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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE Dipartimento di Diritto dell’Economia e Analisi Economica delle Istituzioni Scuola Dottorale “Tullio Ascarelli” Sezione di Dottorato di Ricerca in Diritto Privato per l’Europa XXII ciclo TESI DI DOTTORATO “LA TUTELA INIBITORIA” TUTOR COORDINATORE Chiar.mo Prof. Chiar.mo Prof. Renato Clarizia Giuseppe Grisi DOTTORANDO Amedeo Palumbo

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE

Dipartimento di Diritto dell’Economia e Analisi Economica

delle Istituzioni

Scuola Dottorale “Tullio Ascarelli”

Sezione di Dottorato di Ricerca in

Diritto Privato per l’Europa

XXII ciclo

TESI DI DOTTORATO

“LA TUTELA INIBITORIA”

TUTOR COORDINATORE

Chiar.mo Prof. Chiar.mo Prof.

Renato Clarizia Giuseppe Grisi

DOTTORANDO

Amedeo Palumbo

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A Marianna.

Oggi, domani, sempre.

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INDICE

INTRODUZIONE 5

1. LE IPOTESI TIPIZZATE DI TUTELA INIBITORIA. ALCUNI ESEMPI 9

1.1 LE IPOTESI DI INIBITORIA DEFINITIVA 10

1.1.1. DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E TUTELA DEL NOME 10

1.1.2. PROPRIETÀ, DIRITTI REALI E POSSESSO 15

1.1.3. PERICOLO AI BENI IPOTECATI 21

1.1.4. DIRITTO ALL’AMBIENTE SALUBRE 23

1.1.5. CONCORRENZA SLEALE 27

1.1.6. MARCHI E INVENZIONI 33

1.1.7. DIRITTO D’AUTORE 40

1.2. LE IPOTESI DI INIBITORIA PROVVISORIA 45

1.2.1. DENUNZIA DI NUOVA OPERA E DI DANNO TEMUTO 45

1.2.2. MARCHI E BREVETTI 50

1.2.3. RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI 53

1.2.4. L’ART. 700 C.P.C. 57

2. LA TUTELA INIBITORIA. PRIME RIFLESSIONI 60

2.1 CONDIZIONI E PRESUPPOSTI DELL’INIBITORIA 60

2.1.1 L’INIBITORIA FINALE 60

2.1.2. L’INIBITORIA PROVVISORIA 67

2.2. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’INIBITORIA 74

2.3. IL CONTENUTO DEL PROVVEDIMENTO INIBITORIO 80

2.4. L’ESECUZIONE FORZATA DELL’ORDINE INIBITORIO. L’ART. 614 BIS C.P.C. 82

3. LA TUTELA DEI CONSUMATORI E IL CODICE DEL CONSUMO 105

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3.1. L’INIBITORIA A TUTELA DEI CONSUMATORI 106

3.2. L’ART. 140 BIS CDC. LA CLASS ACTION. 125

4. LA TUTELA INIBITORIA IN EUROPA 135

4.1. FRANCIA 137

4.2. OLANDA 138

4.3. GERMANIA 139

4.4. GRAN BRETAGNA 140

4.5. UNIONE EUROPEA 142

5. CONCLUSIONI 146

BIBLIOGRAFIA 151

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INTRODUZIONE.

Ĭnhĭbĕo, es, ŭi, ĭitum, ēre. Frenare, trattenere, arrestare, impedire, fermare1. Lo

studio dello strumento inibitorio non può che iniziare dalle sue origini lessicali,

dall’etimo del verbo che è sintesi di habere e della particella negativa in2.

Il senso primo del termine «inibire» già rende chiara la funzione dello strumento,

la sua finalità di impedire un’azione (o un’omissione). Scopo dell’azione inibitoria

è, dunque, quello di arrestare un comportamento in atto o, quantomeno, di più

che probabile attuazione, sia esso di natura commissiva (laddove dovrà impedirsi

che il ripetersi di un comportamento già posto in essere possa ledere l’interesse

protetto) od omissiva (laddove è non già l’azione che vuole inibirsi, bensì la

inazione, nell’ipotesi in cui il suo compimento corrisponda ad un preciso dovere e

la sua omissione arrechi o possa arrecare un danno al titolare dell’interesse).

La tutela inibitoria non rappresenta sicuramente un elemento innovativo nel

panorama giuridico, atteso che già nel diritto romano possono individuarsi ipotesi

in cui il profilo inibitorio è integrato in actiones quali la operis novi nuntiatio, l’actio

aquae pluviae arcendae e l’actio negatoria in tema di tutela della proprietà3.

1 L. Castiglioni, S. Mariotti, Vocabolario della lingua latina, Loescher 1966.

2 O. Pianigiani, Vocabolario etimologico, Fratelli Melita Editori, 1990.

3 Così come accaduto nel nostro ordinamento, anche la giurisprudenza (presumibilmente)

preclassica aveva elaborato e strutturato lo strumento inibitorio sulla scorta della casistica inerente le immissioni. In particolare, era stato enucleato il principio per cui in tanto era lecito al proprietario fare nel suo fondo una cosa qualsiasi, in quanto non immettesse nulla nel fondo altrui («quatenus nihil in alienum immitat»: Alfeno in Ulp. D. 8,5,8,5). Il limite di accesso alla tutela - compresa, ovviamente, quella inibitoria - era individuato nella intollerabilità delle immissioni e nell’intenzione di molestare il vicino. Sempre in tema di immissioni, un regime particolare era previsto per le immissioni di acqua piovana, da cui derivò l’actio aquae pluvie arcendae. Questa azione poteva essere esperita dal proprietario che, a causa di un opus manu factum, aveva ragione

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A ben pensare, ogni fattispecie normativa - sia civile che penale - che imponga un

determinato comportamento o che stabilisca un divieto costituisce, di per sé, una

forma di inibizione, nel senso di impedire, attraverso la minaccia di una sanzione,

che il contegno vietato venga posto in essere o che l’azione necessaria venga

omessa.

Allora qual è la necessità di prevedere una tutela inibitoria, ulteriore e specifica

rispetto al precetto normativo?

La domanda non è certo particolarmente acuta né innovativa, però rappresenta il

necessario punto di partenza per chi intenda approfondire - come si tenterà di fare

con il presente elaborato - la funzione svolta nel nostro ordinamento da uno

strumento tanto particolare quanto specchio dei tempi - quale quello inibitorio -,

nella misura in cui la sua diffusione, strettamente correlata agli sviluppi sociali ed

alle modifiche apportate nel tempo al codice di procedura civile (soprattutto in

considerazione del riflesso che queste hanno avuto sul processo civile e, di contro,

della crescente necessità di addivenire in tempi brevi ad una soluzione della lite

che sia, se non definitiva nel senso processuale del termine, quantomeno

di temere un eccesso di acqua piovana sul suo fondo, ed era diretta nei confronti del proprietario del fondo limitrofo che avesse eseguito l’opera o che avesse acquistato il fondo sul quale l’opera già insisteva. Nel primo caso l’attore poteva chiedere la demolizione dell’opera, nel secondo caso che ne venisse tollerata, dal nuovo proprietario, la demolizione che effettuava a proprie spese. l’actio aquae pluvie arcendae rappresenta una particolare articolazione dell’operis novi nuntiatio che, al pari della denunzia di nuova opera di cui al nostro art. 1171 c.c., 2° comma («l’autorità giudiziaria, presa sommaria cognizione del fatto, può vietare la continuazione dell’opera, ovvero permetterla, ordinando le opportune cautele»), necessariamente doveva contemplare un profilo inibitorio, stante la peculiarità della fattispecie astratta. Infine, deve farsi un breve cenno all’actio negatoria (v. Ulp. D. 7,6,5,6), così definita dalla tradizione romanistica, un’actio in rem dai contorni del tutto analoghi all’azione prevista nel nostro ordinamento tra le azioni petitorie e con la quale il giudice, accertato il diritto preteso, invitava il convenuto a rimettere le cose nel pristino stato e, eventualmente, a promettere con stipulatio che non si sarebbe ingerito in quel modo nel bene.

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sufficiente a soddisfare le impellenti necessità che sottendono al suo utilizzo)

induce ad una rivalutazione dello strumento in chiave attuale e prospettica.

Un primo appunto, in chiave metodologica, deve farsi, come prima si accennava,

con riferimento all’aspetto lessicale4.

Data quale premessa necessaria quella per cui l’azione inibitoria nel nostro

ordinamento non gode di una disciplina generale che ne delinei, in astratto, i limiti

operativi e gli ambiti di applicazione (essendo la sua disciplina desumibile da un

coacervo di disposizioni, collocate negli ambiti disciplinari più disparati) deve

rilevarsi come talvolta, nelle innumerevoli previsioni del Codice civile e delle leggi

speciali, in cui può rinvenirsi una funzione esplicitamente o implicitamente

inibitoria, vengano usate espressioni quali «azione inibitoria», «inibitoria»,

«inibizione», «interdizione», «azione in cessazione» e così via. Esse indicano tutte

lo stesso fenomeno e possono, così, considerarsi intercambiabili5.

Al di là del dato prettamente testuale, però, nonostante previsioni frastagliate e

spesso apparentemente non collimanti, è possibile trarre una disciplina comune

dell’azione inibitoria, un minimo comune denominatore che permetta

4 Coglie con attenzione il problema A. Frignani, L'injunction nella common law e l'inibitoria nel

diritto italiano, Giuffrè 1974, 241. 5 Di diverso avviso F. Pesce, L'inibitoria nel processo per violazione del brevetto d'invenzione o di

marchio d'impresa, in Riv. Dir. Ind. 1966. Secondo l’A. «inibitoria» sarebbe linguaggio curiale e si dovrebbe usare «inibizione» per essere più vicini alla norma e… alla lingua italiana, in quanto è la legge stessa ad usare l’espressione «inibitoria» (cfr. Art. 83 l. invenzioni e art. 63 l. marchi). Inoltre «inibitoria» era originariamente aggettivo che veniva applicato al nome «azione» e perciò l’uso di esso come sostantivo ripete lo stesso fenomeno verificatosi con l’espressione «azione risarcitoria» e «risarcitoria». Si deve inoltre osservare che parte della dottrina di inizio ‘900 utilizzava il termine «azione negatoria» per indicare l’inibitoria a tutela delle privative industriali (così I. La Lumia, Lezioni di diritto industriale, Padova 1929; A. Ramella, Trattato della proprietà industriale, Torino 1927. Usano invece il termine inibitoria T. Ascarelli, Teoria della concorrenza, Milano 1955; G. Auletta, Azienda, in Commentario Scialoja-Branca, 1961.

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all’interprete di ricostruire l’istituto e di individuarne i requisiti ed il perimetro

applicativo.

Come accennato in precedenza, non è dato rinvenirsi nel nostro ordinamento una

disciplina generale dell’azione inibitoria. Non essendovi tale disciplina manca una

definizione essenziale e comune a tutte le ipotesi di tale tipo di tutela.

Tuttavia, nelle maglie di norme codicistiche e leggi speciali, è possibile comunque

riconoscere ad alcune definizioni, elaborate dal legislatore in ambiti specifici, la

capacità di fungere da definizione comune, ancorché non esaustiva.

In particolare, tale capacità può essere individuata nella definizione di tutela

inibitoria prevista all’art. 156 della L. 633/1941, in tema di diritto d’autore,

secondo cui «Chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di utilizzazione

economica […] oppure intende impedire la continuazione o la ripetizione di una

violazione già avvenuta sia da parte dell’autore della violazione che di un

intermediario i cui servizi sono utilizzati per tale violazione può agire in giudizio per

ottenere che il suo diritto sia accertato e sia vietato il proseguimento della

violazione».

Nella definizione appena citata si celano già gli elementi essenziali e strutturali

dell’azione inibitoria (come meglio avremo modo di precisare), nonché i principali

interrogativi che gravitano attorno ad uno strumento che, se da un lato garantisce

una protezione pressoché immediata (ancorché, nella maggior parte dei casi, non

definitiva) all’interesse la cui lesione si lamenta, dall’altro pone rilevanti questioni

in ordine alla necessità di trovare un momento di sintesi tra compressione del

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diritto di agire del soggetto che si assume danneggiante e tutela dell’interesse

protetto; tra arbitrio del giudice nel modulare il provvedimento al caso concreto

(con conseguente rischio di abuso) ed esigenza di trovare nell’ordinamento una

disciplina dettagliata che possa disinnescare tale arbitrio.

1. LE IPOTESI TIPIZZATE DI TUTELA INIBITORIA. ALCUNI ESEMPI.

Come accennato nell’introduzione, esistono nel nostro ordinamento una

molteplicità di fattispecie tipizzate che prevedono la possibilità, per il soggetto

titolare dell’interesse leso, di ottenere una tutela immediata consistente

nell’ordine, da parte del giudice, di interrompere il comportamento lesivo in atto o

nel divieto specifico di porre in essere una condotta il cui compimento appare

quantomeno probabile6.

La seguente elencazione, lungi da pretese di esaustività, ha il fine di rendere più

evidente al lettore la disorganicità della disciplina della tutela inibitoria e di

evidenziare la summa divisio tra inibitoria provvisoria ed inibitoria definitiva, di cui

si tratterà più diffusamente in seguito.

È bene qui ribadire la chiave di lettura enucleata nelle premesse. Non si lasci

ingannare il lettore dalla terminologia utilizzata dal legislatore nella costruzione

delle diverse fattispecie. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di concetti

perfettamente sovrapponibili o, comunque, la cui distinzione ha scarso rilievo

6 “L’inibitoria che noi studiamo è una sentenza di condanna, mirante a far cessare un’attività o uno

stato lesivo del diritto altrui, o a inibire la continuazione o anche solo la commissione di tali atti” (A. Frignani, op. cit., 242. cfr. anche F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, § 114).

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pratico. Tale disomogeneità è dettata dall’assenza di un disegno unitario del

rimedio inibitorio e dalla necessità di adattare anche la forma lessicale alla

particolarità del caso disciplinato.

1.1. LE IPOTESI DI INIBITORIA DEFINITIVA.

1.1.1. DIRITTI DELLA PERSONALITÀ E TUTELA DEL NOME.

Il Codice Civile contempla, nel suo articolato, diverse ipotesi di tutela inibitoria.

Quella relativa alla tutela dei diritti della personalità è rinvenibile nei primissimi

articoli del Codice, laddove si prevede, all’art. 7, che “la persona alla quale si

contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso

che altri indebitamente ne faccia, può chiedere giudizialmente la cessazione del

fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni. L’autorità giudiziaria può ordinare che

la sentenza sia pubblicata in uno o più giornali”. La medesima azione di

“cessazione” è esperibile anche nelle ipotesi previste ai successivi artt. 8 (tutela

del nome per ragioni familiari) e 9 (tutela dello pseudonimo). L’art. 10 c.c. (abuso

dell’immagine altrui) prevede invece che “qualora l’immagine di una persona o dei

genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui

l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con un pregiudizio

al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità

giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il

risarcimento dei danni”.

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Le fattispecie riportate, seppur afferenti ad ipotesi diverse, prevedono entrambe

una tutela inibitoria (di cessazione) accanto ad una tutela di carattere risarcitorio,

per cui sembra corretto trattarne congiuntamente. Inoltre, dette disposizioni

rappresentano in nuce quella che poi si è sviluppata come tutela della riservatezza,

tutela dell’onore e via dicendo, diritti la cui configurazione ha occupato per molti

anni il dibattito dottrinario7.

È importante rilevare come il risarcimento del danno e la tutela inibitoria siano

configurate quali strumenti distinti e tra loro autonomi e che, anzi, la tutela

risarcitoria abbia un’importanza minore che altrove, in considerazione del fatto

che il risarcimento del danno è strumento attivabile solo laddove il danno si sia già

verificato e che, nel determinare il quantum risarcibile, si deve far riferimento a

pregiudizi quali, come è evidente nelle fattispecie de quibus, il danno morale, la cui

risarcibilità sconta la difficoltà di individuare criteri precisi di determinazione e

che, nella prassi processuale, richiede uno sforzo probatorio superiore alla prova

del danno patrimoniale. Ciò fa emergere l’importanza delle azioni inibitorie, che

offrono una tutela preventiva non solo del danno ma dell’illecito stesso8.

7 La dottrina più risalente discuteva della unitarietà concettuale o pluralità dei diritti della

personalità. In particolare, propendeva per la prima ipotesi F. Carnelutti, Diritto alla vita privata, in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 1955, 6 ss. Sosteneva invece la pluralità A. De Cupis, I diritti della personalità, Milano 1959, 34 ss. Il dibattito sembra riflettere quello sviluppatosi attorno all’unitarietà o alla autonomia concettuale delle ipotesi di danno non patrimoniale, dibattito che ha trovato soluzione definitiva nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 26972 dell’11 novembre 2008, la cui articolazione argomentativa ben può applicarsi al dibattito inerente i diritti della personalità di cui, peraltro, il risarcimento del danno non patrimoniale, come dimostrano gli artt. 7 e ss c.c., rappresenta uno degli strumenti di tutela. 8 Parla di “strutturale inadeguatezza della tutela risarcitoria ad offrire una tutela giurisdizionale

effettiva al diritto all’identità personale” G. Cassano, Il risarcimento del danno da lesione dell'identità personale, in Riv. Inf e informatica, 1999.

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In relazione al diritto al nome si distingue comunemente tra azione di reclamo di

nome ed azione di usurpazione di nome9.

Quanto alla prima, il fatto lesivo altrui, che giustifica il ricorso alla tutela prevista

all’art. 7, può consistere nel rifiuto di attribuzione del nome nei rapporti sociali.

Invece nella seconda l’illecito consiste nell’attribuire a sé stesso e nel fare uso di

un nome altrui10.

Appare evidente che l’azione di reclamo e quella di usurpazione di nome

richiedono presupposti differenti per l’accesso alla tutela inibitoria. Nel primo

caso, infatti, la sola contestazione dell’uso del nome rappresenta il fatto illecito.

L’azione di reclamo di nome, dunque, laddove si accerti l’esistenza del diritto e la

sua violazione, conduce alla pronuncia di cessazione del comportamento illecito.

Per la pronuncia di inibitoria sarà sufficiente la prova dell’illecito, consistente nella

contestazione del diritto all’uso del proprio nome, potendosi prescindere da

qualunque valutazione della colpevolezza dell’autore dell’illecito e del danno

cagionato.

Lo stesso non può dirsi, invece, con riferimento all’azione di usurpazione in quanto

la legge non proibisce l’uso o l’appropriazione del nome di un altro, ma l’illecito

9 Una parte della dottrina, avallata dalla giurisprudenza, estende il novero delle azioni a tre: azione

di reclamo di nome; azione di usurpazione (che implica l’appropriazione del nome altrui); azione di proibizione o di inibizione (dove non c’è appropriazione) (vedi Liguori, Commentario del Codice civile, UTET 1966, 146 ss; Cass. Civ. 7.10.1961 n. 2049). 10

A. Frignani, op cit., 246.

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viene ad esistenza solo quando e nella misura in cui tale uso sia indebito ed arrechi

pregiudizio al titolare del diritto al nome11.

In entrambi i casi la struttura dell’azione inibitoria non muta, indipendentemente

dalla necessità di procedere o meno all’individuazione del pregiudizio, a seconda

del tipo di azione esperibile.

In conclusione, sembra potersi affermare che, nonostante la diversità dei

presupposti dell’illecito, il cui compimento o continuazione l’inibitoria deve far

cessare, questa si presenta con caratteri unitari. In altri termini, contro l’illegittimo

uso che venga fatto del nome altrui, il Codice civile predispone una duplice tutela:

(i) la condanna alla cessazione dell’abuso, per la quale è sufficiente la prova

dell’illecito; (ii) il risarcimento del danno, per il quale sarà necessaria la prova del

dolo o della colpa oltre che del pregiudizio patito.

Maggiore interesse suscita, invece, la disposizione di cui all’art. 10 c.c. in tema di

tutela dell’immagine.

La diversa formulazione in tema di esperibilità della tutela inibitoria rispetto all’art.

7 c.c. non sembra preludere ad una diversificazione strutturale delle due ipotesi.

Mentre, infatti, l’art. 7 c.c. prevede che la persona che ha subito l’illecito «può

chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo», l’art. 10 c.c. sancisce che

«l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso».

11

Peraltro, perché si faccia luogo alla tutela prevista dall’art. 7 c.c. non è necessario che il nome altrui venga usurpato nella sua interezza, con la conseguenza che anche l’uso indebito di una sola parte del cognome può costituire elemento sufficiente per ottenere - nel concorso degli altri requisiti - l’inibitoria, quando la parte del cognome usurpata, per la risonanza storica che ha acquistato, sia dotata di particolare forma individualizzante uno specifico casato o quando, più in generale, esiste una condizione di confondibilità con riferimento all’ambiente, al luogo, all’attività o ad altre circostanze in cui venga fatto uso del nome alterato (Cass. Civ., 22 ottobre 1984 n. 5343).

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Tale ultima disposizione viene tradizionalmente correlata con la normativa di cui

agli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633, sul diritto d’autore, il cui

richiamo ha la funzione di perfezionare il sistema di tutela prevista per il diritto

all’immagine. Anche per l’ipotesi di cui all’art. 10 c.c., l’esperibilità del rimedio

inibitorio prescinde dalla sussistenza dell’elemento psicologico, proprio in

considerazione della natura preventiva di tale tutela.

Un ulteriore spunto di riflessione, che emerge dal dibattito dottrinario, in ordine

all’inibitoria di cui all’art. 10 c.c., attiene alla discrezionalità del giudice nel

pronunciare l’ordine di cessazione. C’è chi ha sostenuto, in proposito, che «Nel

caso in cui il giudice accerti la sussistenza dell’abuso lamentato, ha l’obbligo e non

la facoltà di disporre la cessazione, dovendo escludersi, nonostante la imprecisa

dizione della norma, la esistenza di un potere discrezionale al riguardo»12. A tale,

condivisibile, soluzione si giunge sulla scorta della considerazione che la pretesa

alla cessazione del’abuso rappresenta, nel nostro ordinamento, un vero e proprio

diritto13, a differenza di quanto accade nei sistemi di common law dove l’injunction

rappresenta, nella maggioranza dei casi, un equitable right.

Di estrema importanza è l’interpretazione estensiva che la dottrina, a partire dalla

metà del secolo passato, ha dato della norma in commento al fine di estendere la

tutela ad interessi che allora non trovavano specifica protezione. Si è affermata in

dottrina una tendenza favorevole ad ammettere la tutela inibitoria dei diritti di

12

Così Liguori, op. cit., 159. Del medesimo avviso A. Frignani, op. cit., 260. 13

Secondo F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli 1986, addirittura non esisterebbe un diritto all’immagine, ma solo un diritto alla cessazione dell’abuso, oltre al diritto al risarcimento del danno, in presenza di colpa.

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personalità in generale, al di fuori cioè dei casi espressamente regolati14. Tra

questi spicca certamente, per rilevanza dell’interesse e per prospettiva, la tutela

della privacy15.

Il dibattito, sviluppatosi sull’ammissibilità di una tutela inibitoria anche con

riferimento a diritti, quale quello alla riservatezza, che non trovavano

nell’ordinamento una disciplina specifica, già sopito a seguito delle pronunce della

Corte di Cassazione e del progressivo riconoscimento di un diritto generale alla

privacy, ha trovato definitiva soluzione con l’introduzione del D.Lgs. 30 giugno

2003 n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali).

1.1.2. PROPRIETÀ, DIRITTI REALI E POSSESSO.

La seconda area dove il legislatore ha tipizzato ipotesi di tutela inibitoria definitiva

è quella del diritto di proprietà e del possesso. In particolare, le norme che

regolano la tutela in questa materia si trovano negli articoli 949, 1079, 844 e 1170

c.c.

14

A. Frignani, op. cit., 263. 15

A dire il vero, sul riconoscimento di quest’ultima situazione sostanziale ha pesato per anni un forte contrasto dottrinale e giurisprudenziale. In particolare, le resistenze della dottrina si fondavano sul preteso carattere eccezionale delle norme sui diritti della personalità in quanto restrittive di libertà costituzionalmente garantite come quella di manifestazione del pensiero. Ma il problema è stato risolto da una presa di posizione della Corte di cassazione, che ha finito per ammettere l’esistenza, nell’ordinamento vigente, di un diritto generale alla riservatezza (Cass. Civ. 27.05.1975 n. 2129). In particolare, la Corte ha ritenuto che “il diritto alla riservatezza consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano tuttavia giustificate da interessi pubblici preminenti […] tale diritto non solo trova implicito fondamento nel sistema, ma trova una serie di espliciti riferimenti nelle norme costituzionali e ordinarie e in molteplici deliberazioni di carattere internazionale”.

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16

La diversità del’oggetto della tutela impone una trattazione separata delle norme

citate.

In primis, devono considerarsi le disposizioni di cui agli artt. 949 e 1079 c.c.

La prima, in tema di proprietà, prevede che «Il proprietario può agire per far

dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di

temerne pregiudizio. Se sussitono anche turbative o molestie, il proprietario può

chiedere che se ne ordini la cessazione, oltre la condanna al risarcimento del

danno». La seconda, rubricata “accertamento della servitù e altri provvedimenti ti

tutela” stabilisce che «Il titolare della servitù può farne riconoscere in giudizio

l’esistenza contro chi ne contesta l’esercizio e può far cessare gli eventuali

impedimenti e turbative. Può anche chiedere la rimessione delle cose in pristino,

oltre il risarcimento dei danni».

Voglia perdonare il lettore la tediosa pratica di riprodurre l’enunciato normativo

delle norme in esame, ma ciò, a parere di chi scrive, si rende necessario per il fine

di rendere visivamente evidenti affinità e differenze delle disposizioni che, come

argomentato nell’introduzione, si distinguono spesso solo per la differente

formulazione della fattispecie e quasi mai per ragioni strutturali o di ratio

normativa.

Tornando a ciò che qui interessa, gli articoli in esame definiscono quelle che

tradizionalmente vengono definite l’azione negatoria (art. 949 c.c.) e l’azione

confessoria (art. 1079 c.c.). L’esame parallelo delle due disposizioni trae

giustificazione dalla identica struttura con cui sono costruite. Sia l’art. 949 c.c. che

l’art. 0179 c.c., infatti, prevedono la possibilità di chiedere al giudice di accertare

l’inesistenza sulla proprietà o sulla servitù del diritto che altrui abbia a vantare.

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17

Così come entrambe prevedono la possibilità di chiedere al giudice di emettere un

provvedimento che faccia cessare le condotte che ne pregiudichino il godimento

(“turbative e molestie” nel primo caso, “impedimenti e turbative” nel secondo)16.

Il rapporto tra le due tipologie di azioni è pressoché intuitivo.

Esse si differenziano sia sul piano del contenuto che su quello dei presupposti.

Sotto il primo profilo, alla base della negatoria e della confessoria c’è una

contestazione o una incertezza sulla titolarità del diritto di proprietà o sulla

servitù, che si vuole risolvere mediante un’opera di accertamento demandata al

giudice. L’inibitoria, di contro, è esperibile solo quando via sia una turbativa o una

molestia al godimento della cosa che si mira a far cessare, quando tali turbative

siano poste in essere da un soggetto che si assume non sia titolare del diritto

molestato. Sotto il profilo dei presupposti, mentre l’azione negatoria e l’azione

confessoria non esigono, almeno concettualmente, l’esistenza di turbative o

molestie, per l’inibitoria è richiesto che vi sia contestazione dello ius in re; di

conseguenza, per poter esperire l’azione inibitoria è necessario che prima venga

accertata la titolarità del diritto, ciò che costituisce presupposto imprescindibile

per poter determinare l’illiceità delle condotte limitative del godimento del diritto,

atteso che tale illiceità non può certo rinvenirsi laddove titolare del diritto e

soggetto esercente la molestia coincidano.

Infine entrambe le disposizioni contemplano la possibilità di chiedere, in aggiunta

alle azioni suddette, il risarcimento del danno eventualmente subìto.

16

Così A. Frignani, op. cit., 270 «in rapporto alla cessazione delle turbative e molestie, saremmo dell’opinione che si tratti di una applicazione tipica della più generale azione inibitoria. Essa consisterebbe, perciò, in un ordine del giudice di fare o non fare qualcosa, ordine che rientrerebbe dunque nella categoria delle sentenze di condanna».

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18

Ciò che, di primo acchito, invece, differenzia l’art. 949 c.c. dall’art. 1079 c.c. è la

previsione, nel secondo, della possibilità di chiedere la rimessione in pristino delle

cose. In realtà, in passato, alcuni hanno sostenuto che l’azione di riduzione in

pristino, prevista solo dall’art. 1079 c.c., dovrebbe essere compresa nel più ampio

concetto di azione in cessazione e, di conseguenza, la si dovrebbe ritenere

ammessa anche nell’art. 949 c.c., ancorché non espressamente prevista17. È

opinione di chi scrive che la riduzione nel pristino stato sia rimedio specifico e

distinto rispetto all’inibitoria e che in nessun modo il primo possa farsi rientrare

nello spettro concettuale della seconda18. Ciononostante, disquisire circa

l’ammissibilità o meno della riduzione in pristino nell’art. 949 c.c. è questione di

lana caprina, atteso che nulla impedisce a chi subisce una molestia al proprio

diritto di proprietà di chiedere, oltre all’ordine di cessazione ex art. 949 c.c., anche

il risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. che, nel caso di specie, andrebbe

a sostituire, laddove possibile e non eccessivamente gravoso, il risarcimento per

equivalente previsto dalla norma, andando a volgere la medesima funzione

ricoperta dall’azione di riduzione in pristino di cui all’art. 1079 c.c.

Per quanto riguarda le disposizioni di cui agli artt. 844 c.c.e 1170 c.c., non

sembrano ravvisarsi particolari novità rispetto alla struttura dell’azione inibitoria

già descritta per gli artt. 949 c.c. e 1079 c.c. L’art. 844 c.c., in tema di immissioni,

prevede che «Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o

di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal

17

G. Tabet, L’ordine di cessazione in negatoria e confessoria, in Studi in memoria di Corsetti, Milano 1965, 707. 18

Sulla stessa linea A. Frignani, op. cit., 276 «A noi sembra che sia necessario procedere con molta cautela nell’ampliare la nozione di ordine di cessazione (fino a farvi ricomprendere la riduzione in pristino, ndr) se non si vuole correre il rischio di perderne l’autonoma nozione rispetto ad altri mezzi di tutela».

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19

fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo

alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve

contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener

conto della priorità di un determinato uso».

Balza agli occhi come non vi sia nell’enunciato alcuna previsione espressa di azione

inibitoria, che può invece trarsi in negativo sia dal limite della “normale

tollerabilità”, il cui superamento costituisce l’illecito che l’azione inibitoria mira ad

impedire, sia dal secondo comma dell’articolo, laddove il legislatore parla di

applicazione della norma e individua gli opposti interessi che il giudicante deve

contemperare per giungere ad una pronuncia equilibrata19.

Tale “mancanza” del legislatore non è stata di impedimento al fiorire della

convinzione, sia in dottrina che in giurisprudenza, che l’art. 844 c.c. rappresentasse

comunque un’ipotesi di azione inibitoria a tutela della proprietà. Anzi, le Sezioni

Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 15.10.1998 n. 10186, hanno

esteso le maglie concettuali dell’azione negatoria, fino a farvi ricomprendere

anche l’azione tendente a far cessare le molestie subite al bene la cui titolarità si

chiede di accertare: «L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per 19

Una sentenza della Corte di Cassazione del 1960 (n. 944) aveva affermato che «L’azione concessa al proprietario dalla norma dell’art. 844 c.c., sempre che la molestia ed il rumore superino la normale tollerabilità, rientra nel paradigma dell’art. 949 c.c., e cioè fra le azioni negatorie (azioni reali a difesa della proprietà), le quali non hanno però il significato ristretto di azioni tendenti solo ad evitare l’esercizio di una vera e propria servitù sul proprio fondo, ma hanno il significato ampio di azioni tendenti a far dichiarare la inesistenza di qualsiasi diritto, turbativa o molestia che altri vanti o commetta in danno del fondo dell’attore e, quindi, comprendono anche l’azione tendente ad evitare le immissioni moleste di cui parla l’art. 844 c.c.». Tale impostazione fu respinta dalla successiva giurisprudenza di merito, a mente della quale «L’azione negatoria, prevista dall’art. 949 c.c., ha lo scopo di far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa ed, eventualmente, di far cessare le molestie o turbative cagionate da chi pretenda di avere tali diritti […] l’azione diretta a far cessare turbative e molestie, che non costituiscano la concreta estrinsecazione di un diritto reale vantato da altri, non ha carattere negatorio». Il contrasto così formatosi fu oggetto di giudizio delle Sezioni Unite della Cassazione, le quali lo risolsero nel senso prospettato dalla stessa Corte nel 1960 (Cass. Civ. SS.UU., 15 ottobre 1998 n. 10186, citata nel testo).

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conseguire l’eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie di

natura reale, a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva

l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche

strutturali del bene indispensabili per farle cessare. L’azione inibitoria ex art. 844

c.c. può essere esperita dal soggetto leso per consentire la cessazione delle

esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità

aquiliana prevista dall’art. 2043 c.c. nonché con la domanda di risarcimento del

danno in forma specifica ex art. 2058 c.c.».

Dell’art. 844 c.c. si tornerà a parlare in seguito, allorquando verrà trattata l’azione

inibitoria elaborata dalla giurisprudenza quale rimedio alla lesione del neo coniato

“diritto all’ambiente salubre”, di cui l’art. 844 c.c. ha costituito un necessario

prodromo.

In tema di tutela del possesso, invece, l’art. 1170 c.c. prevede che «Chi è stato

molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di

un'universalità di mobili può, entro l'anno dalla turbativa, chiedere la

manutenzione del possesso medesimo. L'azione e data se il possesso dura da oltre

un anno, continuo e non interrotto, e non è stato acquistato violentemente o

clandestinamente. Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o

clandestino, l'azione può nondimeno esercitarsi, decorso un anno dal giorno in cui

la violenza o la clandestinità è cessata. Anche colui che ha subito uno spoglio non

violento o clandestino può chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le

condizioni indicate dal comma precedente».

Nel caso citato, ritornando sul discorso lessicale, è da notare come sia stato

utilizzato dal legislatore il termine “manutenzione”, ad indicare l’azione che il

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21

possessore può esperire per far cessare le molestie al godimento del bene,

probabilmente in ossequio alla tradizione romanistica. Per quanto riguarda i

presupposti dell’azione, è pacifico che la turbativa non debba necessariamente

implicare una pretesa contraria al possesso, né costituirne una forma di privazione

(tutelabile con l’azione di spoglio ex art. 1168 c.c.), né infine che la molestia abbia

già prodotto gli effetti che l’autore si prefiggeva. Ma soprattutto non rileva che, a

seguito della molestia o della turbativa, si sia già prodotto un danno, il che

dimostra l’indubbia funzione preventiva della tutela prevista dall’art. 1170 c.c.

1.1.3. PERICOLO AI BENI IPOTECATI.

L’art. 2813 c.c. costituisce una di quelle ipotesi considerata dalla dottrina fra le

ipotesi tipiche di inibitoria20.

L’enunciato della norma così recita «Qualora il debitore o un terzo compia atti da

cui possa derivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati, il creditore

può domandare all’autorità giudiziaria che ordini la cessazione di tali atti o

disponga le cautele necessarie per evitare il pregiudizio della sua garanzia».

Non sembra doversi approfondire particolarmente il contenuto della disposizione

che appare sufficientemente chiaro. Ciò che può annotarsi, invece, è il periodo di

chiusura dell’enunciato, laddove il legislatore attribuisce al giudice il potere di

porre in essere “le cautele necessarie per evitare il pregiudizio”. C’è da chiedersi se

tale previsione costituisca un’ipotesi di intervento del giudice ulteriore ed

ontologicamente distinta rispetto al provvedimento inibitorio, in considerazione

20

Messineo, op. cit., § 114, 244.

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22

della precisazione che il legislatore ha ritenuto di dover fare dopo aver disciplinato

l’inibitoria a tutela del bene ipotecato.

È opinione di chi scrive che non sia esercizio utile quello di individuare nella

disposizione de qua un possibile nuovo strumento di prevenzione dell’illecito (o

della sua continuazione), il cui contenuto viene lasciato, come sembra potersi

evincere, all’arbitrio del giudice, il quale è investito del potere-dovere di emettere

i provvedimenti ritenuti necessari ad impedire il pregiudizio.

In realtà, la prassi ha mostrato che il contenuto della tutela inibitoria può

assumere contorni più ricchi rispetto al semplice ordine di cessazione della

condotta (o di divieto di porre in essere la condotta futuribile), e modularsi a

seconda della peculiarità del caso di specie, sempre nell’ottica di avere quale

risultato ultimo quello della cessazione del contegno o, comunque, di tutela

dell’interesse protetto dal pregiudizio in atto o imminente.

