UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE Dipartimento di Diritto...
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE
Dipartimento di Diritto dell’Economia e Analisi Economica
delle Istituzioni
Scuola Dottorale “Tullio Ascarelli”
Sezione di Dottorato di Ricerca in
Diritto Privato per l’Europa
XXII ciclo
TESI DI DOTTORATO
“LA TUTELA INIBITORIA”
TUTOR COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Chiar.mo Prof.
Renato Clarizia Giuseppe Grisi
DOTTORANDO
Amedeo Palumbo
2
A Marianna.
Oggi, domani, sempre.
3
INDICE
INTRODUZIONE 5
1. LE IPOTESI TIPIZZATE DI TUTELA INIBITORIA. ALCUNI ESEMPI 9
1.1 LE IPOTESI DI INIBITORIA DEFINITIVA 10
1.1.1. DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E TUTELA DEL NOME 10
1.1.2. PROPRIETÀ, DIRITTI REALI E POSSESSO 15
1.1.3. PERICOLO AI BENI IPOTECATI 21
1.1.4. DIRITTO ALL’AMBIENTE SALUBRE 23
1.1.5. CONCORRENZA SLEALE 27
1.1.6. MARCHI E INVENZIONI 33
1.1.7. DIRITTO D’AUTORE 40
1.2. LE IPOTESI DI INIBITORIA PROVVISORIA 45
1.2.1. DENUNZIA DI NUOVA OPERA E DI DANNO TEMUTO 45
1.2.2. MARCHI E BREVETTI 50
1.2.3. RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI 53
1.2.4. L’ART. 700 C.P.C. 57
2. LA TUTELA INIBITORIA. PRIME RIFLESSIONI 60
2.1 CONDIZIONI E PRESUPPOSTI DELL’INIBITORIA 60
2.1.1 L’INIBITORIA FINALE 60
2.1.2. L’INIBITORIA PROVVISORIA 67
2.2. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’INIBITORIA 74
2.3. IL CONTENUTO DEL PROVVEDIMENTO INIBITORIO 80
2.4. L’ESECUZIONE FORZATA DELL’ORDINE INIBITORIO. L’ART. 614 BIS C.P.C. 82
3. LA TUTELA DEI CONSUMATORI E IL CODICE DEL CONSUMO 105
4
3.1. L’INIBITORIA A TUTELA DEI CONSUMATORI 106
3.2. L’ART. 140 BIS CDC. LA CLASS ACTION. 125
4. LA TUTELA INIBITORIA IN EUROPA 135
4.1. FRANCIA 137
4.2. OLANDA 138
4.3. GERMANIA 139
4.4. GRAN BRETAGNA 140
4.5. UNIONE EUROPEA 142
5. CONCLUSIONI 146
BIBLIOGRAFIA 151
5
INTRODUZIONE.
Ĭnhĭbĕo, es, ŭi, ĭitum, ēre. Frenare, trattenere, arrestare, impedire, fermare1. Lo
studio dello strumento inibitorio non può che iniziare dalle sue origini lessicali,
dall’etimo del verbo che è sintesi di habere e della particella negativa in2.
Il senso primo del termine «inibire» già rende chiara la funzione dello strumento,
la sua finalità di impedire un’azione (o un’omissione). Scopo dell’azione inibitoria
è, dunque, quello di arrestare un comportamento in atto o, quantomeno, di più
che probabile attuazione, sia esso di natura commissiva (laddove dovrà impedirsi
che il ripetersi di un comportamento già posto in essere possa ledere l’interesse
protetto) od omissiva (laddove è non già l’azione che vuole inibirsi, bensì la
inazione, nell’ipotesi in cui il suo compimento corrisponda ad un preciso dovere e
la sua omissione arrechi o possa arrecare un danno al titolare dell’interesse).
La tutela inibitoria non rappresenta sicuramente un elemento innovativo nel
panorama giuridico, atteso che già nel diritto romano possono individuarsi ipotesi
in cui il profilo inibitorio è integrato in actiones quali la operis novi nuntiatio, l’actio
aquae pluviae arcendae e l’actio negatoria in tema di tutela della proprietà3.
1 L. Castiglioni, S. Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Loescher 1966.
2 O. Pianigiani, Vocabolario etimologico, Fratelli Melita Editori, 1990.
3 Così come accaduto nel nostro ordinamento, anche la giurisprudenza (presumibilmente)
preclassica aveva elaborato e strutturato lo strumento inibitorio sulla scorta della casistica inerente le immissioni. In particolare, era stato enucleato il principio per cui in tanto era lecito al proprietario fare nel suo fondo una cosa qualsiasi, in quanto non immettesse nulla nel fondo altrui («quatenus nihil in alienum immitat»: Alfeno in Ulp. D. 8,5,8,5). Il limite di accesso alla tutela - compresa, ovviamente, quella inibitoria - era individuato nella intollerabilità delle immissioni e nell’intenzione di molestare il vicino. Sempre in tema di immissioni, un regime particolare era previsto per le immissioni di acqua piovana, da cui derivò l’actio aquae pluvie arcendae. Questa azione poteva essere esperita dal proprietario che, a causa di un opus manu factum, aveva ragione
6
A ben pensare, ogni fattispecie normativa - sia civile che penale - che imponga un
determinato comportamento o che stabilisca un divieto costituisce, di per sé, una
forma di inibizione, nel senso di impedire, attraverso la minaccia di una sanzione,
che il contegno vietato venga posto in essere o che l’azione necessaria venga
omessa.
Allora qual è la necessità di prevedere una tutela inibitoria, ulteriore e specifica
rispetto al precetto normativo?
La domanda non è certo particolarmente acuta né innovativa, però rappresenta il
necessario punto di partenza per chi intenda approfondire - come si tenterà di fare
con il presente elaborato - la funzione svolta nel nostro ordinamento da uno
strumento tanto particolare quanto specchio dei tempi - quale quello inibitorio -,
nella misura in cui la sua diffusione, strettamente correlata agli sviluppi sociali ed
alle modifiche apportate nel tempo al codice di procedura civile (soprattutto in
considerazione del riflesso che queste hanno avuto sul processo civile e, di contro,
della crescente necessità di addivenire in tempi brevi ad una soluzione della lite
che sia, se non definitiva nel senso processuale del termine, quantomeno
di temere un eccesso di acqua piovana sul suo fondo, ed era diretta nei confronti del proprietario del fondo limitrofo che avesse eseguito l’opera o che avesse acquistato il fondo sul quale l’opera già insisteva. Nel primo caso l’attore poteva chiedere la demolizione dell’opera, nel secondo caso che ne venisse tollerata, dal nuovo proprietario, la demolizione che effettuava a proprie spese. l’actio aquae pluvie arcendae rappresenta una particolare articolazione dell’operis novi nuntiatio che, al pari della denunzia di nuova opera di cui al nostro art. 1171 c.c., 2° comma («l’autorità giudiziaria, presa sommaria cognizione del fatto, può vietare la continuazione dell’opera, ovvero permetterla, ordinando le opportune cautele»), necessariamente doveva contemplare un profilo inibitorio, stante la peculiarità della fattispecie astratta. Infine, deve farsi un breve cenno all’actio negatoria (v. Ulp. D. 7,6,5,6), così definita dalla tradizione romanistica, un’actio in rem dai contorni del tutto analoghi all’azione prevista nel nostro ordinamento tra le azioni petitorie e con la quale il giudice, accertato il diritto preteso, invitava il convenuto a rimettere le cose nel pristino stato e, eventualmente, a promettere con stipulatio che non si sarebbe ingerito in quel modo nel bene.
7
sufficiente a soddisfare le impellenti necessità che sottendono al suo utilizzo)
induce ad una rivalutazione dello strumento in chiave attuale e prospettica.
Un primo appunto, in chiave metodologica, deve farsi, come prima si accennava,
con riferimento all’aspetto lessicale4.
Data quale premessa necessaria quella per cui l’azione inibitoria nel nostro
ordinamento non gode di una disciplina generale che ne delinei, in astratto, i limiti
operativi e gli ambiti di applicazione (essendo la sua disciplina desumibile da un
coacervo di disposizioni, collocate negli ambiti disciplinari più disparati) deve
rilevarsi come talvolta, nelle innumerevoli previsioni del Codice civile e delle leggi
speciali, in cui può rinvenirsi una funzione esplicitamente o implicitamente
inibitoria, vengano usate espressioni quali «azione inibitoria», «inibitoria»,
«inibizione», «interdizione», «azione in cessazione» e così via. Esse indicano tutte
lo stesso fenomeno e possono, così, considerarsi intercambiabili5.
Al di là del dato prettamente testuale, però, nonostante previsioni frastagliate e
spesso apparentemente non collimanti, è possibile trarre una disciplina comune
dell’azione inibitoria, un minimo comune denominatore che permetta
4 Coglie con attenzione il problema A. Frignani, L'injunction nella common law e l'inibitoria nel
diritto italiano, Giuffrè 1974, 241. 5 Di diverso avviso F. Pesce, L'inibitoria nel processo per violazione del brevetto d'invenzione o di
marchio d'impresa, in Riv. Dir. Ind. 1966. Secondo l’A. «inibitoria» sarebbe linguaggio curiale e si dovrebbe usare «inibizione» per essere più vicini alla norma e… alla lingua italiana, in quanto è la legge stessa ad usare l’espressione «inibitoria» (cfr. Art. 83 l. invenzioni e art. 63 l. marchi). Inoltre «inibitoria» era originariamente aggettivo che veniva applicato al nome «azione» e perciò l’uso di esso come sostantivo ripete lo stesso fenomeno verificatosi con l’espressione «azione risarcitoria» e «risarcitoria». Si deve inoltre osservare che parte della dottrina di inizio ‘900 utilizzava il termine «azione negatoria» per indicare l’inibitoria a tutela delle privative industriali (così I. La Lumia, Lezioni di diritto industriale, Padova 1929; A. Ramella, Trattato della proprietà industriale, Torino 1927. Usano invece il termine inibitoria T. Ascarelli, Teoria della concorrenza, Milano 1955; G. Auletta, Azienda, in Commentario Scialoja-Branca, 1961.
8
all’interprete di ricostruire l’istituto e di individuarne i requisiti ed il perimetro
applicativo.
Come accennato in precedenza, non è dato rinvenirsi nel nostro ordinamento una
disciplina generale dell’azione inibitoria. Non essendovi tale disciplina manca una
definizione essenziale e comune a tutte le ipotesi di tale tipo di tutela.
Tuttavia, nelle maglie di norme codicistiche e leggi speciali, è possibile comunque
riconoscere ad alcune definizioni, elaborate dal legislatore in ambiti specifici, la
capacità di fungere da definizione comune, ancorché non esaustiva.
In particolare, tale capacità può essere individuata nella definizione di tutela
inibitoria prevista all’art. 156 della L. 633/1941, in tema di diritto d’autore,
secondo cui «Chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di utilizzazione
economica […] oppure intende impedire la continuazione o la ripetizione di una
violazione già avvenuta sia da parte dell’autore della violazione che di un
intermediario i cui servizi sono utilizzati per tale violazione può agire in giudizio per
ottenere che il suo diritto sia accertato e sia vietato il proseguimento della
violazione».
Nella definizione appena citata si celano già gli elementi essenziali e strutturali
dell’azione inibitoria (come meglio avremo modo di precisare), nonché i principali
interrogativi che gravitano attorno ad uno strumento che, se da un lato garantisce
una protezione pressoché immediata (ancorché, nella maggior parte dei casi, non
definitiva) all’interesse la cui lesione si lamenta, dall’altro pone rilevanti questioni
in ordine alla necessità di trovare un momento di sintesi tra compressione del
9
diritto di agire del soggetto che si assume danneggiante e tutela dell’interesse
protetto; tra arbitrio del giudice nel modulare il provvedimento al caso concreto
(con conseguente rischio di abuso) ed esigenza di trovare nell’ordinamento una
disciplina dettagliata che possa disinnescare tale arbitrio.
1. LE IPOTESI TIPIZZATE DI TUTELA INIBITORIA. ALCUNI ESEMPI.
Come accennato nell’introduzione, esistono nel nostro ordinamento una
molteplicità di fattispecie tipizzate che prevedono la possibilità, per il soggetto
titolare dell’interesse leso, di ottenere una tutela immediata consistente
nell’ordine, da parte del giudice, di interrompere il comportamento lesivo in atto o
nel divieto specifico di porre in essere una condotta il cui compimento appare
quantomeno probabile6.
La seguente elencazione, lungi da pretese di esaustività, ha il fine di rendere più
evidente al lettore la disorganicità della disciplina della tutela inibitoria e di
evidenziare la summa divisio tra inibitoria provvisoria ed inibitoria definitiva, di cui
si tratterà più diffusamente in seguito.
È bene qui ribadire la chiave di lettura enucleata nelle premesse. Non si lasci
ingannare il lettore dalla terminologia utilizzata dal legislatore nella costruzione
delle diverse fattispecie. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di concetti
perfettamente sovrapponibili o, comunque, la cui distinzione ha scarso rilievo
6 “L’inibitoria che noi studiamo è una sentenza di condanna, mirante a far cessare un’attività o uno
stato lesivo del diritto altrui, o a inibire la continuazione o anche solo la commissione di tali atti” (A. Frignani, op. cit., 242. cfr. anche F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, § 114).
10
pratico. Tale disomogeneità è dettata dall’assenza di un disegno unitario del
rimedio inibitorio e dalla necessità di adattare anche la forma lessicale alla
particolarità del caso disciplinato.
1.1. LE IPOTESI DI INIBITORIA DEFINITIVA.
1.1.1. DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E TUTELA DEL NOME.
Il Codice Civile contempla, nel suo articolato, diverse ipotesi di tutela inibitoria.
Quella relativa alla tutela dei diritti della personalità è rinvenibile nei primissimi
articoli del Codice, laddove si prevede, all’art. 7, che “la persona alla quale si
contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso
che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del
fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. L’autorità giudiziaria può ordinare che
la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali”. La medesima azione di
“cessazione” è esperibile anche nelle ipotesi previste ai successivi artt. 8 (tutela
del nome per ragioni familiari) e 9 (tutela dello pseudonimo). L’art. 10 c.c. (abuso
dell’immagine altrui) prevede invece che “qualora l’immagine di una persona o dei
genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui
l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con un pregiudizio
al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità
giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il
risarcimento dei danni”.
11
Le fattispecie riportate, seppur afferenti ad ipotesi diverse, prevedono entrambe
una tutela inibitoria (di cessazione) accanto ad una tutela di carattere risarcitorio,
per cui sembra corretto trattarne congiuntamente. Inoltre, dette disposizioni
rappresentano in nuce quella che poi si è sviluppata come tutela della riservatezza,
tutela dell’onore e via dicendo, diritti la cui configurazione ha occupato per molti
anni il dibattito dottrinario7.
È importante rilevare come il risarcimento del danno e la tutela inibitoria siano
configurate quali strumenti distinti e tra loro autonomi e che, anzi, la tutela
risarcitoria abbia un’importanza minore che altrove, in considerazione del fatto
che il risarcimento del danno è strumento attivabile solo laddove il danno si sia già
verificato e che, nel determinare il quantum risarcibile, si deve far riferimento a
pregiudizi quali, come è evidente nelle fattispecie de quibus, il danno morale, la cui
risarcibilità sconta la difficoltà di individuare criteri precisi di determinazione e
che, nella prassi processuale, richiede uno sforzo probatorio superiore alla prova
del danno patrimoniale. Ciò fa emergere l’importanza delle azioni inibitorie, che
offrono una tutela preventiva non solo del danno ma dell’illecito stesso8.
7 La dottrina più risalente discuteva della unitarietà concettuale o pluralità dei diritti della
personalità. In particolare, propendeva per la prima ipotesi F. Carnelutti, Diritto alla vita privata, in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 1955, 6 ss. Sosteneva invece la pluralità A. De Cupis, I diritti della personalità, Milano 1959, 34 ss. Il dibattito sembra riflettere quello sviluppatosi attorno all’unitarietà o alla autonomia concettuale delle ipotesi di danno non patrimoniale, dibattito che ha trovato soluzione definitiva nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 26972 dell’11 novembre 2008, la cui articolazione argomentativa ben può applicarsi al dibattito inerente i diritti della personalità di cui, peraltro, il risarcimento del danno non patrimoniale, come dimostrano gli artt. 7 e ss c.c., rappresenta uno degli strumenti di tutela. 8 Parla di “strutturale inadeguatezza della tutela risarcitoria ad offrire una tutela giurisdizionale
effettiva al diritto all’identità personale” G. Cassano, Il risarcimento del danno da lesione dell'identità personale, in Riv. Inf e informatica, 1999.
12
In relazione al diritto al nome si distingue comunemente tra azione di reclamo di
nome ed azione di usurpazione di nome9.
Quanto alla prima, il fatto lesivo altrui, che giustifica il ricorso alla tutela prevista
all’art. 7, può consistere nel rifiuto di attribuzione del nome nei rapporti sociali.
Invece nella seconda l’illecito consiste nell’attribuire a sé stesso e nel fare uso di
un nome altrui10.
Appare evidente che l’azione di reclamo e quella di usurpazione di nome
richiedono presupposti differenti per l’accesso alla tutela inibitoria. Nel primo
caso, infatti, la sola contestazione dell’uso del nome rappresenta il fatto illecito.
L’azione di reclamo di nome, dunque, laddove si accerti l’esistenza del diritto e la
sua violazione, conduce alla pronuncia di cessazione del comportamento illecito.
Per la pronuncia di inibitoria sarà sufficiente la prova dell’illecito, consistente nella
contestazione del diritto all’uso del proprio nome, potendosi prescindere da
qualunque valutazione della colpevolezza dell’autore dell’illecito e del danno
cagionato.
Lo stesso non può dirsi, invece, con riferimento all’azione di usurpazione in quanto
la legge non proibisce l’uso o l’appropriazione del nome di un altro, ma l’illecito
9 Una parte della dottrina, avallata dalla giurisprudenza, estende il novero delle azioni a tre: azione
di reclamo di nome; azione di usurpazione (che implica l’appropriazione del nome altrui); azione di proibizione o di inibizione (dove non c’è appropriazione) (vedi Liguori, Commentario del Codice civile, UTET 1966, 146 ss; Cass. Civ. 7.10.1961 n. 2049). 10
A. Frignani, op cit., 246.
13
viene ad esistenza solo quando e nella misura in cui tale uso sia indebito ed arrechi
pregiudizio al titolare del diritto al nome11.
In entrambi i casi la struttura dell’azione inibitoria non muta, indipendentemente
dalla necessità di procedere o meno all’individuazione del pregiudizio, a seconda
del tipo di azione esperibile.
In conclusione, sembra potersi affermare che, nonostante la diversità dei
presupposti dell’illecito, il cui compimento o continuazione l’inibitoria deve far
cessare, questa si presenta con caratteri unitari. In altri termini, contro l’illegittimo
uso che venga fatto del nome altrui, il Codice civile predispone una duplice tutela:
(i) la condanna alla cessazione dell’abuso, per la quale è sufficiente la prova
dell’illecito; (ii) il risarcimento del danno, per il quale sarà necessaria la prova del
dolo o della colpa oltre che del pregiudizio patito.
Maggiore interesse suscita, invece, la disposizione di cui all’art. 10 c.c. in tema di
tutela dell’immagine.
La diversa formulazione in tema di esperibilità della tutela inibitoria rispetto all’art.
7 c.c. non sembra preludere ad una diversificazione strutturale delle due ipotesi.
Mentre, infatti, l’art. 7 c.c. prevede che la persona che ha subito l’illecito «può
chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo», l’art. 10 c.c. sancisce che
«l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso».
11
Peraltro, perché si faccia luogo alla tutela prevista dall’art. 7 c.c. non è necessario che il nome altrui venga usurpato nella sua interezza, con la conseguenza che anche l’uso indebito di una sola parte del cognome può costituire elemento sufficiente per ottenere - nel concorso degli altri requisiti - l’inibitoria, quando la parte del cognome usurpata, per la risonanza storica che ha acquistato, sia dotata di particolare forma individualizzante uno specifico casato o quando, più in generale, esiste una condizione di confondibilità con riferimento all’ambiente, al luogo, all’attività o ad altre circostanze in cui venga fatto uso del nome alterato (Cass. Civ., 22 ottobre 1984 n. 5343).
14
Tale ultima disposizione viene tradizionalmente correlata con la normativa di cui
agli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore, il cui
richiamo ha la funzione di perfezionare il sistema di tutela prevista per il diritto
all’immagine. Anche per l’ipotesi di cui all’art. 10 c.c., l’esperibilità del rimedio
inibitorio prescinde dalla sussistenza dell’elemento psicologico, proprio in
considerazione della natura preventiva di tale tutela.
Un ulteriore spunto di riflessione, che emerge dal dibattito dottrinario, in ordine
all’inibitoria di cui all’art. 10 c.c., attiene alla discrezionalità del giudice nel
pronunciare l’ordine di cessazione. C’è chi ha sostenuto, in proposito, che «Nel
caso in cui il giudice accerti la sussistenza dell’abuso lamentato, ha l’obbligo e non
la facoltà di disporre la cessazione, dovendo escludersi, nonostante la imprecisa
dizione della norma, la esistenza di un potere discrezionale al riguardo»12. A tale,
condivisibile, soluzione si giunge sulla scorta della considerazione che la pretesa
alla cessazione del’abuso rappresenta, nel nostro ordinamento, un vero e proprio
diritto13, a differenza di quanto accade nei sistemi di common law dove l’injunction
rappresenta, nella maggioranza dei casi, un equitable right.
Di estrema importanza è l’interpretazione estensiva che la dottrina, a partire dalla
metà del secolo passato, ha dato della norma in commento al fine di estendere la
tutela ad interessi che allora non trovavano specifica protezione. Si è affermata in
dottrina una tendenza favorevole ad ammettere la tutela inibitoria dei diritti di
12
Così Liguori, op. cit., 159. Del medesimo avviso A. Frignani, op. cit., 260. 13
Secondo F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1986, addirittura non esisterebbe un diritto all’immagine, ma solo un diritto alla cessazione dell’abuso, oltre al diritto al risarcimento del danno, in presenza di colpa.
15
personalità in generale, al di fuori cioè dei casi espressamente regolati14. Tra
questi spicca certamente, per rilevanza dell’interesse e per prospettiva, la tutela
della privacy15.
Il dibattito, sviluppatosi sull’ammissibilità di una tutela inibitoria anche con
riferimento a diritti, quale quello alla riservatezza, che non trovavano
nell’ordinamento una disciplina specifica, già sopito a seguito delle pronunce della
Corte di Cassazione e del progressivo riconoscimento di un diritto generale alla
privacy, ha trovato definitiva soluzione con l’introduzione del D.Lgs. 30 giugno
2003 n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).
1.1.2. PROPRIETÀ, DIRITTI REALI E POSSESSO.
La seconda area dove il legislatore ha tipizzato ipotesi di tutela inibitoria definitiva
è quella del diritto di proprietà e del possesso. In particolare, le norme che
regolano la tutela in questa materia si trovano negli articoli 949, 1079, 844 e 1170
c.c.
14
A. Frignani, op. cit., 263. 15
A dire il vero, sul riconoscimento di quest’ultima situazione sostanziale ha pesato per anni un forte contrasto dottrinale e giurisprudenziale. In particolare, le resistenze della dottrina si fondavano sul preteso carattere eccezionale delle norme sui diritti della personalità in quanto restrittive di libertà costituzionalmente garantite come quella di manifestazione del pensiero. Ma il problema è stato risolto da una presa di posizione della Corte di cassazione, che ha finito per ammettere l’esistenza, nell’ordinamento vigente, di un diritto generale alla riservatezza (Cass. Civ. 27.05.1975 n. 2129). In particolare, la Corte ha ritenuto che “il diritto alla riservatezza consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano tuttavia giustificate da interessi pubblici preminenti […] tale diritto non solo trova implicito fondamento nel sistema, ma trova una serie di espliciti riferimenti nelle norme costituzionali e ordinarie e in molteplici deliberazioni di carattere internazionale”.
16
La diversità del’oggetto della tutela impone una trattazione separata delle norme
citate.
In primis, devono considerarsi le disposizioni di cui agli artt. 949 e 1079 c.c.
La prima, in tema di proprietà, prevede che «Il proprietario può agire per far
dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di
temerne pregiudizio. Se sussitono anche turbative o molestie, il proprietario può
chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del
danno». La seconda, rubricata “accertamento della servitù e altri provvedimenti ti
tutela” stabilisce che «Il titolare della servitù può farne riconoscere in giudizio
l’esistenza contro chi ne contesta l’esercizio e può far cessare gli eventuali
impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino,
oltre il risarcimento dei danni».
Voglia perdonare il lettore la tediosa pratica di riprodurre l’enunciato normativo
delle norme in esame, ma ciò, a parere di chi scrive, si rende necessario per il fine
di rendere visivamente evidenti affinità e differenze delle disposizioni che, come
argomentato nell’introduzione, si distinguono spesso solo per la differente
formulazione della fattispecie e quasi mai per ragioni strutturali o di ratio
normativa.
Tornando a ciò che qui interessa, gli articoli in esame definiscono quelle che
tradizionalmente vengono definite l’azione negatoria (art. 949 c.c.) e l’azione
confessoria (art. 1079 c.c.). L’esame parallelo delle due disposizioni trae
giustificazione dalla identica struttura con cui sono costruite. Sia l’art. 949 c.c. che
l’art. 0179 c.c., infatti, prevedono la possibilità di chiedere al giudice di accertare
l’inesistenza sulla proprietà o sulla servitù del diritto che altrui abbia a vantare.
17
Così come entrambe prevedono la possibilità di chiedere al giudice di emettere un
provvedimento che faccia cessare le condotte che ne pregiudichino il godimento
(“turbative e molestie” nel primo caso, “impedimenti e turbative” nel secondo)16.
Il rapporto tra le due tipologie di azioni è pressoché intuitivo.
Esse si differenziano sia sul piano del contenuto che su quello dei presupposti.
Sotto il primo profilo, alla base della negatoria e della confessoria c’è una
contestazione o una incertezza sulla titolarità del diritto di proprietà o sulla
servitù, che si vuole risolvere mediante un’opera di accertamento demandata al
giudice. L’inibitoria, di contro, è esperibile solo quando via sia una turbativa o una
molestia al godimento della cosa che si mira a far cessare, quando tali turbative
siano poste in essere da un soggetto che si assume non sia titolare del diritto
molestato. Sotto il profilo dei presupposti, mentre l’azione negatoria e l’azione
confessoria non esigono, almeno concettualmente, l’esistenza di turbative o
molestie, per l’inibitoria è richiesto che vi sia contestazione dello ius in re; di
conseguenza, per poter esperire l’azione inibitoria è necessario che prima venga
accertata la titolarità del diritto, ciò che costituisce presupposto imprescindibile
per poter determinare l’illiceità delle condotte limitative del godimento del diritto,
atteso che tale illiceità non può certo rinvenirsi laddove titolare del diritto e
soggetto esercente la molestia coincidano.
Infine entrambe le disposizioni contemplano la possibilità di chiedere, in aggiunta
alle azioni suddette, il risarcimento del danno eventualmente subìto.
16
Così A. Frignani, op. cit., 270 «in rapporto alla cessazione delle turbative e molestie, saremmo dell’opinione che si tratti di una applicazione tipica della più generale azione inibitoria. Essa consisterebbe, perciò, in un ordine del giudice di fare o non fare qualcosa, ordine che rientrerebbe dunque nella categoria delle sentenze di condanna».
18
Ciò che, di primo acchito, invece, differenzia l’art. 949 c.c. dall’art. 1079 c.c. è la
previsione, nel secondo, della possibilità di chiedere la rimessione in pristino delle
cose. In realtà, in passato, alcuni hanno sostenuto che l’azione di riduzione in
pristino, prevista solo dall’art. 1079 c.c., dovrebbe essere compresa nel più ampio
concetto di azione in cessazione e, di conseguenza, la si dovrebbe ritenere
ammessa anche nell’art. 949 c.c., ancorché non espressamente prevista17. È
opinione di chi scrive che la riduzione nel pristino stato sia rimedio specifico e
distinto rispetto all’inibitoria e che in nessun modo il primo possa farsi rientrare
nello spettro concettuale della seconda18. Ciononostante, disquisire circa
l’ammissibilità o meno della riduzione in pristino nell’art. 949 c.c. è questione di
lana caprina, atteso che nulla impedisce a chi subisce una molestia al proprio
diritto di proprietà di chiedere, oltre all’ordine di cessazione ex art. 949 c.c., anche
il risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. che, nel caso di specie, andrebbe
a sostituire, laddove possibile e non eccessivamente gravoso, il risarcimento per
equivalente previsto dalla norma, andando a volgere la medesima funzione
ricoperta dall’azione di riduzione in pristino di cui all’art. 1079 c.c.
Per quanto riguarda le disposizioni di cui agli artt. 844 c.c.e 1170 c.c., non
sembrano ravvisarsi particolari novità rispetto alla struttura dell’azione inibitoria
già descritta per gli artt. 949 c.c. e 1079 c.c. L’art. 844 c.c., in tema di immissioni,
prevede che «Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o
di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal
17
G. Tabet, L’ordine di cessazione in negatoria e confessoria, in Studi in memoria di Corsetti, Milano 1965, 707. 18
Sulla stessa linea A. Frignani, op. cit., 276 «A noi sembra che sia necessario procedere con molta cautela nell’ampliare la nozione di ordine di cessazione (fino a farvi ricomprendere la riduzione in pristino, ndr) se non si vuole correre il rischio di perderne l’autonoma nozione rispetto ad altri mezzi di tutela».
19
fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo
alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve
contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener
conto della priorità di un determinato uso».
Balza agli occhi come non vi sia nell’enunciato alcuna previsione espressa di azione
inibitoria, che può invece trarsi in negativo sia dal limite della “normale
tollerabilità”, il cui superamento costituisce l’illecito che l’azione inibitoria mira ad
impedire, sia dal secondo comma dell’articolo, laddove il legislatore parla di
applicazione della norma e individua gli opposti interessi che il giudicante deve
contemperare per giungere ad una pronuncia equilibrata19.
Tale “mancanza” del legislatore non è stata di impedimento al fiorire della
convinzione, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l’art. 844 c.c. rappresentasse
comunque un’ipotesi di azione inibitoria a tutela della proprietà. Anzi, le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 15.10.1998 n. 10186, hanno
esteso le maglie concettuali dell’azione negatoria, fino a farvi ricomprendere
anche l’azione tendente a far cessare le molestie subite al bene la cui titolarità si
chiede di accertare: «L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per 19
Una sentenza della Corte di Cassazione del 1960 (n. 944) aveva affermato che «L’azione concessa al proprietario dalla norma dell’art. 844 c.c., sempre che la molestia ed il rumore superino la normale tollerabilità, rientra nel paradigma dell’art. 949 c.c., e cioè fra le azioni negatorie (azioni reali a difesa della proprietà), le quali non hanno però il significato ristretto di azioni tendenti solo ad evitare l’esercizio di una vera e propria servitù sul proprio fondo, ma hanno il significato ampio di azioni tendenti a far dichiarare la inesistenza di qualsiasi diritto, turbativa o molestia che altri vanti o commetta in danno del fondo dell’attore e, quindi, comprendono anche l’azione tendente ad evitare le immissioni moleste di cui parla l’art. 844 c.c.». Tale impostazione fu respinta dalla successiva giurisprudenza di merito, a mente della quale «L’azione negatoria, prevista dall’art. 949 c.c., ha lo scopo di far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa ed, eventualmente, di far cessare le molestie o turbative cagionate da chi pretenda di avere tali diritti […] l’azione diretta a far cessare turbative e molestie, che non costituiscano la concreta estrinsecazione di un diritto reale vantato da altri, non ha carattere negatorio». Il contrasto così formatosi fu oggetto di giudizio delle Sezioni Unite della Cassazione, le quali lo risolsero nel senso prospettato dalla stessa Corte nel 1960 (Cass. Civ. SS.UU., 15 ottobre 1998 n. 10186, citata nel testo).
20
conseguire l’eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie di
natura reale, a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva
l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche
strutturali del bene indispensabili per farle cessare. L’azione inibitoria ex art. 844
c.c. può essere esperita dal soggetto leso per consentire la cessazione delle
esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità
aquiliana prevista dall’art. 2043 c.c. nonché con la domanda di risarcimento del
danno in forma specifica ex art. 2058 c.c.».
Dell’art. 844 c.c. si tornerà a parlare in seguito, allorquando verrà trattata l’azione
inibitoria elaborata dalla giurisprudenza quale rimedio alla lesione del neo coniato
“diritto all’ambiente salubre”, di cui l’art. 844 c.c. ha costituito un necessario
prodromo.
In tema di tutela del possesso, invece, l’art. 1170 c.c. prevede che «Chi è stato
molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di
un'universalità di mobili può, entro l'anno dalla turbativa, chiedere la
manutenzione del possesso medesimo. L'azione e data se il possesso dura da oltre
un anno, continuo e non interrotto, e non è stato acquistato violentemente o
clandestinamente. Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o
clandestino, l'azione può nondimeno esercitarsi, decorso un anno dal giorno in cui
la violenza o la clandestinità è cessata. Anche colui che ha subito uno spoglio non
violento o clandestino può chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le
condizioni indicate dal comma precedente».
Nel caso citato, ritornando sul discorso lessicale, è da notare come sia stato
utilizzato dal legislatore il termine “manutenzione”, ad indicare l’azione che il
21
possessore può esperire per far cessare le molestie al godimento del bene,
probabilmente in ossequio alla tradizione romanistica. Per quanto riguarda i
presupposti dell’azione, è pacifico che la turbativa non debba necessariamente
implicare una pretesa contraria al possesso, né costituirne una forma di privazione
(tutelabile con l’azione di spoglio ex art. 1168 c.c.), né infine che la molestia abbia
già prodotto gli effetti che l’autore si prefiggeva. Ma soprattutto non rileva che, a
seguito della molestia o della turbativa, si sia già prodotto un danno, il che
dimostra l’indubbia funzione preventiva della tutela prevista dall’art. 1170 c.c.
1.1.3. PERICOLO AI BENI IPOTECATI.
L’art. 2813 c.c. costituisce una di quelle ipotesi considerata dalla dottrina fra le
ipotesi tipiche di inibitoria20.
L’enunciato della norma così recita «Qualora il debitore o un terzo compia atti da
cui possa derivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati, il creditore
può domandare all’autorità giudiziaria che ordini la cessazione di tali atti o
disponga le cautele necessarie per evitare il pregiudizio della sua garanzia».
Non sembra doversi approfondire particolarmente il contenuto della disposizione
che appare sufficientemente chiaro. Ciò che può annotarsi, invece, è il periodo di
chiusura dell’enunciato, laddove il legislatore attribuisce al giudice il potere di
porre in essere “le cautele necessarie per evitare il pregiudizio”. C’è da chiedersi se
tale previsione costituisca un’ipotesi di intervento del giudice ulteriore ed
ontologicamente distinta rispetto al provvedimento inibitorio, in considerazione
20
Messineo, op. cit., § 114, 244.
22
della precisazione che il legislatore ha ritenuto di dover fare dopo aver disciplinato
l’inibitoria a tutela del bene ipotecato.
È opinione di chi scrive che non sia esercizio utile quello di individuare nella
disposizione de qua un possibile nuovo strumento di prevenzione dell’illecito (o
della sua continuazione), il cui contenuto viene lasciato, come sembra potersi
evincere, all’arbitrio del giudice, il quale è investito del potere-dovere di emettere
i provvedimenti ritenuti necessari ad impedire il pregiudizio.
In realtà, la prassi ha mostrato che il contenuto della tutela inibitoria può
assumere contorni più ricchi rispetto al semplice ordine di cessazione della
condotta (o di divieto di porre in essere la condotta futuribile), e modularsi a
seconda della peculiarità del caso di specie, sempre nell’ottica di avere quale
risultato ultimo quello della cessazione del contegno o, comunque, di tutela
dell’interesse protetto dal pregiudizio in atto o imminente.
