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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA

LAUREA IN EDUCATORI PROFESSIONALI

TESI DI LAUREA

“L’UMANITÀ IN CAMMINO: L’INEDITO POSSIBILE”

RILETTURA DI PAULO FREIRE

PER UNA PEDAGOGIA POLITICA DEI NUOVI STILI DI VITA

Relatore: Prof.ssa Rosanna Cima

Laureando: Davide Ferrari VR012071

ANNO ACCADEMICO 2014/2015

Sommario

Premessa metodologica

Introduzione……………………………………………………………………... 3 Il significato del titolo

I Paulo Freire……………………………………………………………… 7 Perché Paulo Freire / Attualità del pensiero

I.1 Paulo Freire……………………………………………………………. 12

I.1.1 L’Educatore e l’Uomo………………………………………… 12

I.1.2 Influenze e analogie di pensiero………………………………. 22

I.1.3 L’Educazione come strumento di Speranza…………………. 26

I.1.4 Una Storia da costruire………………………………………… 28

I.1.5 L’eredità di Paulo Freire: radici, ali e sogni…………………… 30

I.1.6 Aspetti critici e questioni aperte………………………………... 32

I.2 L’Umanità in cammino…………………………………………………. 37

I.2.1 L’Umanità negata. Oppressi e Oppressori…………………….. 37 La cultura del silenzio / Il dualismo nell’oppresso

I.2.2 L’Umanità liberata. Essere-di-più……………………………… 42 Alcuni concetti chiave nel processo di coscientizzazione /

Pratiche di coscientizzazione e analisi dei temi generatori / Considerazioni

I.2.3 L’Umanità condivisa. Essere di più verso l’altro……………… 50 Il dialogo come luogo dell’incontro / La conquista vs. la collaborazione /

Dividere per dominare vs. Unire per liberare

I.2.4 L’Umanità responsabile. Essere di più nel Mondo………..…... 55 La parola autentica e la prassi liberatrice / La manipolazione

vs. l’organizzazione / L’invasione culturale vs. la sintesi culturale

I.2.5 L’Umanità in cammino. L’inedito possibile…………………… 62 Compiti della leadership rivoluzionaria / Utopia, Speranza ed Etica:

verso l’inedito possibile / Il ruolo dell’educazione

II I Nuovi Stili di Vita……………………………………………………… 70 Perché parlare di “nuovi stili di vita”

II.1 Oppressi e Oppressori oggi. Nuove categorie per un Cammino Nuovo74

II.1.1 Lo scenario attuale e le situazioni limite……………………….. 74 L’impoverimento, il debito rubato / I predatori ingordi /

Il mito della crescita infinita / Un’Umanità consumata /

La fabbrica dei desideri / La ricerca della felicità /

Pachamama, la Madre rinnegata / La postdemocrazia

II.1.2 Nuove categorie per un Cammino Nuovo………………………….105 Il dualismo nell’oppressore / Oppressione assoluta e oppressione relativa /

Consumatore conformista-manipolabile, superficiale-istintivo e critico-consapevole /

Oppressione diretta, culturale e strutturale / I temi generatori

II.2 Per una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita…………………………117

II.2.1 Il ruolo dell’educazione e le dimensioni essenziali…………………117 La necessità di un approccio problematizzante / Il dialogo come stile di vita

/ La questione del metodo / Le chiavi pedagogiche / I principi basilari /

Le qualità dell’educatore / Caratteristiche essenziali del cittadino planetario

II.2.2 I nuovi rapporti………………………………………………………139 Dall’Ecopedagogia ad una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita /

Un nuovo rapporto con le cose (il mondo dell’economia) /

Un nuovo rapporto con le persone (il mondo affettivo e relazionale) /

Un nuovo rapporto con la natura (il mondo dell’ambiente) /

Un nuovo rapporto con la mondialità (il mondo dei popoli)

II.2.3 I tre livelli di intervento……………………………………………...147 Il livello personale e famigliare / Il livello comunitario e sociale /

Il livello istituzionale e sistemico

II.2.4 I binari di riferimento………………………………………………..151 La sobrietà / Il tempo / Lo spazio

II.2.5 Alcuni strumenti pedagogici………………………………………...156 Il “metodo” Paulo Freire / Il Teatro dell’oppresso / Il gioco di simulazione /

La Formazione / L’informazione

II.3 Un nuovo rapporto con le Cose……………………………………………..170 Lo scenario / Gli obiettivi / Le buone pratiche a livello personale e famigliare /

Le buone pratiche a livello comunitario e sociale /

Le buone pratiche a livello istituzionale e sistemico

II.4 Un nuovo rapporto con le Persone………………………………………….183 Lo scenario / Gli obiettivi / Le buone pratiche a livello personale e famigliare /

