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Università Sapienza di Roma Facoltà di Scienze Politiche Dottorato di ricerca in Teoria dello Stato ed istituzioni politiche comparate Tesi Alle origini del potere costituente Genesi di un concetto giuridico Tutor Prof.ssa Teresa Serra Dottorando Maurizio Ricci

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Università Sapienza di Roma Facoltà di Scienze Politiche

Dottorato di ricerca in

Teoria dello Stato ed istituzioni politiche comparate

Tesi

Alle origini del potere costituente Genesi di un concetto giuridico

Tutor Prof.ssa Teresa Serra

Dottorando Maurizio Ricci

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Indice p. Introduzione Individuazione del concetto di potere costituente e delimitazione dell’ambito specifico di ricerca 9 1.0. Introduzione. 11 1.1. Il potere costituente nella scienza giuridica. 17 1.2. Il potere costituente può essere soltanto un concetto storico. 22 1.2.1. La storia concettuale come prospettiva necessaria di indagine. 23 1.3. Caratteri fondamentali della struttura concettuale del potere costituente. 25 1.3.1. Il potere costituente: evento tra struttura e rappresentazione. 27 1.4. L’esperienza costituzionale inglese del XVII secolo quale oggetto di una ricerca genealogica sul potere costituente.

Parte I L’Antica Costituzione

fra mutamento storico e mutamento giuridico p. Capitolo I Una Comparazione eccentrica 35 1.1. L’estraneità del common law al formalismo. 41 1.2. Un diritto immemoriale. 47 1.3. Il particolare rapporto tra ragione e storia alla base dell’evoluzione

del common law. Capitolo II La forma dell’Antica Costituzione

55 2.1. Introduzione. 59 2.2. Il dualismo tra centro e periferia alla base del modello statuale

continentale.

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67 2.3. La sovranità inglese. 67 2.3.1. Centralizzazione giuricentrica. 70 2.3.2. La peculiarità del dualismo inglese. 72 2.3.3. Il corpo mistico della repubblica. 83 2.4. Il costituzionalismo repubblicano come oggetto di ricerca. 87 2.4.1. L’enjeu dell’Antica Costituzione.

Capitolo III Il contenuto dell’Antica Costituzione 91 3.1. Dominium e costituzione. 95 3.1.1. La «Gewere» all’origine del rapporto dualistico di sovranità. 98 3.2. Il governo feudale del territorio. 102 3.2.1. La signoria fondiaria come unità nucleare del sistema di sovranità

feudale. 105 3.2.2. La Repubblica e l’Antica Costituzione come forme sostanziali

basate sulle libertà cetuali. 108 3.3. La crisi del costituzionalismo antico. 116 3.3.1. Dominium senza imperium. 119 3.3.2. La dimensione costituente della crisi. 123 3.3.3. Le potenzialità aperte alla rivoluzione.

Parte II Individualismo e autoaffermazione umana

p. 129 Introduzione. Capitolo I Secolarizzazione, Enlightenment, potere costituente. La liquidazione del problema dell’attesa 133 1.1. Saeculum. 137 1.1.1. Il limite della mondanizzazione. 143 1.2. L’eterno ritorno ad una forma nuova. 149 1.3. Il puritanesimo come base della definizione pattizia del potere

politico. 158 1.4. Fictio figura veritatis.

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Capitolo II «Terminare la rivoluzione». Ovvero il problema dell’inquadramento dei tre presupposti del concetto moderno di potere costituente in Hobbes e Locke

167 2.1. Introduzione. 172 2.2. Il diritto all’appropriazione all’origine dell’elaborazione del concetto

di stato di natura. 174 2.2.1. Hobbes. 186 2.2.2. Locke. 194 2.3. I concetti di contratto e rappresentazione alla base della costituzione

come struttura funzionale. 194 2.3.1. La rappresentanza assoluta hobbesiana. 209 2.3.2. Il contratto lockeano. Il principio della ragion sufficiente sulla

soglia epocale della nuova legittimità. 226 2.4. Un’astrazione determinata alla base della struttura concettuale del

potere costituente moderno. 245 Bibliografia.

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«Ciò che dilegua è il determinato o la differenza che, comunque sia e quale che sia la sua origine,

si presenta come fisso e immutabile» (G.W.F. Hegel)

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Introduzione Individuazione del concetto di potere costituente e delimitazione dell’ambito specifico di ricerca 1.0. Introduzione. 1.1. Il potere costituente nella scienza giuridica. 1.2. Il potere costituente può essere soltanto un concetto storico. 1.2.1. La storia concettuale come prospettiva necessaria di indagine. 1.3. Caratteri fondamentali della struttura concettuale del potere costituente. 1.3.1. Il potere costituente: evento tra struttura e rappresentazione. 1.4. L’esperienza costituzionale inglese del XVII secolo quale oggetto di una ricerca genealogica sul potere costituente.

1.0. Introduzione.

Potere costituente e costituzionalismo moderno si intrecciano a tal punto che l’odierna e apparente inattualità del primo si associa alla crisi attraversata dal secondo. D’altra parte le stagioni più fruttuose per il costituzionalismo coincidono sempre con le irruzioni del potere costituente nella storia. Teoria e prassi del potere costituente coincidono nelle due rivoluzioni e nel pensiero di Sieyès e dei costituzionalisti americani. Il potere costituente si presenta perciò come un concetto storicamente determinato; legato ad un determinato percorso storico allo stesso grado in cui risulta indissolubilmente intrecciato alle sorti di una determinata scienza giuridica1. L’inattualità, l’inutilità e la precarietà di una ricerca sul potere costituente si dovrebbe così giustificare in modo radicale con la crisi strutturale del costituzionalismo moderno, se non fosse che la sua recente trattazione presenta una palese divaricazione, che ripropone il carattere enigmatico che il concetto di potere costituente è destinato a portare con sé fin dalla sua origine. Da un lato il problema del potere costituente sembra poter essere sviluppato soltanto nei suoi aspetti filosofici: o come problema della riproposizione all’interno del diritto del sacro, dell’irrazionale, o del teologico-

1 Per un’analisi storico-giuridica dell’evoluzione del rapporto tra potere costituente e

costituzionalismo moderno v. M. Fioravanti, Costituzione: problemi dottrinali e storici, in Id., Stato e Costituzione: materiali per una storia delle dottrine costituzionali, Giappichelli, Torino, 1993, pp. 105-148; Id., Liberalismo: le dottrine costituzionali, in Stato, cit., pp. 151-183; Id., Costituzione, Il Mulino, Bologna, 1999;. G. Zagrebelsky, Storia e diritto, in Il futuro della costituzione (a cura di G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther), Einaudi, Torino, 1996, pp. 35-81; P.G. Grasso, (voce) Potere Costituente, in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Giuffré, Milano, 1962, pp. 642-670; C. Mortati, (voce) Costituzione, in Enciclopedia del diritto, cit., XI, pp. 140-213; in particolare per quanto riguarda l’esperienza costituente italiana del secondo dopoguerra v. P. Pombeni (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, Il Mulino, Bologna, 1992.

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politico2, o tutt’al più in chiave filosofico-politica come prospettiva da tener presente nella critica politica alla modernità e della scienza costituzionale3; dunque, soltanto nella misura in cui lo sviluppo di tale questione esuli dal terreno del giuridico. Dall’altro lato, la scienza giuridica continua a riproporre il problema del potere costituente sostanzialmente negli stessi termini in cui veniva proposto già nel corso dell’esperienza costituzionalistica della prima metà del Novecento4, con la semplice aggiunta del fatto che ora si constata la liquidazione del potere costituente, poiché il problema dell’effettività, o della vitalità5, delle carte costituzionali si riduce concretamente soltanto ad un problema di interpretazione e di coordinamento interordinamentale6. Il potere costituente, in questo senso, ancorché non estinto o esaurito7, risulta quindi variamente integrato nel sistema costituzionale tramite i recenti approcci discorsivisti8 o neo-contrattualistici9 sulla costituzione, o tramite la riproposizione delle dottrine della costituzione materiale, magari combinate con l’innovazione apportate dai primi10. Naturalmente il carattere sempre più specializzato e parcellizzato del sapere scientifico non è estraneo a questa divaricazione; e tuttavia si deve fin da subito constatare che l’origine di questo enigma, - e di questa divaricazione attuale degli studi sul potere costituente -, ha luogo interamente nel campo del giuridico ed è rinvenibile nella prima caratteristica generale che contraddistingue il concetto di potere costituente: quella di essere un concetto che fa la sua comparsa unitamente al fenomeno della razionalizzazione del diritto, ma che allo stesso tempo si dimostra

2 Di «enigma del potere costituente» parla F. Rimoli, in un saggio intitolato Stato di eccezione e

trasformazioni costituzionali: l’enigma costituente, in www.aic.it, nel quale l’autore sviluppa le linee di tipo filosofico e teologico-politiche offerte dal tema del potere costituente e dell’eccezione riuscendo però a mantenere costante il riferimento alle problematiche di carattere giuridico costituzionale. Su quest’ultimo punto v. D. Chalmers, Constituent Power and the Pluralistic Ethic, in The Paradox of Constitutionalism. Constituent Power and Constitutional form (a cura di M. Loughlin e N. Walker), Oxford University Press, 2007, p. 299.

3 Per questa prospettiva v. A. Negri, Il Potere Costituente, Manifestolibri, Roma, 2002. 4 Cfr. P.G. Grasso, voce Potere ostituente, cit., pp. 642-670; C. Mortati, Costituzione, cit., pp. 140-178;

anche P. Barile, (voce) Potere costituente, in Nuovissimo Digesto Italiano, XIII, 1966, pp. 443-450 5 Effettività e «vitalità», utilizzando volutamente il termine adottato da Santi Romano, sono i due

concetti intorno ai quali ruota necessariamente l’intera elaborazione dottrinale della scienza giuridica continentale riguardo al problema dell’individuazione di una teoria giuridica del potere costituente. Sul concetto di vitalità v. S. Romano, L'ordinamento giuridico: studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Mariotti, Pisa, 1917; Id., L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e la sua legittimazione, Modena, 1901, pp. 3-74; sul concetto di effettività v. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1966, pp. 57-63, 235-238; v. anche il classico P. Piovani, Il significato del principio di effettività, Giuffré, Milano, 1953.

6 Cfr. P. Häberle, (voce) Potere costituente (teoria generale), in Enciclopedia Giuridica Treccani, agg. IX, 2001, pp. 1-53; Id., (voce) Stato costituzionale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXX, Roma, 1991; v. anche P. Carrozza, Costitutionalism’s Post-Modern Opening, in The Paradox, cit., pp. 169-187.

7 Di liquidazione o estinzione del potere costituente parla M. Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in «Quaderni costituzionali», n. 1, 1995, pp. 7 ss. Dello stesso autore v. anche la voce Costituente (potere), in Digesto delle discipline pubblicistiche, Utet, Torino, 1989, IV.

8 Oltre alle già citate voci enciclopediche di P. Häberle, si v. J. Habermas, Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini, Milano, 1996; sul punto cfr. R. Nickel, Private and Public Autonomiy Revisited: Habermas’ Concept of Co-originality in Times of Globalization and the Militant Security State, in The Paradox, cit., pp. 156 ss.

9 Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 171 ss.; per una critica di questo punto di vista v. A. Negri, Il lavoro di Dioniso: per la critica dello stato postmoderno, Manifestolibri, Roma, 1995.

10 Cfr. M. Fioravanti, Potere costituente e diritto pubblico, in P. Pombeni, Potere costituente, cit., pp. 55-77.

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essere per sua natura refrattario al processo di razionalizzazione11. Questa ambivalenza del rapporto tra potere costituente e razionalizzazione si riflette in maniera diretta nella distinzione operata efficacemente da Sieyès tra potere costituente e potere costituito12.

1.1. Il potere costituente nella scienza giuridica. E’ sulla base di questa prima distinzione concettuale, di questa antitesi, che si articola, non solo l’efficace elaborazione di Sieyès, ma l’intero ragionamento della scienza giuridica successiva intorno al tema del potere costituente. Quest’ultima si trova di fronte a due scelte fondamentali: o considerare il potere costituente come esterno al sistema costituzionale, - e dunque approfondire tutte le implicazioni di quella distinzione -, o considerare il potere costituente come interno al sistema costituzionale stesso, cercando in questo modo di rompere la rigidità di quella opposizione, e di superare quell’antitesi13. Seguendo il punto di vista esterno si può immediatamente intravedere una opzione di tipo normativista che, approfondendo il carattere formalista e procedurale del diritto, ricaccia immediatamente il potere costituente nell’ambito del pregiuridico secondo una rigida distinzione tra diritto e politica che lascia spazio soltanto alla comprensione dell’autonomia scientifica del sistema giuridico, escludendo non solo qualsiasi tipo di comprensione giuridica del potere costituente, ma impedendo anche di comprendere giuridicamente i mutamenti extra-ordinem dei sistemi14. Speculare a questa via, ma con un approccio non meno positivista, si colloca il pensiero di Santi Romano, il quale, sebbene si prodighi al fine di negare la legittimità giuridica di una teoria del potere costituente, tuttavia riconosce, al pari della natura positiva del diritto, l’inevitabile presenza e dinamicità che il potere costituente può imprimere agli ordinamenti giuridici. «A prescindere da ogni giustificazione filosofico-giuridica, - afferma Romano - l’idea di un potere costituente concepito come diritto del popolo, è il prodotto di un movimento storico, una manifestazione della coscienza giuridica odierna, e, come tale, esso deve riconoscersi come qualche cosa che

11 Cfr. E.W. Böckenförde, Il potere costituente del popolo: un concetto limite per il costituzionalismo, in Id.,

Stato, costituzione, democrazia: studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, Giuffré, Milano, 2006, pp. 113-119, 136; M. Weber, Sociologia del diritto, in Id., Economia e Società, III, Edizioni di Comunità, 1995, pp. 174 ss. Sul punto v. però le osservazioni di A. Negri, Il Potere, cit., p. 19.

12 Cfr. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato? (a cura di U. Cerroni), Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 96-97; E.W. Böckenförde, Il potere costituente, cit., pp. 118, 122, 127.

13 Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 12-15. Per A. Negri le varie nozioni di potere costituente sviluppate dalla scienza giuridica moderna possono essere fatte rientrare all’interno di quattro categorie principali. Vi è un’opzione trascendente e negatoria avanzata dal normativismo. Due opzioni che cercano di rendere immanente e coestensivo della definizione di potere costituito il potere costituente, coincidenti da un lato con il neocontrattualismo e dall’altro con le teorie del costituzionalismo socialdemocratico e la dottrina dell’integrazione di Smend. Infine, una quarta opzione identifica il potere costituente come integrato nel sistema costituzionale tramite la definizione di costituzione materiale di Mortati. Si discosta solo parzialmente da questa impostazione la ricostruzione operata nel volume The Paradox, cit., pp. 6-7. V. anche M. Fioravanti, Potere costituente, cit., pp. 55-77.

14 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 222-231, 235-243.

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effettivamente esiste, senza preoccuparsi delle difficoltà cui la sua spiegazione dà luogo15». Il punto di vista esterno, e apparentemente soltanto di tipo descrittivo, è qui massimo ed è in grado di delineare diverse sfaccettature del problema. In primo luogo, come riconoscerà anche Carl Schmitt, il potere costituente quale prodotto di un movimento storico rappresenta un’acquisizione della quale è ormai impossibile fare a meno poiché rappresenta lo stesso processo storico dal quale è impossibile tornare indietro16. Il potere politico e il sistema costituzionale necessitano per la propria esistenza di una legittimazione popolare; il titolare della sovranità può essere ormai soltanto il corpo sociale che liberamente, per mezzo di un processo di legittimazione, decide le condizioni del patto politico di sottomissione, e quindi i termini della delega dell’esercizio del governo e della sovranità a determinati organi e procedure17. Il problema è a questo punto rappresentato dal fatto che questo potere di fatto può sempre rovesciare il sistema di legittimazione formale, può sempre rovesciare il potere costituito, poiché «dall’abisso infinito e insondabile del suo potere sorgono forme sempre nuove, che essa può infrangere quando vuole e nelle quali essa non cristallizza mai definitivamente il proprio potere. Essa può esprimere quando e come vuole la propria volontà, il cui contenuto ha sempre il medesimo valore giuridico del contenuto del dettame costituzionale. Essa diventa il soggetto illimitato e illimitabile degli jura dominationis, non necessariamente da circoscrivere al caso d’emergenza. Non è mai autocostituentesi, ma sempre costituente altro da sé; perciò il suo rapporto giuridico con l’organo costituito non si pone mai in termini di reciprocità18». In secondo luogo l’approccio di Romano, sebbene non in grado di collocare in maniera definitiva il potere costituente, sempre in via di negazione, sulla base dell’opposizione di stampo positivista tra atto e fatto è comunque in grado di spiegare i processi di mutamento istituzionale. Il potere costituente è per Romano quel potere giuridico di fatto, la necessità che può imporre agli ordinamenti il proprio mutamento dal di fuori del proprio diritto positivo19. Nel caso invece in cui questo mutamento non venga imposto, il potere costituente e la necessità possono allora diventare i concetti che soli forniscono vitalità agli ordinamenti, ossia che permettono la connessione costante tra l’origine sociale del diritto e la forma istituzionale e statuale del fenomeno giuridico20.

15 S. Romano, L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e la sua legittimazione, Modena, 1901,

p. 10. Sulla posizione di Romano in merito al tema del potere costituente e al concetto di vitalità v. anche G. Miglio, Una Repubblica migliore per gli italiani, Giuffré, Milano, 1983, pp. 141-142.

16 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, Giuffré, Milano, 1984, pp. 109 ss, 130 ss.; Id., La Dittatura. Dalle origini dell'idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Settimo Sigillo, Roma, 2007, pp. 173-183.

17 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 118-129. Riprendendo e modificando parzialmente la definizione schmittiana di potere costituente E.W. Böckenförde precisa che il concetto di potere costituente, in quanto è generato dal popolo, non può che rimanere dipendente da quello stesso soggetto da cui promana. Cfr. E.W. Böckenförde, Il potere costituente del popolo, cit., pp. 118 ss.

18 C. Schmitt, La Dittatura, cit., p. 179. 19 In definitiva, il problema della comprensione e dell’inquandramento del potere costituente da

parte della scienza giuridica moderna viene risolto, secondo questa prospettiva, anche da un positivista organicista quale G. Jellinek. Cfr. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto e dello Stato, Giuffré, Milano, 1949, pp. 78-79, 115-118.

20 Si può affermare che seguendo questa impostazione dell’analisi del problema del potere costituente fornita dal giovane Romano è possibile il richiamo diretto alla successiva e prescrittiva

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D’altra parte si deve ricordare come appartenga a Carl Schmitt l’estremo tentativo di una razionalizzazione del potere costituente, attraverso l’inserimento all’interno del circuito formale della costituzione di un potere svincolato dai limiti del diritto costituito e dalle procedure, al fine di garantire l’unità stessa della costituzione21. Tuttavia, a questo livello ci troviamo già a fare i conti con un approccio non più di tipo esterno e descrittivo, ma interno e chiaramente prescrittivo. Se infatti sul piano analitico Schmitt coglie chiaramente la portata del concetto di potere costituente, al momento di fornire una possibile via d’uscita alla crisi del costituzionalismo incappa irrimediabilmente in una teoria del potere costituente predeterminata che pretende di poter identificare tale capacità, prima con il fine normativo della tutela della costituzione che avrebbe dovuto contraddistinguere la dittatura commissaria, poi con un modello politico fondato sulla decisione pura che nella migliore ipotesi avrebbe portato a concepire il potere costituente solo nella forma plebiscitaria22 e comunque allineato al paradigma concettuale dell’eccezione23. In breve, è seguendo questo punto di vista che la distinzione concettuale tra potere costituente e potere costituito diviene massima e la divaricazione attuale degli studi sul potere costituente è costretta inevitabilmente a svilupparsi a causa della sua natura epistemica24. Riassumendo, il punto di vista esterno ci consegna sul piano analitico un primo elemento di chiarificazione del concetto consistente nella constatazione che il potere costituente rappresenta la possibilità sempre aperta del divenire giuridico. Peculiarità di questa forza sempre aperta e mutevole è quella di essere illimitata e non inquadrabile in una determinata forma, di non essere necessariamente circoscrivibile al caso di emergenza e di non doversi determinare dialetticamente rispetto all’organo costituito25. L’incompatibilità di questa definizione con l’altro concetto di potere costituito è un’incompatibilità piena senza mediazioni. Quest’ultimo, infatti, diviene l’unica misura della scienza giuridica; il rischio, a questo punto, non consiste solamente nella tentazione all’abbandono dell’approccio giuridico, ma soprattutto in una riduzione, da parte della scienza positivistica, del potere costituente ad un processo di legittimazione formale e predeterminabile26. Il potere costituente, in questo senso, da

dottrina della costituzione materiale. Cfr. C. Mortati, La Costituente, in Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello stato, Giuffré, Milano, 1972, pp. 7-101.

21 Cfr. C. Schmitt, La Dittatura, cit., pp. 249-301 (Appendice I, La dittatura del Presidente del Reich secondo l’Art. 48 della costituzione di Weimar). Su tale punto v. anche M. Ricci, Recensione a, C. Schmitt, La Dittatura, Roma, Edizioni Settimo Sigillo, 2006, in «Nomos», n. 3, 2006, pp. 263-277.

22 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 120-121. 23 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, Il

Mulino, Bologna, 1972, pp. 43 ss.; Id., Dottrina, cit., p. 111. per quanto riguarda la relazione e la dipendenza del concetto continentale moderno di costituzione da questo paradigma concettuale v. Parte II, Cap. II, par. 2.3.1, pp. 188 ss.; Parte I, cap. II, par. 2.2, pp. 55-62.

24 Una efficace critica di questo punto di vista esterno è sviluppata da G. Miglio intorno a due coppie concettuali a fondamento del diritto contemporaneo: l’opposizione tra atto e fatto giuridico e tra legalità ed illegalità. Cfr. G. Miglio, Una Repubblica migliore per gli Italiani, Giuffré, Milano, 1983, pp. 111-123, 141-150.

25 Cfr. C. Schmitt, La Dittatura, cit., pp. 176-179; Id., Dottrina della Costituzione, pp. 114-115, 130-132; cfr. P.G. Grasso, (voce) Potere Costituente, cit., pp. 655-656; dello stesso autore v. anche Il potere costituente e le antinomie del diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2006.

26 Cfr. E.W. Böckenförde, Il Potere costituente, cit., pp. 125-142 (par. III, Attività del potere costituente del popolo e forme in cui tale attività si esercita, e, par. IV, Vincoli giuridici al potere costituente); sulla contraddizione tra potere costituente e vincolo sul futuro cfr. S. Holmes, Vincoli costituzionali e paradosso della democrazia, in Il futuro della costituzione, cit., pp. 171 ss.

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formante originario diviene improvvisamente concepibile soltanto come forma giuridica, ovvero esso per manifestare la propria giuridicità deve pur sempre esprimersi attraverso un qualche organo che dal momento in cui inizia ad operare diviene un che di formale, ossia un potere costituito; dunque, deve cessare di essere costituente, per divenire anch’esso qualcosa di sostanziale e ordinabile però in senso logico formale27. Per assurdo un’impostazione di questo tipo, che muove dalla distinzione tra potere costituente e potere costituito, sebbene arrivi a negare sostanzialmente la definizione del primo, non può paradossalmente eliminare la possibilità che una potestà effettivamente costituente si esplichi attraverso poteri costituiti, non solo nelle cosiddette rotture occasionali della costituzione, ma per mezzo di interventi costanti e più o meno organici che grazie al carattere procedurale del diritto stesso, possono alterare la struttura sostanziale della costituzione28. In altri termini si manifesta qui la contraddizione interna all’approccio positivista che riproduce la distinzione tra potere costituente e potere costituito, ossia l’opposizione e la supremazia dell’effettività (efficacia) sulla validità delle norme, opposizione che nella dinamica ordinaria del sistema giuridico si presenta come un contrassegno ex-post del riconoscimento del fenomeno giuridico, ma che in relazione al potere costituente diviene un presupposto indispensabile di tale verifica29. E’ indubbio, poi, che «il potere costituente è una volontà politica il cui potere o autorità è in grado di prendere la decisione concreta fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza dell’unità politica30», se non fosse che una tale definizione si colloca esclusivamente su un piano analitico-empirico. Infatti, nel momento in cui una tale nozione pretendesse di acquisire un contenuto normativo predeterminabile, la definizione di potere costituente coinciderebbe con quello che in termini schmittiani viene definito concetto ideale di costituzione31. Passando così ad un punto vista interno, si può notare come il grado di prescrittività avvolge allo stesso tempo sia la definizione di potere costituente sia quella di costituzione alla quale tale potere si intreccia. Il superamento dell’antitesi tra potere costituente e potere costituito è ottenuto nella misura in cui si cerca di neutralizzare il potere costituente all’interno di una determinata dottrina della costituzione. In primo luogo, ciò può avvenire tramite una riduzione di tipo procedurale del potere costituente all’interno dei circuiti formali del diritto costituito. In questo modo il potere costituente si esaurisce nel momento stesso dell’atto di costituzione del nuovo ordinamento, ossia nel momento in cui il potere costituente continuerebbe a esprimersi nelle attività disciplinate dal potere costituito32. In secondo luogo, il carattere

27 Cfr. A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, Cedam, Padova, 2002, pp.

100-110. 28 Cfr. A. Pace, Potere costituente, cit., pp. 111 ss., 121. 29 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 235-243; in definitiva il limite del normativismo

è quello di doversi comunque rassegnare su un piano sostanziale a rimanere legato al carattere esclusivamente formale degli autovincoli del potere statuale come aveva già specificato Jellinek. Cfr. G. Jellinek, La dottrina, cit., pp. 78-79.

30 C. Schmitt, Dottrina della costituzione, pp. 109-110. 31 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, pp. 58-64. 32 E’ questa in fondo anche l’intenzione di Sieyès. Cfr. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato?, cit.; cfr. P.

Pasquino, Sieyès et l'invention de la Constitution en France, Odile Jacob, Paris, 1998, pp. 35-49; Carré de Malberg, Contribution à la theorie générale de l’Etat, Parigi, 1922; V.E. Orlando, Diritto costituzionale: lezioni,

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prescrittivo della definizione diviene massimo nel momento in cui si cerca di stabilire dei limiti alla potestà costituente basati sui valori, come il limite considerato da talune parti come invalicabile della violazione dei diritti fondamentali, o come la violazione del principio della separazione dei poteri33. Il carattere prescrittivo assume invece una tonalità più debole, ma non meno efficace, nelle ipotesi neocontrattualiste e soprattutto discorsiviste, che tentano di adattare in modo flessibile le strutture formali ed ormai reticolari della costituzione alle diverse esigenze sempre mutevoli espresse da una società plurale dalla quale è impossibile estrapolare un nucleo di interessi o una forza politica particolarmente egemone alla quale riconoscere il ruolo di costituzione materiale34. Una diversa ipotesi basata sulla fine dell’antitesi tra i due tipi di potere è offerta, inoltre, da un approccio funzionalista e sistemico allo studio della costituzione. Anche in questo caso, infatti, il potere costituente si risolve in definitiva nella costituzione, laddove però quest’ultima si definisce non sulla base dello statuto epistemico della scienza giuridica, ma bensì in modo tautologico in relazione alla modulazione procedurale delle strutture sociali nella loro complessità, e dunque in relazione alla capacità di estendere la definizione giuridica alle più diverse sfaccettature sociali secondo un approccio sistemico35. Tuttavia, se proprio questo tipo di approccio sarà preso in considerazione in riferimento alla definizione di costituzione inglese, dall’altro lato, si deve fin da subito osservare come, seppure questa ipotesi muova da una premessa di integrazione del potere costituente nella definizione di costituzione, in realtà non possa essere considerata un dottrina del potere costituente poiché essa in fin de conti punta sostanzialmente alla sua completa negazione. Se, infatti, a differenza delle ipotesi di tipo interno precedenti, quest’ultima non si basa su un presupposto di tipo prescrittivo, d’altro canto nel momento in cui questo tipo di approccio si trova a dover fornire una definizione di tipo dinamico della strutturazione costituzionale, risolve il problema della definizione del fenomeno giuridico nei concetti di procedura e funzione, tralasciando completamente la questione della dimensione soggettiva nei processi di strutturazione costituzionale36. In ogni caso la combinazione di queste due ultime opzioni con la dottrina tradizionale della costituzione materiale può rappresentare un punto di vista interessante per chi si propone di sviluppare un’ipotesi di integrazione del potere costituente all’interno del sistema costituzionale delle società contemporanee. Infatti, è bene sottolineare che su un piano analitico-empirico, similmente alla definizione schmittiana, il potere costituente si identifica sempre, al momento Libreria della Sapienza, Roma, 1923. Questa impostazione normalmente si accorda con l’attribuzione del carattere di flessibilità delle carte costituzionali nel corso dell’Ottocento. Su quest’ultimo punto v. però J. Bryce, Costituzioni flessibili e rigide (a cura di A. Pace), Giuffré, Milano, 1998; A. Pace, Potere costituente, cit., pp. 22-100, 126 ss.

33 Cfr. E.W. Böckenförde, Il Potere costituente, cit., pp. 136-142; S. Holmes, Vincoli costituzionali e paradosso della democrazia, in Il futuro della costituzione, cit., pp. 195-208.

34 Cfr. P. Häberle, (voce) Stato costituzionale, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXX, Roma, 1991. 35 Cfr. G. Teubner, Il diritto come sistema autopoietico, Giuffré, Milano, 1996, in particolare le pp. 93-

142, e l’introduzione allo stesso volume, di A. Febbrajo e C. Pennisi; Cfr. anche N. Luhmann, La costituzione come acquisizione evolutiva, in Il futuro della Costituzione, Einaudi, Torino, 1996, pp. 83-128; Id., Sociologia del diritto, Laterza, Bari, 1977. V. anche P. Amselek, N. MacCormick, Controversies about Law’s Ontology, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1991.

36 Cfr. G. Teubner, Justice under global capitalism?, con A. Negri, Philosophy of Law against Sovereignty: New Excesses, Old Fragmentations, in Governance, civil society and social movements, «European Journal of Legal Studies», I, 3, 2008, http://www.ejls.eu.

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dell’instaurazione di un nuovo ordinamento, con la costituzione materiale, con la forza politica in grado di affermare la costituzione37; il problema si presenta però immediatamente nel momento in cui questa impostazione diviene prescrittiva di una determinata forma che deve assumere il potere costituente, nel momento in cui si identifica quest’ultimo con il principio integratore e dinamico della costituzione materiale nella costituzione formale38. E tuttavia, sebbene questa impostazione, tentando di superare l’antitesi tra potere costituente e potere costituito, incrini necessariamente il postulato basilare della razionalizzazione giuridica, inserisce in realtà il principio dell’integrazione nel cuore della stessa antitesi postulata da Sieyès, ossia in quel sistema della rappresentanza politica senza il quale per la dottrina classica del potere costituente non vi sarebbe possibilità di espressione giuridica. In questo senso, la dottrina della costituzione materiale può rappresentare un riferimento critico costante a patto che si riconosca un ulteriore elemento di innovazione e di rottura immesso da questa dottrina all’interno della riflessione giuridica, e consistente nel riconoscimento della fine della distinzione tra stato e società. Il potere costituente diventa, infatti, seguendo questo sentiero, la chiave di lettura attraverso la quale risalire all’origine del patto costituzionale, finalmente identificato nelle forme politiche di aggregazione sociale, e basato su un presupposto indispensabile: il riconoscimento del carattere direttamente politico della società civile39. Questo approccio si può rilevare quindi produttivo poiché sul piano analitico-empirico fornisce due elementi indispensabili per la breve chiarificazione del concetto di potere costituente che qui si tenta di fornire. Da un lato richiama nella definizione di potere costituente il ruolo delle forme politiche di aggregazione sociale, poiché dipende da queste l’esistenza di una determinata costituzione, sia nel mondo medievale governato dal principio dell’universitas, ma sia anche nel diverso contesto caratterizzato dal principio di rappresentanza di Sieyès a partire dal quale viene elaborata la distinzione tra i due poteri, e a partire dal quale si sviluppa la teoria del potere costituente mortatiana40. Dall’altro lato, un’impostazione di questo tipo è in grado di ribaltare la stessa antitesi, poiché nel momento in cui si inserisce in una dimensione immanente ed empirica il rapporto tra forza politica e potere costituente viene meno la stessa contrapposizione tra potere costituente e potere costituito. L’affermazione della nuova costituzione è talmente legata all’affermazione della nuova forza politica che il potere costituente e la costituzione sono coestensivi e sempre presenti in qualsiasi tipo

37 Cfr. C. Mortati, La costituente, cit., pp. 63 ss; Id., La costituzione in senso materiale, Giuffré, Milano, 1940, pp. 74 ss.

38 Peraltro, è bene ricordare il legame tra questa dottrina della costituzione e la teoria dell’integrazione costituzionale basata sul ruolo dei partiti elaborata da Smend. Cfr. R. Smend, Costituzione e diritto costituzionale, Giuffré, Milano, 1988. Sul ruolo dei partiti v. P. Ridola, (voce) Partiti politici, Enciclopedia del diritto, XXXII, Giuffré, Milano, 1982, pp. 66-127.

39 Cfr. C. Mortati, La costituzione in senso materiale, cit., pp. 80-94. Sebbene, si deve precisare, ciò non vale a ricondurre in senso formalistico tale approccio alla stessa considerazione operata da Mortati riguardo il ruolo del partito (o dei partiti) politico. A questo riguardo v. la premessa di G. Zagrebelsky alla ripubblicazione della stessa opera di Mortati (Giuffré, Milano, 1998).

40 All’interno della scienza giuridica moderna Mortati sembra essere l’unico pensatore a mettere in relazione diretta il concetto medievale di universitas con il concetto moderno di potere costituente. Cfr. C. Mortati, La costituente, pp. 64-67. V. anche però, a questo proposito, l’argomentazione con cui Sieyès dimostra la necessità per la «terza epoca» fondata su una volontà rappresentativa di fare riferimento al potere costituente, in luogo della «seconda epoca» nella quale la volontà politica risultava essere una proprietà inalienabile dei corpi sociali. E. Sieyès, Che cos’è, cit., pp. 94-95.

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di società e organizzazione istituzionale41. Ciò implica però - anche sulla base delle innovazioni apportate dagli approcci discorsivisti e sistemico-funzionalisti – il riconoscimento preliminare dell’incapacità del concetto di costituzione come unità formale di poter rappresentare la base di partenza e il presupposto per un’indagine intorno ai concetti di costituzione e potere costituente42. Tuttavia infatti, seguendo semplicemente l’ipotesi classica delineata dalla dottrina della costituzione materiale, una teoria del potere costituente che non volesse ricadere nel prescrittivismo sarebbe costretta ad un tipo di approccio strettamente empirico coincidente con l’analisi dei casi storici nei quali si sono sviluppati dei processi costituenti, ovvero rimarrebbe comunque arenata sul piano teoretico ai diversi gradi di prescrittivismo dettati dal relativo concetto di costituzione43. 1.2. Il potere costituente può essere soltanto un concetto storico. La breve ma necessaria analisi delle varie posizioni della scienza giuridica moderna rispetto al tema del potere costituente ha potuto chiarire una prima serie di rilievi concettuali da tenere presenti nel corso della trattazione - se non altro per il semplice fatto che tali teorie, e più in generale il modello della scienza giuridica moderna continentale, rappresentano i parametri necessari della comparazione scientifica, per una ricerca che pretende di rintracciare le origini di un concetto di derivazione continentale in un sistema di common law. Tuttavia, l’analisi e la critica di queste posizioni non può che fornire in negativo un concetto di potere costituente, concetto in definitiva identificabile dal suo carattere di irriducibilità alle varie formulazioni proposte dalle correnti della scienza giuridica. Storicità e irriducibilità del potere costituente. Sicuramente si può affermare che in queste prime battute è stato tolto il primo velo della stratificazione storico-concettuale costruita intorno al nodo enigmatico del potere costituente. In realtà, però, le difficoltà incontrate dalla scienza giuridica nella ricerca di una teoria giuridica del potere costituente che rendesse giustizia della incommensurabilità del suo concetto sono tutte determinate da un limite strutturale che risulta invalicabile per la scienza giuridica moderna. Il potere costituente viene definito correttamente un concetto limite per la scienza giuridica, ed in effetti, a questo punto, non è possibile tentare di svelare l’enigma se non si delineano i contorni strutturali di questa scienza, contorni che

41 C. Mortati, La Costituente, in Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello stato, Giuffré,

Milano, 1972, pp. 9 ss.; Id., Appunti sul problema della fonte del potere costituente, in Studi, cit., pp. 349-363. 42 Il problema della definizione del concetto di costituzione, qui solamente accennato, verrà invece

preso in considerazione nella concretezza della sua affermazione storica nella cesura tra antico e moderno costituzionalismo nell’Inghilterra del Seicento, ovvero nel momento in cui emerge prepotentemente il corrispondente problema della potestà costituente.

43 E’ questo il percorso praticato nelle più complete ricerche sulla teoria del potere costituente. Infattic anche qualora si prendesse in considerazione per la definizione del concetto di potere costituente la proceduralizzazione delineata dall’iniziativa costituente, si dovrebbe riconoscere come tale procedura potrebbe essere comunque sempre e solamente analizzata nella sua qualità di determinatezza storica. Cfr. C. Mortati, La Costituente, cit., pp. 103-196; E.W. Böckenförde, Il Potere costituente, cit., pp. 124-135.

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rappresentano anche i confini che delimitano un determinato significato di costituzione44. In verità, infatti, il vero strato concettuale, il velo molto più avvolgente e penetrante che deve essere tolto per riaprire una prospettiva di ricerca sul potere costituente è quello che, a partire dal XVII secolo, definisce progressivamente un particolare concetto di costituzione. Quest’ultimo è rinvenibile tautologicamente e in senso diacronico con il sorgere dello Stato moderno, ed attraversa il suo passaggio storico fondamentale nel periodo dell’assolutismo, nel periodo cioè in cui viene affermato il principio epistemologico fondamentale per la scienza giuridica, ossia nel momento in cui si afferma il riconoscimento dell’intrinseco principio normativo unitario che contraddistinguerebbe l’ordinamento giuridico statuale45. In questo senso, che il potere costituente preceda la definizione di potere costituito può apparire perfino superfluo e scontato, poiché nei fatti la teoria del potere costituente, - e dunque anche l’irruzione di un nuovo concetto nella storia del diritto -, fa la sua comparsa soltanto sulla base di un’acquisizione già avvenuta di un particolare tipo di costituzione46. Questa acquisizione si estrapola chiaramente dalla teoria di Sieyès sul potere costituente, non a caso costruita a partire dal concetto di volonté générale di Rousseau47. Per quest’ultimo il patto sociale sorge in forza della volontà degli individui presi come

44 Riprendiamo volutamente il termine utilizzato da Böckenförde e la sua descrizione - direttamente ripresa da C. Schmitt e solo sfumata di una tonalità meno irrazionalistica – sufficientemente esaustiva della complessità del concetto di potere costituente che viene messa immediatamente in relazione alla contraddizione che attraversa i sistemi costituzionali, ed in particolare le società contemporanee, ossia all’opposizione tra il carattere sostanziale della democrazia e il carattere formale della costituzione. Cfr. E.W. Böckenförde, Il potere costituente, cit., pp. 113-125; di questa originaria antitesi aveva già parlato K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere scelte (a cura di L. Gruppi), Editori Riuniti, Roma, 1974, pp. 14 ss. Peraltro è proprio questa antitesi che permetta ad A. Negri di collegare la definizione di potere costituente al concetto di democrazia assoluta. Cfr. A. Negri, Il Potere, cit., pp. 22-25.

45 Cfr. N. Matteucci, voce Costituzionalismo, in «Dizionario della politica», a cura di N. Bobbio e N. Matteucci, Utet, Torino, 1976, pp. 202. ss.; Id., voce Costituzionalismo, in «Enciclopedia delle scienze sociali», vol. II, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1992, pp. 521, 522, 523, 534 ss.

46 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 7-24, 69 ss. V. anche l’introduzione dello stesso volume di P. Schiera, Strutture costituzionali e storia del pensiero politico.

47 Il legame diretto tra la teoria politica di Rousseau e la teoria del potere costituente di Sieyès è sottolineato da C. Schmitt, in La Dittatura, cit., pp. 175-182, e in Dottrina della Costituzione, cit., pp. 113-115; su tale legame v. anche la critica di A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 265 ss. Infine si deve ricordare fin da ora l’influenza sulla dottrina del potere costituente delle teorie del giusnaturalismo razionalista, influenza che ha determinato l’intera conformazione del processo rivoluzionario e costituente. Il diritto di natura ricopre un ruolo nella teoria di Sieyès nella misura in cui, come è noto, il potere costituente «si trova sempre allo stato di natura», e più in generale per quanto riguarda l’esperienza francese nella misura in cui i diritti naturali dell’uomo vengono codificati nelle varie carte costituzionali quali principi fondanti della costituzione. Un simile processo si riscontra nella rivoluzione americana, laddove alla codificazione dei diritti dell’uomo si associa l’elaborazione di T. Paine. V. T. Paine, I diritti dell'uomo e altri scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1978. Sul punto si tenga presente M.P. Zuckert, Natural Rights and the New Republicanism, Princeton University Press, Princeton, 1994, pp. 3-26, il quale analizza il ruolo delle dottrine del diritto naturale in relazione allo sviluppo delle concezioni repubblicane nel processo di modernizzazione inglese e statunitense. E’ bene ricordare peraltro che è a partire dall’opposizione a queste teorie che si svilupperà l’influente dottrina del diritto pubblico e della sovranità dello Stato tedesca. Su quest’ultimo punto v. M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell'Ottocento tedesco, Giuffré, Milano, 1979. Per quanto riguarda la recezione da parte della scienza giuridica italiana della connessione tra giusnaturalismo e definizione del potere costituente v. A. Messineo, Il potere costituente, La civiltà cattolica, Roma, 1946.

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isolati e astratti dal proprio ruolo o status sociale, quindi come individui uti singuli; questa volontà è implicita e immanente alla stessa vita associata poiché secondo Rousseau per il solo fatto di vivere liberamente in forma associata vi è presente questo presupposto della volontà di dar vita al patto sociale e alla costituzione48. Conseguenza di questo volontarismo razionalista è una concezione della legge come espressione della volonté générale, ossia come prodotto di un processo di creazione giuridica razionalmente fondato e organizzato interamente intorno al principio del ‘porre in atto’49. Seguendo questa impostazione tutto il diritto diventa così formalmente identificabile nell’attività del grande del legislatore50. La teoria del potere costituente di Sieyès si inserisce in questa nuova concezione del diritto e della sovranità introdotte da Rousseau. Da un lato, infatti, Sieyès accoglie l’irreversibilità del carattere popolare della sovranità; dall’altro però tenta efficacemente di inserire la nuova composizione sociale, fondata idealmente sull’individuo come soggetto giuridico e materialmente in una particolare divisione del lavoro, in un nuovo sistema di rappresentazione politico51. Il sistema di rappresentanza politico moderno, basato sul divieto di mandato imperativo e sulla rappresentatività dell’intera nazione52 da parte di ogni eletto, risponde precisamente all’esigenza di una rappresentazione della volontà politica non perseguibile seguendo il contraddittorio modello rousseauiano incastrato tra una definizione diretta di esercizio del potere politico53 e un modello di sovranità assoluta54. Con Sieyès, dunque, apparentemente sembra aprirsi una nuova era per il costituzionalismo, mentre invece in realtà si chiude un cerchio, si rende completo un disegno costituzionale. Questo disegno si basa in definitiva su tre pilastri. Il primo pilastro è rappresentato dal riconoscimento del fatto che la nuova soggettività giuridica originaria e sovrana dalla quale scaturisce l’unione politica è l’individuo considerato

48 Cfr. J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Feltrinelli, Milano, 2008, Libro II, §§ I-II, pp. 91-93. 49 Cfr. M. Fioravanti, voce Costituzione (storia), in Enciclopedia del diritto, XLIII, Giuffré, Milano, 1957,

pp. 712-720; Id., Stato e costituzione, in Id. (a cura di), Lo stato moderno in Europa: istituzioni e diritto, Laterza, Roma, 2006, pp. 3-36; P. Grossi, Ancora sull’assolutismo giuridico (ossia: della ricchezza e della libertà dello storico del diritto), in Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffré, Milano, 1998, pp. 1-12; P.P. Portinaro, Il grande legislatore e il custode della costituzione, in Il futuro della costituzione, cit., pp. 5-34.

50 Cfr. J.J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., Libro II, §§ VI-VII, pp. 106-116; C. Schmitt, La Dittatura, cit., pp 162-163, laddove identifica nella connessione tra un legislatore creatore di diritto, ma privo di forza, e la dittatura sovrana, ovvero onnipotenza svincolata dal diritto precostituito, il passaggio paradigmatico del potere costituente.

51 Cfr. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato?, cit., pp. 95-107, 122; P. Pasquino, Sieyès, cit., pp. 35-49; L. Scuccimarra, La sciabola di Sieyès: le giornate di brumaio e la genesi del regime bonapartista, Il Mulino, Bologna, 1992.

52 Cfr. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato?, cit., pp. 97 ss.; v. anche P. Bastid, Sieyès et sa pensée, Hachette, Paris, 1970.

53 Si deve precisare che il modello della volonté générale determina l’intero svolgimento della teoria di Rousseau. Di fondamentale importanza appare quindi il fatto che la democrazia, acquista un definizione di tipo formale non in grado di alterare l’articolazione sostanziale della volonté générale, ma solamente di indicare una forma di esercizio del potere, una forma di governo. Cfr. J.J., Rousseau, Il contratto sociale, cit. Sulla generazione del paradosso rousseauiano si v. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 201 ss.; A. Negri, Il Potere, cit., pp. 241-264.

54 Cfr. C. Schmitt, La Dittatura, cit., pp. pp. 148-163, 43-54. Sul rapporto tra Schmitt e Rousseau v. anche Id., Romanticismo politico, Giuffré, Milano, 1981. Cfr. anche A. Negri, Il Potere, cit., pp. 263-264. Inoltre, il carattere assoluto e inalienabile della sovranità non può che imporre il richiamo della filosofia politica hobbesiana, ossia di quella filosofia che per prima sembra dar forma all’idea di costituzione moderna qui presa in esame.

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astrattamente fuori da ogni tipo di appartenenza di status o di ruolo sociale55. Libertà ed eguaglianza per natura degli individui si accordano all’interno della sfera sociale in una nuova divisione sociale del lavoro e nella sfera politica nel sistema di rappresentanza politico legittimato dal sistema elettivo, - e prima ancora al momento della stipulazione del patto sociale attraverso l’accettazione della dialettica tra potere costituente e potere costituito. In breve, questa divaricazione nell’articolazione delle relazioni sociali dell’individuo rispecchia e rende funzionale la distinzione operata da Rousseau tra il citoyen e il bourgeois, tra il cittadino della società civile e l’uomo come animale politico perché inserito nel sistema della rappresentanza. Ovvero, in altri termini, tale distinzione non fa che rendere funzionale e operativo il principio della distinzione tra stato e società, già introdotta dalla nuova costituzione56 e operante nel momento in cui uno dei risultati fondamentali conseguito nel periodo dell’assolutismo è rappresentato dalla separazione tra foro interno e foro esterno57. Il secondo pilastro è invece rappresentato dalla definitiva affermazione di un modello formalista di diritto, ossia di una concezione del diritto interamente definita a partire dalla sua determinazione autoritativa, e da un concetto di creazione giuridica basato sulla convinzione che tutto il diritto derivi da un’originaria unità formale e che si concretizzi nell’azione del porre razionalmente in atto58. Questo modello giuridico prende forma e coscienza di sé definitivamente a partire dalla rivoluzione francese. La supremazia della legge e la proceduralizzazione del sistema di rappresentanza politica rappresentano questa concretizzazione sostanzialmente basata sull’assunzione del postulato atomistico individualista: ossia sul riconoscimento che presupposto per il funzionamento di questo sistema resta l’interiorizzazione e la produzione del patto sociale e dell’autodisciplinamento nella coscienza di ogni singolo individuo a partire dall’iniziale accettazione della distinzione tra potere costituente e potere costituito59. Peraltro, se la connessione logica tra il paradosso rouesseaiano della volonté générale e il limite del principio formalista dell’unità sintetica appare evidente60, è altrettanto palese però che questa connessione sembra ancor prima che un’elaborazione teorica un prodotto del processo storico. Sieyès sembra cogliere anche questa connessione. In effetti l’intera teoria del potere

55 Cfr. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato?, cit., pp. 116 ss. 56 Cfr. infra, Parte I, cap. II, par. 2.3.3, nota 56, p. 78; Parte I, cap. III, par. 3.1, pp. 91 ss. 57 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, cit., pp. 17-39 ; sulla distinzione tra i

due fori, diffusamente, infra, Parte II, cap. I, par. 1.1 ss., 125-129 ss., par. 1.3, pp. 141-149. 58 V. infra, Parte I, Cap. I, par 1.1, pp. 35-41. 59 Comincia ad emergere già da queste prime battute la diretta derivazione di questo modello di

obbedienza politica e di costituzione dal tipo ideale di teoria dello Stato e del diritto enucleata da Hobbes e dalla fase storica rappresentata dall’assolutismo. In ogni caso è bene ricordare che a questo punto con la rivoluzione francese il processo di questo mutamento iniziato nel XVII secolo volge al termine, poiché la dimensione autoritativa e formale della produzione del diritto non è più determinata dalla rappresentazione personalistica del sovrano, ma al contrario dallo sviluppo al contempo in senso organicista e meccanicista della personalità dello Stato, sviluppo contraddistinto dall’evoluzione della giuspubblicistica tedesca del XIX secolo. Cfr. G. Duso, Fine del governo e nascita del potere, in La logica del potere: storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma, 1999, pp. 69 ss.; Id., Rappresentanza politica e costituzione, in Id., La logica, cit., pp. 122-129; M. Fioravanti, voce Costituzione, cit.; sull’autodisciplinamento quale forma di produzione del patto sociale v. P. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melanconia, socialità nell’Occidente moderno, Il Mulino, Bologna, 1999, ma diffusamente la Parte II di questo lavoro.

60 Sulla connessione tra il concetto di costituzione continentale e il formalismo kantiano della ragion pura v. Parte I, Cap. I, par. 1.1, nota 4, p. 36.

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costituente per Sieyès si può affermare soltanto in quanto si faccia riferimento a un’idea di costituzione come rappresentazione (dell’unità)61. Quest’ultimo concetto è il terzo pilastro che funziona proprio come la base dell’architettura costituzionale: la rappresentazione che naturalmente assume dei lineamenti formali, poiché ormai l’unione politica non risponde a nessun contenuto trascendente ma soltanto ai suoi meccanismi funzionali di allocazione del potere (definiti formalmente nella carta costituzionale), in ultima istanza, per la sua stessa natura di sistema di rappresentazione, deve pur sempre essere in grado di veicolare almeno un contenuto metafisico al fine di garantire l’unità politica62. La nazione diventa questa entità alla quale legare, da un lato il concetto di potere costituente quale diretta espressione della legge naturale altrimenti libera non solo dai mezzi ma anche da contenuti finalistici63, e dall’altro la rappresentatività dell’intero sistema di rappresentanza politico. In sintesi, questo modello di rappresentazione del potere politico, fondato metafisicamente sull’idea di nazione e proceduralmente sul sistema di rappresentanza, e dal quale dipende la stessa distinzione tra potere costituente e potere costituito, rende operativo e definitivamente funzionale il modello di costituzione emergente a partire dal XVII secolo, poiché inserisce la produzione del patto sociale e l’autodisciplinamento in un sistema di legittimazione azionabile direttamente dall’individuo all’interno di una cornice proceduralmente e formalmente definita64. In pratica, grazie a Sieyès il modello di rappresentazione e di costituzione inaugurato con Hobbes, è in grado di eludere (solo formalmente) il paradosso rousseauiano e può continuare ad essere l’espressione funzionale dei rapporti di comando e obbedienza, sebbene a questo punto l’origine della legittimazione politica non può che continuare a fare riferimento alla sovranità originaria della volonté générale65.

61 La dimensione storica-giuridica dell’affermazione di questo concetto verrà analizzata dettagliatamente nella Parte I, Cap. II, par. 2.2, pp. 59-66; l’analisi filosofico-politica della genesi di questo concetto di costituzione è invece indagata dettagliatamente nella Parte II, Cap. 2, par. 2.3, pp. 194-226, par. 2.4, pp. 232 ss.

62 Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Giuffré, Milano, 2007, in particolare su Sieyès le pp. 493-496; C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 270-272, 277-285; G. Duso, Rappresentanza politica e costituzione, cit., pp. 122-129. V. anche M. Fioravanti, voce Stato (storia), cit., p. 726, laddove specifica il limite e la debolezza di questo tipo di rappresentazione dell’unità politica.

63 Il legame tra Potere Costituente e la nuova dottrina contrattualista moderna del Seicento del diritto naturale svincolata da un orizzonte di tipo ontologico viene specificata anche da P.G. Grasso, voce Potere Costituente, cit., pp. 646-647.

64 Cfr. M. Loughlin, N. Walker, Introduction a The Paradox, cit., pp. 1-4; v. anche nello stesso volume E. Christodoulidis, Against Substitution: The Constitutional Thinking of Dissensus, pp. 199-206, il quale se da un lato individua il carattere peculiare del concetto di rappresentazione sul quale si fonda la definizione di potere costituente, dall’altro rimane ingabbiato nella stessa antitesi concettuale individuata da Sieyès, nella misura in cui non sembra ammettere la possibilità di una diversa formulazione del concetto o di una sua diversa utilizzazione.

65 La dimostrazione del modo in cui questo possa avvenire rappresenta la tesi di fondo di questo lavoro, mentre la dimostrazione di come ciò effettivamente avvenga nel processo di modernizzazione inglese ne rappresenta la sua tesi collegata e particolare. Infra, Parte II, cap. II, in particolare par. 2.3 e 2.4, pp. 194-243.

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1.2.1. La storia concettuale come prospettiva necessaria di indagine. A questo punto la distinzione tra potere costituente e potere costituito sembra suggellare la perfezione formale di questo disegno costituzionale. In effetti, secondo questa prospettiva l’antitesi tra i due poteri rappresenta direttamente la traslazione in un campo puramente speculativo dell’antitesi tra produzione ed attuazione del diritto presente nel nuovo concetto di diritto e soltanto sottoponibile ad una mediazione dilatoria di tipo procedurale da parte del nuovo sistema politico-istituzionale66. Ciò che però interessa puntualizzare in questa sede è il carattere storico e assiologico della stessa distinzione tra potere costituente e potere costituito, ossia la sua derivazione da un modello giuridico e costituzionale storicamente e idealmente già definito67. Il secondo velo si rivela effettivamente molto più avvolgente. Ripercorrendo questa ricostruzione concettuale inevitabilmente viene meno anche la distinzione tra punto di vista interno ed esterno e lo stesso approccio descrittivo scivola all’interno di una struttura epistemologico-giuridica storicamente determinata. Il carattere storico del potere costituente risulta allora definitivamente chiarito nel momento in cui la sua definizione deriva dall’aspetto assiologico della distinzione tra potere costituente e potere costituito, e conseguentemente dal suo legame col disegno costituzionale idealmente espresso dalle teorie di Sieyès e Rousseau. Tuttavia, compito di questa ricerca ed in particolare di questa introduzione non è quello di immergere il problema del potere costituente all’interno della storiografia giuridica, ma diversamente quello di utilizzare criticamente la storia concettuale per ricostruire la trama e i punti di rottura che hanno permesso la cristallizzazione e la sovrapposizione di una pluralità di significati semantici intorno ad un determinato termine68. Storicità e a questo punto

66 La questione del compromesso costituzionale si compone così di due tipi di proceduralizzazioni

di carattere formalista: da un lato la strutturazione del sistema di rappresentanza politico moderno dal quale scaturisce la necessità dei compromessi dilatori; dall’altro, l’antitesi irriducibile tra il diritto e la sua attuazione, antitesi necessaria, nella sua ambivalenza, al fine della garanzia della persistenza proprio di quel tipo di compromesso. Cfr. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 48-57, 189 ss., 285-290.

67 Cfr. G. Duso, Storia concettuale come filosofia politica, in Id., La logica, cit., pp. 5-27; Id., Fine del governo e nascita del potere, cit., 69-82. V. anche J. Farr, Conceptual Change and Constitutional Innovation, in Conceptual Change and the Constitution (a cura di T. Ball e J.G.A. Pocock), University Press of Kansas, Lawrence, 1988, pp. 13-34; G. Stourzh, Constitution: Changing Meanings of the Term from the Early Seventeenth to the Late Eighteenth Century, in Conceptual change, cit., pp. 35 ss.;

68 Si apre a questo punto il tema del rapporto tra storiografia giuridica e storia concettuale. Delimitare i rispettivi campi d’indagine di queste due discipline è praticamente impossibile e del resto non rappresenta il tema o il presupposto di questa ricerca. E tuttavia, in quanto entrambe rappresentano gli strumenti fondamentali per la comprensione del tema qui in esame, si deve precisare che l’articolazione complessa del loro rapporto non dà mai luogo ad un’opposizione secca ma al contrario ad una relazione costruttiva di significato. Infatti, da un lato la storia concettuale, quale analisi dei punti di manifestazione della discontinuità nella storia dei concetti presuppone per il suo operare il riferimento ad un modello di concetto storicamente determinato, che in questo caso è rappresentato dalla definizione storica di potere costituente delineata in questa introduzione. Dall’altro lato la storiografia giuridica diviene uno strumento indispensabile per questa ricerca in quanto il campo in esame, il costituzionalismo britannico, è prevalentemente determinato dal ruolo della storiografia, o meglio più precisamente dalla lettura della temporalità storica degli eventi che determina la particolare conformazione costituzionale inglese. In ultima analisi quindi la scelta di questo approccio storico-concettuale, unito ad un metodo giuridico di comparazione eccentrico, necessario per il riferimento al concetto moderno di potere costituente - delimitabile come si è visto soltanto in quanto si faccia riferimento ad un modello di costituzione -, si propone l’obbiettivo di decostruire e offrire una pluralità

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modernità del potere costituente si estrapolano dunque sulla base di queste due stratificazioni concettuali qui brevemente analizzate che ipostatizzano gnoseologicamente una determinata struttura attraverso la quale analizzare l’insieme dei fenomeni giuridico-costituzionali69. 1.3. Caratteri fondamentali della struttura concettuale del potere costituente. Tuttavia, prima di passare ad illustrare l’oggetto specifico di questa ricerca sul potere costituente, è bene ancora sottolineare alcuni corollari che questo particolare concetto e struttura portano con sé. In primo luogo, il problema dell’opposizione e dell’irriducibilità del potere costituente al potere costituito rimanda direttamente all’antitesi tra produzione e attuazione del diritto, ovvero in altri termini al problema irrisolto dell’origine del diritto e della creazione normativa. Il problema della produzione di nuovo diritto può ricevere soltanto una soluzione formale poiché viene stabilita una distinzione discriminante e di carattere epistemologico tra un’attività di produzione contenutisticamente vuota, un’attività di applicazione e un’altra di esecuzione considerate non direttamente produttive di diritto se non processualmente70. In realtà, la filosofia giuridica sottesa a questa soluzione formale è

di ipotesi semantiche del concetto di potere costituente a partire dall’assunzione di un’antitesi fondamentale per ogni approccio storiografico e concettuale: l’opposizione tra evento, struttura e rapprestazione. Cfr. G. Duso, Storia concettuale come filosofia politica, cit., pp. 3-34; Id., Fine del governo, cit., pp. 69 ss.; R. Koselleck, Futuro passato: per una semantica dei tempi storici, Clueb, Bologna, 2007; O. Brunner, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Editrice vita e pensiero, Milano, 1968; J.G.A. Pocock, T. Ball (a cura di), Conceptual change and the Constitution, University Press of Kansas, 1988, pp. 1-12; J.G.A. Pocock, Political thought and history: essays on theory and method, Cambridge University Press, Cambridge, 2009; Id., Politics, language and time: essays on political thought and history, Methuen, London, 1972; Q. Skinner, Vision of Politics, I, Regarding Method, Cambridge University Press, Cambridge, 2002; Q. Skinner, N. Phillipson, Political discourse in early modern Britain, Cambridge University Press, Cambridge, 1993; J. Dunn, Political obligation in its historical context: essays in political theory, Cambridge University Press, Cambridge, 1980, in particolare le pp. 13-28, 81-111, 243-299; v. anche R. Tuck, The institutional setting, e S. Menn, The intellectual setting, entrambi in D. Garber, M. Ayers (a cura di), The Cambridge History of Seventeenth-Century Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge, 1998, I, rispettivamente pp. 9-32 e 33-86.

69 Si tengano presenti dunque i seguenti lavori di tipo storico-concettuale che affrontano esplicitamente il problema della definizione di potere costituente. Oltre al già citato G. Duso, La logica, cit., v. Id., Patto sociale e forma politica, in Il contratto sociale nella filosofia politica moderna (a cura di G. Duso), Il Mulino, Bologna, 1987; v. anche M. Loughlin, N. Walker, The Paradox, cit.; A. Rehefeld, The Concept of Constituency. Political Representation, Democratic Legitimacy, and Institutional Design, Cambridge university Press, Cambridge, 2005.

70 Cfr. C. Schmitt, La dittatura, cit., pp. 156 ss., 172-173, 235 ss.; Id., Legalità e legittimità, in Id., Le categorie del politico. Saggi di teoria politica (a cura di G. Miglio e P. Schiera), Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 211-213; Id., I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del politico, cit., pp. 248-275; J.J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., Libro IV, § VI, pp. 215-218. La nomopoiesi come processo creativo basato sulla fissazione di questa distinzione tra produzione, applicazione e esecuzione è illustrato da H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 263-287; v. infra, Parte I, Cap. I, par. 1.1, pp. 35 ss., in particolare le note 4,11,12. Per una critica in grado inglobare anche la concezione schmittiana si v. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, pp. 5-30. Diversamente in Montesquieu la divisione dei poteri non rispecchia direttamente questa rigida distinzione della nomopoiesi derivante dal modello della volonté générale, ma un principio di costituzione mista che fa riferimento all’equilibrio

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affermata nel postulato liberale della finitezza dei mezzi e dell’indifferenza dei fini dell’azione giuridica. Questo rapporto tra mezzi e fini affermato dal costituzionalismo e dal positivismo moderni può essere sempre ribaltato dal potere costituente, poiché quest’ultimo deriva in ultima analisi dai principi del diritto naturale, ossia da quella legge non scritta che in ogni momento può anteporre l’affermazione dei fini alla limitatezza dei mezzi71. In questo senso, il problema della comprensione di quella che filosoficamente può essere considerata la questione della violenza originaria creatrice di diritto si ripropone nello stato costituzionale post-rivoluzionario nell’obbiettivo di affermare non solo l’illegalità ma anche l’illegittimità giuridica del diritto di resistenza e della rivoluzione, ossia il loro carattere extragiuridico72. Da un punto di vista filosofico dunque il problema della comprensione del concetto di potere costituente, man mano che il concetto di diritto si appiattisce su quello di forma giuridica, si avvicina sempre di più fino ad identificarsi con quello del riconoscimento del carattere giuridico del diritto prodotto fuori dalle procedure legali73. Ovvero in altri termini la definizione del concetto di potere costituente si viene identificando con la lotta contro il processo della sua negazione portato avanti dal diritto moderno74. E’ seguendo questa impostazione che si deve constatare come il potere costituente risulti difficilmente inquadrabile all’interno dello stesso statuto epistemico kantiano, se non al prezzo di una deformazione costante del suo concetto. L’enigma della conoscibilità di una teoria del potere costituente resta una questione di conoscenza noumenica anche in termini kantiani, poiché l’astratta generalizzazione resta pur sempre una condizione ipotetica di tipo ideale incapace di dare una risposta, se non sul piano storico e dunque fenomenologico, - fuori quindi da quel modello di conoscenza -, alla questione del sorgere di fatto di un ordinamento o della fonte prima del diritto, o della creazione ex nihilo75. Conseguentemente, è normale che le questioni aperte da questo concetto limite per la scienza giuridica si possano tradurre anche in termini teologici, nella misura in cui però non è la ragione o la condizionalità in generale a determinare tale tipo di traduzione, ma il carattere contingente, e comunque sempre superabile, di tale limite determinato da un tipo di razionalismo basato su un particolare statuto epistemico di tipo formalista76. Se dunque si deve ricondurre la genesi della definizione storica qui enucleata di potere costituente ad un determinato tipo di razionalismo, sicuramente si deve legare la

tra le tre forme di governo aristocratica, monarchica e democratica. Cfr. C.S. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, (a cura di S. Cotta), Utet, Torino, 1952, Parte I, Libro I, II, III, pp. 55-97.

71 Cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, pp. 6-10. 72 Cfr. R. Schnur, «La révolution est finie». Su un dilemma del diritto positivo nella fattispecie del positivismo

giuridico borghese, in Id., Rivoluzione e guerra civile, Giuffré, Milano, 1986, pp. 89-118. 73 Cfr. C. Schmitt, Legalità e legittimità, cit., pp. 236-237, con Id., Il nomos della Terra nel diritto

internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Adelphi, Milano, 1991, pp. 54-71. 74 Cfr. G. Miglio, Una repubblica migliore per gli italiani, cit., p. 142. 75 Oltre a rimandare, per quanto riguarda la distinzione tra i due tipi di conoscenza, a I. Kant, Critica

della ragion pura, Laterza, Roma, 2005, §§ VI-VII, pp. 44-50, si v. E.W. Böckenöforde, Il Potere costituente, cit., pp. 119 ss.

76 In questo senso, è bene aggiungere che non è un caso che l’apparizione del concetto di potere costituente sia legata alla progressiva affermazione di un concetto di sovranità intesa come potestas, se non fosse che la sua peculiarità verace è quella di rappresentare una potestà autoritativa diretta dai sottoposti al potere politico, appartenente, dunque, sempre ‘al popolo’. Su questo punto v. infra, Parte II, Cap. I, par. 1.1.1, pp. 137 ss. Cfr. E.W. Böckenöforde, Il Potere costituente, cit., pp. 119-120; O. von Gierke, Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Einaudi, Torino, 1943, pp. 215-242; O. Brunner, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Vita e Pensiero, Milano, 1968, pp. 165 ss.

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definizione di potere costituente alla progressiva compenetrazione tra razionalismo formalista e costituzionalismo continentale77. Se tuttavia, come precisato, l’investigazione sopra il concetto di potere costituente travalica lo stesso limite della ragione trascendentale poiché rimette in gioco lo stesso statuto epistemologico kantiano, e se quindi il nodo filosofico forse più difficile da sciogliere in questa ricerca sia proprio quello che sembra impedire una definizione di potere costituente slegata da questo tipo di razionalismo - ossia al di fuori della propria struttura storico-concettuale -, allora non si può che fare riferimento al potere costituente come al formante originario, alla natura-naturans, ovvero ad un concetto per ora generalissimo ma che allo stesso tempo inserisce un altro tassello sulla via del percorso di ricerca che si tenta di intraprendere, chiarendo definitivamente la dipendenza del potere costituente dall’irruzione della ragione quale fondamento dell’agire politico, precludendo così qualsiasi tentazione di definizione irrazionalistica78. 1.3.1. Il potere costituente: evento tra struttura e rappresentazione. In secondo luogo il legame tra il concetto storico di potere costituente e il razionalismo formalista impone il riferimento all’evoluzione del significato di tempo e temporalità storica. Il tempo del potere costituente sembra essere scandito in modo chiaro quanto altrettanto lineare e cronologico. Sebbene Tocqueville precisi il significato di questa nuova temporalità affermando che «poiché il passato non spiega più l’avvenire, lo spirito marcia nelle tenebre79», tuttavia pretesa del potere costituente sembra essere quella di fondarsi razionalmente sulla prevedibilità del futuro80. Secondo questa ulteriore prospettiva, il tema del potere costituente si intreccia sempre più saldamente al problema della comprensione dei mutamenti delle strutture storico-concettuali, nella misura in cui mette in gioco la condizione di possibilità di questa comprensione strutturale, ossia la superstruttura rappresentata dal concetto stesso di temporalità storica. Con il potere costituente quest’ultima sembra plasmata, distorta e subordinata ai ritmi dell’accelerazione e dell’ipostatizzazione astorica impressi dal movimento costitutivo delle forme politiche e giuridiche. La storia e il passato si presentano ormai soltanto nella loro determinatezza e particolarità, ovvero non rappresentano più il risultato e il fattore di un determinato modo d’essere del presente, non sono più considerati il motore accumulativo che permette determinate forme di

77 V. Infra, Parte I, in particolare cap. I, par. 1.1, pp. 35-41, e Parte I, cap. II, par. 2.2, pp. 59-66. 78 Cfr. B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (trad. it. S. Giametta), Bollati Boringhieri,

Torino, 2006, Parte I, prop. 29, dim. e relativo scolio, pp. 28-29; cfr. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., p. 115; Id., La Dittatura, cit., p. 179. In pratica viene ripresa la distinzione originaria che lo stesso Schmitt considera come presupposto indispensabile per la teoria del potere costituente di Sieyès.

79 A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Id., Scritti politici (a cura di N. Matteucci), Utet, Torino, 1968, II, cap. VIII, p. 825.

80 La prima contraddizione in cui cade tale concetto di potere costituente è rappresentata così dalla pretesa di essere una decisione vincolante la sorte delle generazioni future. A questo riguardo cfr. T. Paine, I diritti, cit.; J. Holmes, Vincoli costituzionali, cit., pp. 171 ss., 184-186.

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espressione giuridiche e politiche, ma diversamente costituiscono un residuo che le possibilità infinite aperte al futuro della storia universale inevitabilmente rimuoverà81. Se sulla determinazione e ipostatizzazione del futuro il concetto di potere costituente moderno entrerà inevitabilmente in cortocircuito82, tuttavia questa dimensione della temporalità è comunque in grado di dispiegare tutte le sue conseguenze. Innanzitutto la definizione stessa di potere costituente si presenta o come generalizzabile e astratto dalla sua genesi storica, ossia assume il tipico carattere atemporale dei concetti moderni83, o viceversa risulta talmente determinato dalla particolarità storica da essere inutilizzabile fuori dal proprio paradigma costituzionale continentale che stabilisce una relazione chiara e determinata con una particolare temporalità storica84. Inoltre, in maniera ancor più esplicita, il nuovo tempo del potere costituente determina direttamente l’affermazione del concetto moderno di rivoluzione. La nuova temporalità storica afferma definitivamente un concetto lineare legato ad un’idea di mutamento paradigmatico, e nel caso dell’affermazione del potere costituente anche razionalmente orientato, del significato del termine rivoluzione85. Quest’ultimo termine, in questo modo, viene così privato del suo precedente carattere ciclico, anche se allo stesso tempo si viene associando ad un concetto di crisi ed evento. Naturalmente, fino a quel momento la ciclicità era espressione, da un lato di una diversa considerazione e ruolo del passato e della storia nella comprensione dei mutamenti del presente, e dall’altro esprimeva l’ineluttabilità del mutamento ciclico dell’anakyklosis delle forme giuridiche e dei rapporti di comando e obbedienza che, alternando generazione e corruzione, permetteva di assorbire il cambiamento secondo il principio dell’identità nel e nonostante il mutamento86. Infine, così, non si può fare a meno di evidenziare una particolare coincidenza semantica tra questa definizione di potere costituente, i concetti guerra e rivoluzione legati a questa nuova temporalità. Tutti e tre i concetti sembrano coincidere nella comune dipendenza da un principio di transitorietà che caratterizza la loro definizione come processo razionalmente orientato allo stabilimento di un ordine, orientato cioè

81 Cfr. R. Koselleck, «Historia magistra vitae». Sulla dissoluzione del topos nell’orizzonte di mobilità della storia moderna, in Futuro passato, cit., pp. 37-54

82 Cfr. A. Negri, Il Potere, cit., pp. 263-264. 83 Cfr. R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, in Futuro passato, cit., pp. 97-106. Cfr. G. Duso,

Storia concettuale, cit., pp. 5 ss. 84 Cfr. R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, e, Geschichte (storia), Geschichten (storie) e le strutture

formali del tempo, in Futuro passato, cit., pp. 91-122. Il potere costituente rappresenta astrattamente un limite di questo tipo di investigazione. Evento per definizione, ma allo stesso tempo concettualizzabile soltanto sulla base di una struttura giuridica determinata.

85 Cfr. R. Koselleck, Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in Futuro passato, cit., pp. 55-72; J.M. Broekman, Revolution and Moral Commitment to a Legal System, in Enlightenment, Rights and Revolution. Essays in Legal and Social Philosophy (a cura di N. MacCormick e Z. Bankowski), Aberdeen University Press, Aberdeen, 1989, pp. 315-324; H. Arendt, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Roma, 1999; J. Dunn, Revolution, in T. Ball, J. Farr, R.L. Hanson, Political Innovation and conceptual change, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 333-356; Id., Modern revolutions. An introduction to the analysis of a political phenomenon, Cambridge University Press, Cambridge, 1989, pp. 1-23; Id., Western political theory in the face of the future, Cambridge University Press, Cambridge, 1979, pp. 80 ss.; Id., The success and the failure of modern revolutions, in Political obligation in its historical context. Essays in political theory, Cambridge University Press, Cambridge, 217-239. V. anche J. Wróbleswski, The Analytical Concept of Revolution, in Enlighment, Rights, cit., pp. 364 ss.

86 Infra, Parte II, cap. I, par. 1.2, pp. 143-148; cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 55 ss, 127-141.

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alla dissoluzione del potere costituente nel nuovo potere costituito e del conflitto in una definizione di pace come assenza di guerra87. Ed in ogni caso, lo spettro del potere costituente sembra comunque continuare a muoversi indisturbato al di fuori di ogni logica di prevedibilità e categorizzazione. Sebbene infatti l’approccio storico-concettuale aiuti a svelare il carattere particolare e strutturalmente definito del senso del mutamento temporale legato al concetto di potere costituente, resta la contraddizione e l’antitesi secca che caratterizza il rapporto tra potere costituente e tempo storico. Infatti, come può armonizzarsi una relazione che in definitiva rispecchia l’opposizione tra evento e struttura? E’ inevitabile che a questo punto la storia concettuale può rappresentare soltanto lo strumento critico che, combinato con il metodo della comparazione, può definitivamente inquadrare la particolarità e finitezza della struttura concettuale legata al concetto di potere costituente, cercando allo stesso tempo di far emergere diverse e possibili prospettive strutturali aperte al potere costituente, ma che tuttavia dovranno essere pur sempre considerate quali rappresentazioni88. 1.4. L’esperienza costituzionale inglese del XVII secolo quale oggetto di una ricerca genealogica sul potere costituente. L’oggetto di questa ricerca è lo studio delle origini del potere costituente nell’esperienza costituzionale e rivoluzionaria dell’Inghilterra del XVII secolo. La costituzione inglese non è classificabile seguendo i dogmi della scienza giuridica continentale se non a prezzo di una distorsione del suo significato89. Parimenti, l’atteggiamento della scienza giuridica anglosassone ha manifestato sempre un sentimento di gelosia e una volontà di preservazione della propria particolarità insulare, se non nel caso di una speculare volontà di importazione dei principi del formalismo manifestata da una parte comunque minoritaria della dottrina90. Allo stesso tempo è opinione comune che il Seicento inglese abbia rappresentato la prima fondamentale stagione della modernizzazione politica e costituzionale. Tutela delle libertà individuali e sovranità parlamentare articolata secondo il principio dell’equilibrio tra i tre poteri e legittimata attraverso il sistema elettivo di rappresentanza sono la diretta espressione del fatto che il processo costituzionale

87 Cfr. R. Schnur, Per la teoria della guerra civile. Considerazioni su un soggetto trascurato, in Rivoluzione e

guerra civile, cit., pp. 119-157; anche C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit. 88 Cfr. R. Koselleck, Rappresentazione, evento e struttura, in Futuro passato, cit., pp. 123-134. Sul carattere

liminare dell’approccio storico-concettuale in relazione alla storia del pensiero v. in particolare J. Dunn, The identity of the history of ideas, in Political obligation, cit., pp. 20-23.

89 Infra, Parte I, in particolare cap. I, par. 1.1, pp. 35-41; Parte I, cap. II, par. 2.3, pp. 67-83. 90 Per quanto riguarda il primo approccio si tenga presente innanzitutto l’opera, qui ampiamente

ripresa, di J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution et le droit féudal, PUF, Paris, 2000 (tr. fr. dell’edizione inglese The Ancient Constitution and the feudal right, Cambridge University Press, 1957). V. anche F.W. Maitland, The constitutional history of England: a course of lectures, Cambridge University Press, Cambridge, 1948; A.D. Boyer (a cura di), Law, liberty, and parliament: selected essays on the writings of Sir Edward Coke, Liberty Fund, Indianapolis, 2004; E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia e sulle relative deliberazioni di alcune società di Londra in una lettera indirizzata a un gentiluomo di Parigi dell'onorevole Edmund Burke, Ideazione, Roma, 1998; W. Blackstone, Commentaries on the laws of England, University of Chicago Press, Chicago, 1979. Per quanto riguarda il secondo approccio si v. in particolare J. Bentham, A comment on the Commentaries and a fragment on government, Clarendon Press, 2008; J. Austin, Delimitazione del campo della giurisprudenza, Il Mulino, Bologna, 1995.

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rappresenta la conquista più importante del processo di razionalizzazione del principio di obbedienza politico affermatosi nel corso delle due rivoluzioni. Peraltro, è bene ricordare che l’irruzione del razionalismo si inserisce in un contesto fortemente influenzato da una dimensione religiosa e millenarista, e che il modello di razionalità inglese si caratterizza per il suo legame con la storia, il tempo e l’empiria. Tuttavia, forse anche per quest’ultima peculiarità, la scienza giuridica inglese si dimostra restia ad una ricostruzione della propria evoluzione sulla base del riconoscimento dell’azione di una discontinuità costituente91. Quand’anche infatti il trapasso dal costituzionalismo antico a quello moderno venga interpretato giustamente come fenomeno costituente, si dovrebbe in ogni caso rilevare il limite di questo tipo di visione gradualistica che da un lato risulta incapace di spiegare il mutamento paradigmatico all’interno della continuità delle forme, e che dall’altro importa, snaturando, un concetto storico della scienza continentale in un contesto costituzionale dove è impossibile applicare in maniera deterministica la definizione di potere costituente92. E’ chiaro che la prima regola di ogni storia concettuale è quella che impone di non poter applicare in modo deterministico ad un particolare contesto storico concetti appartenenti ad una diversa latitudine storico-scientifica. Altrettanto chiara è la volontà qui già espressa di non limitare questa indagine ad un’operazione di storiografia giuridica che per assurdo potrebbe arrivare a scavare nella storia fino a cancellare le peculiarità del concetto di cui si vuol chiarire il significato93. L’argomentazione fin qui sviluppata ha segnalato come la cristallizzazione semantica del concetto di potere costituente nella teoria di Sieyès si realizzi sulla base dell’inserimento di tale sviluppo semantico all’interno di una particolare struttura concettuale inaugurata nel XVII, storicamente nella fase dell’assolutismo, e idealmente nel modello di sovranità e rappresentazione formalista hobbesiano. Il campo d’indagine sembrerebbe a questo punto ancora troppo limitato o addirittura improprio, per l’impossibilità di un riferimento palese ad una dottrina del potere costituente in Inghilterra, o troppo ampio per il riferimento alle strutture semantiche inaugurate dai differenti modelli di razionalismo nel Seicento. In realtà il caso inglese, nel quale il declino delle antiche forme del diritto si traduce immediatamente in un nuovo costituzionalismo, ovvero nel quale l’affermazione del processo di razionalizzazione nelle sue peculiarità insulari determina immediatamente il mutamento costituzionale, ma allo stesso tempo esclude ogni possibilità di una formalizzazione di quest’ultimo, può indicare la via per una ricostruzione genealogica del concetto di potere costituente. Se infatti il nucleo del concetto storico di potere costituente qui ricostruito fa riferimento ai tre pilastri resi funzionali da Sieyès, individuo/volonté générale, formalismo, costituzione come rappresentazione, allora è possibile sicuramente risalire alla ricostruzione dei presupposti di questo concetto storico, senza dover per questo compiere un’operazione di mistificazione strutturale e concettuale. In questa maniera i tre pilastri si possono ricondurre immediatamente a tre presupposti rintracciabili nell’esperienza costituzionale inglese. Antropologia individualista, fondazione razionale dell’obbligazione politica, e contratto sociale come

91 Cfr. M. Loughlin, Constituent Power Subverted: From English Constitutional Argument to British

Constitutional Practice, in The Paradox, cit., pp. 27-28. 92 Cfr. C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, Neri Pozza Editore, Venezia, 1956.

L’approccio storico-concettuale muove appunto da questa impossibilità di traslazione deterministica dei concetti continentali alla realtà inglese.

93 Cfr. J. Dunn, The identity of the history of the ideas, in Political obligation, cit., pp. 13 ss.

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base del potere civile, possono essere considerati come i tre elementi che caratterizzano l’esperienza rivoluzionaria inglese e che pongono le basi per il successivo sviluppo costituzionale continentale, ma che in Inghilterra non traducono tale esperienza costituente in un potere definitivamente e formalmente costituito. Più precisamente dunque, l’oggetto specifico di questa ricerca è lo studio di questi tre presupposti, ossia dei tre elementi che secondo un punto di vista continentale non sono sufficienti a stabilire un concetto di potere costituente, ma che in Inghilterra hanno determinato un mutamento costituzionale paradigmatico. Inoltre, naturalmente, lo studio di questi tre presupposti non può prescindere dall’analisi della relazione del percorso costituzionale con lo sviluppo dei diversi modelli di razionalità, poiché in fondo se la condizione di questa ricerca è rappresentata dalla relatività del concetto di potere costituente derivante dalla sua appartenenza ad una particolare struttura storico-semantica, allora l’obbiettivo di fondo di uno studio sulle origini del potere costituente in Inghilterra non può essere che la dimostrazione della possibilità di un diversa teorizzazione concettuale del potere costituente, ovvero in altri termini, la dimostrazione delle condizioni di possibilità della sua relatività concettuale. Il metodo necessario da seguire in questa sfida resta quello dell’analisi filosofica e giuridica inserito all’interno di una cornice storico-concettuale il cui riferimento costante e imprescindibile è rappresentato da una comparazione di tipo eccentrico. Se infatti il carattere filosofico si giustifica con la necessaria profondità che deve assumere la ricerca, d’altra parte la comparazione giuridica si deve dimostrare flessibile e allo stesso tempo deve tener conto delle strutture concettuali per non cadere nell’anacronismo. L’organizzazione di questo tipo di ricerca, dunque, non può che orientarsi su due fasi. Nella prima parte, la ricostruzione del concetto di Antica Costituzione procede dall’analisi dell’irruzione e della metabolizzazione nella nuova forma costituzionale e nel diritto di common law post-rivoluzionario del concetto di creazione giuridica, cioè di quello che può essere considerato il prerequisito per la ricerca dell’esistenza di un potere costituente. Di seguito, l’Antica Costituzione come architettura formale e come articolazione strutturale viene ricostruita nel secondo e terzo capitolo al fine di far emergere l’articolazione dei tre presupposti qui citati nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo costituzionalismo. In questa prima fase, l’analisi dello sviluppo dei tre presupposti del potere costituente taglia trasversalmente l’organizzazione dell’argomentazione che in maniera organica e sistematica tenta di ricostruire i tratti distintivi della costituzione inglese. L’antropologia individualista viene così analizzata nel passaggio dalle forme di aggregazione politico-sociali del periodo premoderno alla societas; la fondazione razionale dell’obbligazione politica viene analizzata in relazione al mutamento del concetto di common law e del significato dell’Antica Costituzione come principio di legittimazione. Il contrattualismo infine resta invece in questa fase argomento non esplicitato, sebbene il passaggio dalla costituzione premoderna alla costituzione post-rivoluzionaria venga analizzato come processo materiale di riarticolazione funzionale dell’organizzazione delle forme e dei luoghi di esercizio del potere politico. Questo tipo di investigazione che tenta di ricostruire analiticamente il concetto di Antica Costituzione nella fase di trapasso dal vecchio al nuovo costituzionalismo, benché preliminare e ancora apparentemente introduttiva del tema qui in esame, si rileva necessaria e fondamentale, poiché senza di essa la ricerca rimarrebbe inevitabilmente ingabbiata nelle strutture epistemologiche della scienza giuridica

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continentale per quanto riguarda l’analisi del concetto di potere costituente qui in esame. Quest’ultimo, infatti, risulta in questa maniera sottoposto ad una investigazione di tipo concettuale su due livelli intrecciati e interconnessi l’un l’altro grazie al metodo eccentrico di comparazione. Se con la ricostruzione analitica condotta nella prima parte sarà possibile chiarire la natura esatta del rapporto tra costituzionalismo inglese e potere costituente attraverso l’enucleazione degli elementi fondamentali della riarticolazione funzionale della costituzione moderna, d’altra parte con la seconda fase, (e sulla base di tale rapporto) sarà possibile delineare il contenuto effettivo del concetto di potere costituente affermatosi nell’esperienza inglese, ovvero il nucleo concettuale essenziale della sua definizione moderna. Nella seconda parte i tre presupposti del potere costituente, antropologia individualista, fondazione razionale dell’obbedienza e costituzione come contratto potranno essere così ricostruiti mettendo in relazione le polarizzazioni concettuali elaborate nella prima parte con la linea di tensione fondativa della nuova epoca costituente, ovvero con la tensione, sempre presente, tra l’astratta indeterminatezza del potere costituente e la necessità per la scienza giuridica moderna di una predeterminazione, se non della forma (come nel caso inglese), almeno degli equilibri funzionali dell’articolazione costituzionale. La parabola della modernizzazione verrà dunque ricostruita secondo l’ascesa e il declino del movimento rivoluzionario, ovvero attraverso l’investigazione di una serie di concetti «chiave» che nella comparazione concettuale, in riferimento all’oggetto della ricerca, si riveleranno utili alla ricostruzione di una diversa trama interpretativa dell’esperienza costituzionale inglese. Diritto naturale, definizione pattizia dell’obbligazione, Enlightenment, secolarizzazione, ed infine, il pensiero costituzionale di Hobbes e Locke, e più in generale delle varie correnti del pensiero politico costituzionale presenti nel Seicento inglese, sono alcuni passaggi di questo percorso interpretativo che tenta di chiarire potenzialità e limiti della nuova epoca contraddistinta dal concetto di capacità costituente, ossia le potenzialità e i confini entro cui si muove il concetto pur sempre relativo di potere costituente.

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Parte I

L’Antica Costituzione fra mutamento storico e mutamento giuridico.

Our constitution is a prescriptive constitution; it is a constitution whose sole authority is that

it has existed time out of mind (Burke)

remedies precede right

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Capitolo primo Una comparazione eccentrica 1.1. L’estraneità del common law al formalismo. 1.2. Un diritto immemoriale. 1.3. Il particolare rapporto tra ragione e storia alla base dell’evoluzione del common law.

1.1 L’estraneità del common law al formalismo. La prima peculiarità comune ai modi di produzione di diritto nel sistema di common law si può individuare procedendo negativamente: la radice del diritto non è mai riconducibile agli atti di posizione, laddove con questo termine si intendono non solo gli atti autoritativi, ma anche l’ipostatizzazione nel tempo di un determinato fatto avente rilevanza giuridica1. Allo stesso tempo però il common law si distingue per essere un sistema di creazione di diritto. Lo studio dell’articolazione di questo sistema, ossia della ripartizione degli ambiti di competenza di ogni singola fonte giuridica, si rivela notevolmente complesso nella misura in cui questa articolazione riesce a seguire dei criteri razionali nel suo funzionamento pratico. Ciò potrebbe apparire paradossale e suscitare perplessità per chi, come il giurista continentale, abituato a costruire la propria analisi a partire dai criteri del razionalismo, si trova dinanzi ad un modello di cui può comprendere il razionalismo del suo funzionamento pratico, ma non i principi razionali che fondano quel tipo di sistema. La complessità dell’approccio non è dovuta semplicemente alle diversità di funzionamento ed alle particolarità degli istituti giuridici che contraddistinguono questo sistema, ma deriva dal fatto che lo studio di questo sistema implica il confronto con una logica differente da quella razionale-formale, ovvero, tale complessità deriva sostanzialmente dal dover comparare due sistemi di creazione del diritto basati su due

1 L’impossibilità di una definizione di costituzione di common law secondo i dogmi della scienza

giuridica continentale sembra accompagnarsi al problema dell’individuazione di una fonte primaria ed originaria del diritto di common law. Peraltro, le due questioni risultano strettamente connesse anche nel contesto continentale, laddove la ricerca di un concetto definitivo di costituzione come unità rimane sempre qualche cosa di sfuggente, similmente al problema della fonte originaria del diritto. In questa sede, evitare di porre la questione della creazione giuridica e del principio della costituzione nei termini della ricerca di una fonte originaria risulta tanto più utile quanto questo problema rappresenta un nodo irrisolto per la scienza giuridica, e tanto più qui si vuole ricercare le peculiarità del razionalismo del common law. Inoltre, ciò equivale ad abbandonare i presupposti di una visione razionale-formale senza per questo dover perdere l’utilità della comparazione con i dogmi della scienza giuridica continentale.

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distinti e differenti tipi di razionalismo2. La comparazione dei modi di produzione di nuovo diritto non può che effettuarsi seguendo dei parametri di terzietà: ebbene, in questo caso, i parametri di validità ed efficacia, come anche quelli di produzione e applicazione del diritto, risultano non adottabili poiché direttamente espressione di un particolare tipo di razionalismo formale di derivazione continentale. Infatti, l’adozione di questi parametri comporterebbe l’assunzione del postulato prescrittivo che risiede alla loro base: l’assunzione che la comprensione razionale dei fenomeni giuridici discende dall’applicazione di un principio logico-deduttivo alla realtà concreta, e che quindi, anche se solo in senso logico, tutto il diritto può essere ricondotto ad un atto o fatto primordiale avente rilevanza giuridica3. Lo spaesamento del giurista continentale è quindi essenzialmente generato dall’incapacità di comprendere utilmente il sistema di produzione del diritto di common law attraverso il modello del razionalismo formale4.

2 Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, in Economia e Società, Edizioni di Comunità, Torino, 2000, pp.

195-201, il quale specifica come il tipo di razionalità giuridica anglosassone si differenzi dal modello razionale-formale per il suo carattere empirico, pratico, e non sistematico. Ciò, peraltro, non esclude la presenza di qualità formali riconducibili alle tecniche procedurali ed interpretative elaborate soprattutto grazie al ruolo della corporazione dei pratici. E tuttavia è proprio la connotazione del pensiero giuridico inglese come ‘arte empirica’ a determinare la divergenza strutturale di questo razionalismo dal formalismo continentale, poiché afferma Weber, anche «quando il profano tende naturalmente ad inferire da un caso particolare un altro caso particolare – egli tuttavia rimane immune da un tipo di pensiero formale – in quanto rimane alieno dall’astrazione giuridica dello specialista».

3 Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 153-201. In una prima accezione si può intendere per formalismo una determinata impostazione impressa alle dottrine giuridiche per le quali la comprensione del fenomeno giuridico passa attraverso la costruzione di sistemi razionali completi di tipo deduttivo, ossia di sistemi di diritto calcolabile fondato su un razionalismo orientato allo scopo. Le dottrine del positivismo giuridico appaiono, in questo senso, come la concretizzazione diretta dei principi della filosofia formalista.

4 La filosofia di tipo formalista deve essere però intesa innanzitutto da un punto di vista gnoseologico. In questo senso, il pensiero kantiano si può considerare quale prosecuzione del pensiero cartesiano nella misura in cui le forme della conoscenza procedono da un’unità originaria, da una prima astrazione, ovvero nella misura in cui l’essere può essere indagato esclusivamente attraverso la ragione. E tuttavia, Kant opera la vera e propria rivoluzione copernicana nel momento in cui, da un lato, riduce l’essere a pensiero, alla pura astrazione, e dall’altro stabilisce che solo è possibile razionalmente una conoscenza di tipo fenomenologico, ossia riconosce che un’autentica conoscenza dell’essere, della cosa in sé, che prescinda cioè dai canoni del formalismo, non è data al pensiero umano. E’ da questa svolta che si ha una supremazia della forma sulla materia, giacché tutte le forme conoscenza si basano sul postulato della ragion pura per il quale la radice del pensiero razionale è un forma pura e originaria del pensiero, identificabile nel concetto aprioristico di unità sintetica dell’appercezione. V. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., §§ 15-27, pp. 109-129, laddove nell’Analitica dei concetti specifica che «l’unità analitica dell’appercezione è possibile solo a patto che si presupponga una unità sintetica» (§ 16, p. 111). Sul punto v. di A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani tra il 1789 e il 1802, Cedam, Padova, 1962, pp. 19-41. Dunque, in primo luogo, in questa sede si deve rilevare che questo tipo di formalismo, che fonda un nuovo tipo di epistemologia, si dimostra vincente nel campo del diritto nel momento in cui è in grado di rappresentare il fondamento epistemologico del nuova scienza giuridica. Non a caso, nel momento in cui la scienza giuridica sviluppa una propria metodologia e quindi una propria autonomia scientifica, essa stabilisce anche il proprio limite gnoseologico nell’irrisolvibilità del problema del suo fondamento, ossia nell’impossibilità dell’individuazione di una fonte o forma originaria fondativi dell’ordinamento giuridico. Seguendo questa impostazione il formalismo appare in tutta la sua portata rivoluzionaria. In questo modo infatti la sua definizione non resta circoscritta a determinate dottrine giuridiche, ma al contrario fa riferimento all’intera scienza giuridica nella misura in cui questa risulta dipendente da quel modello conoscitivo. Cfr. G.W.F. Hegel, Scritti di filosofia del diritto, (a cura di A. Negri), Laterza, Bari, 1962, pp. 11-62.

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In primo luogo dunque, l’estraneità del common law ai principi del razionalismo formale, da un punto di vista pratico, si traduce nell’inapplicabilità di questi postulati quali fonti di legittimazione dell’ordinamento di common law, mentre da un punto di vista analitico, tale estraneità non fa che segnalare l’utilità relativa e limitata fornita da quei concetti5. Tuttavia, l’estraneità del common law ai principi del razionalismo formale non vuol significare l’incompatibilità di questo sistema con una serie di regole formali di carattere procedurale ed interpretativo necessarie per la risoluzione delle antinomie e il riconoscimento del diritto da ascrivere al caso concreto. L’affermazione del sistema di common law è legata alla progressiva affermazione e perfezionamento di queste tecniche formali. Il vincolo giuridico per il giudice di non discostarsi da certi precedenti costituisce la prima e basilare di queste tecniche formali sulle quali si è sviluppato tutto il sistema. Le tecniche dell’interpretazione giudiziale, costruite sulle contrapposizioni tra ratio decidendi e obiter dictum e tra decision e opinion, come anche la netta separazione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, sembrano rappresentare i corollari del principio dello stare decisis; queste infatti si presentano quali tecniche formali in grado di rendere la decisione del giudice vincolata a dei parametri di rigidità. In funzione invece di una maggiore flessibilità sembrano predisporsi, sia il potere di distinguere (distinguishing), sia il potere di derogare alla dottrina del precedente (overulling)6. In verità, si deve rilevare come l’insieme di queste tecniche giuridiche rappresentino solamente gli strumenti grazie ai quali il giudice riesce a plasmare la realtà giuridica in funzione delle norme di riferimento. La produzione della verità giuridica in questo modo, seppure legata a delle tecniche procedurali ben definite, non perde mai il suo carattere induttivo. Anche il rapporto tra statutes e case law testimonia l’aderenza di questo processo di produzione ad un metodo razionale di carattere induttivo7. E’ pertinente, dunque, parlare di formalismo procedurale induttivo per quanto riguarda le modalità di produzione del diritto, soltanto però nella misura in cui tale formalismo non sfiora la definizione della fonte di creazione del nuovo diritto. Fra l’altro, è bene ricordare che la predisposizione di queste tecniche non è che il risultato di una lenta prassi storica giunta a delle regole unitarie in grazia soprattutto dell’unità della corporazione dei pratici. Prassi storica, è bene ribadire, mai espressione di una volontà onnicomprensiva di delineare un sistema chiuso, unitario e completo8.

5 Il modello del formalismo rappresenta quindi un parametro di riferimento solo nella misura in cui

la definizione storica dell’oggetto di questa ricerca risulta indissolubilmente legato a questo modello, ovvero nella misura in cui il concetto di volontà rousseauiano si fonda sui presupposti del formalismo.

6 U. Mattei, Common law. Il diritto anglo-americano, Utet, Torino, 1992, pp. 214-248. 7 U. Mattei, Common law, cit., pp. 75-78, 88-94, 249-253. Non a caso lo statute, pur promulgato,

vivrebbe in una sorta di limbo, in attesa di una prima applicazione giurisprudenziale. Quest’ultima perciò si presenta non come l’applicazione di una imposizione normativa, ma al contrario, quale mero strumento giuridico di cui il giudice, al pari del case law, può disporre in funzione del vero parametro normativo di riferimento: il caso concreto. Inoltre è bene ricordare che prima ancora questa impostazione del rapporto tra case law e statute deriva dalla concezione del parlamento come corte di giustizia.

8 M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 111-130. Le direzioni nelle quali si orientano i processi di razionalizzazione sono determinati in primo luogo dalla cerchia di persone che sono in grado di influenzare professionalmente la formazione del diritto. In questo senso si può intendere l’opposizione tra due tipi di diritto di razionalismo. Da un lato, il diritto inglese, ovverosia il prodotto della tradizione unitaria e omogenea della corporazione dei pratici identificabile in concetti mai elaborati mediante astrazione del concreto o mediante generalizzazione e sussunzione, e legato per questo ad un tipo di razionalità empirica e non sistematica. Dall’altro, il diritto continentale che, sebbene con sfumature

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Ma soprattutto, si deve precisare che, anche nel merito del contenuto del nuovo diritto, il giudice, quand’anche stabilisca un nuovo precedente, non rappresenta la fonte del nuovo diritto. Il giudice che deroga al regola dello stare decis, sebbene crei un nuovo case law, non è mai l’artefice dell’innovazione giuridica; egli in realtà non fa che rintracciare il diritto già mutato nella realtà sociale9. Risulta perciò errato ridurre il common law a diritto giurisprudenziale, ossia ridurre il concetto di creazione giuridica a quello della creazione del nuovo precedente. Peraltro, ciò implicherebbe adottare il punto di vista del positivismo nel momento in cui la funzione nomopoietica viene ascritta pur sempre ad un’autorità, attraverso il suo trasferimento dall’organo legislativo a quello giudiziario10. E’ pur vero che anche il sistema di civil law non ascrive al giudice una funzione creativa, ma in ogni caso si riscontra una radicale divergenza fra i due sistemi nella misura in cui il carattere costitutivo della sentenza del diritto continentale è dato dal fatto che l’accertamento del diritto avviene attraverso un processo meccanicista di individuazione del caso particolare all’interno delle varie fattispecie generali, mentre nel common law l’aspetto dichiarativo della sentenza discende dal carattere induttivo e non sistematico del procedimento giudiziario11. Ugualmente poi, il common law non può neanche essere paragonato al diritto consuetudinario, così come viene descritto dalle dottrine del neo-positivismo. Queste infatti presuppongono in ultima istanza la presenza di un’autorità, di un organo in grado di dichiarare la validità formale di quella consuetudine12.

diverse, si sviluppa, a differenza di quello inglese, a partire dalla recezione del diritto romano, determinando così lo sviluppo di dottrine giuridiche (elaborate prevalentemente all’interno delle università) fortemente legate ai concetti di codificazione e astrazione, seppure all’interno di un modello di positività medievale. Cfr. anche M. Caravale, Alle origini del diritto europeo: ius commune, droit commun, common law nella dottrina giuridica della prima età moderna, Monduzzi, Bologna, 2005.

9 Cfr. U. Mattei, Common law, cit., pp. 88-94, 214-218. 10 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 267-287. 11 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 258-259, 264-276. Secondo la logica kelseniana

le due modalità di accertamento giudiziario si differenziano soltanto sul piano metodologico. Entrambe, infatti, riposerebbero sull’assunto che l’esistenza della norma è precedente al momento applicativo del tribunale, sebbene quest’ultimo ricopra un ruolo creativo nella misura in cui rappresenterebbe il culmine del processo per mezzo del quale il diritto produce incessantemente se stesso ex novo. Dunque sarebbe essenzialmente la differenza tra un metodo deduttivo, che determina il carattere accentrato e gerarchicamente orientato del giudizio di civil law, e un metodo induttivo, che determina il carattere ‘più libero’, ‘meno certo’ e decentrato del giudizio di common law, a generare la diversa struttura ordinamentale per cui il common law conferirebbe al potere giudiziario il ruolo centrale della statuizione del diritto, ruolo al contrario ricoperto nel civil law dalla funzione legislativa. E tuttavia, porre la diversità sul piano puramente procedurale e metodologico sottintende una mistificazione tesa ad imporre un punto di vista positivista nella misura in cui Kelsen presuppone che alla base del processo induttivo del giudice inglese risieda lo stesso tipo di generalizzazione ed astrazione logica di tipo sistematico sulla quale è fondata la deduzione del giudice continentale. Sul rapporto tra il ruolo dei giudici, la creazione giuridica e i processi di razionalizzazione del diritto v. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., in particolare le pp. 200-201, dove Weber constata la differenza tra il piano effettivamente creativo dell’attività giudiziaria e il piano soggettivo della percezione della propria funzione da parte dei giudici. Infatti, conclude Weber, il fatto che il giudice inglese dimostri la volontà di restare fedele ad una teoria dichiarativa, e viceversa, il ruolo del giudice continentale sembra volersi espandere, non dice nulla sulla reale evoluzione di tali ruoli, in quanto ciò dipende dai processi profondi di razionalizzazione; e dunque, da un lato sembra affermare il possibile ridimensionamento del potere giudiziario inglese, e dall’altro in particolare, afferma che la possibilità di un’espansione rimane irrimediabilmente legata ad un tipo di razionalismo formale.

12 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura, cit., pp. 254-259: «Il problema di sapere se ci si trova in presenza della fattispecie di una consuetudine produttrice di diritto può essere risolta soltanto dall’organo che

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Dunque, il concetto di creazione giuridica nel sistema di common law non può essere riducibile alla creazione del precedente nella misura in cui l’aspetto dichiarativo di quest’ultimo non discende da un sillogismo formalista, ma dalla sua connessione con la realtà concreta13. D’altra parte, quand’anche si riconosca un carattere antiformalista dovuto all’approccio induttivo, si deve però riconoscere come tale antiformalismo risulterebbe anomalo, poiché in ogni modo non si baserebbe sulla distinzione tra efficacia e validità ma sull’identità tra i due termini14. Se dunque si deve parlare di antiformalismo in

crea il diritto. Da ciò si è talora dedotto che una regola, esprimente il comportamento consuetudinario degli uomini, diviene norma giuridica soltanto mediante il suo riconoscimento da del tribunale che applica questa regola e che quindi le norme del diritto consuetudinario sono anzitutto prodotte dai tribunali. Ma il rapporto fra organi che applicano (in particolare i tribunali) e le norme del diritto consuetudinario, non è diverso dal rapporto fra tali organi e le norme del diritto statuito». In realtà, afferma Kelsen, il valore giuridico della consuetudine si ricava sempre dall’esistenza di una costituzione formale, ovverosia, la possibilità che la costituzione non sia stata posta mediante statuizione bensì per consuetudine, e il diritto di quest’ordinamento sia essenzialmente diritto consuetudinario, riposa sempre sul presupposto che la norma consuetudinaria sia elevata a fattispecie creatrice di diritto in grazia dell’esistenza di una norma fondamentale, cioè della costituzione in senso logico-giuridico. Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 88-89, laddove da un punto di vista diacronico riconosce che i parametri del razionalismo moderno risultano antistorici nel momento in cui vengono applicati ad un contesto storico e giuridico estraneo a tale tipo di razionalismo.

13 Cfr. U. Mattei, Common law, cit., pp. 90-91. Da notare che anche la semplice riduzione della funzione nomopoietica alla creazione del nuovo precedente determina un particolare rapporto tra regola ed eccezione: laddove nel diritto continentale l’eccezione viene ricollegata alla possibilità di prescindere dal diritto per la creazione di nuovo diritto e dunque la nomopoiesi viene ricondotta alla normalità della produzione degli atti di posizione, nel diritto di common law avviene l’esatto contrario. Non solo, la normalità della produzione degli statute assume un’importanza relativa, e viceversa il momento innovativo, in quanto decisione giudiziaria basata sul principio dello stare decisis, assume di conseguenza i caratteri dell’eccezionalità; ma la peculiarità del rapporto tra regola ed eccezione consiste proprio nel fatto che quest’ultima si presenta come eccezione normativizzata (secondo però la razionalità specifica del diritto inglese). Sul concetto di eccezione v. C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del politico, cit., pp. 33-74. Per quanto riguarda il tema dell’eccezione v. in questo lavoro Parte II, cap. II, par. 2.3.1, pp. 194-209.

14 Cfr H. Kelsen, La dottrina pura, cit., pp. 238-244, 258-259, 267-281. Al contrario non solo le dottrine del positivismo, ma anche un approccio antiformalista riposa sulla distinzione concettuale tra validità ed efficacia. In particolare l’efficacia può rappresentare il principio trascendentale a fondamento del diritto nei termini in cui la validità si ricava in maniera deterministica dal requisito dell’efficacia. Se da un lato la logica kelseniana ammette che l’elemento dell’efficacia rappresenti il momento determinante per il diritto soltanto in quanto momento della validazione formale del processo di creazione giuridica in un ordinamento basato sul diritto giurisprudenziale, e sempre quindi all’interno di una visione deontologica del diritto, dall’altro lato un approccio antiformalista è in grado di inquadrare il problema dell’efficacia e del diritto da un punto di vista dell’essere. E tuttavia si deve rilevare come anche questo tipo di impostazione riposi sull’ipostatizzazione di un principio, in questo caso l’efficacia della norma, a fondamento del diritto. Peraltro, o tale impostazione si traduce in una dottrina giuridica dell’ordinamento, ossia in una dottrina che antepone la giuridicità dell’istituzione alla giuridicità delle norme, o questo tipo di impostazione si riduce inevitabilmente ad una dottrina sociologica del diritto. Concludendo, se da un punto di vista positivista e realista la distinzione tra validità ed efficacia gioca ancora a favore della validità, poiché sebbene questa si ricavi dall’efficacia, essa resta ancora il momento determinante del diritto; secondo un approccio antiformalista non solo il rapporto tra i due termini viene ribaltato, ma sembra consistere in una sostanziale identità nel momento in cui la validità viene ricavata tautologicamente dall’efficacia della norma. Il common law non rientra interamente all’interno di nessuno di questi schemi. Distante come si è visto dal modello positivista e realista, il common law risulta non inquadrabile interamente nemmeno all’interno delle dottrine dell’istituzione nella misura in cui anche queste si costruiscono sulla base di un principio

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riferimento al diritto inglese, si deve però precisare che si tratta di un antiformalismo che ha perduto la sua specularità con il formalismo, nel senso che come quest’ultimo vede a suo fondamento un principio unitario di carattere logico-deduttivo dal quale far discendere l’interpretazione della realtà, parimenti, l’antiformalismo deve essere inteso privato del suo fondamento logico induttivo: la realtà concreta non va intesa come la fonte primaria, ossia come il principio unitario dal quale trae legittimità l’intero ordinamento15. Si tratterebbe perciò di un antiformalismo privato dei presupposti logici del formalismo16. E tuttavia, anche in questo caso il sistema non sarebbe immune dai processi di positivizzazione, se con questo fenomeno si vuole intendere la cristallizzazione e la riduzione del diritto alle tecniche di interpretazione prima citate17.

unitario di carattere intragiuridico, coincidente non solo nel dualismo tra validità ed efficacia, ma anche nella centralità assunta dall’istituzione statuale all’interno di tale visione. Infine tale concezione non può nemmeno essere ricompresa all’interno di un approccio antiformalista puro in quanto il common law non è riducibile ad una dottrina giuridica dell’essere (sein). In generale sulle diverse concezioni della scienza giuridica e per quanto riguarda il rapporto tra normativismo e teoria dell’istituzione v. C. Mortati, La costituzione in senso materiale, cit.; C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del politico, cit., pp. 247-278.

15 Cfr. N. MacCormick, Law as institutional fact, University of Edinburgh, Edinburgh, 1973; K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967; A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino, 1965; un recupero recente della prospettiva istituzionalista è offerto da M. La Torre, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999. Tuttavia ciò che si vuole evidenziare in questa sede è la dipendenza e la stretta relazione che corre tra i concetti continentali di fonte primaria e costituzione, e la conseguente alterità strutturale e concettuale del diritto inglese da questo modello epistemico, laddove già Santi Romano aveva riconosciuto il carattere originario e la pluralità degli ordinamenti a partire però dal dualismo tra atto e fatto e della necessaria supremazia dell’istituzione statuale. Cfr. S. Romano, L’ordinamento giuridico, cit.