Ultima nota rispetto all’art. 2813 c.c. va fatta con riferimento alla sua applicazione
giurisprudenziale. Infatti, ad oggi non è dato rinvenirsi nelle sentenze dei giudici di
merito (né, tantomeno, in quelli di legittimità) alcuna pronuncia che abbia avuto
ad applicare la disposizione di cui all’art. 2813 c.c. (ci sia concesso il beneficio del
dubbio circa pronunce, probabilmente esistenti, ma di cui non si è reperito il
dispositivo). Dunque, la previsione di una tutela inibitoria contro il pregiudizio al
bene ipotecato appare, di fatto, inapplicata sin dalla sua introduzione.
23
1.1.4. DIRITTO ALL’AMBIENTE SALUBRE
A differenza delle fattispecie sin qui analizzate, il “diritto all’ambiente salubre”,
coniato dalla giurisprudenza21, non trova, come ogni diritto frutto dell’evoluzione,
una specifica disciplina che ne preveda una tutela in via inibitoria.
Una doverosa precisazione va fatta con riferimento alla dicotomia “diritto
all’ambiente” e “diritto all’ambiente salubre”. È stato acutamente affermato22,
infatti, che «quando si parla genericamente di diritto all’ambiente, si fa riferimento
al “diritto” alla integrità dell’ambiente, e tale posizione è stata precisamente
qualificata intermini di interesse diffuso ma anche in termini di diritto soggettivo
individuale. E quando si parla di danno ambientale, o di danno all’ambiente, si fa
sempre riferimento al valore dell’integrità dell’ambiente. Quando si parla di
responsabilità per danno ambientale, si fa riferimento agli obblighi ripristinatori o
risarcitori che gravano su coloro che hanno violato l’integrità dell’ambiente […]
Tutt’altra questione, e tutt’altro genere di problemi, insorgono quando si parla non
di integrità dell’ambiente, ma di ambiente salubre, perché in tal caso si fa
riferimento al danno alla salute arrecato da fenomeni di inquinamento, cioè da
fenomeni che incidono sulla salute fisica e psichica, quale effetto della violazione
dell’integrità dell’ambiente». Per ciò che interessa l’argomento qui trattato,
21
La prima decisione in cui si afferma l’esistenza di tale diritto in capo a chiunque è quella di Cass. Civ., SS. UU., 6 ottobre 1979 n. 5172. 22
Alpa, Il diritto soggettivo all'ambiente salubre: "nuovo diritto" o espediente tecnico?, in Resp. Civ. e prev., 1998, 1, 4
24
sembra potersi far riferimento sia al “diritto all’ambiente” che al “diritto
all’ambiente salubre”. Dato, però, che lo strumento inibitorio, quale rimedio
specifico e di immediata applicazione, sembra attagliarsi meglio alle ipotesi in cui
venga leso o messo in pericolo il diritto alla salute, inteso come diritto a non veder
pregiudicata la propria salute psico-fisica a causa di fenomeni di inquinamento,
appare più opportuno concentrarsi sulla seconda delle nozioni piuttosto che sulla
prima.
Ciò precisato, vediamo ora con quali modalità la tutela inibitoria ha avuto ingresso
in materia ambientale.
Nelle argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza per giustificare il
riconoscimento generalizzato di tale diritto, e della relativa tutela inibitoria, si è
fatto leva, in alcuni casi, sugli artt. 2043 c.c. e 2058 c.c. e 32 Cost. (per ogni
indistinta alterazione dell’ambiente), in altri sull’art. 844 c.c., in tema di
immissioni, la cui interpretazione, come abbiamo prima accennato, è stata estesa
in via analogica al fine di permettere l’accesso alla tutela inibitoria in tutti i casi in
cui si verifichi una alterazione qualificata dell’ambiente, che esorbiti il limite
codicistico della “normale tollerabilità”23.
In mancanza di una disposizione che prevedesse espressamente una tutela
preventiva, si è fatto largo uso, in materia ambientale, dell’art. 700 c.p.c.24
23
Si veda sul punto l’attenta analisi svolta da M.R. Maugeri, Il rimedio inibitorio nella giurisprudenza «ambientale». Il diritto all'ambiente salubre come espediente retorico. In Riv. Dir. Civ. 1996, 166, la quale conclude affermando che «il riconoscimento giurisprudenziale non si traduce, sotto i profili inibitori, in qualche cosa di più rispetto a quanto già riconosciuto in precedenza dall’ordinamento» (pag. 179). 24
Atteso che gran parte dei provvedimenti incardinati sulla base dell’art. 700 c.p.c. riguardavano interessi di natura proprietaria, è stato osservato in dottrina che il richiamo alla salute è stato
25
(ancorato all’art. 32 Cost.), che ha permesso di aggirare l’ostacolo25 e di riempire
un vuoto che, ad oggi, per quanto ancora non vi sia una specifica disposizione che
permetta di agire per la cessazione di una condotta lesiva del diritto all’ambiente,
sembra comunque riempito, almeno per quanto attiene al contenuto del “diritto
all’ambiente salubre” ed al suo ambito operativo, dalle norme di cui al D.Lgs. 3
aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale)26.
L’uso della procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c., per l’inibitoria delle condotte
lesive del diritto all’ambiente salubre, non deve disorientare circa la collocazione
di tale ipotesi, nella presente trattazione, tra le fattispecie di azione inibitoria
definitiva. Come vedremo meglio in seguito, infatti, la rielaborazione del
procedimento cautelare da parte del legislatore e della giurisprudenza ha sciolto il
utilizzato come “grimaldello argomentativo” (P. Zatti, Nota a Trib. Rimini, 11 agosto 1988, in Nuova giur. Civ. comm., 1988, I, 732) o come “espediente retorico” (Maugeri, op. cit., 165). 25
Di estremo interesse la motivazione di Pret. Pietrasanta, ord. 17 marzo 1989 (riportata da Maugeri, op. cit., 169) secondo cui «non potrebbe sostenersi che la possibilità offerta ai ricorrenti di soddisfare il proprio bisogno di tutela giuridica con uno strumento, ancorché non cautelare, quale l’azione di manutenzione faccia venir meno, alla radice, le ragioni che giustificano la concessione della tutela cautelare urgente, per essere il bisogno di protezione soddisfatto in modo adeguato dal congegno normativo di cui agli artt. 703 ss. C.p.c. Ad avviso di questo pretore, infatti, l’inibitoria provvisoria ex art. 700 c.p.c., se fatta valere attraverso la mediazione dell’art. 844 c.c., tende, a differenza dell’azione di manutenzione, ad essere un mezzo di composizione atipico degli interessi il quale, per un verso, prescindendo dall’animus turbandi, si fonda su criteri di imputazione essenzialmente oggettivi, e, per altro verso, consente di utilizzare una tecnica di intervento particolarmente duttile e di adottare, una volta superata la barriera della “inibizione assoluta”, le misure più idonee ad adeguare il provvedimento alla peculiarità del caso concreto, così da ridurre il fenomeno entro il limite della tollerabilità». 26
Prima della promulgazione del c.d. Codice dell’Ambiente, per la verità, vi erano stati altri interventi del legislatore in materia ambientale, per lo più dettati dall’obbligo di attuazione di direttive comunitarie. Si possono in questa sede richiamare l’art. 130 R del Trattato di Roma, le direttive in materia di protezione dell’ambiente, nonché le numerose convenzioni internazionali inerenti i diversi tipi di inquinamento (si pensi al c.d. Protocollo di Kyoto; al G14 tenutosi a L’Aquila il 9 luglio 2009; alla conferenza dell’ONU sul clima tenutasi a Copenaghen il 19 dicembre 2009). Per quanto attiene alla legislazione interna è necessario menzionare (i) la l. 13 luglio 1966 n. 615 sull’inquinamento atmosferico; (ii) la l. 10 maggio 1976, n. 319 ed il D.lgs. 27 gennaio 1992 n. 132, attuativo della direttiva 80/86/CEE, nonché il D.lgs. 27 gennaio 1992 n. 133, attuativo delle direttive 76/464, 82/176, 83/513, 84/156, 84/491, 90/415 della CEE, in materia di inquinamento ambientale; (iii) la lo. 31 dicembre 1962, n. 1860, il D.lgs. 17 marzo 1995, n. 230, attuativo delle direttive Euratom 80/836, 84/467, 84/466, 89/618, 90/641, e 92/3 in materia di inquinamento nucleare; (iv) la l. 9 novembre 1988 n. 476 ed il D.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, in tema di inquinamento del suolo; (v) le numerose norme in tema di inquinamento acustico.
26
nesso che vincolava la fase cautelare da quella di merito, che necessariamente
doveva seguirvi, aprendo così la strada a provvedimenti inibitori, di natura
definitiva, ottenuti attraverso la procedura prevista per i procedimenti d’urgenza.
Per quanto riguarda il “diritto all’ambiente salubre”, deve evidenziarsi come,
successivamente alla sua prima elaborazione, la nozione abbia subito successivi
aggiustamenti ed integrazioni, frutto dello sviluppo sociale e dell’evoluzione
giurisprudenziale che ne è riflesso. È interessante, a tal fine, notare come la
nozione di “diritto all’ambiente salubre” sia diventata trasversale quanto alla sua
titolarità. Giova riportare, sul punto, una recente sentenza del Tribunale di Salerno
(11 maggio 2009) secondo cui «quella del pregiudizio all'ambiente è nozione
complessa, che ricomprende nel suo ambito una triplice dimensione, e che non
può, pertanto, considerarsi come pertinente esclusivamente allo Stato, e
precisamente una dimensione: a) personale, quale lesione del fondamentale diritto
all'ambiente salubre, facente capo a ciascun individuo; b) sociale, quale lesione del
diritto all'ambiente nelle articolazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità
umana; c) pubblica, quale lesione del diritto-dovere pubblico (funzione) sui bene
ambientali, spettante alle istituzioni centrali e periferiche (così Cass.pen. 10.6.2002
n. 22539), ed oggi esclusivamente allo Stato ai sensi del d.lg. n. 152/06».
Dunque, il “diritto all’ambiente salubre” è tutelabile, anche con il ricorso alla
tutela inibitoria: dal singolo cittadino, per mezzo dell’estensione precettiva
dell’art. 32 Cost.27; dalle associazioni di categoria, anche in forza del novello art.
27
In una recente pronuncia, il Consiglio di Stato ha stabilito che «sulla base del criterio della vicinitas, la legittimazione ad agire deve essere riconosciuta ai singoli che agiscono a tutela del bene ambiente e, in particolare, a tutela di interessi incisi da atti e comportamenti
27
140 bis del Codice del Consumo; dallo Stato, per il tramite del Ministero
dell’Ambiente, in forza dell’art. 311 del D.Lgs. 152/06 (essendo, altresì, venuta
meno la legittimazione degli enti territoriali - Regioni, Provincie e Comuni - ai quali
è attribuita una mera funzione di collaborazione con lo Stato ai sensi dell’art. 299,
comma 2°, dello stesso Codice).
1.1.5. CONCORRENZA SLEALE
Uno degli ambiti in cui la tutela inibitoria ha trovato terreno fertile ed ampia
applicazione è sicuramente quello del diritto industriale.
Ciò in quanto la particolare materia e le specifiche esigenze che permeano
l’ambito del commercio, in tutte le sue più varie manifestazioni, fanno
dell’inibitoria strumento principe per la repressione delle condotte che abbiano
quale effetto quello di alterare il gioco concorrenziale, e che si possono
sostanziare nella usurpazione o nella contraffazione del marchio, dei modelli
industriali, della ditta e dell’insegna o in pratiche di sfruttamento anomalo del
mercato.
In tale prospettiva è necessario fare una precisazione circa l’esperibilità del
rimedio inibitorio in ambito concorrenziale. Mentre, infatti, negli ambiti sin qui
esaminati l’inibitoria si atteggia quale strumento del singolo danneggiato (o,
comunque, dell’insieme di soggetti, unitariamente intesi) contro il singolo
danneggiante, nell’ottica di un rapporto che si sviluppa tra due sfere giuridiche in
dell’Amministrazione che li ledono direttamente e personalmente, unitamente all’intera collettività che insiste sul territorio» (Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009 n. 3849).
28
contrasto, in tema di concorrenza l’adozione degli strumenti di cessazione trova
più ampio respiro, potendo essere esperite anche da operatori del mercato (e non
potrebbe essere altrimenti, dovendo sempre sussistere l’interesse ad agire) che
siano sostanzialmente tersi rispetto alla pratica scorretta posta in essere, e che
però da tale pratica possano trarne pregiudizio, anche se indirettamente28.
Ciò si giustifica con il fatto che il mercato, e il suo corretto funzionamento, da un
lato rappresenta un “bene comune” i cui benefici si estendono all’intera comunità,
dall’altro, le dinamiche che caratterizzano il mondo dei commerci comportano che
un medesimo atto possa produrre effetti nocivi a catena, riflessi rispetto al
pregiudizio immediato frutto della condotta anticoncorrenziale. La diffusività degli
interessi permette di estendere ai terzi il novero dei soggetti legittimati ad
esperire le tecniche di tutela predisposte, compresa quella inibitoria.
Passando alle singole fattispecie, il nostro Codice Civile, in tema di concorrenza
sleale, prevede un’ipotesi di inibitoria agli artt. 2599 e 260029. Il primo (rubricato
“sanzioni”) dispone che «La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne
inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano
28
V. M. Scuffi, L'inibitoria nel diritto industriale e nella concorrenza, intervento nell'ambito del convegno "La tutela sommaria cautelare: il procedimento e l'ambito di attuazione con particolare ai provvedimenti di urgenza in materia di diritto industriale" tenutosi a Frascati i giorni 28/2-1/3 2000. 29
In passato ci si è domandato se fosse possibile inquadrare la concorrenza sleale nella categoria degli atti illeciti. Il dubbio nasceva dal fatto che gli artt. 2599 c.c. e seguenti sembrano caratterizzati dalla mancanza tanto dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) quanto del danno. È stato correttamente affermato, però, da un grande Maestro (Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Giuffrè 1964, 50 ss.) che l’art. 2043 c.c. non dà la definizione di atto illecito o, in altri termini, non ne esaurisce il contenuto, ma ne disciplina invece una particolare conseguenza, e cioè l’obbligo al risarcimento dei danni. L’atto illecito è quello contra ius e non solo quello che obbliga al risarcimento dei danni. Dunque, la categoria dell’atto illecito è molto più ampia di quella di cui all’art. 2043 c.c., che ne prende in considerazione solo un particolare aspetto ai fini di una particolare sanzione. Illecito, dunque, al quale l’ordinamento può reagire anche in modi e con strumenti diversi rispetto al risarcimento del danno, come ad esempio attraverso l’ordine di cessazione della condotta lesiva.
29
eliminati gli effetti». Mentre l’art. 2600 stabilisce che «Se gli atti di concorrenza
sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei
danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati
gli atti di concorrenza sleale, la colpa si presume».
Stante la stretta correlazione tra dette due disposizioni è necessario procedere ad
una trattazione congiunta.
Anche nell’art. 2599 c.c. ritroviamo la stessa struttura binaria già riscontrata in
altre disposizioni (artt. 7 e 10 c.c.). Ad essere precisi, viste le premesse
metodologiche, si dovrebbe parlare di struttura ternaria, atteso che nel novero
delle tutele applicabili deve essere ricompresa anche la pubblicazione della
sentenza, prevista dall’art. 2600 c.c., al pari di quanto previsto all’art. 7 c.c.
Dunque, la fattispecie disciplinata dall’art. 2599 c.c. (per relazione con l’art. 2598
c.c., che delinea le singole ipotesi di illecito concorrenziale) prevede una tutela di
carattere preventivo (inibitoria), una di carattere risarcitorio ed una consistente
nella pubblicazione della sentenza, che è costruita quale sanzione accessoria al
provvedimento di condanna del giudice e che può costituire, ad avviso di chi scrive
e come meglio verrà precisato, anch’essa una forma particolare di tutela inibitoria.
Mentre presupposti per l’attivazione del rimedio risarcitorio sono la sussistenza
dell’elemento psicologico del dolo e della colpa, oltre a quello materiale del danno
(laddove solo il secondo si atteggia ad elemento imprescindibile, potendo esservi
illecito anche in mancanza dell’elemento psicologico, come nei casi di
responsabilità oggettiva), per la tutela inibitoria tali elementi non sono mai
30
richiesti, pur potendo costituire prova dell’illecito compiuto. Peraltro, stante il
disposto dell’ultimo comma dell’art. 2600 c.c., una volta accertata l’esistenza
dell’atto di concorrenza (sleale), l’attore è sollevato, anche al fine di ottenere il
risarcimento del danno, dal provare la colpa del convenuto, sul quale graverà
l’onere della prova liberatoria.
Una volta che il convenuto (o meglio sarebbe dire resistente, nei casi di ricorso ex
art. 700 c.p.c.) abbia dimostrato di aver agito senza colpa, sottraendosi perciò alla
condanna al risarcimento dei danni «non è che egli sia assolto … perché il fatto non
rileva»30. Egli potrà essere sempre sottoposto ai provvedimenti di cui all’art. 2599
c.c. «Se nonostante che sia accertato che un atto di concorrenza esiste, colui che lo
ha compiuto provi che egli è esente da colpa, ciò avrà per effetto che si escluda il
risarcimento del danno. Ma l’attività potrà pur sempre essere fatta cessare e il
giudice potrà pur sempre dare i provvedimenti necessari o utili perché vengano
eliminati gli effetti»31.
In quest’ultimo caso, per poter ottenere una pronuncia inibitoria del giudice,
dovranno invocarsi presupposti diversi rispetto al danno ed alla colpa (o al dolo),
consistenti nella lesione di un diritto e nel pericolo della sua continuazione o
ripetizione32.
30
R. Franceschelli, Studi sulla concorrenza sleale, IV, n. 40, in Riv. Dir ind., 1963, 41. 31
Franceschelli, op. cit., 41 32
Sulla configurabilità dell’illecito concorrenziale anche quando non si sia realizzato un danno in capo al soggetto che assume leso il proprio diritto v. Cass. Civ., SS. UU., 23 novembre 1995 n. 12103 «L’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c. non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno, concretantesi nell’idoneità della condotta vietata a cagionare un pregiudizio».
31
Riteniamo necessario, infine, un appunto relativo al provvedimento che dispone la
pubblicazione della sentenza di condanna (art. 2600 c.c.).
Come è noto, le ipotesi di pubblicazione del provvedimento giurisdizionale
possono ricondursi essenzialmente a due funzioni: la prima di carattere
prettamente riparatorio, la seconda, di carattere punitivo, quale pena accessoria
al provvedimento di condanna. Operano nel primo senso l’art. 186 c.p. («Ogni
reato obbliga il colpevole alla pubblicazione, a sue spese, della sentenza di
condanna, qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non
patrimoniale cagionato dal reato»); l’art. 120 c.p.c. («Nei casi in cui la pubblicità
della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, il giudice, su istanza di
parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per
estratto in uno o più giornali da lui designati»); i già esaminati articoli 7 c.c. e 2600
c.c. Opera, invece, nel secondo senso (a mero titolo esemplificativo) l’art. 9 della l.
8 febbraio 1948 n. 47 (legge sulla stampa) in base al quale «nel pronunciare
condanna […] il giudice ordina in ogni caso la pubblicazione della sentenza»33.
Ciò che interessa, però, ai fini della presente trattazione, sono quelle ipotesi in cui
l’ordine di pubblicazione del provvedimento di condanna è utilizzato con funzione
cautelare34. Prendendo spunto dal Considerando n. 27 della Direttiva 2004/48/CE
(citato in nota), in tema di diritti di proprietà intellettuale (c.d. Direttiva
33
V. G. Bonelli, La pubblicazione del provvedimento cautelate a tutela della proprietà intellettuale, in Riv. Dir. Ind, 2006, 127. 34
Sembra potersi rinvenire un’ipotesi di tal fatta nell’art. 15 della direttiva 2004/48/CE, recepita nel nostro ordinamento con il D.lgs. 16 marzo 2006 n. 140. Con particolare riferimento al “Considerando” n. 27 della Direttiva, ove si legge che «Quale ulteriore deterrente per i futuri autori di violazioni e contributo alla consapevolezza del pubblico in generale è opportuno divulgare le decisioni sui casi di violazione della proprietà intellettuale».
32
Enforcement35), può notarsi come vengano ricollegate alla pubblicazione della
decisione due finalità: quella di fungere da «ulteriore deterrente per i futuri autori
di violazioni» e quella di «contributo alla consapevolezza del pubblico». La prima
può essere considerata uno strumento di general prevenzione, una sorta di
inibitoria di condotte future; la seconda, invece, più interessante, riguarda la
consapevolezza che il pubblico matura a seguito della conoscenza del
provvedimento emesso sul caso di violazione della proprietà intellettuale.
È opinione di chi scrive che tale ultimo profilo possa essere considerato una
particolare forma di inibitoria, sulla scorta della convinzione per cui il
provvedimento inibitorio è diretto non già al soggetto ma alla condotta e, dunque,
non vi dovrebbero essere ostacoli di sorta a considerare inibitoria quella rivolta ad
un numero indeterminato di destinatari laddove ciò assolva alla medesima
funzione dell’ordine di cessazione della condotta. La pubblicazione della sentenza
di condanna, dunque, nel senso qui prospettato, può essere considerato una
inibitoria “esterna”, che ha quale funzione quella di “neutralizzare” l’ambiente in
cui opera il soggetto che ha posto (e continua a porre) in essere la condotta
inibita. Il pubblico consapevole della violazione della proprietà intellettuale (ma
non si vede perché il medesimo meccanismo non possa applicarsi anche alla tutela
dei diritti di proprietà industriale) eviterà di intrattenere rapporti commerciali con
il soggetto destinatario del provvedimento di condanna, e questo comporterà, per
lo stesso, l’impossibilità di porre in essere ulteriori atti illeciti.
35
Per un’analisi del provvedimento v. L. Nivarra, L'enforcement dei diritti di proprietà intellettuale dopo la direttiva 2004/48/CE, in Riv. Dir. Ind. 2005.
33
1.1.6. MARCHI E INVENZIONI
Punti di riferimento normativo in tema di tutela di marchi e brevetti, a seguito
dell’introduzione del D.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, sono gli articoli 124, 125, 126 e
131 del citato decreto delegato36.
La tutela inibitoria dei “diritti di proprietà industriale”37 è prevista, in particolar
modo, dagli artt. 124 e 131, mentre gli artt. 125 e 126 disciplinano,
rispettivamente, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza di
condanna (che può essere annoverata tra le ipotesi di pubblicazione con finalità
cautelare di cui abbiamo detto al precedente paragrafo).
L’art. 124 recita: «Con la sentenza che accerta la violazione di un diritto di
proprietà industriale possono essere disposti l’inibitoria della fabbricazione, del
commercio e dell’uso delle cose costituenti violazione del diritto, e l’ordine di ritiro
definitivo dal commercio delle medesime cose nei confronti di chi ne sia
36
Prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 30/2005 la tutela inibitoria in materia di marchi ed invenzioni era disciplinata, rispettivamente dall’art. 63 l. marchi «Il titolare dei diritti sul marchio registrato o in corso di registrazione può chiedere che sia disposta l'inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell'uso di quanto costituisce contraffazione del marchio secondo le norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti cautelari. Pronunciando l'inibitoria il giudice può fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento» e dall’art. 83 l. invenzioni «Nel corso del giudizio per violazione dei diritti di brevetto d'invenzione industriale, su richiesta della parte interessata, può essere disposta, con sentenza provvisoriamente eseguibile, con o senza cauzione, la inibitoria della fabbricazione o dell'uso di quanto forma oggetto del brevetto fino al passaggio in giudicato della sentenza definitiva. La inibitoria può essere revocata con la sentenza che pronuncia sul merito». Costituendo tali previsioni ipotesi di inibitoria cautelare, il fondamento per la pronuncia dell’inibitoria definitiva veniva ravvisato negli artt. 2569 c.c. e 2577 c.c. 37
Ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. 30/2005 «l’espressione proprietà industriale comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali».
34
proprietario o ne abbia comunque la disponibilità. L’inibitoria e l’ordine di ritiro
definitivo dal commercio possono essere emessi anche contro ogni intermediario,
che sia parte del giudizio ed i cui servizi siano utilizzati per violare un diritto di
proprietà industriale […] Pronunciando l’inibitoria il giudice può fissare una somma
dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni
ritardo nell’esecuzione del provvedimento». Così formulata, non sembra potersi
revocare in dubbio che si tratti di un’ipotesi di inibitoria definitiva, atteso che il
provvedimento teso alla cessazione della condotta illecita si accompagna alla
sentenza (elemento che indica l’adozione di un giudizio ordinario) che accerta la
violazione, a differenza di quanto previsto dal successivo art. 131 laddove tale
indicazione manca.
La formulazione dell’articolo 124 è particolarmente dettagliata nell’enunciare i
generi di condotte che possono integrare l’illecito. L’ordine di cessazione può
avere ad oggetto la fabbricazione, il commercio o l’uso delle cose che
costituiscono violazione della privativa. Se nessun interrogativo pone l’ordine
inibitorio che abbia ad oggetto il commercio o l’uso della cosa, diverso discorso
deve farsi con riferimento alla fabbricazione. Mentre, infatti, nei primi due casi il
bene oggetto dell’illecito è già entrato a contatto con il pubblico e, dunque, si può
ritenere già concretizzato il danno in capo al titolare del diritto di privativa violato;
nel caso del bene prodotto ma non ancora commercializzato c’è da chiedersi se la
condotta posta in essere abbia maturato quel grado di antigiuridicità necessario a
configurare l’illecito punito. A tal fine non può che richiamarsi quanto affermato
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 12103 del 23
35
novembre 2005, hanno fissato il limite di accesso alla tutela concorrenziale (che,
per vicinanza di materia, sembra potersi applicare in via analogica anche alle
privative industriali) al semplice pericolo, ancorché corroborato da elementi di
probabilità, che si verifichi il danno38.
Elemento di estremo interesse è la previsione di cui al secondo comma dell’art.
124 c.p.i., in forza della quale il giudice, nel pronunciare il provvedimento
inibitorio, può fissare una somma dovuta per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione
del provvedimento (letteralmente “per ogni ritardo”) e per ogni violazione o
inosservanza. Tale previsione, che non brilla certo per accuratezza, rappresenta
una delle ipotesi, sparse nelle leggi speciali, dell’astreinte di derivazione
transalpina, misura compulsoria o di esecuzione “indiretta” dell’ordine del
giudice39.
Facciamo solo un brevissimo cenno a tale previsione, dal momento che
sull’introduzione di una astreinte generalizzata nell’ordinamento italiano la
dottrina ha dibattuto per decenni. Inoltre, la recentissima introduzione nel nostro
codice di rito dell’art. 614 bis40, che sembra aver soddisfatto le richieste di chi
invocava l’introduzione di tale strumento, impone una trattazione specifica che
verrà svolta più avanti.
38
V. nota 32. 39
L’indicazione di una misura compulsoria modulata sul modello dell’astreinte era già prevista dagli artt. 66 l.m. e 86 l.i., la cui introduzione è frutto dell’attuazione nel nostro ordinamento dell’art. 41, comma 1°, dell’accordo TRIPS, che obbliga ad adottare «expeditious remedies to prevent infringements and remedies which costitute a deterrent to further infringements». Sul punto v. A. Plaia, L'inibitoria cautelare e la misura compulsoria a tutela del diritto d'autore, in Contratto e Impresa, 2001, 759. 40
Introdotto dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009.
36
Tornando alle fattispecie del Codice della Proprietà Industriale, l’art. 131 che,
come abbiamo detto, disciplina una ipotesi i inibitoria cautelare, prevede che «Il
titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che sia disposta
l’inibitoria di qualsiasi violazione imminente del suo diritto e del proseguimento o
della ripetizione delle violazioni in atto, ed in particolare può chiedere che siano
disposti l’inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell’uso delle cose
costituenti violazione del diritto, e l’ordine di ritiro dal commercio delle medesime
cose nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità,
secondo le norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti
cautelari. L’inibitoria e l’ordine di ritiro dal commercio possono essere chiesti, sugli
stessi presupposti, contro ogni soggetto i cui servizi siano utilizzati per violare un
diritto di proprietà industriale […] Pronunciando l’inibitoria il giudice può fissare
una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata
e per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».
La formulazione dell’art. 131 c.p.i. appare del tutto analoga a quella del
precedente articolo 124, se non fosse per alcun piccoli accorgimenti del legislatore
che fanno trasparire l’intenzione di fare di questa norma strumento cautelare e
non definitivo. Innanzitutto, è da notare come presupposto per la concessione del
provvedimento inibitorio sia ogni violazione “imminente” del diritto di privativa,
ad indicare l’arretramento della soglia di accesso alla tutela sino al pericolo che si
verifichi l’illecito (fermo restando che tale pericolo andrà congruamente provato,
pur snodandosi il procedimento secondo le norme del procedimento cautelare,
che prevedono una cognizione solo sommaria dei fatti). Secondo poi, l’ordine di
37
ritiro dal commercio delle cose costituenti violazione del diritto non è “definitivo”,
come previsto invece nell’art. 124. Da ultimo, deve evidenziarsi come le previsioni
di cui ai commi 1-bis, 1-ter ed 1-quater disegnino chiaramente un procedimento
puramente cautelare, da svolgersi secondo i dettami dell’art. 700 c.p.c., al quale
non necessariamente deve seguire l’introduzione del giudizio di merito a
cognizione piena, quando i provvedimenti d’urgenza emessi ai sensi di tale articolo
«siano idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito», siano cioè
sufficienti a soddisfare il diritto azionato in via cautelare.
Sulla previsione della misura compulsoria di cui all’ultimo comma dell’art. 131
c.p.i. si rimanda al precedente art. 124.
A conclusione dell’analisi delle disposizioni che prevedono forme di inibitoria in
tema di marchi e brevetti e, in generale, dei diritti di proprietà industriale, non può
non farsi un cenno, pur breve, all’art. 133 c.p.i. a mente del quale «L’Autorità
giudiziaria può disporre, oltre all’inibitoria dell’uso del nome a dominio aziendale
illegittimamente registrato, anche il suo trasferimento provvisorio,
subordinandolo, se ritenuto opportuno, alla prestazione di idonea cauzione da
parte del beneficiario del provvedimento».
Tale disposizione (che costituisce un’ipotesi di inibitoria cautelare e che, quindi,
impropriamente e solo per motivi di contiguità normativa è trattata nel presente
paragrafo) rappresenta la risposta del legislatore (notoriamente lento e
farraginoso nell’adeguare l’ordinamento all’evoluzione sociale) ad un fenomeno,
divenuto ormai di massa e, soprattutto, trasversale ed interdisciplinare, quale
38
quello di internet41. Il “nome a dominio”, di cui alla rubrica della norma citata,
altro non è che un indirizzo telematico cui corrisponde una determinata pagina
internet (o “home page”). A seguito della grande diffusione dello strumento
telematico nell’esercizio dell’attività d’impresa, sia per reclamizzare prodotto e
servizi venduti sia per vendere o acquistare tali prodotti o servizi, il nome a
dominio (o, nella terminologia anglosassone “domain name”) ha assunto una
funzione distintiva dell’impresa che ne è titolare e dei suoi servizi42.
41
V. G. Bonomo, Il nome a dominio e la relativa tutela. Tipologie delle pratiche confusorie in internet, in Riv. Dir. Ind., 2001, 247. V. anche C. Galli, L’allargamento della tutela del marchio e i problemi di internet, in Riv. Dir. Ind., 2002, 3, 103. 42
Come è noto il domain name è un indirizzo elettronico che identifica i computers interconnessi alla Rete grazie al sistema FQDN (Fully Qualified Domain Name) basato su codici alfanumerici che trasformano in denominazione l'indirizzo numerico IP (Internet Protocol), espresso in gruppi di due o tre cifre numeriche, come tale riconoscibile solo dalla macchina, e non dall'uomo. La traduzione del complesso numero in nome permette quindi la memorizzazione, da parte dell'utente, anche del sottostante indirizzo telematico corrispondente al sito Web. Il nome di dominio, traduzione letterale di un indirizzo numerico, individua appunto la localizzazione del computer dell' Internet Service Provider (ISP) e il tipo di organizzazione a cui inerisce. La prima parola - oltre l'indicazione del protocollo di comunicazione «http» (Hyper Text Transfer Protocol), che solitamente appare in automatico sul browser - è l'acronimo www (World Wide Web) della nota piattaforma ipertestuale, comune a tutti i nomi di dominio e in teoria distintivo della macchina ( Host server) che ospita il sito Web; la seconda (Second Level Domain, SLD) è il cuore del nome di dominio, che assume in ambito commerciale valenza distintiva dell'impresa e dei suoi prodotti/servizi; la terza parola (Top Level Domain, TLD), di due o tre lettere, indica la nazione di emissione del nome (come «it» per l'Italia, «de» per la Germania, «fr» per la Francia) o la tipologia del sito Web (come «com» per i siti commerciali, «net» per quelli concernenti la rete, «gov» per quelli governativi, «edu» per quelli universitari, «org» per quelli relativi ad organizzazioni non-profit, «mil» per quelli militari). Si distingue quindi il country code TLD (ccTLD), idoneo a individuare la localizzazione "virtuale" dello Host server, e il generic TLD (gTLD), atto a distinguere, ma in linea solo teorica, il settore di operatività dello stesso. Per una definizione giuridica del domain name si veda P. Menchetti, Allocazione di domain names, antitrust e autorità di regolazione: un approccio tradizionale, in Internet e diritto, problemi e soluzioni, Bologna 2001, 49 s., il quale rileva che la numerazione è storicamente nota come afferente ai servizi tradizionali di telecomunicazioni a commutazione di circuito. Partendo dall'inquadramento dell'istituto nel settore tradizionale della numerazione nelle telecomunicazioni, disciplinato in Italia dalla legge 249/97, dal d.P.R. 318/97 e dalla delibera 6/00/CIR dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni «Piano di numerazione nel settore delle telecomunicazioni e disciplina attuativa», e iniziando quindi dall'esame dell'art. 1 lett. a) n. 13) l. cit. e dell'art. 11 d.P.R. cit., l'Autore rileva come dalle disposizioni citate non risulta comprensibile quale norma copra effettivamente il campo di azione dei domain names. Anche sotto il profilo della normativa tecnica i protocolli proposti dagli enti normatori nel settore delle tlc., ISO e CCITT, sono di fatto inesistenti in tutti i servizi Internet, sebbene qualificati come «servizi di telecomunicazioni». L'Autore conclude che il domain name può essere quindi qualificato come «risorsa di numerazione atipica», governata da proprie norme tecniche di fatto. A tale risorsa di numerazione atipica
39
Dunque, si giustifica l’inserimento di una disposizione a tutela dei nomi a dominio
all’interno del Codice della Proprietà Industriale proprio per l’affinità tra il
marchio, la ditta e l’insegna ed il domain name43. Affinità che non comporta una
totale assimilazione della disciplina dei nomi a dominio a quella del marchio,
atteso che l’ambiente telematico presenta problematiche del tutto peculiari, che il
legislatore sembra aver recepito solo in via embrionale nella norma in commento.