Ultima nota rispetto all’art. 2813 c.c. va fatta con riferimento alla sua applicazione

giurisprudenziale. Infatti, ad oggi non è dato rinvenirsi nelle sentenze dei giudici di

merito (né, tantomeno, in quelli di legittimità) alcuna pronuncia che abbia avuto

ad applicare la disposizione di cui all’art. 2813 c.c. (ci sia concesso il beneficio del

dubbio circa pronunce, probabilmente esistenti, ma di cui non si è reperito il

dispositivo). Dunque, la previsione di una tutela inibitoria contro il pregiudizio al

bene ipotecato appare, di fatto, inapplicata sin dalla sua introduzione.

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23

1.1.4. DIRITTO ALL’AMBIENTE SALUBRE

A differenza delle fattispecie sin qui analizzate, il “diritto all’ambiente salubre”,

coniato dalla giurisprudenza21, non trova, come ogni diritto frutto dell’evoluzione,

una specifica disciplina che ne preveda una tutela in via inibitoria.

Una doverosa precisazione va fatta con riferimento alla dicotomia “diritto

all’ambiente” e “diritto all’ambiente salubre”. È stato acutamente affermato22,

infatti, che «quando si parla genericamente di diritto all’ambiente, si fa riferimento

al “diritto” alla integrità dell’ambiente, e tale posizione è stata precisamente

qualificata intermini di interesse diffuso ma anche in termini di diritto soggettivo

individuale. E quando si parla di danno ambientale, o di danno all’ambiente, si fa

sempre riferimento al valore dell’integrità dell’ambiente. Quando si parla di

responsabilità per danno ambientale, si fa riferimento agli obblighi ripristinatori o

risarcitori che gravano su coloro che hanno violato l’integrità dell’ambiente […]

Tutt’altra questione, e tutt’altro genere di problemi, insorgono quando si parla non

di integrità dell’ambiente, ma di ambiente salubre, perché in tal caso si fa

riferimento al danno alla salute arrecato da fenomeni di inquinamento, cioè da

fenomeni che incidono sulla salute fisica e psichica, quale effetto della violazione

dell’integrità dell’ambiente». Per ciò che interessa l’argomento qui trattato,

21

La prima decisione in cui si afferma l’esistenza di tale diritto in capo a chiunque è quella di Cass. Civ., SS. UU., 6 ottobre 1979 n. 5172. 22

Alpa, Il diritto soggettivo all'ambiente salubre: "nuovo diritto" o espediente tecnico?, in Resp. Civ. e prev., 1998, 1, 4

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24

sembra potersi far riferimento sia al “diritto all’ambiente” che al “diritto

all’ambiente salubre”. Dato, però, che lo strumento inibitorio, quale rimedio

specifico e di immediata applicazione, sembra attagliarsi meglio alle ipotesi in cui

venga leso o messo in pericolo il diritto alla salute, inteso come diritto a non veder

pregiudicata la propria salute psico-fisica a causa di fenomeni di inquinamento,

appare più opportuno concentrarsi sulla seconda delle nozioni piuttosto che sulla

prima.

Ciò precisato, vediamo ora con quali modalità la tutela inibitoria ha avuto ingresso

in materia ambientale.

Nelle argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza per giustificare il

riconoscimento generalizzato di tale diritto, e della relativa tutela inibitoria, si è

fatto leva, in alcuni casi, sugli artt. 2043 c.c. e 2058 c.c. e 32 Cost. (per ogni

indistinta alterazione dell’ambiente), in altri sull’art. 844 c.c., in tema di

immissioni, la cui interpretazione, come abbiamo prima accennato, è stata estesa

in via analogica al fine di permettere l’accesso alla tutela inibitoria in tutti i casi in

cui si verifichi una alterazione qualificata dell’ambiente, che esorbiti il limite

codicistico della “normale tollerabilità”23.

In mancanza di una disposizione che prevedesse espressamente una tutela

preventiva, si è fatto largo uso, in materia ambientale, dell’art. 700 c.p.c.24

23

Si veda sul punto l’attenta analisi svolta da M.R. Maugeri, Il rimedio inibitorio nella giurisprudenza «ambientale». Il diritto all'ambiente salubre come espediente retorico. In Riv. Dir. Civ. 1996, 166, la quale conclude affermando che «il riconoscimento giurisprudenziale non si traduce, sotto i profili inibitori, in qualche cosa di più rispetto a quanto già riconosciuto in precedenza dall’ordinamento» (pag. 179). 24

Atteso che gran parte dei provvedimenti incardinati sulla base dell’art. 700 c.p.c. riguardavano interessi di natura proprietaria, è stato osservato in dottrina che il richiamo alla salute è stato

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25

(ancorato all’art. 32 Cost.), che ha permesso di aggirare l’ostacolo25 e di riempire

un vuoto che, ad oggi, per quanto ancora non vi sia una specifica disposizione che

permetta di agire per la cessazione di una condotta lesiva del diritto all’ambiente,

sembra comunque riempito, almeno per quanto attiene al contenuto del “diritto

all’ambiente salubre” ed al suo ambito operativo, dalle norme di cui al D.Lgs. 3

aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale)26.

L’uso della procedura d’urgenza ex art. 700 c.p.c., per l’inibitoria delle condotte

lesive del diritto all’ambiente salubre, non deve disorientare circa la collocazione

di tale ipotesi, nella presente trattazione, tra le fattispecie di azione inibitoria

definitiva. Come vedremo meglio in seguito, infatti, la rielaborazione del

procedimento cautelare da parte del legislatore e della giurisprudenza ha sciolto il

utilizzato come “grimaldello argomentativo” (P. Zatti, Nota a Trib. Rimini, 11 agosto 1988, in Nuova giur. Civ. comm., 1988, I, 732) o come “espediente retorico” (Maugeri, op. cit., 165). 25

Di estremo interesse la motivazione di Pret. Pietrasanta, ord. 17 marzo 1989 (riportata da Maugeri, op. cit., 169) secondo cui «non potrebbe sostenersi che la possibilità offerta ai ricorrenti di soddisfare il proprio bisogno di tutela giuridica con uno strumento, ancorché non cautelare, quale l’azione di manutenzione faccia venir meno, alla radice, le ragioni che giustificano la concessione della tutela cautelare urgente, per essere il bisogno di protezione soddisfatto in modo adeguato dal congegno normativo di cui agli artt. 703 ss. C.p.c. Ad avviso di questo pretore, infatti, l’inibitoria provvisoria ex art. 700 c.p.c., se fatta valere attraverso la mediazione dell’art. 844 c.c., tende, a differenza dell’azione di manutenzione, ad essere un mezzo di composizione atipico degli interessi il quale, per un verso, prescindendo dall’animus turbandi, si fonda su criteri di imputazione essenzialmente oggettivi, e, per altro verso, consente di utilizzare una tecnica di intervento particolarmente duttile e di adottare, una volta superata la barriera della “inibizione assoluta”, le misure più idonee ad adeguare il provvedimento alla peculiarità del caso concreto, così da ridurre il fenomeno entro il limite della tollerabilità». 26

Prima della promulgazione del c.d. Codice dell’Ambiente, per la verità, vi erano stati altri interventi del legislatore in materia ambientale, per lo più dettati dall’obbligo di attuazione di direttive comunitarie. Si possono in questa sede richiamare l’art. 130 R del Trattato di Roma, le direttive in materia di protezione dell’ambiente, nonché le numerose convenzioni internazionali inerenti i diversi tipi di inquinamento (si pensi al c.d. Protocollo di Kyoto; al G14 tenutosi a L’Aquila il 9 luglio 2009; alla conferenza dell’ONU sul clima tenutasi a Copenaghen il 19 dicembre 2009). Per quanto attiene alla legislazione interna è necessario menzionare (i) la l. 13 luglio 1966 n. 615 sull’inquinamento atmosferico; (ii) la l. 10 maggio 1976, n. 319 ed il D.lgs. 27 gennaio 1992 n. 132, attuativo della direttiva 80/86/CEE, nonché il D.lgs. 27 gennaio 1992 n. 133, attuativo delle direttive 76/464, 82/176, 83/513, 84/156, 84/491, 90/415 della CEE, in materia di inquinamento ambientale; (iii) la lo. 31 dicembre 1962, n. 1860, il D.lgs. 17 marzo 1995, n. 230, attuativo delle direttive Euratom 80/836, 84/467, 84/466, 89/618, 90/641, e 92/3 in materia di inquinamento nucleare; (iv) la l. 9 novembre 1988 n. 476 ed il D.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, in tema di inquinamento del suolo; (v) le numerose norme in tema di inquinamento acustico.

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26

nesso che vincolava la fase cautelare da quella di merito, che necessariamente

doveva seguirvi, aprendo così la strada a provvedimenti inibitori, di natura

definitiva, ottenuti attraverso la procedura prevista per i procedimenti d’urgenza.

Per quanto riguarda il “diritto all’ambiente salubre”, deve evidenziarsi come,

successivamente alla sua prima elaborazione, la nozione abbia subito successivi

aggiustamenti ed integrazioni, frutto dello sviluppo sociale e dell’evoluzione

giurisprudenziale che ne è riflesso. È interessante, a tal fine, notare come la

nozione di “diritto all’ambiente salubre” sia diventata trasversale quanto alla sua

titolarità. Giova riportare, sul punto, una recente sentenza del Tribunale di Salerno

(11 maggio 2009) secondo cui «quella del pregiudizio all'ambiente è nozione

complessa, che ricomprende nel suo ambito una triplice dimensione, e che non

può, pertanto, considerarsi come pertinente esclusivamente allo Stato, e

precisamente una dimensione: a) personale, quale lesione del fondamentale diritto

all'ambiente salubre, facente capo a ciascun individuo; b) sociale, quale lesione del

diritto all'ambiente nelle articolazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità

umana; c) pubblica, quale lesione del diritto-dovere pubblico (funzione) sui bene

ambientali, spettante alle istituzioni centrali e periferiche (così Cass.pen. 10.6.2002

n. 22539), ed oggi esclusivamente allo Stato ai sensi del d.lg. n. 152/06».

Dunque, il “diritto all’ambiente salubre” è tutelabile, anche con il ricorso alla

tutela inibitoria: dal singolo cittadino, per mezzo dell’estensione precettiva

dell’art. 32 Cost.27; dalle associazioni di categoria, anche in forza del novello art.

27

In una recente pronuncia, il Consiglio di Stato ha stabilito che «sulla base del criterio della vicinitas, la legittimazione ad agire deve essere riconosciuta ai singoli che agiscono a tutela del bene ambiente e, in particolare, a tutela di interessi incisi da atti e comportamenti

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140 bis del Codice del Consumo; dallo Stato, per il tramite del Ministero

dell’Ambiente, in forza dell’art. 311 del D.Lgs. 152/06 (essendo, altresì, venuta

meno la legittimazione degli enti territoriali - Regioni, Provincie e Comuni - ai quali

è attribuita una mera funzione di collaborazione con lo Stato ai sensi dell’art. 299,

comma 2°, dello stesso Codice).

1.1.5. CONCORRENZA SLEALE

Uno degli ambiti in cui la tutela inibitoria ha trovato terreno fertile ed ampia

applicazione è sicuramente quello del diritto industriale.

Ciò in quanto la particolare materia e le specifiche esigenze che permeano

l’ambito del commercio, in tutte le sue più varie manifestazioni, fanno

dell’inibitoria strumento principe per la repressione delle condotte che abbiano

quale effetto quello di alterare il gioco concorrenziale, e che si possono

sostanziare nella usurpazione o nella contraffazione del marchio, dei modelli

industriali, della ditta e dell’insegna o in pratiche di sfruttamento anomalo del

mercato.

In tale prospettiva è necessario fare una precisazione circa l’esperibilità del

rimedio inibitorio in ambito concorrenziale. Mentre, infatti, negli ambiti sin qui

esaminati l’inibitoria si atteggia quale strumento del singolo danneggiato (o,

comunque, dell’insieme di soggetti, unitariamente intesi) contro il singolo

danneggiante, nell’ottica di un rapporto che si sviluppa tra due sfere giuridiche in

dell’Amministrazione che li ledono direttamente e personalmente, unitamente all’intera collettività che insiste sul territorio» (Cons. Stato, sez. V, 16 giugno 2009 n. 3849).

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28

contrasto, in tema di concorrenza l’adozione degli strumenti di cessazione trova

più ampio respiro, potendo essere esperite anche da operatori del mercato (e non

potrebbe essere altrimenti, dovendo sempre sussistere l’interesse ad agire) che

siano sostanzialmente tersi rispetto alla pratica scorretta posta in essere, e che

però da tale pratica possano trarne pregiudizio, anche se indirettamente28.

Ciò si giustifica con il fatto che il mercato, e il suo corretto funzionamento, da un

lato rappresenta un “bene comune” i cui benefici si estendono all’intera comunità,

dall’altro, le dinamiche che caratterizzano il mondo dei commerci comportano che

un medesimo atto possa produrre effetti nocivi a catena, riflessi rispetto al

pregiudizio immediato frutto della condotta anticoncorrenziale. La diffusività degli

interessi permette di estendere ai terzi il novero dei soggetti legittimati ad

esperire le tecniche di tutela predisposte, compresa quella inibitoria.

Passando alle singole fattispecie, il nostro Codice Civile, in tema di concorrenza

sleale, prevede un’ipotesi di inibitoria agli artt. 2599 e 260029. Il primo (rubricato

“sanzioni”) dispone che «La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne

inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano

28

V. M. Scuffi, L'inibitoria nel diritto industriale e nella concorrenza, intervento nell'ambito del convegno "La tutela sommaria cautelare: il procedimento e l'ambito di attuazione con particolare ai provvedimenti di urgenza in materia di diritto industriale" tenutosi a Frascati i giorni 28/2-1/3 2000. 29

In passato ci si è domandato se fosse possibile inquadrare la concorrenza sleale nella categoria degli atti illeciti. Il dubbio nasceva dal fatto che gli artt. 2599 c.c. e seguenti sembrano caratterizzati dalla mancanza tanto dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) quanto del danno. È stato correttamente affermato, però, da un grande Maestro (Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Giuffrè 1964, 50 ss.) che l’art. 2043 c.c. non dà la definizione di atto illecito o, in altri termini, non ne esaurisce il contenuto, ma ne disciplina invece una particolare conseguenza, e cioè l’obbligo al risarcimento dei danni. L’atto illecito è quello contra ius e non solo quello che obbliga al risarcimento dei danni. Dunque, la categoria dell’atto illecito è molto più ampia di quella di cui all’art. 2043 c.c., che ne prende in considerazione solo un particolare aspetto ai fini di una particolare sanzione. Illecito, dunque, al quale l’ordinamento può reagire anche in modi e con strumenti diversi rispetto al risarcimento del danno, come ad esempio attraverso l’ordine di cessazione della condotta lesiva.

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29

eliminati gli effetti». Mentre l’art. 2600 stabilisce che «Se gli atti di concorrenza

sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei

danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati

gli atti di concorrenza sleale, la colpa si presume».

Stante la stretta correlazione tra dette due disposizioni è necessario procedere ad

una trattazione congiunta.

Anche nell’art. 2599 c.c. ritroviamo la stessa struttura binaria già riscontrata in

altre disposizioni (artt. 7 e 10 c.c.). Ad essere precisi, viste le premesse

metodologiche, si dovrebbe parlare di struttura ternaria, atteso che nel novero

delle tutele applicabili deve essere ricompresa anche la pubblicazione della

sentenza, prevista dall’art. 2600 c.c., al pari di quanto previsto all’art. 7 c.c.

Dunque, la fattispecie disciplinata dall’art. 2599 c.c. (per relazione con l’art. 2598

c.c., che delinea le singole ipotesi di illecito concorrenziale) prevede una tutela di

carattere preventivo (inibitoria), una di carattere risarcitorio ed una consistente

nella pubblicazione della sentenza, che è costruita quale sanzione accessoria al

provvedimento di condanna del giudice e che può costituire, ad avviso di chi scrive

e come meglio verrà precisato, anch’essa una forma particolare di tutela inibitoria.

Mentre presupposti per l’attivazione del rimedio risarcitorio sono la sussistenza

dell’elemento psicologico del dolo e della colpa, oltre a quello materiale del danno

(laddove solo il secondo si atteggia ad elemento imprescindibile, potendo esservi

illecito anche in mancanza dell’elemento psicologico, come nei casi di

responsabilità oggettiva), per la tutela inibitoria tali elementi non sono mai

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30

richiesti, pur potendo costituire prova dell’illecito compiuto. Peraltro, stante il

disposto dell’ultimo comma dell’art. 2600 c.c., una volta accertata l’esistenza

dell’atto di concorrenza (sleale), l’attore è sollevato, anche al fine di ottenere il

risarcimento del danno, dal provare la colpa del convenuto, sul quale graverà

l’onere della prova liberatoria.

Una volta che il convenuto (o meglio sarebbe dire resistente, nei casi di ricorso ex

art. 700 c.p.c.) abbia dimostrato di aver agito senza colpa, sottraendosi perciò alla

condanna al risarcimento dei danni «non è che egli sia assolto … perché il fatto non

rileva»30. Egli potrà essere sempre sottoposto ai provvedimenti di cui all’art. 2599

c.c. «Se nonostante che sia accertato che un atto di concorrenza esiste, colui che lo

ha compiuto provi che egli è esente da colpa, ciò avrà per effetto che si escluda il

risarcimento del danno. Ma l’attività potrà pur sempre essere fatta cessare e il

giudice potrà pur sempre dare i provvedimenti necessari o utili perché vengano

eliminati gli effetti»31.

In quest’ultimo caso, per poter ottenere una pronuncia inibitoria del giudice,

dovranno invocarsi presupposti diversi rispetto al danno ed alla colpa (o al dolo),

consistenti nella lesione di un diritto e nel pericolo della sua continuazione o

ripetizione32.

30

R. Franceschelli, Studi sulla concorrenza sleale, IV, n. 40, in Riv. Dir ind., 1963, 41. 31

Franceschelli, op. cit., 41 32

Sulla configurabilità dell’illecito concorrenziale anche quando non si sia realizzato un danno in capo al soggetto che assume leso il proprio diritto v. Cass. Civ., SS. UU., 23 novembre 1995 n. 12103 «L’illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 c.c. non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno, concretantesi nell’idoneità della condotta vietata a cagionare un pregiudizio».

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31

Riteniamo necessario, infine, un appunto relativo al provvedimento che dispone la

pubblicazione della sentenza di condanna (art. 2600 c.c.).

Come è noto, le ipotesi di pubblicazione del provvedimento giurisdizionale

possono ricondursi essenzialmente a due funzioni: la prima di carattere

prettamente riparatorio, la seconda, di carattere punitivo, quale pena accessoria

al provvedimento di condanna. Operano nel primo senso l’art. 186 c.p. («Ogni

reato obbliga il colpevole alla pubblicazione, a sue spese, della sentenza di

condanna, qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non

patrimoniale cagionato dal reato»); l’art. 120 c.p.c. («Nei casi in cui la pubblicità

della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, il giudice, su istanza di

parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per

estratto in uno o più giornali da lui designati»); i già esaminati articoli 7 c.c. e 2600

c.c. Opera, invece, nel secondo senso (a mero titolo esemplificativo) l’art. 9 della l.

8 febbraio 1948 n. 47 (legge sulla stampa) in base al quale «nel pronunciare

condanna […] il giudice ordina in ogni caso la pubblicazione della sentenza»33.

Ciò che interessa, però, ai fini della presente trattazione, sono quelle ipotesi in cui

l’ordine di pubblicazione del provvedimento di condanna è utilizzato con funzione

cautelare34. Prendendo spunto dal Considerando n. 27 della Direttiva 2004/48/CE

(citato in nota), in tema di diritti di proprietà intellettuale (c.d. Direttiva

33

V. G. Bonelli, La pubblicazione del provvedimento cautelate a tutela della proprietà intellettuale, in Riv. Dir. Ind, 2006, 127. 34

Sembra potersi rinvenire un’ipotesi di tal fatta nell’art. 15 della direttiva 2004/48/CE, recepita nel nostro ordinamento con il D.lgs. 16 marzo 2006 n. 140. Con particolare riferimento al “Considerando” n. 27 della Direttiva, ove si legge che «Quale ulteriore deterrente per i futuri autori di violazioni e contributo alla consapevolezza del pubblico in generale è opportuno divulgare le decisioni sui casi di violazione della proprietà intellettuale».

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32

Enforcement35), può notarsi come vengano ricollegate alla pubblicazione della

decisione due finalità: quella di fungere da «ulteriore deterrente per i futuri autori

di violazioni» e quella di «contributo alla consapevolezza del pubblico». La prima

può essere considerata uno strumento di general prevenzione, una sorta di

inibitoria di condotte future; la seconda, invece, più interessante, riguarda la

consapevolezza che il pubblico matura a seguito della conoscenza del

provvedimento emesso sul caso di violazione della proprietà intellettuale.

È opinione di chi scrive che tale ultimo profilo possa essere considerato una

particolare forma di inibitoria, sulla scorta della convinzione per cui il

provvedimento inibitorio è diretto non già al soggetto ma alla condotta e, dunque,

non vi dovrebbero essere ostacoli di sorta a considerare inibitoria quella rivolta ad

un numero indeterminato di destinatari laddove ciò assolva alla medesima

funzione dell’ordine di cessazione della condotta. La pubblicazione della sentenza

di condanna, dunque, nel senso qui prospettato, può essere considerato una

inibitoria “esterna”, che ha quale funzione quella di “neutralizzare” l’ambiente in

cui opera il soggetto che ha posto (e continua a porre) in essere la condotta

inibita. Il pubblico consapevole della violazione della proprietà intellettuale (ma

non si vede perché il medesimo meccanismo non possa applicarsi anche alla tutela

dei diritti di proprietà industriale) eviterà di intrattenere rapporti commerciali con

il soggetto destinatario del provvedimento di condanna, e questo comporterà, per

lo stesso, l’impossibilità di porre in essere ulteriori atti illeciti.

35

Per un’analisi del provvedimento v. L. Nivarra, L'enforcement dei diritti di proprietà intellettuale dopo la direttiva 2004/48/CE, in Riv. Dir. Ind. 2005.

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33

1.1.6. MARCHI E INVENZIONI

Punti di riferimento normativo in tema di tutela di marchi e brevetti, a seguito

dell’introduzione del D.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, sono gli articoli 124, 125, 126 e

131 del citato decreto delegato36.

La tutela inibitoria dei “diritti di proprietà industriale”37 è prevista, in particolar

modo, dagli artt. 124 e 131, mentre gli artt. 125 e 126 disciplinano,

rispettivamente, il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza di

condanna (che può essere annoverata tra le ipotesi di pubblicazione con finalità

cautelare di cui abbiamo detto al precedente paragrafo).

L’art. 124 recita: «Con la sentenza che accerta la violazione di un diritto di

proprietà industriale possono essere disposti l’inibitoria della fabbricazione, del

commercio e dell’uso delle cose costituenti violazione del diritto, e l’ordine di ritiro

definitivo dal commercio delle medesime cose nei confronti di chi ne sia

36

Prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 30/2005 la tutela inibitoria in materia di marchi ed invenzioni era disciplinata, rispettivamente dall’art. 63 l. marchi «Il titolare dei diritti sul marchio registrato o in corso di registrazione può chiedere che sia disposta l'inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell'uso di quanto costituisce contraffazione del marchio secondo le norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti cautelari. Pronunciando l'inibitoria il giudice può fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento» e dall’art. 83 l. invenzioni «Nel corso del giudizio per violazione dei diritti di brevetto d'invenzione industriale, su richiesta della parte interessata, può essere disposta, con sentenza provvisoriamente eseguibile, con o senza cauzione, la inibitoria della fabbricazione o dell'uso di quanto forma oggetto del brevetto fino al passaggio in giudicato della sentenza definitiva. La inibitoria può essere revocata con la sentenza che pronuncia sul merito». Costituendo tali previsioni ipotesi di inibitoria cautelare, il fondamento per la pronuncia dell’inibitoria definitiva veniva ravvisato negli artt. 2569 c.c. e 2577 c.c. 37

Ai sensi dell’art. 1 del D.lgs. 30/2005 «l’espressione proprietà industriale comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti, informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali».

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34

proprietario o ne abbia comunque la disponibilità. L’inibitoria e l’ordine di ritiro

definitivo dal commercio possono essere emessi anche contro ogni intermediario,

che sia parte del giudizio ed i cui servizi siano utilizzati per violare un diritto di

proprietà industriale […] Pronunciando l’inibitoria il giudice può fissare una somma

dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni

ritardo nell’esecuzione del provvedimento». Così formulata, non sembra potersi

revocare in dubbio che si tratti di un’ipotesi di inibitoria definitiva, atteso che il

provvedimento teso alla cessazione della condotta illecita si accompagna alla

sentenza (elemento che indica l’adozione di un giudizio ordinario) che accerta la

violazione, a differenza di quanto previsto dal successivo art. 131 laddove tale

indicazione manca.

La formulazione dell’articolo 124 è particolarmente dettagliata nell’enunciare i

generi di condotte che possono integrare l’illecito. L’ordine di cessazione può

avere ad oggetto la fabbricazione, il commercio o l’uso delle cose che

costituiscono violazione della privativa. Se nessun interrogativo pone l’ordine

inibitorio che abbia ad oggetto il commercio o l’uso della cosa, diverso discorso

deve farsi con riferimento alla fabbricazione. Mentre, infatti, nei primi due casi il

bene oggetto dell’illecito è già entrato a contatto con il pubblico e, dunque, si può

ritenere già concretizzato il danno in capo al titolare del diritto di privativa violato;

nel caso del bene prodotto ma non ancora commercializzato c’è da chiedersi se la

condotta posta in essere abbia maturato quel grado di antigiuridicità necessario a

configurare l’illecito punito. A tal fine non può che richiamarsi quanto affermato

dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza n. 12103 del 23

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35

novembre 2005, hanno fissato il limite di accesso alla tutela concorrenziale (che,

per vicinanza di materia, sembra potersi applicare in via analogica anche alle

privative industriali) al semplice pericolo, ancorché corroborato da elementi di

probabilità, che si verifichi il danno38.

Elemento di estremo interesse è la previsione di cui al secondo comma dell’art.

124 c.p.i., in forza della quale il giudice, nel pronunciare il provvedimento

inibitorio, può fissare una somma dovuta per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione

del provvedimento (letteralmente “per ogni ritardo”) e per ogni violazione o

inosservanza. Tale previsione, che non brilla certo per accuratezza, rappresenta

una delle ipotesi, sparse nelle leggi speciali, dell’astreinte di derivazione

transalpina, misura compulsoria o di esecuzione “indiretta” dell’ordine del

giudice39.

Facciamo solo un brevissimo cenno a tale previsione, dal momento che

sull’introduzione di una astreinte generalizzata nell’ordinamento italiano la

dottrina ha dibattuto per decenni. Inoltre, la recentissima introduzione nel nostro

codice di rito dell’art. 614 bis40, che sembra aver soddisfatto le richieste di chi

invocava l’introduzione di tale strumento, impone una trattazione specifica che

verrà svolta più avanti.

38

V. nota 32. 39

L’indicazione di una misura compulsoria modulata sul modello dell’astreinte era già prevista dagli artt. 66 l.m. e 86 l.i., la cui introduzione è frutto dell’attuazione nel nostro ordinamento dell’art. 41, comma 1°, dell’accordo TRIPS, che obbliga ad adottare «expeditious remedies to prevent infringements and remedies which costitute a deterrent to further infringements». Sul punto v. A. Plaia, L'inibitoria cautelare e la misura compulsoria a tutela del diritto d'autore, in Contratto e Impresa, 2001, 759. 40

Introdotto dalla l. 18 giugno 2009 n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009.

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36

Tornando alle fattispecie del Codice della Proprietà Industriale, l’art. 131 che,

come abbiamo detto, disciplina una ipotesi i inibitoria cautelare, prevede che «Il

titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che sia disposta

l’inibitoria di qualsiasi violazione imminente del suo diritto e del proseguimento o

della ripetizione delle violazioni in atto, ed in particolare può chiedere che siano

disposti l’inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell’uso delle cose

costituenti violazione del diritto, e l’ordine di ritiro dal commercio delle medesime

cose nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia comunque la disponibilità,

secondo le norme del codice di procedura civile concernenti i procedimenti

cautelari. L’inibitoria e l’ordine di ritiro dal commercio possono essere chiesti, sugli

stessi presupposti, contro ogni soggetto i cui servizi siano utilizzati per violare un

diritto di proprietà industriale […] Pronunciando l’inibitoria il giudice può fissare

una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata

e per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».

La formulazione dell’art. 131 c.p.i. appare del tutto analoga a quella del

precedente articolo 124, se non fosse per alcun piccoli accorgimenti del legislatore

che fanno trasparire l’intenzione di fare di questa norma strumento cautelare e

non definitivo. Innanzitutto, è da notare come presupposto per la concessione del

provvedimento inibitorio sia ogni violazione “imminente” del diritto di privativa,

ad indicare l’arretramento della soglia di accesso alla tutela sino al pericolo che si

verifichi l’illecito (fermo restando che tale pericolo andrà congruamente provato,

pur snodandosi il procedimento secondo le norme del procedimento cautelare,

che prevedono una cognizione solo sommaria dei fatti). Secondo poi, l’ordine di

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37

ritiro dal commercio delle cose costituenti violazione del diritto non è “definitivo”,

come previsto invece nell’art. 124. Da ultimo, deve evidenziarsi come le previsioni

di cui ai commi 1-bis, 1-ter ed 1-quater disegnino chiaramente un procedimento

puramente cautelare, da svolgersi secondo i dettami dell’art. 700 c.p.c., al quale

non necessariamente deve seguire l’introduzione del giudizio di merito a

cognizione piena, quando i provvedimenti d’urgenza emessi ai sensi di tale articolo

«siano idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito», siano cioè

sufficienti a soddisfare il diritto azionato in via cautelare.

Sulla previsione della misura compulsoria di cui all’ultimo comma dell’art. 131

c.p.i. si rimanda al precedente art. 124.

A conclusione dell’analisi delle disposizioni che prevedono forme di inibitoria in

tema di marchi e brevetti e, in generale, dei diritti di proprietà industriale, non può

non farsi un cenno, pur breve, all’art. 133 c.p.i. a mente del quale «L’Autorità

giudiziaria può disporre, oltre all’inibitoria dell’uso del nome a dominio aziendale

illegittimamente registrato, anche il suo trasferimento provvisorio,

subordinandolo, se ritenuto opportuno, alla prestazione di idonea cauzione da

parte del beneficiario del provvedimento».

Tale disposizione (che costituisce un’ipotesi di inibitoria cautelare e che, quindi,

impropriamente e solo per motivi di contiguità normativa è trattata nel presente

paragrafo) rappresenta la risposta del legislatore (notoriamente lento e

farraginoso nell’adeguare l’ordinamento all’evoluzione sociale) ad un fenomeno,

divenuto ormai di massa e, soprattutto, trasversale ed interdisciplinare, quale

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38

quello di internet41. Il “nome a dominio”, di cui alla rubrica della norma citata,

altro non è che un indirizzo telematico cui corrisponde una determinata pagina

internet (o “home page”). A seguito della grande diffusione dello strumento

telematico nell’esercizio dell’attività d’impresa, sia per reclamizzare prodotto e

servizi venduti sia per vendere o acquistare tali prodotti o servizi, il nome a

dominio (o, nella terminologia anglosassone “domain name”) ha assunto una

funzione distintiva dell’impresa che ne è titolare e dei suoi servizi42.

41

V. G. Bonomo, Il nome a dominio e la relativa tutela. Tipologie delle pratiche confusorie in internet, in Riv. Dir. Ind., 2001, 247. V. anche C. Galli, L’allargamento della tutela del marchio e i problemi di internet, in Riv. Dir. Ind., 2002, 3, 103. 42

Come è noto il domain name è un indirizzo elettronico che identifica i computers interconnessi alla Rete grazie al sistema FQDN (Fully Qualified Domain Name) basato su codici alfanumerici che trasformano in denominazione l'indirizzo numerico IP (Internet Protocol), espresso in gruppi di due o tre cifre numeriche, come tale riconoscibile solo dalla macchina, e non dall'uomo. La traduzione del complesso numero in nome permette quindi la memorizzazione, da parte dell'utente, anche del sottostante indirizzo telematico corrispondente al sito Web. Il nome di dominio, traduzione letterale di un indirizzo numerico, individua appunto la localizzazione del computer dell' Internet Service Provider (ISP) e il tipo di organizzazione a cui inerisce. La prima parola - oltre l'indicazione del protocollo di comunicazione «http» (Hyper Text Transfer Protocol), che solitamente appare in automatico sul browser - è l'acronimo www (World Wide Web) della nota piattaforma ipertestuale, comune a tutti i nomi di dominio e in teoria distintivo della macchina ( Host server) che ospita il sito Web; la seconda (Second Level Domain, SLD) è il cuore del nome di dominio, che assume in ambito commerciale valenza distintiva dell'impresa e dei suoi prodotti/servizi; la terza parola (Top Level Domain, TLD), di due o tre lettere, indica la nazione di emissione del nome (come «it» per l'Italia, «de» per la Germania, «fr» per la Francia) o la tipologia del sito Web (come «com» per i siti commerciali, «net» per quelli concernenti la rete, «gov» per quelli governativi, «edu» per quelli universitari, «org» per quelli relativi ad organizzazioni non-profit, «mil» per quelli militari). Si distingue quindi il country code TLD (ccTLD), idoneo a individuare la localizzazione "virtuale" dello Host server, e il generic TLD (gTLD), atto a distinguere, ma in linea solo teorica, il settore di operatività dello stesso. Per una definizione giuridica del domain name si veda P. Menchetti, Allocazione di domain names, antitrust e autorità di regolazione: un approccio tradizionale, in Internet e diritto, problemi e soluzioni, Bologna 2001, 49 s., il quale rileva che la numerazione è storicamente nota come afferente ai servizi tradizionali di telecomunicazioni a commutazione di circuito. Partendo dall'inquadramento dell'istituto nel settore tradizionale della numerazione nelle telecomunicazioni, disciplinato in Italia dalla legge 249/97, dal d.P.R. 318/97 e dalla delibera 6/00/CIR dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni «Piano di numerazione nel settore delle telecomunicazioni e disciplina attuativa», e iniziando quindi dall'esame dell'art. 1 lett. a) n. 13) l. cit. e dell'art. 11 d.P.R. cit., l'Autore rileva come dalle disposizioni citate non risulta comprensibile quale norma copra effettivamente il campo di azione dei domain names. Anche sotto il profilo della normativa tecnica i protocolli proposti dagli enti normatori nel settore delle tlc., ISO e CCITT, sono di fatto inesistenti in tutti i servizi Internet, sebbene qualificati come «servizi di telecomunicazioni». L'Autore conclude che il domain name può essere quindi qualificato come «risorsa di numerazione atipica», governata da proprie norme tecniche di fatto. A tale risorsa di numerazione atipica

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39

Dunque, si giustifica l’inserimento di una disposizione a tutela dei nomi a dominio

all’interno del Codice della Proprietà Industriale proprio per l’affinità tra il

marchio, la ditta e l’insegna ed il domain name43. Affinità che non comporta una

totale assimilazione della disciplina dei nomi a dominio a quella del marchio,

atteso che l’ambiente telematico presenta problematiche del tutto peculiari, che il

legislatore sembra aver recepito solo in via embrionale nella norma in commento.