16 Cfr. G.W.F. Hegel, Scritti di filosofia del diritto, cit., pp. 8-16, 23-28. Il carattere fittizio e relativo (e dunque non universale) del formalismo discende dal fatto che alla sua base risiede una astrazione del pensiero apriori consistente nell’idea di una originaria identità (il concetto assoluto di infinito). La specularità di un atteggiamento antiformalista si ricava dal preteso carattere scientifico impresso alla scienza giuridica dall’empirismo ottocentesco. Quest’ultimo infatti, nella misura in cui eleva le singole esperienze all’universalità dei principi consequenziali elaborati, ossia lavora sulla base di principi cognitivi di generalizzazione e astrazione, tanto più vede tali universalità assumere un carattere determinato, formale e fittizio dato dal fatto che la possibilità di un altro elemento empirico che contraddice tali principi non può essere comunque smentita. La specularità con il formalismo è evitata dunque nel momento in cui l’empirismo del diritto inglese si caratterizza per essere un empirismo puro; ovverosia nel momento in cui esso risulta inconseguente, non avendo bisogno per il suo operare di sussumere le determinatezze concrete dell’esperienza all’interno di un principio astratto al fine del riconoscimento della scientificità di tale diritto. Diversamente l’evoluzione del razionalismo empirista nel corso del Seicento da Bacone a Hume è contrassegnato dall’irriducibilità della natura e delle sue leggi alla capacità razionale di una loro completa positivizzazione. Su questo punto v. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, II, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, Einaudi, Torino, 1952; diffusamente Parte II, in particolare cap. I, par. 1.4, pp. 158 ss.; Parte I, cap. II, par. 2.2.2, pp. 186 ss. Le conseguenze di questo tipo di approccio sono espresse in maniera definitiva da Hume, laddove anche il significato di convenzione viene depurato dei residui del contrattualismo. Su quest’ultimo punto v. G. Deleuze, Empirismo e soggettività: Saggio sulla natura umana secondo Hume, Cronopio, Napoli, 2000.

17 Cfr. U. Mattei, Common law, cit., pp. 233-249. Il razionalismo del common law si misura in relazione allo sviluppo e consolidamento pratico di tecniche procedurali e interpretative di carattere formale. Tale carattere peraltro va inteso non in relazione ad un impostazione formalista di tale razionalismo ma in relazione alla rigidità assunta da tali tecniche. Fra queste tecniche razionali si deve ricordare brevemente la non casuale rigidità assunta dalle rules of property all’interno della teoria interpretativa giudiziale e la rigida articolazione del rapporto tra statute e giurisprudenza in seguito all’epoca della c.d. «statutorizzazione». Quest’ultima, in particolare, ha dimostrato la straordinaria efficienza razionale del

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La possibilità di un diritto positivista meramente procedurale e interpretativo sarebbe comunque smentita nel momento in cui si stabilisse un organo o autorità esclusiva deputata alla creazione di norme. Inoltre, la tesi dell’incompatibilità tra positivismo e common law viene avvalorata dall’altra particolarità di questa sistema, ossia dall’assenza di una sistematica, e dunque della volontà di descrivere la totalità o di ricercare un principio di unitarietà tra delle varie forme giuridiche18. In sintesi, si può affermare che, sebbene i principi del positivismo abbiano potuto influire in determinati periodi storici sulla scienza giuridica inglese, provocando altresì dei mutamenti sul piano delle istituzioni giuridiche, il common law resta in ogni caso un sistema aperto e non perimetrabile all’interno di una definizione positivista19. Infine, questa tesi ottiene la propria conferma in forza della diretta connessione del common law non solo alla realtà concreta, ma al diritto naturale, laddove qualsiasi definizione in senso positivista del diritto presuppone la cesura netta con quest’ultimo tipo di diritto20. 1.2. Un diritto immemoriale. In verità è proprio il rapporto tra common law e diritto naturale a rappresentare la vera chiave di volta in grado di svelare l’arcano della creazione giuridica. Lungi dallo sfiorare una definizione tautologica e sociologica del diritto, la teoria dichiarativa del diritto di common law si connette direttamente con la questione del suo fondamento costituzionale. In questo modo il problema della creazione di nuovo diritto non viene

common law, quale sistema in grado di armonizzare l’autorità costitutiva dei tribunali con l’aumento della produzione degli atti di posizione normativi dovuto alle notevoli funzioni regolative richieste dal welfare state e dall’accresciuto peso del potere parlamentare quale potere fornito di legittimazione democratica.

18 Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 14-15. «La sistematica rappresenta, in tutte le sue forme, un tardo prodotto del pensiero giuridico, ignoto al «diritto» originario. Secondo i nostri schemi concettuali, essa consiste nel coordinamento di tutti i principi ricavati con il lavoro di analisi, in modo tale da formare un sistema di regole logicamente chiaro, privo di contraddizioni interne e soprattutto – almeno in linea di principio – privo di lacune; il che comporta che tutte le fattispecie pensabili devono poter essere sussunte sotto una norma del sistema, se non si vuole che il loro ordinamento resti privo di una garanzia efficace. Questa pretesa di completezza non è neppure oggi propria di tutti i diritti (non esiste ad esempio nel diritto inglese) e nei diritti del passato si riscontra con regolarità ancora minore».

19 Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 195-198. Non solo dunque il carattere essenzialmente pratico, induttivo ed empirico del razionalismo del common law, ma in definitiva è proprio l’assenza di una sistematica a confermare l’impossibilità di una definizione in senso positivista del common law. Non si tratta infatti dell’assenza di un parametro tra gli altri, ma dell’assenza dei presupposti formalisti per una definizione in senso positivista di tale diritto, ossia dell’impossibilità di rintracciare un concetto unitario di costituzione sia in senso formale (come costituzione in senso logico) sia in senso materiale. Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura, cit., pp. 231-235, 276-281, 350-351; C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, cit., pp. 16 ss. Dunque, quand’anche si riconosca il carattere tecnico e specialistico, le sue qualità formali, il common law resterebbe tuttavia un diritto non formalista pur recando in sé una propria razionalità. Lo studio del razionalismo alla base di questo tipo di diritto si rivela perciò tanto più interessante quanto più esso risulta slegato dal modello del razionalismo formale, e dunque nella misura in cui, nonostante ciò, il common law ha dimostrato nel tempo di saper garantire un elevato grado di integrazione tra un sistema giuridico fondato sui principi democratici ed un sistema di economia di mercato.

20 Cfr. H.Kelsen, La dottrina pura, cit., pp. 82-86, 247-250; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, Bari, 2002, pp. 203-206, 227.

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ridotto alle modalità della sua produzione, ovvero alla questione dell’articolazione di mezzi giuridici limitati e legittimi in grado di dichiarare il diritto, ma viene ricondotto al problema del suo fondamento di legittimazione. Ciò non equivale peraltro a schiacciare il problema della creazione giuridica su quello del fondamento di legittimazione dell’ordinamento. E’ evidente che i due problemi sono strettamente connessi - come peraltro avviene nella scienza giuridica continentale, laddove da un lato il carattere procedurale e formale (la finitezza dei mezzi) determina il principio di legittimazione giuridico e gli organi produttori di norme, e dall’altro i valori politici e morali fondano il principio di legittimazione extragiuridico21 – ma nel sistema di common law in un senso radicalmente diverso. Qui non vi è un limite netto tra giuridicità e extragiuridicità del fondamento, tra diritto naturale e diritto positivo; il diritto naturale non rappresenta un momento antecedente e giustificatorio dell’ordinamento positivo. Il diritto naturale infatti non si pone come momento dialettico, né tanto meno si annulla nel diritto positivo22. Ugualmente, il diritto positivo acquista il suo carattere di positività non in quanto diritto posto, ma nella misura in cui risulta in armonia con l’ordine naturale delle cose; tanto più esso coincide con il diritto naturale. Ovviamente, la definizione di diritto naturale può assumere molteplici forme e connotazioni. Per ora è bene sottolineare solamente la sua stretta connessione con la forma consuetudinaria del diritto positivo23. Ciò è sufficiente a chiarire il problema della connessione tra creazione giuridica e fondamento di legittimazione: il diritto inglese è diritto consuetudinario nella misura in cui esso si fonda sulla tradizione, ossia sulla convinzione che il rispetto del precedente fa riferimento costantemente ad un processo di legittimazione di carattere immanente di tutto l’ordinamento giuridico. In pratica, l’identità tra diritto positivo e consuetudine equivale a stabilire una tensione verso la perfezione del diritto naturale, tensione possibile grazie alla presenza ed operatività di un principio

21 Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., pp. 197-216; cfr. H. Kelsen, La dottrina pura, cit., pp. 217-226,

311, 350-351. 22 Cfr. R.S. White, Natural Law in English Renaissance literature, Cambridge University Press,

Cambridge, 1996, pp. 44-54; anche A.S. McGrade, Rights, natural rights, and the philosophy of law, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg (a cura di), The Cambridge History of Later Medieval Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge, 1982, pp. 738-756. V. anche, A. Passerin d’Entrèves, Riccardo Hooker: contributo alla teoria e alla storia del diritto naturale, Torino, 1932.

23 La definizione di diritto naturale può essere ricondotta in linea di principio a tre idealtipi: il primo individua nel diritto naturale la diretta emanazione della volontà divina; il secondo invece riconduce i postulati del diritto naturale alla naturale razionalità umana; infine, il terzo riconduce la concezione del diritto all’ordine naturale delle cose, ossia alla giustizia di un sistema di diritto basato sull’immutabilità delle sue forme. Concretamente, questi tre idealtipi si trovano a convivere all’interno delle medesime concezioni del pensiero giuridico ed all’interno delle stesse forme giuridiche che caratterizzano la premodernità. E tuttavia, il mutamento nell’equilibrio dei tre aspetti determinerà le successive evoluzioni non solo del giusnaturalismo moderno, ma più in generale delle concezioni giuridiche. Per quanto riguarda il caso qui in esame, è bene anticipare come sia la particolare connessione che si viene ad instaurare tra lo sviluppo del diritto naturale come diritto di ragione e l’egemonia di una concezione consuetudinaria del diritto a permettere il particolare percorso di modernizzazione giuridica che contraddistingue la storia inglese. Cfr. R.S. White, Natural Law in English Renaissance literature, cit., pp. 1-20, 44-72; in particolare sulla connessione tra legge di natura e consuetudo v. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution et le droit féudal, cit.; O. Brunner, Terra e potere, Giuffré, Milano, 1983, pp. 187 ss., 603-605; in generale sul diritto naturale si v. L. Strauss, Diritto naturale e storia, Neri Pozza, Venezia, 1957; G. Fassò, Il diritto naturale, Eri, Torino, 1964; anche D.E. Luscombe, Natural morality and natural law, in The Cambridge History of later medieval, cit., pp. 705-719; K. Haakonssen, Divine/natural law teorie in ethics, in The Cambridge History of Seventeenth Century Philosophy, (a cura di D. Garber e M. Ayers), Cambridge University Press, Cambridge, 1998, pp. 1317-1350.

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immanente all’interno dell’intero sistema di diritto: la convinzione nella giustizia dell’eternità ed immemorialità dell’Antica Costituzione24. Anche in questo senso vi è coincidenza tra creazione della norma e legittimazione dell’ordinamento, ma le peculiarità di questa identità delineano un orizzonte giuridico ben diverso da quello della scienza giuridica continentale: questo orizzonte infatti non è mai avalutativo, né metodologicamente chiuso e definito. Se da un lato infatti l’assenza di una sistematica non è casuale, dall’altro, si deve rilevare come il carattere aperto di questo sistema abbia comportato l’impossibilità per la storia del diritto inglese di un’autonomia scientifica, nella misura in cui lo studio del rapporto tra norma e sua legittimazione implica sempre la considerazione della dimensione storica, politica e sociale nella quale i processi giuridici si collocano25. Naturalmente ciò non equivale a riconoscere che i processi di legittimazione del diritto e i mutamenti delle forme di produzione di nuovo diritto siano indifferenti all’evoluzione e ai mutamenti dei rapporti tra le varie istituzioni giuridiche; ciò è tanto più vero nel periodo preso in esame in questa ricerca, e proprio per questo si deve analizzare come apparentemente il fondamento del principio di legittimazione del diritto sia restato lo stesso nonostante il XVII secolo, due rivoluzioni, e la definitiva affermazione della sovranità parlamentare. Il rispetto dell’Antica Costituzione rappresenta ancora il fondamento di legittimazione di ogni statute e di ogni decisione giudiziaria nel corso del XVIII secolo. In realtà a mutare non sono solo i rapporti interistituzionali ma anche il principio di legittimazione del diritto. La comprensione del particolare mutamento di quest’ultimo è dunque la premessa necessaria per

24 Cfr. J.G.A. Pocock in L’Ancienne Constitution et le droit féudal, cit., pp. 49-79. L’equivalenza tra

diritto positivo e consuetudine è determinante per la comprensione del modello dell’Antica Costituzione poiché tale equivalenza assume dei lineamenti particolari nell’Inghilterra feudale. In effetti mentre nel continente gli jura propria, la coûtume, rappresentano un piano giuridico che si pone in rapporto dialettico, secondo i canoni della razionalità giuridica ereditati dal diritto romano, con il piano universale del diritto comune, e dunque il diritto feudale continentale è un diritto particolare in quanto prodotto di questa interazione, in Inghilterra, dove la recezione del diritto romano è assente, la consuetudine diviene l’espressione diretta tanto del diritto locale tanto del diritto centrale del monarca. Ciò naturalmente non equivale a negare la particolarità dei diritti locali, e dunque l’esistenza di una dialettica tra questi e il diritto del re, ma al contrario proprio l’assenza di una distinzione qualitativa tra i due tipi di diritti testimonia il particolare percorso intrapreso dalle istituzioni al fine di giungere ad una sempre maggiore centralizzazione e razionalizzazione (v. infra Parte I, cap. II, par. 2.3.1, 2.3.2, pp. 67-72). Cfr. anche C.C. Weston, England Ancient Constitution and common law, in The Cambridge History of Political Thought, cit., pp. 375-396. Non è casuale quindi che la scienza storico-giuridica continentale (nella sua linea romanistica), presupponga nelle proprie ricostruzioni l’esistenza di questo doppio piano giuridico rappresentato da un lato dal diritto non scritto locale, e dall’altro dal diritto comune di derivazione romanistica. Cfr. F. Calasso, Medio Evo del diritto, I, Le Fonti, Giuffré, Milano, 1954, in particolare, pp. 453-469. Cfr. M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa Medievale, Il Mulino, Bologna, 1994, in particolare pp. 340-348, laddove riconosce l’assenza di questo tipo di rapporto dialettico nel common law.

25 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., pp. 17-81. Il riconoscimento della centralità della storiografia nella definizione delle peculiarità della cultura giuridica inglese rappresenta sostanzialmente la tesi metodologica sostenuta da Pocock. Inoltre, si deve aggiungere come il carattere ibrido della scienza giuridica inglese risulti legato indissolubilmente al carattere insulare del suo diritto. Tale carattere insulare deriva peraltro dall’impossibilità di una comparazione del diritto inglese con il diritto continentale a causa della mancata recezione del diritto romano. E’ proprio questo mancato incontro in definitiva a determinare, da un lato (come si vedrà più avanti nella cap. II della Parte I) la particolare articolazione delle istituzioni politiche, e dall’altro, l’impossibilità di una riduzione del dibattito secentesco sull’evoluzione delle istituzioni politiche e delle forme giuridiche ai termini del dibattito continentale tutto incentrato intorno all’individuazione di un soggetto dotato della sovranità originaria.

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comprendere il senso degli sconvolgimenti delle istituzioni politiche nel corso del Seicento. In ogni modo, tralasciando per ora la questione di questo mutamento, ossia l’analisi dell’evoluzione del fondamento di legittimazione del diritto come convinzione nella giustizia dell’obbedienza ad una legge fondata sulla tradizione, è bene isolare e tentare di chiarire il problema della creazione giuridica alla luce delle considerazioni fin qui svolte. Se il diritto non è mai diritto semplicemente posto dall’autorità (sia essa giudiziaria o legislativa), ma riceve una definizione più complessa grazie alla sua connessione con la realtà concreta e con il diritto naturale comunque inteso, e se parimenti questo diritto non è neanche riducibile né ai comportamenti sociali tout court, né tanto meno a un astratto diritto naturale, allora come si è già accennato, la creazione giuridica si fa risalire al principio di legittimazione del diritto, ossia alla convinzione che il rispetto del precedente sia conforme all’ordine naturale delle cose, ad un diritto naturale in qualche modo reale ed empirico26. In questo modo il problema della creazione giuridica si risolve in un’aporia: il mutamento giuridico diviene giustificabile nella misura in cui si identifica con un principio di immutabilità; nella misura in cui il mutamento si basa sulla sua negazione in linea di principio. La consuetudine immemoriale diviene la fonte giuridica che concretizza questo concetto di creazione giuridica. E’ questo istituto peraltro a formare la base del concetto premoderno di Antica Costituzione27. Sul piano storico è proprio questo istituto a caratterizzare il periodo feudale del common law28. E’ in questo periodo che norma, costituzione e mutamento giuridico si identificano strettamente nella consuetudine immemoriale fondata esclusivamente sulla tradizione; ovverosia una consuetudine fondata su una tradizione che vedeva

26 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., pp. 54-55 : «l’idée d’un droit émanant du juge n’est que l’élaboration et le prolongement de l’idée de coûtume (…) Ce qui sous-entendait que l’usage rendait le droit plus parfait qu’aucune mode d’expression susceptible de voir le jour dans un cerveau humain (…) On vit se développer une idéalisation de la coûtume, qui plaçait la sagesse de cette dernière au-dessus de celle de l’individu». In effetti, se il diritto positivo coincide con il diritto consuetudinario, nei termini in cui la sua applicazione non discende dall’interazione tra un diritto locale e un diritto universale, ma rappresenta la dichiarazione del carattere giuridico di un comportamento sociale da sempre in opera, se dunque lo spirito del common law e dell’Antica Costituzione coincide con questo carattere immemoriale, allora si comprenderà come non solo il carattere dell’immutabilità del diritto fondi un tipo di legittimazione basato esclusivamente sulla tradizione, ma soprattutto come questa costituzione coincida con l’ordine naturale delle cose e si dimostri perciò in grado di incarnare una superiore saggezza.

27 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., pp. 49-80 ; v. anche H.A. Lloyd, Constitutionalism, in J.H. Burns (a cura di), The Cambridge History Political Thought 1450-1700, Cambridge University Press, Cambridge, 1991, pp. 264-273.

28 Che la consuetudine sia la fattispecie rappresentativa del periodo feudale del Common law è certo; altra questione è se tutto il diritto rientri all’interno del paradigma dell’Antica Costituzione. La contestazione di questo postulato passa necessariamente per un’interpretazione che tende ad isolare il periodo feudale seguito alla conquista normanna dal periodo precedente. Tale problema risulta strettamente connesso con l’oggetto di questo primo paragrafo nella misura in cui pretende di negare il concetto di Antica Costituzione. Poiché tuttavia questo approccio non fa che declinare il problema del fondamento del diritto su quello dei rapporti interistituzionali sarà affrontato nel secondo capitolo. E tuttavia non si può fare a meno di sottolineare come non solo tale interpretazione venga demistificata efficacemente da Pocock in relazione al concetto di Antica Costituzione, ma come più in generale venga rigettata anche da M. Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino, 1999, pp. 480 ss., il quale sottolinea la linea di continuità che caratterizza lo sviluppo feudale inglese. V. anche infine K. Sharpe, Politics and Ideas in Early Stuart England. Essays and Studies, Pinter Publishers, London-New York, 1989, pp. 174-181.

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nell’obbedienza al buon diritto antico un motivo di legittimazione trascendente ed irrazionale, ed allo stesso tempo di carattere immanente, ma non necessariamente di natura divina29. In questo sistema l’esistenza della norma coincideva non solo con la sua validità ed efficacia ma anche con il criterio della sua giustizia e del suo valore costituzionale. In effetti da un lato il criterio della giustizia si inseriva all’interno del principio dell’immutabilità: la legge è giusta in quanto è sempre stata così e per questo va rispettata. Ma non solo. La legge positiva è immemoriale e quindi giusta perché espressione della legge naturale30. Dunque, il principio dell’immemorialità si arricchisce del criterio della giustizia nella misura in cui quest’ultimo non solo costituisce un requisito indispensabile per la giuridicità premoderna, ma in quanto forma la base dell’immemorialità stessa31.

29 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., p. 64: «le droit était immémorial et aucun

législateur n’avait jamais existé. Sur ce point au moins la pensée du common law se démarquait des modèles classiques à la mode. C’est vers elle-même que ses regards étaient tournés, vers le passé de sa propre nation qu’elle voyait comme créant elle-même ses lois, à l’abri des influences étrangères, selon un processus qui n’admettait pas d’origine ». E’ chiaro come non si possa ammettere in linea di principio il problema del mutamento e quindi della creazione giuridica in un contesto nel quale viene presupposta l’inesistenza di alcun legislatore. D’altra parte, il carattere trascendente deriva direttamente dal carattere irrazionale del riconoscimento della superiorità di un diritto valido ed efficace perché sempre uguale a sé stesso. Peraltro, è bene sottolineare come tale irrazionalismo non si ponga direttamente in funzione di un diritto divino, non solo perché quest’ultimo non risulta incompatibile con i canoni del razionalismo, ma perché un tale diritto risulta già di per sé avvolto da un’aurea mitologica, nella misura in cui l’immutabilità deriva dalla sua immemorialità, ossia dal mistero della sua origine storica. Inoltre tale carattere trascendente risulta rafforzato dal piano di immanenza sul quale tale diritto si dispiega; o meglio trascendenza ed immanenza sembrano interdipendenti e in un rapporto simbiotico. Infatti, la validità e l’efficacia della norma, che è sempre anche validità ed efficacia del mito e della costituzione, si fanno valere sempre a partire dall’applicazione al caso concreto. Sul concetto di buon diritto antico e il suo rapporto con la storia della sovranità moderna v. O. Brunner, Terra e potere, Giuffré, Varese, 1983, pp. 187-196.

30 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 195-196. Nel modello del buon diritto antico il diritto coincide con la giustizia non secondo i canoni moderni di una razionalità materiale, per i quali il diritto viene ridotto ai propri fini, ma nei termini in cui il pensiero giuridico è «essenzialmente espressione di quel sentimento popolare che non sa e non vuole separare il diritto ideale da quello positivo, cioè la convinzione della collettività di ciò che è giusto ed equo (…) Solamente che, appunto, agli uomini di quel tempo la loro convinzione del diritto e del giusto appare come immutabile, eterna, come «êwa» ed ogni diritto ‘positivo’ viene sentito come parte di questo ordinamento duraturo, per modo che non si può assolutamente pensare una opposizione tra diritto e giustizia».

31 Il diritto naturale, come già accennato supra (Parte I, cap. I, par. 1.2, nota 23, pp. 42), si può inquadrare all’interno di tre idealtipi. Tuttavia, seguendo il percorso della modernizzazione si può rilevare come il diritto naturale come razionalità individuale interagisca con gli altri due idealtipi in maniera dinamica rappresentando il vero motore dell’evoluzione giuridica. In questo senso, l’identità tra diritto e giustizia possiede nel contesto premoderno un carattere ambivalente. Da un lato, infatti, vi è la tendenza a considerare il diritto naturale un diritto ideale in grado di determinare in senso prescrittivo il diritto positivo della legge umana. Questa impostazione risale ad Agostino e nella sua evoluzione si dimostra in grado di armonizzarsi con un tipo di pensiero razionale e deterministico, nonché con il processo di progressiva separazione e distinzione del potere temporale dal potere spirituale. Dall’altro lato, invece, vi è un tipo di diritto naturale molto più legato all’empiria della realtà concreta, ma che non di meno è in grado allo stesso tempo di armonizzarsi con i principi della ragione nella misura in cui quest’ultima diviene un ragione che tiene conto dell’evoluzione del processo storico e della tradizione. Nel contesto premoderno, in ogni caso, questo tipo concreto di diritto naturale trae la sua origine dagli usi delle antiche comunità e si sviluppa progressivamente in una visione complessa dell’ordinamento giuridico che identifica nell’istituzione monarchica un potere che è, allo stesso tempo, ‘sopra’ e ‘sotto’ la legge, nel senso in cui il dovere del rispetto della legge positiva deriva, non solo dall’esigenza del rispetto dell’ideale trascendente della giustizia, ma ancor prima dal riconoscimento che

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In breve il criterio della giustizia si connette con quello dell’immemorialità nel momento in cui la concezione del diritto naturale in Inghilterra si determina a partire dal suo rapporto con la storia. Il fondamento di validità della costituzione coincide così con il criterio della sua giustizia, laddove quest’ultima si pone sempre come termine di mediazione tra diritto di natura e leggi umane, tra natura e uomo, ossia di quello che, al termine del XVII secolo, sarà considerato il rapporto tra ragione e società, o anche quello tra ragione e storia32. Non solo quindi la coincidenza tra validità ed efficacia, ma l’immanenza di un criterio di giustizia che accompagnava la norma permetteva di stabilire una corrispondenza tra diritto positivo e diritto naturale, tra norma particolare e norma costituzionale. Questo criterio, riducibile in termini giuridici ad un concetto di obbedienza fondato sulla giustizia della consuetudine immemoriale, determinava un principio di legittimazione puro basato sulla tradizione, ossia sul culto di un immaginario costruito intorno alla certezza e bontà di un diritto eterno, evitando in

il governo non è il governo del re ma il governo del diritto. La deroga alla legge positiva è ammessa, quindi, soltanto come adeguamento al diritto naturale (come anche il non rispetto dello stare decisis), e comunque non rappresenta un’alterazione dell’equilibrio dei rapporti di sovranità. Che poi anche il criterio della giustizia riproduca il carattere divino di tale diritto è un aspetto secondario, - o meglio interamente compatibile con i due principi fondativi di tale diritto, la razionalità della sua definizione e il concetto di consuetudo immutabile quale suo contenuto -, che si riferisce al fatto che l’origine del fenomeno giuridico è consustanziale all’origine e allo sviluppo di un sentimento religioso. E tuttavia, la differenza risiede proprio qui, ossia nel fatto che la coincidenza tra diritto positivo e diritto divino non equivale a riconoscere l’identità tra diritto feudale e Cristianesimo, pur dovendo constatare che non casualmente l’evoluzione di quest’ultimo è determinante per lo sviluppo della dottrina giuridica continentale. In questo senso va dunque inteso il riferimento al diritto premoderno inglese come «buon diritto antico» fondato sulla tradizione. Questa particolare concezione del diritto presuppone naturalmente una visione del diritto naturale prevalentemente incentrata sul diritto naturale come ordine naturale delle cose, e tuttavia si deve rilevare come questa visione si accordi con l’altra concezione di tipo razionalista nel momento in cui la razionalità stessa coincide con la razionalità della tradizione e della storia. Un altro storico del diritto, E.H. Kantorowicz, all’interno della sua analisi ricostruttiva dell’idea di regalità secondo i modelli della teologia politica, fa notare come «nell’Inghilterra del XIII secolo prevaleva una mentalità meno messianica che in Italia e nel resto del continente, mentre la dottrina del sovrano come lex animata disceso tra gli uomini dall’alto dei cieli per comando di Dio trovò in Inghilterra un terreno particolarmente sterile prima della regina Elisabetta, la novella Astrea. Accettare d’essere dominati da un’idea astratta non è mai stata una debolezza degli abitanti del suolo inglese, sebbene un’utile finzione intellettuale vi potesse essere accettata più prontamente che altrove. Anche nell’opera di Bracton, quindi, l’idea della giustizia è eclissata dalla concretezza del diritto». E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino, 1989, pp. 123,141; cfr. R.S. White, Natural Law in English Renaissance literature, cit., pp. 44-72; G. Fassò, Il diritto naturale, cit.; O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 187-199.

32 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, p. 122, laddove precisa che la peculiarità della ragione giuricentrica consisteva appunto nell’aver trasferito «il campo di tensione dalla polarità tra natura umana e grazia divina verso una nuova polarità definita fra diritto di natura e leggi umane, fra natura e uomo, e, un po’ più tardi, fra ragione e società, ove la grazia non aveva più alcun ruolo distinto». E’ bene precisare ancora che la giustizia va intesa dunque come nesso di congiunzione tra diritto positivo e realtà concreta e non come principio trascendentale della ragione. Al contrario le origini di quest’ultimo tipo di approccio giuridico possono essere rinvenute nel pensiero teologico della Chiesa. Infatti afferma Brunner «la Chiesa ha assunto le note distinzioni dell’antico pensiero giuridico, desumendole dalla Patristica, dalle Etimologie di Isidoro di Siviglia e infine dal Corpus juris. Muovendo dal suo punto di vista, situato al di sopra di ogni ordine mondano, esso dovette misurarsi con la realtà della molteplicità degli ordinamenti positivi. Così si pervenne alla distinzione tra diritto naturale e diritto positivo. Qui si trovano premesse molto importanti per il pensiero giuridico dell’epoca moderna». O. Brunner, Terra e Potere, cit. In generale per un’analisi critica del rapporto tra ragione e storia nell’epoca moderna v. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugarco Edizioni, Milano, 1991.

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questo modo di includere al proprio interno il problema del mutamento giuridico. Il common law diviene così un diritto essenzialmente storico, non solo perché prodotto dell’eredità storica di un passato mitologico, e non solo perché, conseguentemente, la sua definizione fornita dalla scienza giuridica fa sempre riferimento ad una rielaborazione del passato, ma soprattutto perché l’individuazione del suo concetto rimanda costantemente ad una determinata articolazione tra norma e tradizione, tra ragione e storia tutta a vantaggio della tradizione e della storia, nella misura in cui la norma non può essere concepita come imposizione e la ragione non può identificarsi con il razionalismo33. Il problema della creazione giuridica non solo si risolveva nel principio di legittimazione, nel momento in cui quest’ultimo si definiva intorno al criterio dell’immutabilità, ma in realtà neanche si poneva, poiché per il pensiero giuridico e il sentimento della collettività il diritto nel corso della storia è sempre restato immutato. 1.3. Il particolare rapporto tra ragione e storia alla base dell’evoluzione del common law. A questo punto, sulla base anche di queste ultime considerazioni, non è casuale constatare come nel corso del XVII secolo i giuristi abbiano fornito le proprie definizioni di common law a partire appunto da una particolare ricostruzione storica del suo concetto, ovvero a partire dal riconoscimento dell’aporia alla base della definizione di consuetudine immemoriale. In effetti, porre la questione del riconoscimento storico della conquista normanna equivaleva a voler individuare un soggetto nel tempo dal quale si è originato il diritto e la sovranità, ovvero significava voler individuare l’origine della costituzione e del diritto. Parallelamente però, ciò equivaleva a mettere in discussione il fondamento di legittimazione dell’Antica Costituzione, il culto dell’immemorialità stessa. In questo senso, il problema della legittimazione della costituzione si concretizzava nel corso del Seicento nel problema del mutamento dei rapporti interistituzionali. Peraltro, la questione, posta esclusivamente in questi termini, assumeva i contorni della disputa intorno all’attribuzione di una sovranità originaria, esulando così dal terreno strettamente giuridico e gettando le basi per l’introduzione di un ordine del discorso polarizzato sull’antitesi dialettica tra potere assoluto e diritto di resistenza ben conosciuto nel continente34. Nonostante ciò le diverse modalità di

33 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 190-196. In breve, un pensiero giuridico di questo tipo è un pensiero per il quale il fatto che «l’ordinamento positivo di volta in volta vigente è tutt’uno col diritto divino ed ogni violazione rappresenta una trasgressione nei confronti di Dio e del diritto» si accompagna all’affermazione che l’essenza del diritto è il suo radicamento nella coscienza giuridica e collettiva, ossia che il diritto è essenzialmente un diritto consuetudinario perché è prima di tutto convinzione e non imposizione eteronoma.

34 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., pp. 44-48, dove precisa, nel capitolo introduttivo a The Ancient Constitution, l’estraneità del diritto inglese ad un ordine del discorso giuridico che nel continente conduce direttamente alla secca opposizione tra la sovranità del monarca e quella del popolo o dei ceti. «Là où la coûtume coexistait avec le droit romain, les penseurs ne pouvaient se contenter d’alléguer que les lois du pays étaient immémoriales; et la doctrine selon la quelle la coûtume était immémoriale ne pouvait échapper aux critiques, à la lumière de l’idée rivale selon la quelle le droit tirait son origine de l’injonction. On discerne chez les historiens, qu’il soient partisans ou impartiaux, une tendance à rechercher l’acte de volonté à l’origine de l’établissement de la coûtume, ce qui contribuerait en premier lieu à rectifier les tendances obscurantistes présentes à l’état latent dans l’idée

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articolazione delle ipotesi, tutte basate sulla ricostruzione del passato, indicano la radicale differenza del modello inglese, seppure lo sforzo di individuare un punto di origine nella storia del diritto e della sovranità testimonia l’irruzione sulla scena di un determinato tipo di razionalismo35. E’ proprio questo tipo di volontà peraltro ad indicare una risposta in senso astratto al problema della creazione giuridica. Secondo questo modello l’origine del diritto poteva indifferentemente essere ascritto alla conquista normanna o alla prassi parlamentare medievale; l’essenziale rimaneva la volontà astratta di ipostatizzare un fatto storico in funzione di un principio astratto (in questo caso di carattere politico)36. La tendenza del razionalismo formale a piegare in funzione dei propri principi il processo storico è nota, ma non solo questo non è il caso dell’Inghilterra, ma soprattutto si deve precisare come questa tendenza non precluda necessariamente la possibilità di una comprensione razionale della storia. Ciò, peraltro, equivale a considerare la possibilità di una comprensione razionale del problema della creazione giuridica al di fuori dei dogmi del formalismo. Il percorso inglese testimonia appunto questa possibilità. Ad emergere dal XVII secolo non è un tipo di razionalismo astratto, ma un tipo di razionalità che dopo aver attraversato burrascosamente tutto il secolo ha in qualche modo trovato alla fine una riconciliazione con il diritto naturale e la storia. Questa visione prettamente burkeana è anticipata da Sir Matthew Hale il quale a partire dal riconoscimento dell’aporia alla base della definizione immemoriale del common law riesce ad elaborare una particolare concezione storica del diritto. Secondo Hale, o si accetta l’assunto dell’immutabilità delle forme giuridiche (e dunque il punto di vista medievale che fa riferimento a Coke), negando che qualsiasi cambiamento sia mai avvenuto nel corso del periodo feudale, o si assume l’altro punto di vista, per il quale è vero il contrario, ossia che il diritto è in costante mutamento, ma il compito del giurista non è mai quello di rintracciarne la sua origine in un’autorità37. Per Hale non solo è

de coûtume ; mais en second lieu, cela tendrait à dissoudre complètement le concept et à le remplacer par quelque doctrine de la souveraineté, populaire ou royale». Sul rapporto tra l’umanesimo rinascimentale, il pensiero religioso e la genesi della sovranità moderna v. Q. Skinner, L’età della Riforma, Il Mulino, Bologna, 1989.

35 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., pp. 370-371. Pocock tiene conto del ruolo giocato dalla coscienza giuridica europea e dal dibattito continentale intorno al concetto di sovranità, ma precisa che una storia cosmopolita è innanzitutto una storia che tiene conto delle peculiarità locali. «L’importance des interactions entre l’île et le continent a probablement été sous-estimée, et il est certain que nous avons encore beaucoup à apprendre sur la question. L’étude de ces relations constitue d’ailleurs un aspect important du présent ouvrage. Mais en certaines occasions l’insularité a été affirmée (par Selden le cosmopolite tout autant que par Coke le provincial), et il est possible que le fonctionnement d’une institution aussi particulière que le common law (entre autres) n’y ait pas été étranger. Nous n’écartons pas cette possibilité en présentant le discours des rois Stuarts et de leurs Parlements comme un simple épisode du débat européen sur la souveraineté et le droit naturel. Une histoire cosmopolite doit tenir compte des nuance locales, et sa cohérence ne saurait être considérée comme allant de soi».

36 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., pp. 204-205. Non a caso è questa la critica mossa da Hobbes all’idea di consuetudine immemoriale. «La position de Hobbes par rapport à la coûtume est pratiquement identique à celle de Filmer, qui consiste à assigner une limite historique au droit: le droit est peut-être coûtume, mais la coûtume à elle seule n’a pas force de loi; pour ce faire, il faut qu’il existe au préalable une autorité capable de légiférer par ses injonctions. Par conséquent, aucun droit ne saurait être immémorial (…) Il (le droit) était érigé en droit par la volonté du souverain…»

37 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., pp. 219, 222. «Le mérite de Hale est d’être revenu à l’idée fondamentale selon la quelle le droit est coûtume, et de l’avoir développée dans une direction opposée à celle suivie par Coke, niant entièrement que le droit soit demeuré inchangé depuis les temps

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necessario assumere quest’ultimo punto di vista, ma diviene indispensabile inserire questo riconoscimento, di tipo razionale, del mutamento giuridico senza disconoscere però il carattere storico del mutamento stesso. La questione della produzione normativa diviene così il problema della comprensione razionale della sua genesi, non però nei termini dell’individuazione della sua fonte autoritativa, ma secondo una logica processuale in grado cogliere le necessità di un determinato sviluppo storico. L’essenza del diritto e la possibilità di una sua definizione corrispondono così alla capacità di carpire razionalmente la sua genesi storica, sebbene questo tipo di approccio precluda la possibilità di sondare fino in fondo i punti di discontinuità del processo storico. Infatti, se da un lato si deve ricondurre la produzione normativa, in quanto determinazione del contenuto della legge, alle esigenze del momento, nella misura in cui questa produzione è il risultato di un processo complesso piegato alle esigenze del mutamento storico i cui attori principali sono la consuetudine, la decisione giudiziaria e l’atto del Parlamento, dall’altro lato il ruolo e l’origine di tali istituzioni, ossia l’origine dell’Antica Costituzione restano avvolte nel mistero e nel mito nella misura in cui il processo storico risulta insondabile secondo una logica razionale-formale. In questo modo il diritto può palesare il razionalismo alla base del suo funzionamento, e contemporaneamente continuare a fondare la propria legittimazione sul concetto mitologico di Antica Costituzione38.

immémoriaux, et affirmant au contraire qu’il évoluait continuellement en réponse aux circonstances, jusqu’à le réduire entièrement à une réaction face à l’historie (…) Le droit s’élabore à mesure que la société s’adapte à de nouvelles situations, et dans un système de droit non écrit, il ne subsiste guère de traces écrites des moments auxquels ces changements se produisent».

38 «Hale utilise ainsi trois images différentes, suggérant la continuité dans le changement, pour exprimer le caractère historique du droit. Cette continuité repose en dernier ressort sur celle de la société elle-même, qui fait et défait constamment le droit, mais Hale distingue trois organes par l’intermédiaire desquels elle agit : la coûtume, la décision de justice et l’Acte du Parlement (…) Nous avons vu que Hale inclinait à penser que le Parlement et les tribunaux devaient être plus anciens que les premiers documents qui en font mention. Mais en ce qui concerne le contenu du droit le point de vue de Hale semble entièrement historique. Chaque loi est le produit des exigences du moment. Avec le temps, de nouvelles exigences surgissent et l’ancien droit survit, se modifie ou tombe en désuétude, selon qu’il donne ou non satisfaction dans sa manière d’y répondre. S’il survit, on le considérera comme immémorial, mais seulement en un sens conventionnel. Ce processus peut s’effectuer insensiblement, car l’élaboration du droit est une activité en partie inconsciente, notamment dans la mesure où elle fait intervenir la coûtume, mais la formation imperceptible de la coûtume est indissociable des activités conscientes qui consistent à l’interpréter dans les tribunaux et à le modifier par les Actes du Parlement. Chaque loi est le produit de nombreux moments du passé, et est à tout instant mise à l’épreuve par une sagesse qui se fonde elle-même sur le passé. Chaque loi se modifie, mais la société et sa sagesse se perpétuent (…) C’est sur l’évolution et la continuité, et non sur l’ancienneté, qu’il met l’accent. Mais il n’est pas certain qu’il soit parvenu à éviter une autre erreur. Il est certes à même de brosser le tableau d’un processus historique ; mais est-il capable d’étudier un processus particulier, d’en dater les étapes ou d’expliquer les transitions d’une phase à une autre? Certaines phrases des passages cités plus haut semblent suggérer qu’on ne peut connaître l’histoire du droit. S’il est réellement impossible d’attribuer une origine à tel ou tel aspect particulier du droit, il semble qu’il n’existe aucun moyen d’analyser l’historie du droit en général: on retrouve là le problème antérieur du caractère insondable du flux ». Non è casuale, dunque, che Hale non attribuisca alla conquista normanna un ruolo decisivo nel processo progressivo di derivazione del diritto dalla ragione: «le plus crucial de ces problèmes pour un homme de la génération de Hale était la Conquête normanne. Fallait-il voir dans cet événement l’imposition violente de la volonté d’un homme, ou la poursuite de l’ancien processus faisant intervenir la coûtume, le jugement et le consentement? Hale consacra de nombreuses pages à défendre cette dernière interprétation… » J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., pp. 224-226.

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L’adozione di questo approccio si rivela particolarmente utile per la comprensione dei mutamenti subiti dal concetto di diritto nel corso del XVII secolo. In primo luogo è possibile aprire un varco per la risoluzione del problema della creazione giuridica nella misura in cui questo viene isolato dai mutamenti dei rapporti interistituzionali, e allo stesso tempo non viene identificato con il problema della legittimazione, ossia con il postulato dell’immemorialità della costituzione. In secondo luogo, il fondamento di legittimazione risulta soggetto a un profondo mutamento dovuto all’irrompere della ragione nella storia. Il dibattito intorno alla sovranità e al concetto di common law segnala appunto che la vera sollecitazione viene subita nel corso del XVII secolo dal principio di legittimazione, contemporaneamente ideale rivoluzionario e di conservazione dell’ordine giuridico39. Questa ambivalenza sta proprio ad indicare la fase di mutamento attraversata; ovvero, il mutamento di un principio basato sulla tradizione che si trova ad armonizzarsi con i principi della ragione. L’identificazione tra diritto e storia compiuta da Hale testimonia appunto l’inizio di questo processo di armonizzazione grazie al quale alla fine del periodo rivoluzionario il diritto di common law è ancora diritto storico fondato sull’Antica Costituzione. La tradizione non si contrappone alla ragione e viceversa. La ragione non solo non piega la storia ai propri fini astratti, ma al contrario si dimostra capace di riarticolare il principio di obbedienza intorno ad un concetto di tradizione di grado più elevato. La ragione infatti, dapprima fonte di legittimazione dei mutamenti istituzionali, riesce poi a delineare un nuovo ordine ancorato intorno all’idea di tradizione. In sostanza però questo concetto di tradizione risulta radicalmente mutato. Esso ha mutato il proprio carattere trascendente in trascendentale nella misura in cui la definizione di tradizione viene ricavato dall’indagine razionale del processo storico e del diritto. In questo modo peraltro, non solo resta intatto il carattere immanente del principio di legittimazione, ma quest’ultimo ne esce perfino rafforzato in quanto l’immaginario dell’Antica Costituzione si riesce ad accompagnare al nuovo principio trascendentale40. E’ indubbio che da questo momento in poi sono possibili interpretazioni in senso positivista dei processi di razionalizzazione del diritto nella misura in cui il principio trascendentale viene staccato dal suo fondamento costitutivo, dalla tradizione, ossia nella misura in cui tale razionalismo può assumere un carattere astorico. E tuttavia, il concetto e la definizione del common law risultano immuni da una definizione in senso positivista proprio per l’impossibilità di questa separazione: ogni norma, ogni statute forma la base del diritto particolare ed allo stesso tempo della sfera costituzionale. Non

39 Cfr., infra, Parte I, cap. II, par. 2.4, pp. 83-88. 40 «Les historiens italiens qui ont étudié la pensée politique et historique du mezzogiorno parlent d’un

processus, qu’ils situent autour de l’année 1700, au cours duquel la démarche consistant à tenter de résoudre les problèmes en matière de théorie politique en se référant au droit en vigueur et au droit ancien (la «tradizione giuridica») fut largement supplantée par une pensée politique qu’ils qualifient de cartésienne, et qui provoqua en retour des modifications de l’approche contemporaine de l’histoire. Dans la mesure où pendant la période d’après 1688, l’accent tendit à se déplacer de l’ancienne coûtume et du précédent vers la raison anhistorique, on se trouve peut-être en présence d’une évolution similaire dans l’histoire de la pensée politique anglaise. Et l’on peut suggérer que le concept d’ancienne constitution subit lui-même une transformation considérable, dès lors qu’on le fonda sur la raison plutôt que sur la coûtume. Mais la référence au passé saxon et médiéval ne perdit pas complètement sa signification d’origine lorsqu’elle fut reprise au XVIII siècle. Comme allait le fait remarquer Burke, il n’était pas anodin que les Anglais de la grande époque whig choisissent, la plupart du temps, de décrire leur liberté comme un héritage reçu de leurs ancêtres, plutôt que comme un principe ayant sa source dans la raison abstraite». J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., p. 301.

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vi è dunque soltanto il carattere aformalista di questo diritto, ma vi è in definitiva l’indeterminatezza di un concetto di costituzione in senso moderno a testimoniare l’incompatibilità tra common law e positivismo. Al contrario, la razionalità del nuovo diritto si ricava dal fatto che quest’ultimo diviene l’espressione della tradizione storica. Il razionalismo del nuovo diritto non può essere così disgiunto dal suo legame col concetto di Antica Costituzione. Nel contesto postrivoluzionario l’individuazione del concetto di quest’ultima equivale a stabilire il limite della ragione trascendentale; ovverosia esso individua la frontiera che incontra una definizione di costituzione che non si limiti a riconoscere il carattere meramente processuale, dinamico, aperto e storico di questo sistema costituzionale. In questo senso, il problema della creazione della norma si risolve in definitiva nel riconoscimento del mutamento del diritto secondo le esigenze del processo storico; processo che la ragione può e deve inseguire, ma del quale non può comprendere né la totalità, né la sua scaturigine41. Parallelamente, il processo che attraversa il principio di legittimazione è ad un tempo più travagliato in relazione alle vicende politiche, ma parimenti vincente sul piano della sua efficacia di consolidamento. L’Antica Costituzione nonostante abbia rappresentato il leit motiv, l’immaginario del processo rivoluzionario si è dimostrata in grado di funzionare come principio di rilegittimazione dell’ordinamento42. Di una rilegittimazione tanto più efficace tanto più l’Antica Costituzione è riuscita a metabolizzare al suo interno i principi del razionalismo43. Ossia tanto più è riuscita ad armonizzare ragione e storia, tanto più ha integrato al suo interno il mutamento da un’obbedienza fondata essenzialmente sulla tradizione ad un’obbedienza fondata sulla ragione (in particolare sulla superiorità della razionalità incarnata dalla tradizione) senza perdere il suo carattere immanente e costitutivo. Concludendo, se in questa prima battuta si è tentato di ricostruire da un punto di vista concettuale la linea di continuità che ha permesso la riarticolazione del fondamento di legittimazione del diritto, dell’Antica Costituzione, secondo i canoni dell’armonizzazione tra ragione e tradizione, tuttavia si deve rilevare una prima, fondamentale e radicale discontinuità segnata dal processo rivoluzionario. La

41 L’irruzione della ragione nel XVII secolo determina il processo di riarticolazione del principio di

legittimazione intorno ad un nuovo rapporto tra diritto e storia. In questo senso si può rintracciare un percorso, una linea di continuità che da Hale conduce a Burke. «Les principales idées de Burke ne sont que le produit de l’histoire ; que l’histoire consiste en un processus incessant et éternel, au cours duquel les générations agissent de concert et les hommes s’adaptent continuellement à de nouveaux besoins et à de nouvelles situations; que les institutions sont les fruits de ce processus et que, soit parce qu’elles représentent le dernier stade de l’évolution, soit parce qu’elles ont été conservées au terme de nombreuses adaptations, elles incarnent la sagesse d’un si grand nombre d’hommes – sagesse parvenue à un extrême degré de raffinement – que nul esprit individuel ne peut espérer l’égaler ou le surpasser ; et que la sagesse consiste à participer à ce processus (que l’on peut assimiler à l’ordre et à la nature) et non à tenter une reconstitution a priori des institutions». J.G.A. Pocock, L’Ancienne Costitution, cit., pp. 302-303. V. E. Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Ideazione, 1998; J.G.A. Pocock, Introduzione a, Reflections on the revolution in France, Hackett, Cambridge, 1987, in particolare le pp. xiv-xvi, xliii-xlviii. cfr. con la critica a Burke di A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 287 ss. ; E. Graziani, Ordine e libertà. L’autorità del tempo in Edmund Burke, Aracne, Roma, 2006.

42 Cfr. M. Loughlin, Constituent Power Subverted: From English Constitutional Argument to British Constitutional Practice, in The Paradox, cit., pp. 27 ss.

43 La lotta tra Re e Parlamento si sviluppa a partire dalla difesa del diritto consuetudinario e dell’Antica Costituzione da parte del Parlamento. Sulla natura di questo dualismo e sul significato di tale ‘rivendicazione’ si rimanda alla Parte I, cap. II, par. 2.4.1, 87-88; Parte I, cap. III, par. 3.3.2, 3.3.3, pp. 119-124.

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discontinuità è data dal limite di tale carattere lineare e coincide con la novità introdotta da tale mutamento: l’irruzione del concetto di creazione giuridica. La radicalità di questo nuovo concetto non è dato dalla possibilità di interpretazioni in senso positivistico del common law, poiché, si è visto, tale diritto sfugge ad una tale definizione, ma dal fatto che fino a questo momento il concetto di nomopoiesi non era presente perché il diritto era immutabile. L’individuazione di un concetto di creazione giuridica, la sua non perimetrabilità all’interno di un approccio formalista e positivista, e il suo legame con la storia e la tradizione rappresentano dunque la prima vera peculiarità dell’esperienza costituzionale inglese. La particolarità di questa indagine intorno al concetto di potere costituente si rivela quindi fin da subito attraverso la radicalità assunta dal suo prerequisito logico rappresentato dal concetto di creazione giuridica. Per il momento questa analisi ricostruttiva della genesi di tale prerequisito dimostra e delinea la particolare capacità della parabola della modernizzazione inglese di metabolizzare la discontinuità costituente rappresentata dal mutamento del paradigma costituzionale nel corso del Seicento. Tuttavia, il prezzo della ricomposizione di questo rapporto armonico tra ragione e storia, tra l’affermazione della creatività umana e la ridefinizione di un criterio razionale di legittimazione non formalista risulterà quantificabile soltanto nel momento in cui, entrando nel merito della riarticolazione della forma politica e della conformazione dei tre presupposti del potere costituente, si constaterà in che senso tale ricomposizione presupponga in realtà il dispiegamento di un nuovo concetto di temporalità storica e costituente tale da rovesciare l’antico rapporto tra i due termini44.

44 Cfr. infra Parte II, cap. I. par. 1.2, pp. 143-148.

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Capitolo secondo La forma dell’Antica Costituzione

2.1. Introduzione. 2.2. Il dualismo tra centro e periferia alla base del modello statuale continentale. 2.3. La sovranità del corpus mysticum republicanum. 2.3.1. Centralizzazione giuricentrica. 2.3.2. La peculiarità del dualismo inglese. 2.3.3. Il corpo mistico della Repubblica. 2.4. Il costituzionalismo repubblicano come oggetto di ricerca. 2.4.1. L’enjeu dell’Antica Costituzione. 2.1. Introduzione. Una prima analisi del sistema di common law ci consegna un elemento di fondamentale importanza per la comprensione dei processi che nel corso del Seicento determinano progressivamente l’avvento della modernità giuridica in Inghilterra. Questo elemento è dato dalla particolare connessione che si viene a stabilire tra l’antico concetto di diritto e il nuovo approccio di tipo razionalista allo studio dei fenomeni giuridici e politici. L’armonizzazione tra diritto, storia e ragione indica già di per sé il successo del percorso della modernizzazione inglese nella misura in cui tale armonizzazione si dimostra in grado di assorbire il nuovo concetto di creazione giuridica all’interno dell’antico paradigma costituzionale. In effetti, come si è visto, l’essenza del buon diritto antico, la connessione tra diritto e giustizia - ossia la convinzione che il momento dichiarativo del diritto positivo non rappresenti che il momento formale, necessario ma non sufficiente per la definizione del diritto, nel quale si riconosce l’identità sostanziale, già presente nella realtà giuridica, tra diritto e ordine naturale delle cose - risulta preservata nonostante il processo rivoluzionario e l’irruzione del nuovo concetto di creazione giuridica, ovverosia, nella misura in cui la ragione è stata in grado di adeguarsi al paradigma del diritto antico. Il risultato di questa prima analisi è dunque sintetizzabile nell’affermazione che la particolarità di questo processo di armonizzazione permette di conservare intatto il fondamento di ogni sistema giuridico premoderno: la sovranità del diritto come sovranità di un ordinamento superiore, al quale ogni soggetto, sia esso il monarca o una corporazione o la comunità intera, risulta subordinato in linea di principio1.

1 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pp. 39-141. Come detto nel primo capitolo tale superiorità si ricava dal fondamento immemorialistico del diritto e si concretizza in un sistema di fonti organizzate intorno all’idea di consuetudine, nonché, infine, in un tipo di obbedienza alla legge basata su un determinata concezione della tradizione. Da un punto di vista ordinamentale l’affermazione della superiorità e della sovranità del diritto presuppone invece un’armonizzazione del sistema interordinamentale in funzione della garanzia del rispetto del diritto consuetudinario. Sinteticamente,

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Peraltro, il fatto che questo postulato della superiorità del diritto riesca a preservarsi nonostante gli eventi rivoluzionari (sostanzialmente per mezzo della funzionalizzazione del diritto naturale alle dottrine del contrattualismo e, dall’altra parte, grazie all’egemonia di un’interpretazione storicistica della costituzione), e si possa dedurre logicamente da quanto già detto sulla natura del common law, non dimostra tuttavia che non vi sia stato anche un mutamento profondo della natura dell’ordinamento giuridico in seguito alla rottura degli equilibri interistituzionali. L’Antica Costituzione, in quanto principio di legittimazione di questo concetto di diritto, deve essere a questo punto analizzata a partire dal suo rapporto con l’architettura istituzionale per verificare se effettivamente abbia resistito, quale asse portante della struttura, agli sconvolgimenti istituzionali del XVII secolo. Come già accennato, il dibattito tra i giuristi inglesi del XVII secolo circa la definizione del common law pone nei termini del razionalismo formale e del diritto la questione della disputa intorno all’attribuzione della sovranità politica. In questo modo se, da un lato, la possibilità di una torsione formalistica del common law risulta comunque scongiurata, dall’altro lato il problema dell’attribuzione della sovranità – come questione intorno alla quale si gioca il riequilibrio dei poteri - viene concretizzandosi progressivamente fino a rappresentare il terreno su cui si scontrano le diverse milizie della guerra civile2. In ogni caso, la contesa si sviluppa a partire dalla determinazione del carattere più o meno costituzionale delle due principali istituzioni politiche in campo: la Monarchia e la Camera dei Comuni. Il carattere costituzionale si ricava infatti dal riconoscimento dell’immemorialità delle rispettive istituzioni; in pratica l’attribuzione alla conquista normanna dell’introduzione del regime feudale, o al contrario, il riconoscimento del carattere immemoriale del Parlamento, equivaleva ad attribuire la sovranità, rispettivamente, al Re o alla Camera dei Comuni3. Infatti, molto

l’esigenza di garantire l’intima coerenza ed unitarietà dei rapporti interistituzionali, e il rispetto del diritto immemoriale e della giustizia, si traducono sul piano istituzionale in una definizione complessa dell’istituzione monarchica e dell’ordinamento giuridico. Quest’ultimo, da un lato, si ricompone intorno ad un’idea di unità, in grazia del fondamento trascendente nel concetto di universitas ordinata per volontà divina - e della cui unità, il diritto consuetudinario rappresenta la concretizzazione. Le teorie organologiche della corporazione, come si vedrà (infra par. 2.3.3), svilupperanno nella pratica questo concetto di unità articolata nella molteplicità. - Dall’altro lato, il re, in quanto uomo e istituzione rientrante all’interno dell’universitas, ma anche in quanto rappresentazione materiale del concetto di unità e della volontà divina, si definisce a partire da un fondamento particolare di tipo cristologico. In primo luogo qui vi è l’applicazione del concetto delle due nature del Cristo - allo stesso tempo, Dio e uomo per scelta volontaria - alla Monarchia. Questa adozione ha un significato ben preciso. Il Re è una persona, ma allo stesso tempo ha due nature: da un lato egli è il vicarius Dei, incarnazione della volontà divina alla quale tutti i soggetti sono necessariamente subordinati; dall’altra, egli, in quanto vicarius Christi, rappresenta il Dio che volontariamente si fa uomo al fine del perseguimento del bene comune, e quindi in quanto tale risulta subordinato all’ordine delle cose ed alla stessa volontà divina, ossia, egli è subordinato al rispetto del diritto. Soltanto muovendo da questo fondamento cristologico si può intendere la conciliazione dell’antitesi risultante dal riconoscimento di un principe contemporaneamente legibus solutus e legibus alligatus, e l’affermazione di Bracton di un Re, allo stesso tempo, sub e supra legem. Sulla connessione tra questa articolazione del potere monarchico e la tradizione del diritto naturale v. R.S. White, Natural Law in English Renaissance literature, cit., pp. 59-107.

2 Cfr. J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano, II, La Repubblica nel pensiero politico anglosassone, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 625-686.

3 «C’était à présent le Parlement, plutôt que le droit dans sans ensemble, que l’on présentait comme immémorial; or revendiquer une existence immémoriale revenait pratiquement à revendiquer la souveraineté. Parce que le Parlement n’était pas supposé avoir son origine dans la volonté d’un homme, il pouvait prétendre agir comme bonne lui semblait pour défendre le droit (…) Tout le

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semplicemente, imputare l’introduzione dei rapporti feudali alla conquista normanna equivaleva a riconoscere la genesi autoritativa del diritto inglese nel potere del monarca e dunque anche della creazione della Camera dei Comuni4; mentre riconoscere il carattere immemoriale del parlamento equivaleva a voler preservare l’antico ordine costituzionale e l’antica indisponibilità del diritto fondamentale, nella misura in cui la sovranità, o meglio l’esercizio del potere politico, in quanto attività complessa alla quale gli attori istituzionali partecipano congiuntamente o separatamente, ma comunque senza rivendicarne la titolarità esclusiva, veniva preservata dagli attacchi della volontà assolutistica monarchica.

E’ indubbio che anche in questo tipo di analisi, che pretende di analizzare il mutamento dell’Antica Costituzione dal punto di vista dell’evoluzione istituzionale, diviene centrale la questione dell’individuazione del ruolo giocato dall’avvento del razionalismo nella vita sociale. E, tuttavia, non è sufficiente applicare in maniera deterministica il ragionamento elaborato riguardo l’evoluzione della natura del common law. In questo modo la comprensione del ruolo del Parlamento e della Monarchia ricadrebbe pur sempre all’interno dell’antitesi netta tra diritto autoritativo e consuetudinario. Infatti non si deve considerare il razionalismo come un’ideologia avanzata da un determinato soggetto nel contesto della lotta politica, altrimenti si rischierebbe di ricadere all’interno di una delle due linee interpretative, l’una che riduce il processo di modernizzazione ad un processo lineare privo di momenti di rottura, l’altra che riconduce invece la frattura modernizzante alla capacità costituente e

concept d’ancienne coûtume se réduisait ainsi à la seule affirmation du caractère immémorial du Parlement. Si le Parlement était immémorial, le Parlement était souverain ; si le Parlement n’était pas immémorial, alors celui qui l’avait créé était souverain». J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution cit., pp. 293-294.

4 Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution cit., pp. 121-159. In questo senso, non è casuale che l’ipotesi della nascita del Parlamento mediante l’atto autoritativo del Monarca si associ ad una visione del diritto in termini formali, nonché ad una considerazione del potere politico come suprema unità sovrana, ed infine, venga ammessa all’interno delle ricostruzioni della scienza giuridica secentesca che riconoscono l’influenza del diritto romano sulla definizione medievale del common law. Sul tema del rapporto tra la recezione del diritto romano e le forme del costituzionalismo inglese v. il classico C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, cit., pp. 51-75, laddove la ricostruzione dell’influenza del diritto romano segue una linea molto originale, ma non meno efficace nella definizione romanistica del common law. Secondo questo autore la recezione del diritto romano, e la conseguente elaborazione delle peculiarità del common law, si sviluppano in Inghilterra già prima della conquista normanna. In particolare, afferma McIlwain, il razionalismo pratico, il carattere consuetudinario, e soprattutto i principi cardine del repubblicanesimo di derivazione poliziana, rappresentano i caratteri essenziali sui quali si è edificata la definizione di common law. In questa prima fase, in pratica, il common law è lo ius comune dell’Inghilterra. Ciò, comunque, non esclude una ulteriore recezione avvenuta in seguito alla conquista normanna. E tuttavia, questa seconda ondata può essere interpretata soltanto sulla base della prima; ovverosia, la recezione medioevale dei principi romanistici non ha fatto che rafforzare l’idea di costituzionalismo limitato, negando la possibilità di una tendenza verso l’assolutismo. L’utilità di questa ricostruzione consiste, sostanzialmente, nell’aver riportato il problema della recezione del diritto romano alla questione originaria della natura del costituzionalismo inglese, ossia al suo carattere repubblicano, evitando peraltro di schiacciare il tema della recezione del diritto romano su quello tutto politico del dualismo premoderno tra monarchia e parlamento. In ogni caso l’impostazione di McIlwain porta con sé il limite di ridurre l’interpretazione dell’evoluzione del costituzionalismo inglese al passaggio dell’azione di governo dal concetto di iurisdictio a quello di gubernacolum, laddove con questo passaggio sembra voler riproporre lo scontro tra tradizione e razionalismo, tra consuetudine e atto di posizione, senza tener conto in definitiva, del diverso contesto, e del particolare approdo ordinamentale verso cui si dirige il processo di modernizzazione inglese.

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razionalizzante di un organo istituzionale premoderno5. Al contrario, il razionalismo deve essere inteso come un fenomeno che attraversa i vari ambiti della vita sociale e politica e che si dimostra in grado di rivoluzionare la base ontologica dei rapporti sociali ed interistituzionali. Comprendere i ruoli rispettivi di Parlamento e Monarchia implica in questo senso, analizzare la natura dell’ordinamento inglese al momento dell’acuirsi della crisi dualistica, ovvero fare riferimento da un lato alla natura del common law e dall’altro all’influenza del razionalismo sulla natura delle istituzioni6, tenendo presente, peraltro, che il tema del razionalismo può assumere una pluralità di significati. Da un punto di vista filosofico-politico e storico-sociologico l’irruzione del razionalismo nell’Inghilterra del XVII secolo si pone direttamente in connessione con le dottrine del diritto naturale. Il razionalismo si associa così immediatamente all’attivismo religioso; la lotta per la libertà d’espressione è in primo luogo, infatti, la lotta per la libertà di religione; in questa maniera, l’intero processo rivoluzionario risulta attraversato interamente da questa dimensione al contempo razionale e religiosa. In secondo luogo poi, la progressiva affermazione della ragione quale fondamento dell’azione politica si traduce nello sviluppo di una coscienza repubblicana e di una visione contrattualistica della società politica. L’interdipendenza di questi due livelli si rivelerà fondamentale per la comprensione dell’evoluzione istituzionale inglese e verrà analizzata in modo particolareggiato all’interno della seconda parte di questo lavoro. Per il momento, invece, è bene fare solamente due precisazioni. Innanzitutto si è specificato nel primo capitolo l’alterità del razionalismo del common law dal modello del formalismo. L’evoluzione del diritto inglese si contraddistingue per la sua capacità di porre la ragione a fondamento della comprensione dei fenomeni giuridici, senza per questo dover adottare il deduttivismo tipico del diritto continentale moderno, ma, al contrario, integrando la ragione stessa all’interno di un modello fondato su un tipo di

5 La comprensione del ruolo giocato dal Parlamento presenta un’ambiguità di fondo. Se da un lato

questo rappresenta l’espressione dei settori sociali emergenti nel paese, che nel corso della rivoluzione reclamerà e determinerà un cambiamento degli assetti e delle modalità di attribuzione del potere istituzionale, tuttavia un’analisi politica della soggettività istituzionale espressa dalla Camera dei Comuni impone di inquadrare tale organo all’interno di un paradigma istituzionale premoderno, (è sufficiente a questo riguardo fare riferimento al carattere della Petition of rights). L’affermazione poi, che il richiamo al passato ed alla difesa del vecchio ordine fosse in realtà soltanto una retorica dietro alla quale coscientemente il Parlamento veniva organizzando una strategia politica modernizzante, rappresenta indubbiamente una semplificazione, che testimonia solamente i limiti delle ricostruzioni storiografiche ed la complessità di fronte alla quale si trova la scienza giuridica.

6 Se sul piano della critica storica è innegabile come l’azione politica del Parlamento possa essere ricondotta all’azione di una soggettività sociale moderna, sul piano storico-giuridico è tutta da dimostrare la natura della dinamica giuridica e politica instaurata tra Re e Parlamento. Sul punto v. L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese 1529-1642, Einaudi, Torino, 1982; N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, Utet, Torino, 1976, pp. 53-124. Come fa notare Plucknett: «Soon it became evident that there was ranger of the latter doctrine (of the divine right of Kings) combining with the newer notions of the State, to create thereby a sort of ‘Leviathan’ – to use the later term of Hobbes. Regarded in this light, the conflict of theory between Crown and Parliament is one between the medieval view of a paramount divine law, supreme over every aspect of government, and an attempt to transfer this divine sanction to a monarch who is also to embody the State in the more modern aspect of the word. From this point of view, Parliament represents the conservative side and the Crown the side of innovation. From another angle, however, the positions might appear to be reversed. When it came to the details of the actual powers which the Crown had exercised in the pas independently of parliamentary control, it was a plausible argument for the Crown to insist that it was, in fact, basing its position upon mediaeval precedent». T. Plucknett, A concise History of the Common law, Butterworth & Co., London, 1956, pp. 49-50.

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razionalismo pratico-empirico. La comprensione dell’evoluzione ordinamentale ed istituzionale si colloca su questo stesso piano esplicativo. Se con il termine razionale-formale si farà così riferimento al modello di sviluppo continentale, laddove quest’ultimo è in grado praticamente di rendere funzionale il deduttivismo alla costruzione di una gerarchia autoritativa delle fonti giuridiche, d’altra parte, l’evoluzione dei rapporti interistituzionali inglesi dimostrerà invece come la costruzione delle forme rappresenti sempre il prodotto mai definitivo di processi di razionalizzazione induttivi e sostanziali di tipo inconseguente. In altri termini, il processo di modernizzazione inglese testimonierà in che senso la razionalità delle forme giuridiche si ricavi direttamente dalla razionalità immanente alle relazioni sociali ed istituzionali7. In ogni caso, ritornando al sentiero tracciato fino a questo momento, si deve precisare che il punto cruciale di questa ricostruzione è evidentemente la comprensione della vera natura della dinamica che si viene ad instaurare tra Monarchia e Parlamento, poiché questa non può essere ridotta ai canoni della rivendicazione di una sovranità assoluta in senso continentale, non solo in forza delle peculiarità giuridiche già rilevate, ma anche in maniera più diretta in relazione alla particolare architettura costituzionale che contraddistingue il regno inglese. In pratica, si tratta di stabilire se la natura del dualismo che si viene ad instaurare tra Re e Parlamento riproduca lo stesso dualismo tra ceti e signore territoriale che contraddistingue l’evoluzione degli stati dell’Europa continentale. A questo fine, e paradossalmente per non ricadere nelle già citate linee interpretative, sarà necessario ricostruire l’evoluzione dei rapporti interistituzionali sulla base della comparazione con i modelli continentali, proprio per tentare di comprendere le peculiarità che determinano l’anomalia costituzionale inglese8. 2.2. Il dualismo tra centro e periferia alla base del modello statuale continentale. La teoria dello Stato e la scienza giuridica moderna ammettono una varietà di definizioni di sovranità politica. Praticamente tutte queste definizioni risultano non compatibili con la definizione qui fornita di common law. Se si intende la potestà sovrana come capacità di creazione del diritto il paradigma della sovranità risulta non adottabile, nella misura in cui il common law è incompatibile con una definizione autoritativa e formalista9; inoltre anche se si intende il concetto di sovranità in senso decisionista si

7 Per la trattazione di questi temi rimandiamo alla seconda parte di questo lavoro. In particolare per

il rapporto tra orizzonte della condizionalità e potere costituente v. Parte II, cap. I, par. 1.1.1, pp. 137 ss, par. 1.4, pp. 158 ss. Sul rapporto tra forme di razionalità e ridefinizione costituzionale v. Parte II, cap. II, par. 2.2, pp. 172-194.

8 In pratica, un’analisi di questo tipo muove dall’analoga considerazione fatta da Brunner circa la critica delle ricostruzioni storiografiche del concetto di Stato medioevale: «Poiché Georg von Below ha voluto interpretare le fonti antiche mediante concetti moderni, è naturale che questo tentativo fallisse. Non vi sarebbe però nulla di più errato che credere che il lavoro storico possa fare a meno dei concetti moderni: occorre solo che questi concetti siano riconosciuti nella loro limitatezza storica». O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 227.

9 Supra, Parte I, cap. I, par. 1.1, pp. 35-41. Il concetto di estinzione della sovranità all’interno del modello puro Kelseniano non ha nulla a che vedere con il modello inglese, non solo per quanto già detto sopra, ma anche, e soprattutto, nella misura in cui il primo basa il principio dell’estinzione della

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deve far fronte al limite di una tale definizione nei termini in cui l’eventuale decisionismo assumerebbe un carattere positivista: la decisione ultima sarebbe soltanto quella del giudice. Ed anche in questo caso il common law sfuggirebbe ad una tale definizione10. In realtà, si è visto, il tentativo mascherato nel dibattito secentesco sull’origine del diritto si muoveva senza successo proprio nella direzione di un accordo tra il moderno paradigma della sovranità, inteso come processo di accentramento autoritativo delle forme di produzione di nuovo diritto, e il concetto di diritto di common law11. Nonostante ciò la questione dell’attribuzione della sovranità alla Monarchia o al Parlamento resta una questione aperta nella misura in cui essa rappresenta un problema pratico prima ancora che teorico, ossia nella misura in cui questo tema può indicare una risposta al problema del riassetto e della natura degli equilibri istituzionali inglesi alla fine del Seicento. Il fatto che una teoria della sovranità non sia direttamente applicabile al caso inglese non implica necessariamente che in Inghilterra non si sia dato un processo di centralizzazione istituzionale, che, sebbene non abbia poi portato allo sviluppo di una concezione statualista dell’ordinamento, può avere comunque determinato una riarticolazione degli equilibri istituzionali tale da permettere una interpretazione in senso unitario della funzione di amministrazione e di indirizzo politico. Resta così da stabilire, se storicamente si sia dato un potere ed una istituzione realmente sovrani in senso moderno nel corso della storia inglese, sia esso individuabile nella Monarchia o

sovranità sul principio della completezza e della sistematicità dell’ordinamento giuridico, nonché su quello dell’identità dello Stato con quest’ultimo, mentre il secondo concepisce il governo del diritto (rule of law) sulla base dell’assenza di un concetto di stato unitario. Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura cit., pp. 317-322.

10 Sulla definizione di sovranità politica come suprema decisione politica sullo stato di necessità giuridica v. C. Schmitt, Dottrina della Costituzione cit., pp. 38 ss.; Id., Teologia politica: quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, cit., pp. 29-88, (oltre naturalmente, a quanto detto nell’Introduzione, supra, pp. 11-14). Sul rapporto tra common law e il concetto di eccezione v. supra nota 13, p. 39. Sull’applicazione concreta del modello decisionista schmittiano v. infra note 17, 18, pp. 62-63.

11 Non è il caso di approfondire le teorie del pensiero classico della sovranità se non nella misura in cui si possono rivelare utili per la comprensione delle vicende storico-istituzionali inglesi. E’ sufficiente, dunque, fare riferimento ad un modello di sovranità intesa come supremo e assoluto potere determinante l’unità politica di un ordinamento territoriale; modello basato appunto su di un processo di accentramento della produzione giuridica e della decisione politica. Che tale processo possa essere interpretato, ancora secondo una visione organologica di origine medievale (Bodin), o secondo una visione meccanicistica (Hobbes), rappresenta il vero mutamento che investe la definizione del potere politico. Tuttavia, la comprensione di tale mutamento rischia di restare nel campo della teoria, nella misura in cui nel continente si traduce in una diversa considerazione della figura dei corpi intermedi, ma non in una diversa considerazione della natura del rapporto dualistico, ovverosia nel momento in cui l’oggetto in esame è pur sempre quello dell’evoluzione degli apparati statuali secondo i modelli elaborati dalla scienza giuridica del XIX secolo. Diversamente, nel caso inglese, l’utilità delle teorie della sovranità, e dello studio della fase di passaggio dall’organicismo al meccanicismo, è quella di poter comparare tali teorie con il caso concreto nel quale tale passaggio non avviene attraverso la ‘mediazione’ assolutistica. Sul tema classico della ricostruzione del concetto della sovranità moderna v. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto e dello Stato, cit., pp. 43-92, laddove riconosce la non conformità dell’esperienza inglese al modello moderno (p. 60-61); v. anche M. Fioravanti, voce Stato (storia), in Enciclopedia del diritto, XLIII, cit., pp. 708-756.; Sul rapporto tra organicismo, meccanicismo e le teorie della sovranità moderne v. O. von Gierke, Giovanni Althusius, cit., in particolare le pp. 111 ss. dove specifica la qualità del mutamento da un modello di sovranità fondato sull’organicismo sociale ad un modello basato sull’atomismo individualista. Cfr. anche C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico, in Id., Scritti su Thomas Hobbes, Giuffré, Milano, 1986, pp. 90-112.

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nel Parlamento, o nell’attività congiunta di queste due istituzioni, ovvero, se il percorso di tale modernizzazione abbia incluso al suo interno un processo di centralizzazione istituzionale della decisione politica e giuridica in senso razionale-formale12. Nel continente questo processo di centralizzazione si può identificare con la fase dell’assolutismo. Quest’ultimo si presenta come un vero e proprio passaggio obbligato per gli stati dell’Europa continentale che si dirigono verso la modernità giuridica. L’assolutismo funziona all’interno del processo di modernizzazione come un dispositivo in grado allo stesso tempo di depotenziare, fino a rendere inessenziale, il ruolo politico ricoperto dai corpi intermedi, e di introdurre però, in sostituzione di quest’ultimo, un nuovo apparato istituzionale basato sulla prevalenza sulla vecchia concezione consuetudinaria del diritto della nuova visione autoritativa13. In pratica, distruggere la vecchia costituzione medievale limitata rappresenta la premessa necessaria per il futuro avvento del costituzionalismo moderno. Poco importa se effettivamente in qualche caso l’antico ordine cetuale e corporativo non scompare dalla scena politica, ma viene integrato, anche in maniera conflittuale, all’interno della nuova costruzione statuale: il risultato rivoluzionario è comunque conseguito nei termini in cui l’unico potere politico originario e la fonte primaria del diritto si identificano in un’autorità monarchica posta al vertice di un sistema completo, ossia nella capacità di questa autorità di subordinare a sé il diritto positivo. Ed in ogni modo l’essenza di questo processo non consiste nella supposta completezza del sistema finale, ma risiede nella dinamica costitutiva, ossia nella dinamica conflittuale tra potere centrale monarchico e corpi intermedi che genera il processo di accentramento14. Seguendo questa impostazione, il Leviatano non è il risultato di un processo logico e artificioso che vede alla sua base l’idea astratta del contratto, ma il prodotto mai definitivo dell’azione del potere territoriale più potente in grado non solo di vincere la guerra, ma

12 Anche dal punto di vista della scienza giuridica continentale risulta evidente come sia questa

l’unica via per una definizione in positivo della sovranità moderna. Tuttavia, tale possibilità resta legata alla considerazione in termini statualistici della sovranità stessa. Praticamente infatti, se in negativo la sovranità si può identificare con l’indipendenza del potere statuale dalle strutture giuridiche e politiche feudali, in positivo, la definizione di sovranità è individuabile soltanto identificando questa con il potere statuale stesso. Ma a questo punto si deve osservare come da un punto di vista storico-analitico la teoria incontri un limite: il potere sovrano, in quanto fa riferimento al modello assolutista, resta in ogni caso un summum imperium, poiché la persistenza degli organismi feudali scompare soltanto con il XIX secolo. Cfr. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto e dello Stato, Giuffré, Milano, 1949, pp. 61-64.

13 Cfr. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto e dello Stato, cit., p. 64: «Il grande processo di espropriazione da parte dello Stato dei poteri pubblici ad esso coordinati e subordinati – processo che costituisce altresì la caratteristica dello svolgimento politico della età moderna – trova in questa teoria (l’assolutismo) un poderoso appoggio. Il concetto di sovranità, così sviluppatosi nell’assolutismo dello Stato, è pertanto divenuto uno dei grandi fatti storici, che hanno completato il concetto moderno di Stato; e si deve riportare ad esso la pratica convinzione che lo Stato è il titolare di tutto il potere pubblico e che perciò, nello Stato, ogni diritto all’esercizio di funzioni pubbliche da esso solamente può derivare».

14 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 627-628: «Quanto più questo dualismo aumenta tanto più seriamente viene messo in discussione l’antico fondamento comune del diritto posto al di sopra del sovrano e del popolo. Il potere principesco – tendente a costituirsi in forma assolutistica – pretende di decidere da solo su cosa sia giusto e di imporre la propria interpretazione del diritto territoriale. Questo fa sì che la posizione giuridica dei ceti territoriali divenga in qualche modo ‘precaria’; se affonda le proprie radici nell’’antica tradizione’, è però il principe, a questo punto, a decidere cosa sia diritto nella tradizione stessa».

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di neutralizzare le forze ostili alla riorganizzazione centralistica e razionalistica del potere15. Concretamente, la particolarità di questo processo consiste nel progressivo sviluppo di un apparato burocratico e militare, direttamente dipendente dall’autorità centrale, in grado di affermare la volontà politica e il diritto di quest’ultima - e dunque in primo luogo chiaramente il diritto di dichiarare la giustizia - su tutto il territorio statale, indipendentemente dalle volontà dei corpi intermedi. L’originarietà del diritto monarchico si misura quindi non con il suo grado di legittimazione rispetto al paradigma del buon diritto antico, anche se la retorica rivendicativa del superiorem non recognoscens, potrebbe far pensare a ciò16, ma si misura direttamente in base al suo grado di effettività, ossia in base alla sua capacità di prevalere e sostituirsi al diritto consuetudinario17.

15 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese, cit., pp. 18-32: «Lo stato monarchico, che si appoggia sui funzionari e sui militari, crea un campo d’azione extra-religioso, razionale, che in contrasto con altri suoi atti determinato in senso politico-statale. Sul piano sociale, i monarchi rimasero talmente legati alla tradizionale stratificazione basata sui ceti, che nella maggioranza dei casi si ingegneranno per conservarla. Sul piano politico, invece, i monarchi cercarono di eliminare o di neutralizzare tutte le istituzioni autonome (…) Hobbes, che in un primo tempo aveva fatto discendere lo Stato da un patto per così dire preordinato nel tempo, introduce lo Stato per rendere possibile questo patto. Il paradosso logico consiste nel fatto che questo Stato deve la sua esistenza a un patto, ma poi esiste come grandezza autonoma. Soltanto il Leviatano è in quanto Stato allo stesso tempo effetto e origine della fondazione dello Stato». V. a questo riguardo T. Hobbes, Leviatano. O la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile (a cura di A. Pacchi), Laterza, Bari, 2003, cap. XXXI, p. 291: «Ho mostrato precedentemente come il diritto sovrano sorga dal patto; mostrare come lo stesso diritto possa scaturire dalla natura, non richiede niente di più che mettere in evidenza un (particolare) caso in cui (quel diritto) non viene mai meno. Dunque, dato che tutti gli uomini avevano per natura diritto a tutte le cose, ognuno di essi aveva anche diritto a regnare su tutti gli altri; ma, poiché non c’era forza che potesse garantire il possesso di questo diritto, era essenziale per la salvezza di ognuno che si rinunciasse a questo diritto e si stabilissero di comune accordo degli uomini (dotati di autorità sovrana) che governassero e difendessero gli altri. Invece, se ci fosse stato qualcuno con un potere irresistibile, non ci sarebbe stata alcuna ragione per cui egli con quel potere non avrebbe governato e difeso se stesso e gli altri, a sua discrezione (…)».

16 Cfr. O. von Gierke, Les Théories politiques du Moyen Age, Recueil Sirey, Parigi, 1914, pp. 268-278. Sull’evoluzione della formula rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator v. F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Giuffré, Milano, 1953, pp. 243-258. Sull’evoluzione delle teorie della sovranità in relazione ai due grandi dualismi, ossia, da un lato la lotta tra Papato ed ordine secolare, e dall’altro, quello tra Monarchie e ceti territoriali v. anche Q. Skinner, L’età della Riforma, Il Mulino, Bologna, 1989.

17 Cfr. C. Schmitt, La dittatura, Settimo Sigillo, Roma, 2007, pp. 21-106, laddove identifica la peculiarità della funzione ricoperta dai commissari regi all’interno del processo di formazione dello Stato moderno: «fintanto che il commissario rimase semplice giudice ed esercitò facoltà esclusivamente giudiziarie, non intervennero modifiche in senso formale nel contenuto delle funzioni ufficiali conferite per via commissaria (…) Le cose cambiano quando l’attività travalica l’applicazione di una norma giuridica e comprende azioni che sono rese necessarie per il conseguimento di un obiettivo concreto e vengono intraprese di autorità.» La ricostruzione dell’evoluzione dello Stato moderno segue in questa opera la trama intessuta dal concetto di dittatura. Schmitt rileva puntualmente il progressivo sviluppo di tale concetto, dalla sua derivazione dal modello repubblicano antico che individuava nella dittatura una commissio legata all’obiettivo del ripristino dell’equilibrio fra i tre poteri repubblicani, ad un nuovo concetto di dittatura totalmente schiacciato sul concetto di plenitudo potestatis, e quindi orientato verso la nuova definizione di dittatura sovrana. Per Schmitt, il sorgere del nuovo modello di sovranità è legato all’affermazione di un potere orientato verso la dittatura, nella misura in cui quest’ultima si definisce a partire dal suo carattere astratto, razionale e tecnico, e dalla capacità di prescindere e di prevalere sul diritto e i soggetti preesistenti. La dinamica dualistica tra Monarchia e corpi intermedi diviene così il motore della modernizzazione nel momento in cui il prodotto giuridico di tale processo risulta essere

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Il nuovo ordinamento si configura perciò come originario in grazia del suo carattere indipendente, ossia per il fatto che si viene a costituire in sostituzione, contro e comunque indipendentemente dalla presenza delle istituzioni del governo locale. Il fatto che poi quasi sempre la costituzione di questo apparato abbia integrato al suo interno anche l’antico ordine cetuale è secondario, nella misura in cui una tale integrazione presuppone l’accettazione della nuova gerarchia delle fonti giuridiche e la progressiva neutralizzazione delle rivendicazioni di sovranità da parte dei ceti18. In effetti la presenza di un organo di rappresentanza degli interessi cetuali dotato di funzioni politiche più o meno limitate sembra comunque inevitabile19. Tale presenza

un diritto di tipo positivista fondato sul carattere dell’eccezionalità e su un’obbedienza di tipo passivo: «uno Stato continuamente agitato da lotte tra i ceti e le classi si trova per natura sua in uno stato di eccezione continuo e il suo diritto è anch’esso, fino all’ultimo comma, un diritto di eccezione. Chi ha il controllo dello stato di eccezione, chi ha cioè il potere di stabilire quando esso i verifica e i mezzi appropriati per affrontarlo, ha perciò stesso il controllo della macchina statale. Ogni diritto finisce dunque col rimandare alle circostanze di fatto». Che poi la questione aperta dal futuro modello di dittatura sovrana rappresenti il dilemma irrisolto per lo Stato di diritto di proceduralizzare e tentare di normativizzare l’eccezione giuridica è in questa sede di una rilevanza indiretta, in quanto ciò che qui interessa analizzare sono le peculiarità giuridiche di un paradigma della crisi al momento della sua genesi.

18 Se praticamente l’evoluzione dello Stato moderno procede seguendo il criterio dell’eccezionalità sopra indicato, nella misura in cui tale criterio risulta essere già presente nella dinamica concreta che contrappone il nuovo apparato al vecchio ordine, da un punto di vista teorico l’affermazione dello Stato moderno è legata alla progressiva sostituzione del postulato del summum imperium risalente a Bodin con il nuovo postulato hobbesiano, per cui il diritto e la decisione politica sono tali soltanto in quanto prodotti o emananti dall’unica autorità legittima: lo Stato. Così, se in Bodin la distinzione tra jura imperi e jura dominationis permetteva ancora di inquadrare la dittatura all’interno degli schemi classici, e permetteva altresì di continuare a riconoscere il ruolo costitutivo dei corpi intermedi, seppure in una posizione politica subordinata al potere statuale, (in quanto, tale sistema presupponeva alla base una concezione organologica), con Hobbes si ha la teorizzazione di un modello puro di sovranità assoluta in grado di attribuire al dualismo tra potere centrale e corpi intermedi un ruolo costitutivo soltanto in via transitoria. Conseguentemente, la distinzione tra jura imperi e jura dominationis è un fatto contingente provocato dall’esigenza della progressiva sussunzione del vecchio ordine all’interno della struttura del nuovo diritto e della nuova autorità. In questo modo una definizione di dittatura diviene superflua per un ordinamento fondato su una base meccanicistica, che già nella situazione di “normalità” prevede il completo accentramento della decisione e la negazione di qualsiasi autonomia dei corpi intermedi. Cfr. C. Schmitt, La dittatura, Settimo Sigillo, Roma, 2007, pp. 33-67. Sul punto v. anche O. von Gierke, Althusius, cit., pp. 186-192, laddove specifica «che fu Bodin ad applicare per primo alle associazioni minori i principi della concezione statalistica pur sottolineando – a differenza di quasi tutti gli assolutisti posteriori – l’alto valore politico e l’opportunità di una efficace libertà dei comuni e delle corporazioni – aggiungendo che soltanto con Hobbes – si insegnò che in ogni sistema subordinatum tutta la potestas è attribuita e determinata dallo Stato; che il potere rappresentativo, dal quale l’associazione riceveva una personalità propria, emanava da un mandato dello Stato; e che la competenza di ogni organo corporativo era delimitata semplicemente dall’autorità di cui esso era stato investito dallo Stato e non dall’incarico della collettività soggetta. Altrimenti, si avrebbe uno Stato nello Stato (civitas in civitate) assolutamente inconciliabile col concetto di sovranità (…) Tuttavia la personalità dello Stato secondo Hobbes non è altro che la personalità del principe secondo l’antica dottrina, intesa in senso assolutistico e meccanicistico (…)» (p. 148).

19 Ciò tuttavia può rappresentare una vera e propria anomalia come nel caso delle vicende della Repubblica delle Province Unite. In effetti in questo caso i contratti di signoria stipulati tra monarchia e ceti sembrano rappresentare dei veri e propri esperimenti costituzionali in senso moderno nella misura in cui tali patti consistono in una serie di formalizzazioni contrattuali della ripartizione dell’insieme delle funzioni di governo del territorio. E tuttavia, sebbene si debba sottolineare come questi prodotti costituzionali siano il prodotto diretto dell’antagonismo tra centro e periferia, e dunque il prodotto di un diritto di resistenza tradottosi sostanzialmente in un’attività costituente in senso

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può infatti variare ed assumere a seconda dei casi un carattere meramente simbolico o un effettivo ruolo di direzione e controllo politico sull’autorità centrale, confermando così la tesi per cui la definitiva neutralizzazione del ruolo politico di tali enti si ha solamente con l’avvento dello stato liberale di diritto20. Peraltro, questa constatazione si associa alla convinzione che il modello dell’assolutismo rappresenti innanzitutto uno strumento necessario per la comprensione del processo di modernizzazione, ma che, allo stesso tempo, proprio in quanto strumento interpretativo, non possa essere ricondotto ed applicato come sistema puro a nessun periodo storico. Ciò, inoltre, non equivale ad un interpretazione lineare del processo storico. Al contrario, la persistenza

moderno poiché tale prodotto giuridico viene individuato in un documento formale di tipo costituzionale; dall’altro lato si deve rimarcare il carattere premoderno di tale attività costituente, in quanto i soggetti e la natura del diritto affermato rientrano pienamente all’interno di una visione medioevale del diritto. Seppure, e non casualmente, il dualismo tra monarchia e repubblica cetuale alla fine volge a favore della prima nel momento in cui scendono in campo la Francia, riacquistando il controllo del territorio, e l’Inghilterra, riacquistando il controllo dei mari, ossia nel momento in cui scendono in campo rispettivamente la potenza statuale e l’impero emergenti, l’esperienza repubblicano-costituzionale olandese rappresenta una importante parentesi costituzionale sulla via della modernizzazione. La tolleranza religiosa e il nuovo individualismo legato ad una concezione economica orientata già sul commercio e la circolazione, e dunque il contesto particolare nel quale le teorie monarcomache hanno potuto finalmente concretizzarsi, indirizzando per una volta il dualismo tra monarchia e ceti in una direzione favorevole a questi ultimi, sono i due aspetti che testimoniano l’importanza dello studio di questa esperienza e l’impossibilità di una sua riduzione al dualismo giuridico tipicamente medioevale tra jura propria e jura communia. L’anomalia della Repubblica delle Province Unite, dunque, serba dentro di sé l’enigma legato alla possibilità di una definizione di potere costituente libera dai dogmi della storia giuridica moderna, possibilità apparentemente aperta dall’affermazione della capacità costituente dell’antico diritto e dell’antico ordine, ma immediatamente negata, in quanto tradottasi in ogni caso in una sorta di formalizzazione costituzionale anticipatoria della futura evoluzione in senso statalista. Per una ricostruzione critica dell’esperienza costituzionale e del pensiero politico olandese v. A. Clerici, Costituzionalismo, contrattualismo e diritto di resistenza nella rivolta dei Paesi Bassi (1559-1581), Franco Angeli, Milano, 2004; Id., Monarcomachi e giusnaturalisti nella Utrecht del Seicento, Franco Angeli, Milano, 2007. V. anche l’introduzione di A. Droetto all’opera di B. Spinoza, Trattato politico, Giappichelli, Torino, 1958, pp. 8-33; cfr. anche A. Negri, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 21-42. In generale sull’evoluzione delle teorie monarcomache e il loro rapporto con la scoperta della razionalità come processo di approfondimento dell’interiorità religiosa v. Q. Skinner, L’età della riforma, cit., in particolare le pp. 433 ss.

20 Praticamente dunque, l’affermazione completa della sovranità moderna in senso pieno ed assoluto è possibile solo nel momento in cui il dualismo tra centro e periferia viene meno, e quindi la sovranità, in positivo, può essere ricondotta allo Stato. Fino a quel momento la sovranità può essere soltanto summum imperium. In questo modo, però, fa notare Jellinek: «la teoria perviene ad una contraddizione, politicamente importante, con la vita reale, in quanto che, anteriormente al secolo XIX, nel mondo degli Stati, con i loro avanzi dello Stato feudale, parecchi dei diritti attribuiti esclusivamente al sovrano appartenevano anche ad altri poteri diversi da quello sovrano». G. Jellinek, La dottrina generale, cit., p. 64. In questo senso anche Brunner: «L’assolutismo del principe territoriale, come si sa, ha finito col prevalere. D’altro canto, però, entro la traballante monarchia austriaca, i territori e le diete territoriali hanno continuato ad esistere fino al 1848. Fino alla fine – benché irrigiditi e svuotati del loro contenuto originario – essi seppero custodire i fondamenti dell’«antico e buon diritto», e cioè della tradizione. Con la loro soppressione – cosa questa nient’affatto trascurabile (sottolinea Brunner) – comincerà a porsi con insistenza il problema dei «fondamenti della legittimità» (M. Weber) di diritto e costituzione». O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 628. La definitiva affermazione dello Stato moderno si ha soltanto con il XIX secolo, nel momento in cui ogni residuo della vecchia concezione organologica delle istituzioni viene soppiantata dal nuovo apparato statuale totalmente fondato su di una concezione meccanicistica della realtà e dello Stato. Sul punto v. C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 90-101.

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del ruolo politico dei corpi intermedi all’interno dei nuovi stati monarchici, non fa che confermare la forte discontinuità determinata dalla dinamica costitutiva del nuovo stato accentrato, ispirata in ogni caso da una idea assolutistica e razionale-formale21. Se dunque la persistenza del dualismo tra corpi intermedi e Monarchia non fa che confermare la resistenza del diritto antico, nonché la presenza attiva di un paradigma dell’obbedienza politica basato su un principio di fedeltà piuttosto che su di un principio di obbedienza passiva22, la superiorità del nuovo potere statuale è dovuta alla sua capacità di sostituirsi o di sussumere progressivamente tali antichi rapporti all’interno della nuova organizzazione istituzionale-razionale. E’ dunque l’indipendenza e l’autonomia della nuova organizzazione dal vecchio ordine cetuale a garantire il successo del nuovo apparato statuale. Questa indipendenza, è bene ribadire, si basa sulla predisposizione di un sistema amministrativo centralizzato in grado di riscuotere i tributi, dichiarare la giustizia, chiamare alle armi, imporre il nuovo diritto e la propria volontà politica astrattamente sull’intero territorio statuale. Il dualismo che questo nuovo potere viene ad instaurare con i soggetti del vecchio ordine si caratterizza per il

21 Cfr. O. von Gierke, Althusius, cit., pp. 111-185. Secondo Gierke il dualismo tra Monarchia e corpi

intermedi volge a favore della prima nella misura in cui l’accentramento delle funzioni di governo segue un criterio di tipo pubblicistico, mentre la difesa delle prerogative delle corporazioni si caratterizza come una lotta per la difesa di privilegi di tipo privatistico. Conseguentemente, secondo Gierke, la contrapposizione tra due tipi di personalità, quella di tipo medievale ispirata al modello della civitas repubblicana e fondata su una concezione organologica del corpo sociale e delle istituzioni, e la nuova personalità dello Stato identificata nella persona del monarca e nell’apparato a lui subordinato, e nell’insieme dei poteri rivendicati come assolutistici, determina la contrapposizione tra due modelli di sovranità. Tuttavia il processo che permetterà di approdare ad una completa personalità dello Stato in senso moderno si compirà soltanto con l’affermazione di una concezione meccanicistica e atomistica a fondamento del potere sovrano e con la conseguente neutralizzazione della concezione organologica del corpo sociale. Soltanto allora lo Stato riceverà la sua definizione in base al suo carattere completamente pubblico e in relazione alla sua capacità di determinare l’ambito del privato; Soltanto allora sarà completato il processo della modernizzazione continentale con la definitiva scissione tra società e Stato, e quest’ultimo potrà recuperare la dottrina organicistica in funzione di una sua definizione di personalità giuridica autonoma. Se da un lato questa ricostruzione è di estrema utilità perché descrive le modalità di costruzione delle forme istituzionali, tuttavia rischia di sviare la comprensione dell’evoluzione istituzionale all’interno di una rigida cesura tra pubblico e privato. Infatti il processo di espropriazione delle funzioni di governo da parte del nuovo Stato può ben essere identificato con l’accentramento di funzioni pubbliche, ma ciò non implica necessariamente la classificazione in base alla distinzione tra pubblico e privato dell’ordinamento precedente. Più precisamente dunque si deve sottolineare come, in verità, sia la strutturazione del nuovo potere a determinare il mutamento qualitativo ed irreversibile delle relazioni inter-istituzionali. Brunner mostra come la rivendicazione della sovranità da parte del principe implichi già di per sé il mutamento dei rapporti giuridici e della posizione assunta dai soggetti con esso interagenti: «Per contro (la costituzione in forma assolutistica del potere principesco), la Landschaft cerca di difendere e consolidare la propria ‘antica tradizione’, insistendo sul fatto che il principe deve ogni volta confermare quei diritti di cui esso dispone. E questo implica che anche il diritto di resistenza vada necessariamente incontro ad un’inversione di senso. Nella nuova situazione, il singolo non può più opporre resistenza contro un’autorità che agisca illegittimamente. Peraltro, se è la Landschaft nel suo insieme a comportarsi in questo modo, nemmeno essa, come invece accadeva nel Medioevo si trova in opposizione rispetto ad un’autorità e ad un potere ‘legittimo’, possibili solo nell’ambito del diritto territoriale, ma è nella condizione di dover pretendere per sé quei diritti di sovranità che il principe territoriale si arroga. In questo modo, essa viene via via sospinta nel radicalismo della dottrina calvinista della resistenza. La parola d’ordine comincia ora ad essere coniata secondo il pensiero di Bodin o di Althusius». O. Brunner, Terra e potere, cit. pp. 625-628.

22 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 333 ss. Sul legame tra obbedienza politica e fedeltà più approfonditamente infra, Parte I, cap. III, par. 3.2, pp. 98-107.

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particolare aspetto dialettico: il nuovo stato agisce infatti per negazione e sostituzione; l’integrazione del vecchio ordine è ammessa soltanto nella misura in cui si rivela come processo di sussunzione, ossia, soltanto nella misura in cui l’antico diritto passa sotto il controllo della nuova autorità, e quindi ogni pretesa di sovranità cetuale, basata appunto sull’antico principio di legittimazione, svanisce progressivamente e viene ridotta ad una appendice funzionale dell’autorità centrale23.

23 Cfr. G. Jellinek, La dottrina generale del diritto e dello Stato, cit., pp. 71-81, 183-189, laddove viene specificato il concetto di autoamministrazione dello Stato. In ogni modo il passaggio fondamentale per la comprensione dell’essenza della statualità moderna si rintraccia nel paragrafo La posizione degli organi dello Stato (pp. 133-138) dove la personalità dello Stato viene definita in funzione della sua natura organicistica e della sua alterità con il principio ordinatore di tipo individualista che caratterizza l’organizzazione della società civile: «L’organo, come tale, non possiede alcuna personalità di fronte allo Stato. Non esistono due persone: personalità dello Stato e personalità dell’organo, che stiano l’una rispetto all’altra in un qualsiasi rapporto giuridico: invece Stato ed organo costituiscono un’unità (…) Con la esatta nozione della realtà cade anche la dottrina del diritto proprio del monarca al potere statale. Il potere statale appartiene allo Stato; ed il monarca, come tale, è e resta, nell’ordinamento statale odierno, l’organo supremo dello Stato (…) E’ la separazione fra diritto dell’individuo e posizione di organo – separazione, che in maniera logicamente necessaria, consegue dalla personalità dello Stato – che, sola, è in grado di spiegare la continuità della vita statale. Che se comechessia si volessero concepire le competenze dell’organo come diritti individuali, ne deriverebbe che col mutamento delle persone anche la continuità dei rapporti statali resterebbe necessariamente interrotta». L’estensione del concetto persona ficta di derivazione medievale all’intero apparato statuale si traduce in un determinato rapporto tra la sfera dell’autorità e quella della società. La definizione organicistica viene recuperata ed allo stesso tempo snaturata, poiché l’ufficio ricoperto dall’individuo non possiede più una doppia personalità, ma riceve la personalità dell’organo soltanto nella misura in cui questo riproduce la medesima personalità dello Stato, ossia soltanto nella misura in cui tale personalità acquista un carattere di spersonalizzazione. Secondo questa impostazione l’unità e il carattere corporativo dello Stato si ricavano interamente dall’intima coerenza e completezza dell’apparato funzionale, mentre viene meno quale requisito necessario alla definizione dell’autorità pubblica, l’aspetto corporativo e associativo appartenente alla società civile. L’organicismo alla base della concezione della sovranità moderna si distingue nettamente dalle concezioni organologiche di derivazione medievale in quanto la definizione di corporazione di queste ultime dottrine presupponeva l’unità, o quanto meno l’indifferenza tra la sfera sociale dell’individuo e la sua sfera pubblica. Parimenti, si deve osservare come una tale spersonalizzazione estesa a tutti i livelli dell’ordinamento permetta di inquadrare i supremi organi e l’esercizio delle principali funzioni al di fuori di una visione personalistica. Stato e società si trovano così completamente l’uno di fronte all’altro: l’organicismo del primo autonomamente determinato si fonda soltanto da un punto di vista extragiuridico sul meccanicismo che muove la definizione mutevole della volontà collettiva della società civile. La distinzione qualitativa tra organicismo e meccanicismo segna analiticamente la scissione tra Stato e società, nonché il carattere limitato del diritto. Il problema della sovranità e del potere statuale, e cioè la questione «se l’organizzazione che garantisce il diritto stia al di sotto o al di sopra del diritto stesso» (p. 72) si risolve da un lato con l’attribuzione della capacità della esclusiva autodeterminazione del diritto da parte dello Stato, e dall’altro lato con la spoliticizzazione e neutralizzazione del carattere giuridico dei comportamenti sociali esterni all’ambito di competenza statale. Il carattere sostanziale del monopolio, ma allo stesso tempo formale della limitazione dell’esercizio dello stesso, a fronte della predisposizione di un tipo di obbedienza passiva ed assoluta fondata sul fatto che l’azione giuridica individuale e collettiva viene riconosciuta tale solo se esplicata nelle forme prestabilite dal diritto, ma non in relazione al contenuto da esse affermato, rappresentano dunque i due poli intorno ai quali le concezioni dell’organicismo e del meccanicismo si organizzano all’interno degli Stati dell’Europa continentale. Sul punto v. O. Brunner, Terra e potere cit., pp. 157-186. Sulla distinzione tra Stato e società e la riarticolazione del rapporto tra individuo e autorità secondo un criterio organicistico all’interno della nuova società fondata sull’individualismo-atomista v. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (a cura di G. Marini), Laterza, Bari, 2005, Parte I, §§ 41 ss., pp. 51 ss, e Parte III, §§ 189-208, pp. 159-168.

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2.3. La sovranità del Corpus Mysticum Republicanum.

2.3.1. Centralizzazione giuricentrica. In sintesi, se la nascita dello Stato moderno in Europa si determina a partire dalla dinamica dialettica tra Monarchia e corpi intermedi che ha permesso la particolare evoluzione di un processo di accentramento istituzionale di tipo razionale-formale capace di delineare un apparato sovrano indipendente dal vecchio ordine, in Inghilterra si deve riscontrare la radicale diversità rispetto a tale dualismo. E’ noto come la Monarchia dell’epoca dei Tudor non sia riuscita a gettare le basi per un processo di statalizzazione dell’ordinamento: l’incapacità di organizzare un efficace gettito fiscale a causa della svendita delle proprietà sottratte alle autorità ecclesiastiche e la conseguente dipendenza dalla volontà del Parlamento in materia tributaria determinò l’incapacità per la Monarchia di organizzare un efficiente sistema amministrativo (anche a causa delle resistenze delle corti giudiziarie), e di ottenere la disponibilità di un esercito di terra che non dipendesse dai vincoli feudali24. Tuttavia, come si vedrà più avanti, non solo il mancato sviluppo di un apparato burocratico in senso continentale non impedì che l’ideologia dell’assolutismo si inserisse all’interno del dibattito politico25, ma soprattutto questa situazione non precluse la via ad un efficace processo di centralizzazione istituzionale. Il potere di pronunciare la giustizia nel caso concreto rappresenta la prima e principale prerogativa rivendicata dalla Monarchia. La capacità di subordinare a sé il diritto consuetudinario rappresenta, come si è visto, la premessa necessaria per la successiva introduzione e sovrapposizione del nuovo diritto monarchico e razionale-formale. Diversamente dal modello continentale, in Inghilterra tale subordinazione non si sviluppa con l’obiettivo della progressiva sostituzione e prevalenza di un nuovo diritto a scapito dell’antico, ma procede interamente all’interno del campo di quest’ultimo. In pratica, il successo della centralizzazione si gioca interamente sulla capacità degli ordinamenti di armonizzarsi intorno ad un sistema di giustizia unitario e controllato dalla monarchia, sebbene questa centralizzazione non dia luogo ad una ridefinizione in senso razionale-formale del diritto e dell’organizzazione istituzionale. In questo senso, il processo di centralizzazione comincia già con la creazione delle corti di common law e l’istituzione dei giudici regi itineranti. Questi ultimi rappresentano il primo vero strumento della centralizzazione in quanto riescono ad esercitare direttamente la iurisdictio monarchica con la massima efficienza, ossia soltanto quando la necessità del caso concreto lo imponga. La successiva istituzione di una corte statica centrale (Court of Common Pleas) non è che la stabilizzazione di tale principio discrezionale nella misura in cui l’appello a tale corte rappresenta soltanto un rimedio

24 Cfr. L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese, cit., pp. 71-81. 25 Se in questo senso si intendono da un lato le tentatazioni filopapiste e filoassolutistiche degli

Stuart, e le speculari accuse delle forze a favore del parlamento; dall’altro i contorni apocalittici che assume la stessa lotta in difesa della Repubblica e contro l’Anticristo impersonato da Carlo I. V. comunque riguardo l’effettiva portata dell’assolutismo in Inghilterra oltre al citato L. Stone, anche J.P. Sommerville, Absolutism and royalism, in The Cambridge History of Political Thought, cit., pp. 347 ss.

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procedurale per i casi non risolti nella corte locale, possibile dunque, soltanto per i casi di una determinata rilevanza26. D’altra parte le peculiarità del diritto di common law favoriscono l’evoluzione di questo tipo di sistema giudiziario allo stesso tempo accentrato e flessibile. Infatti, da un lato la natura dichiarativa e pratica del diritto applicato al caso concreto, e dall’altro l’assenza di una dialettica tra un diritto locale e un astratto diritto centrale (come nel caso dell’Europa continentale) si associano alle due esigenze fondamentali della centralizzazione: infondere la percezione del carattere locale ma parimenti unitario del sistema giudiziario27. Non è casuale quindi che le corti di common law siano prevalentemente formate dalle élites locali (in maniera crescente dai settori dominanti della gentry), e che la corte stessa si basi nel suo funzionamento sul giudizio in via di fatto di una giuria popolare (nominata però dai giudici reali)28. L’aformalismo e la praticità del diritto di common law si associa dunque al minimalismo e alla flessibilità procedurale dell’intero sistema giudiziario, determinando così il lento ma consolidato sviluppo di una omogenea normativa di common law, effettivamente in grado di farsi valere con estrema sicurezza ed efficacia su tutto il territorio del regno, nella misura in cui soltanto nel caso eccezionale il monarca si vede costretto ad intervenire direttamente. Il diritto di common law e il suo carattere pratico ed empirico, e parallelamente il carattere rimediale e flessibile della procedura dell’intero sistema giudiziario possono essere considerati i due fattori, che, entrati in simbiosi, hanno permesso il successo del processo di centralizzazione istituzionale. Il re è il soggetto che rappresenta ed incarna questo accentramento. La giustizia del common law è sempre la giustizia del re; questa però non ha bisogno di un nuovo modello di diritto; il Re difatti non ha bisogno di un proprio e distinto diritto da applicare al caso concreto per imporre la propria autorità istituzionale. Al contrario, attraverso questo particolare processo di accentramento giudiziale la figura del Monarca si innesta all’interno dei rapporti ordinamentali legati al vecchio ordine giuridico senza modificare sostanzialmente la natura dell’antico diritto, ma parimenti, indirizzando l’articolazione dell’ordinamento al fine di una generale armonizzazione ed equilibrio dell’intero sistema29. In questo modo, sebbene l’omogeneità e la certezza formale del diritto sembrino in apparenza messi in pericolo, l’efficacia di questo tipo di architettura giuridica e la capacità di controllo da parte della

26 Cfr. U. Mattei, Common law cit., pp. 19-48. Per una puntuale ricostruzione storica dell’evoluzione

istituzionale inglese (ed in particolare dell’evoluzione del sistema giudiziario) v. T. Plucknett, A concise history cit., pp. 6-65, 83-207; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale cit., pp. 323-347, 395-415, 549-566.

27 Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 111-130, 195-201. 28 Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., p. 198; L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese, cit., pp. 117-

121, dove viene descritto, da un lato, come i settori emergenti della gentry assumano un crescente peso politico, non solo all’interno della Camera dei Comuni, ma anche all’interno della corporazione dei notabili giuridici, e come dall’altro lato, la Corona reagisca alla nuova vitalità delle corti di common law assecondando il nuovo equilibrio di potere, e tentando allo stesso tempo di rinforzare la giurisdizione direttamente dipendente da essa.

