare dei grandi sconvolgimenti, stiamo parlando

solo di piccole modifiche che il disabile deve apportare al suo modo di allenarsi, il

mancato uso delle gambe o di qualsiasi altro arto del corpo non deve essere un

impedimento, in quest’ottica, abbiamo visto come l’uso delle protesi può

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tranquillamente sostituire gli arti perduti. Ma nel caso del disabile in carrozzina, in tal

caso, gli accorgimenti si basano sull’applicare un’allenamento basato esclusiva mento

su tecniche degli arti superiori, andando a rafforzare petto, spalle, addome, bicipiti,

tricipiti e il resto della muscolatura che va dal tronco in su. Gli spostamenti in avanti

o indietro, di lato o i cambi di direzione,possono essere allenati anche sul disabile in

carrozzina, certo i tempi di allenamento e di reazione saranno più lunghi, ma ciò non

impedisce al disabile di potersi allenare, insieme agli allievi normodotati, e di

esprimere al massimo le sue capacità.

3.3 L’ALLENAMENTO, IL KATA E IL KUMITE NEL KARATE

INTEGRATO

Abbiamo detto che un allenamento generale di karate si svolge in diverse fasi :

stretching, kihon, kata e kumitè. Tutti questi elementi sono essenziali per fare in

modo che un allenamento di Karate sia efficace e produca risultati prefissati. Nel caso

di un corso di Karate integrato che presenta nel suo interno sia allievi normodotati,

che allievi disabili, il discorso non è diverso. Lo stretching iniziale non presenta

modifiche di vario genere, stiamo parlando di una fase di semplice riscaldamento, che

combina posizioni di allungamento muscolare sia per arti superiori che inferiori, e di

potenziamento muscolare tramite determinati esercizi a corpo libero facilmente

eseguibili. Non si applicano particolari accorgimenti, in questa fase, si allenano in

maniera simultanea sia gli arti superiori che quelli inferiori, ovviamente gli esercizi

variano di complessità man mano che il grado di cintura aumenta, ma lo scopo è

sempre lo stesso, ossia preparare il corpo allo sforzo che ne seguirà subito dopo

l’allenamento. In questa fase il disabile non trova particolari difficoltà, l’unica

eccezione va fatta tenendo conto delle capacità fisiche ed anatomiche residuali del

disabile in carrozzina. Ovviamente bisogna tener conto che un soggetto con paralisi,

che non può usare gambe o una determinata parte del corpo, tramite il Taiso iniziale,

può migliorare e potenziare la parte residuale ancora funzionante o intatta.

Nel caso del Kihon, ossia la combinazione di tecniche di parata e contrattacco con

uno o più movimenti, nel caso di disabilità mentali del tipo autismo o sindrome di

down, dove viene mantenuta l’integrità fisica, il soggetto disabile non riscontra

particolari problemi, mentre nel caso del disabile in carrozzina, il kihon prevede un

ritmo leggermente diverso, ovviamente le tecniche saranno adeguate alle capacità

funzionali, mentre i movimenti, o meglio il ritmo degli spostamenti seguiranno le

esigenze del disabile, ossia dovranno essere necessari a permettere al disabile fisico,

di muovere la carrozzina in modo da eseguire correttamente lo spostamento in

maniera efficace e nel minor tempo possibile.

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Come possiamo vedere, ogni spostamento per il disabile in carrozzina, deve

richiedere il tempo necessario affinchè riesca a spostare con entrambe le mani le

ruote e infine eseguire la tecnica richiesta. Ciò non vale solo nel kihon ma anche ne

kata stesso, dove ogni combinazione, ogni tecnica richiede determinati spostamenti

seguiti da un ritmo preciso. Ovviemente un disabile in carrozzina avrà un ritmo

leggermente diverso da quello dei normodotati, in quanto dovrà avere il tempo

necessario ad effettuare un spostamento con la carrozzina, pertanto il suo tempo nel

kata si basa su : tecnica, tempo necessario a spostare la carrozzina e infine tecnica

seguente.

Si tratta di ritmi diversi, ma ciò non toglie che con l’allenamento, tramite l’esercizio,

la ripetizione costante, i tempi di spostamento si dimezzino, ciò porterà il disabile a

eseguire il kata nello stesso modo e nelle stesse modalità dei normodotati. Di certo un

disabile mentale, avrà un tempo di assimilazione delle tecniche più lungo per un

disabile fisico, in effetti l’esercizio ripetitivo e costante, può risultare una dura prova

per l’autistico o il soggetto con sindrome di down. In tal caso molte volte, un

esercizio o una combinazione di tecniche non eseguita correttamente può risultare

frustante, per un soggetto disabile, tuttavia è qui che entra il gioco il compito del

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maestro, ossia quello di dare degli input positivi all’allievo. Una semplice frase di

incoraggiamento, una modifica alla postura, o un richiamo severo o comprensivo che

sia, possono diventare elementi di grande importanza per il soggetto disabile che si

sentirà spinto a dare il massimo arrivando a grandi risultati.