L’art. 133 c.p.i., infatti, oltre alla tutela inibitoria del nome a dominio (da attuarsi

in presenza dei presupposti e secondo le modalità di cui all’art. 131 c.p.i., prevede

un ulteriore strumento consistente nella possibilità di un suo “trasferimento

potranno essere applicati gli istituti tipici di tutela della proprietà industriale o intellettuale nel momento in cui essa venga utilizzata come segno distintivo, senza uopo di produzioni normative ad hoc e specifiche previsioni legislative. 43

La giurisprudenza precedente all’entrata in vigore del CPI, in tema di tutela cautelare del domain name, si pronunciava sulla base dell’art. 63 l.m. che, come abbiamo visto in precedenza, costituiva l’antesignano degli artt. 124 e 133 c.p.i. Nel caso Amadeus Marketing S.A. - Amadeus Marketing Italia S.r.l. vs. Logica S.r.l. il Giudice designato del Tribunale di Milano (Trib. Milano, ord. 10 giugno 1997, G.D. Marangoni, in Giur. It., 1997, I, II, 697, con nota di L. Peyron, Nomi a dominio - domain name - e proprietà industriale: un tentativo di conciliazione) accolse l'istanza ex art. 63 l.m. delle società ricorrenti, titolari del marchio « Amadeus», intesa a inibire l'uso della denominazione «amadeus.it» con la quale la soc. Logica a r.l. contrassegnava il proprio sito Web per offrire servizi simili, se non uguali, a quelli offerti dalle ricorrenti, consistenti nella prenotazione di viaggi e soggiorni turistici. L'ordinanza dichiarò che l'uso da parte della soc. Logica a r.l. del nome di dominio «amadeus.it» costituiva contraffazione di marchio oltre che concorrenza sleale confusoria. A questa conclusione il Giudice pervenne assimilando il nome di dominio alla figura dell' insegna: il sito indicato dal nome di dominio configurerebbe «il luogo virtuale ove l'imprenditore contatta il cliente al fine di concludere con esso il contratto». Non sono mancate, peraltro, pronunce in senso contrario, tese ad escludere la capacità distintiva del domain name. Nel caso Teseo S.p.a. vs. Teseo Internet Provider S.r.l. il Tribunale di Bari (ord. 24 luglio 1996, in Foro it., 1997) negò qualsiasi funzione distintiva al nome di dominio, avendolo considerato solamente nella sua funzione tecnica di codice di accesso ad un sito, ed escludendo il rischio di confusione con la denominazione sociale altrui. La società ricorrente lamentava l'uso della propria denominazione sociale, all'interno del nome di dominio «teseo.it», da parte della società resistente, chiedendo la tutela in via d'urgenza contro la contraffazione di marchio e la concorrenza sleale. Il Giudice designato respinse l'istanza ritenendo non sussistente il rischio di confondibilità per due ordini di ragioni: anzitutto perché le attività delle due società non erano affini, e quindi non confondibili, con conseguente non applicabilità dell'art. 13 l.m.; in secondo luogo perché il nome di dominio avrebbe «soltanto la funzione di identificare dei gruppi di oggetti e non anche l'entità che utilizza il dominio, sicché nessuna confusione è possibile tra i due soggetti potendo eventualmente la confusione essere determinata dal contenuto delle pagine pubblicitarie dei due soggetti ove ne sussistano i presupposti: un nome a domìni è un nome a domìni e null'altro».

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40

provvisorio” in capo al soggetto che, secondo l’istruttoria sommaria svolta in sede

di giudizio cautelare, risulterà titolare del diritto al nome a dominio. Stante, però,

il carattere non definitivo della pronuncia cautelare, il legislatore ha voluto

prevedere anche una forma di tutela del soggetto che si veda spogliato, ancorché

provvisoriamente, dell’utilizzo del domain name e che, potenzialmente, potrebbe

riacquisire tale diritto all’esito del giudizio ordinario, ponendo a carico della parte

beneficiaria del provvedimento di trasferimento provvisorio una cauzione (il cui an

e quantum sono lasciati comunque al giudizio di opportunità del giudice).

1.1.7. DIRITTO D’AUTORE

L’ultima delle ipotesi di tutela inibitoria definitiva che analizziamo nel presente

lavoro è quella relativa al diritto d’autore.

La disciplina degli strumenti di protezione, approntati dal legislatore a favore del

titolare dell’opera, possono rinvenirsi ancora nella l. 22 aprile 1941 n. 63344 che,

nonostante le modifiche subite nel corso dei decenni, ha mantenuto il suo

impianto originario. In particolare, per quanto attiene alla tutela inibitoria, questa

è prevista dall’art. 156, secondo cui «Chi ha ragione di temere la violazione di un

diritto di utilizzazione economica a lui spettante in virtù di questa legge oppure

intende impedire la continuazione o la ripetizione di una violazione già avvenuta

sia da parte dell’autore della violazione che di un intermediario i cui servizi sono

utilizzati per tale violazione può agire in giudizio per ottenere che il suo diritto sia

44

Modificata, da ultimo, con l’entrata in vigore del decreto legge 30 dicembre 2008 n. 207, convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge di conversione del 27 febbraio 2009 n. 14.

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41

accertato e sia vietato il proseguimento della violazione». Come anticipato

nell’introduzione, la disposizione citata costituisce, attualmente, la definizione più

completa di azione inibitoria, in attesa che il legislatore ne introduca una disciplina

generale, magari sull’onda dell’introduzione nel codice di rito dell’art. 614 bis

c.p.c.45, di cui tratteremo in seguito.

L’attuale formulazione dell’art. 156 è frutto della modifica apportata dall’art. 2 del

D.lgs. 16 marzo 2006 n. 140, con il quale è stata recepita nel nostro ordinamento

la Direttiva 2004/48/CE, c.d. direttiva Enforcement46. In passato la dottrina si è

interrogata sulla natura di inibitoria finale o cautelare di quella prevista dall’art.

156 l. autore. Il dubbio sorgeva da due elementi: il primo, consistente nella

formulazione dell’enunciato («Chi ha ragione di temere …»), faceva propendere

per un’ipotesi di inibitoria provvisoria, vista l’analogia con espressioni più o meno

similari contenute in altre norme che prevedono tale tipo di inibitoria; nello stesso

senso veniva interpretato il secondo elemento, consistente nel rinvio operato dal

3° comma (2° comma nella formulazione precedente) alle norme del Codice di

procedura civile. Ad avviso di chi scrive, però, gli elementi che hanno convinto

parte della dottrina ad annoverare l’inibitoria di cui all’art. 156 l. autore tra le

45

In questo senso Mazzamuto, L'esordio della comminatoria di cui all'art. 614 bis c.p.c. nella giurisprudenza di merito, in Europa e Dir. Priv., 2009, 3. 46

La direttiva 2004/48/CE rappresenta uno degli interventi del legislatore comunitario nella strategia generale di rafforzamento dei diritti di privativa industriale. Il Considerando n. 3 della Direttiva esplicita la funzione che la norma avrebbe dovuto svolgere nell’acquis communautaire: «è necessario assicurare che il diritto sostanziale in materia di proprietà intellettuale, oggi ampiamente parte dell’acquis comunitario, sia effettivamente applicato nella Comunità. In proposito, gli strumenti per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale rivestono un’importanza capitale per il successo del mercato interno». Sul tema v. L. Nivarra, L'enforcement dei diritti di proprietà intellettuale dopo la direttiva 2004/48/CE, in Riv. Dir. Ind. 2005, 1, 33.

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42

ipotesi di inibitoria definitiva47 sono maggiormente persuasive e, a ben vedere, sul

punto decisive.

In particolare, risulta dirimente la considerazione per cui il riferimento

all’accertamento del diritto fa escludere che si possa trattare di un provvedimento

cautelare, atteso che il procedimento disegnato dall’art. 700 del codice di rito non

consente un accertamento nel senso proprio del termine, ma solo l’assunzione di

sommarie informazioni, sufficienti a convincere il giudicante della sussistenza del

fumus boni iuris. In secondo luogo, la l. 633/41 prevede forme di tutela inibitoria

espressamente cautelari, quali quella prevista dall’art. 163, «che possono essere

esperite proprio al fine di poter esercitare l’azione ex art. 156, senza correre il

rischio che tale provvedimento giunga troppo tardi»48.

Lo strumento inibitorio ex art. 156 l. autore deve essere necessariamente

considerato con gli altri strumenti approntati dal legislatore del ’41 a tutela del

titolare dell’opera contraffatta. Ci riferiamo, in particolare, ai rimedi previsti

dall’art. 158 e consistenti nel risarcimento del danno, nella distruzione delle opere

frutto dell’illecito e nella rimozione dello stato di fatto da cui risulta la violazione.

Come è evidente, se analizzata unitariamente, la struttura rimediale costruita dal

legislatore speciale non differisce granché da quella prevista in tema di

concorrenza sleale (vedi supra par. 1.1.5). Dunque, anche per tali strumenti

47

Frignani, op. cit., 330. 48

Frignani, op. cit., 332. Ritiene che l’inibitoria, accompagnata alla previsione di una misura compulsoria, costituisca il momento più innovativo della novella del 2000 A. Plaia, L'inibitoria cautelare e la misura compulsoria a tutela del diritto d'autore, in Contratto e Impresa, 2001, 752 ss. Secondo l’A. «L’introduzione dello strumento cautelare inibitorio tipico dovrebbe favorire la tutela in via cautelare dell’autore di un’opera dell’ingeno e relegare il rimedio atipico, dai presupposti più stringenti, ad un ruolo meramente residuale, essendo la sussidiarietà una caratteristica essenziale del provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.».

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43

valgono le medesime considerazioni svolte con riferimento ai presupposti di

operatività delle singole azioni, ovverosia alla necessità che sussistano il danno e

l’elemento psicologico perché si possa giungere ad una condanna risarcitoria, al

contrario di quanto accade per la tutela inibitoria, laddove è sufficiente il pericolo

dell’illecito, supportato da un timore fondato che questo si verifichi, perché il

giudice possa disporre la cessazione della condotta in atto o impedire che venga

posta in essere una futura probabile condotta.

Una risalente pronuncia della Corte d’Appello di Roma (15 febbraio 1958), in tema

di diritto d’autore, rende con estrema chiarezza la tematica dei presupposti: «La

lesione, quando sussiste obiettivamente, è agli effetti dell’esercizio delle azioni

civili (interdizione, rimozione e distruzione), previste dagli artt. 156 e 158 della

legge sul diritto d’autore […] indipendente da qualsiasi elemento suriettivo (colpa,

dolo o malafede). La riproduzione totale o parziale dell’opera nuova comporta,

indipendentemente dall’esistenza di un particolare elemento suriettivo, la

possibilità dell’esercizio di dette azioni […] Il concorso dell’elemento psicologico

della colpa o del dolo oltre all’estremo dell’attualità del danno, è necessario per

potersi applicare la sanzione del risarcimento del danno, secondo i principi generali

relativi alla fattispecie dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.), nonché

eventualmente le sanzioni penali previste dagli artt. 171 segg. Della legge

speciale». Ribadisce poi la Corte «Nel caso […] che l’autore fa valere il diritto

assoluto di cui è titolare, mediante le azioni inibitorie e di distruzione o rimozione

dello stato di fatto da cui risulta la lesione del diritto d’autore, egli ha l’onere di

provare l’esistenza di questa situazione di fatto, da cui risulta una utilizzazione di

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44

elementi originali dall’opera propria preesistente, senza che sia affatto richiesta

anche la prova della malafede, del dolo o della colpa».

Un’ultima annotazione meritano le norme di cui agli art. 157 e 161 l. autore.

La prima, secondo cui «chi si trova nell’esercizio dei diritti di rappresentazione o di

un’opera adatta a pubblico spettacolo, compresa l’opera cinematografica, o di

un’opera o composizione musicale, può richiedere al prefetto della provincia,

secondo le norme stabilite dal regolamento, la proibizione della rappresentazione

o della esecuzione, ogni qual volta manchi la prova scritta del consenso da esso

prestato. Il prefetto provvede sulla richiesta, in base alle notizie e ai documenti a

lui sottoposti, permettendo o vietando la rappresentazione o l'esecuzione, salvo

alla parte interessata di adire l'autorità giudiziaria, per i definitivi provvedimenti di

sua competenza». È da evidenziare come, nella fattispecie esaminata, venga

demandato al Prefetto e non all’autorità giudiziaria (almeno in prima battuta) il

potere di emettere i provvedimenti interdittivi della rappresentazione o

dell’esibizione. L’attribuzione ad una autorità di pubblica sicurezza di tale potere,

di natura chiaramente cautelare, si giustifica con l’esigenza di un intervento

immediato sulla rappresentazione inibenda; immediatezza che, di certo, non si

potrebbe con il ricorso all’autorità giudiziaria alla quale, comunque, spetta il

compito di emettere i provvedimenti definitivi.

L’art. 161, invece, a mente del quale «Agli effetti dell'esercizio delle azioni previste

negli articoli precedenti, nonché della salvaguardia delle prove relative alla

contraffazione, possono essere ordinati dall'Autorità giudiziaria la descrizione,

l'accertamento, la perizia od il sequestro di ciò che si ritenga costituire violazione

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45

del diritto di utilizzazione; può inoltre farsi ricorso ai procedimenti d'istruzione

preventiva», appronta una serie di strumenti, quali quelli della descrizione, della

perizia e del sequestro, che non vanno confusi con le azioni a tutela del diritto

d’autore, costituendone attività prodromiche e, se vogliamo, cautelari rispetto al

buon fine delle azioni descritte agli articoli 156 e 158.

1.2. LE IPOTESI DI INIBITORIA PROVVISORIA

1.2.1. DENUNZIA DI NUOVA OPERA E DI DANNO TEMUTO

Art. 1171 c.c. (“Denunzia di nuova opera”): « Il proprietario, il titolare di altro

diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da una

nuova opera, da altri intrapresa sul proprio come sull'altrui fondo, sia per derivare

danno alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o del suo possesso, può

denunziare all'autorità giudiziaria la nuova opera, purché questa non sia terminata

e non sia trascorso un anno dal suo inizio. L'autorità giudiziaria, presa sommaria

cognizione del fatto, può vietare la continuazione della opera, ovvero permetterla,

ordinando le opportune cautele: nel primo caso, per il risarcimento del danno

prodotto dalla sospensione dell'opera, qualora le opposizioni al suo proseguimento

risultino infondate nella decisione del merito; nel secondo caso, per la demolizione

o riduzione dell'opera e per il risarcimento del danno che possa soffrirne il

denunziante, se questi ottiene sentenza favorevole, nonostante la permessa

continuazione».

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46

Art. 1172 c.c. (“Denunzia di danni temuto”): «Il proprietario, il titolare di altro

diritto reale di godimento o il possessore, il quale ha ragione di temere che da

qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e

prossimo alla cosa che forma l'oggetto del suo diritto o del suo possesso, può

denunziare il fatto all'autorità giudiziaria e ottenere, secondo le circostanze, che si

provveda per ovviare al pericolo. L'autorità giudiziaria, qualora ne sia il caso,

dispone idonea garanzia per i danni eventuali».

Il tenore letterale dell’art. 1171 c.c., in tema di denuncia di nuova opera, e dell’art.

1172 c.c., in tema di danno temuto, manifesta la diversità di impostazione rispetto

alle fattispecie, analizzate nel capitolo precedente, che prevedono forme di

inibitoria definitiva.

L’assunzione del timore che da una nuova opera “sia per derivare danno alla

cosa”, o che da un’opera già esistente possa derivare “pericolo di un danno grave e

prossimo alla cosa” quale requisito per l’accoglimento della domanda, è indice

dell’arretramento della soglia di accesso alla tutela inibitoria, rispetto a quelle

ipotesi (per la verità non moltissime) in cui la norma richiede la concretizzazione

del danno o, quantomeno, che sia già stata posta in essere, e stia proseguendo, la

condotta che si intende inibire.

La denuncia di nuova opera, insieme a quella di danno temuto, definite

tradizionalmente “di nunciazione”, sotto l’influsso della terminologia propria del

diritto romano49, sono azioni poste a tutela non solo della proprietà (come è

49

Il Corpus Iuris le disciplinava in D. 39, 1 («De operis novi nunciatione») e in D. 39, 2 («De danno infecto»): esse sono di origine pretoria e hanno natura preventiva.

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47

intuibile dall’incipit della norma) ma anche degli altri diritti reali di godimento e

del possesso. Ciò rende queste due azioni il tassello che integra il quadro di tutela

composto dalle azioni di cui agli artt. 949 c.c. e 1079 c.c. Mentre infatti queste

ultime (c.d. azioni negatorie) richiedono la presenza di turbative o molestie alla

proprietà per poter ottenere l’ordine di cessazione delle condotte lesive, nell’art.

1171 c.c. è necessaria una nuova opera dalla quale si tema possa derivare un

danno alla cosa che forma oggetto del diritto, senza che il diritto stesso sia messo

in discussione; così come nell’art. 1172 c.c. si richiede il pericolo di un danno grave

e prossimo che sia per derivare da qualsiasi edificio, albero o altra cosa.

Gli artt. 1171 e 1172 c.c. accennano ad una struttura processuale improntata ad

un “doppio binario”. Una prima fase è caratterizzata da un procedimento a

cognizione sommaria il cui provvedimento conclusivo (un’ordinanza) dispone in via

cautelare che venga cessata la costruzione dell’opera (purché questa non sia

terminata o no sia trascorso un anno dal suo inizio) o che siano apprestate le

opportune misure affinché l’opera già esistente non arrechi danno ad alcuno50.

Una seconda fase, caratterizzata da un procedimento a cognizione piena, mira ad

effettuare in via definitiva il contemperamento tra gli interessi in conflitto.

50

Come ha precisato la Corte di Cassazione (sentenza 25 marzo 1987 n. 2897) «Il criterio discretivo tra denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto risiede soltanto nel diverso modo in cui l’attività umana ha determinato l’insorgere del pericolo e nella conseguente diversità del rimedio da adottare. La prima, infatti, postula un facere, cioè l’intrapresa di un quid, nel proprio o nell’altrui fondo, capace di arrecare pregiudizio al bene oggetto della proprietà o del possesso del denunciante, e prevede come rimedio l’inibizione di tale intrapresa o la subordinazione della sua prosecuzione all’adozione di determinate cautele; la seconda postula, invece, un non facere, ossia l’inosservanza dell’obbligo di rimuovere una situazione di un edifici, di un albero o di qualsiasi altra cosa, comportante pericolo di un danno grave e prossimo per il bene in proprietà o in possesso del denunciante, e prevede come rimedio l’ordine, a chi abbia la piena disponibilità della cosa costituente pericolo, di eseguire quanto necessario per la rimozione della causa di quest’ultimo».

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48

Tenuto conto che le azioni di nunciazione sono preordinate a difesa sia della

proprietà o di altro diritto reale, sia del semplice possesso, l’ordinario giudizio di

merito successivo alla fase preliminare cautelare ha natura petitoria o possessoria

a seconda che la domanda, alla stregua delle ragioni addotte a fondamento di essa

(causa petendi) e delle specifiche conclusioni (petitum), risulti, secondo la

motivata valutazione del giudice, volta a perseguire la tutela della proprietà o del

possesso51.

È da notare come la correlazione tra procedimento cautelare e giudizio ordinario,

nell’ambito della denuncia di nuova opera e di danno temuto, sia stabilito

direttamente della norma, al contrario di quanto accade per le altre fattispecie,

laddove tale correlazione viene desunta in base al richiamo all’art. 700 c.p.c.

Il secondo comma dell’art. 1171 c.c. prevede, addirittura, una forma di protezione

per il soggetto cui venga inibita la costruzione dell’opera, nella prospettiva che

all’esito del giudizio ordinario risulti prevalente il suo interesse su quello del

denunciante. Il giudice, infatti, può stabilire a carico di quest’ultimo un

risarcimento del danno subito dal soggetto inibito per aver dovuto cessare la

costruzione, nel caso in cui le pretese di chi esperisce l’azione di nuova opera

risultino infondate nel successivo giudizio di merito.

Peraltro, è da notare come la norma, in verità, non disponga il potere del giudice

di condannare il denunciante al risarcimento del danno, ma lo abiliti ad ordinare le

opportune cautele “per” il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione

dell’opera. Secondo questa lettura, ad avviso di chi scrive più aderente al testo

51

V. Cass. Civ., sez. II, 26 gennaio 2006 n. 1519, in Giust. Civ. Mass. 2006, f. 1.

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49

normativo, il giudice potrebbe stabilire, ad esempio, il sequestro cautelare di

alcuni beni del denunciante, laddove il suo patrimonio non sia sufficiente, in

prospettiva, a rifondere i danni presuntivamente subiti dal soggetto che costruisce

l’opera a seguito della sua interruzione; oppure potrebbe onerare il denunciante

della prestazione di una cauzione che assolva, in via preventiva, alla stessa

funzione svolta ex post dal risarcimento del danno.

L’ultima parte del secondo comma, invece, prevede un rimedio risarcitorio, che si

affianca alla tutela inibitoria, per il danno subito dal denunziante, al pari di quanto

già visto per gran parte delle fattispecie sin qui analizzate.

C’è da chiedersi se la necessaria continuità tra giudizio cautelare e giudizio di

merito, in quanto prevista dalla stessa norma e non attraverso il rinvio alla

disciplina processuale della tutela d’urgenza, sia da intendersi ancora attuale alla

luce dell’introduzione del rito cautelare uniforme e della nuova prospettiva

assunta dal procedimento a cognizione sommaria, che è stato svincolato dalla

appendice ordinaria.

È opinione di chi scrive che tale nuova concezione ben possa essere applicata al

procedimento per denuncia di nuova opera o di danno temuto, sulla scorta della

considerazione che la nuova prospettiva si basa sul principio di sufficienza del

provvedimento reso in sede cautelare, sulla sua attitudine ad esaurire l’esigenza di

tutela manifestata con l’introduzione dell’azione. Ciò, ovviamente, precluderebbe

ogni pronuncia avente ad oggetto il risarcimento del danno o la demolizione

dell’opera, che può essere resa solo al termine di un giudizio a cognizione piena,

ferma restando la possibilità per il denunciante (o per il resistente) di introdurre il

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50

giudizio di merito laddove voglia avere accesso alla tutela risarcitoria o voglia

ottenere il pieno accertamento del proprio diritto.

1.2.2. MARCHI E BREVETTI

Come già anticipato nel precedente paragrafo 1.1.6, il D.lgs. 10 febbraio 2005, n.

30 (Codice della proprietà industriale) prevede ipotesi di tutela inibitoria cautelare

accanto alle ipotesi di inibitoria definitiva.

La previsione di un’inibitoria cautelare, nello specifico, è prevista all’art. 131

secondo cui il titolare di un diritto di proprietà industriale può chiedere che venga

disposta l’inibitoria di qualsiasi violazione imminente del proprio diritto,

prevedendosi, altresì, che il giudice possa fissare una somma «per ogni violazione

o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione del

provvedimento».

Per quanto l’analisi della disposizione sia già stata effettuata nel capitolo

precedente, con riferimento all’inibitoria definitiva prevista in materia di marchi e

brevetti, deve qui darsi conto dell’evoluzione che ha condotto il legislatore del

2005, partendo dagli artt. 63 l.m. ed 83 .i., che costituivano la previgente disciplina

dell’inibitoria, ad “aggiustare il tiro” apportando miglioramenti in tema di tecnica

di legislazione.

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51

Gli artt. 63 l.m. e 83 l.i. avevano suscitato in dottrina, infatti, non pochi dubbi in

ordine alla loro formulazione52. In particolare, erano state rilevate dagli interpreti

alcune anomalie riguardanti: (i) la forma del provvedimento, atteso che mentre

nei procedimenti cautelari si ricorre solitamente alla ordinanza o al decreto, negli

art, 63 e 83 la legge parlava espressamente di sentenza (facendo così dubitare

della natura cautelare dell’inibitoria); (ii) la composizione collegiale del giudice cui

spettava pronunciare il provvedimento inibitorio, atteso che, come accade anche

oggi, il procedimento cautelare è retto dal giudice monocratico; (iii) il tempo in cui

poteva essere invocato il provvedimento inibitorio, atteso che mentre i

provvedimenti cautelari possono essere richiesti sia prima sia in costanza del

giudizio, l’inibitoria ex artt. 63 e 83 poteva essere richiesta solo nel corso del

giudizio; (iv) l’efficacia del provvedimento, in quanto la legge disponeva che la

sentenza era «provvisoriamente eseguibile».

È evidente che nella nuova formulazione dell’inibitoria ex art. 131 c.p.i. i dubbi

sollevati dalla dottrina passata non trovano albergo, avendo il legislatore mondato

l’enunciato di tutti gli elementi che potevano suscitare dubbi interpretativi.

Manca, infatti, qualsiasi indicazione circa la natura del provvedimento assunto dal

giudice (che, comunque, sarà un’ordinanza, visto il rinvio all’art. 700 c.p.c.), così

come devono ritenersi risolte anche le altre anomalie riscontrate negli artt. 63 e

83, atteso che il giudice del procedimento cautelare è indubbiamente il giudice

monocratico; che il provvedimento può essere richiesto ante causam (anzi, questa

ipotesi rappresenta la normalità, vista la funzione della inibitoria); che l’ordinanza

52

Si veda Carnelutti, Provvedimenti d'urgenza in tema di invenzioni industriali. Casi clinici, in Riv. Dir. Proc. Civ., 1943, II, pp. 78-79.

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52

conclusiva del giudizio cautelare è indubbiamente munita di provvisoria

esecutorietà.

Un breve cenno merita, infine, l’art. 132 c.p.i. secondo il quale «I provvedimenti di

cui agli articoli 128, 129 e 131 possono essere concessi anche in corso di

brevettazione o di registrazione purché la domanda sia stata resa accessibile al

pubblico oppure nei confronti delle persone a cui la domanda sia stata notificata».

Tale disposizione (rubricata “Anticipazione della tutela cautelare”) costituisce uno

strumento estremamente penetrante di tutela anticipatoria, dal momento che, in

questo caso, la soglia di accesso alla tutela viene anticipata, addirittura, ad un

momento precedente la brevettazione o la registrazione del marchio, quando

ancora questi non hanno avuto diffusione alcuna tra il pubblico ed il danno non

può sussistere nemmeno in via embrionale.

Peraltro, non si capisce il motivo per cui dovrebbe costituire ostacolo

all’esperimento della tutela inibitoria il fatto che la domanda sia stata resa

accessibile al pubblico, laddove può immaginarsi che tale accessibilità sia dovuta

alla discrezione del richiedente e, dunque, costituirebbe una forma di indebita

tutela del soggetto che si accinge a registrare un brevetto o un marchio che

violano i diritti di proprietà industriale altrui. Non può rilevare, infatti, la modalità

con cui chi invoca la tutela inibitoria è venuto a conoscenza del procedimento di

registrazione del marchio o del brevetto, dovendosi considerare indubbiamente

prevalente l’interesse a che non venga violato un diritto già consolidato, in capo al

titolare della privativa, sull’interesse del registrante a non divulgare tale

informazione.

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53

1.2.3. RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI

Una delle ipotesi in cui sembra potersi individuare uno spazio per l’applicazione

della tutela inibitoria è quella prevista dall’art. 2409 c.c. in tema di controllo delle

società53.

L’art. 2409 c.c. prevede che «Se vi è fondato sospetto che gli amministratori, in

violazione dei loro doveri, abbiano compiuto gravi irregolarità nella gestione che

53

L’attuale formulazione dell’art. 2409 c.c. è il frutto di un’evoluzione storica giunta, ad oggi, alle modifiche apportate dalla riforma del diritto societario intervenuta con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Sotto il vigore del codice di commercio del 1865, con decreto del 5 settembre 1869, n. 5256, era stato abolito l’Ufficio di Sindacato che controllava la gestione sociale dalla costituzione, creando al suo posto l’Ufficio provinciale di Ispezione, composto dal prefetto e da due membri della Camera di Commercio, con il compito di ispezionare la società se attivato dal reclamo di soci rappresentanti almeno il decimo del capitale; se il reclamo fosse stato giudicato sufficientemente fondato l’Ufficio aveva la possibilità di ispezionare la società e in base ai risultati ottenuti dare le opportune “disposizioni’’ (la dottrina - V. Cerami, Il controllo giudiziario sulle società di capitali, Milano, 1954, 15 ss. - segnala la singolare analogia con l’attuale denuncia al Tribunale). L’art. 153 cod. comm. del 1882 – che segna il passaggio da una concezione pubblicistica dell’istituto societario all’affermarsi di istanze liberistiche, ha abolito la sorveglianza dell’autorità governativa sulla gestione sociale, che ha portato alla creazione della figura del collegio sindacale e ad una forma di “controllo sul controllore’’, configurando un intervento dell’autorità giudiziaria non più per la tutela di un superiore interesse pubblico, ma per gli interessi della società e indirettamente di quelli della minoranza: oggetto dell’ispezione potevano essere solo i libri sociali e ogni decisione ultima spettava all’assemblea. I lavori preparatori del libro del lavoro del codice civile, subentrato alla fase di “rivoluzione manageriale’’ che aveva portato ad esautorare i poteri dell’assemblea concentrando l’effettivo comando nelle mani degli amministratori, rivelano il tentativo di perfezionare lo strumento di controllo già esistente, ampliando i poteri dell’autorità giudiziaria, oltre all“’ardito passo innanzi’’ contenuto nell’ultimo comma dell’art. 2409 (vedasi la Relazione al c.c.).

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54

possono arrecare danno alla società o a una o più società controllate, i soci che

rappresentano il decimo del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al

mercato del capitale di rischio, il ventesimo del capitale sociale possono denunziare

i fatti al tribunale con ricorso notificato anche alla società. Lo statuto può

prevedere percentuali minori di partecipazione […] Se le violazioni denunziate

sussistono ovvero se gli accertamenti e le attività compiute ai sensi del terzo

comma risultano insufficienti alla loro eliminazione, il tribunale può disporre gli

opportuni provvedimenti provvisori e convocare l'assemblea per le conseguenti

deliberazioni. Nei casi più gravi può revocare gli amministratori ed eventualmente

anche i sindaci e nominare un amministratore giudiziario, determinandone i poteri

e la durata».

C’è da chiedersi se negli “opportuni provvedimenti provvisori” (che nel testo

previgente erano definiti “cautelari”) possa individuarsi la possibilità per il giudice

investito dell’azione ex art. 2409 c.c. di emettere un provvedimento a carattere

inibitorio.

Nella vigenza della norma ante riforma la dottrina si era interrogata sulla

assimilabilità dei “provvedimenti cautelari” a quelli di cui agli artt. 670, 671 e 700

c.p.c. In particolare era stato osservato che «nel caso in esame […] non c’è un

successivo giudizio di merito relativamente ai provvedimenti disposti dal tribunale

perché non solo mancano le parti fra cui tale giudizio dovrebbe svolgersi (i soci

denuncianti non possono certamente ritenersi tali, anche se hanno un indubbio

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55

interesse al risultato della loro denuncia), ma ogni determinazione sulla situazione

è rimessa esclusivamente alle deliberazioni della assemblea»54.

Sotto l’aspetto contenutistico, invece, si è giustamente rilevato che i

provvedimenti ex art. 2409 c.c. non devono necessariamente coincidere con il

sequestro ed i provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., trattandosi in questo

caso di «far cessare determinati abusi da parte di determinate persone»55,

piuttosto che porre un vincolo cautelativo sui beni della società.

Per quanto tale ultima affermazioni risulti sicuramente condivisibile, non

dovendosi il provvedimento inibitorio necessariamente ricondursi ad uno dei

provvedimenti cautelari previsti dal codice di procedura, non può, altresì,

accogliersi la prospettiva per cui, nell’intento di individuare nell’art. 2409 c.c.

un’ipotesi di inibitoria, vincola la relativa indagine ad un parallelismo con i citati

articoli del codice di rito.

Milita in questo senso certamente la modifica, intervenuta nel 2003, del termine

“provvedimenti cautelari” con il termine “provvedimenti provvisori” che, sebbene

non decisivo nel riconoscimento di un’azione inibitoria, nondimeno permette di

recidere il legame lessicale tra il provvedimento che il giudice può adottare in base

alla norma del codice civile ed i provvedimenti cautelari delineati dal codice di rito.

In secondo luogo, non può ignorarsi che il provvedimento inibitorio, in quanto

rimedio specifico e particolarmente legato, nel suo contenuto, alla specificità del

54

G. Frè, Società per azioni, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna 1961, sub art. 2409 c.c., 473. Dunque, secondo l’opinione riportata, la norma in esame non si preoccuperebbe tanto delle more del giudizio, quanto piuttosto del tempo che intercorre tra la denuncia e la rituale convocazione dell’assemblea. 55

Frè, ibidem.

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56

caso concreto, può (anzi, deve) assumere connotati diversi a seconda del diverso

atteggiarsi del contegno inibendo ed essere modulato dal giudice secondo il fine di

maggior efficienza possibile del provvedimento stesso.

In tale ottica, ricondurre l’ordine di cessazione ad una delle forme previste per i

provvedimenti cautelari sarebbe una forzatura inutilmente formalistica e

processualmente antieconomica.

Un’ulteriore critica (sempre del Frè) all’assimilabilità dell’art. 2409 c.c. agli artt.

670, 671 e 700 c.p.c. è tratta dalla considerazione per cui, nella norma che

disciplina il controllo sulle società, non vi è menzione del pregiudizio imminente e

irreparabile quale requisito per l’adottabilità, da parte del giudice, degli

“opportuni provvedimenti provvisori”, requisito che invece è ben presente nei

procedimenti cautelari.

Anche in questo caso può obiettarsi che, nonostante non sia espressamente

previsto il requisito del pericolo di pregiudizio per l’attivazione della tutela

giudiziale, ciò non significa che il provvedimento inibitorio (che non sembra l’unico

adottabile, vista l’ampia formulazione della norma56) possa essere richiesto ed

56

In dottrina è stato evidenziato che i provvedimenti adottati dal giudice sulla base dell’art. 2409 c.c. possono consistere, a titolo esemplificativo: a) nella limitazione dei poteri di un amministratore, con inibitoria di oltrepassarli; b) nell’attribuzione degli stessi a più amministratori congiuntamente; c) nella sospensione di un dirigente della società; d) nella chiusura di una cassa; e) nella temporanea cessazione di una determinata attività; f) nella sospensione di un’assemblea; g) nella sospensione o revoca provvisoria di qualche componente del consiglio di amministrazione o del collegio sindacale (Frignani, op. cit., 369). Oggetto della tutela cui sono finalizzati i provvedimenti ex art. 2409 c.c. non è esclusivamente la protezione della minoranza (vedi caso delle società con unico socio, anche nella forma del controllo, e la società di grandi dimensioni, nelle quali il 10% rappresenta la maggioranza di controllo). La tutela della minoranza sarebbe quindi soltanto indiretta o di riflesso. L’interesse al regolare funzionamento dell’organo amministrativo e di controllo nelle società commerciali come interesse generale, rivelato dalla legittimazione del P.M. (cfr. Relazione ministeriale n. 985), per il possibile pregiudizio dell’economia pubblica e dell’ordine economico (pur se le lesioni di interessi

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57

adottato solo allorquando sussista un pericolo concreto che dall’attività illecita

degli amministratori possa derivare un danno alla società.

In sostanza, si può concludere che l’espressione “opportuni provvedimenti

provvisori” si possa interpretare in senso abbastanza ampio e tale tuttavia da

ricomprendere in sé tutti quei provvedimenti «che, in rapporto alla situazione

concreta, possono costituire una cautela idonea ad impedire il ripetersi (o il

continuare) delle irregolarità denunciate»57, almeno fino al momento in cui

l’assemblea, all’uopo riunita, possa adottare quelle misure che essa ritenga

opportune per eliminare definitivamente le suddette irregolarità. Pertanto,

l’ampiezza e la natura dei provvedimenti che potranno essere adottati dal giudice

dipendono dal concetto di “gravi irregolarità”, che in mancanza di un preciso

modello normativo, è lasciato al prudente apprezzamento del giudice58.

generali sono di rado denunciate dai privati, ma semmai dal P.M.). Una lettura in chiave costituzionale (sulla scorta di autorevole dottrina, nell’ambito di un articolato studio del procedimento ex art. 2409 c.c., che si rivela strettamente intrecciato con i problemi sostanziali), diretta in primo luogo a giustificare il mantenimento in vita della norma e a rafforzare l’opinione prevalentemente pubblicistica, condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, pone la norma di correlazione con l’art. 41, comma 2 Cost. (secondo il quale l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale), di cui si rivela una delle più importanti applicazioni, con conseguente riconduzione della fattispecie nella sfera dell’ordine pubblico economico. Ne deriva la conferma dell’attualità della norma, assicurata dall’interpretazione evolutiva che la inserisce nel nuovo contesto normativo e le consente di corrispondere alle nuove istanze (tutela del socio anche per la sua qualità di azionista e quindi di risparmiatore nello spettro della tutela del mercato mobiliare). Secondo quanto emerge come dato ormai acquisito e su cui insistono tutti gli autori e la giurisprudenza, la finalità del procedimento è quella di accertare e rimuovere anche in via preventiva – in vista dell’interesse generale alla corretta gestione – le irregolarità accertate e non invece una funzione sanzionatoria o risarcitoria; da ciò deriva il carattere non “residuale’’ del controllo, ma autonomo e complementare rispetto ad altri strumenti di tutela. In tutte le specie di provvedimenti adottandi (anche per la stessa revoca di amministratori e sindaci), l’attività del Tribunale non è tanto diretta ad integrare quella svolta dagli organi sociali (come è proprio della volontaria giurisdizione), quanto piuttosto a ripristinare una situazione di obiettiva regolarità, infranta dalle inadempienze di amministratori e sindaci. 57

Frè, op. cit., 474. 58

Così A. Patroni Griffi, Il controllo giudiziario sulle società per azioni, Milano, 1971, 324 ss. che ritiene applicabile la norma a «qualsiasi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori», anche a prescindere da colpa o dolo.