29 Cfr. M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., pp. 343-347; U. Mattei, Common law cit., pp. 22-34, laddove viene specificato sotto il profilo giuridico e procedurale la peculiarità dell’accentramento giurisdizionale inglese. Da un punto di vista prettamente giuridico viene infatti rilevato come il successo del potere monarchico si deve sostanzialmente alla dinamica concorrenziale tra corte locale e magistratura reale, nella misura in cui la maggiore efficienza di quest’ultima si deve alla particolare procedura basata sul sistema dei writ e delle forms of actions, procedura che assicurava la certezza dell’intervento della corte centrale nel caso di una presunta violazione del diritto.

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Monarchia risultano maggiormente garantiti, nel momento in cui il common law, prima di essere il diritto dell’autorità centrale, rappresenta il diritto autonomamente creato dalle corti locali mediante il metodo empirico del precedente e dei reports30. L’accentramento del potere di dichiarare la giustizia da parte del re si innesta nelle reti giudiziarie preesistenti e si nutre delle peculiarità del diritto di common law. D’altra parte è bene ricordare come nel periodo premoderno i confini tra attività amministrativa e funzione giudiziaria, nonché tra queste e la funzione legislativa siano molto incerti. Infatti, da un lato, il common law si caratterizza appunto come un diritto che sfugge alla classificazione che distingue tra legge, atto amministrativo, e decisione giudiziaria; dall’altro, la conformazione stessa degli organi istituzionali ricalca questo carattere ibrido: il parlamento stesso viene considerato una corte di giustizia31. Inoltre, si deve anche rammentare come i casi oggetto dell’attività delle corti riguardino in genere controversie circa l’utilizzo e il possesso della terra e i conseguenti rapporti personali legati a tale gestione terriera32. Dunque, si deve pensare alle corti territoriali come a degli organi giurisdizionali che nel dichiarare il diritto espletano in realtà una funzione amministrativa e di governo sull’intera comunità territoriale. Il potere di fare giustizia del re, l’efficacia di questo tipo di processo di centralizzazione, non devono essere intesi come il successo di un accentramento del potere giudiziario in senso moderno, ma deve essere inteso come il successo dovuto ad una particolare razionalizzazione della funzione di governo. Parlare di centralizzazione istituzionale equivale, pertanto, non a fare riferimento alla creazione di un apparato statico organizzato gerarchicamente secondo un modello piramidale, ma ad un processo reticolare aperto, le cui forme istituzionali riproducono i rimedi pratici imposti dalla necessità della risoluzione delle controversie dei casi concreti33. In questo senso deve essere considerata anche l’istituzione della giurisdizione d’equity. Questa in effetti, non si pone in contrapposizione al sistema di common law, ma al contrario quale appendice ausiliare, interviene per integrare il diritto di quest’ultimo nel caso estremo in cui la giustizia del diritto sia messa in discussione da un tribunale di common law34.

30 Come fa notare Mattei «il miracolo del common law è quello di un diritto regio, e quindi comune a tutti i sudditi, nato negli interstizi dei diritti particolari e poi via via sviluppatosi in maniera tale per cui la sua natura di trionfo del centralismo regio non venne mai percepita, se non in misura comparativamente assai limitata». U. Mattei, Common law, cit., pp. 22-23.

31 Cfr. U. Mattei, Common law, cit., pp. 77-78, 249-253; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, cit., pp. 402-415. Per una linea interpretativa che tiene conto della particolare fase di transizione in cui si colloca l’esperienza costituzionale inglese v. il classico N. Matteucci, Organizzazione del potere e libertà, Utet, Torino,1976, in particolare p. 55 dove si specifica il ruolo collaborativo del Parlamento all’interno del sistema dell’antico diritto.

32 Sul ruolo e l’evoluzione di questi rapporti all’interno dell’architettura costituzionale, infra, Parte I, cap. III, par. 3.2.2, 3.3.1, pp. 105-119.

33 Cfr. O. Brunner, Terra e potere cit., pp. 319-330. 34 Cfr. F.W. Maitland, L’equità, Giuffré, Milano, 1979, pp. 3-31. Cfr. anche U. Mattei, Common law,

cit., pp. 31-41, i quali specificano che il sorgere della giurisdizione d’equity è dovuta alla diffusione di una particolare form of action: il trespass. Diversamente, Weber considera lo sviluppo della giurisdizione d’equity come l’introduzione di una valvola di sfogo per il razionalismo formale in contrapposizione ai tribunali di common law. Cfr. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., p. 154-157, 197, laddove individua nell’equity una misura formalistica finalizzata a compensare i limiti del razionalismo del common law, dunque, attribuendo una natura radicalmente distinta a questa giurisdizione rispetto a quella delle corti ordinarie. E’ innegabile il valore politico dello strumento dell’equity, ma tuttavia non si deve ridurre l’azione monarchica a questo livello giurisdizionale, poiché come è stato fatto notare, non solo la centralizzazione abbraccia l’intero sistema di diritto, ma più esplicitamente la Corona si pone costantemente il problema del controllo e della gestione dei tribunali di common law. In ogni caso

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2.3.2. La peculiarità del dualismo inglese. In questo senso il processo di centralizzazione si sviluppa interamente sulla base della trama intessuta da una ragione prettamente giuricentrica35. Questa affermazione peraltro non è in contraddizione con il riconoscimento della qualità politica delle situazioni concrete disciplinate dal sistema di common law. Le corti funzionano come veri e propri luoghi di risoluzione delle contrapposizioni politiche ed economiche della comunità territoriale. Esse dunque, rappresentano il luogo del dispiegamento e della risoluzione del dualismo tra centro e periferia, ovverosia, il luogo in cui viene messa alla prova la dinamica generatrice del processo di centralizzazione, poiché è all’interno di esse che avviene la mediazione conflittuale che produce il nuovo diritto giurisprudenziale. Pertanto, se come si diceva, il Re simboleggia questo accentramento, parimenti i poteri territoriali partecipano allo stesso livello alla determinazione di tale processo di accentramento. L’efficacia e l’equilibrio di questa dinamica creatrice è garantita in primo luogo dall’antica concezione del diritto. L’immutabilità del diritto consuetudinario, ma più in generale la convinzione dell’indisponibilità e della superiorità del diritto garantisce che i rapporti di forza si giochino all’interno delle procedure giuridiche e che l’obiettivo finale della pace e della risoluzione siano solo possibili in quanto riproduzione della giustizia del sistema unitario del diritto, in ultima istanza garantiti comunque dal potere monarchico36. Dunque, se per sovranità si intende il mero esercizio del potere politico, si devono rintracciare una molteplicità di enti sovrani corrispondenti all’azione dei vari soggetti giuridici, ma se per sovranità si deve intendere il concetto moderno di suprema unità

l’erroneità dell’attribuzione di una qualità formale al diritto d’equity - poiché come ricorda Maitland se la radice storica dei due diritti potrebbe far pensare a ciò, l’impossibilità di una delimitazione di due campi e linguaggi specifici e distinti risulta impossibile – Weber coglie la particolarità funzionale dell’equity, consistente nell’immissione all’interno del sistema di giustizia di uno strumento giudiziario in grado di far valere in ultima istanza l’imperium del potere monarchico, confermando peraltro la tesi qui sostenuta di una costruzione del processo di centralizzazione istituzionale interamente sviluppata sul terreno della giustizia.

35 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 76-165. 36 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 321-324, dove viene specificato che è il potere

giurisdizionale territoriale che crea il Land, ma non la signoria territoriale: «in nessun caso può parlarsi di un Land unitario se i Landleute viventi secondo il diritto territoriale non sono esistenti come comunità di giudizio. Essi sono il cuore ed i titolari del Land. Con ciò però non va diminuita l’importanza storica del signore territoriale. Solo la sua politica ha creato o mantenuto i Lander (…) Questo diritto territoriale è un ordinamento giuridico medievale cresciuto da radici germaniche sui cui presupposti spirituali è fondato. Questo diritto territoriale appare agli uomini che sono ad esso soggetti e che lo applicano come il buon vecchio diritto, come la buona consuetudine, come la giustizia semplicemente». Si deve specificare peraltro che la concezione del diritto medievale, l’identità tra diritto e giustizia, presuppone la possibilità e la legittimità di una sfera autonoma di autodifesa e di violenza giuridica necessaria qualora il singolo o il gruppo ritenga violato il proprio diritto. Tale riconoscimento non solo si colloca interamente sul terreno del diritto, ma inoltre si accompagna ad una procedura giudiziaria che porta molto spesso solamente ad una sentenza alla quale non si collega immediatamente l’esecuzione. In Inghilterra il fatto che il sistema faidale ed ordalico venga progressivamente sostituito dalla giuria popolare testimonia la continuità di questo tipo di processo meramente procedurale e azionabile dalle parti, quasi a voler confermare il carattere locale, l’origine comitale, e infine quindi, la funzione politica delle corti giudiziarie.

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politica come assoluta supremazia dell’istituzione monarchica, si deve riconoscere l’inapplicabilità di questo paradigma al caso inglese37. E tuttavia è proprio seguendo questa impostazione che si può individuare nella Monarchia l’istituzione che incarna e che permette il compimento dell’unità del sistema, pur non possedendo né il monopolio della produzione giuridica né quello della decisione politica: innanzitutto vincolando le proprie decisioni al rispetto del diritto fondamentale, ed in secondo luogo operando con giustizia ed equità secondo l’esigenza del caso concreto. La sovranità del diritto va considerata perciò in questa direzione, come superiorità della ragione giuricentrica, ossia non come la superiorità di un apparato istituzionale centralizzato o come la superiorità di un ordinamento formale sistemicamente completo che non ammette al proprio interno il politico, ma come il terreno aperto e condiviso dai soggetti istituzionali che fonda la legittimità dell’azione dei soggetti stessi e che mira alla risoluzione dei rapporti di forza politici38. In pratica, mentre nel continente le forze della democratizzazione alla fine del XVIII secolo si trovano a confrontarsi già con un modello di sovranità intesa in senso moderno, la rivoluzione liberale in Inghilterra non si trova a doversi confrontare con un sistema fondato sui principi dell’assolutismo e del razionalismo formale, ma con un modello di governo misto legato ancora ad una concezione medievale della sovranità, sebbene tale sistema abbia portato a termine una fondamentale e particolare fase di centralizzazione e razionalizzazione istituzionale. Il dualismo tra enti territoriali e potere centrale rappresenta la dinamica che ha generato questo particolare processo di centralizzazione e questa particolare modalità complessa di formazione della decisione politica, per cui, l’interdipendenza tra i vari centri di poteri permette di intendere l’ordinamento in senso unitario, ma allo stesso tempo non riduce la decisione stessa alla volontà dell’organo posto a garanzia dell’unità del sistema39. L’obiettivo della

37 Questa visione ricalca da vicino la definizione di sovranità medievale fornita da Brunner: «Mentre

tuttavia si può indicare con una parola il titolare della sovranità nel principe o nel popolo dell’epoca moderna, è invece necessario descrivere l’intera struttura costituzionale del Medioevo, per giungere alla insignificante conclusione che tutti i suoi membri sono titolari, nel loro insieme, della ‘sovranità’ (…) A me pare quindi anche inopportuno allargare il concetto di sovranità tanto da dichiarare «la decisione su che cosa sia diritto e torto» come sua unica e comprensiva caratteristica. In questo senso esiste sempre sovranità (…) Si è giunti così alla conseguenza, che nel Medioevo sovrano non è né il Principe, né il popolo, né lo Stato, ma il diritto posto al di sopra del popolo e del sovrano». O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 199-200.

38 Cfr. O. Brunner, Terra e potere cit., pp. 196-197. «Se dalla violazione della pace e del diritto sorge la faida, la inimicizia, così dal torto dell’autorità sorge la resistenza contro l’autorità che agisce in modo non conforme al diritto - e tuttavia questo diritto di resistenza è irriducibile ad una formalizzazione - come il dato di fatto della faida non può essere espresso solamente dal diritto di faida - prosegue Brunner - così non si possono identificare del tutto resistenza e «diritto di resistenza» nel senso usuale». Ma non solo. La resistenza compete ad ogni singolo al quale è fatto torto e non solamente alla collettività, nella misura in cui anche quest’ultima non è titolare di un ordinamento giuridico, ma, come il sovrano, rimane soggetta ad un ordinamento ad essa superiore. A riguardo cfr. anche D.E. Luscombe, The state of nature and the origin of the state, in The Cambridge History of Later, cit., pp. 768-770.

39 In definitiva, è la concezione stessa del diritto, ed in particolare del diritto all’autodifesa, a rendere efficace la critica del concetto moderno di sovranità anche nella versione più efficace fornita dal modello schmittiano. La teoria decisionista della sovranità entra in crisi nel momento in cui nel caso di conflitto su cosa sia il diritto non vi è una delimitazione netta tra una sfera dell’autorità e una sfera dell’obbedienza. Ogni soggetto, ogni corpo sociale può agire giuridicamente e praticamente per la garanzia del proprio diritto, nel caso ritenga che questo venga violato. Allo stesso tempo ogni violazione di un diritto soggettivo corrisponde ad una violazione del sistema giuridico che trascende ogni soggetto. Dunque, o si deve riconoscere il fatto che tutti i soggetti non solo sono titolari ma

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centralizzazione istituzionale e dell’omogeneizzazione del diritto sono conseguiti al di fuori del modello continentale del razionalismo formale nella misura in cui tale dinamica non rappresenta il momento transitorio della negazione, necessario per la successiva sostituzione del vecchio ordinamento con il nuovo apparato statuale, ma al contrario rappresenta l’essenza stessa della sovranità, laddove con quest’ultimo termine si intende l’esercizio dei rapporti di forza politici e delle modalità di produzione del diritto40. 2.3.3. Il corpo mistico della Repubblica. Se a questo punto è stato delineato il significato della superiorità del diritto in relazione al processo di accentramento istituzionale, e se parimenti è stata chiarita la possibilità di intendere la sovranità in senso molecolare e frazionato, - ovvero, come l’esercizio della sovranità non dia luogo ad una definizione razionale-formale dell’organizzazione istituzionale - resta tuttavia da vedere come questi due postulati si articolino in relazione al concetto di costituzionalismo limitato. In effetti, resta da capire fino a che punto una tale concezione della sovranità non possa mettere in crisi il principio di unitarietà del sistema rappresentato dalla ragione giuricentrica, ossia, come

esercitano in prima persona la sovranità, o si deve rifiutare in maniera definitiva l’applicazione di questo concetto moderno all’ordinamento medioevale. «Nel Medioevo l’ordinamento giuridico positivo ha valore in quanto identico allo ius naturae, ossia alla giustizia. Decidere in caso di dubbio su cosa sia diritto è questione che non compete esclusivamente al sovrano. Inoltre, sussiste la possibilità di opporre resistenza contro un’autorità che agisca in modo illegittimo. Per tutte queste ragioni si potrà parlare di sovranità del sovrano in senso politico-interno – e cioè di assolutismo – solo nel momento in cui la competenza decisionale spetterà di fatto e in via esclusiva al sovrano medesimo». O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 555.

40 «Abbiamo così descritto il rapporto fra signore territoriale e comunità del territorio nei termini di un agire comune e di un reciproco trattare (…) In seguito a partire dal XV secolo, dopo un periodo di transizione in cui il signore territoriale e la Landschaft tendono sempre più ad isolarsi nelle proprie sfere, collaborando solo occasionalmente, viene affermandosi la nuova forma assembleare della dieta, cui spetta un compito di direzione quale risultante dell’attività di trattativa in corso fra le parti medesime. Le funzioni giudiziarie tendono a divenire qualcosa di annesso all’attività delle diete (…) E nel momento in cui il signore territoriale e gli abitanti si trovano opposti l’uno agli altri nel corso di una trattativa, la Landschaft stessa si trasforma in territorio». Con questa citazione si esaurisce la riproducibilità del modello germanico descritto da Brunner. Infatti, se da un lato il dualismo tra ceti e signore territoriale può essere paragonato al dualismo tra monarchia e corpi intermedi, nella misura in cui questa relazione si sviluppa sul terreno del diritto antico e del costituzionalismo medievale, dall’altro lato si deve rimarcare l’assenza in Inghilterra dell’evoluzione della definizione in senso strettamente territoriale dell’ordinamento giuridico, definizione che aprirà il varco all’imminente egemonia del concetto di signoria territoriale ed alla futura sovranità territoriale in senso moderno. Il dualismo inglese non dà luogo all’accentramento di tipo assolutista che coinvolge gli stati del continente, ma al contrario genera un accentramento di tipo giuricentrico; ovverosia, il completamento della centralizzazione non implica l’eliminazione del dualismo, la subordinazione di uno dei due soggetti all’altro, ma presuppone il dualismo stesso. In pratica, non si tratta, come afferma Brunner, di stabilire chi assume la rappresentanza del territorio, se il principe o i ceti (p. 590), poiché se una dottrina della sovranità verrà elaborata, questa verrà indicata non a caso dalla formula King in Parliament, ossia sarà identificata con l’autorità congiunta delle due istituzioni. Così, in Inghilterra, sebbene il diritto resti intimamente connesso con l’ambito territoriale, tuttavia, l’evoluzione dell’ordinamento seguirà un percorso segnato, da un lato, dal raffinamento del sistema procedurale del common law, dall’altro dall’elaborazione di una complessa visione politica incentrata sui concetti di communitas e di repubblica.

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praticamente l’esercizio dei rapporti di forza politici si possa contenere all’interno dei limiti del diritto. Sul piano costituzionale ciò equivale ad individuare la forma di governo che possa garantire effettivamente la complessità e l’equilibrio di un tale ordinamento, e se, e come tale forma di governo abbia potuto sopravvivere al processo rivoluzionario del XVII secolo41. Da un punto di vista politico e giuridico soltanto il paradigma classico della Repubblica può garantire l’armonia tra la molteplicità dei centri di potere e quindi l’equilibrio di un sistema costituzionale fondato sulla proceduralizzazione delle modalità di conflitto, ma non sulla formalizzazione e omogeneizzazione di un apparato unitario. Muovendo dal primo punto di vista si deve notare come la concezione repubblicana dell’ordinamento si sviluppi a partire da un approccio organologico e corporativo del sistema politico. Secondo questa impostazione il dualismo tra re e ordine cetuale rappresenta la concretizzazione di un dualismo ben più profondo, quello tra il principio di unità e di molteplicità, appartenente alla considerazione dell’ordine divino e naturale42. Questo dualismo non ammette mai una risoluzione definitiva. Se infatti il concetto di unità precede logicamente l’individuazione del concetto di molteplicità, tuttavia quest’ultimo non può essere considerato subordinato a quello. La reductio ad unum del potere politico è possibile soltanto finché il potere centrale riesce a conseguire il bene comune, la giustizia, ossia, fintanto che riesce a seguire le necessità e i bisogni

41 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 187-203, 319-332. Come afferma Brunner, traslare il

concetto di unitarietà del diritto antico al campo strettamente ordinamentale, cioè elaborare una definizione unitaria del sistema istituzionale, equivale ad assumere implicitamente il paradigma moderno della sovranità e della costituzione. Ciò in effetti è possibile seguendo la ricostruzione diacronica fatta da Brunner, nel momento in cui il dualismo tra il signore territoriale e i ceti assume un carattere più istituzionalizzato, ovvero nel momento in cui una determinata concezione dell’esercizio del potere politico e del diritto prende piede. In un’accezione strettamente medioevale, un concetto unitario di costituzione non può essere estrapolato se non ricostruendo l’insieme dei rapporti interistituzionali che avvolgono la vita sociale, rapporti non ordinabili comunque secondo un criterio gerarchico formale. Così, se diversamente il processo di accentramento si sviluppa interamente sul terreno del diritto antico e della sua unitarietà, ovvero, se il dualismo non produce in definitiva una torsione statualista dell’ordinamento, allora si deve analizzare a questo punto che tipo di ordinamento giuridico dà luogo l’antico diritto e la ragione giuricentrica, ossia, si deve individuare la forma costituzionale dell’Antica Costituzione.

42 Cfr. O von Gierke, Les théories politiques, cit., pp. 95-99, 135-150. Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., p. 177, laddove precisa l’accezione con la quale le teorie cristologiche ed organologiche continuino a vivere sul piano politico nella nozione di corpus mysticum. « Per ricapitolare, la nozione di corpus mysticum, originariamente designante il sacramento dell’altare, servì dopo il XII secolo ad indicare il corpo politico, o corpus iuridicum, della Chiesa, il che non esclude la permanenza di qualcuna delle precedenti connotazioni. La classica distinzione cristologica, inoltre fra le due nature di Cristo, ancora così potentemente viva nella teologia dell’Anonimo normanno intorno al 1100, era completamente sulla scena delle discussioni e delle teorizzazioni politiche. Essa era stata sostituita da una concezione corporativa e non cristologica dei Due Corpi di Cristo: l’uno, corpo naturale, individuale e personale (corpus naturale, verum, personale); l’altro, corpo politico e collettivo sovraindividuale, corpus mysticum, visto anche come persona mystica. Mentre il corpus verum, attraverso l’azione del dogma della transustanziazione e dell’istituzione della solennità del Corpus Christi, aveva una propria esistenza e sviluppava un autonomo misticismo, il corpus mysticum vero e proprio venne con l’andare del tempo ad assumere un carattere sempre meno mistico, giungendo infine ad indicare semplicemente la Chiesa come corpo politico o, per traslato, qualsiasi corpo politico nel mondo secolare ».

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molteplici della collettività43. Parimenti, il concetto di molteplicità si traduce sul piano politico in un primo ordine di conseguenze: la prima consiste nell’impossibilità di operare un sintesi secondo un criterio quantitativo delle volontà espresse dal corpo sociale. Diviene così impossibile considerare la collettività come un tutto indifferenziato nel quale la volontà si stabilisce in modo tautologico e mutevole44. Al contrario, la volontà della società si ricava soltanto dall’analisi e dalle ricostruzioni delle volontà dei corpi che materialmente formano l’aggregato sociale, volontà che si delineano immediatamente come volontà politiche. Ciò implica che non è possibile considerare le dinamiche sociali in un’accezione puramente sociologica, ovvero come se fossero svincolate dai processi istituzionali e politici - e quindi costituzionali - che materialmente le attraversano45. In secondo luogo, la considerazione del corpo sociale nei termini della molteplicità determina il fatto che tale molteplicità sia ordinabile soltanto seguendo un criterio qualitativo e mai quantitativo, impedendo in questo modo la possibilità di una reductio ad unum in senso formale della comunità politica. Secondo questa impostazione vanno perciò intesi i concetti di Universitas e di multitudo ordinata, ovverosia i concetti base a partire dai quali viene elaborata la teoria del corpus mysticum46.

43 Cfr. O. von Gierke, Les théories politiques du moyen age, cit., pp. 144-146, laddove viene specificato che l’idea dell’organismo applicata alla teoria politica trova in ogni caso un fondamento (o meglio una legittimazione) nella ragione, nella misura in cui quest’ultima si trova in armonia con la natura e l’ordine divino. «Quand la parfaite union de ces parties, l’optima dispositio, est réalisée, il en résulte pour le corps naturel la santé, et pour l’Etat la tranquillitas. Et, de même que dans un corps bien portant chaque partie remplit parfaitement les fonctions qui lui sont propres, de même, dans un Etat où règne la tranquillitas, chaque partie remplit parfaitement les fonctions qui sont assignées par la raison et par la constitution». Conseguentemente però la sovranità non può essere intesa semplicemente come un diritto, ma prima ancora come un dovere, poiché dipende costantemente dalla legittimità del comando: «la souveraineté n’est donc pas simplement un droit : elle est en premier lieu un devoir ; elle est une mission semblable à celle de Dieu, et d’autant plus difficil à remplir ; elle est une fonction publique, un service qu’il faut rendre au corps social. Le souverain est créé dans l’intérêt du peuple, et non le peuple dans l’intérêt du souverain (…) C’est pourquoi le Moyen Age ignore complètement la doctrine d’après laquelle les sujets auraient un devoir d’obéissance inconditionnelle. Il estime au contraire que le devoir d’obéir dépend de la légitimité de l’ordre donné» (pp. 160-162).

44 Cfr. O von Gierke, Les théories politiques du moyen age, cit., pp. 16-147. «Puis, de cette idée de l’organisme, qui implique une association d’éléments inégaux, on déduit la nécessité de différences dans les rangs, dans les professions et dans les Etats sociaux (stande), de sorte que les individus sont considérés, non pas comme des unités arithmétiques équivalentes, mais comme des éléments du corps ecclésiastique et du corps politique, éléments différenciés et groupés en société».

45 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 157-186. «Per una descrizione oggettiva dello Stato medioevale e della sua costituzione non è però indispensabile soltanto il ricorso a parti considerevoli del diritto amministrativo, bisogna anche ricordare che la consueta distinzione tra «Stato» e «Società» non regge, poiché in quella «società» dei ceti medioevali è già racchiusa una parte rilevante della costituzione. Con ciò diventa molto problematico non solo la distinzione della storia costituzionale dalla storia del diritto del sovrano ma l’intero concetto di una «storia sociale ed economica» come disciplina autonoma, soprattutto se questa vuole essere qualcosa di più di una descrizione delle funzioni economiche del mondo medioevale, se essa, cioè pretende di esporre i «fondamenti», i dati naturali di quella «società» medioevale, sui quali si deve fondare una sovrastruttura «politico-giuridica».

46 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., p. 180. «Baldo, ad esempio, definiva il populus, il popolo, un corpo mistico. Egli sosteneva che un populus non era semplicemente la somma degli individui facenti parte di una comunità, quanto piuttosto «degli uomini riuniti in un corpo mistico, uomini formanti quoddam corpus intellectuale, un corpo o ente collettivo definibile solo intellettualmente, non un corpo reale e materiale. In senso tecnico, il «corpo mistico del popolo» di Baldo sembra un chiaro equivalente di «ente politico», o «universitas», o, per usare il linguaggio di Aristotele e di san Tommaso, di «multitudo ordinata». Proseguendo, Kantorowicz specifica come l’idea di corpus mysticum

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Seguendo questo sentiero il Monarca è la vera e propria corporation sole di questo modello. Se la sua originaria doppia natura dimostra la sua volontaria e contraddittoria subordinazione al diritto, il riconoscimento della sua doppia «corporificazione47» permette il soddisfacimento dell’esigenza del riconoscimento del carattere perpetuo e complesso dell’ordinamento istituzionale da lui rappresentato. In effetti, la distinzione tra la Corona e la persona del Re svolge in primo luogo proprio questa funzione di fornire una personalità giuridica indipendente all’organo monarchico48. In questo forma l’essenza della definizione del governo inglese in quanto riproduce la concezione organologica. Egli infatti afferma riprendendo un passo di Fortescue: «Come il corpo fisico si sviluppa dall’embrione diretto dalla testa, così il regno emana dal popolo che esiste come corpus mysticum governato da un uomo che ne sta a capo» (p. 192). Sull’elaborazione della definizione giuridica di universitas v. F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici cit., pp. 215-235.

47 Il termine è ripreso da E.H. Kantorowicz, I due corpi, cit. 48 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 179-180, 232, «La nozione di corpus mysticum

indicava, in primo luogo, la totalità della società cristiana nei suoi aspetti organologici: un corpo composto dal capo e dalle membra (…) In aggiunta, tuttavia, la nozione di corpus mysticum venne acquisendo alcune connotazioni giuridiche. Essa acquistò un carattere corporativo indicante una persona ‘fittizia’ o ‘giuridica’. Vale la pena ricordare come già Tommaso avesse usato, in alternativa a corpus mysticum, il termine persona mystica, che ben poco differiva dalla persona ficta dei giuristi. In effetti, fu principalmente fra i giuristi, sebbene non solo tra di essi, che l’interpretazione organologica venne affiancata o amalgamata a contenuti di carattere corporatizio, con il conseguente uso della nozione di corpus fictum, corpus imaginatum, corpus rapraesentatum, e simili – come sinonimo insomma di persona giuridica o corporazione». L’originaria applicazione della doppia natura del Cristo al Re assume, dunque, una più complessa definizione in forza dell’elaborazione del concetto dei due corpi del Cristo. La traslazione del concetto di corpo mistico al campo secolare determina l’articolazione di un particolare rapporto tra la monarchia e l’insieme dei corpi sociali. Non solo l’originaria doppia natura del re garantisce che il suo ufficio rimanga sopra e sotto la legge, ossia sopra i singoli cittadini e sotto l’universitas; ma l’applicazione della dottrina dei due corpi del Cristo assicura che un tale tipo di regalità possa abbracciare l’intero corpo sociale. L’evoluzione in senso giuridico del concetto di corpo mistico assicura così la possibilità di considerare all’interno dell’universitas ogni ente sociale. Parimenti, l’istituzione monarchica, costruita a partire dal concetto di doppia natura, risulta ulteriormente legata al corpo sociale. Il re è la rappresentazione dell’unità del concetto di universitas; il corpo mistico è così contemporaneamente unità e molteplicità. La dottrina dei due corpi del re garantisce in questo modo la continuità dell’Universitas non raggiungibile nella mutabilità delle dinamiche sociali, né tanto meno nella sola persona naturale del re. Contemporaneamente però, si deve sottolineare, che, se da un lato la creazione della personalità giuridica fittizia risulta utile al fine della considerazione del ruolo giuridico ricoperto dagli aggregati sociali, e quindi a determinare un particolare rapporto tra autorità e società (v. infra, pp. 78 ss.; Parte I, cap. III, par. 3.2.2, pp. 105 ss.), tuttavia non si deve considerare la creazione della personalità regale come la creazione di un’astratta personalità superiore ai suoi membri. Si tratta infatti di una dottrina dei due corpi, non delle due persone. Ovverosia, non vi è qui la possibilità di considerare la dottrina dei due corpi del re come una particolare dottrina tesa ad affermare lo Stato come persona ficta. Come precisa Kantorowicz, lo Stato è un tutto organico od organologico; il regnum non era ‘personificato’, ma ‘corporificato’. Il re, in quanto espressione massima della visione organologica e corporativa, resta indissolubilmente legato alla sua natura umana ed alla sua figura personale. Il fatto che la teoria della corporazione inglese, ed in particolare la definizione di corporation sole, si basi sulla distinzione re e Corona, implica che la definizione materiale dell’ufficio dell’istituzione si possa ricavare soltanto mediante la descrizione della persona che storicamente ricopre quell’ufficio. Ecco il nucleo della dottrina istituzionale medievale: da un lato vi è la finzione giuridica utile alla costruzione generale del sistema; dall’altro, vi è il carattere umano delle istituzioni che determina sempre una definizione in senso personalistico dell’istituzione stessa e la sua subordinazione al diritto. La monarchia, così, pur presentandosi come trascendente, continua ad essere ricompressa e subordinata in linea di principio al concetto di universitas, poiché essa può esistere come monarchia soltanto finché riesca ad essere la rappresentazione di quell’idea generale. Secondo questa impostazione la teoria della corporazione viene adottata nella sua particolarità storicamente determinata, ossia quale chiave di lettura delle dinamiche e delle relazioni tra i vari gruppi di potere all’interno del contesto del

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modo lo svincolamento della natura di tale organo dalla persona fisica in carne ed ossa testimonia e rafforza il postulato della superiorità qualitativa del diritto rispetto alla volontà particolare del singolo monarca, nella misura in cui la sua istituzione risponde ad un criterio più alto e sublime, ossia quello della giustizia di un ordinamento fondato sulla ragione giuricentrica. Inoltre, sul piano ordinamentale ed istituzionale questa affermazione si traduce nel riconoscimento della stretta connessione che corre tra l’unità rappresentata dall’ufficio del re e la molteplicità dei corpi giuridici e politici ad essa sottoposti49. Praticamente il re, in quanto uomo, non solo risulta subordinato alle imposizioni del diritto positivo (in quanto quest’ultimo peraltro è sempre la manifestazione della legge naturale50), ma, ancor prima, risulta subordinato ai limiti della ragione umana. Egli, in quanto uomo, può sempre sbagliare o essere preda delle passioni51. Soltanto in quanto monarca può derogare ai dettami del diritto positivo, costituzionalismo medievale, e dunque, non viene interpretata come una fase transitoria, la cui negazione in senso privatistico prelude alla futura costruzione della personalità statuale secondo il modello indicato da Gierke. Su quest’ultimo punto v. M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 76-81; v. anche O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 174-176, 325-327.

49 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pp. 308-319. Kantorowicz precisa, citando F. Bacon, che la persona del Re e la Corona non sono mai due entità separate, ma soltanto due concetti distinti: «altro è distinguere le cose, altro è separarle (aliud est distinctio, aliud separatio) (…) la persona del re e la corona erano inseparabili, sebbene distinte». L’essenza della corporation sole risiede proprio nell’unità inseparabile di questi due concetti. In pratica, i dualismi si risolvono sempre in una più suprema unità. Se la contraddizione dell’emanazione della volontà divina del diritto mediante la persona fisica del monarca è originata dalla natura umana del potere politico, e determina la dottrina dei due corpi del re, parimenti, il dualismo tra la persona naturale in carne ed ossa e la persona fittizia della corona risolve tale contraddizione nella misura in cui radica la distinzione dei due corpi in un concetto di unità. Il dualismo cioè, non può essere inteso come opposizione tra principe e principato, o tra il Re e la Corona, poiché lo status regis è ammissibile solo all’interno di quest’ultima. Al contrario, la distinzione tra ufficio e persona garantisce proprio un doppio legame. Da un lato vi è il fatto che la collettività inglese, l’intera universitas, si può ricondurre concretamente ad un’idea di unità solo nell’identità rappresentata dalla Corona; dall’altro, la natura umana della persona del re garantisce che l’istituzione stessa resti entro i limiti del diritto, proprio in quanto incarnazione della molteplicità dell’Universitas sovrana. Se quindi l’intera dottrina si fonda su una prima antitesi generata dal carattere umano del potere politico, antitesi che resta latente nel sistema poiché «il re mortale è creato da Dio, mentre il re immortale è fatto dall’uomo» – infatti, come ricorda Coke «uno è un corpo naturale, e questo corpo è una creatura di Dio onnipotente, ed è soggetto alla morte; mentre l’altro è un corpo politico costituito dalla politica dell’uomo (…) e in questa qualità il re è ritenuto immortale, invisibile, non soggetto alla morte» – parimenti, la sua elaborazione dà luogo ad una teoria che unisce indissolubilmente il corpo sociale ad una idea di istituzione terrena (fondata sul concetto di dignitas che unisce la natura umana del re alla superiorità incarnata nella corona) che trascende la sua stessa composizione umana. Naturalmente poi, sul piano giuridico, il fatto che una opposizione tra i due corpi del re nell’accezione corporativa e statualista tipicamente continentale non sia possibile è dovuta in primo luogo ai caratteri della centralizzazione giuricentrica del common law.

50 Sul carattere limitato della Monarchia in riferimento al ruolo della legge naturale v. anche D.E. Luscombe, The state of nature and the origin of the state, in The Cambridge History of later, cit., pp. 765-768.

51 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit, pp. 387-425. L’origine nella natura umana del potere politico rappresenta l’elemento chiave in grado di svelare il senso più profondo della concezione mistica della repubblica. Nella filosofia medievale il riconoscimento dei limiti della ragione umana va di pari passo con la scoperta delle facoltà razionali stesse. Il limite, in ultima istanza, è segnato dall’originaria caduta dell’uomo a causa del peccato originale. Se questo può rappresentare lo spunto per la dottrina filmeriana, ancora prima rappresenta il caposaldo del corpus mysticum, nei termini in cui l’esigenza delle istituzioni politiche si deve proprio alla caduta, e nella misura in cui la superiorità del diritto e l’indipendenza della corona dalla persona naturale del re testimonia l’imperfezione che avvolge anche quest’ultimo. Kantorowicz descrive questo aspetto della dottrina politica repubblicana utilizzando Dante. Questi afferma che se è vero che l’imperfezione dell’umanità è originata da Adamo,

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soltanto cioè nella misura in cui, l’optima dispositio, l’articolazione delle necessità del corpo sociale non ipostatizzabile in una forma istituzionale definitivamente costituita, determina la necessità giuridica di derogare alla legge positiva al fine dell’adattamento ai dettami della legge naturale. Dunque, solo nel caso del perseguimento del bene comune e quindi sempre nel caso dell’esigenza di un raccordo ed armonizzazione con i mutati bisogni e forme del corpo sociale il monarca deve discostarsi dal rispetto della consuetudine52. Ma non solo. La distinzione tra due corpi, l’uno naturale (la persona fisica del re) e l’altro politico (riconducibile all’intera universitas), risponde alla precisa esigenza di vincolare la mutevolezza e l’organicità della società ad un’idea unitaria ed immutabile. La monarchia diventa l’immagine, il corpo sacro e immortale, che incarna il postulato per cui il pensiero procede dal concetto di unità, ma si materializza sempre in unità singolari, irripetibili e sempre mutevoli53. Seguendo questa impostazione, la considerazione del governo misto e della relativa forma repubblicana non solo si rende compatibile con il principio monarchico, ma

allora è altrettanto vero che l’umanità serba dentro di sé anche Adamo e la sua perfezione, il suo status subtilis, ovverosia tale riconoscimento implica per Dante la possibilità della beatitudine e del buon governo nella vita terrena. E dunque, se a questo punto è possibile, come ammette Dante, concepire il genus humanum come un corpo unico, al pari dell’universitas dei giuristi, e se parimenti, Adamo rappresenta la prima e autentica corporation sole, al contempo individuo e specie (l’umanità), allora è possibile riportare tale considerazione alla questione aperta circa la natura e la potenzialità del modello repubblicano. Per ora è sufficiente osservare come anche l’impostazione dantesca consideri il potere politico soltanto quale emanazione dell’umanità (universitas), permettendo così una dottrina della corporation sole soltanto in quanto si basi su questo postulato, ed in quanto risulti subordinata ai limiti, ovvero alla potenzialità, della ragione e della filosofia. «E’ dunque evidente che la più alta potenza dell’umanità è la potenza o facoltà intellettiva. E poiché cotale potenza non può ridursi in atto tutta quanta insieme per mezzo di un sol uomo o d’una sola (…) della particolari comunità, è necessario vi sia una moltitudine (multitudo) nel genere umano, per mezzo della quale tutta questa potenza venga attuata». (Averroè, citato da Dante, il quale a sua volta viene citato da E.H. Kantorowicz, I due corpi, cit., p. 405).

52 La concretizzazione del postulato della superiorità del diritto si basa quindi sul piano ordinamentale sulla relazione complessa che avvolge la monarchia al corpo sociale. Da un lato il re in quanto persona naturale non è che un soggetto dell’universitas, ma dall’altra, in quanto ‘testa’ del corpo politico rappresenta il corpo intero nella sua unità e perfezione. La peculiarità della regalità politicocentrica inglese premoderna, non si ricava da una supposta ripartizione funzionale del governo, ma risiede nell’ambivalenza della relazione che lega la monarchia con il complesso dell’ordinamento, relazione che si traduce sul piano pratico e costituzionale nel carattere limitato dell’azione monarchica e in un particolare inquadramento costituzionale dell’istituzione monarchica stessa. «Princeps maior singulis, minor universis, il principe è maggiore dei singoli cittadini, ma minore della loro totalità. Fortescue sembra aver guardato ad idee analoghe al momento di dar vita alla propria dottrina sull’Inghilterra regale e politica. Il suo re era superiore e inferiore al corpo politico del regno, proprio come il re del XIII secolo era superiore e inferiore alla legge». E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., p. 198.

53 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., p. 328. Una formalizzazione istituzionale in senso corporativo delle istituzioni che collaborano al governo del regno non solo è superflua, ma può indurre un fraintendimento circa la vera relazione di tipo sostanziale che corre tra la monarchia e il corpo sociale in forza della dottrina del corpo mistico. Infatti, come precisa Kantorowicz, «la Corona era raramente ‘personificata’, ma molto spesso ‘corporificata’. Paragonabile al corpus mysticum, la Corona era e rimaneva un corpo complesso, un corpo politico che non era separato né dalla propria regale testa, né dalle proprie membra rappresentate dai corresponsabili dello status coronae. In chi fossero da identificare queste membra dipendeva dal momento: esse erano talvolta i consiglieri, talvolta i nobili, talaltra i Lord insieme ai Comuni in Parlamento (…) Certo la Corona era individualmente sempre presente nel re; ma la Corona poteva anche diventare una quasi corporation ad hoc, ai fini della tassazione, giurisdizione o dell’amministrazione».

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muove appunto da questo postulato54. Conseguentemente, la forma repubblicana può essere intesa soltanto in senso sostanziale, ovvero, non è possibile fornire una descrizione dei rapporti interistituzionali che prescinda da un’analisi sostanziale dei rapporti materiali che contraddistinguono le dinamiche sociali-corporative55. Inoltre, alla base di questa impostazione vi è una particolare concezione di costituzione e del rapporto tra autorità e società. In effetti il rapporto, tra l’insieme delle corporazioni e degli enti intermedi, e la monarchia, non riproduce un tipo di dialettica fondata sulla distinzione moderna tra stato e società, ma al contrario si fonda sulla fusione di questi due ultimi concetti56. Infatti, da un lato il monarca assume una definizione complessa e antropocentrica, per cui la finzione giuridica che determina la perpetuità dell’istituto risponde al limite umano che incontra materialmente il re nella sua opera di governo, e dunque si può affermare che la corporation sole, in quanto si basa sul concetto di doppia natura, non può rappresentare l’istituzione giuridica perfetta, perché essa serba in sé e non può eliminare la sua natura umana e sociale57. Dall’altro lato, l’articolazione del concetto di società è possibile soltanto nella misura in cui tale concetto si definisce a partire dalle qualità politiche e giuridiche dei corpi che compongono l’aggregato sociale. E’ evidente che questo tipo di approccio, in quanto qualifica la natura dei corpi sociali secondo il loro ruolo e le loro funzioni politiche e giuridiche, implica il riconoscimento del fatto che ogni soggetto sociale è in una certa

54 V. anche H.A. Lloyd, Constitutionalism, cit., pp. 258 ss, 273-283. 55 Cfr. O. von Gierke, Les théories politiques, cit., pp. 152-166. La monarchia, quale rappresentazione

dell’unità, si pone così all’interno del modello repubblicano del governo misto in grazia del postulato fondamentale della teoria della sovranità del Medioevo che impone che il comando politico dipenda costantemente dalla sua legittimazione effettiva. In Inghilterra la teorizzazione di questo postulato si ha nella dottrina dei due corpi del re, laddove si prefigura il carattere sostanziale del vincolo che intercorre tra la Corona e il corpo politico.

56 Per Brunner studiare la storia del diritto costituzionale del Medioevo impone di abbandonare gli schemi concettuali della scienza giuridica del XIX e XX secolo, nei quali la maggior parte delle ricostruzioni storiografiche regolarmente incappa. In particolare si devono abbandonare i due assiomi che formano la base della scienza giuridica moderna: la scissione tra stato e società e la distinzione moderna tra diritto pubblico e diritto privato (derivante in linea di principio dall’assioma precedente). «Va tenuta ferma la separazione tra lo «Stato» a partire dall’assolutismo ed il più antico concetto di Respublica, di comunità, che è stato presente in tutta la più antica tradizione di pensiero sino alla svolta fra il XIX e il XX secolo e che sopravvive ancora nella dottrina cattolica dello Stato nella misura in cui quest’ultima mantiene i suoi antichi fondamenti originari. Se nel XIX secolo lo «Stato» può essere contrapposto alla società, al popolo, in S. Tommaso ed in Francisco Suarez si dice: la «respublica» è la «societas civilis» ovvero il popolo organizzato, che vengono studiati da una scienza unitaria chiamata «politica». «Civilis» non è l’opposto di «politico», di cui anzi era originariamente la traduzione, ma di «naturalis». Alla «societas civilis», alla società civile non si contrappone lo Stato, ma la situazione naturale del «bellum omnium contra omnes». Solamente dopo la metà del XVIII secolo, Stato e società civile cominciano poco a poco a separarsi come forme autonome di organizzazione e la dottrina del «comune» (Gemeinwesen), della «respublica» (polis), la politica – alla quale era stata fino allora affiancata la economia come dottrina generale della casa – si scinde nel dualismo di dottrina dello Stato e di dottrina della società (sociologia), accanto alle quali contemporaneamente sorge l’economia politica come dottrina del mercato nell’ambito dello Stato, non più come dottrina della casa». O. Brunner, Terra e potere, cit., p 163.

57 Inoltre, il diverso rapporto tra autorità e società risulta inevitabilmente connesso con il diverso rapporto tra pubblico e privato testimoniato in primo luogo dal carattere ibrido della monarchia. Su questo punto v. anche oltre al citato Brunner e al dibattito sviluppato in, Terra e potere, cit., intorno alla qualificazione secondo la coppia pubblico/privato dell’essenza della sovranità territoriale, D.E. Luscombe, The State of nature and the origin of the state, cit., pp. 767-768. Sulla distinzione pubblico/privato diffusamente infra Parte I cap III, par. 3.1, pp. 91 ss., par. 3.2.2, pp. 106 ss.

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misura anche un soggetto autoritativo ed istituzionale che ricopre una porzione delle funzioni di governo ed esercita una frazione della sovranità58. Se quindi si deve individuare un concetto originario e unitario di sovranità, questo va rintracciato nel concetto di universitas e di multitudo ordinata, sebbene poi, praticamente, tale individuazione non miri mai sul piano giuridico a stabilire una distinzione tra governante e governato, ossia tra una sfera autonoma dell’autorità sovrana e una privata della società civile, ed ancor meno perciò, tale individuazione permette di formalizzare in senso funzionale l’articolazione istituzionale del potere sovrano59. La società va dunque intesa non come il luogo del prepolitico e neanche come fonte della sovranità politica, ma come lo spazio, mai liscio e totalmente pacificabile, nel quale viene esercitato dai vari soggetti il potere politico. L’unitarietà di un tale concetto di sovranità e conseguentemente anche la possibilità di considerare in senso unitario l’ordinamento, può discendere direttamente solamente dal riconoscimento della superiorità e della giustizia del diritto. Se sul piano giuridico tale superiorità faceva prevalentemente riferimento al carattere consuetudinario ed alla connessione tra diritto positivo ed ordine naturale delle cose, sul piano politico il fondamento di quel tipo di diritto naturale si riconnette più direttamente ad un modello di trascendenza basato sulla capacità della monarchia di incarnare la mutevolezza e la superiorità del corpo mistico della repubblica. Il concetto di corporation sole si inserisce così all’interno di questo contesto. Il re viene ricondotto all’interno del concetto di universitas, sotto il profilo giuridico in quanto egli è sopra e sotto la legge, e sotto il profilo politico in quanto egli risulta superiore al singolo e inferiore alla totalità. In questo senso il vincolo che si viene a determinare tra la monarchia e il corpo politico non è un vincolo di rappresentanza né in senso moderno, né tanto meno nel senso della delega. La complessità del corpo mistico della repubblica secondo questi schemi non ammette rappresentabilità. Diversamente il re, in quanto corporation sole, ovvero in quanto incarnazione della trascendenza dell’origine del potere politico e della superiorità del diritto è soltanto la rappresentazione del corpo politico, o meglio, è la rappresentazione

58 E’ evidente come da questo tipo di analisi emerga il ruolo centrale ricoperto dall’evoluzione dei

rapporti feudali all’interno del processo di modernizzazione inglese. V. infra, Parte I, cap. III, par. 3.2, pp. 98-107. Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 157-186. «Infatti quei ceti che vengono considerati preesistenti alla costituzione dello Stato, in quanto ‘società’ naturalmente data, sono in realtà gruppi di potere locali. I loro diritti, che essi esercitano nelle Diete (Landtage), non vanno intesi dal punto di vista di una costituzione concepita in senso moderno che non solo deve essere stata liberale ma anzi era cetuale, ma devono essere spiegati in primo luogo partendo dalla posizione giuridico-costituzionale di questi poteri locali nel territorio (im Lande)».

59 Ciò naturalmente non significa riconoscere una situazione di autogoverno della società, poiché, come specificato, non si tratta di eliminare la sfera dell’autorità, ma soltanto di riconoscere che l’articolazione delle due sfere dell’autorità e della società non sono scisse e distinte qualitativamente, ma al contrario si fondono in una relazione consustanziale. Così, se viene meno da un punto di vista giuridico la distinzione tra governanti e governati, egualmente non si può dire della distinzione tra dominanti e dominati. Al contrario, proprio le peculiarità dell’articolazione corporativa della società testimonia come il conflitto e i rapporti di forza tra questi due poli animi la definizione delle dinamiche politiche e giuridiche, sebbene senza dar luogo ad una formalizzazione dei ruoli. In altri termini, il fatto che la forma repubblicana riposi su un vincolo di tipo sostanziale non implica necessariamente l’assenza di una dimensione formale. Diversamente però la dimensione formale si ricava solamente sulla base della determinazione sostanziale dei rapporti politici. La forma, dunque, non si eleva a determinante dell’unità, poiché questa resta un’unità sostanziale, sebbene continui a rappresentare il nesso tra ragione e società, tra diritto e storia. Cfr. anche H.A. Lloyd, Constitutionalism, cit., pp. 273 ss.

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monocratica che garantisce la vigenza di una concezione in grado di interpretare in senso unitario l’articolazione della società60. La fissità e la perpetuità della Monarchia rappresentano il corollario che chiude il cerchio di questa visione. Infatti, l’immortalità della Corona si pone quale elemento necessario a fronte della mutevolezza dei rapporti interistituzionali che contraddistingue il corpo repubblicano61. Ciò, non solo perché tradizionalmente la continuità monarchica si connette con un principio di conservazione dell’ordine costituito, ma più propriamente perché la monarchia, nella misura in cui la sua istituzione è legata alla rappresentazione ed alla superiorità dell’unità del corpo politico, nonché alla tutela della giustizia del diritto, può funzionare all’interno delle crisi come principio di rilegittimazione dell’intero ordinamento. In pratica essa può funzionare come arbitro e mediatore degli attriti, in maniera da contenere all’interno dei limiti del diritto i conflitti stessi. La qualità del processo di accentramento istituzionale è data dunque, da un lato, dal ruolo costitutivo ricoperto dai corpi intermedi, dall’altro dalla capacità del potere monarchico di inserirsi all’interno delle dinamiche interistituzionali per riaffermare l’appartenenza ad un comune sistema di diritto e di giustizia. L’accentramento si misura perciò in relazione a questa attività di mediazione attraverso

60 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pp. 331-339. Per comprendere l’identità perpetua del corpo repubblicano incarnata dalla Monarchia si deve pensare alla fenice. Questo animale mitologico, (non a caso raffigurato in un medaglione coniato nel 1649 dai realisti inglesi), può essere interpretato come una autentica corporation sole, in quanto rappresenta l’unico caso in cui specie ed individuo coincidono, ossia il caso autentico in cui la specie immortale, il corpo politico della repubblica, coincide pienamente con la sua mortale individuazione nel corpo del suo capo. La fenice raffigura nel modo più appropriato il significato della perpetuità della Corona, ovvero la rappresentazione unitaria di una pluralità di soggetti necessaria a dar vita alla corporation, che non si sviluppa però in uno spazio dato, ma viene determinata esclusivamente dal tempo. Infine si v. anche in riferimento al tema della rappresentazione nella fase ‘post-medievale’ il classico J. Huizinga, Autunno del Medioevo, Bur, Milano, 2006.

61 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., pp. 234-268. L’elemento che permette di descrivere la corporation in maniera definitiva come un ente giuridico autonomo, non è, come già accennato, la sua spersonalizzazione, ma diversamente, la sua continuità nel tempo. Naturalmente, le teorie organologiche formano la base di questa definizione, ma tuttavia soltanto nel momento in cui all’illimitata dimensione temporale dell’universitas si associa giuridicamente il riconoscimento della sua immortalità, soltanto allora, è possibile garantire la continuità del corpo repubblicano attraverso la rappresentazione dell’unità del suo concetto per mezzo della corporation monocratica del re. Viceversa, quest’ultima acquista un carattere di perpetuità solamente nella misura in cui la sua persona giuridica viene definita in relazione alla successione nel tempo dei propri membri, e nella misura in cui è la rappresentazione sostanziale dell’idea dell’intera Universitas. Filosoficamente, una tale dottrina giuridica basata sul carattere diacronico delle proprie istituzioni è ammissibile nel momento in cui si sviluppa una determinata concezione del tempo storico legata al concetto di aevum. In breve, tale concetto si può identificare nel riconoscimento dell’infinità temporale del processo storico. L’aaaevum si pone quale via di mezzo tra i due concetti opposti di aeternitas e di tempus. Il tempus rappresenta il tempo della transitorietà e della finitezza identificabili con la precarietà della vita umana. Al contrario l’aeternitas rappresenta il concetto di infinità temporale non definibile mediante il criterio temporale stesso; è il tempo di Dio, atemporale, o nella versione di Dante: «il punto a cui tutti li tempi son presenti». Diversamente, l’aevum rappresenta un concetto limite per la razionalità umana, ma comunque un concetto terreno e dunque utilizzabile dall’uomo. In questo senso la nozione di aevum fa riferimento ad un limite trascendentale: è possibile interpretare e leggere l’infinità del processo storico con gli strumenti della diacronicità razionale del passato e del futuro, del movimento in sé, restando tuttavia subordinati ad un concetto di infinità che in qualche modo sovrasta la capacità razionale del singolo. Seguendo questa impostazione è così possibile riconoscere il carattere di perpetuità della corporation, ossia è possibile riconoscere la sua qualità di preservare l’identità nonostante i mutamenti, e dunque di conseguenza, ascrivere il carattere dell’immortalità dal punto di vista giuridico.

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la quale il re agisce al fine di controllare e regolare i conflitti politici62. Il risultato di questa mediazione non solo è garantito dalla particolare concezione della Repubblica come corpo mistico, ma ancor prima, è testimoniato dall’efficacia dell’azione della ragione giuricentrica nel processo di centralizzazione63. Infine, il postulato dell’immortalità dell’istituto monarchico si riconnette al fondamento immemorialistico del diritto. In definitiva, una tale concezione basata sull’eternismo non solo si ricollega con il principio di legittimazione dell’Antica Costituzione, rispondente ad un’obbedienza fondata sulla tradizione, ma sulla base della definizione del modello del corpo mistico permette paradossalmente di assorbire il mutamento dei rapporti interistituzionali e del diritto all’interno dello stesso paradigma repubblicano, nella misura in cui la definizione di quest’ultimo si fonda sul principio «dell’identità nel e attraverso il mutamento». Il modello dell’Antica Costituzione rappresenta dunque un paradigma in grado di adattarsi ad una complessa teoria del potere politico64. In primo luogo il principio di

62 Il carattere di mediazione dell’azione monarchica sembra ricevere una conferma indiretta dal

mancato sviluppo di una duratura e strategica alleanza con una o più determinate classi sociali. A differenza delle esperienze continentali, nelle quali il potere monarchico si è costantemente appoggiato sul consenso di determinati strati sociali, (attraverso il processo di burocratizzazione o di curializzazione di intere fasce sociali), in Inghilterra le alleanze hanno seguito un andamento variabile rispondendo soprattutto alle esigenze dettate dalla contingenza storica. Sul punto v. B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Einaudi, Torino, 1969, pp. 5-124, 510-545.

63 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re cit, p. 269-386. A questo punto si comprende l’affermazione “il re come re non muore mai”, e soprattutto l’altra “uccidere il re per difendere il re”. In definitiva, la connessione tra l’identificazione del corpus mysticum repubblicanum nella persona ficta della corona e la costruzione giuridica di una personalità che si riproduce in modo perpetuo nel tempo grazie alla successione dei propri membri e al legame sostanziale con il corpo politico determina l’immortalità del principio sovraindividuale a fondamento della stabilità e condivisione del sistema: la dignitas. «Come il corpo serve da strumento dell’anima, in quanto questa è il motore del corpo», così il re diviene strumento della dignitas: «la persona del re è l’organo e lo strumento dell’altra persona che è intellettuale e pubblica (…) è questa persona (ossia la dignitas) che causa le azioni in via principale; maggiore attenzione si presta infatti all’azione, e al potere principale piuttosto che a quello principale» (p. 381). Il re diviene in questo modo “strumento animato” della divinità, nella misura in cui questa concezione del corpo politico dell’Universitas contiene già in nuce il postulato che sarà poi sviluppato nel seguito dell’evoluzione politica e filosofica del concetto di sovranità: “populu faciente, Deus ispirante”. La connessione tra questi due termini indica l’immanenza nella quale viene calata la filosofia politica e l’idea di trascendenza alla base di questa dottrina, e d’altra parte tale connessione conferma il carattere sostanziale del vincolo tra Re e corpo sociale nonché la funzione necessariamente escatologica ricoperta dalla rappresentazione unitaria della Repubblica. «Tuttavia, poiché la vita evidenzia i propri contorni solo sullo sfondo della morte, e questa sullo sfondo di quella, la macabra vitalità del tardo Medioevo non pare priva d’una profonda saggezza. Assistiamo in quel periodo alla costruzione di una filosofia secondo cui una immortalità fittizia veniva a definirsi attraverso un uomo reale e mortale quale sua temporanea incarnazione, mentre l’uomo mortale si definiva grazie a quella nuova, fittizia, immortalità che, essendo creata dall’uomo come sempre lo è l’immortalità, non era né quella della vita eterna nell’altro mondo, né quella della divinità, appartenendo invece a un’istituzione politica assolutamente terrena» (p. 375).

64 Il legame tra il concetto di Antica Costituzione e quello di corpo mistico della Repubblica è sottolineato da molti autori. Oltre a Pocock, La Repubblica, cit., pp. 587 ss., si v. M. Loughlin, Constituent Power Subverted, cit., pp. 23 ss.; Q. Skinner, Political Philosophy, in C.B. Schmitt (a cura di), The Cambridge History of Renaissance Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, pp. 389-395, 442-452; H.A. Lloyd, Constitutionalism, cit., pp. 258-283; M. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 51-56, il quale peraltro se da un lato riconduce tale concezione repubblicana ad una derivazione artistotelica, dall’altro puntualizza che la successiva riarticolazione ancora in senso repubblicano della Costituzione

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legittimazione del diritto e dell’ordinamento, non identificandosi con una determinata organizzazione istituzionale formale, è in grado di fondarsi su un’idea di immutabilità e immemorialità, e di essere indifferente allo stesso tempo alla variabilità dei rapporti di forza interistituzionali che contraddistinguono le dinamiche dei corpi sociali. In secondo luogo l’Antica Costituzione non può essere ricompresa da un punto di vista istituzionale-organizzativo all’interno di nessuno dei paradigmi moderni, in quanto la definizione della Repubblica può seguire soltanto il criterio sostanziale dell’analisi e della ricostruzione della molteplicità delle forme politiche ordinate secondo la dottrina del corpo mistico. Inoltre, tale definizione in senso sostanziale della costituzione si basa su un rapporto tra autorità e società radicalmente diverso dal concetto continentale e moderno di costituzione. Laddove quest’ultimo si definisce a partire dall’autonomia della sfera statuale e giuridica dalle dinamiche sociali, e dalla conseguente spoliticizzazione di queste ultime, l’idea di antica costituzione rappresenta l’asse portante dell’ordinamento nei termini in cui la sua definizione muove dal carattere costituzionale che contraddistingue le dinamiche sociali e corporative. In questo senso, la monarchia, nel suo aspetto formale, simboleggiato dall’immagine di perpetuità e di fissità, rappresenta solo l’ultima creatura del diritto, basata completamente sul concetto di fictio giuridica, a fronte della materialità della strutturazione della forma repubblicana fondata sugli effettivi rapporti giuridici interistituzionali del corpo sociale. Allo stesso tempo però, la Corona, nel suo essere fictio e rappresentazione, simboleggia la perfetta unità sostanziale, poiché risponde all’esigenza di tenere in connessione le molteplicità dei corpi sociali all’interno del particolare universalismo delineato dall’ontologia dell’universitas. Infine, se la teoria corporativa fornisce la dose necessaria di trascendenza al fine della preservazione della superiorità del diritto, si deve riconoscere come l’antica costituzione funzioni come una vera e propria forma costituzionale. Tale modello nel riprodurre il paradigma repubblicano del governo misto si dimostra vincente ed in grado di funzionare effettivamente in maniera unitaria in grazia essenzialmente delle qualità del common law. In effetti l’importazione dei concetti delle teorie corporative ed organologiche, e la supremazia materiale della ragione giuricentrica sembrano rappresentare la vera miscela che ha permesso l’efficacia e lo sviluppo del particolare processo di centralizzazione istituzionale. Il dualismo tra autorità centrale e corpi intermedi rappresenta dunque la dinamica essenziale per comprendere le modalità dell’esercizio del potere sovrano. Il fatto che tale dualismo non rappresenti un momento transitorio e negatorio, come nel caso continentale, ma al contrario funzioni come paradigma necessario per la comprensione dell’intera architettura costituzionale testimonia la particolarità del processo di modernizzazione inglese. Da un punto di vista strettamente giuridico si è visto come questa dinamica dualistica intervenga quale dispositivo della produzione del nuovo diritto centralizzato; da un punto di vista prevalentemente politico la centralità di tale dinamica rappresenta il carattere costitutivo principale di un modello repubblicano di tipo corporativo ed organologico, ordinato secondo una linea orizzontale dalla molteplicità e mutevolezza delle forme interistituzionali, e secondo l’asse verticale della perpetuità nel tempo, possibile grazie al vincolo identitario del corpo mistico della Repubblica con la Corona. postrivoluzionaria può avvenire soltanto nella misura in cui le idee del contrattualismo (sostanzialmente attraverso il pensiero lockeano) abbiano compiuto al tempo stesso una rottura e una riconciliazione con l’aristotelismo.

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Sul piano ordinamentale ciò permette di definire l’Antica Costituzione come un modello costituzionale aperto e limitato, fondato idealmente sulla superiorità dell’antico diritto e materialmente su un concetto di equilibrio derivato dalla natura repubblicana di tale modello. 2.4. Il costituzionalismo repubblicano come oggetto di ricerca. La lotta tra Monarchia e Parlamento che contraddistingue il XVII secolo si inserisce all’interno di questo contesto65. Innanzitutto secondo questa impostazione la conflittualità di tale dualismo non rappresenta un’anomalia destabilizzante, ma al contrario rappresenta, da un punto di vista funzionale, l’asse portante dell’ordinamento repubblicano organizzato su un’idea di equilibrio66. Tuttavia nel corso del seicento il conflitto tra le due istituzioni assume una diversa connotazione in grado di pregiudicare l’equilibrio e il carattere limitato del vecchio costituzionalismo, rappresentando la trama intorno alla quale si sviluppano gli eventi rivoluzionari. Il dibattito sull’individuazione dell’origine del common law, e sul piano politico, i tentativi di costruire una dottrina assolutistica della sovranità, ma più concretamente gli attacchi sferrati dalla Monarchia ai privilegi del Parlamento, mettono in discussione non solo l’equilibrio di potere tra le due istituzioni, ma l’esistenza stessa di una ripartizione del potere67. In particolare l’ascrizione dell’origine del diritto alla monarchia si traduce sul piano interistituzionale nella dipendenza e nel carattere curiale del parlamento. Ma non solo. Su un piano ordinamentale tale riconoscimento avrebbe comportato la delegittimazione dell’intera Repubblica nel momento in cui ciò avrebbe pregiudicato l’antico principio della superiorità del diritto. Parimenti, l’affermazione di una volontà legiferante autonoma da parte del Parlamento si pone precisamente sullo stesso livello di delegittimazione68. A questo punto si tratta di individuare il limite varcato il quale la crisi tra Re e Parlamento conduce verso un nuovo approdo ordinamentale, o il limite fino al quale si estende il paradigma repubblicano, ovverosia, fino a che punto l’anakyklosis polibiana

65 In questo senso, ed in diretta connessione con il problema della definizione del potere costituente

nel Seicento inglese, M. Loughlin, Constituent Power Subverted, cit., pp. 28-33. in generale sull’influenza del modello repubblicano nel Seicento inglese ed europeo v. anche (oltre ai citati Pocock e Skinner), B. Worden, English Republicanism, in The Cambridge History of Political, cit., pp. 443- 478.

66 Sul concetto di costituzione come equilibrio v. anche, oltre alle citati voci inglesi, M. Fioravanti, voce Stato (storia) cit., pp. 740 ss.

67 Questo concetto è ricostruito molto chiaramente da Pocock con le parole di P. Hunton: «penso, infatti, nella mia parte del mio trattato di avere messo in chiaro che il contrasto di importanza decisiva che sorga tra i tre stati legislativi non può avere in un governo misto un giudice legittimo e costituito. Infatti quando insorge tale contrasto colui che afferma che i sudditi sono obbligati ad ottemperare al giudizio del re contro quello del parlamento viene a distruggere quello che è un governo misto e a tramutarlo in regime assoluto. E colui che afferma che i sudditi sono obbligati a secondare il giudizio delle due Camere contro quello del re fa subentrare alla monarchia un’aristocrazia o una democrazia, a seconda dell’istanza o istituzione a cui si attribuisce la parola finale. Invece io sostengo come una verità evidente che in un governo o regime misto non si deve attribuire a nessuno degli stati alcun potere che direttamente o per conseguenza necessaria venga a distruggere la libertà degli altri». J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano, II, La Repubblica nel pensiero politico anglosassone, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 633-634.

68 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica nel pensiero politico anglosassone, cit., pp. 625 ss.

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non si tramuti in una mutatio definitiva della natura stessa della repubblica69. In effetti il mutamento non può essere rintracciato semplicemente nella retorica rivendicativa delle due istituzioni. Al di là della retorica politica mascherata dietro la reinterpretazione in senso formale dell’origine del diritto, praticamente, né il parlamento costituisce un organo di rappresentanza degli interessi generali in senso moderno, né tanto meno le velleità assolutistiche della monarchia possono determinare il mutamento del paradigma organologico e dualistico sul quale è costruito l’equilibrio repubblicano. In questo senso una interpretazione lineare si riduce ad un interpretazione medievalista incapace di spiegare la genesi del nuovo paradigma moderno; mentre una interpretazione secondo il criterio della discontinuità storica risulta ugualmente impraticabile nella misura in cui ridurrebbe la spiegazione del mutamento alla retorica rivendicativa ed alle cause contingenti della crisi. In verità, la portata dei mutamenti istituzionali e della crisi politica è la manifestazione del mutamento profondo del paradigma repubblicano determinato dall’irruzione della ragione nella storia. L’effetto di questa irruzione si manifesta in primo luogo nella diversa interpretazione della ripartizione del potere all’interno dell’ordinamento repubblicano. Tuttavia sotto questa prima angolatura il nuovo ruolo della ragione nella vita politica non pregiudica la sopravvivenza del paradigma repubblicano e permette di continuare ad intendere la dinamica tra re e parlamento all’interno di tale paradigma. Nonostante la retorica politica, dunque, la lotta tra Re e Parlamento non è che la lotta per l’egemonia all’interno dell’equilibrio repubblicano. In questo senso, il nuovo ordinamento postrivoluzionario sembra tener conto sia dei conflitti avvenuti sia delle nuove forme di razionalità, nella misura in cui il nuovo ordine sembra ispirato ad una riorganizzazione in senso funzionale dei tre poteri originali della repubblica70. In effetti, è indubbio che il nuovo equilibrio interistituzionale riproduca la vecchia ripartizione repubblicana mutata in senso funzionalista. Il re rappresenterebbe uno dei tre poteri originari, ai quali ora la nuova divisione affida prevalentemente una funzione esecutiva; il Parlamento, in quanto rappresentante della volontà collettiva eserciterebbe la sovranità nella forma dell’attività legislativa; infine i Lords, i saggi, in quanto rappresentanti dell’aristocrazia eserciterebbero la funzione giudiziaria71. La progressiva stabilizzazione e indisponibilità dei nuovi equilibri testimonierebbe, peraltro, la persistenza della vecchia concezione della superiorità del diritto fondamentale e della relazione di tale separazione di poteri al modello del governo misto repubblicano. Inoltre, il carattere consuetudinario e storico del common law, e la mancata formalizzazione dei nuovi rapporti, nonché la mancata torsione in senso statualista dell’ordinamento, confermerebbero infatti la persistenza del vecchio paradigma repubblicano modificato soltanto parzialmente dall’irruzione dei principi del

69 Sul punto infra, Parte II, cap. I, par. 1.2, pp. 143-148. Su mutatio e anakyklosis v. A. Negri, Il Potere

Costituente, cit., pp. 127-141. 70 Cfr. infra, Parte I, cap. III, par. 3.3.2, pp. 119-123; Parte II, cap. II, par. 2.3.2, pp. 209-226. 71 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., p. 629: «(…) e questo poi sembra, in una considerazione

retrospettiva, un passo avanti verso la teoria politica di tempi successivi: quella in cui si venne a stabilire una equazione tra «governo misto» e «separazione dei poteri», con l’attribuzione ai lords di una funzione giudiziaria; e ciò mentre si cercava di tenere separate le tre funzioni – legislativa, giudiziaria ed esecutiva – in un modo che palesava con tutta chiarezza quanto la monarchia parlamentare inglese maltrattasse l’analisi aristotelica della politica…».

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funzionalismo di origine razionalista72. Dunque, in questa prima accezione le forme della razionalità vengono assorbite dal paradigma repubblicano nella misura in cui la nuova ripartizione del potere procede prevalentemente da un criterio funzionalista, ma allo stesso tempo l’originaria natura frazionata della sovranità viene preservata, in quanto il sistema non subisce torsioni statualiste anche perché serba già in sé un’articolazione di tipo unitario e centralizzato73. A questo primo livello il nuovo ruolo della ragione influenza la definizione repubblicana, ma non impone la riorganizzazione in senso unitario e razionale formale dell’apparato istituzionale, ossia la ragione quale fondamento dell’obbligazione politica non dà luogo ad un’unità formale di comando. In realtà l’azione del razionalismo non si ferma a questo livello, ma agisce nella profondità del mutamento storico, costituendo una vera e propria potenza epocale in grado di minare la base ontologica del modello repubblicano. In questo senso la vera rivoluzione che determina, conseguentemente, la riorganizzazione funzionale dei tre poteri repubblicani è rappresentata dal mutamento antropologico e giuridico che investe l’intera collettività. In primo luogo così il razionalismo si traduce sul piano delle concezioni antropologiche in una visione meccanicistica e razionalistica della realtà. Da un lato quindi si deve analizzare il mutamento di fondo che interviene nel momento in cui la costruzione delle forme giuridiche e la base della repubblica non riposano più su una visione organologica, ma su una visione dei rapporti sociali di tipo meccanicistico74. In questo modo viene pregiudicato il concetto stesso di Repubblica poiché a questo punto l’equilibrio di quest’ultima non riposa più sulla determinata armonizzazione – di tipo sostanziale - tra il principio di unità e di molteplicità incarnata dalla concezione del corpo mistico. Sotto questo profilo la lotta tra re e parlamento si configura realmente come il conflitto in grado di pregiudicare la sopravvivenza della

72 L’evoluzione del common law rappresenta dunque un fattore determinante del particolare sviluppo

ordinamentale. Ma non il solo. A fianco ad esso può essere posta un’altra struttura giuridico-concettuale che subisce una particolare evoluzione con il processo di modernizzazione: il dominium. Su questo punto v. però infra Parte I, cap. III, par. 3.1, pp. 91-98, par. 3.3.1, pp. 116-119.

73 Per la verità la dottrina politica stessa del corpo mistico viene investita dalla dinamica conflittuale moderna nel momento in cui già Enrico VIII ne faceva oggetto di una formalizzazione e strumentalizzazione: «Dai nostri giudici sappiamo che mai nella nostra regale condizione noi siamo posti così in alto come durante i lavori del Parlamento ove noi come capo e voi come membra siamo congiunti e uniti in un solo corpo politico». Già da questa affermazione si può intendere l’origine e la natura fittizia della formula King in Parliament. V. Letters and papers of Henry VIII, cit. in E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, cit., p. 196. Lo stesso Pocock riportando delle citazioni del documento His Majesty’s Answer to the Nineteen Propositions of Both Houses of Parliament, dimostra come il modello repubblicano classico sia diventato oggetto di strumentalizzazione politica. In particolare con questo documento il re Giacomo I sembra affiancare alla sua politica assolutista la difesa del carattere misto dell’ordinamento inglese, utilizzando dunque quest’ultima argomentazione come arma di ricatto nel momento in cui ogni altra pretesa in difesa delle prerogative parlamentari avrebbe mandato in frantumi l’equilibrio provocando l’anarchia. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 625-633. V. anche C.C. Weston, England: Constitution and common law, in The Cambridge History of Political Thought, cit., pp. 396-410.

74 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 631 ss. L’incontro, non mediato dalla fase dell’assolutismo statualista, tra il vecchio mondo orientato sul concetto di tradizione e il nuovo ispirato dalla convinzione nella riorganizzazione razionalistica del potere politico è la principale causa del particolare contesto in cui si sviluppano i principi del diritto naturale come diritto di ragione, e che determina l’unicità dell’esperienza rivoluzionaria inglese. Come si vedrà meglio più avanti (Parte II, cap. I, par. 1.3, pp. 149 ss., e cap. II, par. 2.3.2, pp. 217 ss.) il contesto nel quale si inserisce l’appello al cielo di Locke, ossia il «contesto nel quale gli uomini conseguono il loro fine ultimo (oppure in cui recuperano la loro prima forma) è quello dell’apocalisse. Il ‘fine’ della teleologia aristotelica si trova congiunto con il ‘fine’ escatologico del tempo profetico».

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Repubblica, in quanto non solo allude ad una riorganizzazione razionale-formale del potere, ma soprattutto perché tale conflitto nega il vincolo organologico sul quale tale dualismo fondava il proprio equilibrio75. In secondo luogo la considerazione in senso atomistico dei rapporti interindividuali e delle modalità della costruzione delle forme politiche si accompagna ad un processo di mutamento che investe le forme del governo territoriale. La negazione del vincolo organologico non contraddistingue soltanto il rapporto tra le massime istituzioni ma attraversa trasversalmente l’insieme dei rapporti sociali e corporativi. La nuova concezione meccanicistica non investe, cioè, semplicemente le forme dei rapporti interistituzionali, ma la sostanza dei rapporti di sovranità disseminati su tutto il territorio del regno76. Più in generale quindi, il meccanicismo e il razionalismo si traducono sul piano individuale nella progressiva affermazione di un tipo di obbligazione politica totalmente fondata sulla ragione e sulla conseguente convinzione

75 Cfr. F.W. Maitland, Introduction, cit., pp. 3-59; M. Weber, Sociologia del diritto, cit., pp. 76-81. Il fatto che la vecchia dottrina del corpo mistico possa essere sostituita efficacemente dal processo di progressiva affermazione dell’istituto del trust non sminuisce comunque la portata e la qualità del mutamento costituzionale che investe il XVII secolo. Il perfezionamento di questo istituto si presenta come un processo di raffinamento degli strumenti pratici del common law che assume nel corso della modernizzazione una doppia valenza, pubblicistica e privatistica. In senso privatistico il trust diviene l’istituto che forma la base per la costruzione delle personalità giuridiche delle società private economiche, riducendo così la teoria della corporazione ad una dottrina privatistica, come specifica Maitland nell’introduzione all’opera di Gierke. In senso pubblicistico è possibile interpretare l’affermazione del trust come fa Weber, come progressiva e raffinata affermazione della categoria di imperium in un paese in cui è assente la dimensione statuale della modernizzazione (in particolare la Corona rappresenterebbe un grande trust nel quale il diritto del singolo viene tutelato direttamente tramite l’equity). Che il trust assuma effettivamente un ruolo pubblicistico è indubbio - e così nella pratica viene ridotto da Maitland nel momento in cui riconosce che una dottrina giuridica della corporation sole può procedere solo seguendo il modello del trust, altrimenti si risolverebbe in una filosofia politica il cui paradigma può ben essere ascritto anche alla funzione del parroco - altro è considerare il trust come fattore di una modernizzazione in senso classico che procede secondo la distinzione tra pubblico e privato, e secondo una razionale spersonalizzazione dell’istituzionalizzazione politica. Com’è noto, i processi di raffinamento degli strumenti del common law non seguono delle logiche formali, ma delle logiche pratiche e empiriche. Inoltre, una tale interpretazione non spiega come il carattere originariamente personalistico del trust possa mutare in una accezione spersonalizzata del potere politico. In realtà, ciò conferma che l’affermazione della categoria del trust nella storia giuridica inglese, deve essere riportata alla sua possibilità reale, data dal mutamento di fondo da una visione organologica e tradizionale della comunità politica, ad una meccanicistica e razionalista della societas (come peraltro indicato da Maitland), ovverosia alla motivazione per cui dopo il XVII secolo il trust può far assumere un’accezione pubblicistica, ma in ogni caso prevalentemente privatistica, alla dottrina delle corporazioni. Sulla centralità del trust nella dottrina regale e repubblicana del corpo mistico v. anche H.A. Lloyd, Constitutionalism, cit., pp. 279-283.

76 Cfr. O. von Gierke, Les théories politiques, cit., p. 255, «La souveraineté de l’Etat et la souveraineté de l’individu deviennent de plus en plus les deux axiomes essentiels dont découlent toutes les théories sociales, et dont les rapports réciproques sont l’objet de toutes controverses…» La frontiera della modernizzazione, in questo senso, è definita da questo mutamento ontologico che in Inghilterra avviene senza la mediazione dell’assolutismo statualista. In un’accezione deterministica, quale può essere individuata nel pensiero di Gierke, il ‘limite’ oltre il quale la base organologica della società politica medievale e il suo costituzionalismo limitato non potevano andare era rappresentato dall’impossibilità per questa società di costruire la vera e autonoma personalità dello Stato. E’ proprio tale limite, per Gierke, che apre il varco alla costruzione individualistica dello Stato. «La dottrina giuridica dello Stato nel Medioevo si arrestò prima di raggiungere quel superiore punto di vista dal quale soltanto avrebbe potuto dominare la vera costruzione giuridica dello Stato. E appunto perciò poté qua e là nascondere, ma non certo impedire, l’incessante progresso di una costruzione dello Stato atomistica e meccanicistica». V. anche O. von Gierke, Althusius, cit., pp. 118-119.

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nella libertà ed uguaglianza per natura di tutti gli uomini, determinando l’eclissi di un tipo di libertas fondata sullo status alla quale le concezioni organologiche si richiamavano77. La portata del mutamento è, quindi, da misurare in relazione alla definizione molecolare dei rapporti di sovranità. Di conseguenza, sul piano pratico giuridico si deve indagare il mutamento nei rapporti di signoria, ovverosia si deve indagare come, ancor prima che nelle ideologie, il meccanicismo abbia comportato il mutamento delle relazioni interpersonali ai livelli più bassi della stratificazione sociale feudale, ossia di come il nuovo modello di obbedienza e la nuova concezione di libertà ed eguaglianza abbiano minato la struttura della repubblica e la base dell’Antica Costituzione. Non a caso, il conseguente sviluppo delle correnti del contrattualismo sembra tener conto di questo mutamento ontologico poiché l’affermazione pratica delle nuove dottrine filosofiche e giuridiche si misura con la capacità di adattare le vecchie forme al nuovo orizzonte razionalista. Per questo lo studio dello sviluppo delle correnti dell’individualismo e delle nuove concezioni della rappresentanza devono essere inquadrati all’interno di un’analisi che già tiene conto del mutamento avvenuto nelle forme di proprietà e di dominio territoriale78. 2.4.1. L’enjeu dell’Antica Costituzione. Lo studio dell’Antica Costituzione, sul versante degli equilibri interistituzionali sembra dunque imporre un approfondimento dell’analisi del suo carattere enigmatico. Dapprima principio di legittimazione del vecchio ordine medievale, l’Antica Costituzione diviene poi il leitmotiv della rivoluzione, per ritornare successivamente a funzionare come principio di legittimazione dell’ordine costituito. Questa parabola, che, secondo l’analisi della natura del common law, poteva essere giustificata con il particolare rapporto che si viene ad istaurare tra ragione e storia, a questo punto sembra ingiustificabile in quanto presuppone il mutamento da una visione organologica ad una meccanicistica dell’ordinamento. Non si comprende cioè come la difesa di un vecchio ordine possa armonizzarsi con la lotta per il nuovo ordine fondato sulla libertà

77 Cfr. O. von Gierke, Les théories politiques, cit., pp. 95-97. Nella ricostruzione fatta da Gierke delle

teorie politiche del Medioevo il riconoscimento delle unità parziali, che unite formano l’insieme dei corpi sociali e che si ricongiunge al principio generale dell’unità dell’universitas, arriva fino al riconoscimento del valore dell’individuo. Tuttavia si deve precisare come tale riconoscimento, sebbene ammetta la valorizzazione in senso razionalistico di tale unità parziale (anche la dottrina stessa del potere politico, come si è visto, è strettamente connessa con la dimensione terrena e razionale dell’organizzazione politica), si inserisca comunque all’interno dell’orizzonte ontologico delineato dalla definizione di universitas. Sul punto v. O. Brunner, Per una nuova storia costituzionale e sociale, cit., pp. 201-216 (I diritti di libertà nell’antica società per ceti).

78 A questo punto diventa improrogabile l’analisi della struttura e del contenuto dell’Antica Costituzione, ossia, l’analisi di come le relazioni di signoria fungano da veri e propri dispositivi di governo e di amministrazione del territorio basati sulla concezione organologica e corporativa, e di come l’irruzione del razionalismo e lo sviluppo della proprietà in senso moderno abbiano determinato la crisi di questo modello di governo, costituendo la vera base della crisi del XVII secolo. Secondo questa impostazione lo studio del contrattualismo (prevalentemente svolto nella Parte II) si rivela di maggiore utilità nella misura in cui si inserisce già nell’analisi della concreta evoluzione storico-ordinamentale, ossia dei mutamenti delle forme giuridiche che investono le forme di signoria fondiaria e della proprietà (infra, Parte I, cap. III, in particolare par. 3.2, pp. 98-107).

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moderna, e come alla fine si torni a difendere tale modello in funzione della tutela dell’ordine costituito, nel momento in cui si riconosce la qualità ontologica di tale mutamento, e nel momento in cui tale qualità rappresenta la base della forma costituzionale antica. Se, dunque, l’analisi del rapporto tra il mutamento del principio di legittimazione del diritto e i processi di riorganizzazione istituzionale ci conduce allo studio del modello repubblicano, e se in ogni caso questo modello offre una chiave di lettura efficace in grado di rispondere alle semplificazioni causate dall’applicazione deterministica di modelli non esportabili al caso inglese, tuttavia resta da capire come si inquadra il mutamento della base dell’Antica Costituzione all’interno della riorganizzazione post-rivoluzionaria delle istituzioni. In effetti una più appropriata interpretazione in senso lineare del processo di mutamento ordinamentale è ora possibile in quanto si faccia riferimento al modello repubblicano qui descritto. La capacità di tenuta di questo modello è infatti notevole, e risulta sintetizzabile nella connessione tra la praticità e flessibilità del common law sul terreno giurisdizionale e il particolare processo di accentramento istituzionale, animato appunto dal dualismo tra Re ed enti territoriali. Se, dunque, su un piano strettamente giuridico la ragione giuricentrica offre un impianto in grado di assorbire il mutamento formale e sostanziale dei rapporti politici e istituzionali, tuttavia resta aperta la questione della rottura del processo storico determinata dall’affermazione della nuova visione meccanicistica e dall’eclissi della concezione organologica. Da questo punto di vista la discontinuità sembra tracciare un mutamento profondo ed irreversibile, nel momento in cui il mutamento investe la base ontologica del modello costituzionale. Si tratta, quindi, di individuare le articolazioni di questa rottura, ossia di individuare e qualificare il mutamento della base della struttura dell’Antica Costituzione. Soltanto così, peraltro, si può arrivare a definire il risultato della lotta tra Re e Parlamento, ossia di quel dualismo che nel continente si traduce in termini statualistici, e che invece in Inghilterra sembra animare immediatamente prima il processo di accentramento e poi l’avvento del costituzionalismo moderno a partire dal superamento e dal mutamento del vecchio sistema di rappresentazione politico di tipo «organologico» fondato sul concetto di universitas. Dunque, a questo fine, in primo luogo, l’analisi dei rapporti di signoria; del loro ruolo ricoperto all’interno del modello repubblicano premoderno, e del loro mutamento in senso privatistico, si impone quale ultima analisi in grado di aprire un varco per la soluzione dell’enigma dell’Antica Costituzione, ossia per la comprensione del rapporto che si viene ad instaurare tra continuità e discontinuità all’interno del modello repubblicano. Soltanto seguendo questo percorso, peraltro, si potranno inquadrare in maniera pertinente il ruolo e l’influenza esercitata dall’affermazione delle dottrine dell’individualismo, ed in ultima analisi chiarire la natura, del nuovo dualismo tra Re e Parlamento, e dell’ordinamento repubblicano postrivoluzionario.

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Capitolo terzo Il contenuto dell’Antica Costituzione 3.1. Dominium e costituzione. 3.1.1. La «Gewere» all’origine del rapporto dualistico di sovranità. 3.2. Il governo feudale del territorio. 3.2.1. La signoria fondiaria come unità nucleare del sistema di sovranità feudale. 3.2.2. La Repubblica e l’Antica Costituzione come forme sostanziali basate sulle libertà cetuali. 3.3. La crisi del costituzionalismo antico. 3.3.1. Dominium senza imperium. 3.3.2. La dimensione costituente della crisi. 3.3.3. Le potenzialità aperte alla rivoluzione.

3.1. Dominium e costituzione. Il dominium, quale categoria giuridica generale comprendente sia l’insieme dei rapporti di signoria e servitù, sia la definizione di potere politico, può essere inteso come dominium secundum imperium o dominium secundum proprietatem1. Nel caso inglese la particolarità e l’utilità di una tale distinzione concettuale consiste nel fatto che questa può indicare la futura possibilità di considerare i rapporti giuridici in una chiave prevalentemente pubblicistica o privatistica; ma, in ogni caso, tale possibilità non equivale a riconoscere l’eventuale scissione delle due sfere2. L’analisi del processo di centralizzazione istituzionale e della forma repubblicana dell’Antica Costituzione ha mostrato come la conformazione del potere politico si articoli in funzione della rappresentazione dell’idea di unità simboleggiata dal concetto di universitas, e come questa rappresentazione si fondasse su un vincolo di tipo sostanziale tra la Corona e il corpo sociale. L’essenza del dominium secundum imperium si deve dunque rintracciare in

1 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 339 ss. «Benché la giurisprudenza italiana del tardo

Medioevo tenda a separare rigorosamente la iurisdictio dalla proprietas - ossia il dominium secundum imperium dal dominium secundum proprietas - , assegnando la prima allo ius publicum e la seconda allo ius privatum, succede però, e in casi niente affatto sporadici, che essa mantenga il dominium come concetto generale, posto al di sopra dell’imperium e della potestas (…) E’ importante notare come, nel latino medievale, il termine iurisdictio non indichi soltanto il potere di giurisdizione, ma anche la stessa signoria».

2 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 340-341, dove specifica che questa articolazione del concetto di dominium è tipicamente medioevale. «Se i giuristi italiani del Medioevo distinguono fra dominium secundum proprietatem e dominium secundum imperium, creano ispo facto una figura giuridica – il dominium – appartenente tanto al diritto pubblico, quanto a quello privato, ignota al diritto antico e tale da poter essere desunta sulla sola base di rapporti di stampo medioevale. Partendo dalla divisione fra ius publicum e ius privatum – così come compare nel diritto romano -, la giurisprudenza italiana del XII secolo altro non fa che sforzarsi di articolare questo concetto in modo adeguato e conseguente. Essa tuttavia non giunge a concepire tale divisione nei termini del dominium e dell’imperium, cosa del resto possibile solo sul piano della teoria».

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questa complessa conformazione, ma, in ogni caso, tale definizione dell’imperium non dà luogo alla delimitazione di una sfera del potere pubblico in contrapposizione ad una sfera del privato. Al contrario, si è constatato come tale costruzione riposasse sull’identità e sulla fusione dei concetti moderni di stato e società e di diritto pubblico e diritto privato. La concezione repubblicana non coincide, perciò, con una definizione del campo del potere pubblico, sebbene, effettivamente, una tale organizzazione politica ed istituzionale ricopra una funzione di questo tipo. Diversamente, la concezione repubblicana indica solamente i tratti della forma dell’Antica Costituzione3. Così, come quella definizione repubblicana non è in grado di esaurire la definizione del pubblico, così una definizione in senso privatistico dei rapporti feudali legati alla proprietà fondiaria risulta parimenti deformante. Il dominium, quand’anche venga inteso come dominium secundum proprietatem, ossia come potere diretto sulla terra, sul fondo, ricopre effettivamente delle funzioni di carattere pubblico dal momento che rappresenta un nodo principale dell’articolazione territoriale dei rapporti di sovranità medioevale. In questo senso, dunque, l’analisi del significato dell’evoluzione dei rapporti feudali prosegue nell’impostazione fin qui delineata. Il dominium, nel suo contenuto minimo, non è che un potere diretto sulla cosa; non importa se piccolo o grosso, l’importante è che sia autonomo ed immediato sulla cosa4. La definizione medievale di dominium si ricava da due caratteri che sono necessariamente legati alla sua esistenza: il primo consiste nel suo carattere effettuale e possessorio, il secondo nel carattere non esclusivo del dominio stesso. Innanzitutto, in relazione al primo carattere, il dominium è proprietà, laddove però con quest’ultimo termine non si indica il segno esteriore e formale che l’autorità ascrive al legittimo proprietario, ma la situazione fattuale di possesso e potere diretto sulla cosa che necessariamente precede l’eventuale, ed in ogni caso, successivo e secondario riconoscimento formale5.

3 Risulta così di rilevanza secondaria, in questa sede, la disputa generale intorno alla definizione in

senso pubblicistico o patrimonialistico dello Stato medioevale, così come anche la questione particolare della costruzione del potere sovrano inglese secondo la linea di sviluppo del patrimonio della Corona. Su questo problema generale v. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 203-228, in particolare pp. 215 ss. dove viene specificata la particolarità del modello inglese basato sulla sovranità della communitas e non su un concetto di sovranità territoriale in senso continentale. Sul particolare sviluppo inglese v. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 141-165 (Christus ficus).

4 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in Id., Il dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali, Giuffré, Milano, 1992, p. 646. Parimenti, il Dominium non si deve intendere assolutamente in senso romanistico, ovvero, come una categoria astratta all’interno della quale viene chiaramente fatto rientrare il concetto di proprietà privata in opposizione alla categoria dell’Imperium di carattere pubblico, ma si deve intendere il Dominium nella sua accezione medioevale di potere autonomo e immediato sulla res corporalis. Cfr. anche O. Brunner, Terra e potere cit., p. 341.

5 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 631-632. «Si appagherà lo storico della ‘proprietà’ di ridurre il suo oggetto storiografico a quello di un segno catastale? O non dovrà ampliare il proprio sguardo per vedere se, per caso, accanto a una proprietà formale sempre più devitalizzata ed esautorata non emergano delle sostanze para-proprietarie munite d’una vistosa effettività? Per la individuazione della ‘proprietà’ il segno catastale è soltanto un fatto presuntivo. Proprietà è infatti, in ogni caso, potere sulla cosa, e potremmo tranquillamente definirla come la situazione di potere diretta e immediata sul bene tutelata dall’ordinamento nella maniera più intensa. A quale situazione l’ordinamento altomedioevale concederà la propria attenzione e, di conseguenza, la tutela più intesa? Alla proprietà-segno, o al complesso di situazioni di effettività sul bene (le si chiamino pure gewere, o vestitura), nelle quali è condensata una vasta gamma di poteri? Non v’è dubbio che l’ordinamento opta per le seconde (…)»

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Il dominium, dunque, è proprietà nel momento in cui con quest’ultimo termine si indica sempre la situazione giuridica possessoria massimamente tutelata dall’ordinamento giuridico. La peculiarità di questa situazione possessoria, tuttavia, si distingue nettamente dall’origine possessoria ed appropriativa della proprietà moderna; in questo caso il possesso coincide sempre con l’esercizio del godimento del bene, con la sua utilizzazione, mentre là il possesso viene determinato dalla dimensione antropologica di tipo appropriativo che investe l’insieme delle relazioni sociali e giuridiche6. In quest’ultima accezione, non solo, la proprietà può distaccarsi dalla sua originaria dimensione appropriativa e possessoria, definendosi nei termini formali della proprietà-segno, ma, in senso moderno è possibile definire il dominium come un potere diretto sulla cosa che si distingue dagli altri diritti reali per la sua capacità di escludere gli altri soggetti dall’accesso al bene, e soprattutto per la capacità di preservare intatto il diritto di proprietà anche nel caso deliberatamente ricercato di non utilizzo del bene da parte del possessore7. Diversamente, nel mondo medievale il possesso indica l’appropriazione effettiva di una porzione del cosmo secondo un rapporto uomo-natura nel quale il primo rappresenta un’unità dell’universitas subordinata alle leggi della natura, con le quali l’uomo si misura quotidianamente in vista di trarre un’utilità dalla terra che è essenzialmente un valore d’uso. Il possesso si inserisce così all’interno del modello generale organologico nella misura in cui costituisce soltanto una forma della molteplicità8.

6 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 650-651. Per Grossi le ricostruzioni storiografiche

che mirano a tracciare una linea di continuità nell’evoluzione delle concezioni proprietarie che va dall’antichità all’età moderna sono sempre possibili nella misura in cui tali interpretazioni si traducono però in vuote elaborazioni costruite interamente sulla continuità della ‘forma’. «La storia della proprietà giuridica moderna ha un suo corso sotterraneo e uno palese, o, se volete, una preistoria e una protostoria: la prima consiste in una capillare analisi di non-giuristi tutta tesa a definire un rinnovato modello antropologico e politologico, quello che oggi con frase fortunata e ricevuta, si suol chiamare non scorrettamente dell’individualismo possessivo, sul quale si affannano impegnatissimi in vari tempi teologi delle correnti neoteriche preumanistiche ed umanistiche, filosofi e politologi del liberalismo classico; la seconda, se ha qualche anticipazione (e lo vedremo tra un momento) in talune proposizioni teoretiche già nel secolo sedicesimo, comincerà a scorrere spedita e continua assai più tardi soprattutto con la grande riflessione pandettistica ottocentesca, quando sul calco del modello antropologico ormai da tempo definito si disegnerà un compiuto e rigoroso modello giuridico, e la nuova proprietà da pregevole disegno consegnato nell’album dei giuristi assumerà anche la sostanza di un assetto organizzativo della vita quotidiana».

7 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 654-656. Il concetto moderno di proprietà si sviluppa completamente seguendo il percorso di una realtà ontologicamente compiuta all’interno dell’antropologia individualistica ed appropriativa del nuovo soggetto giuridico: l’individuo astratto. E tuttavia, tale diritto di proprietà, non coincide completamente né con l’idea di potestas plena né semplicemente con quella di ius escludendi. Ancora più profondamente, la semplicità della nuova versione soggettivistica permette di definire la proprietà una potentia. «La proprietà è ormai, in questa versione così esasperatamente soggettivistica, una capacità, capacità di irretire e dominare ogni contenuto, rifiutando pertanto ogni contenuto come contribuzione alla sua quiddità. Il contenuto è ormai soltanto un accidente, che non è mai in grado di ripercuotersi sulla sostanza del rapporto. Accanto – e dietro – alla semplicità, ecco il secondo tratto tipizzante della proprietà nuova: la astrattezza (…) E si delinea come idea suprema un dominium sine usu, versione capovolta del vecchio dominio utile, dove un dominium colto come volontà, come animus, può tranquillamente separarsi dai fatti della vita quotidiana ed esserne immune».

8 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., p. 634. «Il soggetto, sfornito di volontà incisiva, rannicchiato all’interno della realtà cosmica come tessera d’un grande mosaico, sepolto dentro il guscio protettivo di soffocanti assetti micro-comunitari, depone ogni velleità imperiosa e subisce il complesso di forze che dall’esterno si proiettano su di lui (…) Il giuridico non è più l’insieme di forme

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La complessità della costruzione proprietaria che deriva da questa dimensione fattuale può essere rintracciata soltanto ricostruendo le molteplici articolazioni giuridiche cui danno luogo le diverse ed effettive situazioni possessorie. Secondo questa impostazione rientrano all’interno della definizione del regime proprietario tutte quelle situazioni giuridiche come gli usi, l’enfiteusi, l’usufrutto, la superficie, le concessioni fondiarie, la locazione, che di fatto si trovano ad arricchire la definizione di dominium medievale, e che costituiscono una frazione importante dei rapporti giuridici che legano i vari strati sociali al territorio9. La varietà delle situazioni riferibili al dominium trova comunque un minimo comune denominatore: in primo luogo nella centralità del bene oggetto della proprietà, il fondo rurale nel quale si svolgono la grande maggioranza delle attività economiche e delle relazioni sociali10; in secondo luogo nel carattere attivo dell’esercizio del godimento del bene che contraddistingue le varie situazioni possessorie e di utilizzo. Infatti, la proprietà - o meglio le proprietà del Medioevo, poiché ogni soggetto titolare di una particolare situazione giuridica condivide una porzione della proprietà con il titolare del fondo nella misura in cui con la sua attività contribuisce attivamente alla determinazione della gestione del bene11 –

sopraordinate secondo un disegno di sovranità, ma il complesso di modesti vestimenti contrassegnati da una assoluta aderenza plastica alla realtà (…) E’ una civiltà del diritto dove il territorio del giuridico si mescola senza confinazioni precise col fattuale e né è intriso (…) Mentre le titolarità astratte subiscono svilimenti ed emarginazione, ogni esercizio sulla cosa – purché dotato di un minimo di autonomia, purché sia cioè una situazione di una corposa effettività – trova qui la sua rivalutazione».

9 Sulla ricostruzione del processo che ha permesso alla scienza giuridica medioevale di considerare tali fattispecie giuridiche all’interno della categoria del dominium v. P. Grossi, Dominia e servitutes (invenzioni sistematiche del diritto comune in tema di servitù), in Il dominio e le cose, cit., pp. 57-122. Sullo sviluppo della nozione di dominio utile quale categoria all’interno della quale far rientrare più propriamente tali situazioni giuridiche v. P. Grossi, La categoria del dominio utile e gli homines novi del quadrivio cinquecentesco, in Il dominio e le cose, cit., pp. 247-280.

10 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 607-608. La peculiarità della definizione proprietaria medioevale consiste proprio in questa centralità del bene oggetto del dominium. Nel momento in cui il dominium non si costruisce secondo il paradigma individualistico moderno, il coarcevo di situazioni giuridiche possessorie, anche tra loro configgenti, trovano una base di comune appartenenza e riconoscimento nella comune dipendenza dalla gestione della terra, e quindi, sostanzialmente, nella comune subordinazione alla natura. L’esempio che esplica chiaramente l’immaginario collettivo che si cela dietro questa visione proprietaria viene così descritto dallo stesso Grossi: «pensiamo a quella vasta gamma di assetti fondiari, oggi prevalentemente ristretti all’arco alpino e alla dorsale appenninica, che trovano una costruzione paradigmatica nelle cosiddette ‘proprietà’ comuni di consorti coeredi, dove la titolarità non è né del singolo né dell’ente ma della concatenazione incessante delle generazioni dei consorti. Orbene, questa cosiddetta proprietà collettiva, in ogni sua forma, ha una piattaforma comune; ed è quella di essere garanzia di sopravvivenza per i membri di una comunità plurifamiliare, di avere un valore e una funzione essenzialmente alimentari, dove il contenuto fondamentale è un godimento condizionato del bene, con un indiscusso primato dell’oggettivo sul soggettivo: primato dell’ordine fenomenico, che va rispettato ad ogni costo, sull’individuo; dell’ordine comunitario – cristallizzazione della oggettività storica – rispetto all’individuo. Qui non solo la dimensione potestativa è rarefatta al massimo, tant’è che non si incarna mai in uno ius disponendi, ma perfino la stessa dimensione appropriativa si stempera fino a vanificarsi. L’appropriazione qui, nel senso tradizionale del termine, cade soltanto indirettamente sul prodotto del fondo che serve per la sopravvivenza quotidiana di un nucleo unifamiliare, ma non investe mai il fondo».

11 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 643-644, dove viene specificato che, se si tratta di analizzare il regime proprietario muovendo dall’assunto individualista moderno, risulta non applicabile la categoria della proprietà alle fattispecie di dominium medievali, ma, se invece si tratta di stabilire una definizione di proprietà a partire dallo statuto della cosa (come nel contesto medioevale), allora è possibile considerare la proprietà come un’entità frazionabile, ed ammettere la possibilità di più proprietari.

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perché fondata su una determinata nozione di dominium. Questo si definisce come possesso, come potere diretto sulla cosa, soltanto in quanto si estrinsechi in una materiale attività di utilizzo, godimento e gestione del bene, e dunque, in quanto si estrinsechi in una vera e propria dispositio sul bene, una dispositivo, come è stato già fatto notare, mai consistente in un non utilizzo del bene, e sempre condivisa da una pluralità di soggetti. Ma a questo punto, una tale definizione di dominium impedisce materialmente una considerazione della proprietà secondo una percezione moderna dei diritti reali. La proprietà diviene concepibile soltanto nel momento in cui si riconosce il suo carattere condiviso tra più soggetti e soltanto nel momento in cui si basa sull’effettivo utilizzo del bene. Il dominium diviene così sempre un dominio condiviso e mai esclusivo. Accanto al dominio diretto acquista un ruolo centrale la nozione di dominio utile, ossia la categoria giuridica elaborata nel corso del Medioevo all’interno della quale vengono fatte rientrare l’insieme degli ius in re12. 3.1.1. La «Gewere» all’origine del rapporto dualistico di sovranità. Se dunque si deve parlare di Medioevo come di un regime patrimonialistico, allora sarà necessario partire da qui13. Il regime proprietario delineato dalla complessa definizione di dominio condiviso rappresenta la base del dualismo a partire dal quale si svilupperà il modello del principe dominus terrae. Secondo questo punto di vista, il modello della moderna proprietà prende avvio in modo consustanziale all’affermazione della sovranità statuale: essa non è che il risultato dell’opposizione dualistica tra il signore e la comunità rurale, tra dominio diretto e dominio utile. Il dominio, in questo senso, si definisce essenzialmente come «Gewere»; il potere del signore sul territorio «gewalt, nucz und gewer»14. Tuttavia, già si è visto, come da questo modello di dominio

12 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà cit., p. 641. «Il dominio utile, all’estremo del procedimento

conoscitivo dei giuristi, è infatti, prima ancora che espediente tecnico, uno schema antropologico con due significati essenziali. In primo luogo, come ogni teoria di proprietà divisa, testimonia di un sistema di diritti reali costruito partendo dalle cose (…) se il soggetto nella sua unicità, chiede a sua misura un dominium unitario e inscindibile, la cosa, nella sua complessità strutturale, nella sua stratificazione di substantia e di utilitas, impone diversificazioni proprietarie a seconda delle diverse dimensioni in cui si articola. Pertanto, parlar di dominio diretto e di dominio utile significa soprattutto un approccio antiindividualistico di grande umiltà verso la realtà cosmica, un certo modo conoscitivo, una determinata antropologia. In secondo luogo, con quel suo richiamo ostentato alla utilitas segnala un dominium inteso come contenuto e segnala la conseguente incapacità a concepire la proprietà come un rapporto puro».

13 Il rapporto tra il concetto di Dominium e la funzione politica di governo della proprietà privata viene posto alla base della struttura politica medievale nella misura in cui tale rapporto è reso praticabile dalla particolare concezione della legge naturale e di repubblica mistica anche da D.E. Luscombe, The state of nature and the origine of the state, cit., pp. 757 ss.

14 L’espressione è di O. Brunner, Terra e potere cit., p. 341. Cfr anche M. Bloch, La società feudale cit., pp. 136-137, «Che cos’era, dunque questa saisine? Non era precisamente un possesso, che la semplice occupazione del suolo o del diritto fosse bastata a creare; ma un possesso reso venerabile dal tempo (…) Nessuno presentava la rigida esclusività caratteristica della proprietà di tipo romano. Il censuario che – generalmente di padre in figlio – lavorava e compiva il raccolto; il suo diretto signore, al quale pagava il censo e che, in alcuni casi, riusciva a rimettere la mano sulla terra; il signore di questo signore e così via, lungo tutta la scala feudale: ecco altrettanti personaggi, che, con pari ragione potevano dire: «il mio campo!» Ed è ancora poco. Le ramificazioni si estendevano orizzontalmente altrettanto che dall’alto in basso; sicché conviene far posto anche alla comunità villica, che di solito recuperava l’uso

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territoriale articolato sul dualismo tra comunità territoriale e signore, non si origini in Inghilterra una costituzione politica e uno stato territoriale secondo il modello continentale. Ma non solo. In Inghilterra la scienza giuridica non conosce neanche l’esigenza di mutare l’antica nozione di dominium romanistica per adattarla alla nuova realtà giuridica effettuale del Medioevo, poiché la definizione del regime proprietario si sviluppa completamente sul terreno pratico dei rapporti interpersonali disciplinati dal common law. E tuttavia, da un punto di vista comparatistico ed analitico, è indubbio come l’articolazione di questo regime proprietario sia costruito effettivamente sul postulato del dominio condiviso. In maniera più diretta, l’analisi del dominium nel caso inglese conferma la natura dell’originario dualismo che caratterizza i rapporti della comunità territoriale: il dualismo tra dominio diretto e dominio utile, tra Signore e contadino - ovverosia, tra due soggetti che la scienza giuridica medioevale arrivava a considerare entrambi astrattamente come proprietari, sebbene in misura e con competenze differenti - si presenta come l’altra faccia del rapporto dualistico sul quale si sviluppano i rapporti di sovranità molecolari e diffusi dell’antica costituzione15. Comprendere l’evoluzione di questo dualismo, ossia comprendere la genesi della proprietà moderna, equivale a svelare l’altro volto della costituzione inglese, il motore che dà vita alla mutamento della complessa forma costituzionale16. del suo intero territorio appena questo era spoglio dei messi (…) Questo intrico gerarchico dei legami tra l’uomo e il suolo si fondava senza dubbio su origini molto remote (…) Una simile compenetrazione di «prese di possesso» su una medesima cosa nulla aveva che urtasse spiriti così poco sensibili alla logica della contraddizione; e, forse, per definire questo stato di diritto e di opinione, meglio sarebbe dire, servendosi di una celebre formula sociologica: mentalità di «partecipazione» giuridica». Sul punto v. anche G. Segré, A. Montel, Il possesso, Utet, Torino, 1956, pp. 32 ss.

15 Cfr. U. Mattei, Common law cit., pp. 326-332. Da notare che ancora oggi le rules of property comprendono al loro interno la disciplina di svariate situazioni giuridiche non assimilabili al diritto di proprietà secondo la classificazione del diritto civile continentale. Ancora una volta si può osservare come l’apparente continuità delle forme giuridiche che caratterizza l’evoluzione del common law porti con sé in verità delle sfumature sostanziali in grado di rendere il diritto inglese sempre aderente ai mutamenti della realtà effettuale, e come, dunque, la disciplina di questo campo giuridico, apparentemente di dominio privatistico, resti determinante per una definizione complessiva della struttura costituzionale. Sul punto v. P. Grossi, Ancora sull’assolutismo giuridico, in Id., Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffré, Milano, 1998, p. 4 pss., che al contrario sottolinea la differenziazione tra regime proprietario medioevale e moderno operata dalla scienza giuridica continentale..