In questo modo è possibile creare un allenamento di Karate integrato in maniera

efficace, dove ogni soggetto disabile e normodotato possano allenarsi inseime, allo

stesso ritmo e agli stessi livelli. In questo modo, non si vengono a creare

differenzazioni, qualora il disabile sbagli un movimento o una tecnica, è compito del

maestro riuscire ad apportare gli opportuni accorgimenti senza preoccuparsi del fatto

che sia il soggetto disabile a sbagliare o meno. Nel Karate integrato ogni allievo viene

e deve essere trattato in maniera equa, qualora ci sia da rimproverare, invogliare o

spronare l’allievo, sarà il maestro a decidere i modi con cui farlo, se essere severo nei

suoi consigli o moderato, non fa alcuna differenza, purchè l’allievo riesca a percepire

il bisogno di migliorare e di riuscire a eseguire ogni singola tecnica in maniera

impeccabile.

Altra grande sfida del Karate integrato, è quella dell’allenamento al Bunkai. Ossia la

manifestazione del Kata all’interno del combattimento. In questo caso, ogni bunkai

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deve essere eseguito nelle stesse forme e nelle stesse combinazioni del Kata.

Pertanto, qualora un disabile in carrozzina si trovi ad affrontare un soggetto

normodotato, bisogna tenere conto del fatto che il suo Katà, e di conseguenza il suo

Bunkai sarà esclusivamente basato sull’uso delle tecniche di braccia. Pertanto tutto

dovrà basarsi sulla capacità del soggetto disaile nell’essere abile a deviare

contrattaccare nella tipica forma del Kata da lui imparato

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Come possiamo vedere dalle immagini, nel caso del disabile in carrozzina, ogni

tecnica si basa sull’esclusiva utilizzazione della parte superiore del proprio corpo, ma

ciò non toglie che possa eseguire il Bunkai, in maniera efficace, con un soggetto

normodotato. Pertanto, parlano di disabilità riferita esclusivamente alla parte

cognitiv, in tal cosa il problema non si pone in quanto il soggetto autistico o con

sindrome di down ecc, possono eseguire correttamente un Bunkai tramite l’uso di

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braccia e gambe, di certo l’assimilazione delle tecniche sarà più lenta rispetto ai

normodotati o al disabile in carrozzina steso, tuttavia ciò non deve essere un

impedimento, ancora una volta il l’esercizio continuo, la tenacia e le continue

stimolazioni diventano essenziali affinchè il disabile mentale riesca a eseguire un

Bunkai impeccabile. Nel Caso del disabile fisico, invece, si fa un discorso diverso, in

tal caso bisogna tener conto che il soggetto utilizzerà esclusivamente la parte

superiore o funzionante del corpo per parare e contrattaccare, i suoi tempi di

assimilazione delle tecniche saranno di certo più veloci, ma devono essere

tempisticamente e tecnicamente adeguati alle tecniche e alle combinazioni che gli

verranno sferrate, tuttavia ciò non gli impedirà che il bunkai possa essere eseguito

con i soggetti normodotati del coro.

Per quanto riguarda il Kumite, il discorso si fa più difficile. In genere nelle varie

discipline come il judo o la scherma, possiamo vedere come i soggetti disabili

riescano a gareggiare tra di loro nei più alti livelli di competizione, i non vedenti col

judo riescono ad eseguire tecniche notevoli pari a quelle eseguite dai normodotati,

nella scherma, invece, i disabili in carrozzina riescono ad eseguire affondi o parate di

fioretto o di spada a velocità impressionanti pari a quelle dei campioni olimpionici,

eppure non vedremo mai un Judoka non vedente gareggiare con un Judoka

normodotato, oppure non vedremo mai uno schermidore disabile gareggiare contro

uno schermidore normodotato. Nel karate il discorso non è molto diverso, purtroppo

stiamo parlando del Kumite dove sono necessarie velocità e tempi di reazione

altissimi, i ritmi sono frenetici e il tempo che intercorre tra parata e contrattacco sono

brevissimi, se non addirittura nulli. Sarebbe difficile per un disabile mentale o fisico

che sia riuscire ad adeguarsi ai tempi di reazione dei normodotati. Tuttavia il

continuo allenamento, la pratica estenuante, la continua ricerca della forma perfetta di