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58

1.2.4. L’ART. 700 C.P.C.

Il provvedimento inibitorio può essere concesso dal giudice anche sulla base

dell’art. 700 c.p.c.

La posizione di questo paragrafo alla fine delle ipotesi di inibitoria (definitiva e

provvisoria) non è casuale, in considerazione del fatto che l’art. 700 c.p.c.

costituisce una sorte di valvola di sfogo per tutte quelle situazioni per le quali il

legislatore non abbia previsto la possibilità di ricorrere alla tutela inibitoria e che,

comunque, richiedono un provvedimento specifico mirato a far cessare la

condotta illecita, non potendosi altrimenti garantire una pronta tutela all’interesse

leso.

Peraltro, il fatto che questa ipotesi residuale sia collocata (almeno secondo

l’interpretazione che riteniamo condivisibile) in una norma di diritto processuale e

non di diritto sostanziale sta sottolineare la carenza di una norma di carattere

generale che disciplini la tutela inibitoria, ciò che costringe l’interprete a ricercare

nel codice di rito la soluzione ottimale per sopperire all’impossibilità di ricondurre

la fattispecie concreta ad una specifica previsione normativa.

L’enunciato dell’art. 700 c.p.c. («Fuori dei casi regolati nelle precedenti sezioni di

questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per

far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio

imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti

d’urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare

provvisoriamente gli effetti della decisione di merito») ne evidenzia il carattere

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59

residuale rispetto alle ipotesi di procedimenti cautelari disciplinati dagli articoli

precedenti e ne mostra l’ampia portata operativa, la malleabilità, l’attitudine ad

essere applicato alle situazioni più diverse. Del resto, il giudice che viene chiamato

a pronunciare un provvedimento d’urgenza può muoversi pressoché liberamente

all’interno dei confini tracciati dall’art. 700 c.p.c., può stabilire quale sia il

contenuto del provvedimento più idoneo ad assicurare tutela al diritto di cui si

lamenta la violazione, essendo in ciò vincolato esclusivamente (i) alla mancanza di

un provvedimento cautelare nominato o specifico; (ii) alla sussistenza del fumus

boni iuris (ossia la parvenza della fondatezza delle istanze avanzate dal ricorrente);

(iii) la sussistenza del periculum in mora (che in questo caso sarà particolarmente

qualificato: fondato motivo di temere un pregiudizio imminente o irreparabile)59.

La giurisprudenza ha dato ampia dimostrazione di utilizzare l’art. 700 c.p.c. per

tutte le situazioni sostanziali non coperte da specifiche previsioni di inibitoria. Il

provvedimento del giudice reso ex art. 700 c.p.c., dunque, ben può avere per

contenuto un ordine di fare o non fare60.

Secondo una risalente dottrina61, a dire il vero non più attuale alla luce dei recenti

sviluppi normativi in tema di esecuzione degli obblighi di fare infungibile e di non

fare, il contenuto del provvedimento ex art. 700 trova un limite nell’impossibilità

59

«Effettivamente si tende non solo a torcere la norma in esame verso un’applicazione analogica delle misure conservative, non solo ad allenare le maglie poste dal legislatore alla già ampia discrezione del magistrato, ma a creare una cautela per ogni e qualsiasi diritto soggettivo, dando quasi luogo alla creazione di nuove forme di tutela dei diritti anche oltre quelle predisposte dal legislatore, cercando di avvicinare i provvedimenti ex art. 700 alle misure cautelari proprie del diritto nordamericano (contempt of court) più che alle misure interinali del tipo tedesco (einstweilige Verfügungen)» [M. Dini, Denunzia di nuova opera (la), Giuffrè 1980, 203]. 60

M. Battaglini, Appunti sulla tutela della proprietà industriale con particolare riferimento alla inibitoria, in Arch. Ric. Giur., 1961, III, 47 ss. 61

Dini, op. cit., 206.

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60

di imporre un obbligo di facere di carattere personale in quanto il provvedimento

d’urgenza, perché sia serio ed ottenga il suo scopo, deve essere eseguito

immediatamente, anche senza la collaborazione dell’intimato, o nonostante

qualsiasi sua contraria volontà, il che non si riteneva potesse avvenire per gli

obblighi di fare infungibile.

A sostegno di tale limitazione si affermava, infatti, che in via cautelare non si

poteva concedere quello che non era possibile concedere con l’esecuzione

ordinaria, e perciò, dal momento che il codice ha ammesso l’esecuzione forzata

degli obblighi di fare e non fare, esecuzione che incontrava l’unico limite

dell’infungibilità della prestazione, si deduceva che il contenuto dei provvedimenti

d’urgenza incontrasse quel limite invalicabile.

Come abbiamo accennato, la su riportata prospettiva non sembra più attuale,

atteso che il legislatore, accogliendo le istanze provenienti da più parti della

dottrina, ha introdotto l’art. 614 bis c.p.c. che costituisce una misura compulsoria

di natura pecuniaria, sullo schema dell’astreinte, volta a garantire l’esecuzione

dell’obbligo di fare infungibile o di non fare (anche nell’ipotesi in cui tale obbligo

derivi da un provvedimento giudiziale). Dunque, non sembra che debba ritenersi

ancora sussistente il limite dell’obbligo di fare infungibile quale limite al contenuto

del provvedimento ex art. 700 c.p.c.

2. LA TUTELA INIBITORIA. PRIME RIFLESSIONI.

2.1. CONDIZIONI E PRESUPPOSTI DELL’INIBITORIA.

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2.1.1. L’INIBITORIA FINALE.

Fino a questo punto abbiamo analizzato alcune delle ipotesi di tutela inibitoria

previste dal nostro ordinamento, quelle che, a nostro avviso, appaiono di maggior

interesse e di più ampia applicazione, senza con ciò aver pretesa di esaurirne il

novero62.

È giunto ora il momento di analizzare i presupposti di operatività dell’inibitoria,

proseguendo nella distinzione, già applicata all’esposizione delle fattispecie, tra

inibitoria finale ed inibitoria cautelare.

Abbiamo visto come il nostro legislatore non si sia peritato di fornire una disciplina

generale dell’azione inibitoria né di darne una definizione essenziale. È possibile

comunque rinvenire una definizione, che possa fungere (in attesa di un intervento

in materia) da punto di riferimento per le diverse ipotesi di inibitoria, nell’art. 156

della l. autore, secondo cui «chi ha ragione di temere la violazione di un diritto di

utilizzazione economica […] oppure intende impedire la continuazione o la

ripetizione di una violazione già avvenuta […] può agire in giudizio per ottenere che

il suo diritto sia accertato e sia interdetta la violazione».

In punto di inibitoria definitiva, poi, sembra sufficientemente esaustiva la

definizione enucleata da Frignani63: «L’inibitoria finale si può definire quel

comando del giudice, che, intervenendo processualmente dopo l’accertamento dei

diritti e dei doveri delle parti, ha come contenuto l’obbligo di porre

immediatamente fine a un’attività illecita o di non porla mai in essere. La sua

62

A ben vedere, pronunce inibitorie potrebbero essere concesse anche sulla base degli artt. 890, 2105, 2390, 2557 c.c., art. 28 St. Lav. ed altre ancora. 63

Op. cit., 406.

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62

efficacia si protrae perciò per tutto il tempo durante il quale dispiega i suoi effetti

la sentenza nella quale tale obbligo si rinviene (dunque, fino ad una riforma della

pronuncia nei gradi successivi oppure o permanentemente nel caso di passaggio in

giudicato)».

Presupposto dell’inibitoria è, dunque, l’illecito, laddove deve considerarsi

sufficiente a giustificare un ordine di cessazione non solo e non tanto un illecito già

manifestatosi e perfetto nella sua idoneità lesiva, ma ancor di più e ancor prima la

possibilità o il pericolo della sua continuazione o ripetizione, mentre deve

prescindersi da qualsiasi valutazione del danno e della colpa.

Abbiamo già accennato nelle premesse che l’azione inibitoria rivolge il suo sguardo

al futuro, avendo quale fine quello di prevenire l’illecito o, comunque, di

scongiurare la ripetizione di atti o la continuazione di un’attività contra ius.

Come è intuibile, l’atto soggetto ad inibizione dovrà essere suscettibile di

ripetizione in futuro o dovrà consistere in un’attività che possa protrarsi nel

tempo. Ciò esclude tutte quelle ipotesi in cui la commissione dell’illecito si risolve

in un unico atto, anche perché in tale ipotesi una pronuncia inibitoria del giudice

sarebbe inutiliter data. Peraltro, non necessariamente deve trattarsi di condotte

che siano frutto di un progetto lesivo, attuato mediante il compimento di più atti

di identico contenuto, ma possono semplicemente aversi più condotte, anche

scollegate tra loro, che però nel loro insieme diano quale risultato la lesione

costante nel tempo dell’interesse protetto.

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63

Per quanto attiene alla nozione di «illecito», quale presupposto dell’inibizione,

deve annotarsi come la dottrina ne abbia fatto uso con accezioni diverse, il che

potrebbe essere foriero di equivoci. È necessario, dunque, precisare la nozione di

illecito utile alla nostra indagine.

Come è stato correttamente sottolineato in dottrina, una esatta nozione di illecito

non può prendere quale punto di riferimento l’art. 2043 c.c. e le norme che,

tradizionalmente, vengono raggruppate sotto l’etichetta della responsabilità

civile64.

Gli atti (cioè i comportamenti caratterizzati dalla volontà di colui che li pone in

essere65) illeciti sono quelli che violano un obbligo, specifico o generico, imposto

dalla legge66. Si può dire che per la configurazione dell’illecito non è necessario che

64

V. A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile (a cura di G. Trabucchi), Cedam 2009, 87. Frignani, op. cit., secondo cui «è vero che il legislatore considera i fatti illeciti quale fonte di obbligazione, ma è anche vero che gli artt. 2043 e seguenti ne regolano solo una fra le diverse conseguenze (l’obbligo di risarcimento) e, soprattutto, non forniscono la definizione di atto o fatto illecito». Per una critica al nesso illiceità-responsabilità v. F. Piraino, «Ingiustizia del danno» e antigiuridicità, in Europa dir. Priv., 2005, 711, secondo cui «Nessuna rilevanza assegna invece l'art. 2043 C.C. al requisito dell'illiceità/antigiuridicità della condotta, giacché tale disposizione riferisce la qualificazione di ingiustizia al danno e non già al comportamento dell'agente: è dunque il dato positivo ad escludere l'antigiuridicità dal novero degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità e a proiettare in primo piano la nozione tecnica di danno che giustifica una definizione della responsabilità aquiliana in termini di reazione che il diritto appresta avverso il danno ingiusto imponendo a chi vi ha dato causa l'obbligo di risarcirlo, in funzione della rilevazione e della definitiva dislocazione del danno a carico di colui che viene individuato come responsabile in base ai diversi criteri, soggettivi ed oggettivi, di imputazione». 65

In dottrina si è parlato anche di “volontà consapevole” (Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile

9, Napoli 1966, 110) che poi si sostanzia nella capacità di intendere e di volere al

momento in cui si è compiuto l’atto: in altri termini, è necessario che questo fatto giuridico sia imputabile ad una persona. Si chiarisce poi che quando si parla di volontà non è necessario che il soggetto “voglia” l’effetto o la conseguenza giuridica del suo atto, in quanto questo arriverà automaticamente come sanzione dell’ordinamento giuridico. 66

In tal senso Trabucchi, op. cit., 135; Santoro Passarelli, op. cit., 109 parla di lesione di un diritto soggettivo del singolo «cui viene recato un danno che l’agente è obbligato a risarcire. Ciò vuol dire che la sanzione dell’illecito civile è sempre un’obbligazione (di risarcimento)».

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64

a questo consegua un evento lesivo, la cui realizzazione non è dunque essenziale

affinché si realizzi la violazione di una norma67.

Secondo la prospettiva qui accolta, dunque, il danno o la colpa hanno solo la

funzione di qualificare l’illecito, inteso come violazione di una norma, ma non ne

rappresentano elementi costitutivi.

Per quanto concerne il danno, dobbiamo qui rilevare che presupposto dell’azione

inibitoria è non già la materializzazione di un danno in capo al soggetto agente,

bensì una obiettiva situazione che contrasti con l’interesse fatto valere. Di

conseguenza, il danno assume un ruolo prettamente accidentale nella

configurazione dell’illecito che realizza la condotta inibenda.

La convinzione che il danno non possa in alcun modo costituire presupposto per

l’esperibilità dell’azione inibitoria deriva anche da una considerazione delle

fattispecie di diritto positivo. Infatti, il diritto al risarcimento del danno è sempre

fatto salvo accanto alla previsione normativa dell’inibitoria: talvolta ciò avviene

addirittura nell’ambito della stessa norma (vedi, ad esempio, gli artt. 7, 10, 949,

1079 c.c.), tal’altra in una norma diversa (come accade per l’art. 2600 c.c. in

relazione all’art. 2599c.c.).

L’illecito, dunque, proviene sempre e solo da un atteggiamento contrario al diritto,

da un’invasione della sfera giuridica altrui, comportamento che è condannato

dall’ordinamento giuridico a prescindere dalla presenza del danno. Il danno è

67

Sulla scorta di tale considerazione autorevole dottrina ha evidenziato come non sia corretto parlare di illecito commissivo od omissivo, a seconda che la norma violata o in procinto di essere violata imponga un obbligo di fare o di non fare. Infatti l’illecito è sempre unitario, e solo la condotta può essere commissiva od omissiva [De Ruggiero-Maroi, Istituzioni di diritto civile, (9^ edizione a cura di Maiorca), Milano 1965, I, § 24, 91].

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65

dunque rilevante al solo fine di attivare gli strumenti approntati dal legislatore per

garantirne il ristoro (in forma specifica o per equivalente).

È la lesione del diritto che l’azione inibitoria mira ad impedire per il futuro o

comunque a far cessare, mentre l’azione risarcitoria mira soltanto ad eliminare,

rifondendole al soggetto passivo dell’azione, le conseguenze dannose dell’illecito

stesso. La lesione del diritto, peraltro, non necessariamente deve essere attuale

per poter ricorrere alla tutela inibitoria, essendo sufficiente anche il solo pericolo

di commissione dell’illecito, come dimostrato spesso dal dato testuale [vedi artt.

2409 c.c. (“se vi è fondato sospetto”); 1171 c.c. (chi “ha ragione di temere”)].

Il pericolo della lesione si atteggia dunque a presupposto dell’inibitoria, la quale

richiede sempre il pericolo che l’illecito sia continuato o ripetuto, se già è stato

commesso, o che l’illecito venga commesso, se ancora non si è verificato68.

Discorso di simile tenore deve essere fatto con riferimento alla colpa ed in

generale dell’elemento soggettivo.

È a partire dagli anni ’60 del secolo scorso che la dottrina ha iniziato a scardinare

l’idea tralatizia della colpa quale elemento costitutivo dell’illecito69. Senza però

concentrare l’attenzione sul lungo e acceso dibattito che ha occupato per decenni

le pagine delle riviste giuridiche, è sufficiente qui svolgere una considerazione, più

aderente ai nostri fini: se è vero che l’esperibilità dell’azione inibitoria prescinde

dall’illecito anzi, può prescindere addirittura dal compimento della condotta

integrante l’illecito (perché mirante a prevenirlo), in quelle ipotesi in cui la tutela

68

«Questo è il senso veramente penetrante in cui si dice dell’inibitoria che è un’azione essenzialmente preventiva» (Frignani, op. cit., 415). 69

Per una analisi accurata del problema si rimanda a Piraino, op. cit., 715 ss.

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66

arretra al pericolo che la condotta venga posta in essere, allora ecco che il

problema della colpa, quale presupposto per ottenere l’ordine di cessazione o il

divieto di compimento della condotta, cessa di avere rilevanza.

La considerazione del dolo o della colpa quale elemento integrante l’illecito (sia

che ne venga considerato elemento costitutivo, sia che ne venga considerato solo

un elemento qualificante) non è parte del giudizio di ammissibilità della tutela

inibitoria per il fatto che questa interviene in un momento antecedente a quello in

cui la presenza dell’elemento psicologico assume rilevanza.

Si è più volte detto che l’inibitoria finale è quell’ordine emesso dal giudice all’esito

del giudizio di merito e volto a far cessare una determinata condotta o ad evitare

che questa si ripeta. Coordinando tale assunto con quanto sin qui detto in ordine

alla sufficienza del pericolo dell’illecito per poter aver accesso alla tutela inibitoria,

può chiedersi ora cosa il giudice debba accertare per poter provvedere in

inibitoria.

Si deve ritenere che oggetto dell’accertamento effettuato dal giudice nel giudizio

ordinario sia non già il compimento dell’illecito, quanto la valutazione degli

elementi che ne facciano pronosticare, con ragionevole certezza, la futura

commissione. La peculiarità di questa ipotesi consiste nel fatto che la prova del

pericolo della commissione di un illecito è più difficile, in quanto è estremamente

arduo dare una valutazione ex ante della idoneità dei mezzi messi in atto nei

preparativi ai fini della perpetrazione dell’illecito70. Tuttavia, una volta che si sia

70

Peraltro, non devono necessariamente sussistere degli “atti preparatori” affinché possa rilevarsi la probabilità del futuro compimento dell’illecito. Si pensi, ad esempio, all’escussione di una

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67

accertata tale idoneità ed univocità, non c’è dubbio che il giudice possa emanare

un ordine inibitorio.

2.1.2. L’INIBITORIA PROVVISORIA

A differenza dell’inibitoria definitiva, l’inibitoria provvisoria viene emessa dal

giudice a seguito di una cognizione solo sommaria dei fatti ed è destinata, con le

dovute eccezioni di cui tratteremo più avanti, a perdere efficacia (o ad acquistarla

definitivamente) con la pronuncia della sentenza conclusiva del giudizio di merito.

L’inibitoria provvisoria, dunque, pur assolvendo, in sostanza, ad una funzione

analoga rispetto all’inibitoria definitiva71, poggia su presupposti differenti,

comunemente individuati nel fumus boni iuris e nel periculum in mora.

Scopo dell’inibitoria cautelare (o provvisoria) è sì quello di impedire la

continuazione di un comportamento illecito o di evitare che un futuro illecito

venga commesso, ma solo nella prospettiva di cristallizzare lo stato dei fatti in

attesa che intervenga la pronuncia conclusiva del giudizio di merito.

fideiussione bancaria, che possa essere esercitata non prima di una determinata data, e che si atteggi ad atto illecito qualora venga meno (perché estinto o nullo) il rapporto cui la garanzia accede. In tal caso vi sarebbe la necessità per il debitore garantito e per la banca garante di impedire l’escussione della garanzia, senza però che il creditore abbia necessariamente posto in essere atti che facciano presagire la futura escussione, dovendo ritenersi sufficiente la possibilità concreta che l’illecito si realizzi, laddove tale possibilità può essere valutata in base alla comune esperienza, quale elemento di fatto, ed agli indici di invalidità o di estinzione del rapporto garantito, quale elementi di diritto. Per un’analisi dell’illiceità dell’escussione della garanzia vedi A. Montanari, Garanzia autonoma ed escussione abusiva: nuove tendenze rimediali in una diversa prospettiva ermeneutica, in Europa dir. Priv., 4, 2008, 1024, secondo cui «l’eventuale escussione del beneficiario (nel caso del venir meno del rapporto garantito) non è più soltanto sostanzialmente scorretta, ma anche formalmente illecita, in quanto non sorretta da un corrispondente obbligo oramai estintosi insieme al contratto che ne era fonte». 71

Sostiene l’unitarietà concettuale dell’inibitoria M. Battaglini, op. cit., 214.

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68

È stato affermato da un autorevolissimo interprete72 che «Anche il provvedimento

cautelare è un provvedimento sul merito … ma si tratta di un merito diverso da

quello a cui si riferisce il provvedimento principale». Secondo il grande giurista,

infatti, il giudice anche nel procedimento cautelare deve pronunciarsi sulla

fondatezza dell’azione cautelare, in quanto esso costituisce la conclusione di un

processo (quello cautelare, appunto) separato, nel corso del quale possono essere

emanati provvedimenti istruttori attinenti al processo cautelare.

Di primo acchito, non sembra poter concordare con Calamandrei, atteso che il

merito del giudizio cautelare e quello del giudizio ordinario non differiscono

ontologicamente. La frase riportata, però, va letta in maniera differente,

intendendosi per diversità non quella dell’oggetto dell’esame del giudice, bensì

quella degli strumenti predisposti per la ricerca della soluzione giuridica idonea a

regolare il caso concreto.

Il discrimine tra giudizio cautelare e giudizio di merito, infatti, non è da individuare

nella diversità dell’oggetto del giudizio, ma nella diversa (o, se vogliamo, solo più

ridotta) strumentazione di cui dispone il giudice del procedimento cautelare

rispetto a quello del giudizio ordinario.

La celerità che richiede la domanda cautelare preclude al giudice di esperire quei

mezzi istruttori che nel giudizio ordinario hanno la funzione di approfondire le

questioni fattuali e giuridiche, e che richiedono tempi incompatibili con le esigenze

cautelari. Dunque, non tanto il merito è diverso quanto il percorso che conduce

alla sua corretta valutazione. Per semplificare, potremmo dire che nel giudizio

72

P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Riv. Dir. Proc. 1960, I, 23 ss.

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69

cautelare l’indagine sommaria del giudice è finalizzata ad accertare quegli

elementi del fatto che rendono verosimile il fumus boni iuris (di cui pure deve

essere data un minimo di prova) rappresentato dal ricorrente; verosimiglianza che

il giudicante deve valutare secondo l’id quod plerumque accidit.

Il secondo presupposto per l’emissione di un ordine cautelare di cessazione è il

periculum in mora.

Il ruolo svolto da questo requisito è desumibile dalla funzione stessa dell’inibitoria

cautelare. Per poter emettere il provvedimento anticipatorio, infatti, il giudice

deve rilevare l’esistenza del pericolo che, nel tempo necessario a far valere il

proprio diritto in sede ordinaria, questo venga irrimediabilmente compromesso.

Una volta rilevato tale rischio, interviene la necessità di congelare la situazione

esistente in attesa che questa venga confermata o modificata dalla pronuncia di

merito.

Il periculum che sottende alla pronuncia di inibitoria cautelare è, dunque, diverso

dal pericolo che si realizzi o si ripeta l’illecito. Che non si tratti del pericolo

generico dell’illecito lo dimostra il fatto che nella previsione normativa di tutte le

misure cautelari esso è sempre qualificato, anche se in vario modo. Può in questa

sede ricordarsi il “pericolo di danno” nella denuncia di nuova opera; il “pericolo di

danno grave e prossimo” nella denuncia di danno temuto; il pericolo di un

“pregiudizio imminente e irreparabile” nei provvedimenti d’urgenza.

Nonostante si possa rilevare in queste disposizioni una mancanza di

coordinamento, dovuta alla loro diversa collocazione sistematica, è tuttavia

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70

possibile scorgere un elemento comune, rappresentato dal riferimento costante

ad un evento che sia in procinto di accadere, a meno che non vi si ponga

immediato rimedio.

Peraltro, dobbiamo ribadire come il danno cui fanno riferimento le norme citate

non deve identificarsi con l’effetto lesivo di una condotta, ma piuttosto con la

perdita della possibilità che il giudice possa utilmente restaurare la situazione

precedente. Questo tipo di danno può verificarsi in due ipotesi: (i) quando sia

divenuto impossibile raggiungere in modo utile il provvedimento definitivo; (ii)

quando si possa giungere al pieno soddisfacimento del diritto, ma in ritardo.

Un ultimo appunto va fatto con riferimento all’efficacia del provvedimento

cautelare.

Abbiamo sin qui descritto il provvedimento cautelare così come pensato dal

legislatore e delineato dalle norme del codice di procedura civile73. L’inibitoria

provvisoria (o cautelare) si pone quale intervento del giudice, su istanza di parte,

finalizzato a cristallizzare una determinata situazione in attesa che sul merito

intervenga la pronuncia conclusiva del giudizio ordinario. In tale ottica, l’efficacia

del provvedimento cautelare è strettamente connessa all’introduzione e all’esito

del giudizio svolto secondo le forme ordinarie, tanto che l’art. 669-octies c.p.c.

(che, comunque, non si applica ai procedimenti ex art. 700 c.p.c.) prevede che

73

V. G. Olivieri, Brevi considerazioni sulle nuove norme del procedimento cautelare uniforme, in www.judicium.it, 2005; R. Caponi, Provvedimenti cautelari e azioni possessorie, in Foro it. 2005, V, 89 ss.; AA.VV., Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005, in Foro it. 2005. Utili considerazioni anche in Ciavola, Il processo di cognizione dopo la L. 80/2005 e dopo la proroga disposta con D.L. n. 115/2005, in www.altalex.it; A. Gentili, Tutela cautelare anche negli arbitrati, in Guida al diritto, n. 22/2005, p. 82 e ss.; ID., Accertamenti tecnici a contenuto più ampio, ivi, p. 88 e ss. R. Caponi, La tutela sommaria nel processo cautelare in prospettiva europea, in Rivista Trimestrale di diritto e procedura civile 2004, 1384.

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71

«l’ordinanza di accoglimento, ove la domanda sia proposta prima dell’inizio della

causa di merito, deve fissare un termine perentorio non superiore a sessanta giorni

per l’inizio del giudizio di merito», mentre il successivo art. 669-novies stabilisce

che «se il procedimento di merito non è iniziato nel termine perentorio di cui

all’art. 669-octies, ovvero successivamente al suo inizio si estingue, il

provvedimento cautelare perde la sua efficacia».

Provvedimento cautelare e provvedimento ordinario devono essere lette come un

unicum, dove il primo esiste solo in funzione del secondo e l’efficacia della tutela

cautelare (anche quella inibitoria) trova giustificazione solo nella prodromicità

rispetto al giudizio ordinario74.

Su tale consolidato assetto si innesta l’intervento del legislatore del 2005 (l.

80/2005, applicabile ai processi instaurati dopo il 1° marzo 2006) e

l’interpretazione giurisprudenziale, di recente sviluppatasi, che ha iniziato a

scardinare il nesso di consequenzialità tra giudizio cautelare ed ordinario75. Il

74

Sulla posizione della giurisprudenza in ordine al rapporto giudizio cautelare-giudizio di merito v. Trib. Salerno, sez. I, 24 gennaio 2009, che, in tema di sequestro, ha affermato «Atteso che l'ottenimento da parte del sequestrante di una sentenza esecutiva di condanna comporta l'automatica conversione del sequestro conservativo in pignoramento e l'inizio del processo esecutivo, ove si verifichi l’estinzione del processo esecutivo, consegue automaticamente l'inefficacia del pignoramento in cui si è convertito "ipso iure" il sequestro». E ancora «Nel caso in cui il giudizio di merito, promosso a seguito dell'emissione di un provvedimento cautelare, si concluda con la dichiarazione di inammissibilità della domanda (nella specie, per difetto di procura ad litem), nulla osta a che il giudice, investito dell'intera cognizione, revochi contestualmente la misura cautelare concessa ante causam, divenuta ipso iure inefficace» (Cassazione civile , sez. I, 23 giugno 2008 , n. 17028). Infine «Ai sensi dell'art. 669 novies, comma 3, c.p.c., il provvedimento cautelare (nella specie sequestro) perde efficacia sia nel caso di dichiarazione di inesistenza, anche se con sentenza non passata in giudicato, del diritto a tutela del quale il provvedimento è stato concesso, sia nell'ipotesi inversa, in cui, accogliendosi la domanda di merito, sia affermato a chi spetti la titolarità del diritto sul bene, la cui integrità il sequestro aveva la funzione di conservare per assicurare al provvedimento attributivo la sua pratica efficacia» (Cassazione civile , sez. III, 04 giugno 2008 , n. 14765). 75

Nota R. Caponi, La nuova disciplina dei procedimenti cautelari in generale, in Foro italiano, 2006, V, 69, «Alla stregua delle modifiche introdotte dalla l. n. 80/2005 (applicabile ai processi di

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72

nuovo atteggiamento del legislatore e della Giurisprudenza in ordine alla

correlatività tra pronuncia cautelare e pronuncia di condanna consiste in ciò, che

non si ritiene più il provvedimento cautelare necessariamente preordinato

all’instaurazione del giudizio di merito (da cui deriva, quale corollario, una

maggiore elasticità dei giudici in caso di mancata indicazione nel ricorso cautelare

del giudizio di merito che si intende introdurre). E ciò in quanto con il

provvedimento cautelare spesso si esaurisce l’esigenza di tutela del ricorrente.

cognizione instaurati dopo il 1° marzo 2006), che raccolgono proposte da tempo avanzate ed anticipate nel processo societario dall’art. 23, 1° e 2° comma d. lgs. n. 5/ 2003, tale nesso strutturale tra provvedimento cautelare e giudizio di merito è venuto meno in relazione al rilascio di uno dei provve-dimenti cautelari elencati dall’art. 669-octies, 6° comma c.p.c. (in breve: provvedimenti cautelari “anticipatori”), mentre è rimasto intatto in relazione al rilascio di misure cautelari di contenuto puramente “conservativo”. Venuto meno tale nesso, il rapporto tra i provvedimenti cautelari anticipatori ed il giudizio di merito è analogo a quello proprio dei provvedimenti sommari semplificati esecutivi. Essi sono dotati cioè di una efficacia meramente esecutiva, che non viene meno se il processo a cognizione piena non viene instaurato o si estingue e può protrarsi indefinitamente nel tempo, fino all’esaurimento del conflitto di interessi o fino alla sentenza che si pronuncia in via di cognizione piena sul diritto. Le misure cautelari anticipatorie continuano tuttavia a distinguersi dai provvedimenti sommari semplificati esecutivi, poiché presuppongono il periculum in mora e rimangono potenzialmente al servizio del provvedimento definitivo. Ciò vale anche per i provvedimenti cautelari totalmente anticipatori del contenuto di quest’ultimo: perché il loro tenore si commisura pur sempre a quello di un ipotetico provvedimento definitivo, perché la loro emanazione scongiura la tardività di quest’ultimo. Pertanto occorrerà pur sempre indicare nel ricorso cautelare la domanda di merito, non solo al fine di individuare il giudice competente ai sensi dell’art. 669-ter c.p.c.. Preferibile sarebbe stato eliminare il nesso strutturale tra provvedimento cautelare e giudizio di merito in relazione a tutti i provvedimenti cautelari, come suggeriscono argomenti tratti non solo dalla comparazione con altri ordinamenti, ma anche dalla funzione di economia processuale cui obbedisce la modifica legislativa, nonché dall’opportunità». Questo è il contenuto normativo dell’art. 669-octies, 6°, 7° ed 8° comma c.p.c., aggiunti dalla l. n. 80/2005: i provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 c.p.c., gli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, previsti dal codice civile o da leggi speciali, nonché i provvedimenti emessi a seguito di denuncia di nuova opera o di danno temuto ai sensi dell’art. 688 c.p.c., non perdono efficacia se la causa di merito non viene instaurata o se si estingue. Se tali provvedimenti sono rilasciati ante causam, il giudice non assegna il termine perentorio per l'instaurazione della causa di merito. In tal caso ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito. L’estinzione del giudizio di merito non determina l’inefficacia di tali provvedimenti, nemmeno quando la relativa domanda è proposta in corso di causa. Infine “l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo”. In relazione alle misure cautelari conservative, il termine per l’instaurazione del giudizio di merito è allungato da trenta a sessanta giorni (art. 669-octies, 1° comma c.p.c., modificato).

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73

Allorquando con il provvedimento cautelare venga completamente tutelato

l’interesse minacciato, non essendovi più bisogno di un successivo giudizio che

valuti il merito della questione, l’inibitoria dovrà considerarsi autosufficiente76.

Secondo l’ipotesi da ultimo considerata, dunque, la scelta del procedimento

sommario sarà dettata non dalla prospettiva dell’introduzione di un futuro giudizio

di merito, ma dalla necessità di ottenere un provvedimento inibitorio nel più breve

tempo possibile.

L’inibitoria così pronunciata non potrà che considerarsi anch’essa definitiva, ed il

luogo in cui si realizza la richiesta di protezione diventerà non più il giudizio

ordinario bensì quello, più rapido, del giudizio cautelare.

In quest’ottica, dunque, risulta sorpassata, perché eccessivamente rigida, la

connessione, fatta dalla dottrina più risalente, tra inibitoria cautelare e giudizio

cautelare ed inibitoria finale e giudizio ordinario proprio perché, come dicevamo,

ben può aversi una pronuncia inibitoria definitiva già nella sede che, a questo

punto solo processualmente, definiremo cautelare.

76

Si pensi al caso in cui si chieda l’inibitoria di un comportamento che non possa più essere esercitato dopo un certo termine (ad esempio, la molestia apportata all’uso di un balcone preso in locazione per assistere al Palio di Siena) o che, dopo tale termine, non costituisca più una minaccia per il titolare dell’interesse leso. In questa ipotesi il provvedimento cautelare, seppur emanato nell’ambito di un procedimento sommario, non dovrà essere confermato o revocato in successivo giudizio di merito, atteso che il decorso del termine ne esaurisce la funzione, e comporta il venir meno per il titolare dell’interesse all’accertamento del diritto in sede ordinaria, a meno che tale giudizio non venga comunque instaurato per poter usufruire di altri rimedi (risarcimento del danno, restituzioni etc.).

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74

2.2. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’INIBITORIA.

Fino a non molto tempo fa prevaleva nella dottrina la convinzione che l’inibitoria

fosse posta a difesa di tutti i diritti assoluti, sia patrimoniali che non patrimoniali77,

mentre vi era notevole incertezza circa l’applicabilità di tale strumento ai diritti di

obbligazione.

La questione ha avuto origine all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso,

allorquando la dottrina ha iniziato a scardinare il collegamento tralatizio tra azione

inibitoria e diritto assoluto78, che veniva utilizzato quale argomento a contrario per

affermare che la presenza di una tutela di carattere inibitorio era indice della

natura di diritto assoluto dell’interesse tutelato.

La dimostrazione di quanto asfittica fosse l’originaria teoria, che accomunava la

tutela inibitoria con i diritti assoluti, è operazione non troppo complessa sol che si

ripercorra l’esame analitico delle fattispecie che prevedono forme di tutela

inibitoria.

77

Messineo, Manuale cit., II, 2, 244 (secondo il quale l’inibitoria rappresenta l’azione generale contro la violazione di obbligazioni di non fare); Ascarelli, op. cit. 36. Contra G. Santini, I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, 118 ss., secondo cui l’inibitoria si può applicare esclusivamente in quelle fattispecie nelle quali è espressamente prevista, pur riconoscendo che essa si rinviene a tutela di diritti assoluti, relativi e, addirittura, di interessi legittimi. 78

A questa conclusione si arrivava considerando che le fattispecie nelle quali il legislatore prevedeva espressamente l’inibitoria erano riconducibili a diritti assoluti. Il “revirement” della dottrina ha avuto origine dai dubbi sorti in ordine alla natura dei diritti tutelati dall’art. 2599 c.c. in tema di concorrenza sleale. Nel ragionamento, tuttavia, ancora mancava il corretto inquadramento, tra le azioni inibitorie, dell’azione di manutenzione concessa anche al possessore. Sul problema v. Santini, op. cit., 118 ss.

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75

È facile notare, infatti, che non sono tutelati solo diritti assoluti di natura

patrimoniale e non patrimoniale, ma anche altre situazioni (si pensi al possesso e

alla concorrenza sleale) non riconducibili a diritti assoluti79.

Più complessa appare la questione relativa all’estendibilità della tutela inibitoria ai

diritti relativi. La via per giungere a tale soluzione è da individuare in ragioni di

carattere logico-sistematico. Se si parte, infatti, dall’affermazione per cui

l’inibitoria costituisce la sanzione tipica degli obblighi di non fare (la cui violazione,

pertanto, sarebbe sempre sanzionabile attraverso l’ordine di cessazione), sulla

base della considerazione che gli obblighi di non fare trovano la loro fonte non

solo nei diritti assoluti (secondo il principio neminem laedere) ma anche nei diritti

relativi o di obbligazione, ne deriva che non vi sono ostacoli a che l’inibitoria si

applichi anche per questi ultimi80.