Le buone pratiche a livello comunitario e sociale /

Le buone pratiche a livello istituzionale e sistemico

II.5 Un nuovo rapporto con la Natura…………………………………………..189 Lo scenario / Gli obiettivi / Le buone pratiche a livello personale e famigliare /

Le buone pratiche a livello comunitario e sociale /

Le buone pratiche a livello istituzionale e sistemico

II.6 Un nuovo rapporto con la Mondialità………………………………………197 Lo scenario / Gli obiettivi / Le buone pratiche a livello personale e famigliare /

Le buone pratiche a livello comunitario e sociale /

Le buone pratiche a livello istituzionale e sistemico

II.7 Conclusioni…………………………………………………………………...205

II.8 Bibliografia

II.9 Ringraziamenti

i

Premessa metodologica

Prima di iniziare è necessario fare una premessa metodologica, che evidenzi alcune

peculiarità che hanno caratterizzato la stesura del presente testo:

Il linguaggio di Paulo Freire è ricco di neologismi, pertanto, nell’approfondirne il

pensiero, è normale imbattersi in parole e concetti che non trovano una

corrispondenza nella lingua italiana. Le traduzioni dei termini coniati da Freire, qui

presenti, sono fedeli a quelle utilizzate nelle traduzioni ufficiali pubblicate in Italia.

Nella maggioranza dei testi di approfondimento scritti da autori italiani, la

pedagogia di Freire è definita come “freiriana”, tolto alcune versioni o traduzioni

che, commutando dall’inglese “freirean” o dal portoghese e dallo spagnolo

“freireana”, la traducono in italiano appunto come “freireana”. Qui abbiamo scelto

di utilizzare, nella normale stesura, la dicitura “pedagogia freiriana”, in linea anche

con la versione comunemente utilizzata dall’Istituto Paulo Freire Italia, mentre

nelle note e nei contributi riportati, è stata mantenuta la versione originale, che

potrebbe quindi discordare per questo motivo.

Per Paulo Freire le parole hanno un valore profondo, che è strettamente legato alla

visione del mondo che ognuno di noi ha. Quando scrisse la “Pedagogia degli

Oppressi”, furono molte le donne che fecero notare all’autore che aveva utilizzato il

termine “uomini” per identificare anche il genere femminile. Da allora, come

spiegato nel testo “Pedagogia della Speranza”, Freire utilizzò sempre le diciture

“uomini e donne”, “persone” o “esseri umani”, per evidenziare una sua forte

contrapposizione ad una visione maschilista del mondo e in segno di rispetto per

quante si erano sentite escluse o ferite dal suo linguaggio, sebbene non fosse quella

la sua intenzione. Coerentemente con questa scelta e condividendone il valore,

anche in queste pagine si cercherà di non fare riferimento alla sola parola “uomini”,

ma sempre alle varianti di cui sopra, anche a costo di appesantire la fluidità del

discorso. È possibile che eventuali eccezioni si possano trovare nelle note, che sono

state lasciate integralmente nella loro forma originale.

Senza il bisogno di entrare nei dettagli, può essere utile notare come la stessa

costruzione dell’indice sia stata fatta con un “metodo”, freiriano, identificando

l’universo lessicale dei testi presenti in bibliografia e facendo un’operazione di

codifica e di successiva decodifica, che ha portato all’identificazione della struttura

definitiva. Questa scelta è dovuta alla ricerca della maggiore coerenza possibile con

ii

il tema trattato e alla volontà di avvicinarsi maggiormente alla visione del mondo di

Freire, iniziando da lì una sua rilettura.

Nel riferirsi ai luoghi in cui vive la parte di popolazione più ricca del mondo sono

state utilizzate diverse accezioni: Nord, Occidente, Primo mondo. Esse sono da

intendersi come generiche e approssimative, vista la convivenza di situazioni molto

diverse di ricchezza e povertà, anche all’interno di uno stesso Paese. Lo stesso

discorso vale per le diciture Sud o Terzo mondo.

I contenuti e le riflessioni qui presenti sono frutto di un lavoro che ha preceduto (e si

è intrecciato poi) con la forma scritta, ma che non ha nessuna pretesa di essere

esaustivo, proprio per la natura complessa dei temi trattati. Ulteriori

approfondimenti potranno essere fatti a partire dalla ricca appendice bibliografica,

tenendo presente l’indicazione dello stesso Freire, secondo cui è importante che i

testi, una volta letti, vengano vissuti.

A Licia

che condivide

con me

il Cammino

e al piccolo Paolo,

che, ogni giorno,

ci insegna

a camminare.

3

“[...] nessuno cammina

senza imparare a camminare,

senza imparare a fare il cammino

camminando,

senza imparare a rifare,

a ritoccare il sogno

in vista del quale

ci si era messi in cammino.”