16 K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Opere scelte, cit., pp. 14-16. L’argomentazione sviluppata fin qui circa il rapporto tra autorità e società e quindi circa il concetto di concetto di costituzione Medioevale consente di richiamare l’affermazione di K. Marx, per il quale «nel Medioevo, la costituzione politica è la costituzione della proprietà privata, ma solo perché la costituzione della proprietà privata è una costituzione politica». In effetti non solo con questa affermazione viene criticata la scissione tra Stato politico e società civile elaborata da Hegel, ma tutto il ragionamento viene indirizzato ad una critica delle forme costituzionali elaborate dalla scienza giuridica. Per Marx lo Stato politico moderno, lo Stato astratto, può sviluppare delle forme costituzionali che si possono tradurre soltanto in forme astratte. In questo senso, se la monarchia è la forma compiuta dell’alienazione dell’uomo moderno, la Repubblica è invece la forma astratta della democrazia. «Nella democrazia – invece, afferma Marx – il principio formale è al tempo stesso il principio materiale (…) Nella democrazia la costituzione, le leggi, lo Stato stesso sono semplicemente un’autodeterminazione del popolo, un contenuto determinato dal popolo, per quanto esso contenuto è costituzione politica. Nella democrazia lo stato astratto ha cessato di essere il momento dominante». E’ per questo che il conflitto tra Monarchia e Repubblica che coinvolge gli stati tedeschi del XIX secolo è un conflitto all’interno dello Stato astratto. La ricerca della democrazia nello Stato moderno va dunque riportata all’originaria mistificazione del rapporto politico e dell’alienazione, ossia alla scissione tra Stato e società, tra l’uomo come cittadino politico inserito all’interno delle forme della politica, e l’individuo astratto che forma la società civile. Tuttavia, per Marx il formalismo della democrazia sembra

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Se infatti lo studio dell’evoluzione generale dei rapporti di sovranità e del processo di centralizzazione istituzionale ha indicato nella repubblica mista la forma dell’Antica Costituzione, viceversa, l’analisi dell’origine della dinamica dualistica indica nell’articolazione del dominium secundum proprietatem il nucleo e il contenuto verace dell’Antica Costituzione17. E’, infatti, sulla base di questa determinata concezione della

comunque rappresentare l’inevitabile prezzo della libertà. Diversamente, nel Medioevo, ossia fino a quando la scissione non si è definitivamente compiuta, la democrazia e la forma politica rimangono sempre un che di sostanziale, in quanto però esse restano pur sempre delle forme dell’illibertà. «S’intende che la costituzione politica come tale è sviluppata solo là dove le sfere private hanno acquistato un’esistenza indipendente. Là dove il commercio e la proprietà fondiaria non sono liberi, non sono ancora diventati indipendenti, non lo è neanche la costituzione politica. Il Medioevo era la democrazia della illibertà (…) Nel Medioevo c’erano servi della gleba, beni feudali, corporazioni di mestiere, corporazioni scientifiche, etc.; cioè nel Medioevo la proprietà, il commercio, la società, l’uomo sono politici, il contenuto materiale dello Stato è posto dalla sua forma, ogni sfera privata ha un carattere politico o è una sfera politica, o la politica è anche il carattere delle sfere private (…) Nel Medioevo vita del popolo e vita dello Stato sono identiche. L’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero. E’ dunque la democrazia della non-libertà, la compiuta alienazione. L’opposizione astratta, riflessa, appartiene solo al mondo moderno. Il Medioevo è il dualismo reale, l’età moderna è il dualismo astratto».

17 Seguendo questa impostazione risulta particolarmente innovativo della scienza giuridica moderna l’elaborazione schmittiana del concetto di nomos. In effetti, l’adozione di questo schema interpretativo dei fenomeni giuridici e costituzionali si rivela estremamente utile per due ordini di motivi. In primo luogo, esso mostra come la scienza giuridica moderna riposi su di un determinato statuto epistemologico che pretende di frazionare il sapere in un’unità autonome ed indipendenti. Secondo questo primo punto di vista il nomos schmittiano rompe il postulato della separazione e dell’indipendenza tra diritto ed economia sul quale viene costruita la scissione tra Stato e società. In questo senso, la costruzione stessa dell’intera scienza giuridica moderna si dimostra essere una costruzione formale susseguente, in quanto procede secondo i mutamenti reali avvenuti nel rapporto tra proprietà e forma politica. In secondo luogo, il nomos, in quanto concetto giuridico in grado di rompere i dogmi dell’epistemologia moderna, risulta essere uno strumento di estrema utilità al fine di un’analisi in positivo della costituzione moderna. Le forme di produzione del diritto vengono ricondotte secondo il modello del nomos alla loro scaturigine appropriativa, senza per questo dover ricondurre l’origine del diritto allo statuto della scienza economica. I fenomeni giuridici in questo modo vengo analizzati secondo la loro articolazione sostanziale. Nel caso in esame, ciò consente di interpretare utilmente, in senso giuridico e costituzionale, i mutamenti avvenuti nel corso del feudalesimo nei modi di conduzione della proprietà terriera come i processi materiali che determinano il trapasso dall’antica alla nuova concezione della costituzione. In pratica, il modello teorico del nomos permette di continuare a considerare l’articolazione degli equilibri proprietari come determinante anche dopo il definitivo trapasso dall’antico al nuovo costituzionalismo, ovverosia nel momento in cui l’articolazione della proprietà terriera cessa di rappresentare direttamente la struttura costituzionale, e la definizione di equilibrio proprietario si rende via via più complessa in forza della crescente egemonia della proprietà mobile e finanziaria. In effetti, più in generale, per quanto riguarda le tematiche del costituzionalismo moderno, il nomos, in quanto fa riferimento ai significati di appropriazione, divisione e distribuzione, segnala come l’articolazione di questi tre termini, non solo diventi più complessa con lo sviluppo di una società plurale globalizzata ed informatizzata, ma sia, proprio per questo, in grado di decostruire di fatto i concetti moderni di diritto e di costituzione. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Adelphi, Milano, 2003; Id., Appropriazione/divisione/Produzione: un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale, a partire dal «nomos», in Id., Le categorie, cit., pp. 295-313; v. anche, O. Brunner, Per una nuova storia, cit., pp. 133 ss. In ogni caso l’alterità della tradizione anglosassone dimostra qui tutta la sua indipendenza dalle strutture concettuali continentali: l’approccio repubblicano e «harringtoniano» allo studio dei mutamenti storici e costituzionali permette di porre al centro della funzione di governo il ruolo giuridico della proprietà. Cfr. J.G.A. Pocock, The mobility of property and the rise of eighteenth-century sociology, in Id., Virtue, Commerce and History. Essays on Political Thought and History, Chiefly in the Eighteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, pp. 103-124.

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proprietà che si sviluppano le articolazioni territoriali dei rapporti di sovranità, e che, dunque si può affermare che il regime proprietario rappresenta la vera e propria struttura dell’ordine costituzionale. Le particolarità stesse dello sviluppo del sistema feudale inglese sembrano confermare questa tesi.

3.2. Il governo feudale del territorio. Allo sviluppo del feudalesimo non si accompagna una cristallizzazione delle relazioni di vassallaggio, ma, diversamente, la stabilizzazione dei ruoli sociali è ottenuta prevalentemente sulla base della capacità autoregolativa della società britannica derivante dalla sua origine comitale, e dalla conseguente introduzione graduale del vero e proprio regime feudale attuato dalla monarchia normanna18. Le relazioni feudali assumono un carattere più flessibile in relazione alla situazione concreta che si trovano ad amministrare; ossia, esse si sviluppano sulla base delle diverse esigenze dei soggetti materialmente coinvolti nella varie attività di tipo politico, giuridico ed economico che investono il governo del territorio. L’articolazione di queste relazioni è quindi un’articolazione plurale e complessa: anche la distinzione tra free tenure e unfree tenure assume in questo senso una tonalità più sfumata in riferimento alla varietà delle situazioni disciplinate. I soggetti che materialmente si trovano ad amministrare il fondo si trovano dunque in situazioni apparentemente molto diversificate tra di loro. Se la classica divisione tra pars dominica e manso è utile a capire come la distinzione teorica tra dominio diretto e dominio utile si concretizzi, e cioè come praticamente l’antica comunanza della vita del villaggio entri in relazione con la nuova autorità signorile, d’altra parte la possibilità di stabilire una pluralità di modi di condivisione della terra permette di affermare che a questa divisione possano corrispondere differenti tipi di relazioni e status giuridici, confermando così il carattere sfumato e flessibile del feudalesimo inglese19. Da un lato i contadini, o meglio i soggetti della comunità territoriale che si trovano a gestire materialmente il fondo agricolo, si possono trovare in situazioni giuridiche diverse: possono essere obbligati al servizio militare secondo il classico vincolo di vassallaggio, oppure possono trovarsi in una vera e propria situazione di affitto in senso moderno; possono costituire una piccola nobiltà terriera qualora la possibilità di ereditare la terra e la produttività economica raggiunta siano in grado di rendere marginale la posizione del signore feudatario, oppure, al contrario, il vincolo feudale in senso classico può ridurre la classe dei contadini ad un regime semischiavistico nel momento in cui alla scarsa produttività economica non corrisponde un allentamento

18 Cfr. M. Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino, 1999, pp. 209-218. 19 Cfr. R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, I, Ordinamento curtense e clientele vassallatiche, Il Mulino,

Bologna, 1971, per quanto riguarda l’organizzazione del feudo e la divisione tra pars dominica e manso pp. 88-94; per quanto riguarda il carattere flessibile e sfumato che assumono i rapporti feudali in Inghilterra in particolare pp. 244-251. Sulla distinzione tra free tenure e unfree tenure v. U. Mattei, Common law, cit., pp. 326-332. Un descrizione esaustiva dei vari tipi di rapporti interpersonali legati alla gestione della terra è offerta da T. Plucknett, A concise history, cit., pp. 521-587, in particolare le pp. 531-545 (tenures and incidents), dove vengono descritti i diritti di possesso, le prestazioni e i privilegi legati all’amministrazione del feudo.

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ma un irrigidimento del vincolo di assoggettamento20. D’altra parte il ceto dei feudatari si trova ad amministrare una realtà complessa non riducibile alla gestione del fondo. Il governo del feudo comprende la responsabilità per il signore di garantire la sicurezza interna ed esterna, di amministrare la giustizia nelle corti, di gestire un sistema fiscale ed economico (imposte, servizi, dazi doganali), in armonia con la particolare conformazione del rapporto con la comunità locale e con il suo particolare status di feudatario21. Una descrizione ed una ricostruzione minuziosa di ogni singola modalità dei rapporti di signoria e servitù non riuscirebbe comunque a dare un quadro esaustivo della complessità del sistema. In effetti, per comprendere tale complessità si deve fare riferimento piuttosto al carattere sfumato e dinamico delle relazioni stesse. Come l’affermazione della figura del Signore non è l’opera preordinata del conquistatore normanno, ma piuttosto l’emersione di una particolare figura della comunità territoriale

20 In pratica, il carattere sfumato e flessibile dei rapporti feudali rispecchia la complessità della

stratificazione sociale inglese. A questo punto, la comprensione della struttura e delle dinamiche che investono i rapporti di proprietà e di gestione della terra deve passare per una descrizione delle figure sociali che assumono un peso determinante nella modificazione dei rapporti di proprietà e nel processo di rinnovamento politico. Come emergerà nel corso di questo lavoro i ruoli delle varie figure sociali all’interno del processo rivoluzionario inglese sono di difficile individuazione a dimostrazione dell’importanza del mutamento dei rapporti interpersonali e sociali all’interno dell’equilibrio istituzionale. Per il momento, è bene precisare, che, con il termine Gentry, si vuole indicare una ‘classe in divenire’, - ossia una classe sociale difficilmente individuabile tramite gli strumenti statistici, ma che non di meno, rappresenta il vettore della modernizzazione dei rapporti di proprietà -, una classe portatrice di un nuovo modo di considerare la gestione della terra e dell’economia, che progressivamente viene assumendo un crescente peso politico all’interno del processo di modernizzazione. Naturalmente, tale ‘classe’ si sviluppa completamente all’interno della polarità costituita tra Signoria e servitù, tra Signore e contadino, e tuttavia, l’individualismo che si viene affermando nel corso del XVII secolo (come si vedrà meglio nella Parte II) sarà in grado di spazzare via tale polarità. Sociologicamente, l’individuazione di tale classe rappresenta un argomento di dibattito acceso nella storiografia. Oltre a rimandare a tale dibattito, qui si farà strettamente riferimento ai modelli sui quali vengono costruite le forme della proprietà e le forme politiche. Con il termine Gentry si fa allora riferimento, sia ai membri della nobiltà terriera che mutano in senso privatistico e capitalistico il modo di gestione del proprio fondo, sia a quella parte di contadini e di uomini liberi (come quei contadini che erano in possesso di un allodio) che si riescono ad affrancare dal sistema feudale grazie all’adozione del nuovo modo di produzione orientato alla circolazione ed all’accumulazione (freeholders e yeoman). Sul punto v. L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese cit., pp. 5-54, 66-69; un’interpretazione opposta a quella di Stone è invece offerta da H.R. Trevor-Roper, The Gentry 1540-1640, in «The Economic History Review», I, 1953, pp. 1-54. Infine una ricostruzione che interpreta nel senso qui indicato il termine Gentry è offerta da B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 5-45.

21 Cfr. R. Boutruche, Ordinamento curtense, cit., pp. 127-129. «Grazie a questo diritto (diritto di banno), il signore ordina, obbliga, punisce. Interviene nella vita privata dei suoi dipendenti, per esempio in occasione del loro matrimonio o della loro successione, percepisce tasse di trasferimento sui loro mansi, controlla i diritti d’uso. Egli esige da costoro l’ospitalità, procede a requisizione di carattere militare ed economico, crea mercati, tassa il trasporto e la vendita di derrate. Dopo aver costruito con grandi spese mulini, frantoi e forni li mette a disposizione dei suoi uomini contro un canone; a loro però proibisce simili iniziative. E questi monopoli sono a tal punto un’espressione dell’autorità signorile che assumono il nome di banalità (…) Tali pratiche hanno per fondamento la proprietà del suolo, il potere domestico e coercitivo del padrone. Esse fanno dell’antica proprietà una signoria elementare, fondiaria più che politica. Ma durante l’alto Medioevo, l’istituzione signorile si è arricchita di tratti nei quali amiamo vedere la piena fioritura del sistema: giustizia, prestazioni militari e fiscali, conio della moneta, creazione dei mercati e riscossione del teloneo, estensione del banno sui territori e su uomini estranei alla proprietà. Quando era potente lo stato si è appoggiato ai signori per raggiungere meglio i sudditi…»

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alla quale la comunità stessa decide di assoggettarsi22, così l’articolazione dei vari tipi di rapporti feudali va ricostruita secondo una visione diacronica e non formalizzata che permetta di comprendere la variabilità delle situazioni in relazione al mutamento dell’efficienza generale del sistema, ossia, alla capacità di quest’ultimo di contenere le variazioni del rapporto tra comando ed obbedienza all’interno del modello della signoria nonostante la lenta ma inarrestabile modificazione del regime proprietario23. Tuttavia, nonostante le diversità, si devono sottolineare i due elementi comuni ad ogni situazione giuridica particolare della fase più propriamente definibile come ‘feudale’. Innanzitutto alla variabilità dei singoli vincoli interpersonali si associa il comune carattere localistico del sistema di governo territoriale basato sulle relazioni feudali. In questo senso, il feudalesimo, - come anche il graduale processo di centralizzazione istituzionale - si innesta nel vecchio sistema comitale esaltandone le capacità di autoregolazione24. In questa fase, la peculiarità del sistema feudale è quella di rappresentare il sistema istituzionale in grado di preservare la stabilità e l’unitarietà di

22 Cfr. R. Boutruche, Ordinamento curtense, cit., pp. 128, 245, «In altri termini, la grande proprietà fu

fin dal principio una signoria rurale, specialmente nella società senza stato delle prime età della storia? Oppure è divenuta tale soltanto in epoca tardiva, quando poteri di origine pubblica si aggiunsero ai vecchi diritti padronali? Le sue dottrine hanno messo in contrasto molte generazioni di eruditi; e i loro esponenti hanno scavato tra loro un fossato munito di reticolati. Tuttavia la realtà fu meno drastica senza dubbio di quanto non immaginino gli antagonisti. Si rivela nelle antiche società celtiche e germaniche l’intervento di capi di clans, di villaggi o di domini i quali sollecitano e chiedono, in cambio della protezione che essi accordano. Giunge il giorno in cui esigono. Essi non reclamano più soltanto canoni e corvées, dovuti loro per la locazione della terra, ma la partecipazione, ma la partecipazione al funzionamento dell’azienda e monopoli diversi, per l’uso degli attrezzi prestati ai contadini (…) Durante l’altro Medio Evo la grande proprietà ebbe un vivo slancio (…) Comunità rurali e contadini isolati aiutarono questo progresso poiché, nei periodi di insicurezza, si posero con i loro beni alle dipendenze dei potenti».

23 Cfr. R. Boutruche, Ordinamento curtense, cit., pp. 150-151. «Alla svolta del Medioevo, la signoria presenta numerosi aspetti. Il nodo del sistema resta la signoria che ha per base una azienda di tipo curtense (…) Sulle antiche villae, dotate di poteri rappresentanti una tappa nello sviluppo delle prerogative signorili, - tappa che molte tra esse non hanno mai superato – alcune signorie territoriali si sono innalzate: signorie comitali, immunità, castellanie … Composte di terre, di diritto privato e pubblici, di prerogative sorte da una commendatio contadina, esse inglobano nella loro orbita o trascinano nel loro solco non soltanto i propri coltivatori e i propri accomandati personali, ma anche contadini che per il loro manso dipendono da un altro padrone, così come allodieri e piccoli signori. La maggior parte di queste signorie regnano senza divisione sui luoghi vicini a un castello o a un’abbazia, mentre ai loro margini sono crivellate da isole estranee e tanto instabili, che si è potuto paragonarle a delle nebulose. Esse rimangono il campo ambito delle concorrenze, dei poteri che si giustappongono, si intersecano, si distruggono». Come il feudalesimo si sviluppa compiutamente lungo il solco dell’organizzazione della villa, così la peculiarità dell’esperienza inglese si può individuare nella capacità del sistema feudale di preservare la sua originaria derivazione comitale e di sviluppare al contempo un particolare ed efficace processo di centralizzazione istituzionale. Il sistema continua in questo modo a funzionare secondo l’organizzazione materiale del regime curtense della villa, ovverosia, continua a fondarsi su un determinato tipo di economia domestica che individua nel signore e nel contadino i due soggetti che condividono in dosi e qualità differenti il dominium del territorio; dominio che si espande dall’attività di gestione del fondo (prevalentemente in mano ai contadini) alla garanzia della protezione (affidata prevalentemente al Signore), e che è in grado di articolarsi in senso unitario su tutto il regno grazie alla centralizzazione giuricentrica, la forma repubblicana, e il corrispondente sviluppo di forme di rappresentanza che tengono conto della diversa articolazione e del diverso peso ricoperto dalla campagna e della città. Cfr. anche O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 348, laddove specifica che la signoria quale paradigma di comando politico fondato sulla protezione coinvolge anche i contadini liberi titolari di allodi.

24 Sull’origine comitale e le peculiarità del «vilainage» v. M. Bloch, La società feudale, cit., pp. 304-309.

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una società agricola statica fondata su una bassa e pressoché inesistente circolazione dei fattori produttivi, e su una modalità di produzione orientata al consumo. Dunque, secondo questa impostazione, la funzione pubblica del feudo, il dominio del signore, coincide esplicitamente col carattere condiviso del regime proprietario della terra e degli strumenti produttivi ad essa legati. La costituzione politica è la costituzione della proprietà, poiché il dominium può essere scisso in dominium secundum imperium o secundum proprietatem soltanto su un piano analitico. Infatti, anche semplicemente, le funzioni di ‘governo’ ricoperte dal signore sono tali, non perché rappresentano l’espressione di un apparato di comando autonomo e indipendente, ma in quanto rispondono alle necessità derivanti dalla conduzione di un economia di tipo ‘domestico’, ossia, in quanto rispondono ad una determinata divisione sociale del lavoro, divisione che in ultima istanza riposa sempre sul carattere condiviso del regime proprietario25. In secondo luogo, la diversità delle situazioni giuridiche può essere ricompresa entro un’unica polarità: quella tra signoria e servitù. Questa polarità sembra accomunare l’insieme dei vari status giuridici nei quali l’uomo del Medioevo si può trovare. In ogni modo è bene fare da subito due precisazioni. In primo luogo, il riconoscimento del fatto che i rapporti interpersonali si sviluppino all’interno di questo polarità paradigmatica non equivale a stabilire una corrispondenza con l’antitesi tra libertà e servitù in senso assoluto. Allo stesso tempo però ciò non implica che i termini di questa antitesi non animino le contrapposizioni tra signore e contadino, tra dominanti e dominati. Tali contrapposizioni, quindi, non vanno intese come la contraddizione tra un principio di libertà intesa in senso moderno e il principio arcaico di tipo servile, ma diversamente, si deve intendere l’antitesi tra libertà e servitù in senso relativo, come la contrapposizione interna, l’essenza immanente a tutti i vari rapporti interpersonali. In questo modo la libertà acquista il proprio significato in relazione ed in contrapposizione al concetto di servitù ed assoggettamento signorile, e viceversa26. E’, questo, il senso paradigmatico della coppia signoria-servitù: ogni status giuridico nella sua particolarità serba in sé la cristallizzazione della contrapposizione tra libertà e servitù, ovvero, ogni status giuridico rappresenta l’equilibrio, il compromesso determinato dall’azione di forze contrapposte27.

25 Cfr. R. Boutruche, Ordinamento curtense, cit., p. 127, «La villa non è soltanto una unità aziendale

suddivisa in riserva (dominicum) e mansi (massaricium), ma un gruppo sociale dipendente da un padrone, un organismo di comando, o signoria che ha una sua amministrazione e consuetudini particolari. Il signore è più che un padrone che guidi gruppi di lavoratori o più che un proprietario che raccolga i frutti delle sue terre, i fitti delle sue fattorie e dei suoi fondi a colonia parziaria. E’ un capo che costringe all’obbedienza dei dipendenti i quali si legano a lui con vincoli personali intrecciati a dipendenze terriere. Questi vincoli, spesso ereditari, caratterizzano l’esistenza dei rurali, determinano il loro stato giuridico, fissano sotto molti aspetti il loro posto nella società e nello stato». Sul carattere pubblicistico delle funzioni effettivamente ricoperte dalla signoria fondiaria v. anche O. Brunner, Terra e potere cit., pp. 341-343.

26 Cfr. O. Brunner, Per una nuova storia, cit., pp. 201-215. 27 Cfr. R. Boutruche, Ordinamento curtense, cit., pp. 136-151. «La contrapposizione tra libertà e servitù

affonda le sue radici nei tempi primitivi. A prezzo di numerosi rimaneggiamenti, essa ha traversato i tempi prima di sparire, in Francia, sotto la Rivoluzione e in altri paesi con le affrancazioni dell’ultimo secolo. Ma è in seno alle signorie rurali che essa ha meglio corrisposto, durante il Medioevo, alla rappresentazione che gli uomini si facevano del loro stato. In verità questa non era tanto netta, tanto immutabile quanto lasciano supporre le affermazioni decise dei testi ufficiali. In qualche modo libertà e servitù sono nozioni relative; esse si definivano, nel loro contenuto e nella loro essenza, per la loro contrapposizione reciproca più che in se stesse. Inoltre la barriera giuridica innalzata tra gli uomini non era raddoppiata da una barriera sociale altrettanto alta. Liberi e servi vivevano fianco a fianco negli

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Seguendo questo approccio, non solo si comprende agevolmente il carattere mutevole e flessibile che assumono le relazioni feudali, ma viene confermata la tesi qui assunta che i rapporti di sovranità, nella molteplicità delle forme in cui si esprimono, sono sempre riconducibili ad un dualismo materiale dovuto al carattere condiviso dell’esercizio della sovranità stessa. In pratica se i caratteri del common law e della centralizzazione istituzionale, fino ad arrivare al carattere aperto e misto della repubblica, hanno indicato le forme politiche e giuridiche più elaborate mediante le quali l’esercizio condiviso della sovranità si esprime, l’analisi della variabilità delle relazioni feudali dimostra come tale esercizio dei rapporti di forza si manifesti giuridicamente riproducendo la materialità originaria del dualismo determinato dalla ripartizione del regime proprietario28. 3.2.1. La signoria fondiaria come unità nucleare del sistema di sovranità feudale. L’analisi della struttura della signoria fondiaria sembra confermare questa impostazione. In maniera sintetica, l’organizzazione di questa basilare struttura territoriale si può individuare in una fondamentale ripartizione di competenze: da un lato vi è l’attività di gestione agricola del fondo prevalentemente in mano ai contadini, dall’altro vi è l’autorità territoriale del Signore, autorità che si traduce in attività via via più complesse mano a mano che la signoria diventa una vera e propria signoria territoriale, ma che in ogni caso si definisce sempre in relazione alla sua essenza originaria consistente nella capacità del signore di garantire la protezione di sé, della propria familia e più in generale della comunità territoriale ad esso sottoposta. L’antitesi

stessi villaggi, faticavano sulla stessa terra, occupavano mansi che non corrispondevano sempre al loro stato giuridico, si univano in matrimonio e praticavano la stessa fede. Tuttavia ci si ripete, la divisione è netta: nessuna sfumatura, niente semiliberi. Falsa chiarezza! Tra la libertà piena e il totale asservimento esisteva una zona indecisa di cui in contemporanei avevano coscienza, anche se non lo confessavano quasi, una zona che non osava dire il suo nome…» Anche per quanto riguarda i cosiddetti «uomini senza signore», ovvero, i contadini senza padrone che disponevano della terra libera dai vincoli feudali (allodium), ad un certo punto del Medioevo diviene necessario entrare all’interno del sistema di governo. Per questi contadini, cioè, si aprono due vie: o contrattare con un Signore territoriale un accordo che garantisca loro la sicurezza dietro il pagamento di semplici oneri tributari, preservando così l’autonomia gestionale del fondo, o divenire essi stessi Signori delle proprie terre, ovvero rispondere all’interno del proprio territorio alle esigenze non soltanto economiche, ma più marcatamente di carattere politico e giuridico, necessarie alla sopravvivenza del gruppo sociale.

28 Cfr. M. Bloch, La società feudale, cit., pp. 374-376. Il fatto che i rapporti feudali in Inghilterra siano determinati costantemente dalla materialità della ripartizione del regime proprietario sulla quale si sviluppa la contrapposizione sostanziale tra Signoria e servitù sembra confermato dalle osservazioni di M. Bloch sui caratteri peculiari della nobiltà inglese. «Una tale classe – la nobitlà - , in verità, non doveva nascer mai: L’Inghilterra medievale non ebbe nobiltà, nel senso francese o tedesco della parola. Vale a dire, tra gli uomini liberi non si costituì nessun gruppo di essenza superiore, dotato di un diritto speciale trasmettentesi attraverso il sangue. Struttura, in apparenza, singolarmente egualitaria! A ben guardare, essa poggiava tuttavia sull’esistenza di una frontiera gerarchica eccezionalmente dura, se pure situata più in basso. Infatti, nello stesso momento in cui, dovunque, la casta dei nobili si elevava al di sopra della massa sempre più grande della popolazione qualificata come «libera», in Inghilterra, invece, la nozione di «servitù» si estendeva talmente da colpire la maggioranza dei contadini. Sul suolo inglese, il semplice freeman non si distingueva in via di diritto dal gentiluomo; ma gli stessi freeman costituivano una oligarchia».

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tra libertà e servitù va inserita all’interno di questa ripartizione delle attività della struttura territoriale. In ogni modo, non si deve pensare al contadino come ad un soggetto inerme di fronte all’autorità signorile. Se, infatti, l’esistenza di una protezione signorile è necessaria per la sopravvivenza del comunità territoriale, altrettanto vero è il fatto che il comando del signore sul territorio dipende effettivamente ed in maniera diretta da come i contadini percepiscono soggettivamente il potere e il governo del proprio signore. Il dualismo si sviluppa materialmente su questo tipo di ripartizione. Mentre infatti, il potere e l’autonomia del contadino si ripercuote concretamente sul carattere condiviso del dominio, il comando ed il potere signorile si allargano in relazione alla capacità di garantire difesa e protezione. Una tale ripartizione, quindi, riproduce l’essenza del dominio territoriale, ossia, il suo aspetto personalistico, relazionale e dinamico29. A questa ripartizione – che in nessun modo coincide con una ripartizione tra attività di tipo economico ed attività di tipo giuridico e politico30 – non fa riferimento in senso formale una semplice relazione di comando-obbedienza organizzata secondo un criterio funzionale, ma, in senso sostanziale, una relazione di fedeltà reciproca in grado di legare al territorio signore e contadino, dominanti e dominati. Si tratta a tutti gli effetti di una relazione simmetrica e biunivoca. In effetti, la ripartizione è essenzialmente l’espressione di una relazione dinamica che può assumere indifferentemente i tratti della contrapposizione o della cooperazione, secondo l’atteggiamento assunto dai soggetti in campo. Infatti, così come l’attività e l’aiuto del contadino, non solo rafforza la posizione del signore, ma è anche indispensabile per la garanzia della propria sicurezza, così il signore deve avere buona cura dei suoi sottoposti al fine di poter contare costantemente su tale aiuto, aiuto che nel caso estremo si può tradurre perfino nella chiamata alle armi dei contadini stessi. In ogni caso il comando politico non è mai il frutto di una relazione statica e formale, ma bensì

29 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 487-496. «Il potere signorile, affermandosi, minaccia di

privare i contadini dei loro stessi diritti. Tutto ciò non potrebbe accadere se il contadino fosse in grado di esistere senza aver bisogno della protezione del signore. Dobbiamo pensare, allora, che il primo sia totalmente inerme di fronte al potere del secondo? Assolutamente no. Sappiamo anzi che il signore ha bisogno del contadino e che, soprattutto nei casi di necessità, deve ricorrere al suo aiuto (…) Infine il contadino vessato può anche fuggire in una città o emigrare in un lontano territorio coloniale. E questo è un problema assai serio, poiché la riserva di uomini, in epoca medioevale, non è certo inesauribile; pertanto, è proprio la necessità dei coloni a costringere il signore ad un comportamento il più possibile prudente nei confronti dei contadini. Ecco che allora, il contadino può anche irrigidirsi nella difesa del suo «antico diritto» - ossia della tradizione -, al punto da pretendere talvolta anche determinate concessioni. Il suo intento, ovviamente, consiste nell’ampliamento del suo diritto di possesso (…) e nell’estensione del proprio diritto di fruizione del bosco e del pascolo, a scapito del signore. In tutto ciò possiamo anche osservare che i contadini abbiano l’abitudine di designare come loro antico e buon diritto certe cose che antiche non sono, ma che corrispondono pur sempre ai loro desideri. Abbiamo dunque a che fare con una duplice tendenza che può condurre a soluzioni molto diverse a seconda del luogo. E’ assolutamente impossibile parlare della «condizione» del contadino in senso lato, poiché la relazione che egli intrattiene col signore dipende nel modo più ampio dalla personalità di quest’ultimo. Un signore duro e privo di comprensione dovrà necessariamente vedersela con contadini ostinati e malvolenti. Per contro, un cambiamento di persona o un ritiro da parte del signore possono mutare radicalmente la natura del rapporto».

30 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 341-354, 488. «La signoria fondiaria, infatti, non è una formazione prettamente economica, né prettamente politica: in essa, entrambi questi elementi sussistono in una fusione reciproca e indivisibile, al centro della quale troviamo le idee di protezione, omaggi, fedeltà e aiuto». Cfr. anche quanto detto circa i caratteri del «corpo mistico della Repubblica», supra, Parte I, cap. II, par. 2.3.3, in particolare pp. 78 ss.

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il prodotto immanente e mai definitivo del rapporto dualistico soggettivo tra Signore e contadino, tra dominante e dominato. Ecco dunque il nucleo del concetto del dominio come Gewere: da un lato vi è il carattere misto del regime proprietario, e dunque una particolare divisione sociale del lavoro; dall’altro un dominio territoriale che è tale soltanto nella misura in cui il soggetto titolare di tale dominio è in grado di garantire la difesa e la cura dei suoi sottoposti31. Il comando politico, all’interno dei rapporti feudali, acquista dunque una complessa definizione. Innanzitutto, non vi è un campo delimitato (giuridico o politico) all’interno del quale confinare l’obbligazione politica; piuttosto, questa pervade l’insieme dei rapporti sociali, polarizzandosi, grazie al carattere rurale della società e della centralità della proprietà fondiaria, intorno ad un nucleo originario identificabile nel rapporto dualistico tra Signore e contadino. Il carattere di tale dualismo descrive i due contenuti basilari del diritto costituzionale medioevale: da un lato il carattere condiviso del dominio sulla terra, in quanto causa e prodotto al tempo stesso della relazione dualistica, acquista direttamente un valore pubblicistico, determinando così il fatto che il regime proprietario risulta intrecciato alla definizione del diritto costituzionale premoderno; dall’altro lato, il postulato che vuole che il comando politico non sia mai svincolato dalla sua effettiva legittimità viene confermato dal riconoscimento del fatto che il comando stesso è il prodotto, o il compromesso, che scaturisce dall’originario dualismo tra signore e contadino. In secondo luogo, infatti, si deve osservare come il principio di fedeltà, che informa la relazione di comando-obbedienza, possa funzionare praticamente come principio di reciproco riconoscimento soltanto nella misura in cui la concezione del diritto medioevale permette di organizzare tale relazione su di un terreno comune. Non solo, il comando per esistere giuridicamente deve essere legittimo, ma nel caso in cui esso non sia ritenuto legittimo esso si qualificherebbe immediatamente come violazione del diritto, come violenza illegittima, contro la quale è ammesso il diritto di resistenza e l’autodifesa. Peraltro, questa possibilità non rappresenta un’ipotesi astratta: il diritto di resistenza e all’autodifesa si traduce per il signore in un dovere di protezione dell’intera comunità, e, al contrario, per il contadino nella possibilità concreta di manifestare e far valere legittimamente le proprie pretese davanti al signore - nelle forme più varie che possono coincidere con atti di chiara rivendicazione politica o con rivendicazioni di carattere apparentemente meramente economico - qualora ritenga che quest’ultimo violi i patti e le consuetudini, ossia violi il vincolo di fedeltà. D’altra parte, la fedeltà (fides) è qualcosa di più della mera obbedienza; essa si concretizza in un’attività positiva: esser fedeli significa non solo obbedire passivamente, ma operare in favore del signore, promuoverne l’utile senza per questo attendere un ordine specifico. La fedeltà è, quindi, un vero e proprio rapporto di grazia, come quello che intercorre fra i vassalli e il signore feudale, o fra Gesù Cristo e Dio, rapporto che si concretizza all’interno dell’unità politica molecolare costituita dalla signoria fondiaria nella determinata

31 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 351 ss. «Essa - la Gewere - sta ad indicare il possesso e

l’utilizzo effettivi di una cosa, tali da lasciar presumere l’esistenza di un diritto vero e proprio sulla medesima. Abbiamo quindi a che fare con un concetto che è assai prossimo a quello di possesso e che tuttavia non vi si identifica per intero. Dal nostro punto di vista è decisivo tener conto di quanto segue: il possesso effettivo, che fa parte della Gewere e che si esprime nell’utilizzo in chiave economica, presuppone, in termini giuridico-territoriali, la piena capacità difensiva (e cioè quella di portare armi). Detto altrimenti, è necessario essere in grado di proteggere la propria Gewere con la forza delle armi, contro ogni tentativo di spoliazione».

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ripartizione di attività tra Signore e contadino, ossia nella ripartizione identificata nel carattere complesso del regime proprietario e nel sistema di autodifesa garantito dal signore. Come il Cristo è «nella grazia di Dio», così anche il signore comanda e proibisce con la minaccia di togliere la grazia. Soltanto, nel caso in cui è egli stesso ad oltrepassare il limite di ciò che è esigibile in termini etici e giuridici, allora il contadino non solo può rifiutargli la fedeltà e l’obbedienza, ma può far appello al buon diritto antico, agendo legittimamente per la tutela delle proprie prerogative32. 3.2.2. La Repubblica e l’Antica Costituzione come forme sostanziali basate sulle libertà cetuali. I rapporti di sovranità, dunque, anche nella loro dimensione molecolare, si dimostrano possedere i caratteri della sostanzialità e della dinamicità: sostanziali perché muovono da una determinata ripartizione di attività fondata sul dominio condiviso della proprietà; dinamiche perché questa ripartizione non rappresenta un patto formale e definitivo ma il prodotto immanente dell’azione delle rispettive soggettività che animano il rapporto dualistico33. Si comprende a questo punto la connessione

32 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 360-376. L’articolazione dell’originario e molecolare

dualismo tra signore e contadino permette così di comprendere come la trascendenza del diritto e la determinata dimensione ontologica della concezione dell’uomo nella società, individuabile nel concetto di universitas, siano immanenti in ogni unità della molteplicità. «Il concetto di grazia o favore (Huld) ricorre con frequenza ad ogni livello dell’organizzazione signorile medievale. Il rapporto di grazia è quello che intercorre fra i vassalli ed il signore territoriale, fra Gesù Cristo e Dio. E come Cristo è «nella grazia di Dio», così anche il signore comanda e proibisce con la minaccia di togliere la sua grazia. Un opportuno rinvio al significato che il concetto di grazia assume in ambito medievale può farci intendere – al di là di ogni distinzione fra ordinamento religioso e mondano – quale sia il senso autentico di questa parola, preservandoci così dall’errore di ritenere che la perdita della grazia del signore sia cosa di nessuna importanza. Il signore e il colono stanno l’uno rispetto all’altro in un rapporto di fides, ovvero di fedeltà (treue) (…) L’omaggio è la prestazione di un giuramento o di una promessa di fedeltà; proprio un rapporto di questo tipo – quale intercorre fra signore e colono – serve a spianarci la strada verso ulteriori considerazioni. La fedeltà infatti è ben altra cosa dall’obbedienza, alla quale il servo è comunque tenuto nei confronti del suo signore, anche nel caso in cui ne perda la grazia. La fedeltà è qualcosa che va oltre l’obbedienza. Esser fedeli significa operare in favore del signore, promuovendone l’utile, impedendone il danno, senza per questo attendere un ordine specifico e preventivo. Per contro, la fedeltà pone anche un limite all’obbedienza, poiché fedeli si può essere solo nell’ambito di ciò che è esigibile in termini etici e giuridici. Tale limite è costituito dal costume e dal diritto. Tutto ciò è di enorme importanza, poiché se il signore oltrepassa questo limite, il contadino può rifiutargli tanto la fedeltà quanto l’obbedienza. Più avanti avremo modo di domandarci se un fatto del genere sia mai accaduto realmente. Per ora limitiamoci a constatarne la possibilità, tenendo ben presente che il diritto, nella sua accezione medievale, è un ordinamento consacrato dalla religione e posto al di sopra degli uomini. Il contadino stesso ha la possibilità di fare appello al «diritto antico», ovvero a «Dio e al diritto», cosa che ha anche fatto in certi casi. Quando la signoria rifiuta di ascoltarlo, egli può chiedersi se essa, così facendo, non agisca contro il diritto divino».

33 Cfr. P. Grossi, Modernità politica e ordine giuridico, in Assolutismo giuridico e diritto privato, cit., pp 453-454. In definitiva la sovranità medievale si definisce sempre e comunque in un ambito relazione; essa presuppone, dunque, sempre l’azione di una pluralità di soggetti. «E’ ambiguo il termine ‘sovranità’ giacché è adoperato normalmente nel diritto feudale per designare una posizione di superiorità, con una evocazione che potrebbe confondere un osservatore disattento e fargli pensare a qualcosa di più di una mera continuità terminologica. E la necessaria precisazione è la seguente: sovranità (souveraineté) è, nel diritto feudale, una tipica posizione di relazione, descrive una situazione di autonomia, cioè relativa,

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necessaria che intercorre tra la forma repubblicana del corpo mistico e il carattere cetuale della società, ovverosia si comprende il carattere sostanziale della forma repubblicana: l’idea di universitas non rappresenta infatti un’unità formale, ossia la forma teorico-politica in grado di determinare astrattamente l’articolazione delle relazioni interpersonali, ma al contrario rappresenta la perfetta unità sostanziale, la compiuta ed unitaria elaborazione politica e giuridica in grado di far esprimere sul terreno comune del diritto le soggettività giuridiche molteplici che operano nella società. In altri termini, non è la predisposizione della dottrina del corpo mistico a determinare l’articolazione cetuale della società, ma viceversa, è l’articolazione della società per status, determinata dal particolare regime proprietario e dalla conseguente divisione del lavoro, che trova nell’idea di universitas la sua forma più compiuta in grado di valorizzare al meglio quella divisione sociale del lavoro. In questo senso si possono delineare in maniera definitiva i tratti dell’Antica Costituzione. La fusione dei concetti di autorità e società, come anche l’inapplicabilità della distinzione pubblico/privato, si connettono alla particolare conformazione della struttura basilare dell’Antica Costituzione, indicando il particolare rapporto tra forma e sostanza che si viene ad instaurare. La forma è tale soltanto nella misura in cui riposa in ultima istanza sulla particolare articolazione sostanziale della struttura della signoria fondiaria, dunque, soltanto nella misura in cui si basa ed è espressione di un particolare regime proprietario. Come il rapporto tra unità e molteplicità fonda la dottrina del corpo mistico solo nella misura in cui riproduce la sostanza dell’articolazione dei rapporti sociali ordinata secondo lo status, così il carattere pubblico – e dunque in una certa misura formale – delle relazioni di signoria si definisce solamente nella misura in cui le relazioni feudali, gli status giuridici rappresentano l’espressione dei rapporti materiali e dinamici determinati dal particolare regime proprietario. Allo stesso tempo però non si deve intendere l’articolazione del regime proprietario e dei rapporti di signoria come qualcosa che precede la definizione giuridica dei rapporti feudali e la definizione di universitas. Infatti anche i rapporti di proprietà acquistano un ruolo pubblicistico e rappresentano la struttura della costituzione soltanto dal momento che si riconnettono ad una determinata concezione ontologica della società. In questo senso si può parlare di struttura e forma della costituzione repubblicana antica. Il rapporto tra forma e sostanza viene ribaltato, ma non si traduce necessariamente in un rapporto deterministico tra struttura e sovrastruttura, tra sostanza e forma. Diversamente, la forma si definisce come nesso tra realtà effettuale e espressione giuridica, ossia in base alla capacità di dare espressione alla razionalità immanente alla sostanza delle relazioni sociali: così come la forma repubblicana diviene l’unità sostanziale poiché diviene la rappresentazione di una determinata articolazione sociale, così il regime proprietario diviene struttura della costituzione perché riesce ad acquisire una forma giuridica34. con uno stacco concettuale nettissimo rispetto a quanto, per esempio, Bodin intenderà come souveraineté».

34 A questo punto è possibile definire l’Antica Costituzione nei termini di una costituzione in senso materiale, nella misura in cui l’identità tra regime proprietario e potere politico diviene l’asse materiale su cui poggia l’intera architettura istituzionale. Tuttavia tale definizione diverge radicalmente dal modello di costituzione materiale fornito dalla scienza giuridica continentale. In primo luogo infatti una definizione di costituzione formale non è un che di separabile dalla forza politica, ossia essa è la stessa costituzione materiale. In altri termini, la definizione dell’antica costituzione come costituzione materiale non si ricava dall’opposizione tra sfera sociale e sfera statuale, ma è innervata nella strutturazione corporativa e istituzionale della società; la costituzione materiale non si dialettizza con la

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L’analisi del dualismo dei rapporti di sovranità mostra la complessità dell’articolazione costituzionale antica. Materialità dei rapporti di proprietà e dimensione ontologica si compenetrano nella forma costituzionale e definiscono i termini di questa articolazione, definendo l’identità a fondamento dell’intero modello politico medioevale35. L’identità è costituita dall’iniziale e materiale ineguaglianza dei possessi degli uomini per natura e dalla conseguente ineguaglianza di status e di diritti che ne deriva36. La signoria diviene in questo contesto l’autentico paradigma del comando politico in grado di legittimare, e governare, in funzione di questa articolazione, l’insieme dei rapporti sociali. Tuttavia, come si è visto, il riconoscimento di tale ineguaglianza non equivale a riconoscere l’inesistenza dei rapporti di forza, di una tensione tra libertà e servitù. La libertà si definisce soltanto in contrapposizione ad essa; e tuttavia non può essere una libertà assoluta in senso moderno; essa si può definire soltanto nella capacità materiale di sottrarsi o erodere il vincolo di soggezione. Ed in ogni caso non vi è comunque la possibilità di uscire all’esterno di tale modello. Una libertà totale per l’uomo del Medioevo coinciderebbe, infatti, soltanto con l’essere il signore più potente. La libertà si può definire dunque soltanto all’interno del modello, all’interno di un mondo fondato sull’ineguaglianza e allo stesso tempo sull’antagonismo e la cooperazione, all’interno di un sistema di governo sostanziale nel quale tutti i costituzione formale, ma al contrario, è quest’ultima che si ricava dalla definizione della prima. L’Antica Costituzione è dunque sempre essenzialmente una costituzione materiale. Il principio di unità costituzionale non si ricava così da un’astrazione formale, ma dalla ricomposizione pluralistica delle istanze istituzionali-sociali. In pratica, la costituzione non discende da un principio di tipo razionale-formale, ma da uno di tipo razionale-immanentistico. La forma della costituzione, cioè, dipende costantemente dalla sua definizione materiale; ossia, la forma non prevale e determina la sostanza, ma diversamente, resta il mero nesso che congiunge la realtà all’idea, la vita sociale al diritto. Sul concetto di Costituzione materiale v. C. Mortati, La Costituzione in senso materiale, cit., in particolare le pp. 68 ss. Su questo determinato rapporto tra forma e sostanza v. I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari, 2006; A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico, cit., pp. 57 ss.

35 In realtà, seguendo un approccio storiografico sarebbe più corretto fare riferimento esclusivamente ai concetti di Repubblica o Regno, mentre risulterebbe improprio l’utilizzo del termine costituzione (sconosciuto o scarsamente utilizzato nel Seicento inglese) per la definizione del concetto di suprema unità politica e collante della legittimità politica. Cfr. H.A. Lloyd, Constitutionalism, cit., pp. 254 ss. Meno fuorviante sarebbe a questo punto fare riferimento all’utilizzo del termine «diritto costituzionale» operato da Brunner in luogo del riferimento al termine «costituzione». Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 169-186; Id., Per una nuova storia, cit., pp. 1-19.

36 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 367 ss. Il carattere pattizio del vincolo di fedeltà tra Signore e contadino non può essere in ogni caso inteso come una forma primordiale di contrattualismo moderno, ma diversamente, la bilateralità del rapporto conferma il fatto che la relazione è il risultato dell’azione di soggettività giustapposte. «La fedeltà è un rapporto bilaterale che ha in sé qualcosa del contratto (…) si tratta però di un particolare tipo di contratto. Esso infatti viene stipulato mediante un giuramento (Eid) – e, nella fattispecie, un giuramento di fedeltà (Treuid) - , ovverosia mediante l’omaggio. Anche nel caso della concessione della terra è previsto un «contratto» di questo genere; non si tratta, dunque, di un «contratto d’affitto» nel senso moderno del termine (…) Nel caso in cui venga istituito un rapporto di colonato, si stabilisce pure un paricolare vincolo che lega il colono al signore e che è sancito e rafforzato da un giuramento di fedeltà. In altri termini, il contratto in questione dà origine ad uno status che inerisce all’uomo nella sua interezza e che lo sottopone ad un vincolo fondato sull’elemento religioso del giuramento. Non c’è dubbio che un rapporto istituitosi mediante giuramento di fedeltà possa anche essere di breve durata, come nel caso della concessione a tempo determinato. Tuttavia, finché sussiste, esso è vincolante per l’uomo in quanto tale, nella pienezza della sua persona, e non dà origine ad una relazione circoscritta ad un solo e determinato oggetto, come invece accade nell’ambito del moderno diritto contrattuale». Cfr. con l’eguaglianza formale fondata sull’originaria ineguaglianza sostanziale nei possessi descritta da Hegel. G.W.F. Hegel, Lineamenti, cit., ann. § 49, p. 56.

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soggetti esercitano una quota di potere, ovverosia, nel quale la sostanzialità del governo costituisce una vera e propria democrazia dell’illibertà37. 3.3. La crisi del costituzionalismo antico. Nel XVII secolo, l’articolazione del comando politico secondo il paradigma della signoria, rappresentata dall’insieme delle reti sociali costituite dai rapporti feudali, entra nella sua fase di declino definitiva, determinando la crisi del modello costituzionale antico. Con la crisi del feudalesimo e del costituzionalismo antico si può ora indicare la crisi di un sistema di governo territoriale fondato su di un originario dualismo che aveva nella particolare ripartizione tra dominio diretto e dominio utile, tra conduzione delle attività agricole e protezione militare, la propria articolazione funzionale in grado di assicurare al sistema una situazione di instabile equilibrio. A questo punto, sulla base di questa breve ricostruzione dei rapporti di sovranità medievali, la tesi harringtoniana dell’equilibrio repubblicano38, basato sull’identità tra proprietà terriera, potere politico e forza militare, risulta di estrema utilità, poiché si dimostra essere in grado di esplicare il significato e la portata costituzionale della crisi, e perché permette al contempo di gettare le basi per l’analisi della ricostruzione moderna della costituzione inglese, ovvero, permette di comprendere la natura e la dimensione costituente del mutamento39.

37 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 333-355, 487-496. Si deve precisare che si intende il

concetto di signoria come autentico e peculiare paradigma della sovranità premoderna, radicalmente distinto dalla rielaborazione fattane da Jellinek per il quale anche l’essenza del potere sovrano moderno sarebbe costituito dal potere di autosignoria. In pratica, Jellinek riduce la signoria ad un semplice potere di comando sul territorio e la sovranità moderna ad un semplice potere di disposizione, operando così una doppia mistificazione: egli riconosce infatti il carattere statuale delle istituzioni premoderne ed allo stesso tempo perde di vista il carattere formale-razionale che viene assumendo la sovranità moderna. Diversamente, con il concetto di signoria si intende un paradigma di comando fondato sull’idea di fedeltà reciproca, che va al di là della mera obbedienza e che è in grado di permeare l’insieme dei rapporti interpersonali e delle attività (sia più marcatamente di carattere giuridico o economico) che caratterizzano la vita sociale della comunità medioevale. La signoria come tipo di relazione sociale, non solo, dunque, è qualcosa di più di una semplice obbligazione politica in senso moderno, ma ha alla sua base un concetto antitetico a quello a fondamento del potere moderno: l’idea che astrattamente l’uomo può disporre o può essere sottoposto alla disposizione di un altro uomo. Concretamente, tale astrazione, che si comprende solamente sulla base dell’analisi del modello dell’universitas, si traduce nell’organizzazione e nell’accettazione di una società ordinata per ceti e status giuridici. Cfr. G. Jellinek, La dottrina generale, cit., pp. 82 ss.; sull’espressione «l’uomo di un altro uomo» v. M. Bloch, La società feudale, cit., pp. 171 ss.

38 Sulla compatibilità e la relazione tra il modello germanico ricostruito da Brunner e il modello di governo feudale del territorio anglosassone, nonché sull’importanza assunta dall’approccio repubblicano e «harringtoniano» nell’interpretazione di tale modello e del suo progressivo dissolvimento a partire dal XVII secolo, v. J.G.A. Pocock, The mobility of property and the rise of eighteenth-century sociology, cit., pp. 103-124.

39 Cfr. J. Harrington, La Repubblica di Oceana (a cura di G. Schiavone), Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 93-161. La comprensione di questa concezione repubblicana è di fondamentale importanza, non solo perché rappresenta un pensiero elaborato soggettivamente all’interno del processo rivoluzionario, ma anche perché tale pensiero si sviluppa proprio lungo una linea di tensione che tenta di trovare una soluzione costituzionale efficace in relazione alla portata degli sconvolgimenti politici ed istituzionali. Da parte di alcuni studiosi viene sottolineato il fatto che Harrington conoscesse soltanto superficialmente l’evoluzione particolare delle relazioni feudali inglesi – in particolare da parte di C.B.

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La crisi dell’instabile equilibrio40, è infatti immediatamente la crisi della ripartizione funzionale del dualismo tra signore e comunità territoriale. Se infatti nel modello medioevale la proprietà della terra veniva concessa dall’uno ai pochi ai molti dietro la predisposizione di un corrispettivo sistema di protezione e difesa, per cui i molti si affidavano ai pochi, ma l’uno, il monarca, restava dipendente dalla capacità militare dei pochi (feudatari), d’altro canto, la ripartizione funzionale interna alla signoria territoriale rappresentava il nucleo nel quale l’equilibrio tra proprietà terriera, potere politico e forza militare si veniva a costituire. Ad un certo punto però, la distribuzione della proprietà non coincide più con la relativa forma di governo, determinando, in generale la crisi di quell’architettura istituzionale, ed in particolare la crisi definitiva del suo nucleo funzionale, ovvero della signoria quale paradigma di comando politico41.

MacPherson in Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Isedi, Milano, 1973, pp. 198 ss. - In ogni caso questo aspetto è del tutto ininfluente in questa sede, poiché la sua interpretazione si connette con la ricostruzione dell’Antica Costituzione qui svolta. Se è vero che la ricostruzione della storia inglese procede secondo un criterio deterministico che porterà, non casualmente, Harrington a sviluppare una proposta di costituzione giuridica artificiale e antistorica; se dunque, più che scontare un limite nella conoscenza del sistema precedente, egli paga il limite di una ricostruzione razionalistica-formale e statica della nuova struttura sociale, d’altra parte, l’utilità del suo contributo è individuabile nell’approccio machiavelliano allo studio della costituzione. In fondo, il tentativo messo in campo da Harrington consiste nell’individuazione di una possibile riarticolazione razionale della base della costituzione antica in relazione al mutato contesto della proprietà e della società inglese del ‘600. Nel fare ciò, sebbene egli sviluppi una proposta formale ed irrealizzabile, tuttavia individua, a partire dall’analisi della crisi del vecchio sistema, la base materiale su cui la futura costituzione necessariamente dovrà fondarsi. L’equilibrio tra proprietà e potere politico, che nella contingenza degli eventi rivoluzionari si deve tradurre nella democrazia della milizia repubblicana armata, si deve stabilizzare all’interno della nuova costituzione mediante un principio materiale in grado di armonizzarsi con i caratteri del diritto inglese. Questo principio è assicurato in modo funzionale dalla legge agraria e dal sistema di rappresentanza politico, le due vere e proprie leggi costituzionali in senso materiale. Così, sebbene l’intera elaborazione del sistema giuridico può passare in secondo piano, resta in ogni caso l’importanza di «una meditazione machiavelliana sul feudalesimo» - l’espressione è di J.G.A. Pocock - a partire dalla quale si tenta qui di delineare i tratti della costituzione moderna inglese. Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., pp. 158-185; Id., La Repubblica, cit., pp. 646 ss.; C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 191-224; A. Negri, Il Potere Costituente cit., pp. 142-178. In particolare sulla legge agraria v. anche J. Harrington, The art of Lawgiving, in J.G.A. Pocock (a cura di), The Political Works of James Harrington, Cambridge University Press, 1977, in particolare le pp. 605-614.

40 L’espressione di J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 665-666, è utilizzata per descrivere la visione che Harrington costruisce della monarchia inglese nel periodo feudale in contrapposizione alla monarchia turca. «Harrington, tuttavia, introdusse un’ulteriore distinzione: quella tra monarchia alla turca, nella quale la terra era tutta di uno solo e gli altri la avevano in concessione a suo arbitrio, e la monarchia di tipo «gotico» ossia feudale, nella quale «pochi» tenevano la terra del re e i «molti» la tenevano dai «pochi». Ma questa, nell’opinione di Harrington, non era una vera monarchia, dato che in essa si aveva un equilibrio sbalestrato ed instabile. Le rivolte feudali nel caso della monarchia «gotica» e le ribellioni della guardia di palazzo nella monarchia alla turca (nella cui categoria rientrava il tardo impero romano) stavano a provare che tale tipo di monarchia, anche nella sua forma più rigorosa, non era riuscito mai a dare luogo ad una forma di governo di sicura stabilità».

41 Cfr. J. Harrington, La repubblica di Oceana, cit., pp. 139-153. Per Harrington all’interno dell’organizzazione feudale lo stato di salute della nobiltà assicurava l’equilibrio generale del sistema di governo. La sua virtù si connetteva direttamente con la capacità di legare alla terra il popolo per mezzo delle reti di comando feudali. D’altra parte la monarchia doveva vigilare sulla nobiltà stessa al fine di preservare l’equilibrio, impedendo così la corruzione della nobiltà stessa. Harrington imputa la crisi di questo modello di governo alla variazione nella distribuzione della proprietà, crisi dovuta essenzialmente alla politica intrapresa prima da Enrico VII in seguito alla guerra delle due rose (1455-1485), con la quale venne favorito l’affrancamento dai vincoli di servitù dei piccoli proprietari terrieri, e

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La variazione nella distribuzione della proprietà è determinata dall’affermazione di un nuovo modo di gestione del possesso terriero. Progressivamente, alla vecchia economia localistica orientata al consumo si viene sostituendo un tipo di economia orientata al commercio ed all’accumulazione che presuppone una modalità di gestione della terra radicalmente diverso dal paradigma del dominio condiviso. La nuova economia richiede una proprietà piena, esclusiva, in maniera da permettere una modalità di conduzione dell’attività agricola che possa sfruttare al meglio le capacità produttive del fondo42. In termini sociologici, la variazione nella distribuzione della proprietà che consegue al nuovo modo di gestire la terra è dunque in primo luogo il risultato di una lotta per l’egemonia economica sul nuovo mercato che necessariamente ha implicato la marginalizzazione di interi settori della nobiltà incapaci di adattarsi al nuovo contesto, e l’affermazione di una nuova soggettività in grado di assumere una posizione di

poi da Enrico VIII con la secolarizzazione delle proprietà ecclesiastiche, mediante la quale l’industriosità del popolo venne ulteriormente favorita. Naturalmente, se questa ricostruzione può apparire limitata, o non esaustiva da un punto di vista storico, tuttavia, non solo Harrington mette in evidenza due passaggi fondamentali del mutamento sociale inglese, ma inserisce immediatamente questi due dati all’interno di una più generale analisi politica e costituzionale. La crisi nell’equilibrio proprietario causata da questi due monarchi, diviene così la crisi più generale di un sistema di governo ben determinato. E’ la dissoluzione di questo sistema di governo afferma Harrington a generare la guerra, e non il contrario. E’ evidente secondo Harrington che il controllo delle armi, dell’esercito, può assicurare la vittoria della guerra. Tuttavia, una monarchia fondata soltanto sulla forza delle armi, quand’anche più assoluta di una monarchia mista fondata sulla nobiltà, rimane inferiore qualitativamente rispetto ad una monarchia repubblicana. Che cosa rimarrebbe del suo esercito battuto? Soltanto un popolo composto di schiavi del quale sarebbe molto facile impadronirsene. Resta così costante un aspetto del pensiero di Harrington: la superiorità di un governo fondato sulla sostanzialità del modello repubblicano misto. La crisi del sistema feudale non è solo la dissoluzione di un sistema militare di protezione e difesa, ma la crisi definitiva dell’antica prudenza. La ricostituzione del governo dunque muove dall’esito della guerra, ma si connette direttamente con l’affermazione di una virtù pubblica, di una coscienza repubblicana, ovvero di una prudenza moderna. Per Harrington, dunque, il cittadino repubblicano diventa un miliziano (e viceversa) nella misura in cui la cittadinanza è espressione dell’equilibrio proprietario. In definitiva, è in questo senso che si deve ridefinire l’equilibrio costituzionale tra potere politico, proprietà e forza militare. Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica cit., pp. 659 ss.

42 Come già anticipato (supra, nota 7, p. 88) la proprietà moderna presuppone alla base una determinata antropologia individualista. Tuttavia, come si vedrà meglio più avanti, quest’ultima sarà non solo determinante per la delimitazione di un ambito privatistico per il cittadino, ma più in generale giocherà un ruolo determinante per la definizione in senso contrattualista del potere politico. Per il momento comunque è necessario sottolineare che la particolarità della modernizzazione inglese consiste nel fatto che il mutamento dei rapporti di proprietà è in grado di affermarsi all’interno delle procedure dell’antico diritto. Il vero aspetto di continuità del diritto di common law non risiede dunque nell’apparente continuità delle forme, ma bensì nella persistenza del carattere plastico e flessibile del diritto che permette materialmente di integrare all’interno del sistema di giustizia un mutamento che investe l’intero sistema di governo territoriale. Il nuovo diritto di proprietà rappresenta in questo senso un successo del sistema di common law raggiunto mediante la compenetrazione tra giurisdizione d’equity e corti di common law, ovverosia, attraverso la capacità di intrecciare, la tutela reale alla vecchia proprietà nonfreehold (per la quale non era prevista la real action), e viceversa, la natura proprietaria degli interessi tutelati dall’equity. A differenza del modello continentale, dunque, la proprietà moderna in Inghilterra non necessiterà né di una legislazione codicistica, né tanto meno di una scienza positivistica di tipo formalista capace di razionalizzare in senso formale la disciplina della proprietà privata. Cfr. U. Mattei, Common law, cit., pp. 326-332; anche D. Sugarman, R. Warrington, Land law, citizenship, and the invention of “Englishness”. The strange world of the equity of redemption, in Early Modern Concptions of Property, Routledge, London, 1995, pp. 134-135.

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superiorità all’interno della società. D’altra parte anche gli strati contadini sono costretti ad adattarsi al mutamento. Se una parte minoritaria, in prevalenza costituita dai titolari di allodi o di contratti di locazione, si dimostra in grado di adottare il nuovo metodo di produzione, riuscendo così a costituire una classe di piccoli proprietari (yeomanry), la grande maggioranza vede peggiorare le proprie condizioni. I contadini si trovano costretti a rimanere a condizioni peggiori presso i signori della nobiltà decaduta o possono emigrare verso le città, andando così ad ingrossare le fila del futuro esercito di riserva dell’industria43. In questo contesto, da un punto di vista prevalentemente sociologico-economico, emerge la centralità della nuova soggettività legata al nuovo modo di produrre44, la gentry45. Se è provato che questa soggettività, che attraversa le differenti classi sociali, possa essere considerata il vero e proprio vettore sociale della modernizzazione dei rapporti di proprietà, tuttavia, resta aperta, in termini sociologico-politici, la questione del ruolo ricoperto dalla gentry all’interno del processo rivoluzionario, questione che si presenta ambigua per lo stesso Harrington, ed alla quale quest’ultimo è solo in grado di rispondere in maniera propositiva cercando di delineare un sistema in cui all’egemonia sulla proprietà doveva corrispondere la relativa virtù repubblicana di questa nuova classe sociale46.

43 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 6-45. Sulla nascita della società industriale e la formazione della classe operaia v. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Alberto Mondatori, Milano, 1969.

44 Dall’altro lato emerge l’altra grande questione al centro del dibattito storiografico, la questione del rapporto e dei rispettivi ruoli di città e campagna nel processo di modernizzazione inglese. A questo riguardo rimandiamo oltre ai già citati B. Moore, Le origini, cit. e L. Stone, Le cause, cit., anche a J.S. Morril, The Revolt of the Provinces. Conservatives and Radicals in the English Civil War, 1630-1650, George Allen, London, 1976, pp. 13-132; P. Zagorin, The court and the country: the beginning of the English revolution, Routledge, London, 1969.

45 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 6-45. Moore, non solo, come già accennato, intende con il termine gentry la ridefinizione soggettiva della classe titolare della proprietà terriera in funzione del nuovo modo di gestione privatistico, ma individua, nella capacità della società feudale inglese di seguire il mutamento verso questa nuova filosofia ed economia proprietaria, la vera peculiarità del processo di modernizzazione inglese. In pratica, in Inghilterra, non è la borghesia ad assumere i tratti dell’aristocrazia feudale al fine di acquisire posizioni di potere, ma al contrario, è quest’ultima che progressivamente sviluppa un tipo di produttivismo borghese. Il successo della modernizzazione inglese si deve dunque, secondo Moore, a questa capacità di autoregolazione sociale per cui il mutamento delle istituzioni si configura come un semplice adeguamento formale alla nuova strutturazione della società. In definitiva, l’unico prezzo pagato da questo particolare percorso di democratizzazione è individuabile nella progressiva marginalizzazione ed esodo dei contadini dalle proprie terre, esodo che non casualmente si intensifica proprio nel XVII secolo, ossia nella fase in cui l’adeguamento istituzionale inevitabilmente deve fare i conti con un periodo di tensione. Cfr. anche L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese, cit., pp. 66-70.

46 Cfr. J. Harrington, La repubblica di Oceana, cit., pp. 106, 124-153, 193-213. Come sottolinea lo stesso Harrington «una nobiltà – laddove con questo termine Harrington indica il soggetto che necessariamente deve trovarsi alla guida del sistema di governo – o gentry, sovrastando un governo popolare, né è il grave veleno e la distruzione; ma io allora dimostrerò che una nobiltà o gentry, in un governo popolare in cui essa non lo sovrasti, né è l’anima e la vita». Tuttavia per Harrington non è facile individuare sociologicamente la gentry, sebbene la sua considerazione sia fondamentale per l’organizzazione del potere politico. La nobiltà tradizionale non è più l’unica classe possidente; accanto al vecchio sistema feudale ormai entrato in crisi si sviluppa un sistema di proprietà terriera animato da nuove figure emergenti che non possono coincidere con la nobiltà di sangue ma neanche con il popolo comune. La selezione di questa nuova classe di proprietari deve avvenire per Harrington per mezzo di libere elezioni (il cui diritto è riconosciuto ai soli proprietari di un appezzamento di terra) e della rotazione delle cariche. In un senso repubblicano classico, quanto altrettanto statico ed artificiale, Harrington cerca di armonizzare le virtù del vecchio ordine feudale con il nuovo ordine proprietario

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In termini giuridici e politici il mutamento dei rapporti di proprietà si manifesta in primo luogo come negazione, determinando la crisi irreversibile della signoria fondiaria quale unità nucleare del governo territoriale feudale. Questo mutamento non va inteso semplicemente come uno snellimento del vecchio diritto proprietario, o in maniera ancora più superficiale come un processo lineare e privo di ostacoli che ha visto giustapporsi la nuova dottrina proprietaria a quella feudale. Al contrario è proprio all’interno dell’apparente continuità delle forme giuridiche antiche che si sviluppa un processo di mutamento conflittuale e contraddittorio - avviato a partire dalla fase tardo-feudale e terminato sostanzialmente solo nel corso del Settecento - il quale sarà in grado progressivamente di portare a compimento l’affermazione di un nuovo regime di tutela giuridica dei possessi47. Naturalmente, l’affermazione di questo nuovo regime proprietario è legato alla crescente e (soltanto) apparente indipendenza della sfera economica dalla sfera politica e costituzionale, tuttavia, il venir meno delle funzioni più propriamente politiche e sociali associate al dominio proprietario non va interpretato in senso meramente economico, ma va interpretato nella sua dimensione giuridica e costituzionale. La stessa mutevolezza e flessibilità delle relazioni feudali inglesi si spiega mediante il lento processo di mutamento dei rapporti di proprietà. Questo processo attraversa nel periodo che va dalla metà del XVI secolo alla metà del secolo successivo la sua fase decisiva; è in questo periodo che il commercio della lana e dei tessuti si viene affermando quale settore egemone e che il processo di recinzione delle terre comuni subisce una intensificazione notevole48. L’evoluzione dell’economia, dunque, ricopre immediatamente e direttamente un ruolo politico e costituzionale49. senza però tenere conto che la portata del mutamento in corso, non solo si pone in una posizione di antitesi rispetto alla staticità della vecchia società, ma che la via costituzionale inglese non sarebbe passata per il razionalismo formale. Sull’ambiguità dell’individuazione della gentry in Harrington v. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà cit., pp. 193-205, il quale ricostruendo filologicamente il pensiero di Harrington ne individua anche l’intima contraddizione. Infatti, secondo MacPherson, la gentry di Harrington, se viene distinta correttamente sia dalla vecchia nobiltà quanto dal popolo, - lasciando intendere che con tale termine si vuole indicare una nuova soggettività in via di affermazione legata al nuovo modello di proprietà, e perciò legata ad un contesto di mobilità sociale nel quale la classe dei proprietari non si definisce mai completamente in termini statici -, si contraddice con la rigida costruzione del sistema giuridico prefigurato. In effetti, secondo MacPherson, non si comprende come si possa armonizzare un sistema statico basato sul rigido calcolo degli individui proprietari (assicurato dalla legge agraria) con una società basata sul libero mercato e sulla mobilità sociale. Sul rapporto tra il pensiero di Harrington e l’individualismo possessivo vedi però la critica di v. J.G.A. Pocock, Machiavelli, Harrington and English Political Ideologies in the Eighteenth Century, in Politics, Language and Time. Essays on political thought and history, Methuen, London, 1972, pp. 108-111, il quale sostiene la difficoltà riconosciuta dallo stesso MacPherson di inquadrare interamente tale pensiero nella nuova struttura concettuale dell’individualismo proprietario moderno.

47 Cfr. R.W. Gordon, Paradoxical property, in Early Modern Conceptions, cit., pp. 95 ss.; D. Sugarman, R. Warrington, Land law, cit., pp. 111 ss.; D. Lieberman, Property, commerce, and the common law. Attitudes to legal change in the eighteenth century, in Early modern, cit., pp. 144 ss.

48 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 6-12, 24-33. Moore sottolinea due aspetti di questi due processi. Da un lato la crescita del mercato della lana, che nella storiografia è associato al processo di esportazione dei principi borghesi dalla città alla campagna, viene invece presentata come l’indicatore di un processo prevalentemente autonomo della società rurale inglese di assumere i nuovi principi del commercio. D’altra parte, le recinzioni, che si sviluppano in una temporalità ben più ampia del XVI secolo e che indicano processi diversificati, vengono presentate direttamente come l’erosione e la privatizzazione da parte dei signori e dei fittavoli (farmers) di terre sulle quali la popolazione del feudo godeva dei diritti comuni o che si trovavano nei campi aperti. Emerge comunque da questi due aspetti così descritti un comune dato: la separazione del feudalesimo dalle proprie radici nella terra e dunque il

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L’affermazione del nuovo modo di gestione della proprietà terriera si traduce in un nuovo diritto di proprietà in grado di far venire meno la base dell’Antica Costituzione e dell’equilibrio harringtoniano, nel momento in cui il possesso della terra si svincola dall’insieme dei legami che fino ad allora definivano la complessa ripartizione delle attività della struttura territoriale della signora fondiaria. Già lo sviluppo di un feudalesimo ‘bastardo’ segnalava la crisi del feudalesimo come regime militare; in ogni caso, l’egemonia dei nuovi rapporti di proprietà, della nuova modalità di gestione del fondo fa definitivamente venire meno la ripartizione funzionale delle attività del nucleo territoriale grazie alla quale il dualismo tra signore e contadino si poteva articolare sul terreno comune del diritto poiché a questo punto il possesso della terra si identifica semplicemente in un diritto pieno ed esclusivo di sfruttamento libero da vincoli personalistici50. fatto che a partire dall’ultima parte del XIV secolo a gran parte del XVI «la terra e i rapporti di proprietà su di essa basati avevano in larga misura cessato di operare come legame tra signore e contadino». Più in generale sul ruolo della crescita economica nel XVI secolo v. anche L. Stone, Le cause della rivoluzione inglese cit., pp. 82-88. L’interpretazione classica che identifica l’affermazione del nuovo modo di produrre con la nuova vitalità ed egemonia esercitata dalle città sulla campagna, e che identifica il problema del mutamento istituzionale con l’esigenza dell’adeguamento della sovrastruttura giuridica alla struttura economica in senso marxista classico è offerta da R.H. Tawney, The agrarian problem in the sixteenth century: with 6 maps in colour, Harper, New York, 1967.

49 Cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, Manifestolibri, Roma, 2002, pp. 29 ss. Si apre a questo punto la delicata questione della considerazione del ruolo giocato dallo sviluppo dell’economia all’interno dei processi di modernizzazione. Da un punto di vista esternalista, che pretende di considerare la nuova economia di mercato come totalmente separata e scissa da una qualificazione giuridica (se non nella sua determinazione iniziale che potrebbe negare la libertà del mercato), ad una ‘internalista’, che tenta di ascrivere una qualità giuridica ai fenomeni economici, l’insieme delle interpretazioni giuridiche dell’economia sembrano poggiare su un comune postulato: l’autonomia epistemologica della scienza economica e della scienza giuridica. In realtà, riconoscere l’autonomia epistemologica non deve comunque implicare l’impossibilità di considerare l’evoluzione dei rapporti economici e di proprietà nella loro portata giuridica e costituzionale. Al contrario, proprio una loro considerazione in questo senso può permettere di comprendere la genesi storica e giuridica di un determinato statuto epistemologico. Come rileva puntualmente Boutang «la verità sta nel fatto che l’espulsione del diritto e del discorso normativo è stata solo apparente. Mano a mano che procedeva nella conquista di un lessico proprio nei confronti della scienza politica, della teologia, della filosofia e della storia, che la «ricchezza» si tramutava in «beni e servizi», nell’«aritmetica politica» di William Petty, nella «contabilità nazionale», insomma nel «mercato auto-regolatore» della mano invisibile, l’economia andava presupponendo sempre maggiori categorie del diritto per il proprio funzionamento. Tra gli attrezzi sempre più perfezionati di cui si andava dotando figuravano l’individuo «metodologico» (il cittadino di cui MacPherson ha mostrato la genesi nell’Inghilterra della rivoluzione del 1644 e di John Locke), la proprietà nella sua accezione post-medievale, la moneta, segno della fiducia degli agenti, il diritto societario con le sue fondamentali nozioni di responsabilità liberate dal diritto personale, l’assicurazione contro i rischi che comporta un mutamento della nozione di responsabilità. Apologeticamente o analiticamente, spetta comunque al diritto garantire il contenuto di queste nozioni e legittimare la statistica, ovvero i conti. E questo in un doppio senso: garantire un contenuto a queste nozioni, assicurandone la durata e la trasmissione nel tempo. Il diritto condiziona strettamente le possibili forme dell’economia, attraverso i diritti di proprietà e l’economia dei contratti. Non si può ridurre la funzione economica del diritto all’istituzione del contesto iniziale, alla creazione, una volta per tutte, delle condizioni del mercato, non foss’altro perché l’«opportunismo degli agenti» prima, durante e dopo il contratto vi si oppone. Se c’è creazione, essa è continua».

50 Cfr. P. Grossi, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 648-657. Come già specificato nel par. 3.1 di questo cap., (in particolare, supra, nota 7, p. 93) l’antropologia individualista e possessiva che fonda la nuova nozione di possesso nei termini della pienezza e dell’esclusività, e che si caratterizza giuridicamente dalla proprietà precedente per il fatto di comprendere un dominium sine usu, presuppone la negazione dei vincoli e delle relazioni interpersonali costruite intorno al bene. «A chi ci chiedesse il

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Innanzitutto a venir meno è il carattere condiviso del dominio sul fondo. Il dualismo tra signore e contadino può quindi assumere i tratti del moderno rapporto di dipendenza o di locazione, o restare ancorato al paradigma premoderno del servaggio nel caso in cui il signore non si adatti al nuovo modello di gestione del fondo51. In ogni modo, scompare la delicata articolazione delle attività legate al fondo e di elementare carattere amministrativo basate sul compromesso e la compartecipazione. Il dualismo non fa più riferimento al concetto di dominio diviso, nella misura in cui questo viene progressivamente soppiantato da un rapporto che fa riferimento al modello del contratto privatistico moderno o al contratto di dipendenza salariale52. In questo

tratto discriminante della proprietà moderna, non invocheremmo né l’idea di potestas plena né quella di ius excludendi; proclameremmo invece alto e forte che, quanto il medievale della proprietà era consistito nella sistemazione della sua complessità e nell’avvaloramento della sua natura composita, tanto il moderno della proprietà sta tutto nel ritrovamento della sua semplicità (…) La semplicità testimonia la scelta di togliere il dominium dalle variazioni del contingente per assolutizzarlo nell’ambito del soggetto, inserendolo il più possibile all’interno di esso». Sugli aspetti e l’evoluzione del cosiddetto feudalesimo bastardo cfr. M. Caravale, Ordinamenti giuridici cit., pp. 551-559; anche M. Bloch, La società feudale, cit., pp. 480-483.

51 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 27-28. Si deve precisare che l’affermazione della proprietà passa attraverso la ridefinizione imprenditoriale dell’antico signore terriero e di una parte degli strati contadini (yeoman). Ciò significa come precisa Moore, che il capitalista rurale «era costituito da due persone: il grande proprietario e il grande affittuario. Il grande proprietario era un aristocratico che non lavorava con le sue mani e spesso rimetteva i dettagli dell’amministrazione a un fattore, sebbene in genere lo controllasse direttamente (…) Il contributo del grande proprietario allo sviluppo del capitalismo nell’agricoltura in questo stadio fu principalmente di carattere legale e politico: era lui che abitualmente provvedeva alle recinzioni. Mancando di servi per condurre in proprio la terra, in genere l’affittava a grandi affittuari. Molti di questi ricorrevano poi a lavoro salariato (…) I tre metodi più importanti per migliorare la proprietà in questo periodo erano tutti espedienti volti a questo scopo – consolidare il patrimonio, recingere, e sostituire gli affitti a vita con gli affitti termine».

52 Cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù al lavoro salariato, cit., pp. 103, 116-117. Il mutamento dei rapporti di proprietà può così imporre di osservare i processi di modernizzazione secondo le differenti articolazioni dei vincoli di dipendenza produttivi. Secondo quest’ottica il secondo servaggio costituisce in Europa Orientale, non un retaggio del passato, ma la caratteristica distintiva della via verso la modernizzazione e il capitalismo di quei paesi (non a caso è una caratteristica anche dell’Olanda e degli stati tedeschi). In Inghilterra ed in Francia, invece, il progressivo affrancamento delle relazioni interpersonali tra Signore e contadino dai vincoli personalistici, e la loro costituzione secondo i termini del contrattualismo privatistico moderno sembra essere consustanziale alla modernizzazione del comando politico, ma in ogni caso, questo mutamento non può essere considerato un processo lineare senza ostacoli. «Da un lato, dal punto di vista produttivo, il settore che ricorre a questa riedizione del servaggio produce beni (essenzialmente grano) per l’esportazione (in Olanda); dall’altro questa restaurazione della forma-servitù avviene per iniziativa della potenza pubblica attraverso delle leggi, mentre contemporaneamente, nel XV e XVI secolo, in Europa si procedeva all’affrancamento definitivo della gran parte dei servi. Il passaggio al secondo servaggio avviene grazie a un indebolimento della distinzione tra dominium directum e dominium utile e della stessa idea di divisibilità del concetto di proprietà (dominium divisum) (…) Al servo francese corrisponde il contadino non libero inglese, all’ordinario tenutario della terra il contadino copyholder e libero della sua persona. Restava tuttavia la distinzione tra il contadino sottomesso alla corvée e il contadino sottomesso a una remissione in natura o denaro. Il primo è di fatto assoggettato a un lavoro salariato gratuito, il secondo alla mezzadria e all’affitto di un podere. I diritti di proprietà sovrappongono la proprietà personale, la proprietà agricola e la proprietà giudiziaria. Ma questo triplice livello è a sua volta intersecato dalla distinzione tra la proprietà diretta e la proprietà utile. Le situazioni sono dunque estremamente complesse, ma, come nel caso della schiavitù, oggi si è generalmente d’accordo nell’attribuire una particolare importanza alle concrete disposizioni della corvée e alla vigorosa difesa da parte dei contadini degli usi comuni delle terre, dei terreni di passo (fluren) condivisi e degli appezzamenti. La

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maniera però viene meno anche l’altra funzione basilare sulla quale si articolava il dualismo territoriale: la funzione di protezione e difesa della comunità territoriale ad opera del signore53. A questo punto si deve osservare però come il costituzionalismo limitato del vecchio ordine, che aveva nella dottrina repubblicana del corpo mistico la sua forma più elaborata, e nel particolare regime proprietario condiviso il suo contenuto e la sua base grazie alla quale i rapporti di sovranità molecolari si armonizzavano sul terreno comune e trascendente del diritto, abbia raggiunto il proprio limite di sviluppo. Il mutamento dei rapporti di proprietà, l’alterazione dell’equilibrio proprietario fondato sul carattere condiviso del dominium, ha provocato infatti la destabilizzazione e la crisi dell’articolazione nucleare dei rapporti di sovranità, ossia dell’articolazione funzionale del governo territoriale. Ecco perché il mutamento dal paradigma ontologico dell’universitas al nuovo modello individualista-razionale si deve inquadrare ancor prima sul piano istituzionale e costituzionale sulla base dell’analisi del mutamento dei rapporti di proprietà. Quest’ultimo, infatti, già di per sé si dimostra in grado di esplicare la fine di quel paradigma ontologico; ecco perché, la ricostruzione dell’antica costituzione fin qui sviluppata rappresenta il punto di partenza per la comprensione della ridefinizione moderna del costituzionalismo inglese. La crisi, che, in termini harrigtoniani viene determinata dal nuovo equilibrio proprietario, ossia, la mancata corrispondenza tra proprietà, potere politico e forza militare, dal momento in cui al possesso non corrispondono più la fitta rete di relazioni interpersonali, si traduce nell’esigenza di lungo periodo di una nuova articolazione funzionale del governo del territorio e di un nuovo sistema di protezione54. reazione nobiliare e la progressiva spoliazione delle terre migliori fu la conclusione di questo scontro pluri-secolare».

53 Cfr. T. Plucknett, A concise History, cit., pp 506 ss. In definitiva l’aspetto inerente al sistema militare, e dunque concerente la protezione e difesa del territorio signorile, rappresenta l’elemento determinante il carattere costituzionale del feudo. «Finally, all these elements – feudalism: lord and man, feudalism and land, feudalism as a military system - so combined that they served the place of public law and a constitution. The defence of Europe had to be carried out throughout the length of its coast line at very widely scattered points; there were no railways and no telegraphs. It would therefore have been impossible for a gouvernement in Paris, for example, to defend France from attacks might take place at any point upon the Channel, the Atlantic or the Mediterranean. It was therefore necessary to go to extreme lengths of decentralisation, and so we find another element of feudalism which consists in allowing each lord to assume governmental powers over his tenants. Whatever military defence is undertaken must be carried out by local forces organised and led by local leaders, and consequently it is necessary that those leaders should exercise powers of government within their locality».

54 Cfr. J. Harrington, La Repubblica di Oceana, cit., pp. 124 ss. Al fondamento economico non corrisponde infatti una relativa struttura statuale di protezione come nel caso continentale. Harrington individua pienamente la peculiarità del problema che l’evoluzione storica inglese porta con sé. D’altra parte però, sebbene nel cercare di dare una risposta alla crisi, riaffermi la superiorità qualitativa della repubblica mista fondata sulla virtù e l’equilibrio proprietario, rispetto all’ipotesi monarchica-assoluta, tuttavia nel prospettare un’ipotesi costituzionale concreta Harrington ricade nell’a-storicismo nel momento in cui tenta di applicare un principio razionale-formale astratto ad una realtà storica radicalmente aliena da tale principio. La filosofia politica e la concezione del diritto di Harrington rappresentano un’anomalia che segna una discontinuità nella storia del pensiero moderno; Il vecchio e il nuovo si incontrano manifestando attraverso il pensiero di Harrington tutte le sfaccettature problematiche del periodo di transizione. Il legame con l’antica prudenza, sia per quanto riguarda la definizione del diritto strettamente connessa con l’equilibrio funzionale feudale (sebbene quest’ultimo venga distinto dalla vera e propria antica prudenza), sia per quanto riguarda l’adozione del modello repubblicano machiavelliano, si viene ad intrecciare con il tentativo di una ridefinizione funzionale

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3.3.1. Dominium senza imperium. Questa nuova articolazione si sviluppa a partire dalla nuova natura assunta dal concetto di dominium. Il venir meno del carattere condiviso del dominium secundum proprietatem coincide con il venir meno del dominium secundum imperium, ovvero del carattere e della funzione pubblica ricoperte dal dominium, carattere che come si ricorderà si ricavava direttamente dall’analisi della ripartizione funzionale delle attività territoriali di governo, prima ancora che dalle elaborazioni dottrinarie. La protezione e la difesa, la garanzia della giustizia, e più in generale le attività di amministrazione del territorio che si articolano secondo il complesso ed efficace processo di centralizzazione istituzionale perdono la loro base nucleare, il nodo istituzionale ed organizzativo che forniva legittimità materiale all’intera architettura costituzionale grazie alla capacità di innestare la decisione e i processi politici all’interno della divisione sociale del lavoro55. Ciò, naturalmente, non significa che le espressioni del nuovo ordine e i nuovi soggetti sociali emergenti non trovino tutela all’interno del sistema di diritto di common law: il XVII secolo e il periodo rivoluzionario individuano la fase più tumultuosa grazie alla quale questo nuovo ordine si impone progressivamente come egemone. E tuttavia, ciò che si vuole sottolineare è che, se da un lato le corti d’equity e il common law si dimostrano essere degli strumenti duttili e pratici in grado di

moderna del sistema costituzionale, ovverosia, con un approccio razionalista che nella crisi della guerra civile si traduce immediatamente in una ricostruzione razionale delle istituzioni politiche ad opera della milizia repubblicana. Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., pp. 390 ss., in particolare per quanto riguarda l’a-storicismo del pensiero di Harrington le pp. 182-184; un maggiore accento sull’importanza delle relazioni militari rispetto a quelle di carattere proprietario e commerciali viene posto da Pocock nell’opera La Repubblica, cit., pp. 659-686. V. anche Id., Historical introduction, in Id. (a cura di), The Political Works of James Harrington, Cambridge University Press, 1977, pp. 15-76.

55 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., pp. 353-354. A questo punto è interessante comparare questa evoluzione del dominium inglese con gli sviluppi ricostruiti da Brunner nel caso tedesco. Qui la proprietà privata fondiaria diviene una signoria fondiaria «pietrificata», poiché alla delega della giustizia territoriale, della difesa e dell’attività amministrativa al tribunale o ufficio territoriale, in breve al completamento del processo di istituzionalizzazione del dualismo tra Principe e Comunità territoriale, non corrisponde un mutamento in senso privatistico-moderno del diritto proprietario. In pratica, la separazione dell’imperium dal dominium non presuppone la costituzione della proprietà in senso moderno come in Inghilterra, ma al contrario lo Stato precede la definizione moderna di proprietà privata. In questo senso, si può inquadrare il dibattito interno alla scuola storica del diritto tedesca, non semplicemente come una reazione all’astoricità del percorso francese segnato dalle dottrine del diritto naturale, ma come un percorso autonomo, necessario alla costruzione di un dogma consustanziale allo Stato moderno. Si comprende anche come l’espressione «proprietà privata pietrificata» sia stata utilizzata agilmente da Marx per criticare la filosofia del diritto di Hegel. Quest’ultimo, se da un lato riconosceva che il maggiorasco rappresentasse un «impaccio alla libertà del diritto privato», si sforzava tuttavia di far rientrare quella concezione della proprietà all’interno della costituzione politica statuale. Diversamente, afferma Marx, il maggiorasco, in quanto espressione della costituzione medievale della proprietà privata, non poteva rappresentare un mezzo determinato dallo Stato, ma al contrario rappresentava esso stesso un fine in sé, in grado di determinare una costituzione politica. Se sul piano ideale, prosegue Marx, la filosofia hegeliana si è dimostrata in grado di fornire l’elemento più difficile per la costruzione del diritto moderno, e cioè è stata in grado di creare uno stato politico astratto, sul piano materiale restava comunque questa intima contraddizione legata al particolare sviluppo storico tedesco. Cfr. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana, cit., pp. 50-53. Cfr. anche M. Fioravanti, Giuristi e costituzione, cit.

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permettere la progressiva affermazione del nuovo ordine proprietario56, dall’altro lato si deve rimarcare l’esigenza di una diversa articolazione del sistema di legittimazione politico57. Al passaggio costituito dal dominium senza imperium non corrisponde la presenza di un apparato di legittimazione politico in grado di dare espressione al nuovo ordine sociale, né tanto meno un apparato statuale organizzato in senso assolutista e razionale-formale in grado di governare dall’alto i mutamenti sociali58. Infine, gli aspetti stessi del feudalesimo inglese sembrano confermare questa linea ricostruttiva. In particolare, la capacità autoregolativa della società inglese, ossia, il fatto che settori della vecchia nobiltà siano stati in grado autonomamente di assumere il nuovo modo di gestione della terra si associa alla tesi qui sostenuta che in fondo la supposta gradualità dei mutamenti istituzionali, non sia dovuta solamente ad una continuità formale o ad un rispetto della tradizione – il quale peraltro risulta determinante nei termini in cui qui è stato sviluppato -, ma piuttosto alla capacità di assumere soggettivamente l’idea di proprietà ed il nuovo orizzonte ontologico individualista e appropriativo, in primo luogo proprio da arte di questi vecchi settori dominanti. Ecco dunque, in che senso, si può affermare che la mancata corrispondenza tra proprietà e potere politico si traduce nella necessità di un adeguamento della ‘sovrastruttura’ politica alla mutata ‘struttura’ sociale59.

56 Cfr. R.W. Gordon, Paradoxical property, cit., pp. 95-108; D. Sugarman, R. Warrington, Land law, citizenship, cit., pp. 111-135; anche D. Lieberman, Property, commerce, and the common law. Attitudes to legal change in the eighteenth century, in Early Modern, cit., pp. 144 ss.

57 Cfr. F.W. Maitland, L’equità, cit., pp. 3-73; U. Mattei, Common law, cit., pp. 35-38, 322-331. Come specifica Maitland, il trust può essere considerato il concetto giuridico mediante il quale si può intendere nei termini giuridici del common law moderno una teoria del ruolo pubblico e collettivo ricoperto dalla Corona (cfr. supra, nota 75, p. 86, Parte I, cap II). Tuttavia ciò avviene soltanto a posteriori sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale. Allo stesso tempo però lo sviluppo dell’istituto del trust risponde immediatamente a delle esigenze materiali imposte dalla contingenza storica. In effetti, il trust non è che la compiuta elaborazione in grado di proceduralizzare compiutamente una serie di azioni a garanzia della proprietà, ed in particolare della proprietà terriera grazie al carattere reale dell’azione posta in vista del risarcimento del danno. L’evoluzione del trespass e dell’action of ejectment, e dunque, il consolidamento e l’aumento dell’intervento da parte della giurisdizione d’equity nel periodo che va dal XVI secolo alla metà del XVII può essere considerato, in questo senso, non semplicemente come il perfezionamento di una giurisdizione centralizzata e complementare alle corti di common law, ma come la risposta efficiente alle nuove esigenze di tutela giuridica emergenti dai processi sociali di ridislocazione proprietaria.

58 Cfr. O. Brunner, Terra e potere, cit., p. 353. La rivoluzione liberale si sviluppa e si trova a confrontarsi con una situazione in cui vi è, con le parole di Brunner, «una costituzione che ammette l’esercizio della violenza da parte di ogni membro della comunità nei confronti degli altri, e nella quale lo Stato – diversamente da quanto accade in epoca moderna – non pretende di assumere su di sé il monopolio dell’uso legittimo della violenza (…)» Parimenti, il comando politico era basato sul paradigma della signoria, e, sebbene materialmente il dualismo tra signoria e contadino andava mutando in modo paradigmatico nella direzione privatistica moderna, tuttavia resta la validità, da un punto di vista politico e giuridico, di tale modello di obbedienza e del vecchio paradigma repubblicano. Infatti, il signore, come proprietario, in ogni modo, non può divenire, «un proprietario, che come accade al giorno d’oggi, si affidi in via di principio allo Stato per ciò che riguarda la tutela dei suoi diritti (…)»

59 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 24-45. E’ questa in definitiva la tesi sostenuta da B. Moore, per il quale, sostanzialmente, la via alla democratizzazione inglese si contraddistingue positivamente come un processo graduale nel quale democrazia e capitalismo risultano essere consustanziali grazie prevalentemente alla capacità soggettiva dell’aristocrazia di assumere soggettivamente i tratti e le modalità di produzione della borghesia. Negativamente, il prezzo di questo particolare processo risulta invece essere pagato esclusivamente dai contadini, ovverosia da quella classe che ad un tratto si ritrova privata degli antichi diritti sulla proprietà e dell’antica rete di protezione, senza per questo ricoprire -

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Sicuramente la nuova definizione dei rapporti proprietari risulterà avere ugualmente un valore costituzionale in senso harringtoniano, tuttavia la futura definizione dei diritti di proprietà sarà tale perché in grado di autonomizzarsi e scindersi dalla definizione complessiva del governo del territorio. Ovverosia, la proprietà sarà tale perché il diritto assicurerà ad essa una sfera di non interferenza rispetto alle altre funzioni istituzionali e politiche60. Ciò non significa naturalmente riconoscere l’irrilevanza costituzionale dei rapporti privatistici, ma solamente che tali rapporti possano essere disciplinati autonomamente come tali, come meri rapporti di tipo privatistico, ossia, che la proprietà come dominium si costituirà sempre più meramente come dominium secundum proprietatem nel senso però della proprietà moderna61. In ogni caso, è bene ribadire che questa affermazione del diritto proprietario moderno non procede seguendo un criterio razionale-formale, ma diversamente, la razionalizzazione del nuovo dominio proprietario segue un criterio immanente all’evoluzione dei rapporti sociali grazie al carattere pratico ed empirico assicurato dalla giustizia di common law62. Inoltre, si deve aggiungere, che anche la conformazione del nuovo diritto di proprietà non costituisce un processo lineare, soprattutto sul piano sociologico e politico. Se infatti le corti di common law sembrano rispecchiare i mutati equilibri di potere nel possesso terriero, ciò tuttavia non equivale a dare per scontato il ruolo dei soggetti esclusi dai processi di appropriazione e sfruttamento individualistico della terra. Che l’espropriazione dai diritti di possesso e il conseguente esodo dei contadini dalla campagna verso la città rappresenti il prezzo pagato da questa classe nel processo di modernizzazione inglese, come sostiene Moore, è un fatto indiscusso. Tuttavia, si devono sottolineare due elementi presenti all’interno di questo processo e rilevanti ai fini di questa analisi. In primo luogo, si deve individuare chiaramente il ruolo ricoperto dai contadini all’interno del processo rivoluzionario. Non è possibile, infatti, considerare il ruolo della stragrande maggioranza dei contadini come meramente passivo, o comunque identificare nei tentativi sparuti di alcuni gruppi di difendere la

secondo Moore - un ruolo attivo all’interno del processo rivoluzionario. Se questa osservazione può apparire come una generalizzazione, poiché è lo stesso Moore a specificare i tratti complessi della formazione della Gentry e della yeomanry, formazione nella quale i contadini ricoprono comunque un ruolo attivo, d’altra parte si rimanda alla seconda parte di questo lavoro per l’analisi del ruolo di questa classe all’interno del processo rivoluzionario.

60 Cfr. P. Grossi, Ancora sull’assolutismo giuridico, cit., pp. 4 ss., laddove specifica che la valenza costituzionale acquisita dal diritto privato all’interno dell’ordine giuridico borghese continentale si traduce immediatamente nella statualizzazione del diritto privato. «Proprietà e contratto, divenuti ormai cardini anche politici del nuovo regime, non potevano essere rimessi a un ricco e incontrollato proliferare di usi che dottori e giudici si impegnavano a ridurre in ampi schemi categoriali; dovevano, anzi, essere rigorosamente controllati anche per garantire il cittadino quello spazio libero preteso dal ceto borghese verso il potere politico e ben segnato nel patto segreto generativo del nuovo Stato. La garanzia più solida consisteva nella statalizzazione del diritto privato, nel vincolarlo alla voce dello Stato, alla sua voce più diretta: la legge».

61 Cfr. N. Luhmann, La costituzione come acquisizione evolutiva, cit., pp. 111-115. La nuova conformazione della proprietà e dell’economia riproduce, in pratica, una differenziazione funzionale che il processo storico della modernizzazione porta con sé. In questo senso, il nuovo diritto proprietario ricopre un ruolo costituzionale, non solo perché in grado di essere considerata come un campo giuridico autonomo dal sistema di legittimazione politico, ovvero, perché in grado di costituire l’economia come scienza e campo separato dal diritto e dalla politica; ma positivamente, la proprietà e la nuova economia ricoprono un ruolo costituzionale in quanto la loro nuova conformazione è determinante al fine della stabilizzazione di un particolare accoppiamento strutturale con il diritto e l’economia indispensabile per la definizione di costituzione e della scienza giuridica moderna.

62 Cfr. U. Mattei, Common law, cit., pp. 326-332; T. Plucknett, A concise History, cit., pp. 575-602.

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comunanza delle terre solamente qualcosa di residuale del vecchio ordine, ed individuare allo stesso tempo all’interno di questa classe una minoranza che assume completamente un atteggiamento individualista e borghese (yeomanry). D’altra parte, lo stesso processo di soggettivazione che definisce la gentry è un processo che attraversa anche gli strati contadini e che gioca un ruolo importante nella definizione del nuovo ordine. In realtà, si vedrà, la comprensione della funzione ricoperta dal contrattualismo e dall’individualismo sarà costretta ad intrecciarsi con il problema dell’identificazione di questo ruolo, e sarà proprio questa una delle chiavi che permetteranno la comprensione della legittimazione del nuovo ordine costituzionale63. 3.3.2. La dimensione costituente della crisi. Tornando in ogni modo alla dimensione razionale-immanentista legata al common law si deve poi sottolineare come anche la ridefinizione dell’organizzazione politica e istituzionale si dimostra essere in grado di procedere non secondo un criterio razionale-formale, ma secondo un criterio razionale-pratico capace di dare espressione compiuta alla nuova strutturazione sociale, sebbene questo complicato processo è costretto a fare i conti con due rivoluzioni politiche. Il successo del processo di modernizzazione costituzionale inglese si identifica proprio con questa capacità del processo rivoluzionario di armonizzare il nuovo razionalismo con l’organizzazione materiale della società e con l’organizzazione pratica del diritto, ovverosia, con la capacità della rivoluzione di dar effettivamente forma al mutamento ontologico attraversato dalla vecchia repubblica, senza tuttavia abbandonare il paradigma repubblicano stesso. E’ in questo senso che va intesa la centralità che assume il dibattito sulla rappresentanza politica all’interno del processo rivoluzionario. L’esito della rivoluzione, infatti, si misura completamente con la capacità di dare uno sbocco istituzionale alla nuova articolazione della società. La rappresentanza espressa alla Camera dei Comuni, fino a quel momento rappresentazione della vecchia articolazione degli interessi sociali organizzati sostanzialmente secondo i rapporti di sovranità medioevali, deve diventare con la rivoluzione l’espressione funzionale del nuovo ordine sociale fondato sui nuovi rapporti proprietari64. Il fatto che il parlamento, quale organo premoderno, rivendichi

63 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., pp. 17-32; C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit.; infra, Parte II, cap.

II, par. 2.4, pp. 226 ss. 64 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 721-779. Se, dunque, coerentemente con lo stile

Harringtoniano, si cerca qui di ricostruire il processo rivoluzionario seguendo in primo luogo il percorso intrapreso dalla riorganizzazione materiale dei rapporti di proprietà, allora è doveroso far riferimento a due elementi che fanno la loro comparsa nel decennio che segue la Gloriosa Rivoluzione. Da un lato vi è la questione aperta dal dibattito sull’esercito permanente. Dall’altro vi è la cosiddetta «rivoluzione finanziaria». Le due questioni, come si vedrà, sono strettamente connesse col problema del mutamento della forma della guerra, con la crescente necessità di espansione imperialistica e col fenomeno della corruzione politica. Se per questi temi si rimanda all’ultima parte, per il momento è invece sufficiente sottolineare un aspetto di questo ulteriore mutamento delle forme proprietarie. La rivoluzione, che fino a questo momento si trova legata ad una nuova definizione della proprietà terriera in senso harringtoniano, dunque a un tipo di proprietà immobile, si trova ora a fare i conti con un ulteriore mutamento paradigmatico della forma proprietaria. Il possesso, ma non solo, il controllo dei flussi proprietari, mobili e smaterializzati come il debito, diviene la leva che muove l’equilibrio del potere politico. La ridefinizione post-rivoluzionaria continua in questo senso a svilupparsi secondo i mutamenti materiali della struttura societaria, ovvero secondo la composizione di quella che Pocock

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le proprie prerogative in nome del diritto antico diviene a questo punto un aspetto secondario: l’evoluzione autonoma della struttura sociale e soprattutto il fatto che la vecchia concezione del diritto fosse comunque rimasta intatta nella sua forma permette di comprendere in che maniera attraverso la lotta per il vecchio diritto si stia in realtà affermando una volontà costituente moderna65. La questione è dunque in realtà un’altra, poiché il mutamento e la vera rottura dell’ordine si originano totalmente sul piano materiale dello sviluppo del regime proprietario e della ripartizione funzionale del governo territoriale. Questa rottura materiale che dà luogo immediatamente al venir meno della dimensione ontologica sulla quale era costruita la forma di legittimazione politica, e che assolutamente non può essere considerata come un processo lineare senza ostacoli - ma che è in grado comunque di essere recepito all’interno delle corti di common law - deve trovare un nuovo principio di legittimazione che sia in grado di armonizzare il nuovo equilibrio proprietario con il sistema politico-istituzionale. Il contrattualismo, nella versione più elaborata lockeana, rappresenterà questo nuovo principio di legittimazione, nella misura in cui tale dottrina soltanto apparentemente sembrerà contrapporsi alla tradizione dell’Antica Costituzione66; nonché, nella misura in cui la sua traduzione pratica corrisponderà ad un sistema di rappresentanza moderno capace di funzionare come il dispositivo giuridico in grado di articolare istituzionalmente la materialità dell’equilibrio proprietario e, al contempo, di accordare le istituzioni politiche all’idealità dei postulati contrattualistici a loro fondamento. E’ in questo senso che lo studio dell’evoluzione delle teorie contrattuali del ‘600 ed in

chiama «economia politica neo-machiavelliana». Il mutamento rivoluzionario delle istituzioni politiche diviene così l’espressione del processo evolutivo inarrestabile della struttura proprietaria che anticipa e prosegue la ridefinizione politica secentesca degli equilibri interistituzionali. In fondo questo non è che un punto di vista in grado di poter esplicare il gradualismo dei mutamenti istituzionali anche dopo il 1688. Sul ruolo ricoperto dal pensiero neo-harringtoniano nella ridefinizione post-rivoluzionaria degli equilibri costituzionali D. Wootton (a cura di), Republicanism, Liberty, and Commercial Society, 1649-1776, Stanford University Press, Stanford, 1994. Sulla «Gloriosa» Rivoluzione del 1688-1689 v. J.I. Israel (a cura di), The Anglo-Dutch Moment. Essays on the Glorious Revolution and its world impact, Cambridge University Press, Cambridge, 1991; L.G. Schwoerer, The Revolution of 1688-1689: changing perspectives, Cambridge University Press, Cambridge, 1992.

65 Cfr. B. Moore, Le origini sociali, cit., p. 16. Ancora, da un punto di vista sociologico-politico si deve sottolineare come l’opposizione tra la Camera dei Comuni, espressione della mutata struttura sociale, e la Corona possa essere inteso come la manifestazione dello scontro tra il nuovo modo di produrre legato al libero commercio e i vecchi monopoli regi simbolo della vecchia economia. «Le corti regie, quali la Camera stellata e la Corte dei reclami diedero al contadino tutto quel poco di protezione che egli ottenne contro le recinzioni. Allo stesso tempo la corona non disdegnava di fare denaro nel tentativo di imporre questa politica. Imporla in maniera vigorosa era al di là delle sue possibilità, perché a differenza della monarchia francese, la corona inglese non era stata capace di costruirsi una propria macchina amministrativa che potesse imporre la sua volontà sulla campagna. Coloro che avevano il compito di mantenere l’ordine nella campagna erano in generale membri della piccola nobiltà, cioè proprio le stesse persone contro le quali si dirigeva la politica della monarchia a difesa del contadino. Così la più importante conseguenza della politica della monarchia fu di opporsi a coloro che sostenevano il diritto di disporre della proprietà a proprio piacere e nel modo ritenuto socialmente più vantaggioso».

66 Cfr. M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 64-65, laddove distingue due tipi di contrattualismo nel Seicento inglese, il primo compatibile con il riconoscimento dell’Antica Costituzione quale legge fondamentale e base del contratto, il secondo definito invece nei termini strettamente astratti e filosofici dello stato di natura. Questa separazione dei due approcci è peraltro ripresa da H. Höpfl e M.P. Thompson, The History of Contract as a Motif in Political Thought, in «The American Historical Review», Vol. 84, No. 4 (Oct., 1979), pp. 919-944. Si v. comunque a riguardo J.G.A. Pocock, Politics, language and time: essays on political thought and history, Methuen, London, 1972.

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particolare dei dibattiti di Putney diviene lo studio particolare dell’espressione giuridica del potere costituente nel processo di modernizzazione inglese. In ogni modo, il parlamento diviene un organo moderno soltanto nel momento in cui esso comincia ad essere concepito come tale, ovvero, solo nel momento in cui coscientemente diviene l’espressione funzionale della proprietà privata. Effettualmente, ciò avviene soltanto nel momento in cui il parlamento diviene l’espressione del nuovo equilibrio societario, ossia nel momento in cui il problema della rappresentanza politica diviene il problema della rappresentanza della proprietà tout court. A questo punto però si può affermare che il mutamento dei rapporti interistituzionali sottintende un mutamento materiale ed ontologico dell’organizzazione sociale ed istituzionale complessiva. Il dispiegamento materiale di questo mutamento rappresenta il dispiegamento completo di un potere costituente. L’essenza politica della rivoluzione inglese, invece, è rappresentata dal percorso di presa di coscienza di questo mutamento materiale. Il percorso che ha nei dibattiti di Putney il passaggio centrale e nella ridefinizione lockena del potere politico la propria conclusione vittoriosa rappresenta la parabola politica impressa dalla rivoluzione materiale che investe la società inglese nel XVII. Tuttavia, in assenza di un’analisi della strutturazione del sistema costituzionale precedente, questa presa di coscienza determinante la definizione del nuovo costituzionalismo si rivelerebbe incompleta ed incapace da sé di esplicare la dimensione ontologica e costituzionale del mutamento determinata dalla discontinuità costituente. Conseguentemente, il potere costituente può essere individuato giuridicamente in questa presa di coscienza, nella misura in cui, però, la sua definizione materiale viene individuata nel processo storico che ha portato al mutamento strutturale dell’articolazione funzionale del governo del territorio. Inoltre, il fatto che tale definizione materiale del nuovo equilibrio proprietario e della nuova articolazione funzionale non rappresenti un processo liscio, come anche del resto la definizione contrattualista del potere politico, testimonia la peculiarità dell’esperienza costituzionale inglese, ovvero la capacità di tale sistema di adeguarsi ai mutamenti della struttura sociale. In definitiva, infatti, si deve comprendere se in fondo l’instabilità e la mobilità nell’equilibrio proprietario possa definitivamente stabilizzarsi all’interno di un sistema di legittimazione politico; ovverosia, se in fondo la variabilità dell’equilibrio proprietario o delle virtù repubblicane possano in ogni caso varcare i limiti del contratto lockeano67. A questo punto si comprende come la ridefinizione in senso funzionale dei rapporti tra re, parlamento e corti giudiziarie si muova comunque ancora all’interno del paradigma repubblicano, sebbene quest’ultimo si fondi al termine del processo rivoluzionario su un sistema di legittimazione radicalmente diverso, che ha nel nuovo contrattualismo, come si vedrà, il fondamento ideale, e nel nuovo equilibrio proprietario il proprio fondamento materiale. Non solo in seguito al processo rivoluzionario non vi è la ridefinizione in senso statualista e continentale delle istituzioni politiche, ma lo sviluppo stesso dei rapporti tra re e parlamento, presupponendo il mutamento del rapporto tra dominium e imperium, e il mutamento dell’equilibrio societario, non può descriversi semplicemente nei termini di una disputa intorno alle funzioni di governo, ma quanto meno investe la natura stessa del concetto di governo e del sistema complessivo di legittimazione politico68.