La discussione si sviluppò, per la verità, sul campo della concorrenza e dei suoi

limiti legali e convenzionali. Ciò in quanto la materia costituita da fattispecie

caratterizzate dal diritto soggettivo di un imprenditore all’astensione dalla

concorrenza da parte di altri. Astensione che si sostanzia, quasi sempre, in obblighi

di non fare che conferiscono «peculiare rilievo in questo campo all’azione di

79

Sul punto Frignani, op. cit., 443 secondo cui «sul piano dogmatico, poi, basta considerare che i diritti assoluti, per la loro stessa natura, includono l’idea di uno ius excludendi omnes alios; il che genera in tutti i terzi un obbligo di carattere negativo o di non facere, contro le cui violazioni si deve sempre ritenere ammessa l’azione inibitoria». 80

V. S. Mazzamuto, L’esordio cit.. secondo cui l’inibitoria applicabile alle obbligazioni «costituisce la forma di tutela preventiva più solida dal punto di vista dogmatico poiché ancorata alle obbligazioni negative il cui inadempimento, consistente nella violazione dell’astensione, può essere seriamente contrastato soltanto con la generalizzazione … della tutela inibitoria». V. anche L Gatt, La tutela inibitoria del diritto al contratto, in Dir. Giur., 2005, 509 la quale, in tema di obbligo di conclusione del contratto definitivo in forza del preliminare, afferma che «sorge chiaramente l’esigenza del ricorso a rimedi che impediscano l’alterazione irreversibile della situazione prevista dal contratto preliminare, destinata a realizzarsi (compiutamente solo) con il contratto definitivo».

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76

inibizione»81. Ascarelli stesso, autore dell’affermazione da ultimo citata, giunse alla

conclusione che l’inibitoria è una forma di tutela tipica di tutta la disciplina della

concorrenza, in quanto questa sancisce obblighi omissivi o di non fare ripetibili o

continuati nel tempo.

Proprio l’ampiezza della concezione ascarelliana della concorrenza, nella quale vi

rientravano anche i limiti legali e contrattuali alla stessa, condusse a ritenere che

l’inibitoria fosse rimedio applicabile anche ai diritti relativi.

Analogo ragionamento viene effettuato da un altro autore, coevo di Ascarelli, il

quale, a proposito delle clausole di concorrenza, affermò che «la desistenza

dell’attività anticoncorrenziale e il risarcimento dei danni, sono le due

fondamentali conseguenze dell’inadempienza in ogni caso»82.

Tale affermazione rappresenta solo una conseguenza di una premessa più ampia

svolta dal medesimo Autore il quale, a proposito della concorrenza sleale,

affermava che «rispetto ad ogni categoria di illecito civile [bisogna] distinguere

una azione inibitoria da un’azione di risarcimento». La necessità di ammettere

l’inibitoria quale strumento a tutela di ogni diritto soggettivo «deriva dallo stesso

concetto di norma giuridica, che postula una sanzione altrettanto estesa quanto il

precetto», dunque «se la unica sanzione dell’illecito fosse l’obbligo di risarcire […]

ne verrebbe che il diritto soggettivo consacrato nella norma sarebbe dalla sanzione

solo imperfettamente difeso, il che ripugna al carattere della norma giuridica»83.

81

Ascarelli, op. cit., 79. 82

M. Rotondi, Diritto industriale, CEDAM 1965, § 350, 546. 83

Rotondi, ibidem, 519 ss. L’autore afferma che l’azione inibitoria si pone quale rimedio generale, trovandone la fonte nell’art. 2043. Egli afferma, infatti (Istituzioni di diritto privato, Milano 1965,

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77

Questa teoria era già stata prospettata sotto il vigore del codice del 1865. Si

sosteneva, infatti, che nella obbligazione negativa duratura, nella quale il singolo

atto contrario non esclude la possibilità di ulteriori violazioni, il creditore può

domandare, oltre al risarcimento del danno e all’eventuale penale, l’ulteriore

adempimento dell’obbligazione di interdizione, volta a proibire all’obbligato di

compiere ulteriormente e per tutta la durata dell’obbligazione l’atto vietato84.

Vi era, poi, una tesi diametralmente opposta a quella sin qui esposta, la quale non

solo negava che l’inibitoria fosse l’espressione di un principio generale rinvenibile

nel nostro ordinamento e, per tale motivo, applicabile all’inadempimento di tutte

le obbligazioni negative, indipendentemente dalla loro fonte, ma negava altresì

che questa costituisse strumento peculiare applicabile a tutti i rapporti

riconducibili all’ambito del diritto industriale o della concorrenza. In altre parole, il

fatto che il legislatore abbia previsto speciali azioni inibitorie tipiche, vuoi in via

cautelare, vuoi in via definitiva, senza stabilire espressamente un principio

generale in tal senso volto a prevenire il compimento di atti illeciti, avrebbe

dovuto condurre alla conclusione che il giudice non potesse applicare una misura

406 ss.) «che se anche si avessero scrupoli terminologici ad ammettere che l’obbligo di risarcire comprende l’obbligo di reintegrare, poiché l’art. 2043 è l’unico, nel nostro ordinamento giuridico positivo vigente, su cui si fonda il sistema delle sanzioni che derivano dall’illecito civile, giova rilevare che esso presuppone, e non esclude, come primo effetto dell’illecito, l’obbligo di far cessare la lesione, cui segue quello della reintegrazione. Ciò è tanto più sicuro, in quanto l’obbligo di far cessare la lesione sussiste anche nella ipotesi in cui il diritto altrui sia stato leso senza colpa, ed esuli quindi l’applicazione dell’art. 2043». Conclude così dicendo che gli effetti dell’illecito saranno, in ordine logico: a) la cessazione; b) il ripristino in natura; c) il risarcimento per equivalente pecuniario. 84

L. Coviello, L'obbligazione negativa, Napoli 1934, II, 159. Prima di lui già V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma 1915, 563 il quale affermava che «Se oggetto dell’obbligazione […] è un’astensione continuativa […] è pur possibile escogitare mezzi che, mentre rimettono le cose allo statu quo ante, rendano al tempo stesso possibile la prestazione negativa per l’avvenire», ritenendo che l’art. 1222 potesse applicarsi anche «a tutti i casi in cui si renda possibile la remissione in pristino pur non occorrendo abbattimento o distruzione di cose materiali».

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non prevista in modo esplicito, né ricavabile, per analogia, dalle fattispecie tipiche

esistenti85.

Tale linea di pensiero, però, se poteva considerarsi giustificata dal fatto che, a

parte le azioni di denuncia di nuova opera e di danno temuto, il codice non

prevedeva altre forme di inibitoria, oggi non trova più appigli argomentativi.

Le fattispecie del nostro Codice civile e delle leggi speciali in cui si prevede una

tutela inibitoria (il cui numero è ben più ampio di quello esposto, in maniera

semplificativa, nei primi capitoli del presente lavoro) abbracciano, con tutta

evidenza, interi campi del diritto privato (proprietà, possesso, diritti reali,

concorrenza, tutela ambientale, beni immateriali) per cui si può affermare che

l’intero diritto privato è permeato di ipotesi di inibitoria. Ulteriore considerazione,

che porta a ritenere superata la tesi restrittiva sull’applicabilità della tutela

inibitoria, è mossa da ragioni di politica del diritto. Uno strumento, quale

l’inibitoria, che ha un effetto immediato (se correttamente applicato ed eseguito)

sulla continuazione dell’illecito (o sulla sua commissione) si presta ad un largo e

generalizzato uso, non solo in quei campi (come il diritto industriale e la

concorrenza) dove maggiore si sente la necessità di risolvere nel minor tempo

possibile i conflitti tra interessi contrapposti (in ossequio all’antico adagio per cui

“il tempo è denaro”), ma anche in tutte quelle ipotesi (e sono per la verità la

stragrande maggioranza) in cui l’inadeguatezza del sistema giudiziario a dare

risposte in tempi ragionevoli alle domande di ristoro dei danni subiti a seguito

85

Santini, op. cit., 120.

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dell’altrui attività lesiva, rende quantomeno indispensabile che almeno tale

attività non continui a produrre nocumento.

Peraltro, deve evidenziarsi come l’utilizzo dell’art. 700 c.p.c., quale grimaldello per

estendere la tutela inibitoria a quelle fattispecie in cui la norma non la prevedeva,

fu criticato da un autorevolissimo giurista il quale riteneva che anche la tutela

d’urgenza dovesse trovare applicazione solo nei casi in cui il ricorrente fosse

titolare di un diritto immediato ed assoluto sul bene oggetto di contestazione86.

È evidente che la censura del Satta, per le ragioni su esposte, sia oggi totalmente

inaccoglibile.

Anzi, proprio la dimostrata ammissibilità della tutela inibitoria provvisoria, nelle

forme dell’art. 700 c.p.c., ai diritti relativi porta alla logica conclusione che questi

possano trovare tutela anche nell’inibitoria finale, non essendovi motivi per

discriminare questa tutela se non per (irrilevanti) ragioni processuali.

In conclusione, ragioni di carattere logico-sistematico (inerenti la possibilità che

l’obbligo di non fare abbia origine contrattuale e non sia solo il riconoscimento di

un diritto assoluto) nonché ragioni di buon senso giuridico (per le quali dovrebbe

risaltare quale interesse primario per l’ordinamento quello di impedire il

compimento o il ripetersi di un illecito) e considerazioni di carattere processuale,

86

È la tesi del Satta, Esecuzione forzata4, in Trattato di diritto civile, diretto da F. Vassalli, Torino

1964, 4 ss. L’illustre Autore deduce la non estensibilità dei provvedimenti d’urgenza ai diritti relativi dal rapporto intercorrente fra la tutela provvisoria propria del provvedimento d’urgenza e la decisione del merito, giacché i provvedimenti d’urgenza tenderebbero ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione per evitare che le more del giudizio di cognizione possano recare pregiudizio al diritto fatto valere nel giudizio stesso. I diritti di obbligazione rimangono in linea di principio fuori dell’orbita del provvedimento in quanto essi, come tali, non possono mai essere pregiudicati dalle more del giudizio.

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fanno ritenere che la tutela inibitoria sia rimedio applicabile in via generale

superando il limite costituito dalla tipizzazione delle singole fattispecie.

Ciò nonostante, non possiamo esimerci dall’ammettere che l’art. 700 c.p.c.,

proprio perché norma duttile e, forse, formulata in senso troppo generico, non

può costituire il pilastro per il riconoscimento di un’inibitoria generale nel nostro

ordinamento. Anche a seguito dell’introduzione nel nostro codice di rito dell’art.

614 bis, che introduce uno strumento compulsorio di natura pecuniaria che si

attaglia perfettamente alla violazione dell’inibitoria e che potrebbe far presagire

all’introduzione di una disciplina generale dell’ordine di cessazione, non sembra

ancora soddisfatta l’esigenza di positivizzare l’inibitoria quale istituto generale.

2.3. IL CONTENUTO DEL PROVVEDIMENTO INIBITORIO.

Abbiamo visto nei paragrafi precedenti che l’inibitoria rientra nella categoria dei

provvedimenti di condanna e si sostanzia nell’ordine, rivolto alla parte

soccombente, di interrompere una condotta in essere o di non compierne una in

futuro.

È noto che l’inibitoria può esplicitarsi in un ordine di non fare o in un ordine di

fare. Da qui la divisione tra inibitoria negativa e inibitoria positiva.

L’inibitoria negativa non pone particolari problemi interpretativi, atteso che, in

primo luogo, il legislatore la prevede in modo esplicito in numerose fattispecie;

secondo poi, l’ordine di cessazione rappresenta, anche intuitivamente, l’ipotesi più

frequente di applicazione della tutela inibitoria.

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81

Quella che crea qualche grattacapo all’interprete è, invece, l’inibitoria positiva.

Se infatti non vi è dubbio alcuno che il giudice possa vietare ad un soggetto il

compimento (o la ripetizione) di un atto che integri un’ipotesi di illecito, non

altrettanto pacifico risulta riconoscere al giudice il potere di imporre un

determinato comportamento al fine di evitare l’illecito87.

Un primo problema si presenta con riferimento alla nozione stessa di inibitoria.

Come abbiamo visto analizzandone l’etimologia, il termine “inibire” ha il

significato preciso di interrompere, impedire, evitare. Come può, allora,

ricomprendersi nella categoria concettuale dell’inibitoria un ordine a contenuto

positivo, che mira non ad impedire ma a costringere un soggetto ad un

determinato contegno?

Il dubbio che può sorgere al riguardo trova pronta soluzione nella considerazione

che la funzione impeditiva dell’inibitoria ha riguardo non già alla condotta (per

quanto sia, di fatto, questa che viene inibita), bensì alla realizzazione dell’illecito.

Ecco dunque che la condotta diviene elemento intermedio del processo che ha

quali estremi l’ordine di cessazione e l’impedimento dell’illecito. In altre parole,

l’intervento sulla condotta da parte del giudice diventa solo un momento

strumentale ad impedire che si realizzi o che si ripeta l’illecito, e solo con

riferimento al fine ultimo dell’inibitoria deve ricavarsene la sua funzione

interruttiva o impeditiva.

87

Alcuni autori ritengono che l’ordine inibitorio abbia una concreta efficacia solo quando abbia un contenuto negativo, sia rivolto cioè ad impedire un facere, ed il soggetto che víola tale ordine abbia posto in essere cose materiali che sia possibile distruggere. Infatti, tale sentenza sarebbe suscettibile di esecuzione forzata, mediante distruzione della cosa realizzata, ai sensi dell’art. 2933 cc. (Satta, Esecuzione forzata cit., 273 ss.).

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82

Una volta svincolato il profilo dell’intervento sulla condotta dalla nozione di

inibitoria, risulta più agevole accettare che l’ordine del giudice possa sostanziarsi

sia in un divieto (di ripetere o di compiere) sia in un obbligo (di tenere un

determinato comportamento al fine di impedire l’illecito).

Del resto, tale duplicità di contenuto del provvedimento giudiziario rispecchia

esattamente la doppia natura del dovere violato, che può consistere in un facere o

in un non facere, e la conseguente doppia natura della condotta illecita, che può

essere omissiva o commissiva. Di conseguenza, di fronte ad un illecito commissivo

(violazione di un obbligo di non fare) si avrà una condanna a un non facere; in

presenza di un illecito omissivo (violazione di un obbligo di fare) si avrà una

condanna a un facere.

Il campo sul quale si manifesta più profonda la distinzione tra l’inibitoria positiva e

l’inibitoria negativa è quello della sua esecuzione forzata, atteso che, come

vedremo nel paragrafo successivo, l’ordine negativo presenta maggiori profili di

problematicità rispetto a quello positivo. È sufficiente qui anticipare che un vero

problema, relativo all’esecuzione forzata, si pone con riferimento agli obblighi

infungibili, per i quali non è pensabile un’esecuzione diretta.

2.4. L’ESECUZIONE FORZATA DELL’ORDINE INIBITORIO. L’ART. 614 BIS C.P.C.

Il tema dell’esecuzione forzata dell’ordine inibitorio è uno dei più spinosi

dell’intera materia. Quello dell’esecuzione, infatti, è il campo in cui la speculazione

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83

giuridica trova concreta attuazione, e dove perciò si scontra con gli impedimenti

della realtà, imprevedibili o comunque spesso ignorati dai teorici del diritto88.

Dobbiamo innanzitutto dar conto di una questione di fondo circa l’esecuzione

degli ordini di fare (soprattutto se infungibile) e non fare, ed è quella che attiene al

rapporto tra sentenza di condanna ed esecuzione, soprattutto in quei casi in cui

l’esecuzione non sembri possibile89.

In passato (ma il dibattito non può dirsi certo sopito) è stato affermato che «in

tanto può essere emanata una sentenza di condanna […] in quanto la prestazione

del soccombente sia coercibile e suscettibile di esecuzione forzata in forma

specifica». Dunque, «il giudice civile deve arrestarsi di fronte ad un ostacolo che è

posto dalla stessa funzione del processo cui è preposto» per cui «non si potrà

emanare una condanna che esuli dagli schemi fissi e costanti del processo di

cognizione»90.

88

Non è infrequente rinvenire negli scritti degli interpreti del diritto sostanziale frasi del tipo “questa è materia da processualisti”, ignorando che gli istituti giuridici hanno ragion d’essere solo ed in quanto siano concretamente realizzabili nella realtà dei rapporti sociali. 89

È fin da ora opportuno sottolineare come venga ritenuta infungibile tanto la prestazione obiettivamente ineseguibile ad opera di un terzo, quanto quella che, postulando una specifica ed autonoma determinazione di volontà dell’obbligato, si risolve in una sua condotta strettamente personale, e quindi, del tutto insostituibile; la giurisprudenza, in tal senso, ritiene incoercibili sicuramente i facere consistenti in un’attività negoziale o, più in generale, nel compimento di atti giuridici. A maggior ragione, devono poi ritenersi infungibili gli obblighi di facere che presuppongono l’adempimento di una prestazione da parte di un terzo, come ad esempio, nei casi in cui l’obbligato abbia promesso la vendita di cosa altrui, o nel caso di promessa del fatto del terzo. Il legame tra fungibilità e contenuto materiale della prestazione è evidente soprattutto, nell’esame delle pronunce in materia, in relazione agli obblighi di non fare, che si risolvono in un dovere d’astensione, per la cui eseguibilità specifica è condizione indispensabile che la violazione si sia tradotta nella creazione di un quid novi, suscettibile di distruzione, ossia eliminabile attraverso un’attività puramente fisica, che, in quanto tale, può essere compiuta anche da un soggetto diverso dall’obbligato, giacché soltanto in tal caso l’intervento del giudice può determinare il ripristino della situazione preesistente, compromessa ed alterata dal soggetto che era tenuto ad astenersi da qualsiasi modificazione. 90

A. Tabet, L'ordine di cessazione in negatoria e confessoria, in Studi in onore di Corsetti, Milano 1965, 718. L’autore parte dal quesito se sia ammissibile o meno un processo di condanna relativamente a diritti di contenuto relativo, che si concluda con la condanna ad un’astensione. A

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84

Dunque, nell’ottica così prospettata, la tutela del diritto trovava un limite nella

eseguibilità coattiva della sentenza di condanna91.

A nostro sommesso parere, una siffatta concezione del rapporto tra diritto

sostanziale e diritto processuale (dove, addirittura, si auspicava un aggiornamento

delle norme di diritto sostanziale per renderle più aderenti al sistema processuale,

con una totale inversione del rapporto situazione sostanziale-tutela processuale)

non può trovare accoglimento perché sistematicamente incoerente e, ad oggi,

superata dal legislatore.

Infatti, tale linea di pensiero omette totalmente di considerare un’ipotesi che, per

quanto storicamente si verifichi di rado, è comunque una possibilità che il

processualista non può ignorare: l’adempimento spontaneo92.

sua volta, per sentenza di condanna egli intende quella caratterizzata dal fatto di costituire titolo esecutivo, nel senso di essere idonea ad essere eseguibile coattivamente, e perciò tale tipo di sentenza troverà il suo limite naturale di ammissibilità entro l’ambito di quei diritti che sono per loro natura realizzabili coattivamente e rispetto ai quali l’ordinamento giuridico appresta i mezzi per la loro esecuzione forzata. 91

Sosteneva ancora il Tabet che «l’unica forma di tutela dei diritti di contenuto negativo, come per i diritti ad un fare infungibile, è […] il processo di mero accertamento, quando naturalmente ricorra il corrispondente interesse ad agire» (op. cit., 117). 92

Sembra di questo avviso anche la Corte di Cassazione secondo cui «È ammissibile la pronuncia di condanna resa dal giudice nella ipotesi di infungibilità (e, dunque, di incoercibilità) del facere dell'obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti dall'inosservanza dell'ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile, successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento» (Cassazione civile , sez. III, 13 ottobre 1997 , n. 9957). Nella specie, la S.C., enunciando il suindicato principio di diritto, e confermando la pronuncia del giudice di merito, ha ritenuta legittima la domanda - e la relativa sentenza di accoglimento - proposta da un fideiussore per ottenere la condanna del confideiussore alla sua liberazione dall'obbligazione di garanzia in parte qua, in adempimento ad una convenzione tra di essi intercorsa, escludendo la validità dell'obiezione secondo la quale anche lo spontaneo adempimento non sarebbe stato, in tale, specifico caso possibile, attesa la necessità del consenso anche del creditore garantito, ed osservando che l'interesse dell'istante, avente diritto alla liberazione, sarebbe risultato realizzabile sia attraverso l'adempimento della obbligazione garantita da parte del confideiussore, sia attraverso la

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Ritenere che un diritto sia meritevole di tutela solo quando sia possibile

l’esecuzione forzata della sentenza che ne accerta la prevalenza sull’interesse del

soccombente, significa considerare solo il profilo patologico dell’esecuzione.

L’esecuzione disciplinata dal Codice di procedura civile è “forzata” proprio perché

interviene in un momento in cui il soggetto condannato non abbia provveduto

spontaneamente ad eseguire l’ordine giudiziale. Ciò non significa, però, che

l’adempimento spontaneo sia ipotesi da scartare a priori anzi, in ordine logico

dovrebbe essere proprio la volontà di adeguarsi alla sentenza ad essere

privilegiata sull’intervento statale nella sua esecuzione. Se ciò non è, perché la

statistica dice il contrario e perché il consociato non è uso obbedire all’ordine

impartito dall’autorità, questa è questione che, nell’ambito di un ragionamento

puramente teorico (come è quello sulla tutela dei diritti), non può e non deve

interessare, nemmeno il processualista.

Dunque, non può essere la non eseguibilità pratica della sentenza di condanna a

precludere la tutela del diritto in contestazione, e ciò è dimostrato anche dalla

recente introduzione, nel nostro ordinamento processuale, dell’art. 614 bis, che

attraverso la previsione di una misura compulsoria pecuniaria, ovvia alla non

prestazione, ancora da parte del confideiussore obbligato alla liberazione, di garanzie sufficienti nei suoi confronti per la ipotesi di richiesta di adempimento rivoltagli dal creditore garantito. L’arresto su riportato sembra costituire un mutamento di indirizzo rispetto a quanto affermato dalla stessa Cassazione quasi vent’anni prima, allorquando aveva affermato che «Non è possibile l'esecuzione specifica delle obbligazioni infungibili di fare, così come non è possibile l'esecuzione specifica di obblighi che comportino determinazione autonoma di volontà di un terzo» (Cassazione civile , sez. II, 26 marzo 1979 , n. 1756). In realtà le due linee interpretative non sono incompatibili, atteso che la sentenza del 1997 non affronta il problema dell’esecuzione specifica della sentenza di condanna ad un facere infungibile (affrontato e risolto in senso negativo nel ’79), ma si limita ad affermarne l’ammissibilità ai fini dell’esecuzione volontaria e la idoneità della pronuncia a valere quale sentenza di accertamento in caso di successiva richiesta di risarcimento danni.

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eseguibilità delle sentenze di condanna a facere infungibili o a non facere

attraverso un sistema di esecuzione indiretta.

Un ulteriore indice di carattere testuale, atto a smentire la tesi su riportata o,

comunque, sufficiente ad evidenziarne l’obsolescenza, può essere individuato, con

riferimento ai soli provvedimenti cautelari, nell’art. 669 duodecies c.p.c.93

Tale norma, infatti, al secondo periodo, prevede che «l’attuazione delle misure

cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare avviene

sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento cautelare il quale ne

determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano difficoltà o

contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni, sentite le parti».

Sembra che, con tale norma, il legislatore, cogliendo le difficoltà insite

nell’eseguibilità delle condanne di fare o non fare (cui vanno assimilate quelle di

consegna e rilascio), abbia voluto prevedere un più ampio armamentario del

giudice affinché questo potesse adeguare le modalità d’esecuzione alle peculiarità

del caso concreto, e garantire così la soddisfazione dell’interesse tutelato dalla

sentenza.

L’art. 669 duodecies c.p.c. nulla dice di preciso su quali possano essere in concreto

le modalità di attuazione dei provvedimenti cautelari a contenuto non pecuniario.

A fronte del silenzio normativo, in dottrina si sono delineati due orientamenti.

93

Si consideri che l’intera sezione I del capo III del libro IV del c.p.c. è stata introdotta con l’art. 74 della l. 26 novembre 1990 n. 353, successivamente (e non di poco) alle affermazioni che qui si criticano.

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87

Così, alcuni studiosi hanno valorizzato, in misura più o meno accentuata, la portata

"deformalizzatrice" che caratterizzerebbe la disposizione in oggetto, asserendo

che la legge riconosce al giudice dell'esecuzione cautelare la facoltà di prescindere

dal "canovaccio normativo" rappresentato dagli artt. 605 ss. e 612 ss. del codice di

rito; in tale prospettiva, si attribuisce quindi all'organo giurisdizionale sotto il cui

controllo si svolge la fase di attuazione della misura cautelare, il potere di

individuare liberamente le forme da seguirsi, e ciò ai sensi degli artt. 121 e 131

c.p.c., con l'unico vincolo dell'idoneità di queste al raggiungimento dello scopo94,

nonché - a parere di taluni - anche con l'osservanza "dei limiti sostanziali dell'area

di eseguibilità segnati dagli artt. 2930 ss. c.c., sia con riferimento al principio nemo

ad faciendum praecise cogi potest, sia al limite sancito dal secondo comma

dell'art. 2933"95.

In contrapposizione a questa lettura dell'art. 669 duodecies c.p.c., ne esiste

un'altra, assai più restrittiva, e che esprime un atteggiamento di marcato

scetticismo circa le reali potenzialità innovative della norma in esame. Secondo

questa dottrina, il giudice dell'attuazione non può, ma deve attingere le forme per

eseguire la misura cautelare, dall'orditura delle norme codicistiche che regolano

l'esecuzione forzata in forma specifica; ciò in quanto non sarebbero nemmeno

immaginabili, in tale contesto, alternative concretamente praticabili ai

94

Vedi Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli 1991, p. 366. L'opportunità del richiamo agli artt. 121 e 131 c.p.c., e dunque al principio generale di libertà delle forme come limite processuale entro il quale può esercitarsi il potere discrezionale del giudice, è condivisa da A. Saletti, Le riforme del codice di rito in materia di esecuzione forzata e di attuazione delle misure cautelari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 454 a nota 27, il quale insiste, inoltre, sul concetto che i procedimenti per le esecuzioni forzate in forma specifica non costituiscono un paradigma vincolante in sede di attuazione della cautela. 95

Così, L. Montesano, G. Arieta, Diritto processuale civile, 3ª ed., III, Giappichelli 2000, p. 479.

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procedimenti tipici previsti dal terzo libro del codice di rito96. Su queste premesse,

si comprende perché alcuni commentatori giungano a conclusioni radicali,

affermando, per esempio, che la "specialità" della seconda parte dell'art. 669

duodecies c.p.c., e quindi la sua carica innovatrice, "è tutta nella regola sulla

competenza e si ferma ad essa"97.

In realtà, sembra che le preoccupazioni circa eventuali “sconfinamenti” del giudice

dal rigoroso recinto del Codice di procedura civile, funzionali a dare migliore

attuazione alle sentenze di condanna per violazione degli obblighi di fare o non

fare, siano eccessive, per il motivo che lo stesso Codice prevede forme

sufficientemente elastiche di esecuzione degli obblighi di fare o non fare, in

particolare all’art. 612 c.p.c. il quale prevede che «Chi intende ottenere

l'esecuzione forzata di una sentenza di condanna per violazione di un obbligo di

fare o di non fare, dopo la notificazione del precetto, deve chiedere con ricorso al

giudice dell’esecuzione, che siano determinate le modalità dell'esecuzione», senza

prevedere particolari limiti al potere del giudice di determinare dette modalità.

Dunque, sembra che l’individuazione di una soluzione interna al Codice di rito

renda privo di rilievo il dibattito sorto attorno all’interpretazione dell’art. 669

duodecies, confermandosi comunque l’assoluta infondatezza della tesi che vuole la

tutela dei diritti subordinata alla possibilità che tale tutela possa trovare

attuazione concreta nell’esecuzione forzata.

96

Il primo interprete ad esporre un’interpretazione siffatta della seconda parte dell’art. 669 duodecies è stato A. Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Padova 1991, p. 266, affermando che non c’è motivo per ritenere che il giudice, il quale abbia emesso un provvedimento cautelare a contenuto non pecuniario, sia soggetto a limiti diversi da quelli che incontra il giudice dell'esecuzione forzata ordinaria nei casi in cui la legge gli attribuisca un corrispondente potere. 97

Così, C. Cecchella, Il processo cautelare, Torino 1997, p. 175.

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Il su riportato ragionamento, dal quale sembra potersi trarre un primo scorcio di

soluzione al problema posto a inizio paragrafo, non è ancora sufficiente ad

individuare le corrette modalità di esecuzione dell’ordine inibitorio avente

contenuto negativo o positivo.

A tal fine, riteniamo opportuno trattare distintamente l’esecuzione dell’inibitoria

positiva da quella dell’inibitoria negativa.

Schematizzando il procedimento che porta alla pronuncia di un’inibitoria positiva,

che ha, cioè, ad oggetto, un facere, potremmo dire che presupposto primo è

l’esistenza di un obbligo di fare. Il soggetto su cui grava tale obbligo commette un

illecito (o fornisce elementi tali da farne prevedere la commissione) attraverso una

condotta omissiva. Il soggetto titolare dell’interesse protetto agisce innanzi al

giudice al fine di obbligare il resistente ad adeguarsi all’ordine normativo98.

Sostanziandosi l’ordine inibitorio nell’obbligo di compiere una determinata

attività, è necessario ulteriormente distinguere le ipotesi in cui il precetto violato

consista in un obbligo di fare fungibile o di fare infungibile99.

98

Deve precisarsi che non necessariamente la norma deve prevedere un obbligo rivolto ad un facere specifico perché si possa far ricorso all’inibitoria positiva, atteso che tale strumento è utilizzabile anche quando il compimento del facere sia funzionale alla prevenzione o interruzione di un illecito cui si abbia dato luogo in altro modo, anche in maniera omissiva. In questo senso l’inibitoria positiva può essere letta anche come strumento di “recupero” di una precedente mancanza del soggetto condannato. 99

Preliminare all'esame da svolgere è un chiarimento sulla nozione di infungibilità, che si è visto essere un limite di ammissibilità della tutela in forma specifica. Hanno tale qualità in primo luogo gli obblighi di fare materialmente infungibili, cioè non realizzabili senza la volontà dell'obbligato. Sono infungibili anche gli obblighi complessi, ricomprendenti obblighi di fare infungibili, ad esempio l'obbligo di reintegra nel posto di lavoro. Infungibili sono inoltre gli obblighi di fare che pur essendo materialmente fungibili, comportino particolari difficoltà o complessità qualitative nella loro esecuzione da parte di un terzo. Ancora, l'infungibilità si ha anche in presenza di situazioni di vantaggio il cui godimento è assicurato dall'adempimento di obblighi di fare o non fare a carattere continuativo o periodico, e la condanna sia diretta non solo ad eliminare gli effetti della violazione già compiuta, ma ad assicurare l'adempimento (futuro) degli obblighi in questione.

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La distinzione tra queste due ipotesi, nella prospettiva dell’esecuzione, appare ictu

oculi di estremo rilevo. Se infatti è evidente che la fungibilità del facere ordinato

dal giudice permetterà una più ampia scelta quanto a modalità di esecuzione, lo

stesso non può dirsi allorché la norma violata stabilisca un obbligo di fare

infungibile.

Nella prima ipotesi, ferma restando la possibilità di un adempimento spontaneo

della sentenza di condanna da parte dell’obbligato, il giudice potrà porre a carico

di un terzo l’onere di compiere l’attività necessaria a scongiurare l’illecito o la sua

ripetizione (pensiamo all’ordine di demolizione di un edificio la cui realizzazione

venga affidata ad un terzo, onerando il condannato di corrispondere le spese

necessarie).

Tale meccanismo non è affatto sconosciuto al nostro ordinamento. Basti pensare

al giudizio di ottemperanza nel diritto amministrativo e alla possibilità per il

ricorrente, in cado di inadempimento dell’ordine giudiziale, di chiedere al giudice

la nomina di un commissario ad acta, che ponga in essere l’attività imposta con la

sentenza di condanna100. Si pensi anche al meccanismo di sostituzione del

condomino nella sopportazione delle spese condominiali urgenti ex art. 1134 c.c.

100

La sentenza può innanzi tutto prevedere un termine (spesso entro 30 gg dalla diffida ad adempiere) entro la quale l'amministrazione dovrà provvedere. Appare palese come tale contenuto sia poco verosimilmente satisfattivo per il ricorrente. Diversa è invece la tendenza, oramai maggioritaria, secondo la quale il contenuto risulta esser più articolato ed incisivo comportando non solo l'indicazione di un termine per provvedere ma anche la previsione di una data nella quale verrà verificato il comportamento dell'amministrazione, al cui esito negativo il giudice potrà sostituirsi all'amministrazione inerte o nominare un commissario ad acta, figura creata dalla giurisprudenza, al fine di rendere esecutiva la sentenza passata in giudicato. Spesso, l'operato del commissario ad acta, può risultare insoddisfacente per il privato, in questo caso, il soggetto interessato, può chiedere al giudice ulteriori disposizioni attuative. Data la natura di organo giurisdizionale del commissario ad acta, i suoi atti sono reclamabili davanti allo stesso giudice dell’ottemperanza, in base alla regola generale della competenza sugli incidenti in sede esecutiva che spetta al giudice stesso dell’esecuzione.

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In quest’ultimo caso, ferma la distanza che separa tale fattispecie da quella

analizzata in questa sede, si realizza un meccanismo di sostituzione (in questo caso

volontaria) del soggetto obbligato con altro soggetto, attribuendo poi all’obbligato

l’onere di corrispondere le spese sostenute.

Diverso discorso deve farsi nei casi di condanna ad una prestazione infungibile. La

non sostituibilità della prestazione, infatti, comporta l’impossibilità di individuare

soluzioni alternative nell’ambito dell’esecuzione diretta (come accade con la

nomina del commissario ad acta).

In dottrina si è spesso affermata l’impossibilità di ricorrere all’esecuzione forzata

nei casi di condanna ad un fare infungibile101 anzi, l’impossibilità di giungere ad

una pronuncia di condanna da parte del giudice se questa non avesse potuto

trovare esecuzione.

Abbiamo già avuto modo di criticare tale posizione, che pretermette l’ipotesi di

esecuzione spontanea dell’ordine del giudice. Inoltre, una parte non trascurabile

della dottrina processualistica ritiene che la possibilità dell’esecuzione forzata in

forma specifica non costituisca elemento essenziale alla nozione di sentenza di

condanna, in quanto «si può essere condannati a tutto ciò che si può essere tenuti

a prestare (sia un dare, un fare, una astensione, la distruzione di quanto fu fatto in

contravvenzione all’obbligo di non fare; si può essere condannati a una prestazione

infungibile: perché il modo di supplire alla impossibilità di esecuzione diretta non è

101

Tabet, op. cit., 117, secondo cui «l’unica forma di tutela dei diritti di contenuto negativo, come per i diritti ad un fare infungibile, è […] il processo di mero accertamento, quando naturalmente ricorra il corrispondente interesse ad agire». Per una critica giurisprudenziale a questa teoria vedi nota n. 91.

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necessario sia trovato già nella sentenza, sebbene di solito così avvenga»102. In

secondo luogo non esiste alcuna norma che ricolleghi in via ontologica la sentenza

di condanna all’esecuzione forzata.

In altri termini, se è vero che l’eseguibilità delle sentenze di condanna ad un facere

infungibile, se si esclude l’adempimento spontaneo, trovano un limite invalicabile

in rerum natura, è anche vero che non può per tale motivo precludersi al giudice la

possibilità di condannare a tale tipo di prestazione, né può escludersi il ricorso ad

altri mezzi di coazione di carattere indiretto, atteso che in questo campo conserva

tutta la sua validità il principio per cui nemo ad faciendum cogi potest103.

Quanto sin qui argomentato ben può essere trasposto all’ipotesi di condanna

inibitoria negativa. Tale condanna, schematizzando, presuppone l’esistenza di un

obbligo di non fare, violato da un’attività dell’inibendo cui il titolare del diritto

tutelato reagisce rivolgendosi al giudice e chiedendo che questo imponga al

convenuto la cessazione del contegno lesivo.

L’obbligo di non fare, infatti, è per definizione infungibile e trova anch’esso,

dunque, un ostacolo insormontabile in punto di esecuzione diretta. Nel nostro

Codice civile (art. 2933) vi è una disposizione rubricata “Esecuzione forzata degli

102

G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile (2a ed.), I, Napoli 1935, § 49. 103

Così L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni (2a ed.), Milano 1964, I, 31: «Si ha un bel dire: l’obbligazione sta nel dovere per il debitore di adempiere la prestazione che egli deve: ma se non l’adempie, non v’è forza al mondo che lo possa costringere a farlo». Tutto il dibattito sull’adempimento degli obblighi di fare, e le pronunce giurisprudenziali sul punto, è caratterizzato dalla perenne problematica di conciliare, quanto più possibile, il diritto del creditore all’esatta realizzazione della prestazione, con il principio dell’intangibilità della sfera di autonomia e libertà del debitore oltre i limiti necessari al soddisfacimento dell’interesse della controparte.

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obblighi di non fare”104 che così recita: «Se non è adempiuto un obbligo di non

fare, l’avente diritto può ottenere che sia distrutto, a spese dell’obbligato, ciò che è

stato fatto in violazione dell’obbligo. Non può essere ordinata la distruzione della

cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la

distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale»105.