L’art. 133 c.p.i., infatti, oltre alla tutela inibitoria del nome a dominio (da attuarsi
in presenza dei presupposti e secondo le modalità di cui all’art. 131 c.p.i., prevede
un ulteriore strumento consistente nella possibilità di un suo “trasferimento
potranno essere applicati gli istituti tipici di tutela della proprietà industriale o intellettuale nel momento in cui essa venga utilizzata come segno distintivo, senza uopo di produzioni normative ad hoc e specifiche previsioni legislative. 43
La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del CPI, in tema di tutela cautelare del domain name, si pronunciava sulla base dell’art. 63 l.m. che, come abbiamo visto in precedenza, costituiva l’antesignano degli artt. 124 e 133 c.p.i. Nel caso Amadeus Marketing S.A. - Amadeus Marketing Italia S.r.l. vs. Logica S.r.l. il Giudice designato del Tribunale di Milano (Trib. Milano, ord. 10 giugno 1997, G.D. Marangoni, in Giur. It., 1997, I, II, 697, con nota di L. Peyron, Nomi a dominio - domain name - e proprietà industriale: un tentativo di conciliazione) accolse l'istanza ex art. 63 l.m. delle società ricorrenti, titolari del marchio « Amadeus», intesa a inibire l'uso della denominazione «amadeus.it» con la quale la soc. Logica a r.l. contrassegnava il proprio sito Web per offrire servizi simili, se non uguali, a quelli offerti dalle ricorrenti, consistenti nella prenotazione di viaggi e soggiorni turistici. L'ordinanza dichiarò che l'uso da parte della soc. Logica a r.l. del nome di dominio «amadeus.it» costituiva contraffazione di marchio oltre che concorrenza sleale confusoria. A questa conclusione il Giudice pervenne assimilando il nome di dominio alla figura dell' insegna: il sito indicato dal nome di dominio configurerebbe «il luogo virtuale ove l'imprenditore contatta il cliente al fine di concludere con esso il contratto». Non sono mancate, peraltro, pronunce in senso contrario, tese ad escludere la capacità distintiva del domain name. Nel caso Teseo S.p.a. vs. Teseo Internet Provider S.r.l. il Tribunale di Bari (ord. 24 luglio 1996, in Foro it., 1997) negò qualsiasi funzione distintiva al nome di dominio, avendolo considerato solamente nella sua funzione tecnica di codice di accesso ad un sito, ed escludendo il rischio di confusione con la denominazione sociale altrui. La società ricorrente lamentava l'uso della propria denominazione sociale, all'interno del nome di dominio «teseo.it», da parte della società resistente, chiedendo la tutela in via d'urgenza contro la contraffazione di marchio e la concorrenza sleale. Il Giudice designato respinse l'istanza ritenendo non sussistente il rischio di confondibilità per due ordini di ragioni: anzitutto perché le attività delle due società non erano affini, e quindi non confondibili, con conseguente non applicabilità dell'art. 13 l.m.; in secondo luogo perché il nome di dominio avrebbe «soltanto la funzione di identificare dei gruppi di oggetti e non anche l'entità che utilizza il dominio, sicché nessuna confusione è possibile tra i due soggetti potendo eventualmente la confusione essere determinata dal contenuto delle pagine pubblicitarie dei due soggetti ove ne sussistano i presupposti: un nome a domìni è un nome a domìni e null'altro».
40
provvisorio” in capo al soggetto che, secondo l’istruttoria sommaria svolta in sede
di giudizio cautelare, risulterà titolare del diritto al nome a dominio. Stante, però,
il carattere non definitivo della pronuncia cautelare, il legislatore ha voluto
prevedere anche una forma di tutela del soggetto che si veda spogliato, ancorché
provvisoriamente, dell’utilizzo del domain name e che, potenzialmente, potrebbe
riacquisire tale diritto all’esito del giudizio ordinario, ponendo a carico della parte
beneficiaria del provvedimento di trasferimento provvisorio una cauzione (il cui an
e quantum sono lasciati comunque al giudizio di opportunità del giudice).
1.1.7. DIRITTO D’AUTORE
L’ultima delle ipotesi di tutela inibitoria definitiva che analizziamo nel presente
lavoro è quella relativa al diritto d’autore.
La disciplina degli strumenti di protezione, approntati dal legislatore a favore del
titolare dell’opera, possono rinvenirsi ancora nella l. 22 aprile 1941 n. 63344 che,
nonostante le modifiche subite nel corso dei decenni, ha mantenuto il suo
impianto originario. In particolare, per quanto attiene alla tutela inibitoria, questa
è prevista dall’art. 156, secondo cui «Chi ha ragione di temere la violazione di un
diritto di utilizzazione economica a lui spettante in virtù di questa legge oppure
intende impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già avvenuta
sia da parte dell’autore della violazione che di un intermediario i cui servizi sono
utilizzati per tale violazione può agire in giudizio per ottenere che il suo diritto sia
44
Modificata, da ultimo, con l’entrata in vigore del decreto legge 30 dicembre 2008 n. 207, convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge di conversione del 27 febbraio 2009 n. 14.
41
accertato e sia vietato il proseguimento della violazione». Come anticipato
nell’introduzione, la disposizione citata costituisce, attualmente, la definizione più
completa di azione inibitoria, in attesa che il legislatore ne introduca una disciplina
generale, magari sull’onda dell’introduzione nel codice di rito dell’art. 614 bis
c.p.c.45, di cui tratteremo in seguito.
L’attuale formulazione dell’art. 156 è frutto della modifica apportata dall’art. 2 del
D.lgs. 16 marzo 2006 n. 140, con il quale è stata recepita nel nostro ordinamento
la Direttiva 2004/48/CE, c.d. direttiva Enforcement46. In passato la dottrina si è
interrogata sulla natura di inibitoria finale o cautelare di quella prevista dall’art.
156 l. autore. Il dubbio sorgeva da due elementi: il primo, consistente nella
formulazione dell’enunciato («Chi ha ragione di temere …»), faceva propendere
per un’ipotesi di inibitoria provvisoria, vista l’analogia con espressioni più o meno
similari contenute in altre norme che prevedono tale tipo di inibitoria; nello stesso
senso veniva interpretato il secondo elemento, consistente nel rinvio operato dal
3° comma (2° comma nella formulazione precedente) alle norme del Codice di
procedura civile. Ad avviso di chi scrive, però, gli elementi che hanno convinto
parte della dottrina ad annoverare l’inibitoria di cui all’art. 156 l. autore tra le
45
In questo senso Mazzamuto, L'esordio della comminatoria di cui all'art. 614 bis c.p.c. nella giurisprudenza di merito, in Europa e Dir. Priv., 2009, 3. 46
La direttiva 2004/48/CE rappresenta uno degli interventi del legislatore comunitario nella strategia generale di rafforzamento dei diritti di privativa industriale. Il Considerando n. 3 della Direttiva esplicita la funzione che la norma avrebbe dovuto svolgere nell’acquis communautaire: «è necessario assicurare che il diritto sostanziale in materia di proprietà intellettuale, oggi ampiamente parte dell’acquis comunitario, sia effettivamente applicato nella Comunità. In proposito, gli strumenti per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale rivestono un’importanza capitale per il successo del mercato interno». Sul tema v. L. Nivarra, L'enforcement dei diritti di proprietà intellettuale dopo la direttiva 2004/48/CE, in Riv. Dir. Ind. 2005, 1, 33.
42
ipotesi di inibitoria definitiva47 sono maggiormente persuasive e, a ben vedere, sul
punto decisive.
In particolare, risulta dirimente la considerazione per cui il riferimento
all’accertamento del diritto fa escludere che si possa trattare di un provvedimento
cautelare, atteso che il procedimento disegnato dall’art. 700 del codice di rito non
consente un accertamento nel senso proprio del termine, ma solo l’assunzione di
sommarie informazioni, sufficienti a convincere il giudicante della sussistenza del
fumus boni iuris. In secondo luogo, la l. 633/41 prevede forme di tutela inibitoria
espressamente cautelari, quali quella prevista dall’art. 163, «che possono essere
esperite proprio al fine di poter esercitare l’azione ex art. 156, senza correre il
rischio che tale provvedimento giunga troppo tardi»48.
Lo strumento inibitorio ex art. 156 l. autore deve essere necessariamente
considerato con gli altri strumenti approntati dal legislatore del ’41 a tutela del
titolare dell’opera contraffatta. Ci riferiamo, in particolare, ai rimedi previsti
dall’art. 158 e consistenti nel risarcimento del danno, nella distruzione delle opere
frutto dell’illecito e nella rimozione dello stato di fatto da cui risulta la violazione.
Come è evidente, se analizzata unitariamente, la struttura rimediale costruita dal
legislatore speciale non differisce granché da quella prevista in tema di
concorrenza sleale (vedi supra par. 1.1.5). Dunque, anche per tali strumenti
47
Frignani, op. cit., 330. 48
Frignani, op. cit., 332. Ritiene che l’inibitoria, accompagnata alla previsione di una misura compulsoria, costituisca il momento più innovativo della novella del 2000 A. Plaia, L'inibitoria cautelare e la misura compulsoria a tutela del diritto d'autore, in Contratto e Impresa, 2001, 752 ss. Secondo l’A. «L’introduzione dello strumento cautelare inibitorio tipico dovrebbe favorire la tutela in via cautelare dell’autore di un’opera dell’ingeno e relegare il rimedio atipico, dai presupposti più stringenti, ad un ruolo meramente residuale, essendo la sussidiarietà una caratteristica essenziale del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.».
43
valgono le medesime considerazioni svolte con riferimento ai presupposti di
operatività delle singole azioni, ovverosia alla necessità che sussistano il danno e
l’elemento psicologico perché si possa giungere ad una condanna risarcitoria, al
contrario di quanto accade per la tutela inibitoria, laddove è sufficiente il pericolo
dell’illecito, supportato da un timore fondato che questo si verifichi, perché il
giudice possa disporre la cessazione della condotta in atto o impedire che venga
posta in essere una futura probabile condotta.
Una risalente pronuncia della Corte d’Appello di Roma (15 febbraio 1958), in tema
di diritto d’autore, rende con estrema chiarezza la tematica dei presupposti: «La
lesione, quando sussiste obiettivamente, è agli effetti dell’esercizio delle azioni
civili (interdizione, rimozione e distruzione), previste dagli artt. 156 e 158 della
legge sul diritto d’autore […] indipendente da qualsiasi elemento suriettivo (colpa,
dolo o malafede). La riproduzione totale o parziale dell’opera nuova comporta,
indipendentemente dall’esistenza di un particolare elemento suriettivo, la
possibilità dell’esercizio di dette azioni […] Il concorso dell’elemento psicologico
della colpa o del dolo oltre all’estremo dell’attualità del danno, è necessario per
potersi applicare la sanzione del risarcimento del danno, secondo i principi generali
relativi alla fattispecie dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.), nonché
eventualmente le sanzioni penali previste dagli artt. 171 segg. Della legge
speciale». Ribadisce poi la Corte «Nel caso […] che l’autore fa valere il diritto
assoluto di cui è titolare, mediante le azioni inibitorie e di distruzione o rimozione
dello stato di fatto da cui risulta la lesione del diritto d’autore, egli ha l’onere di
provare l’esistenza di questa situazione di fatto, da cui risulta una utilizzazione di
44
elementi originali dall’opera propria preesistente, senza che sia affatto richiesta
anche la prova della malafede, del dolo o della colpa».
Un’ultima annotazione meritano le norme di cui agli art. 157 e 161 l. autore.
La prima, secondo cui «chi si trova nell’esercizio dei diritti di rappresentazione o di
un’opera adatta a pubblico spettacolo, compresa l’opera cinematografica, o di
un’opera o composizione musicale, può richiedere al prefetto della provincia,
secondo le norme stabilite dal regolamento, la proibizione della rappresentazione
o della esecuzione, ogni qual volta manchi la prova scritta del consenso da esso
prestato. Il prefetto provvede sulla richiesta, in base alle notizie e ai documenti a
lui sottoposti, permettendo o vietando la rappresentazione o l'esecuzione, salvo
alla parte interessata di adire l'autorità giudiziaria, per i definitivi provvedimenti di
sua competenza». È da evidenziare come, nella fattispecie esaminata, venga
demandato al Prefetto e non all’autorità giudiziaria (almeno in prima battuta) il
potere di emettere i provvedimenti interdittivi della rappresentazione o
dell’esibizione. L’attribuzione ad una autorità di pubblica sicurezza di tale potere,
di natura chiaramente cautelare, si giustifica con l’esigenza di un intervento
immediato sulla rappresentazione inibenda; immediatezza che, di certo, non si
potrebbe con il ricorso all’autorità giudiziaria alla quale, comunque, spetta il
compito di emettere i provvedimenti definitivi.
L’art. 161, invece, a mente del quale «Agli effetti dell'esercizio delle azioni previste
negli articoli precedenti, nonché della salvaguardia delle prove relative alla
contraffazione, possono essere ordinati dall'Autorità giudiziaria la descrizione,
l'accertamento, la perizia od il sequestro di ciò che si ritenga costituire violazione
45
del diritto di utilizzazione; può inoltre farsi ricorso ai procedimenti d'istruzione
preventiva», appronta una serie di strumenti, quali quelli della descrizione, della
perizia e del sequestro, che non vanno confusi con le azioni a tutela del diritto
d’autore, costituendone attività prodromiche e, se vogliamo, cautelari rispetto al
buon fine delle azioni descritte agli articoli 156 e 158.
1.2. LE IPOTESI DI INIBITORIA PROVVISORIA
1.2.1. DENUNZIA DI NUOVA OPERA E DI DANNO TEMUTO
Art. 1171 c.c. (“Denunzia di nuova opera”): « Il proprietario, il titolare di altro
diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da una
nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull'altrui fondo, sia per derivare
danno alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o del suo possesso, può
denunziare all'autorità giudiziaria la nuova opera, purché questa non sia terminata
e non sia trascorso un anno dal suo inizio. L'autorità giudiziaria, presa sommaria
cognizione del fatto, può vietare la continuazione della opera, ovvero permetterla,
ordinando le opportune cautele: nel primo caso, per il risarcimento del danno
prodotto dalla sospensione dell'opera, qualora le opposizioni al suo proseguimento
risultino infondate nella decisione del merito; nel secondo caso, per la demolizione
o riduzione dell'opera e per il risarcimento del danno che possa soffrirne il
denunziante, se questi ottiene sentenza favorevole, nonostante la permessa
continuazione».
46
Art. 1172 c.c. (“Denunzia di danni temuto”): «Il proprietario, il titolare di altro
diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da
qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e
prossimo alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o del suo possesso, può
denunziare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si
provveda per ovviare al pericolo. L'autorità giudiziaria, qualora ne sia il caso,
dispone idonea garanzia per i danni eventuali».
Il tenore letterale dell’art. 1171 c.c., in tema di denuncia di nuova opera, e dell’art.
1172 c.c., in tema di danno temuto, manifesta la diversità di impostazione rispetto
alle fattispecie, analizzate nel capitolo precedente, che prevedono forme di
inibitoria definitiva.
L’assunzione del timore che da una nuova opera “sia per derivare danno alla
cosa”, o che da un’opera già esistente possa derivare “pericolo di un danno grave e
prossimo alla cosa” quale requisito per l’accoglimento della domanda, è indice
dell’arretramento della soglia di accesso alla tutela inibitoria, rispetto a quelle
ipotesi (per la verità non moltissime) in cui la norma richiede la concretizzazione
del danno o, quantomeno, che sia già stata posta in essere, e stia proseguendo, la
condotta che si intende inibire.
La denuncia di nuova opera, insieme a quella di danno temuto, definite
tradizionalmente “di nunciazione”, sotto l’influsso della terminologia propria del
diritto romano49, sono azioni poste a tutela non solo della proprietà (come è
49
Il Corpus Iuris le disciplinava in D. 39, 1 («De operis novi nunciatione») e in D. 39, 2 («De danno infecto»): esse sono di origine pretoria e hanno natura preventiva.
47
intuibile dall’incipit della norma) ma anche degli altri diritti reali di godimento e
del possesso. Ciò rende queste due azioni il tassello che integra il quadro di tutela
composto dalle azioni di cui agli artt. 949 c.c. e 1079 c.c. Mentre infatti queste
ultime (c.d. azioni negatorie) richiedono la presenza di turbative o molestie alla
proprietà per poter ottenere l’ordine di cessazione delle condotte lesive, nell’art.
1171 c.c. è necessaria una nuova opera dalla quale si tema possa derivare un
danno alla cosa che forma oggetto del diritto, senza che il diritto stesso sia messo
in discussione; così come nell’art. 1172 c.c. si richiede il pericolo di un danno grave
e prossimo che sia per derivare da qualsiasi edificio, albero o altra cosa.
Gli artt. 1171 e 1172 c.c. accennano ad una struttura processuale improntata ad
un “doppio binario”. Una prima fase è caratterizzata da un procedimento a
cognizione sommaria il cui provvedimento conclusivo (un’ordinanza) dispone in via
cautelare che venga cessata la costruzione dell’opera (purché questa non sia
terminata o no sia trascorso un anno dal suo inizio) o che siano apprestate le
opportune misure affinché l’opera già esistente non arrechi danno ad alcuno50.
Una seconda fase, caratterizzata da un procedimento a cognizione piena, mira ad
effettuare in via definitiva il contemperamento tra gli interessi in conflitto.
50
Come ha precisato la Corte di Cassazione (sentenza 25 marzo 1987 n. 2897) «Il criterio discretivo tra denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto risiede soltanto nel diverso modo in cui l’attività umana ha determinato l’insorgere del pericolo e nella conseguente diversità del rimedio da adottare. La prima, infatti, postula un facere, cioè l’intrapresa di un quid, nel proprio o nell’altrui fondo, capace di arrecare pregiudizio al bene oggetto della proprietà o del possesso del denunciante, e prevede come rimedio l’inibizione di tale intrapresa o la subordinazione della sua prosecuzione all’adozione di determinate cautele; la seconda postula, invece, un non facere, ossia l’inosservanza dell’obbligo di rimuovere una situazione di un edifici, di un albero o di qualsiasi altra cosa, comportante pericolo di un danno grave e prossimo per il bene in proprietà o in possesso del denunciante, e prevede come rimedio l’ordine, a chi abbia la piena disponibilità della cosa costituente pericolo, di eseguire quanto necessario per la rimozione della causa di quest’ultimo».
48
Tenuto conto che le azioni di nunciazione sono preordinate a difesa sia della
proprietà o di altro diritto reale, sia del semplice possesso, l’ordinario giudizio di
merito successivo alla fase preliminare cautelare ha natura petitoria o possessoria
a seconda che la domanda, alla stregua delle ragioni addotte a fondamento di essa
(causa petendi) e delle specifiche conclusioni (petitum), risulti, secondo la
motivata valutazione del giudice, volta a perseguire la tutela della proprietà o del
possesso51.
È da notare come la correlazione tra procedimento cautelare e giudizio ordinario,
nell’ambito della denuncia di nuova opera e di danno temuto, sia stabilito
direttamente della norma, al contrario di quanto accade per le altre fattispecie,
laddove tale correlazione viene desunta in base al richiamo all’art. 700 c.p.c.
Il secondo comma dell’art. 1171 c.c. prevede, addirittura, una forma di protezione
per il soggetto cui venga inibita la costruzione dell’opera, nella prospettiva che
all’esito del giudizio ordinario risulti prevalente il suo interesse su quello del
denunciante. Il giudice, infatti, può stabilire a carico di quest’ultimo un
risarcimento del danno subito dal soggetto inibito per aver dovuto cessare la
costruzione, nel caso in cui le pretese di chi esperisce l’azione di nuova opera
risultino infondate nel successivo giudizio di merito.
Peraltro, è da notare come la norma, in verità, non disponga il potere del giudice
di condannare il denunciante al risarcimento del danno, ma lo abiliti ad ordinare le
opportune cautele “per” il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione
dell’opera. Secondo questa lettura, ad avviso di chi scrive più aderente al testo
51
V. Cass. Civ., sez. II, 26 gennaio 2006 n. 1519, in Giust. Civ. Mass. 2006, f. 1.
49
normativo, il giudice potrebbe stabilire, ad esempio, il sequestro cautelare di
alcuni beni del denunciante, laddove il suo patrimonio non sia sufficiente, in
prospettiva, a rifondere i danni presuntivamente subiti dal soggetto che costruisce
l’opera a seguito della sua interruzione; oppure potrebbe onerare il denunciante
della prestazione di una cauzione che assolva, in via preventiva, alla stessa
funzione svolta ex post dal risarcimento del danno.
L’ultima parte del secondo comma, invece, prevede un rimedio risarcitorio, che si
affianca alla tutela inibitoria, per il danno subito dal denunziante, al pari di quanto
già visto per gran parte delle fattispecie sin qui analizzate.
C’è da chiedersi se la necessaria continuità tra giudizio cautelare e giudizio di
merito, in quanto prevista dalla stessa norma e non attraverso il rinvio alla
disciplina processuale della tutela d’urgenza, sia da intendersi ancora attuale alla
luce dell’introduzione del rito cautelare uniforme e della nuova prospettiva
assunta dal procedimento a cognizione sommaria, che è stato svincolato dalla
appendice ordinaria.
È opinione di chi scrive che tale nuova concezione ben possa essere applicata al
procedimento per denuncia di nuova opera o di danno temuto, sulla scorta della
considerazione che la nuova prospettiva si basa sul principio di sufficienza del
provvedimento reso in sede cautelare, sulla sua attitudine ad esaurire l’esigenza di
tutela manifestata con l’introduzione dell’azione. Ciò, ovviamente, precluderebbe
ogni pronuncia avente ad oggetto il risarcimento del danno o la demolizione
dell’opera, che può essere resa solo al termine di un giudizio a cognizione piena,
ferma restando la possibilità per il denunciante (o per il resistente) di introdurre il
50
giudizio di merito laddove voglia avere accesso alla tutela risarcitoria o voglia
ottenere il pieno accertamento del proprio diritto.
1.2.2. MARCHI E BREVETTI
Come già anticipato nel precedente paragrafo 1.1.6, il D.lgs. 10 febbraio 2005, n.
30 (Codice della proprietà industriale) prevede ipotesi di tutela inibitoria cautelare
accanto alle ipotesi di inibitoria definitiva.
La previsione di un’inibitoria cautelare, nello specifico, è prevista all’art. 131
secondo cui il titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che venga
disposta l’inibitoria di qualsiasi violazione imminente del proprio diritto,
prevedendosi, altresì, che il giudice possa fissare una somma «per ogni violazione
o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione del
provvedimento».
Per quanto l’analisi della disposizione sia già stata effettuata nel capitolo
precedente, con riferimento all’inibitoria definitiva prevista in materia di marchi e
brevetti, deve qui darsi conto dell’evoluzione che ha condotto il legislatore del
2005, partendo dagli artt. 63 l.m. ed 83 .i., che costituivano la previgente disciplina
dell’inibitoria, ad “aggiustare il tiro” apportando miglioramenti in tema di tecnica
di legislazione.
51
Gli artt. 63 l.m. e 83 l.i. avevano suscitato in dottrina, infatti, non pochi dubbi in
ordine alla loro formulazione52. In particolare, erano state rilevate dagli interpreti
alcune anomalie riguardanti: (i) la forma del provvedimento, atteso che mentre
nei procedimenti cautelari si ricorre solitamente alla ordinanza o al decreto, negli
art, 63 e 83 la legge parlava espressamente di sentenza (facendo così dubitare
della natura cautelare dell’inibitoria); (ii) la composizione collegiale del giudice cui
spettava pronunciare il provvedimento inibitorio, atteso che, come accade anche
oggi, il procedimento cautelare è retto dal giudice monocratico; (iii) il tempo in cui
poteva essere invocato il provvedimento inibitorio, atteso che mentre i
provvedimenti cautelari possono essere richiesti sia prima sia in costanza del
giudizio, l’inibitoria ex artt. 63 e 83 poteva essere richiesta solo nel corso del
giudizio; (iv) l’efficacia del provvedimento, in quanto la legge disponeva che la
sentenza era «provvisoriamente eseguibile».
È evidente che nella nuova formulazione dell’inibitoria ex art. 131 c.p.i. i dubbi
sollevati dalla dottrina passata non trovano albergo, avendo il legislatore mondato
l’enunciato di tutti gli elementi che potevano suscitare dubbi interpretativi.
Manca, infatti, qualsiasi indicazione circa la natura del provvedimento assunto dal
giudice (che, comunque, sarà un’ordinanza, visto il rinvio all’art. 700 c.p.c.), così
come devono ritenersi risolte anche le altre anomalie riscontrate negli artt. 63 e
83, atteso che il giudice del procedimento cautelare è indubbiamente il giudice
monocratico; che il provvedimento può essere richiesto ante causam (anzi, questa
ipotesi rappresenta la normalità, vista la funzione della inibitoria); che l’ordinanza
52
Si veda Carnelutti, Provvedimenti d'urgenza in tema di invenzioni industriali. Casi clinici, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1943, II, pp. 78-79.
52
conclusiva del giudizio cautelare è indubbiamente munita di provvisoria
esecutorietà.
Un breve cenno merita, infine, l’art. 132 c.p.i. secondo il quale «I provvedimenti di
cui agli articoli 128, 129 e 131 possono essere concessi anche in corso di
brevettazione o di registrazione purché la domanda sia stata resa accessibile al
pubblico oppure nei confronti delle persone a cui la domanda sia stata notificata».
Tale disposizione (rubricata “Anticipazione della tutela cautelare”) costituisce uno
strumento estremamente penetrante di tutela anticipatoria, dal momento che, in
questo caso, la soglia di accesso alla tutela viene anticipata, addirittura, ad un
momento precedente la brevettazione o la registrazione del marchio, quando
ancora questi non hanno avuto diffusione alcuna tra il pubblico ed il danno non
può sussistere nemmeno in via embrionale.
Peraltro, non si capisce il motivo per cui dovrebbe costituire ostacolo
all’esperimento della tutela inibitoria il fatto che la domanda sia stata resa
accessibile al pubblico, laddove può immaginarsi che tale accessibilità sia dovuta
alla discrezione del richiedente e, dunque, costituirebbe una forma di indebita
tutela del soggetto che si accinge a registrare un brevetto o un marchio che
violano i diritti di proprietà industriale altrui. Non può rilevare, infatti, la modalità
con cui chi invoca la tutela inibitoria è venuto a conoscenza del procedimento di
registrazione del marchio o del brevetto, dovendosi considerare indubbiamente
prevalente l’interesse a che non venga violato un diritto già consolidato, in capo al
titolare della privativa, sull’interesse del registrante a non divulgare tale
informazione.
53
1.2.3. RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI
Una delle ipotesi in cui sembra potersi individuare uno spazio per l’applicazione
della tutela inibitoria è quella prevista dall’art. 2409 c.c. in tema di controllo delle
società53.
L’art. 2409 c.c. prevede che «Se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in
violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che
53
L’attuale formulazione dell’art. 2409 c.c. è il frutto di un’evoluzione storica giunta, ad oggi, alle modifiche apportate dalla riforma del diritto societario intervenuta con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Sotto il vigore del codice di commercio del 1865, con decreto del 5 settembre 1869, n. 5256, era stato abolito l’Ufficio di Sindacato che controllava la gestione sociale dalla costituzione, creando al suo posto l’Ufficio provinciale di Ispezione, composto dal prefetto e da due membri della Camera di Commercio, con il compito di ispezionare la società se attivato dal reclamo di soci rappresentanti almeno il decimo del capitale; se il reclamo fosse stato giudicato sufficientemente fondato l’Ufficio aveva la possibilità di ispezionare la società e in base ai risultati ottenuti dare le opportune “disposizioni’’ (la dottrina - V. Cerami, Il controllo giudiziario sulle società di capitali, Milano, 1954, 15 ss. - segnala la singolare analogia con l’attuale denuncia al Tribunale). L’art. 153 cod. comm. del 1882 – che segna il passaggio da una concezione pubblicistica dell’istituto societario all’affermarsi di istanze liberistiche, ha abolito la sorveglianza dell’autorità governativa sulla gestione sociale, che ha portato alla creazione della figura del collegio sindacale e ad una forma di “controllo sul controllore’’, configurando un intervento dell’autorità giudiziaria non più per la tutela di un superiore interesse pubblico, ma per gli interessi della società e indirettamente di quelli della minoranza: oggetto dell’ispezione potevano essere solo i libri sociali e ogni decisione ultima spettava all’assemblea. I lavori preparatori del libro del lavoro del codice civile, subentrato alla fase di “rivoluzione manageriale’’ che aveva portato ad esautorare i poteri dell’assemblea concentrando l’effettivo comando nelle mani degli amministratori, rivelano il tentativo di perfezionare lo strumento di controllo già esistente, ampliando i poteri dell’autorità giudiziaria, oltre all“’ardito passo innanzi’’ contenuto nell’ultimo comma dell’art. 2409 (vedasi la Relazione al c.c.).
54
possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che
rappresentano il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al
mercato del capitale di rischio, il ventesimo del capitale sociale possono denunziare
i fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società. Lo statuto può
prevedere percentuali minori di partecipazione […] Se le violazioni denunziate
sussistono ovvero se gli accertamenti e le attività compiute ai sensi del terzo
comma risultano insufficienti alla loro eliminazione, il tribunale può disporre gli
opportuni provvedimenti provvisori e convocare l'assemblea per le conseguenti
deliberazioni. Nei casi più gravi può revocare gli amministratori ed eventualmente
anche i sindaci e nominare un amministratore giudiziario, determinandone i poteri
e la durata».
C’è da chiedersi se negli “opportuni provvedimenti provvisori” (che nel testo
previgente erano definiti “cautelari”) possa individuarsi la possibilità per il giudice
investito dell’azione ex art. 2409 c.c. di emettere un provvedimento a carattere
inibitorio.
Nella vigenza della norma ante riforma la dottrina si era interrogata sulla
assimilabilità dei “provvedimenti cautelari” a quelli di cui agli artt. 670, 671 e 700
c.p.c. In particolare era stato osservato che «nel caso in esame […] non c’è un
successivo giudizio di merito relativamente ai provvedimenti disposti dal tribunale
perché non solo mancano le parti fra cui tale giudizio dovrebbe svolgersi (i soci
denuncianti non possono certamente ritenersi tali, anche se hanno un indubbio
55
interesse al risultato della loro denuncia), ma ogni determinazione sulla situazione
è rimessa esclusivamente alle deliberazioni della assemblea»54.
Sotto l’aspetto contenutistico, invece, si è giustamente rilevato che i
provvedimenti ex art. 2409 c.c. non devono necessariamente coincidere con il
sequestro ed i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., trattandosi in questo
caso di «far cessare determinati abusi da parte di determinate persone»55,
piuttosto che porre un vincolo cautelativo sui beni della società.
Per quanto tale ultima affermazioni risulti sicuramente condivisibile, non
dovendosi il provvedimento inibitorio necessariamente ricondursi ad uno dei
provvedimenti cautelari previsti dal codice di procedura, non può, altresì,
accogliersi la prospettiva per cui, nell’intento di individuare nell’art. 2409 c.c.
un’ipotesi di inibitoria, vincola la relativa indagine ad un parallelismo con i citati
articoli del codice di rito.
Milita in questo senso certamente la modifica, intervenuta nel 2003, del termine
“provvedimenti cautelari” con il termine “provvedimenti provvisori” che, sebbene
non decisivo nel riconoscimento di un’azione inibitoria, nondimeno permette di
recidere il legame lessicale tra il provvedimento che il giudice può adottare in base
alla norma del codice civile ed i provvedimenti cautelari delineati dal codice di rito.
In secondo luogo, non può ignorarsi che il provvedimento inibitorio, in quanto
rimedio specifico e particolarmente legato, nel suo contenuto, alla specificità del
54
G. Frè, Società per azioni, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna 1961, sub art. 2409 c.c., 473. Dunque, secondo l’opinione riportata, la norma in esame non si preoccuperebbe tanto delle more del giudizio, quanto piuttosto del tempo che intercorre tra la denuncia e la rituale convocazione dell’assemblea. 55
Frè, ibidem.
56
caso concreto, può (anzi, deve) assumere connotati diversi a seconda del diverso
atteggiarsi del contegno inibendo ed essere modulato dal giudice secondo il fine di
maggior efficienza possibile del provvedimento stesso.
In tale ottica, ricondurre l’ordine di cessazione ad una delle forme previste per i
provvedimenti cautelari sarebbe una forzatura inutilmente formalistica e
processualmente antieconomica.
Un’ulteriore critica (sempre del Frè) all’assimilabilità dell’art. 2409 c.c. agli artt.
670, 671 e 700 c.p.c. è tratta dalla considerazione per cui, nella norma che
disciplina il controllo sulle società, non vi è menzione del pregiudizio imminente e
irreparabile quale requisito per l’adottabilità, da parte del giudice, degli
“opportuni provvedimenti provvisori”, requisito che invece è ben presente nei
procedimenti cautelari.
Anche in questo caso può obiettarsi che, nonostante non sia espressamente
previsto il requisito del pericolo di pregiudizio per l’attivazione della tutela
giudiziale, ciò non significa che il provvedimento inibitorio (che non sembra l’unico
adottabile, vista l’ampia formulazione della norma56) possa essere richiesto ed
56
In dottrina è stato evidenziato che i provvedimenti adottati dal giudice sulla base dell’art. 2409 c.c. possono consistere, a titolo esemplificativo: a) nella limitazione dei poteri di un amministratore, con inibitoria di oltrepassarli; b) nell’attribuzione degli stessi a più amministratori congiuntamente; c) nella sospensione di un dirigente della società; d) nella chiusura di una cassa; e) nella temporanea cessazione di una determinata attività; f) nella sospensione di un’assemblea; g) nella sospensione o revoca provvisoria di qualche componente del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale (Frignani, op. cit., 369). Oggetto della tutela cui sono finalizzati i provvedimenti ex art. 2409 c.c. non è esclusivamente la protezione della minoranza (vedi caso delle società con unico socio, anche nella forma del controllo, e la società di grandi dimensioni, nelle quali il 10% rappresenta la maggioranza di controllo). La tutela della minoranza sarebbe quindi soltanto indiretta o di riflesso. L’interesse al regolare funzionamento dell’organo amministrativo e di controllo nelle società commerciali come interesse generale, rivelato dalla legittimazione del P.M. (cfr. Relazione ministeriale n. 985), per il possibile pregiudizio dell’economia pubblica e dell’ordine economico (pur se le lesioni di interessi
57
adottato solo allorquando sussista un pericolo concreto che dall’attività illecita
degli amministratori possa derivare un danno alla società.
In sostanza, si può concludere che l’espressione “opportuni provvedimenti
provvisori” si possa interpretare in senso abbastanza ampio e tale tuttavia da
ricomprendere in sé tutti quei provvedimenti «che, in rapporto alla situazione
concreta, possono costituire una cautela idonea ad impedire il ripetersi (o il
continuare) delle irregolarità denunciate»57, almeno fino al momento in cui
l’assemblea, all’uopo riunita, possa adottare quelle misure che essa ritenga
opportune per eliminare definitivamente le suddette irregolarità. Pertanto,
l’ampiezza e la natura dei provvedimenti che potranno essere adottati dal giudice
dipendono dal concetto di “gravi irregolarità”, che in mancanza di un preciso
modello normativo, è lasciato al prudente apprezzamento del giudice58.
generali sono di rado denunciate dai privati, ma semmai dal P.M.). Una lettura in chiave costituzionale (sulla scorta di autorevole dottrina, nell’ambito di un articolato studio del procedimento ex art. 2409 c.c., che si rivela strettamente intrecciato con i problemi sostanziali), diretta in primo luogo a giustificare il mantenimento in vita della norma e a rafforzare l’opinione prevalentemente pubblicistica, condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, pone la norma di correlazione con l’art. 41, comma 2 Cost. (secondo il quale l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale), di cui si rivela una delle più importanti applicazioni, con conseguente riconduzione della fattispecie nella sfera dell’ordine pubblico economico. Ne deriva la conferma dell’attualità della norma, assicurata dall’interpretazione evolutiva che la inserisce nel nuovo contesto normativo e le consente di corrispondere alle nuove istanze (tutela del socio anche per la sua qualità di azionista e quindi di risparmiatore nello spettro della tutela del mercato mobiliare). Secondo quanto emerge come dato ormai acquisito e su cui insistono tutti gli autori e la giurisprudenza, la finalità del procedimento è quella di accertare e rimuovere anche in via preventiva – in vista dell’interesse generale alla corretta gestione – le irregolarità accertate e non invece una funzione sanzionatoria o risarcitoria; da ciò deriva il carattere non “residuale’’ del controllo, ma autonomo e complementare rispetto ad altri strumenti di tutela. In tutte le specie di provvedimenti adottandi (anche per la stessa revoca di amministratori e sindaci), l’attività del Tribunale non è tanto diretta ad integrare quella svolta dagli organi sociali (come è proprio della volontaria giurisdizione), quanto piuttosto a ripristinare una situazione di obiettiva regolarità, infranta dalle inadempienze di amministratori e sindaci. 57
Frè, op. cit., 474. 58
Così A. Patroni Griffi, Il controllo giudiziario sulle società per azioni, Milano, 1971, 324 ss. che ritiene applicabile la norma a «qualsiasi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori», anche a prescindere da colpa o dolo.
58
1.2.4. L’ART. 700 C.P.C.
Il provvedimento inibitorio può essere concesso dal giudice anche sulla base
dell’art. 700 c.p.c.
La posizione di questo paragrafo alla fine delle ipotesi di inibitoria (definitiva e
provvisoria) non è casuale, in considerazione del fatto che l’art. 700 c.p.c.
costituisce una sorte di valvola di sfogo per tutte quelle situazioni per le quali il
legislatore non abbia previsto la possibilità di ricorrere alla tutela inibitoria e che,
comunque, richiedono un provvedimento specifico mirato a far cessare la
condotta illecita, non potendosi altrimenti garantire una pronta tutela all’interesse
leso.