67 Cfr. infra, Parte II, cap. II, par. 2.3.2, pp. 209-226. 68 Cfr. C.H. McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, cit., pp. 136-160. Il mutamento costituzionale

può essere letto come riarticolazione del rapporto tra jurisdictio e gubernaculum. Fino a questo punto il

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La costituzione inglese si arresta dunque alla definizione repubblicana, sebbene l’articolazione materiale dei rapporti di sovranità medioevali sia venuta meno. A questa articolazione materiale se ne sostituisce un’altra: il sistema moderno di rappresentanza politico. Così come questo sistema di rappresentanza procede da un criterio razionale-pratico, così anche la razionalizzazione dei rapporti interistituzionale segue da un criterio simile. Questa interpretazione d’altronde si attesta sulla linea di sviluppo del common law: alla ridefinizione degli ambiti di competenza delle massime istituzioni non corrisponde infatti una torsione del diritto e della produzione normativa nel senso continentale, ma vi è un modellarsi delle antiche procedure di dichiarazione del diritto sulla base dei nuovi equilibri e dinamiche interistituzionali69. Ovverosia, essa non si sviluppa con il fine di fornire sistemicità all’organizzazione interistituzionale, o di delimitare un ambito di superlegalità costituzionale, anche solo per mezzo di dichiarazioni di principi, come l’Habeas corpus o l’act of settlement, ma con il fine di rendere più efficace il sistema di governo, in modo di permettere di dare forma alla nuova strutturazione funzionale della società. L’evoluzione del contrattualismo e la predisposizione dei dispositivi di rappresentanza moderna rappresenta dunque l’oggetto di uno studio sul potere costituente soltanto nella misura in cui questi due fenomeni non vengono intesi in modo deterministico, come semplice elaborazione ed applicazione di postulati costituzionali - benché come leggi costituzionali in senso materiale rappresentino comunque una costituzionalizzazione di quel potere -, ma vengono intesi come l’espressione giuridico-normativa di un potere materiale spinto da

contributo di McIlwain si rivela di estrema utilità, poiché la particolare riarticolazione di questo rapporto che non vede la iurisdictio subordinarsi totalmente al nuovo concetto di gubernaculum, si associa al particolare rapporto tra forma e sostanza che caratterizza l’esperienza giuridica inglese e che informa anche la definizione costituzionale post-rivoluzionaria. In breve, questa lettura del nuovo equilibrio tra iurisdictio e gubernaculum sembra rispecchiare la metabolizzazione del concetto di creazione giuridica all’interno della definizione storicistica del diritto come indicato nel primo capitolo. Tuttavia l’interpretazione di McIlwain esaurisce la propria utilità nel momento in cui riduce l’esperienza costituente inglese alla progressiva affermazione della centralità del gubernaculum, in definitiva riconducibile alla volontà del parlamento. In pratica è la volontà costituente di quest’ultimo che impone il carattere limitato del diritto, poiché solo a questo punto il monarca è spoliato della propria capacità di governo in quanto deve rispondere della legittimità dei propri atti, come se fino ad allora il comando politico fosse svincolato da tale requisito. Una tale interpretazione giuridica dell’esperienza costituente inglese, in definitiva, si vede costretta a ricadere nel formalismo e nelle contraddizioni circa l’identificazione della natura e del ruolo degli attori istituzionali all’interno del processo rivoluzionario, nel momento in cui identifica, seppure induttivamente, l’azione costituente nelle forme della sua espressione compiuta, senza tener conto del mutamento reale che determina quell’attività costituente, ossia il mutamento strutturale della natura del dominio territoriale e della sua organizzazione funzionale. In altri termini, la ridefinizione l’essenza della capacità costituente non si identifica nel mutamento del rapporto tra re e parlamento, semmai quest’ultimo rappresenta soltanto un elemento secondario e formale conseguente alla vera riarticolazione generale del governo territoriale. Cfr. M. Fioravanti, Costituzione: problemi dottrinali e storici, in Id., Stato e Costituzione, cit., pp. 111-135; Id., Costituzione, cit., il quale non a caso fa riferimento a McIlwain.

69 L’articolazione del rapporto tra re e parlamento come articolazione della relazione tra unità e molteplicità, tra rappresentanza politica, funzione di governo e rappresentazione politica, tra consenso e decisione, all’interno del nuovo ordinamento post-rivoluzionario verrà analizzata attraverso lo studio del modello lockeano. Cfr. infra, Parte II, cap. II, par. 2.3.2, pp. 209-226. Per ora è sufficiente ricordare che alla mutata articolazione funzionale interistituzionale non corrisponde la relativa separazione della norma giuridica in base alla fase temporale attraversata nel processo nomopoietico, ossia alla distinzione tra produzione, esecuzione ed applicazione del diritto. Al contrario la norma di common law assorbe il concetto di creazione giuridica all’interno del vecchio schema dichiarativo come descritto nel primo capitolo.

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un mutamento di portata storica ed ontologica70. Diversamente, dunque, il contrattualismo e la rappresentanza sono la manifestazione di un potere costituente soltanto nella misura in cui la definizione di quest’ultimo trascende questi due fenomeni rappresentando l’evoluzione e l’accumulazione di mutamenti strutturali di portata storica plurisecolare71. Peraltro, una prima definizione di potere costituente non può essere data che in questi termini anche osservando la forma costituzionale post-rivoluzionaria. In effetti anche il rapporto tra autorità e società non assume i tratti della scissione tra Stato e società, sebbene la separazione tra dominium e Imperium e la possibilità di separare un ambito prevalentemente privatistico da uno pubblicistico potrebbe far pensare a ciò. L’individuazione di un campo del diritto pubblico e di un campo del diritto privato resta in ogni modo un’opzione non praticabile per il diritto inglese. Le istituzioni politiche continuano cioè ad essere innervate nel tessuto sociale, sebbene la modificazione del loro fondamento di legittimazione ideale e materiale abbia imposto una nuova organizzazione funzionale dell’attività di governo72. 3.3.3. Le potenzialità aperte alla rivoluzione. Inoltre tale ridefinizione funzionale del governo del territorio, generata essenzialmente da questo mutamento dei rapporti di proprietà, si connette al contesto più generale per cui la lotta per il potere politico è lotta religiosa ed al tempo stesso è la lotta per la libertà della ragione. La crisi dell’antica ripartizione del governo territoriale, della conduzione del fondo agricolo e della difesa militare, si connettono così direttamente a questo nuovo contesto. La crisi determinata dal declino del vecchio regime proprietario si sviluppa infatti all’interno di rapporti di sovranità organizzati secondo il paradigma della fedeltà e della superiorità del diritto. Si comprende così l’affermazione di Harrington per cui è la crisi del governo antico a provocare la guerra

70 Cfr. N. Luhmann, La costituzione come acquisizione evolutiva, cit., pp. 109 ss. L’esperienza

costituzionale inglese può essere ricondotta all’ipotesi analitica prospettata da Luhmann. Lontana dal normativismo positivista, e dunque da una definizione di costituzione legata ad una scelta operazionale, sia essa di carattere politico o giuridico, o più semplicemente riferibile ad un atto propriamente costituente, la costituzione postrivoluzionaria inglese può essere considerata, parimenti, il prodotto di un’attività e di un potere costituente nella misura in cui questo potere si è concretizzato, seguendo un metodo empirico, in una nuova strutturazione funzionale della società in grado di determinare una particolare articolazione tra diritto, politica ed economia, nonché in una particolare ridefinizione degli equilibri interistituzionali e del concetto di norma giuridica. Seguendo l’argomentazione di Luhmann, infatti, il successo del processo di modernizzazione inglese risiede completamente nella capacità degli attori istituzionali di seguire nella prassi i nuovi statuti epistemologici; ossia di poter considerare come campi autonomi, ma allo stesso tempo inter-agenti, diritto, politica ed economia senza dover tradurre questa nuova articolazione funzionale in uno statuto formale costituzionale.

71 Cfr. infra, Parte II, cap. I, par. 1.4, pp. 158 ss., dove il potere costituente viene definito come «ontologia costitutiva» con infra, Parte II, cap. II, par. 2.4, pp. 226-243, dove viene descritta la genesi del concetto moderno di potere costituente.

72 Sulle partizioni del diritto inglese, e l’impossibilità di una classificazione che riproduca sostanzialmente la bipartizione continentale tra di diritto pubblico e diritto privato v. U. Mattei, Common law, cit., pp. 320- 322. Cfr. C. Schmitt, Sui due grandi “dualismi” del sistema giuridico odierno, in Id., Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles 1923-1939 (a cura di A. Caracciolo), Giuffré, Milano, 2007, pp. 435-451.

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e non il contrario. D’altra parte, al venir meno del sistema militare del feudalesimo non corrisponde la sostituzione con un altro apparato militare di tipo protettivo come nello sviluppo continentale. In questo modo la nuova composizione della società si intreccia con questa crisi, imprimendo dinamicità, imprevedibilità, e una dimensione epocale al corso degli eventi. Infatti, l’uomo che prende parola in prima persona diviene immediatamente un cittadino e un miliziano repubblicano che interviene sulla scena politica per provvedere alla difesa dell’Antica Costituzione, o meglio, o dell’antica tradizione basata sulla comunanza del possesso, o della nuova libertà individualistica e appropriativa. L’articolazione della soggettività rivoluzionaria è, come si vedrà, un’articolazione complessa, ma in ogni modo i due estremi ora indicati hanno in comune la convinzione di agire legittimamente secondo diritto, ovvero, di agire effettivamente in base alla volontà razionale e di Dio. In altri termini, il vecchio diritto di resistenza e di autodifesa, contenuto all’interno dei limiti del diritto in forza dell’organizzazione funzionale del territorio, si incontra con la scoperta della ragione e della volontà di Dio, nel momento in cui i rapporti di sovranità si trovano a fare a meno della propria base materiale. La difesa del diritto antico diviene così l’esercizio di un diritto di resistenza costituente73. In questo senso, è possibile concludere questa prima parte con le parole di Pocock, a patto di riservare alla seconda parte lo spazio per la dimostrazione dell’impossibilità di ogni rigida schematizzazione o predeterminazione della creatività costituente. «Il singolo, trovandosi sotto l’urto della guerra civile e volendo ricostituire la propria adesione allo stato, non è un legislatore: il suo obiettivo, infatti, è quello di assoggettarsi all’autorità e non già quello di fondare e reggere una città. E tuttavia egli può vedersi costretto a retrocedere in una situazione pre-politica e pre-morale, cercando in se stesso il mezzo con cui l’ordine sarà ristabilito. L’entità la cui salus è suprema lex allora non è più populus, ma il suo ego ossia la sua persona. E allora può fare una scoperta cartesiana e cioè che il suo primo moto come essere attivo deve essere quello di affermare e di perpetuare se stesso; oppure può fare una scoperta cristiana e calvinista e cioè che, essendo stato creato per un fine che egli non si è dato, da un essere di cui non sa nulla, il suo primo dovere è di conservarsi per tale fine. Egli può, quindi, collocarsi in uno stato di «natura», quello che aveva preceduto ogni società, ogni patto, ogni rivelazione, e cercare il destro per costruire una struttura intelligibile di autorità cui sottoporsi; e l’inizio della costruzione non potrebbe essere altro che l’istinto e il dovere primordiale dell’autonconservazione. Se si mette per questa strada, non finirà tanto per essere un nuovo Licurgo che fonda e forma una repubblica quanto l’uomo naturale che si costruisce un Leviatano artificiale e vi si assoggetta».

73 J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 638-639.

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Parte seconda

Individualismo e autoaffermazione umana

«The period of the commonwealth accustomed people to see a succession of different forms of government set up

and then deliberately pulled down. The lesson was clear: the people had in their hands

the power and the right to set up forms of government according to their fancy». (T. Plucknett)

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Introduzione

Ne Il momento machiavelliano Pocock precisa che «il rapporto dialettico tra Antica Costituzione e Nazione Eletta fu un rapporto complesso e vi si confrontarono un numero di posizioni ben superiore alle due corrispondenti ai termini suddetti1». E’ possibile aggiungere, anticipando le conclusioni, che l’esito di questo rapporto non era scontato, e che la varietà e la complessità delle posizioni avrebbe potuto facilmente indirizzare il processo verso altre direzioni. Innanzitutto quindi, nessun determinismo. Peraltro è proprio questa la critica che Pocock muove con sfumature diverse, ma allo stesso tempo in maniera generalizzata, alle varie interpretazioni storiografiche della rivoluzione. In ogni caso, se l’obiettivo di Pocock sembra essere quello di voler individuare nella specificità insulare britannica, il carattere che permette di ascrivere all’Antica Costituzione il ruolo di una forza che trattiene, controlla e tiene insieme la complessità di questo rapporto, fornendo così alla storia del diritto l’opzione interpretativa di tipo continuista forse più interessante ed efficace2, diversamente, il compito di questa ricerca consiste nell’individuare i fattori e gli elementi che hanno determinato il fatto che l’Antica Costituzione diventasse il principio comune intorno al quale si è dato storicamente il principio di ri-legittimazione dell’ordinamento, ossia il punto, la discontinuità che ha messo in moto la ridefinizione costituzionale postrivoluzionaria. In pratica, se l’analisi dell’evoluzione costituzionale e ordinamentale è stata condotta seguendo il concetto di Antica Costituzione quale oggetto privilegiato dell’indagine, a questo punto si tratta di individuare il ruolo e la portata effettiva del concetto di Nazione Eletta, nella consapevolezza, non solo dei risultati fin qui condotti, ma che con questo termine si fa riferimento a soggetti sociali e politici e a correnti di pensiero differenti che fanno della propria specificità un segno irriducibile, ma che allo stesso tempo vedono le proprie storie sovrapporsi o stabilire intrecci e linee di continuità molto interessanti3. In questo senso si deve giustificare anche l’organizzazione di questa seconda parte del lavoro. Lo studio delle varie soluzioni costituzionali e delle varie correnti filosofico-politiche non vuole riprodurre criteri cronologici o distinzioni concettuali nette e incomunicabili, e tanto meno stabilire gerarchie di influenza, ma segue un’organizzazione della trattazione che tenta di ricostruire logicamente il percorso della razionalizzazione politica con il fine di rendere giustizia della complessità e diversità delle opzioni.

1 J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit, p. 604. Sulla visione repubblicana di Pocock v. M.P. Zuckert,

Natural rights, cit., pp. 159-165, 166-183. 2 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit, pp. 686 ss.; Id., L’ancienne constitution réexaminée, in L’ancienne

constitution, cit., pp. 315-372, 403-460. 3 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit, pp. 581-686.

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Sciogliere il dilemma del rapporto tra Antica Costituzione e Nazione Eletta equivale, in questo senso, a cercare di descrivere la complessità e la varietà delle forme e le soluzioni politiche espresse nel corso del processo rivoluzionario. Così, se come si è detto, si può individuare giuridicamente la definizione di potere costituente con la presa di coscienza che riconosce e valorizza sul piano politico e giuridico il mutamento materiale intercorso nella struttura materiale del governo, allora si deve fin da subito precisare come questa presa di coscienza si debba considerare come un processo complesso e diversificato, una parabola politica, all’interno della quale l’ipotesi lockeana, benché vincente sulla distanza del secolo, ha rappresentato soltanto una opzione fra le altre, incapace da sola di fornire un concetto sintetico delle potenzialità costituenti espresse. Compito di questa ricerca è quello di tentare di descrivere nelle diverse sfaccettature le espressioni di questa capacità costituente, ovvero fino a che punto questa presa di coscienza abbia rappresentato il vettore della modernità, ed in quale punto il modello avrebbe potuto cambiare direzione. E’ in questo senso che si intende una ricerca sull’origine del concetto di potere costituente, origine che nel caso inglese a cui qui si fa riferimento si traduce nel dilemma avanzato dal rapporto tra Antica Costituzione e Nazione Eletta, ed identificabile teoreticamente nell’alternativa netta posta di fronte ai rivoluzionari tra un ritorno ad una forma originaria o la costruzione di una forma nuova4.

4 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit, pp. 606, 615.

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Capitolo primo Secolarizzazione, Enlightenment, potere costituente. La liquidazione del problema dell’attesa

1.1. Saeculum. 1.1.1. Il limite della mondanizzazione. 1.2. L’eterno ritorno ad una forma nuova. 1.3. Il puritanesimo come base della definizione pattizia del potere politico. 1.4. Fictio figura veritatis. 1.1. Saeculum. L’altra precisazione di fondamentale importanza che torna più volte nel primo capitolo del secondo volume de Il momento machiavelliano è la sottolineatura del carattere secolarizzato del contesto in cui prende corpo la coscienza civile e l’insieme delle spinte rivoluzionarie del XVII secolo, ossia, del contesto nel quale si articola il complesso rapporto tra Antica Costituzione e Nazione Eletta1. L’affermazione può peraltro sembrare contraddittoria, se non fosse che una breve esplicazione del significato del carattere secolare delle istituzioni inglesi prerivoluzionarie è utile a fugare ogni dubbio sulla rilevanza direttamente politica della dimensione religiosa e profetica all’interno del processo rivoluzionario. Circoscrivere al campo del giuridico la definizione di secolarizzazione significa identificarla semplicemente con «la liberazione o sottrazione di un oggetto, un territorio o un’istituzione dall’osservanza e dal potere clerical-spirituale2». Questo tipo di definizione, benché implementabile, spiega molto chiaramente l’uso dell’aggettivo secolare da parte di Pocock. L’Inghilterra Tudoriana è già un regno secolarizzato nella misura in cui la titolarità del territorio e dei beni ecclesiastici, nonché il controllo delle nomine degli uffici della chiesa anglicana ricadono almeno formalmente sotto la potestà sovrana del regno3. La Chiesa Anglicana può essere considerata quindi a tutti gli effetti una Chiesa che aspira ad essere un’istituzione dello Stato; è sufficiente ricordare a questo riguardo non solo le riforme di Enrico VIII, ma anche la prassi

1 J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit, pp. 588-590, 597, 598, 603. 2 H. Lübbe, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 19. 3 Il passaggio decisivo naturalmente è l’approvazione dell’Atto di supremazia nel 1534. Cfr. L. Stone,

Le cause della rivoluzione inglese, cit., pp. 78-79, dove vengono descritti i limiti di questo tentativo di fondare un’autentica Chiesa di Stato.

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consolidata di considerare l’unzione del nuovo monarca come momento non costitutivo del passaggio della regalità4. E’ chiaro che questa definizione non può che basarsi sulla determinata distinzione concettuale che identifica una diversa qualità tra il diritto spirituale ecclesiastico e il diritto secolare dell’autorità civile5. Nel continente a tale distinzione consegue lo sviluppo di una relazione concorrenziale tra due istituzioni indipendenti e contrapposte, Chiesa e Stato, e tra due modelli di obbedienza, auctoritas e potestas6, le quali, dopo una prima fase caratterizzata dalla subordinazione e riproduzione da parte del potere laico dei modelli regali del potere spirituale7, vedono stabilizzare il proprio rapporto soltanto a partire dalla neutralizzazione del fondamento religioso dell’obbligo politico rappresentata dall’affermazione del principio cuius regio eius religio8. E’ a partire da questa frattura che viene stabilita la delimitazione tra foro interno e foro esterno ed è sulla base di questa discontinuità simboleggiata dal controllo statuale sui conflitti religiosi che il comando politico si definisce in senso moderno a partire dalla mondanizzazione per mezzo dell’escatologia9. Su questo crinale si sviluppano anche le varie interpretazioni del fenomeno della secolarizzazione che tendono da un lato a far risalire indietro nel tempo l’origine del diritto moderno negli istituti del diritto ecclesiastico10, e dall’altro a protrarre fino alla contemporaneità il dualismo tra teologia e politica tramite un’interpretazione della sovranità moderna come mera proiezione degli stessi postulati teologico-politici sui quali veniva edificato il potere politico premoderno11. E’ sufficiente pensare all’oggetto di questa ricerca la cui origine viene ricondotta all’apparizione del concetto di potestas all’interno della dinamica dualistica tra

4 Cfr. M. Bloch, I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente

in Francia e in Inghilterra, Einaudi, Milano, 1989, pp. 165-172; E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 272-288.

5 Cfr. H.J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 277-279.

6 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., pp. 109-110. 7 Cfr. H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, cit., pp. 87-128, 279-285; E.W. Böckenförde, La nascita dello

Stato come processo di secolarizzazione, in Id., Diritto e secolarizzazione, Laterza, Roma, 2007, pp. 36-41; E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 80 ss.

8 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 20 ss.; E.W. Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione, cit., pp. 35, 41-50.

9 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 36-41; H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova, 1992, pp. 43-58, 69-82. Con l’espressione «mondanizzazione per mezzo dell’escatologia» Blumemberg puntualizza che con secolarizzazione non intende «la trasposizione di contenuti autenticamente teologici nella loro autoalienazione secolare, ma la nuova occupazione di posizioni divenute vacanti da parte di risposte le cui relative domande non poterono essere eliminate. – laddove aggiunge – ci dovremo liberare dalla concezione secondo la quale ci sarebbe un canone fisso di grandi questioni che lungo la storia occuperebbero con un’urgenza costante il desiderio di sapere umano e motiverebbero l’aspirazione all’interpretazione di sé e del mondo. – E conclude – ciò che potrebbe essere descritto come prodotto della secolarizzazione non è tanto la pretesa di totalità della ragione moderna, quanto piuttosto il suo dovere di totalità» (p. 71).

10 Cfr. H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, cit., pp. 128-136. 11 Il riferimento va all’affermazione di Schmitt «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina

dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», C. Schmitt, Teologia politica: quattro capitoli sulla storia della sovranità, in Le categorie del politico, cit., p. 61. Su questa interpretazione si v. la critica di H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 95-107. V. infine C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (a cura di A. Caracciolo), Giuffré, Milano, 1992, in particolare la postfazione dedicata in maniera specifica al confronto con le tesi di Blumenberg (pp. 89-103).

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Monarchia e Papato12. Il potere costituente sarebbe così soltanto la trasposizione di un concetto teologico-politico nel mondo secolare in virtù del fatto che, in realtà, la sua definizione si basa essenzialmente sulla contrapposizione con l’altro concetto di auctoritas13. Naturalmente non è questa la sede per affrontare tale questione, ma in ogni caso è utile fissare un passaggio fondamentale all’interno di questo processo sulla base della definizione qui fornita di secolarizzazione. Una possibile implementazione della definizione di secolarizzazione può quindi consistere nel riconoscimento che, se di fatto è l’atto di esproprio di un titolo giuridico ecclesiastico ad opera del potere statuale a qualificare il processo di secolarizzazione14, dall’altro canto è nel momento in cui il nuovo titolo giuridico statuale si rende completamente indipendente, o meglio, viene rifunzionalizzato e diviene così titolo originario, ovvero nel momento in cui il titolo giuridico ecclesiastico viene effettivamente riconosciuto come derivato, che il potere temporale dà luogo realmente e definitivamente ad un diritto secolare15.

12 Cfr. O. Von Gierke, Les Théories politiques, cit., pp. 103-116, 163-166, dove viene descritta la prima

fase dualistica della secolarizzazione e dove viene poi specificata la dinamica che ha generato la centralità del concetto di plenitudo potestatis.

13 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., pp. 109-118. In realtà è la stessa trasposizione concettuale moderna del dualismo tra potestas e auctoritas che permette di ricondurre all’opposizione i due concetti di potere costituente e di comando politico, l’uno appiattito sul concetto di potestas e dunque riducibile a concetto di origine teologica, l’altro appiattito invece interamente su un concetto di legittimità indifferente al contenuto del comando stesso. «La metafisica della potestas costituens come caso analogo alla natura naturans – per Schmitt – fa parte della teoria della teologia politica». Tuttavia, sebbene la questione che resta sulla sfondo è ben rappresentata dalla contraddizione tra un concetto metafisico che è funzione di una necessità di coerenza teologica del sistema, il vero tema che deve essere qui analizzato è rappresentato proprio dalla concreta declinazione del principio metafisico della natura naturans. Si deve notare inoltre, come il problema della radice teologica del potere costituente sia casualmente ricondotta alla questione dell’individuazione del soggetto titolare del potere costituente e non al concetto stesso, anche da E.W. Böckenförde, Il potere costituente, in, Id., Stato, costituzione, democrazia, cit., pp. 119-124. Sia in Schmitt che in Böckenförde tale questione viene infatti trattata nei paragrafi dedicati al soggetto titolare del potere costituente. Infine, cfr. anche O. Brunner, Per una nuova storia, cit., pp. 165-199.

14 Si deve ricordare peraltro come la ricerca di Blumenberg si muova in una direzione metodologica opposta rispetto a quella di Lübbe. Mentre quest’ultimo ritiene possibile l’estrapolazione di un contenuto specifico del concetto di secolarizzazione sulla base della sua ricostruzione storico-concettuale, Blumenberg considera l’approccio storico-concettuale inefficacie poiché il termine secolarizzazione per definizione, a qualsiasi latitudine storico-concettuale venga collocato, mantiene sempre una dimensione metaforica di senso nascosto tale da impedire qualsiasi tipo di sistematizzazione anche post-strutturale. Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 9-33.

15 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 55, 79-80, dove viene precisato che «la concezione della nuova occupazione non spiega da dove derivi l’elemento nuovamente insediato, ma solo quale consacrazione esso riceva». Questa nuova occupazione ha dei caratteri in comune con il sorgere del Cristianesimo, laddove l’affermazione di quest’ultimo si deve spiegare con la capacità di sostituire il modello di legittimazione antico con la nuova legittimità. Questo affermazione, sebbene essenzialmente dipenda dal fatto che «la legittimità della proprietà deriva, secondo Tertulliano, dall’acquisizione dell’istanza che dispone della cosa», tuttavia si caratterizza per la capacità di riscrivere il contenuto della legittimità stessa. Infatti «il Cristianesimo primitivo non solo ha rivendicato per sé la legittimazione del suo possesso della verità tramite la rivelazione, ma allo stesso tempo ha anche contestato al mondo antico la legittimità del possesso di quelle concezioni che condivideva con esso o che da esso aveva ripreso (…)» Diversamente, la legittimità moderna si colloca sul piano della crisi nella misura in cui discende da due postulati apparentemente contraddittori: da un lato viene riconosciuto il postulato dell’autoproprietà della verità tramite autogenerazione e dall’altro il fatto che «la verità ha perso la sua analogia col diritto di grazia teologico».

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Questo passaggio, che nel continente è simboleggiato dalla pace di Westfalia del 1648, e che non casualmente coincide con il periodo dell’assolutismo, in Inghilterra si viene ad incrociare inevitabilmente con la rivoluzione, poiché come si è visto, il passaggio dall’antico al moderno costituzionalismo avviene qui senza la mediazione dell’assolutismo. Ciò non significa che in Inghilterra la distinzione iniziale tra diritto spirituale e diritto secolare non abbia funzionato come garanzia di indipendenza del potere civile dall’autorità spirituale. Tutt’altro. La distinzione ha qui operato come fattore che ha contribuito alla progressiva sussunzione dell’intera natura del diritto di origine spirituale all’interno dell’istituzione civile16. Da un lato, infatti, l’indipendenza di fatto conseguita per mezzo dello spossessamento e il controllo delle cariche ecclesiastiche ha garantito la supremazia dell’apparato di comando17, dall’altro, l’insieme dei postulati teologico-politici del potere spirituale è stato ricondotto all’interno della complessa architettura politico-costituzionale della Repubblica mistica al fine di conseguire non la giustapposizione e l’imitazione di un potere concorrente, ma con il fine di reintegrare interamente il modello di obbedienza politico e la natura del diritto all’interno del paradigma repubblicano18. Mentre, dunque, per quanto riguarda il continente si può brevemente parlare di una «mondanizzazione per mezzo dell’escatologia», laddove la superiorità definitiva del potere civile viene riconosciuta nel momento in cui viene stabilita l’infallibilità e la supremazia formale del diritto monarchico rispetto al diritto antico e al diritto ecclesiastico, ovvero nel momento in cui la costituzione del nuovo potere assoluto si definisce essenzialmente sulla base dell’assunzione e della contemporanea negazione del dramma escatologico e del concetto di crisi dal quale il potere civile inevitabilmente resta dipendente19, il processo

L’idea di progresso come infinità, di per sé processo indipendente legato all’affermazione della razionalità, si traduce nella temporalità della crisi nel momento in cui diviene la forma mondanizzata della funzione escatologica fino a quel momento ricoperta dal tempo biblico della salvezza, ossia nel momento in cui la stessa «concezione di progresso è stata sottratta alla sua base empirica ed è stata funzionalizzata eternamente» (p. 55).

16 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 164-165, nelle quali al termine del capitolo in cui viene ricostruita la regalità giuricentrica, afferma «la dicotomia medievale tra sacerdotium e regnum veniva chiaramente soppiantata dalla nuova dicotomia tra re e diritto. Nell’epoca della giurisprudenza lo Stato sovrano aveva raggiunto una santificazione della propria essenza indipendente dalla Chiesa, sebbene parallela ad essa, ed assunto su di sé l’eternità dell’Impero romano diventando il re un «imperatore nel proprio regno». Ma questa santificazione dello status regi set regni, delle istituzioni e dei servizi, delle necessitò e delle emergenze statali, sarebbe rimasta incompleta se il nuovo Stato non fosse stato esso stesso equiparato alla Chiesa anche per i suoi caratteri corporativi, come secolare corpus mysticum».

17 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 272-329. 18 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 230-233, dove viene specificato che la

particolarità del processo di secolarizzazione inglese deriva dalla radicale alterità del modello repubblicano organologico fondato sul concetto di universitas, ‘corporificato’, dal modello statuale continentale, ‘personificato’. Su questo punto v. supra Parte I, cap. II, nota 48, pp. 75-76.

19 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp 109 ss. (La retorica della mondanizzazione); cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1999, pp. 40 ss. La particolarità della mondanizzazione per mezzo dell’escatologia consiste proprio nella connessione stabilita tra l’autoproprietà della verità tramite autogenerazione e il dovere di totalità della razionalità continentale. Tuttavia è proprio questa connessione che determina il ruolo centrale e costitutivo della crisi, sotto la forma dell’eccezione, nella definizione del potere statuale moderno. Infatti, la coerenza del sistema viene meno nel momento in cui alla centralità dell’eccezione del potere assoluto corrisponde non un’ideologia della restaurazione ma l’idea della catastrofe. Ciò accade non casualmente proprio nella fase costitutiva dello Stato moderno, quando la forma mondanizzata dell’escatologia si traduce nella sua negazione, ovvero nel momento in cui l’idea di progresso come processo immanente alla storia si tramuta nel dramma baroco. «Non esiste alcuna escatologia barocca, ma un meccanismo che accumula

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di secolarizzazione inglese presenta un’importante differenziazione. Diversamente, infatti, per quanto riguarda l’Inghilterra è pertinente parlare di mondanizzazione dell’escatologia, laddove la natura antropocentrica della regalità repubblicana si accorda con il carattere limitato della monarchia e con la superiorità qualitativa del diritto assorbendo così all’interno dell’equilibrio repubblicano il concetto di crisi al quale inevitabilmente risulta legato il processo di mondanizzazione20. In breve, il comando politico repubblicano risponde all’escatologia cristiana perché né è funzione, mondanizzazione, a differenza della situazione continentale, dove lo stato moderno continentale per costituirsi come potere secolare, per affermare l’autoproprietà della verità come autofondazione si trova costretto a traslare non l’escatologia, ma la stessa autofondazione in un’unità trascendente formale al fine di occupare la funzione fin lì ricoperta dall’escatologia, sebbene facendo ciò comprometta questa stessa funzione21. 1.1.1. Il limite della mondanizzazione.

Il carattere secolare a cui si riferisce Pocock va inteso proprio in questa direzione. E tuttavia anche all’interno di questo mosaico manca ancora un importante tassello. Infatti, fino a che l’autorità discendente si incontra con quella ascendente della consuetudine e dell’articolazione moltitudinaria dell’universitas si ha di fatto un’armonizzazione fluida e processuale dell’equilibrio repubblicano22. Il problema, in realtà, comincia a svilupparsi nel momento in cui la crisi dell’autorità discendente è generata direttamente dalla crisi dell’autorità ascendente, e ciò non avviene semplicemente nel momento in cui è la virtù repubblicana del principe a venire meno,

ed esalta i frutti prima di consegnarli alla morte. L’aldilà è svuotato di tutto ciò in cui spira il benché minimo alito di mondo, ad esso il Barocco strappa una quantità di cose che si sottraevano a ogni raffigurazione per portale alla luce, al suo culmine, con drastica violenza: resta così sgombro un ultimo cielo, un puro vuoto che potrà annientare dentro di sé, con catastrofica violenza, la terra».

20 Cfr. supra, Parte I, cap. II, par. 2.3, pp. 67-83; E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 230-233. Peraltro, ciò non significa che questo modello repubblicano non incontri un limite e che non ricada nella crisi. Come sottolinea Kantorowicz, a questo punto, «dovremmo chiederci per quali motivi la nozione dei «due corpi del Cristo» non potè trasferirsi e neppure indirettamente applicarsi al corpo mistico statale? Dove venne meno l’analogia?». E’ evidente che il limite è simboleggiato dallo stesso carattere antropocentrico della regalità, per cui la perpetuità della Repubblica potè essere ricercata soltanto su un terreno della finzione giuridica che rappresentasse la complessità dell’unico ente veramente immortale la multitudo ordinata. «La grazia, la giustizia e il diritto rimasero certamente valori eterni da cui non era facile prescindere (…) la continuità di una giustizia che «mai muore» giocò un ruolo importante per la continuità della Corona. Ma il valore dell’immortalità e della continuità su cui sarebbero fioriti i nuovi governi politicocentrici venne riconosciuto all’universitas «che mai muore», all’eternità di un popolo…»

21 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 69-81, 109-127. «Nel teorema della secolarizzazione si deve vedere un’utilizzazione indirettamente teologica di quelle difficoltà che sono sorte storicamente nel tentativo filosofico dell’inizio dell’età moderna. Con la tesi della secolarizzazione queste perturbazioni della tentata assenza di premesse appaiono come una sorta di provvidenziale resistenza dell’indispensabile. L’età moderna però non ricorre tanto a ciò che le preesiste, anzi vi si oppone e ne raccoglie la sfida». Sulle questioni di carattere generale che definiscono tale ordine pratico di problemi connessi con la modernizzazione nel corso del Seicento v. J.L. Marion, The idea of God, J.R. Armogathe, Proofs of the existence of God, e T.M. Lennon, The cartesian dialectic of creation, in The Cambridge History of Seventeeth Century Philosophy, cit., pp. 265-361.

22 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 614-621.

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ma nel momento in cui è il sistema di governo territoriale a rendere inefficacie anche la supposta prudenza del re. Infatti, se da un lato l’evoluzione del common law è in grado di riassorbire il mutamento della struttura materiale dell’antica Costituzione, dall’altro si deve osservare come a questa ridefinizione materiale della struttura di governo, non corrisponda una ridefinizione del sistema di legittimazione politico, ma al contrario corrisponda la crisi del vecchio principio di legittimazione politico fondato sul concetto di universitas. Ciò accade quando la relazione tra autorità discendente e ascendente, tra la testa e le membra del corpo politico, tra l’unità e la molteplicità, ossia quando lo stesso principio organologico non è più in grado di ricomporre l’insieme delle differenze all’interno di un quadro comune23. Tale crisi, che si rende palese nella crisi della figura del re, se non altro per il semplice fatto che l’organo monocratico assommava su di sé nella sua stessa costituzione il carattere razionale e umano dell’istituzione politica, è in verità generata dalla crisi dell’autorità ascendente nella misura in cui alla molteplicità dei corpi si associa la rottura dell’unità cristiana e la simultanea estensione e approfondimento della componente razionalistica nella definizione dell’azione politica. Dunque, fin tanto che l’imperfezione della repubblica viene catalizzata sulla natura antropocentrica della regalità, quest’ultima è in grado di assolvere alla propria funzione di garanzia dell’unità poiché la costituzione stessa della repubblica ruota intorno ad una sostanziale mondanizzazione e razionalizzazione dell’agire politico. La prudenza che dovrebbe guidare Giacomo I cerca di riflettere ancora questo equilibrio. Tuttavia, la crisi è inevitabile nel momento in cui l’individuo singolo, ogni parte della società diviene strumento animato di Dio generando la crisi definitiva del modello antropocentrico di regalità. E’ per questo che paradossalmente proprio laddove veniva affermata la completa indipendenza e il completo controllo del potere civile sul potere spirituale si verifica la crisi generalizzata del sistema politico-istituzionale. E’ per questo, dunque, che la fine dell’unità cristiana e l’ingresso delle idee puritane si traduce in una mobilitazione ed in un conflitto di carattere apertamente politico che mira ad una ridefinizione dell’intero sistema istituzionale. Con la crisi dell’autorità ascendente si intende quindi la scintilla che dà il via agli sconvolgimenti del XVII secolo, e che qualifica immediatamente i conflitti religiosi con la lotta contro una repubblica corrotta dominata dall’Anticristo, contro la quale l’azione del «santo» e del «patriota»24 disegnano i tratti di una vera e propria rivoluzione politica25. Il carattere puritano quindi si intreccia con i mutamenti della struttura sociale, seppure, si deve precisare, il loro rapporto non è mai di natura deterministica o causale, ma semmai puramente

23 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 614-621. Del resto, è lo stesso Pocock che riconosce il

razionalismo sottostante il modello repubblicano del corpus mysticum. «Ma dire una cosa del genere – (in riferimento allo scarto tras l’autorità del re e la sua personale intelligenza, e dunque al carattere antropocentrico della repubblica) -, significa solo che la sua autorità «discendente» viene ad incontrarsi, stante l’imperfezione della sua intelligenza, con le intelligenze imperfette dei suoi sudditi. L’incontro si risolve nel porre insieme – re e sudditi – la propria esperienza e nel consigliarsi a vicenda. In quanto poi l’esperienza è connessa con la ragione, si può dire che il capo e le membra vengono a formare un corpus mysticum pienamente razionale (posto e non concesso che si possano avere gradi diversi di razionalità)» (p.614).

24 Con questi due termini si vuole indicare la polarità intorno alla quale ruota la complessità del rapporto tra Antica Costituzione e Nazione Eletta. Per la composizione soggettiva di queste due figure si v. M. Walzer, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo politico, Claudiana, Torino, 1996, pp. 151 ss.; v. anche J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 586 ss.

25 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 598-601.

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interdipendente, nella misura in cui con quest’ultima caratteristica si intende la complessità generata dal processo rivoluzionario e dall’incontro tra Antica Costituzione e Nazione Eletta26. D’altra parte l’affermazione del fondamento del potere politico nel principio populu faciente Deus ispirante segnalava già l’estremizzazione della mondanizzazione dell’escatologia all’interno dell’intero corpo sociale. Tuttavia, la fine dell’unità cristiana e la conseguente diffusione in forme molteplici dello spirito calvinista, ossia la moltiplicazione di modelli razionalità guidati dalla fede in Dio quanto da un presupposto individualista comporta un’ultima estremizzazione di questa mondanizzazione27. L’azione politica del patriota e del santo diventa infatti tale in quanto l’individuo stesso diventa strumento animato della volontà di Dio, volontà che però effettivamente si traduce nell’azione guidata dalla ragione individuale. Poco importa qui il riferimento all’autentico pensiero di Calvino28, o al fatto che un modello di azione di questo genere si determina sulla linea di confine che ribalta l’opposizione tra predestinazione e libero arbitrio in una relazione di interdipendenza29. Ciò che importa invece sottolineare è che innanzitutto questa estremizzazione, questa razionalizzazione dell’agire individuale, si definisce sulla base della propria autofondazione. In altri termini, la crisi dell’unità si deve ricondurre essenzialmente alla crisi della condizione iniziale, del contenuto di verità trascendente posto a fondamento dello stesso procedere razionale dell’agire umano all’interno del modello dell’universitas30. Alla rottura dell’unità cristiana corrisponde così un’ultima estremizzazione della mondanizzazione, poiché alla fine dell’unità della verità non corrisponde la crisi del

26 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 584-594. E’ evidente che Pocock tenta di ricostruire il rapporto tra Antica Costituzione e Nazione eletta innanzitutto a partire dalla critica dell’interpretazione storiografica di M. Walzer e C. Hill.

27 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 188-189. «Il Dio calvinista gioca un po’ un ruolo di questo tipo; la sua stessa esistenza mette in pericolo la gerarchia medievale degli ordini e dei poteri, stabilisce la propria onnipotenza livellando il cosmo, annientando il potere intermedio degli angeli, della Beata Vergine e dei santi, del papa, dei vescovi, e alla fine anche del re (…) L’Universo medievale era stato pluralistico: angeli e stelle nelle sfere celesti, papi e re sulla terra, occupavano posti prefissati in natura e collegati in modo armonico col resto dell’ordine cosmico (…) Il Dio di Calvino, invece, regnava su un dominio unico e unificato; tutti i poteri erano esercitati direttamente da Lui e non dovevano nulla alla natura. Tutti gli uomini erano suoi strumenti e, sia che si alleassero con la sua sovranità, sia che vi si ribellassero, Egli impartiva a tutti loro qualcosa della sua determinazione».

28 Si intende il riferimento al calvinismo come ideologia e come dottrina, peraltro irriducibile ad un’unità dogmatica, ma al contrario diffusa nelle forme molteplici del radicalismo politico inglese, nel senso indicato da M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 59 ss. «Calvino potrebbe benissimo essere definito il nome di una dottrina: un sistema organizzato di idee che sembra esistere in modo del tutto indipendente dal suo creatore…»

29 Questa relazione può essere considerata la conseguenza logica dell’altra, sottolineata da Walzer, tra la conclamata imperscrutabilità di Dio e lo scarso gusto per i misteri privati effettivamente affermata dal puritanesimo. Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp 59-60. E’ in Spinoza, che secondo E. Balibar, avviene il processo che traduce l’opposizione tra predestinazione e libero arbitrio in una relazione di interdipendenza che di fatto arriva ad annullare la funzione dogmatica dei due concetti. Ciò avviene nel momento in cui la capacità di indagare razionalmente la natura si collega con l’identicazione del potere di Dio nelle leggi di necessità che regolano la natura stessa. Cfr. E. Balibar, Spinoza e la politica, Manifestolibri, Roma, 1996, pp. 20-28. D’altra parte, la non comparabilità del pensiero di Calvino e di quello di Spinoza affermata da L. Strauss riflette i limiti strutturali del razionalismo di Calvino. Sul punto v. L. Strauss, La critica della religione in Spinoza, Laterza, Bari, 2003, pp. 182-205 (cap. La critica a Calvino).

30 Cfr. M. Oakeshott, La condotta umana, Il Mulino, Bologna, 1975, pp. 19-44, 241-272, 335-356.

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procedere condizionale dell’agire umano, ma al contrario un’accelerazione31 e un approfondimento di tale agire nella misura in cui ora tale accelerazione comprende anche il processo di progressiva presa di coscienza della natura condizionale dell’agire stesso32. Se il risultato della modernizzazione può essere considerato astrattamente la piena consapevolezza della condizionalità dell’agire razionale dell’individuo, ovvero il riconoscimento che l’unico fondamento dell’agire razionale astrattamente inteso può essere solo la razionalità stessa33, laddove cioè quest’ultima si identifica completamente nel suo carattere formale di capacità di giudizio34, tuttavia è bene fare due precisazioni che riguardano da vicino il tema qui in esame. In primo luogo nel momento del collasso del processo di mondanizzazione, o meglio del collasso del suo contenuto fondativo (l’unità del dogma cristiano) avviene un’inversione del rapporto tra mezzi e fini per cui il contenuto iniziale non scompare, ma si ritrova di fatto ad essere subordinato e determinato in maniera processuale e contingente dal metodo condizionale stesso35. Il processo di rischiaramento esplica tutta la sua forza rivoluzionaria proprio perché guidato dalla convinzione di rispondere alla volontà di Dio36. Lo scoppio della rivoluzione, la sua dimensione profetica ed apocalittica possono essere ben inquadrati soltanto sulla base della comprensione delle potenzialità espressive contenute in questa frattura dell’equilibrio della connessione tra il procedere condizionale della condotta umana e il suo fondamento contenutistico-trascendente che caratterizza il sistema di pensiero premoderno37.

31 Il termine «accelerazione» è ripreso da R. Koselleck, «Historia magistra vitae», cit., pp. 51 ss., e, Id.,

Criteri storici del moderno concetto di Rivoluzione, in Futuro passato, cit., pp. 63-65, laddove viene utilizzato per descrivere il mutamento del concetto di temporalità storica.

32 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 191 ss. (L’ineluttabilità di un Dio ingannevole); R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Giuffré, Milano, 1979 cit., pp. 25 ss.

33 Cfr. M. Oakeshott, La condotta umana, cit., pp. 39-44. In ogni caso il presupposto dell’interpretazione del processo di razionalizzazione è costituito dal riconoscimento del carattere condizionale e razionale, sebbene «privo di una piena padronanza di se stessa perché non consapevole della propria condizionalità», dell’agire di quello che Oakeshott chiama uomo della caverna. L’inizio del processo di razionalizzazione dell’azione umana, e il presupposto di ogni secolarizzazione, può essere ricondotto a quando il teorico fugge dal mondo degli abitanti della caverna e poi vi fa ritorno con una comprensione immensamente superiore a quella che aveva lasciato. E’ in questo momento che egli fa un dono «di inestimabile valore per il genere umano: una comprensione definitiva ed un linguaggio che sostituisce ogni altra comprensione e linguaggio, e che ne prende il posto (corsivo dell’autore)».

34 Cfr. M. Oakeshott, La condotta umana, cit., pp. 133 ss., 241-272. L’opposizione tra universitas e societas viene costruita da Oakeshott proprio su questo mutamento della natura della base condizionale dell’agire razionale. Mentre nel modello dell’universitas la piattaforma condizionale coincide con un contenuto di verità trascendente – dal quale è possibile in ogni caso ricavare un tipo di agire razionale – nel modello della societas il contenuto di tale piattaforma iniziale si ridurrebbe a pura forma identificandosi tout court con la stessa capacità riflessiva del soggetto.

35 Cfr. R. Schnur, Individualismo, cit., pp. 25 ss. 36 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., p. 203. «Se però Dio usava gli uomini come strumenti,

essi gli obbedivano come santi, e qui si manifesta una certa difficoltà (…) Dio non «usava» semplicemente i suoi santi strumenti; in un certo senso la loro azione doveva essere voluta». Cfr. anche J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., p. 601.

37 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 139-140, il caso limite di questa nuova connessione tra razionalismo e missione del santo implicava nelle parole di Knox che «tutti coloro che vorrebbero strapparci Dio (siano essi re o regine), essendo della natura del diavolo, sono nemici di Dio, e quindi voglia Dio che ci dichiariamo noi stessi loro nemici». Cfr. anche J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 599-604.

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In secondo luogo, il risultato dell’analisi di questo processo non può ridursi alla constatazione generalista dell’autofondazione razionale dell’azione umana. Da un punto di vista più generale infatti questa razionalizzazione individuale non è che una parte costitutiva del cosiddetto processo di autoggettivazione della volontà individuale, laddove con quest’ultimo termine si identifica essenzialmente lo sviluppo progressivo di una coscienza individuale che «sa sé stessa come idea», ossia che sa sé stessa come proiezione delle proprie facoltà razionali38. Così, può apparire anche scontato ricordare che la razionalizzazione può essere inquadrata in questo sviluppo, e quindi si può considerare come una parte determinante della presa di coscienza progressiva da parte dell’individuo che la razionalità può essere criterio della propria azione in quanto si fondi consapevolmente sul suo stesso carattere condizionale39. Assume però una tonalità diversa stabilire sulla base di quali condizioni questo modello di razionalità si afferma. Il teorico, infatti, «nel rivolgere la sua attenzione critica a tale condizionalità, si libera della prigione della sua comprensione corrente; e nell’identificare le condizioni che compongono tale condizionalità e nel fare di tali postulati i termini della sua comprensione, egli giunge ad occupare una nuova piattaforma di comprensione condizionale40». Ovvero, in altri termini, stabilire e tentare di individuare quale tipi e quale gradi di razionalismo giuridico descrivono la parabola complessa della rivoluzione e quale particolare modello razionale si afferma come vincente alla fine del percorso costituzionale, a partire dalla dimostrazione appena fornita del necessario carattere relativo, ipotetico e convenzionale di ogni tipo di paradigma condizionale. Il problema, dunque, non è la scelta della fede o dei criteri teologico-politici trasposti nel potere temporale, ma la ri-definizione del modello politico, laddove però quest’ultimo è costantemente determinato dai gradi e dai modelli di razionalità, e laddove questi ultimi sono posti in connessione con una filosofia della natura e della scienza che a differenza dell’unità dogmatica della religione continuano a ricoprire un ruolo attivo all’interno della vita associata41. La vera peculiarità del Seicento inglese è

38 L’essenza linguistica e culturale della natura umana è il carattere che contraddistingue l’essere

umano e che, allo stesso tempo, ne determina la condizione preliminare dell’autofondazione. Se con auto-oggetivizazione si intende questo processo di presa di coscienza della propria condizionalità, dall’altra parte si deve osservare come sia anche da questo punto in poi che si apre la possibilità per uno studio di tipo storico-concettuale, fondato quindi, in ultima istanza, sulla filosofia della linguaggio. Cfr. Q. Skinner, Language and social change, in Meaning and Context. Quentin Skinner and his critics (a cura di J. Tully), Polity Press, Oxford, 1988, pp. 119-134; v. però la critica di C. Taylor nello stesso volume, The hermeneutics of conflicts, pp. 218-230; v. infine in generale sul problema del rapporto tra natura e cultura e la filosofia del linguaggio e le forme della razionalità P. Virno, E così via all’infinito. Logica e antropologia, I, in corso di pubblicazione.

39 Cfr. M. Oakeshott, La condotta umana, cit., pp. 90-113, dove viene descritto il significato della distinzione tra la condotta umana basata su una pratica autoriflessiva e le condotte autorealizzatrici fra le quali viene inclusa la definizione di religione. La distinzione non concerne l’effettiva moralità delle norme poste come condizioni dei rispettivi tipi di azioni, o il fatto che debbano essere considerate soltanto come riflessive le pratiche frutto di un calcolo autocosciente. Al contrario non solo la condotta riflessiva può essere autorealizzatrice, ma soprattutto essa si contraddistingue per la sua capacità potenzialmente infinita di far fronte razionalmente a situazioni contingenti in forza essenzialmente della sua potenzialità riflessiva.

40 M. Oakeshott, La condotta umana, cit., p. 18. 41 Questi modelli di razionalità contenuti nel paradigma della repubblica mistica sono centrali per

Pocock nella misura in cui si concretizzano politicamente nelle forme del civismo repubblicano. Cfr. anche J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 614 ss. Sulla filosofia della natura rinascimentale v. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, I, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dall’Umanesimo alla scuola cartesiana, Einaudi, Torino, 1952, pp. 233-255; v. anche W.A. Wallace, Traditional natural

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determinata proprio dal fatto che è questo collasso della condizione iniziale, del contenuto trascendente posto a fondamento dell’azione umana a permettere la liberazione e la moltiplicazione delle forme di espressione filosofiche e politiche. A differenza del continente, dove invece a questa congiuntura storica si risponde con il tentativo di ingabbiare la crisi e la molteplicità delle forme all’interno di uno schema di rappresentazione artificiale e sfarzoso attraverso il barocco42 e la trasposizione su un piano trascendente e mondano del dramma escatologico43, in Inghilterra il collasso della condizione fondativa dell’antico ordine medievale si traduce immediatamente in un’amplificazione e in un approfondimento delle basi razionalistiche e individuali delle teorie filosofiche legate alla repubblica mistica. E’ dunque sullo sviluppo complessivo qui tracciato della repubblica mistica e di questo particolare processo di secolarizzazione che si fonda l’anomalia del Seicento inglese per cui la ridefinizione delle istituzioni politiche e della costituzione viene determinata in modo rivoluzionario dall’azione del santo e del patriota. E’ indubbio che, astrattamente, la congiuntura prodotta da questa estremizzazione dà luogo ad una pluralità di modelli e ad un ampliamento del campo di indagine che potrebbe compromettere l’oggetto specifico della ricerca. E tuttavia non si può non tener conto delle possibilità aperte da un modello di razionalità che si sviluppa a partire da una tensione costituita dall’identificazione potenziale tra Dio e ragione individuale. E’ infatti sulla declinazione di questo rapporto, ossia sulla declinazione moderna delle forme di razionalità, che si colloca una possibile riarticolazione del concetto di potere costituente, laddove quindi la ridefinizione vincente in senso contrattualista del vincolo sociale si deve misurare con la molteplicità delle opzioni aperte dalla tensione tra Dio e ragione. Innanzitutto, dunque, in questa sede è importante analizzare il significato e la portata della frattura della secolarizzazione, dell’ultima estremizzazione della mondanizzazione dell’escatologia in relazione al concetto di potestà costituente. Nel caso inglese, così, il legame tra l’origine teologica dello stesso concetto di potere costituente può essere articolato in tre possibili direzioni indicate dalla rottura del vecchio sistema cosmologico della respublica christiana: il mutamento del rapporto tra una concezione ciclica e una lineare della temporalità storica, lo sviluppo della concezione puritana come base per la ridefinizione pattizia del vincolo sociale, le potenzialità contenute nella nuova dimensione razionale-individualista.

philosophy, e A. Ingegno, The new philosophy of nature, entrambi in The Cambridge History of Renaissance Philosophy, cit., pp. 199-262. Il ruolo di questa concezione della natura nell’evoluzione del razionalismo inglese v. ancora E. Cassirer, Storia, cit., II, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, cit.; Id., La rinascenza neoplatonica nella scuola di Cambridge, La Nuova Italia, Firenze, 1947; cfr. anche J.R. Milton, Laws of nature, in The Cambridge History of Seventeeth Century Philosophy, cit., pp. 680-701.

42 Il rapporto tra la scoperta della ragione e il processo di costituzione del potere politico come autofondazione riproduce, in questo senso, il rapporto tra manierismo e barocco. Su questo tema v. R. Schnur, Individualismo e assolutismo, Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Giuffré, Milano, 1979, pp. 89-101. V. anche il saggio introduttivo di E. Castrucci, Storia delle idee e dottrina «decisionistica» dello stato, nel quale viene sottolineato il legame tra la costituzione secondo il paradigma dell’eccezione e la torsione barocca del soggettivismo manierista. Infine, si tenga conto anche del classico P. Hazard, La crisi della coscienza europea, Einaudi, Torino, 1946.

43 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1999, pp. 39 ss. Il corollario della costituzione della statualità continentale come costituzione della crisi e della mondanizzazione per mezzo dell’escatologia sembra dunque essere rappresentato proprio dalla centralità assunta dal concetto di rappresentazione, una rappresentazione che però a differenza della regalità repubblicana non è funzione di sostanziale unità del sistema, ma di esaltazione barocca dell’idea di catastrofe e di un tipo di comando formale quanto unilaterale.

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1.2. L’eterno ritorno ad una forma nuova. Una diversa interpretazione riconduce il fenomeno della secolarizzazione all’interno del Cristianesimo, ad un solo atto la decisione per il Medioevo e l’età moderna, precisamente, «all’allontanamento dal cosmos pagano dell’Antichità e dalla sua struttura ciclica protettiva e all’adesione all’azione temporale unica di tipo biblico-cristiano44». Un’impostazione di questo tipo, nonostante si dimostri in grado di riconoscere la discontinuità fondamentale, il fattore rivoluzionario introdotto dal Cristianesimo, tuttavia non è capace di rendere giustizia dell’efficacia dispiegata dall’incontro dei due tipi di temporalità nel corso della fase premoderna. Peraltro, la superiorità dell’elaborazione mistico-repubblicana e la peculiarità della secolarizzazione inglese, della mondanizzazione dell’escatologia, devono il proprio successo proprio alla capacità della teoria dell’universitas di far compenetrare vicendevolmente la concezione ciclica della temporalità storica con il modello escatologico cristiano, l’universitas fondata sul concetto di multitudo ordinata con il carattere razionalista e antropocentrico della stessa teoria repubblicana45. Per quanto riguarda più specificatamente la concezione del tempo, è sufficiente fare riferimento a quanto specificato circa la centralità assunta dal concetto di aevum all’interno dell’Antica Costituzione. L’aevum, posto quale sorta di compromesso tra l’aeternitas inaccessibile all’uomo e il tempus, modo finito della sostanza inadatto a fondare delle istituzioni legittime nel tempo, rappresentava il vero e proprio limite trascendentale a partire dal quale era possibile fondare la repubblica e le leggi interamente su un terreno temporale46. In questo senso, l’aevum non rispondeva soltanto all’esigenza giuridica della giustificazione dell’immemorialità della costituzione e della perpetuità nel tempo delle istituzioni politiche, ma rispondeva anche all’esigenza di bilanciare l’antitesi prodotta dallo stesso Cristianesimo e consistente nel legame che vede contrapporre la scoperta della positività e della razionalità con l’ineluttabilità del disvelamento del progresso quale destino47. In questo quadro un rapporto di tipo armonico tra una visione ciclica del mutamento e la temporalità lineare non era una scelta di opportunità, ma una concreta necessità affermata nella forma della repubblica mistica grazie alla quale il modello d’obbedienza politico si è potuto modellare

44 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 34 ss., dove viene analizzata criticamente

l’interpretazione di Löwith. Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano, 1979.

45 Cfr. supra Parte I, cap. II, par. 2.3.3, pp. 72-83. D’altra parte se non si riconosce questa compenetrazione tra cosmos ed escatologia biblica si dovrebbe assumere il punto di vista di Löwith per il quale la secolarizzazione sarebbe di fatto già compiuta con il Cristianesimo. Sul punto cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 33-42.

46 Supra Parte I, cap. II, nota 61, p. 80. Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 236-243. 47 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 33-42. Cfr. R. Koselleck, Per una

semantica del mutamento storico dell’esperienza, in Futuro passato, cit., pp. 196-209, dove viene precisato il significato politico della contraddizione interna all’escatologia cristiana per cui «la dottrina dei due regni è abbastanza formale da permettere, in superficie, un’interpretazione dualistica per ogni esperienza concreta, senza rinunciare alla tensione verso il futuro della salvezza, che fa emergere la vera divisione».

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agevolmente ad una particolare ontologia della vita associata, ovvero ad un particolare sviluppo della teoria della conoscenza48. In pratica, non solo la concezione del diritto, ma l’intero equilibrio repubblicano si fonda su un concetto di immutabilità nella misura in cui «la struttura temporale della storia trascorsa delimitava uno spazio continuo di esperienze possibili49». Historia magistra vitae è dunque il principio che permette l’armonizzazione tra la ciclicità della repubblica e la linearità dell’escatologia cristiana. «In questo modo anche la distanza tra la coscienza politica del tempo propria degli inizi dell’età moderna, e l’escatologia cristiana si rivelava certamente minore di quanto avrebbe potuto apparire a prima vista. Sub specie aeternitas non si poteva più verificare nulla di nuovo, sia che il futuro venisse visto attraverso la fede del credente, sia che venisse calcolato con fredda obbiettività (…) Né fa meraviglia che il modello ciclico dell’antichità ripreso e diffuso da Machiavelli abbia potuto assumere un’evidenza generale. La ripetibilità propria di questo modo di esperire la storia legava nuovamente il futuro pronosticato al passato50». Ad un certo punto questo equilibrio si compromette. La mondanizzazione torna ad avanzare, ma ora, privata della sua unità fondativa non può che tradursi in una crisi della concezione della temporalità storica. L’aevum si tramuta in Apocalisse, ossia in un’idea di fine del tempo, e dunque in un’idea temporalmente definita e razionalmente prefigurata, anche se indefinita in relazione al momento cronologico, in base alla quale rimodellare la propria azione politica51. Tuttavia, è bene precisare, il collasso della temporalità storica non si determina a causa della crisi della componente ciclica, la quale continua a rispondere alla sua funzione di garanzia dell’identità, nel, e nonostante il mutamento, e secondo la quale è ammissibile tanto il concetto di crisi come degenerazione quanto quello di rivoluzione come moto circolare, ma si definisce interamente sulla base della radicalizzazione dell’antitesi interna alla concezione lineare del tempo. La rottura dell’unità cristiana e il conseguente processo di rischiaramento interiore, descrivendo una repubblica ormai corrotta e dominata dall’Anticristo, impongono l’accelerazione dello stesso tempo lineare che nella congiuntura attraversata dall’Antica Costituzione si traduce indifferentemente come difesa della repubblica o come diritto di rivoluzione, laddove però quest’ultimo si arricchisce anche del suo significato moderno di mutatio, di mutamento paradigmatico52.

48 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza nella filosofia, cit., pp. 291-310. «Anche qui la categoria

della sostanza precede «secondo natura» ogni specie di rapporto (…) Anche il tempo non costituisce un contenuto elementare della conoscenza, ma rappresenta un’astrazione del movimento che dev’essere dato in precedenza nella realtà empirica. La definizione secondo la quale esso è la misura e perciò la condizione del movimento sarebbe così capovolta in senso metafisico: il mutamento di luogo, la rotazione del globo celeste dovevano avvenire in precedenza nella realtà perché potesse formarsi l’idea di tempo».

49 R. Koselleck, «Historia magistra vitae», in Futuro passato, cit., p. 32. 50 R. Koselleck, «Historia magistra vitae», cit., p. 32. 51 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 597-598, laddove specifica che «il fatto è che l’evento

non tardò e che «l’impero», da loro - (i santi)- considerato avversario dell’Anticristo e testimone della verità, rimase «l’Inghilterra» e cioè un complesso di leggi, di diritti e sanzioni di legittimità e di storia appartenenti al saeculum. Proprio questo complesso, ovverosia questa congerie, venne ad avere una sua somma rilevanza apocalittica e a svolgere un ruolo apocalittico».

52 Il significato del termine rivoluzione subisce il suo mutamento proprio in questa congiuntura storica. Il termine non allude più soltanto al moto circolare degli astri, all’anakyklosis delle forme politiche, all’alternanza tra generazione e corruzione, ma esprime immediatamente anche un significato di mutamento paradigmatico guidato da una forza trainante, da un’idea di progresso strettamente

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Seguendo questa impostazione assumono importanza marginale per quanto riguarda la ridefinizione della concezione della temporalità storica le distinzioni tra un atteggiamento post-millenaristico e pre-millenaristico, o tra la scelta di un ritorno ad una forma originaria e la costruzione di una forma nuova di vita associata. La dimensione apocalittica travolge queste distinzioni nella misura in cui, di fatto, tali distinzioni si traducono in un antinomianismo trasversale a tutti i gruppi politici, in grado di determinare effettualmente la costruzione costituzionale come costruzione di una forma nuova53. Il potere costituente come presa di coscienza del mutamento strutturale della società e delle forme di legittimazione politiche è scandito da questa accelerazione54 e approfondimento della temporalità lineare, nella misura in cui con questa temporalità viene veicolata la nuova antropologia individualista e nella misura in cui prerequisito di ogni potere costituente è il controllo razionale delle modalità di creazione giuridica55. Tuttavia è necessario precisare fin da subito: la temporalità storica del potere costituente non è comprimibile all’interno di questa accelerazione lineare. A questo proposito si deve ricordare preliminarmente come l’affermazione storica del potere costituente dipenda dal piano materiale del suo dispiegamento, ovvero dal mutamento nella struttura del governo territoriale indotto dalla crisi del sistema di protezione feudale e dall’emergere di un diverso regime proprietario56. Tale distinzione, è bene precisare, tra definizione materiale e giuridica non deve essere peraltro confusa con la separazione tra evento e struttura. La definizione materiale non risponde infatti all’esigenza di inquadrare razionalmente l’evento difficilmente ordinabile secondo un criterio cronologico, poiché questa operazione ricadrebbe nello strutturalismo di una rappresentazione già costruita su un determinato concetto di potere costituente che concependo sé stesso come evento ricorre poi alle rappresentazioni della costituzione già vigenti per potersi giustificare. Al contrario qui la distinzione tra definizione materiale e definizione giuridica risponde alla precisa esigenza di far saltare quella separazione concettuale nella misura in cui il concetto di potere costituente viene collegata ad un concetto metafisico di infinità. L’anomalia del percorso costituzionale inglese consiste proprio in questa commistione che è in grado di esaltare, da un lato, l’antico concetto di rivoluzione come moto circolare di una storia che si ripete nelle forme del cosmo, e dall’altro, la nuova definizione di rivoluzione che fa la sua prima comparsa nella storia basata sul concetto lineare di progresso e utopia. Sul moderno concetto di rivoluzione v. supra quanto detto nell’Introduzione, par. 1.3.1, pp. 26-27. Sull’incontro tra i due ‘idealtipi’ di rivoluzione Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 33-42; v. anche M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., p. 216; G. Fiaschi, Potere, rivoluzione e utopia nell’esperienza di Gerrard Winstanley, Cedam, Padova, 1982. Sul rapporto tra i concetti di anakyklosis, mutatio e renovatio v. A. Negri, Il potere costituente, cit., pp. 127-141; anche, J.G.A. Pocock, La repubblica, cit., pp. 585-624. Infine, si deve ricordare come la corrispondenza qui delineata attraverso la comparazione concettuale possa essere rigettata da un punto di vista storiografico classico: nessun attore politico del Seicento inglese allude linguisticamente al concetto moderno di rivoluzione. E tuttavia, proprio per non rimanere ingabbiati nelle cristallizzazioni temporali dei significati, non si può non tener conto e muovere da questa divaricazione aperta dal processo di Enlightenment , ossia da un tipo di azione incoscientemente “cosciente di sè stessa”, per rintracciare la prima comparsa effettiva del fenomeno rivoluzionario nella storia. Su questo dibattito v., oltre al già citato, J. Dunn, Modern Revolutions, cit., D. Wootton, Leveller democracy and the Puritan Revolution, in J.H. Burns (a cura di), The Cambridge History of Political Thought 1450-1700, Cambridge University Press, Cambridge, 1991, pp. 420 ss.

53 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 602-604. 54 Cfr. R. Koselleck, «Historia magistra vitae», cit., pp. 51 ss. 55 Cfr. supra , Introduzione, par. 1.3, pp. 23 ss. 56 Cfr. supra, Parte I, cap. III, par. 3.3, pp. 108-124.

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riportato alla sua essenza di potenza storica in grado di determinare lo stesso mutamento della temporalità storica57. L’analisi del mutamento del rapporto tra una concezione lineare e una ciclica della temporalità storica risponde quindi alla necessità di individuare il tempo storico del potere costituente nella rivoluzione inglese. Questo mutamento viene determinato dall’accelerazione della temporalità lineare impressa dall’azione del santo e del patriota nella ridefinizione razionalistica delle istituzioni politiche. In ogni modo, ciò non comporta la cancellazione o la subordinazione di una concezione ciclica alla concezione lineare del tempo. In effetti, che la costituzione sia un patto fondato sulla storia e non un contratto stabilito a priori è un fatto supposto alla fine della rivoluzione, nonostante le teorie contrattualistiche, come anche il fatto che la creazione giuridica rappresenti un concetto giustificabile razionalmente, ma non riducibile ad una volontà intesa in modo formalista. Sono quindi sufficienti queste due prove tangibili a dimostrare che la chiusura della rivoluzione si inserisce all’interno di un quadro ciclico; ossia in breve, a dimostrare che terminare la rivoluzione equivale a chiudere un ciclo e non ad ipostatizzare formalisticamente una temporalità ridotta ad un’idea di progresso lineare, e dunque, a subordinare tout court il concetto di potere costituente al concetto moderno di rivoluzione58. Paradossalmente, quindi, è la stessa accelerazione lineare che approfondisce il carattere ciclico della storia repubblicana inglese. La mutatio, definita dalla nuova antropologia individualista, diviene il vettore, il soggetto in grado di trainare l’anakyklosis determinando l’apertura e la chiusura di un nuovo ciclo. Se, infatti, è l’estremizzazione della mondanizzazione a determinare la dimensione rivoluzionaria e politica della crisi, dall’altro lato si deve constatare che è la stessa estremizzazione che definisce il momento in cui si deve terminare la rivoluzione, ossia il momento in cui alla delusione per il mancato avvento della nuova era fa seguito la rinuncia da parte delle sette e dei gruppi a esercitare il proprio ruolo politico e il conseguente riflusso dell’attività religiosa nell’ambito del privato59. Il mutamento del rapporto tra i due tipi di temporalità non consiste dunque in una lotta per la supremazia di una temporalità sull’altra, ma funziona come un approfondimento della complessità della loro relazione. La temporalità del potere costituente si colloca su questa complessità. Da un lato essa è determinata dalla qualità ontologica del mutamento provocata dall’accelerazione lineare del tempo prodotta dal rischiaramento interiore. E’ in questa accelerazione che la dimensione apocalittica, simboleggiando la crisi del precedente concetto di temporalità legato all’aevum, rappresenta la sensibilità temporale che delinea l’apertura e la chiusura del ciclo rivoluzionario. Il mutamento ontologico esercita la propria azione proprio grazie all’apertura/chiusura di questo ciclo, grazie a questo tentativo di mettere il mondo alla

57 Cfr. supra, Introduzione, par. 1.3.1, pp. 25-27, laddove viene specificato che il concetto di potere

costituente classico si definisce in relazione alla sua capacità di affermare una nuova temporalità. Cfr. R. Koselleck, Rappresentazione, evento e struttura, in Futuro passato, cit., pp. 123-134.

58 Per quanto riguarda la particolare concezione contro-rivoluzionaria inglese espressa da Burke v. J.G.A. Pocock (Introduzione a), Reflections on the revolution in France, cit.; A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 287 ss.

59 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 202-203, 235-267; C. Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, Einaudi, Torino, 1972, pp. 223-250 (dove viene descritta la parabola politica dei Quaccheri), 356 ss.; v. anche J.G.A. Pocock, Authority and Property: The question of liberal origins, in J.G.A. Pocock, Virtue, Commerce and History. Essays on Political Thought and History, Chiefly in the Eighteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, pp. 51 ss.

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rovescia. Se, infatti, il prodotto finale di questa accelerazione può essere considerata la conversione dell’escatologia cristiana nell’idea di utopia quale limite trascendentale della nuova temporalità organizzata intorno all’idea di un progresso immanente e lineare della storia60, d’altra parte il carattere costituente stesso dell’accelerazione si misura in relazione alla discontinuità paradigmatica e la rottura operata rispetto al precedente compromesso temporale compreso tra linearità e ciclicità; dunque, una rottura ed una cesura paradigmatica irriducibile alla stessa linearità dell’accelerazione e rintracciabile nell’idea di temporalità della renovatio posta dall’incrocio di mutatio e anakyklosis61. Dall’altro lato si deve considerare che la definizione della temporalità costituente si può sviluppare soltanto tenendo conto della strutturazione repubblicana, del suo carattere ciclico, della sua filosofia della natura irriducibile ad una visione formalista, ma allo stesso tempo disponibile ad un approccio razionalista, e a un’interpretazione in senso soggettivo. In altre parole, la mutatio si inserisce all’interno dell’anakyklosis esaltandone le potenzialità di espressione delle forme di molteplicità. «L’ordine dello sviluppo, che nell’antichità classica appariva nell’anakykcosis polibiana, oggettivistico e immanente; che nel rinnovamento patristico dell’anakykcosis appare come soggettivistico e trascendente, è qui riassunto in uno schema costitutivo soggettivistico e immanente62». E’ su questo livello di complessità che si situano i tentativi da parte di Hobbes e Locke di cristallizzare in soluzioni costituzionali il rapporto tra mutatio e anakyklosis. Se per il primo la neutralizzazione del rapporto si può determinare soltanto a partire dalla radicalizzazione tramite la trasposizione su un piano trascendente e formalista del presupposto condizionale della temporalità lineare63, per il secondo è indispensabile contenere il primato soggettivo di quest’ultima temporalità all’interno di un quadro che riconosca l’eccedenza della temporalità storica ad un criterio lineare oggettivistico. Il ruolo del diritto naturale all’interno della filosofia lockeana risponde in questo senso all’esigenza di evitare di ridurre il diritto alla scansione cronologica delineata dal nuovo funzionalismo e legalismo che disciplina i rapporti tra le fonti giuridiche64. Conseguentemente, l’appello al cielo, il diritto di resistenza lockeano si traduce in diritto di rivoluzione solo qualora venga compromesso l’equilibrio della nuova temporalità storica e della repubblica postrivoluzionaria, ovvero quando lo scarto tra l’immanenza soggettiva del progresso storico e la forma oggettiva di tale sviluppo determina la crisi dell’ordine circolare della repubblica65. In ogni modo la collocazione del potere costituente su questo livello di complessità definito dal rapporto tra mutatio e anakyklosis permette di superare anche la supposta opposizione tra il ritorno ad una forma originaria e l’approdo ad una forma nuova. Tutte le ipotesi di ritorno ad una forma originaria sono determinate dalle molteplici virtualità espressive generate dall’approfondimento della ciclicità storico-naturalistica ad

60 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 14-16; Sul punto v. anche le osservazioni di H.

Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 38 ss.; Cfr. G. Schiavone, Democrazia e modernità. L’apporto dell’utopia, Utet, Torino, 2001, pp. 5-46, dove il passaggio da un’idea ciclica ad un lineare è considerato un passaggio netto definito dall’affermazione dell’utopia nella storia attraverso la quale è stato veicolato il concetto di progresso.

61 Cfr. A. Negri, Il Potere costituente, cit., pp. 135 ss. 62 A. Negri, Il Potere costituente, cit., p. 141. 63 A. Negri, Il Potere costituente, cit., pp. 138-139. Su questo punto v. però infra, Parte II, cap. II, par.

2.3.1, pp. 194-209. 64 Cfr. infra, Parte II, cap. II, par. 2.3.2, pp. 209-226. 65 Ibidem.

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opera della stessa spinta individualista e vanno perciò inquadrate come la dimostrazione dell’insufficienza del solo criterio individualista e lineare nella spiegazione della temporalità storica66. Peraltro, è proprio a partire da tali virtualità prodotte dall’incontro tra mutatio e anakyklosis che si definiranno queste ipotesi, le quali non si possono di certo liquidare come antinomianismo meramente apocalittico poiché rappresenteranno il terreno sul quale soggetti politici interni alla rivoluzione daranno corpo in maniera complessa, plurale, e contraddittoria in alcuni casi, a una nuova antropologia politica e a un nuovo tipo di legittimità67. A partire da quest’ultima precisazione si può in definitiva chiarire i tratti effettivi della temporalità costituente della rivoluzione inglese. Questa può essere delineata come una temporalità che è in grado di svilupparsi secondo un criterio lineare soltanto a patto di riconoscere che la sua conformazione soggettiva ed immanente inserita nel contesto ciclico della repubblica è in grado di determinare lo stesso mutamento del paradigma di tale ciclicità, ossia è in grado di mutare la concezione stessa della temporalità storica. In breve, questa analisi non fa che confermare che la temporalità del potere costituente si muove nella tensione tra evento e struttura risultando però irriducibile ad ogni tipo di rappresentazione, ossia ad ogni tentativo di cristallizzare la sua temporalità all’interno di un determinato rapporto tra mutatio e anakyklosis68. D’altra parte l’introduzione e l’assorbimento su basi razionaliste del concetto di creazione giuridica all’interno del contesto ciclico della repubblica e di un sistema di fonti aperto e non formalizzabile, come peraltro i rapporti interistituzionali, rappresenta proprio l’esempio della capacità del potere costituente di mutare il senso paradigmatico della temporalità pur restando all’interno di un contesto circolare69. Ciò, peraltro, non fa che confermare la peculiarità della temporalità del potere costituente in Inghilterra, ossia il fatto che quest’ultimo diviene autentica potenza storica nel momento in cui si riconosce che l’efficacia della soluzione costituzionale è il prodotto della capacità soggettiva del potere costituente, non di potere controllare astrattamente il futuro, ma di controllare e riadattare il passato alle esigenze del presente70.

66 Tale limite corrisponde alla contraddizione intrinseca al concetto moderno di rivoluzione, ossia al fatto che da un lato affinché essa sia possibile è necessario un tipo di agire razionalemente orientato (in senso generalissimo), ma dall’altro, l’effettività della sua esistenza si riscontra solamente nel momento in cui essa eccede la capacità di predeterminazione razionale. Cfr. J. Dunn, Modern revolutions, cit., pp. 1-16; Id., The success and failure of modern revolutions, in Political obligation, cit., pp. 217 ss.

67 Sulla complessità di questa composizione soggettiva - e sulle ipotesi alternative presenti al suo interno - che anima l’affermazione della nuova antropologia politica v. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 323 ss., 356-367.

68 Cfr. R. Koselleck, Per una teoria e un metodo, cit., pp. 123 ss. 69 Tuttavia, si deve precisare che questa ricostruzione ribalta sostanzialmente la lettura di Burke. Se

infatti in quest’ultimo l’eccedenza del tempo, della natura e della tradizione sulla capacità dell’agire razionale dell’uomo è utile alla dimostrazione dell’inefficacia di tale agire nella definizione del mutamento storico, viceversa l’analisi della temporalità del potere costituente conferma invece che il protagonista di tale mutamento è proprio questo agire. In questo caso, infatti, l’eccedenza e l’inafferabilità da parte delle forme della razionalità dispiegate dallo stesso mutamento storico prodotto dalla stagione costituente conferma in che senso il potere costituente sia sempre il risultato mai definitivo di un’interazione non gerarchicamente ordinata tra i due poli dell’agire razionale e della natura. J.G.A. Pocock (introduzione a), E. Burke, Reflections on the revolution in France, Hackett, Cambridge, 1987, in particolare le pp. xiv-xvi, xliii-xlviii. cfr. con la critica a Burke di A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 287 ss.

70 Da notare la particolare coincidenza di quest’ultima concezione burkeana della razionalità con un passo hobbesiano riguardante proprio la congettura del futuro e il ruolo del passato: «Nessuno può avere in mente un concetto del futuro, poiché il futuro non c’è ancora. Ma noi facciamo un futuro dei

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1.3. Il puritanesimo come base della definizione pattizia del potere politico. La rivoluzione puritana manifesta attraverso la sua dimensione apocalittica la radicalizzazione estrema del principio dell’attesa del momento della salvezza implicito nell’escatologia biblico-cristiana. Il processo di rischiaramento che si esprime per mezzo di questa radicalizzazione rappresenta il vettore del mutamento ontologico della Costituzione non solo perché dà luogo alla modificazione e riarticolazione del rapporto tra mutatio ed anakyklosis, dello spazio e del tempo repubblicano, ma anche e soprattutto, perché è in grado di porre le basi per un nuovo modello di legittimazione politico. Quand’anche la definizione contrattualistica o pattizia del potere politico venga ricondotta alla sua interpretazione minimale di processo di legittimazione attraverso l’autodisciplinamento individuale71, posto e non concesso che anche questa interpretazione rappresenti una soluzione costituzionale in grado di contenere il concetto di potere costituente qui ricostruito72, resta in ogni modo da inquadrare preliminarmente in che maniera si è potuto costituire tale autodisciplinamento, ovvero in che senso ed a quali condizioni l’origine dell’autodisciplina possa essere ricondotta all’etica calvinista. Innanzitutto il patto calvinista è un patto che lega l’uomo a Dio per mezzo di una relazione di obbedienza incondizionata che garantisce che sia fatta dall’uomo la volontà di Dio. L’unione civile degli uomini si determina come riflesso di questa relazione e si configura quindi come un rapporto tra individui fondato su una condizione comune di eguale sottomissione73. Questa comune appartenenza presenta due caratteristiche rilevanti. In primo luogo la condizione degli individui sottoposti a questo potere di Dio è la condizione dell’uomo in seguito alla caduta iniziale determinata dal peccato originale. In secondo luogo, l’uomo seppure attraverso la propria luce interiore porti avanti materialmente nella città terrena la volontà di Dio, tuttavia resta all’oscuro delle cause e delle finalità che muovono veramente tale azione, come anche della propria sorte dopo la vita terrena, se non del fatto che tale azione costituisce la volontà di Dio74. Queste caratteristiche rappresentano la combinazione di fattori che insieme al contesto repubblicano e secolare permettono l’articolazione dell’idea di patto sociale lungo tutto il percorso rivoluzionario, in un primo momento come spinta alla rivoluzione stessa e poi come chiusura della rivoluzione nel senso di restaurazione della normalità e articolazione del patto sociale secondo il nuovo principio costituzionale della divisione funzionale. Il puritanesimo rappresenta uno dei motori principali di produzione di soggettività politica che scatena ed è in grado di protrarre nel tempo la rivoluzione politica. L’accelerazione della temporalità lineare scandita dalla rivoluzione dei santi e dalla lotta

nostri concetti del passato; o piuttosto, chiamiamo futuro in modo relativo il passato (…)». T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (a cura di A. Pacchi), La Nuova Italia, Firenze, 1985, p. 29.

71 In questo senso l’interpretazione di P. Schiera, Lo Stato moderno e il rapporto disciplinamento/legittimazione, in «Sulla modernità», 5, 1985, Franco Angeli, Milano, pp. 111-135.

72 Cfr. infra, Parte II, cap. II, parte II, par. 2.4, pp. 226 ss. 73 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 202-207. 74 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 59 ss., 78-94.

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all’Anticristo rappresenta soltanto una declinazione delle potenzialità espresse dal razionalismo individuale che di fatto si trova a guidare l’azione collettiva. Questo razionalismo, come già anticipato, si sviluppa sulla linea che vede opporre nominalmente il principio della predestinazione al libero arbitrio, e che sebbene non si traduca nell’annullamento di tale rapporto come in Spinoza o Winstanley75, tuttavia si trova a stabilire materialmente una tensione tra i due poli che da un lato si esprime nella molteplicità delle forme del radicalismo e delle soluzioni politiche avanzate, dall’altro definisce l’azione politica su un piano immanente sempre direttamente elaborato e praticato dagli individui76. D’altra parte è questa l’essenza del patto tra l’uomo e Dio: l’obbedienza dell’individuo è sempre qualcosa di incondizionato ma allo stesso tempo estremamente determinato e voluto dall’uomo stesso77. Il contesto repubblicano e secolare si associa a questa linea di tensione sottoposta all’azione del razionalismo. Da un lato il fatto che «la sovranità di Dio distruggeva l’antica gerarchia del grado» e determinava sia «un grosso distacco tra l’ordine di Dio, il suo decreto della predestinazione e l’attività degli uomini caduti», sia dell’insieme delle forme di mediazione riconducibili al paradigma politico repubblicano contribuiva naturalmente a spingere l’azione politica sulla via della rivoluzione78. Dall’altro lato però si deve osservare come questa crisi delle forme di mediazione non comporti automaticamente il venir meno della filosofia sottesa ai concetti di Repubblica e di universitas. Al contrario la concezione repubblicana fa da volano a questa spinta, a questa tensione razionalizzatrice, nella misura in cui ne favorisce la sua declinazione nelle forme del civismo repubblicano79. La stessa organizzazione settaria della militanza politica va inquadrata all’interno di questo contesto repubblicano fondato sullo stesso rapporto tra unità e molteplicità che costituiva il cuore della teoria medievale dell’universitas80. Peraltro, l’impossibilità di operare una sintesi adeguata della galassia di sette ed organizzazione politiche che si avvicendano nel corso del XVII secolo risponde proprio all’incompatibilità tra un criterio sintetico e quantitativo e l’ontologia sottesa alla conformazione dell’azione politica. La setta quale forma organizzativa dell’azione politica rappresenta l’autentica modalità d’azione in grado di rendere giustizia e di poter armonizzare il pluralismo

75 Supra, Parte II, cap. I, par. 1.1.1, p. 139. Per quanto riguarda il rapporto tra il pensiero di

Winstanley e la concezione spinoziana del «Deus sive natura» v. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 111-126; da ultimo v. anche A. Illuminati, Spinoza atlantico, Ghibli, Milano, 2008, pp. 29-61.

76 Cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 141 ss., dove la tensione tra i due poli, ossia la libertà degli eletti propugnata dall’etica calvinista è riconducibile ad una pretesa fondamentale affermata dal santo: la volontà di rimuovere l’origine dell’ingiustizia, ovvero il peccato originale che la società ha ereditato da Adamo.

77 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 203-207. Inoltre, sulla teologia del patto calvinista si tenga presente il classico P. Miller, Lo spirito della nuova Inghilterra, Il Mulino, Bologna, 1962.

78 M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 188 ss. 79 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 615 ss., 659 ss.; cfr. A. Negri, Il Potere costituente, cit., pp.

131 ss.; v. anche S.D. Glover, The Putney debate: popular versus elitist republicanism, in «Past & Present», 164, 1999, pp. 47-80.

80 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., p. 207, dove specifica che «Dio si «associava» con i suoi santi, ma tale associazione era strettamente politica (o militare), e non implicava tanto un affetto paterno, quanto piuttosto un’alleanza deliberata per uno scopo. La catena cosmologica del comando trovava così un’espressione terrena – come aveva temuto Giacomo I – in una comunità militante di santi, guidata forse da generali e colonnelli, ma non da re». Cfr. supra Parte II, cap. II, par. 2.3.3, pp. 72 ss.

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irriducibile delle istanze politiche con la modalità non delegata dell’agire politico81. Questa modalità d’azione non si pone in contraddizione con le forme non religiose dell’intervento politico, non solo perché le due sfere, religiosa e politica, si compenetrano in ambedue le forme organizzative, e molto spesso le biografie politiche dei militanti attraversano entrambe le modalità82; ma soprattutto le due forme d’azione non si pongono in contraddizione perché sono entrambe due modalità d’azione politica diretta non riconducibili a organizzazioni gerarchiche sovraordinate ma al contrario appartenenti allo stesso cosmo repubblicano, e che nella loro azione permettono allo stesso tempo di controllare e valorizzare al meglio le virtù civiche dell’individuo83. Non è casuale così che la virtù del santo coincida con quella del miliziano nel momento in cui lo stato di necessità richiede che la propria azione si traduca nell’esercizio del diritto di rivoluzione84 e del diritto di guerra85. E’ lo stesso Harrington a ricordare come la virtù repubblicana si fondi sul possesso delle armi, poiché se l’equilibrio politico in generale si basa sul bilanciamento tra proprietà e funzione di protezione militare, di conseguenza l’equilibrio repubblicano presuppone una cittadinanza armata che nel caso di necessità difenda le istituzioni comuni86. «Quindi la funzione connessa con la libera proprietà divenne la disponibilità delle armi,

81 Cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 146-151, 253 ss., 364-367, dove viene specificato come da un lato «il fatto che una congregazione accetti determinate interpretazioni della Bibbia è una garanzia della loro attinenza a quel dato gruppo, ed è un ostacolo per l’individualismo esclusivamente anarchico» (p. 365), e dall’altro come anche per Milton la stessa Bibbia «dovrebbe essere tale nella misura in cui possa essere gestita e fatta propria dalla vita dell’uomo, senza trattenerlo dal compiere i doveri e il bene dell’uomo» (p. 255), fino al punto che la luce interiore sarebbe coincisa o con la fine dell’autorità o con l’autocontrollo stesso. «Radunarsi in silenzio non richiedeva la presenza di un prete che guidasse in convenuti nella loro ricerca dell’unanimità: Winstanley, Erbery e Fox speravano di portare la gente «all’eliminazione di ogni predicazione esteriore». Winstanley attendeva «ciò che a Dio piacerà in tranquillo silenzio» (p. 366).

82 A questo riguardo è sufficiente fare attenzione al linguaggio utilizzato nei dibattiti di Putney dallo stesso New Model Army. Cfr. Putney Debates tr.it., Putney. Alle radici della democrazia moderna (a cura di M. Revelli), Baldini&Castaldi, Milano, 1997. Cfr. anche C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., dove la ricostruzione delle biografie individuali è trasversale alla storia dell’evoluzione politica delle organizzazioni protagoniste della rivoluzione. Sulla dimensione puritana ed in particolare sul rapporto tra puritanesimo e Cromwell v. C. Hill, Vita di Cromwell, Laterza, Bari, 1974, pp. 193 ss. Su Cromwell v. anche J. Morrill, Oliver Cromwell, Oxford University Press, Oxford, 2007.

83 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 643 ss. 84 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 311-312. «L’idea circoscritta ed accuratamente

definita di resistenza cedette il passo all’idea di rivoluzione; lo stallo tattico fu superato; alla bolgia feudale fece seguito la disciplina militare e la guerra internazionale. In un altro senso ancora Machiavelli aveva indicato la strada a tutti e tre questi mutamenti, con il suo suggerimento che le guerre dovessero essere combattute da eserciti di cittadini. Il suo ragionamento non era puramente utilitaristico; aveva radici nel risveglio rinascimentale di quello che si potrebbe meglio definire civismo classico: un senso repubblicano del patriottismo e della virtù». Cfr. N. Machiavelli, Il Principe (a cura di S. Bertelli), Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 53-62, (cap. XII e XIII).

85 E’ a questo punto, peraltro, che si intrecciano chiaramente il tema dell’Enlightenment e del repubblicanesimo con un altro classico tema legato al problema del potere costituente. E’ il tema del diritto alle armi; diritto che nella concezione harringtoniana diviene condizione materiale imprescindibile per l’esistenza stessa dell’equilibrio repubblicano, ma che in relazione alla dottrina moderna del potere costituente solleverà non poche contraddizioni all’interno della scienza giuridica, anche in riferimento agli sviluppi storici ad esso collegati. Su quest’ultimo punto si v. J.L. Malcolm, To keep and bear arms: the origins of an Anglo-American right, Harvard University Press, London, 1994. Sulla visione harrigtoniana del rapporto tra possesso delle armi, proprietà terriera e forma politica v. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 659-686.

86 Cfr. J. Harrington, La repubblica di Oceana, cit., pp. 139-153 (Le vicende di Oceana).

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e quindi di chi le portava, a sostegno di una libera azione pubblica e della virtù civile. Così nel linguaggio usato dal pensiero politico inglese la politicizzazione della persona umana aveva raggiunto il culmine. L’inglese-di-Dio era ormai, in forza della sua spada e della sua libera proprietà, uno zoon politikon87». Conseguentemente per quanto riguarda l’esercito dei santi, e l’ideologia calvinista si deve osservare come sia del tutto assente nel contesto inglese la distinzione tra diritto di resistenza e rivoluzione, nella misura in cui la costituzione si identifica con la repubblica e il diritto di guerra è ampiamente legittimato formalmente dalle teorie della guerra giusta e materialmente dal santo quale strumento di Dio88. E’ evidente che una pratica politica di questo tipo, sorretta peraltro da una compenetrazione tale tra ragione e fede equivale ad identificare la lotta politica in una rivoluzione permanente da attuare fino all’avvento del Regno di Cristo. Tuttavia, paradossalmente, è proprio su questo passaggio finale che si esaurisce la spinta al cambiamento rivoluzionario. Ciò accade quando anche alla rivoluzione inglese, puntualmente, fa seguito un periodo di restaurazione e di normalizzazione politica. L’avvento della restaurazione sanziona il mancato avvento del Regno di Cristo, e allo stesso tempo riporta il santo alla normalità ed alla finitezza di una vita segnata dalla caduta. In fondo la restaurazione testimonia per la coscienza del santo il fallimento del tentativo rivoluzionario di rimuovere il dogma del peccato originale, e dunque conferma la distanza abissale che separa il cielo dall’uomo confinato al «cumulo di terra», e la conseguente impossibilità per il singolo di raggiungere attraverso la propria azione la grazia e la beatitudine terrena89.

87 J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 661-686, dove il pensiero di Harrington viene ricostruito

precisando che non solo il possesso delle armi veniva legittimato dal possesso della proprietà (la terra fondamentalmente) e che quindi nella Repubblica di Oceana doveva comunque permanere una situazione di equilibrio tra i pochi e i molti tale che questi ultimi fossero sempre in grado di individuare i pochi; ma soprattutto Pocock precisa che il comando politico all’interno della repubblica, e dunque l’equilibrio, non va inteso come un decreto dell’autorità formale ma invece come degli «ordini» prodotti dalla virtù repubblicana, fondata sul possesso delle armi e della proprietà.

88 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 103 ss., 129 ss. (sul diritto di resistenza dell’ideologia calvinista), pp. 304-336 (sull’evoluzione di una teoria della guerra giusta associata al diritto di rivoluzione nel caso specifico della guerra civile inglese). Sul diritto di resistenza calvinista v. anche R.M. Kingdon, Calvinism and resistance theory, 1550-1580, in J.H. Burns (a cura di), The Cambridge history of Political Thought 1450-1700, Cambridge University Press, Cambridge, 1991, pp. 194-218. E’ bene ricordare come, differentemente, nel continente la teoria del diritto di resistenza di radice calvinista fosse legato alle dottrine cetuali della costituzione ed alle teorie monarcomache, riconoscendo di conseguenza la titolarità di tale diritto soltanto ai magistrati locali e ai rappresentanti dei ceti e solo in rari casi ai singoli cittadini. A questo proposito si v. Q. Skinner, L’età della riforma, cit. Peraltro, un esempio pratico di tale teorie si ha nella Repubblica delle Province Unite, laddove, teorie monarcomache, autogoverno cetuale del territorio, tolleranza religiosa, e sviluppo mercantile si mescolano dando vita ad una differente ma altrettanto interessante esperimento costituzionale, distinto, sia dal governo feudale sia dallo Stato moderno – sebbene schiacciato, infine, proprio da quest’ultimo. Su questo tema v. i già citati A. Clerici, Costituzionalismo, contrattualismo e diritto di resistenza nella rivolta dei Paesi Bassi; id., Monarcomachi e giusnaturalisti nella Utrecht del Seicento. V. anche A. Negri, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 21-41.

89 Cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 364-365. «Ma nella luce interiore si celava un inganno. Al momento della sconfitta, quando l’ondata della rivoluzione aveva perso l’impeto, la voce interiore divenne quietista, pacifista. Era questa l’unica voce che gli altri riconoscevano come quella di Dio (…) La luce interiore che aveva parlato della perfettibilità dei santi giungeva ora per dare nuova importanza al peccato (…) L’apertura che la religione del cuore, della voce interiore, offriva ai mutamenti nell’umore delle masse, alle pressioni sociali, alle grandi ondate emotive, ne aveva fatto un veicolo per rivoluzionarie trasformazioni del pensiero: ora invece aveva l’effetto contrario».

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E’ interessante peraltro notare come il declino dell’azione politica delle sette sia un fenomeno progressivo che non coincide con la data delle due restaurazioni, ma faccia seguito alla crisi dei Levellers e dunque del periodo più intenso della rivoluzione, e sia quindi consustanziale al processo di normalizzazione avviato già con Cromwell90. Ciò conferma l’ipotesi qui avanzata che la dinamica rivoluzionaria innescata dall’esercito dei santi e dei patrioti non possa essere intesa semplicemente come una rivolta in difesa del parlamento o per una democratizzazione della repubblica da parte di settori sociali diversificati, ma vada intesa come un vero e proprio processo di soggettivazione che ha investito trasversalmente l’intera società, l’intero corpo della repubblica. L’etica calvinista ha rappresentato una spinta rivoluzionaria nella misura in cui ha contribuito a determinare questo processo di soggettivazione. Tuttavia, se con la restaurazione e il riflusso dell’attività delle sette nell’ambito del privato viene sancita la fine di questa spinta rivoluzionaria al cambiamento, non vuol dire però che ciò implichi la fine del ruolo dell’etica calvinista all’interno del processo di soggettivazione. In effetti se si considera questo processo dalla prospettiva del percorso costituzionale si può facilmente osservare come anche la restaurazione rappresenti il prodotto e una fase di questo processo. In questo senso, l’abbandono della lotta politica da parte delle sette, benché venga concepita da questi soggetti come un ritrarsi dall’ambito del politico, non si riduce però effettivamente ad una semplice ritirata. Al contrario questo abbandono è direttamente costitutivo del nuovo spazio del patto politico costituzionale. In primo luogo con questa rinuncia viene sancita definitivamente la delimitazione tra foro interno e foro esterno. L’accentuazione del carattere religioso, ‘settario’, e moralista (o antimoralista come nel caso dei Ranters91) di queste organizzazioni si inquadra proprio all’interno della progressiva «spoliticizzazione» della questione religiosa, ossia in relazione al progressivo ritrarsi dalla scena politica di tali organizzazioni92. La tolleranza religiosa si definisce come principio liberale essenzialmente sulla base di questo processo di delimitazione, - ossia nella misura in cui anche il principio cuius regio eius religio risulterebbe inefficacie in un contesto nel quale la distinzione tra foro interno e foro esterno non potrebbe mai essere il prodotto di un atto formale decretato dal principe -, nel momento in cui si costituisce come il prodotto di un processo di soggettivazione che prende avvio proprio a partire da una situazione di pluralismo religioso93. In secondo luogo, la configurazione del foro esterno non può essere considerata come il mero riflesso di quello interno, ossia come lo spazio sopravvissuto alla neutralizzazione. Diversamente l’abbandono dell’azione politica si presenta come l’ultima fase ricoperta dall’etica calvinista nel processo di soggettivazione, laddove quest’ultimo definisce in maniera progressiva la base individualistica del nuovo modello di obbligazione politico. In quest’ultima fase viene cristallizzato il significato di alcuni principi. In particolare viene chiarito che l’unione civile, la comune appartenenza degli uomini alla stessa sottomissione a Dio, si può tradurre in dottrine religiose differenti,

90 E’ sufficiente a tale riguardo cfr. la stessa strutturazione della ricerca di C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit.

91 Cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 223-230. 92 Cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 367-371. Il termine «spoliticizzazione» è volutamente

ripreso da C. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles (a cura di A. Caracciolo), Giuffré, Milano, 2007, pp. 197-216.

93 Cfr. C. Hill, Vita di Cromwell, cit., p. 205 ss., laddove la stessa qualità politica di Cromwell viene rintracciata, non a caso, nella sua convinzione della necessità della tolleranza religiosa e nella convinzione che la verità non era certo posseduta da nessuna setta in particolare.

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ma in ogni caso assume sempre i tratti di un’unica obbedienza al potere civile comune alla quale è impedito ribellarsi94. D’altra parte il ricordo di quest’ultima viene rielaborato in alcuni casi in termini di frustrazione, nella misura in cui la disobbedienza e la rivolta, e la stessa pretesa di scacciare l’Anticristo e il peccato originale vengono reinterpretati come l’azione dell’uomo caduto per l’ennesima volta nella tentazione95. L’obbedienza al potere civile diviene così condizione e presupposto di una retta condotta religiosa, laddove tale condizione appare come requisito minimo per una società segnata comunque dalla caduta, e laddove tale obbedienza prima di essere qualcosa di imposto dall’alto è qualcosa di estremamente voluto e prodotto dagli stessi sottoposti96. Viceversa affermare che la condotta morale puritana favorisca l’obbedienza politica, perché fa qualcosa in più del richiesto dal liberalismo è scontato e riduttivo se si fa passare in secondo piano il fatto che l’origine del nuovo tipo di obbligazione ha pur sempre questa radice secolare e religiosa al tempo stesso e che la delimitazione dell’ambito politico non è il frutto di un decreto ma di un processo di soggettivazione azionato dall’individuo, nelle vesti del santo solamente nel corso della rivoluzione97. In effetti è proprio questo il nucleo del processo di soggettivazione, ossia il fatto che il suo prodotto finale è anche allo stesso tempo l’attore che ha messo in moto lo stesso processo: l’individuo. E’ su questo nucleo che si articolano le basi di una concezione dell’obbligo politico come patto98. La delimitazione tra foro interno e foro esterno in

94 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 338 ss., «Il volontarismo calvinista stabilì invece il

contratto liberamente stipulato come il vincolo umano più alto; gli autori puritani descrissero in quei termini il rapporto tra uomo e Dio, tra il santo e i suoi compagni, il «ministro» e la chiesa, marito e moglie. In tutte queste relazioni si entrava volontariamente e consapevolmente (…) E tutto questo era anche una preparazione ai dibattiti e alle elezioni, ai pamphlets e ai partiti della politica liberale».

95 Cfr. C. Hill, Vita di Cromwell, cit., pp. 241-242. «La passività post-restaurazione di gran parte dei non-conformisti s’accompagnava ad una unanime deplorazione della Rivoluzione, cui gli ex-rivoluzionari diedero un sonante contributo. Così lo storico della Royal Society, otto anni dopo il poema laudativo sulla morte di Cromwell, poteva scrivere: «Questo selvaggio che catturava la mente degli uomini con prodigi e pretese provvidenze, è stato una delle cause più decisive degli smarrimenti spirituali di cui questo paese fu lungo teatro (…) Il ritorno di Carlo II nel 1660, così inaspettato ancora pochi mesi prima che avesse luogo, suggerì una volta di più l’opera di una provvidenza imperscrutabile…»

96 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 338 ss., «I santi cercarono di porre saldamente sul collo di tutta l’umanità il giogo di una nuova disciplina politica: impersonale e ideologica, non fondata sulla fedeltà o il sentimento (…) Questa disciplina non doveva dipendere dall’autorità paternalistica dei re o dei signori, o dall’obbedienza di sudditi infantili e fiduciosi. I puritani cercarono di renderla volontaria, come il contratto stesso, oggetto di una ostinazione individuale e collettiva. Ma, volontaria o no, la sua nota dominante era la repressione».

97 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 337 ss., dove sebbene venga individuata chiaramente l’istanza di autodisciplinamento introdotta dal puritanesimo, si tende comunque a ricondurre quest’ultimo alla fase della rivoluzione dei santi, riducendo la relazione tra calvinismo e liberalismo ad una relazione di preparazione storica. «E’ dunque questa la relazione del puritanesimo col mondo liberale: forse è un rapporto di preparazione storica, ma assolutamente non un contributo teorico. In realtà vi era molto da dimenticare e molto da lasciar cadere prima che il santo potesse diventare un borghese liberale. Durante il grande periodo creativo del puritanesimo inglese la fede dei santi e la tollerante ragionevolezza dei liberali avevano ben poco in comune».

98 Cfr. M. Walzer, La rivoluzione dei santi, cit., pp. 337 ss. La relazione tra liberalismo e puritanesimo rimane per Walzer una relazione di preparazione storica sostanzialmente perché il primo non viene considerato dal punto di vista dell’autodisciplinamento individualista, e dall’altro lato perché all’istanza di autocontrollo del secondo non viene riconosciuta la funzione di delimitazione tra i due fori. «La fiducia liberale rendeva non necessarie la repressione e la lotta incessante contro il peccato; tendeva

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quanto delimitazione prodotta in modo immanente dalla stessa soggettivazione individualistica si inserisce all’interno della più generale ridefinizione della costituzione in senso funzionale, nella misura in cui come quest’ultima non ha bisogno di stabilire formalisticamente scissioni definitive come quella continentale tra stato e società e tra diritto pubblico e privato, così la distinzione tra i due fori continua ad essere qualcosa di estremamente concreto proprio perché rimane legata alla sua definizione originaria di prodotto immanente dei soggetti99. Inoltre, in terzo luogo, seguendo questa impostazione, è possibile rintracciare un altro aspetto dell’etica calvinista che concorre a porre le premesse di una determinata antropologia individualista e della distinzione funzionale tra diritto ed economia alla base della nuova costituzione. La vocazione, com’è noto, l’ascesi mondana taglia trasversalmente l’intero concetto di autodisciplinamento e costituisce lo strumento grazie al quale il puritano può trovare un senso di verità alla propria collocazione nella società100. Questa ascesi nel riprodurre il carattere cosmologico della differenziazione dei ruoli sociali si distingue nettamente dalla precedente dottrina dell’universitas, poiché cambia la modalità di produzione di tale differenziazione. Con l’ascesi e la vocazione, infatti, la differenziazione non è più determinata dal carattere ontologico del cosmo stesso, ma è il prodotto delle differenti capacità individuali messe a lavoro. In questo modo la differenziazione si configura positivamente come il possibile dispiegamento nella città terrena della missione del santo, missione però legata alla capacità e al merito del singolo individuo. In altri termini, la vocazione assume un ruolo centrale e positivo all’interno dell’etica calvinista perché investe l’intera morale individualista costruita intorno alla distinzione tra foro interno e foro esterno e all’autodisciplinamento di una possibile risposta e via d’uscita al dilemma irrisolto fin dalla sollevazione dei santi: il problema della caduta101. L’ascesi può rappresentare questa via d’uscita nella misura in

anche a rendere invisibile l’autocontrollo, cioè a dimenticare la sua dolorosa storia, e a presumerne ingenuamente l’esistenza. Il risultato fu che il liberalismo non creò l’autocontrollo che richiedeva (…) Il carattere secolare e cortese del liberalismo fu determinato dal fatto che questi erano «santi»la cui bontà (socievolezza, decoro morale, o semplice rispettabilità) era autogarantita e tranquilla, libera dall’atteggiamento inquieto e fanatico della devozione calvinista»

99 Cfr. N. Luhmann, La costituzione come acquisizione evolutiva, cit., pp. 98 ss, 124-128. Sull’articolazione funzionale della costituzione inglese post-rivoluzionaria cfr. supra, Parte I, cap. III, par. 3.3.2, pp. 119 ss., con, infra, Parte II, cap. II, par. 2.3.2, pp. 209-226.

100 Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Bur, Milano, 2007, pp. 157-213. «Solo un eletto ha realmente la «fides efficax», solo un eletto è in grado di accrescere la gloria di Dio con opere buone realmente e non soltanto in apparenza – grazie alla rinascita (regeneratio) e alla santificazione (santificatio) dell’intera sua vita che ne consegue. E, in quanto è consapevole del fatto che la sua condotta poggi su una forza in lui vivente per la maggior gloria di Dio, e dunque non sia solo voluta da Dio, ma anche e soprattutto causata da lui, consegue quel bene supremo a cui tende questa religiosità: la certezza della grazia. (…) Quindi, quanto le buone opere sono assolutamente incapaci di servire come mezzi per conseguire l’eterna beatitudine (poiché anche l’eletto resta una creatura, e tutto ciò che fa rimane infinitamente lontano dalle esigenze di Dio), tanto sono indispensabili come segni dell’elezione. Sono il mezzo tecnico non già per acquistare la salvezza, ma per liberarsi dall’angoscia di non conseguire la salvezza (…) Sul piano pratico ciò significa fondamentalmente quanto segue: Dio aiuta colui che si aiuta, e dunque il calvinista «crea» egli stesso la propria beatitudine (ma si dovrebbe dire più correttamente la certezza di essa) - (corsivo dell’autore) » (pp. 175-176).

101 Cfr. M. Weber, L’etica protestante, cit., pp. 213-214. «Decisiva, per le nostre considerazioni, è stata continuamente la concezione dello «stato di grazia» religioso che ricorre in tutte le denominazioni: appunto come di uno status che libera l’uomo dalla condanna del creaturale, dal «mondo», ma il cui possesso non poteva essere garantito da mezzi magico-sacramentali di qualsiasi specie (…) ma solo dalla comprova data da una forma di esistenza, da una condotta di vita specifica, indubbiamente

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cui riconosce un ruolo sovraindividuale e mistico alla stessa attività dell’uomo attuata in modo individualistico, e dunque, nella misura in cui fornendo di un senso trascendente l’attività terrena attenua nel miglior modo possibile il problema dello stato dell’uomo dopo la caduta. E’ in questa collocazione del ruolo dell’ascesi mondana peraltro che si comprende a pieno in che modo la differenziazione cosmologica dell’universitas e la sua ontologia viene mutuata dal nuovo individualismo fino alla soppressione del suo stesso sostrato ontologico102. L’etica calvinista rappresenta la base, la radice della ridefinizione in senso pattizio dell’obbligo politico non solo perché stabilisce le condizioni del patto sociale come autodisciplinamento e distinzione tra foro interno e foro esterno, ma perché a questa distinzione è in grado di associare la premessa per lo sviluppo di una determinata antropologia individualista possessiva e quindi dell’ulteriore distinzione tra diritto ed economia alla base della definizione moderna di costituzione103. L’ascesi, la vocazione del puritano quale forma di riparazione possibile, ma in ogni caso non definitiva del peccato originale, in quanto si associa ad una teoria dell’obbedienza, può essere considerata in questo senso come un processo di mondanizzazione della caduta che è in grado di porre le premesse della teoria giuridica dell’appropriazione individualistica e dell’articolazione funzionale della costituzione a partire dall’apertura della nuova fase storica dell’accumulazione originaria104 inaugurata dalla stessa etica calvinista105.

diversa dallo stile di vita dell’«uomo naturale». Ne derivava, per l’individuo, l’impulso al controllo metodico del suo stato di grazia nella condotta della vita, e quindi alla sua configurazione ascetica. Ma questo stile ascetico significava appunto una conformazione razionale della vita intera, orientata secondo la volontà di Dio (…) Quella vita speciale dei santi che era diversa dalla vita «naturale» e che la religione esigeva non si svolgeva più al di fuori del mondo, in comunità monastiche, ma all’interno del mondo e dei suoi ordini (ed è questo il punto decisivo). Questa razionalizzazione della condotta della vita entro il mondo e con riguardo all’aldilà era l’effetto della concezione della professione propria del protestantesimo ascetico».

102 Cfr. M. Weber, L’etica protestante, cit., pp. 219 ss., dove viene spiegato come la vocazione alla professione si inserisca all’interno dell’antica concezione cosmologica di origine tomista ribaltandone però il suo significato. La differenziazione infatti cessa di essere ragione dell’accettazione del proprio ruolo nella società (come sarà ancora per Lutero) per diventare ragione di riscatto all’interno della vita terrena.

103 Cfr. M. Weber, L’etica protestante, cit., pp. 214-241, dove viene precisato che la vocazione alla professione non si traduce assolutamente in un’adagiarsi sulla ricchezza ed i possessi, ma diversamente risponde ad un spirito di operosità permanente che deve investire l’eletto. In questo senso l’accettazione e la valorizzazione della proprietà si inserisce già all’interno di un contesto caratterizzato dalla centralità del lavoro come professione qualificante la personalità umana. Su questo punto v. infra Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 186-194.

104 Cfr. K. Marx, Il Capitale, I, Einaudi, Torino, 1975, p. 879. Sul punto cfr. S. Mezzadra, La «cosiddetta» accumulazione originaria, in AA. VV., Lessico Marxiano, Manifestolibri, Roma, 2008, pp. 23 ss.; L’interpretazione della modernizzazione inglese secondo la chiave di lettura marxiana dell’accumulazione originaria rappresenta, ovviamente, la classica trama intorno alla quale si è arrovellato il pensiero marxista. Si rimanda quindi alla particolare articolazione del rapporto tra individualismo proprietario, astrazione determinata e costituzione politica tracciata nella Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 186-194, par. 2.4, pp. 226 ss., per una lettura di questo tema e le relative indicazioni bibliografiche. Per il momento si segnala la particolare interpretazione della modernizzazione politica inglese sul «versante atlantico» offerta da M. Redicker, P. Linebaugh, I ribelli dell’Atlantico: la storia di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano, 2004.