L’enunciato della norma evidenzia i limiti dell’esecuzione forzata dell’ordine di

cessazione o di ripristino dello status quo ante (che rappresentano le due ipotesi di

pronunce di condanna in caso di violazione di un obbligo di non fare), atteso che

mentre l’inibitoria negativa ha ad oggetto un fare infungibile (la cessazione del

comportamento), l’esecuzione della pronuncia con la quale il giudice imponga al

soccombente il ripristino dello stato dei luoghi, viene affidata non direttamente

all’obbligato, bensì ad un terzo (o al ricorrente stesso), onerando il soccombente

di rifondere le spese sostenute per la demolizione.

Se, dunque, può considerarsi diretta l’esecuzione dell’ordine di demolizione, in

quanto è la medesima prestazione oggetto di condanna che può trovare

esecuzione, è anche vero che lo stesso legislatore riconosce implicitamente

104

È stato acutamente osservato da un autore (Mazzamuto, L’esordio cit.) che la norma non è correttamente rubricata, atteso che l’unico rimedio per la violazione di un obbligo di non fare, suscettibile di esecuzione diretta, è l’ordine di ripristino dello status quo ante, qualora l’attività lesiva posta in essere in violazione dell’obbligo di non fare abbia prodotto un risultato da rimuovere, mentre l’ordine di cessazione, che costituisce l’altra opzione del giudice rispetto alla violazione di un obbligo di non fare, è anch’esso infungibile e, perciò, ineseguibile in via diretta. 105

Per una interpretazione restrittiva di tale norma v. Cassazione civile , sez. II, 30 gennaio 1985 , n. 562: «In tema di esecuzione forzata degli obblighi di non fare, la norma del comma 2 dell'art. 2933 c.c., secondo cui non può essere ordinata la distruzione della cosa e l'avente diritto può conseguire solo il risarcimento dei danni, se la distruzione della cosa stessa è di pregiudizio all'economia nazionale, stabilendo una eccezione al principio generale della eseguibilità forzata degli obblighi di non fare, sancito dal comma 1 della medesima norma, deve essere interpretata restrittivamente, cioè nel senso che essa è applicabile soltanto nell'ipotesi in cui la distruzione della cosa arrechi pregiudizio al sistema produttivo dell'intero Paese e non anche quando il pregiudizio riguardi unicamente interessi individuali e locali».

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l’impossibilità di costringere il soccombente ad adempiere all’ordine giudiziale,

tanto da affidarne a terzi la realizzazione.

Sembra lecito il dubbio se debba considerarsi diretta l’esecuzione per il solo fatto

che sia possibile ottenere la medesima prestazione imposta dal giudice, senza

dover ricorrere a strumenti di soddisfazione per equivalente, o non debba

piuttosto considerarsi anche in questa ipotesi indiretta l’esecuzione, considerata

l’impossibilità di obbligare il soccombente ad eseguire la prestazione.

Una risposta a tale quesito deve essere individuata nell’applicabilità a tale ipotesi

del meccanismo dell’astreinte, di cui nel nostro ordinamento troviamo una

previsione generale nel novello art. 612 bis c.p.c., di cui a breve tratteremo.

L’astreinte, infatti, costituisce un esempio classico di esecuzione indiretta, che

viene in considerazione laddove quella diretta non sia possibile. Di più, la

condanna ad obblighi di fare è l’habitat naturale delle misure compulsorie

indirette, soprattutto quando il facere oggetto della condanna sia infungibile.

Nell’ipotesi dell’art. 2933 c.c., però, la coazione non è diretta all’esecuzione

dell’opera di demolizione (atteso che o il soccombente adempie spontaneamente

o, semplicemente, non adempie) bensì alla refusione delle spese sostenute per la

demolizione, per le quali, peraltro, ci si chiede se possa procedersi ad esecuzione

forzata, nelle modalità previste per l’esecuzione coattiva del pagamento di

somme, direttamente sulla base della sentenza di condanna al facere

ripristinatorio oppure sia necessario costituirsi un ulteriore titolo esecutivo (che

riconosca, ad esempio, la congruità delle spese).

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Dunque, non sembra si possa parlare di esecuzione “diretta” degli obblighi di fare

allorquando questa sia rivolta non alla prestazione principale, che viene eseguita

senza necessità di “forzare” alcuno (ben potendo il soggetto risultato vincitore in

giudizio affidare l’opera di demolizione ad un terzo e richiedere, poi, il pagamento

delle spese) bensì ad una prestazione secondaria (il ristoro delle spese).

Come abbiamo visto, l’esecuzione forzata degli obblighi di non fare e di fare

infungibile crea non pochi grattacapi. La materiale impossibilità di portare

coattivamente a compimento gli obblighi derivanti dalla pronuncia del giudice,

nelle ipotesi sopra illustrate, ha costituito fino ad oggi un vulnus nella tutela dei

diritti, di cui l’esecuzione forzata costituisce la fase ultima.

Tale mancanza sembra oggi superata (almeno nelle intenzioni del legislatore)

dall’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c., rubricato “Attuazione degli obblighi di fare

infungibile e di non fare”, a norma del quale «Con il provvedimento di condanna il

giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la

somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza

successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento. Il

provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle

somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente

comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato

e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'art. 409. Il

giudice determina l'ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto

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del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato

o prevedibile e di ogni altra circostanza utile»106.

Finalmente, ha avuto ingresso nel nostro ordinamento l’istituto della astreinte107.

106

Per un primo commento all’art. 614 bis c.p.c. ed alla riforma in generale v. C Mandrioli-A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino 2009, 91 ss.; A. Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it., 2009, V, 222; G. Balena, La nuova pseudo-riforma del processo civile (un primo commento della legge 18 giugno 2009 n. 69), in Giust. Proc. Civ., 2009, III, 749 ss. 107

L’istituto pretorio della astreinte nasce in Francia nella prima metà dell’ottocento. La sua prima applicazione si fa comunemente risalire ad un caso del Tribunale civile di Cray del 25 marzo 1811 (in quel caso il convenuto era stato condannato a fare una pubblica ritrattazione sotto pena di dover pagare tre franchi per ogni giorno di ritardo). La consacrazione definitiva ad opera della Court de Cassation avvenne poi il 28 dicembre 1825. Da allora i giudici francesi ne hanno fatto un uso sempre più ampio e generale. L’istituto trova regolamentazione dapprima con la l. n. 626 del 5 luglio 1972 (art. 5, «Les tribunaux peuvent, même d’office, ordonner une astreinte pour assurer l’exécution de leurs décisions»), poi con la l. n. 650 del 9 luglio 1991. Con l’intervento del ’91 il legislatore francese delimita chiaramente i contorni della astreinte distinguendola dal risarcimento del danno e stabilendo che l’ammontare della astreinte provvisoria viene liquidato tenendo conto del comportamento del destinatario del comando e delle difficoltà di porre in essere l’esecuzione. Come abbiamo visto, il nostro ordinamento non disconosceva totalmente questo tipo di misura compulsoria. Gli artt. 124 e 131 del D.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, in tema di tutela della proprietà industriale, già prevedono una ipotesi di astreinte. Così come i medesimi poteri sono attribuiti ad alcune autorità amministrative indipendenti, quali l’AGCM (vedi l’art. 9 del “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette” secondo cui «Ai sensi dell'articolo 27, comma 3, del Codice del Consumo, l'Autorità, in caso di particolare urgenza, può disporre, d'ufficio e con atto motivato, la sospensione della pratica commerciale ritenuta scorretta […] Il Collegio può disporre con atto motivato la sospensione in via provvisoria della pratica commerciale anche senza acquisire le memorie delle parti quando ricorrano particolari esigenze di indifferibilità dell'intervento […] La decisione dell'Autorità di sospensione della pratica commerciale ritenuta scorretta deve essere immediatamente eseguita a cura del professionista») o l’Autorità Garante della Privacy. In tema di consumatori la previsione di uno strumento compulsorio è diretta derivazione della normativa comunitaria. La direttiva 98/27 relativa ai provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori invitava gli stati membri a designare le autorità competenti non solo a ordinare la cessazione dei comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori ma anche “nella misura in cui l’ordinamento giuridico dello stato membro interessato lo permetta, a condannare la parte soccombente a versare al Tesoro pubblico o ad altro beneficiario designato nell’ambito o a norma della legislazione nazionale, in caso di non esecuzione della decisione entro il termine fissato dall’organo giurisdizionale o dalle autorità amministrative, un importo massimo determinato per ciascun giorno di ritardo o qualsiasi altro importo previsto dalla legislazione nazionale al fine di garantire l’esecuzione delle decisioni”. Allargando la visuale all’ambito europeo, i tre modelli di riferimento sono quello francese, come appena detto, con la pratica delle astreintes, quello tedesco, con l'istituto del Geldstrafe, quello della Common law, con l'istituto della specific performance e del contempt of court. I tre rimedi hanno un carattere in comune: rispettano il principio secondo cui nemo ad factum praecise cogi potest, dato che la non coercibilità diretta di obblighi infungibili, tramite l'intervento in surroga di un terzo, è un'impossibilità logica prima che giuridica. Essi invece si servono di rimedi assai efficaci e raffinati, denominati mezzi coercitivi indiretti: questi non costituiscono un'esecuzione diretta, ma

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L’iter che ha condotto a questa soluzione è stato lungo e non privo di ostacoli. La

dottrina da tempo aveva indicato al legislatore la necessità di provvedere ad

integrare il nostro ordinamento con la previsione di uno strumento di coazione

degli obblighi non suscettibili di esecuzione specifica, anche sulla scia della fortuna

che l’istituto dell’astreinte aveva avuto oltr’Alpe, dove era diventato istituto di

applicazione generalizzata prima ancora di essere positivizzato.

Le prime reazioni della dottrina a tale esigenza possono essere ricondotte a due

linee teoriche. La prima è quella sostenuta da chi non condivideva l’opinione per

cui in Italia non esistesse l’esecuzione indiretta per cui, al di fuori delle ipotesi degli

artt. 2930, 2931, 2932 e 2933 (oltre alle fattispecie di diritto speciale), qualsiasi

violazione di un comando del giudice si sarebbe risolto in un obbligo al

risarcimento del danno, che partanto rimaneva l’unica tutela in tal caso

ipotizzabile.

Coloro che non condividevano detta teoria vedevano nell’istituto della cauzione

un mezzo efficace di coazione indiretta. Secondo tale dottrina «basterebbe che il

giudice, pronunciando una inibitoria, condannasse il convenuto a prestare

cauzione, fino a un determinato ammontare, per il risarcimento dei danni che

questi dovrebbe corrispondere all’attore se contravvenisse all’inibizione»108.

Questa opinione evidenzia, però, alcuni vizi. Il primo consiste nella limitata

applicazione dell’istituto. Per quanto, infatti, esistano numerosissime fattispecie in

mirano indirettamente a fornire la tutela specifica incidendo sulla volontà del debitore, rendendo per lui più conveniente l'adempimento che l'inadempimento. 108

A. Zignoni, Mezzi giurisdizionali di tutela preventiva contro il pericolo, in Temi gen. 1964, 217. L’Autore ritiene che la cauzione sia un istituto di applicazione generale, purché sussista una situazione di pericolo, e perciò la estenderebbe anche alle fattispecie degli artt. 186 e 2813.

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cui si fa ricorso alla cauzione, l’istituto non è di applicazione generalizzata,

trattandosi, infatti, di fattispecie tipiche.

Il secondo consiste nella natura stessa della cauzione. A questo proposito la

dottrina distingue normalmente tra la cauzione volontaria, derivante dall’accordo

delle parti, quella legale, prevista dalla legge, che fa obbligo al giudice di imporla, e

quella giudiziale, prevista dalla norma, ma lasciata alla discrezionalità del giudice.

In tutte e tre le ipotesi, al di là della fonte o della più o meno ampia discrezionalità

del giudice che ne stabilisce l’ammontare, non può ignorarsi come la cauzione sia

sempre collegata al danno. In altre parole, il giudice non prevede la cauzione quale

forma di coazione indiretta, bensì in funzione di garanzia per il danno che il

comportamento di una delle parti potrà causare all’altra.

Pur potendo comprendere, dunque, lo sforzo della citata dottrina nel ricercare

soluzioni endo-ordinamentali alla mancanza di strumenti di esecuzione degli

obblighi di fare infungibile e di non fare, resta una differenza ontologica e

concettuale tra la cauzione e l’astreinte.

La linea di pensiero che si scontrò con quella appena esposta, partendo dal

presupposto della inesistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale di

esecuzione indiretta, giunse alla conclusione non solo della inefficacia pratica dei

provvedimenti inibitori, ma anche della inoperatività delle norme che tali

provvedimenti prevedono109.

109

A. Tabet, op. cit., 719. Per una posizione più radicale vedi A. Attardi, op. cit., 126, secondo cui le disposizioni degli artt. 10, 949, 1079, 2599 c.c. e 156 l. autore «debbono restare lettera morta».

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Sotto il profilo del diritto positivo, con l’introduzione degli artt. 2930, 2931 e 2933

c.c. il legislatore del ’42 ha eliminato una profonda lacuna che esisteva sotto

l’impero del vecchio codice. Nel sistema del codice del 1865, infatti, attraverso gli

artt. 1220 e 1222 si prevedeva espressamente l’esecuzione specifica delle

obbligazioni di fare e di non fare, ma non c’era nessuna disposizione che dettasse

le opportune norme per la messa in opera di tale esecuzione.

In questa situazione la dottrina aveva dubitato della concreta possibilità di una

esecuzione forzata in forma specifica di tali obbligazioni, in quanto riteneva che si

avesse soltanto una forma di risarcimento del danno, seppure in forma specifica,

che veniva dalla dottrina stessa considerata come una liquidazione del danno110.

Il codice del 1942, invece, ha espressamente regolato l’esecuzione specifica, anche

con l’introduzione nel codice di rito degli artt. 612 ss. La novità rappresentata da

queste previsioni, però, non hanno eliminato l’ostacolo all’esecuzione forzata

rappresentato dalla fungibilità delle prestazioni.

Molti obblighi di fare, infatti, hanno una connotazione essenzialmente personale,

per cui soltanto la persona indicata può eseguire la prestazione. In tutti questi casi

è fuori di dubbio che non si può parlare assolutamente di esecuzione forzata in

forma specifica, in quanto non si può forzare la volontà di una persona a fare

qualcosa che la stessa non intenda fare (“Nemo ad factum precise cogi potest”).

Esempi di questa categoria di obblighi si hanno tutte le volte che si tratta

110

Tra gli altri F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli 1958, 243 ss. S. Satta, op. cit., 32.

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100

dell’esecuzione di una prestazione di carattere artistico, in cui l’intuitus personae è

essenziale all’obbligazione stessa111.

Veniamo dunque all’art. 614 bis c.p.c. Il primo comma dell’art. 49 della legge di

riforma del processo civile (L. 69/2009) introduce il principio dell’esecuzione

indiretta degli obblighi di fare infungibili e degli obblighi di non fare attraverso la

previsione di cui al nuovo art. 614 bis c.p.c. In forza della recentissima

disposizione, il provvedimento che condanna ad un obbligo di fare infungibile o di

non fare fissa la somma dovuta all’avente diritto per ogni violazione o

inosservanza successivamente constatata ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione

del provvedimento.

L’intento del legislatore è quello di rafforzare la tutela esecutiva, cogliendo gli

stimoli provenienti da larga parte della dottrina112.

Il nostro ordinamento, dunque, conosce ora uno strumento atto a dare attuazione

coattiva (ancorché indiretta) a quegli obblighi consistenti in un fare infungibile o in

un non fare.

111

La dottrina si è chiesta, con riferimento agli artt. 2931 e 2933 c.c., quali fossero i diritti tutelabili mediante l’esecuzione forzata in forma specifica. Nonostante vivaci dissensi, si ritiene oggi che le suddette disposizioni siano applicabili sia ai diritti assoluti che ai diritti relativi, sia ai diritti reali che a quelli personali. In questa ampia visione, si ritengono suscettibili di esecuzione forzata tutte quelle serie di violazioni di obblighi di non fare che si concretizzano in violazioni di diritti assoluti nel campo dei beni immateriali e dei diritti della personalità. Basti pensare alle violazioni in materia di concorrenza sleale, di marchi e brevetti e di privative industriali in genere, del diritto al nome, del diritto allo pseudonimo e così via. 112

L’auspicio, più volte ribadito, era quello dell’introduzione generalizzata delle misure di esecuzione indiretta poiché «anche le letture più aperte delle norme sostanziali e processuali sull’esecuzione forzata degli obblighi di fare non assicurano - de iure condito - un’attuazione piena del diritto sicché appare ormai maturo il tempo per una definitiva presa di coscienza della circostanza che nessun principio del nostro ordinamento sembra frapporre ostacoli all’introduzione di una norma che affidi al giudice il compito di esplicitare, magari fatte salve qualificate eccezioni, le situazioni soggettive suscettibili di una tutela coattiva indiretta di tipo pecuniario ed assicuri una maggiore flessibilità ed adattabilità del processo alle dinamiche sociali» (Ferrara-Mazzamuto-Verde, Alcune proposte in materia di giustizia civile, in Foro it., 2000, V, 221 ss).

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101

La norma prevede un limite di carattere generale alla possibilità di applicazione

della misura coercitiva, nei casi di manifesta iniquità. Si tratta di una formula

ambigua, che prevede un ampio margine di discrezionalità del giudice nella

valutazione di ciò che é iniquo; valutazione che deve essere comunque fatta con

riguardo alle particolarità della concreta fattispecie. Non si capisce se l’iniquità sia

da valutare quale squilibrio tra l’obbligo imposto e l’ammontare dell’astreinte

(ipotesi improbabile, potendo il giudice determinare l’ammontare della sanzione

in modo da adeguarla al caso concreto), oppure se detta valutazione debba essere

effettuata sulla base di una valutazione soggettiva del giudice, che prenda a

riferimento elementi che trascendono l’ambito della dicotomia costi (astreinte) -

benefici (adempimento della prestazione) e che debbano essere rapportati

all’intera fattispecie sottoposta a giudizio.

Un limite di carattere particolare é dato, invece, dalla inapplicabilità della

normativa ai rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato. In materia, risulta

peraltro applicabile la disciplina speciale di cui all'art. 18 dello Statuto dei

lavoratori.

Mentre le limitazioni previste nel primo comma dell'art. 614/bis riguardano

l'ambito di applicabilità della norma, il secondo comma dello stesso articolo

prevede altre limitazioni relative al quantum della somma da determinare,

stabilendo che il giudice deve tenere conto del valore della controversia, della

natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra

circostanza utile. Vertendo in materia di obbligazioni non pecuniarie, la

determinazione del valore della controversia non risulta peraltro esplicita per

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102

definizione e può non essere sempre agevole. Inoltre, la natura della prestazione

rappresenta un ideale parametro di riferimento in sede di determinazione

dell'ambito di applicabilità della norma, ma non in sede di determinazione

dell'ammontare della somma.

Discusso è se il mezzo de quo possa trovare applicazione con riferimento ad un

qualsiasi inadempimento, anche di un fare fungibile, oppure unicamente in

relazione agli obblighi di fare infungibili e a quelli di non fare, atteso che

nell’enunciato non è riprodotto il riferimenti all’infungibilità della prestazione

contenuta nella rubrica della norma. Sul punto, si possono mettere a confronto

due contrastanti orientamenti.

Il primo, propenso a dare un’interpretazione estensiva dell’art. 614 bis c.p.c., non

trova nella rubrica dell’articolo un ostacolo all’applicazione della disposizione

anche all’inadempimento degli obblighi di fare fungibile, in ossequio al noto

brocardo “rubrica legis non est lex”113.

Il secondo orientamento, invece, è rappresentato dalla migliore dottrina114,

favorevole a riconoscere alla rubrica una funzione integrativa della disposizione

normativa e, dunque, a considerarne la vincolatività nella interpretazione

dell’enunciato.

113

Si veda a tal proposito, sul lato giurisprudenziale, Trib. Terni, ord. 6 agosto 2009 (Commentata da Mazzamuto, L’esordio cit.). secondo il giudice umbro «L’introduzione dell’art. 614 bis c.p.c. ha come scopo quello di rendere effettiva e sicura l’esecuzione degli obblighi di fare infungibile e di non fare (ma anche - a parere del giudicante - di tutte le sentenze di condanna o dei provvedimenti cautelari anticipatori della condanna, poiché la limitazione agli obblighi di fare o di non fare è contenuta solo nella rubrica dell’articolo e non anche nel corpo della norma) rispetto ai quali l’esecuzione tradizionale del codice di procedura civile italiana ha spesso avuto effetti deludenti». 114

G. Tarello, L'interpretazione della legge, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, Milano 1980, 209 ss.; A. Belvedere, Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano 1977, 114 ss.

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103

In tale disputa sembra trovare un apprezzabile punto di sintesi Mazzamuto115 il

quale, commentando il primo provvedimento che ha applicato l’art. 614 bis

c.p.c.116, ha rilevato che «La valutazione di (in)fungibilità viene dunque condotta

non sul piano sostanziale - come fin qui si era soliti fare - ma sul piano

squisitamente processuale e per di più interno al sistema dell’art. 614 bis c.p.c. e

una tale ricalibra tura del concetto di fungibilità non può […] non abbracciare per

esigenza di omogeneità sia il fare sia il non fare. In altre parole il suggello di

infungibilità va concesso in concreto, ossia tenendo conto dei pregiudizi ulteriori

che possono derivare dalle alterazioni già consumate e dai tempi dell’esecuzione

forzata, sicché esso è il frutto di una prognosi affidata al giudice nell’ambito della

valutazione di iniquità che rappresenta il fulcro della disciplina in esame e la cui

forza conformatrice non si spinge solo a valle a considerare le ragioni del debitore

ma ritorna anche a monte a considerare le ragioni del creditore. Si è, dunque, al

cospetto di una nuova nozione di infungibilità che si potrebbe definire di carattere

processuale e, a questo punto, la rubrica dell’art. 614 bis c.p.c. va riferita agli

obblighi di fare (primario e secondario) infungibili o anche non agevolmente

surrogabili nell’ottica del rischio di pregiudizi gravi e imminenti favoriti dai tempi

processuali e agli obblighi di non fare che mettono capo in fase restitutoria ad un

fare ancora una volta non surrogabile o non agevolmente surrogabile e persino ad

un dare o a un consegnare di cui si teme la tardiva attuazione in executivis».

Dunque, se è vero che l’art. 614 bis c.p.c. deve applicarsi alle violazioni dei soli

obblighi di fare infungibile e di non fare, è altresì vero che tale infungibilità deve

115

L’esordio cit. 116

V. nota 113.

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104

essere considerata non in ossequio alla comune definizione giuridica, ma

individuata in base agli elementi della concreta fattispecie, i quali possono

evidenziare che un obbligo di facere, normalmente fungibile, per l’urgenza che

richiede il suo compimento e per le particolari condizioni in cui questo deve essere

eseguito, si presenti in concreto infungibile o non facilmente fungibile. In

quest’ottica, nulla vieta al giudice di applicare la misura compulsoria anche a tale

ultima tipologia di obblighi.

Un’ultima annotazione deve farsi con riferimento alla capacità del novello art. 614

bis c.p.c., riscontrata in dottrina117, a costituire il fondamento della tutela

inibitoria.

In effetti, la misura compulsoria recentemente introdotta sembra disegnata

proprio per dare esecuzione ad un ordine di cessazione, in quanto solo un

provvedimento che obblighi qualcuno ad un fare o ad un non fare entro un

determinato tempo giustifica la sanzione che successivamente si abbia a

comminare « per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo

nell'esecuzione del provvedimento».

È stato notato, però, che la tutela inibitoria fondata sull’art. 614 bis c.p.c. sarebbe

non già l’inibitoria generale, di cui da decenni si discute e di cui si è cercato (finora

invano) di trovare il fondamento, bensì l’inibitoria applicabile alle obbligazioni

contrattuali118. Ciò nella misura in cui l’inibitoria generale, anelando ad affiancare

la riparazione per equivalente, quella in natura e le restituzioni come forma

117

Mazzamuto, L’esordio cit. 118

Sul punto v. L. Gatt, La tutela inibitoria del diritto al contratto, in Dir. Giur., 2005, 499 ss.

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105

generalizzata di tutela delle situazioni soggettive, non può trovare in una

previsione processuale (per di più di applicazione incerta o, comunque, limitata) la

sua fonte.

Appare evidente che passi in avanti ancora devono essere fatti prima di addivenire

alla generalizzazione della tutela inibitoria (non solo quella c.d. contrattuale) nel

nostro ordinamento.

3. LA TUTELA DEI CONSUMATORI E IL CODICE DEL CONSUMO

Trattiamo in questo capitolo le ipotesi di inibitoria prevista in ambito

consumeristico119. La scelta di alienare questo argomento dal resto delle ipotesi

già trattate si giustifica con il fatto che quello dei diritti del consumatore è un tema

su cui da decenni si discute e che, assai di recente, ha trovato una

regolamentazione nel Codice del Consumo (Decreto Legislativo 6 settembre 2005,

n. 206)120 che, pur non innovando radicalmente la disciplina (il Codice è frutto più

119

La produzione dottrinaria sul punto è pressoché sterminata. Per un commento specifico al Codice del Consumo vedi AA. VV., Codice del consumo, Commentario (a cura di Guido Alpa e Liliana Rossi Carleo) Napoli 2005; M. Dona, Il Codice del consumo, regole e significati, Torino 2005; A Catelani, Codice del consumo : commento al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Napoli 2005; AA. VV., Codice del consumo e norme collegate (a cura di Vincenzo Cuffaro, con il coordinamento di Angelo Barba, Andrea Barenghi), 2^ ed., Milano 2008; AA. VV., Commentario al codice del consumo (a cura di Francesco Camilletti), Roma 2008. 120

L’art. 7 della L. 7 luglio 2003 n. 229 ha delegato il governo ad adottare uno o più decreti legislativi «per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori», individuando quattro criteri direttivi per la delega così conferita. In attuazione della delega in tal modo ricevuta, il Governo ha adottato il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, «recante riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori - Codice del consumo». Nell’ambito dello stesso programma politico sono stati emanati anche: il «Codice in materia di protezione dei dati personali» (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196); il «Codice delle comunicazioni elettroniche» (d.lgs. 1° agosto 2003, n. 259); il «Codice dei beni culturali e del paesaggio» (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42); il «Codice dei diritti di proprietà industriale» (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) e il «Codice dell'amministrazione digitale» (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, recentemente modificato dal d.lgs. 4 aprile 2006, n. 159); il «Codice della nautica da diporto» (d.lgs. 18 luglio 2005, n. 171); il

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106

di una trasposizione di norme già esistenti che di un intento realmente

innovatore121) costituisce comunque un nuovo punto di riferimento per

l’interprete e per gli utenti.

Le disposizioni di maggior interesse, per il presente lavoro, sono rappresentate

dagli artt. 37, 139, 140 e 140 bis (che ha introdotto nel nostro ordinamento la class

action).

3.1. L’INIBITORIA A TUTELA DEI CONSUMATORI

L’art. 37 rubricato “azione inibitoria” in materia di clausole vessatorie, statuisce

che «Le associazioni rappresentative dei consumatori, di cui all’articolo 137, le

associazioni rappresentative dei professionisti e le camere di commercio, industria,

artigianato e agricoltura, possono convenire in giudizio il professionista o

l’associazione di professionisti che utilizzano, o che raccomandano l’utilizzo di

«Codice delle assicurazione private» (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209); il «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture» (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163); il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna» (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198). 121

Le stesse premesse all’articolato del Ministro per le Attività produttive Scajola rivelano questo tipo di impostazione. In esse si legge che «Il Codice del Consumo rappresenta il testo fondamentale di riferimento in materia di tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti. L’esigenza di raccogliere in un unico testo le disposizioni sulla tutela del consumatore è apparsa una necessità improcrastinabile, considerata la stratificazione normativa e vista l’esperienza degli altri Paesi Membri dell’Unione Europea. Per la prima volta, il Codice fa assumere un autonomo rilievo al diritto dei consumatori nell’ambito dell’ordinamento civile e la sua articolazione si ispira alle teorie sul processo di acquisto. Il Codice riunisce, coordina e semplifica le disposizioni normative incentrate intorno alla figura del consumatore, come cittadino conscio dei propri diritti e doveri». E ancora «Il Codice del Consumo riunisce in un unico testo le disposizioni di 21 provvedimenti (4 leggi, 2 DPR, 14 D.Lgs. e 1 regolamento di attuazione) sintetizzando in 146 articoli il contenuto di 558 norme. Nell’ambito dell’armonizzazione con le direttive comunitarie in materia, il Codice ha provveduto, alla luce dell’esperienza dell’applicazione dei testi già in vigore (giurisprudenza, dottrina), a rivedere taluni aspetti problematici, apportando i necessari miglioramenti […] Il Codice coordina le disposizioni relative alle definizioni di consumatore, professionista, venditore e produttore rinvenibili a vario titolo nelle diverse normative». Infine, cosa assai bizzarra, il Codice all’art. 3 (Definizioni) dà una definizione di sé stesso («il presente decreto legislativo di riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori»), circostanza mai avvenuta in nessun altro codice.

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107

condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca

l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività ai sensi del presente titolo.

L’inibitoria può essere concessa, quando ricorrono giusti motivi di urgenza, ai sensi

degli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile. Il giudice può

ordinare che il provvedimento sia pubblicato in uno o più giornali, di cui uno

almeno a diffusione nazionale. Per quanto non previsto dal presente articolo, alle

azioni inibitorie esercitate dalle associazioni dei consumatori di cui al comma 1, si

applicano le disposizioni dell’articolo 140».

La norma in esame distingue quindi, al fine di individuare la loro legittimazione ad

agire in giudizio, le associazioni dei consumatori dalle associazioni dei

professionisti e dalle camere di commercio: per le prime, infatti, fa riferimento

all’art. 137, mentre per le seconde, si riferisce genericamente al criterio della

rappresentatività. L’art. 137 individua sulla base di rigidi criteri legislativamente

fissati l’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti certamente

rappresentative a livello nazionale e come tali legittimate ad agire ai sensi dell’art.

139 del Codice del Consumo e con le modalità di cui all’art. 140 del medesimo.

Pertanto, nell’art. 37 si produce un importante differenziazione, mentre le

associazioni dei consumatori legittimate ad agire in materia di clausole vessatorie

sono solo quelle inserite nell’elenco tenuto presso il Ministero delle Attività

Produttive, le associazioni dei professionisti e le camere di commercio legittimate

ad agire sono tutte quelle che il giudice in corso di causa considererà, secondo il

suo discrezionale apprezzamento, rappresentative ai fini dell’azione promossa. Per

di più, se si analizza l’ultimo comma dell’art 37, poiché esso stabilisce che

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108

all’azione delle associazioni dei consumatori si applicano le disposizioni dell’art.

140 per quanto non previsto dall’art. 37 medesimo (e poiché l’art. 140 ha portata

più ampia dell’art. 37) appare evidente che l’azione delle associazioni dei

consumatori in materia di clausole vessatorie si svolgerà a norma dell’art. 140 e

non a norma dell’art. 37. Tant’è vero che esplicitamente il comma 10 dell’art. 140

stabilisce che «per le associazioni di cui all’art. 139 l’azione inibitoria prevista

dall’art. 37 in materia di clausole vessatorie nei contratti stipulati con i

consumatori, si esercita ai sensi del presente articolo».

In sostanza, quindi, sebbene l’art. 37 faccia riferimento sia alle azioni promosse

dalle associazioni dei consumatori sia a quelle promosse dalle associazioni dei

professionisti e dalle camere di commercio, esso si applica soltanto alle azioni

promosse da questi secondi soggetti, posto che i primi ricadono nell’ambito di

applicazione dell’art. 140. Con la conseguenza, sul piano applicativo, che le azioni

così promosse da tali soggetti saranno diverse sia per l’ambito soggettivo sia per

quello oggettivo.

Le associazioni dei professionisti e le camere di commercio saranno legittimate ad

agire solo in materia di clausole vessatorie e solo in quanto ritenute

sufficientemente rappresentative sul piano nazionale dal giudice con suo

discrezionale apprezzamento ed inoltre saranno legittimate a richiedere al giudice

solo i provvedimenti di cui all’art 37, cioè: azione inibitoria in via ordinaria o in via

d’urgenza122 e la pubblicazione del provvedimento. Mentre le associazioni dei

122

Il modello di riferimento è il § 13 dell’AGBG del 1976, il quale prevede che chiunque utilizzi o raccomandi per il traffico negoziale clausole di AGB inefficaci ai sensi dei paragrafi 9-11 della legge

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109

consumatori saranno legittimate ad agire a tutela dei diritti e degli interessi

collettivi, solo in quanto iscritte nell’elenco di cui all’art 137 e secondo le modalità

di cui all’art. 140 il quale, a differenza dell’art. 37, oltre all’azione inibitoria, ed

accanto alla pubblicazione del provvedimento, prevede l’adozione di misure

correttive idonee ad eliminare e correggere gli effetti dannosi delle violazioni

accertate e disciplina inoltre una peculiare procedura di conciliazione

stragiudiziale della controversia123.

è soggetto ad azione inibitoria (auf Unterlassung) e, nell’ipotesi di raccomandazione, anche ad un’azione di raccomandazione (auf Widerruf). 123

Vale la pena di interrogarsi sulla portata di questo intervento sul regime precedente. Nel 1996 con la Legge n. 52 il legislatore italiano, come già anticipato, introduce il Capo XIV bis nel Libro IV del Codice Civile. In tale complesso di norme che, data anche la sua collocazione sistematica, appare subito destinato ad innovare profondamente (e dolorosamente) la disciplina generale dei contratti, compare l’art. 1469 sexies che disciplina l’azione inibitoria promossa dalle associazioni rappresentative dei consumatori, dei professionisti e delle camere di commercio. La legittimazione all’azione di tali associazioni è quindi subordinata al solo requisito della rappresentatività non ancorato a criteri certi di valutazione prestabiliti per legge, ma anzi discrezionalmente valutata dal giudice. Nelle prime pronunce emanate in applicazione della suddetta norma, le associazioni dei consumatori vennero ritenute rappresentative allorquando la loro attività avesse raggiunto un “grado di continuità ed effettività nel raggiungimento dei proprio scopi statutari, percepito anche dalla comunità di appartenenza, ponendosi al contempo come serio interlocutore delle problematiche concernenti la tutela del consumatore”. Nella pratica, raramente tale rappresentatività è stata negata alle associazioni dei consumatori che hanno agito in giudizio mentre ancor più raramente si è assistito ad azioni promosse da associazioni di professionisti. Nel 1998 l’Italia adotta, per prima rispetto agli altri paesi della Comunità Europea nonché rispetto alla Comunità stessa - che conosceva all’epoca soltanto una proposta di direttiva, cui la legge italiana comunque si ispira - la Legge n. 281 recante la “disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”. La Legge, destinata a venire in considerazione come lo statuto fondamentale dei diritti dei consumatori, si propone l’ambizioso scopo, di cui all’art. 1, di garantire i diritti e gli interessi sia individuali sia collettivi dei consumatori e degli utenti e, soprattutto, di promuoverne la tutela in forma collettiva ed associativa. Così dopo aver elencato i diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori, la Legge definisce all’art. 2 le “associazioni dei consumatori e degli utenti” come quelle «formazioni sociali che hanno per scopo esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti» ed attribuisce ad esse, sulla base di criteri predeterminati dalla legge medesima, la legittimazione ad agire per richiedere «al giudice competente di inibire gli atti ed i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti, di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate e, infine, di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale o locale, nei casi in cui una tale pubblicazione possa contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate» (art. 3). La Legge, in particolare, istituisce presso il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato (oggi Ministero delle Attività Produttive) un elenco di quelle associazioni di consumatori e di utenti che, presentando i requisiti di cui all’art. 5 della Legge medesima, al possesso dei quali è subordinata l’iscrizione nel suddetto elenco, sono considerate certamente rappresentative a livello nazionale e dunque legittimate ad agire ai sensi dell’art. 3.