(Paulo Freire) 1

Introduzione

Viviamo in un pianeta ricco di risorse, che potrebbe nutrire tutti i suoi abitanti e

potremmo vivere in pace grazie ai frutti della Terra, come fratelli e sorelle, se solo

l’avidità e l’egoismo non avessero intaccato i nostri cuori. Abbiamo i mezzi per

comunicare in ogni luogo del mondo, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina

dell’abbondanza del consumismo, con la sua promessa disattesa di realizzare ogni

nostro desiderio, ha creato invece povertà e squilibri mai visti. Il sistema socio-

economico, al servizio di pochi uomini senza scrupoli, è stato spinto in una corsa

frenetica verso il profitto, accantonando il Bene comune. Corriamo troppo e viviamo

troppo poco le nostre vite. Più che di tecnologia avremmo forse bisogno di umanità, più

che di progresso fine a se stesso, avremmo bisogno di equità e di solidarietà, di etica e

di giustizia sociale, perché senza queste qualità la vita è solo violenza e morte. Ma non

tutto è perduto. È necessario tenere viva la speranza, che è fatta di esperienze, di volti,

di storie, che a piccoli passi stanno invertendo la rotta. Paulo Freire, con i suoi testi e

con la sua vita, ci ricorda che dentro di noi batte un cuore e che in ognuno di noi pulsa

l’inedita possibilità di essere-di-più-nel-mondo, la possibilità, cioè, di vivere in

pienezza la nostra umanità insieme all’altro, poiché l’amore è il mezzo più potente per

attivare l’amore, poiché amare è il mezzo più potente per costruire la pace e la pace non

s’impone, si offre. Quello di cui oggi abbiamo bisogno è un disarmo del cuore,

svuotando le nostre vite di cose e lasciando spazio agli altri, alle relazioni umane, alla

capacità di regalare un sorriso, perdonare uno screzio, chiedere scusa, offrire la nostra

mano ed operare per la giustizia, la sostenibilità e la salvaguardia di una Terra che ci è

Madre. Dovremmo ricominciare il cammino guardando i più piccoli, imparando a

camminare dai bambini, che nella loro semplicità custodiscono il segreto della scoperta,

della curiosità, dello stupore e della gioia profonda per la vita. L’obiettivo non può più

essere quello della crescita infinita, ipotizzato dalla società dei consumi, serve piuttosto

1 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, EGA, Torino 2008, p. 176.

4

ripensare ad un sistema capace di coniugare equità, sostenibilità e giustizia sociale.

L’intento di queste pagine è di partire da una rilettura di Paulo Freire per imbastire le

basi di una pedagogia critica e umanizzante, una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di

Vita, indirizzata a quegli uomini e a quelle donne del Primo mondo, che nella cultura

del consumo non hanno trovato una risposta soddisfacente alle loro domande e ai loro

bisogni più profondi. Non si tratta di un compito semplice, ma di un cammino

estremamente complesso, per questo motivo i temi non verranno trattati con un falso

ottimismo, ma con una consapevolezza densa di speranza, perché sono molti i segnali

che indicano che l’attuale sistema capitalista ha ormai raggiunto l’apice della propria

parabola e che nuovi stili di vita, nuove pratiche e nuovi modi di progettare il futuro,

stanno diffondendosi e raggiungendo traguardi insperati, prima d’ora. Come si afferma

nel libro “Ecopedagogia e cittadinanza planetaria”:

“Molti indizi indicano che il sistema attuale sta crollando e che dobbiamo aprire nuove vie

verso un futuro alternativo. Ci troviamo di fronte a una scelta: iniziare questo cammino o

perire. Per entrare nella nuova era di un mondo solidale occorrono nuovi modi di strutturare

la politica, l'economia, la scienza e la spiritualità.”2

L’educazione da sola non può cambiare il mondo, come non lo può cambiare una sola

persona, ma l’educazione può dimostrare che il cambiamento è possibile ed è questa

prospettiva che dà forza al sogno di poter costruire un sistema più giusto di quello

attuale. Si tratta di un compito storico concreto, che deve trovare una sintesi tra la

denuncia delle situazioni limite, che disumanizzano gli esseri umani e l’annuncio

dell’inedita possibilità del loro superamento. Cambiare il mondo è difficile, ma c’è

anche la piena consapevolezza che l’attuale sistema non ha un futuro sostenibile e che,

prima o poi, la crescita infinita dovrà fare i conti con un pianeta che infinito non è. A

quel punto cambiare sarà un’opzione inderogabile, ma non è dato sapere a quale prezzo.

Per questo motivo è indispensabile che l’Umanità si metta in cammino e lo faccia al più

presto, cambiando completamente direzione, rispetto a quella intrapresa finora.