Peraltro, il fatto che questa ipotesi residuale sia collocata (almeno secondo
l’interpretazione che riteniamo condivisibile) in una norma di diritto processuale e
non di diritto sostanziale sta sottolineare la carenza di una norma di carattere
generale che disciplini la tutela inibitoria, ciò che costringe l’interprete a ricercare
nel codice di rito la soluzione ottimale per sopperire all’impossibilità di ricondurre
la fattispecie concreta ad una specifica previsione normativa.
L’enunciato dell’art. 700 c.p.c. («Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di
questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per
far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio
imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti
d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare
provvisoriamente gli effetti della decisione di merito») ne evidenzia il carattere
59
residuale rispetto alle ipotesi di procedimenti cautelari disciplinati dagli articoli
precedenti e ne mostra l’ampia portata operativa, la malleabilità, l’attitudine ad
essere applicato alle situazioni più diverse. Del resto, il giudice che viene chiamato
a pronunciare un provvedimento d’urgenza può muoversi pressoché liberamente
all’interno dei confini tracciati dall’art. 700 c.p.c., può stabilire quale sia il
contenuto del provvedimento più idoneo ad assicurare tutela al diritto di cui si
lamenta la violazione, essendo in ciò vincolato esclusivamente (i) alla mancanza di
un provvedimento cautelare nominato o specifico; (ii) alla sussistenza del fumus
boni iuris (ossia la parvenza della fondatezza delle istanze avanzate dal ricorrente);
(iii) la sussistenza del periculum in mora (che in questo caso sarà particolarmente
qualificato: fondato motivo di temere un pregiudizio imminente o irreparabile)59.
La giurisprudenza ha dato ampia dimostrazione di utilizzare l’art. 700 c.p.c. per
tutte le situazioni sostanziali non coperte da specifiche previsioni di inibitoria. Il
provvedimento del giudice reso ex art. 700 c.p.c., dunque, ben può avere per
contenuto un ordine di fare o non fare60.
Secondo una risalente dottrina61, a dire il vero non più attuale alla luce dei recenti
sviluppi normativi in tema di esecuzione degli obblighi di fare infungibile e di non
fare, il contenuto del provvedimento ex art. 700 trova un limite nell’impossibilità
59
«Effettivamente si tende non solo a torcere la norma in esame verso un’applicazione analogica delle misure conservative, non solo ad allenare le maglie poste dal legislatore alla già ampia discrezione del magistrato, ma a creare una cautela per ogni e qualsiasi diritto soggettivo, dando quasi luogo alla creazione di nuove forme di tutela dei diritti anche oltre quelle predisposte dal legislatore, cercando di avvicinare i provvedimenti ex art. 700 alle misure cautelari proprie del diritto nordamericano (contempt of court) più che alle misure interinali del tipo tedesco (einstweilige Verfügungen)» [M. Dini, Denunzia di nuova opera (la), Giuffrè 1980, 203]. 60
M. Battaglini, Appunti sulla tutela della proprietà industriale con particolare riferimento alla inibitoria, in Arch. Ric. Giur., 1961, III, 47 ss. 61
Dini, op. cit., 206.
60
di imporre un obbligo di facere di carattere personale in quanto il provvedimento
d’urgenza, perché sia serio ed ottenga il suo scopo, deve essere eseguito
immediatamente, anche senza la collaborazione dell’intimato, o nonostante
qualsiasi sua contraria volontà, il che non si riteneva potesse avvenire per gli
obblighi di fare infungibile.
A sostegno di tale limitazione si affermava, infatti, che in via cautelare non si
poteva concedere quello che non era possibile concedere con l’esecuzione
ordinaria, e perciò, dal momento che il codice ha ammesso l’esecuzione forzata
degli obblighi di fare e non fare, esecuzione che incontrava l’unico limite
dell’infungibilità della prestazione, si deduceva che il contenuto dei provvedimenti
d’urgenza incontrasse quel limite invalicabile.
Come abbiamo accennato, la su riportata prospettiva non sembra più attuale,
atteso che il legislatore, accogliendo le istanze provenienti da più parti della
dottrina, ha introdotto l’art. 614 bis c.p.c. che costituisce una misura compulsoria
di natura pecuniaria, sullo schema dell’astreinte, volta a garantire l’esecuzione
dell’obbligo di fare infungibile o di non fare (anche nell’ipotesi in cui tale obbligo
derivi da un provvedimento giudiziale). Dunque, non sembra che debba ritenersi
ancora sussistente il limite dell’obbligo di fare infungibile quale limite al contenuto
del provvedimento ex art. 700 c.p.c.
2. LA TUTELA INIBITORIA. PRIME RIFLESSIONI.
2.1. CONDIZIONI E PRESUPPOSTI DELL’INIBITORIA.
61
2.1.1. L’INIBITORIA FINALE.
Fino a questo punto abbiamo analizzato alcune delle ipotesi di tutela inibitoria
previste dal nostro ordinamento, quelle che, a nostro avviso, appaiono di maggior
interesse e di più ampia applicazione, senza con ciò aver pretesa di esaurirne il
novero62.
È giunto ora il momento di analizzare i presupposti di operatività dell’inibitoria,
proseguendo nella distinzione, già applicata all’esposizione delle fattispecie, tra
inibitoria finale ed inibitoria cautelare.
Abbiamo visto come il nostro legislatore non si sia peritato di fornire una disciplina
generale dell’azione inibitoria né di darne una definizione essenziale. È possibile
comunque rinvenire una definizione, che possa fungere (in attesa di un intervento
in materia) da punto di riferimento per le diverse ipotesi di inibitoria, nell’art. 156
della l. autore, secondo cui «chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di
utilizzazione economica […] oppure intende impedire la continuazione o la
ripetizione di una violazione già avvenuta […] può agire in giudizio per ottenere che
il suo diritto sia accertato e sia interdetta la violazione».
In punto di inibitoria definitiva, poi, sembra sufficientemente esaustiva la
definizione enucleata da Frignani63: «L’inibitoria finale si può definire quel
comando del giudice, che, intervenendo processualmente dopo l’accertamento dei
diritti e dei doveri delle parti, ha come contenuto l’obbligo di porre
immediatamente fine a un’attività illecita o di non porla mai in essere. La sua
62
A ben vedere, pronunce inibitorie potrebbero essere concesse anche sulla base degli artt. 890, 2105, 2390, 2557 c.c., art. 28 St. Lav. ed altre ancora. 63
Op. cit., 406.
62
efficacia si protrae perciò per tutto il tempo durante il quale dispiega i suoi effetti
la sentenza nella quale tale obbligo si rinviene (dunque, fino ad una riforma della
pronuncia nei gradi successivi oppure o permanentemente nel caso di passaggio in
giudicato)».
Presupposto dell’inibitoria è, dunque, l’illecito, laddove deve considerarsi
sufficiente a giustificare un ordine di cessazione non solo e non tanto un illecito già
manifestatosi e perfetto nella sua idoneità lesiva, ma ancor di più e ancor prima la
possibilità o il pericolo della sua continuazione o ripetizione, mentre deve
prescindersi da qualsiasi valutazione del danno e della colpa.
Abbiamo già accennato nelle premesse che l’azione inibitoria rivolge il suo sguardo
al futuro, avendo quale fine quello di prevenire l’illecito o, comunque, di
scongiurare la ripetizione di atti o la continuazione di un’attività contra ius.
Come è intuibile, l’atto soggetto ad inibizione dovrà essere suscettibile di
ripetizione in futuro o dovrà consistere in un’attività che possa protrarsi nel
tempo. Ciò esclude tutte quelle ipotesi in cui la commissione dell’illecito si risolve
in un unico atto, anche perché in tale ipotesi una pronuncia inibitoria del giudice
sarebbe inutiliter data. Peraltro, non necessariamente deve trattarsi di condotte
che siano frutto di un progetto lesivo, attuato mediante il compimento di più atti
di identico contenuto, ma possono semplicemente aversi più condotte, anche
scollegate tra loro, che però nel loro insieme diano quale risultato la lesione
costante nel tempo dell’interesse protetto.
63
Per quanto attiene alla nozione di «illecito», quale presupposto dell’inibizione,
deve annotarsi come la dottrina ne abbia fatto uso con accezioni diverse, il che
potrebbe essere foriero di equivoci. È necessario, dunque, precisare la nozione di
illecito utile alla nostra indagine.
Come è stato correttamente sottolineato in dottrina, una esatta nozione di illecito
non può prendere quale punto di riferimento l’art. 2043 c.c. e le norme che,
tradizionalmente, vengono raggruppate sotto l’etichetta della responsabilità
civile64.
Gli atti (cioè i comportamenti caratterizzati dalla volontà di colui che li pone in
essere65) illeciti sono quelli che violano un obbligo, specifico o generico, imposto
dalla legge66. Si può dire che per la configurazione dell’illecito non è necessario che
64
V. A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile (a cura di G. Trabucchi), Cedam 2009, 87. Frignani, op. cit., secondo cui «è vero che il legislatore considera i fatti illeciti quale fonte di obbligazione, ma è anche vero che gli artt. 2043 e seguenti ne regolano solo una fra le diverse conseguenze (l’obbligo di risarcimento) e, soprattutto, non forniscono la definizione di atto o fatto illecito». Per una critica al nesso illiceità-responsabilità v. F. Piraino, «Ingiustizia del danno» e antigiuridicità, in Europa dir. Priv., 2005, 711, secondo cui «Nessuna rilevanza assegna invece l'art. 2043 C.C. al requisito dell'illiceità/antigiuridicità della condotta, giacché tale disposizione riferisce la qualificazione di ingiustizia al danno e non già al comportamento dell'agente: è dunque il dato positivo ad escludere l'antigiuridicità dal novero degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità e a proiettare in primo piano la nozione tecnica di danno che giustifica una definizione della responsabilità aquiliana in termini di reazione che il diritto appresta avverso il danno ingiusto imponendo a chi vi ha dato causa l'obbligo di risarcirlo, in funzione della rilevazione e della definitiva dislocazione del danno a carico di colui che viene individuato come responsabile in base ai diversi criteri, soggettivi ed oggettivi, di imputazione». 65
In dottrina si è parlato anche di “volontà consapevole” (Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile
9, Napoli 1966, 110) che poi si sostanzia nella capacità di intendere e di volere al
momento in cui si è compiuto l’atto: in altri termini, è necessario che questo fatto giuridico sia imputabile ad una persona. Si chiarisce poi che quando si parla di volontà non è necessario che il soggetto “voglia” l’effetto o la conseguenza giuridica del suo atto, in quanto questo arriverà automaticamente come sanzione dell’ordinamento giuridico. 66
In tal senso Trabucchi, op. cit., 135; Santoro Passarelli, op. cit., 109 parla di lesione di un diritto soggettivo del singolo «cui viene recato un danno che l’agente è obbligato a risarcire. Ciò vuol dire che la sanzione dell’illecito civile è sempre un’obbligazione (di risarcimento)».
64
a questo consegua un evento lesivo, la cui realizzazione non è dunque essenziale
affinché si realizzi la violazione di una norma67.
Secondo la prospettiva qui accolta, dunque, il danno o la colpa hanno solo la
funzione di qualificare l’illecito, inteso come violazione di una norma, ma non ne
rappresentano elementi costitutivi.
Per quanto concerne il danno, dobbiamo qui rilevare che presupposto dell’azione
inibitoria è non già la materializzazione di un danno in capo al soggetto agente,
bensì una obiettiva situazione che contrasti con l’interesse fatto valere. Di
conseguenza, il danno assume un ruolo prettamente accidentale nella
configurazione dell’illecito che realizza la condotta inibenda.
La convinzione che il danno non possa in alcun modo costituire presupposto per
l’esperibilità dell’azione inibitoria deriva anche da una considerazione delle
fattispecie di diritto positivo. Infatti, il diritto al risarcimento del danno è sempre
fatto salvo accanto alla previsione normativa dell’inibitoria: talvolta ciò avviene
addirittura nell’ambito della stessa norma (vedi, ad esempio, gli artt. 7, 10, 949,
1079 c.c.), tal’altra in una norma diversa (come accade per l’art. 2600 c.c. in
relazione all’art. 2599c.c.).
L’illecito, dunque, proviene sempre e solo da un atteggiamento contrario al diritto,
da un’invasione della sfera giuridica altrui, comportamento che è condannato
dall’ordinamento giuridico a prescindere dalla presenza del danno. Il danno è
67
Sulla scorta di tale considerazione autorevole dottrina ha evidenziato come non sia corretto parlare di illecito commissivo od omissivo, a seconda che la norma violata o in procinto di essere violata imponga un obbligo di fare o di non fare. Infatti l’illecito è sempre unitario, e solo la condotta può essere commissiva od omissiva [De Ruggiero-Maroi, Istituzioni di diritto civile, (9^ edizione a cura di Maiorca), Milano 1965, I, § 24, 91].
65
dunque rilevante al solo fine di attivare gli strumenti approntati dal legislatore per
garantirne il ristoro (in forma specifica o per equivalente).
È la lesione del diritto che l’azione inibitoria mira ad impedire per il futuro o
comunque a far cessare, mentre l’azione risarcitoria mira soltanto ad eliminare,
rifondendole al soggetto passivo dell’azione, le conseguenze dannose dell’illecito
stesso. La lesione del diritto, peraltro, non necessariamente deve essere attuale
per poter ricorrere alla tutela inibitoria, essendo sufficiente anche il solo pericolo
di commissione dell’illecito, come dimostrato spesso dal dato testuale [vedi artt.
2409 c.c. (“se vi è fondato sospetto”); 1171 c.c. (chi “ha ragione di temere”)].
Il pericolo della lesione si atteggia dunque a presupposto dell’inibitoria, la quale
richiede sempre il pericolo che l’illecito sia continuato o ripetuto, se già è stato
commesso, o che l’illecito venga commesso, se ancora non si è verificato68.
Discorso di simile tenore deve essere fatto con riferimento alla colpa ed in
generale dell’elemento soggettivo.
È a partire dagli anni ’60 del secolo scorso che la dottrina ha iniziato a scardinare
l’idea tralatizia della colpa quale elemento costitutivo dell’illecito69. Senza però
concentrare l’attenzione sul lungo e acceso dibattito che ha occupato per decenni
le pagine delle riviste giuridiche, è sufficiente qui svolgere una considerazione, più
aderente ai nostri fini: se è vero che l’esperibilità dell’azione inibitoria prescinde
dall’illecito anzi, può prescindere addirittura dal compimento della condotta
integrante l’illecito (perché mirante a prevenirlo), in quelle ipotesi in cui la tutela
68
«Questo è il senso veramente penetrante in cui si dice dell’inibitoria che è un’azione essenzialmente preventiva» (Frignani, op. cit., 415). 69
Per una analisi accurata del problema si rimanda a Piraino, op. cit., 715 ss.
66
arretra al pericolo che la condotta venga posta in essere, allora ecco che il
problema della colpa, quale presupposto per ottenere l’ordine di cessazione o il
divieto di compimento della condotta, cessa di avere rilevanza.
La considerazione del dolo o della colpa quale elemento integrante l’illecito (sia
che ne venga considerato elemento costitutivo, sia che ne venga considerato solo
un elemento qualificante) non è parte del giudizio di ammissibilità della tutela
inibitoria per il fatto che questa interviene in un momento antecedente a quello in
cui la presenza dell’elemento psicologico assume rilevanza.
Si è più volte detto che l’inibitoria finale è quell’ordine emesso dal giudice all’esito
del giudizio di merito e volto a far cessare una determinata condotta o ad evitare
che questa si ripeta. Coordinando tale assunto con quanto sin qui detto in ordine
alla sufficienza del pericolo dell’illecito per poter aver accesso alla tutela inibitoria,
può chiedersi ora cosa il giudice debba accertare per poter provvedere in
inibitoria.
Si deve ritenere che oggetto dell’accertamento effettuato dal giudice nel giudizio
ordinario sia non già il compimento dell’illecito, quanto la valutazione degli
elementi che ne facciano pronosticare, con ragionevole certezza, la futura
commissione. La peculiarità di questa ipotesi consiste nel fatto che la prova del
pericolo della commissione di un illecito è più difficile, in quanto è estremamente
arduo dare una valutazione ex ante della idoneità dei mezzi messi in atto nei
preparativi ai fini della perpetrazione dell’illecito70. Tuttavia, una volta che si sia
70
Peraltro, non devono necessariamente sussistere degli “atti preparatori” affinché possa rilevarsi la probabilità del futuro compimento dell’illecito. Si pensi, ad esempio, all’escussione di una
67
accertata tale idoneità ed univocità, non c’è dubbio che il giudice possa emanare
un ordine inibitorio.
2.1.2. L’INIBITORIA PROVVISORIA
A differenza dell’inibitoria definitiva, l’inibitoria provvisoria viene emessa dal
giudice a seguito di una cognizione solo sommaria dei fatti ed è destinata, con le
dovute eccezioni di cui tratteremo più avanti, a perdere efficacia (o ad acquistarla
definitivamente) con la pronuncia della sentenza conclusiva del giudizio di merito.
L’inibitoria provvisoria, dunque, pur assolvendo, in sostanza, ad una funzione
analoga rispetto all’inibitoria definitiva71, poggia su presupposti differenti,
comunemente individuati nel fumus boni iuris e nel periculum in mora.
Scopo dell’inibitoria cautelare (o provvisoria) è sì quello di impedire la
continuazione di un comportamento illecito o di evitare che un futuro illecito
venga commesso, ma solo nella prospettiva di cristallizzare lo stato dei fatti in
attesa che intervenga la pronuncia conclusiva del giudizio di merito.
fideiussione bancaria, che possa essere esercitata non prima di una determinata data, e che si atteggi ad atto illecito qualora venga meno (perché estinto o nullo) il rapporto cui la garanzia accede. In tal caso vi sarebbe la necessità per il debitore garantito e per la banca garante di impedire l’escussione della garanzia, senza però che il creditore abbia necessariamente posto in essere atti che facciano presagire la futura escussione, dovendo ritenersi sufficiente la possibilità concreta che l’illecito si realizzi, laddove tale possibilità può essere valutata in base alla comune esperienza, quale elemento di fatto, ed agli indici di invalidità o di estinzione del rapporto garantito, quale elementi di diritto. Per un’analisi dell’illiceità dell’escussione della garanzia vedi A. Montanari, Garanzia autonoma ed escussione abusiva: nuove tendenze rimediali in una diversa prospettiva ermeneutica, in Europa dir. Priv., 4, 2008, 1024, secondo cui «l’eventuale escussione del beneficiario (nel caso del venir meno del rapporto garantito) non è più soltanto sostanzialmente scorretta, ma anche formalmente illecita, in quanto non sorretta da un corrispondente obbligo oramai estintosi insieme al contratto che ne era fonte». 71
Sostiene l’unitarietà concettuale dell’inibitoria M. Battaglini, op. cit., 214.
68
È stato affermato da un autorevolissimo interprete72 che «Anche il provvedimento
cautelare è un provvedimento sul merito … ma si tratta di un merito diverso da
quello a cui si riferisce il provvedimento principale». Secondo il grande giurista,
infatti, il giudice anche nel procedimento cautelare deve pronunciarsi sulla
fondatezza dell’azione cautelare, in quanto esso costituisce la conclusione di un
processo (quello cautelare, appunto) separato, nel corso del quale possono essere
emanati provvedimenti istruttori attinenti al processo cautelare.
Di primo acchito, non sembra poter concordare con Calamandrei, atteso che il
merito del giudizio cautelare e quello del giudizio ordinario non differiscono
ontologicamente. La frase riportata, però, va letta in maniera differente,
intendendosi per diversità non quella dell’oggetto dell’esame del giudice, bensì
quella degli strumenti predisposti per la ricerca della soluzione giuridica idonea a
regolare il caso concreto.
Il discrimine tra giudizio cautelare e giudizio di merito, infatti, non è da individuare
nella diversità dell’oggetto del giudizio, ma nella diversa (o, se vogliamo, solo più
ridotta) strumentazione di cui dispone il giudice del procedimento cautelare
rispetto a quello del giudizio ordinario.
La celerità che richiede la domanda cautelare preclude al giudice di esperire quei
mezzi istruttori che nel giudizio ordinario hanno la funzione di approfondire le
questioni fattuali e giuridiche, e che richiedono tempi incompatibili con le esigenze
cautelari. Dunque, non tanto il merito è diverso quanto il percorso che conduce
alla sua corretta valutazione. Per semplificare, potremmo dire che nel giudizio
72
P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. Dir. Proc. 1960, I, 23 ss.
69
cautelare l’indagine sommaria del giudice è finalizzata ad accertare quegli
elementi del fatto che rendono verosimile il fumus boni iuris (di cui pure deve
essere data un minimo di prova) rappresentato dal ricorrente; verosimiglianza che
il giudicante deve valutare secondo l’id quod plerumque accidit.
Il secondo presupposto per l’emissione di un ordine cautelare di cessazione è il
periculum in mora.
Il ruolo svolto da questo requisito è desumibile dalla funzione stessa dell’inibitoria
cautelare. Per poter emettere il provvedimento anticipatorio, infatti, il giudice
deve rilevare l’esistenza del pericolo che, nel tempo necessario a far valere il
proprio diritto in sede ordinaria, questo venga irrimediabilmente compromesso.
Una volta rilevato tale rischio, interviene la necessità di congelare la situazione
esistente in attesa che questa venga confermata o modificata dalla pronuncia di
merito.
Il periculum che sottende alla pronuncia di inibitoria cautelare è, dunque, diverso
dal pericolo che si realizzi o si ripeta l’illecito. Che non si tratti del pericolo
generico dell’illecito lo dimostra il fatto che nella previsione normativa di tutte le
misure cautelari esso è sempre qualificato, anche se in vario modo. Può in questa
sede ricordarsi il “pericolo di danno” nella denuncia di nuova opera; il “pericolo di
danno grave e prossimo” nella denuncia di danno temuto; il pericolo di un
“pregiudizio imminente e irreparabile” nei provvedimenti d’urgenza.
Nonostante si possa rilevare in queste disposizioni una mancanza di
coordinamento, dovuta alla loro diversa collocazione sistematica, è tuttavia
70
possibile scorgere un elemento comune, rappresentato dal riferimento costante
ad un evento che sia in procinto di accadere, a meno che non vi si ponga
immediato rimedio.
Peraltro, dobbiamo ribadire come il danno cui fanno riferimento le norme citate
non deve identificarsi con l’effetto lesivo di una condotta, ma piuttosto con la
perdita della possibilità che il giudice possa utilmente restaurare la situazione
precedente. Questo tipo di danno può verificarsi in due ipotesi: (i) quando sia
divenuto impossibile raggiungere in modo utile il provvedimento definitivo; (ii)
quando si possa giungere al pieno soddisfacimento del diritto, ma in ritardo.
Un ultimo appunto va fatto con riferimento all’efficacia del provvedimento
cautelare.
Abbiamo sin qui descritto il provvedimento cautelare così come pensato dal
legislatore e delineato dalle norme del codice di procedura civile73. L’inibitoria
provvisoria (o cautelare) si pone quale intervento del giudice, su istanza di parte,
finalizzato a cristallizzare una determinata situazione in attesa che sul merito
intervenga la pronuncia conclusiva del giudizio ordinario. In tale ottica, l’efficacia
del provvedimento cautelare è strettamente connessa all’introduzione e all’esito
del giudizio svolto secondo le forme ordinarie, tanto che l’art. 669-octies c.p.c.
(che, comunque, non si applica ai procedimenti ex art. 700 c.p.c.) prevede che
73
V. G. Olivieri, Brevi considerazioni sulle nuove norme del procedimento cautelare uniforme, in www.judicium.it, 2005; R. Caponi, Provvedimenti cautelari e azioni possessorie, in Foro it. 2005, V, 89 ss.; AA.VV., Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005, in Foro it. 2005. Utili considerazioni anche in Ciavola, Il processo di cognizione dopo la L. 80/2005 e dopo la proroga disposta con D.L. n. 115/2005, in www.altalex.it; A. Gentili, Tutela cautelare anche negli arbitrati, in Guida al diritto, n. 22/2005, p. 82 e ss.; ID., Accertamenti tecnici a contenuto più ampio, ivi, p. 88 e ss. R. Caponi, La tutela sommaria nel processo cautelare in prospettiva europea, in Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile 2004, 1384.
71
«l’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia proposta prima dell’inizio della
causa di merito, deve fissare un termine perentorio non superiore a sessanta giorni
per l’inizio del giudizio di merito», mentre il successivo art. 669-novies stabilisce
che «se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui
all’art. 669-octies, ovvero successivamente al suo inizio si estingue, il
provvedimento cautelare perde la sua efficacia».
Provvedimento cautelare e provvedimento ordinario devono essere lette come un
unicum, dove il primo esiste solo in funzione del secondo e l’efficacia della tutela
cautelare (anche quella inibitoria) trova giustificazione solo nella prodromicità
rispetto al giudizio ordinario74.
Su tale consolidato assetto si innesta l’intervento del legislatore del 2005 (l.
80/2005, applicabile ai processi instaurati dopo il 1° marzo 2006) e
l’interpretazione giurisprudenziale, di recente sviluppatasi, che ha iniziato a
scardinare il nesso di consequenzialità tra giudizio cautelare ed ordinario75. Il
74
Sulla posizione della giurisprudenza in ordine al rapporto giudizio cautelare-giudizio di merito v. Trib. Salerno, sez. I, 24 gennaio 2009, che, in tema di sequestro, ha affermato «Atteso che l'ottenimento da parte del sequestrante di una sentenza esecutiva di condanna comporta l'automatica conversione del sequestro conservativo in pignoramento e l'inizio del processo esecutivo, ove si verifichi l’estinzione del processo esecutivo, consegue automaticamente l'inefficacia del pignoramento in cui si è convertito "ipso iure" il sequestro». E ancora «Nel caso in cui il giudizio di merito, promosso a seguito dell'emissione di un provvedimento cautelare, si concluda con la dichiarazione di inammissibilità della domanda (nella specie, per difetto di procura ad litem), nulla osta a che il giudice, investito dell'intera cognizione, revochi contestualmente la misura cautelare concessa ante causam, divenuta ipso iure inefficace» (Cassazione civile , sez. I, 23 giugno 2008 , n. 17028). Infine «Ai sensi dell'art. 669 novies, comma 3, c.p.c., il provvedimento cautelare (nella specie sequestro) perde efficacia sia nel caso di dichiarazione di inesistenza, anche se con sentenza non passata in giudicato, del diritto a tutela del quale il provvedimento è stato concesso, sia nell'ipotesi inversa, in cui, accogliendosi la domanda di merito, sia affermato a chi spetti la titolarità del diritto sul bene, la cui integrità il sequestro aveva la funzione di conservare per assicurare al provvedimento attributivo la sua pratica efficacia» (Cassazione civile , sez. III, 04 giugno 2008 , n. 14765). 75
Nota R. Caponi, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale, in Foro italiano, 2006, V, 69, «Alla stregua delle modifiche introdotte dalla l. n. 80/2005 (applicabile ai processi di
72
nuovo atteggiamento del legislatore e della Giurisprudenza in ordine alla
correlatività tra pronuncia cautelare e pronuncia di condanna consiste in ciò, che
non si ritiene più il provvedimento cautelare necessariamente preordinato
all’instaurazione del giudizio di merito (da cui deriva, quale corollario, una
maggiore elasticità dei giudici in caso di mancata indicazione nel ricorso cautelare
del giudizio di merito che si intende introdurre). E ciò in quanto con il
provvedimento cautelare spesso si esaurisce l’esigenza di tutela del ricorrente.
cognizione instaurati dopo il 1° marzo 2006), che raccolgono proposte da tempo avanzate ed anticipate nel processo societario dall’art. 23, 1° e 2° comma d. lgs. n. 5/ 2003, tale nesso strutturale tra provvedimento cautelare e giudizio di merito è venuto meno in relazione al rilascio di uno dei provve-dimenti cautelari elencati dall’art. 669-octies, 6° comma c.p.c. (in breve: provvedimenti cautelari “anticipatori”), mentre è rimasto intatto in relazione al rilascio di misure cautelari di contenuto puramente “conservativo”. Venuto meno tale nesso, il rapporto tra i provvedimenti cautelari anticipatori ed il giudizio di merito è analogo a quello proprio dei provvedimenti sommari semplificati esecutivi. Essi sono dotati cioè di una efficacia meramente esecutiva, che non viene meno se il processo a cognizione piena non viene instaurato o si estingue e può protrarsi indefinitamente nel tempo, fino all’esaurimento del conflitto di interessi o fino alla sentenza che si pronuncia in via di cognizione piena sul diritto. Le misure cautelari anticipatorie continuano tuttavia a distinguersi dai provvedimenti sommari semplificati esecutivi, poiché presuppongono il periculum in mora e rimangono potenzialmente al servizio del provvedimento definitivo. Ciò vale anche per i provvedimenti cautelari totalmente anticipatori del contenuto di quest’ultimo: perché il loro tenore si commisura pur sempre a quello di un ipotetico provvedimento definitivo, perché la loro emanazione scongiura la tardività di quest’ultimo. Pertanto occorrerà pur sempre indicare nel ricorso cautelare la domanda di merito, non solo al fine di individuare il giudice competente ai sensi dell’art. 669-ter c.p.c.. Preferibile sarebbe stato eliminare il nesso strutturale tra provvedimento cautelare e giudizio di merito in relazione a tutti i provvedimenti cautelari, come suggeriscono argomenti tratti non solo dalla comparazione con altri ordinamenti, ma anche dalla funzione di economia processuale cui obbedisce la modifica legislativa, nonché dall’opportunità». Questo è il contenuto normativo dell’art. 669-octies, 6°, 7° ed 8° comma c.p.c., aggiunti dalla l. n. 80/2005: i provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c., gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonché i provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell’art. 688 c.p.c., non perdono efficacia se la causa di merito non viene instaurata o se si estingue. Se tali provvedimenti sono rilasciati ante causam, il giudice non assegna il termine perentorio per l'instaurazione della causa di merito. In tal caso ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito. L’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia di tali provvedimenti, nemmeno quando la relativa domanda è proposta in corso di causa. Infine “l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo”. In relazione alle misure cautelari conservative, il termine per l’instaurazione del giudizio di merito è allungato da trenta a sessanta giorni (art. 669-octies, 1° comma c.p.c., modificato).
73
Allorquando con il provvedimento cautelare venga completamente tutelato
l’interesse minacciato, non essendovi più bisogno di un successivo giudizio che
valuti il merito della questione, l’inibitoria dovrà considerarsi autosufficiente76.
Secondo l’ipotesi da ultimo considerata, dunque, la scelta del procedimento
sommario sarà dettata non dalla prospettiva dell’introduzione di un futuro giudizio
di merito, ma dalla necessità di ottenere un provvedimento inibitorio nel più breve
tempo possibile.
L’inibitoria così pronunciata non potrà che considerarsi anch’essa definitiva, ed il
luogo in cui si realizza la richiesta di protezione diventerà non più il giudizio
ordinario bensì quello, più rapido, del giudizio cautelare.
In quest’ottica, dunque, risulta sorpassata, perché eccessivamente rigida, la
connessione, fatta dalla dottrina più risalente, tra inibitoria cautelare e giudizio
cautelare ed inibitoria finale e giudizio ordinario proprio perché, come dicevamo,
ben può aversi una pronuncia inibitoria definitiva già nella sede che, a questo
punto solo processualmente, definiremo cautelare.
76
Si pensi al caso in cui si chieda l’inibitoria di un comportamento che non possa più essere esercitato dopo un certo termine (ad esempio, la molestia apportata all’uso di un balcone preso in locazione per assistere al Palio di Siena) o che, dopo tale termine, non costituisca più una minaccia per il titolare dell’interesse leso. In questa ipotesi il provvedimento cautelare, seppur emanato nell’ambito di un procedimento sommario, non dovrà essere confermato o revocato in successivo giudizio di merito, atteso che il decorso del termine ne esaurisce la funzione, e comporta il venir meno per il titolare dell’interesse all’accertamento del diritto in sede ordinaria, a meno che tale giudizio non venga comunque instaurato per poter usufruire di altri rimedi (risarcimento del danno, restituzioni etc.).
74
2.2. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’INIBITORIA.
Fino a non molto tempo fa prevaleva nella dottrina la convinzione che l’inibitoria
fosse posta a difesa di tutti i diritti assoluti, sia patrimoniali che non patrimoniali77,
mentre vi era notevole incertezza circa l’applicabilità di tale strumento ai diritti di
obbligazione.
La questione ha avuto origine all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso,
allorquando la dottrina ha iniziato a scardinare il collegamento tralatizio tra azione
inibitoria e diritto assoluto78, che veniva utilizzato quale argomento a contrario per
affermare che la presenza di una tutela di carattere inibitorio era indice della
natura di diritto assoluto dell’interesse tutelato.
La dimostrazione di quanto asfittica fosse l’originaria teoria, che accomunava la
tutela inibitoria con i diritti assoluti, è operazione non troppo complessa sol che si
ripercorra l’esame analitico delle fattispecie che prevedono forme di tutela
inibitoria.
77
Messineo, Manuale cit., II, 2, 244 (secondo il quale l’inibitoria rappresenta l’azione generale contro la violazione di obbligazioni di non fare); Ascarelli, op. cit. 36. Contra G. Santini, I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, 118 ss., secondo cui l’inibitoria si può applicare esclusivamente in quelle fattispecie nelle quali è espressamente prevista, pur riconoscendo che essa si rinviene a tutela di diritti assoluti, relativi e, addirittura, di interessi legittimi. 78
A questa conclusione si arrivava considerando che le fattispecie nelle quali il legislatore prevedeva espressamente l’inibitoria erano riconducibili a diritti assoluti. Il “revirement” della dottrina ha avuto origine dai dubbi sorti in ordine alla natura dei diritti tutelati dall’art. 2599 c.c. in tema di concorrenza sleale. Nel ragionamento, tuttavia, ancora mancava il corretto inquadramento, tra le azioni inibitorie, dell’azione di manutenzione concessa anche al possessore. Sul problema v. Santini, op. cit., 118 ss.
75
È facile notare, infatti, che non sono tutelati solo diritti assoluti di natura
patrimoniale e non patrimoniale, ma anche altre situazioni (si pensi al possesso e
alla concorrenza sleale) non riconducibili a diritti assoluti79.
Più complessa appare la questione relativa all’estendibilità della tutela inibitoria ai
diritti relativi. La via per giungere a tale soluzione è da individuare in ragioni di
carattere logico-sistematico. Se si parte, infatti, dall’affermazione per cui
l’inibitoria costituisce la sanzione tipica degli obblighi di non fare (la cui violazione,
pertanto, sarebbe sempre sanzionabile attraverso l’ordine di cessazione), sulla
base della considerazione che gli obblighi di non fare trovano la loro fonte non
solo nei diritti assoluti (secondo il principio neminem laedere) ma anche nei diritti
relativi o di obbligazione, ne deriva che non vi sono ostacoli a che l’inibitoria si
applichi anche per questi ultimi80.
La discussione si sviluppò, per la verità, sul campo della concorrenza e dei suoi
limiti legali e convenzionali. Ciò in quanto la materia costituita da fattispecie
caratterizzate dal diritto soggettivo di un imprenditore all’astensione dalla
concorrenza da parte di altri. Astensione che si sostanzia, quasi sempre, in obblighi
di non fare che conferiscono «peculiare rilievo in questo campo all’azione di
79
Sul punto Frignani, op. cit., 443 secondo cui «sul piano dogmatico, poi, basta considerare che i diritti assoluti, per la loro stessa natura, includono l’idea di uno ius excludendi omnes alios; il che genera in tutti i terzi un obbligo di carattere negativo o di non facere, contro le cui violazioni si deve sempre ritenere ammessa l’azione inibitoria». 80
V. S. Mazzamuto, L’esordio cit.. secondo cui l’inibitoria applicabile alle obbligazioni «costituisce la forma di tutela preventiva più solida dal punto di vista dogmatico poiché ancorata alle obbligazioni negative il cui inadempimento, consistente nella violazione dell’astensione, può essere seriamente contrastato soltanto con la generalizzazione … della tutela inibitoria». V. anche L Gatt, La tutela inibitoria del diritto al contratto, in Dir. Giur., 2005, 509 la quale, in tema di obbligo di conclusione del contratto definitivo in forza del preliminare, afferma che «sorge chiaramente l’esigenza del ricorso a rimedi che impediscano l’alterazione irreversibile della situazione prevista dal contratto preliminare, destinata a realizzarsi (compiutamente solo) con il contratto definitivo».