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110

Così congegnata la Legge n. 281 del 1998 sembrava destinata a risolvere ogni questione applicativa anche del vigente art. 1469 sexies; norma quest’ultima che, come già detto, riconosceva la legittimazione ad agire per ottenere l’inibitoria dell’utilizzo di condizioni generali di contratto a quelle associazioni “rappresentative” di consumatori - ma anche di professionisti nonché alle Camere di commercio di industria ed artigianato - senza però ancorare il presupposto della rappresentatività ad alcun criterio certo di valutazione e così aprendo la strada alla discrezione del giudice. Sembrava, dunque, che la Legge n. 281 del 1998 ed i criteri da essa introdotti per valutare la rappresentatività di una associazione che agisce in giudizio a tutela di interessi collettivi fossero validamente utilizzabili anche per individuare le associazioni di consumatori legittimate ad agire ex art. 1469 sexies del Codice Civile. Ma, come si vedrà, tra le due norme, l’art. 3 della Legge n. 281 del 1998 e l’art. 1469 sexies del Codice, non vi era totale coincidenza; diverso era, infatti, l’ambito di applicazione sia soggettivo sia oggettivo. Mentre la norma del Codice contemplava, oltre all’azione promossa dalle associazioni di consumatori, anche l’azione promossa dalle associazioni di professionisti nonché dalle Camere di commercio, l’art. 3 disciplinava la sola azione promossa dalle associazioni di consumatori o di utenti; ed ancora, mentre l’art. 1469 sexies si riferiva all’inibitoria dell’utilizzo di clausole considerate abusive, l’art. 3, con raggio di applicazione più vasto, faceva riferimento all’inibitoria di atti e comportamenti. Chiaro, comunque, che il più contiene il meno, per cui questa differenza linguistica nella pratica non produceva particolari problemi applicativi. Mentre, per quanto riguardava il requisito soggettivo poteva dirsi che se l’art. 3 della Legge n. 281 del 1998 aveva introdotto un criterio certo per la valutazione della rappresentatività ai fini della legittimazione ad agire, ciò sarebbe valso solo per le associazioni di consumatori e non anche per quelle di professionisti e per le Camere di commercio la cui rappresentatività doveva continuare ad essere valutata discrezionalmente e caso per caso dal giudice. Nella versione più semplice sembrava, quindi, che il rapporto tra le due normative dovesse risolversi con applicazione del principio lex posterior derogat anteriori, e non solo per il rilievo cronologico ma anche perché la lex posterior, la Legge n. 281 del 1998, sembrava destinata a regolare in maniera uniforme l’intera materia già regolata dalla legge anteriore, così abrogandola ex art. 15 delle disp. prel. del Codice Civile. Non così semplice però la soluzione adottata in alcune pronunce di merito dove si affermava che il rapporto tra le due normative andava risolto in base al principio lex posterior generalis non derogat priori speciali; così le norme del Codice venivano considerate norme speciali non derogabili dalla nuova legge che avrebbe avuto invece portata generale. Si argomentava che una tale ricostruzione fosse maggiormente conforme allo spirito della Legge n. 52 del 1996 in quanto, diversamente, una interpretazione restrittiva della norma di cui all’art. 1469 sexies (operata, cioè, in relazione ai criteri di cui all’art. 5 della Legge n. 281 del 1998) avrebbe in sostanza diminuito la capacità di agire delle associazioni dei consumatori. Si obiettava però in dottrina che il Codice, essendo la legge generale per eccellenza, non avrebbe mai potuto essere considerato norma speciale. Infine, un coordinamento si sarebbe dovuto avere in forza del D. Lgs. n. 224 del 2001 emanato in attuazione della Direttiva 98/27/CE relativa proprio ai provvedimenti inibitori a tutela del consumatore, con il quale si estendeva l’applicazione della Legge n. 281 del 1998 a tutte le ipotesi di violazione degli interessi collettivi contemplati nelle direttive europee e dunque nelle leggi di recepimento, compresa la Legge n. 52 del 1996. In tal modo, la Legge n. 281 del 1998 si sarebbe dovuta considerare legge-quadro anche per quanto riguardava l’individuazione delle associazioni legittimate ad agire ai sensi dell’art. 1469 sexies c.c. Tuttavia anche dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 224 del 2001 i problemi applicativi delle norme in esame non sono stati del tutto risolti, ed infatti ancora in qualche pronuncia di merito si legge che «il rimedio dell’inibitoria di cui all’art.1469 sexies del Codice Civile mantiene, pur dopo l’entrata in vigore della Legge 281 del 1998 un autonomo ambito di applicazione in quanto al di là del rapporto di specialità che la normativa di cui alla Legge 281 assume rispetto a quella codicistica (specialità controversa in dottrina, alla luce del suo carattere quantomeno reciproco…) deve porsi in rilievo la parziale diversità di ratio che caratterizza i requisiti della rappresentatività ex art. 1469 sexies ed ex art. 5 L. 281 del 1998». La rappresentatività di cui all’art. 1469 sexies infatti funge pressoché esclusivamente da «requisito di legittimazione processuale finalizzato a garantire la particolare funzione general-preventiva del rimedio inibitorio incompatibile con l’accesso

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111

Come visto per altre fattispecie che prevedono un potere inibitorio del giudice,

anche l’art. 37 in commento contempla, accanto all’azione di cessazione, la

possibilità per il giudice di ordinare la pubblicazione del provvedimento su giornali,

di cui almeno uno a diffusione nazionale. Tale strumento, come abbiamo avuto

modo di argomentare, ha sì la funzione di diffondere la decisione in modo da

rendere edotti (e consapevoli) il maggior numero possibile di utenti, ma ha anche

il fine di inibire ulteriormente futuri atti illeciti del condannato.

Per quanto attiene ai requisiti per provvedere in inibitoria (in particolare

l’inibitoria cautelare), l’art. 37 ripercorre le orme dell’abrogato art. 1469 sexies

c.c., prevedendo che questa possa essere concessa quando ricorrono “giusti motivi

d’urgenza” ai sensi degli artt. 669 bis e ss. del c.p.c.124

Per meglio comprendere il perimetro di tale requisito, è esercizio utile quello di

valutare le primissime applicazioni dell’art. 1469-sexies c.c., ed in modo specifico

la giurisprudenza del Tribunale di Torino.

Con una prima ordinanza del 14 agosto 1996125, i giudici del capoluogo

piemontese hanno affermato che i “giusti motivi d’urgenza” sussistono quando «il indiscriminato tipico dell’azione individuale». Mentre l’art. 5 della Legge n. 281 del 1998 oltre a legittimare l’associazione ai rimedi previsti dall’art. 3 attribuisce alla stessa il diritto ad essere rappresentata nel Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti, il diritto alle agevolazioni ed ai contributi, e la legittimazione attiva davanti al giudice straniero nelle azioni transfrontaliere relative a violazioni intracomunitarie. Così, nonostante l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 224 del 2001, ancora nel 2005 la giurisprudenza mostrava disorientamento e perplessità nell’applicazione della disciplina delle azioni inibitorie collettive. Il Codice del Consumo, recentemente emanato, persegue lo scopo di dirimere i dubbi inerenti l’applicazione delle norme sopra richiamate. Esso, quindi, distingue l’azione inibitoria in materia di clausole abusive dall’inibitoria concessa in ipotesi di atti e comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori, e distingue ancora l’azione delle associazioni dei professionisti e delle camere di commercio da quella delle associazioni dei consumatori. 124

Per una approfondita analisi del tema A. Plaia, Clausole abusive e tutela inibitoria: "i giusti motivi d'urgenza", in Europa e Dir. Priv., 1998, 575 ss. 125

In Foro it., 1997, I, 288.

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bene oggetto delle condizioni generali di contratto sia essenziale ovvero quando il

danno risentito dai consumatori sia immediato e non suscettibile di riparazione per

equivalente». Come è evidente, viene prediletto un approccio interpretativo

restrittivo, confermato in una successiva ordinanza126 con la quale gli stessi giudici,

nel negare un provvedimento inibitorio cautelare, hanno ritenuto insufficiente la

“mera potenzialità dannosa” delle clausole abusive, ritenendo, al contrario,

necessario un «pregiudizio concreto verificabile con riferimento ad uno o più

consumatori determinati». In sostanza «il pregiudizio che determina l’urgenza del

provvedere deve […] essere ancorato a situazioni e rapporti determinati, cioè a

specifici contratti con riferimento ai quali, successivamente alla loro conclusione, le

clausole abusive siano fatte valere o, quantomeno, siano maturati i presupposti

per la loro applicazione». In un’altra ordinanza127, infine, il Tribunale di Torino

chiude il cerchio interpretando restrittivamente l’art. 1469-bis c.p.c. anche sotto il

profilo quantitativo; affermando, cioè, che il gran numero di potenziali soggetti

interessati dalle condizioni in discussione non può costituire valido elemento di

riscontro dei “giusti motivi d’urgenza”.

La dottrina che per prima affrontò la questione dei requisiti per l’accesso alla

tutela inibitoria non poté non rilevare come la lettura fatta propria dai giudici

torinesi fosse eccessivamente timorosa e viziata dal punto di vista teleologico,

atteso che ancorare il pregiudizio che determina l’urgenza del provvedere a

specifici contratti successivamente alla loro conclusione, significa trasformare un

rimedio, appositamente congegnato quale rimedio general-preventivo, in un

126

Trib. Torino, 16 agosto 1996, in Foro it., 1997, I, 288. 127

Trib. Torino, 4 ottobre 1996, in Foro it., 1997, I, 288.

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rimedio individuale e successivo, snaturando così l’anima stessa della tutela

inibitoria128. La prospettiva adottata dalla dottrina citata fu abbracciata, in un

repentino quanto imprevedibile cambio di rotta, dallo stesso Tribunale di Torino il

quale, con un provvedimento di poco successivo a quelli menzionati129, riconobbe

che il pregiudizio che connota l’inibitoria, in quanto ancorato ad un interesse

collettivo, non può consistere nell’avvenuta stipulazione di un contratto,

ponendosi la stessa azione come «strumento preventivo diretto ad evitare la

possibilità di una futura stipulazione di un numero indeterminato di contratti

contenenti clausole abusive».

Un’interpretazione meno rigida della nozione di “giusti motivi d’urgenza” sembra

oggi diffusa in giurisprudenza. Basti qui citare la sentenza del Tribunale di Palermo

(11 luglio 2000) a mente della quale «l’azione inibitoria di cui all’art. 1469 sexies

c.c. è un rimedio di tipo general preventivo che è proteso ad incidere proprio sui

formulari contrattuali considerati in modo generale ed astratto,

indipendentemente dal loro impiego concreto, quale fonte normativa privata

potenzialmente applicabile ad una serie di contratti individuali con i singoli

consumatori, impedendone la diffusione con conseguente declaratoria di

128

A. Plaia, Clausole cit., 580. 129

Trib. Torino, 15 novembre 1996, in Giur. It., 1997, I, 2, 129. Due anni dopo il Tribunale di Roma (ord. 18 giugno 1998) prosegue sulla linea interpretativa tracciata dai giudici torinesi nell’ultima ordinanza citata affermando che «i “giusti motivi d’urgenza” richiesti dall’art. 1469 sexies, secondo comma, Codice civile, devono individuarsi nel pericolo di grave lesione di posizioni attinenti diritti della persona di rilevanza primaria. A tal fine, l’importanza della lesione non va valutata soltanto secondo un criterio quantitativo ovvero in base alla natura del bene o servizio oggetto del contratto, elementi già previsti ai fini dell’azione inibitoria ordinaria, bensì in base alla irreparabilità del danno, che si realizza quando le condizioni contrattuali di cui si chiede l’inibitoria cautelare abbiano un contenuto antigiuridico tale da determinare un ingiustificato ed eccessivo squilibrio sostanziale dell’assetto negoziale».

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inefficacia, ove ne sia accertata l’abusività per garantire ai consumatori proprio la

libertà di contrarre a condizioni non vessatorie»130.

Dunque, sembra potersi concludere che l’art. 37 Cod. Cons., come dimostrato

dalla precorsa giurisprudenza sull’art. 1469 sexies c.c., si presta a rappresentare un

utilissimo strumento a tutela dei consumatori e delle loro associazioni

rappresentative nel caso di inserzione, nei contratti individuali o nei contratti di

massa, di clausole inique.

L’art. 139 Cod. Cons. (rubricato “legittimazione ad agire”) così recita: «Le

associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’articolo 137

sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli

utenti. Oltre a quanto disposto dall’articolo 2, le dette associazioni sono

legittimate ad agire nelle ipotesi di violazione degli interessi collettivi dei

consumatori contemplati nelle materie disciplinate dal presente codice, nonché

dalle seguenti disposizioni legislative:

a) legge 6 agosto 1990, n. 223, e legge 30 aprile 1998, n. 122, concernenti

l’esercizio delle attività televisive

b) decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 541, come modificato dal decreto

legislativo 18 febbraio 1997, n. 44, e legge 14 ottobre 1999, n. 362, concernente la

pubblicità dei medicinali per uso umano.

130

Sulla stessa linea v. Trib. Palermo, ord. 20 febbraio 2008 (con nota di E. Battelli, in Corr. Merito n. 7/2008); Trib. Palermo, 10 gennaio 2000; C. Appello di Roma, sez. II civile, sentenza 24 settembre 2002.

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Gli organismi pubblici indipendenti nazionali e le organizzazioni riconosciuti in altro

Stato dell’Unione europea ed inseriti nell’elenco degli enti legittimati a proporre

azioni inibitorie a tutela degli interessi collettivi dei consumatori, pubblicato nella

Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, possono agire, ai sensi del presente

articolo e secondo le modalità di cui all’articolo 140, nei confronti di atti o

comportamenti lesivi per i consumatori del proprio Paese, posti in essere in tutto o

in parte sul territorio dello Stato»131.

La norma su riportata ha carattere generale e disciplina la legittimazione ad agire

rispetto a tutte le azioni proponibili nell’ambito della tutela degli interessi

collettivi, a differenza di quanto previsto dalla l. 30 luglio 1998 n. 281132. L’ambito

di operatività, dunque, non è limitato alla tutela degli interessi elencati all’art. 2

del Codice133,

Tale disposizione non regola gli aspetti procedurali dell’azione inibitoria e delle

misure accessorie (disciplina che si rinviene nel successivo art. 140), né offre

indicazioni circa la natura della legittimazione ad agire, se ordinaria, straordinaria

131

Per un commento della norma Petrillo, Art. 139, Codice del consumo, Commentario (a cura di Alpa e Carleo), Napoli 2005. 132

L’art. 3 della L. 281/98 così delimita l’ambito di operatività della legge: «Le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell'elenco di cui all'articolo 5 sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi, richiedendo al giudice competente: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate». 133

Si tratta di: (a) tutela della salute; (b) sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi; (c) adeguata informazione e corretta pubblicità; (d) educazione al consumo; (e) correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali; (f) promozione e sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; (g) erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

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o sostitutiva, ma definisce i soggetti abilitati ad adire l’autorità giudiziaria per la

tutela degli interessi dei consumatori.

La legittimazione, secondo l’art. 139, è attribuita in via esclusiva a soggetti

collettivi, con esclusione dei singoli. Per i consumatori italiani, la legittimazione

spetta solo agli enti esponenziali privati riconosciuti ex art. 137; per gli illeciti

transfrontalieri che colpiscono consumatori stranieri, la legittimazione spetta

anche ad organismi pubblici riconosciuti da diversi stati ed inseriti in un apposito

elenco pubblicato sulla G.U.C.E.

È necessario precisare che la rappresentatività dell’associazione non è un

elemento della legittimazione processuale o ad agire, ma rappresenta un fatto

costitutivo della fondatezza della domanda. Dunque, il vaglio di rappresentatività

dell’associazione ricorrente, che costituiva esame preliminare all’ammissibilità

della domanda, diventa in quest’ottica elemento valutativo circa la fondatezza

della domanda stessa, traslando il relativo giudizio dal recinto strettamente

processuale (come forse sarebbe più corretto) all’analisi del merito.

Come anticipato, l’art. 140 del Codice del Consumo disciplina la procedura

attraverso la quale i soggetti legittimati possono accedere agli strumenti

predisposti a tutela dei diritti dei consumatori. Il legislatore ha strutturato tale

disposizione nel seguente modo: «I soggetti di cui all’articolo 139 sono legittimati

ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo

al tribunale:

a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli

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utenti;

b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle

violazioni accertate;

c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a

diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento

può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate.

Le associazioni di cui al comma 1, nonché i soggetti di cui all’articolo 139, comma

2, possono attivare, prima del ricorso al giudice, la procedura di conciliazione

dinanzi alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura competente

per territorio, a norma dell’articolo 2, comma 4, lettera a), della legge 29 dicembre

1993, n. 580, nonché agli altri organismi di composizione extragiudiziale per la

composizione delle controversie in materia di consumo a norma dell’articolo 141.

La procedura è, in ogni caso, definita entro sessanta giorni.

Il processo verbale di conciliazione, sottoscritto dalle parti e dal rappresentante

dell’organismo di composizione extragiudiziale adito, è depositato per

l’omologazione nella cancelleria del tribunale del luogo nel quale si è svolto il

procedimento di conciliazione.

Il tribunale, in composizione monocratica, accertata la regolarità formale del

processo verbale, lo dichiara esecutivo con decreto. Il verbale di conciliazione

omologato costituisce titolo esecutivo.

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In ogni caso l’azione di cui al comma 1 può essere proposta solo dopo che siano

decorsi quindici giorni dalla data in cui le associazioni abbiano richiesto al soggetto

da esse ritenuto responsabile, a mezzo lettera raccomandata con avviso di

ricevimento, la cessazione del comportamento lesivo degli interessi dei

consumatori e degli utenti.

Il soggetto al quale viene chiesta la cessazione del comportamento lesivo ai sensi

del comma 5, o che sia stato chiamato in giudizio ai sensi del comma 1, può

attivare la procedura di conciliazione di cui al comma 2 senza alcun pregiudizio per

l’azione giudiziale da avviarsi o già avviata. La favorevole conclusione, anche nella

fase esecutiva, del procedimento di conciliazione viene valutata ai fini della

cessazione della materia del contendere.

Con il provvedimento che definisce il giudizio di cui al comma 1 il giudice fissa un

termine per l’adempimento degli obblighi stabiliti e, anche su domanda della parte

che ha agito in giudizio, dispone, in caso di inadempimento, il pagamento di una

somma di denaro da 516 euro a 1.032 euro, per ogni inadempimento ovvero

giorno di ritardo rapportati alla gravità del fatto. In caso di inadempimento degli

obblighi risultanti dal verbale di conciliazione di cui al comma 3 le parti possono

adire il tribunale con procedimento in camera di consiglio affinché, accertato

l’inadempimento, disponga il pagamento delle dette somme di denaro. Tali somme

di denaro sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate

con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze al fondo da istituire

nell’ambito di apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del

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119

Ministero delle attività produttive, per finanziare iniziative a vantaggio dei

consumatori.

Nei casi in cui ricorrano giusti motivi di urgenza, l’azione inibitoria si svolge a

norma degli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies del codice di procedura civile.

Fatte salve le norme sulla litispendenza, sulla continenza, sulla connessione e sulla

riunione dei procedimenti, le disposizioni di cui al presente articolo non precludono

il diritto ad azioni individuali dei consumatori che siano danneggiati dalle

medesime violazioni.

Per le associazioni di cui all’articolo 139 l’azione inibitoria prevista dall’articolo 37

in materia di clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori, si esercita

ai sensi del presente articolo.

Resta ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di

servizi pubblici ai sensi dell’articolo 33 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80.

Restano salve le procedure conciliative di competenza dell’Autorità per le garanzie

nelle comunicazioni di cui all’articolo 1, comma 11, della legge 31 luglio 1997, n.

249»134.

134

Il precedente diretto della disposizione in esame è costituito dall’art. 3, L. 30 luglio 1998 n. 281, che per la prima volta aveva introdotto nell’ordinamento italiano un’inibitoria collettiva di carattere generalizzato a tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti. Il Codice del Consumo recepisce la previsione dell’art. 3, così come modificata successivamente alla sua introduzione al fine di coordinarne la disciplina con quella prevista dalla direttiva 98/27/CE, e tenta anche di risolvere alcuni problemi di coordinamento con le precedenti norme sull’inibitoria collettiva (art. 1469-sexies c.c. e art. 7, D.lgs. 74/92), a loro volta assorbite nel nuovo corpo normativo.

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La norma, che segue nella sostanza il solco tracciato dalle disposizioni previgenti in

tema di tutela inibitoria dei consumatori, presenta alcune rilevanti novità di

carattere operativo.

Innanzitutto, viene effettuata una precisa scelta dal legislatore in ordine

all’autorità giudiziaria cui rivolgersi per l’attivazione delle tutele collettive previste,

individuata nel giudice ordinario, con la sola esclusione della giurisdizione

esclusiva del giudice amministrativo in materia di servizi pubblici ex art. 33 D.lgs.

80/98, come previsto al comma 11. L’art. 3 della L. 281/98, infatti, non individuava

preventivamente la giurisdizione, ma rimandava agli ordinari criteri di riparto la

soluzione del problema se la singola controversia dovesse essere proposta innanzi

al giudice ordinario o al giudice amministrativo.

Secondo poi, viene introdotta, quale condizione di proponibilità dell’azione, la cui

carenza è rilevabile, secondo la costante giurisprudenza, in ogni stato e grado del

giudizio, la preventiva richiesta di cessazione del comportamento lesivo, da

attuarsi mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. L’esercizio

dell’azione collettiva è subordinato al previo decorso del termine di quindici giorni

dalla richiesta di cessazione135.

Detta previsione rappresenta, con tutta evidenza, uno strumento deflattivo del

processo, mirando a facilitare la composizione stragiudiziale delle controversie136.

135

Ciò deve intendersi nel senso che, trattandosi di atto di natura recettizia, il termine di quindici giorni inizia a decorrere dal momento in cui il destinatario della comunicazione ne ha avuto conoscenza. 136

Vedi I. Pagni, Tutela individuale e tutela collettiva nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di A. Barba, Napoli 1999, 157.

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Inoltre, l’esternazione, da parte del soggetto che si assume leso, della necessità

che venga interrotto il comportamento lesivo, serve a rendere tale circostanza

attuale e inequivocabile.

È ovvio che la previa intimazione, pur nel silenzio della norma, non sia richiesta

qualora sussistano i “giusti motivi d’urgenza” per poter richiedere l’applicazione di

una misura inibitoria cautelare, da esperirsi, secondo il comma 8° della norma in

commento, ai sensi degli artt. 669-bis e ss del c.p.c. Il termine di quindici giorni,

prima del quale non può essere introdotto il giudizio, mal si concilia, infatti, con

l’esigenza di celerità che sottende all’esperimento della tutela inibitoria

preventiva.

Infine, l’art. 140 prevede la possibilità di giungere ad una definizione stragiudiziale

degli interessi in contrasto attraverso una procedura di conciliazione che riprende,

integrandola con alcune modifiche, quella prevista dall’art. 3 L. 281/98. Come

specificato dalla norma, la legittimazione ad avviare la procedura spetta a tutti i

soggetti pubblici e privati, italiani e stranieri, elencati nell’art. 139. Non può invece

essere attivata dal singolo consumatore o da altri enti, che siano privi dei requisiti

indicati nell’art. 139. La legittimazione attiva non spetta neppure alle associazioni

di professionisti, avendo il legislatore optato per una legittimazione esclusiva dei

soli enti esponenziali degli interessi dei consumatori. Il processo verbale di

conciliazione, sottoscritto dalle parti ed omologato dal giudice, costituisce titolo

per l’esecuzione forzata.

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Sono tre le tipologia di provvedimenti che il giudice può adottare in forza dell’art.

140: (i) inibitori137; (ii) di correzione e/o eliminazione degli effetti dannosi delle

violazioni accertate; (iii) di pubblicazione del provvedimento su uno o più

quotidiani.

Per quanto attiene alla tutela inibitoria, questa può essere esperita sia contro i

comportamenti illeciti del professionista che si sostanziano nella predisposizione

di clausole contrattuali di contenuto vessatorio, non chiaro o, comunque, non

allineato rispetto ai contenuti legali predeterminati, sia per ottenere la cessazione

di condotte “extracontrattuali”138, che incidano sulla salute ovvero sulla sicurezza

collettiva dei consumatori. Nel primo caso l’inibitoria consisterà nell’ordine, rivolto

al predisponente, di cessare l’utilizzazione del regolamento contrattuale viziato o

non trasparente, ovvero in un’autorizzazione a proseguire la sua utilizzazione ,

previa rimozione della lacuna o della causa di opacità, con la possibilità di espressa

condanna all’adempimento futuro degli obblighi rimasti inadempiuti139. Nella

seconda ipotesi l’inibitoria consisterà in un ordine di cessazione della condotta

illecita o nella autorizzazione della sua prosecuzione previa adozioni degli

opportuni accorgimenti.

137

Nella vigenza dell’art. 3, L. 281/98, che l’art. 140 riproduce pressoché pedissequamente, si era ritenuto che l’inibitoria potesse consistere tanto nell’imposizione di un obbligo di fare, n caso di condotta illecita omissiva, quanto in un obbligo di non fare, a fronte di un illecito commissivo. Relativamente all’inibitoria prevista nel Codice nel Consumo, non si rinvengono ragioni per discostarsi dalle considerazioni sulla disciplina previgente. 138

«Richiamando sia gli atti che i comportamenti il legislatore, il legislatore ha esteso l’ombrello della tutela sino ad abbracciare qualsiasi attività, sia essa di natura prettamente materiale ovvero negoziale, che si ponga concretamente in contrasto con gli interessi collettivi» (G. Chinè, Class action e tutela collettiva dei consumatori, Roma 2008, 91). 139

I. Pagni, op. cit., 148.

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Si è affermato in dottrina140 che l’inibitoria ordinaria prevista dall’art. 140 del

Codice del Consumo sarebbe esperibile solo nei confronti di illeciti già verificatesi

o in atto, atteso che l’azione può essere proposta solo quando siano decorsi dieci

giorni dalla ricezione della raccomandata con cui si chiede la cessazione del

comportamento lesivo.

In effetti, la previsione della preventiva richiesta di cessazione quale condizione di

proponibilità dell’azione inibitoria non sembrerebbe lasciare molto spazio

all’interpretazione. È anche vero, però, che la necessità di inibire un

comportamento illecito non ancora in atto ma di probabile esecuzione, in assenza

dei “giusti motivi d’urgenza”, non troverebbe adeguata tutela nella norma, stante

l’impossibilità contemporanea di ricondurre la fattispecie alle previsioni di cui ai

commi primo (non essendovi un illecito in atto) ed ottavo (difettando il requisito

del periculum). Tale posizione va tuttavia precisata, ricordando che una condotta

può dirsi lesiva degli interessi collettivi dei consumatori, e dunque illecita, anche

quando essa - in assenza di lesione materiale - violi una norma di legge posta

nell’interesse della collettività dei consumatori o metta semplicemente in pericolo

la sicurezza della generalità dei consumatori141. Dunque, nel caso di

comportamento lesivo di probabile esecuzione, gli atti preparatori dovranno avere

un’idoneità lesiva tale da integrare, di per sé stessi, la lesione di una fattispecie

normativa.

Un’ultima considerazione deve essere fatta con riferimento alla astreinte prevista

al settimo comma dell’art. 140. In primo luogo si deve evidenziare come il

140

I. Pagni, op. cit., 146. 141

Vedi Trib. Torino, 17 maggio 2002, in Foro It., 2002, I, 2899.

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124

legislatore abbia deciso, a differenza di altre fattispecie142, di destinare le somme

rinvenienti dall’applicazione della misura compulsoria all’Erario e, più

precisamente «al fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale di

base dello stato di previsione del Ministero delle attività produttive, per finanziare

iniziative a vantaggio dei consumatori». In quest’ottica, l’angolo visuale adottato

dal legislatore sembra spostarsi dalla misura compulsoria vera e propria ad

un’ipotesi di sanzione, comminata per la violazione di un ordine giudiziale.

Non opportuna appare, a parere di chi scrive, anche la determinazione dei limiti

edittali della astreinte. Ciò in quanto, per poter avere la maggior efficacia

possibile, l’astreinte deve essere modellata dal giudice a seconda della specificità

del caso concreto. Limitare i minimi, ma soprattutto i massimi, della misura

applicabile dal giudice potrebbe comportare il rischio che, laddove convenuta sia

un’impresa di grandi dimensioni (ipotesi non infrequente e facilmente

ipotizzabile), questa possa trovare economicamente più vantaggioso

corrispondere la sanzione e violare l’ordine di cessazione (per la verità, di

ammontare alquanto ridotto) piuttosto che darvi esecuzione. L’astreinte

costituirebbe per l’impresa convenuta, in questo caso, un mero costo d’esercizio,

ampiamente ripagato dai vantaggi derivanti dall’inserzione di clausole viziate o dai

comportamenti illeciti posti in essere.

142

Vedi il neo introdotto art. 614 bis c.p.c.

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125

3.2. L’ART. 140 BIS CDC. LA CLASS ACTION.

Nell’ambito del Codice del Consumo l’art. 140 bis, non presente nella stesura

originale in quanto introdotto dall'articolo 2, comma 446, Legge 24 dicembre

2007, n. 244 (Legge Finanziaria 2008), rappresenta sicuramente la previsione di

maggior interesse o, comunque, quella che ha suscitato maggiori fermenti143.

In realtà, ai fini del presente lavoro, l’analisi della class action italiana rappresenta

una piccola deviazione rispetto al tema affrontato, dal momento che la novella al

Codice mette a disposizione delle associazioni dei consumatori e degli utenti uno

strumento non inibitorio, già previsto all’art. 140, bensì di natura risarcitoria e

restitutoria. La ratio integrativa della tutela del consumatore, comunque, ne

impone un breve esame, ancorché superficiale.

Il testo dell’art. 140 bis è il seguente: «Le associazioni di cui al comma 1

dell'articolo 139 e gli altri soggetti di cui al comma 2 del presente articolo sono

legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti

richiedendo al tribunale del luogo in cui ha sede l'impresa l'accertamento del

143

Sono numerosi gli interventi in dottrina volti a dare una prima interpretazione alla class action nostrana. Tra questi citiamo solo alcuni: AA.VV., Le azioni collettive in Italia, profili teorici ed aspetti applicativi, in Il diritto privato oggi (a cura di Claudio Belli), Giuffrè 2007; A. Briguglio, Venti domande e venti risposte sulla nuova azione collettiva risarcitoria, articolo disponibile su www.judicium.it, 5.03.2008; C. Consolo, Class actions fuori dagli USA? (un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima), in Rivista di diritto civile, 1993; G. Costantino, La tutela collettiva risarcitoria. Note a prima lettura dell’articolo 140 bis del codice del consumo, in Foro It. 1/08; R. Lener, L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano del mercato finanziario, in Giur. Comm., 2005; M. Rescigno, L’introduzione della class action nell’ordinamento italiano - Profili generali, in Giur. Comm., 2005; P. Rescigno, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giurisprudenza italiana, 2000. Non sono mancati, poi, interventi assai critici nei confronti della novella disciplina. È appena il caso di ricordare l’intervento di Guido Alpa (Il Sole 24 Ore, rassegna stampa del 17.11.2007) il quale, a caldo, ha affermato che «la normativa per la tutela degli interessi collettivi approvata ieri al Senato - in un contesto improprio qual è la Finanziaria - è un mostro giuridico che, se lo si vuole mantenere in vita, deve essere completamente riscritto, pena lo scardinamento del sistema processuale vigente e l’accelerazione della crisi della macchina della giustizia».

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126

diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli

consumatori o utenti nell'ambito di rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai

sensi dell'articolo 1342 del codice civile, ovvero in conseguenza di atti illeciti

extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti

anticoncorrenziali, quando sono lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di

utenti.

Sono legittimati ad agire ai sensi del comma 1 anche associazioni e comitati che

sono adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere. I

consumatori o utenti che intendono avvalersi della tutela prevista dal presente

articolo devono comunicare per iscritto al proponente la propria adesione

all'azione collettiva. L'adesione può essere comunicata, anche nel giudizio di

appello, fino all'udienza di precisazione delle conclusioni. Nel giudizio promosso ai

sensi del comma 1 è sempre ammesso l'intervento dei singoli consumatori o utenti

per proporre domande aventi il medesimo oggetto. L'esercizio dell'azione collettiva

di cui al comma 1 o, se successiva, l'adesione all'azione collettiva, produce gli

effetti interruttivi della prescrizione ai sensi dell'articolo 2945 del codice civile.

Alla prima udienza il tribunale, sentite le parti, e assunte quando occorre sommarie

informazioni, pronuncia sull'ammissibilità della domanda, con ordinanza

reclamabile davanti alla corte di appello, che pronuncia in camera di consiglio. La

domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando

sussiste un conflitto di interessi, ovvero quando il giudice non ravvisa l'esistenza di

un interesse collettivo suscettibile di adeguata tutela ai sensi del presente articolo.

Il giudice può differire la pronuncia sull'ammissibilità della domanda quando sul

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127

medesimo oggetto è in corso un'istruttoria davanti ad un'autorità indipendente. Se

ritiene ammissibile la domanda il giudice dispone, a cura di chi ha proposto l'azione

collettiva, che venga data idonea pubblicità dei contenuti dell'azione proposta e dà

i provvedimenti per la prosecuzione del giudizio.

Se accoglie la domanda, il giudice determina i criteri in base ai quali liquidare la

somma da corrispondere o da restituire ai singoli consumatori o utenti che hanno

aderito all'azione collettiva o che sono intervenuti nel giudizio. Se possibile allo

stato degli atti, il giudice determina la somma minima da corrispondere a ciascun

consumatore o utente. Nei sessanta giorni successivi alla notificazione della

sentenza, l'impresa propone il pagamento di una somma, con atto sottoscritto,

comunicato a ciascun avente diritto e depositato in cancelleria. La proposta in

qualsiasi forma accettata dal consumatore o utente costituisce titolo esecutivo.

La sentenza che definisce il giudizio promosso ai sensi del comma 1 fa stato anche

nei confronti dei consumatori e utenti che hanno aderito all'azione collettiva. È

fatta salva l'azione individuale dei consumatori o utenti che non aderiscono

all'azione collettiva, o non intervengono nel giudizio promosso ai sensi del comma

1.

Se l'impresa non comunica la proposta entro il termine di cui al comma 4 o non vi è

stata accettazione nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione della stessa,

il presidente del tribunale competente ai sensi del comma 1 costituisce un'unica

camera di conciliazione per la determinazione delle somme da corrispondere o da

restituire ai consumatori o utenti che hanno aderito all'azione collettiva o sono

intervenuti ai sensi del comma 2 e che ne fanno domanda. La camera di

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128

conciliazione è composta da un avvocato indicato dai soggetti che hanno proposto

l'azione collettiva e da un avvocato indicato dall'impresa convenuta ed è

presieduta da un avvocato nominato dal presidente del tribunale tra gli iscritti

all'albo speciale per le giurisdizioni superiori. La camera di conciliazione quantifica,

con verbale sottoscritto dal presidente, i modi, i termini e l'ammontare da

corrispondere ai singoli consumatori o utenti. Il verbale di conciliazione costituisce

titolo esecutivo. In alternativa, su concorde richiesta del promotore dell'azione

collettiva e dell'impresa convenuta, il presidente del tribunale dispone che la

composizione non contenziosa abbia luogo presso uno degli organismi di

conciliazione di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e

successive modificazioni, operante presso il comune in cui ha sede il tribunale. Si

applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 39 e 40 del citato

decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni»144.

Il contenuto della norma è così sintetizzabile.

144

L’introduzione della class action nel nostro ordinamento è un classico esempio di riflesso degli input provenienti dall’Unione europea sulla legislazione nazionale. Erano più di quindici anni che l’Europa affermava la necessità di garantire tutela in forma collettiva ai diritti di cui sono titolari le vittime di fatti lesivi plurioffensivi. Le prese di posizione in questo senso sono numerosissime. L’intervento più recente (e forse di maggior efficacia) è rappresentato dal Green Paper on Consumer Collective Redress (Libro Verde sulla tutela collettiva dei diritti dei consumatori al riconoscimento e alle restituzioni), pubblicato dalla Commissione il 27 novembre 2008 e corredato dall’invito a partecipare al dibattito. L’assunto di fondo del Libro Verde è quello che la tutela risarcitoria in forma collettiva dei diritti individuali dei consumatori sia un bene da perseguire, anche al fine di migliorare il mercato. Il Libro Verde non si occupa del ruolo degli organismi statali, della tutela eventualmente ottenibile tramite le varie autorità garanti, dell’ausilio che i singoli potrebbero ricevere, sul piano risarcitorio, dalle iniziative di carattere penale. Si occupa, piuttosto, del diritto al risarcimento del danno patito dai consumatori, in situazioni genericamente definite di carattere transfrontaliero (cross border cases). Formalmente, la Commissione non riguarda il diritto interno degli stati membri, che limitazione sì istituzionale e dovuta, di valenza però solo formale, perché di fatto l’intento dell’Unione non è solo quello di promuovere la tutela transfrontaliera, ma per tale via stimolare anche quella dei singoli Stati, in molti casi assai più importante.

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129

Per quanto attiene alla legittimazione ad agire, possono esperire la tutela

collettiva risarcitoria le associazioni dei consumatori e degli utenti, di cui all’art.