Kumite dell’allievo, porta il Karateka disabile a una condizione fisica tale da poter

risultare competitivo ad alti livelli di agonismo. Tutto si basa sul continuo

allenamento, il ripetersi costante di esercizi e tecniche eseguite di volta in volta, in

maniera sempre più precisa, a velocità sempre più elevate permettono all’atleta

disabile di poter effettuare rapidi spostamenti, tempestive combinazioni a velocità

impressionante che gli permetteranno di eguagliare e, dove possibile, superare gli

altri allievi normodotati. Il segreto sta nel non porsi mai limiti, la velocità, una buona

tecnica sono tutti elementi essenziali di un allievo che non si arrende mai di fronte a

qualsiasi tipo di difficoltà, lo spirito di competizione sana che si crea nel dojo, è una

spinta ulteriore a indurre l’allievo disabile a voler fare di più, a voler dare il massimo

e cercare di superare i suoi compagni. Non si creano distinzioni tra disabile o

normodotati, tutti sono spinti dagli stessi obbietivi, ossia dare il massimo al fine di

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raggiungere livelli competitivi ottimali, e il Kasrate integrato è un elemento

essenziale nel raggiungimento di tali obbiettivi, in esso l’atleta disabile può vedere

come gli altri allievi eseguono determinate tecniche, come si spostano per evitare un

colpo, come fare per riuscire ad entrare nella difesa dell’avversario, in poche prole

può confrontare i suoi movimenti con gli altri, capire cosa sbaglia e, senza avvilirsi,

riuscire a migliorare le sue tecniche tramite questo confronto cognitivo.

3.4 IL RUOLO DEL MAESTRO NEL KARATE

In Italia, non sono molte le palestre che praticano un Karate che riesca a mettere

insieme allievi normodotati con allievi disabili, in genere la maggior parte dei maestri

risulta, giustamente, più semplice attuare una differente allenamento tra normodotati

e disabili, cosi creando due classi distinte di allievi e due tipi diversi di allenamento.

In questo modo il disabile può allenarsi in maniera singolare al fine di riuscire a

ottenere risultati efficaci nelle competizioni. In verità, la maggior parte delle palestre

mira al risultato piuttosto che alla crescita cognitiva e fisica dell’allievo, perdendo di

vista il concetto fondamentale di crescita tramite il confronto con gli altri, che è un

elemento fondamentale nel karate stesso. Durante al mia ricerca su un tipo di Karate

integrato che abbattesse le distinzioni che troppe volte si vengono a creare tra

disabilità e normalità, aumentando la discriminazione e il divario cultural e

ideologico rivolto verso le persone disabili, ho potuto incontrare maestri come

Maurizio Paradisi o il maestro Marco de Astis facenti parte della società “Wado Kai

Karate do Shin Gi Tai Italia”, essi esprimono l’essenza del Karate integrato stesso,

vedendoli all’opera si può capire come un maestro di karate integrato debba

comportarsi in una classe cosi eterogenea. Secondo i maestri, non esistono

differenzazioni, nel caso in cui il corso riguardi dei bambini, tutto si riduce al gioco,

che si tratti di bambini disabili o normodotati, è bene che il maestro riesca a

coinvolgerli tramite una forma di karate esprimibile con il gioco in cui tutti possano

partecipare e apprendere. Nel caso di allievi di piccola età, è bene creare degli

espedienti di allenamento al Karate traducibili col gioco, ogni forma di kihon o kata

può essere rivisitata tramite un gioco, magari una sorta di gara a chi è più veloce

nell’eseguire la tecnica, o chi riesca passare più velocemente da una posizione

all’altra in forma corretta ed equilibrata, in poche parole, per i piccoli allievi disabili

o normodotati sarebbe opportuno creare un tipo di Karate che sia esprimibile tramite

il gioco, la forma più coinvolgente per un bambino per partecipare alle lezioni e

indurlo a migliorare e cercare di fare meglio degli altri compagni nel rispetto dei

compagni stessi. In questo contesto, anche il bambino disabile si sentirà spinto a

partecipare e a dare il meglio nel gioco che gli viene proposto, diventando una delle

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pedine fondamentali per portare la squadra o se stesso alla vittoria del gioco stesso,

valorizzando quindi le sue capacità.