76
inibizione»81. Ascarelli stesso, autore dell’affermazione da ultimo citata, giunse alla
conclusione che l’inibitoria è una forma di tutela tipica di tutta la disciplina della
concorrenza, in quanto questa sancisce obblighi omissivi o di non fare ripetibili o
continuati nel tempo.
Proprio l’ampiezza della concezione ascarelliana della concorrenza, nella quale vi
rientravano anche i limiti legali e contrattuali alla stessa, condusse a ritenere che
l’inibitoria fosse rimedio applicabile anche ai diritti relativi.
Analogo ragionamento viene effettuato da un altro autore, coevo di Ascarelli, il
quale, a proposito delle clausole di concorrenza, affermò che «la desistenza
dell’attività anticoncorrenziale e il risarcimento dei danni, sono le due
fondamentali conseguenze dell’inadempienza in ogni caso»82.
Tale affermazione rappresenta solo una conseguenza di una premessa più ampia
svolta dal medesimo Autore il quale, a proposito della concorrenza sleale,
affermava che «rispetto ad ogni categoria di illecito civile [bisogna] distinguere
una azione inibitoria da un’azione di risarcimento». La necessità di ammettere
l’inibitoria quale strumento a tutela di ogni diritto soggettivo «deriva dallo stesso
concetto di norma giuridica, che postula una sanzione altrettanto estesa quanto il
precetto», dunque «se la unica sanzione dell’illecito fosse l’obbligo di risarcire […]
ne verrebbe che il diritto soggettivo consacrato nella norma sarebbe dalla sanzione
solo imperfettamente difeso, il che ripugna al carattere della norma giuridica»83.
81
Ascarelli, op. cit., 79. 82
M. Rotondi, Diritto industriale, CEDAM 1965, § 350, 546. 83
Rotondi, ibidem, 519 ss. L’autore afferma che l’azione inibitoria si pone quale rimedio generale, trovandone la fonte nell’art. 2043. Egli afferma, infatti (Istituzioni di diritto privato, Milano 1965,
77
Questa teoria era già stata prospettata sotto il vigore del codice del 1865. Si
sosteneva, infatti, che nella obbligazione negativa duratura, nella quale il singolo
atto contrario non esclude la possibilità di ulteriori violazioni, il creditore può
domandare, oltre al risarcimento del danno e all’eventuale penale, l’ulteriore
adempimento dell’obbligazione di interdizione, volta a proibire all’obbligato di
compiere ulteriormente e per tutta la durata dell’obbligazione l’atto vietato84.
Vi era, poi, una tesi diametralmente opposta a quella sin qui esposta, la quale non
solo negava che l’inibitoria fosse l’espressione di un principio generale rinvenibile
nel nostro ordinamento e, per tale motivo, applicabile all’inadempimento di tutte
le obbligazioni negative, indipendentemente dalla loro fonte, ma negava altresì
che questa costituisse strumento peculiare applicabile a tutti i rapporti
riconducibili all’ambito del diritto industriale o della concorrenza. In altre parole, il
fatto che il legislatore abbia previsto speciali azioni inibitorie tipiche, vuoi in via
cautelare, vuoi in via definitiva, senza stabilire espressamente un principio
generale in tal senso volto a prevenire il compimento di atti illeciti, avrebbe
dovuto condurre alla conclusione che il giudice non potesse applicare una misura
406 ss.) «che se anche si avessero scrupoli terminologici ad ammettere che l’obbligo di risarcire comprende l’obbligo di reintegrare, poiché l’art. 2043 è l’unico, nel nostro ordinamento giuridico positivo vigente, su cui si fonda il sistema delle sanzioni che derivano dall’illecito civile, giova rilevare che esso presuppone, e non esclude, come primo effetto dell’illecito, l’obbligo di far cessare la lesione, cui segue quello della reintegrazione. Ciò è tanto più sicuro, in quanto l’obbligo di far cessare la lesione sussiste anche nella ipotesi in cui il diritto altrui sia stato leso senza colpa, ed esuli quindi l’applicazione dell’art. 2043». Conclude così dicendo che gli effetti dell’illecito saranno, in ordine logico: a) la cessazione; b) il ripristino in natura; c) il risarcimento per equivalente pecuniario. 84
L. Coviello, L'obbligazione negativa, Napoli 1934, II, 159. Prima di lui già V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma 1915, 563 il quale affermava che «Se oggetto dell’obbligazione […] è un’astensione continuativa […] è pur possibile escogitare mezzi che, mentre rimettono le cose allo statu quo ante, rendano al tempo stesso possibile la prestazione negativa per l’avvenire», ritenendo che l’art. 1222 potesse applicarsi anche «a tutti i casi in cui si renda possibile la remissione in pristino pur non occorrendo abbattimento o distruzione di cose materiali».
78
non prevista in modo esplicito, né ricavabile, per analogia, dalle fattispecie tipiche
esistenti85.
Tale linea di pensiero, però, se poteva considerarsi giustificata dal fatto che, a
parte le azioni di denuncia di nuova opera e di danno temuto, il codice non
prevedeva altre forme di inibitoria, oggi non trova più appigli argomentativi.
Le fattispecie del nostro Codice civile e delle leggi speciali in cui si prevede una
tutela inibitoria (il cui numero è ben più ampio di quello esposto, in maniera
semplificativa, nei primi capitoli del presente lavoro) abbracciano, con tutta
evidenza, interi campi del diritto privato (proprietà, possesso, diritti reali,
concorrenza, tutela ambientale, beni immateriali) per cui si può affermare che
l’intero diritto privato è permeato di ipotesi di inibitoria. Ulteriore considerazione,
che porta a ritenere superata la tesi restrittiva sull’applicabilità della tutela
inibitoria, è mossa da ragioni di politica del diritto. Uno strumento, quale
l’inibitoria, che ha un effetto immediato (se correttamente applicato ed eseguito)
sulla continuazione dell’illecito (o sulla sua commissione) si presta ad un largo e
generalizzato uso, non solo in quei campi (come il diritto industriale e la
concorrenza) dove maggiore si sente la necessità di risolvere nel minor tempo
possibile i conflitti tra interessi contrapposti (in ossequio all’antico adagio per cui
“il tempo è denaro”), ma anche in tutte quelle ipotesi (e sono per la verità la
stragrande maggioranza) in cui l’inadeguatezza del sistema giudiziario a dare
risposte in tempi ragionevoli alle domande di ristoro dei danni subiti a seguito
85
Santini, op. cit., 120.
79
dell’altrui attività lesiva, rende quantomeno indispensabile che almeno tale
attività non continui a produrre nocumento.
Peraltro, deve evidenziarsi come l’utilizzo dell’art. 700 c.p.c., quale grimaldello per
estendere la tutela inibitoria a quelle fattispecie in cui la norma non la prevedeva,
fu criticato da un autorevolissimo giurista il quale riteneva che anche la tutela
d’urgenza dovesse trovare applicazione solo nei casi in cui il ricorrente fosse
titolare di un diritto immediato ed assoluto sul bene oggetto di contestazione86.
È evidente che la censura del Satta, per le ragioni su esposte, sia oggi totalmente
inaccoglibile.
Anzi, proprio la dimostrata ammissibilità della tutela inibitoria provvisoria, nelle
forme dell’art. 700 c.p.c., ai diritti relativi porta alla logica conclusione che questi
possano trovare tutela anche nell’inibitoria finale, non essendovi motivi per
discriminare questa tutela se non per (irrilevanti) ragioni processuali.
In conclusione, ragioni di carattere logico-sistematico (inerenti la possibilità che
l’obbligo di non fare abbia origine contrattuale e non sia solo il riconoscimento di
un diritto assoluto) nonché ragioni di buon senso giuridico (per le quali dovrebbe
risaltare quale interesse primario per l’ordinamento quello di impedire il
compimento o il ripetersi di un illecito) e considerazioni di carattere processuale,
86
È la tesi del Satta, Esecuzione forzata4, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, Torino
1964, 4 ss. L’illustre Autore deduce la non estensibilità dei provvedimenti d’urgenza ai diritti relativi dal rapporto intercorrente fra la tutela provvisoria propria del provvedimento d’urgenza e la decisione del merito, giacché i provvedimenti d’urgenza tenderebbero ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione per evitare che le more del giudizio di cognizione possano recare pregiudizio al diritto fatto valere nel giudizio stesso. I diritti di obbligazione rimangono in linea di principio fuori dell’orbita del provvedimento in quanto essi, come tali, non possono mai essere pregiudicati dalle more del giudizio.
80
fanno ritenere che la tutela inibitoria sia rimedio applicabile in via generale
superando il limite costituito dalla tipizzazione delle singole fattispecie.
Ciò nonostante, non possiamo esimerci dall’ammettere che l’art. 700 c.p.c.,
proprio perché norma duttile e, forse, formulata in senso troppo generico, non
può costituire il pilastro per il riconoscimento di un’inibitoria generale nel nostro
ordinamento. Anche a seguito dell’introduzione nel nostro codice di rito dell’art.
614 bis, che introduce uno strumento compulsorio di natura pecuniaria che si
attaglia perfettamente alla violazione dell’inibitoria e che potrebbe far presagire
all’introduzione di una disciplina generale dell’ordine di cessazione, non sembra
ancora soddisfatta l’esigenza di positivizzare l’inibitoria quale istituto generale.
2.3. IL CONTENUTO DEL PROVVEDIMENTO INIBITORIO.
Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che l’inibitoria rientra nella categoria dei
provvedimenti di condanna e si sostanzia nell’ordine, rivolto alla parte
soccombente, di interrompere una condotta in essere o di non compierne una in
futuro.
È noto che l’inibitoria può esplicitarsi in un ordine di non fare o in un ordine di
fare. Da qui la divisione tra inibitoria negativa e inibitoria positiva.
L’inibitoria negativa non pone particolari problemi interpretativi, atteso che, in
primo luogo, il legislatore la prevede in modo esplicito in numerose fattispecie;
secondo poi, l’ordine di cessazione rappresenta, anche intuitivamente, l’ipotesi più
frequente di applicazione della tutela inibitoria.
81
Quella che crea qualche grattacapo all’interprete è, invece, l’inibitoria positiva.
Se infatti non vi è dubbio alcuno che il giudice possa vietare ad un soggetto il
compimento (o la ripetizione) di un atto che integri un’ipotesi di illecito, non
altrettanto pacifico risulta riconoscere al giudice il potere di imporre un
determinato comportamento al fine di evitare l’illecito87.
Un primo problema si presenta con riferimento alla nozione stessa di inibitoria.
Come abbiamo visto analizzandone l’etimologia, il termine “inibire” ha il
significato preciso di interrompere, impedire, evitare. Come può, allora,
ricomprendersi nella categoria concettuale dell’inibitoria un ordine a contenuto
positivo, che mira non ad impedire ma a costringere un soggetto ad un
determinato contegno?
Il dubbio che può sorgere al riguardo trova pronta soluzione nella considerazione
che la funzione impeditiva dell’inibitoria ha riguardo non già alla condotta (per
quanto sia, di fatto, questa che viene inibita), bensì alla realizzazione dell’illecito.
Ecco dunque che la condotta diviene elemento intermedio del processo che ha
quali estremi l’ordine di cessazione e l’impedimento dell’illecito. In altre parole,
l’intervento sulla condotta da parte del giudice diventa solo un momento
strumentale ad impedire che si realizzi o che si ripeta l’illecito, e solo con
riferimento al fine ultimo dell’inibitoria deve ricavarsene la sua funzione
interruttiva o impeditiva.
87
Alcuni autori ritengono che l’ordine inibitorio abbia una concreta efficacia solo quando abbia un contenuto negativo, sia rivolto cioè ad impedire un facere, ed il soggetto che víola tale ordine abbia posto in essere cose materiali che sia possibile distruggere. Infatti, tale sentenza sarebbe suscettibile di esecuzione forzata, mediante distruzione della cosa realizzata, ai sensi dell’art. 2933 cc. (Satta, Esecuzione forzata cit., 273 ss.).
82
Una volta svincolato il profilo dell’intervento sulla condotta dalla nozione di
inibitoria, risulta più agevole accettare che l’ordine del giudice possa sostanziarsi
sia in un divieto (di ripetere o di compiere) sia in un obbligo (di tenere un
determinato comportamento al fine di impedire l’illecito).
Del resto, tale duplicità di contenuto del provvedimento giudiziario rispecchia
esattamente la doppia natura del dovere violato, che può consistere in un facere o
in un non facere, e la conseguente doppia natura della condotta illecita, che può
essere omissiva o commissiva. Di conseguenza, di fronte ad un illecito commissivo
(violazione di un obbligo di non fare) si avrà una condanna a un non facere; in
presenza di un illecito omissivo (violazione di un obbligo di fare) si avrà una
condanna a un facere.
Il campo sul quale si manifesta più profonda la distinzione tra l’inibitoria positiva e
l’inibitoria negativa è quello della sua esecuzione forzata, atteso che, come
vedremo nel paragrafo successivo, l’ordine negativo presenta maggiori profili di
problematicità rispetto a quello positivo. È sufficiente qui anticipare che un vero
problema, relativo all’esecuzione forzata, si pone con riferimento agli obblighi
infungibili, per i quali non è pensabile un’esecuzione diretta.
2.4. L’ESECUZIONE FORZATA DELL’ORDINE INIBITORIO. L’ART. 614 BIS C.P.C.
Il tema dell’esecuzione forzata dell’ordine inibitorio è uno dei più spinosi
dell’intera materia. Quello dell’esecuzione, infatti, è il campo in cui la speculazione
83
giuridica trova concreta attuazione, e dove perciò si scontra con gli impedimenti
della realtà, imprevedibili o comunque spesso ignorati dai teorici del diritto88.
Dobbiamo innanzitutto dar conto di una questione di fondo circa l’esecuzione
degli ordini di fare (soprattutto se infungibile) e non fare, ed è quella che attiene al
rapporto tra sentenza di condanna ed esecuzione, soprattutto in quei casi in cui
l’esecuzione non sembri possibile89.
In passato (ma il dibattito non può dirsi certo sopito) è stato affermato che «in
tanto può essere emanata una sentenza di condanna […] in quanto la prestazione
del soccombente sia coercibile e suscettibile di esecuzione forzata in forma
specifica». Dunque, «il giudice civile deve arrestarsi di fronte ad un ostacolo che è
posto dalla stessa funzione del processo cui è preposto» per cui «non si potrà
emanare una condanna che esuli dagli schemi fissi e costanti del processo di
cognizione»90.
88
Non è infrequente rinvenire negli scritti degli interpreti del diritto sostanziale frasi del tipo “questa è materia da processualisti”, ignorando che gli istituti giuridici hanno ragion d’essere solo ed in quanto siano concretamente realizzabili nella realtà dei rapporti sociali. 89
È fin da ora opportuno sottolineare come venga ritenuta infungibile tanto la prestazione obiettivamente ineseguibile ad opera di un terzo, quanto quella che, postulando una specifica ed autonoma determinazione di volontà dell’obbligato, si risolve in una sua condotta strettamente personale, e quindi, del tutto insostituibile; la giurisprudenza, in tal senso, ritiene incoercibili sicuramente i facere consistenti in un’attività negoziale o, più in generale, nel compimento di atti giuridici. A maggior ragione, devono poi ritenersi infungibili gli obblighi di facere che presuppongono l’adempimento di una prestazione da parte di un terzo, come ad esempio, nei casi in cui l’obbligato abbia promesso la vendita di cosa altrui, o nel caso di promessa del fatto del terzo. Il legame tra fungibilità e contenuto materiale della prestazione è evidente soprattutto, nell’esame delle pronunce in materia, in relazione agli obblighi di non fare, che si risolvono in un dovere d’astensione, per la cui eseguibilità specifica è condizione indispensabile che la violazione si sia tradotta nella creazione di un quid novi, suscettibile di distruzione, ossia eliminabile attraverso un’attività puramente fisica, che, in quanto tale, può essere compiuta anche da un soggetto diverso dall’obbligato, giacché soltanto in tal caso l’intervento del giudice può determinare il ripristino della situazione preesistente, compromessa ed alterata dal soggetto che era tenuto ad astenersi da qualsiasi modificazione. 90
A. Tabet, L'ordine di cessazione in negatoria e confessoria, in Studi in onore di Corsetti, Milano 1965, 718. L’autore parte dal quesito se sia ammissibile o meno un processo di condanna relativamente a diritti di contenuto relativo, che si concluda con la condanna ad un’astensione. A
84
Dunque, nell’ottica così prospettata, la tutela del diritto trovava un limite nella
eseguibilità coattiva della sentenza di condanna91.
A nostro sommesso parere, una siffatta concezione del rapporto tra diritto
sostanziale e diritto processuale (dove, addirittura, si auspicava un aggiornamento
delle norme di diritto sostanziale per renderle più aderenti al sistema processuale,
con una totale inversione del rapporto situazione sostanziale-tutela processuale)
non può trovare accoglimento perché sistematicamente incoerente e, ad oggi,
superata dal legislatore.
Infatti, tale linea di pensiero omette totalmente di considerare un’ipotesi che, per
quanto storicamente si verifichi di rado, è comunque una possibilità che il
processualista non può ignorare: l’adempimento spontaneo92.
sua volta, per sentenza di condanna egli intende quella caratterizzata dal fatto di costituire titolo esecutivo, nel senso di essere idonea ad essere eseguibile coattivamente, e perciò tale tipo di sentenza troverà il suo limite naturale di ammissibilità entro l’ambito di quei diritti che sono per loro natura realizzabili coattivamente e rispetto ai quali l’ordinamento giuridico appresta i mezzi per la loro esecuzione forzata. 91
Sosteneva ancora il Tabet che «l’unica forma di tutela dei diritti di contenuto negativo, come per i diritti ad un fare infungibile, è […] il processo di mero accertamento, quando naturalmente ricorra il corrispondente interesse ad agire» (op. cit., 117). 92
Sembra di questo avviso anche la Corte di Cassazione secondo cui «È ammissibile la pronuncia di condanna resa dal giudice nella ipotesi di infungibilità (e, dunque, di incoercibilità) del facere dell'obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti dall'inosservanza dell'ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile, successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento» (Cassazione civile , sez. III, 13 ottobre 1997 , n. 9957). Nella specie, la S.C., enunciando il suindicato principio di diritto, e confermando la pronuncia del giudice di merito, ha ritenuta legittima la domanda - e la relativa sentenza di accoglimento - proposta da un fideiussore per ottenere la condanna del confideiussore alla sua liberazione dall'obbligazione di garanzia in parte qua, in adempimento ad una convenzione tra di essi intercorsa, escludendo la validità dell'obiezione secondo la quale anche lo spontaneo adempimento non sarebbe stato, in tale, specifico caso possibile, attesa la necessità del consenso anche del creditore garantito, ed osservando che l'interesse dell'istante, avente diritto alla liberazione, sarebbe risultato realizzabile sia attraverso l'adempimento della obbligazione garantita da parte del confideiussore, sia attraverso la
85
Ritenere che un diritto sia meritevole di tutela solo quando sia possibile
l’esecuzione forzata della sentenza che ne accerta la prevalenza sull’interesse del
soccombente, significa considerare solo il profilo patologico dell’esecuzione.
L’esecuzione disciplinata dal Codice di procedura civile è “forzata” proprio perché
interviene in un momento in cui il soggetto condannato non abbia provveduto
spontaneamente ad eseguire l’ordine giudiziale. Ciò non significa, però, che
l’adempimento spontaneo sia ipotesi da scartare a priori anzi, in ordine logico
dovrebbe essere proprio la volontà di adeguarsi alla sentenza ad essere
privilegiata sull’intervento statale nella sua esecuzione. Se ciò non è, perché la
statistica dice il contrario e perché il consociato non è uso obbedire all’ordine
impartito dall’autorità, questa è questione che, nell’ambito di un ragionamento
puramente teorico (come è quello sulla tutela dei diritti), non può e non deve
interessare, nemmeno il processualista.
Dunque, non può essere la non eseguibilità pratica della sentenza di condanna a
precludere la tutela del diritto in contestazione, e ciò è dimostrato anche dalla
recente introduzione, nel nostro ordinamento processuale, dell’art. 614 bis, che
attraverso la previsione di una misura compulsoria pecuniaria, ovvia alla non
prestazione, ancora da parte del confideiussore obbligato alla liberazione, di garanzie sufficienti nei suoi confronti per la ipotesi di richiesta di adempimento rivoltagli dal creditore garantito. L’arresto su riportato sembra costituire un mutamento di indirizzo rispetto a quanto affermato dalla stessa Cassazione quasi vent’anni prima, allorquando aveva affermato che «Non è possibile l'esecuzione specifica delle obbligazioni infungibili di fare, così come non è possibile l'esecuzione specifica di obblighi che comportino determinazione autonoma di volontà di un terzo» (Cassazione civile , sez. II, 26 marzo 1979 , n. 1756). In realtà le due linee interpretative non sono incompatibili, atteso che la sentenza del 1997 non affronta il problema dell’esecuzione specifica della sentenza di condanna ad un facere infungibile (affrontato e risolto in senso negativo nel ’79), ma si limita ad affermarne l’ammissibilità ai fini dell’esecuzione volontaria e la idoneità della pronuncia a valere quale sentenza di accertamento in caso di successiva richiesta di risarcimento danni.
86
eseguibilità delle sentenze di condanna a facere infungibili o a non facere
attraverso un sistema di esecuzione indiretta.
Un ulteriore indice di carattere testuale, atto a smentire la tesi su riportata o,
comunque, sufficiente ad evidenziarne l’obsolescenza, può essere individuato, con
riferimento ai soli provvedimenti cautelari, nell’art. 669 duodecies c.p.c.93
Tale norma, infatti, al secondo periodo, prevede che «l’attuazione delle misure
cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene
sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne
determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o
contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti».
Sembra che, con tale norma, il legislatore, cogliendo le difficoltà insite
nell’eseguibilità delle condanne di fare o non fare (cui vanno assimilate quelle di
consegna e rilascio), abbia voluto prevedere un più ampio armamentario del
giudice affinché questo potesse adeguare le modalità d’esecuzione alle peculiarità
del caso concreto, e garantire così la soddisfazione dell’interesse tutelato dalla
sentenza.
L’art. 669 duodecies c.p.c. nulla dice di preciso su quali possano essere in concreto
le modalità di attuazione dei provvedimenti cautelari a contenuto non pecuniario.
A fronte del silenzio normativo, in dottrina si sono delineati due orientamenti.
93
Si consideri che l’intera sezione I del capo III del libro IV del c.p.c. è stata introdotta con l’art. 74 della l. 26 novembre 1990 n. 353, successivamente (e non di poco) alle affermazioni che qui si criticano.
87
Così, alcuni studiosi hanno valorizzato, in misura più o meno accentuata, la portata
"deformalizzatrice" che caratterizzerebbe la disposizione in oggetto, asserendo
che la legge riconosce al giudice dell'esecuzione cautelare la facoltà di prescindere
dal "canovaccio normativo" rappresentato dagli artt. 605 ss. e 612 ss. del codice di
rito; in tale prospettiva, si attribuisce quindi all'organo giurisdizionale sotto il cui
controllo si svolge la fase di attuazione della misura cautelare, il potere di
individuare liberamente le forme da seguirsi, e ciò ai sensi degli artt. 121 e 131
c.p.c., con l'unico vincolo dell'idoneità di queste al raggiungimento dello scopo94,
nonché - a parere di taluni - anche con l'osservanza "dei limiti sostanziali dell'area
di eseguibilità segnati dagli artt. 2930 ss. c.c., sia con riferimento al principio nemo
ad faciendum praecise cogi potest, sia al limite sancito dal secondo comma
dell'art. 2933"95.
In contrapposizione a questa lettura dell'art. 669 duodecies c.p.c., ne esiste
un'altra, assai più restrittiva, e che esprime un atteggiamento di marcato
scetticismo circa le reali potenzialità innovative della norma in esame. Secondo
questa dottrina, il giudice dell'attuazione non può, ma deve attingere le forme per
eseguire la misura cautelare, dall'orditura delle norme codicistiche che regolano
l'esecuzione forzata in forma specifica; ciò in quanto non sarebbero nemmeno
immaginabili, in tale contesto, alternative concretamente praticabili ai
94
Vedi Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli 1991, p. 366. L'opportunità del richiamo agli artt. 121 e 131 c.p.c., e dunque al principio generale di libertà delle forme come limite processuale entro il quale può esercitarsi il potere discrezionale del giudice, è condivisa da A. Saletti, Le riforme del codice di rito in materia di esecuzione forzata e di attuazione delle misure cautelari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 454 a nota 27, il quale insiste, inoltre, sul concetto che i procedimenti per le esecuzioni forzate in forma specifica non costituiscono un paradigma vincolante in sede di attuazione della cautela. 95
Così, L. Montesano, G. Arieta, Diritto processuale civile, 3ª ed., III, Giappichelli 2000, p. 479.
88
procedimenti tipici previsti dal terzo libro del codice di rito96. Su queste premesse,
si comprende perché alcuni commentatori giungano a conclusioni radicali,
affermando, per esempio, che la "specialità" della seconda parte dell'art. 669
duodecies c.p.c., e quindi la sua carica innovatrice, "è tutta nella regola sulla
competenza e si ferma ad essa"97.
In realtà, sembra che le preoccupazioni circa eventuali “sconfinamenti” del giudice
dal rigoroso recinto del Codice di procedura civile, funzionali a dare migliore
attuazione alle sentenze di condanna per violazione degli obblighi di fare o non
fare, siano eccessive, per il motivo che lo stesso Codice prevede forme
sufficientemente elastiche di esecuzione degli obblighi di fare o non fare, in
particolare all’art. 612 c.p.c. il quale prevede che «Chi intende ottenere
l'esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di
fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al
giudice dell’esecuzione, che siano determinate le modalità dell'esecuzione», senza
prevedere particolari limiti al potere del giudice di determinare dette modalità.
Dunque, sembra che l’individuazione di una soluzione interna al Codice di rito
renda privo di rilievo il dibattito sorto attorno all’interpretazione dell’art. 669
duodecies, confermandosi comunque l’assoluta infondatezza della tesi che vuole la
tutela dei diritti subordinata alla possibilità che tale tutela possa trovare
attuazione concreta nell’esecuzione forzata.
96
Il primo interprete ad esporre un’interpretazione siffatta della seconda parte dell’art. 669 duodecies è stato A. Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova 1991, p. 266, affermando che non c’è motivo per ritenere che il giudice, il quale abbia emesso un provvedimento cautelare a contenuto non pecuniario, sia soggetto a limiti diversi da quelli che incontra il giudice dell'esecuzione forzata ordinaria nei casi in cui la legge gli attribuisca un corrispondente potere. 97
Così, C. Cecchella, Il processo cautelare, Torino 1997, p. 175.
89
Il su riportato ragionamento, dal quale sembra potersi trarre un primo scorcio di
soluzione al problema posto a inizio paragrafo, non è ancora sufficiente ad
individuare le corrette modalità di esecuzione dell’ordine inibitorio avente
contenuto negativo o positivo.
A tal fine, riteniamo opportuno trattare distintamente l’esecuzione dell’inibitoria
positiva da quella dell’inibitoria negativa.
Schematizzando il procedimento che porta alla pronuncia di un’inibitoria positiva,
che ha, cioè, ad oggetto, un facere, potremmo dire che presupposto primo è
l’esistenza di un obbligo di fare. Il soggetto su cui grava tale obbligo commette un
illecito (o fornisce elementi tali da farne prevedere la commissione) attraverso una
condotta omissiva. Il soggetto titolare dell’interesse protetto agisce innanzi al
giudice al fine di obbligare il resistente ad adeguarsi all’ordine normativo98.
Sostanziandosi l’ordine inibitorio nell’obbligo di compiere una determinata
attività, è necessario ulteriormente distinguere le ipotesi in cui il precetto violato
consista in un obbligo di fare fungibile o di fare infungibile99.
98
Deve precisarsi che non necessariamente la norma deve prevedere un obbligo rivolto ad un facere specifico perché si possa far ricorso all’inibitoria positiva, atteso che tale strumento è utilizzabile anche quando il compimento del facere sia funzionale alla prevenzione o interruzione di un illecito cui si abbia dato luogo in altro modo, anche in maniera omissiva. In questo senso l’inibitoria positiva può essere letta anche come strumento di “recupero” di una precedente mancanza del soggetto condannato. 99
Preliminare all'esame da svolgere è un chiarimento sulla nozione di infungibilità, che si è visto essere un limite di ammissibilità della tutela in forma specifica. Hanno tale qualità in primo luogo gli obblighi di fare materialmente infungibili, cioè non realizzabili senza la volontà dell'obbligato. Sono infungibili anche gli obblighi complessi, ricomprendenti obblighi di fare infungibili, ad esempio l'obbligo di reintegra nel posto di lavoro. Infungibili sono inoltre gli obblighi di fare che pur essendo materialmente fungibili, comportino particolari difficoltà o complessità qualitative nella loro esecuzione da parte di un terzo. Ancora, l'infungibilità si ha anche in presenza di situazioni di vantaggio il cui godimento è assicurato dall'adempimento di obblighi di fare o non fare a carattere continuativo o periodico, e la condanna sia diretta non solo ad eliminare gli effetti della violazione già compiuta, ma ad assicurare l'adempimento (futuro) degli obblighi in questione.
90
La distinzione tra queste due ipotesi, nella prospettiva dell’esecuzione, appare ictu
oculi di estremo rilevo. Se infatti è evidente che la fungibilità del facere ordinato
dal giudice permetterà una più ampia scelta quanto a modalità di esecuzione, lo
stesso non può dirsi allorché la norma violata stabilisca un obbligo di fare
infungibile.
Nella prima ipotesi, ferma restando la possibilità di un adempimento spontaneo
della sentenza di condanna da parte dell’obbligato, il giudice potrà porre a carico
di un terzo l’onere di compiere l’attività necessaria a scongiurare l’illecito o la sua
ripetizione (pensiamo all’ordine di demolizione di un edificio la cui realizzazione
venga affidata ad un terzo, onerando il condannato di corrispondere le spese
necessarie).
Tale meccanismo non è affatto sconosciuto al nostro ordinamento. Basti pensare
al giudizio di ottemperanza nel diritto amministrativo e alla possibilità per il
ricorrente, in cado di inadempimento dell’ordine giudiziale, di chiedere al giudice
la nomina di un commissario ad acta, che ponga in essere l’attività imposta con la
sentenza di condanna100. Si pensi anche al meccanismo di sostituzione del
condomino nella sopportazione delle spese condominiali urgenti ex art. 1134 c.c.
100
La sentenza può innanzi tutto prevedere un termine (spesso entro 30 gg dalla diffida ad adempiere) entro la quale l'amministrazione dovrà provvedere. Appare palese come tale contenuto sia poco verosimilmente satisfattivo per il ricorrente. Diversa è invece la tendenza, oramai maggioritaria, secondo la quale il contenuto risulta esser più articolato ed incisivo comportando non solo l'indicazione di un termine per provvedere ma anche la previsione di una data nella quale verrà verificato il comportamento dell'amministrazione, al cui esito negativo il giudice potrà sostituirsi all'amministrazione inerte o nominare un commissario ad acta, figura creata dalla giurisprudenza, al fine di rendere esecutiva la sentenza passata in giudicato. Spesso, l'operato del commissario ad acta, può risultare insoddisfacente per il privato, in questo caso, il soggetto interessato, può chiedere al giudice ulteriori disposizioni attuative. Data la natura di organo giurisdizionale del commissario ad acta, i suoi atti sono reclamabili davanti allo stesso giudice dell’ottemperanza, in base alla regola generale della competenza sugli incidenti in sede esecutiva che spetta al giudice stesso dell’esecuzione.
91
In quest’ultimo caso, ferma la distanza che separa tale fattispecie da quella
analizzata in questa sede, si realizza un meccanismo di sostituzione (in questo caso
volontaria) del soggetto obbligato con altro soggetto, attribuendo poi all’obbligato
l’onere di corrispondere le spese sostenute.
Diverso discorso deve farsi nei casi di condanna ad una prestazione infungibile. La
non sostituibilità della prestazione, infatti, comporta l’impossibilità di individuare
soluzioni alternative nell’ambito dell’esecuzione diretta (come accade con la
nomina del commissario ad acta).
In dottrina si è spesso affermata l’impossibilità di ricorrere all’esecuzione forzata
nei casi di condanna ad un fare infungibile101 anzi, l’impossibilità di giungere ad
una pronuncia di condanna da parte del giudice se questa non avesse potuto
trovare esecuzione.
Abbiamo già avuto modo di criticare tale posizione, che pretermette l’ipotesi di
esecuzione spontanea dell’ordine del giudice. Inoltre, una parte non trascurabile
della dottrina processualistica ritiene che la possibilità dell’esecuzione forzata in
forma specifica non costituisca elemento essenziale alla nozione di sentenza di
condanna, in quanto «si può essere condannati a tutto ciò che si può essere tenuti
a prestare (sia un dare, un fare, una astensione, la distruzione di quanto fu fatto in
contravvenzione all’obbligo di non fare; si può essere condannati a una prestazione
infungibile: perché il modo di supplire alla impossibilità di esecuzione diretta non è
101
Tabet, op. cit., 117, secondo cui «l’unica forma di tutela dei diritti di contenuto negativo, come per i diritti ad un fare infungibile, è […] il processo di mero accertamento, quando naturalmente ricorra il corrispondente interesse ad agire». Per una critica giurisprudenziale a questa teoria vedi nota n. 91.
92
necessario sia trovato già nella sentenza, sebbene di solito così avvenga»102. In
secondo luogo non esiste alcuna norma che ricolleghi in via ontologica la sentenza
di condanna all’esecuzione forzata.
In altri termini, se è vero che l’eseguibilità delle sentenze di condanna ad un facere
infungibile, se si esclude l’adempimento spontaneo, trovano un limite invalicabile
in rerum natura, è anche vero che non può per tale motivo precludersi al giudice la
possibilità di condannare a tale tipo di prestazione, né può escludersi il ricorso ad
altri mezzi di coazione di carattere indiretto, atteso che in questo campo conserva
tutta la sua validità il principio per cui nemo ad faciendum cogi potest103.
Quanto sin qui argomentato ben può essere trasposto all’ipotesi di condanna
inibitoria negativa. Tale condanna, schematizzando, presuppone l’esistenza di un
obbligo di non fare, violato da un’attività dell’inibendo cui il titolare del diritto
tutelato reagisce rivolgendosi al giudice e chiedendo che questo imponga al
convenuto la cessazione del contegno lesivo.
L’obbligo di non fare, infatti, è per definizione infungibile e trova anch’esso,
dunque, un ostacolo insormontabile in punto di esecuzione diretta. Nel nostro
Codice civile (art. 2933) vi è una disposizione rubricata “Esecuzione forzata degli
102
G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile (2a ed.), I, Napoli 1935, § 49. 103
Così L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni (2a ed.), Milano 1964, I, 31: «Si ha un bel dire: l’obbligazione sta nel dovere per il debitore di adempiere la prestazione che egli deve: ma se non l’adempie, non v’è forza al mondo che lo possa costringere a farlo». Tutto il dibattito sull’adempimento degli obblighi di fare, e le pronunce giurisprudenziali sul punto, è caratterizzato dalla perenne problematica di conciliare, quanto più possibile, il diritto del creditore all’esatta realizzazione della prestazione, con il principio dell’intangibilità della sfera di autonomia e libertà del debitore oltre i limiti necessari al soddisfacimento dell’interesse della controparte.
93
obblighi di non fare”104 che così recita: «Se non è adempiuto un obbligo di non
fare, l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è
stato fatto in violazione dell’obbligo. Non può essere ordinata la distruzione della
cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la
distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale»105.
L’enunciato della norma evidenzia i limiti dell’esecuzione forzata dell’ordine di
cessazione o di ripristino dello status quo ante (che rappresentano le due ipotesi di
pronunce di condanna in caso di violazione di un obbligo di non fare), atteso che
mentre l’inibitoria negativa ha ad oggetto un fare infungibile (la cessazione del
comportamento), l’esecuzione della pronuncia con la quale il giudice imponga al
soccombente il ripristino dello stato dei luoghi, viene affidata non direttamente
all’obbligato, bensì ad un terzo (o al ricorrente stesso), onerando il soccombente
di rifondere le spese sostenute per la demolizione.