105 In questo senso, così come l’impostazione data da Walzer alla relazione tra calvinismo e obbligo politico, anche l’interpretazione weberiana deve essere privata del suo carattere determinista, nella misura in cui l’etica calvinista si inserisce all’interno del mutamento strutturale dell’organizzazione del

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Ecco dunque un’ulteriore tassello nella definizione del potere costituente. Alla temporalità del potere costituente definita dall’accelerazione lineare e il processo di mutamento del rapporto tra mutatio e anakyklosis si aggiunge un’importante indicazione riguardante il soggetto titolare della potestà costituente. Questo soggetto è l’individuo. In ogni caso è bene precisare. Innanzitutto l’individuo è il soggetto della potestà costituente non solo perché è l’attore del processo rivoluzionario, nelle vesti del santo e del patriota, ma perché costituisce il cardine, il centro d’imputazione e di produzione al tempo stesso del nuovo modello di obbligazione politico. Così, se si considera questo soggetto come risultato di un processo che investe l’intera società, quindi un processo collettivo di soggettivazione, si può agevolmente affermare che l’individuo non solo costituisce la base del patto, ma è il patto stesso106. In questo senso, l’autodisciplinamento calvinista in quanto si identifica con un processo di soggettivazione costituisce l’autentico criterio minimo intorno al quale si può sviluppare la coppia disciplina/legittimazione, poiché sia la nuova delimitazione del foro interno e foro esterno, sia il ruolo dell’ascesi mondana creano le premesse e concorrono alla ridefinizione della distinzione funzionale ed epistemica tra politica, diritto ed economia alla base della ridefinizione costituzionale postrivoluzionaria107. Questa impostazione, peraltro, fa venire meno anche la distinzione tra il soggetto titolare della potestà e lo stesso potere costituente nel momento in cui viene stabilito che il principio di legittimazione costituzionale e l’obbligo politico non sono mai disposizioni poste, ma il risultato mai definitivo della produzione soggettiva immanente108. In questo senso, il ciclo del potere costituente dunque non è riducibile al tempo della rivoluzione, ma lo trascende ricollegandosi all’intero processo di soggettivazione ed alla sua affermazione definitiva in termini giuridici e politici. E tuttavia l’aver ricondotto il patto politico all’affermazione dell’individuo quale soggetto produttore del nuovo diritto e centro d’imputazione dell’obbligo politico non è ancora sufficiente a chiarire la natura e la portata dell’individualismo sotteso alla stessa produzione soggettiva. In breve, questa ricostruzione non è ancora in grado di spiegare la declinazione specifica di questo processo di soggettivazione, ovvero di chiarire la natura e il contenuto dell’obbligazione politica e del principio di legittimazione della costituzione. In altri termini, la ricostruzione fin qui condotta fornisce un’indicazione indispensabile nella misura in cui chiarisce la radice dei tre presupposti all’origine del potere costituente: antropologia individualista, razionalizzazione dell’obbligo politico e costituzione come contratto hanno la propria radice in questo processo di secolarizzazione e di rischiaramento interiore, sebbene tale analisi non indichi ancora il contenuto e la conformazione impressa dall’intero percorso rivoluzionario a questi tre presupposti. governo territoriale (e quindi ne risulta da questo influenzata), nonché all’interno di questa particolare lettura del processo di modernizzazione dell’obbligazione politica.

106 P. Schiera, Lo Stato moderno e il rapporto disciplinamento/legittimazione, cit., pp. 111 ss. 107 Cfr. N. Luhmann, La costituzione come acquisizione evolutiva, cit., pp. 83-128, con P. Schiera, Lo Stato

moderno e il rapporto, cit., pp. 111 ss.; v. anche D. Grimm, Il futuro della costituzione, in Il futuro della costituzione, cit., pp. 129 ss.

108 A questo proposito si noti come alcune delle opere della scienza giuridica moderna sul potere costituente affrontino il tema del soggetto titolare del potere dedicandovi uno specifico capitolo o paragrafo. Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., pp. 112-118; E.W Böckenförde, Il potere costituente del popolo, cit., 119-124; v. anche P.G. Grasso, (voce) Potere Costituente, cit., pp. 649-651.

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1.4. Fictio figura veritatis. L’affermazione «La finzione imita la natura. La finzione ha quindi luogo ove può aver luogo la verità109» esprime l’essenza della filosofia politica medievale dell’universitas. Il processo di rischiaramento interiore, tuttavia, non nega una tale affermazione, ma al contrario né porta alle estreme conseguenze in termini razionalistici il suo contenuto, mutando radicalmente il modello d’obbedienza ad essa sotteso nelle forme delle diverse dottrine moderne del diritto naturale. E’ questo, in fondo, il senso dell’analisi fin qui condotta: l’incontro immediato tra costituzionalismo antico e moderno, tra le teorie della repubblica mistica e il razionalismo individualista, non si traduce in una riduzione e negazione del piano cosmologico preesistente, ma al contrario è in grado di far esprimere interamente le potenzialità contenute in quell’ontologia per mezzo di un approfondimento del suo stesso carattere antropocentrico. Questo approfondimento si traduce, di fatto, in un ventaglio di opzioni razionalistiche, in una pluralità di modelli antropologici e di causalità, il cui comune denominatore è rappresentato dalla potenziale facoltà dell’uomo di essere razionalmente cosciente della condizionalità a fondamento del proprio modello di conoscenza e di obbligazione politica. Se vi è una possibilità di interpretare il processo di modernizzazione inglese secondo un criterio di continuità, allora quest’ultimo va ricercato proprio nelle potenzialità di razionalizzazione già contenute in nuce nel modello antropocentrico dell’universitas. E tuttavia, il fatto che in questa sede si ricerchi il punto di rottura, la discontinuità che segna il passaggio tra i due costituzionalismi non rappresenta ancora una volta un aspetto casuale. La frattura si rintraccia nel momento in cui è l’individuo a determinare in modo contingente quale sia il contenuto della condizione – che nella rivoluzione dei santi coincide con la verità della rivelazione tramite la ragione - posta a fondamento della propria azione110. E’ attraverso questa assunzione da parte del singolo dell’onere di stabilire i termini della condizione iniziale che verrebbe veicolato nella mondanità, nella forma di una questione irrisolta e irrisolvibile, il postulato teologico sulla cui base viene ricondotta l’origine del concetto di potere costituente: il concetto di creazione111. E’ proprio a questo punto, però, che l’esperienza inglese dimostra come il potere costituente si determini a partire dalla negazione della sua supposta origine teologica. Stabilire l’origine del potere costituente significa, infatti, individuare le particolari connessioni che si vengono a determinare tra le forme giuridiche e le molteplici e differenti opzioni razionaliste aperte dall’estremizzazione della mondanizzazione e dal rischiaramento interiore. Definire i lineamenti ed il contenuto del potere costituente significa dunque stabilire i caratteri di questa particolare connessione, ovvero, individuare l’insieme delle ipotesi aperte dal nuovo ruolo della ragione, e consequenzialmente, la particolare forma di razionalità che ri-definisce il nuovo modello costituzionale. Se nel continente questi caratteri sono estrapolabili dalla stessa dottrina del potere costituente112, al contrario qui stabilire i termini del rapporto tra la finzione che imita la natura e le modalità di

109 L’affermazione è di Baldo, citato in E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., p. 263. 110 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 133-142 (La fallita neutralizzazione della

gnosi come condizione del suo ritorno). 111 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 69-76. 112 Peraltro, ciò è possibile nella misura in cui si sottopone la stessa definizione di potere costituente

a un’indagine di tipo analitico-concettuale. V. supra, Introduzione, par. 1.2, 1.3, pp. 17-25.

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ricerca della verità, ossia inquadrare il problema della creazione giuridica e del patto costituzionale tramite la comprensione del rapporto tra diritto naturale e autofondazione razionale dell’obbligazione politica, equivale ad individuare il contenuto dei tre presupposti in esame che si viene articolando nel corso del processo rivoluzionario. In ogni modo, la molteplicità di opzioni aperta dall’estremizzazione della mondanizzazione può essere ricondotta all’interno di un’unica polarità che investe il fenomeno della secolarizzazione fino a svuotarlo di qualsiasi significato specifico, e che può essere sintetizzata nella seguente questione: «l’attributo dell’infinitezza di Dio si è trasferito sul mondo giacché l’idea della creazione nella sua amplificazione estrema non può affatto evitare questa conseguenza? Oppure l’infinitezza è stata usurpata a favore del mondo allo scopo di farlo subentrare in tal modo al posto e nella funzione di Dio?113». Se Blumenberg risponde che i limiti della dialettica trascendentale kantiana sono la naturale conseguenza della secondo ipotesi, si può viceversa affermare che nel caso inglese il trasferimento dell’attributo dell’infinitezza nel mondo è la naturale prosecuzione della mondanizzazione dell’escatologia. In questo senso, la secolarizzazione come razionalizzazione può assumere anche l’equivalenza tra Creatore e Creazione114, sebbene ciò confermi come un trasferimento operato per ipostatizzazione non dica comunque nulla circa il modello effettivo di razionalità messo in opera. Più concretamente, questa trasposizione dell’attributo dell’infinitezza si colloca invece al livello del limite raggiunto dall’ontologia medievale dell’universitas per opera della mondanizzazione dell’escatologia. Il trasferimento del problema della creazione si può identificare in modo razionalistico con quello iniziale della connessione tra verità e natura fino al punto da far coincidere il contenuto della verità in modo immanente e contingente – o meglio, secondo necessità - con le leggi di natura stesse che si rivelano all’uomo per mezzo della ragione115. Una tale impostazione porta così il concetto di ontologia al suo limite; essa diviene un’ontologia costitutiva116, poiché privata della suo carattere trascendente e oggettivistico, si traduce invece in una determinata teoria della conoscenza azionabile dal singolo ma mai riducibile alla facoltà di autoggettivazione individualistica117. Il corollario di questo razionalismo, peraltro,

113 H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 24-25. 114 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 84. «Il modo, ad esempio, in cui

Giordano Bruno applica al mondo l’attributo dell’infinitezza, trova una motivazione logica del suo concetto di Creazione, che richiede l’equivalenza di Creatore e Creazione e quindi procura la trasmigrazione verso il mondo di uno degli attributi teologici essenziali. Se qualcosa meritasse il nome di secolarizzazione sarebbe proprio questo venir mondo di un attributo divino (…)»

115 Cfr. B. Spinoza, Etica, Parte I, in particolare le prop. 16-33, pp. 19-31, e relativo appendice, pp. 35-41. Cfr. K. Löwith, Spinoza. Deus sive natura, Donzelli, Roma, 51-54, 61 ss.; anche E. Balibar, Spinoza e la politica, Manifestolibri, Roma, 1996, pp. 23-28.

116 Il principio di questa ontologia può essere ben sintetizzato nella prop. 7, III parte dell’Etica: «Lo sforzo, col quale ogni cosa tende a perseverare nel suo essere, non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa» (p. 103). Il termine ontologia costitutiva è ripreso da A. Negri. Cfr. L’anomalia selvaggia, cit.

117 Cfr. Etica, parte II (Natura e origine della mente), pp. 43-92. Cfr. A. Negri. Cfr. L’anomalia selvaggia, cit., pp. 161-167, 189 ss.; A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Les Editions de minuit, Paris, 1988, pp. 89-93, il quale collega tale impossibilità con la relazione che si viene a determinare tra conatus e conoscenza di terzo genere. In effetti, la conoscenza di terzo genere permette di stabilire una diverso rapporto tra uomo e natura poiché permette all’individuo di riconoscersi, al tempo stesso, quale parte del cosmo e dell’intelletto di Dio (prop. 11, corollario, p. 54), secondo l’insieme complesso delle relazioni sociali e conoscitive da esso stesso sviluppate. E’ da questa relazione, peraltro, che viene

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delinea un’idea di diritto naturale irresistibile ad ogni sorta di positivizzazione definitiva; un diritto naturale che coincide con questa potenza costitutiva e che, destinato perciò a rimanere tale e quale anche nello stato civile, si pone in antitesi rispetto ad ogni ipotesi contrattualista118. In questo senso il razionalismo spinoziano contenuto nell’Etica delinea l’effettiva operatività della razionalità sul piano descrittivo dell’essere, ossia conferma l’impossibilità di comprimere all’interno di un modello razionale prestabilito l’ontologia costitutiva119. Il potere costituente si sviluppa su questa potenzialità costitutiva, o meglio è questa potenzialità costitutiva nella misura in cui rappresenta la procedura assoluta, la stessa infinità dei modi, indagabile razionalmente, attraverso i quali può avvenire la produzione di nuovo diritto e di una nuova legittimità politica120. Conseguentemente, il rapporto tra natura naturans e natura naturata riproduce lo scarto che contraddistingue l’intero processo di secolarizzazione, ossia lo scarto tra l’essenza della nuova legittimità come autogenerazione e la capacità effettiva di concepire coscientemente se stessi e le forme giuridiche a partire dalla propria e specifica condizionalità e singolarità121. Questo scarto non può impedire, così, una prima

stabilita l’unità della volontà e della razionalità umana come conoscenza adeguata, ossia dal fatto che la stessa volontà umana non è separabile in una volontà dell’intelletto e in una volontà istintiva degli affetti. In effetti – come ricorda L. Bove, La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza, Ghibli, Milano, 2002, pp. 81-88, approfondendo il punto di vista di Matheron – la «cosificazione» è un fenomeno connesso intrinsecamente con il principio di causalità, nella misura in cui la conoscenza, in quanto immagine dell’essenza attuale di una cosa esistente in atto, non può che costituire una conoscenza non adeguata (Etica, II, pro. 26 cor., p. 70), e dunque, nella misura in cui, conseguentemente, viene supposto «che questa cosa esterna sia anche anteriore nel tempo all’essere sul quale produce l’effetto». Ovvero, in altri termini, la «cosificazione» si presenterebbe logicamente ogni qualvolta il principio di causalità venga inteso diversamente dal punto di vista spinoziano di un’osservazione degli effetti o della sua «causa immanente».

118 Cfr. B. Spinoza, Etica, cit., parte IV, prop. 37, scolio 2, pp. 187-189. «Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e, di conseguenza, per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura (…) Affinché gli uomini possano vivere concordemente ed essersi di scambievole aiuto, è necessario che rinuncino al loro diritto naturale e si rendano reciprocamente sicuri di non far niente che possa riuscire di danno ad altri. In che modo possa accadere in realtà, che gli uomini, i quali sono necessariamente soggetti agli affetti, e incostanti e vari, possano rendersi scambievolmente sicuri (…) Vale a dire, un affetto non può essere impedito se non da un affetto più forte e contrario all’affetto da impedire, e ognuno si astiene dall’arrecare danno per timore di un danno maggiore. Essa (la società) ha perciò la potestà di prescrivere la norma comune del vivere, e di emanare leggi e di sostenerle, non con la ragione, che non può impedire gli affetti, bensì con le minacce». Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino, 2007, pp. 377 ss.; A. Matheron, Individu, cit., pp. 290-299; A. Negri, L’anomalia selvaggia, cit., pp. 140-150, 225-237; L. Strauss, La critica della religione, cit., pp. 220-232; A. Droetto, Introduzione a, B. Spinoza, Trattato politico, Giappichelli, Torino, 1958, pp. 85-94, 105-109; da ultimo v. R. Ciccarelli, Tantum juris, quantum potentia. Sulla teoria spinozista della potenza del diritto, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 3, 2008, pp. 457-488.

119 Cfr. A. Negri, L’anomalia selvaggia, cit., pp. 161-167; G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, Quodlibet, Macerata, 1999, pp. 29-37; A. Matheron, Individu, cit., pp. 83 ss., 223 ss.

120 Cfr. A. Negri, L’anomalia, cit., pp. 176-215; Id., Il Potere Costituente, cit., pp. 41 ss., 373-385, 393 ss., e in particolare anche le pp. 382-383, dove, non a caso, il formalismo kantiano viene interpretato come la mistificazione più raffinata del concetto di potere costituente.

121Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 89-90; A. Negri, L’anomalia, cit., pp. 100 ss. Allo stesso tempo il pensiero spinoziano rappresenta l’anomalia del Seicento perché è l’unico che riesce a colmare non in termini formalistici questo scarto attraverso un sistema di razionalità coerente. La beatitudine spinoziana fa da contraltare alla catastrofe barocca nella misura in cui «anche come attributo del progresso l’infinitezza è piuttosto il risultato di un imbarazzo e della ritrattazione di una definizione affrettata che non il risultato di un’usurpazione. Concezioni aurorali del progresso si

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definizione concettuale di potere costituente. Questa, di fatto, non può che coincidere con il riconoscimento della intrinseca normatività dell’uomo e quindi della sua capacità illimitabile di autonormazione, dal momento in cui tale normatività si inserisce all’interno di una determinata concezione della natura e della società secondo un piano razionale molteplice e immanente definito dall’orizzonte dell’infinità dei modi; ovvero, dal momento che tale ontologia costitutiva permette di mantenere la relazione tra l’uomo e la natura su un doppio livello fondativo che riconosce l’essenza gnoseologica delle forme immaginative e il limite stesso di tali rappresentazioni e la loro inutilità se isolate dal sistema etico nel suo complesso. In altri termini, l’ontologia costitutiva, stabilendo il concetto di potere costituente sul limite gnoseologico dell’organizzazione dell’infinità, permette di sottolineare l’assolutezza, e al contempo, la relatività del concetto di potere costituente. Assolutezza che attesta tale definizione concettuale al livello dell’infinità come possibilità eterna di produzione di differenti forme, ossia come pura autoaffermazione umana; ma che, in quanto rappresentazione e forma, si trasforma in una definizione sempre relativa, temporalmente e gnoseologicamente determinata, poiché, entrando a far parte di una particolare costellazione e geometria immaginativa, determina il contesto storico e giuridico di cui è anche espressione122. D’altra parte, si deve ricordare come il razionalismo inglese sia da sempre fortemente influenzato da un concetto di natura indomabile dal calcolo razionalistico. E’ proprio a questa irriducibilità della natura che si deve il carattere sperimentale ed inconseguente dell’empirismo seicentesco123. Le forme del razionalismo, dunque, dipendono in una certa misura da questa imponderabilità originaria, da questa eccedenza dell’infinità dei modi sulla finitezza delle leggi scoperte dall’uomo124. Il primato della legge di natura all’interno della concezione del diritto antico deriva

attengono alla tipologia finita delle età dell’uomo e dell’esperienza e maturità con esse, come in Giordano Bruno, oppure fanno sfociare il progetto del progresso scientifico in una condizione di compimento sistematico, come in Francesco Bacone e Cartesio. D’altro canto l’idea dell’infinitezza è inizialmente rassegnazione: l’assenza di una condizione di maturità, del compimento della conoscenza teoretica e della normalizzazione pratica attuata per mezzo di essa. Significativamente Pascal è il primo a parlare dell’infinitezza del progresso. Ma per lui, precisamente, l’infinità dello spazio e del tempo non significa mondanizzazione di un attributo divino, bensì la somma delle privazioni metafisiche e dell’ambivalenza dell’uomo tra la sua grandezza e la sua miseria». V. anche N. Jolley, The relation between theology and philosophy, in The Cambridge History of Seventeenth Century, cit., pp. 363-392.

122 Sul rapporto tra immanenza, autonormatività e potere costituente, oltre i già citati A. Negri, L’anomalia selvaggia; Id., Il Potere Costituente, v. anche L. Bove, La strategia, cit., 259 ss.; R. Ciccarelli, Tantum juris, cit., pp. 457-488. Sul sistema spinoziano dell’Etica come sistema gnoseologico cfr. G. Deleuze, Spinoza e il problema, cit., pp. 24-28, 71 ss.; E. Cassirer, Il problema della conoscenza, I, cit., pp. 244-245, il quale rifiuta il termine «ontologia» per definire la filosofia della natura rinascimentale riportando il problema della conoscenza al problema dei differenti tipi di relazione che può caratterizzare il dualismo kantiano tra forma e materia.

123 Cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, cit., II, Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, cit., pp. 15-43.

124 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, cit., pp. 234-311. dove non solo a differenza di quanto affermato da Blumenberg a Bacone viene attribuita una concezione empirista non sistematica nella misura in cui viene confermato il primato della sostanza sull’astrazione, ma l’intero sviluppo del razionalismo inglese del Seicento (dalla scuola di Cambridge a Locke) viene interpretato secondo i canoni della scienza intuitiva, ovvero di una scienza empirica e razionale che mantiene costante la connessione con la realtà effettuale e la sensazione. La conoscenza in questo modo, benché prodotto delle facoltà intellettive, resta legata alla stessa capacità della realtà materiale di riflettersi nella coscienza razionale. Ovvero, in altri termini, la ragione si definisce come prodotto dell’autocoscienza soltanto in quanto rimane un mero nesso di congiunzione con la realtà materiale.

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proprio da questo postulato della teoria della conoscenza, che pretende di stabilire una forma di razionalità a partire dalla precedenza logica di un tipo di esperienza non ponderabile secondo un criterio sistematico. E tuttavia, fino a quando l’imponderabilità, l’eccedenza della natura discende dall’inconoscibilità della legge eterna, ovverosia, fin quando la finzione è in grado di imitare la natura poiché essa acquista la propria autorità dalla trascendenza della verità, la teoria dell’universitas può funzionare efficacemente come teoria dell’obbedienza125. Il problema nasce quando l’ontologia dell’universitas, in forza della razionalizzazione, diviene ontologia costitutiva grazie ad una nuova piattaforma condizionale. E’ in questo punto che anche i modelli del razionalismo tentano di riadattare i propri statuti epistemologici in funzione della creazione di un nuovo modello di obbedienza, ossia tentano di imbrigliare la potenza costitutiva all’interno di una dottrina del diritto naturale126. Non è un caso che il diritto naturale e il contrattualismo assumano un ruolo centrale all’interno delle varie ipotesi costituzionali avanzate nel corso della rivoluzione. In tutte queste ipotesi il diritto di natura ha una posizione di supremazia. Perfino in Hobbes, dove il rapporto di interdipendenza tra natura e verità viene ribaltato in un rapporto di subordinazione della legge di natura alla verità127 nel momento in cui l’ipostatizzazione formalistica di quest’ultima opera come una riduzione del concetto di stato di natura a stato di guerra128, viene affermato il primato del ruolo del diritto di natura129. Questa ipotesi formalistica, sebbene fallimentare all’interno del processo costituzionale, verrà

125 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., pp. 133-142, dove viene sottolineato che la

condizione del ritorno della gnosi viene posta dallo stesso Cristianesimo nel momento in cui la filosofia politica medievale (in particolare il pensiero di Agostino) risulta interamente tesa non alla rimozione della cosmologia antica, ma alla sua neutralizzazione per mezzo del concetto di creazione. «Il Dio creatore biblico era stato innalzato al livello di esere onnipotente e l’eliminazione della gnosi richiese la soppressione della preesistenza dualistica e la sua inclusione nell’unità della Creazione dal nulla. L’elaborazione della creatio ex nihilo in quanto concreatio fu l’opera durevole di Agostino nei suoi commenti alla Genesi (…) La gnosi non superata ma solo trasposta, ritorna nella figura di Dio nascosto e della sua incomprensibile sovranità assoluta. E’ con essa che l’autoaffermazione della ragione ebbe a che fare (…) La gnosi non aveva distrutto il cosmo antico (…) L’inutilità dell’autoaffermazione fu l’eredità della gnosi non superata, ma semplicemente trasposta».

126 La molteplicità delle ipotesi razionalistiche, ma soprattutto la crescente egemonia dell’approccio utilitarista nella teoria della conoscenza riflette la pragmaticità e la flessibilità del razionalismo giuridico inglese. Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza nella filosofia, cit., pp. 261-311 (Locke), 374-434 (Hume).

127 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza nella filosofia, cit., pp. 64-94. In breve, questa subordinazione viene effettuata tramite una concezione meccanicistica della natura e una nominalistica della teoria della conoscenza. Questa combinazione, da un lato garantisce il momento dell’arbitrio poiché lascia intatta una formale libertà metodologica del soggetto, dall’altro permette di risolvere la questione della verità delle cose nell’attività di produzione del patto e della convenzione, in quanto, se è vero che una tale concezione trae origine semplicemente nel giudizio (o meglio dai nomi), allora non può che essere confermato il fatto che lo stesso sapere comincia a sussistere soltanto nel momento in cui diviene rappresentazione. V. comunque infra, Parte II, cap. II, par. 2.2.1, pp. 174 ss., par. 2.3.1, in particolare pp. 202-206.

128 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 91. Logicamente, come afferma Blumenberg, una tale operazione deve passare per la preventiva neutralizzazione del concetto di infinità. «Invece Hobbes aveva fatto valere il punto di vista secondo il quale il concetto dell’infinità non contiene assolutamente nessuna determinazione positiva (…) D’ora in avanti l’infinito serve non tanto a fornire una risposta a una delle grandi questioni della tradizione, quanto piuttosto a neutralizzarla; non tanto a dare un senso alla storia, quanto a confutare la pretesa di poterle dare un senso».

129 Cfr. L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?: scritti su Hobbes e altri saggi, Argalia, Urbino, 1977, pp. 137-168; Id., Diritto naturale e storia, cit., pp. 168-200; infra, Parte II, cap. II, par. 2.2.1, pp. 174-186.

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comunque analizzata per il suo ruolo nel contesto della guerra civile, a fianco dell’altra ipotesi complementare e vincente rappresentata dalla proposta lockeana, ugualmente fondata sulla centralità del diritto naturale, ma anche, non casualmente, sull’irriducibilità del concetto di sostanza130. Tuttavia aldilà delle singole ipotesi, per il momento è bene sottolineare, che sebbene la riarticolazione dell’antitesi costitutiva tra natura e verità secondo le dottrine del diritto naturale rappresenti il tentativo multiforme di imbrigliare la potenza costitutiva aperta dalla razionalizzazione dell’agire individuale, la definizione di potere costituente, - come quella peraltro di diritto di natura -, non si potrà mai identificare con un modello prestabilito, ma piuttosto deve essere costantemente ricondotta a quel concetto di potenza.

Peraltro, su questo sfondo concettuale, vanno inquadrate due ulteriori particolarità delle dinamiche politiche legate alle espressioni repubblicane della rivoluzione inglese che descrivono concretamente il funzionamento di questa ontologia costitutiva e la sua alterità dalla struttura concettuale moderna di potere costituente. Innanzitutto, la contraddizione tra il concetto di libertà élitario del puritanesimo e il suo effettivo ruolo di generalizzazione della libertà individuale all’interno della società; in secondo luogo, la contraddizione tra una conformazione settaria dell’agire politico, legata ad un carattere di parzialità, e il carattere universale e generale delle soluzioni avanzate da ogni singolo gruppo o setta. In effetti, la dimensione settaria della rivoluzione131, il ruolo fondamentale (non solo da un punto di vista militare ma anche e soprattutto politico) del New Model Army rappresentano gli elementi concreti della rivoluzione ai quali ricondurre l’origine del nuovo patto politico. Sono proprio questi due elementi a segnalare la radicale alterità di questo percorso costituente rispetto ai modelli costituenti classici delineati sulla base dell’affermazione del principio universalistico e atomistico di volonté générale. Infatti, anche in questo caso sarà la dinamica storica della rivoluzione ad indicare l’effettivo dispiegamento della potestà costituente, ma in una direzione ben differente. Questi due elementi particolari della modernizzazione inglese, insieme alla dimensione repubblicana e a-formalistica dello spazio costituzionale, permettono di ricondurre il processo costituente, piuttosto che al modello della volonté générale, al sistema etico spinoziano del materialismo dei corpi, laddove la produzione della nuova legittimità e dell’equilibrio repubblicano vengono definiti come il risultato

130 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza nella filosofia, II, cit., pp. 261-311. Anche nella teoria

della conoscenza di Locke riveste un ruolo centrale il concetto di rappresentazione. Diversamente da Hobbes però, questa in quanto prodotto dell’attività riflessiva del soggetto (sensazione, riflessione, intuizione) risulta essere sempre insufficiente ed inadeguata rispetto alla continua eccedenza ed indipendenza della sostanza. Se in pratica come si può dedurre dall’interpretazione di Cassirer, ques’ultima può essere considerato un limite trascendentale della teoria lockeana, d’altra parte si deve però sottolineare come una tale teoria pur distinguendo il soggetto riflettente dal proprio oggetto, tuttavia non si sviluppi su una propria e indipendente piattaforma metodologica. La distinzione tra sapere deduttivo e sapere empirico non può infatti essere paragonata alla distinzione tra sapere fenomenologico e sapere noumenico, e quand’anche si prescinda da questa distinzione epistemologica si deve sottolineare come il concetto di infinito resti per locke qualcosa di indipendente e sussistente in sé a differenza della definizione fornita a questo riguardo da Hobbes.

131 Oltre a C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., v. H.N. Brailsford, I Livellatori e la rivoluzione inglese, Il Saggiatore, Milano, 1962; v. anche ma con un’interpretazione differente dalle precedenti, J. Morrill, The revolt of the provinces: Conservatives and Radicals in the English Civil War, 1630-1650, Allen & Unwin, London, 1996; da ultimo v. M. Caricchio, Radicalism and the English Revolution, in M. Caricchio, G. Tarantino, Cromohs Virtual Seminars. Recent historiographical trends of the British Studies (17th-18th Centuries), 2006-2007: 1-5, http://www.cromohs.unifi.it/seminari/caricchio_radicalism.html.

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mai definitivo dell’incontro e lo scontro tra i corpi e le forze che compongono l’intera articolazione sociale e che esercitano direttamente il potere costituente. In ogni caso, riconoscere che l’origine del potere costituente coincide con quest’ontologia costitutiva, ossia che il suo presupposto fondamentale dell’autonormatività umana costituisce anche il suo concetto, e che la produzione del patto politico è il risultato mai definitivo dell’interazione tra vari modelli interni alla repubblica, non deve implicare praticamente l’impossibilità di ricostruire la sua genesi moderna nell’articolazione costituzionale dei tre presupposti qui in esame. Diversamente, ciò significa che diviene centrale analizzare le concrete articolazioni del rapporto tra forme di verità e natura, ossia analizzare quale significato assumono le dottrine costituzionali egemoni nella rivoluzione inglese a partire dalla considerazione del diritto naturale. In ogni modo, si deve precisare: la ricostruzione dell’effettivo modello di razionalismo e individualismo affermatosi definitivamente in seguito alla rivoluzione non equivale all’identificazione del concetto di potere costituente, ossia non può valere come una sua riduzione, e tanto meno come lo studio della sua costituzionalizzazione, ma equivale solamente a stabilire quale modo di produzione del diritto si afferma come egemone all’interno dell’infinità dei modi e ad una particolare latitudine spazio-temporale, laddove, come si è visto, tale infinità, da un lato, fa riferimento concretamente a tensioni individualistiche particolari, e dall’altro, ad un processo di mutamento strutturale dell’organizzazione del governo territoriale e del regime proprietario.

A questo punto si possono comunque sottolineare alcuni aspetti che descrivono lo sfondo di questa ricostruzione del concetto di potere costituente. In primo luogo l’autonormatività stabilisce il contenuto minimo e l’essenza del concetto di potere costituente, ossia la condizione imprescindibile a partire dalla quale viene affermato che il potere politico non può che dipendere costantemente dai propri sottoposti. In secondo luogo, la rivoluzione e il potere costituente vengono definiti processualmente come ontologia costitutiva e autonormatività in quanto la loro essenza è la stessa lotta politica, lo scontro tra forze contrapposte ed antagonistiche, ovvero in quanto queste forze si collocano concretamente all’interno di un agone politico definito dal civismo repubblicano. L’anakyklosis acquista definitivamente un contenuto soggettivistico poiché la definizione dell’equilibrio non individua la semplice alternanza delle forme, ma stabilisce una nuova antropologia e una nuovo patto costituzionale a partire dal mutamento nel regime proprietario ed a partire da un contesto caratterizzato dalla parzialità, dalla conflittualità e dall’impossibilità di produrre una sintesi dei soggetti politici in campo nella rivoluzione. Il contenuto specifico del potere costituente inglese, il suo prodotto finale, ovvero l’origine del suo concetto giuridico moderno, diviene ciò che è in grado di tradurre in modello generale di legittimazione politico un particolare tipo di razionalismo. Esso, come si vedrà, sarà rappresentato da una determinata ridefinizione in senso contrattualista del potere politico basata su un particolare tipo di individualismo possessivo, che ha la sua origine nel patto sociale come capacità di autodisciplinamento individuale. Tuttavia, questo contenuto rimane concepibile come tale soltanto in quanto si faccia costantemente riferimento al processo che l’ha generato, alla sua origine nella lotta politica e quindi nel processo di ridefinizione degli equilibri proprietari e nell’infinità dei modi di produzione della razionalità aperti dallo stesso potere costituente; ovvero nella misura in cui si consideri la stessa struttura dell’individualismo possessivo non semplicemente come una riduzione di tale ontologia

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costitutiva, come una cristallizzazione e riduzione definitiva dell’originaria molteplicità creativa, ma come una rappresentazione immaginativa determinata da un esercizio soggettivo costante che si scontra con la possibilità sempre aperta del molteplice. E’ a questo punto che finalmente lo studio delle varie ipotesi costituzionali avanzate nel corso della rivoluzione si può presentare effettivamente come il banco di prova sul quale è possibile ricostruire l’origine del concetto moderno di potere costituente. Antropologia individualista, fondazione razionale dell’obbligo politico e costituzione come contratto possono, infatti, rappresentare ora l’oggetto dell’indagine specifica intorno al concetto di potere costituente moderno. E’ soltanto a questo punto, in effetti, che l’affermazione di Plucknett può suonare in tutta la sua radicalità: «The period of the commonwealth accustomed people to see a succession of different forms of government set up and then deliberately pulled down. The lesson was clear: the people had in their hands the power and the right to set up forms of government according to their fancy132».

132 T. Plucknett, A concise History, cit., p. 61.

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Capitolo secondo «Terminare la rivoluzione». Ovvero il problema dell’inquadramento dei tre presupposti del concetto moderno di potere costituente in Hobbes e Locke

2.1. Introduzione. 2.2. Il diritto all’appropriazione all’origine dell’elaborazione del concetto di stato di natura. 2.2.1. Hobbes. 2.2.2. Locke. 2.3. I concetti di contratto e rappresentazione alla base della Costituzione come struttura funzionale. 2.3.1. La rappresentanza assoluta hobbesiana. 2.3.2. Il contratto lockeano. Il principio della ragion sufficiente sulla soglia epocale della nuova legittimità. 2.4. Un’astrazione determinata alla base della struttura concettuale del potere costituente moderno. 2.1. Introduzione. Il problema classico che pone il potere costituente moderno alla scienza giuridica è la questione irrisolvibile della sua positivizzazione e costituzionalizzazione1. Nel continente, la soluzione parziale e precaria di questo dilemma consiste nel sanzionare positivisticamente il contenuto della nuova costituzione e nel delimitare temporalmente e spazialmente - ossia solamente idealmente - il campo del potere costituente al periodo della rivoluzione2 - in questo modo riducendone lo stesso concetto al

1 Cfr. supra, Introduzione, pp. 11 ss., dove si specifica che il potere costituente si può considerare un

concetto limite del diritto costituzionale perché costruito come limite stesso della capacità di razionalizzazione del diritto. Cfr. E.J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato? (a cura di U. Cerroni), Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. 96-99; E.W. Böckenförde, Il potere costituente, cit., pp. 115 ss.

2 A questo proposito si può osservare come il caso francese riproduca nel modo più lineare questo schema. La temporalizzazione del potere costituente viene infatti scandita formalisticamente dall’alternarsi delle diverse costituzioni, laddove il processo che parte da una fase di progressiva apertura dell’energia costituente sfociata nella determinazione formale della necessaria legittimità dell’esercizio diretto del potere politico (al cui apice può essere posta la costituzione del ’93) e che arriva alla chiusura progressiva del ciclo costituente e della rivoluzione con il Termidoro e la deriva bonapartista, si unisce ad una «spazializzazione» della stessa capacità costituente nella direzione della guerra nazionalista e statuale per la difesa e l’esportazione della rivoluzione. Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 265-307. Sulla parabola storica del potere costituente in Francia v. R. Martucci, L’ossessione costituente: forma di governo e costituzione nella rivoluzione francese 1789-1799, Il Mulino, Bologna, 2001; L. Scuccimarra, La sciabola di Sieyès: le giornate di brumaio e la genesi del regime bonapartista, Il Mulino, Bologna 2002. Seppure legata ugualmente al moderno concetto di rivoluzione, appare però più sfumata e articolata, nel tempo – in forza dell’egemonia ricoperta dall’esercizio diretto del potere politico e dalla commistione tra common law, diritto continentale, e ruolo della Corte Suprema - e nello spazio – in forza del ruolo ricoperto dal cosiddetto concetto di «frontiera» e di appropriazione -, la parabola del processo costituente americano e la conseguente concezione del potere costituente. A questo riguardo si v. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 179 ss, 222 ss.; J.C. Calhoun, Disquisizione sul governo e Discorso sul

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paradigma del tempo dell’eccezione3 e del costituzionalismo continentale4. L’esperienza inglese conferma questa antitesi tra potere costituente e positivizzazione smascherandone però la sua autentica radicalità. La contraddizione si staglia infatti secondo le pieghe impresse dal processo di razionalizzazione; da un lato il concetto di potere costituente si identifica con l’infinità dei modi dell’ontologia costitutiva razionalmente indagabile, dunque con la stessa capacità condizionale, dall’altro la produzione delle forme giuridiche, benché ora prodotto genuino delle facoltà razionali, riconferma il proprio carattere limitato, nella misura in cui si riconosce definitivamente che anche una legittimità fondata interamente sulla ragione necessita di una piattaforma condizionale iniziale individuata convenzionalmente, sebbene tale piattaforma non debba consistere in un contenuto trascendente. In questo senso, la relatività delle forme giuridiche, il ruolo del tempo e della tradizione, la mancata formalizzazione dei rapporti interistituzionali e dei rapporti gerarchici tra le fonti giuridiche non possono essere considerati il retaggio del costituzionalismo passato, ma al contrario vengono assorbiti dalla nuova legittimità costituzionale perché prodotto autentico di un’istanza costituente complessa non riducibile alla sua formulazione razionalistica. Il problema dell’assorbimento del potere costituente non assume i toni volgari della necessità della positivizzazione e costituzionalizzazione delle nuove istanze, ma assume immediatamente i contorni del problema, rinnovato dalla definitiva razionalizzazione dell’agire umano, e centrale per l’intera filosofia giuridica e politica del Seicento: il problema della positività della legge. «Io ammetto che magistratus est lex armata – afferma Harrington -; cioè che il magistrato sulla sua tribuna è, rispetto alla legge, ciò che un artigliere sulla sua piattaforma è rispetto al suo cannone5». La metafora repubblicana è chiara, nonostante, è bene ricordare, il formalismo di Harrington sia teso alla ricerca dei meccanismi materiali che garantiscano il giusto dinamismo ed equilibrio all’ordinamento repubblicano6. Apparentemente in modo paradossale, la rinnovata

governo e la Costituzione degli Stati Uniti (a cura di M. Surdi di cui v. anche l’introduzione), Ist. dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1986. Infine ulteriori peculiarità sono offerte dal processo rivoluzionario russo, laddove la progressiva sussunzione in senso formalista della capacità costituente, inizia con lo svuotamento della principale particolarità di questa esperienza, il ruolo dei Soviet, per definirsi poi in senso fortemente statalista secondo un modello costituzionale che pretende di proiettare nel futuro delle costituzioni bilancio il formalismo della pianificazione. Sul punto v. A. Negri, Il Potere, cit., pp. 309-371. Sul costituzionalismo sovietico v. C. Mortati, Le forme di governo: lezioni, Cedam, Padova, 1973, pp. 353-377.

3 Cfr. supra, Introduzione, pp. 11-14, dove si sottolinea la possibile compatibilità tra il paradigma dell’eccezione e il razionalismo formale del diritto continentale.

4 In effetti, si può osservare come la stessa modalità di strutturazione della trattazione del tema del potere costituente, nel riprodurre una separazione tra una fase teorico-analitica e una storico-processuale (separazione comune alla maggior parte delle opere che si occupano estensivamente del tema), confermi, da un lato, un limite epistemologico della scienza giuridica continentale, laddove nel momento di crisi dovuta all’incapacità di predeterminazione di tale concetto tale scienza ricade immediatamente nella rigida distinzione tra teoria e prassi, e dall’altro, l’impossibilità di stabilire, in positivo, una definizione concreta del potere costituente non coincidente con i processi costituenti storici empiricamente analizzabili.

5 J. Harrington, La repubblica di Oceana, cit., p. 100 6 Cfr. supra Parte I, cap. III, par. 3.3, pp. 108 ss., in particolare, nota 39, pp 108-109. Cfr. A. Negri,

Il Potere Costituente, cit., pp. 150-175, per il quale il pensiero di Harrington non può essere interpretato semplicemente come il tentativo di fornire una garanzia per l’equilibrio dei rapporti sociali nella repubblica. Al contrario, è l’associazione tra il suo materialismo storico e la teoria repubblicana, e dunque, la conseguente constatazione dell’irriducibilità costituente alla base dell’unione politica che impone di annoverare Harrington tra i ‘rivoluzionari’ e di dover considerare il concetto di equilibrio

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attualità della questione della positività della legge è centrale anche in Spinoza, ovvero in quell’autore che elabora la propria teoria del diritto proprio a partire dallo sviluppo dell’antitesi prodotta dalla razionalizzazione, della contraddizione logica tra autoaffermazione umana e relatività e limitatezza in sé di ogni concreta fondazione razionale dell’agire, di ogni principio di causalità efficiente7. «Il reato non è dunque concepibile se non in uno stato costituito, nel quale venga decretato in base al diritto comune di un intero consorzio che cosa sia bene e che cosa sia male, e dove nessuno abbia diritto di fare alcunché, all’infuori di ciò che è stabilito dal comune decreto o consenso. Infatti è reato ciò che non si può fare con diritto, ossia che dal diritto è proibito; mentre l’obbedienza è la costante volontà di fare ciò che per il diritto è bene e che per comune decreto deve essere fatto8». Nel Seicento il tema della positività della legge non si può ridurre a quello della positivizzazione9. Sarebbe peraltro fin troppo agevole per questa definizione di potere costituente sbarazzarsi di una distinzione tra atto e fatto costruita positivisticamente sull’opposizione tra forma e materia, dal momento che la libertà dei sottoposti di stabilire i termini e la condizioni della propria sottomissione, della legittimità politica, passa necessariamente per il riconoscimento della validità giuridica immanente al diritto di natura. E tuttavia, anche se si assumesse la categoria kantiana del rapporto tra forma e materia, e dunque si consideri in ogni caso l’ontologia costitutiva da un punto di vista epistemologico, ossia come condizione di possibilità di una molteplicità di modelli di conoscenza10, si deve comunque riconoscere la scomposizione di tale rapporto in due ulteriori dualismi, tra loro interdipendenti, e ritenuti centrali per l’elaborazione filosofica del Secolo. Il primo di tali dualismi è costituito da una polarità che si dipana in modo consustanziale alla scoperta della natura gnoseologica dello stesso agire razionale. Il rischiaramento urta in primo luogo contro il problema della base gnoseologica della propria conoscenza. La positività della legge si determina così all’interno della polarità che vede opporre ai due estremi una concezione della ragione

come subordinato e dipendente dallo stesso concetto di mutamento. A questo proposito cfr. anche J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 658 ss., 703 ss.

7 Cfr. B. Spinoza, oltre a, TTP, cit., cap. XVI, pp 377-411, (dove vengono chiarite condizioni e limiti del patto sociale subordinato al diritto naturale) e cap. XX, pp. 480-498, (dove la libertà viene posta quale necessario fondamento dell’unità politica), soprattutto, Etica, cit., parte II, prop. 48, p. 85, «Nella mente non c’è nessuna volontà assoluta, cioè libera; ma la mente è determinata a volere questo o quello da una causa, che del pari è stata determinata da un’altra, e questa ancora da un’altra, e così all’infinito», con, parte I, prop 16 e cor. 1,2,3, pp. 19-20, «Dalla necessità della divina natura devono seguire infinite cose in infiniti modi (cioè tutte quelle cose che possono cadere sotto un intelletto infinito) (…) Di qui segue che Dio è la causa efficiente di tutte le cose che possono cadere sotto un intelletto infinito. Segue, secondariamente, che Dio è causa per sé e non per accidente. Segue, in terzo luogo, che Dio è assolutamente la causa prima».

8 B. Spinoza, TP, cit., cap. III, § 19, pp. 177-178. 9 A questo proposito si tenga presente quanto affermato da R. Schnur, Individualismo, cit., p. 71. «Il

c.d. positivismo legale (Gesetzespositivismus) di quel tempo non va pertanto contrapposto in maniera radicale, già in via di principio, alla dottrina che concepisce la validità del diritto come «appartenenza al valore». Una simile contrapposizione sarebbe infatti possibile solo astraendo completamente dalla realtà della situazione storica – procedimento alquanto seguito, ma pur sempre molto discutibile. Abbiamo invece già sopra osservato che anche la validità «come appartenenza al valore» implica un atto di posizione e che quindi il suo contrasto con la «validità come posizione» è qualcosa di assai relativo»

10 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, I, cit., pp. 244-245, e, II, cit., pp. 127 ss. (cap. su Spinoza, par. III, Il concetto di sostanza. La metafisica); cfr. supra Parte II, cap. I, par. 1.4, pp. 159 ss.

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che identifica interamente la conoscenza con la facoltà di giudizio del soggetto11 – sebbene all’origine dell’appercezione vi sia ancora la facoltà sensitiva - ed una concezione costruita sul primato della sostanza e dell’esperienza12, - ma che tuttavia ha ormai poco a che fare con l’impostazione rinascimentale13. Il secondo dualismo è invece rappresentato dalla virtù e dalla fortuna, laddove questi due termini, traducendo il carattere umano e limitato delle forme di razionalità, esplicitano più direttamente l’interazione conflittuale tra intelletto e passioni che caratterizza tanto la natura umana quanto il carattere della nuova scienza politica14. In questo senso, peraltro, viene confermato il fatto che il paradigma repubblicano non rappresenta banalmente un espediente formale attraverso il quale poter comprendere i processi di mutamento istituzionale, ma la chiave di lettura fondamentale capace di illuminare il passaggio di discontinuità segnato dal potere costituente15. Concretamente però, l’incrocio di questi dualismi accresce il livello di complessità e di instabilità del problema della positività della legge. L’emergere della necessità di risolvere sul piano della ragione tale questione determina uno spostamento della soluzione sul piano determinato dalla precarietà ma della contemporanea convenzionalità delle forme giuridiche, traducendo così praticamente l’intera questione nel problema di individuare le condizioni di possibilità di un contratto sociale. Tuttavia, questa necessità, che teoreticamente esprime le antitesi gnoseologiche appena descritte, e che inevitabilmente deve risolvere preliminarmente il problema della definizione del diritto di natura, si traduce poi in maniera efficiente e pragmatica, secondo le linee di sviluppo della filosofia e del diritto inglesi, non nella ricerca di una costituzione ideale o formale e neanche nella ricerca di un ordine manieristico, di un’armonia dell’irregolare16, ma molto più semplicemente nell’identificazione e nell’attribuzione

11 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, I, cit., pp. 483-553 (Cartesio), e, II, cit., pp. 64-94 (Hobbes); T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica (a cura di A. Pacchi), La Nuova Italia, Firenze, 1985, cap I, II, pp. 9-19. Sulla teoria della conoscenza in Hobbes v. infra, par. 2.2.1, pp. 174-186.

12 L’impostazione più radicale in questo senso è quella tracciata da Spinoza nell’Etica. E’ sufficiente a questo riguardo confrontare le definizione 3, 4 e 5 della Parte I. «3. Per sostanza intendo ciò, che è in sé, ed è concepito per sé: vale a dire ciò, il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, da cui debba essere formato. 4. Per attributo intendo ciò, che l’intelletto percepisce della sostanza, come costituente la sua essenza. 5. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò, che è in altro, per cui anche viene concepito». In ogni modo per una panoramica dell’evoluzione delle teorie della conoscenza basate sulla centralità del ruolo della sostanza e dell’esperienza nel corso del XVI secolo cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, pp. 15-43 (Bacone), 95-152 (Spinoza), 261-311 (Locke). Sulla particolare articolazione della teoria lockeana della conoscenza v. infra, par. 2.2.2, pp. 186-194.

13 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, p. 19. 14 Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 639-652, dove sottolinea la distinzione tra il pensiero di

Hobbes e quello di Machiavelli. Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli, Milano, 1995, cap XVIII, pp. 98-102, «dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dell’uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché al primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo». Conseguentemente, la differente declinazione della coppia virtù-fortuna in Hobbes, Spinoza, Harrington e Locke risponde alla diversa strutturazione del rapporto tra intelletto e passioni impressa da ciascun autore. Sulla distinzione e il passaggio dalla concezione machiavelliana di libertà a quella moderna basata sul concetto di libertà negativa v. anche Q. Skinner, Virtù rinascimentali, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 237-270.

15 Genealogicamente il potere costituente può essere ricostruito soltanto per mezzo di questa chiave repubblicana secondo A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 55-178.

16 Cfr. R. Schnur, Individualismo, cit., pp. 78-101. Si deve comunque precisare: il fatto che il barocco non ricopra la funzione di rappresentazione come nel continente (secondo quanto specificato supra Parte II, cap. I, par. 1.1.1, pp. 141 ss.) si accorda con l’assenza del suo presupposto logico del

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della capacità di selezionare il flusso indefinito della nuova legittimità in particolari strumenti funzionali, quali sono principalmente la rappresentanza, e in via consuetudinaria i nuovi rapporti interistituzionali e tra le fonti giuridiche. E’ chiaro poi che la libertà assoluta del potere costituente non è comprimibile non solo idealmente e formalisticamente ma neanche materialmente. In ogni caso è seguendo questo approccio che la costituzione come acquisizione evolutiva si mette in marcia. In ogni modo, questo progressivo cammino della nuova legittimità costituzionale, che si sviluppa lungo tutto l’arco del secolo e che comprende due rivoluzioni, presuppone una corrispondente operazione consistente nel fornire un giusto contenuto ai tre elementi antropologia individualista, fondazione dell’obbligo politico e costituzione come contratto, che caratterizzano anche la base e il presupposto del concetto moderno di potere costituente. E’ in questa operazione che si rinviene l’esito vincente dell’apertura alla concettualizzazione moderna del potere costituente e che si può individuare il nucleo della discontinuità tra costituzionalismo antico e moderno. E’ in questa operazione che si concretizza materialmente l’espressione «terminare la rivoluzione», laddove è evidente che quest’ultima espressione dispiega qui tutta la sua radicalità semantica, poiché non indica semplicemente il punto di chiusura storico-politico del flusso costituente17, ma in maniera più profonda descrive il compimento del processo di soggettivazione – le cui basi materiali affondano nel mutamento strutturale del dominio territoriale proprietario e la cui affermazione è segnata dalla rivoluzione puritana e l’Enlightenment - in un nuovo paradigma di legittimità politica e costituzionale. Le teorie di Hobbes e Locke descrivono questo compimento. E’ scontato affermare che i due pensatori presentano delle forti divergenze su molti temi, sebbene da altri punti di vista è facile metterne in evidenza i punti in comune. Naturalmente non è questa la sede per stabilire in senso assoluto affinità e divergenze tra i due18; sicuramente però, ciò che emergerà da questa analisi sarà la completa compenetrazione e interdipendenza tra due distinti approcci contrattualistici sviluppati sulla base di una medesima necessità di fornire una soluzione costituzionale all’emergente fenomeno costituente19. Diversamente quindi, le varie caratteristiche devono essere qui rapportate al tema in oggetto, ossia alla definizione del contenuto dei tre elementi che chiudono il processo di soggettivazione e la parabola costituente inglese e fondano la base, il presupposto per la futura concettualizzazione del potere costituente moderno20. Si

soggettivismo manierista quale fattore di determinazione della nuova legittimità politica. Determinazione che associa direttamente individualismo e assolutismo. Tuttavia ciò non esclude la possibilità di un tale soggettivismo élitario. Solamente, l’ascesi politica puritana e la sua dimensione etica e generalizzata rende marginale la capacità di soggettivazione dell’estetica, e quindi la possibile successiva rappresentazione barocca.

17 Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 287 ss. 18 Una netta distinzione è offerta da J. Dunn, Il pensiero, cit., pp. 97-105. Una sostanziale affinità tra i

due pensatori è invece individuata, non solo dai critici del contrattualismo come A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 175-177, o come L. Strauss, Diritto naturale, cit., pp. 167-244, ma anche da M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 275 ss.

19 Cfr. M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 64-65; H. Höpfl e M.P. Thompson, The History of Contract as a Motif in Political Thought, cit., pp. 919-944, i quali non a caso finiscono per riconoscere a Locke il merito di aver saputo legare i due approcci, sebbene tuttavia, dopo aver condotto la loro analisi a partire dalla critica dell’impostazione di Gierke, non riescano comunque a trovare il legame intrinseco tra i due modelli.

20 In questo senso, assume una posizione centrale, oltre al pensiero critico sui due autori utile all’analisi del tema in esame, il contributo allo sviluppo del punto di vista storico concettuale apportato

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vedrà, come nel tentativo di questa analisi sarà possibile constatare agilmente il determinismo di un’opposizione che pretende di associare esclusivamente il pensiero lockeano alla storia inglese ed il pensiero hobbesiano alla percorso statualista continentale, e sarà così possibile stabilire una più virtuosa interazione tra pensiero politico e storia giuridica21. Muovendo da questa premessa è possibile così segnalare una prima caratteristica comune al razionalismo ed al contrattualismo dei due filosofi: la comune volontà di ricerca di un sistema in grado di riportare l’ordine in un contesto segnato dalla guerra civile e dall’instabilità dovuta alla crisi dell’antica Respublica. 2.2. Il diritto all’appropriazione all’origine dell’elaborazione del concetto di stato di natura. Alla base del pensiero contrattualista moderno risiede il postulato dell’eguaglianza naturale di tutti gli uomini nel cosiddetto stato di natura22. Questo postulato prescrittivo, che assume una tonalità sempre più descrittiva man mano che una serie di passaggi teorici ricavabili proprio dalle dottrine dell’individualismo cominceranno a costituire il sostrato dato come presupposto a partire dal quale sarà possibile una teoria politica liberale e individualista, determina una caratteristica dell’uomo nello stato di natura comune al pensiero di Hobbes e Locke23. In entrambi, il diritto di appropriazione in senso astratto e potenziale dell’uomo su tutte le cose rappresenta la prima caratteristica in grado di definire in positivo la libertà individuale24 altrimenti definibile soltanto procedendo negativamente come istinto all’autoconservazione25.

in particolare da J. Dunn e da Q. Skinner. In questo caso, infatti, la storia concettuale a sua volta utilizzata come strumento capace di contribuire alla destrutturazione di un diverso concetto, quello di potere costituente, può realmente fornire la sua massima utilità, consistente, come già specificato nell’Introduzione (par. 1.2.1, pp. 22-23 e pp. 26 ss.), non nel creare delle nuove strutture concettuali statiche, ma nello stabilire i termini di relazioni concettuali interdipendenti, nel far saltare la stessa distinzione tra evento e struttura. Così, se, da un lato, è necessaria un’operazione sistematica di contestualizzazione del pensiero politico, dall’altro, è necessario riuscire a riarticolare l’effettivo apporto di tale pensiero allo sviluppo della struttura concettuale del potere costituente. Cfr. J. Dunn, The identity of the history of the ideas, cit., pp. 13-28; Q. Skinner, Visions of Politics, I, Regarding method, cit.; v. anche, a questo proposito, la critica di Y.C. Zarka all’impostazione di Skinner ed al conseguente anacronismo che deriverebbe da un’impostazione eccessivamente storiografica nell’analisi dell’effettiva dimensione storica della filosofia, in H. Blom (a cura di), Quentin Skinner Yves Charles Zarka. Hobbes. The Amsterdam Debate, Olms, Hildesheim, 2001, pp. 31-38.

21 L’ascrizione del pensiero dei due autori ai due diversi percorsi della modernizzazione è comune nella storia del pensiero. E’ sufficiente richiamare C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina, cit., pp. 125-133, il quale dedica un intero paragrafo alla dimostrazione del rifiuto della via hobbesiana alla modernizzazione da parte dell’Inghilterra.

22 Cfr. G. Duso, Patto sociale e forma politica, in Id. (a cura di), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, Il Mulino, Bologna, 1987, pp. 21-24. V. anche N. Bobbio, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 2004, pp. 4 ss.

23 Il compimento di questo processo è segnato paradossalmente da un autore che non è possibile considerare propriamente come contrattualista (ma che anzi riscontra i limiti di una tale concezione), G.W.F. Hegel, il quale, nei Lineamenti di filosofia del diritto, cit., parte I, § 35, p. 47, stabilisce l’assoluto carattere descrittivo e autoreferenziale dell’individualismo. Su Hegel e il contrattualismo v. G. Duso, Patto sociale, cit., pp. 46-49.

24 L’articolazione del carattere illimitato e potenziale del diritto di appropriazione è questione complessa e ampiamente dibattuta che verrà analizzata e dimostrata di seguito. Per ora si segnala

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L’appropriazione è la concreta manifestazione dell’affermazione di sé: da un lato questa si può intendere con il conatus hobbesiano, ossia con una specifica interazione tra intelletto e passioni26 che delinea il diritto dell’uomo a tutte le cose e il conseguente appetito alla sopraffazione, come i due elementi che caratterizzano lo stato di natura come stato di guerra e condizione dell’istituzione dello Stato27. Dall’altro lato in Locke l’appropriazione può invece configurarsi non solo come condizione28, ma anche come fine dell’associazione civile29 nella misura in cui la proprietà privata e il lavoro, ovvero l’inevitabile precipitato della caduta dell’uomo in seguito al peccato originale, rappresentano l’unica dimensione entro la quale si può sviluppare la libertà del singolo30. In ogni modo, quale che sia la soluzione avanzata, è bene premettere che qualsiasi teoria dell’appropriazione deve confrontarsi necessariamente con il suo postulato descrittivo basilare: l’antitesi originaria costituita dall’opposizione tra la capacità in astratto illimitata di appropriarsi dei beni e la scarsità di questi ultimi31. solamente il ruolo innovativo dell’interpretazione di C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., grazie alla quale ha potuto prendere avvio l’intero dibattito.

25 Diversamente, in Spinoza, il principio all’autoconservazione, pur ricoprendo un ruolo centrale, si definisce su un piano di radicale incompatibilità con il modello dell’«individualismo possessivo». Su questo punto v. A. Negri, L’anomalia, cit., 161 ss.; A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Les Editions de minuit, Paris, 1988, pp. 89-93; E. Balibar, Spinoza il transindividuale, Ghibli, Milano, 2002; Id., (lezioni), L'invention européenne de la conscience et l'individualité moderne, Modena, 1999; v. anche infine M. Ricci, Un diverso presupposto per la teoria della sussidiarietà: l’individualismo spinoziano, in corso di pubblicazione.

26 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., Parte I, cap. VIII (I piaceri del senso e dell’immaginazione), § 3-4, cap. IX (Le passioni), in particolare § 15 (definizione di appetito); cfr. Id., Leviatano. O la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile (a cura di A. Pacchi), Laterza, Bari, 2003, cap. VI, pp. 41-43. Sull’aristotelismo della classificazione delle passioni negli Elementi e la successiva modificazione di tale classificazione nel Leviatano v. L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?, cit., pp. 169-206.

27 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XIII, pp. 99-104; ma soprattutto, Id., Elementi, cit., parte I, cap. XIV, pp. 109-115, in particolare § 6-11, laddove l’argomentazione segue precisamente la consequenzialità qui indicata. Dalla definizione di diritto di natura secondo la nozione di appetito all’autoconservazione (§ 6), seguono infatti il riconoscimento del diritto di tutti su tutte le cose (§ 10), e il conseguente stato di natura come stato di guerra (§ 11). Praticamente identica la strutturazione del Capitolo I (Libertà) del De Cive. Elementi filosofici sul cittadino (a cura di T. Magri), Editori Riuniti, Roma, 2002, § 3-12, pp. 19-27.

28 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo (a cura di L. Pareyson), Utet, Torino, 1960, cap V, § 28-29, pp. 261-262.

29 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo, cit., cap. IX, § 123-124, pp. 338-339. 30 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico di John Locke, Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 137-138. 31 Cfr. L. Strauss, Diritto naturale, cit., pp. 200-244; M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 18-26, 259

ss., i quali specificano che i principi di libertà lockeani acquistano una dimensione espansiva all’interno del processo costituzionale americano in forza del differente tra l’uomo e le risorse naturali oggetto di appropriazione. V. anche J. Dunn, The politics of Locke in England and America in the eighteenth century, in Political obligation, cit., pp. 53-79; A. Negri, Il Potere, cit., pp. 179-186. Sul significato di questo diverso rapporto per la teoria costituzionale v. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 851-929; Id., La ricostruzione di un impero. Sovranità britannica e federalismo americano, Piero Lacaita Editore, Manduria, 1996, il quale, non a caso, inserisce il modello paradigmatico dell’Impero quale chiave di analisi dello sviluppo della modernizzazione. Sul ruolo dell’espansione coloniale in relazione al paradigma dell’accumulazione originaria v. M. Redicker, P. Linebaugh, I ribelli dell’Atlantico: la storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano, 2004.

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2.2.1. Hobbes. In ogni caso la prescrittività di questo concetto discende dalla particolarità e determinatezza del suo fondamento gnoseologico. In Hobbes il problema della definizione della natura umana e quindi dell’istituzione di un potere realmente sovrano deve passare necessariamente per la risoluzione del dilemma del rapporto tra intelletto e passioni. L’unità della volontà si ricava soltanto dal fatto che questa viene definita come «l’ultimo appetito nel deliberare32», laddove però tale unità viene garantita formalisticamente dall’ipostatizzazione del flusso del conatus nell’atto della deliberazione, ma allo stesso tempo, sostanzialmente, la medesima volontà si presenta come non volontaria in quanto prodotto dello stesso flusso immanente del conatus, e quindi di un’interazione tra intelletto e passioni, la cui esistenza non è assolutamente determinabile razionalmente33. Dunque, conseguentemente, il dilemma del ruolo rispettivo della ragione e delle passioni nella costituzione del patto, in un contesto in cui la conoscenza delle cose è una conoscenza razionale ma esclusivamente immaginativa e rappresentativa34, viene risolto eludendo di fatto dalle priorità del singolo il problema della definizione della verità della realtà effettuale35 – come anche quello della conoscenza di Dio36 -, trasferendo questi, nominalisticamente e

32 T. Hobbes, Leviatano, cit., cap VI, p. 49, laddove specifica anche, che ciò che chiamiamo volontà è l’atto (corsivo nostro) non la facoltà di volere.

33 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., cap. XII, § 1, pp. 95-96, dove viene affermato che «deliberazione significa il privarci della nostra libertà», e § 5, p. 98, dove al contempo l’appetito stesso viene definito come non volontario. «L’appetito, il timore, la speranza e il resto delle passioni non si chiamano volontari; infatti, essi non provengono dalla volontà, ma sono la volontà; e la volontà non è volontaria. Infatti, un uomo non può dire che vuole volere, più di quanto, non possa dire che vuole voler volere, e così ripetere all’infinito la parola volere; il che è assurdo e privo di significato».

34 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., cap I § 8 (ipotesi dell’annihilatio mundi), pp. 10-11, cap II § 4, 9, pp. 13-15, 18-19, cap III § 1, p. 21; cfr. anche Id., Leviatano, cit., cap I, II, III, pp. 11-24. Sul modello di conoscenza hobbesiano cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobbes, La Nuova Italia, Firenze, 1965, pp. 45 ss., 70 ss; cfr anche E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, pp. 64-94.

35 Il formalismo attraversa e permea tutti i livelli del pensiero hobbesiano. Si tratta di vere e proprie traslazioni di tipo prevalentemente nominalistico e convenzionale. Si può affermare che il passaggio successivo alla riduzione della conoscenza a rappresentazione interna sia costituito qui dalla distinzione tra concetto e nome, laddove, evidentemente, la vera conoscenza razionale si basa sulla generalizzazione e astrazione di uno solo dei due termini, il nome, determinando così il ribaltamento del principio di causalità: da principio materiale di organizzazione dell’ontologia costitutiva della natura a principio formale di imputazione della connessione tra nomi, ovvero dei significati delle cose attribuiti per convenzione. Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., cap. V, VI, pp. 33-47. Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 110-116. Cfr. E. Cassirer, , Il problema della conoscenza, II, pp. 66-75.

36 Cfr. L. Strauss, La critica della religione, cit., pp. 67-88, il quale precisa che da un lato la conoscenza di Dio si può presentare solamente come una vaga intuizione poiché «la delimitazione della filosofia alla ricerca della cause efficienti ha come conseguenza l’esclusione della teologia: Dio non è causato. – Sebbene – la regressione di causa in causa, ogni ricerca di una qualche profondità delle cause naturali, spinge gli uomini a credere che esista una causa prima ed eterna: è tale la causa che essi chiamano Dio». Dall’altro lato però ciò implica che «è legittimo limitare ciò che Hobbes, dentro di sé, ha riconosciuto come «vera religione», a questa vaga intuizione di Dio e alla tendenza, a essa collegata, a vedere in termini di rapporto giuridico l’indubitabile superiorità della potenza dell’universo rispetto a quella dell’uomo». A questo proposito cfr. Leviatano, cit., non solo il cap. XI, 78-85, dove viene specificata la ricerca naturale di causa in causa, ma soprattutto i cap. XXXI e XXXII, pp. 289-307, dove viene specificato che gli attributi per il culto di Dio sono unicamente quelli proclamati dal sovrano, e dove i segni di come Dio parli direttamente agli uomini vengono progressivamente neutralizzati e ridotti all’interpretazione delle Sacre Scritture. Cfr. anche A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 85 ss.

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arbitrariamente37, nella costituzione del sovrano38, e attribuendo infine un ruolo centrale alla paura della morte violenta all’interno dello stesso procedere condizionale dell’individuo39. E’ chiaro perciò che la prescrittività di questa costruzione possa essere ricondotta ad una iniziale attribuzione di un carattere negativo alla natura umana. Tuttavia qui si vuole sottolineare come il pessimismo antropologico hobbesiano derivi sostanzialmente dal carattere esclusivamente formale della soluzione del dilemma gnoseologico. La relazione tra passioni e intelletto si presenta così in Hobbes come una relazione complessa e interdipendente. Non solo la paura della morte violenta è un prodotto della facoltà immaginativa, ma viceversa la paura stessa ed il pessimismo possono essere considerati come generati dal riconoscimento dell’uomo dell’impossibilità di risoluzione dell’antitesi tra l’indeterminatezza del procedere condizionale e il carattere finito e precario, o meglio meramente immaginativo ed artificiale, di ogni costruzione razionale. E’ il pessimismo gnoseologico e conseguentemente antropologico che impone ad Hobbes di liquidare il ruolo del tempo e della sapienza prudenziale nella definizione della razionalità giuridica40, e dunque è questo pessimismo che impone ad

37 Nominalismo e arbitrarietà, apparentemente in contraddizione tra loro, si fondono nella

metodologia e nella scienza hobbesiana per mezzo del concetto di supposizione. E’ infatti attraverso questo concetto limite, - limite che è generato sostanzialmente dalla questione dell’esistenza indipendente o meno dello spazio -, in grado perfino di ribaltare l’ipotesi annichilitoria, che una serie di questioni possono trovare una soluzione formalista. Oltre alla questione della verità e dell’esistenza di Dio si segnala la questione dell’inquadramento del ruolo dell’esperienza. Aldilà della svalutazione esplicita del ruolo del sapere prudenziale, l’esperienza viene di fatto rivalutata da Hobbes in quanto l’inconseguenza di un nominalismo depurato della scelta convenzionale iniziale coinciderebbe con la totale incomunicabilità dei concetti. Di conseguenza la perfezione formale del deduttivismo, seppure non può dare garanzie assolute sul futuro, tuttavia non solo si accorda con un induttivismo ormai conseguente e subordinato al formalismo, ma può continuare ad operare soltanto sulla base della connessione immanente con la prima scelta di associazione tra nomi e cose ormai soltanto supposta. Se Dio si presenta come causa di sé stesso, e di fatto come limite trascendentale della ragione, viceversa la questione della verità risulta soltanto parzialmente neutralizzata. Da un lato infatti la verità è tale, o si potrebbe affermare «è valida» e costitutiva dell’ordine, in quanto concorde con l’ordine formale delle gerarchie, dall’altro però la sua ineliminabilità concentrata monopolisticamente nelle mani del sovrano conferma l’arbritrarietà e la supposizione dell’attribuzione dello stesso monopolio di produzione. Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 79-96, 101 ss.; cfr. anche T. Hobbes, Elementi, cit., p. 38 (nota di A. Pacchi). Sul tema del rapporto tra veritas e auctoritas nella costituzione del patto v. anche E. Balibar, L’institution de la verité. Hobbes et Spinoza, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica (a cura di D. Bostrenghi), Bibliopolis, Napoli, 1992, pp. 3-15, il quale precisa che attraverso questo modello al sovrano non compete di «creare» la verità, ma di «istituirla» per mezzo della predisposizione di uno spazio pubblico.

38 Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 170-171, laddove chiarisce la ricaduta del materialismo ipotetico e non ontologico di Hobbes. «All’atomismo concettuale fa riscontro un atomismo individualistico, che nessun vincolo precostituito induce a connettersi in una società, se non un atto di volontà (corsivo dell’autore), che è però vincolante per chi vi abbia aderito al momento dell’istituzione. Così la verità di una proposizione è considerata alla stregua di uno stare ai patti (corsivo dell’autore) precedentemente stipulati circa l’uso ed il significato dei nomi (…)».

39 Cfr. L. Strauss, Che cos’è la filosofia, cit., pp. 137-168, il quale precisa, «l’appetito umano non è in sé stesso diverso dall’appetito animale, lo è soltanto per il fatto che nel caso dell’uomo esso ha la ragione al suo servizio». Secondo Skinner, la particolare riarticolazione del rapporto tra intelletto e passioni rappresenta il fulcro del passaggio concettuale operato da Hobbes nei confronti della tradizione umanistica. V. Q. Skinner, Hobbes’s changing conception of civil science, in Vision of Politics, cit., III, Hobbes and civil science, pp. 66-86.

40 Ciò è ricavabile dal ricorrere della distinzione tra sapere prudenziale fondato su un tipo di razionalità basato sull’esperienza e sulla prevedibilità del futuro in base alla mera conoscenza del passato da un tipo di razionalità che finalmente concepisce se stessa interamente come mera aspettativa

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Hobbes di considerare il diritto inglese come forma di razionalità incompiuta in quanto attributiva di un ruolo costitutivo al tempo41. In questo contesto l’appropriazione è solamente la condizione di partenza e un dato di fatto, un istinto tipico dell’uomo hobbesiano nello stato di natura: definibile dall’uomo per mezzo della ragione, essa resta un che di illimitabile e sempre riproducibile, il cui moto si basa su un’istanza al tempo stesso passionale e razionale coestensiva alla natura umana, e che impone l’assioma caratterizzante lo stato di natura del diritto di tutti su tutte le cose. A questo punto però, il problema dell’appropriazione si riduce alla questione della regolazione e del controllo di questa dinamica potenzialmente illimitata all’interno di un sistema che non ne pregiudichi la sua essenza, ovvero al problema di fornire una forma giuridica predeterminata a questa forza originaria connessa con la natura umana. Il primo tassello per Hobbes è comunque già posto in questa teoria della natura umana, nel momento in cui viene stabilito, da un lato il suo fondamento morale nella particolare interdipendenza tra intelletto e paura della morte violenta, nonché nella dimensione assolutamente prepolitica e fattuale di questo stato di natura42; dall’altro nella misura in cui la forma dell’istituzione civile si ricava procedendo secondo un metodo formalista da queste premesse in quanto precipitato epistemologico di queste ultime. In effetti l’intera costituzione del patto civile può essere considerata il corollario ricavato deduttivamente della sua concezione gnoseologica nominalistica e convenzionale43, nella misura in cui la soluzione pattizia muove dalla risoluzione del dilemma dell’appropriazione, ovvero del rapporto tra l’immanenza del concetto di appropriazione come pura potenzialità e la sua forma politica, la proprietà privata44. Questo enigma viene risolto da Hobbes alla stessa maniera del dilemma della conoscenza, laddove quest’ultimo può trovare una soluzione solamente vincolando la validità del sapere alla sua essenza immaginativa e rappresentativa, ossia meramente formale e ipotetica. Entrambe le questioni, forma politica e forma del sapere, - concetto che per Hobbes coincide con la sua forma-, si risolvono perciò riconducendo l’ambito della validità dei rispettivi oggetti alla loro fonte autoritativa e meramente

del futuro. In questo senso, stante la validità e completezza formale del sistema, l’imperfezione umana si può spiegare per Hobbes proprio con la persistenza di un ruolo del passato, presente nella mente attraverso il ricordo e l’immaginazione fuggevole del fluido ininterrotto del conatus che si concretizza con il lato passionale della personalità. Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., cap. IV § 6-10, p. 29-31; cfr. Id., Leviatano, cit., cap. III, pp. 22-24, cap. VIII, pp. 59. Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 101 ss. Sulle conseguenze del mutamento di collocazione del concetto di prudenza e virtù nella ridefinizione del concetto di libertà da Machiavelli a Hobbes v. Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., pp. 249 ss.

41 Cfr. T. Hobbes, Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto comune d'Inghilterra, Utet, Torino, 1959; Id., Leviatano, cit., cap. XXVI, pp. 222-224.

42 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 105-111, con R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 37-39.

43 Sul rapporto tra diritto naturale e concezione gnoseologica in Hobbes v. oltre a A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, anche, R. Tuck, Optics and Sceptics: The Philosophical Foundations of Hobbes’s Political Thought, in Hobbes, cit., III, pp. 49-76, estratto da E. Leites (a cura di), Conscience and Casuistry in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge, 1988; Id., Natural right theories: their origin and development, Cambridge University Press, Cambridge, 1981.

44 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 80-81, con C. Schmitt, Il compimento della riforma, cit., pp. 174-175. V. anche C.B. MacPherson, Hobbes Today, in J. Dunn, I. Harris (a cura di), Hobbes, I, Elgar, Cheltenham, 1997, pp. 156-166, estratto da «Canadian Journal of Economics and Political Science», XI, November, 1945, dove viene specificato accuratamente il rapporto tra l’individualismo possessivo e il materialismo hobbesiano.

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formale. La conoscenza individuale benché flusso immanente delle potenzialità individuali riceve una determinazione soltanto rispetto alla sua forma, ossia in forza del fatto che ogni contenuto può essere ricondotto ad un centro di imputazione formale, astratto e non predeterminabile, la deliberazione. Ciò vale anche per l’autorità politica, laddove la relativizzazione del ruolo della verità non implica la sua scomparsa dalla scena politica, ma bensì, più precisamente, il fatto che la legittimazione dell’autorità si fonda sulla capacità di quest’ultima di predisporre un sistema formale completo e vuoto, di comunicazione, attraverso il quale far transitare arbitrariamente il contenuto mutevole dell’obbligazione45. Il dilemma dell’appropriazione e della positività della legge si risolve così ad un problema di connessione tra le forme46, dal momento che queste ultime vengono sostanzialmente strappate alla determinazione immanente e potenzialmente illimitabile del soggetto per divenire determinate formalisticamente come contenitori vuoti, invariabili e indifferenti, rispetto alla volontà mutevole47. Non diversamente dal linguaggio, – che Hobbes liquida, non a caso, come dato di fatto immutabile, in quanto prima e unica forma data in sé e per sé48 – il problema della volontà di appropriazione si risolve per Hobbes ipostatizzando una forma dotata di autorità in grado di funzionare come vettore transattivo all’interno della società civile delle relazioni interindividuali altrimenti definibili solamente come relazioni di guerra nello stato di natura: il titolo e il contratto49. In questo senso l’intera teoria hobbesiana della costituzione del patto sociale può essere reinterpretata attraverso la definizione di proprietà. E’ noto come quest’ultima sia collocata all’interno del patto civile apparentemente in una posizione debole, in quanto al pari delle leggi civili risulta essere nella totale disposizione del sovrano50. Inoltre, ad una prima analisi del testo hobbesiano si può dedurre facilmente che l’appropriazione differisce profondamente dall’istinto di sopravvivenza: vita e proprietà seppure egualmente nella disponibilità del sovrano si comportano praticamente in modo diverso. Mentre la prima è irriducibile di fronte alla condanna a morte del

45 Cfr. C. Schmitt, Il cristallo di Hobbes, in Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 156-157; ma soprattutto,

Id., Il compimento della Riforma, cit., p. 181, laddove, a proposito della questione «quis judicabit?», specifica che «la persona che interpreta validamente, cioè in via inappellabile e pertanto infallibile; non è una questione di sostanza, ed è quindi formale, non materiale».

46 Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 104-109. 47 Cfr. E. Balibar, L’institution de la verité, cit., pp. 4-9. In concreto, tale connessione tra

convenzionalità e contingenza della verità produce la peculiarità del positivismo seicentesco. Cfr. C. Schmitt, Il compimento della riforma. Osservazioni e cenni su alcune nuove interpretazioni del «Leviatano», in Scritti su Thomas Hobbes (a cura di C. Galli), Giuffré, Milano, 1986, pp. 159-190. «Sembra che Hobbes riconduca Roma e Ginevra (…) ad un unico denominatore neutrale, ‘Gesù Cristo’. In realtà Hobbes non intende questo (…) E’ questo un «cujus regio ejus religio», e appunto perciò non è una neutralizzazione, ma piuttosto il suo contrario: cioè una positivizzazione dogmatica rispetto alle divergenti opinioni dell’avversario confessionale o del vicino». Cfr. anche R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 25 ss.

48 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., cap IV, pp. 33-41, laddove, in linea con il nominalismo meccanicista, specifica che la natura umana è determinata dal suo carattere linguistico, laddove il linguaggio indica le potenzialità di raziocinio e allo stesso tempo la causa dell’errore e della soggezione alle passioni.

49 Cfr. Y.C. Zarka, Principes de la sémiologie de Hobbes, in Hobbes e Spinoza, cit., pp. 314-330, il quale sottolinea il ruolo del linguaggio nella relazione tra il meccanicismo naturalistico hobbesiano e la teoria delle forme giuridiche del potere politico.

50 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXIX, pp. 265-266, dove immediatamente dopo la negazione della subordinazione del potere sovrano alle leggi civili segue la negazione di un diritto di proprietà assoluta.

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sovrano51, la proprietà, in quanto forma ed estrinsecazione possibile dell’appropriazione, si presenta come qualsiasi altra prerogativa del singolo di carattere privatistico, ovvero di quelle facoltà contro le quali la piena disposizione del Sovrano non potranno mai trovare una giustificata resistenza52. La proprietà, inoltre, non contribuisce nemmeno moralmente alla definizione dei fini politici del sovrano; essa non compare infatti tra le leggi di natura53, sebbene negli Elementi venga chiarita l’importanza dell’equilibrio proprietario nel mantenimento del governo54. E tuttavia, la totale disponibilità e subordinazione del regime proprietario ai fini della ragion di stato55, non si può tradurre nella negazione della condizione in forza della quale si costituisce lo stesso patto di unione. Al contrario, è proprio la combinazione di queste due caratteristiche, della totale predeterminazione formale del diritto di proprietà da parte del sovrano, e dell’irriducibilità dell’affermazione appropriativa del diritto di tutti su tutte le cose, quale condizione per l’edificazione dello stato, che permette di considerare il sistema hobbesiano come la struttura concettuale originaria del costituzionalismo moderno. Questa combinazione permette infatti che per un verso la definizione di proprietà non sfiori assolutamente un carattere patrimonialistico (come ad esempio potrebbe essere per la definizione di Filmer56), ma che al contrario venga collocata nell’ambito della libertà individuale, ovvero in quell’ambito all’ombra del Leviatano di carattere privatistico dove la libertà può iniziare a definirsi essenzialmente come libertà negativa a partire dalla definizione fornita da Hobbes di libertà residuale57. A questo proposito non è casuale l’esempio utilizzato nel Leviatano, riguardante la tutela della proprietà e immediatamente seguente alla definizione di libertà residuale, per indicare la funzione degli interventi autoritativi nella sfera privata dei sudditi: «così ad esempio, ci fu un tempo in cui in Inghilterra un uomo poteva entrare nel proprio terreno con la forza, per toglierne il possesso a chi lo deteneva ingiustamente. In tempi successivi, però, questa libertà di accesso forzoso fu tolta da uno statuto fatto (dal re) in Parlamento (…)»58.

51 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXI, p. 181, dove specifica che la libertà di difendere il

proprio corpo contro l’autorità legittima deriva logicamente da quanto specificato nel cap. XIV (pp. 113-114) circa la nullità dei patti implicanti la rinuncia a difendere se stessi.

52 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXI, pp. 183-184, dove viene confermata l’artificialità della distinzione tra pubblico e privato, dal momento che Hobbes riconosce l’obbligo del rispetto dei titoli giuridici per quel sovrano che in una contesa con un cittadino si presentasse quale vero e proprio soggetto di diritto privato.

53 Cfr. T. Hobbes, De cive, cit., cap. III, IV, pp. 39-64. 54 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., Parte II cap. IX, § 5, pp. 252-253; cfr. anche Id., Leviatano, cit., cap.

XXIV, pp. 205 ss., dove «L’alimentazione e progenie dello Stato» dipendono dalla giusta distribuzione dei beni sebbene poi non si dica nulla sul contenuto di questa giustizia e distribuzione, ma al contrario tale distribuzione venga fatta dipendere esclusivamente dalla subordinazione totale ed esclusivamente formale del diritto di proprietà al comando sovrano.

55 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXIV, pp. 205- 207. 56 Cfr. R. Filmer, Il Patriarca (a cura di L. Pareyson), Utet, Torino, 1960, cap. I, pp. 454-456, con T.

Hobbes, De cive, cit., pp. 81-82, dove nella nota sul concetto di proprietà specifica, in polemica con la definizione filmeriana, che la nascita della proprietà è consustanziale alla nascita dello stato, poiché così come la famiglia «è un piccolo Stato», così, «ai figli viene concessa dal padre una proprietà sulle loro cose, distinta da quella degli altri figli (…)». Sul punto v. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 82 ss.

57 Sul concetto hobbesiano di libertà negativa v. ancora Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., 237 ss., il quale contrappone la costruzione di questo concetto alla precedente definizione di libertà machiavelliana.

58 T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 183.

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E’ evidente come questo tipo di disciplina riproduca in modo estremamente netto le condizioni e le soluzioni sviluppate concretamente all’interno del processo di soggettivazione calvinista59. La differenza è che ora l’imposizione delle distinzioni è interamente eteronomo e trascendente, e al contempo volutamente e coscientemente ricercato. La distinzione tra pubblico e privato, laddove con pubblico si intende il campo definito tautologicamente dal sovrano60, come anche quella tra foro interno ed esterno61, riproducono infatti per Hobbes la logica (e forse necessariamente anche storica) compresenza di stato di natura e stato civile62, e conseguentemente la loro logica scissione63. In effetti, per Hobbes questa compresenza non rappresenta una situazione ideale o meramente ipotetica, ma costituisce anche l’inevitabile realtà contingente con la quale individui dotati di ragione si trovano a confrontarsi64. Se ciò infatti non può valere ad ascrivere ad Hobbes (ed a Locke) l’intenzione di costruire un’ideologia adatta per la società mercantile possessiva, (né tanto meno l’intenzione di crearla dal nulla65);

59 Cfr. supra, Parte II, cap. I, par. 1.3, pp. 149-157. 60 Naturalmente questo modello di determinazione di bene pubblico modellata sul principio

«auctoritas non veritas facit legem» viene definita dalla stessa condizione morale che caratterizza lo stato di natura: la paura della morte violenta come summum malum in sostituzione del summum bonum della teoria medievale della sovranità. Cfr. L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?, cit., pp. 150-151.

61 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 33-40, il quale considera consustanziale la delega assoluta della determinazione del bene pubblico al sovrano da parte del singolo (delega che nella contingenza storica coincide con l’obbiettivo di porre fine della guerra civile) e la determinazione della scissione tra foro intern ed esterno.

62 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 43-53; anche C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato, cit., pp. 87-88.

63 Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato, cit., pp. 104-105, laddove, seppure da un punto di vista agnostico in contrasto con «settari protestanti», afferma che a partire dalle distinzioni di privato e pubblico e di fede e confessione, è possibile riconoscere l’origine di quei diritti di libertà del singolo che sono qualificanti per la struttura costituzionale liberale; e in secondo luogo, laddove riconosce l’origine dello Stato come potenza esteriore, giustificata dall’inconoscibilità della verità sostanziale. Sulla distinzione tra pubblico e privato v. anche C. Schmitt, Sui due grandi “dualismi” del sistema giuridico odierno, in Posizioni e concetti. In lotta con Weimar-Ginevra-Versailles (a cura di A. Caracciolo), Giuffré, Milano, 2007, pp. 435-452. Sulla contrapposizione tra stato di natura e stato civile v. anche G.M. Chiodi, Legge naturale e legge positiva nella filosofia politica di Tommaso Hobbes, Giuffré, Milano, 1970, pp. 1-133.

64 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 41 ss. Come rileva MacPherson l’enigma della qualificazione dello stato di natura può trovare diverse soluzioni. Tuttavia se tale stato può essere considerato solo come ipotesi logica, ciò non significa che se ne debba ricavare anche il suo carattere astorico. Se infatti l’intenzione di Hobbes sembra essere quella di trovare una base di legittimazione del potere svincolata dalla contingenza temporale della storia, una teoria valida per tutti i tempi, d’altra parte sembra scorretto considerare l’uomo nello stato di natura privato delle caratteristiche acquisite storicamente dall’uomo. Sembra più corretto inferire, come fa MacPherson, che se è vero che l’uomo naturale di Hobbes è un individuo soggetto già ad una particolare relazione tra intelletto e passioni, allora lo stato di natura è «come uno stato civile privato delle leggi positive». Tale affermazione peraltro non entra in contraddizione, ma si accorda con la qualificazione di tipo ipotetico di tale stato, poiché confermerebbe (ciò vale anche per Locke) che l’eguaglianza degli uomini davanti a Dio è “causata” proprio dall’assenza delle legge positiva in quanto atto di posizione razionalmente posto dall’uomo. Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 117-142.

65 In effetti dalla linearità della ricostruzione complessiva (da Hobbes a Locke, passando per Harrington e i Levellers) fatta da MacPherson può discendere un pericoloso determinismo, sebbene utilizzata con la giusta accortezza l’opera illumini dei passaggi teorici del pensiero dei due autori rimasti nell’ombra. A questo proposito v. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., in particolare pp. 235-280 per la critica a Machperson, pp. 273 ss., dove viene ipotizzata la conoscenza di Locke delle strutture sociali. V.

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tuttavia resta facilmente dimostrabile la considerazione che i due autori avevano circa la distinzione tra foro interno ed esterno e la relativa evoluzione nel regime feudale di proprietà66. A questo riguardo è sicuramente pertinente affermare che non solo Hobbes cerca di individuare una dottrina applicabile alla realtà esistente67, ma che qualora non si tenesse conto di questo obiettivo presente nelle sue intenzioni si finirebbe paradossalmente per condurre una mediocre e mistificante ricostruzione storico-concettuale di carattere filologico68. Ma soprattutto la teorizzazione della contemporanea scissione e compresenza logica di stato di natura e stato civile si giustifica proprio con la metodologia deduttiva e formalista e con la distinzione qualitativa tra fatto e atto giuridico posta alla base di tale impostazione. La peculiarità hobbesiana consiste proprio in questa radicalizzazione formalista; è infatti a partire da questa radicalizzazione che sono possibili una serie di scissioni non ricomponibili in linea di principio: forma e materia, pubblico e privato, stato e società, rappresentano i binomi concettuali sui quali sarà edificata la teoria dello stato moderno e che tuttavia devono valicare una prima opposizione pratica, centrale nel pensiero hobbesiano, l’opposizione tra l’appropriazione e la forma proprietaria. L’appropriazione è in effetti il primo concetto che viene sottoposto a questa radicalizzazione. Essa viene difatti dapprima riconosciuta come il massimo dell’espressione fattuale dell’individuo; la sua definizione coincide con quella di un

anche J. Dunn, Democracy unretrieved, or the political theory of Professor MacPherson, in Political obligation, cit., pp. 206-216. Sulle interpretazioni del pensiero hobbesiano v. anche G. Sorgi, Hobbes: difficoltà di una interpretazione, in «Nuovi studi politici», 2, 1981, pp. 91-124.

66 Su Hobbes, si v. Leviatano, cit., oltre al capitolo XXI sulla Libertà dei sudditi (pp. 175 ss.), il cap. XXIX (pp. 263-266), laddove tra le «cose» che favoriscono la dissoluzione dello Stato vengono annoverati sia il giudizio privato del bene e del male e il riconoscimento di un diritto di proprietà assoluto ai sudditi. Più in generale v. T. Hobbes, Behemoth (a cura di O. Nicastro), Laterza, Bari, 1979, dove già nel primo dialogo la crisi e la guerra civile sono ricondotte al crisi del rapporto tra coscienza religiosa e obbligo politico e al venir meno dell’equilibrio nel governo feudale; e dove soprattutto dai ‘dialoghi’ si possono evincere posizioni filosofiche e politiche dello stesso Hobbes soltanto celate nella struttura linguistica utilizzata nelle altre opere. Inoltre v. anche A. Ryan, Hobbes and Individualism, in Hobbes, cit., III, pp. 24 ss., 42-48, estratto da G.A.J. Rogers, A. Ryan (a cura di), Perspectives on Thomas Hobbes, Clarendon Press. Su Locke v. invece J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 41-55, 235-246.

67 Se dunque non si adotta l’impostazione complessiva impressa da MacPherson, tuttavia si deve comunque concordare con quest’ultimo laddove riconosce che necessariamente la teoria hobbesiana dello stato di natura non è adatta ad una società fondata sullo status, e che d’altra parte si può riscontrare a posteriori che tale teoria si può invece adattare ad una società mercantile possessiva. Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 72-92. Peraltro, il fatto che una dottrina di questo tipo cerchi di dare una risposta ai mutamenti di una particolare fase storica attraverso un’impostazione ed una soluzione a-storica conferma l’astrazione fondativa della nuova legittimità moderna. Su questo punto v. però infra, Parte II, cap. II, par. 2.4, pp. 226-243.

68 Al contrario, in particolare per quanto riguarda Hobbes, è possibile cogliere in controluce, nella differente architettura delle sue opere e nel calibrato stile linguistico utilizzato, gli obbiettivi ‘a breve termine’ e dichiarati della sua trattazione da quelli ‘non dichiarati’ ma articolati organicamente e chiaramente nel corso delle sue opere. E’ il caso, ad esempio, del tema qui in esame della distinzione tra pubblico e privato. Nella contingenza storica l’esigenza di affermazione di questa distinzione si traduceva nella critica e delimitazione del campo di competenza dei corpi indiretti e nella delimitazione delle competenze e del ruolo dei funzionari pubblici. A questo scopo non a caso sono dedicati due capitoli susseguenti del Leviatano (cap. XXII e XXIII, pp. 187-204). D’altro canto però la distinzione tra i due campi si rivela puntualmente dall’analisi del testo ogni volta che si incontra la possibilità di un conflitto tra capacità individuale e ambito formale investito dalla positività della legge (ciò vale infatti sia per la sottomissione della proprietà al comando sovrano, sia per la possibilità sempre presente della coscienza interna del singolo di riversarsi nell’ambito pubblico quale fattore di destabilizzazione).

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appetito illimitato ed illimitabile, una volontà di dominio sulle cose che caratterizza l’intero stato di natura come stato di guerra, e che impedisce qualsiasi tipo di normazione morale o positiva su tale stato. Secondo questa impostazione la guerra è la diretta conseguenza dell’antitesi iniziale tra l’appetito illimitato e le risorse limitate69. Immediatamente però questo massimo di fattualità viene recuperato con un’eguale e speculare risposta formalista. La proprietà, da potenzialità illimitata del soggetto di appropriarsi autonomamente delle cose, fa riferimento ormai a un che di predeterminato formalmente; essa, in quanto ricondotta al di fuori di qualsiasi ordine morale e ridotta conseguentemente alla forma del comando astratto del sovrano, riesce a risolvere il dilemma del rapporto tra appropriazione e forma proprietaria, ma soltanto da un punto di vista formale70. Infatti, se da un lato con questa soluzione, come si vedrà, rimane nell’ombra l’azione giuridica fattuale portata avanti da una dinamica appropriativa non eliminabile, dall’altro lato si deve osservare come questa armonizzazione tra appropriazione e forma proprietaria, ovvero tra potere costituente e legge positiva, deve necessariamente passare per una riduzione dell’intero diritto a forma, e quindi per una privazione del carattere della positività dalla definizione del diritto naturale71. In particolare, questo tipo di soluzione implica una collocazione ben precisa del diritto di proprietà all’interno della costituzione. Essa viene collocata da un soggetto di carattere pubblico in uno spazio del privato, laddove quest’ultimo termine può agevolmente presentarsi come l’aggettivo che indica la privazione del carattere politico, giuridico e relazionale dello stato di natura dell’uomo, o di quello che resta al di fuori del campo di normazione di carattere pubblico. In questo senso la scissione tra pubblico e privato è irrevocabile, perché definita formalisticamente da questa esigenza di bilanciamento tra immanente giuridicità del diritto di natura e positività soltanto formale ed eteronoma della legge umana, ridotta di fatto alla volontà mutevole del sovrano. In questo modo comunque Hobbes dimostra l’unica maniera, benché formale, in grado di recuperare il massimo della fattualità con il massimo del positivismo. Questa parabola alla quale è soggetto il concetto di appropriazione riproduce la parabola del rapporto tra la verità delle cose e la loro forma nominalistica e immaginativa. E tuttavia, è bene precisare ancora, con ciò Hobbes non nega il carattere giuridico del fatto e dello stato di natura. Solamente fornisce una soluzione formalistica al dilemma del rapporto tra l’arbitrio del rapporto razionalmente definibile, ma immanente e variabile, tra le cose e la volontà innata di dominare le cose stesse; la conoscenza definibile soltanto nella forma della rappresentazione interna o esternamente nella volontà del sovrano, i possessi che si definiscono fattualmente sempre nella determinatezza della capacità reale di appropriazione, ma che ricevono validità giuridica o dall’alto della sanzione della volontà sovrana – laddove quindi il potere sovrano si contraddistingue per la capacità di tradurre positivisticamente il fatto, giuridico, in atto, titolo - o per mezzo dello strumento da questa delegato a regolare i rapporti tra privati: il contratto privato. L’equilibrio tra i due massimi viene così

69 Che questa contraddizione fosse nota ad Hobbes è ricavabile dal primo paragrafo del cap. XXIV

del Leviatano dove proprio dalla limitatezza dei beni della nazione viene fatta discendere l’importanza di un’equa distribuzione delle proprietà. Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., pp. 205 ss., 210 (dove viene affermata l’importanza delle colonie).

70 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 105-111. 71 Cfr. L. Strauss, Diritto naturale e storia, Neri Pozza, Venezia, 1957, pp. 168-200; cfr. anche N.

Bobbio, Hobbes e il giusnaturalismo, in Id., Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 2004, pp. 151 ss.

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ottenuto attraverso la loro compresenza reale, e allo stesso tempo per mezzo di una definizione positivistico-formalistica trascendente della legittimazione del titolo del possesso che presuppone alla propria base la riduzione del diritto positivo a forma72. In questo quadro il perno intorno a cui si regge l’intero sistema è costituito dal monopolio del sovrano della capacità di tradurre - quello che ormai è possibile definire - il fatto giuridico in atto, titolo giuridico. E’ pertinente quindi riconoscere con Strauss che questa capacità di traduzione costituisce il contrassegno della rivoluzione hobbesiana, nella misura in cui il concetto di potenza, nella doppia accezione di potestas e di potentia, viene posto in relazione con l’actus. «Potentia e potestas hanno questo in comune, che sono entrambi intelligibili per contrapposizione, e relazione, con l’actus: la potentia è ciò che l’uomo può fare in quanto ne è capace; la potestas o, più generalmente, il diritto dell’uomo, è ciò che egli può fare perché gli è permesso farlo73». E tuttavia con ciò non si fa che confermare la sostanziale indifferenza dei due concetti di potenza, come anche la sostanziale indifferenza giuridica tra atto e fatto, e consequenzialmente l’artificialità, l’arbitrarietà e la precarietà di un potere che si presenta come irresistibile soltanto in seguito ad un’ipostatizzazione formalistica, e dunque come un dover essere74. In ogni modo, questa capacità di tradurre nel linguaggio formalista il fatto in atto si concretizza nella capacità di individuare tautologicamente un limite artificiale tra pubblico e privato, laddove quest’ultimo risulta soltanto formalisticamente subordinato al primo nella predisposizione della figura del contratto privato quale titolo giuridico atto a garantire la legalità formale della circolazione proprietaria75. Secondo questa impostazione si può ricondurre l’intero positivismo hobbesiano ad un assioma dedotto da una base gnoseologica, la riduzione formalistica della realtà a rappresentazione76, e allo stesso tempo morale, il determinato rapporto tra intelletto e passioni nella creazione sia dell’appetito appropriativo sia dell’obbligo politico; assioma che permette di armonizzare l’illimitatezza della volontà appropriativa con l’accettazione dei limiti

72 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 98-102. 73 L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., pp. 193-195; v. anche su questo punto, Id., On the Spirit of

Hobbes’ Political Philosophy, in Hobbes, cit., pp. 258-284 in particolare le pp. 278-279, estratto da «Revue Internationale de Philosophie», IV, October, 1950.

74 Cfr. B. Spinoza, Etica parte IV, prop. 37, scolio 2, pp. 187-189. «Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e, di conseguenza, per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura (…) Affinché gli uomini possano vivere concordemente ed essersi di scambievole aiuto, è necessario che rinuncino al loro diritto naturale e si rendano reciprocamente sicuri di non far niente che possa riuscire di danno ad altri. In che modo possa accadere in realtà, che gli uomini, i quali sono necessariamente soggetti agli affetti, e incostanti e vari, possano rendersi scambievolmente sicuri (…) Vale a dire, un affetto non può essere impedito se non da un affetto più forte e contrario all’affetto da impedire, e ognuno si astiene dall’arrecare danno per timore di un danno maggiore. Essa (la società) ha perciò la potestà di prescrivere la norma comune del vivere, e di emanare leggi e di sostenerle, non con la ragione, che non può impedire gli affetti, bensì con le minacce». Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino, 2007, pp. 377 ss.; cfr. A. Negri, L’anomalia selvaggia, cit., pp. 140-150, 225-237; L. Strauss, la critica della religione, cit., pp. 220-232; A. Droetto, Introduzione a, B. Spinoza, Trattato politico, Giappichelli, Torino, 1958, pp. 85-94, 105-109; da ultimo v. R. Ciccarelli, Tantum juris, quantum potentia. Sulla teoria spinozista della potenza del diritto, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 3, 2008, pp. 457-488.

75 Cfr. N. Luhmann, La Costituzione come acquisizione, cit., con R. von Jhering, La lotta per il diritto, Laterza, Bari, 1960, in particolare le pp. 62-69, dove viene precisato che la lotta per il diritto privato eccede i limiti epistemologici della stessa scienza giuridica.

76 Sul ruolo del concetto di rappresentazione nella teoria del contratto hobbesiana v. infra par. 2.3.1, pp. 194-209.

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formalistici imposti dal legalismo della proprietà privata. In pratica, a fronte del carattere illimitato di pura potenzialità dell’appropriazione corrisponde l’assoluta indeterminatezza della realtà esterna. Viceversa, alla conoscenza del singolo definibile solo come pura rappresentazione e immaginazione, come forma, corrisponde una definizione eteronoma, trascendente e predeterminata di proprietà privata. L’armonizzazione di questo doppio rapporto gioca dunque proprio sul limite delle capacità condizionali dell’uomo, distorcendo però l’originaria natura molteplice e potenziale delle stessa capacità, nel momento in cui tale armonizzazione si traduce in una chiusura conclusiva del sistema in un determinata gnoseologia, in un particolare rapporto tra intelletto e passioni subordinato ad un’ipostatizzazione formalistica di tipo prescrittivo che pretende di rimodulare la potentia dell’ontologia secondo un nuovo paradigma funzionale77. Concretamente comunque, secondo Hobbes, se da un lato l’immanenza della produzione soggettiva delineata dalla dinamica conoscitiva e appropriativa non può essere eliminata, dall’altro può essere almeno formalmente privata della sua positività e politicità. La neutralizzazione del diritto naturale si concretizza nella dottrina hobbesiana per mezzo di una doppia delega in grado di colmare soltanto formalmente l’antitesi tra la volontà appropriativi e la sua forma proprietaria e dunque l’antitesi iniziale tra condizione di illimitatezza dell’appropriazione e limitatezza dei beni: da un lato il problema del carattere puramente potenziale e illimitato dell’appropriazione viene trasferito alla capacità dell’autorità di stabilire la giusta misura del mio e del tuo (nomos78); dall’altro la produzione della conoscenza, della verità in quanto attività connessa con il problema dei limiti della razionalità, - o più concretamente con i limiti della funzione di legittimazione politica - viene affidata totalmente al sovrano, risolvendo così l’immanenza dell’intero procedere in un sistema di completa trascendenza79. In effetti nonostante il formalismo che caratterizza il processo di ricomposizione dell’antitesi appropriativa e la configurazione di un nuovo paradigma di positività giuridica modellato su una piattaforma positivista, l’essenza e la materialità della produzione non vengono estromesse e negate del tutto dalla teoria politica hobbesiana.

77 Conseguentemente, se di fatto l’immanenza del flusso produttivo viene tolta dalla determinazione formalista ed eteronoma che nella pratica riduce la conoscenza a rappresentazione, nella misura in cui l’ipotesi annichilitoria può ribaltarsi nel suo contrario, ma in fin dei conti quest’ultimo rimarebbe comunque privo di senso, è doveroso allora domandarsi fino a che punto il pessimismo gnoseologico e antropologico hobbesiano sia capace di smarcarsi dall’impostazione cartesiana. Sulle differenze nella teoria della conoscenza dei due autori v. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi, cit., pp. 80 ss.; vedi anche Id., Il razionalismo del Seicento, Loescher, Torino, 1982.

78 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., pp. 206-207, laddove il concetto antico di nomos viene tradotto con il termine di legge, - sebbene riconosca che «gli antichi chiamavano nomos la distribuzione e definivano la giustizia il distribuire a ciascuno il suo - e dunque consequenzialmente come atto di posizione. Si può affermare che con questo paragrafo e il particolare significato ascritto al termine nomos, Hobbes chiarisce in modo definitivo i termini della traslazione a cui viene soggetto il problema dell’appropriazione: da potenzialità connessa con un’istanza di giustizia a legge definita dal concetto di forma. Sul punto v. C. Schmitt, Appropriazione/divisione/produzione, cit., p. 298, il quale nell’analisi del mutamente del concetto di nomos nella modernità muove proprio da questa rimodulazione del concetto operata da Hobbes.

79 Cfr. C.B. Machperson, Libertà e proprietà, cit., pp. 115-119, il quale considera un ‘errore’ dovuto ad un’analisi sociale sbagliata, la scelta di Hobbes per un sovrano ‘autoperpetuantesi’. Sembra bizzarro a questo punto, proprio sulla base dell’analisi di questo autore, non constatare come questa scelta sia in realtà una scelta obbligata dedotta dai suoi presupposti epistemologici e dalla sua particolare teoria della forma. Sul punto cfr. G. Duso, Rappresentanza politica e costituzione, in Id., La logica, cit., pp. 122-129, il quale parla di rappresentanza assoluta; cfr. infra Parte II, cap. II, par 2.3.1, pp. 194-209.

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Lo stato di natura e la volontà appropriativa, se formalmente costituiscono soltanto la condizione ipotetica di esistenza del sistema legale positivo, effettivamente continuano a ricoprire un ruolo produttivo immanente anche ‘dopo’ la costituzione del patto civile. In altri termini, l’aver relegato la materialità e l’illimitatezza della dinamica appropriativa e l’immanenza produttiva del diritto di natura in un ambito del privato, non può implicare praticamente la privazione effettiva della dimensione produttiva del diritto di natura e del carattere politico della dinamica appropriativa. Lo scopo esplicito della rimodulazione di un ambito di validità giuridica secondo il binomio atto/fatto corrisponde allo scopo della neutralizzazone della produttività giuridica del diritto naturale. Ancora, esplicitamente, tale neutralizzazione passa per l’ulteriore sanzione di un confine artificiale tra diritto e politica nel momento in cui Hobbes, nel Leviatano, riconosce le conseguenze esclusivamente politiche dell’instabilità nei possessi e dunque, al tempo stesso, la derivazione giuridica della proprietà individuale dalla concessione del sovrano. Implicitamente, questa rimodulazione segnata dalla distinzione tra atto e fatto giuridico comporta invece il riconoscimento della necessaria compresenza di due concetti di appropriazione: l’accumulazione primitiva e l’accumulazione ordinaria. Può essere scontato constatare che attraverso la forma giuridica della proprietà continui a vivere la sostanza dell’accumulazione originaria80. In questo senso il regime di proprietà si presenta come sanzione diretta del rapporto di dominazione, ed è evidente che questa constatazione si accorda con il corollario della sua concezione formalista e positivista per cui la coerenza interna di ogni potere sovrano deve indifferentemente fondarsi sul consenso e sulla forza81; e dunque si può affermare che la stessa riduzione della dinamica appropriativa alla forma legale di proprietà si basa poi concretamente sulla capacità materiale dell’autorità di far eseguire i propri comandi, di riuscire a dominare i processi di accumulazione selvaggia e di presentarsi così realmente come potere irresistibile e trascendente82. In realtà lo scopo della rimodulazione dell’ambito di validità giuridica secondo il binomio atto/fatto risponde proprio al riconoscimento dell’impossibilità di eliminare l’autonomia giuridica delle forme di accumulazione originaria. Scopo della neutralizzazione diventa materialmente non quello di privare del carattere politico e giuridico le dinamiche della società civile (sebbene sia ciò che accade formalmente), ma quello di rifunzionalizzare una determinata teoria dell’appropriazione, considerata descrittiva proprio perché posta come ipotetica e come qualcosa da rimuovere, al fine di stabilire un equilibrio funzionale di tipo unitario, ancorché meramente formale, nell’articolazione costituzionale dello spazio giuridico83. Da un punto di vista materiale, quindi, la collocazione delle dinamiche proprietarie e accumulative all’interno di uno spazio del privato va riportata al centro della dottrina costituzionale hobbesiana. In questo senso tale articolazione costituzionale non rappresenta che la figura capovolta discendente del processo di soggettivazione calvinista. Distinzione tra un ambito del pubblico e uno del privato modellata, da un lato, sulla spoliticizzazione delle questioni religiose attinenti al foro interno, e dall’altro,

80 Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 309 ss.; S. Mezzadra, La «cosiddetta» accumulazione

originaria, in AA. VV., Lessico Marxiano, cit., pp. 23 ss. 81 Cfr a questo riguardo la descrizione delle due modalità di istituzione del potere politico fatta da T.

Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXXI, p. 291 (il passo è citato supra alla nota 15, p. 62). 82 Cfr. A. Negri, L’anomalia selvaggia, cit., pp. 161-175, 225 ss. 83 Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano di Hobbes, cit., pp. 104 ss.

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sulla legittimità di un’autonoma vocazione nel campo professionale, possono essere ricomprese all’interno di questo modello hobbesiano nella misura in cui tutte queste attività vengono riconosciute espressamente dal sovrano come ambito di libertà individuale residuale. La rilevanza politica di questa dimensione soggettiva non va comunque considerata come speculare ad una dimensione più propriamente politica. Al contrario, è proprio la perpetuazione di questo tipo di soggettivazione immanente ma allo stesso tempo interna alla funzionalizzazione costituzionale che garantisce la possibilità (per Hobbes la sicurezza) di un tipo di obbligazione politica basata sul formalismo statalista84. Naturalmente però ciò che rappresenta il restante della libertà naturale per Hobbes, ovvero ciò che riceve legittimità da una fonte trascendente, rappresenta materialmente l’eccedenza non comprimibile all’interno di nessuna forma, l’immutabile e in continuo mutamento che in ogni momento può rovesciare il patto costituzionale, e la cui esistenza materiale non può essere negata dallo stesso autore85. All’irriducibilità ed eccedenza delle forme di accumulazione originaria, ovvero all’illimitatezza ed indeterminatezza della volontà appropriativa che pone in costante tensione l’antitesi originaria e che può in ogni momento causare la rovina del Dio mortale, Hobbes può rispondere soltanto con una soluzione del problema della positività che tenga conto della necessità di rifunzionalizzazione del sistema. Il problema dell’ordine coincide con quello della definizione di un nuovo paradigma delle legittimità politica. La necessità di un approdo ad una più ampia piattaforma condizionale si traduce così per Hobbes ‘soltanto’ in un più alto livello di astrazione formale. Soltanto rendendo indifferente il contenuto dell’obbligazione è possibile far fronte alla guerra civile di religione e soltanto relegando artificialmente le dinamiche appropriative in un ambito neutralizzato è possibile rendere il nuovo equilibrio proprietario elemento costitutivo e non sovversivo del nuovo ordine costituzionale. Se il primo passo verso questa direzione corrisponde alla predisposizione di un sistema giuridico formale in grado di governare un regime di proprietà legale basato sul contratto, il secondo tuttavia sarà rappresentato dalla predisposizione di un modello in grado di chiudere il sistema rendendo al corpo sociale la rappresentazione della propria essenza politica. E’ necessario che le volontà del corpo sociale di conoscenza, di appropriazione e di autodeterminazione soggettiva, soltanto apparentemente e formalmente depoliticizzate, esprima realmente la propria essenza politica. E’ a questo fine che una teoria della proprietà e dell’appropriazione necessita di una teoria del contratto sociale e della rappresentazione.