Nel caso degli allievi di maggiore età, con una certa maturazione marziale, il discorso

sarà più complesso. In questo caso, il gioco non può diventare più una forma di

apprendimento al Karate, un allievo di cintura superiore (marrone o nera) è

consapevole che i risultati raggiunti e da raggiungere saranno frutti del continuo e

costante allenamento. In questo caso, il compito del maestro, non srà più quello di

invogliare tramite il gioco i propri allievi, ma in tal caso sarà quello di guidare

l’allievo verso un miglioramento delle tecniche apprese quando era cintura inferiore,

l’allievo adulto non deve essere invogliato, ma spinto a dare il massimo in

allenamento, le modifiche tecniche, gli accorgimenti alla postura, vanno fatti

invogliando l’allievo, normodotato o disabile, al miglioramento. Un maestro di

Karate integrato non attua nessuna tipo di differenzazione, se c’è da rimproverare la

mancanza di dedizione o impegno nell’allenamento, non si crea problema se l’allievo

è disabile o normodotato. Non si tratta di invogliare l’allievo a essere il migliore, ma

si tratta di portare l’allievo stesso a dare il massimo, con qualsiasi tipo di input

positivo severo o moderato che sia, l’importante è che l’allievo si senta una parte

integrante di un gruppo di artisti marziali che dà il massimo, che voglia migliorare

insieme alla ricerca di uno scopo comune, ossia il miglioramento interiore ed

esteriore.

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Nel Karate integrato le parole, i suggerimenti e i consigli del maestro, sono dispensati

a ogni allievo e in qualsiasi modo, qualora il maestro si mostri apprensivo o morbido

nei confronti dell’allievo disabile, magari mostrando un’errata comprensione per le

sue condizioni, senza modificare delle tecniche sbagliate, una posizione sbagliata nel

Kata e non richiamata, senza correggere un atteggiamento svogliato nel Kumite o

nell’allenamento, finirà col creare una sorta di involontaria estraneazione del disabile

dal gruppo, il quale finirà col percepire questo suo senso di diversità, accentuando il

senso di diversità tra disabile e normodotato che dovrebbe essere del tutto estraneo al

Karate integrato.

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CONCLUSIONI

Cercare di creare o adattare un sport in modo che possano parteciparvi sia disabili che

normodotati insieme non è facile, bisogna tener conto delle caratteristiche anatomico-

psicologiche di ognuno dei partecipanti. Riuscire a creare un tipo di allenamento che

sia eseguibile per i disabili ma che allo stesso tempo sia efficace anche per i

normodotati non è affatto semplice, da un lato si rischia di introdurre esercizi troppo

approssimativi a discapito del miglioramento dell’atleta normodotato, dall’altro lato

se gli esercizi sono troppo complessi nella loro esecuzione rischiano di avvilire il

disabile qualora non riesca a eseguirlo portandolo a sentirsi estraniato e in qualche

modo diverso.

Lo scopo di uno sport integrato deve essere quello di riuscire a eliminare quelle

barriere sociologiche psicologiche che si creano sulla concezione del disabile, il

quale deve sentirsi parte integrante di un gruppo. Ciò non vuol dire che deve essere

considerato a tutti gli effetti come un soggetto normodotato, perché se cosi fosse, si

rischierebbe di sovraccaricarlo di impegni fisici e mentali notevolmente pesanti, che

potrebbero risultare controproducenti sia dal punto di vista anatomico che

psicologico. Uno sport integrato, deve fare in modo di riuscire a invogliare ogni

singoli allievo all’impegno e alla dedizione, deve ispirare l’atleta a esprimere tutto il

suo potenziale e migliorarlo di allenamento in allenamento, l’allievo deve sentirsi

spinto a mettersi in gioco, a confrontarsi con gli altri allievi in modo da imparare

qualcosa e insegnare qualcosa, un sentimento di reciproco aiuto sia con gli altri

allievi normodotati che con quelli disabili. Ogni lezione deve cercare di abbattere

quelle barriere psico-sociali che si creano quando si parla di disabilità. Deve cercare

di mostrare il disabile come un soggetto competitivo in grado di potersi confrontare

con gli altri allievi e diventare anche un punto di riferimento per riuscire a migliorare

il gruppo.

Il Karate ingrato, come mi diceva il maestro Marco De Astis, deve avere come punto

fondamentale quello di riuscire a far emergere il potenziale del soggetto disabile,

riuscire a trovare i suoi punti di forza e renderlo competitivo persino contro i soggetti

normodotati. Nella palestra Tellene Karate, il Maestro dirige allenamenti con due tipi

di disabili, uno in carrozzina e un altro Autistico, eppure quondo si assiste agli

allenamenti, non si percepisce nessun tipo di differenzazione, l’allenamento è quello

tipico del Karate, il Taiso ossia il riscaldamento iniziale (diretto dal soggetto

autistico), i kata sono quelli del Karate Wado Ryu, cioè veloci e dinamici eseguiti in

maniera impeccabile, il kihon mantiene le sue tipiche tradizioni giapponesi,

concentrazione, velocita negli spostamenti e nelle tecniche, attenzione al respiro e