Se, dunque, può considerarsi diretta l’esecuzione dell’ordine di demolizione, in
quanto è la medesima prestazione oggetto di condanna che può trovare
esecuzione, è anche vero che lo stesso legislatore riconosce implicitamente
104
È stato acutamente osservato da un autore (Mazzamuto, L’esordio cit.) che la norma non è correttamente rubricata, atteso che l’unico rimedio per la violazione di un obbligo di non fare, suscettibile di esecuzione diretta, è l’ordine di ripristino dello status quo ante, qualora l’attività lesiva posta in essere in violazione dell’obbligo di non fare abbia prodotto un risultato da rimuovere, mentre l’ordine di cessazione, che costituisce l’altra opzione del giudice rispetto alla violazione di un obbligo di non fare, è anch’esso infungibile e, perciò, ineseguibile in via diretta. 105
Per una interpretazione restrittiva di tale norma v. Cassazione civile , sez. II, 30 gennaio 1985 , n. 562: «In tema di esecuzione forzata degli obblighi di non fare, la norma del comma 2 dell'art. 2933 c.c., secondo cui non può essere ordinata la distruzione della cosa e l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa stessa è di pregiudizio all'economia nazionale, stabilendo una eccezione al principio generale della eseguibilità forzata degli obblighi di non fare, sancito dal comma 1 della medesima norma, deve essere interpretata restrittivamente, cioè nel senso che essa è applicabile soltanto nell'ipotesi in cui la distruzione della cosa arrechi pregiudizio al sistema produttivo dell'intero Paese e non anche quando il pregiudizio riguardi unicamente interessi individuali e locali».
94
l’impossibilità di costringere il soccombente ad adempiere all’ordine giudiziale,
tanto da affidarne a terzi la realizzazione.
Sembra lecito il dubbio se debba considerarsi diretta l’esecuzione per il solo fatto
che sia possibile ottenere la medesima prestazione imposta dal giudice, senza
dover ricorrere a strumenti di soddisfazione per equivalente, o non debba
piuttosto considerarsi anche in questa ipotesi indiretta l’esecuzione, considerata
l’impossibilità di obbligare il soccombente ad eseguire la prestazione.
Una risposta a tale quesito deve essere individuata nell’applicabilità a tale ipotesi
del meccanismo dell’astreinte, di cui nel nostro ordinamento troviamo una
previsione generale nel novello art. 612 bis c.p.c., di cui a breve tratteremo.
L’astreinte, infatti, costituisce un esempio classico di esecuzione indiretta, che
viene in considerazione laddove quella diretta non sia possibile. Di più, la
condanna ad obblighi di fare è l’habitat naturale delle misure compulsorie
indirette, soprattutto quando il facere oggetto della condanna sia infungibile.
Nell’ipotesi dell’art. 2933 c.c., però, la coazione non è diretta all’esecuzione
dell’opera di demolizione (atteso che o il soccombente adempie spontaneamente
o, semplicemente, non adempie) bensì alla refusione delle spese sostenute per la
demolizione, per le quali, peraltro, ci si chiede se possa procedersi ad esecuzione
forzata, nelle modalità previste per l’esecuzione coattiva del pagamento di
somme, direttamente sulla base della sentenza di condanna al facere
ripristinatorio oppure sia necessario costituirsi un ulteriore titolo esecutivo (che
riconosca, ad esempio, la congruità delle spese).
95
Dunque, non sembra si possa parlare di esecuzione “diretta” degli obblighi di fare
allorquando questa sia rivolta non alla prestazione principale, che viene eseguita
senza necessità di “forzare” alcuno (ben potendo il soggetto risultato vincitore in
giudizio affidare l’opera di demolizione ad un terzo e richiedere, poi, il pagamento
delle spese) bensì ad una prestazione secondaria (il ristoro delle spese).
Come abbiamo visto, l’esecuzione forzata degli obblighi di non fare e di fare
infungibile crea non pochi grattacapi. La materiale impossibilità di portare
coattivamente a compimento gli obblighi derivanti dalla pronuncia del giudice,
nelle ipotesi sopra illustrate, ha costituito fino ad oggi un vulnus nella tutela dei
diritti, di cui l’esecuzione forzata costituisce la fase ultima.
Tale mancanza sembra oggi superata (almeno nelle intenzioni del legislatore)
dall’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c., rubricato “Attuazione degli obblighi di fare
infungibile e di non fare”, a norma del quale «Con il provvedimento di condanna il
giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la
somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Il
provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle
somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente
comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato
e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'art. 409. Il
giudice determina l'ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto
96
del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato
o prevedibile e di ogni altra circostanza utile»106.
Finalmente, ha avuto ingresso nel nostro ordinamento l’istituto della astreinte107.
106
Per un primo commento all’art. 614 bis c.p.c. ed alla riforma in generale v. C Mandrioli-A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino 2009, 91 ss.; A. Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it., 2009, V, 222; G. Balena, La nuova pseudo-riforma del processo civile (un primo commento della legge 18 giugno 2009 n. 69), in Giust. Proc. Civ., 2009, III, 749 ss. 107
L’istituto pretorio della astreinte nasce in Francia nella prima metà dell’ottocento. La sua prima applicazione si fa comunemente risalire ad un caso del Tribunale civile di Cray del 25 marzo 1811 (in quel caso il convenuto era stato condannato a fare una pubblica ritrattazione sotto pena di dover pagare tre franchi per ogni giorno di ritardo). La consacrazione definitiva ad opera della Court de Cassation avvenne poi il 28 dicembre 1825. Da allora i giudici francesi ne hanno fatto un uso sempre più ampio e generale. L’istituto trova regolamentazione dapprima con la l. n. 626 del 5 luglio 1972 (art. 5, «Les tribunaux peuvent, même d’office, ordonner une astreinte pour assurer l’exécution de leurs décisions»), poi con la l. n. 650 del 9 luglio 1991. Con l’intervento del ’91 il legislatore francese delimita chiaramente i contorni della astreinte distinguendola dal risarcimento del danno e stabilendo che l’ammontare della astreinte provvisoria viene liquidato tenendo conto del comportamento del destinatario del comando e delle difficoltà di porre in essere l’esecuzione. Come abbiamo visto, il nostro ordinamento non disconosceva totalmente questo tipo di misura compulsoria. Gli artt. 124 e 131 del D.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, in tema di tutela della proprietà industriale, già prevedono una ipotesi di astreinte. Così come i medesimi poteri sono attribuiti ad alcune autorità amministrative indipendenti, quali l’AGCM (vedi l’art. 9 del “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette” secondo cui «Ai sensi dell'articolo 27, comma 3, del Codice del Consumo, l'Autorità, in caso di particolare urgenza, può disporre, d'ufficio e con atto motivato, la sospensione della pratica commerciale ritenuta scorretta […] Il Collegio può disporre con atto motivato la sospensione in via provvisoria della pratica commerciale anche senza acquisire le memorie delle parti quando ricorrano particolari esigenze di indifferibilità dell'intervento […] La decisione dell'Autorità di sospensione della pratica commerciale ritenuta scorretta deve essere immediatamente eseguita a cura del professionista») o l’Autorità Garante della Privacy. In tema di consumatori la previsione di uno strumento compulsorio è diretta derivazione della normativa comunitaria. La direttiva 98/27 relativa ai provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori invitava gli stati membri a designare le autorità competenti non solo a ordinare la cessazione dei comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori ma anche “nella misura in cui l’ordinamento giuridico dello stato membro interessato lo permetta, a condannare la parte soccombente a versare al Tesoro pubblico o ad altro beneficiario designato nell’ambito o a norma della legislazione nazionale, in caso di non esecuzione della decisione entro il termine fissato dall’organo giurisdizionale o dalle autorità amministrative, un importo massimo determinato per ciascun giorno di ritardo o qualsiasi altro importo previsto dalla legislazione nazionale al fine di garantire l’esecuzione delle decisioni”. Allargando la visuale all’ambito europeo, i tre modelli di riferimento sono quello francese, come appena detto, con la pratica delle astreintes, quello tedesco, con l'istituto del Geldstrafe, quello della Common law, con l'istituto della specific performance e del contempt of court. I tre rimedi hanno un carattere in comune: rispettano il principio secondo cui nemo ad factum praecise cogi potest, dato che la non coercibilità diretta di obblighi infungibili, tramite l'intervento in surroga di un terzo, è un'impossibilità logica prima che giuridica. Essi invece si servono di rimedi assai efficaci e raffinati, denominati mezzi coercitivi indiretti: questi non costituiscono un'esecuzione diretta, ma
97
L’iter che ha condotto a questa soluzione è stato lungo e non privo di ostacoli. La
dottrina da tempo aveva indicato al legislatore la necessità di provvedere ad
integrare il nostro ordinamento con la previsione di uno strumento di coazione
degli obblighi non suscettibili di esecuzione specifica, anche sulla scia della fortuna
che l’istituto dell’astreinte aveva avuto oltr’Alpe, dove era diventato istituto di
applicazione generalizzata prima ancora di essere positivizzato.
Le prime reazioni della dottrina a tale esigenza possono essere ricondotte a due
linee teoriche. La prima è quella sostenuta da chi non condivideva l’opinione per
cui in Italia non esistesse l’esecuzione indiretta per cui, al di fuori delle ipotesi degli
artt. 2930, 2931, 2932 e 2933 (oltre alle fattispecie di diritto speciale), qualsiasi
violazione di un comando del giudice si sarebbe risolto in un obbligo al
risarcimento del danno, che partanto rimaneva l’unica tutela in tal caso
ipotizzabile.
Coloro che non condividevano detta teoria vedevano nell’istituto della cauzione
un mezzo efficace di coazione indiretta. Secondo tale dottrina «basterebbe che il
giudice, pronunciando una inibitoria, condannasse il convenuto a prestare
cauzione, fino a un determinato ammontare, per il risarcimento dei danni che
questi dovrebbe corrispondere all’attore se contravvenisse all’inibizione»108.
Questa opinione evidenzia, però, alcuni vizi. Il primo consiste nella limitata
applicazione dell’istituto. Per quanto, infatti, esistano numerosissime fattispecie in
mirano indirettamente a fornire la tutela specifica incidendo sulla volontà del debitore, rendendo per lui più conveniente l'adempimento che l'inadempimento. 108
A. Zignoni, Mezzi giurisdizionali di tutela preventiva contro il pericolo, in Temi gen. 1964, 217. L’Autore ritiene che la cauzione sia un istituto di applicazione generale, purché sussista una situazione di pericolo, e perciò la estenderebbe anche alle fattispecie degli artt. 186 e 2813.
98
cui si fa ricorso alla cauzione, l’istituto non è di applicazione generalizzata,
trattandosi, infatti, di fattispecie tipiche.
Il secondo consiste nella natura stessa della cauzione. A questo proposito la
dottrina distingue normalmente tra la cauzione volontaria, derivante dall’accordo
delle parti, quella legale, prevista dalla legge, che fa obbligo al giudice di imporla, e
quella giudiziale, prevista dalla norma, ma lasciata alla discrezionalità del giudice.
In tutte e tre le ipotesi, al di là della fonte o della più o meno ampia discrezionalità
del giudice che ne stabilisce l’ammontare, non può ignorarsi come la cauzione sia
sempre collegata al danno. In altre parole, il giudice non prevede la cauzione quale
forma di coazione indiretta, bensì in funzione di garanzia per il danno che il
comportamento di una delle parti potrà causare all’altra.
Pur potendo comprendere, dunque, lo sforzo della citata dottrina nel ricercare
soluzioni endo-ordinamentali alla mancanza di strumenti di esecuzione degli
obblighi di fare infungibile e di non fare, resta una differenza ontologica e
concettuale tra la cauzione e l’astreinte.
La linea di pensiero che si scontrò con quella appena esposta, partendo dal
presupposto della inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale di
esecuzione indiretta, giunse alla conclusione non solo della inefficacia pratica dei
provvedimenti inibitori, ma anche della inoperatività delle norme che tali
provvedimenti prevedono109.
109
A. Tabet, op. cit., 719. Per una posizione più radicale vedi A. Attardi, op. cit., 126, secondo cui le disposizioni degli artt. 10, 949, 1079, 2599 c.c. e 156 l. autore «debbono restare lettera morta».
99
Sotto il profilo del diritto positivo, con l’introduzione degli artt. 2930, 2931 e 2933
c.c. il legislatore del ’42 ha eliminato una profonda lacuna che esisteva sotto
l’impero del vecchio codice. Nel sistema del codice del 1865, infatti, attraverso gli
artt. 1220 e 1222 si prevedeva espressamente l’esecuzione specifica delle
obbligazioni di fare e di non fare, ma non c’era nessuna disposizione che dettasse
le opportune norme per la messa in opera di tale esecuzione.
In questa situazione la dottrina aveva dubitato della concreta possibilità di una
esecuzione forzata in forma specifica di tali obbligazioni, in quanto riteneva che si
avesse soltanto una forma di risarcimento del danno, seppure in forma specifica,
che veniva dalla dottrina stessa considerata come una liquidazione del danno110.
Il codice del 1942, invece, ha espressamente regolato l’esecuzione specifica, anche
con l’introduzione nel codice di rito degli artt. 612 ss. La novità rappresentata da
queste previsioni, però, non hanno eliminato l’ostacolo all’esecuzione forzata
rappresentato dalla fungibilità delle prestazioni.
Molti obblighi di fare, infatti, hanno una connotazione essenzialmente personale,
per cui soltanto la persona indicata può eseguire la prestazione. In tutti questi casi
è fuori di dubbio che non si può parlare assolutamente di esecuzione forzata in
forma specifica, in quanto non si può forzare la volontà di una persona a fare
qualcosa che la stessa non intenda fare (“Nemo ad factum precise cogi potest”).
Esempi di questa categoria di obblighi si hanno tutte le volte che si tratta
110
Tra gli altri F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli 1958, 243 ss. S. Satta, op. cit., 32.
100
dell’esecuzione di una prestazione di carattere artistico, in cui l’intuitus personae è
essenziale all’obbligazione stessa111.
Veniamo dunque all’art. 614 bis c.p.c. Il primo comma dell’art. 49 della legge di
riforma del processo civile (L. 69/2009) introduce il principio dell’esecuzione
indiretta degli obblighi di fare infungibili e degli obblighi di non fare attraverso la
previsione di cui al nuovo art. 614 bis c.p.c. In forza della recentissima
disposizione, il provvedimento che condanna ad un obbligo di fare infungibile o di
non fare fissa la somma dovuta all’avente diritto per ogni violazione o
inosservanza successivamente constatata ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione
del provvedimento.
L’intento del legislatore è quello di rafforzare la tutela esecutiva, cogliendo gli
stimoli provenienti da larga parte della dottrina112.
Il nostro ordinamento, dunque, conosce ora uno strumento atto a dare attuazione
coattiva (ancorché indiretta) a quegli obblighi consistenti in un fare infungibile o in
un non fare.
111
La dottrina si è chiesta, con riferimento agli artt. 2931 e 2933 c.c., quali fossero i diritti tutelabili mediante l’esecuzione forzata in forma specifica. Nonostante vivaci dissensi, si ritiene oggi che le suddette disposizioni siano applicabili sia ai diritti assoluti che ai diritti relativi, sia ai diritti reali che a quelli personali. In questa ampia visione, si ritengono suscettibili di esecuzione forzata tutte quelle serie di violazioni di obblighi di non fare che si concretizzano in violazioni di diritti assoluti nel campo dei beni immateriali e dei diritti della personalità. Basti pensare alle violazioni in materia di concorrenza sleale, di marchi e brevetti e di privative industriali in genere, del diritto al nome, del diritto allo pseudonimo e così via. 112
L’auspicio, più volte ribadito, era quello dell’introduzione generalizzata delle misure di esecuzione indiretta poiché «anche le letture più aperte delle norme sostanziali e processuali sull’esecuzione forzata degli obblighi di fare non assicurano - de iure condito - un’attuazione piena del diritto sicché appare ormai maturo il tempo per una definitiva presa di coscienza della circostanza che nessun principio del nostro ordinamento sembra frapporre ostacoli all’introduzione di una norma che affidi al giudice il compito di esplicitare, magari fatte salve qualificate eccezioni, le situazioni soggettive suscettibili di una tutela coattiva indiretta di tipo pecuniario ed assicuri una maggiore flessibilità ed adattabilità del processo alle dinamiche sociali» (Ferrara-Mazzamuto-Verde, Alcune proposte in materia di giustizia civile, in Foro it., 2000, V, 221 ss).
101
La norma prevede un limite di carattere generale alla possibilità di applicazione
della misura coercitiva, nei casi di manifesta iniquità. Si tratta di una formula
ambigua, che prevede un ampio margine di discrezionalità del giudice nella
valutazione di ciò che é iniquo; valutazione che deve essere comunque fatta con
riguardo alle particolarità della concreta fattispecie. Non si capisce se l’iniquità sia
da valutare quale squilibrio tra l’obbligo imposto e l’ammontare dell’astreinte
(ipotesi improbabile, potendo il giudice determinare l’ammontare della sanzione
in modo da adeguarla al caso concreto), oppure se detta valutazione debba essere
effettuata sulla base di una valutazione soggettiva del giudice, che prenda a
riferimento elementi che trascendono l’ambito della dicotomia costi (astreinte) -
benefici (adempimento della prestazione) e che debbano essere rapportati
all’intera fattispecie sottoposta a giudizio.
Un limite di carattere particolare é dato, invece, dalla inapplicabilità della
normativa ai rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato. In materia, risulta
peraltro applicabile la disciplina speciale di cui all'art. 18 dello Statuto dei
lavoratori.
Mentre le limitazioni previste nel primo comma dell'art. 614/bis riguardano
l'ambito di applicabilità della norma, il secondo comma dello stesso articolo
prevede altre limitazioni relative al quantum della somma da determinare,
stabilendo che il giudice deve tenere conto del valore della controversia, della
natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra
circostanza utile. Vertendo in materia di obbligazioni non pecuniarie, la
determinazione del valore della controversia non risulta peraltro esplicita per
102
definizione e può non essere sempre agevole. Inoltre, la natura della prestazione
rappresenta un ideale parametro di riferimento in sede di determinazione
dell'ambito di applicabilità della norma, ma non in sede di determinazione
dell'ammontare della somma.
Discusso è se il mezzo de quo possa trovare applicazione con riferimento ad un
qualsiasi inadempimento, anche di un fare fungibile, oppure unicamente in
relazione agli obblighi di fare infungibili e a quelli di non fare, atteso che
nell’enunciato non è riprodotto il riferimenti all’infungibilità della prestazione
contenuta nella rubrica della norma. Sul punto, si possono mettere a confronto
due contrastanti orientamenti.
Il primo, propenso a dare un’interpretazione estensiva dell’art. 614 bis c.p.c., non
trova nella rubrica dell’articolo un ostacolo all’applicazione della disposizione
anche all’inadempimento degli obblighi di fare fungibile, in ossequio al noto
brocardo “rubrica legis non est lex”113.
Il secondo orientamento, invece, è rappresentato dalla migliore dottrina114,
favorevole a riconoscere alla rubrica una funzione integrativa della disposizione
normativa e, dunque, a considerarne la vincolatività nella interpretazione
dell’enunciato.
113
Si veda a tal proposito, sul lato giurisprudenziale, Trib. Terni, ord. 6 agosto 2009 (Commentata da Mazzamuto, L’esordio cit.). secondo il giudice umbro «L’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c. ha come scopo quello di rendere effettiva e sicura l’esecuzione degli obblighi di fare infungibile e di non fare (ma anche - a parere del giudicante - di tutte le sentenze di condanna o dei provvedimenti cautelari anticipatori della condanna, poiché la limitazione agli obblighi di fare o di non fare è contenuta solo nella rubrica dell’articolo e non anche nel corpo della norma) rispetto ai quali l’esecuzione tradizionale del codice di procedura civile italiana ha spesso avuto effetti deludenti». 114
G. Tarello, L'interpretazione della legge, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano 1980, 209 ss.; A. Belvedere, Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano 1977, 114 ss.
103
In tale disputa sembra trovare un apprezzabile punto di sintesi Mazzamuto115 il
quale, commentando il primo provvedimento che ha applicato l’art. 614 bis
c.p.c.116, ha rilevato che «La valutazione di (in)fungibilità viene dunque condotta
non sul piano sostanziale - come fin qui si era soliti fare - ma sul piano
squisitamente processuale e per di più interno al sistema dell’art. 614 bis c.p.c. e
una tale ricalibra tura del concetto di fungibilità non può […] non abbracciare per
esigenza di omogeneità sia il fare sia il non fare. In altre parole il suggello di
infungibilità va concesso in concreto, ossia tenendo conto dei pregiudizi ulteriori
che possono derivare dalle alterazioni già consumate e dai tempi dell’esecuzione
forzata, sicché esso è il frutto di una prognosi affidata al giudice nell’ambito della
valutazione di iniquità che rappresenta il fulcro della disciplina in esame e la cui
forza conformatrice non si spinge solo a valle a considerare le ragioni del debitore
ma ritorna anche a monte a considerare le ragioni del creditore. Si è, dunque, al
cospetto di una nuova nozione di infungibilità che si potrebbe definire di carattere
processuale e, a questo punto, la rubrica dell’art. 614 bis c.p.c. va riferita agli
obblighi di fare (primario e secondario) infungibili o anche non agevolmente
surrogabili nell’ottica del rischio di pregiudizi gravi e imminenti favoriti dai tempi
processuali e agli obblighi di non fare che mettono capo in fase restitutoria ad un
fare ancora una volta non surrogabile o non agevolmente surrogabile e persino ad
un dare o a un consegnare di cui si teme la tardiva attuazione in executivis».
Dunque, se è vero che l’art. 614 bis c.p.c. deve applicarsi alle violazioni dei soli
obblighi di fare infungibile e di non fare, è altresì vero che tale infungibilità deve
115
L’esordio cit. 116
V. nota 113.
104
essere considerata non in ossequio alla comune definizione giuridica, ma
individuata in base agli elementi della concreta fattispecie, i quali possono
evidenziare che un obbligo di facere, normalmente fungibile, per l’urgenza che
richiede il suo compimento e per le particolari condizioni in cui questo deve essere
eseguito, si presenti in concreto infungibile o non facilmente fungibile. In
quest’ottica, nulla vieta al giudice di applicare la misura compulsoria anche a tale
ultima tipologia di obblighi.
Un’ultima annotazione deve farsi con riferimento alla capacità del novello art. 614
bis c.p.c., riscontrata in dottrina117, a costituire il fondamento della tutela
inibitoria.
In effetti, la misura compulsoria recentemente introdotta sembra disegnata
proprio per dare esecuzione ad un ordine di cessazione, in quanto solo un
provvedimento che obblighi qualcuno ad un fare o ad un non fare entro un
determinato tempo giustifica la sanzione che successivamente si abbia a
comminare « per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo
nell'esecuzione del provvedimento».
È stato notato, però, che la tutela inibitoria fondata sull’art. 614 bis c.p.c. sarebbe
non già l’inibitoria generale, di cui da decenni si discute e di cui si è cercato (finora
invano) di trovare il fondamento, bensì l’inibitoria applicabile alle obbligazioni
contrattuali118. Ciò nella misura in cui l’inibitoria generale, anelando ad affiancare
la riparazione per equivalente, quella in natura e le restituzioni come forma
117
Mazzamuto, L’esordio cit. 118
Sul punto v. L. Gatt, La tutela inibitoria del diritto al contratto, in Dir. Giur., 2005, 499 ss.
105
generalizzata di tutela delle situazioni soggettive, non può trovare in una
previsione processuale (per di più di applicazione incerta o, comunque, limitata) la
sua fonte.
Appare evidente che passi in avanti ancora devono essere fatti prima di addivenire
alla generalizzazione della tutela inibitoria (non solo quella c.d. contrattuale) nel
nostro ordinamento.
3. LA TUTELA DEI CONSUMATORI E IL CODICE DEL CONSUMO
Trattiamo in questo capitolo le ipotesi di inibitoria prevista in ambito
consumeristico119. La scelta di alienare questo argomento dal resto delle ipotesi
già trattate si giustifica con il fatto che quello dei diritti del consumatore è un tema
su cui da decenni si discute e che, assai di recente, ha trovato una
regolamentazione nel Codice del Consumo (Decreto Legislativo 6 settembre 2005,
n. 206)120 che, pur non innovando radicalmente la disciplina (il Codice è frutto più
119
La produzione dottrinaria sul punto è pressoché sterminata. Per un commento specifico al Codice del Consumo vedi AA. VV., Codice del consumo, Commentario (a cura di Guido Alpa e Liliana Rossi Carleo) Napoli 2005; M. Dona, Il Codice del consumo, regole e significati, Torino 2005; A Catelani, Codice del consumo : commento al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Napoli 2005; AA. VV., Codice del consumo e norme collegate (a cura di Vincenzo Cuffaro, con il coordinamento di Angelo Barba, Andrea Barenghi), 2^ ed., Milano 2008; AA. VV., Commentario al codice del consumo (a cura di Francesco Camilletti), Roma 2008. 120
L’art. 7 della L. 7 luglio 2003 n. 229 ha delegato il governo ad adottare uno o più decreti legislativi «per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori», individuando quattro criteri direttivi per la delega così conferita. In attuazione della delega in tal modo ricevuta, il Governo ha adottato il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, «recante riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori - Codice del consumo». Nell’ambito dello stesso programma politico sono stati emanati anche: il «Codice in materia di protezione dei dati personali» (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196); il «Codice delle comunicazioni elettroniche» (d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259); il «Codice dei beni culturali e del paesaggio» (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42); il «Codice dei diritti di proprietà industriale» (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) e il «Codice dell'amministrazione digitale» (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, recentemente modificato dal d.lgs. 4 aprile 2006, n. 159); il «Codice della nautica da diporto» (d.lgs. 18 luglio 2005, n. 171); il
106
di una trasposizione di norme già esistenti che di un intento realmente
innovatore121) costituisce comunque un nuovo punto di riferimento per
l’interprete e per gli utenti.
Le disposizioni di maggior interesse, per il presente lavoro, sono rappresentate
dagli artt. 37, 139, 140 e 140 bis (che ha introdotto nel nostro ordinamento la class
action).
3.1. L’INIBITORIA A TUTELA DEI CONSUMATORI
L’art. 37 rubricato “azione inibitoria” in materia di clausole vessatorie, statuisce
che «Le associazioni rappresentative dei consumatori, di cui all’articolo 137, le
associazioni rappresentative dei professionisti e le camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura, possono convenire in giudizio il professionista o
l’associazione di professionisti che utilizzano, o che raccomandano l’utilizzo di
«Codice delle assicurazione private» (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209); il «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture» (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163); il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna» (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198). 121
Le stesse premesse all’articolato del Ministro per le Attività produttive Scajola rivelano questo tipo di impostazione. In esse si legge che «Il Codice del Consumo rappresenta il testo fondamentale di riferimento in materia di tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti. L’esigenza di raccogliere in un unico testo le disposizioni sulla tutela del consumatore è apparsa una necessità improcrastinabile, considerata la stratificazione normativa e vista l’esperienza degli altri Paesi Membri dell’Unione Europea. Per la prima volta, il Codice fa assumere un autonomo rilievo al diritto dei consumatori nell’ambito dell’ordinamento civile e la sua articolazione si ispira alle teorie sul processo di acquisto. Il Codice riunisce, coordina e semplifica le disposizioni normative incentrate intorno alla figura del consumatore, come cittadino conscio dei propri diritti e doveri». E ancora «Il Codice del Consumo riunisce in un unico testo le disposizioni di 21 provvedimenti (4 leggi, 2 DPR, 14 D.Lgs. e 1 regolamento di attuazione) sintetizzando in 146 articoli il contenuto di 558 norme. Nell’ambito dell’armonizzazione con le direttive comunitarie in materia, il Codice ha provveduto, alla luce dell’esperienza dell’applicazione dei testi già in vigore (giurisprudenza, dottrina), a rivedere taluni aspetti problematici, apportando i necessari miglioramenti […] Il Codice coordina le disposizioni relative alle definizioni di consumatore, professionista, venditore e produttore rinvenibili a vario titolo nelle diverse normative». Infine, cosa assai bizzarra, il Codice all’art. 3 (Definizioni) dà una definizione di sé stesso («il presente decreto legislativo di riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori»), circostanza mai avvenuta in nessun altro codice.
107
condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca
l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività ai sensi del presente titolo.
L’inibitoria può essere concessa, quando ricorrono giusti motivi di urgenza, ai sensi
degli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile. Il giudice può
ordinare che il provvedimento sia pubblicato in uno o più giornali, di cui uno
almeno a diffusione nazionale. Per quanto non previsto dal presente articolo, alle
azioni inibitorie esercitate dalle associazioni dei consumatori di cui al comma 1, si
applicano le disposizioni dell’articolo 140».
La norma in esame distingue quindi, al fine di individuare la loro legittimazione ad
agire in giudizio, le associazioni dei consumatori dalle associazioni dei
professionisti e dalle camere di commercio: per le prime, infatti, fa riferimento
all’art. 137, mentre per le seconde, si riferisce genericamente al criterio della
rappresentatività. L’art. 137 individua sulla base di rigidi criteri legislativamente
fissati l’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti certamente
rappresentative a livello nazionale e come tali legittimate ad agire ai sensi dell’art.
139 del Codice del Consumo e con le modalità di cui all’art. 140 del medesimo.
Pertanto, nell’art. 37 si produce un importante differenziazione, mentre le
associazioni dei consumatori legittimate ad agire in materia di clausole vessatorie
sono solo quelle inserite nell’elenco tenuto presso il Ministero delle Attività
Produttive, le associazioni dei professionisti e le camere di commercio legittimate
ad agire sono tutte quelle che il giudice in corso di causa considererà, secondo il
suo discrezionale apprezzamento, rappresentative ai fini dell’azione promossa. Per
di più, se si analizza l’ultimo comma dell’art 37, poiché esso stabilisce che
108
all’azione delle associazioni dei consumatori si applicano le disposizioni dell’art.
140 per quanto non previsto dall’art. 37 medesimo (e poiché l’art. 140 ha portata
più ampia dell’art. 37) appare evidente che l’azione delle associazioni dei
consumatori in materia di clausole vessatorie si svolgerà a norma dell’art. 140 e
non a norma dell’art. 37. Tant’è vero che esplicitamente il comma 10 dell’art. 140
stabilisce che «per le associazioni di cui all’art. 139 l’azione inibitoria prevista
dall’art. 37 in materia di clausole vessatorie nei contratti stipulati con i
consumatori, si esercita ai sensi del presente articolo».
In sostanza, quindi, sebbene l’art. 37 faccia riferimento sia alle azioni promosse
dalle associazioni dei consumatori sia a quelle promosse dalle associazioni dei
professionisti e dalle camere di commercio, esso si applica soltanto alle azioni
promosse da questi secondi soggetti, posto che i primi ricadono nell’ambito di
applicazione dell’art. 140. Con la conseguenza, sul piano applicativo, che le azioni
così promosse da tali soggetti saranno diverse sia per l’ambito soggettivo sia per
quello oggettivo.
Le associazioni dei professionisti e le camere di commercio saranno legittimate ad
agire solo in materia di clausole vessatorie e solo in quanto ritenute
sufficientemente rappresentative sul piano nazionale dal giudice con suo
discrezionale apprezzamento ed inoltre saranno legittimate a richiedere al giudice
solo i provvedimenti di cui all’art 37, cioè: azione inibitoria in via ordinaria o in via
d’urgenza122 e la pubblicazione del provvedimento. Mentre le associazioni dei
122
Il modello di riferimento è il § 13 dell’AGBG del 1976, il quale prevede che chiunque utilizzi o raccomandi per il traffico negoziale clausole di AGB inefficaci ai sensi dei paragrafi 9-11 della legge
109
consumatori saranno legittimate ad agire a tutela dei diritti e degli interessi
collettivi, solo in quanto iscritte nell’elenco di cui all’art 137 e secondo le modalità
di cui all’art. 140 il quale, a differenza dell’art. 37, oltre all’azione inibitoria, ed
accanto alla pubblicazione del provvedimento, prevede l’adozione di misure
correttive idonee ad eliminare e correggere gli effetti dannosi delle violazioni
accertate e disciplina inoltre una peculiare procedura di conciliazione
stragiudiziale della controversia123.
è soggetto ad azione inibitoria (auf Unterlassung) e, nell’ipotesi di raccomandazione, anche ad un’azione di raccomandazione (auf Widerruf). 123
Vale la pena di interrogarsi sulla portata di questo intervento sul regime precedente. Nel 1996 con la Legge n. 52 il legislatore italiano, come già anticipato, introduce il Capo XIV bis nel Libro IV del Codice Civile. In tale complesso di norme che, data anche la sua collocazione sistematica, appare subito destinato ad innovare profondamente (e dolorosamente) la disciplina generale dei contratti, compare l’art. 1469 sexies che disciplina l’azione inibitoria promossa dalle associazioni rappresentative dei consumatori, dei professionisti e delle camere di commercio. La legittimazione all’azione di tali associazioni è quindi subordinata al solo requisito della rappresentatività non ancorato a criteri certi di valutazione prestabiliti per legge, ma anzi discrezionalmente valutata dal giudice. Nelle prime pronunce emanate in applicazione della suddetta norma, le associazioni dei consumatori vennero ritenute rappresentative allorquando la loro attività avesse raggiunto un “grado di continuità ed effettività nel raggiungimento dei proprio scopi statutari, percepito anche dalla comunità di appartenenza, ponendosi al contempo come serio interlocutore delle problematiche concernenti la tutela del consumatore”. Nella pratica, raramente tale rappresentatività è stata negata alle associazioni dei consumatori che hanno agito in giudizio mentre ancor più raramente si è assistito ad azioni promosse da associazioni di professionisti. Nel 1998 l’Italia adotta, per prima rispetto agli altri paesi della Comunità Europea nonché rispetto alla Comunità stessa - che conosceva all’epoca soltanto una proposta di direttiva, cui la legge italiana comunque si ispira - la Legge n. 281 recante la “disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”. La Legge, destinata a venire in considerazione come lo statuto fondamentale dei diritti dei consumatori, si propone l’ambizioso scopo, di cui all’art. 1, di garantire i diritti e gli interessi sia individuali sia collettivi dei consumatori e degli utenti e, soprattutto, di promuoverne la tutela in forma collettiva ed associativa. Così dopo aver elencato i diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori, la Legge definisce all’art. 2 le “associazioni dei consumatori e degli utenti” come quelle «formazioni sociali che hanno per scopo esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti» ed attribuisce ad esse, sulla base di criteri predeterminati dalla legge medesima, la legittimazione ad agire per richiedere «al giudice competente di inibire gli atti ed i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti, di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate e, infine, di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale o locale, nei casi in cui una tale pubblicazione possa contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate» (art. 3). La Legge, in particolare, istituisce presso il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato (oggi Ministero delle Attività Produttive) un elenco di quelle associazioni di consumatori e di utenti che, presentando i requisiti di cui all’art. 5 della Legge medesima, al possesso dei quali è subordinata l’iscrizione nel suddetto elenco, sono considerate certamente rappresentative a livello nazionale e dunque legittimate ad agire ai sensi dell’art. 3.