84 Fino a che punto il sistema hobbesiano costituisce un sistema chiuso formale autoperpetuantesi?

Ovvero fino a che punto si può considerare come definitivo il rovesciamento del rapporto tra immanenza e trascendenza operato da Hobbes? La necessità di un livello di produzione immanente del vincolo pattizio e della scissione funzionale tra interno ed esterno, tra pubblico e privato è sottolineata da R. Schnur, Individualismo, cit., pp. 89 ss. Cfr. anche C. Schmitt, Il concetto di «politico»: testo del 1932 con una premessa e tre corollari, in Id., Le categorie, cit., pp. 89-165, 193 ss.; cfr. infra, par. 2.3.1, pp. 194 ss., e par. 2.4, pp. 226-243.

85 Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano di Hobbes, cit., pp. 106, laddove attribuisce, non casualmente, a Spinoza il merito di aver riconosciuto il potenziale sovversivo insito nella capacità di ribaltamento da parte del singolo delle distinzioni tra foro interno e foro esterno e tra diritto pubblico e privato. Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., cap. XIX e XX, pp. 461-497.

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2.2.2. Locke. In Locke, diversamente, il carattere prescrittivo della premessa appropriativa deriva soltanto relativamente da una qualità morale, nella misura in cui quest’ultima qualità condiziona l’intera teoria politica tesa a individuare le condizioni di possibilità di un sistema di giustizia, ovvero di un sistema nel quale sia possibile armonizzare e minimizzare lo scarto tra il comando di Dio e la naturale passionalità negativa dell’uomo vittima del peccato originale86. Il problema per Locke diviene immediatamente quello di fornire una comune giustificazione alla possibilità di regimi differenziati della proprietà87. Nel caso inglese, rispondendo su questo argomento a Filmer, Locke afferma che non vi sono dubbi: l’esistenza di una proprietà comune può essere fatta risalire indifferentemente al passato immemorabile della costituzione prima della conquista o alla fase precedente la caduta88; in ogni modo ciò non vale a confutare la tesi che la proprietà privata non è tale perché concessa dal sovrano, – poiché altrimenti non se ne comprenderebbe il motivo di tale cessione, o gli effetti della conquista – ma al contrario dimostra perché la proprietà privata risponda all’esigenza di giustizia principale per cui si costituisce l’associazione civile89. La proprietà privata, in quanto prodotto dell’attività combinata, imposta dalla caduta, di appropriazione e lavoro, risponde precisamente all’obbiettivo di garantire all’uomo una possibilità di salvezza in uno stato di imperfezione90. Si può quindi considerare la teoria dell’appropriazione lockeana come diretta espressione della constatazione dell’antitesi irriducibile legata al concetto stesso di appropriazione, dell’antitesi tra la capacità in astratto illimitata di appropriarsi dei beni e la scarsità di questi ultimi, laddove la necessità del legame tra appropriazione, proprietà, lavoro, e la possibilità di regimi differenziati di proprietà segnala che per Locke lo stato di imperfezione dell’uomo in seguito alla caduta è ormai solo una constatazione di fatto91 che investe trasversalmente tutti i livelli dell’elaborazione politica a partire dallo stato di natura92. L’osservazione può apparire perfino banale e nonostante ciò segna

86 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 117 ss.; anche M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 259 ss. 87 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cap. V, § 25, pp. 258-259. 88 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cap. V, § 25,36, pp. 258-259, 266-267. Letteralmente l’attribuzione

della terra comune da parte di Dio indifferentemente ad Adamo e a Noè potrebbe far nascere un’ambiguità nel rapporto tra caduta e stato di natura. E’ quanto rileva Strauss, il quale afferma conseguentemente che «lo stato di natura, come Locke lo concepisce, non s’identifica né con lo stato di innocenza, né con lo stato dopo il peccato originale». L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., p. 213. A questo proposito v. però l’argomentazione di J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 122-128. Sul punto v. anche A. Cavarero, La teoria contrattualistica nei «Trattati sul governo» di Locke, in Il contratto sociale, cit., pp. 154-163, la quale, riprendendo proprio le peculiarità dei due autori appena citati, sottolinea la centralità del ruolo della caduta nella definizione dello stato di natura.

89 Cfr. J. Locke, Due trattati, cit., I, cap. VII (Della paternità e della proprietà insieme considerate come origini della sovranità), pp. 145-151, II, cap. XVI (Della conquista), §§ 175,184, pp. 383 ss. Cfr. con R. Filmer, Il Patriarca, cit., cap. III, §§ 9-18, pp. 493-536.

90 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cap. V, § 39 (Non il diritto privato di Adamo, ma il lavoro è origine della proprietà), p. 270. Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 84-95, 137-142; M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 253 ss, 262.

91 Cfr. M.P. Zuckert, Natural rights, cit., p. 278. 92 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 117-142; L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., pp. 213 ss., il

quale sottolinea l’ambiguità della lettera lockeana, laddove sembra accomunare indifferentemente il periodo di Adamo a quello di Noè. Cfr. A. Cavarero, La teoria contrattualistica nei «Trattati sul governo» di

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una sottile ma sostanziale differenza rispetto alla definizione hobbesiana. Come precisa John Dunn «Al posto della cruda antitesi tra una situazione nella quale tutto appartiene a tutti e una nella quale tutto appartiene ad Adamo ed ai suoi eredi, il mondo viene presentato come non appartenente a nessuno, ma disponibile all’appropriazione da parte di tutti93». Non si fa riferimento qui alla questione dibattuta se Locke riconoscesse o meno un diritto di appropriazione illimitato per determinate categorie sociali. Sicuramente, infatti, non è corretto interpretare il pensiero lockeano come una volontaria sanzione ideologica di una nuova strutturazione dei rapporti sociali94, sebbene il ruolo effettivamente ricoperto da questo pensiero all’interno del processo di sviluppo dei nuovi rapporti sociali è di fatto proprio l’oggetto qui in esame in quanto connesso a quello dell’individuazione storico-giuridica del contenuto del potere costituente. Dunque, la possibilità di regimi differenziati di proprietà non viene qui intesa come il prodotto di un’unica razionalità diretta dall’appropriazione illimitata95. Al contrario è la presenza di un tipo di razionalità differenziata che permette la possibilità di regimi differenziati di proprietà in un contesto caratterizzato dalla compresenza antitetica di un apprensione al possesso come potenzialità illimitabile e di risorse limitate96. La questione dell’armonizzazione di questa antitesi si articola così in due tipi di razionalità differenziata. Innanzitutto vi è uno scarto tra chi possiede le capacità per un’accumulazione e chi non le possiede, laddove con queste capacità non si intendono solo i possessi materiali, ma anche le stesse capacità di un’analisi sofisticata in ogni campo dell’attività umana. In questo senso si può dire che Locke riconoscesse che l’eguaglianza degli uomini in senso logico, ipotizzata nello stato di natura, rimanesse invariata, poiché derivata dalle potenzialità condizionali in astratto illimitate connesse con la natura umana, sebbene le stesse potenzialità in concreto, prima ancora che urtare contro le condizioni fattuali di disuguaglianza nei possessi, urtassero contro la determinatezza e l’ineguaglianza delle singole potenzialità condizionali e appropriative messe a lavoro97. Ma soprattutto, sul piano propositivo, Locke individua nella vocazione calvinista, nell’ascesi professionale, la categoria centrale dell’esperienza morale umana in grado di contenere l’appropriazione all’interno di un sistema di giustizia. L’associazione tra proprietà e lavoro diviene in questa maniera la condizione necessaria per la definizione dell’appropriazione98; non solo perché può indicare a posteriori, in che maniera storicamente il paradigma dell’appropriazione come autoproprietà della persona inizia a concretizzarsi99, ma perché in aggiunta ne indica la giusta collocazione morale nella Locke, in Il contratto sociale, cit., pp. 154-163, la quale, riprendendo proprio le peculiarità dei due autori appena citati, sottolinea proprio il ruolo della caduta.

93 J. Dunn, Il pensiero politico, cit, pp. 85-86. 94 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 84-85, dove viene precisato che Locke riconosce «che

l’attività – (di appropriazione) - in linea di principio potrebbe portare alla differenziazione della proprietà (non che questa sia una giustificazione sufficiente di tutte le differenze particolari nell’appropriazione o nel consumo, ma semplicemente una condizione necessaria per poter giustificare una qualsiasi differenza)» (pp. 84-85).

95 E’ questa una delle tesi principali dell’interpretazione di C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 262-271

96 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 291. 97 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 269-273, 291 ss. 98 Cfr. M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 259 ss. 99 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., p. 263. V. anche Id., The Social Bearing of Locke’s

Political Theory, in Locke, cit., I, pp. 63-84, estratto da Western Political Quarterly, VII (1), March, 1954.

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teoria politica lockeana100. Naturalmente la distinzione tra chi vive faticando secondo la propria vocazione e chi vive nel peccato e nell’ozio e nell’auto-indulgenza non garantisce che tutti gli attori sociali si comportino realmente correttamente, - (anche tale garanzia paradossalmente sarebbe constatabile soltanto empiricamente sulla base dell’indagine storica laddove si rileva la dimensione etica del processo di soggettivazione calvinista) - o che vi sia un’eguaglianza nella stratificazione sociale, o ancora che si possa armonizzare l’antitesi originaria; e tuttavia ciò è sufficiente a garantire all’appropriazione un livello di legittimità morale equilibrato tra i due poli della libertà e del dovere morale101. Tuttavia, se sul piano della costruzione dottrinaria questa elaborazione si può considerare efficace, soprattutto se si considera il contesto puritano entro il quale si sviluppa l’idea di patto e di nuova divisione sociale del lavoro, viceversa sul piano pratico non si dimostra in grado di armonizzare l’antitesi iniziale, ma al contrario sembra aggiungere all’opposizione originaria la contraddizione costituita dal carattere morale della definizione di appropriazione e la sua essenza concreta di pura potenzialità materiale. In definitiva, infatti, questa razionalità differenziata in quanto descrive un dover essere dell’appropriazione può confermare lo sfondo teologico e le vere intenzioni di Locke102, e dunque può smentire completamente la volontà di Locke di sancire un regime di accumulazione selvaggia, sebbene non escluda la possibilità effettiva di quest’ultima, confermando però in questo modo implicitamente l’antitesi originaria103. E tuttavia, se è corretto sostenere che l’elemento distintivo della teoria politica di Locke è in realtà una trasposizione della sua teologia, ma che ciò costituisce solo il suo inizio e non la fine della sua analisi104, allora sarà necessario chiarire l’obbiettivo pratico perseguito con la teoria della proprietà e dell’appropriazione. D’altra parte, infatti, ciò che ricopre sul piano teologico la caduta nella giustificazione della proprietà, viene sviluppato ancora più efficacemente dal punto di vista della teoria della conoscenza. Lo scetticismo epistemologico105 che caratterizza la teoria della conoscenza lockeana si può in effetti articolare secondo due direzioni convergenti. Da un lato Locke riconosce che la conoscenza si basa essenzialmente sulla capacità riflessiva del soggetto. La riflessione è la facoltà di operare collegamenti arbitrari, ma anche «la capacità di dare una forma alle impressioni sensibili106». Secondo questa prima direzione, quindi, la realtà esterna si presenta come oggetto, seppure la comprensione della sua natura rimane il vero enigma, il resto non compreso e incomprensibile, accessibile soltanto ad una rappresentazione intuitiva e sempre sfuggente da parte del soggetto nell’idea di sostanza. Dall’altro lato, infatti, la critica del concetto di sostanza conferma l’impossibilità del raggiungimento di un sapere assoluto, della verità delle cose; come se la realtà esterna, la natura, continuasse, nonostante l’azione soggettiva, ad avere una natura concettuale indipendente tale da garantirle un’autonoma e indipendente sussistenza per sé; sebbene tuttavia ciò non impedisca al

100 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 284-291. 101 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 250, 260. 102 Il carattere morale e trascendente della base del diritto di natura in Locke è sottolineato anche da

M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 204-215. 103 Sull’effettivo rapporto tra appropriazione, lavoro e terre disponibili e ruolo del denaro e della

corruzione v. infra, pp. 192-194, 223-226. 104 J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 107 ss. 105 L’espressione è di J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 296; vedi anche Id., The British Empiricists,

Oxford University Press, Oxford, 1992, in particolare le pp. 61-83. 106 E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, cit., p. 284.

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tempo stesso il riconoscimento di una volontà immanente di conoscenza del soggetto tale da determinare che la realtà stessa continui a presentarsi come oggetto sottoposto all’attività riflessiva107. Così, dopo aver dimostrato l’impossibilità di un sapere deduttivo assoluto, il concetto di sostanza come limite dell’indagine, permette comunque di articolare una costruzione gnoseologica in grado di riunire le due direzioni speculative. All’interno di questo quadro, il primato dell’esperienza e dell’empirismo rappresenta una scelta tanto più efficace in quanto dettata dalla necessità; scelta che comunque non implica il postulato della completezza metodologica, poiché discende proprio dall’impossibilità di tale completezza, e che al contrario risponde alle esigenze del necessario principio della ragion sufficiente imposto dalla stessa inevitabilità del procedere riflessivo del soggetto108. L’insondabilità della verità assoluta di Dio si trasforma: da postulato dogmatico diviene principio descrittivo della ragione109 dal quale si ricava il postulato assiomatico della sufficienza della ragione nel perseguimento dell’utilità comune, e della conseguente inutilità delle questioni speculative non attinenti a questo scopo110. La possibilità di un contratto vincolante per gli individui si ricava già da questi postulati, nella misura in cui questa possibilità è determinata dallo stesso carattere convenzionale e non assoluto, ma al contempo necessario, dello stesso contratto111. Conseguentemente la riflessione, in quanto anello di congiunzione che determina la relazione tra soggetto ed oggetto, resta l’elemento che conferma il carattere artificiale e mai definitivo delle forme di conoscenza. Infatti, il concetto di rappresentazione interna, come in Hobbes, conferma la parzialità e artificialità della conoscenza; soltanto, mentre in quest’ultimo assume un carattere assoluto, fino a determinare in maniera nominalistica e meccanicistica la neutralizzazione totale della realtà, al contrario in Locke continua a fare riferimento a quella parte di realtà sfuggente e non rappresentata nell’immaginazione112. In ogni modo, se le conseguenze di questa impostazione sugli aspetti del contratto e del patto costituzionale saranno analizzati in modo più approfondito in seguito113, è necessario viceversa stabilire le ricadute di questa impostazione sul concetto di appropriazione. In verità, il problema reale al quale si trova di fronte Locke è la questione della possibilità di individuare una teoria della legge positiva, e quindi una teoria della forma,

107 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, cit., pp. 267-311. 108 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, cit., pp. 261-263, 295-297. 109 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 115, il quale afferma che la dimostrazione dell’esistenza di

Dio condotta da Locke per mezzo di «un’infelice matrimonio di un argomento naturalistico con uno ontologico, sia di grossolana incoerenza». Come sottolineato da Dunn in nota è possibile affermare che se questa unione segnala la volontaria ricerca di un gioco di parole teso alla produzione di un linguaggio comune in grado di esercitare un’egemonia culturale e politica, allora il fallimento di questa impostazione segnala la particolarità irriducibile ai paradigmi della modernità del pensiero di Locke.

110 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, cit., pp. 261-263, 289 ss.; Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 114-115, il quale osserva, «l’assioma centrale del pensiero di Locke (…) è che «la candela che è posta in noi brilla con sufficiente luce per tutti i nostri scopi» (…) Poiché, assunta in tal modo l’esistenza di un creatore divino, abbiamo allora il diritto ipotetico di supporre al tempo stesso la sua benevolenza e la sua efficacia; che tutto ciò che è stato creato lo è stato in vista di un bene e che creando Dio non fece nulla invano; possiamo dunque supporre il principio di ragion sufficiente (…) Di qui l’altro assioma centrale della teoria politica di Locke, il dovere di massimizzare la preservazione e la sua strana conseguenza, l’iniquità dello spreco».

111 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 21-29. 112 Cfr. E. Cassirer, Il problema della conoscenza, II, cit., pp. 305-306. 113 V. infra par. 2.3.2, pp. 209-226.

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a partire da queste premesse gnoseologiche, compatibile in primo luogo con una definizione di appropriazione secondo il regime di razionalità morale qui delineato, e che effettivamente nella peggiore delle ipotesi può anche ridursi alla sua definizione in senso materialistico di pura apprensione al possesso114. La soluzione di questo problema, benché mai definitiva e sempre precaria come sono le soluzioni umane per Locke, viene trovata da un lato inquadrando la teoria dell’appropriazione all’interno di un contesto morale più ampio, ovvero collocando il ruolo della proprietà all’interno dei fini del contratto sociale, e dall’altro vincolando la validità di quest’ultimo a dei presupposti di legittimità sostanziale115. Una soluzione di carattere formalista del problema della limitazione effettiva dell’appropriazione per Locke è impossibile. Innanzitutto a causa delle sue premesse teologiche e della conseguente teleologia alla quale il concetto di proprietà si lega. E’ già stato dimostrato a tale proposito come su questo terreno i limiti di natura morale predisposti dal modello di razionalità differenziata potessero effettivamente predisporre un campo di possibilità variabile. Da un lato vi è la possibilità di una vocazione universale, etica, e costante nel tempo; dall’altro la possibilità sempre latente di un’apprensione illimitata al possesso autofondata unicamente sulla stessa potenzialità condizionante dell’uomo. L’unica possibilità realisticamente prevedibile in questo scenario è quella costituita dalla particolarità e determinatezza delle capacità messe a lavoro e la conseguente impossibilità materiale infinita di appropriarsi del cosmo, possibilità che tuttavia non risulta in grado di garantire aprioristicamente la ricomposizione dell’antitesi tra la volontà di accumulazione e il carattere limitato dei beni terreni116. In questo senso l’etica calvinista sembra essere non solo il modello entro il quale inquadrare la teoria lockeana dell’appropriazione, ma l’autentico modello politico capace di garantire l’accettazione dell’obbligo politico per mezzo di una teodicea secolarizzata, sebbene al tempo stesso tale accettazione si misuri in relazione alla capacità nel tempo di vincolare le azioni degli individui da parte di un’ideologia religiosa progressivamente sospinta nell’ambito del foro interno117. Ancora più radicalmente però sono le premesse gnoseologiche ad indicare l’origine dell’enigma dell’appropriazione e a fornire al tempo stesso la chiave di lettura in grado di spiegare in che senso il problema della positività della legge possa essere risolto da Locke solamente su un terreno diverso da quello formalista hobbesiano. L’origine della volontà di conoscenza dell’uomo non è costituita da una scelta, ma bensì è il frutto di una relazione che avvolge soggetto e oggetto, l’uomo e la natura; relazione che è impossibile eludere o addirittura eliminare. Per Locke, non solo non è possibile togliere

114 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 239. 115 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 143-172, 193-217. Su questo punto diffusamente infra par.

2.3, pp. 216, 221 ss. 116 In questo senso l’interpretazione di M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 259-272, il quale

riconduce alla finitezza empiristicamente determinata delle capacità di appropriazione attraverso il lavoro la possibilità di una riconciliazione tra l’origine trascendente e teologica del diritto naturale alla proprietà e la necessità che tale diritto risponda veramente alla necessità di «accettazione dell’ingiustizia». V anche R. Ashcraft, Lockean ideas, poverty, and the development of liberal political theory, in J. Brewer, S. Staves ( a cura di), Early Modern Conceptions of Property, Routledge, London, 1995, p. 45.

117 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 21-39, 114-115, il quale già nella prima parte del suo lavoro di ricerca inquadra il pensiero lockeano tra i due poli costituiti dalla tensione dell’uomo verso Dio e della natura cognitiva dell’agire umano. E’ la possibile divaricazione tra questi due poli che costituirebbe l’enjeu della filosofia politica di Locke. Cfr. anche M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 198 ss.

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uno dei due termini, la realtà, al fine di rendere la conoscenza autonoma e indipendente poiché formale e meramente rappresentativa, ma è proprio la particolarità di questa parte della relazione, l’eccedenza e l’inafferrabilità della sostanza che determina la particolarità e la determinatezza del formalismo gnoseologico accessibile all’individuo; ossia è questa eccedenza che conferma l’impossibilità di vincere la relazione da parte di uno dei due poli: il soggetto. E’ evidente che in questa maniera, da un punto di vista teologico, - se non fosse che tale punto di vista viene relegato dallo stesso Locke sul piano del foro interno -, il rapporto tra la capacità di autoriflessione e le forme della positività non è dissimile dal razionalismo medievale nella misura in cui la natura e lo stato di natura sono governati da leggi proprie che non sono altro che le leggi di Dio118, e nella misura in cui l’imperfezione della razionalità umana nella conoscenza di tale leggi si associa con lo stato compresente di peccato e di libero arbitrio che caratterizza la vita terrena dell’uomo. Tuttavia, lo scarto con questa concezione è segnato irrimediabilmente: innanzitutto nel momento in cui viene riconosciuta l’essenza cognitiva dell’agire umano119; in secondo luogo nel momento in cui la dimensione di libertà dell’individuo non si determina in misura del grado di accettazione – seppure razionale – dell’universitas ordinata, ma viene determinata in maniera dinamica e contingente dalla capacità del soggetto messo a lavoro di esercitare una tensione nella relazione con la realtà, e di potersi così autocollocare nel cosmo per mezzo della propria attività di dominazione e appropriazione120. Conseguentemente, l’obbiettivo non può essere la conoscenza della verità sostanziale, ma al contrario deve essere rappresentato dalla vera conoscenza delle leggi della natura utili al mantenimento della tranquillità del vivere comune. In questo contesto e da queste premesse, ogni legge, anche la certezza più evidente, in quanto rivelazione di Dio all’uomo attraverso la ragione, deve essere considerata nella sua qualità formale e fittizia di rappresentazione dell’immaginazione soggettiva dell’individuo. Così, come questa autorivelazione non è disciplinabile in modo eteronomo e formalista, poiché fa riferimento ad una potenzialità connessa con la natura umana e la sua autonomia, - ed è proprio perciò essa stessa forma, legge naturale e positiva in quanto massimamente efficace -, così l’appropriazione non si può classificare in modo arbitrario secondo la scissione tra accumulazione originaria e accumulazione ordinaria. In questo senso, l’efficacia giuridica della legge naturale posta come fine del sistema lockeano corrisponde al limite trascendentale cui deve tendere la positività della legge umana, limite che pone quale presupposto la non scindibilità tra i due tipi di accumulazione, ossia il fatto che la proprietà viene posta come presupposto precontrattuale, come prescrizione legalistica e come fine dell’istituzione del patto121. La volontà di appropriazione, infatti, è quella volontà che sul piano pratico corrisponde alla dimensione effettiva di libertà del soggetto, ossia all’estrinsecazione

118 Tuttavia, il problema della conoscenza dell’esistenza di Dio viene ribaltato; infatti ora non è

presupposta la sua esistenza fino a prova contraria (per assurdo), ma al contrario la sua esistenza viene presupposta in forza dell’impossibilità della sua dimostrazione razionale. Di seguito, è tale presupposto teologico che si accorda logicamente con l’altro presupposto della filosofia politica lockeana: il presupposto della naturale eguaglianza di tutti gli uomini. Cfr. a riguardo L. Strauss, Locke’s Doctrine of Natural Law, in J. Dunn, I. Harris (a cura di), Locke, Elgar, Cheltenham, 1997, pp. 130-132, estratto da «American Political Science Review» LII (2), June, 1958.

119 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 38. 120 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 107-115; L. Strauss, Diritto naturale e storia, cit., pp. 226 ss. 121 Cfr. L. Strauss, Diritto naturale, cit., pp. 219 ss.; C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 229

ss.

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della libertà individuale definita come autoproprietà di sé nella capacità materiale del soggetto di appropriarsi e di trasformare con il proprio lavoro il mondo circostante, e quindi di stabilire dei rapporti giuridici intersoggettivi. In primo luogo, il problema del contenimento di questa volontà all’interno dei limiti morali coincide con il postulato della insufficienza, inadeguatezza e inutilità di un criterio formalista e trascendente al fine di risolvere il problema della positività delle legge. Positività della legge non equivale assolutamente ad immettere una torsione formalista e trascendente nel sistema, poiché se è vero che si tratta di neutralizzare il ruolo fondativo ricoperto dal contenuto morale nell’obbligazione politica, altrettanto vero è il fatto che un tentativo di neutralizzazione in senso formalista si rivelerebbe artificiale quanto però inefficacie al fine di una nuova garanzia di ordine politico. Per Locke, dunque, artificialità e naturalità della conoscenza sono le due facce della stessa medaglia, di una stessa volontà condizionante dell’uomo non scindibile neanche solo logicamente in un momento della produzione e in uno della costituzione della forma, in un momento dell’accumulazione originaria e in uno della sua formalizzazione legalistica. In Locke non ci può essere uno scarto tra la potenzialità di appropriazione e la produzione effettiva delle forme, così come la coppia naturanaturans e naturanaturata sebbene non indichi la legge specifica di causalità tuttavia chiarisce un punto di non ritorno per la razionalità giuridica: la completa immanenza della produzione dei rapporti di diritto. Al contrario quindi, il carattere aleatorio e variabile delle singole leggi dipende proprio dall’intrinseca dimensione immanente della produzione, e dalla conseguente positività intrinseca al diritto naturale122. Questa dimensione di immanenza che Hobbes riconosce giustamente come ineliminabile, ma che considera al tempo stesso talmente pericolosa da essere neutralizzata con una negazione dialettica per mezzo di una torsione trascendente e formalista, in forza della quale poter estromettere il contenuto morale e contingente dell’agire umano dalle condizioni di edificazione artificiale della legittimità, viene riconosciuta da Locke come la condizione della libertà e il fine dell’associazione civile123.

Il diritto di natura non subisce dunque una sua riduzione al summum malum come in Hobbes, ma diversamente riceve una qualificazione giuridica in senso positivo, laddove il suo contenuto variabile ed aleatorio, - carattere è bene precisare che tuttavia non impone di considerare lo stato di natura come stato di guerra ma solamente come una situazione di maggiore precarietà rispetto a quella che garantirebbe un’associazione civile124 -, si accorda con la base immanente e soggettiva della produzione del diritto per costituire l’elemento di garanzia del sistema positivo della legge. Se, infatti, da un lato il carattere disciplinare di tale diritto di natura può fare riferimento ad una qualità morale del soggetto, e dunque non può essere condizione d’ordine del sistema presa in sé stessa come limite condizionante l’agire del singolo, dall’altro è proprio la

122 Cfr. L. Strauss, Diritto naturale, cit., pp. 219-245, 193-195. 123 La dimensione immanente e l’impossibilità di una ‘vera’ conoscenza della legge di natura sono

sottolineati anche da M.P. Zuckert, Natural rights, cit., pp. 195-204. 124 In effetti la guerra è soltanto un possibilità che si allontana progressivamente man mano che gli

uomini si uniscono in una retta società politica. Ancora una volta però è Spinoza a spiazzare le concezioni di guerra qui delineate. Infatti, se similmente a Locke, Spinoza definisce lo stato di guerra come possibilità, tuttavia quest’ultimo si allontana dalla visione lockeana nella misura in cui l’incomprimibilità del diritto naturale rende perpetua e latente tale possibilità all’interno dello stato civile, permettendo così, infine, di richiamare anche la diversa definizione di guerra hobbesiana. Cfr. J. Locke, Due Trattati, cit., II, §§ 16-21, pp. 250-254; con B. Spinoza, Etica, IV, prop. 34 e dim., pp. 182-183; con T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XVIII, pp. 145-153, cap. XXVIII, pp. 254 ss.

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predisposizione di questo tipo di libertà e di agire umano basato sul concetto di appropriazione a caratterizzare tale diritto di natura non come fattore sovversivo ma come possibile limite d’equilibrio del sistema, nella misura in cui, in ogni caso, la legittimità politica, da un punto di vista generale, si può attestare solamente sul un piano contingente e al contempo massimamente efficace determinato della produzione del consenso al patto sociale125. In definitiva, infatti, seppure l’intera architettura lockeana della proprietà e del contratto debba essere interpretata in forza della sua qualificazione morale e del legame con l’etica puritana della vocazione, tuttavia la prima condizione d’ordine, ossia l’armonizzazione tra la potenzialità illimitata di appropriazione e il carattere limitato dei beni, viene soddisfatta sulla base di un’esigenza materiale alla quale il sistema non può che essere costantemente subordinata. Paradossalmente, quindi, l’ascrizione del carattere della positività al diritto di natura e la predisposizione della tutela di quest’ultimo quale fine della costituzione dell’unione civile non può essere considerato come un fattore di destabilizzazione del sistema positivo, ma al contrario come l’autentica garanzia del carattere equilibrato e limitato del costituzionalismo. E’ proprio il legame tra positività del diritto naturale, proprietà come bene da tutelare, e ruolo del consenso nella definizione dell’unione politica che permette una armonizzazione dell’antitesi iniziale efficace perché in grado di prescindere dalla qualità morale dell’obbligazione. In pratica, la possibilità materiale di un’appropriazione selvaggia sebbene non scongiurabile si comprime di fatto da sola, nella misura in cui un squilibrio nella proprietà sarebbe sicuramente causa materiale di un regime tirannico e della conseguente rivoluzione. E tuttavia, anche in questo caso si deve osservare come il limite all’appropriazione individuabile sia definibile soltanto empiricamente dal carattere finito e particolare della capacità individuale messa effettivamente a lavoro, mentre per quanto riguarda il principio di legittimazione che anima tale attività, si deve ancora una volta osservare, come, al contrario, quest’ultimo si dipani in funzione dello stimolo e dello sviluppo della facoltà, - in quanto pura potenzialità -, del soggetto di appropriarsi e trasformare la realtà esterna; dunque in misura della possibilità potenziale e sempre imminente di superare il limite esterno. In ogni modo, è a questo punto che torna a fare la propria comparsa il problema della corruzione. Anche qui la linearità opera una sovradeterminazione che, pregiudicando la ciclicità del moto, afferma l’intrinseca corruzione dei regimi moderni. La causa di questa linearità e della corruzione, entrambe riconducibili alla caduta, vengono attribuite da Locke al crescente ruolo del denaro e del debito nell’economia degli Stati126. La connessione tra questi due segni, denaro e debito, fa saltare il dualismo tra forma e materia intorno al quale, come si è visto, ruota l’intera teoria lockeana127; il denaro, nella forma del debito, permette infatti la costituzione stessa del denaro come forma di accumulazione, aprendo la via, così, ad una forma di appropriazione illimitata

125 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 143-171. 126 Cfr. J. Locke, Due Trattati, cit., II, §§ 47-51, pp. 275-278. 127 In ogni modo, a questo punto è possibile cfr. la diversità di questo nuovo sistema di equilibrio

funzionale prospettato da Locke con il modello dell’equilibrio harringtoniano. Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 723-741; Id., Machiavelli, Harrington and English Political Ideologies in the Eighteenth Century, in Politics, Language and Time. Essays on political thought and history, Methuen, London, 1972, pp. 108-111; J. Harrington, La repubblica di Oceana, cit., pp. 104 ss., per il quale, non a caso, il denaro acquista un ruolo centrale nel sistema dell’equilibrio repubblicano soltanto nelle città sprovviste di terre come l’Olanda o Genova.

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paradossalmente legittimabile anche moralmente128. Naturalmente non si può ricondurre interamente a questo passaggio la causa di una corruzione iniziata con la caduta129; e tuttavia si vuole sottolineare come la forma denaro determini un’alterazione non ricomponibile secondo la teoria lockeana nel rapporto tra soggetto e oggetto, tra l’individuo e la proprietà frutto del suo lavoro, tra forma e materia, tra l’uomo e la natura, e conseguentemente come si vedrà più avanti nel rapporto tra le dinamiche sociali e appropriative e necessità di una loro rappresentazione politica. E’ su questo nuovo ruolo del denaro non a caso che si appunta la possibilità che i regimi moderni si contraddistinguano sempre di più come regimi dispotici basati sul consenso tacito, la corruzione e l’ignoranza130. E tuttavia si deve constatare che tale possibilità non elimina comunque la materialità del circuito tra equilibrio nell’appropriazione e unione politica messo in campo da Locke; semmai tale possibilità da un lato, aumentando il carattere antagonistico e conflittuale della determinazione dell’equilibrio repubblicano, amplificherà il ruolo e quindi la necessità di tale circuito, sebbene dall’altro lato farà declinare completamente il ruolo della morale nella definizione di un equilibrio ormai strutturalmente contrassegnato dalla corruzione. E’ in questo senso che viene confermata la tesi che il pensiero lockeano si presenta come dottrina morale soltanto nella misura in cui quest’ultima tenta di stabilire le condizioni del massimo sviluppo dell’utilità comune.

2.3. I concetti di contratto e rappresentazione alla base della costituzione come struttura funzionale.

2.3.1. La rappresentanza assoluta hobbesiana. La capacità esclusiva attribuita al sovrano di tradurre il fatto in atto giuridico è, come si è visto, il perno del sistema razionalista-formale hobbesiano. Tuttavia, di fatto, vi deve essere una condizione materiale che garantisca l’effettività della chiusura formale dell’ordinamento, o, in altri termini una condizione che scongiuri la crisi logica del sistema giuridico e politico: il sovrano si deve stagliare al di sopra del corpo politico come persona naturale131. L’ontologia costitutiva, il potere costituente, pone questa

128 La questione alla quale è bene accennare immediatamente non consiste nell’individuare una supposta volontà lockeana di sancire la legittimità del nascente ordine capitalistico, ma più profondamente tentare di comprendere come un determinato pensiero, indubbiamente inserito in un contesto di una società tradizionale e precapitalistica, abbia potuto produrre nel tempo un effetto in estensione ed intesità tali da essere determinante per la generazione di una nuova struttura concettuale. Cfr. E.J. Hundert, Market Society and Meaning in Locke’s Political Philosophy, in Locke, cit., I, 349-360, estratto da Journal of the History of Philosophy, XV, (1), Gennaio, 1977.

129 Cfr. L. Strauss, Diritto naturale, cit., pp. 212-215; J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 723 ss, 738-741.

130 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 163-172, 193-217. 131 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., Parte I cap. XIX, §§ 4-5, pp. 157-159; Id., Leviatano, cit., cap.

XXVIII, pp. 254 ss.; L. Strauss, Che cos’è la filosofia politica?, cit, pp. 332 ss.; C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 70; cfr. A. Biral, Hobbes: la società senza governo, in Il contratto sociale, cit., pp. 90 ss.; Y.C. Zarka, Hobbes and the Right to Punish, in Hobbes. The Amsterdam Debate, cit., pp. 71-87; cfr. anche M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 206 ss.; sul diritto di punire in Hobbes cfr. anche F. Cordero, Riti e sapienza nel diritto, Laterza, Bari, 1981, p. 112.

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condizione alla costituzione del potere politico: il Leviatano è la personificazione della costituzione perché fonte monopolistica formalisticamente e gerarchicamente ordinata delle distinzioni e della disciplina tra foro interno ed esterno, tra diritto pubblico e privato, a patto che tale personificazione sia in grado di presentarsi materialmente nella sua essenza di potere non limitabile e irresistibile, ossia, esso si deve presentare come lo stesso potere costituente132. E’ con Hobbes che i tre presupposti dell’antropologia individualista, della fondazione razionale dell’obbligo politico, e della costituzione come contratto, si tramutano immediatamente nei tre elementi del potere costituente moderno. Se infatti, ancora materialmente, sono i primi ad essere realmente consegnati dalla teoria hobbesiana alla storia della modernizzazione inglese133, formalmente, l’intento di questa teoria politica è determinare in modo eteronomo e trascendente un contenuto predeterminato e definitivo di questi presupposti, in modo da poter ingabbiare la potenzialità di produzione giuridica multiforme e non ordinabile gerarchicamente all’interno di un sistema chiuso e piegato dalla predeterminazione formale, ma in grado allo stesso tempo di dare espressione e rendere effettiva (attraverso il dar forma) la potenza originaria in maniera discendente134. La pretesa hobbesiana, agilmente evitata dalla storia politica inglese, è quella infatti di tramutare immediatamente l’antropologia individualista in una teoria della personalità giuridica individuale dedotta dalla legittimità del sovrano135; la razionalità nell’obbligazione politica dalla coercizione positivistica; l’unità della costituzione dal formalismo giuridico e non dalla reale divisione funzionale della nuova struttura costituzionale136. La struttura concettuale della costituzione e del costituzionalismo moderni prendono forma da questo tipo di elaborazione insieme alla loro contraddizione interna determinata dal potere costituente137. Secondo questa impostazione, il limite per cui non è possibile parlare di un costituzionalismo hobbesiano – fermo restando la possibilità di inquadrare il suo pensiero all’interno della riarticolazione funzionale della costituzione nella maniera qui adottata - diviene un limite artificiale volutamente ricercato dallo stesso Hobbes138. Da un lato vi è un’assiomatica che afferma

132 Cfr. A. Biral, Hobbes: la società senza governo, cit., p. 80, e cfr. G. Duso, Fine del governo e nascita del potere, cit., pp. 69 ss.; Id., Rappresentanza politica e costituzione, cit., pp. 122 ss., i quali parlano espressamente di potere costituente in riferimento alla teoria hobbesiana del rapporto tra sovrano e corpo sociale.

133 Infra, pp. 208-209, e par. 2.4, pp. 226-243. 134 In questo senso l’espressione schmittiana che riconosce nel sistema hobbesiano «un sistema

aperto alla trascendenza» sembra essere la più appropriata per descrivere il rapporto tra immanenza e trascendenza e tra materialità del diritto di natura e formalismo giuridico nella teoria di Hobbes. Cfr. C. Schmitt, Il cristallo di Hobbes, cit., 157-158; cfr. anche L. Strauss, Che cos’è la filosofia, cit., pp. 335 ss., dove viene specificato come il limite della filosofia politica hobbesiana sia costituito dalla contemporanea costruzione di un potere artificiale sulla base di presupposti interamente convenzionali e sulla necessità di un legame immanente con l’originario stato di natura.

135 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., in particolare le pp. 17-40, 69 ss, 201 ss, il quale nella ricostruzione della modernizzazione illuministica continentale muove appunto dalla contraddizione interna di questo modello di sviluppo assolutista basato sull’attribuzione eteronoma del confine tra interno ed esterno, e quindi, è possibile aggiungere, su un preventivo soffocamento del potere costituente nella teoria dello stato di eccezione.

136 Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano, cit., pp. 115-124. 137 Cfr. G. Duso, Storia concettuale, cit., pp. 19-27; Id., Rappresentanza politica, cit., pp. 122 ss. 138 Cfr. N. Matteucci, voce Costituzionalismo, cit., pp. 202 ss.; cfr. anche Q. Skinner, Hobbes and the

purely artificial person of the state, in Hobbes and Civil Science, cit., pp. 207-208, V. anche M. Fioravanti, Stato: dottrine generali e storiografia, in Stato e Costituzione, cit., pp. 53-74.

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l’impossibilità della violazione dei patti e la perfetta chiusura gerarchica del sistema di diritto139; dall’altro vi è una materialità che impone di riconoscere che la validità del patto dipende sempre dalla sua efficacia140, ovvero che i patti senza la spada sono nulli, e che quindi il sovrano, paragonato al mostro biblico, si contraddistingue per la facoltà libera e il diritto monopolistico di violare la legge e di muover guerra141. In questo senso l’opposizione tra la teoria hobbesiana e il carattere limitato del costituzionalismo moderno è solo apparente – non solo perché si potrebbe dimostrare la formalità del limite di quest’ultimo142 -: la coerenza dell’impostazione impone ad Hobbes di riconoscere già il limite oggettivo di quel tipo di costituzione ordinata secondo il materialismo ipotetico dei corpi, limite colmabile soltanto formalmente per mezzo dell’attribuzione monopolistica della facoltà di cambiare la costituzione stessa, ossia attraverso una deroga sostanziale allo stesso convenzionalismo. Materialmente viene tenuta ben presente da Hobbes la possibilità sempre imminente che il Dio mortale e con esso la forma istituzionale e giuridica vengano travolti dal caos e dal conflitto143. E’ possibile affermare, dunque, che la struttura della costituzione moderna nasca in modo consustanziale ai tre elementi del concetto moderno potere costituente e in modo consustanziale alla degenerazione e compressione dello stesso potere costituente moderno nella teoria dello stato di eccezione144. Sovranità e potere nello stato di eccezione, costituzione e potere costituente formano un’identità nella teoria hobbesiana del contratto145. E’ bene ribadire però che questa identità è possibile grazie all’ipostatizzazione formalistica della capacità di tradurre il fatto in atto giuridico. L’identità è tale soltanto in forza dell’equazione tra potentia, potestas e actus, laddove però il primo di questi termini subisce una neutralizzazione per mezzo di una sovradeterminazione. La potentia, la capacità molteplice e non predeterminabile di produzione delle forme giuridiche viene infatti ridotta alla facoltà (monopolistica) connessa con la potestas del sovrano secondo una distorsione trascendente e formalistica che finisce per rendere incompatibile tale teoria del potere politico con gli stessi concetti di costituzione e potere costituente146. E’

139 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XIX, pp. 219-238, cap. XXVIII pp. 254 ss. 140 L’utilizzo dei due termini validità e efficacia non è casuale ma è un riferimento indiretto al

pensiero kelseniano teso ad evidenziare l’assonanza tra il ragionamento hobbesiano e quello kelseniano. Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., pp. 238-243, 318-322.

141 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., Parte II cap. I, §§ 6-8, pp. 168-69; Id, De cive, cit., cap. VI, § 2, p. 73; Id., Leviatano, cit., cap. XXVIII pp. 254 ss.

142 Cfr. G. Jellinek, La dottrina, cit., pp. 78-79; C. Schmitt, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 15-57; M. Fioravanti, Stato: dottrine generali e storiografia, cit., pp. 53-74.

143 Cfr. C. Schmitt, Lo stato come meccanismo, cit., pp. 52 ss.; cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 25-40.

144 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 114, laddove considera scontato che la possibilità per cui il potere costituente poté emergere in Francia fu fornita dall’evoluzione storica dello stato monarchico francese. Cfr anche Id., La Dittatura, cit., pp. 38-40. A questo punto la dinamica tra accentramento monarchico e corpi intermedi analizzata nella Parte I, cap. II, par. 2.2, pp. 59-66, e che è all’origine dello Stato moderno si presenta chiaramente come Costituzione della crisi, laddove la crisi è determinata essenzialmente dall’azione di un potere d’eccezione che lavora per comprimere e assoggettare sotto di sé le potenzialità costituenti. Sul rapporto tra costituzione dello Stato moderno e stato d’eccezione cfr. anche W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 39 ss.

145 Il rischio conseguente di un’impostazione filosofica di questo tipo è l’astrazione del ragionamento dalla sua logica e necessaria dimensione storica e giuridica. Naturalmente è proprio questa possibilità che un’indagine di tipo storico-concettuale si propone di scongiurare e demistificare.

146 Supra Parte II, cap. II, par 2.2.1, pp. 182 ss. Il detournement della potentia in potestas compiuto da Hobbes si può rintracciare nel pensiero schmittiano laddove si confondano i suoi aspetti descrittivi e

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noto, la teoria dello stato di eccezione ha offerto punti di vista in grado di illuminare (ma in alcuni casi anche di offuscare147) le analisi dei processi di modernizzazione; essa se bene intesa si può prestare quindi ad un approfondimento del tema del rapporto tra unità della sovranità e molteplicità dell’ontologia costitutiva. In particolare, però, essa si rivela utile allo scopo specifico di questa analisi della teoria hobbesiana del contratto soltanto nella misura in cui può indicare la necessità per questa teoria di stabilire un legame tra un concetto di crisi e l’istituzione del potere sovrano e, conseguentemente, un vincolo di sottomissione/rappresentazione di natura essenzialmente mistificatoria tra il corpo sociale e il sovrano148. Allo scopo di questa dimostrazione è utile partire da una prima constatazione. E’ possibile affermare che con la teoria del potere politico Hobbes compia coscientemente un tentativo di rifunzionalizzazione della struttura costituzionale e del vincolo di obbedienza politico al fine di riequilibrare i rapporti tra dominanti e dominati secondo un nuovo criterio di rappresentazione dell’unità politica in grado di tenere conto e dare espressione sia del mutato regime proprietario, sia della necessità di neutralizzare il ruolo della fede religiosa nella dinamica di produzione dell’obbedienza. In breve, Hobbes tenta di rimodulare gli obsoleti concetti di forma e contenuto dell’antica costituzione al fine di stabilire ad un livello di astrazione più elevato una piattaforma condizionale di tipo convenzionale ed universale capace di ristabilire le condizioni e le garanzie dell’ordine e dell’unità politica149. Come già si è visto nel fare ciò la teoria formalistica incontra un limite logico che si ripercuote sull’architettura complessiva hobbesiana: il limite del convenzionalismo è segnato infatti dall’arbitrarietà della prima statuizione linguistico-nominale; in termini giuridici ciò significa che il limite della coppia convenzione/arbitrarietà si traduce nel simultaneo carattere contrattuale e irresistibile del potere politico. E’ con questa ipostatizzazione del rapporto tra convenzione e arbitrarietà, con questa conversione totale della potentia in potestas e actus, che Hobbes introduce una traslazione fondamentale: il sovrano da vicarius Cristi diviene vicarius Dei150. Tale traslazione si presenta immediatamente come una forzatura e una mistificazione palese. prescrittivi; ovvero nel momento in cui la possibilità comunque riconosciuta di un’equazione tra l’assegnazione formale del potere d’eccezione e l’esercizio del potere costituente viene elevata a proposta politica. Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., p. 20. Sulla confusione dei due aspetti, descrittivi e prescrittivi, nella trattazione del problema della razionalizzazione del sistema costituzionale weimariando cfr., da un lato, C. Schmitt, Teologia politica, cit, pp. 33-74, e dall’altro, Id., La Dittatura, cit., in particolare Appendice I (La dittatura del Presidente del Reich secondo l’art. 48 della costituzione di Weimar), pp. 249-302; Id. C. Schmitt, Il custode della costituzione (a cura di A. Caracciolo), Giuffré, Milano, 1981, pp. 236-242.

147 Finendo per far coincidere, non occasionalmente come in Schmitt, ma logicamente come nell’interpretazione recente di Agamben, potestas e auctoritas. V. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pp. 95-113.

148 Sul rapporto tra rappresentazione e stato d’eccezione nella teoria dello stato del XVII secolo v. il saggio introduttivo dell’opera di Schnur, Individualismo, cit., di E. Castrucci, Storia delle idee e dottrina decisionistica dello stato.

149 In aggiunta all’argomentazione supra par. 2.2.1, pp. 174-186, si tenga presente Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., cap. VII (Dallo stato dei principi alla persona dello Stato), pp. 271-332.

150 L’origine della distinzione si ha nel periodo tardomedievale quando in seguito alla precisazione del significato di plenitudo potestatis da parte di Innocenzo III i canonisti inizieranno a configurare sempre più nettamente il Papa e il potere sacerdotale come vicarius christi, mentre i civilisti, fondandosi sul vocabolario del diritto romano, inizieranno a definire l’imperatore come deus in terris, deus terrenus. Forse la longevità e la peculiarità del modello repubblicano inglese può trovare qui un ulteriore e casuale conferma. Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 77-81.

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Già lo si è visto, la mondanizzazione inglese differisce radicalmente dal modello secolare inaugurato da questo tipo di traslazione151. Tuttavia, a questo punto, ciò che può apparire soltanto come una premessa della tesi della divergenza tra la proposta hobbesiana e la storia costituzionale inglese si può rivelare addirittura come un elemento utile al chiarimento delle ragioni che spinsero Hobbes a determinate soluzioni, nonché alla comprensione del grado di prescrittività di queste ultime. In primo luogo tale traslazione può essere considerata come una scelta obbligata di fronte al limite del rapporto tra convenzione e arbitrio. Seguendo il carattere paradossale dell’accordo tra razionalismo contrattualista e assolutismo del potere politico, o quello più accettabile in termini kelseniani tra validità ed efficacia, è possibile affermare che la necessità per Hobbes di stabilire un’equazione tra il comando del sovrano e il comando di Dio risponda alla necessità di porre un argine di inderogabilità alla volontà del sovrano costantemente erosa dall’immanenza delle dinamiche, effettivamente giuridiche e politiche, di appropriazione del diritto di natura. In questo senso è possibile ribaltare l’intero sistema hobbesiano e considerare l’autofondazione del potere politico come derivante da un’autoaffermazione di assolutismo teologico messa in opera per mezzo dell’ideazione dello stato di natura. In fondo l’origine calvinista del patto tra Dio e l’uomo non si discosta sostanzialmente da questo rovesciamento del rapporto tra fede e ragione152. La traslazione, secondo questa impostazione, si presenta come una soluzione obbligata e offerta dallo stesso paradigma logico adottato da Hobbes al fine di chiudere il cerchio della nuova legittimità politica; sebbene il prezzo politico di tale operazione consista nell’elevare la crisi a paradigma di costituzione della legittimità nella misura in cui tale traslazione si rende possibile soltanto nel momento in cui il dovere di totalità della razionalità fonda la pretesa dell’autofondazione, e nel momento in cui la vecchia teologia lungi dal subire una trasposizione nella nuova costituzione subisce invece uno svuotamento di contenuto in forza del nuovo ruolo della non-escatologia barocca153. Allo stesso tempo però, e in secondo luogo, questa traslazione, proprio perché appare ancora come il resto non compreso a cui la modernità si incarica di dare una risposta, sembra rappresentare l’enigma la cui risoluzione dovrebbe fornire una risposta sui lati oscuri del pensiero hobbesiano e addirittura sulle sorti della modernità stessa. In realtà, molto più semplicemente, la necessità dell’equazione tra comando sovrano e comando divino, risponde all’esigenza di ogni nuova legittimità che pretende di instaurarsi come tale; ossia risponde all’esigenza di neutralizzare fino alla definitiva scomparsa la legittimità precedente154. In effetti, il tentativo di fissare ad una diversa latitudine concettuale di astrazione, ad una nuova piattaforma condizionale le relazioni di comando politico attraverso la rimodulazione dei concetti di forma e contenuto dell’Antica Costituzione in una nuova struttura funzionale implica un’operazione indiretta (e soltanto esplicitato in un passo della lettera hobbesiana155) ma centrale: la

151 Supra Parte II, cap. I, par. 1.1, pp. 133-143. 152 Supra Parte II, cap., I, par. 1.1.1, pp. 137 ss. 153 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, cit., p. 231; cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco,

cit., pp. 40-60. In questo senso, il collegamento tra il passaggio di razionalità indicato da Blumenberg e il mutamento paradigmatico della aspetto escatologico della rappresentazione politica incarnata dal sovrano specificata da Benjamin mostra chiaramente come la teologia del patto politico moderno sia in realtà una non-teologia. Su quest’ultimo punto cfr. P. Schiera, Specchi della politica, cit., p. 385.

154 Verrà ripreso in seguito la questione, al centro del dibattito tra Schmitt e Blumenberg, della collocazione del ruolo della verità e della religione all’interno del pensiero di Hobbes. Infra, pp. 205 ss.

155 V. infra, nota 166, p. 200.

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negazione, neutralizzazione e sostituzione della legittimità antica legata al concetto di universitas156 con la nuova legittimità157. Ciò, in definitiva, può avvenire soltanto in quanto venga mutato e sostituito il vecchio concetto di fictio giuridica e rappresentazione del corpo mistico della Repubblica con un nuovo concetto di rappresentazione e rappresentanza politica e giuridica158. L’idea di una rappresentanza assoluta e della necessaria coincidenza tra comando del sovrano e comando divino si sviluppa proprio a partire da questa necessità per cui assumere l’antico concetto di rappresentazione significa per Hobbes svuotare sostanzialmente il suo contenuto fino ad arrivare all’instaurazione di un nuovo paradigma di obbedienza politico per mezzo dell’affermazione di un diverso modello di rappresentazione159. Si possono individuare una serie di passaggi centrali nella dottrina hobbesiana che chiariscono il percorso seguito per arrivare a una tale soluzione. Innanzitutto il concetto di moltitudine viene privato della sua originaria natura giuridica. Solamente nel momento in cui tutti gli individui si uniscono gli uni con gli altri e danno vita al Leviatano si potrà parlare di una soggettività definibile politicamente, il popolo160. Ciò non significa peraltro il riconoscimento di un’autonomia di questo soggetto di fronte allo Stato; una volontà del popolo è difatti rintracciabile soltanto nella volontà del sovrano161. Naturalmente la composizione atomistica del popolo e il suo carattere fittizio potrebbero sempre essere ricavati dall’ipoteticità del materialismo hobbesiano, se non fosse che poi materialmente l’intrinseca democraticità del concetto può provocare per assurdo che la volontà del sovrano sia quella del popolo162. Ma questa resta logicamente soltanto una possibilità materiale al pari della capacità sovversiva dell’appropriazione. La costituzione invece viene definita formalmente sulla base della volontà espressa dal sovrano, ovvero dall’unico soggetto dotato di personalità giuridica. La volontà costituzionale (e costituente) infatti per essere tale deve divenire un che di esprimibile ed inquadrabile unitariamente; dunque essa diviene tale soltanto in quanto sottoponibile ad un tipo di rappresentazione capace di stabilire un’identità tra la parola, il concetto e l’oggetto della rappresentazione stessa163. La base logica è sempre la stessa

156 Cfr. Q. Skinner, Hobbes and the purely artificial person of the state, in Hobbes and Civil Science, cit., pp. 204-205.

157 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XXII, pp. 187-199, dove viene accolto il ruolo dei corpi intermedi soltanto in quanto la loro natura giuridica perda l’antico carattere originario per assumere quello derivato del soggetto privatistico. Cfr. O. von Gierke, Althusius, cit., pp. 181-192.

158 Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione, cit., pp. 1 ss., 136-139, 390 ss.; Q. Skinner, Hobbes and the purely artificial person of the state, in Hobbes and Civil Science, cit., pp. 196-208. Sull’evoluzione del concetto medievale di fictio giuridica cfr. F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Cedam, Padova, 1979.

159 Cfr. G. Duso, Patto sociale, cit., pp. 34-38; Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza, cit., pp. 464-476. 160 Cfr. T. Hobbes, De cive, cit, cap. VI, § 1 e nota, pp. 71-73; Id., Leviatano, cit., cap. XVI, p. 134; Id.,

Elementi, cit., Parte II cap. I, §§ 2-3, pp. 166-167. 161 Cfr. T. Hobbes, Elementi, cit., Parte II cap. II, § 11, pp. 183-184; Leviatano, cit., cap. XVIII, pp.

145 ss. 162 O per contrappasso può accadere che al fine di subordinare il concetto di popolo alla sovranità

venga opposto quest’ultimo al concetto di moltitudine a tal punto da far identificare solamente quest’ultimo con i regimi diversi dalla monarchia. Cfr T. Hobbes, De cive, cit., cap. XII, § 8, p. 134. «Il popolo regna in ogni stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo (…) Nella democrazia e nell’aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la curia è il popolo. E nella monarchia, i sudditi sono la moltitudine e (per quanto sia un paradosso) il re è il popolo».

163 Cfr. Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., pp. 316 ss.; H. Hofmann, Rappresentanza, cit., pp. 464-476.

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della gnoseologia meramente rappresentativa e formale utilizzata per svincolare il soggetto dalla realtà effettuale: il popolo, benché soggetto politico, non possiede di per sé la capacità di porre in essere degli atti giuridici, ma è necessario che un soggetto terzo fornisca la rappresentazione adeguata, la forma giuridica di quell’idea di unità politica. L’ulteriore paradossalità e assolutezza di questo modello di rappresentanza consiste quindi nell’aporia di una delega che non viene mai posta in essere dai soggetti deleganti ma dallo stesso delegato164.

E’ evidente come questo modello di rappresentazione si basi su una distinzione funzionale radicalmente opposta a quella dell’antico costituzionalismo, e centrale per la nuova struttura costituzionale. Dell’antico concetto giuridico di multitudo ordinata165 non vi è più traccia. Laddove quest’ultimo concetto riproduceva un rapporto tra unità e molteplicità non misurabile secondo i parametri quantitativi del meccanicismo hobbesiano, e laddove la funzione di tale concetto era proprio quella di riconoscere e valorizzare l’intrinseca e indisponibile essenza giuridica connessa all’azione dei corpi sociali, Hobbes afferma la completa negazione, inutilità e assurdità del paradigma della moltitudine per la definizione di una nuova legittimità politica in grado di riportare l’ordine166. Naturalmente si schiera dalla parte di Hobbes il fatto che il principio di unità rappresentato dalla comune appartenenza alla Respublica Christiana sotto il quale veniva riarticolato il rapporto tra identità e differenza e quindi lo stesso equilibrio repubblicano entrano in crisi, e che effettivamente vi è un processo di mutamento nel governo territoriale per cui il regime proprietario progressivamente non risponde più all’articolazione funzionale di protezione/obbedienza e cogestione non accumulativa della terra tra Signore e contadini, ma ad un modello di accumulazione privatistico. Tuttavia inferire da questa situazione che per riportare l’ordine è necessario partire dalla negazione della natura giuridica autonoma dei corpi sociali rappresenta lo specifico della proposta hobbesiana167. E’ chiaro, peraltro, che secondo questa impostazione, una soluzione in grado di rendere concreta la distinzione tra popolo e moltitudine, può essere trovata soltanto sul terreno dell’artificialità della distinzione tra atto e fatto e della negazione della positività del diritto naturale168.

164 Cfr. G. Duso, Patto sociale, cit., pp. 36-38; A. Biral, Hobbes: la società senza governo, cit., pp. 82-85. 165 V. supra Parte I, cap. II, par. 2.3.3, pp. 72-83. 166 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., non solo il già citato cap. XXII, pp. 187-199, ma soprattutto il

cap. XVIII, pp. 152-153, dove l’istituzione del potere sovrano viene descritta espressamente in opposizione alla dottrina del corpo mistico della Repubblica. «Dal momento che questa grande autorità è indivisibile e inscindibilmente connessa con la sovranità, si rivela ben poco fondata l’opinione di coloro che, pur ammettendo che i sovrani sono singulis majores, dicono nondimeno che sono universis minores – vale a dire dotati di un potere minore di quello di tutti insieme. Infatti, se con tutti insieme non intendono il corpo collettivo come una sola persona, allora tutti insieme significa la stessa cosa di ciascuno, e il discorso è assurdo. Se, d’altra parte, con tutti insieme intendono i sudditi in quanto solo una persona allora il potere di tutti insieme è identico al potere del sovrano, e, così, il discorso è di nuovo assurdo».

167 Cfr. O. von Gierke, Althusius, cit., pp. 141-143, 148-149, 191-192. V. però Q. Skinner, Hobbes and the purely artificial person, cit., p. 201, dove viene puntualizzato che la nuova personalità dello Stato non è il risultato di una semplice traslazione deterministica del concetto medievale di persona ficta, come si evincerebbe dall’interpretazione di Gierke, ma semmai il suo sostanziale rovesciamento.

168 Questa distinzione ricalcando quella tra moderna tra artificialità e natura determina direttamente la diversa conformazione della funzione di rappresentazione politica moderna rispetto a quella premoderna e ancora rappresentata dalla Chiesa cattolica. A riguardo cfr. C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffré, Milano, 1986, in particolare le pp. 35 ss. Cfr anche a questo proposito G. Duso, Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Carl Schmitt, in Id., La logica, cit., pp. 151-157.

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Secondo questa impostazione dunque la demolizione dell’antica legittimità fondata sui concetti di universitas e multitudo ordinata è funzionale alla nuova struttura costituzionale fondata sulla scissione qualitativa tra società e stato, tra fatto e atto, tra la dinamica appropriativa e la forma giuridica della proprietà. In ogni modo però il mutamento del significato di finzione giuridica sotteso a questa operazione, quale fulcro della nuova scissione funzionale, è rintracciabile immediatamente nella stessa ambiguità del rapporto tra l’aspetto pattizio e quello assolutistico che contraddistingue il potere politico. Il fatto che, come afferma Schmitt, «la persona sovrano-rappresentativa, che si origina oltre e al di là di questo patto sociale e che è l’esclusiva garante della pace, non viene a costituirsi attraverso l’accordo, ma soltanto in occasione di esso169» determina due conseguenze centrali per la comprensione della nuova legittimità. Innanzitutto, materialmente, viene riconosciuta la contingenza e la sottomissione reale della volontà sovrana alla volontà degli individui, che per quanto depoliticizzata e degiuridificata formalmente è sempre in grado di determinare l’esistenza o meno dell’unità politica. Ma soprattutto, questo rapporto tra i due aspetti della teoria contrattuale impone di considerare il concetto di rappresentanza assoluta come indispensabile alla stessa definizione di questo tipo di patto politico. Tale assolutezza si ricava infatti dalla correlazione che si viene ad istaurare tra il convenzionalismo dei segni e il risultato della depoliticizzazione dei corpi sociali, per cui l’unità della sovranità è al contempo risultato e condizione del patto stesso. Anche la funzione politica della rappresentazione diviene in questa maniera un precipitato della concezione epistemologica. La volontà dei sottoposti rintracciabile soltanto nella volontà del sovrano e coincidente tautologicamente, ma sempre unitariamente, in un enunciato linguistico, in un insieme di segni, corrisponde alla ritrovata unità del linguaggio, ad un convenzionalismo perfetto incaricato di garantire l’unità politica a partire da una comune ricodificazione della molteplicità dei flussi semantici170. E tuttavia, se la coerenza di questa operazione procede seguendo le linee impresse dalla gnoseologia formalista e immaginativa, l’incoerenza di un’unità politica ricercata solamente nel campo della rappresentazione formale inizia a farsi sempre più evidente. Il convenzionalismo tocca qui il suo limite più estremo determinando un concetto di rappresentazione meramente formale che ribalta il significato del convenzionalismo stesso. La rappresentazione della unità politica diviene allegoria, laddove quest’ultima in quanto sistema convenzionale dei segni non rappresenta la convenzione dell’espressione, ma bensì l’espressione della convenzione171; un’espressione, è bene aggiungere di nuovo, possibile in quanto, al pari della convenzione, solamente presupposta, ed esistente come forma soltanto nella rappresentazione. In pratica, per Hobbes, determinare le condizioni di possibilità dell’unità politica equivale ad elevare a

169 C. Schmitt, Il Leviatano, cit., p. 85; cfr. con H. Blumenberg, La legittimità, cit., p. 104, il quale

sostanzialmente sostiene che decisionismo e volontarismo si possono accordare nella teoria hobbesiana del contratto poiché così come quest’ultimo non è mai qualcosa da concludere ma sempre qualcosa di già concluso, così la nuova legittimità hobbesiana e positivistica e schmittiana in quanto si fondano su un potenziale derivante da una pretesa dell’illegittimità conferma il ruolo privilegiato da essa stessa assegnato ad una concezione decisionista del potere.

170 Cfr. C.Y. Zarka, Principes de la sémiologie de Hobbes, in Hobbes e Spinoza, cit., pp. 314-330. 171 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 148-163.

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requisito necessario della teoria politica un concetto di rappresentazione costruito sul caso estremo dell’ipotesi annichilitoria172. La scissione si configura a questo punto come scissione funzionale, formale e totale. Non si tratta, infatti, soltanto dell’esigenza di fornire un’espressione alla scissione tra pubblico e privato, tra la depoliticizzazione delle dinamiche sociali e la necessità di una loro rappresentazione che ne restituisca attraverso la delega l’originaria natura giuridica e politica; ma si tratta, più specificatamente, di affermare una scissione definitiva tra la composizione molteplice dell’universitas – comunque insopprimibile come è del resto il rovesciamento dell’ipotesi annichilitoria nella supposizione dell’esistenza dei corpi173 - e la modalità autonoma di produzione giuridica di quest’ultima. Il passaggio cruciale per la negazione e sostituzione dell’antica legittimità si determina sulla capacità del nuovo potere politico di stabilire una distinzione qualitativa tra persona naturale e persona artificiale, laddove evidentemente ogni persona acquista la propria giuridicità soltanto in quanto persona artificiale174. La fictio giuridica assume perciò una diversa e opposta conformazione. Mentre nell’universitas la forma giuridica segue, tentando di imitare in una tensione verso la verità e la superiorità del diritto (fictio figura veritatis175), la molteplicità delle espressioni naturali dell’agire umano, con Hobbes, la fictio diviene qualcosa di essenziale alla definizione dello Stato nella persona del monarca176, ma allo stesso tempo anche qualcosa di assolutamente distinto dalla materialità dei soggetti177. La forma giuridica non dipende più dalla naturalità delle relazioni giuridiche, ma al contrario dalla capacità autoritativa di statuizione formale posseduta dal sovrano178. E’ così che una teoria dei due corpi si può rivelare inessenziale e pericolosa mentre al contrario può essere accettabile una teoria delle due persone del re179. In effetti la dottrina dei due corpi si contraddistingueva per la sua funzione di rappresentazione di

172 La rappresentazione in quanto tale diviene infatti un elemento imprescindibile della teoria del potere politico, una sua determinazione ‘naturale’; infatti, al pari della conoscenza, il cui principio fondativo coincide con un’ipotesi di annientamento, la rappresentazione e la produzione dell’unità politica sono costrette a determinarsi in base ad un principio escatologico dominato dall’idea di catastrofe. Cfr il rovesciamento dell’ipotesi annichilitoria descritto da A. Pacchi, Convenzione, cit., pp. 53 ss., 70-97, con W. Benjamin, Il dramma barocco, cit, pp. 40-41, 208-209.

173 Cfr. Supra par. 2.2.1, nota 37, p. 175 ; A. Pacchi, Convenzione, cit., pp. 70 ss. 174 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XVI, pp. 131-133, dove viene fornita la distinzione tra i due

tipi di persona sulla base della comune derivazione etimologica del termine dal significato «impersonare, fare la parte di». Sul punto cfr. A. Biral, Hobbes: la società senza governo, cit., pp. 72-73. Cfr. Q. Skinner, Hobbes and the purely artificial person of the state, in Visions of Politics, cit., pp. 196-208. Sull’importanza di questa distinzione per la scienza giuridica moderna v. M. Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Giuffré, Milano, in particolare il cap. IV e le pp. 317-368, dove viene ricostruita la genesi del concetto di «personalità dello Stato», attraverso, principalmente, l’analisi della dottrina giuspubblicistica di O. von Gierke.

175 Supra, Parte I, cap. II, par. 2.3.3, pp. 72 ss.; Parte II, cap. I, par. 1.4, pp. 158 ss. 176 Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza, cit., pp. 158-172, 390 ss., 454-456. 177 Cfr. O. von Gierke, Althusius, cit., pp. 148 ss.; Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., pp. 318- 321. 178 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 153-154, il quale precisa come la peculiarità

dell’allegoria barocca consista proprio nella sua capacità di rovesciare la percezione razionale del contesto ambientale «esterno» al soggetto. «In ogni caso, la teoria dell’arte fra il XIV e il XVI secolo intende per «imitazione della natura» l’imitazione della natura plasmata da Dio. Ma la natura in cui s’imprime l’immagine del corso storico è la natura caduca. L’inclinazione del barocco all’apoteosi è in controcanto alla sua visione peculiare delle cose. Nell’onnipotenza del loro significare allegorico, queste portano il marchio del troppo-terreno. Non si trasfigurano mai dall’interno. Di qui il loro illuminarsi nella luce teatrale dell’apoteosi».

179 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, cit., pp. 39-75, 231-233, il quale precisa la diversa natura dei due concetti.

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tipo sostanziale. La doppia corporificazione del re testimoniava infatti da un lato l’immortalità e l’irrappresentabilità secondo un criterio quantitativo formale dell’unica universitas dotata della dignitas, la moltitudine; dall’altro tale corporificazione confermava lo stesso carattere al contempo naturale e fittizio dell’istituzione politica, per cui il re in quanto persona mortale poteva ben essere espressione formale di una volontà politica e giuridica, nella consapevolezza però dell’indisponibilità della stessa definizione di diritto, e dell’imperfezione costante e naturale che caratterizza la vita umana. La finzione giuridica dunque in questo contesto rappresenta un che di artificiale soltanto nella misura in cui tale carattere di artificialità risulta indistinguibile dal carattere naturale delle stesse forme di razionalità umana180. Con Hobbes questa funzione di rappresentazione sostanziale simboleggiante la medesima appartenenza allo stesso destino umano e allo stesso diritto viene ribaltata in una rappresentazione funzionale completamente formale. La finzione giuridica non è più incaricata di riprodurre un’imitazione verosimile della realtà; la realtà giuridica infatti è predeterminata interamente dalla capacità artificiale del sovrano di fornire il carattere giuridico e artificiale dei corpi ad esso sottoposti. Non c’è più una tensione verso la ricerca di un’armonia sostanziale tra i corpi poiché non c’è più una superiorità e verità del diritto ma al contrario vi è una statuizione interamente autoritativa e formale della verità giuridica. L’apparente continuità del concetto di finzione può rivelare così il tratto di discontinuità paradigmatico introdotto da Hobbes; la simultanea e spontanea compresenza di due distinte personalità, naturale e giuridica, nella definizione del soggetto allude ad una duplice e distinta fonte di legittimazione, quella naturale inafferrabile nella sua essenza alla capacità condizionale, e quella razionale/formale riconducibile interamente alla capacità di statuizione autoritativa dell’uomo181. In questo senso, il passaggio di legittimità avviene non solo per mezzo del mutamento della potentia in potestas e actus, ma avviene anche e soprattutto attraverso la neutralizzazione del concetto di auctoritas. Al tradizionale concetto di auctoritas, laddove quest’ultimo termine alludeva alla trascendenza e all’indisponibilità di un contenuto di verità in grado di fornire legittimazione alle forme statuite razionalmente182, si contrappone la statuizione formalistica della verità da parte del sovrano, ovvero la più completa trascendenza della forma sulla possibilità mutevole di contenuti differenti183. All’interno di questo contesto la funzione di rappresentazione viene apparentemente privata di tutto il suo carattere sostanziale per essere definita nei termini esclusivamente formali di una rappresentazione delle scissioni funzionali tra interno e esterno, pubblico e privato, persona naturale e persona artificiale184. L’unico

180 Cfr. supra Parte I, cap. II, par. 2.3.3, pp. 72-83, con Parte II, cap. I, par. 1.4, pp. 158 ss. Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza, cit., pp. 136-172; E.H. Kantorowicz, I due corpi, cit., pp. 116-123, 250 ss.

181 Così, se da un lato si deve riconoscere con Skinner che la peculiarità del concetto di personalità dello Stato risponde alla specifica e storicamente determinata esigenza di operare una cesura con il passato e l’antica legittimità dell’universitas, e dunque praticamente all’esigenza di «porre un termine alla rivoluzione», dall’altro si deve riconoscere come afferma Zarka che l’altra peculiarità della filosofia hobbesiana è rappresentata dalla non occasionalità di tale modello di personalità. In effetti, il fatto che venga posto un maggiore accento e una maggiore coerenza nella definizione di una teoria della personalità del Sovrano nel Leviatano rispetto alle opere precedenti può ben essere spiegato sia con ragioni di ordine retorico (Skinner) sia con ragioni di coerenza logica del suo sistema filosofico, che in ultima istanza deve infatti riconoscere il proprio limite nel diritto di punire (Zarka). Cfr. Hobbes. The Amsterdam Debate, cit., pp. 25-38.

182 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., pp. 109-110. 183 Cfr. C. Schmitt, Il Letviatano, cit., p. 94; R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 20-21, 30. 184 Cfr. R. Koselleck, Critica illuministica, cit., pp. 30 ss.

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aspetto di sostanzialità all’interno di questo modello può essere rintracciato nella materialità delle dinamiche appropriative, dinamiche ormai considerate esclusivamente nel loro aspetto privatistico e che dunque proprio per questo necessitano di una rappresentanza svincolata interamente dalla loro natura originaria. Praticamente, in termini materialistici, la rappresentazione hobbesiana si origina e si sviluppa esclusivamente in funzione dell’esigenza di espressione sostanziale del mutato regime proprietario, sebbene tale espressione per essere tale si deve presentare come rappresentazione meramente formale di un’unità ipotetica, il popolo. Anche il problema del monopolio della forza e dell’istituzione di un esercito al servizio esclusivo del re si colloca all’interno di questa nuova strutturazione funzionale dell’equilibrio costituzionale185. La rappresentazione diviene così una rappresentanza in senso moderno perché può corrispondere all’effettiva divisione sociale del lavoro che si viene sviluppando, sebbene la scelta per un sovrano autoperpetuantesi possa apparire una mossa inopportuna capace di pregiudicare una possibile recezione inglese della proposta assolutistica hobbesiana. In verità, questa scelta, nel rappresentare un precipitato logico di una particolare concezione gnoseologica, risponde per Hobbes all’esigenza specifica di stabilire la condizione in grado di garantire il passaggio definitivo tra i due tipi di legittimità. Vi è infatti un limite logico in grado di impedire questo passaggio: il carattere antropocentrico dell’antica legittimità non permette l’affermazione di un concetto di sovranità basato sulla riduzione del diritto a forma, a statuizione autoritativa del sovrano. A questo limite Hobbes risponde con la forzatura costituita dalla traslazione della figura del sovrano a vicarius Dei e con l’equazione tra comando divino e comando del sovrano. Allo stesso tempo però, è proprio tramite questa apparente incoerenza che identifica la volontà di Dio nella volontà di un uomo, che la nuova legittimità prende corpo e la rappresentazione hobbesiana riacquista un carattere esplicitamente sostanziale, sebbene ‘soltanto’ in termini allegorici. La teoria della rappresentazione hobbesiana con la distinzione tra persona naturale e persona artificiale, assume e ribalta la natura antropocentrica della regalità repubblicana, traducendo i due corpi del re in una dottrina della doppia personalità del monarca, al contempo persona dello stato e persona naturale. Da un lato, il monarca, in quanto fictio dell’immortalità, si trova ad impersonare la perpetuità del nuovo soggetto sovrano, lo Stato186, nella misura in cui l’antica indisponibilità e superiorità del diritto antico – superiorità è bene ricordare che dava luogo a differenti modelli interpretativi della legge naturale – si vengono ad identificare progressivamente con lo stato come meccanismo il cui dovere di perfezione discende direttamente dal suo particolare processo di mondanizzazione187.

185 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 112-124. 186 Cfr. O. von Gierke, Althusius, cit., 148, 163-165, 191-194, il quale precisa che Hobbes è

l’autentico fondatore della sovranità moderna, in quanto, cosciente della contingenza storica, volutamente fa coincidere la personalità dello Stato con quella del principe, per poi affermare però il nuovo paradigma atomistico e meccanicistico in grado di trasformare in modo paradigmatico l’antico dualismo tra principe e corpi intermedi. In senso moderno, afferma Gierke, è da questo punto che viene posta la base per la futura personalità dello Stato. In verità, l’unica imprecisione di questa interpretazione risiede nell’attribuzione anacronistica, da parte di Gierke, di un carattere privatistico alla lotta dei corpi intermedi. Tale attribuzione può infatti sviare dalla precisa comprensione del ruolo che ricoprivano antecedentemente al nuovo paradigma tali corpi.

187 Cfr. C. Schmitt, Lo stato come meccanismo in Hobbes e Cartesio, in Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 54 ss.; cfr. H. Blumenberg, La legittimità, cit., p. 71.

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Dall’altra parte il carattere antropocentrico dell’antica regalità, simbolo unitario di una comune condizione ad un tempo naturale e giuridica che caratterizzava l’intera multitudo, viene assunto dal monarca assoluto al fine di perpetrare quella scissione funzionale in forza della quale si rende plausibile l’intera costruzione del sistema. Formalmente nella teoria hobbesiana, il sovrano diviene colui in grado di decidere sullo stato di eccezione; sebbene sia necessario aggiungere che alla prima occasione lo stesso sovrano si dimostri incapace di decidere poiché essere umano e dunque soggetto al pari degli individui ad esso sottoposti ad una temporalità lineare finita188. La crisi diviene in questo modo strutturale; l’escatologia barocca sembra giustificare una costituzione del potere politico ottenuto per traslazione di un postulato teologico; addirittura in forza di una radicalizzazione del suo stesso contenuto teologico. Sia una teoria dell’eccezione che una teoria della perfezione formale del meccanismo possono essere interpretate in questo senso. Tuttavia è proprio su questo passaggio che si compie un detournement capace di ribaltare la vecchia legittimità nella nuova per cui il carattere antropocentrico viene rovesciato e piegato alla nuova legittimità. L’equazione tra comando divino e comando del sovrano in realtà ha ribaltato il proprio significato: il monarca non è tale perché investito della rivelazione o peggio da una potestas indirecta, ma al contrario in forza della sua facoltà di stabilire autoritativamente il contenuto del diritto. Infatti è proprio con questa ipostatizzazione positivistica della verità che avviene la mondanizzazione, ovvero proprio nella misura in cui tale ipostatizzazione vale come una neutralizzazione che implicitamente dà avvio all’affermazione dell’unica verità possibile, l’inesistenza della verità stessa. Come afferma Blumenberg: «Il conflitto scompare per il motivo quasi scandalosamente semplice che non possono esservi due istanze assolute, anche se il paradigma di due istanze assolute era esistito fin dalla gnosi. La verità deve essere dalla parte della sostanza; essa non può essere modificata sul piano delle istanze, ma certamente può essere integrata nella misura della sua sopportabilità pubblica, e quindi neutralizzata come titolo giuridico dell’insistenza sull’autonomia privata. In questo senso la verità non viene funzionalizzata (corsivo nostro), ma nemmeno diventa una grandezza legittimante: «Auctoritas, non veritas facit legem» ma appunto non «Auctoritas facit veritatem189». L’istituzione politica riproduce così un carattere antropocentrico e allo stesso tempo autoritativo formale non diverso da quello messo in campo dall’istituzione ecclesiastica. Il miracolo rappresenta una situazione analoga al caso d’eccezione; in Hobbes, in effetti, non vi è spazio per un’autofondazione dei miracoli; questi ultimi sono sempre riconducibili ad una spiegazione razionale di tipo causale, o nel senso di causa naturale, o nel senso di causa artificiale, ovvero con la capacità da parte dell’autorità di stabilire il contenuto in forza della sua forma190. L’eccezione nella teoria giuridica rappresenta per analogia un limite paragonabile al miracolo nella teologia191; appunto per questo dimostra la sua radicale

188 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco, cit., pp. 39-61. Cfr. anche Id., Per la critica della violenza, in Id.,

Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1995, pp. 5-30, dove, in risposta a La Dittatura di Schmitt, sostiene lo stato di eccezione quale limite del rapporto tra diritto naturale e diritto positivo permea l’insieme dei rapporti giuridici e non può quindi essere predeterminato formalmente o circostritto alla sfera dell’autorità.

189 H. Blumenberg, La legittimità, cit., pp. 101-102. Parallelamente è così possibile richiamare il rapporto tra verità, razionalità e interpretazione che avvolge lo stesso approccio storico concettuale. Cfr. Q. Skinner, Interpretation, rationality and truth, in J. Tully (a cura di), Meaning and Context: Quentin Skinner and his critics, Cambridge University Press, Cambridge, 1988.

190 Cfr. T. Hobbes, Leviatano, cit., cap. XLII, pp. 420-472. 191 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, cit., pp. 61 ss.

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alterità dal miracolo. L’eccezione non è in grado di ristabilire la verità, perché non c’è più nessuna verità autentica da riaffermare, ma diversamente risponde ad una funzione indispensabile della nuova strutturazione formale della costituzione: l’eccezione ristabilisce il dominio della forma192. La modernità può essere considerata dunque ancora una volta come secolarizzazione solo nella misura in cui si riconosce la sua capacità di negare e sostituire la legittimità precedente a cui si oppone, e non come mera trasposizione di postulati teologici, poiché altrimenti, paradossalmente per contrappasso, si finirebbe come fatto da Hobbes nel XLII cap. del Leviatano con lo scrivere una storia meramente positivistica dell’istituzione ecclesiastica193. Tornando però al tema della rappresentazione si può osservare come questo modello riproduca la condizione e il fine dell’intera costruzione hobbesiana. Con ciò questo sistema di rappresentanza conferma il suo carattere assoluto. Dapprima si presenta come strumento funzionale di tipo formale necessario ad un’articolazione possibile del comando politico diviso tra l’impoliticità e il caos della società e la perfezione formale dell’apparato sovrano. Poi in realtà, nel momento in cui tale sistema di rappresentanza si mette in moto, si trova costretto, al fine di impedire l’azione della vecchia legittimità, ossia del disordine, a mettere in atto un vincolo di rappresentazione non puramente formale ma sostanziale. Il sovrano si caratterizza per il suo potere di decidere sullo stato di eccezione e per la sua incapacità reale di decidere su tale stato. La sostanzialità di tale rappresentazione si affianca e si sovrappone alla distinzione funzionale tra pubblico e privato e permette di descrivere così il vero oggetto della rappresentazione. In effetti il fine del sistema rappresentativo messo in opera da questo tipo di monarca, assoluto e inetto al tempo stesso, è quello della rappresentazione di un particolare tipo di precarietà della condizione umana legata all’escatologia della catastrofe barocca e compresa all’interno di una comune polarità: la tragicità di un potere assoluto attribuito ad una persona umana, e la tensione soggettiva di un individuo stretta tra gli appetiti di sopraffazione della società e la conseguente e necessaria melanconia veicolata nel processo di rappresentazione e successiva all’alienazione dell’originaria natura politica del singolo194. In realtà, quindi, paradossalmente è necessario che, affinché vi sia questa articolazione funzionale, la società venga considerata come spazio del caos e del disordine, ma proprio perciò, per ricreare artificialmente l’unità del popolo è necessario costantemente rappresentare la società come impolitica e attraversata dallo stato di guerra e insicurezza. A questo punto la scelta per un sovrano perpetuantesi non appare più soltanto come una scelta inopportuna o come una scelta tirata soltanto dalle premesse nominalistiche; in realtà, l’identificazione di un sovrano autoperpetuantesi si presenta ad un tempo in funzione della rappresentazione della mutevolezza e della precarietà che necessariamente (deve) contraddistingue(re) la natura umana e che necessariamente deve continuare a essere confinata nella società al fine di non contaminare l’autonomia e l’indipendenza di un’entità che benché formata da uomini in carne ed ossa, e benché

192 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità, cit., pp. 104-105. 193 Cfr. C. Schmitt, Il Leviatano, cit., pp. 102-104. Sull’annosa questione del rapporto tra Hobbes e la

religione v. J.G.A. Pocock, Thomas Hobbes: Atheist or Enthusiast? His Place in a Restoration Debate, in Hobbes, cit., III, pp. 283-295, estratto da «History of Political Thought», XI (4), Inverno; C. Hill, Hobbes e il pensiero politico inglese, in Id. (a cura di), Saggi sulla rivoluzione inglese, Feltrinelli, Milano, 1971, pp. 355-368.

194 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco, cit., pp. 40 ss., 207 ss.; P. Schiera, Specchi della politica, cit., pp. 361-388; infra, par. 2.4, pp. 226 ss.

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non eterna, ben può però definirsi come immortale in quanto fine salvaguardabile nel tempo, lo Stato. All’interno di questo quadro lo stato di natura torna a svolgere un ruolo centrale. Se come visto l’origine della struttura funzionali e delle varie scissioni può essere ricondotta all’ideazione di questo stato, e se l’ipoteticità di tale stato si accordava peraltro con la sua derivazione effettivamente non astratta dal tempo storico e con il suo ruolo di condizione epistemica fondativa dell’intero sistema hobbesiano, allora giunti alla constatazione della specificità della rappresentazione hobbesiana si deve riconoscere che l’ideazione di questo stato non rappresenta soltanto il punto di partenza ma anche la causa immanente e il punto di arrivo dell’intera proposta hobbesiana. Una volta infatti stabilita la connessione tra potere d’eccezione, concetto di crisi e rappresentazione, nella necessità per il sovrano di assorbire il carattere antropocentrico della regalità per cambiarne il segno al fine di piegare la crisi all’esigenza di mantenere la distinzione qualitativa tra stato e società si rende palese anche l’essenza mistificatoria della proposta politica costruita intorno al concetto di rappresentazione. Se, infatti, questo potere d’eccezione si rivela essere lo strumento in grado di accentrare non solo quantitativamente la potestà costituente nelle mani del sovrano ma anche qualitativamente in forza della funzione di rappresentazione dell’impoliticità della società, allora ben si comprenderà come Hobbes sulla base dell’individuazione del nodo enigmatico del potere costituente della moltitudine avesse tentato di ribaltare l’emergente funzionalismo costituzionale al fine di sostituire la vecchia legittimità obsoleta dell’universitas con una teoria dell’ordine politico discendente capace di assumere su di sé il potere d’eccezione disseminato nella creazione immanente e ontologica della moltitudine. Nel compiere questa operazione, tuttavia, Hobbes deve rendere palese una insanabile contraddizione: egli deve ridurre la scienza politica a controllo razionale da parte del sovrano delle passioni e degli affetti del corpo sociale. A questo fine la temporalità molteplice aperta dall’incontro del tempo lineare e ciclico viene ridotta a una temporalità lineare rappresentabile circolarmente solamente nella misura in cui il ciclo diviene unità di misura quantitativa del tempo stesso. Il sovrano diviene la lancetta e il peso di un tempo simboleggiato meccanicamente dagli ingranaggi dell’orologio195. Al contempo però a questa pretesa riduzione si contrappone immediatamente l’irriducibilità dell’autonomia produttiva degli affetti della moltitudine196. La melanconia diviene infatti funzione della (auto)costituzione della legittimità e del vincolo di rappresentanza, ma al tempo stesso essa stessa può celare uno situazione soggettiva interiore ostile a quella costituzione; situazione di un individuo che ha rigettato nel proprio stato privatizzato la sua natura propriamente politica e relazionale. In entrambi i casi la melanconia si conferma per quello che è: uno stato di angoscia diversamente configurabile ma egualmente e universalmente determinato dalla necessità di spoliazione e riduzione della naturale e autonoma affettività della società altrimenti configurabile immediatamente per Hobbes come occasione di sovversione e ribellione. In questo senso, la melanconia, quale contrassegno di una produzione della legittimità politica e del vincolo di

195 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco, cit., pp. 71-72; P. Schiera, Specchi della politica, cit., pp. 361-

372. 196 Un ribaltamento e una confutazione della teoria politica hobbesiana può essere così ricercato

indagando il ruolo degli affetti in Spinoza. Sul punto v. A. Negri, L’anomalia, cit., pp. 189 ss.; L. Bove, La strategia, cit., pp. 89-121.

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rappresentanza qualifica la passività e l’assolutezza dell’obbligo politico come attitudine soggettiva all’obbedienza, e dall’altro lato conferma che allorquando venisse meno questo paradigma costitutivo della crisi vi sarebbe sempre pronta l’ipotesi ben peggiore della riacquisizione dell’autonomia affettiva e ispirativa da parte della moltitudine sempre sovversiva197. In questo modo, peraltro, ben si comprende secondo questa impostazione come la congiunzione di formale e sostanziale nella teoria della rappresentazione risponda alla pretesa del potere politico di essere in grado di rappresentare attraverso criteri guidati dalla razionalità formale la sostanza imprevedibile e affettiva dell’irrappresentabilità della moltitudine. La paradossalità e la tragicità di questo modello di rappresentanza è tale da costituirsi strutturalmente intorno ad un concetto di crisi per il fatto che il sovrano deve impersonare questo tipo di rappresentazione sostanziale, ma allo stesso tempo per far ciò non si può affidare ad un paradigma qualitativamente superiore di diritto poiché altrimenti né rimarrebbe pregiudicata l’intera costituzione del potere ordinata intorno all’idea di scissione funzionale e rappresentanza formale. In effetti, questa operazione, mirata a ricreare artificialmente le condizioni della legittimità politica, ruota sostanzialmente intorno al problema del dar forma ad una nuova strutturazione funzionale della costituzione. E’ a fronte di tale problema che Hobbes elabora la propria proposta a partire dall’ideazione di un particolare e complesso rapporto tra stato di natura e stato civile non riducibile ad una relazione di tipo unilaterale, ma in ogni caso allineato ad un paradigma formalista e rappresentativo. Vi è la necessità prioritaria di una riarticolazione trascendente e formale dell’obbedienza politica, ma allo stesso tempo vi è la consustanziale priorità di mantenere la produzione immanente ed inarrestabile di soggettività ancorata al paradigma formale del patto, affinché quest’ultimo si possa presentare sempre come qualcosa di già avvenuto perché in verità prodotto costante dei singoli individui e della loro capacità naturale di autoproduzione di disciplina e legittimità198. La centralità della rappresentazione e dell’allegoria rispondono proprio a questa precisa esigenza, ossia alla necessità di mantenere una connessione sostanziale laddove tale connessione si contraddistingue per il suo carattere formale e allo stesso tempo ipersoggettivo di rappresentanza delle scissioni funzionali. In questo senso, la rappresentazione hobbesiana, in quanto si distingue dalla rappresentanza moderna di tipo meramente funzionale, diviene in realtà diretta espressione di quest’ultima, nella misura in cui il suo aspetto sostanziale di rappresentazione assoluta dell’allegoria e di potere eccezionale sono predisposti da Hobbes al fine di garantire l’effettività della scissione funzionale del regime proprietario. L’allegoria diviene così la figura del detournement hobbesiano nella misura in cui si rivela essere lo strumento capace di veicolare tra le due sfere separate di stato e società il flusso delle passioni grazie alle quali può essere prodotto quel patto sociale; rispettivamente, l’assolutezza e l’eccezionalità del monarca nel dramma barocco del

197 Cfr. P. Schiera, Specchi della politica, cit., pp. 373-386. Da notare che secondo Schiera, il ruolo della

melanconia in Hobbes è passibile di una ricostruzione soltanto nella misura in cui tale ruolo venga posto in relazione all’obbiettivo hobbesiano di porre un argine alla socialità naturalmente affettiva, ispirativi e distruttiva dei fanatici della guerra civile.

198 Cfr. Schnur, Individualismo, cit., pp. 89-101; P. Schiera, Lo stato moderno e il rapporto disciplinamento/legittimazione, cit., pp. 111-135; cfr. Id., Specchi della politica, cit., pp. 107-152, 367-373. V., infine, M. Oakeshott, Hobbes on Civil Association, Basic Blackwell, Oxford, 1975, in particolare le pp. 15 ss., 54-74.

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principe martire, e l’obbedienza assoluta del suddito rivolta attraverso lo sguardo soggettivo della melanconia. E’ da questo punto in cui la necessità della rappresentazione della strutturazione funzionale si tramuta nella necessità di chiudere in maniera formalistica il sistema che ai tre presupposti del potere costituente contenuti nella teoria hobbesiana ed essenziali alla dimensione soggettiva ed individualistica immanente della produzione del patto, si sovrappongono i tre elementi del concetto moderno sovradeterminando completamente l’apporto di Hobbes alla definizione dei primi. E’ evidente come questa chiusura della rivoluzione rimanga estranea all’esperienza inglese. In definitiva al fondo di questo tipo di contrattualismo rimane soltanto la premessa iniziale per cui l’immagine della rappresentazione può solo fare riferimento alla non-escatologia del barocco, ovvero al fatto che tale modello di rappresentazione assume il concetto di crisi come carattere strutturale della propria costituzione quale prezzo della trascendenza della forma, al punto da confinare in una posizione marginale anche l’originaria necessità di una rappresentanza di tipo funzionale. Un tipo di costituzione non accettabile per una rivoluzione comunque vittoriosa come quella inglese il cui obbiettivo concreto consisterà proprio nella dimostrazione della possibilità di fare a meno del formalismo nel fornire struttura e rappresentazione della proprietà. 2.3.2. Il contratto lockeano. Il principio della ragion sufficiente sulla soglia epocale della nuova legittimità. Rispondendo a Schmitt, Blumenberg fa un’affermazione di fondamentale importanza; affermazione che funge da efficace esplicazione del lavoro storico-concettuale che qui si sta tentando di portare avanti e che allo stesso tempo offre un punto di vista interessante dal quale poter inquadrare il costituzionalismo lockeano. Si potrebbe dire un’affermazione in linea con lo stesso utilitarismo lockeano. «Il concetto di ragione in questo libro non è quello di un organo di salvezza, e nemmeno quello di un’originarietà creativa. In analogia col principio della ragion sufficiente, vorrei designare questo concetto come quello di una ragione (Vernunft) sufficiente. Essa è sufficiente solo a fornire l’autoaffermazione post-medievale e a sopportare le conseguenze di questo allarme dell’autoconsolidamento. Il progetto della legittimità dell’età moderna non viene dedotto dalle prestazioni della ragione, ma dalla sua necessità199». Nel paragrafo precedente abbiamo ricostruito in che senso il diritto di natura e l’appropriazione ricoprano un ruolo fondativo di tipo immanente nella teoria lockeana del potere e come questo ruolo sia tale in quanto radicalmente estraneo ad un approccio di tipo formalista200. A questo punto, seguendo la coerenza del metodo lockeano è necessario stabilire in che senso l’elaborazione della proposta di equilibrio tra le istituzioni politiche presentata nel II Trattato consista in una particolare forma di struttura costituzionale in grado di fornire espressione delle scissioni funzionali per mezzo di un sistema di rappresentanza formale e di un sistema di rappresentazione sostanziale; e come nell’elaborazione di tale forma, la proposta lockeana, seppure

199 H. Blumenberg, La legittimità, cit., pp. 104-105. 200 Supra, Parte II, cap. II, par. 2.2.2, in particolare le pp. 189-190.

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originata dalle medesime necessità funzionali che trainarono la proposta hobbesiana, differisca in modo paradigmatico da quest’ultima. Similmente al problema della qualificazione giuridica dell’appropriazione e del diritto di natura, laddove si trattava di giungere ad una nuova articolazione del rapporto tra forma e materia non appiattito sul primo dei due termini in seguito al nuovo ruolo della condizionalità201, così anche il problema dell’individuazione di un nuovo equilibrio costituzionale tra le principali istituzioni politiche rappresenta per Locke essenzialmente una questione di forma, laddove però la sua proposta, lungi dal procedere formalisticamente, si inserisce in modo pratico nel dibattito in corso e nella contesa tra Re e Parlamento aperta definitivamente dalla rivoluzione. Stabilire le condizioni di una comunità politica legittima rappresenta per Locke un problema di forma che si traduce nella necessità di fornire la giusta rappresentazione dell’equilibrio costituzionale articolato funzionalmente secondo l’esigenza di rappresentanza del nuovo regime di proprietà e della neutralizzazione nel foro interno della questione religiosa202. Proprio perciò è un problema di forma, ma non formale, bensì sostanziale. Il nuovo ruolo della condizionalità porta con sé l’esigenza delle scissioni funzionali; e tuttavia tale ruolo non implica la possibilità di una predeterminazione razionale del confine tra le rispettive sfere pubblico/privato, esterno/interno. Il fatto che la condizionalità possa rappresentare comunque un fattore sovversivo della forma dell’associazione politica è un’ipotesi che permane in ogni caso; ipotesi peraltro parimenti riconosciuta da Hobbes203 e Locke204, e massimamente sviluppata da Spinoza205. Per Locke questo nuovo ruolo della condizionalità nell’obbligazione si traduce nell’identificazione del consenso quale condizione sostanziale principale della

201 Cfr. supra Parte II, cap II par. 2.2.2, pp. 190 ss. 202 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 121. 203 Cfr. supra Parte II, cap II, par. 2.2.1, pp. 175 ss. 204 Cfr. J. Locke, Due Trattati, II, cit, cap. XIX, § 227, 242-243, pp. 423-424, 440-441; cfr. J. Dunn, Il

pensiero politico, cit., pp. 41-55. 205 Cfr. B. Spinoza, TP, cit., cap. II, §§ 1-24, pp. 157-182, cap. VI, § 2, p. 219. Il materialismo

spinoziano rovescia completamente il formalismo hobbesiano collocando il concetto di patto al di fuori dello schema contrattuale e discostandosi in modo paradigmatico anche da un’eventuale assimilazione alla concezione lockeana. La legittimità della forma stato, al contrario di Hobbes, si fonda in modo immanente in Spinoza sulla capacità espressiva della materia; capacità che tende alla coesione unitaria, non in forza di un’ipostatizzazione formalista e trascendente, e dunque di una definizione monarchica e assolutista della forma di governo, ma in forza della capacità della moltitudine di condursi come una mente sola. Non è presente perciò la questione lockeana (compresa nel dualismo biunivoco di forma e materia, e tra popolo e principe) delle condizioni morali della legittimità entro cui far rientrare la materialità della possibilità di un appello al cielo (infra, pp. 219 ss.), poiché il problema della sovversione esiste solamente nel momento in cui esso prende corpo nell’esigenza e nella capacità della moltitudine di mutare forma di governo. Il diritto civile è infatti interamente subordinato in senso immanente al diritto naturale. Il problema della forma e del suo mutamento è quindi secondario e marginale (la moltitudine può liberamente optare per una delle forme di governo secondo la propria inclinazione) nella misura in cui questa subordinazione totale della forma alla materia presuppone anche e soprattutto il rifiuto del principio base del contrattualismo costituito dalla massima dello stare ai patti. Cfr. A. Droetto, Introduzione a, B. Spinoza, TP, cit., pp. 85-94, 105-109; A. Negri, L’anomalia selvaggia, cit., pp. 140-150, 225-237; R. Ciccarelli, Tantum juris, quantum potentia. Sulla teoria spinozista della potenza del diritto, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 3, 2008, pp. 457-488. Da ultimo sull’influenza del pensiero spinoziano su Locke si v. W. Klever, Locke’s disguised spinozism, 2009, in http://www.benedictusdespinoza.nl/lit/.

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legittimità della comunità politica206. Non è possibile stabilire la condizionalità specifica, il perché dell’obbligazione di ogni singolo individuo o tanto più predeterminare in modo assolutistico la forma razionale dell’obbedienza, così come non è possibile identificare il problema della forma costituzionale con il problema di stabilire le condizioni per una legittimità procedente dalla creazione dal nulla207. La stessa distinzione tra foro interno e foro esterno è utile a comprendere la riallocazione delle condizioni in grado di garantire una possibile unità politica, ma di certo non può rappresentare uno strumento disponibile alla manipolazione dall’«esterno»208. Libertà di fede e tolleranza religiose rappresentano cioè l’oggetto di una neutralizzazione solo in quanto risultato di un processo sviluppato soggettivamente nel seno della società; proprio per questo tale processo si può dimostrare capace di garantire la scissione funzionale, e dunque le condizioni in forza delle quali si rende possibile un’unità politica sul piano esterno intersoggettivo. In pratica, tutto il contrario dell’approccio formalista di Hobbes basato sulla pretesa di fondare l’ordine (e la stessa scissione tra interno ed esterno) interamente in modo eteronomo; nel caso lockeano l’autonomia del soggetto viene elevata a fattore produttivo delle condizioni che in foro interno possono determinare l’esistenza del patto. Diversamente, quindi sul piano esterno, la verifica della legittimità rimane sempre qualcosa di verificabile soltanto empiricamente; è la presenza del consenso a indicare l’effettiva esistenza dell’unità politica. Naturalmente si potrebbe obbiettare che in questo modo la ricerca della legittimità politica proceda in modo tautologico e contingente. E’ evidente che il consenso rappresenti una clausola della legittimità di tipo sostanziale; e tuttavia si deve notare come questa clausola sia capace di ribaltare le condizioni materiali dell’unità politica hobbesiana, ossia l’occasionalismo del suo contrattualismo: il patto esiste soltanto in occasione del consenso209. D’altra parte, però, il consenso ricopre anche una posizione logica formale all’interno della teoria lockeana, nella misura in cui rappresenta una condizione logica generale collegata ai restanti elementi della proposta costituzionale210. Il consenso si presenta così come l’escamotage grazie al quale Locke può gettare le basi per una dottrina dell’integrazione del potere costituente nei poteri costituiti, con l’obbiettivo minimo di fare in modo di escludere logicamente la possibilità che il potere costituente si presenti come sovversivo dell’ordinamento politico. Ciò può accadere soltanto in quanto, è bene sottolineare, viene predisposto da Locke un modello di legittimità politica nuovo, non ancorato al diritto antico, ma ancorato al tempo stesso nuovamente ad una condizione sostanziale, l’esistenza materiale del consenso all’autorità. Affermazione che può suonare nel linguaggio della costituzione materiale come presenza della volontà costituente nel potere costituito, se non fosse che nel caso inglese tale linguaggio si rivelerebbe inadatto perché dovrebbe assumere il contenuto e la forma costituzionale come in continuo mutamento. Ipotesi peraltro estranea allo stesso costituzionalismo lockeano maggiormente interessato all’identificazione delle

206 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 143-172. 207 Cfr. H. Blumenberg, La legittimità, cit., p. 104. 208 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 23-55. 209 Cfr. J. Locke, Due Trattati, II, cit, cap. VIII, §§ 113-115, pp. 331-333, cap. XVI, §§ 175 ss., pp.

383 ss.; J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 167-172. 210 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 168.

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condizioni d’ordine e di stabilità, piuttosto che alla questione del mutamento o meno della costituzione211. Il ruolo del consenso rappresenta dunque la chiave di volta del costituzionalismo lockeano. L’irriducibilità di questo ruolo è la medesima libertà del potere costituente di stabilire e poter rimettere in discussione continuamente termini e condizioni del patto politico. Questa libertà ha le sue radici nella nuova posizione della condizionalità nella determinazione soggettiva dell’obbedienza politica per cui come si è già visto il patto sociale stesso risulta essere qualcosa di interamente prodotto all’interno dell’individuo secondo una polarità che mira ad abbracciare potenzialmente l’intera conformazione soggettiva moltitudinaria, dall’ascesi calvinista e alla pura appropriazione materiale. Per il diritto e il costituzionalismo inglesi tale libertà implica la necessità di riarticolare la legittimità delle fonti normative in relazione al nuovo ruolo della condizionalità; ovvero, è necessario assumere il concetto di creazione di giuridica nei termini di un processo nomopoietico. E’ quanto accade precisamente con la contesa politica al centro degli eventi rivoluzionari, nella misura in cui il dibattito sull’origine del diritto, condotto apparentemente secondo i parametri della vecchia legittimità, porta con sé un nuovo terreno di scontro condotto sulla base del nuovo paradigma condizionale. Il pragmatismo e la flessibilità del razionalismo inglese assume paradossalmente i contorni di una conformità solo apparente al criterio imperante della tradizione. In realtà, l’intero dibattito, dal momento stesso che prende avvio, si dipana già di per sé su una nuova piattaforma condizionale, in virtù del fatto che l’autentico ordine del discorso ad esso sotteso è la questione del soggetto a cui attribuire razionalmente (l’origine della) la facoltà di produzione del diritto212. In questo senso la nuova legittimità del diritto definita in modo condizionale è qualcosa già in marcia da sé, a cui però è ancora necessario fornire una forma costituzionale compiuta in grado di organizzare funzionalmente tale nuova forza legittimante. Locke si inserisce coerentemente all’interno di questa contesa da cui prende avvio il processo rivoluzionario per elaborare la propria proposta costituzionale in riferimento al livello maturato da tale dibattito nel corso del periodo rivoluzionario - in particolare è possibile considerare la proposta lockeana come una possibile soluzione coerente dei dibattiti di Putney213 -, laddove i termini della contesa assumono progressivamente i contorni di un dibattito sulla forma dell’equilibrio repubblicano. E’ innegabile, il diritto non è immutabile ma è in continuo movimento; parimenti la creazione giuridica, seppure non si definisca unicamente intorno al concetto di creatio ex nihilo, consiste essenzialmente in un processo di creazione razionale, nomopoietico. Si tratta a questo punto di stabilire la modalità di articolazione di questo processo, nella consapevolezza che, da un lato, vi è un principio materiale irriducibile e costitutivo dell’ordine giuridico che afferma la libertà di stabilire forma e contenuto dell’ordinamento, e che dall’altro lato, in conformità con il particolare rapporto tra diritto e storia che caratterizza il percorso costituzionale inglese e la gnoseologia dello

211 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 147, 215, dove viene dimostrato con quale ‘disinvoltura’

Locke elabora le condizioni limite di stabilità della società politica sulla base della previsione del diritto di resistenza.

212 Cfr. supra Parte I, cap. II, par. 2.4, pp. 83-88, con, J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 37-38, dove viene affermato il carattere essenzialmente cognitivo della ricerca della legge di natura e la conseguente impossibilità di fondare tale ricerca unicamente sulla tradizione, e pp. 173 ss.; cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., pp. 292-298.

213 Infra, Parte II, cap. II, par. 2.4, pp. 235 ss.

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stesso Locke, non esiste un diritto astratto, giusto o anche formalmente predeterminabile, per ogni caso concreto. Di conseguenza è necessario operare una distinzione tra produzione, esecuzione ed applicazione del diritto, sebbene al massimo grado di libertà di determinazione riconosciuto al momento della produzione non corrisponda una relazione di tipo gerarchico trascendente con gli altri due momenti della creazione giuridica. Da un punto di vista logico è possibile affermare che le tre fasi siano di fatto equiordinate nel sistema delle fonti giuridiche lockeane214. Ognuna contribuisce in una maniera specifica ed altrettanto utile al processo di creazione del diritto. La massima libertà di determinazione del contenuto legislativo si accorda con l’obbiettivo di Locke di integrare al massimo grado le potenzialità costituenti215; e non a caso tale libertà si potrà rintracciare nella determinata dottrina post-rivoluzionaria dell’onnipotenza della sovranità parlamentare. L’esecuzione rappresenta invece la fase necessaria affinché disposizioni astratte e generali possano raggiungere la molecolarità delle situazioni giuridiche, nonché al fine di poter garantire l’unitarietà delle connessioni interistituzionali e tra privati cittadini e le stesse istituzioni, in un sistema in cui ogni singolo ha delegato il proprio diritto di guerra216. Essa dunque per definizione deve essere attribuita ad un organo monocratico, il re, che la esercita nella forma della Prerogativa. In terzo luogo, l’applicazione chiude coerentemente il sistema delle fonti e assicura che quest’ultimo riproduca costantemente il fine per il quale l’intero sistema viene costituito, la garanzia della positività del diritto di natura. Infatti, il ruolo attivo di creazione attribuito al potere giudiziario, in conformità con i principi dell’induttivismo del common law e con la rinuncia iniziale di ogni singolo a essere giudice di sé, assicura in ultima istanza, che con la concezione ricognitiva della giurisprudenza venga affermata l’intrinseca positività e giustizia della legge di natura contenuta nel caso concreto, ovvero la stessa autenticità contenuta nella volontà legislativa ma indisponibile alla deduzione formalista217. D’altra parte si deve considerare che l’intero percorso lockeano prende avvio dalla constatazione della materialità e giuridicità della molteplicità costituente attraverso cui si esprime il nuovo ruolo della condizionalità218. Il problema per Locke assume così i contorni del problema pratico di trovare un modo di funzionalizzare il potere costituente, la molteplicità espressiva delle forme giuridiche, all’interno di un sistema di legittimità a sostegno dell’architettura costituzionale. Concretamente per l’ordine giuridico, sia di quello fondato sul case law o sull’altro basato sulla generalità della norma, il potere costituente pone questa condizione irriducibile e consistente nella dipendenza materiale e immanente dell’effettività dell’ordine di legittimità da quella volontà libera e non predeterminabile. Materialità giuridica immanente della potestà costituente e essenza condizionale del processo creativo del diritto impongono conseguentemente un doppio criterio logico nella determinazione della forma

214 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 173 ss. 215 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XI, § 134, pp. 346-347. 216 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XII, §§ 144, 147, pp. 358-360. 217 Vi è sottesa alla costruzione costituzionalistica lockeana, apparentemente costruita sul carattere

di astoricità, una compatibilità con i principi del common law nella versione fornita al Secolo da Coke tale da rilegittimare l’antico diritto sotto le spoglie del funzionalismo. Cfr. J.G.A. Pocock, L’Ancienne Constitution, cit., p. 296.

218 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XIII, § 149, pp. 361-362, dove afferma che «la comunità è sempre il potere supremo, ma non in quanto considerata sotto una forma di governo, dal momento che questo potere del popolo non può mai aver luogo sin che il governo non sia dissolto».