137, comma 1°, del Codice, nonché le associazioni e i comitati che sono

adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere. Mentre nel

primo caso, però, la legittimazione, sotto il profilo della rappresentatività, è

predeterminata dalla legge (per il tramite dell’iscrizione della associazione

nell’apposito elenco tenuto presso il Ministero delle Attività Produttive), nella

seconda ipotesi sarà il Collegio, investito della questione, a dover valutare, in via

preliminare la rappresentatività della associazione attrice.

L’adesione del singolo consumatore all’azione collettiva è stata immaginata dal

legislatore secondo il sistema dell’opt in. Gli effetti dell’azione, cioè, non si

riflettono automaticamente nella sfera giuridica del soggetto che si riconosce nella

categoria tutelata, ma è necessario che questi proponga formale adesione alla

class action (adesione che può essere effettuata anche in grado d’appello fino

all’udienza di precisazione delle conclusioni)145. Ciò a differenza di quanto accade

in altri ordinamenti (come quello belga) dove il consumatore, automaticamente

investito degli effetti dell’azione collettiva, per il solo fatto di appartenere alla

categoria rappresentata nell’azione, può svincolarsi esercitando l’opt out, ossia

una esplicita manifestazione di non adesione alla class action.

Atteso che l’adesione di tutti i soggetti, facenti parte la categoria lesa, presuppone

che questi vengano raggiunti dalla notizia dell’esistenza dell’azione, la norma

145

La previsione può apparire di estremo favore per il consumatore, ma non viene considerato che molto spesso i giudizi di appello constano di una sola udienza, essendo pressoché sempre preclusa la possibilità di svolgere attività istruttoria.

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130

attribuisce al giudice il potere-dovere, una volta ritenuta ammissibile l’azione, di

ordinare che venga data idonea pubblicità dei contenuti dell’azione proposta146.

Singolare è, invece, il sistema di liquidazione delle somme a titolo di risarcimento

da parte del giudice. Questi, infatti, una volta accolta la domanda (an debeatur),

non stabilisce l’ammontare del risarcimento, se non la misura minima, dovuto a

ciascun aderente all’azione (quantum debeatur), ma fissa solamente i criteri in

base ai quali liquidare la somma da corrispondere o da restituire ai singoli

consumatori. La determinazione dell’ammontare è lasciata all’iniziativa

dell’impresa soccombente la quale, nei sessanta giorni dalla notificazione della

sentenza, deve formulare una proposta di risarcimento. In caso di inattività

dell’impresa, il presidente del Tribunale costituisce una camera di conciliazione

che sopperisca alla mancanza della proposta risarcitoria o restitutoria147.

La finalità meramente risarcitoria della class action prevista dal Codice del

Consumo, come detto, può far apparire la sua analisi stridente con il tema del

presente lavoro. Più aderente alle problematiche dell’inibitoria sembra, invece, la

particolare azione collettiva introdotta dal D.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198

(Attuazione dell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per

l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici) nei

confronti della Pubblica Amministrazione.

146

È ipotizzabile, in questo caso, l’utilizzo di uno strumento pressoché inutilizzato nel nostro ordinamento e rappresentato dalla notificazione per pubblici proclami di cui all’art. 150 c.p.c. 147

Deve evidenziarsi che la formula di class action all’italiana, che risente inevitabilmente dell’esperienza americana, non contempla i c.d. punitive damages, che pur costituendo uno strumento di indubbia efficacia general preventiva, non sono allo stato compatibili con il nostro ordinamento, atteso che il risarcimento del danno, nel nostro sistema, ha la sola funzione di compensare la perdita subita e preclude al danneggiato di lucrare somme eccedenti il danno effettivamente subito. In altri termini, rimane estranea al sistema l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta.

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La disciplina citata (promulgata in esecuzione della c.d. Legge Brunetta, dal nome

del Ministro per l'Innovazione nella Pubblica amministrazione) è entrata in vigore

il 15 gennaio 2010 ed è stata prospettata dal Governo quale strumento atto a

risolvere l’annoso problema dei disservizi nelle amministrazioni dello Stato148.

L’art. 1 del decreto delegato, infatti, prevede che «Al fine di ripristinare il corretto

svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di

interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e

consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente

decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi

pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla

violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali

obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente

entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla

violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di

standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici,

dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le

pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in

materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150,

coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la

trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 del

148

Come affermato dal Governo «Si tratta di un istituto che si affianca ma che differisce profondamente dalla class action recentemente entrata in vigore che modifica il Codice del consumo. Quest’ultima infatti riguarda le lesioni dei diritti di consumatori e utenti in ambito contrattuale e, per certi ambiti, extracontrattuale. Obiettivo, invece, della class action nei confronti della pubblica amministrazione è di indurre il soggetto pubblico o concessionario di servizi pubblici ad assumere comportamenti virtuosi nel suo ciclo di produzione» (http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/class_action_pa/index.html).

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132

medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo

27 ottobre 2009, n. 150».

Scopo della norma è, dunque, quello di stimolare la Pubblica Amministrazione,

attraverso la funzione di “pungolo” dell’azione collettiva promossa dalle

associazioni rappresentative degli interessi di consumatori ed utenti149, al

ripristino dei corretti standard qualitativi del servizio reso.

La struttura procedurale adottata dal legislatore non differisce granché da quella

prevista dal Codice del Consumo anzi, si potrebbe affermare che, nei suoi tratti

essenziali, la ripercorre fedelmente, salvo alcuni aggiustamenti dovuti alla

peculiarità del soggetto pubblico.

Anche la class action nei confronti della P.A. prevede una fase prodromica in cui

l’interessato deve diffidare la P.A. a porre in essere gli interventi necessari alla

soddisfazione dell’interesse tutelato150. Il termine concesso per l’adempimento,

149

L’art. 1 in realtà non specifica se legittimate all’azione siano le associazioni di categoria, limitandosi ad affermare che tale legittimazione spetta ai «titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori». Con tale definizione, però, non sembra si possano individuare soluzioni diverse, quanto alla legittimazione attiva, dalle associazioni rappresentative degli interessi di consumatori ed utenti. 150

Art. 3: «Il ricorrente notifica preventivamente una diffida all'amministrazione o al concessionario ad effettuare, entro il termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati. La diffida è notificata all'organo di vertice dell'amministrazione o del concessionario, che assume senza ritardo le iniziative ritenute opportune, individua il settore in cui si è verificata la violazione, l'omissione o il mancato adempimento di cui all'articolo 1, comma 1, e cura che il dirigente competente provveda a rimuoverne le cause. Tutte le iniziative assunte sono comunicate all'autore della diffida. Le pubbliche amministrazioni determinano, per ciascun settore di propria competenza, il procedimento da seguire a seguito di una diffida notificata ai sensi del presente comma. L'amministrazione o il concessionario destinatari della diffida, se ritengono che la violazione, l'omissione o il mancato adempimento sono imputabili altresì ad altre amministrazioni o concessionari, invitano il privato a notificare la diffida anche a questi ultimi. Il ricorso è proponibile se, decorso il termine di cui al primo periodo del comma 1, l'amministrazione o il concessionario non ha provveduto, o ha provveduto in modo parziale, ad eliminare la situazione denunciata. Il ricorso può essere proposto entro il termine perentorio di un anno dalla scadenza del termine di cui al primo periodo del comma 1. Il ricorrente ha l'onere di comprovare la notifica della diffida di cui al comma 1 e la scadenza del termine assegnato per provvedere, nonché di dichiarare nel ricorso la persistenza, totale o parziale, della situazione denunciata.

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133

però, a differenza di quanto previsto dall’art. 140 CdS, è di novanta giorni e non di

quindici, anche in considerazione della farraginosità dei procedimenti

amministrativi e, quindi, della particolare lentezza delle pubbliche

amministrazioni.

Sotto il profilo oggettivo, sembra che il legislatore abbia voluto limitare al massimo

il ricorso alla class action in esame, adottando quale filtro di proponibilità

dell’azione l’esistenza di una lesione diretta, concreta ed attuale dell’interesse

violato. Ciò in quanto vi è il rischio concreto che l’abuso che possa farsi di tale

strumento sortisca sull’amministrazione l’effetto opposto a quello sperato,

ingolfandola di procedimenti ed andando così a rallentare ulteriormente

l’espletamento della funzione pubblica.

Come è evidente, l’azione collettiva delineata dal legislatore per la Pubblica

Amministrazione ha ad oggetto non il danno prodotto dalla inefficienza

dell’amministrazione (tanto che il decreto non prevede alcuna forma di

risarcimento per il soggetto titolare dell’interesse leso, il quale, dunque, dovrà

rivolgersi nuovamente alla giustizia per veder ristorato il danno eventualmente

subìto), bensì la condotta omissiva dell’Amministrazione stessa che abbia

comportato la mancata soddisfazione di un interesse (legittimo) protetto.

In luogo della diffida di cui al comma 1, il ricorrente, se ne ricorrono i presupposti, può promuovere la risoluzione non giurisdizionale della controversia ai sensi dell'articolo 30 della legge 18 giugno 2009, n. 69; in tal caso, se non si raggiunge la conciliazione delle parti, il ricorso è proponibile entro un anno dall'esito di tali procedure»

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134

Il provvedimento adottato dal giudice è tipicamente inibitorio151. Per la precisione,

si tratta di un’inibitoria positiva, atteso che è il non facere dell’amministrazione cui

il giudice deve porre rimedio, e ciò attraverso l’imposizione di una determinata

condotta (per la cui realizzazione può farsi ricorso anche al giudizio di

ottemperanza) da porre in essere entro il termine che il giudice riterrà congruo.

Non sono previsti dalla norma in esame strumenti di compulsione indiretta,

contemplati invece nella disciplina del Codice del Consumo. La scelta del

legislatore ha origine dalla legge di delega (l. 15/2009), laddove all’art 4, nel

conferire al Governo la delega per «consentire a ogni interessato di agire in

giudizio nei confronti delle amministrazioni, nonché dei concessionari di servizi

pubblici», si prevede che «Dall’attuazione delle disposizioni contenute nel presente

articolo […] non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

Pertanto, la previsione di una sanzione a fronte dell’inottemperanza, da parte

dell’amministrazione soccombente, dell’ordine del giudice, non sarebbe stata

compatibile con una riforma “a costo zero”.

151

L’art. 4 del decreto prevede che «Il giudice accoglie la domanda se accerta la violazione, l'omissione o l'inadempimento di cui all'articolo 1, comma 1, ordinando alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica […] L'amministrazione individua i soggetti che hanno concorso a cagionare le situazioni di cui all'articolo 1, comma 1, e adotta i conseguenti provvedimenti di propria competenza». Ai sensi del successivo art. 5, invece, «Nei casi di perdurante inottemperanza di una pubblica amministrazione si applicano le disposizioni di cui all'articolo 27, comma 1, n. 4, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054» (giudizio di ottemperanza).

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135

4. LA TUTELA INIBITORIA IN EUROPA

Dopo aver analizzato le diverse sfaccettature della tutela inibitoria nel nostro

ordinamento, è doveroso allargare gli orizzonti all’ambito europeo, sia con

riferimento a previsioni simili in altri ordinamenti, sia alle ipotesi di inibitoria

contemplate dal diritto dell’Unione Europea.

Negli ordinamenti dei paesi membri, al pari di quanto abbiamo visto in Italia, non

si rinvengono disposizioni che definiscano l’azione inibitoria il cui concetto,

pertanto, non sempre è univoco, risultando questo piuttosto dall’elaborazione

dottrinale e giurisprudenziale.

In ogni caso, se diamo per pacifico che l’inibitoria è l’azione che può esperire il

soggetto titolare di un interesse protetto, finalizzata a far sì che una lesione in atto

cessi o che una lesione temuta non si realizzi, allora possiamo individuare gli

equivalenti dell’inibitoria nella action en cessation del diritto francese, nel

Unterlassungsklage del diritto tedesco, nella Verbodsactie del diritto olandese e

nella injunction del diritto inglese152, ovviamente tralasciando quelle ipotesi di

inibitoria che sono derivazione diretta dell’attività normativa dell’Unione Europea

152

Nell’ambito degli ordinamenti appartenenti alla famiglia romano-ermanica la prima azione, comune a tutti, per far cessare un comportamento illecito è la romana actio negatoria, che però tutelava solo contro molestie e violazioni alla proprietà terriera (proprietà, servitù, possesso). È solo con l’inizio del 1800 che si comincia ad avviare il discorso di una tutela preventiva contro le minacce di pregiudizio anche ai beni immateriali (brevetti, marchi, diritti d’autore); ed è verso il 1830 che, realizzatasi man mano la libertà di industria e commercio, si è reso necessario tutelare l’imprenditore contro pratiche sleali che ne pregiudicavano l’attività. Alla metà del secolo emerge in Francia il concetto di concurrence dèloyale ed i giudici trattano le pratiche sleali come atti illeciti ai sensi dell’art. 1382 Code Nap. e la relativa azione risarcitoria assume anche i contenuti di un’inibizione degli atti lesivi futuri. I giudici tedeschi (ancora non c’è il BGB, che verrà nel 1896) non raccolgono l’invito di Kohler a seguire l’esempio dei colleghi francesi e considerare le pratiche sleali nel commercio come atti illeciti, sicché si è dovuto attendere fino alla fine del secolo (legge sulla concorrenza sleale del 1896) per avere un’inibitoria in questo campo.

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136

e che, pertanto, possono rinvenirsi (anche se con gli aggiustamenti necessari

all’adattamento nei singoli ordinamenti) nelle legislazioni di tutti i paesi membri.

Ciò che si può anticipare è che l’azione inibitoria è ammessa in tutti i Paesi dell’UE.

Le differenziazioni sono dovute alla collocazione della norma cui l’inibitoria fa

riferimento, lo sviluppo storico e dogmatico, le condizioni di applicabilità, il

rapporto tra la fase provvisoria e quella definitiva del rimedio, le tecniche per

curarne la realizzazione coattiva.

Quanto al primo punto, mentre gli ordinamento della famiglia romano-germanica

hanno bisogno di una norma legale, quelli appartenenti alla famiglia della common

law la ritrovano nell’esistenza stessa dell’equity.

Tutto considerato, le divergenze dogmatiche che ancora sussistono non

impediscono di registrare delle generali consonanze pratiche. L’inibitoria si

presenta ovunque come un rimedio nato nel campo del diritto civile, ma

sviluppatosi poi in modo prorompente nel campo del diritto commerciale e

industriale, dove è noto che le violazioni sono di natura tale che ben difficilmente

una loro adeguata sanzione può poggiare sull’azione risarcitoria. Di grande

impatto è anche l’applicazione della tutela inibitoria ai “nuovi diritti”, quali il

diritto alla riservatezza, i diritti dei consumatori (nella forma delle azioni

collettive), il diritto all’ambiente.

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137

4.1. FRANCIA

L’origine della tutela inibitoria in Francia è dovuta all’opera della giurisprudenza.

La jurisprudence prètorienne, constatata l’inidoneità della action nègatoire a

costituire il fondamento dell’inibitoria, in quanto ritenuta insuscettibile di

applicarsi al di là della difesa della proprietà fondiaria, ha individuato tale

fondamento nell’art. 1382 («Tout fait quelconque de l'homme, qui cause à autrui

un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer»), norma

molto più duttile e verso la quale i giudici hanno assunto un atteggiamento di

estrema flessibilità.

All’inizio si ritenne che l’art 1382 Cod. Nap. non proibisse al giudice l’emanazione

di un provvedimento risarcitorio che avesse contenuto tale da condurre ad una

restitutio in natura che impedisse pregiudizi futuri, appoggiandosi

processualmente al pouvoir de donner des ordres dell’art. 1036 c.p.c.

Le difficoltà incontrate dai giudici nell’utilizzare l’art. 1382 c.c. quale grimaldello

per introdurre la tutela inibitoria consistettero in ciò che la fattispecie richiede il

danno (dommage) e la colpa (faute). Per il primo si è inventato il concetto di

prèjudice futur, per cui «dès l’instant où il y a certitude que le dommage se

rèalisera, le demandeur peut en obtenir la rèparation comme s’il l’avait dèjà subi»;

si è equiparata, dunque, la certezza del verificarsi del pregiudizio alla sua

realizzazione153.

153

AA.VV., Traitè thèorique et pratique de la responsabilitè civile dèlictuelle et contractuelle, III, 6a ed., Paris 1978, 2079.

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138

L’elemento della faute, invece, nonostante i tentativi di vederlo realizzato in ogni

“cosciente violazione di una norma”, ha presentato maggiori resistenze. Ciò ha

indotto il legislatore a prevedere esplicitamente l’action en cessation con

formulazione sempre più ampie: l’art. 2 della loi des finance del 1963; art. 2 l. n.

64/1960 del 1964 in tema di marchi; art. 2. Comma 2°, Cod. Nap. sulla tutela della

vita privata. Numerose sono poi le previsioni di ordres de cessation nell’ambito

della tutela della concorrenza, così come frequentissime sono le actions en

cessation nel campo della concorrenza sleale, dei segni distintivi e per il rispetto

dei patti di non concorrenza (senza dimenticare la interdiction provisoire prevista

dal Code de la proprietè intellectuelle in vigore dal 9.2.1994).

4.2. OLANDA

Il nuovo codice civile olandese (Nieuw Burgelijk Wetboek - NBW), entrato in vigore

il primo gennaio 1992, prevede in via generale l’azione inibitoria per tutti gli atti

illeciti.

La nascita dell’istituto in Olanda ha, però, origini ben più risalenti, atteso che già

nel 1914 la giurisprudenza aveva dichiarato che chiunque riceve un pregiudizio da

un comportamento illecito ha diritto di pretendere la cessazione dello stesso. La

regola, estratta dall’art. 1401 senza troppi travagli dogmatici, è di applicazione

generale, anche se, ovviamente, di particolare importanza nel campo delle

pratiche concorrenziali ed ha avuto ingresso nel codice civile con l’art. 1416, 1°

comma, introdotto nel 1980 con la legge sulla pubblicità ingannevole.

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139

In tema di difesa della proprietà è espressamente prevista una tutela inibitoria,

che si affianca a quella risarcitoria e di accertamento negativo, dall’art. 302 libro

terzo154.

4.3. GERMANIA

Fra gli ordinamenti dell’Europa continentale è quello tedesco che ha più elaborato

la nozione di inibitoria facendone un indiscusso istituto di portata genarale.

L’Unterlassungsklage trova la sua fonte primigenia nel § 1004 (actio negatoria a

tutela del proprietario): di lì si sviluppa per propagazione sistematica in tutto il

campo dei diritti reali ed oltre: servitù prediali e personali, immissioni, usufrutto,

superficie, abitazione etc.

A dire il vero ci fu un tentativo risalente (RG, 11.4.1901, in RGZ, 48, 114) di dedurre

la generalità dell’Unterlassungsklage dalla norma generale dell’illecito civile, ma

non ebbe successo, per l’incompatibilità della funzione del rimedio con i requisiti

del danno e della colpevolezza. All’inevitabile domanda perché i giudici tedeschi

abbiano preferito servirsi del § 1004 anziché del § 823 per costruire una teoria

generale dell’ Unterlassungsklage, si risponde che la norma tedesca sulla

responsabilità delittuale è molto più precisa di quella francese nel richiedere la

colpa (Verschulden), la cui presenza non è richiesta invece dal § 1004. Ne consegue

che, trasportata in altri campi, ha assunto la denominazione di azione quasi

negatoria, con l’intento di marcarne l’identità di presupposti con quella del § 1004.

154

H.J Snijders-E.B. Rank-Berenschot, Goederenrecht, Kluwer 2001, 131.

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140

Molto importante è infine il ruolo che l’inibitoria gioca nel campo delle regole

antitrust.

La chiave di volta dell’allargamento oltre i confini delle previsioni tipiche, la

giurisprudenza l’ha rinvenuta nella funzione della tutela preventiva, che ben si

addice alla violazione di tutti gli obblighi di comportamento, a prescindere dalla

natura del bene minacciato. È così che dai diritti assoluti del § 823, Abs. 1, BGB

(vita, corpo, salute, libertà, proprietà), si è passati al § 823, Abs. 2, che offre

protezione contro la violazione di una norma che abbia per scopo la tutela di

interessi altrui. Godono, pertanto, oggi dell’ Unterlassungsklage i beni del § 824

(reputazione economica, aspettativa di guadagno etc.), il diritto all’esercizio di

un’impresa, i diritti della personalità, il diritto alla salute, il diritto all’ambiente etc.

4.4. GRAN BRETAGNA

Nei paesi di common law l’inadeguatezza del rimedio risarcitorio è stata avvertita

sin dal secolo XIV, che segna il nascere dell’injunction, un rimedio nato dall’equity

e che non ha mai più perso, nel corso dei secoli, quei caratteri di flessibilità e

discrezionalità che marcano ogni equitable remedy. I rimedi fino ad allora concessi,

oltre che ingabbiati dalle formule, si riducevano alla funzione riparatoria o

restitutoria lasciando scoperta la funzione di prevenzione (o cessazione)

dell’illecito per il futuro.

Intesa come an order of the court directing a person to do or refrain from doing a

particular act, l’injunction può avere un contenuto negativo (prohibitive) o positivo

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141

(mandatory) e, in relazione al momento processuale nel quale viene concesso, si

distingue in final e preliminary; la prima concessa dopo che è intervenuta una

decisione giudiziale sul merito, la seconda concessa all’inizio o nel corso del

processo dopo un esame sommario delle ragioni delle parti.

Lo sviluppo storico dell’injunction è segnato da tappe abbastanza nette: a tutela

della proprietà terriera e dei diritti reali connessi la incontriamo già nel XIV

secolo155. Quanto alla proprietà industriale dobbiamo attendere il 1700 per

vederla applicata al diritto d’autore, e la metà del 1800 per i brevetti, marchi e

concorrenza sleale156, nonché per prevenire le interferences with contractual

relations, tutte ipotesi nelle quali l’equity interveniva per offrire tutela contro le

violazioni di diritti patrimoniali (property).

Dove l’equity ha lasciato l’impronta più peculiare è nell’estensione dell’injunction

alle obbligazioni contrattuali. A cominciare, infatti, dal caso Lumley v. Wagner

(1852) gli obblighi di non facere che trovano la loro fonte in un contratto sono

perseguiti attraverso l’injunction. Oggi il rimedio è comune per prevenire illeciti

anche all’interno di formazioni associative e societarie. L’injunction è poi uno degli

strumenti più efficaci in mano alle autorità a ciò preposte per combattere la

violazione contro le restrizioni della concorrenza.

155

A. Frignani, L’injunction cit., 71. 156

A. Frignani, L’injunction cit., 94.

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142

4.5. UNIONE EUROPEA

In ambito comunitario, inteso come normativa emanata dagli organi dell’Unione

Europea, sono molteplici le previsioni di tutela inibitoria. Senza alcuna pretesa di

esaustività, si possono elencare gli interventi più significativi del governo

dell’Unione in tema di azioni inibitorie che, come vedremo, per la maggior parte

gravitano attorno al tema consumeristico.

Proprio partendo dalla tutela del consumatore (tappa pressoché obbligata se si

considera la quantità e la pregnanza degli interventi in tale ambito), la direttiva

che per prima merita di essere menzionata è la Dir. 1993/13/CE, concernente le

clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

Il secondo comma dell’art. 7 della citata direttiva prevede che «I mezzi di cui al

paragrafo 1 (le azioni a tutela del consumatore) comprendono disposizioni che

permettano a persone o organizzazioni […] di adire, a seconda del diritto

nazionale, le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi competenti affinché

[…] applichino mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di siffatte

clausole». Anche se in maniera embrionale (tecnica dovuta alla necessità di

costituire un minimo comune denominatore per le diverse culture giuridiche degli

stati membri), dunque, venivano poste le basi per l’introduzione di una tutela

inibitoria a presidio degli interessi dei consumatori.

Più specifica, in tema di tutela inibitoria dei consumatori, è la direttiva 1998/27/CE

(recepita con il D.lgs. 95/2000) che, oltre a dare definizione dell’azione e

dell’ambito operativo della stessa, focalizza l’attenzione sulle pratiche scorrette di

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carattere transnazionale («considerando che le pratiche menzionate travalicano

spesso le frontiere tra gli Stati membri; che è quindi necessario e urgente

ravvicinare in una certa misura le disposizioni nazionali che consentono di far

cessare dette pratiche illecite a prescindere dal paese in cui la pratica illecita ha

prodotto effetti» - 6° considerando della direttiva).

In ambito diverso interviene la Direttiva 2000/31/CE (recepita con il D.lgs.

70/2003), c.d. “Direttiva sul commercio elettronico”. La Direttiva, che verte in

tema di informazioni scambiate nell’ambito del commercio elettronico, prevede al

45° considerando che «Le limitazioni alla responsabilità dei prestatori intermedi

previste nella presente direttiva lasciano impregiudicata la possibilità di azioni

inibitorie di altro tipo. Siffatte azioni inibitorie possono, in particolare, essere

ordinanze di organi giurisdizionali o autorità amministrative che obbligano a porre

fine a una violazione o impedirla, anche con la rimozione dell’informazione illecita

o la disabilitazione dell’accesso alla medesima».

L’anno successivo viene emanata la Direttiva 2001/29/CE (recepita con il D.lgs.

68/2003) in tema di tutela del diritto d’autore (che anticipa di qualche anno la più

nota Direttiva Enforcement). In tale contesto, il legislatore comunitario ha

considerato che «i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di chiedere un

provvedimento inibitorio contro un intermediario che consenta violazioni in rete da

parte di un terzo contro opere o altri materiali protetti» (59° Considerando).

Come detto, il disegno di protezione del diritto d’autore viene completato con la

Direttiva 2004/48/CE (Enforcement), recepita con il D.lgs. 140/2006, della quale

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144

abbiamo già detto trattando dell’inibitoria nella concorrenza sleale e nel diritto

d’autore157.

Sempre in tema di consumatori, la Direttiva 2005/29/CE (recepita con il D.lgs.

145/2007), relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel

mercato interno, prevede, all’art. 11, che «Gli Stati membri assicurano che

esistano mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali al

fine di garantire l’osservanza delle disposizioni della presente direttiva

nell’interesse dei consumatori»; e nel fare ciò «gli Stati membri conferiscono

all’organo giurisdizionale o amministrativo il potere, qualora ritengano necessari

detti provvedimenti tenuto conto di tutti gli interessi in causa e, in particolare,

dell’interesse generale […] di far cessare le pratiche commerciali sleali o di

proporre le azioni giudiziarie appropriate per ingiungere la loro cessazione».

La Direttiva 2006/114/CE, in tema di pubblicità ingannevole e comparativa

(materia che, per la verità, non si discosta troppo dalla tutela del consumatore

intesa nel suo senso più ampio), prevede al 17° Considerando che «I tribunali o gli

organi amministrativi dovrebbero avere il potere di ordinare ed ottenere la

cessazione della pubblicità ingannevole ed illegittimamente comparativa. In certi

casi può essere opportuno vietare la pubblicità ingannevole ed illegittimamente

comparativa anche prima che essa sia stata portata a conoscenza del pubblico».

Nell’articolato della Direttiva, inoltre, il 3° comma dell’art. 5 dispone che «gli Stati

membri conferiscono alle autorità giudiziarie o amministrative il potere, qualora

ritengano che detti provvedimenti siano necessari, tenuto conto di tutti gli interessi

157

Per un’analisi della Direttiva si rimanda a L. Nivarra, L’Enforcement cit.

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in causa e in particolare dell’interesse generale: a) di far sospendere la pubblicità

ingannevole o illegittimamente comparativa oppure di avviare le azioni giudiziarie

appropriate per fare ingiungere la sospensione di tale pubblicità».

Di recente, e sempre in tema di consumatori, il Parlamento europeo ed il Consiglio

hanno emanato la Direttiva 2009/22/CE, relativa a provvedimenti inibitori a tutela

degli interessi dei consumatori. Tale Direttiva rappresenta la maturazione del

percorso iniziato con la Direttiva 1993/13/CE e che nel tempo ha visto affinarsi e

moltiplicarsi gli strumenti a tutela del consumatore e, in particolar modo, lo

strumento inibitorio. In tale prospettiva, l’art. 2 della Direttiva (rubricato “azioni

inibitorie”) prevede molto chiaramente che «Gli Stati membri designano gli organi

giurisdizionali o le autorità amministrative competenti a deliberare su ricorsi o

azioni proposti dagli enti legittimati ai sensi dell’articolo 3, onde: a) ordinare con la

debita sollecitudine e, se del caso, con procedimento d’urgenza, la cessazione o

l’interdizione di qualsiasi violazione; b) disporre, se del caso, provvedimenti quali la

pubblicazione, integrale o parziale, della decisione, in una forma ritenuta consona

e/o la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa al fine di eliminare gli effetti

perduranti della violazione; c) nella misura in cui l’ordinamento giuridico dello

Stato membro interessato lo permetta, condannare la parte soccombente a

versare al Tesoro pubblico o ad altro beneficiario designato o previsto dalla

legislazione nazionale, in caso di mancata esecuzione della decisione entro il

termine fissato dagli organi giurisdizionali o dalle autorità amministrative, un

importo determinato per ciascun giorno di ritardo o qualsiasi altro importo

previsto dalla legislazione nazionale, al fine di garantire l’esecuzione delle

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decisioni». Come è evidente, il legislatore comunitario ha inteso chiarire definizioni

e limiti della tutela inibitoria, disegnandola con la struttura e gli strumenti attuativi

che più volte abbiamo ritrovato nelle previsioni del nostro ordinamento: (i)

provvedimento di cessazione; (ii) pubblicazione del provvedimento; (iii) misura

compulsoria indiretta.

Da ultimo, ma solo in ordine temporale, merita un cenno la Direttiva 2009/24/CE

relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore.

Tale Direttiva, per quanto non preveda esplicitamente uno strumento inibitorio di

tutela del software, all’art. 7 (“Misure speciali di tutela”) demanda comunque al

legislatore nazionale il compito di stabilire le appropriate misure nei confronti del

soggetto che «ogni atto di messa in circolazione di una copia di un programma per

elaboratore da parte di chi sappia o abbia motivo di ritenere che si tratta di copia

illecita». La Direttiva è molto ampia nella formulazione della norma e, nonostante

ciò, è facile prevedere (o quantomeno lo si auspica) che il legislatore nazionale,

all’atto del recepimento, prevederà strumenti a contenuto inibitorio a tutela dei

titolari di diritti di sfruttamento sui programmi per elaboratore elettronico.

5. CONCLUSIONI

Le molteplici ipotesi di inibitoria presenti nel nostro ordinamento ed in quello

comunitario, applicabili ad una serie di ipotesi tipizzate che vanno dalla tutela del

nome alla protezione del consumatore, fanno sorgere la domanda su quale sia, e

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debba essere nel prossimo futuro, la dimensione e la collocazione della tutela

inibitoria all’interno dello strumentario approntato dal legislatore.

La prevalenza, sino ad oggi indiscussa, del rimedio risarcitorio sulle altre forme di

protezione (restitutorie, in forma specifica, inibitorie etc.) fa ben comprendere

come l’azione inibitoria sia stata relegata ad ipotesi eccezionale di tutela,

secondaria e solamente eventuale rispetto al ristoro per equivalente.

Le fattispecie che prevedono espressamente la possibilità di ricorrere all’azione di

cessazione sono tutte collocate all’interno di discipline specifiche, il che rende

difficile un’applicazione analogica dello strumento al di fuori delle ipotesi previste.

Se a ciò si aggiunge la correlativa mancanza di una previsione generalizzata della

tutela inibitoria, ecco che si rendono più chiari e riconoscibili i limiti cui oggi è

soggetta tale tipo di azione.

Perché, allora, la dottrina dovrebbe prestare interesse all’azione inibitoria? Perché

si dovrebbe sentire la necessità di riconsiderare il ruolo dell’inibitoria nell’ambito

della tutela civile? La risposta è presto detta.

La richiesta di una tutela quale quella inibitoria, soprattutto dell’inibitoria

cautelare, accresce in maniera inversamente proporzionale rispetto alla delusione

nei confronti del sistema giudiziario e della sua cronica incapacità a dare pronta

soddisfazione alle richieste dei titolari degli interessi lesi. Le lungaggini del sistema

appaiono oggi sommamente inadeguate alla funzione che dovrebbe assolvere la

giustizia civile, che mal si presta a costituire una risposta efficace alle domande di

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celerità che sono specchio della complessità dei rapporti sociali e, a maggior

ragione, di quelli commerciali.

In tale prospettiva, uno strumento che garantisca in tempi brevi quantomeno la

cessazione della condotta antigiuridica, indipendentemente dalle conseguenze sul

piano del ristoro per equivalente del danno subìto, difficilmente svincolabile

dall’ambito del giudizio ordinario di cognizione, appare l’unica soluzione utilmente

praticabile da coloro che intendono veder protetti i propri interessi. Ecco, dunque,

che la gerarchia degli strumenti di tutela, consolidatasi nel tempo, viene sovvertita

sulla base del criterio di utilità e l’inibitoria viene ad assumere un ruolo primario

nel novero delle tutele.

Ancor più efficace appare la tutela inibitoria azionata in via cautelare, sulla quale

però è opportuno svolgere alcune riflessioni.

Come abbiamo visto in quelle ipotesi che prevedono una protezione inibitoria a

fronte del solo “rischio” che si verifichi la lesione dell’interesse protetto,

l’anticipazione dell’operatività della tutela richiede un assoluto rigore nella

verificazione dei presupposti previsti dalla legge. Ciò in quanto è attuale e non

trascurabile il rischio che l’ampiezza dei presupposti, e la discrezionalità giudiziale

che essi implicano, conduca ad un’eccessiva compressione della libertà individuale

del soggetto la cui attività venga interdetta.

Tale è il motivo che, fino ad oggi, ha suggerito un approccio tipizzante all’inibitoria

ed ha impedito l’introduzione di una previsione generale dell’azione di cessazione.

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L’anticipazione della soglia di accesso alla tutela si mostra, però, necessaria,

laddove si tratti di tutelare i c.d. “nuovi diritti”. La mancanza di una previsione che

regoli i conflitti inerenti i nuovi interessi, almeno quelli ritenuti meritevoli di tutela,

rende l’inibizione della condotta che ne mette a rischio il godimento la forma più

immediata ed appropriata di protezione.

Se è vero che la dottrina è scettica già sulla legittimità del ricorso al risarcimento

del danno come strumento di protezione di interessi nuovi, ancor più in

considerazione del fatto che tale tutela è ancorata ad un presupposto certo come

il danno ingiusto, è anche vero che non può negarsi protezione a diritti di nuovo

conio, anch’essi meritevoli di tutela, che però scontano il difetto di non trovare

nell’ordinamento, notoriamente lento nell’accogliere le nuove istanze,

un’adeguata protezione. La diffidenza che può nutrirsi nei confronti della tutela

inibitoria, in quanto strumento la cui operatività e spesso legata a presupposti ben

più labili del danno ingiusto (si pensi al rischio o al solo timore del della lesione),

appare a chi scrive comprensibile ma non del tutto giustificabile, soprattutto se

questa si risolve nella mera avversione alla discrezionalità del giudice.

Che il soggetto giudicante abbia una certa “libertà di manovra”, del resto, è non

solo inevitabile, se si considera che è l’opera del giudice a dover sopperire alle

mancanze dell’ordinamento - sempre che non sconfini nell’intollerabile mero

arbitrio sostitutivo della volontà del legislatore - ma elemento riscontrabile nella

quotidianità dei tribunali e, dunque, costituisce un parametro con cui l’interprete

si deve seriamente confrontare.

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Se si parte da una presunzione di capacità del giudice (ahinoi, iuris tantum e non

iuris et de iure), dovrebbe corrispondentemente alleviarsi la preoccupazione circa

il rischio che si faccia di una tutela, quale quella inibitoria, un uso del tutto

arbitrario ed esorbitante rispetto ai limiti imposti dalle singole fattispecie.

Pur comprendendo come tale timore sia pressoché ineliminabile, dobbiamo

comunque ribadire la necessità che il nostro ordinamento preveda una tutela

sufficientemente “elastica”, in grado di essere applicata ad ipotesi che non

trovano riscontro positivo nella legge ma che sembrano pienamente meritevoli di

tutela. In tale ottica, l’azione inibitoria (ed intendiamo qui l’inibitoria che ha quale

presupposto il fondato timore o rischio di pregiudizio) potrebbe assurgere a

strumento principe, con le limitazioni e le cautele del caso, proprio per la sua

capacità di intervenire non già nel momento patologico del conflitto tra interessi,

quando il danno si è già realizzato e solo il risarcimento per equivalente può

ristorare il pregiudizio subìto, ma in un momento antecedente la stessa

realizzazione del danno, attraverso la cessazione della condotta che può darvi

luogo.

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