110
Così congegnata la Legge n. 281 del 1998 sembrava destinata a risolvere ogni questione applicativa anche del vigente art. 1469 sexies; norma quest’ultima che, come già detto, riconosceva la legittimazione ad agire per ottenere l’inibitoria dell’utilizzo di condizioni generali di contratto a quelle associazioni “rappresentative” di consumatori - ma anche di professionisti nonché alle Camere di commercio di industria ed artigianato - senza però ancorare il presupposto della rappresentatività ad alcun criterio certo di valutazione e così aprendo la strada alla discrezione del giudice. Sembrava, dunque, che la Legge n. 281 del 1998 ed i criteri da essa introdotti per valutare la rappresentatività di una associazione che agisce in giudizio a tutela di interessi collettivi fossero validamente utilizzabili anche per individuare le associazioni di consumatori legittimate ad agire ex art. 1469 sexies del Codice Civile. Ma, come si vedrà, tra le due norme, l’art. 3 della Legge n. 281 del 1998 e l’art. 1469 sexies del Codice, non vi era totale coincidenza; diverso era, infatti, l’ambito di applicazione sia soggettivo sia oggettivo. Mentre la norma del Codice contemplava, oltre all’azione promossa dalle associazioni di consumatori, anche l’azione promossa dalle associazioni di professionisti nonché dalle Camere di commercio, l’art. 3 disciplinava la sola azione promossa dalle associazioni di consumatori o di utenti; ed ancora, mentre l’art. 1469 sexies si riferiva all’inibitoria dell’utilizzo di clausole considerate abusive, l’art. 3, con raggio di applicazione più vasto, faceva riferimento all’inibitoria di atti e comportamenti. Chiaro, comunque, che il più contiene il meno, per cui questa differenza linguistica nella pratica non produceva particolari problemi applicativi. Mentre, per quanto riguardava il requisito soggettivo poteva dirsi che se l’art. 3 della Legge n. 281 del 1998 aveva introdotto un criterio certo per la valutazione della rappresentatività ai fini della legittimazione ad agire, ciò sarebbe valso solo per le associazioni di consumatori e non anche per quelle di professionisti e per le Camere di commercio la cui rappresentatività doveva continuare ad essere valutata discrezionalmente e caso per caso dal giudice. Nella versione più semplice sembrava, quindi, che il rapporto tra le due normative dovesse risolversi con applicazione del principio lex posterior derogat anteriori, e non solo per il rilievo cronologico ma anche perché la lex posterior, la Legge n. 281 del 1998, sembrava destinata a regolare in maniera uniforme l’intera materia già regolata dalla legge anteriore, così abrogandola ex art. 15 delle disp. prel. del Codice Civile. Non così semplice però la soluzione adottata in alcune pronunce di merito dove si affermava che il rapporto tra le due normative andava risolto in base al principio lex posterior generalis non derogat priori speciali; così le norme del Codice venivano considerate norme speciali non derogabili dalla nuova legge che avrebbe avuto invece portata generale. Si argomentava che una tale ricostruzione fosse maggiormente conforme allo spirito della Legge n. 52 del 1996 in quanto, diversamente, una interpretazione restrittiva della norma di cui all’art. 1469 sexies (operata, cioè, in relazione ai criteri di cui all’art. 5 della Legge n. 281 del 1998) avrebbe in sostanza diminuito la capacità di agire delle associazioni dei consumatori. Si obiettava però in dottrina che il Codice, essendo la legge generale per eccellenza, non avrebbe mai potuto essere considerato norma speciale. Infine, un coordinamento si sarebbe dovuto avere in forza del D. Lgs. n. 224 del 2001 emanato in attuazione della Direttiva 98/27/CE relativa proprio ai provvedimenti inibitori a tutela del consumatore, con il quale si estendeva l’applicazione della Legge n. 281 del 1998 a tutte le ipotesi di violazione degli interessi collettivi contemplati nelle direttive europee e dunque nelle leggi di recepimento, compresa la Legge n. 52 del 1996. In tal modo, la Legge n. 281 del 1998 si sarebbe dovuta considerare legge-quadro anche per quanto riguardava l’individuazione delle associazioni legittimate ad agire ai sensi dell’art. 1469 sexies c.c. Tuttavia anche dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 224 del 2001 i problemi applicativi delle norme in esame non sono stati del tutto risolti, ed infatti ancora in qualche pronuncia di merito si legge che «il rimedio dell’inibitoria di cui all’art.1469 sexies del Codice Civile mantiene, pur dopo l’entrata in vigore della Legge 281 del 1998 un autonomo ambito di applicazione in quanto al di là del rapporto di specialità che la normativa di cui alla Legge 281 assume rispetto a quella codicistica (specialità controversa in dottrina, alla luce del suo carattere quantomeno reciproco…) deve porsi in rilievo la parziale diversità di ratio che caratterizza i requisiti della rappresentatività ex art. 1469 sexies ed ex art. 5 L. 281 del 1998». La rappresentatività di cui all’art. 1469 sexies infatti funge pressoché esclusivamente da «requisito di legittimazione processuale finalizzato a garantire la particolare funzione general-preventiva del rimedio inibitorio incompatibile con l’accesso
111
Come visto per altre fattispecie che prevedono un potere inibitorio del giudice,
anche l’art. 37 in commento contempla, accanto all’azione di cessazione, la
possibilità per il giudice di ordinare la pubblicazione del provvedimento su giornali,
di cui almeno uno a diffusione nazionale. Tale strumento, come abbiamo avuto
modo di argomentare, ha sì la funzione di diffondere la decisione in modo da
rendere edotti (e consapevoli) il maggior numero possibile di utenti, ma ha anche
il fine di inibire ulteriormente futuri atti illeciti del condannato.
Per quanto attiene ai requisiti per provvedere in inibitoria (in particolare
l’inibitoria cautelare), l’art. 37 ripercorre le orme dell’abrogato art. 1469 sexies
c.c., prevedendo che questa possa essere concessa quando ricorrono “giusti motivi
d’urgenza” ai sensi degli artt. 669 bis e ss. del c.p.c.124
Per meglio comprendere il perimetro di tale requisito, è esercizio utile quello di
valutare le primissime applicazioni dell’art. 1469-sexies c.c., ed in modo specifico
la giurisprudenza del Tribunale di Torino.
Con una prima ordinanza del 14 agosto 1996125, i giudici del capoluogo
piemontese hanno affermato che i “giusti motivi d’urgenza” sussistono quando «il indiscriminato tipico dell’azione individuale». Mentre l’art. 5 della Legge n. 281 del 1998 oltre a legittimare l’associazione ai rimedi previsti dall’art. 3 attribuisce alla stessa il diritto ad essere rappresentata nel Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti, il diritto alle agevolazioni ed ai contributi, e la legittimazione attiva davanti al giudice straniero nelle azioni transfrontaliere relative a violazioni intracomunitarie. Così, nonostante l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 224 del 2001, ancora nel 2005 la giurisprudenza mostrava disorientamento e perplessità nell’applicazione della disciplina delle azioni inibitorie collettive. Il Codice del Consumo, recentemente emanato, persegue lo scopo di dirimere i dubbi inerenti l’applicazione delle norme sopra richiamate. Esso, quindi, distingue l’azione inibitoria in materia di clausole abusive dall’inibitoria concessa in ipotesi di atti e comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori, e distingue ancora l’azione delle associazioni dei professionisti e delle camere di commercio da quella delle associazioni dei consumatori. 124
Per una approfondita analisi del tema A. Plaia, Clausole abusive e tutela inibitoria: "i giusti motivi d'urgenza", in Europa e Dir. Priv., 1998, 575 ss. 125
In Foro it., 1997, I, 288.
112
bene oggetto delle condizioni generali di contratto sia essenziale ovvero quando il
danno risentito dai consumatori sia immediato e non suscettibile di riparazione per
equivalente». Come è evidente, viene prediletto un approccio interpretativo
restrittivo, confermato in una successiva ordinanza126 con la quale gli stessi giudici,
nel negare un provvedimento inibitorio cautelare, hanno ritenuto insufficiente la
“mera potenzialità dannosa” delle clausole abusive, ritenendo, al contrario,
necessario un «pregiudizio concreto verificabile con riferimento ad uno o più
consumatori determinati». In sostanza «il pregiudizio che determina l’urgenza del
provvedere deve […] essere ancorato a situazioni e rapporti determinati, cioè a
specifici contratti con riferimento ai quali, successivamente alla loro conclusione, le
clausole abusive siano fatte valere o, quantomeno, siano maturati i presupposti
per la loro applicazione». In un’altra ordinanza127, infine, il Tribunale di Torino
chiude il cerchio interpretando restrittivamente l’art. 1469-bis c.p.c. anche sotto il
profilo quantitativo; affermando, cioè, che il gran numero di potenziali soggetti
interessati dalle condizioni in discussione non può costituire valido elemento di
riscontro dei “giusti motivi d’urgenza”.
La dottrina che per prima affrontò la questione dei requisiti per l’accesso alla
tutela inibitoria non poté non rilevare come la lettura fatta propria dai giudici
torinesi fosse eccessivamente timorosa e viziata dal punto di vista teleologico,
atteso che ancorare il pregiudizio che determina l’urgenza del provvedere a
specifici contratti successivamente alla loro conclusione, significa trasformare un
rimedio, appositamente congegnato quale rimedio general-preventivo, in un
126
Trib. Torino, 16 agosto 1996, in Foro it., 1997, I, 288. 127
Trib. Torino, 4 ottobre 1996, in Foro it., 1997, I, 288.
113
rimedio individuale e successivo, snaturando così l’anima stessa della tutela
inibitoria128. La prospettiva adottata dalla dottrina citata fu abbracciata, in un
repentino quanto imprevedibile cambio di rotta, dallo stesso Tribunale di Torino il
quale, con un provvedimento di poco successivo a quelli menzionati129, riconobbe
che il pregiudizio che connota l’inibitoria, in quanto ancorato ad un interesse
collettivo, non può consistere nell’avvenuta stipulazione di un contratto,
ponendosi la stessa azione come «strumento preventivo diretto ad evitare la
possibilità di una futura stipulazione di un numero indeterminato di contratti
contenenti clausole abusive».
Un’interpretazione meno rigida della nozione di “giusti motivi d’urgenza” sembra
oggi diffusa in giurisprudenza. Basti qui citare la sentenza del Tribunale di Palermo
(11 luglio 2000) a mente della quale «l’azione inibitoria di cui all’art. 1469 sexies
c.c. è un rimedio di tipo general preventivo che è proteso ad incidere proprio sui
formulari contrattuali considerati in modo generale ed astratto,
indipendentemente dal loro impiego concreto, quale fonte normativa privata
potenzialmente applicabile ad una serie di contratti individuali con i singoli
consumatori, impedendone la diffusione con conseguente declaratoria di
128
A. Plaia, Clausole cit., 580. 129
Trib. Torino, 15 novembre 1996, in Giur. It., 1997, I, 2, 129. Due anni dopo il Tribunale di Roma (ord. 18 giugno 1998) prosegue sulla linea interpretativa tracciata dai giudici torinesi nell’ultima ordinanza citata affermando che «i “giusti motivi d’urgenza” richiesti dall’art. 1469 sexies, secondo comma, Codice civile, devono individuarsi nel pericolo di grave lesione di posizioni attinenti diritti della persona di rilevanza primaria. A tal fine, l’importanza della lesione non va valutata soltanto secondo un criterio quantitativo ovvero in base alla natura del bene o servizio oggetto del contratto, elementi già previsti ai fini dell’azione inibitoria ordinaria, bensì in base alla irreparabilità del danno, che si realizza quando le condizioni contrattuali di cui si chiede l’inibitoria cautelare abbiano un contenuto antigiuridico tale da determinare un ingiustificato ed eccessivo squilibrio sostanziale dell’assetto negoziale».
114
inefficacia, ove ne sia accertata l’abusività per garantire ai consumatori proprio la
libertà di contrarre a condizioni non vessatorie»130.
Dunque, sembra potersi concludere che l’art. 37 Cod. Cons., come dimostrato
dalla precorsa giurisprudenza sull’art. 1469 sexies c.c., si presta a rappresentare un
utilissimo strumento a tutela dei consumatori e delle loro associazioni
rappresentative nel caso di inserzione, nei contratti individuali o nei contratti di
massa, di clausole inique.
L’art. 139 Cod. Cons. (rubricato “legittimazione ad agire”) così recita: «Le
associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’articolo 137
sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli
utenti. Oltre a quanto disposto dall’articolo 2, le dette associazioni sono
legittimate ad agire nelle ipotesi di violazione degli interessi collettivi dei
consumatori contemplati nelle materie disciplinate dal presente codice, nonché
dalle seguenti disposizioni legislative:
a) legge 6 agosto 1990, n. 223, e legge 30 aprile 1998, n. 122, concernenti
l’esercizio delle attività televisive
b) decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 541, come modificato dal decreto
legislativo 18 febbraio 1997, n. 44, e legge 14 ottobre 1999, n. 362, concernente la
pubblicità dei medicinali per uso umano.
130
Sulla stessa linea v. Trib. Palermo, ord. 20 febbraio 2008 (con nota di E. Battelli, in Corr. Merito n. 7/2008); Trib. Palermo, 10 gennaio 2000; C. Appello di Roma, sez. II civile, sentenza 24 settembre 2002.
115
Gli organismi pubblici indipendenti nazionali e le organizzazioni riconosciuti in altro
Stato dell’Unione europea ed inseriti nell’elenco degli enti legittimati a proporre
azioni inibitorie a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, possono agire, ai sensi del presente
articolo e secondo le modalità di cui all’articolo 140, nei confronti di atti o
comportamenti lesivi per i consumatori del proprio Paese, posti in essere in tutto o
in parte sul territorio dello Stato»131.
La norma su riportata ha carattere generale e disciplina la legittimazione ad agire
rispetto a tutte le azioni proponibili nell’ambito della tutela degli interessi
collettivi, a differenza di quanto previsto dalla l. 30 luglio 1998 n. 281132. L’ambito
di operatività, dunque, non è limitato alla tutela degli interessi elencati all’art. 2
del Codice133,
Tale disposizione non regola gli aspetti procedurali dell’azione inibitoria e delle
misure accessorie (disciplina che si rinviene nel successivo art. 140), né offre
indicazioni circa la natura della legittimazione ad agire, se ordinaria, straordinaria
131
Per un commento della norma Petrillo, Art. 139, Codice del consumo, Commentario (a cura di Alpa e Carleo), Napoli 2005. 132
L’art. 3 della L. 281/98 così delimita l’ambito di operatività della legge: «Le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell'elenco di cui all'articolo 5 sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi, richiedendo al giudice competente: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate». 133
Si tratta di: (a) tutela della salute; (b) sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi; (c) adeguata informazione e corretta pubblicità; (d) educazione al consumo; (e) correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali; (f) promozione e sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; (g) erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.
116
o sostitutiva, ma definisce i soggetti abilitati ad adire l’autorità giudiziaria per la
tutela degli interessi dei consumatori.
La legittimazione, secondo l’art. 139, è attribuita in via esclusiva a soggetti
collettivi, con esclusione dei singoli. Per i consumatori italiani, la legittimazione
spetta solo agli enti esponenziali privati riconosciuti ex art. 137; per gli illeciti
transfrontalieri che colpiscono consumatori stranieri, la legittimazione spetta
anche ad organismi pubblici riconosciuti da diversi stati ed inseriti in un apposito
elenco pubblicato sulla G.U.C.E.
È necessario precisare che la rappresentatività dell’associazione non è un
elemento della legittimazione processuale o ad agire, ma rappresenta un fatto
costitutivo della fondatezza della domanda. Dunque, il vaglio di rappresentatività
dell’associazione ricorrente, che costituiva esame preliminare all’ammissibilità
della domanda, diventa in quest’ottica elemento valutativo circa la fondatezza
della domanda stessa, traslando il relativo giudizio dal recinto strettamente
processuale (come forse sarebbe più corretto) all’analisi del merito.
Come anticipato, l’art. 140 del Codice del Consumo disciplina la procedura
attraverso la quale i soggetti legittimati possono accedere agli strumenti
predisposti a tutela dei diritti dei consumatori. Il legislatore ha strutturato tale
disposizione nel seguente modo: «I soggetti di cui all’articolo 139 sono legittimati
ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo
al tribunale:
a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli
117
utenti;
b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle
violazioni accertate;
c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a
diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento
può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate.
Le associazioni di cui al comma 1, nonché i soggetti di cui all’articolo 139, comma
2, possono attivare, prima del ricorso al giudice, la procedura di conciliazione
dinanzi alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente
per territorio, a norma dell’articolo 2, comma 4, lettera a), della legge 29 dicembre
1993, n. 580, nonché agli altri organismi di composizione extragiudiziale per la
composizione delle controversie in materia di consumo a norma dell’articolo 141.
La procedura è, in ogni caso, definita entro sessanta giorni.
Il processo verbale di conciliazione, sottoscritto dalle parti e dal rappresentante
dell’organismo di composizione extragiudiziale adito, è depositato per
l’omologazione nella cancelleria del tribunale del luogo nel quale si è svolto il
procedimento di conciliazione.
Il tribunale, in composizione monocratica, accertata la regolarità formale del
processo verbale, lo dichiara esecutivo con decreto. Il verbale di conciliazione
omologato costituisce titolo esecutivo.
118
In ogni caso l’azione di cui al comma 1 può essere proposta solo dopo che siano
decorsi quindici giorni dalla data in cui le associazioni abbiano richiesto al soggetto
da esse ritenuto responsabile, a mezzo lettera raccomandata con avviso di
ricevimento, la cessazione del comportamento lesivo degli interessi dei
consumatori e degli utenti.
Il soggetto al quale viene chiesta la cessazione del comportamento lesivo ai sensi
del comma 5, o che sia stato chiamato in giudizio ai sensi del comma 1, può
attivare la procedura di conciliazione di cui al comma 2 senza alcun pregiudizio per
l’azione giudiziale da avviarsi o già avviata. La favorevole conclusione, anche nella
fase esecutiva, del procedimento di conciliazione viene valutata ai fini della
cessazione della materia del contendere.
Con il provvedimento che definisce il giudizio di cui al comma 1 il giudice fissa un
termine per l’adempimento degli obblighi stabiliti e, anche su domanda della parte
che ha agito in giudizio, dispone, in caso di inadempimento, il pagamento di una
somma di denaro da 516 euro a 1.032 euro, per ogni inadempimento ovvero
giorno di ritardo rapportati alla gravità del fatto. In caso di inadempimento degli
obblighi risultanti dal verbale di conciliazione di cui al comma 3 le parti possono
adire il tribunale con procedimento in camera di consiglio affinché, accertato
l’inadempimento, disponga il pagamento delle dette somme di denaro. Tali somme
di denaro sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate
con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze al fondo da istituire
nell’ambito di apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del
119
Ministero delle attività produttive, per finanziare iniziative a vantaggio dei
consumatori.
Nei casi in cui ricorrano giusti motivi di urgenza, l’azione inibitoria si svolge a
norma degli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies del codice di procedura civile.
Fatte salve le norme sulla litispendenza, sulla continenza, sulla connessione e sulla
riunione dei procedimenti, le disposizioni di cui al presente articolo non precludono
il diritto ad azioni individuali dei consumatori che siano danneggiati dalle
medesime violazioni.
Per le associazioni di cui all’articolo 139 l’azione inibitoria prevista dall’articolo 37
in materia di clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori, si esercita
ai sensi del presente articolo.
Resta ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di
servizi pubblici ai sensi dell’articolo 33 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80.
Restano salve le procedure conciliative di competenza dell’Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni di cui all’articolo 1, comma 11, della legge 31 luglio 1997, n.
249»134.
134
Il precedente diretto della disposizione in esame è costituito dall’art. 3, L. 30 luglio 1998 n. 281, che per la prima volta aveva introdotto nell’ordinamento italiano un’inibitoria collettiva di carattere generalizzato a tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti. Il Codice del Consumo recepisce la previsione dell’art. 3, così come modificata successivamente alla sua introduzione al fine di coordinarne la disciplina con quella prevista dalla direttiva 98/27/CE, e tenta anche di risolvere alcuni problemi di coordinamento con le precedenti norme sull’inibitoria collettiva (art. 1469-sexies c.c. e art. 7, D.lgs. 74/92), a loro volta assorbite nel nuovo corpo normativo.
120
La norma, che segue nella sostanza il solco tracciato dalle disposizioni previgenti in
tema di tutela inibitoria dei consumatori, presenta alcune rilevanti novità di
carattere operativo.
Innanzitutto, viene effettuata una precisa scelta dal legislatore in ordine
all’autorità giudiziaria cui rivolgersi per l’attivazione delle tutele collettive previste,
individuata nel giudice ordinario, con la sola esclusione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo in materia di servizi pubblici ex art. 33 D.lgs.
80/98, come previsto al comma 11. L’art. 3 della L. 281/98, infatti, non individuava
preventivamente la giurisdizione, ma rimandava agli ordinari criteri di riparto la
soluzione del problema se la singola controversia dovesse essere proposta innanzi
al giudice ordinario o al giudice amministrativo.
Secondo poi, viene introdotta, quale condizione di proponibilità dell’azione, la cui
carenza è rilevabile, secondo la costante giurisprudenza, in ogni stato e grado del
giudizio, la preventiva richiesta di cessazione del comportamento lesivo, da
attuarsi mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. L’esercizio
dell’azione collettiva è subordinato al previo decorso del termine di quindici giorni
dalla richiesta di cessazione135.
Detta previsione rappresenta, con tutta evidenza, uno strumento deflattivo del
processo, mirando a facilitare la composizione stragiudiziale delle controversie136.
135
Ciò deve intendersi nel senso che, trattandosi di atto di natura recettizia, il termine di quindici giorni inizia a decorrere dal momento in cui il destinatario della comunicazione ne ha avuto conoscenza. 136
Vedi I. Pagni, Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di A. Barba, Napoli 1999, 157.
121
Inoltre, l’esternazione, da parte del soggetto che si assume leso, della necessità
che venga interrotto il comportamento lesivo, serve a rendere tale circostanza
attuale e inequivocabile.
È ovvio che la previa intimazione, pur nel silenzio della norma, non sia richiesta
qualora sussistano i “giusti motivi d’urgenza” per poter richiedere l’applicazione di
una misura inibitoria cautelare, da esperirsi, secondo il comma 8° della norma in
commento, ai sensi degli artt. 669-bis e ss del c.p.c. Il termine di quindici giorni,
prima del quale non può essere introdotto il giudizio, mal si concilia, infatti, con
l’esigenza di celerità che sottende all’esperimento della tutela inibitoria
preventiva.
Infine, l’art. 140 prevede la possibilità di giungere ad una definizione stragiudiziale
degli interessi in contrasto attraverso una procedura di conciliazione che riprende,
integrandola con alcune modifiche, quella prevista dall’art. 3 L. 281/98. Come
specificato dalla norma, la legittimazione ad avviare la procedura spetta a tutti i
soggetti pubblici e privati, italiani e stranieri, elencati nell’art. 139. Non può invece
essere attivata dal singolo consumatore o da altri enti, che siano privi dei requisiti
indicati nell’art. 139. La legittimazione attiva non spetta neppure alle associazioni
di professionisti, avendo il legislatore optato per una legittimazione esclusiva dei
soli enti esponenziali degli interessi dei consumatori. Il processo verbale di
conciliazione, sottoscritto dalle parti ed omologato dal giudice, costituisce titolo
per l’esecuzione forzata.
122
Sono tre le tipologia di provvedimenti che il giudice può adottare in forza dell’art.
140: (i) inibitori137; (ii) di correzione e/o eliminazione degli effetti dannosi delle
violazioni accertate; (iii) di pubblicazione del provvedimento su uno o più
quotidiani.
Per quanto attiene alla tutela inibitoria, questa può essere esperita sia contro i
comportamenti illeciti del professionista che si sostanziano nella predisposizione
di clausole contrattuali di contenuto vessatorio, non chiaro o, comunque, non
allineato rispetto ai contenuti legali predeterminati, sia per ottenere la cessazione
di condotte “extracontrattuali”138, che incidano sulla salute ovvero sulla sicurezza
collettiva dei consumatori. Nel primo caso l’inibitoria consisterà nell’ordine, rivolto
al predisponente, di cessare l’utilizzazione del regolamento contrattuale viziato o
non trasparente, ovvero in un’autorizzazione a proseguire la sua utilizzazione ,
previa rimozione della lacuna o della causa di opacità, con la possibilità di espressa
condanna all’adempimento futuro degli obblighi rimasti inadempiuti139. Nella
seconda ipotesi l’inibitoria consisterà in un ordine di cessazione della condotta
illecita o nella autorizzazione della sua prosecuzione previa adozioni degli
opportuni accorgimenti.
137
Nella vigenza dell’art. 3, L. 281/98, che l’art. 140 riproduce pressoché pedissequamente, si era ritenuto che l’inibitoria potesse consistere tanto nell’imposizione di un obbligo di fare, n caso di condotta illecita omissiva, quanto in un obbligo di non fare, a fronte di un illecito commissivo. Relativamente all’inibitoria prevista nel Codice nel Consumo, non si rinvengono ragioni per discostarsi dalle considerazioni sulla disciplina previgente. 138
«Richiamando sia gli atti che i comportamenti il legislatore, il legislatore ha esteso l’ombrello della tutela sino ad abbracciare qualsiasi attività, sia essa di natura prettamente materiale ovvero negoziale, che si ponga concretamente in contrasto con gli interessi collettivi» (G. Chinè, Class action e tutela collettiva dei consumatori, Roma 2008, 91). 139
I. Pagni, op. cit., 148.
123
Si è affermato in dottrina140 che l’inibitoria ordinaria prevista dall’art. 140 del
Codice del Consumo sarebbe esperibile solo nei confronti di illeciti già verificatesi
o in atto, atteso che l’azione può essere proposta solo quando siano decorsi dieci
giorni dalla ricezione della raccomandata con cui si chiede la cessazione del
comportamento lesivo.
In effetti, la previsione della preventiva richiesta di cessazione quale condizione di
proponibilità dell’azione inibitoria non sembrerebbe lasciare molto spazio
all’interpretazione. È anche vero, però, che la necessità di inibire un
comportamento illecito non ancora in atto ma di probabile esecuzione, in assenza
dei “giusti motivi d’urgenza”, non troverebbe adeguata tutela nella norma, stante
l’impossibilità contemporanea di ricondurre la fattispecie alle previsioni di cui ai
commi primo (non essendovi un illecito in atto) ed ottavo (difettando il requisito
del periculum). Tale posizione va tuttavia precisata, ricordando che una condotta
può dirsi lesiva degli interessi collettivi dei consumatori, e dunque illecita, anche
quando essa - in assenza di lesione materiale - violi una norma di legge posta
nell’interesse della collettività dei consumatori o metta semplicemente in pericolo
la sicurezza della generalità dei consumatori141. Dunque, nel caso di
comportamento lesivo di probabile esecuzione, gli atti preparatori dovranno avere
un’idoneità lesiva tale da integrare, di per sé stessi, la lesione di una fattispecie
normativa.
Un’ultima considerazione deve essere fatta con riferimento alla astreinte prevista
al settimo comma dell’art. 140. In primo luogo si deve evidenziare come il
140
I. Pagni, op. cit., 146. 141
Vedi Trib. Torino, 17 maggio 2002, in Foro It., 2002, I, 2899.
124
legislatore abbia deciso, a differenza di altre fattispecie142, di destinare le somme
rinvenienti dall’applicazione della misura compulsoria all’Erario e, più
precisamente «al fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale di
base dello stato di previsione del Ministero delle attività produttive, per finanziare
iniziative a vantaggio dei consumatori». In quest’ottica, l’angolo visuale adottato
dal legislatore sembra spostarsi dalla misura compulsoria vera e propria ad
un’ipotesi di sanzione, comminata per la violazione di un ordine giudiziale.
Non opportuna appare, a parere di chi scrive, anche la determinazione dei limiti
edittali della astreinte. Ciò in quanto, per poter avere la maggior efficacia
possibile, l’astreinte deve essere modellata dal giudice a seconda della specificità
del caso concreto. Limitare i minimi, ma soprattutto i massimi, della misura
applicabile dal giudice potrebbe comportare il rischio che, laddove convenuta sia
un’impresa di grandi dimensioni (ipotesi non infrequente e facilmente
ipotizzabile), questa possa trovare economicamente più vantaggioso
corrispondere la sanzione e violare l’ordine di cessazione (per la verità, di
ammontare alquanto ridotto) piuttosto che darvi esecuzione. L’astreinte
costituirebbe per l’impresa convenuta, in questo caso, un mero costo d’esercizio,
ampiamente ripagato dai vantaggi derivanti dall’inserzione di clausole viziate o dai
comportamenti illeciti posti in essere.
142
Vedi il neo introdotto art. 614 bis c.p.c.
125
3.2. L’ART. 140 BIS CDC. LA CLASS ACTION.
Nell’ambito del Codice del Consumo l’art. 140 bis, non presente nella stesura
originale in quanto introdotto dall'articolo 2, comma 446, Legge 24 dicembre
2007, n. 244 (Legge Finanziaria 2008), rappresenta sicuramente la previsione di
maggior interesse o, comunque, quella che ha suscitato maggiori fermenti143.
In realtà, ai fini del presente lavoro, l’analisi della class action italiana rappresenta
una piccola deviazione rispetto al tema affrontato, dal momento che la novella al
Codice mette a disposizione delle associazioni dei consumatori e degli utenti uno
strumento non inibitorio, già previsto all’art. 140, bensì di natura risarcitoria e
restitutoria. La ratio integrativa della tutela del consumatore, comunque, ne
impone un breve esame, ancorché superficiale.
Il testo dell’art. 140 bis è il seguente: «Le associazioni di cui al comma 1
dell'articolo 139 e gli altri soggetti di cui al comma 2 del presente articolo sono
legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti
richiedendo al tribunale del luogo in cui ha sede l'impresa l'accertamento del
143
Sono numerosi gli interventi in dottrina volti a dare una prima interpretazione alla class action nostrana. Tra questi citiamo solo alcuni: AA.VV., Le azioni collettive in Italia, profili teorici ed aspetti applicativi, in Il diritto privato oggi (a cura di Claudio Belli), Giuffrè 2007; A. Briguglio, Venti domande e venti risposte sulla nuova azione collettiva risarcitoria, articolo disponibile su www.judicium.it, 5.03.2008; C. Consolo, Class actions fuori dagli USA? (un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima), in Rivista di diritto civile, 1993; G. Costantino, La tutela collettiva risarcitoria. Note a prima lettura dell’articolo 140 bis del codice del consumo, in Foro It. 1/08; R. Lener, L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano del mercato finanziario, in Giur. Comm., 2005; M. Rescigno, L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano - Profili generali, in Giur. Comm., 2005; P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giurisprudenza italiana, 2000. Non sono mancati, poi, interventi assai critici nei confronti della novella disciplina. È appena il caso di ricordare l’intervento di Guido Alpa (Il Sole 24 Ore, rassegna stampa del 17.11.2007) il quale, a caldo, ha affermato che «la normativa per la tutela degli interessi collettivi approvata ieri al Senato - in un contesto improprio qual è la Finanziaria - è un mostro giuridico che, se lo si vuole mantenere in vita, deve essere completamente riscritto, pena lo scardinamento del sistema processuale vigente e l’accelerazione della crisi della macchina della giustizia».
126
diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli
consumatori o utenti nell'ambito di rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai
sensi dell'articolo 1342 del codice civile, ovvero in conseguenza di atti illeciti
extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti
anticoncorrenziali, quando sono lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di
utenti.
Sono legittimati ad agire ai sensi del comma 1 anche associazioni e comitati che
sono adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere. I
consumatori o utenti che intendono avvalersi della tutela prevista dal presente
articolo devono comunicare per iscritto al proponente la propria adesione
all'azione collettiva. L'adesione può essere comunicata, anche nel giudizio di
appello, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni. Nel giudizio promosso ai
sensi del comma 1 è sempre ammesso l'intervento dei singoli consumatori o utenti
per proporre domande aventi il medesimo oggetto. L'esercizio dell'azione collettiva
di cui al comma 1 o, se successiva, l'adesione all'azione collettiva, produce gli
effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell'articolo 2945 del codice civile.
Alla prima udienza il tribunale, sentite le parti, e assunte quando occorre sommarie
informazioni, pronuncia sull'ammissibilità della domanda, con ordinanza
reclamabile davanti alla corte di appello, che pronuncia in camera di consiglio. La
domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando
sussiste un conflitto di interessi, ovvero quando il giudice non ravvisa l'esistenza di
un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo.
Il giudice può differire la pronuncia sull'ammissibilità della domanda quando sul
127
medesimo oggetto è in corso un'istruttoria davanti ad un'autorità indipendente. Se
ritiene ammissibile la domanda il giudice dispone, a cura di chi ha proposto l'azione
collettiva, che venga data idonea pubblicità dei contenuti dell'azione proposta e dà
i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio.
Se accoglie la domanda, il giudice determina i criteri in base ai quali liquidare la
somma da corrispondere o da restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno
aderito all'azione collettiva o che sono intervenuti nel giudizio. Se possibile allo
stato degli atti, il giudice determina la somma minima da corrispondere a ciascun
consumatore o utente. Nei sessanta giorni successivi alla notificazione della
sentenza, l'impresa propone il pagamento di una somma, con atto sottoscritto,
comunicato a ciascun avente diritto e depositato in cancelleria. La proposta in
qualsiasi forma accettata dal consumatore o utente costituisce titolo esecutivo.
La sentenza che definisce il giudizio promosso ai sensi del comma 1 fa stato anche
nei confronti dei consumatori e utenti che hanno aderito all'azione collettiva. È
fatta salva l'azione individuale dei consumatori o utenti che non aderiscono
all'azione collettiva, o non intervengono nel giudizio promosso ai sensi del comma
1.
Se l'impresa non comunica la proposta entro il termine di cui al comma 4 o non vi è
stata accettazione nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione della stessa,
il presidente del tribunale competente ai sensi del comma 1 costituisce un'unica
camera di conciliazione per la determinazione delle somme da corrispondere o da
restituire ai consumatori o utenti che hanno aderito all'azione collettiva o sono
intervenuti ai sensi del comma 2 e che ne fanno domanda. La camera di
128
conciliazione è composta da un avvocato indicato dai soggetti che hanno proposto
l'azione collettiva e da un avvocato indicato dall'impresa convenuta ed è
presieduta da un avvocato nominato dal presidente del tribunale tra gli iscritti
all'albo speciale per le giurisdizioni superiori. La camera di conciliazione quantifica,
con verbale sottoscritto dal presidente, i modi, i termini e l'ammontare da
corrispondere ai singoli consumatori o utenti. Il verbale di conciliazione costituisce
titolo esecutivo. In alternativa, su concorde richiesta del promotore dell'azione
collettiva e dell'impresa convenuta, il presidente del tribunale dispone che la
composizione non contenziosa abbia luogo presso uno degli organismi di
conciliazione di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e
successive modificazioni, operante presso il comune in cui ha sede il tribunale. Si
applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 39 e 40 del citato
decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni»144.
Il contenuto della norma è così sintetizzabile.
144
L’introduzione della class action nel nostro ordinamento è un classico esempio di riflesso degli input provenienti dall’Unione europea sulla legislazione nazionale. Erano più di quindici anni che l’Europa affermava la necessità di garantire tutela in forma collettiva ai diritti di cui sono titolari le vittime di fatti lesivi plurioffensivi. Le prese di posizione in questo senso sono numerosissime. L’intervento più recente (e forse di maggior efficacia) è rappresentato dal Green Paper on Consumer Collective Redress (Libro Verde sulla tutela collettiva dei diritti dei consumatori al riconoscimento e alle restituzioni), pubblicato dalla Commissione il 27 novembre 2008 e corredato dall’invito a partecipare al dibattito. L’assunto di fondo del Libro Verde è quello che la tutela risarcitoria in forma collettiva dei diritti individuali dei consumatori sia un bene da perseguire, anche al fine di migliorare il mercato. Il Libro Verde non si occupa del ruolo degli organismi statali, della tutela eventualmente ottenibile tramite le varie autorità garanti, dell’ausilio che i singoli potrebbero ricevere, sul piano risarcitorio, dalle iniziative di carattere penale. Si occupa, piuttosto, del diritto al risarcimento del danno patito dai consumatori, in situazioni genericamente definite di carattere transfrontaliero (cross border cases). Formalmente, la Commissione non riguarda il diritto interno degli stati membri, che limitazione sì istituzionale e dovuta, di valenza però solo formale, perché di fatto l’intento dell’Unione non è solo quello di promuovere la tutela transfrontaliera, ma per tale via stimolare anche quella dei singoli Stati, in molti casi assai più importante.
129
Per quanto attiene alla legittimazione ad agire, possono esperire la tutela
collettiva risarcitoria le associazioni dei consumatori e degli utenti, di cui all’art.
137, comma 1°, del Codice, nonché le associazioni e i comitati che sono
adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere. Mentre nel
primo caso, però, la legittimazione, sotto il profilo della rappresentatività, è
predeterminata dalla legge (per il tramite dell’iscrizione della associazione
nell’apposito elenco tenuto presso il Ministero delle Attività Produttive), nella
seconda ipotesi sarà il Collegio, investito della questione, a dover valutare, in via
preliminare la rappresentatività della associazione attrice.