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interistituzionale: un criterio costitutivo ed un criterio regolativo219. Il primo, prevalentemente, viene ricondotto alla costituzione di un organo legislativo posto in una posizione di preminenza e supremazia rispetto agli altri poteri istituzionali in quanto a libertà di determinazione dei propri atti. Il secondo può essere ricondotto alla costituzione del potere monarchico intorno all’istituto della prerogativa posta a garanzia dell’esecuzione dei fini delle leggi positive220. In ogni caso, comunque, è doveroso affermare fin da subito che la distinzione tra i due criteri non equivale ad una distinzione di competenze, ma segnala soltanto la diversa posizione dei rispettivi atti nella rete di produzione delle fonti giuridiche. Il criterio costitutivo può ben esprimersi fuori dalle maglie istituzionali, o anche più semplicemente attraverso il potere di interpretazione del monarca nell’esercizio della prerogativa, o dei giudici nell’applicazione del diritto; così come l’attività legislativa può effettivamente ridursi ad un’attività regolativa. La distinzione tra i due criteri è utile soltanto a comprendere in che modo la proposta costituzionale di Locke risponda a due obbiettivi logici e concreti: la necessità della canalizzazione della legittimità costituente all’interno di un sistema istituzionale capace di selezionare il contenuto mutevole della volontà politica costituente e la garanzia dell’effettività dei fini perseguiti con l’istituzione del patto221. In questo modo, ciò che da un punto di vista teologico potrebbe costituire un’identità, (l’identità tra la necessità dell’ontologia costitutiva e la positività della natura), da un punto di vista giuridico e costituzionale costituisce una proposta istituzionale ben articolata tra Parlamento e Monarchia in grado di rendere effettiva l’armonia logica del sistema di fonti giuridiche sopra esposta. Elaborare una proposta in grado di garantire le condizioni di un giusto equilibrio istituzionale significa dunque trovare una possibile modalità di articolazione dei rapporti tra Parlamento e Monarchia, legislativo ed esecutivo, in grado di rendere giustizia del particolare rapporto tra le fonti giuridiche che si deve venire ad istaurare in seguito dell’emergere del ruolo della condizionalità nella definizione del processo di creazione giuridica. Il parlamento è l’istituzione titolare del potere legislativo alla quale viene ricondotta all’interno della struttura costituzionale lockeana la funzione materiale di canalizzazione del flusso ininterrotto del potere costituente. Il potere di fare le leggi equivale alla facoltà di tradurre in atti e deliberazioni, ossia alla facoltà di dare forma giuridica, della volontà politica prodotta dal soggetto titolare della sovranità, il popolo (o moltitudine)222. In questo caso, in effetti, diviene secondaria la definizione esatta che viene fornita di questo soggetto; ciò che conta è il meccanismo formale e funzionale capace di mettere in moto il processo di rappresentazione di tale volontà sovrana in senso unitario, per cui praticamente la conversione della moltitudine in popolo avviene in forza unicamente di tale meccanismo in grado di tradurre il rapporto tra unità e molteplicità dell’ontologia costitutiva in un rapporto di rappresentanza assimilabile al criterio quantitativo/sintetico. Questo meccanismo è un sistema di rappresentanza politico inteso in senso moderno, interamente formale in quanto alla sua modalità di

219 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 174-175. 220 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 175. 221 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XI (Dell’estensione del potere legislativo), pp. 346-359. 222 Un’eventuale opposizione tra i due termini viene infatti scartata a priori, così come peraltro la

questione della scissione tra stato e società, attraverso l’utilizzo del concetto di società politica (e di commonwealth o civitas) per indicare il corpo sociale. Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. X, § 133, pp. 345-346.

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selezione ed in quanto al grado di separazione ed autonomia di decisione dei rappresentanti dai rappresentati che immediatamente segna una differenza paradigmatica rispetto ai modelli premoderni legati al vincolo di mandato223. L’esercizio del potere legislativo rappresenta quindi l’espressione giuridica e politica unitaria e formale della volontà costituente; espressione determinata in maniera del tutto formale, poiché in primo luogo il contenuto di tale volontà si riduce, secondo la gnoseologia lockeana, a rappresentazione immaginativa, in quanto tale espressione diviene possibile in forza del sistema e del linguaggio completamente separato ed autonomo dall’oggetto rappresentato dalla rappresentanza moderna; e, in secondo luogo, in quanto la libertà di mandato e la modalità di determinazione di tale volontà risultano interamente dominati dall’unitarismo del principio di maggioranza in modo da delineare un sistema di rappresentanza definito esclusivamente dal suo carattere funzionale di rappresentazione formale della scissione tra i rispettivi campi dell’economia, del diritto e della politica. Questo tipo di definizione articolata secondo i principi della delega e di maggioranza potrebbe naturalmente riaprire in forma nuova la questione dibattuta del soggetto di diritto titolare secondo Locke dei diritti politici. Tuttavia, seguendo l’impostazione già delineata, è possibile affermare che l’esigenza di Locke non era sicuramente quella di operare delle ipostatizzazioni logiche dell’articolazione della legittimità politica in base a delle cristallizzazione dei ruoli sociali. Al contrario, la possibilità di regimi differenziati di proprietà se da un lato è in grado di identificare nei proprietari la figura titolare dei pieni diritti, dall’altro permette di definire un diritto di proprietà e appropriazione costruito sul concetto di lavoro quale condizione di possibilità della stessa mobilità sociale, determinando automaticamente la possibilità di una legittimità politica onnicomprensiva; ovvero in altri termini la possibilità di convertire il concetto di molteplicità costitutiva agli schemi sintetico-quantitativi del consenso. La possibilità di regimi differenziati e conseguentemente la possibilità anche di diversi status giuridico-politici da un lato si riflette nella previsione di due tipi di consenso (tacito ed esplicito), e dall’altra parte permette di rendere indifferente alla forma costituzionale la stessa scelta di attribuire diritti politici elettivi differenziati in modo da poter continuare ad affermare il nuovo principio di legittimità basato sul principio maggioritario di carattere funzionale il cui scopo – è bene ribadire – è rappresentato proprio dalla garanzia della possibilità di accumulazione e regimi differenziati224. Ad una prima analisi del potere legislativo, quindi, sembrerebbe che, al contrario di Hobbes, la questione del porre termine alla rivoluzione, si ponga nei termini della necessità di integrare processualmente il potere costituente all’interno dei meccanismi funzionali della rappresentanza politica. Il principio di maggioranza che risiede alla base del potere legislativo infatti dovrebbe essere il principio funzionale in grado di assorbire e tradurre in una volontà unitaria le istanze plurali di legittimità procedenti in senso ascendente già selezionate sinteticamente attraverso la delega della rappresentanza225. In effetti non vengono posti dei limiti alla capacità di

223 Cfr. A. Cavarero, La teoria contrattualistica, cit., pp. 163-166. 224 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 286-291; J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 153-

160. 225 E’ in relazione all’affermazione di questo principio funzionale consistente nella capacità di

instaurare un sistema logico di decisione collettiva che si può stabilire il passaggio dallo stato di natura alla società politica. Cfr. J. Locke, Due trattati, cit., cap. VIII, § 95-99, pp. 315-318; cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 152.

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determinazione del contenuto degli atti promananti dal Parlamento: in pratica con la facoltà libera di legiferare viene riprodotta l’originaria libertà di determinazione del contenuto della legittimità, laddove il solo rispetto della procedura utilizzata conferma implicitamente la comunanza del patto e della forma della legittimità. La produzione della legittimità viene così rovesciata rispetto alla proposta hobbesiana: la sua determinazione non si ricava da un’ipostatizzazione formalistica e assolutistica discendente, ma al contrario dalla capacità materiale di selezione in fase ascendente della molteplicità costitutiva da parte di un meccanismo di rappresentanza e rappresentazione interamente definito in senso funzionale e formale. Se dunque il potere legislativo del parlamento sembra rispondere prevalentemente ad un uno dei due criteri funzionali posti alla base della struttura costituzionale, il criterio costitutivo, laddove questo criterio si contraddistingue per la sua funzione di dare rappresentazione del contenuto della volontà politica, dall’altro lato Locke identifica nella Prerogativa monarchica il potere in grado di garantire l’effettività della nuova legittimità226. Vi è difatti un limite implicito nella capacità di determinare il bene della società per mezzo della deliberazione legislativa costituito dalla sua essenza formale di deliberazione/rappresentazione. Affinché venga fornita continuità alla ricerca del giusto indirizzo politico e affinché la giustizia delle disposizioni generali possa essere tradotta nella giustizia di ogni situazione soggettiva, occorre uno specifico potere distinto dal legislativo e di carattere esecutivo in grado di garantire l’efficacia del contenuto della volontà politica espressa dal legislativo227. Tuttavia, è bene sottolineare, il potere di esecuzione non va inteso in senso meccanicistico come riflesso neutro di una volontà determinata unicamente dalla deliberazione. L’utilizzo della prerogativa, la facoltà di rendere azionabile ad ogni singola situazione giuridica il contenuto espresso nella volontà deliberata, costituisce sempre un momento produttivo del processo di creazione giuridica che Locke fa corrispondere alla funzione generale per cui viene predisposto tale potere: la garanzia della ricerca del bene comune della società, ossia in ultima istanza dei diritti di natura e della proprietà. La prerogativa all’interno dell’architettura costituzionale risponde ad entrambi i criteri funzionali: al criterio costitutivo in quanto si presenta come attività di interpretazione che contribuisce in maniera determinante alla formazione della volontà giuridica; al criterio regolativo in quanto la sua attività è predisposta al fine della ricerca del bene comune, ossia dei fini espliciti della costituzione del patto che per Locke coincidono idealmente con una serie di diritti naturali dell’uomo e materialmente con l’esistenza di un consenso a sostegno dell’autorità politica228. L’intreccio tra i due criteri, peraltro, permette di cominciare a inquadrare l’istituto monarchico come potere di selezione e individuazione della volontà giuridica di tipo sia formale che sostanziale. Da un lato la prerogativa in quanto attività di interpretazione risulta assimilabile al potere esecutivo continentale, dall’altro, in quanto la sua attività risulta vincolata alla ricerca del bene comune (non formalizzato comunque in disposizioni di rango giuridico formale più elevato), fa sì che la monarchia continui a presentarsi come anello di garanzia dell’unità politica in senso sostanziale. L’alterità dal modello continentale rimane in questa maniera paradigmatica; anche utilizzando un

226 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 176-177. 227 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XIII, § 153, pp. 365-366, cap. XIV, §§ 159-161, pp. 372-

374. 228 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XIV, § 159, pp. 372-373; J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp.

174-177.

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linguaggio continentale è facile constatare come sia nel caso normale dell’interpretazione ordinaria delle leggi, sia nel caso eccezionale dell’utilizzo della prerogativa come attività libera, il ruolo costitutivo e creativo della volontà giuridica della monarchia non è mai qualcosa di giustiziabile da un punto di vista legale o formale, ma solo dal punto di vista sostanziale della ricerca dell’utilità comune, e dunque, come si vedrà, non per mezzo di un giudice terreno, bensì soltanto con l’eventuale appello al cielo229. A questo punto però si deve osservare come nella predisposizione di questo particolare rapporto tra re e parlamento sia stato compiuto un passaggio paradigmatico di legittimità in grado di riarticolare l’antica funzione di rappresentazione dell’unità riprodotta dalla monarchia secondo un nuovo criterio di rappresentazione funzionale di tipo non soltanto formale ma anche sostanziale che pretende di rendere giustizia della complessità della molteplicità costituente. La peculiarità di questa nuova articolazione consiste nel fatto che l’indisponibilità della monarchia da parte del popolo non viene fatta derivare da una sua originale legittimità potenzialmente in contrapposizione con quella del parlamento, ma al contrario dalla sua intrinseca funzione di tutela dell’interesse collettivo, similmente alla figura moderna del trust la quale però, in questo caso, in via di fatto deve includere la possibilità del ritiro e della successiva riattribuzione della fiducia da parte della comunità all’autorità garante230. A questa funzione viene posta una disciplina formale che distingue i campi di intervento e di non interferenza con gli altri poteri costituzionali ma che tuttavia risulta essere una disciplina formalisticamente non giustiziabile fino in fondo. L’attività della monarchia come attività di un corpo non sovraordinato in senso statalista rispetto alla società, ma ancora interno alla società politica231, risulta essere così un’attività istituzionale di carattere limitato posta al fine di garantire i fini dell’associazione e giustiziabile solo in riferimento al conseguimento di tali fini – e in tal senso va considerato anche l’istituto dell’impeachement laddove questo si sviluppa come strumento in grado di mettere sotto accusa il titolare del potere esecutivo sotto il profilo essenzialmente politico232. Apparentemente la monarchia continuerebbe, come istituzione compresa tra la dicotomia tra comunità politica e commonwealth, a svolgere in questo senso una funzione di rappresentazione dell’unità non dissimile dalla precedente ricoperta all’interno del sistema dell’universitas. Come nella dottrina del corpo mistico vi sono due elementi a sostegno della legittimità del potere limitato e arbitrario della monarchia: l’indisponibilità e la superiorità del diritto, ora convertito nell’indisponibilità ideale di un diritto di proprietà antecedente e coestensivo dell’associazione politica, e l’esistenza materiale di un consenso all’autorità politica, il cui ruolo veniva riconosciuto nella possibilità dei soggetti dell’Universitas di agire direttamente per la tutela del proprio diritto, e che ora

229 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 176-177, 180; J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XIV, §

168, pp. 378-379. 230 Che il contratto lockeano possa essere derivato dall’evoluzione della figura del trust è una tesi

avanzata tra gli altri da G. Duso, Patto sociale, cit., p. 29. Sulla figura del trust cfr. supra, Parte I, cap. II, nota 75, p. 86. Sulla sua relazione con la ridefinizione del rapporto tra dominium e imperium all’interno del passaggio da costituzionalismo antico a moderno v. supra, Parte I, cap. III, par. 3.3.1, in particolare v. nota 57, p. 117. V. inotre J. Dunn, «Trust» in the Politics of John Locke, in Locke, cit., II, pp. 118-138, estratto da Rethinking Modern Political Theory: Essays 1979-1983, cap. 2, Cambridge University Press, Cambridge, 1985.

231 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 143 ss.; Q. Skinner, Virtù rinascimentali, cit., pp. 318-319. 232 Cfr. C. Mortati, Le forme di governo. Lezioni, Cedam, Padova, 1973, p. 100.

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viene stabilito dalla possibilità sempre imminente di un appello al cielo, quand’anche questo non venga considerato lecito. In realtà, seppur mantenendo una apparente continuità nella forma, la legittimità della dottrina dell’antica costituzione e del corpo mistico viene di fatto rovesciata in modo paradigmatico. L’antica superiorità e comunanza del diritto non si determina in forza della sua origine trascendente e universalizzante, ma viene dedotta dalla necessità del perseguimento dell’utilità comune, laddove tale necessità si misura nel grado e nella qualità del consenso conferito all’autorità politica. Avviene perciò uno scambio di posizione tra i due elementi della legittimità. Se nella dottrina del corpo mistico la costitutività delle azioni di resistenza al potere venivano ricondotte all’interno della stessa costituzione in forza del concetto di universitas, ora con la teoria del consenso lockeano viene sancito che il principio dell’unità politica consistente nel perseguimento del bene comune è tale soltanto in quanto sia presente tale volontà nel corpo sociale sovrano, il popolo (o la moltitudine)233. E’ su questo rovesciamento sviluppato su tale filo di continuità che si gioca la rifunzionalizzazione lockeana della struttura costituzionale. L’intera struttura formale della costituzione può essere interpretata in relazione a questa operazione. Anche la stessa collocazione del potere legislativo procede da questo rovesciamento fondamentale; il parlamento non rappresenta che l’immagine di una scissione funzionale tra pubblico e privato e tra interno ed esterno, che nell’impossibilità di una predeterminazione eteronoma dei rispettivi campi, può solo rispondere alla necessità di delimitazione formale del campo politico nel senso di una modalità di selezione formale dei rappresentanti e di una subordinazione sostanziale alla volontà del corpo sociale. La proposta hobbesiana subisce così un ulteriore ribaltamento logico che conferma la sua astrazione dalla realtà: al procedere ascendente della volontà legislativa, si sovrappone la delimitazione formale e ipostatizzata del campo della politica consistente nell’individuazione della stessa procedura formale di selezione, e nella contemporanea e immanente soggezione di tale campo e tale volontà, ad una forza originaria costituente, soltanto convenzionalmente definibile come consenso234. Tornando però al tema specifico della prerogativa si deve osservare come anche questa istituzione risponda al pari del potere legislativo all’obbiettivo dell’integrazione del potere costituente nel potere costituito. Se il parlamento rappresentava un potenziale di questa integrazione in senso formale identificabile nella capacità di rappresentazione formale di una volontà selezionata in modo funzionale al regime di proprietà ed a un sistema di diritti intesi in senso privatistico, la prerogativa si incarica invece di integrare in senso sostanziale il restante non rappresentabile formalmente dal sistema rappresentativo. «Il re non muore mai» è affermazione ancora valida nel costituzionalismo lockeano e postrivoluzionario; la sua funzione di rappresentazione sostanziale si adatta alla nuova struttura funzionale nella forma della prerogativa come potere di esecuzione inserito all’interno di un sistema determinato di fonti giuridiche e di articolazione della legittimità politica secondo la distinzione formale/sostanziale definita dalla complementarità del rapporto con il Parlamento e simboleggiata dalla formula sovrana The King in Parliament. In questo modo, ancora in senso funzionale, Locke risolve il problema in definitiva più urgente per la chiusura del ciclo

233 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 153-157. 234 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 151, dove specifica che il fondamento della legittimità non

è storica ma logica, e risiede nella considerazione lockeana dello stato di natura la cui funzione autoritativa di legittimazione in definitiva è ricondotta a Dio.

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rivoluzionario senza dover ricorrere a paradigmi formalistici o assolutistici: la questione del controllo dell’esercito viene risolta infatti attribuendo la funzione militare unicamente al Re, fermo restando naturalmente la necessità della deliberazione parlamentare per il relativo sostegno finanziario di tale attività235. E’ possibile affermare dunque che l’intera riorganizzazione in senso funzionale risponda a dei criteri logici formali posti al fine della regolazione della volontà politica costituente e del conseguente ruolo della condizionalità nella determinazione delle forme giuridiche. Organizzazione che tuttavia è possibile in forza di due funzionalizzazioni della base materiale da cui procede la legittimità e del fine sostanziale cui è diretta la costituzione del patto. Tali funzionalizzazioni sono tali in quanto sia il popolo, la moltitudine, sia il Re assumono e riconoscono implicitamente la forma di tale funzionalizzazione, il patto politico: il metodo della rappresentanza da un lato, e l’esercizio della prerogativa come potere di esecuzione nel senso qui indicato. La vera peculiarità però di questo sistema formale non consiste nel fatto che questo riconoscimento avviene una volta per tutte, ossia nel fatto che il riconoscimento implica la neutralizzazione dell’aspetto sostanziale appannaggio di quello formale della legittimità; ma al contrario la sua peculiarità, per cui è pertinente definire il sistema lockeano come sistema costituzionale funzionale, consiste nella capacità di questa struttura costituzionale di rendere la funzionalizzazione causa immanente dell’intero circuito di produzione giuridica. In pratica il sistema si definisce per la sua capacità di selezione formale, ma la sua condizione di esistenza rimane nel suo carattere sostanziale identificandosi da un lato nella presenza di un consenso e dall’altro nel perseguimento dell’utilità comune. La funzione di rappresentazione della volontà politica compresa tra il formalismo della selezione dei rappresentanti e la sostanzialità del fine perseguito con la prerogativa conferma questo ruolo del carattere sostanziale della legittimità lockeana che attraversa in maniera ascendente e discendente l’intera struttura formale. In altri termini, la sostanzialità della prerogativa riproduce al vertice della forma costituzionale la sostanzialità del consenso dal quale l’autorità politica non può prescindere per la sua esistenza. Ma per contrappasso la libertà d’esercizio della prerogativa stessa può incontrare un limite negativo per cui l’intero cammino della legittimità è costretto a ricominciare dal fondo della sua base di produzione. Alla degenerazione del potere legislativo236, e all’utilizzo della prerogativa, nel momento essa si traduce nell’esercizio di un potere tirannico, fa seguito la legittimità del diritto di resistenza237, di un appello al cielo. Il circolo funzionale della legittimità può ritornare in questa maniera alla sua origine autenticamente sostanziale. Chiaramente il ricorso al diritto di resistenza ossia alla massima espressione sostanziale e diretta della volontà di determinare i termini e il contenuto del patto politico non è

235 Cfr. J. Locke, Due trattati, cit., cap. XII, § 146, pp. 359-360. Sull’importanza ai fini della chiusura

definitiva del ciclo rivoluzionario ricoperta dalla centralizzazione del controllo di un esercito permanente v. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 703-720, il quale peraltro mette in connessione questo tipo di accentramento alla rivoluzione finanziaria del debito e al seguente e particolare processo di ‘esportazione’ della rivoluzione messo in atto ‘spontaneamente’ attraverso il controllo dei mari e il colonialismo. Sul ruolo ricoperto dal pensiero neo-harringtoniano nella ridefinizione repubblicana dei nuovi equilibri costituzionali a partire dalla seconda metà del Seicento v. anche D. Wootton (a cura di), Republicanism, Liberty, and Commercial Society, 1649-1776, Stanford University Press, Stanford, 1994.

236 Sostanzialmente, l’unico caso predeterminato di chiara degenerazione è rappresentato, oltre che dal mancato rispetto del principio di maggioranza nell’imposizione delle tasse, dalla violazione dei diritti di proprietà. Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XI, §§ 138-142, pp. 346-357.

237 Cfr. J. Locke, Due Trattati, II, cit., cap. XIX, § 221-222, pp. 418-420.

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predeterminabile alla stregua di una fattispecie formale; è possibile però a partire dalla massima «là dove la legge finisce, comincia la tirannide238» individuare le condizioni in grado di stabilire la legittimità di tale ricorso. Da un punto di vista generale, infatti, la legittimità del diritto di resistenza si determina nel momento in cui al governo delle leggi si sostituisce un governo tirannico retto unicamente dalla forza e dalla violenza, un governo illegittimo239, ovvero nel momento in cui si viene a determinare lo stato di guerra240. L’indeterminazione di tale definizione, accentuata dall’assenza di un’architettura formale dei rapporti interistituzionali, deve essere quindi sostituita da una serie di condizioni ricavabili dagli stessi meccanismi funzionali della costituzione lockeana. Innanzitutto, si deve ricondurre il diritto di resistenza alla sua origine teologica e alla sua posizione di fonte sostanziale della legittimità nel sistema lockeano per cui tale diritto si configura come un appello al cielo241. Poiché non è possibile stabilire attraverso un giudice terreno se vi è stata una violazione effettiva e ricercata della legge e del circuito formale di legittimazione – ed è forse proprio su questo punto che avviene il naufragio del costituzionalismo antico della repubblica mistica -, allora si deve rimettere la decisione all’unico giudice da cui promana l’intera conformazione del cosmo e delle istituzioni politiche242. Se vi è stata rottura del patto a seguito dell’azione umana può essere stabilito soltanto dall’autorità originaria a cui fa riferimento l’intera legittimità del patto243. E’ a Dio infatti che va ricondotto lo stato di natura e l’esistenza dei diritti naturali dell’uomo per la cui tutela viene istituita la società politica. Conseguentemente però l’appello al cielo non può configurarsi come una libertà a disposizione del singolo in qualunque momento - sebbene in senso logico si presenti come direttamente azionabile dagli individui244; al contrario esso si presenta come possibilità praticabile soltanto quando sia presente un sospetto concreto di rottura del

238 Cfr. J. Locke, Due Trattati, II, cit., cap. XVIII § 202, p. 403. 239 Cfr. J. Locke, Due Trattati, II, cit., cap. XVIII, § 199, p. 401. 240 Cfr. J. Locke, Due Trattati, II, cit., cap. III, pp. 250-254, in particolare § 21 (La guerra come appello

al cielo); cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 193 ss. dove la ricostruzioni delle condizioni di legittimità della resistenza procede seguendo l’articolazione della relazione tra i casi della conquista e dell’usurpazione, e le condizioni di legittimità dell’autorità politica.

241 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 210; J. Locke, Due Trattati, II, cit., cap. XIV, § 168, pp. 378-379.

242 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 212-213, laddove precisa la distinzione tra questo il diritto di resistenza lockeano e quello di derivazione propriamente calvinista, per cui il primo si contraddistingue come teoria della restaurazione di un grado preesistente di legalità in forza della connsessione esplicita tra religione, individualismo, diritti naturali di proprietà. «La struttura dell’azione garantita dalla religione, da cui dipendeva per Locke il diritto di resistenza, era un ordine di verità intelligibili, che in linea di principio tutti gli uomini potevano conoscere, e non una struttura di autorità sociale sotto il controllo di pochi». Sui caratteri e il ruolo del patto calvinista all’interno del processo costituzionale v. però quanto detto supra Parte II, cap. I, par. 1.3, pp. 149-157.

243 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 211, 215, dove precisa che «le azioni immorali del governante non distruggono la condizione morale dell’intera comunità politica né cancellano la totalità degli obblighi che ciascuno ha contratto diventandone membro, distruggono soltanto lo statuto legale che il governante trae dalla sua funzione legale entro di essa». In pratica l’appello al cielo, la dissoluzione del governo e la degenerazione giuridica non equivalgono deterministicamente ad una crisi delle gerarchie sociali e delle condizioni immanenti di produzione del patto sociale.

244 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XVIII, § 208, p. 408, dove l’opposizione agli atti illegittimi di pochi oppressi non vale a qualificare il caso di resistenza, che dunque si definisce tautologicamente ed empiricamente similmente al consenso, e cap. XIX, § 241, p. 440, dove specifica che il giudizio divino equivale nei fatti al ripristino del giudizio individuale.

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patto da parte di una delle istituzioni della società politica. In concreto ciò significa che vi deve essere una rottura formale dei rapporti interistituzionali tesa alla violazione dei fini per i quali è stato istituito lo stesso patto politico. Soltanto infatti in quest’ultimo caso è legittima e praticabile la sollevazione contro i poteri costituiti; ossia allorquando l’attacco ai diritti naturali fondamentali equivale ad un attacco potenzialmente generalizzato contro la società intera che ha stipulato quel determinato patto245. Tuttavia il diritto di resistenza lockeano non si esaurisce a questa previsione formale delle condizioni della sua legittimità. Peraltro, poco importa che questo appello al cielo suoni esattamente come un diritto alla rivoluzione, poiché fa seguire alla violazione del patto la possibilità che attraverso l’esercizio della resistenza venga perseguito un totale ripristino della libertà originaria che può corrispondere ad una scelta libera della propria forma istituzionale246; ciò che più importa mettere in evidenza è che il diritto di resistenza ritorna come anello di chiusura e di ricominciamento del circuito della legittimità perché è un diritto la cui esistenza è determinabile soltanto sul piano materiale. E’ chiaro infatti come le condizioni della resistenza legittima coincidano con le clausole sostanziali della legittimità costituzionale247. Naturalmente, tali condizioni si rivelano in primo luogo nella loro posizione logico formale nel circuito della legittimità; in definitiva però, l’esistenza delle condizioni non assicura l’esistenza della resistenza e quindi dell’effettivo processo di ripristino dello stesso circuito di legittimità. Paradossalmente, infatti, la tirannia si rivela concretamente essere una possibilità imminente al pari del diritto di resistenza e del potere costituente. La tirannia può rappresentare essa stessa una sorta di degenerazione del potere costituente, nella misura in cui se l’ordine formale presuppone l’integrazione di quest’ultimo nel circuito formale, e il diritto di resistenza rappresenta la sua riaffermazione piena e libera al fine del ristabilimento della costituzione, allora la tirannia può ben essere intesa come un tipo di manifestazione del potere costituente frutto dell’avvenuta scissione tra gli ambiti del pubblico/privato e della subordinazione del concetto di molteplicità costitutiva ai meccanismi formali di selezione della rappresentanza basati sul concetto di consenso tacito maggioritario248. In ogni caso, tornando all’analisi logica del sistema di legittimazione lockeano, è bene osservare come l’istituzione del diritto di resistenza risponda, al contrario dell’ipotesi materiale della tirannia, alla funzione di ottenere la massima integrazione logica della potere costituente, comunque riconosciuto nella materialità dell’ontologia costitutiva249, all’interno dell’idea di patto politico lockeano. Ciò è possibile in quanto l’appello al cielo quale possibilità giuridica connessa con l’esistenza di una violazione ai

245 Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XVIII, §§ 209-210, pp. 408 ss. 246 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., p. 209. Come rileva Dunn la questione della conservazione

della Monarchia e delle forma appropriate di resistenza praticabili varia in base alla costituzione della società; la conservazione della monarchia è dunque per Locke una scelta di opportunità in relazione alla costruzione generale del sistema costituzionale inglese; scelta che tuttavia non pregiudica il fatto che il fondamento razionale della resistenza lockeana è lo stesso dappertutto ed in qualsiasi momento della storia umana. Cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XVIII, §§ 205-206, pp. 405-408, con cap. XIX, §§ 213-219, pp. 413-417.

247 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 205-208. 248 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 180-181; cfr. J. Locke, Due trattati, II, cit., cap. XIX, § 223,

pp. 420-421. 249 Cfr. supra Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 190 ss., dove viene dimostrato che la razionalità

specifica lockeana coincidente con un determinato individualismo è il frutto del tentativo di incanalare le potenzialità e l’irriducibilità dell’ontologia costitutiva all’interno di una particolare teoria della conoscenza.

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diritti naturali dell’uomo e con un governo contrario all’utilità comune250, si traduca in una caduta reale del consenso capace di rimettere in moto contro l’ordine legale l’originaria e mai spenta potestà costituente. Ecco, dunque, in che senso il diritto di resistenza ricopre una posizione logica nel sistema lockeano, ma allo stesso tempo venga definito interamente sul piano materiale ed empirico, quale condizione sostanziale della legittimità al pari del ruolo del consenso. Il tentativo di integrazione del potere costituente assume qui la sua massima intensità poiché anche nel caso limite della rottura dell’ordine legale e della violazione dei fini sostanziali dell’unione politica viene assunta dal circuito formale di legittimazione del patto la possibilità formale che il caso materiale della resistenza e della riemersione piena della volontà costituente venga assoggettato all’obbiettivo del ripristino del patto stesso. In pratica si deve accogliere la legittimità di un diritto alla rivoluzione affinché si possa escludere logicamente la possibilità di una legittimità di un potere costituente sovversivo e si possa definire il patto politico lockeano effettivamente come indisponibile. E’ in questo punto, quindi, che va collocato il detournement lockeano, per cui la possibilità materiale del mutamento totale dell’ordinamento viene accolta come possibilità giuridica formale e legittima nella misura in cui tale mutamento non implicherebbe comunque il mutamento dell’essenza del patto politico ma anzi la sua salvaguardia. In pratica, al massimo della materialità delle condizioni dell’unità politica determinata dal potere costituente, individuabile per Locke nell’esistenza del consenso e del diritto di resistenza, non corrisponde il massimo del formalismo e della negazione dialettica, ma al contrario la più completa subordinazione sostanziale e immanente delle forme giuridiche, nella consapevolezza che solo in questo modo sia possibile garantire le scissioni funzionali e i diritti di proprietà e di appropriazione. L’indisponbilità del patto, dunque, non viene ricercata nella trascendenza di uno Stato sovraordinato capace di costituirsi come persona immortale nel tempo, ma al contrario viene ricercata proprio nel possibilità sempre imminente di un mutamento della forma del Commonwealth. Laddove la monarchia può continuare a rappresentare l’identità nel e nonostante il mutamento a fronte della mutevolezza della multitudo, la vera novità introdotta da Locke sembra consistere proprio nella stessa libertà di mutare le forme giuridiche da parte della comunità; libertà che sola conferma l’identità e la sostanzialità dell’adesione allo stesso patto di unione nel tempo. E’ in questo senso che deve essere inteso il tentativo di funzionalizzazione del potere costituente all’interno della struttura costituzionale. In primo luogo come tentativo funzionalizzazione in senso formale della capacità costitutiva all’interno dei meccanismi della rappresentanza e all’interno dei particolari rapporti interistituzionali non riducibili a rapporti di tipo formali. Funzionalizzazione in senso formale che, al contrario di una logica legalistica, è in grado di rendersi efficace soltanto in quanto all’estremità della linea di produzione delle forme giuridiche sono posti due istituti in grado di ripristinare e dar voce alla necessità di rappresentazione sostanziale della materialità costituente originaria; la prerogativa da un lato, e l’induttivismo e il carattere ricognitivo e allo stesso tempo costitutivo del precedente rispondono proprio

250 In definitiva, se il riferimento ai diritti naturali fondamentali è pertinente in relazione al

linguaggio utilizzato da Locke, tuttavia l’assenza di un’elencazione nel II Trattato di tali diritti fondamentali permette di avvalorare la tesi qui sostenuta della definizione contingente e materiale del diritto di resistenza in base all’illegittimità dell’azione del governo, e della riconduzione della legittimità del diritto di resistenza nel caso specifico dell’attacco ai diritti di proprietà. Cfr. C.B. Machperson, Libertà e proprietà, cit., p. 291.

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all’esigenza del circuito funzionale della legittimità di mantenere una connessione aperta con la materialità originaria per mezzo della rappresentazione sostanziale dei fini della comunità politica. In secondo luogo, il diritto di resistenza entra a far parte di questo circuito di legittimazione formale presentandosi come l’autentica possibilità materiale in grado di ristabilire l’originaria sostanzialità dell’intero circuito stesso della legittimità. In particolare, l’immaginario costituito dalla possibilità sempre aperta dall’appello al cielo reintroduce un vincolo di rappresentazione sostanziale puro all’interno di una struttura costituzionale organizzato secondo criteri di selezione funzionale di tipo formale imposti dalla necessità delle scissioni tra interno/esterno, pubblico/privato. Ciò che assicura la previsione del diritto di resistenza è dunque una particolare tensione tra la dimensione di immanenza legata alla molteplicità costituente soltanto formalmente funzionalizzabile nei meccanismi della rappresentanza e l’esigenza della tenuta generale del circuito di legittimizzazione formale. Circuito che cerca ai suoi poli più elevati di mantenere una connessione di rappresentazione sostanziale ma che riceve la sua legittimità dalla sua efficacia di selezione funzionale della domanda politica. In pratica la posizione logica assunta dal diritto di resistenza diviene quella di mantenere una connessione stringente tra l’immanenza materiale del potere costituente e la trascendenza dell’idea stessa di appello al cielo come difesa e riaffermazione del patto. E’ su questo punto che viene collocato il potere di eccezione e viene compiuto il detournement dell’immanenza produttiva del diritto naturale in forma giuridica costituzionale: il potere di eccezione viene confinato in un punto di crisi logica del sistema, ma allo stesso tempo viene ricondotto alla stessa soggettività molteplice artefice della prima statuizione pattizia. Da un lato il diritto di resistenza, in quanto espressione sostanziale dell’originaria potestà costituente, serve a rilegittimare il circuito formale, dall’altro però in quanto espressione sostanziale risulta avere già il proprio contenuto funzionale a quella rilegittimazione. Questo contenuto è rappresentato dai tre presupposti del concetto moderno di potere costituente ricavabili dalla filosofia politica lockeana. In effetti ciò che deve ripristinare l’appello al cielo non è altro che l’antropologia individualista delineata dal concetto di appropriazione e lavoro quale base del presupposto soggettivo del fine dell’istituzione del patto (i diritti di proprietà), nonché della stessa organizzazione funzionale legale della costituzione; ovvero in breve di un particolare individualismo, di un tipo di obbedienza politica definita razionalmente, e della costituzione come contratto. E’ peraltro solo in questo modo che da un lato l’eccezione può fare riferimento ad un fine normativo e che dall’altro si può disseminare nell’insieme dei rapporti materiali della società senza doversi snodare su un’eventuale opposizione di forma e materia. La tenuta dell’intero sistema costituzionale lockeano si gioca perciò sulla capacità di funzionalizzare lo stessa situazione di crisi del sistema al punto che quest’ultima situazione può presentarsi come condizione di partenza per il ripristino dell’originaria legalità contrattualistica. Naturalmente tutto ciò non implica la possibilità materiale che il potere costituente si venga a presentare come potere sovversivo dell’ordine e del patto. Vi è sempre questa possibilità implicita nell’analisi lockeana, sebbene la virtuosità di questo sistema si giochi sul fatto che alla negazione formale della legittimità di questa possibilità corrisponda la parallela legittimità sostanziale dell’appello al cielo nel senso qui indicato. In realtà, il punto di crisi logica del sistema lockeano non è dunque rappresentato dal momento dell’eccezione e della rivoluzione, ma diversamente attraversa in maniera

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trasversale e immanente l’intera costituzione del potere politica sotto la forma della corruzione. Paradossalmente, se il diritto di resistenza rappresenta l’ipotesi logica di massima integrazione del potere costituente in grado di garantire i diritti naturali di appropriazione, dall’altra parte si deve ricordare come la corruzione rappresenti la possibilità implicita nello stesso paradigma dell’accumulazione capace di pregiudicare il concetto di appropriazione come base costitutiva virtuosa del potere politico. La possibilità di un’accumulazione fine a sé stessa, già implicita come possibilità materiale, viene concretamente prospettata dal nuovo ruolo combinato di denaro e debito. E’ questa interazione, che fa saltare il dualismo particolare lockeano tra forma di materia, e che apre la via per un approfondimento definitivo della scissione tra l’ambito del pubblico e del privato con la relativa conseguenza di una domanda di inflazionamento della capacità di selezione funzionale dei rispettivi ambiti251. In particolare, laddove il circuito di legittimità formale dell’ambito politico si incarica effettivamente di fornire una rappresentazione politica e quindi di operare una mediazione nelle dinamiche proprietarie al fine di garantirne l’equilibrio, si viene a determinare la situazione paradossale per cui ciò che effettivamente viene meno in seguito alla crescita della domanda di selezione è proprio la base sostanziale della legittimità dello stesso circuito formale. E’ pertinente quindi affermare che non sia il caso eccezionale di una rivoluzione a mettere in pericolo la costituzione, ma sia al contrario proprio la condizione capace di impedire la possibilità di un appello al cielo. E’ il crescente peso del consenso tacito nella definizione della legittimità a determinare la completa scissione tra i due ambiti, pubblico e privato, e a determinare la definitiva crisi di tipo strutturale del costituzionalismo lockeano252. In effetti, il carattere strutturale e definitivo di tale crisi è determinato proprio dal fatto che questo nuovo ruolo del consenso tacito si sviluppa in maniera direttamente proporzionale al crescente ruolo dell’economia monetaria e della finanza; ovvero in pratica la causa delle degenerazione strutturale del sistema politica viene determinata dalla stessa dinamica appropriativa all’origine della costituzione del patto politico. Quest’ultimo prende forma dall’originaria scissione funzionale determinata soggettivamente, dall’esigenza di autonomia di un ambito interno e privato determinata dalla stessa necessità delineata nello sviluppo storico del regime proprietario e della legittimità politica, ma poi praticamente, dopo essere stata funzionalizzata alla costituzione della forma politica, quale istanza costituente del patto, prescrizione legalistica, e condizione finalistica di garanzia del patto stesso, finisce per rappresentare la causa della degenerazione strutturale del patto stesso, quasi a voler dimostrare unicamente l’ineluttabilità di un destino segnato fin dall’origine dalla caduta. L’analisi esula qui dall’oggetto specifico del pensiero costituzionalista lockeano per ricollegarsi al decorso storico-costituzionale effettivo, e tuttavia si riconnette direttamente a quello nella misura in cui quest’ultimo sembra scontare nella pratica i limiti logici del primo. Non si tratta ancora una volta di gettare luce sulle reali intenzioni di Locke, ma di chiarire come il suo determinato pensiero si incastona nel processo storico per dare vita ad una nuova struttura giuridico-concettuale253. Come si

251 Cfr. supra Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 193-194; cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 140-142. 252 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 155-159. 253 V. anche riguardo il dibattito aperto da MacPherson in seguito alla pubblicazione del volume

sull’individualismo possessivo, la posizione di E.J. Hundert, Market Society and Meaning in Locke’s Political Philosophy, cit., pp. 349-360, il quale reinterpreta il punto di vista di MacPherson precisando

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è visto il pensiero lockeano si contraddistingue per la sua particolare articolazione di tre dimensioni: teologica, condizionale, e legale-funzionale/costituzionale, in relazione alla quale risulta essere una banale riduzione e falsità qualsiasi interpretazione che pretende di associare la figura di Locke a determinate categorie sociali o visioni del mondo. Tuttavia, come sostiene Pocock, forse quest’ultima può anche essere un’affermazione inutile, nella misura in cui in realtà il costituzionalismo lockeano contribuisce praticamente ad una determinazione storico-costituzionale la cui ratio fondamentale è rappresentata dalla necessità di garanzia del commercio e degli scambi, (ossia della scissione funzionale), definiti secondo il paradigma lockeano della proprietà prodotta dal lavoro individuale. E’ su questa linea di sviluppo materiale che si inserisce in una posizione centrale il ruolo della moneta, del debito e conseguentemente della corruzione del regime politico fondato sull’«economia politica neo-machiavelliana»254. Ma è sempre su questa linea di sviluppo che possono continuare ad affermarsi, nonostante la cronicità della crisi degenerativa dovuta alla corruzione, i tre presupposti all’origine del moderno concetto di potere costituente: antropologia individualista definita dal principio dell’autoproprietà del lavoro individuale quale principio immanente e soggettivo alla base della scissione funzionale della costituzione (e non come principio trascendente formale ed eteronomo come in Hobbes); razionalità dell’obbedienza politica assicurata dalla scissione funzionale tra pubblico e privato e concretamente dal carattere funzionale dell’organizzazione costituzionale; ed infine contratto come costituzione, laddove il patto lockeano si definisce sempre come patto unitario, ipotetico la cui garanzia è rappresentata in senso immanente e giuridico dalla possibilità dell’appello al cielo255. In questo senso un’interpretazione possibile potrebbe essere quella che identifica il pensiero lockeano nel mirabile tentativo della ragion sufficiente di stabilire il minimo delle condizioni di legittimità della costituzione nella necessità di una massima integrazione del potere costituente; tentativo che in conclusione sembra voler riconoscere il fallimento sostanziale dello stesso progetto rivoluzionario inglese in ultima istanza rappresentato dal tentativo di redenzione terrena dal peccato originale. E’ su questo punto di crisi e di non ritorno che sorge così ineluttabile il problema del limite del costituzionalismo lockeano; un costituzionalismo destinato alla prova del tempo a rivelarsi quale ipotesi vincente poiché in grado di approfondire in senso funzionale le scissioni originate dalla loro matrice soggettiva, ma interamente perdente sul piano della dimensione di liberazione sostanziale cui pretendeva di aspirare. Cosa rimane infatti del circuito della legittimità costruito sulla clausola di garanzia maggiormente le peculiarità del contesto storico in cui si situa il pensiero lockeano, dunque, privando tale punto di vista del suo lato più determinista e apparentemente ingannevole.

254 L’espressione è di J.G.A. Pocock, La repubblica, cit., pp. 740-779. Il principio machiavelliano della non ponderabilità degli effetti rispetto alle azioni che li hanno generati si rivela qui in tutta la sua effettività: l’economia neo-machiavelliana rappresenta lo sviluppo storico-costituzionale inglese in quanto simboleggia la conseguenza della scissione funzionale nella riduzione del potere politico al controllo delle passioni, ed in quanto testimonia l’incongruenza tra teoria e prassi a cui sono soggette in maniera diversa il pensiero di Locke, di Harrington, e dei neo-harringtoniani.

255 A questo proposito una interessante analisi operata seguendo il modello appropriativo enucleato da MacPherson è offerta da J. Cohen, Structure, Choice and Legitimacy: Locke’s Theory of the State, in Locke, cit., II, pp. 139-162, estratto da «Proceedings of the British Academy», LXXI, 1985, laddove il pensiero lockeano viene interpretato al di fuori di ogni tentazione deterministica e dunque non viene associato a nessuna particolare «forma» proprietaria o statuale. Lo studio del diritto di appropriazione si traduce così nell’analisi delle tre condizioni effettive che permettono la nuova legittimità moderna: eguaglianza, libertà individuale, razionalità.

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dell’appello al cielo nel momento in cui tale circuito viene privato della sua base sostanziale di sostegno per ridursi alla capacità formale di selezione messa in campo dai dispositivi di rappresentanza? Forse è su questo limite che si infrange una ragione, sufficiente a stabilire nell’autoaffermazione la necessità di una rivoluzione e di un cambiamento paradigmatico di legittimità, ma non a fare della pura autoaffermazione il principio di costituzione di una nuova legittimità. 2.4 Un’astrazione determinata alla base della struttura concettuale del potere costituente moderno. Le critiche alla ricostruzione del rapporto tra individualismo proprietario e contrattualismo operata da MacPherson incontrate in questa analisi del pensiero di Hobbes e Locke sembrano incentrarsi soprattutto sul supposto determinismo di tale ricostruzione e sul limite stesso di tale determinismo256, per cui paradossalmente la prova dell’infondatezza del metodo da lui adottato consisterebbe nell’impossibilità di stabilire un nesso chiaro e univoco tra la forma proprietaria e la forma politica257. Ad esempio la critica operata da Yann-Moulier Boutang si incentra proprio su delle supposte forzature operate da MacPherson sui personaggi da egli analizzati, al fine di poter collocare questi ultimi dalla parte di forme specifiche della proprietà (Locke così sancirebbe l’appropriazione illimitata, i Levellers difenderebbero la piccola proprietà escludendo dal suffragio progressivamente i servi e i nullatenenti fino ad arrivare ai salariati), in modo da poter assegnare a tale forma la corrispettiva ipotesi contrattuale adeguata258. In verità però in questo maniera attraverso una critica al determinismo si finisce per ricadere in un determinismo ancora peggiore, offuscando completamente la luce proiettata dalla genealogia storico-concettuale della ricostruzione di MacPherson sulle possibilità di interpretazione della modernizzazione. Tentare di ricostruire la struttura storica concettuale del concetto di potere costituente significa dunque, anche voler riconsegnare al suo giusto livello analitico l’operazione genealogica fatta da MacPherson. Il punto infatti, per cui assume una posizione centrale l’individualismo possessivo, non consiste nello stabilire una supposta deducibilità della forma giuridica proprietaria dalla forma politica contrattuale, poiché altrimenti ciò che si dovrebbe ricavare sarebbe soltanto l’incapacità, - dovuta all’incompletezza della forma proprietaria moderna del XVII secolo - del contrattualismo di stabilire una nuova legittimità e di rappresentare il presupposto del concetto di potere costituente moderno259.

256 A proposito dei due restanti capitoli dell’opera di MacPherson ancora non presi si segnala: per

quanto riguardo il ruolo dei Levellers tale analisi sarà ripresa qui di seguito, mentre per quanto riguarda Harrington cfr. supra Parte I, cap. III, note 39-41, 46, pp. 108-112 e Parte II, cap. II, nota 127, p. 193, dove si specifica in che senso il pensiero harringtoniano venga collocato al di fuori della genesi del potere costituente moderno.

257 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 235-280, 273 ss.; v. però anche E.J. Hundert, Market Society, cit., pp. 349 ss.

258 Cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù, cit., pp. 306-313. 259 Al contrario il determinismo potrebbe invece essere ricavato dall’atteggiamento opposto teso alla

deduzione unilaterale dell’obbligo politico dal fatto della uguale subordinazione degli individui alla

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Al contrario, il punto centrale dell’analisi di MacPherson consiste nell’esatto opposto: l’ipotesi avanzata tenta di stabilire ed identificare in un determinato individualismo, articolato idealmente e storicamente, le condizioni di possibilità di una nuova legittimità e obbedienza politica secondo il modello contrattuale. Queste condizioni, diversamente organizzate in quanto alle soluzioni pratiche avanzate per la loro garanzia da Hobbes e Locke, non coincidono con la teorizzazione o la scelta per una particolare forma giuridica proprietaria tra le altre, alla quale sovrapporre una formula politica, ma si preoccupano tutte di garantire soggettivamente la possibilità di una super-condizione comune (comune anche all’ipotesi dei Levellers260): la possibilità di poter considerare universalmente valide le affermazioni, tra loro collegate, della proprietà come frutto del proprio lavoro, e della libertà quale autoproprietà delle propria personalità, ossia come proprietà delle facoltà individuali cognitive e manuali di produzione261. Non si tratta dunque di un problema della ragion pratica, per cui logicamente nel XVII secolo tale autoproprietà può equivalere al riconoscimento operato da Locke della possibilità della schiavitù, laddove concretamente questa si presentava agli occhi del filosofo come possibilità dell’autoalienazione totale ed effettiva della propria personalità262. Ma si tratta di stabilire, proseguendo con MacPherson, il limite della ragion pura stabilito da questo nuovo paradigma dell’autoproprietà in forza del quale si afferma la necessità logica di dover dedurre la libertà dalla proprietà e quest’ultima dal lavoro oggettivizzato del singolo, ovvero si tratta di stabilire perché è proprio da questo paradigma che scaturisce la necessità e la possibilità di una determinata forma politica e del concetto di potere costituente quale limite trascendentale di questa forma. In altri termini si tratta di stabilire perché sulla crisi della legittimità determinata dal mutato regime proprietario e dalla guerra civile a sfondo religioso, sulla soglia epocale contraddistinta dall’esplosione definitiva dell’ontologia costitutiva, prende corpo un’ipotesi di nuova legittimità politica e di riduzione della molteplicità costitutiva delineata secondo un modello di razionalità la cui forma originaria e assioma società di mercato; subordinazione considerata come dato di fatto. Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 297-310.

260 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 166-189, 299-301; sul punto cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 97-110, il quale ricostruisce la complessità e la multiformità del movimento dei Levellers non riducibile tout court al modello individualista possessivo. A questo riguardo si v. N. Brailsford, I Livellatori e la Rivoluzione inglese, Il Saggiatore, Milano, 1962. V. anche l’introduzione e la raccolta di scritti e documenti politici dei Levellers a cura di A. Sharp, The English Levellers, Cambridge University Press, Cambridge, 1998.

261 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 296-305; cfr. R. Ashcraft, Lockean ideas, cit., pp. 43- 57, il quale ricostruisce il significato della combinazione tra proprietà e lavoro in relazione al dibattito politico e filosofico dei due secoli successivi alla rivoluzione. Cfr. J.G.A. Pocock, Authority and property: The question of liberal origins, in Virtue, Commerce and Hisotry. Essays on Political Thought and History, Chiefly in the Eighteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, pp. 67-71, il quale da un lato, pur non assumendo il modello offerto da MacPherson riconosce il merito di quest’ultimo di aver offerto alla storia del pensiero politico una irrinunciabile prospettiva da cui interpretare lo sviluppo delle idee, e dall’altro sottolinea, in maniera complementare a quest’ultima affermazione, la non linearità dello sviluppo effettivo del nuovo modello proprietario nel corso del XVII secolo, riconoscendo invece il ruolo decisivo della transizione costituzionale alla fase della cosiddetta «rivoluzione finanziaria» seguente alla stabilizzazione post-rivoluzionaria.

262 Cfr. J. Locke, Due trattati, cit., II, cap. IV, §§ 22-24, pp. 255-257; cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù, cit., pp. 310-311, il quale erroneamente attribuisce il riconoscimento di una legittimità della schiavitù contenuta nel paradigma lockeano della proprietà di sé (allo scopo di dimostrare la tesi della compatibilità di regime diversi di disciplina della forza lavoro con l’accumulazione capitalistica).

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fondamentale è rappresentato dalla libertà come autoproprietà di sé, laddove invece l’essenza della scoperta di sé e della condizionalità attestava la produzione delle forme giuridiche al livello della pura autoaffermazione, ossia al livello definito dall’ontologia come condizione di possibilità del molteplice non ordinabile gerarchicamente e quantitativamente263. Ad un certo punto la coscienza della propria condizionalità si tramuta in autoproprietà della propria personalità, ossia proprietà della propria capacità condizionale; ciò che è necessario a tale fine, non è aggiungere a questa rimodulazione una definizione trascendente e formalista, ovvero non è necessario assicurare l’assoluta giuridicità dell’atto sulla materialità costitutiva della potenza come puro fatto come in Hobbes264, ma è sufficiente, per tramutare l’ontologia in libertà e proprietà costitutivi del nuovo ordine, riconoscere, da un lato, la dimensione soggettiva individuale della produzione della legittimità e del patto, e dall’altro stabilire la stessa definizione di libertà e proprietà all’interno di una polarità anche solo potenzialmente e idealmente contrappositiva di potenza e atto265. Ecco l’autentico massimo comune denominatore che accomuna Hobbes e Locke e che rivela in che senso l’individualismo possessivo diviene la forma originaria, ossia, la nuova struttura concettuale costitutiva della legittimità politica266. E’ chiaro, la capacità materiale di tradurre la potenzialità soggettiva di produzione è limitata dalla contingenza storica: limiti determinati dall’effettivo sviluppo giuridico delle forme pratiche di tutela della proprietà e limiti tecnici determinati dalle possibilità materiali di associazione tra la cosa oggetto di proprietà e il titolo giuridico tutelabile di fronte all’autorità267. Sono gli stessi limiti che impediscono ancora oggi di poter far funzionare la proprietà intellettuale come tutte le altre proprietà di cose materiali268; limiti della ragion pratica dunque269. Allo stesso

263 Cfr. supra Parte II, cap. I, par 1.1.1, pp. 137-143, par. 1.4, pp. 158 ss., con Parte II, cap. II, par.

2.2.2, pp. 190 ss., par. 2.3.2, pp. 213 ss. 264 Cfr. supra Parte II, cap. II, par. 2.2.1, pp. 182 ss. 265 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 170-173, dove l’analisi del pensiero dei Levellers

rivela il postulato essenziale definito «in potenza» sul quale deve poggiarsi una teoria dell’individualismo possessivo: «Overton espone una dottrina di notevole portata sul diritto naturale. I diritti civili e politici derivano dal diritto naturale; il diritto naturale deriva dalla proprietà naturale sulla propria persona; la proprietà naturale sulla propria persona, dalla natura dell’uomo, dotata di istinti di creazione».

266 Per quanto riguarda il ruolo costitutivo del modello di appropriazione lockeano per la definizione della legittimità democratica moderna cfr. H. Kelsen, Foudations of Democracy, Property and Freedom in the Natural Law Doctrine of John Locke, in Locke, cit., pp. 85-89, estratto da Ethics, LXVI, 1955.

267 Tale possibilità materiale se da un lato dipende dall’affermazione del concetto di «cosalità» dall’altro risulta legata nel continente all’affermazione post-rivoluzionaria della stagione codicistica. Tuttavia, il fatto che in Inghilterra tale affermazione avvenga in maniera del tutto graduale non è imputabile semplicemente ad una supposta preesistenza del modello appropriativo individualista alla fase della modernizzazione secentesca ma al contrario alla diversità e peculiarità del common law e alla sua evoluzione giurisprudenziale che già agli inizi del Seicento veniva affermando definitivamente il principio esclusivo della proprietà e la legittimità delle enclosures a fronte delle rivendicazioni livellatrici che si venivano sviluppando. Cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù, cit., p. 310; B. Moore, Le origini sociali cit., pp. 6-12, 24-33; cfr. supra Parte I cap. III, par. 3.3, pp. 108 ss, in particolare v. le note 45-48; L. Stone, Le cause della rivoluzione, cit., pp. 59 ss.; C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., 39-43; Id., La rivoluzione inglese, in Id. (a cura di), Saggi sulla rivoluzione inglese del 1640, Feltrinelli, Milano, 1957, pp. 15-75. Infine sull’evoluzione continentale della tutela della proprietà privata v. P. Grossi, Ancora sull’assolutismo giuridico (ossia: della ricchezza e della libertà dello storico del diritto), in Id, Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffré, 1998, pp. 1-12.

268 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., ann. al § 43, p. 52, § 68 e ann., § 69 e ann., pp. 68-71.

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tempo però sono gli stessi limiti della ragion pura, che come tali, ed in quanto aspirano a ricomprendere la stessa nozione di facoltà personali all’interno della nozione di atto270, testimoniano del carattere prescrittivo e assiomatico dal quale procede l’edificazione della legittimità moderna271. E’ evidente, sulla definizione di libertà come autoproprietà di sé si gioca la possibilità di affermazione della nuova legittimità politica; non però nel senso di una nuova e più interessante interpretazione gradualista del processo di modernizzazione da ricondurre all’ipotesi dell’operatività medievale del modello appropriativo272, ma al contrario nel senso che tale possibilità si lega all’affermazione concreta della discontinuità rappresentata dalla costituzione del modello appropriativo quale principio fondativo e produttivo della nuova forma di legittimità politica in grado di porre fine alla guerra civile e di fornire una forma politica e costituzionale a garanzia della stessa necessità implicita nel paradigma della sua costituzione, la tutela della proprietà come tutela dell’attività combinata di appropriazione e lavoro273. Ma è altrettanto evidente che è su questo «passaggio di libertà», su questo susseguirsi di astrazioni e rideterminazioni, che si gioca l’operazione di neutralizzazione dell’ontologia costitutiva e di inizio della costruzione del concetto di potere costituente moderno quale limite trascendentale che attesta che, anche qualora si verifichi il dissolvimento del sistema, sarà pur sempre presente una condizione logica di garanzia del paradigma individualista della costituzione274. Questo procedere di astrazione in astrazione fino alla determinazione di una forma costituzionale intesa in senso evolutivo quale forma frutto del processo storico, - dunque in un certo senso definibile apparentemente solo sul piano descrittivo -, in grado di articolare funzionalmente una serie di scissioni qualitative prodotte dalla (e nella) società, ha la sua origine in un primo assioma che identifica tale autoproprietà come stretta all’interno del binomio tra potenza e atto e che converte la potenziale

269 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 67 e ann., pp. 67-68, dove viene

specificato che «delle mie possibilità dell’attività e attitudini (corporee e spirituali) particolari io posso alienare produzioni singole e un uso limitato nel tempo da parte d’un altro, poiché esse ottengono secondo questa limitazione un rapporto esteriore con la mia totalità e universalità».

270 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 70, p. 71, dove viene affermato che «La comprensiva totalità dell’attività esteriore, la vita, non è di fronte a questa personalità un che di esteriore.», con §§ 47, 61, pp. 54-55, 63, dove viene affermato che la libera proprietà è soltanto quella soggetta al pieno uso e disponibilità del soggetto, disponbilità comprendente anche la vita e il proprio corpo quali oggetto del possesso. Sul rapporto tra individualismo e proprietà intellettuale v. anche M. Ricci, La proprietà intellettuale nei Lineamenti di filosofia del diritto hegeliani: un concetto limite del formalismo

271 Cfr. G. Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, in Id., Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano, 1991, pp. 139-143 e 144 ss.

272 In questo senso cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù, cit., pp. 310-313. 273 La relazione stringente tra lavoro salariato e proprietà privata, apparentemente lineare in Hegel, e

alquanto problematica nella rivisitazione di MacPherson operata da Boutang, è chiaramente espressa da K. Marx in Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere scelte, cit., pp. 124-126. V. anche K. Olivecrona, il quale analizza il concetto di appropriazione lockeano in riferimento al modello dell’individualismo possessivo e del ruolo costitutivo del rapporto appropriazione-lavoro-proprietà, ed in riferimento alle categorie storiche di possesso. K. Olivecrona, Locke’s Theory of Appropriation, estratto da Philosophical Quarterly, 24 (96), July, 1974, e Id., Appropriation in the State of Nature: Locke on the Origin of Property, estratto da Journal of the History of Ideas, XXXV (2), 1974, entrambi ora in Locke, cit., rispettivamente pp. 334-348 e 314-333.

274 Cfr. Supra, Parte II, cap. II, par. 2.3.2, pp. 219 ss.; sulla necessità della riflessione di ritornare ai filosofi della prima età moderna al fine di ritrovare la giusta dimensione del rapporto soggetto/oggetto cfr. G. Luckács, La reificazione e la coscienza, cit., pp. 188 ss.

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essenza condizionale dell’agire in una supposta consapevolezza della proprietà di sé. Il susseguirsi di astrazioni e determinazioni inizia da qui, da questa prima e fondamentale astrazione determinata275. In effetti, la centralità stessa della crisi nella costituzione di questo modello specifico di autoaffermazione si rivela non appena si osserva la portata di questa definizione compresa all’interno di questa polarità. Il binomio potenza e atto, nella riproduzione di un rapporto tra infinità e finitezza tipico dell’ontologia costitutiva e quindi per definizione imponderabile - e attinente nel caso ad un limite noumenico -, pretende di stabilire la condizione di possibilità di un sistema di misurazione quantitativo e sintetico dei rapporti tra le diverse autoproprietà estrinsecate per mezzo dell’attività di appropriazione e lavoro276. In questo modo, infatti, per un verso si può continuare ad alludere all’originaria potenza costitutiva molteplice nella misura in cui si stabilisce la fonte della produzione della proprietà nella capacità condizionale dell’individuo – e dunque escludendo da questa determinazione un eventuale ruolo della cooperazione, anche intesa in senso trans-individuale277 -, ossia nel momento in cui si riconosce la proprietà come definita in potenza dall’appropriazione prodotta dal lavoro, come costituente sempre altro da sé, dalla stessa qualità soggettiva della forza lavoro produttrice278. Per l’altro verso però affinché tale libertà di determinazione si possa qualificare come autoproprietà è necessario che tale potenzialità vada intesa esclusivamente come forza produttrice concretamente messa a lavoro, ovvero è necessario che da fonte soggettiva della produzione si tramuti in prodotto, in atto e oggetto nella disponibilità del soggetto stesso, quale autentica autoproprietà della propria soggettività oggettivata279. In breve è necessario che la cosa esteriore da prodotto di un’individualità (quand’anche intesa in senso individualistico e non cooperativo) della molteplicità creatrice diventi qualcosa di ordinabile quantitativamente e di misurabile sinteticamente affinché tale prodotto possa acquisire il titolo giuridico di proprietà tale da permettere la sua circolazione e la sue tutela giuridica effettiva. E’ a questo scopo che viene reso funzionale il binomio potenza atto: la proprietà diviene sempre qualcosa di circoscrivibile oggettivamente, mentre la sua fonte perde immediatamente la sua capacità di determinazione giuridica; essa deve divenire da molteplicità costitutiva fonte costituente280. Questa prima astrazione contiene così un postulato utile alla comprensione della legittimità moderna costruita sull’autoproprietà di sé già esplicitato nella filosofia politica lockeana. I diritti fondamentali (non elencati da Locke) ricoprono una funzione distinta qualitativamente e una posizione gerarchicamente inferiore nella definizione della legittimità politica moderna procedente di astrazione in astrazione. Che infatti la

275 Cfr. Cfr. G. Lukács, La reificazione, cit., pp. 134 ss., 144-159; K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858 (a cura di E. Grillo), La Nuova Italia, Firenze, 1968, I, pp. 6-11, 26-40.

276 Cfr. G. Lukács, La reificazione, cit., pp. 108-143; A. Negri, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma, 1998, pp. 47-51. Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., I, pp. 75 ss. «In quanto valori tutte le merci sono qualitativamente uguali e solo quantitativamente differenti, quindi si misurano tutte reciprocamente (…) Il valore è il loro rapporto sociale, la loro qualità economica (…)»

277 Cfr. A. Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello stato postmoderno, Manifestolibri, Roma, 1995, pp. 14-24, dove l’analisi della produzione è operata tramite lo sviluppo analitico del concetto di cooperazione creativa. V. anche P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per un’analisi delle forme di vita contemporanee, Derive Approdi, Roma, 2003.

278 Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, cit., pp. 98-103. 279 Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., pp. 118-134; A. Negri, Marx oltre Marx, cit., pp. 98-

103. 280 Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 51-54.

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loro necessità di affermazione derivi dalla processualità storica quale sviluppo del potenziale di libertà contenuto nel paradigma dell’autoproprietà non rappresenta infatti che una conferma della relatività storico-concettuale e della dipendenza dello stesso potere costituente e della libertà moderni da quella prima astrazione; viceversa l’originaria costituzione dell’assioma dell’autoproprietà consegna all’analisi storica la possibilità ipotetica e effettiva che la costruzione di una legittimità funzionale al paradigma accumulativo della proprietà possa essere trovata al di fuori del modello costituzionale fondato sulla divisione e limitazione dei poteri e sulla garanzia dei diritti individuali281. Concretamente però il risultato specifico che consegna la prima astrazione è rappresentato dall’importanza che si trova a ricoprire la forma nella determinazione della relazione stessa di autoggettivazione e soprattutto nella determinazione dell’efficacia giuridica e politica del modello282. La proprietà privata è tale perché immediatamente e liberamente scambiabile dagli individui all’interno di un ambito di non interferenza con i poteri pubblici, ossia all’interno di un ambito del privato, laddove paradossalmente il carattere privato sta ad indicare essenzialmente la pretesa indifferenza di tali relazioni sociali di scambio e circolazione dai canali della legittimazione politica283. Il titolo di proprietà e il contratto divengono così le due fattispecie di negozio giuridico attraverso cui prende avvio tale tipo di circolazione. Effettivamente però lo sviluppo concreto di tale tipo di circolazione autonoma e apparentemente distinta dall’ambito politico è possibile soltanto grazie al denaro, e massimizzabile in forza del ruolo che quest’ultimo viene ad assumere nel corso del Seicento inglese. Con il denaro inizia il paradigma stesso dell’autoproprietà in quanto è grazie ad esso che si sviluppano gli stessi titoli di scambio; è grazie ad esso che il valore d’uso viene mutato in valore di scambio e che la differenza qualitativa della produzione ontologica viene mutata in differenza quantitativa della proprietà del lavoro individuale; ma vi è un punto in cui tale forma si autonomizza, e nel quale il valore d’uso viene rimosso e rimane soltanto il valore di scambio a determinare i parametri della legittimità dell’autoproprietà284. Non è qui importante la questione della collocazione storica della prima accumulazione originaria, ovvero stabilire quando prende avvio praticamente il binomio potenza atto, valore d’uso valore di scambio, poiché ciò equivarrebbe ad un’indagine sulla prima occupazione285; sicuramente si deve collocare però nel Seicento inglese la fase autentica e decisiva dell’accumulazione originaria nella

281 A questo proposito è fondamentale il richiamo ai cosiddetti «post-colonial studies». Su questo

punto si v. S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel mondo globale, Ombrecorte, Verona, 2008.

282 Cfr. Cfr. G. Lukács, La reificazione, cit., pp. 135 ss. 283 Cfr. Y.M. Boutang, Dalla schiavitù, cit., pp. 29 ss.; cfr. supra Parte I, cap. III, par. 3.1.1, pp. 95-98,

in particolare la nota 16, dove viene definita la costituzione medievale, costituzione della proprietà privata; cfr. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., pp. 14-53.

284 E’ la fase della degenerazione e corruzione del nuovo sistema politico costituzionale post-rivoluzionario analizzata da Pocock, ma la cui origine fondativa veniva già ricondotta da Locke alla caduta, ossia alla prima appropriazione e alla nascita della proprietà e del denaro. Cfr. supra, Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 193-194. Cfr. J.G.A. Pocock, La Repubblica, cit., pp. 723 ss.; A. Negri, Marx oltre Marx, cit., pp. 42-47, 93 ss., il quale riconduce più specificatamente la possibilità della nascita della legge del valore e dell’autoalienazione all’affermazione del ruolo del denaro piuttosto al più generico riferimento alla merce di Lukács.

285 Cfr. supra Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 186-187, sul rapporto tra Locke e Filmer sull’origine dell’autorità e della proprietà; cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 54, sul significato giuridico del nomos quale prima occupazione.

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misura in cui è in questo periodo che la legittimità del dominio condiviso viene demolita dalle nuove relazioni proprietarie e viene così sciolta l’antica determinazione del rapporto tra i due termini286. Soprattutto però, ciò che è importante rilevare a questo punto è che a questa demolizione è consustanziale il progressivo mutamento e mistificazione dell’ontologia costitutiva nella nuova legittimità definita dal paradigma dell’autoproprietà. In questo senso, dunque, la vera peculiarità per cui è interessante indagare il tema dell’accumulazione originaria non è costituita dall’osservazione della violenza di tale appropriazione che si presenta come la prima occupazione, ma nel fatto che la novità di tale accumulazione consiste nella capacità di mutarsi in legittimità politica, ovvero di mutarsi in accumulazione ordinaria disciplinata dal diritto287; dunque nella sua capacità di non rispondere più ad un paradigma dell’autocostituzione giuridica dei soggetti sociali ma a quella di un modello di circolazione formale capace di assicurare la libertà della proprietà soltanto al prezzo di renderla formalmente depoliticizzata288. Per Locke l’inizio dell’imperfezione dell’uomo è un fatto ipostatizzato fuori dal tempo il cui contrassegno terreno tangibile è rappresentato dall’esistenza della proprietà. Anche per Locke, non è rilevante stabilire il momento dell’origine della proprietà, ma stabilire il punto a partire dal quale una funzionalizzazione del diritto all’appropriazione può divenire il parametro di una nuova legittimità politica289. Tuttavia, si è visto anche come in questo punto particolare coincidessero generazione e corruzione della forma politica di legittimità: l’ipotesi lockeana risulta vincente in virtù della sua capacità di assicurare quella funzionalizzazione, ma anche nella misura in cui l’effettiva costruzione del modello fa a meno dell’originario finalismo teologico implicito nella dottrina della proprietà come teodicea secolarizzata290. Il fallimento dell’ipotesi di una razionalità differenziata tendenzialmente orientabile verso la massimizzazione dell’utilità comune trova così un proprio riscontro empirico nel nuovo ruolo assunto dal denaro e dal debito alla fine del XVII secolo. A partire da questo ruolo infatti, si rende palese l’originaria corruzione connaturata alla stessa esperienza umana. Ma non solo. E’ su questo nuovo ruolo che si stabilisce un punto di non ritorno nell’evoluzione della legittimità politica e della relativa forma costituzionale. Il denaro e il debito, quali forme autonome in grado di imprimere un’accelerazione costante al circuito della valorizzazione economica e dell’accumulazione/appropriazione, esigono un approfondimento della capacità di selezione funzionale del sistema, nonché della sua capacità di rappresentare e fornire una rappresentazione politica della stessa scissione tra i due ambiti, privato e pubblico, reclamata dal paradigma fondativo dell’appropriazione. Su questo passaggio si rivela la costituzione politica moderna nella sua essenza di struttura funzionale incaricata di fornire una rappresentazione in senso politico ed in grado di garantire l’equilibrio generale dello spazio della società depoliticizzato in seguito alla neutralizzazione della sua creatività giuridica naturale e ridotto a spazio regolato dalla circolazione monetaria/contrattuale. La questione del riconoscimento di

286 Oltre agli autori già citati, ed al classico K. Marx, Il Capitale, I, cap. 24, pp. 411-428, v. anche il

più recente saggio di H. Ritvo, Possessing Mother Nature. Genetic capital in eighteenth century Britain, in Early Modern, cit., pp. 413-424.

287 Cfr. A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 313-317. 288 Cfr. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., pp. 15-16, 30. 289 Supra, Parte II, cap. II, par. 2.2.2, pp. 186-194. 290 Cfr. J. Dunn, Il pensiero politico, cit., pp. 107-115, 143 ss.; supra par. 2.3.2, pp. 209-226.

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un diritto di appropriazione illimitato, già ricalibrata su quella definita dalla necessità materiale di equilibrio tra le proprietà, passa in secondo piano per cedere il posto alla questione del ruolo assunto da un paradigma di appropriazione che torna a presentare il mondo come oggetto di appropriazione da parte di tutti, proprio in forza delle nuove possibilità di accumulazione offerte dall’emergente economia monetaria e finanziaria. Tuttavia è proprio a partire dall’apertura di questa possibilità infinita di traduzione sul livello separato e formalmente depoliticizzato, del valore d’uso in valore di scambio, che implode la capacità del campo politico di riconsegnare su un piano distinto una rappresentazione adeguata della funzione realmente politica ricoperta dalle dinamiche proprietarie ormai fuori controllo291. Paradossalmente così, tale separatezza e autonomizzazione invece di potenziare la struttura funzionale basata sulla scissione e la capacità di accumulazione provoca il conseguente sovraccarico dei dispositivi predisposti alla selezione funzionale della domanda politica, che lungi dal limitarsi a stabilire l’impossibilità della ricerca del massimo bene, determina forma e contenuto della nuova costituzione secondo il paradigma di una crisi perpetua e strutturale292. Una crisi che può assumere forme e dinamiche differenti a seconda delle premesse gnoseologiche e delle relative conclusioni politiche: in Locke assume la forma della degenerazione e corruzione permanenti mentre in Hobbes, in seguito all’estremizzazione formalista, assume i contorni di una rappresentazione in crisi e della crisi simboleggiata dalla contraddizione interna ad un Dio mortale. Una crisi, che in realtà, è bene ribadire, è generata dal mutamento paradigmatico di legittimità e forma costituzionale e che può essere identificata nella pretesa di sostituire al vecchio paradigma della costituzione della proprietà privata un nuovo modello basato sulla capacità di mantenere fuori dall’ambito politico le dinamiche proprietarie e sociali, e di fornirne al tempo stesso un’adeguata rappresentazione di quella scissione, secondo gli schemi della rappresentanza politica moderna, possibile a sua volta soltanto in forza delle stessa determinazione soggettiva e individualistica dello stesso principio di legittimità293. Proseguendo su questo percorso si possono così evidenziare alcuni punti riguardo al passaggio di legittimità utili al chiarimento dell’origine del concetto moderno di potere costituente. In primo luogo attraverso la lettura del nuovo ruolo del denaro delineato

291 Cfr. A. Negri, La forma stato, cit., pp. 99-110, laddove la crisi del normativismo segnala

l’eccedenza continua del lavoro vivo quale fonte produttiva della forma costituzionale che ne determina la sua crisi strutturale.

292 E’ su questo punto che anche le più raffinate teorie sistemiche di tipo funzionalista qui prese in considerazione scontano il limite oggettivistico che pretende di fare a meno della materialità e costitutività delle relazioni soggettive che formano la base e il motore del vero dispositivo di disciplinamento politico e di produzione di legittimità. Cfr. G. Teubner, Il diritto come sistema autopoietico, cit., pp. 93-142; N . Luhmann, La differenziazione del diritto. Contributi alla sociologia e alla teoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1981, in particolare le pp. 315-361 (La giustizia nei sistemi giuridici della società moderna). Cfr. G. Teubner, Giustizia nell’era del capitalismo globale?, con A. Negri, La filosofia del diritto contro la sovranità: nuove eccedenze, vecchie frammentazioni, entrambi in http://www.ejls.eu/. Cfr anche P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Boringhieri Torino, 1987, il quale mette in relazione la ricostruzione del rapporto tra individuo, astrazione, proprietà privata e diritto (in particolare le pp. 15-40) con la critica della teoria sistemica (pp. 91 ss., 114-137).

293 Cfr. K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, cit., p. 50, dove afferma che l’intera operazione di mistificazione della funzione politica della proprietà privata viene portata avanti per mezzo del ruolo svolto praticamente dalla rappresentanza politica e idealmente dall’affermazione di un’ideale unitario di stato astratto possibile soltanto come esistenza allegorica.

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in Locke294 non solo è possibile comprendere la crisi determinata dai limiti di un sistema costituzionale funzionale basato sulla pretesa di garantire l’equilibrio di un ambito separato guidato dalla capacità e la spinta soggettiva verso un potenziale di accumulazione infinita, ma è possibile individuare la vera origine della crisi. Il denaro e la possibilità in esso contenuta di un’appropriazione non solo potenzialmente, ma anche effettivamente illimitata, rende palese il ribaltamento del principio di appropriazione lockeano basato sul legame tra proprietà e lavoro. Con la possibilità di un’accumulazione illimitata, infatti, si approfondisce il rapporto tra bisogno e produzione e conseguentemente tra proprietà e lavoro: non solo il bisogno è all’origine della produzione, ma vi è anche che lo stesso consumo, ovvero la stessa proprietà, il risultato del proprio lavoro, è all’origine della produzione del bisogno295. Se nominalmente Locke aveva legato la libertà alla proprietà, e la proprietà al lavoro in un contesto definito idealmente da una razionalità morale, e praticamente dalla capacità di appropriazione e di utilizzo della terra con il sudore della propria fronte, ora concretamente la situazione storica e il mutamento di legittimità politico indicano un’ulteriore fase di evoluzione del moderno processo di modernizzazione il cui contenuto era già rintracciabile nel processo di soggettivazione calvinista ma il cui sviluppo effettivo si rende visibile solamente sulla base di questa analisi del rapporto tra filosofia politica, carattere strutturale/funzionale della costituzione e ruolo giuridico costitutivo dell’ambito privatizzato dell’economia. Il denaro impone la reversibilità della trafila lockeana: non solo la libertà dipende dalla proprietà e il lavoro, ma il lavoro dipende dalla proprietà e questa costantemente dalla possibilità di libertà, ovvero praticamente dalla libertà di appropriazione. Ciò peraltro non significa ridurre la possibilità di regimi di proprietà e di modelli di razionalità differenziati. Ma significa soltanto che su questa autonomizzazione del valore di scambio dal valore d’uso si compie un’accelerazione che rende l’appropriazione apparentemente l’unica dimensione di libertà praticabile, ma allo stesso tempo l’ineluttabile forma della propria autoalienazione296. La mistificazione della prima e fondamentale astrazione determinata va dunque ricondotta al ruolo assunto dal denaro all’interno del circuito definito soggettivamente dal modello appropriativo/accumulativo, nella misura in cui è grazie alla capacità materiale del denaro di generalizzare quantitativamente qualità differenti

294 Ma anche da Harrington. Si veda a riguardo le osservazioni circa il carattere potenzialmente

destabilizzante del nuovo ruolo del denaro in Oceana, cit., pp. 193-207. Cfr. sul punto C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 191-224. La soluzione del dilemma costituito dal ruolo del denaro e dell’appropriazione non a caso può essere risolto da Harrington soltanto con il riconoscimento universale dei diritti di cittadinanza. Sul punto v. anche A. Negri, Il Potere Costituente, cit., pp. 142 ss.

295 Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 69; G. Lukács, La reificazione, cit., 121-122. In fondo tale limite non rappresenta che il limite del sistema dei bisogni della società civile hegeliana al quale lo stesso Hegel cercherà di fornire una soluzione non materialista bensì idealista. Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti, cit., §§ 189-208, pp. 155-168. Su quest’ultimo punto v. T. Serra, A partire da Hegel. Riflessioni sul sistema dei bisogni, in «Itinerari», 2, 2006.

296 Cfr. K. Marx, Manoscritti, cit., pp. 113-127, dove nel corso della ricostruzione del rapporto tra appropriazione, denaro, proprietà, e alienazione viene affermato che «con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come merce». Cfr anche G. Lukács, La reificazione, cit., pp. 120-123; v. infine anche la prefazione di A. Negri all’edizione italiana dell’opera di MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 17 ss., dove viene specificata il significato dell’identità di appropriazione e alienazione.

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ontologicamente (i prodotti del lavoro, i soggetti produttori) e di rendere la trafila libertà-proprietà-lavoro perfettamente reversibile, che la possibilità di un’ontologia costitutiva come condizione di possibilità del molteplice viene sostituita definitivamente dal paradigma della libertà come appropriazione (e autoalienazione) quale unico orizzonte di possibilità di determinazione giuridica secondo il binomio potenza/atto. Il susseguirsi delle astrazioni e rideterminazioni procede precisamente da questa originaria mistificazione: astratta in quanto alla sua essenza generalizzante che oppone la misurazione aritmetica all’originalità costitutiva delle forme temporalmente e spazialmente determinate; determinata in quanto alla sua capacità di declinare la relazione di costitutività con il paradigma di legittimità politico in un tipo di relazione interamente autonoma e separata da tale campo di legittimità, e definita in maniera interamente contingente dalla sua particolarità storica297. Ecco in che senso l’opera di MacPherson può essere interpretata come una ricostruzione storico-concettuale della legittimità moderna e non semplicemente come un’opera di rivisitazione del pensiero politico: la sua necessità di stabilire la relazione tra appropriazione e contrattualismo politico non deve essere intesa come la necessità di dimostrare la volontà delle teorie in esame di giustificare regimi di appropriazione illimitati, ma come la volontà di comprendere la necessità della relazione tra l’obbedienza moderna e il regime soggettivo di produzione dell’appropriazione298. E tuttavia, andando oltre MacPherson, si deve notare come tale relazione non si stabilisca in modo deterministico e definitivo. Al contrario, tale relazione costitutiva dell’intera struttura funzionale della costituzione consiste di un susseguirsi di astrazioni e determinazione; susseguirsi definito sempre in maniera immanente dalla qualità soggettiva della produzione del patto e delle stesse astrazioni, e che testimonia dell’impossibilità di un disciplinamento effettivo della creatività libera della potenzialità costitutiva originaria alla quale si contrappone, in maniera sempre contingente mutevole e dipendente, la determinazione dell’atto. In effetti la paradossalità di questo processo di riduzione dell’ontologia del molteplice a produzione del disciplinamento politico si può ricondurre alla sua stessa base fondativi organizzata intorno alle dicotomie potenza/atto e pubblico/privato. Proprio perché tale riduzione non può avvenire né per decreto autoritativo (come assicurerebbe Hobbes) né per un’adesione individualistica all’idea del contratto sociale, a queste stesse dicotomie e contrapposizioni non resta che arrendersi di fronte alla dipendenza dal primo dei due termini: da un lato all’eccedenza sul lavoro oggettivato del lavoro vivo frutto della cooperazione; dall’altro alla tensione nel campo politico prodotta dalle dinamiche solo formalmente privatizzabili del campo economico e sociale. Tuttavia, forse è proprio questa interna contraddizione del modello individualista, insieme alle premesse peculiari del percorso giuridico inglese, a determinare il carattere non formalista ma pratico della soluzione politica costituzionale della rivoluzione inglese. La dimensione soggettiva di produzione della legittimità politica individualista non è qualcosa di deducibile in via sistematica dall’interpretazione come in Hobbes, ma è qualcosa che prende forma infatti attraverso un autentico processo di soggettivazione che attraversa trasversalmente gli strati sociali della comunità inglese e che trova infine

297 Cfr. A. Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 73. 298 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 297 ss.; v. anche Id., Hobbes Today, cit., pp. 163-

166, dove viene esplicitata la relazione tra la filosofia hobbesiana e il concetto di reificazione.

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una soggettività politica in grado di affermare i nuovi principi politico-costituzionali ad esso collegati. In questo senso il ruolo del New Model Army, quale forma innovativa e repubblicana di organizzazione politica, ed in particolare il pensiero politico dei Levellers che prende forma collettivamente nei dibattiti di Putney simboleggiano il livello pratico e pragmatico di costruzione della nuova legittimità costituzionale. Ciò che resiste alle restaurazioni ed alla stessa sconfitta militare dei Levellers non è la breve dittatura di Cromwell299 ed il ripristino della legalità, ma al contrario l’affermazione del nucleo della proposta politica elaborata a Putney300. Non si tratta qui di fare riferimento alle varie proposte in merito alla riarticolazione dei rapporti interistituzionali, ma di estrapolare l’essenza di quei dibattiti concernenti la definizione della cittadinanza politica degli individui e i relativi diritti di eleggibilità. E’ evidente che seguendo l’impostazione qui seguita la limitazione del censo avanzata in particolare dai Grandi dell’esercito, o anche da una parte dei Levellers, non può infatti valere a negare che il punto di non ritorno segnato dal processo rivoluzionario e riconosciuto a Putney consista proprio nel riconoscimento nell’intrinseca dipendenza del potere politico dai propri sottoposti – semmai il suo successivo e graduale allargamento conferma l’affermazione già avvenuta del principio universale di cittadinanza - e quindi la necessità dell’integrazione democraticista per mezzo della rappresentanza al fine di rendere funzionale alla produzione di legittimità tale potenzialità costituente definita dal paradigma autoproprietario301. Anche la proposta politica dei Levellers va collocata a questo livello di ridefinizione della legittimità e della struttura costituzionale per cui passa automaticamente in secondo piano la questione, in realtà legata prevalentemente a motivi di opportunità dettati dalla contingenza politica del momento, dell’inquadramento sociologico-politico della soggettività dei Levellers e della loro proposta politica. Diviene quindi secondario riconoscere banalmente che forse le dinamiche legate alla composizione sociale dei Levellers potesse generare diverse posizioni riguardo il ruolo dei nullatenenti e dei salariati, o che la ridefinizione

299 Cfr. M. Loughlin, Constituent Power Subverted, cit., pp. 38-39. «All men over 18 promise that will be

true and faithful to the Commonwealth of England a sit is now established without King or House of Lords’. The Engagement sought entirely to absorb the constituing power of the people into constitueted form of government». L’ Instrument of Government può essere inteso quindi come il vero e proprio Termidoro inglese in senso razionale-formale, nella misura in cui capovolge il principio ascendente dell’Agreement dei Levellers in una determinazione del patto interamente discendente e dipendente da un principio di rappresentazione artificiale dell’unità. Tuttavia, come conclude lo stesso Loughlin, tale parentesi si rivelerà utile alla successiva eclissi del potenziale sovversivo del concetto di potere costituente permettendo l’affermazione dei nuovi principi costituzionali sulla base dell’ormai conservatore principio dell’Antica Costituzione (pp. 43 ss.).

300 Oltre ai dibattiti ora raccolti in Putney. Alle radici della democrazia moderna. Il dibattito tra i protagonisti della “Rivoluzione inglese” (a cura di M. Revelli), Baldini & Castaldi, Milano, 1997, v. l’introduzione dello stesso curatore. In generale v. per quanto riguarda il ruolo e la storia del movimento dei Levellers nella rivoluzione v. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., in particolare le pp. 97-141; N. Brailsford, I Livellatori, cit; H. Holorenshaw, I Livellatori, in C. Hill (a cura di), Saggi sulla Rivoluzione inglese del 1640, Feltrinelli, Milano, 1957, pp. 123-197. Cfr. però per una diversa lettura critica del ruolo dei Levellers nel processo di modernizzazione inglese J. Morrill, The revolt of the Provinces, cit.; D. Wootton, Leveller democracy and the Puritan Revolution, cit., pp. 412-443.

301 Cfr. C. Hill, Il mondo alla rovescia, cit., pp. 47-62; C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., pp. 149-150, 167 ss, dove viene specificato la differenza tra le concezioni dei Grandi dell’esercito e i Levellers. Mentre i primi finivano paradossalmente per negare il carattere di diritto naturale della proprietà al fine di riconoscere l’esclusiva legittimità della proprietà ‘costituita’, i secondi stabilivano nel giusto equilibrio dei possedimenti e nel contemporaneo carattere di diritto naturale della proprietà individuale del proprio lavoro i requisiti necessari di un regime di libertà.

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contrattualista della legittimità si articolasse nettamente in chiave astorica e antimonarchica. Semmai tali osservazioni non fanno che confermare la tensione essenziale e complessiva contenuta nella loro elaborazione sviluppata e affermata con i dibattiti di Putney. Questa tensione corrisponde in effetti alla tesi qui sostenuta che il paradigma costitutivo dell’autoproprietà non abbisogni per la sua affermazione di un sistema formale di proprietà e di legittimazione politico in grado di sancire la divisione definitiva tra proprietari e non proprietari, ma al contrario necessiti esclusivamente del riconoscimento dell’eguale e naturale potenzialità soggettiva a divenire proprietari e produttori di tutti gli uomini. Tale riconoscimento è incarnato e presupposto nel suo corrispettivo politico funzionale, ossia nel principio democraticista portato avanti dai Levellers che pretende di determinare i criteri della produzione della decisione politica secondo il principio quantitativo ed elettivo della rappresentanza; principio che subordina il riconoscimento della cittadinanza alla capacità di produzione individuale – che in un’ottica naturalista seicentesca non può che comprendere tutti gli uomini – e che pone a fine stesso della costituzione politica il livellamento della proprietà esclusivamente nel senso di una garanzia di un livello minimo di proprietà disponibile per tutti302. In questo senso il ruolo dei Dibattiti di Putney si inserisce all’interno di questa analisi del processo di astrazione nella misura in cui testimonia il livello pratico entro cui si sviluppa il processo di soggettivazione produttivo dello stesso susseguirsi delle astrazioni. E tuttavia, nonostante tale processualità, emerge comunque ad un certo punto una necessità di fissare e palesare la stessa esigenza di astrazione per mezzo della definizione di una teoria dell’obbedienza politica universale e razionalmente definita. L’idea di un contratto sociale tra gli individui si colloca precisamente al livello espresso da questa esigenza. Da un lato la sua esistenza risulta sempre e solo materialmente e occasionalmente definita: esso è sempre il prodotto immanente dell’obbedienza – del consenso in Locke o della dominazione in Hobbes. Dall’altro proprio in quanto prodotto immanente e occasionale dei soggetti esso è sempre una finzione giuridica per definizione. Anche il contratto lockeano, benché si ponga l’obbiettivo di tentare la riproduzione della natura, e forse proprio in forza della sua consapevolezza di poter essere soltanto un’imitazione artificiale della natura, ricade infatti nella stessa distinzione tra persona naturale e persona artificiale, elevata da Hobbes a dover essere, e per Locke soltanto presupposta idealmente303. In ogni caso, ciò che fino a prova contraria fornisce la prova logica dell’esistenza del contratto è la sua condizione superiore, ossia la sua astrazione precedente: l’esistenza di uno stato di natura al di fuori del quale non è possibile ipotizzare la vita umana. E’ questa ipotesi logica o condizione epistemica che, presentata come astorica, funziona come la vera astrazione e generalizzazione che permette di ipotizzare la scissione funzionale tra pubblico e privato e di mantenere poi allo stesso tempo un anello di congiunzione di tipo astratto e meramente intuitivo tra i due ambiti considerati come

302 Cfr. C.B. MacPherson, Libertà e proprietà, cit., p. 179. «Nella concezione dei Livellatori il lavoro,

benché fosse un attributo dell’uomo, era anche una merce: poteva cioè essere alienato dal naturale proprietario e allora il suo prezzo veniva determinato dal mercato, come quello di ogni altra merce (…) In questo modo, nella misura in cui concepivano il lavoro come una merce, i Livellatori lo concepivano anche come una proprietà dello stesso tipo di quella degli oggetti materiali»

303 Cfr. supra Parte II, cap. II, par. 2.3, pp. 194-226. Cfr. F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Cedam, Padova, 1979, pp. 248-250.

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forme indipendenti e date in sé e per sé, come forme astratte dalla stessa determinazione storica304. Al centro di questo processo di astrazione, al centro di questo susseguirsi deve essere collocato il concetto di rappresentazione e il mutamento della sua qualificazione giuridica, quale fulcro che rende possibile la stessa produzione soggettiva del patto per mezzo del susseguirsi delle astrazioni: la rappresentazione della scissione funzionale principale tra un ambito del privato e un ambito politico del pubblico è ad un tempo condizione, mezzo, e fine dell’istituzione della legittimità moderna. Quest’ultima rappresentazione è infatti il prodotto costante e immanente consustanziale alla produzione del vincolo di legittimità politica. La scissione è una condizione della teorizzazione della dinamica appropriativa ma é anche il principio funzionale dell’obbedienza, nonché fine costante dell’azione del sistema costituzionale. La soluzione proposta per garantire tale scissione è opposta in Hobbes e Locke; in ogni modo la sostanza di questa produzione non cambia: in entrambi l’obbiettivo della garanzia della proprietà è il movente della costituzione del patto; in entrambi la produzione di tale scissione viene mantenuta nell’organizzazione dei poteri e nei fini predisposti da questi ultimi. E’ chiaro, sulla maggiore efficacia del circuito funzionale lockeano di assicurare la produzione soggettiva di tale rappresentazione si misura la maggiore lungimiranza costituzionale del modello inglese. In ogni modo tale ricostruzione, non solo conferma la relazione tra i due tipi di sviluppo, nonché tra i due autori, ma soprattutto intende sottolineare l’essenzialità del rapporto tra l’esigenza di produzione di questa astrazione determinata qui descritta e la funzione di rappresentazione politica305. E’ su questa combinazione di produzione dell’astrazione e rideclinazione della funzione di rappresentazione politica che emerge il modello di rappresentanza moderno in campo politico. Un modello che tenta di rendere funzionale e selettiva la scissione di due ambiti in realtà sovrapposti e costitutivi di un’originaria identità produttiva giuridica: l’ontologia costitutiva. La rappresentanza e la rappresentazione politica moderna nascono a questo incrocio, laddove il mutamento della legittimità politica sintetizzabile nell’esigenza di produzione soggettiva dell’astrazione determinata si accorda con un modello di rappresentazione puro e totalmente artificiale, identificabile nel continente nella personalità dello Stato hobbesiana, e che nel modello inglese si viene ad identificare, idealmente con l’ipotesi del contratto garantito nel caso limite da un appello al cielo, e concretamente nell’insieme dei dispositivi costituzionali predisposti al mantenimento della scissione funzionale pubblico/privato interno/esterno; ovvero materialmente si viene ad identificare con la capacità soggettiva e giuridica di produzione immanente di un principio di legittimità riducibile nella sua essenza alla stessa rappresentazione della scissione funzionale. Con ciò non vi è differenza alcuna tra modello inglese e modello continentale: entrambi si fondano su una medesima struttura funzionale della

304 Cfr. G. Duso, Patto sociale, cit., pp. 21-27, 34-38; Id., Storia concettuale, cit., pp. 19-27. V. anche in

questo senso S. Latouche, L’ordre naturel comme fondement imaginaire de la science sociale, in Social Justice and Individual Responsability in the Welfare State, Franza Steiner, Stuttgart, 1985, pp. 118-128.

305 Cfr. H. Hofmann, Rappresentanza-Rappresentazione. Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Giuffré, Milano, 2007, pp. 390-398, dove sostanzialmente viene riconosciuto che i concetti di rappresentanza e rappresentazione assumono i tratti moderni nel momento in cui il ruolo crescente del consenso nella definizione della legittimità nel periodo medievale subisce un mutamento paradigmatico allorquando la base soggettiva della sua produzione diviene di tipo individualistico.

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costituzione che presuppone alla propria base la produzione (con mezzi diversi) di un principio di legittimità politica mediato dal rapporto con un concetto di rappresentazione puro la cui essenza dialettica «consiste nel fatto che l’invisibile è presupposto come assente ed è al tempo stesso reso presente306». Una mediazione che se analizzata nel sua fase di debutto rivela la sua completa e immanente dipendenza dalle condizioni storico-soggettive e gnoseologiche che ne permettono l’esistenza. Si è visto come il concetto di rappresentazione si articoli differentemente nei modelli delineati da Hobbes e Locke a partire dalle rispettive premesse gnoseologiche. Tuttavia a questo punto la struttura funzionale della costituzione e la sua relativa dinamica di produzione del vincolo di obbedienza compreso tra produzione della legittimità e artificialità della funzione di rappresentazione sostanziale permette di accomunare anche la sostanza delle due modalità distinte di espressione di tale rappresentazione nei due filosofi. Se infatti da un lato la peculiarità della ragion sufficiente lockeana è utile alla dimostrazione del carattere in linea di principio inessenziale del formalismo hobbesiano nel processo di modernizzazione, e della maggiore efficienza della produzione soggettiva e giuridica della scissione funzionale alla base della nuova costituzione, dall’altro lato si può osservare come l’essenza delle due funzioni di rappresentazione sostanziale coincidano nel momento in cui si definiscono entrambe come mera espressione della convenzione. Anche in Locke il caso limite del diritto di resistenza può tradursi in un appello al cielo capace di imprimere un nuovo inizio all’originaria legalità soltanto in quanto tale appello si dimostri in grado di mistificare il carattere molteplice e indeterminato della potenza costituente dell’ontologia. Le soluzioni sono chiaramente opposte: in Hobbes la mistificazione risponde all’obiettivo di impedire la possibilità di un potere costituente della moltitudine per cui la negazione del potere costituente che ne segue può essere fatta corrispondere alla soluzione conseguente di un positivismo rigoroso307. Per Locke, invece, la questione si articola in maniera più complessa perché l’obbiettivo è il tentativo di sussunzione sostanziale del concetto di molteplicità costituente all’interno dei meccanismi formali di produzione della legittimità politica. Tuttavia il risultato è lo stesso sebbene procedente da premesse e da un percorso diverso. Se infatti per un verso le premesse lockeane sono in grado di individuare il prezzo della ridefinizione dell’equilibrio costituzionale, poiché da un lato viene individuata chiaramente alla sua origine il punto di inizio della corruzione umana e della melanconia, e dall’altro viene individuato un sistema costituzionale di tipo strettamente funzionale e selettivo in grado di ridurre al minimo il costo di tale degenerazione, tuttavia al fondo di tale elaborazione si deve constatare come risulti impossibile continuare a rinviare il pagamento di tale costo. Che infatti l’appello al cielo non costituisca soltanto una mera possibilità di riaffermazione del patto, e bensì rappresenti l’affermazione dell’ineluttabilità del ciclo costituzionale può essere considerata un’ipotesi che sotto il suo profilo funzionale rivela le potenzialità del sistema di selezione, ma che sotto il profilo sostanziale rende palese la mistificazione di cui è funzione reale. Una funzione reale che, peraltro, nel caso lockeano, non si limita ad individuare la riduzione dell’ontologia costitutiva in potere costituente moderno, ma che rimanda direttamente alla sua origine generata dalla predisposizione

306 C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 277. Sul concetto di rappresentanza moderna v. anche

F. Lanchester, La rappresentanza in campo politico e le sue trasformazioni, Giuffré, Milano, 2006, pp. 5-39, 71-115.

307 Cfr. supra, Introduzione, pp. 11 ss., 21, dove viene chiarito questo punto di vista positivista.

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dell’individualismo appropriativo e dell’autoalienazione quale paradigma iniziale costitutivo del principio di legittimità308. In questo senso, inoltre, viene chiarito anche in che modo è possibile scorgere nella melanconia la manifestazione soggettiva di un disagio procedente dalla stessa natura cognitiva dell’uomo ed elevata dalla modernizzazione a criterio funzionale di definizione della rappresentazione politica. I vizi dei governanti, sia nella forma tirannica continentale sia nella forma corrotta del regime parlamentare, non rappresentano che l’immagine impressa dallo sguardo soggettivo dei sottoposti, ovvero l’originaria corruzione dell’uomo, che in quanto tale risulta riconducibile alla stessa pretesa di distinzione tra bene e male, nella stessa facoltà di giudizio, ma che nella forma politica della costituzione testimonia il ruolo costitutivo di una razionalità che in quanto tale può elevare a criterio di legittimità e rappresentazione soltanto il male309. La riduzione della nuova scienza politica al controllo razionale delle passioni e la centralità della melanconia quale forma dell’ipostatizzazione prescrittivi del rapporto tra razionalità e affetti nel senso supra indicato310 sono solo dunque la conferma di questa relazione tra il processo di astrazione e la pretesa del nucleo assiologico dell’(auto)fondazione della costituzione come struttura funzionale311. Tuttavia sul terreno della prassi storica questo processo costituisce un’identità. Nella contingenza storica determinata dalla crisi del vecchio equilibrio costituzionale e dal processo di soggettivazione puritano esplode la molteplicità costituente dell’universitas come pura affermazione, e in maniera altrettanto consustanziale alla modalità di produzione giuridica di quest’ultima avviene la sua riduzione e mistificazione nella forma della combinazione tra la sua stessa dimensione soggettiva di produzione, l’astrazione determinata come incontro di un tipo di razionalità specifico con un particolare individualismo, e la riarticolazione della funzione di rappresentazione politica secondo i criteri del funzionalismo evolutivo. Questa riduzione in definitiva avviene in forza di una riarticolazione in senso anche solo idealmente oppositivo del rapporto tra due coppie dicotomiche: potenza/atto, natura/artificialità. Quand’anche infatti si consideri il rapporto tra potere costituente e potere costituito materialmente non in contrapposizione come in Locke e in generale nel costituzionalismo inglese, si deve riconoscere comunque che all’origine di tale posizione risiede pur sempre l’ideale giustapposizione di potenza e atto. Secondariamente, il concetto moderno di potere costituente può prendere piede solamente nel momento in cui esso si presenti come una totalità definibile soltanto come rappresentazione, ovvero come finzione giuridica pura di un’entità assente ma ipostatizzata come presente312; e ciò è possibile soltanto in quanto la naturale artificialità dei corpi giuridici dell’universitas si converta in un nuovo rapporto anche solo idealmente contrappositivo tra natura e artificialità giuridica313. Il

308 Oltre a rimandare a W. Benjamin, Il dramma barocco, cit., pp. 207-209, dove viene indicato il

rapporto tra rappresentazione, melanconia, e produzione della legittimità politica, v. quanto detto supra Parte II, cap. II, par. 2.3.1, pp. 206 ss., a proposito della funzione di rappresentazione hobbesiana. Un’impostazione che sottolinea la dimensione soggettiva della produzione della legittimità politica e che mette in rilievo l’interazione tra melanconia e autodisciplina nella produzione di tale dimensione è offerta da P. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melanconia, socialità nell’Occidente moderno, in particolare le pp. 139-149.

309 Cfr. W. Benjamin, cit., Il dramma barocco, cit., pp. 207-209. 310 Supra par. 2.3.1, pp. 206-209. 311 Cfr. P. Schiera, Specchi della politica, cit., pp. 361 ss. 312 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., pp. 270-272, 277-285. 313 Cfr. J.E. Sieyès, Che cos’è, cit., pp. 93-107.

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contratto, anche nella sua forma determinata soggettivamente del contratto lockeano che procede sempre dalla propria relazione con la materia, non sfugge al riconoscimento implicito di questa opposizione ideale, ma anzi conferma la costitutività di tale opposizione nel momento in cui questa si rivela come pura mistificazione dell’ontologia costitutiva in potere costituente nel caso limite del diritto di resistenza. Soltanto a questo punto si può iniziare a parlare di concetto moderno di potere costituente, ovvero nel momento in cui esso si configura non più come un limite noumenico ma come limite trascendentale della scienza giuridica. Questo concetto prende corpo storicamente in un’astrazione i cui termini sono determinati dall’incrocio qui descritto tra dimensione soggettiva di produzione della legittimità e combinazione di razionalità e affettività con la necessità di una riarticolazione costituzionale basata sulla scissione funzionale314. Tale astrazione è possibile in virtù della particolare riaffermazione della funzione di rappresentazione; o meglio, il potere costituente moderno, in quanto mistificazione dell’ontologia costitutiva, si configura essenzialmente come rappresentazione; una rappresentazione della totalità costituita, in verità, dal susseguirsi delle astrazioni qui descritte, e che dunque in relazione alla sua essenza di concetto storicamente determinato conferma la tesi da cui prende avvio questa ricerca e alla quale si oppone la definizione moderna di potere costituente: la perfetta sincronicità e consustanzialità del processo di produzione dei due concetti di potere costituente e costituzione moderna. Se infatti la negazione hobbesiana del potere costituente è utile soltanto a dilazionare l’esplosione costituente nonché ad ammantare lo stesso concetto di un velo di prescrittività, viceversa lo studio del passaggio dall’antico al moderno costituzionalismo inglese riconsegna la definizione del concetto alla sua origine storicamente e prescrittivamente determinata315. Questa origine è segnata dall’affermazione di tre condizioni concrete, di tre presupposti a partire dai quali si riarticola materialmente la struttura costituzionale inglese moderna. L’antropologia individualista che si sviluppa nel corso della processo di soggettivazione calvinista fino ad arrivare a costituirsi come individualismo appropriativo per rappresentare la base atomistica e astratta della ridefinizione del soggetto di diritto della costituzione moderna, e che nel caso peculiare inglese si traduce nella progressiva affermazione dei diritti politici elettorali e nella tutela di un ambito di non interferenza dai poteri pubblici; ovvero nell’affermazione della stessa scissione funzionale reclamata dal processo di soggettivazione. L’affermazione di un’idea di costituzione come contratto tra gli individui. Idea che presuppone alla sua base, non solo la costitutività di un particolare tipo di individualismo, ma soprattutto il concetto di rappresentazione qui delineato che immediatamente consegna i concetti di costituzione, contratto e potere costituente ai concetti di totalità e unità esistenziale. Infine, l’assunzione del ruolo centrale e costitutivo della razionalità nella definizione dei termini della legittimità politica e giuridica dell’intera struttura costituzionale. Assunzione che nel corso dell’intero processo costituzionale disegna chiaramente una parabola: dall’azione spontaneamente razionale impressa dall’Enlightenment puritano, per passare per la presa di coscienza specifica della necessità di una riarticolazione secondo ragione dei rapporti interistituzionali e di obbedienza, fino ad arrivare alla

314 Cfr. P. Schiera, Specchi della politica, cit., pp. 139-149. 315 Cfr. supra, Introduzione, par. 1.2, pp. 17-23, dove viene ricostruita la consustanzialità di

costituzione e potere costituente e i livelli di prescrittività della definizione di quest’ultimo.

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metabolizzazione di una forma particolare di razionalità come forma data di razionalità generale e costitutiva della forma politica in senso descrittivo. Il processo costituzionale segue in un’apparente continuità della forma il suo moto circolare; in verità la rivoluzione innescata dall’accelerazione lineare dell’Enlightenment può terminare soltanto nel momento in cui trova consolidamento un mutamento paradigmatico della temporalità in grado di rideclinare il rapporto tra tempo lineare e tempo ciclico: la mistificazione della molteplicità costitutiva presuppone la riarticolazione del ciclo su uno spazio temporale disegnato linearmente, ossia presuppone lo stesso riposizionamento del concetto di temporalità storica ad un livello e paradigma di astrazione distinto e più elevato, laddove invece era stata proprio l’irrompere dell’ontologia costitutiva a determinare le condizioni della rottura della temporalità316. E’ comunque sulla pretesa della sufficienza di questo paradigma di razionalità a spiegare la portata epocale e ontologica del mutamento che si arena la possibilità di una ricalibramento della produzione sempre soggettiva e razionale della legittimità controllabile dalla stessa capacità condizionale, quasi a voler dimostrare la perpetuità di una possibilità sempre differente di razionalità attestata dall’ineliminabilità materiale dell’ontologia costitutiva. Su questa pretesa si arena il processo rivoluzionario inglese, lasciando in eredità una costituzione duratura nel tempo e un non-concetto di potere costituente apparentemente non utilizzabile nel continente, perché esclusivamente determinato dalla peculiarità storica. Ma su questa pretesa si arena soprattutto il tentativo di una liberazione umana, laddove la ridefinizione della legittimità costituzionale affonda la propria origine proprio in quella originaria corruzione che la rivoluzione voleva rimuovere, e laddove tale ridefinizione si identifica sostanzialmente nella costituzionalizzazione della autoreificazione. Un’indagine di tipo storico-concettuale può, attraverso il lavoro di scavo filosofico politico e di comparazione giuridica, riconsegnare all’interpretazione la complessità e la ricchezza di una tale esperienza umana consistente in definitiva in un’esperienza di rottura della temporalità storica. Nel fare ciò può mostrare le varie connessioni che si vengono a stabilire tra le dinamiche e i soggetti politici, il mutamento di concetti giuridici, le forme di razionalità che sottostanno ai processi di soggettivazione e i mutamenti strutturali delle forme di governo territoriale, al fine di cercare di riconsegnare un concetto, quale quello di potere costituente, per definizione di carattere assoluto e compreso tra la completa astrazione e la completa determinazione storica, alla sua peculiare struttura concettuale relativa. Il processo rivoluzionario inglese può mostrare così in modo emblematico il motivo di una tale coincidenza e sovrapposizione tra astrazione e determinazione confermando peraltro la funzione generalizzante dello stesso concetto di potere costituente uscente da tale processo. Tale concetto costituisce infatti un contributo fondamentale all’edificazione della definizione moderna di potere costituente per il fatto stesso di rappresentare al contempo un esempio talmente radicato storicamente da essere irriproducibile, e in sostanza il tassello principale di un processo di generalizzazione procedente per astrazione che mira a presentare il potere costituente come concetto assoluto. Un’indagine di questo tipo può quindi rappresentare uno strumento in grado di chiarire la portata e la qualità del passaggio dall’antico al moderno costituzionalismo inglese, e

316 Cfr. sul mutamento della temporalità supra, Parte II, cap. I, par. 1.2, pp. 143-148.

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allo stesso tempo in grado di ri-attribuire il giusto peso e relatività storico-razionale del concetto moderno di potere costituente. Tuttavia, ciò che questo tipo di indagine, sviluppata sempre sulla tensione tra evento, struttura e rappresentazione, sicuramente non può fare, è stabilire un altro concetto di potere costituente in senso assoluto. Ma questo, come si è visto, è impedito anche a qualsiasi tentativo condizionale, laddove questo non si limiti a riconoscere la potenzialità dell’ontologia costitutiva come condizione di possibilità del molteplice e della pura autoaffermazione.

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