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all’intensità con cui vengono apportati i colpi. C’è tutto, a un occhio inesperto,

sembrerebbe di assistere a una normale lezione di Karate con gli allievi che seguono

ogni singola direttiva del maestro, apprezzandone i suggerimenti, le modifiche alla

postura, un richiamo, a volte persino severo, qualora la tecnica non sia apportata nel

modo giusto. Se non fosse, che alle lezioni del Maestro De Astis, è possibile vedere

un disabile in carrozzina che esegue tecniche in maniera impeccabile, un autistico che

ha vinto gare nazionali di kata, ed ha persino gareggiato con allievi normodotati della

su categoria arrivando al quarto posto. Possiamo vedere duerante questi allenamenti,

ciò che è l’essenza del Karate integrato, ossia il desiderio di fare Karate tutti insieme,

senza creari divari o divisioni, si crea quel desiderio comune di miglioramento, la

voglia di conoscere nuove tecniche, nuovi Kata persino più complessi, senza farsi

nessun problema riguardo le difficoltà. Col Maestro De Astis, abbiamo parlato di

quali siano le vere difficoltà del Karate integrato, e non riguardano il fatto di riuscire

ad adattare l’allenamento al tipo di disabili presenti nel dojo, anzi l’adattamento, se

c’è, a malapena è visibile. Il problema principale, mi diceva il maestro,riguarda

quello di riuscire a creare delle linee guida sulla quale basarsi per creare un

allenamento di Karate integrato. Sappiamo che ogni disabile, e ogni tipo di disabilità

presenta delle peculiarità psico-fisiche particolari, ad esempio il soggetto autistico

troverà grandi difficoltà non solo col relazionarsi con gli altri, ma anche nella

memorizzazione delle tecniche di kata, invece il soggetto paralitico in carrozzina

dovrà adeguare le sue modalità di esecuzione degli spostamenti e delle tecniche, il

soggetto con sindrome di down dovrà essere invogliato alla partecipazione, all’inizio

risulterà difficile per lui eseguire persino tecniche semplici di stretching. Tutte queste,

e molte altre ancora, sono le problematiche di base su cui si poggia il Karate

integrato, la mancanza delle linee guida, una sorta di compendio su cui basarsi per

dare il via all’allenamento di Karate integrato, qualcosa su cui il maestro può ispirarsi

per dare inizio semza problemi a una lezione di Karate con disabili e normodotati.

Il Karate ci insegna che i movimenti del proprio corpo sono strettamente legati a ciò

che siamo, alla nostra personalità. In questo modo, esso diventa uno strumento

essenziale per entrare in contatto con noi stessi, l’allenamento, i kata, il umite,

diventano gli elementi essenziali, per coinvolgere la persona, cercando di migliorare e

accettarci cosi come siamo. Un allenamento di Karate, aiuta a conoscere e migliorare

noi stessi, favorisce l’autostima, sviluppa capacità cognitive come la memoria,

l’attenzione, la concentrazione e la variabilità di pensiero, sviluppando un

fondamentale senso di rispetto per se stesso e per gli altri.

Sono decisamente poche le scuole in cui si pratica il Karate con il concetto di sport

integrato, che coinvolge e spinge i ragazzi alla pratica motoria e sportiva, vista anche

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come beneficio fisico e psichico. La finalità principale delle scuole di Karate

integrato, si basa sull’integrazione del ragazzo disabile nella società, attraverso

un’accurata programmazione dell’attività e un’attenta analisi delle problematiche.

Inoltre l’attività motoria del Karate, rivolta alle persone disabili e normodotati in un

contesto di integrazione, viene vissuta, dai ragazzi disabili, come un momento di

conquista dell’autonomia personale e di gratificazione per il miglioramento

dell’autostima, mentre per il soggetto normodotato viene vista come un momento di

arricchimento personale e come uno stimolo a superare i pregiudizi e i preconcetti

rivolti alla disabilità. Sono pochissimi i centri in Italia in cui si pratica Karate

integrato, una di esse è la Tellene SSD Karate, dove il maestro Marco De Astis

coadiuvato dal maestro Maurizio Paradisi, svolgono quest’attività rivolta alle persone

disabili, insegnando loro la pratica del Karate adattato, inserendo tutti gli allievi in un

progetto di Karate integrato, facendoli gareggiare ad eventi e manifestazioni

internazionali, trasferendo a tutti gli allievi, lo spirito dell’arte marziale, dove non

esistono limiti e tutto è possibile.

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