L’adesione del singolo consumatore all’azione collettiva è stata immaginata dal
legislatore secondo il sistema dell’opt in. Gli effetti dell’azione, cioè, non si
riflettono automaticamente nella sfera giuridica del soggetto che si riconosce nella
categoria tutelata, ma è necessario che questi proponga formale adesione alla
class action (adesione che può essere effettuata anche in grado d’appello fino
all’udienza di precisazione delle conclusioni)145. Ciò a differenza di quanto accade
in altri ordinamenti (come quello belga) dove il consumatore, automaticamente
investito degli effetti dell’azione collettiva, per il solo fatto di appartenere alla
categoria rappresentata nell’azione, può svincolarsi esercitando l’opt out, ossia
una esplicita manifestazione di non adesione alla class action.
Atteso che l’adesione di tutti i soggetti, facenti parte la categoria lesa, presuppone
che questi vengano raggiunti dalla notizia dell’esistenza dell’azione, la norma
145
La previsione può apparire di estremo favore per il consumatore, ma non viene considerato che molto spesso i giudizi di appello constano di una sola udienza, essendo pressoché sempre preclusa la possibilità di svolgere attività istruttoria.
130
attribuisce al giudice il potere-dovere, una volta ritenuta ammissibile l’azione, di
ordinare che venga data idonea pubblicità dei contenuti dell’azione proposta146.
Singolare è, invece, il sistema di liquidazione delle somme a titolo di risarcimento
da parte del giudice. Questi, infatti, una volta accolta la domanda (an debeatur),
non stabilisce l’ammontare del risarcimento, se non la misura minima, dovuto a
ciascun aderente all’azione (quantum debeatur), ma fissa solamente i criteri in
base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli
consumatori. La determinazione dell’ammontare è lasciata all’iniziativa
dell’impresa soccombente la quale, nei sessanta giorni dalla notificazione della
sentenza, deve formulare una proposta di risarcimento. In caso di inattività
dell’impresa, il presidente del Tribunale costituisce una camera di conciliazione
che sopperisca alla mancanza della proposta risarcitoria o restitutoria147.
La finalità meramente risarcitoria della class action prevista dal Codice del
Consumo, come detto, può far apparire la sua analisi stridente con il tema del
presente lavoro. Più aderente alle problematiche dell’inibitoria sembra, invece, la
particolare azione collettiva introdotta dal D.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198
(Attuazione dell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per
l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici) nei
confronti della Pubblica Amministrazione.
146
È ipotizzabile, in questo caso, l’utilizzo di uno strumento pressoché inutilizzato nel nostro ordinamento e rappresentato dalla notificazione per pubblici proclami di cui all’art. 150 c.p.c. 147
Deve evidenziarsi che la formula di class action all’italiana, che risente inevitabilmente dell’esperienza americana, non contempla i c.d. punitive damages, che pur costituendo uno strumento di indubbia efficacia general preventiva, non sono allo stato compatibili con il nostro ordinamento, atteso che il risarcimento del danno, nel nostro sistema, ha la sola funzione di compensare la perdita subita e preclude al danneggiato di lucrare somme eccedenti il danno effettivamente subito. In altri termini, rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta.
131
La disciplina citata (promulgata in esecuzione della c.d. Legge Brunetta, dal nome
del Ministro per l'Innovazione nella Pubblica amministrazione) è entrata in vigore
il 15 gennaio 2010 ed è stata prospettata dal Governo quale strumento atto a
risolvere l’annoso problema dei disservizi nelle amministrazioni dello Stato148.
L’art. 1 del decreto delegato, infatti, prevede che «Al fine di ripristinare il corretto
svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di
interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e
consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente
decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi
pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla
violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali
obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente
entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla
violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di
standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici,
dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le
pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in
materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150,
coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la
trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 del
148
Come affermato dal Governo «Si tratta di un istituto che si affianca ma che differisce profondamente dalla class action recentemente entrata in vigore che modifica il Codice del consumo. Quest’ultima infatti riguarda le lesioni dei diritti di consumatori e utenti in ambito contrattuale e, per certi ambiti, extracontrattuale. Obiettivo, invece, della class action nei confronti della pubblica amministrazione è di indurre il soggetto pubblico o concessionario di servizi pubblici ad assumere comportamenti virtuosi nel suo ciclo di produzione» (http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/class_action_pa/index.html).
132
medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo
27 ottobre 2009, n. 150».
Scopo della norma è, dunque, quello di stimolare la Pubblica Amministrazione,
attraverso la funzione di “pungolo” dell’azione collettiva promossa dalle
associazioni rappresentative degli interessi di consumatori ed utenti149, al
ripristino dei corretti standard qualitativi del servizio reso.
La struttura procedurale adottata dal legislatore non differisce granché da quella
prevista dal Codice del Consumo anzi, si potrebbe affermare che, nei suoi tratti
essenziali, la ripercorre fedelmente, salvo alcuni aggiustamenti dovuti alla
peculiarità del soggetto pubblico.
Anche la class action nei confronti della P.A. prevede una fase prodromica in cui
l’interessato deve diffidare la P.A. a porre in essere gli interventi necessari alla
soddisfazione dell’interesse tutelato150. Il termine concesso per l’adempimento,
149
L’art. 1 in realtà non specifica se legittimate all’azione siano le associazioni di categoria, limitandosi ad affermare che tale legittimazione spetta ai «titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori». Con tale definizione, però, non sembra si possano individuare soluzioni diverse, quanto alla legittimazione attiva, dalle associazioni rappresentative degli interessi di consumatori ed utenti. 150
Art. 3: «Il ricorrente notifica preventivamente una diffida all'amministrazione o al concessionario ad effettuare, entro il termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati. La diffida è notificata all'organo di vertice dell'amministrazione o del concessionario, che assume senza ritardo le iniziative ritenute opportune, individua il settore in cui si è verificata la violazione, l'omissione o il mancato adempimento di cui all'articolo 1, comma 1, e cura che il dirigente competente provveda a rimuoverne le cause. Tutte le iniziative assunte sono comunicate all'autore della diffida. Le pubbliche amministrazioni determinano, per ciascun settore di propria competenza, il procedimento da seguire a seguito di una diffida notificata ai sensi del presente comma. L'amministrazione o il concessionario destinatari della diffida, se ritengono che la violazione, l'omissione o il mancato adempimento sono imputabili altresì ad altre amministrazioni o concessionari, invitano il privato a notificare la diffida anche a questi ultimi. Il ricorso è proponibile se, decorso il termine di cui al primo periodo del comma 1, l'amministrazione o il concessionario non ha provveduto, o ha provveduto in modo parziale, ad eliminare la situazione denunciata. Il ricorso può essere proposto entro il termine perentorio di un anno dalla scadenza del termine di cui al primo periodo del comma 1. Il ricorrente ha l'onere di comprovare la notifica della diffida di cui al comma 1 e la scadenza del termine assegnato per provvedere, nonché di dichiarare nel ricorso la persistenza, totale o parziale, della situazione denunciata.
133
però, a differenza di quanto previsto dall’art. 140 CdS, è di novanta giorni e non di
quindici, anche in considerazione della farraginosità dei procedimenti
amministrativi e, quindi, della particolare lentezza delle pubbliche
amministrazioni.
Sotto il profilo oggettivo, sembra che il legislatore abbia voluto limitare al massimo
il ricorso alla class action in esame, adottando quale filtro di proponibilità
dell’azione l’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dell’interesse
violato. Ciò in quanto vi è il rischio concreto che l’abuso che possa farsi di tale
strumento sortisca sull’amministrazione l’effetto opposto a quello sperato,
ingolfandola di procedimenti ed andando così a rallentare ulteriormente
l’espletamento della funzione pubblica.
Come è evidente, l’azione collettiva delineata dal legislatore per la Pubblica
Amministrazione ha ad oggetto non il danno prodotto dalla inefficienza
dell’amministrazione (tanto che il decreto non prevede alcuna forma di
risarcimento per il soggetto titolare dell’interesse leso, il quale, dunque, dovrà
rivolgersi nuovamente alla giustizia per veder ristorato il danno eventualmente
subìto), bensì la condotta omissiva dell’Amministrazione stessa che abbia
comportato la mancata soddisfazione di un interesse (legittimo) protetto.
In luogo della diffida di cui al comma 1, il ricorrente, se ne ricorrono i presupposti, può promuovere la risoluzione non giurisdizionale della controversia ai sensi dell'articolo 30 della legge 18 giugno 2009, n. 69; in tal caso, se non si raggiunge la conciliazione delle parti, il ricorso è proponibile entro un anno dall'esito di tali procedure»
134
Il provvedimento adottato dal giudice è tipicamente inibitorio151. Per la precisione,
si tratta di un’inibitoria positiva, atteso che è il non facere dell’amministrazione cui
il giudice deve porre rimedio, e ciò attraverso l’imposizione di una determinata
condotta (per la cui realizzazione può farsi ricorso anche al giudizio di
ottemperanza) da porre in essere entro il termine che il giudice riterrà congruo.
Non sono previsti dalla norma in esame strumenti di compulsione indiretta,
contemplati invece nella disciplina del Codice del Consumo. La scelta del
legislatore ha origine dalla legge di delega (l. 15/2009), laddove all’art 4, nel
conferire al Governo la delega per «consentire a ogni interessato di agire in
giudizio nei confronti delle amministrazioni, nonché dei concessionari di servizi
pubblici», si prevede che «Dall’attuazione delle disposizioni contenute nel presente
articolo […] non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».
Pertanto, la previsione di una sanzione a fronte dell’inottemperanza, da parte
dell’amministrazione soccombente, dell’ordine del giudice, non sarebbe stata
compatibile con una riforma “a costo zero”.
151
L’art. 4 del decreto prevede che «Il giudice accoglie la domanda se accerta la violazione, l'omissione o l'inadempimento di cui all'articolo 1, comma 1, ordinando alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica […] L'amministrazione individua i soggetti che hanno concorso a cagionare le situazioni di cui all'articolo 1, comma 1, e adotta i conseguenti provvedimenti di propria competenza». Ai sensi del successivo art. 5, invece, «Nei casi di perdurante inottemperanza di una pubblica amministrazione si applicano le disposizioni di cui all'articolo 27, comma 1, n. 4, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054» (giudizio di ottemperanza).
135
4. LA TUTELA INIBITORIA IN EUROPA
Dopo aver analizzato le diverse sfaccettature della tutela inibitoria nel nostro
ordinamento, è doveroso allargare gli orizzonti all’ambito europeo, sia con
riferimento a previsioni simili in altri ordinamenti, sia alle ipotesi di inibitoria
contemplate dal diritto dell’Unione Europea.
Negli ordinamenti dei paesi membri, al pari di quanto abbiamo visto in Italia, non
si rinvengono disposizioni che definiscano l’azione inibitoria il cui concetto,
pertanto, non sempre è univoco, risultando questo piuttosto dall’elaborazione
dottrinale e giurisprudenziale.
In ogni caso, se diamo per pacifico che l’inibitoria è l’azione che può esperire il
soggetto titolare di un interesse protetto, finalizzata a far sì che una lesione in atto
cessi o che una lesione temuta non si realizzi, allora possiamo individuare gli
equivalenti dell’inibitoria nella action en cessation del diritto francese, nel
Unterlassungsklage del diritto tedesco, nella Verbodsactie del diritto olandese e
nella injunction del diritto inglese152, ovviamente tralasciando quelle ipotesi di
inibitoria che sono derivazione diretta dell’attività normativa dell’Unione Europea
152
Nell’ambito degli ordinamenti appartenenti alla famiglia romano-ermanica la prima azione, comune a tutti, per far cessare un comportamento illecito è la romana actio negatoria, che però tutelava solo contro molestie e violazioni alla proprietà terriera (proprietà, servitù, possesso). È solo con l’inizio del 1800 che si comincia ad avviare il discorso di una tutela preventiva contro le minacce di pregiudizio anche ai beni immateriali (brevetti, marchi, diritti d’autore); ed è verso il 1830 che, realizzatasi man mano la libertà di industria e commercio, si è reso necessario tutelare l’imprenditore contro pratiche sleali che ne pregiudicavano l’attività. Alla metà del secolo emerge in Francia il concetto di concurrence dèloyale ed i giudici trattano le pratiche sleali come atti illeciti ai sensi dell’art. 1382 Code Nap. e la relativa azione risarcitoria assume anche i contenuti di un’inibizione degli atti lesivi futuri. I giudici tedeschi (ancora non c’è il BGB, che verrà nel 1896) non raccolgono l’invito di Kohler a seguire l’esempio dei colleghi francesi e considerare le pratiche sleali nel commercio come atti illeciti, sicché si è dovuto attendere fino alla fine del secolo (legge sulla concorrenza sleale del 1896) per avere un’inibitoria in questo campo.
136
e che, pertanto, possono rinvenirsi (anche se con gli aggiustamenti necessari
all’adattamento nei singoli ordinamenti) nelle legislazioni di tutti i paesi membri.
Ciò che si può anticipare è che l’azione inibitoria è ammessa in tutti i Paesi dell’UE.
Le differenziazioni sono dovute alla collocazione della norma cui l’inibitoria fa
riferimento, lo sviluppo storico e dogmatico, le condizioni di applicabilità, il
rapporto tra la fase provvisoria e quella definitiva del rimedio, le tecniche per
curarne la realizzazione coattiva.
Quanto al primo punto, mentre gli ordinamento della famiglia romano-germanica
hanno bisogno di una norma legale, quelli appartenenti alla famiglia della common
law la ritrovano nell’esistenza stessa dell’equity.
Tutto considerato, le divergenze dogmatiche che ancora sussistono non
impediscono di registrare delle generali consonanze pratiche. L’inibitoria si
presenta ovunque come un rimedio nato nel campo del diritto civile, ma
sviluppatosi poi in modo prorompente nel campo del diritto commerciale e
industriale, dove è noto che le violazioni sono di natura tale che ben difficilmente
una loro adeguata sanzione può poggiare sull’azione risarcitoria. Di grande
impatto è anche l’applicazione della tutela inibitoria ai “nuovi diritti”, quali il
diritto alla riservatezza, i diritti dei consumatori (nella forma delle azioni
collettive), il diritto all’ambiente.
137
4.1. FRANCIA
L’origine della tutela inibitoria in Francia è dovuta all’opera della giurisprudenza.
La jurisprudence prètorienne, constatata l’inidoneità della action nègatoire a
costituire il fondamento dell’inibitoria, in quanto ritenuta insuscettibile di
applicarsi al di là della difesa della proprietà fondiaria, ha individuato tale
fondamento nell’art. 1382 («Tout fait quelconque de l'homme, qui cause à autrui
un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer»), norma
molto più duttile e verso la quale i giudici hanno assunto un atteggiamento di
estrema flessibilità.
All’inizio si ritenne che l’art 1382 Cod. Nap. non proibisse al giudice l’emanazione
di un provvedimento risarcitorio che avesse contenuto tale da condurre ad una
restitutio in natura che impedisse pregiudizi futuri, appoggiandosi
processualmente al pouvoir de donner des ordres dell’art. 1036 c.p.c.
Le difficoltà incontrate dai giudici nell’utilizzare l’art. 1382 c.c. quale grimaldello
per introdurre la tutela inibitoria consistettero in ciò che la fattispecie richiede il
danno (dommage) e la colpa (faute). Per il primo si è inventato il concetto di
prèjudice futur, per cui «dès l’instant où il y a certitude que le dommage se
rèalisera, le demandeur peut en obtenir la rèparation comme s’il l’avait dèjà subi»;
si è equiparata, dunque, la certezza del verificarsi del pregiudizio alla sua
realizzazione153.
153
AA.VV., Traitè thèorique et pratique de la responsabilitè civile dèlictuelle et contractuelle, III, 6a ed., Paris 1978, 2079.
138
L’elemento della faute, invece, nonostante i tentativi di vederlo realizzato in ogni
“cosciente violazione di una norma”, ha presentato maggiori resistenze. Ciò ha
indotto il legislatore a prevedere esplicitamente l’action en cessation con
formulazione sempre più ampie: l’art. 2 della loi des finance del 1963; art. 2 l. n.
64/1960 del 1964 in tema di marchi; art. 2. Comma 2°, Cod. Nap. sulla tutela della
vita privata. Numerose sono poi le previsioni di ordres de cessation nell’ambito
della tutela della concorrenza, così come frequentissime sono le actions en
cessation nel campo della concorrenza sleale, dei segni distintivi e per il rispetto
dei patti di non concorrenza (senza dimenticare la interdiction provisoire prevista
dal Code de la proprietè intellectuelle in vigore dal 9.2.1994).
4.2. OLANDA
Il nuovo codice civile olandese (Nieuw Burgelijk Wetboek - NBW), entrato in vigore
il primo gennaio 1992, prevede in via generale l’azione inibitoria per tutti gli atti
illeciti.
La nascita dell’istituto in Olanda ha, però, origini ben più risalenti, atteso che già
nel 1914 la giurisprudenza aveva dichiarato che chiunque riceve un pregiudizio da
un comportamento illecito ha diritto di pretendere la cessazione dello stesso. La
regola, estratta dall’art. 1401 senza troppi travagli dogmatici, è di applicazione
generale, anche se, ovviamente, di particolare importanza nel campo delle
pratiche concorrenziali ed ha avuto ingresso nel codice civile con l’art. 1416, 1°
comma, introdotto nel 1980 con la legge sulla pubblicità ingannevole.
139
In tema di difesa della proprietà è espressamente prevista una tutela inibitoria,
che si affianca a quella risarcitoria e di accertamento negativo, dall’art. 302 libro
terzo154.
4.3. GERMANIA
Fra gli ordinamenti dell’Europa continentale è quello tedesco che ha più elaborato
la nozione di inibitoria facendone un indiscusso istituto di portata genarale.
L’Unterlassungsklage trova la sua fonte primigenia nel § 1004 (actio negatoria a
tutela del proprietario): di lì si sviluppa per propagazione sistematica in tutto il
campo dei diritti reali ed oltre: servitù prediali e personali, immissioni, usufrutto,
superficie, abitazione etc.
A dire il vero ci fu un tentativo risalente (RG, 11.4.1901, in RGZ, 48, 114) di dedurre
la generalità dell’Unterlassungsklage dalla norma generale dell’illecito civile, ma
non ebbe successo, per l’incompatibilità della funzione del rimedio con i requisiti
del danno e della colpevolezza. All’inevitabile domanda perché i giudici tedeschi
abbiano preferito servirsi del § 1004 anziché del § 823 per costruire una teoria
generale dell’ Unterlassungsklage, si risponde che la norma tedesca sulla
responsabilità delittuale è molto più precisa di quella francese nel richiedere la
colpa (Verschulden), la cui presenza non è richiesta invece dal § 1004. Ne consegue
che, trasportata in altri campi, ha assunto la denominazione di azione quasi
negatoria, con l’intento di marcarne l’identità di presupposti con quella del § 1004.
154
H.J Snijders-E.B. Rank-Berenschot, Goederenrecht, Kluwer 2001, 131.
140
Molto importante è infine il ruolo che l’inibitoria gioca nel campo delle regole
antitrust.
La chiave di volta dell’allargamento oltre i confini delle previsioni tipiche, la
giurisprudenza l’ha rinvenuta nella funzione della tutela preventiva, che ben si
addice alla violazione di tutti gli obblighi di comportamento, a prescindere dalla
natura del bene minacciato. È così che dai diritti assoluti del § 823, Abs. 1, BGB
(vita, corpo, salute, libertà, proprietà), si è passati al § 823, Abs. 2, che offre
protezione contro la violazione di una norma che abbia per scopo la tutela di
interessi altrui. Godono, pertanto, oggi dell’ Unterlassungsklage i beni del § 824
(reputazione economica, aspettativa di guadagno etc.), il diritto all’esercizio di
un’impresa, i diritti della personalità, il diritto alla salute, il diritto all’ambiente etc.
4.4. GRAN BRETAGNA
Nei paesi di common law l’inadeguatezza del rimedio risarcitorio è stata avvertita
sin dal secolo XIV, che segna il nascere dell’injunction, un rimedio nato dall’equity
e che non ha mai più perso, nel corso dei secoli, quei caratteri di flessibilità e
discrezionalità che marcano ogni equitable remedy. I rimedi fino ad allora concessi,
oltre che ingabbiati dalle formule, si riducevano alla funzione riparatoria o
restitutoria lasciando scoperta la funzione di prevenzione (o cessazione)
dell’illecito per il futuro.
Intesa come an order of the court directing a person to do or refrain from doing a
particular act, l’injunction può avere un contenuto negativo (prohibitive) o positivo
141
(mandatory) e, in relazione al momento processuale nel quale viene concesso, si
distingue in final e preliminary; la prima concessa dopo che è intervenuta una
decisione giudiziale sul merito, la seconda concessa all’inizio o nel corso del
processo dopo un esame sommario delle ragioni delle parti.
Lo sviluppo storico dell’injunction è segnato da tappe abbastanza nette: a tutela
della proprietà terriera e dei diritti reali connessi la incontriamo già nel XIV
secolo155. Quanto alla proprietà industriale dobbiamo attendere il 1700 per
vederla applicata al diritto d’autore, e la metà del 1800 per i brevetti, marchi e
concorrenza sleale156, nonché per prevenire le interferences with contractual
relations, tutte ipotesi nelle quali l’equity interveniva per offrire tutela contro le
violazioni di diritti patrimoniali (property).
Dove l’equity ha lasciato l’impronta più peculiare è nell’estensione dell’injunction
alle obbligazioni contrattuali. A cominciare, infatti, dal caso Lumley v. Wagner
(1852) gli obblighi di non facere che trovano la loro fonte in un contratto sono
perseguiti attraverso l’injunction. Oggi il rimedio è comune per prevenire illeciti
anche all’interno di formazioni associative e societarie. L’injunction è poi uno degli
strumenti più efficaci in mano alle autorità a ciò preposte per combattere la
violazione contro le restrizioni della concorrenza.
155
A. Frignani, L’injunction cit., 71. 156
A. Frignani, L’injunction cit., 94.
142
4.5. UNIONE EUROPEA
In ambito comunitario, inteso come normativa emanata dagli organi dell’Unione
Europea, sono molteplici le previsioni di tutela inibitoria. Senza alcuna pretesa di
esaustività, si possono elencare gli interventi più significativi del governo
dell’Unione in tema di azioni inibitorie che, come vedremo, per la maggior parte
gravitano attorno al tema consumeristico.
Proprio partendo dalla tutela del consumatore (tappa pressoché obbligata se si
considera la quantità e la pregnanza degli interventi in tale ambito), la direttiva
che per prima merita di essere menzionata è la Dir. 1993/13/CE, concernente le
clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.
Il secondo comma dell’art. 7 della citata direttiva prevede che «I mezzi di cui al
paragrafo 1 (le azioni a tutela del consumatore) comprendono disposizioni che
permettano a persone o organizzazioni […] di adire, a seconda del diritto
nazionale, le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi competenti affinché
[…] applichino mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di siffatte
clausole». Anche se in maniera embrionale (tecnica dovuta alla necessità di
costituire un minimo comune denominatore per le diverse culture giuridiche degli
stati membri), dunque, venivano poste le basi per l’introduzione di una tutela
inibitoria a presidio degli interessi dei consumatori.
Più specifica, in tema di tutela inibitoria dei consumatori, è la direttiva 1998/27/CE
(recepita con il D.lgs. 95/2000) che, oltre a dare definizione dell’azione e
dell’ambito operativo della stessa, focalizza l’attenzione sulle pratiche scorrette di
143
carattere transnazionale («considerando che le pratiche menzionate travalicano
spesso le frontiere tra gli Stati membri; che è quindi necessario e urgente
ravvicinare in una certa misura le disposizioni nazionali che consentono di far
cessare dette pratiche illecite a prescindere dal paese in cui la pratica illecita ha
prodotto effetti» - 6° considerando della direttiva).
In ambito diverso interviene la Direttiva 2000/31/CE (recepita con il D.lgs.
70/2003), c.d. “Direttiva sul commercio elettronico”. La Direttiva, che verte in
tema di informazioni scambiate nell’ambito del commercio elettronico, prevede al
45° considerando che «Le limitazioni alla responsabilità dei prestatori intermedi
previste nella presente direttiva lasciano impregiudicata la possibilità di azioni
inibitorie di altro tipo. Siffatte azioni inibitorie possono, in particolare, essere
ordinanze di organi giurisdizionali o autorità amministrative che obbligano a porre
fine a una violazione o impedirla, anche con la rimozione dell’informazione illecita
o la disabilitazione dell’accesso alla medesima».
L’anno successivo viene emanata la Direttiva 2001/29/CE (recepita con il D.lgs.
68/2003) in tema di tutela del diritto d’autore (che anticipa di qualche anno la più
nota Direttiva Enforcement). In tale contesto, il legislatore comunitario ha
considerato che «i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di chiedere un
provvedimento inibitorio contro un intermediario che consenta violazioni in rete da
parte di un terzo contro opere o altri materiali protetti» (59° Considerando).
Come detto, il disegno di protezione del diritto d’autore viene completato con la
Direttiva 2004/48/CE (Enforcement), recepita con il D.lgs. 140/2006, della quale
144
abbiamo già detto trattando dell’inibitoria nella concorrenza sleale e nel diritto
d’autore157.
Sempre in tema di consumatori, la Direttiva 2005/29/CE (recepita con il D.lgs.
145/2007), relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel
mercato interno, prevede, all’art. 11, che «Gli Stati membri assicurano che
esistano mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali al
fine di garantire l’osservanza delle disposizioni della presente direttiva
nell’interesse dei consumatori»; e nel fare ciò «gli Stati membri conferiscono
all’organo giurisdizionale o amministrativo il potere, qualora ritengano necessari
detti provvedimenti tenuto conto di tutti gli interessi in causa e, in particolare,
dell’interesse generale […] di far cessare le pratiche commerciali sleali o di
proporre le azioni giudiziarie appropriate per ingiungere la loro cessazione».
La Direttiva 2006/114/CE, in tema di pubblicità ingannevole e comparativa
(materia che, per la verità, non si discosta troppo dalla tutela del consumatore
intesa nel suo senso più ampio), prevede al 17° Considerando che «I tribunali o gli
organi amministrativi dovrebbero avere il potere di ordinare ed ottenere la
cessazione della pubblicità ingannevole ed illegittimamente comparativa. In certi
casi può essere opportuno vietare la pubblicità ingannevole ed illegittimamente
comparativa anche prima che essa sia stata portata a conoscenza del pubblico».
Nell’articolato della Direttiva, inoltre, il 3° comma dell’art. 5 dispone che «gli Stati
membri conferiscono alle autorità giudiziarie o amministrative il potere, qualora
ritengano che detti provvedimenti siano necessari, tenuto conto di tutti gli interessi
157
Per un’analisi della Direttiva si rimanda a L. Nivarra, L’Enforcement cit.
145
in causa e in particolare dell’interesse generale: a) di far sospendere la pubblicità
ingannevole o illegittimamente comparativa oppure di avviare le azioni giudiziarie
appropriate per fare ingiungere la sospensione di tale pubblicità».
Di recente, e sempre in tema di consumatori, il Parlamento europeo ed il Consiglio
hanno emanato la Direttiva 2009/22/CE, relativa a provvedimenti inibitori a tutela
degli interessi dei consumatori. Tale Direttiva rappresenta la maturazione del
percorso iniziato con la Direttiva 1993/13/CE e che nel tempo ha visto affinarsi e
moltiplicarsi gli strumenti a tutela del consumatore e, in particolar modo, lo
strumento inibitorio. In tale prospettiva, l’art. 2 della Direttiva (rubricato “azioni
inibitorie”) prevede molto chiaramente che «Gli Stati membri designano gli organi
giurisdizionali o le autorità amministrative competenti a deliberare su ricorsi o
azioni proposti dagli enti legittimati ai sensi dell’articolo 3, onde: a) ordinare con la
debita sollecitudine e, se del caso, con procedimento d’urgenza, la cessazione o
l’interdizione di qualsiasi violazione; b) disporre, se del caso, provvedimenti quali la
pubblicazione, integrale o parziale, della decisione, in una forma ritenuta consona
e/o la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa al fine di eliminare gli effetti
perduranti della violazione; c) nella misura in cui l’ordinamento giuridico dello
Stato membro interessato lo permetta, condannare la parte soccombente a
versare al Tesoro pubblico o ad altro beneficiario designato o previsto dalla
legislazione nazionale, in caso di mancata esecuzione della decisione entro il
termine fissato dagli organi giurisdizionali o dalle autorità amministrative, un
importo determinato per ciascun giorno di ritardo o qualsiasi altro importo
previsto dalla legislazione nazionale, al fine di garantire l’esecuzione delle
146
decisioni». Come è evidente, il legislatore comunitario ha inteso chiarire definizioni
e limiti della tutela inibitoria, disegnandola con la struttura e gli strumenti attuativi
che più volte abbiamo ritrovato nelle previsioni del nostro ordinamento: (i)
provvedimento di cessazione; (ii) pubblicazione del provvedimento; (iii) misura
compulsoria indiretta.
Da ultimo, ma solo in ordine temporale, merita un cenno la Direttiva 2009/24/CE
relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore.
Tale Direttiva, per quanto non preveda esplicitamente uno strumento inibitorio di
tutela del software, all’art. 7 (“Misure speciali di tutela”) demanda comunque al
legislatore nazionale il compito di stabilire le appropriate misure nei confronti del
soggetto che «ogni atto di messa in circolazione di una copia di un programma per
elaboratore da parte di chi sappia o abbia motivo di ritenere che si tratta di copia
illecita». La Direttiva è molto ampia nella formulazione della norma e, nonostante
ciò, è facile prevedere (o quantomeno lo si auspica) che il legislatore nazionale,
all’atto del recepimento, prevederà strumenti a contenuto inibitorio a tutela dei
titolari di diritti di sfruttamento sui programmi per elaboratore elettronico.
5. CONCLUSIONI
Le molteplici ipotesi di inibitoria presenti nel nostro ordinamento ed in quello
comunitario, applicabili ad una serie di ipotesi tipizzate che vanno dalla tutela del
nome alla protezione del consumatore, fanno sorgere la domanda su quale sia, e
147
debba essere nel prossimo futuro, la dimensione e la collocazione della tutela
inibitoria all’interno dello strumentario approntato dal legislatore.
La prevalenza, sino ad oggi indiscussa, del rimedio risarcitorio sulle altre forme di
protezione (restitutorie, in forma specifica, inibitorie etc.) fa ben comprendere
come l’azione inibitoria sia stata relegata ad ipotesi eccezionale di tutela,
secondaria e solamente eventuale rispetto al ristoro per equivalente.
Le fattispecie che prevedono espressamente la possibilità di ricorrere all’azione di
cessazione sono tutte collocate all’interno di discipline specifiche, il che rende
difficile un’applicazione analogica dello strumento al di fuori delle ipotesi previste.
Se a ciò si aggiunge la correlativa mancanza di una previsione generalizzata della
tutela inibitoria, ecco che si rendono più chiari e riconoscibili i limiti cui oggi è
soggetta tale tipo di azione.
Perché, allora, la dottrina dovrebbe prestare interesse all’azione inibitoria? Perché
si dovrebbe sentire la necessità di riconsiderare il ruolo dell’inibitoria nell’ambito
della tutela civile? La risposta è presto detta.
La richiesta di una tutela quale quella inibitoria, soprattutto dell’inibitoria
cautelare, accresce in maniera inversamente proporzionale rispetto alla delusione
nei confronti del sistema giudiziario e della sua cronica incapacità a dare pronta
soddisfazione alle richieste dei titolari degli interessi lesi. Le lungaggini del sistema
appaiono oggi sommamente inadeguate alla funzione che dovrebbe assolvere la
giustizia civile, che mal si presta a costituire una risposta efficace alle domande di
148
celerità che sono specchio della complessità dei rapporti sociali e, a maggior
ragione, di quelli commerciali.
In tale prospettiva, uno strumento che garantisca in tempi brevi quantomeno la
cessazione della condotta antigiuridica, indipendentemente dalle conseguenze sul
piano del ristoro per equivalente del danno subìto, difficilmente svincolabile
dall’ambito del giudizio ordinario di cognizione, appare l’unica soluzione utilmente
praticabile da coloro che intendono veder protetti i propri interessi. Ecco, dunque,
che la gerarchia degli strumenti di tutela, consolidatasi nel tempo, viene sovvertita
sulla base del criterio di utilità e l’inibitoria viene ad assumere un ruolo primario
nel novero delle tutele.
Ancor più efficace appare la tutela inibitoria azionata in via cautelare, sulla quale
però è opportuno svolgere alcune riflessioni.
Come abbiamo visto in quelle ipotesi che prevedono una protezione inibitoria a
fronte del solo “rischio” che si verifichi la lesione dell’interesse protetto,
l’anticipazione dell’operatività della tutela richiede un assoluto rigore nella
verificazione dei presupposti previsti dalla legge. Ciò in quanto è attuale e non
trascurabile il rischio che l’ampiezza dei presupposti, e la discrezionalità giudiziale
che essi implicano, conduca ad un’eccessiva compressione della libertà individuale
del soggetto la cui attività venga interdetta.
Tale è il motivo che, fino ad oggi, ha suggerito un approccio tipizzante all’inibitoria
ed ha impedito l’introduzione di una previsione generale dell’azione di cessazione.
149
L’anticipazione della soglia di accesso alla tutela si mostra, però, necessaria,
laddove si tratti di tutelare i c.d. “nuovi diritti”. La mancanza di una previsione che
regoli i conflitti inerenti i nuovi interessi, almeno quelli ritenuti meritevoli di tutela,
rende l’inibizione della condotta che ne mette a rischio il godimento la forma più
immediata ed appropriata di protezione.
Se è vero che la dottrina è scettica già sulla legittimità del ricorso al risarcimento
del danno come strumento di protezione di interessi nuovi, ancor più in
considerazione del fatto che tale tutela è ancorata ad un presupposto certo come
il danno ingiusto, è anche vero che non può negarsi protezione a diritti di nuovo
conio, anch’essi meritevoli di tutela, che però scontano il difetto di non trovare
nell’ordinamento, notoriamente lento nell’accogliere le nuove istanze,
un’adeguata protezione. La diffidenza che può nutrirsi nei confronti della tutela
inibitoria, in quanto strumento la cui operatività e spesso legata a presupposti ben
più labili del danno ingiusto (si pensi al rischio o al solo timore del della lesione),
appare a chi scrive comprensibile ma non del tutto giustificabile, soprattutto se
questa si risolve nella mera avversione alla discrezionalità del giudice.
Che il soggetto giudicante abbia una certa “libertà di manovra”, del resto, è non
solo inevitabile, se si considera che è l’opera del giudice a dover sopperire alle
mancanze dell’ordinamento - sempre che non sconfini nell’intollerabile mero
arbitrio sostitutivo della volontà del legislatore - ma elemento riscontrabile nella
quotidianità dei tribunali e, dunque, costituisce un parametro con cui l’interprete
si deve seriamente confrontare.
150
Se si parte da una presunzione di capacità del giudice (ahinoi, iuris tantum e non
iuris et de iure), dovrebbe corrispondentemente alleviarsi la preoccupazione circa
il rischio che si faccia di una tutela, quale quella inibitoria, un uso del tutto
arbitrario ed esorbitante rispetto ai limiti imposti dalle singole fattispecie.
Pur comprendendo come tale timore sia pressoché ineliminabile, dobbiamo
comunque ribadire la necessità che il nostro ordinamento preveda una tutela
sufficientemente “elastica”, in grado di essere applicata ad ipotesi che non
trovano riscontro positivo nella legge ma che sembrano pienamente meritevoli di
tutela. In tale ottica, l’azione inibitoria (ed intendiamo qui l’inibitoria che ha quale
presupposto il fondato timore o rischio di pregiudizio) potrebbe assurgere a
strumento principe, con le limitazioni e le cautele del caso, proprio per la sua
capacità di intervenire non già nel momento patologico del conflitto tra interessi,
quando il danno si è già realizzato e solo il risarcimento per equivalente può
ristorare il pregiudizio subìto, ma in un momento antecedente la stessa
realizzazione del danno, attraverso la cessazione della condotta che può darvi
luogo.
151
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