2 Eisler R. in Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, EMI, Bologna 2000, p. 35.

5

Il significato del titolo

La scelta del titolo “L’Umanità in cammino: l’inedito possibile” non è quindi casuale.

La parola Umanità rappresenta il nostro essere umani, ma anche la possibilità di farsi

umani, di maturare cioè quel sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di

indulgenza verso gli altri, che ci permetta di intraprendere il percorso verso quello che

Freire definisce come il nostro essere-di-più. Inoltre, la parola Umanità è al singolare,

sottolineando la responsabilità personale di ognuno nella trasformazione del mondo, ma

allo stesso tempo il suo contenuto è al plurale, manifestando quindi la necessità che

nessuno vada da solo per la propria strada, ma che i sogni di ognuno divengano parte di

un sogno condiviso, progettato e portato a termine insieme agli altri. Il riconoscersi

come esseri umani, in comunione con l’Umanità, significa rispondere alla propria

vocazione ontologica di essere-di-più-nel-mondo, impegnati politicamente e

storicamente nella trasformazione stessa del mondo. Affinché questo si realizzi e la

società del consumo venga trasformata, serve un approccio integrale e non ci si può

quindi limitare a delle letture parziali della realtà. Proprio a causa di questa complessità,

una pedagogia critica ed umanizzante, che si prenda a cuore il problema

dell’umanizzazione degli esseri umani, deve essere una prerogativa da cui è

indispensabile partire. Freire sottolinea anche che è necessario pensare all’Umanità, non

in senso astratto, ma dandole un nome, un volto, delle mani, una prossimità, che la

possano ricondurre a qualcuno di cui concretamente prendersi cura e non ad un concetto

astratto che non richieda alcuno sforzo per essere accolto. La parola cammino

identifica l’atto del muoversi, ossia dell’andare di luogo in luogo, per lo più con le

proprie gambe. Si tratta quindi di un viaggio lento, in ascolto di se stessi e degli altri, su

terreni spesso impervi o non curati. Non è raro che lo si debba aprire un cammino, una

nuova via, un nuovo orizzonte verso cui andare. Il cammino è un viaggio a misura di

essere umano e quest’ultimo viene spronato a riscoprire i valori del sacrificio,

dell’equilibrio, della misura, della sobrietà, della fatica, della tenacia, della

consapevolezza, dell’ascolto, dello stupore, dell’incontro, della scoperta. È il cammino

stesso a farci e ri-farci, infatti, ad ogni passo, non solo il mondo cambia, ma cambia

anche qualcosa dentro di noi. L’inedito possibile è un neologismo ideato da Freire per

definire il cammino inedito (dal portoghese inedito viàvel, cioè l’inedito percorribile), i

percorsi nuovi, le pratiche possibili, la soluzione che esiste ma che è ancora “in

potenza”, pronta per essere attivata attraverso una pedagogia di liberazione. Cercare

6

l’inedito possibile significa partire dalle persone, dando loro più importanza che a

qualsiasi metodo o tecnicismo. Come evidenzia bene Paolo Vittoria, docente presso

l’Università Federale di Rio de Janeiro, è indispensabile:

“Apprendere dal contesto e dalle storie dei partecipanti, prima di pretendere di insegnare.

Imparare dall'altro con l'umiltà, la profondità e l'equilibrio necessari. Reimpostare la

propria autorevolezza mediante l'ascolto, cercando gli strumenti adatti per valorizzare le

idee, le parole, i linguaggi, renderli base di cultura, di curiosità epistemologica. Paulo

Freire ha tracciato dei sentieri non perché li seguissimo pedissequamente ma perché ci

incamminassimo nella lotta pacifica e pedagogica per un mondo umano e meno ingiusto,

creando percorsi nuovi. Riprodurre le direzioni di questi sentieri vorrebbe dire tornare al

punto di partenza: la ricerca storica può essere utile a leggere il presente nella sua

profondità non a inseguire il passato. Noi abbiamo bisogno di andare avanti e camminare,

tracciare sentieri nuovi, cercare strade, aprire cammini. Non annullare le esperienze passate

né mitizzarle, ma reinventarle in base alle domande dei diversi contesti, alle capacità dei

singoli, alle potenzialità dei gruppi, cercando l'inedito viavel (l'inedito percorribile).”3

Denunciando le situazioni limite ed annunciando l’inedito possibile, possiamo iniziare

un cammino che lasci delle impronte, così che chi voglia le possa seguire, facendo e ri-

facendo il cammino, passo dopo passo. In questo senso rileggeremo Paulo Freire, per

tracciare le basi di una Pedagogia che veda, nella scelta critica e consapevole di nuovi

stili di vita, la possibilità concreta di cambiare il mondo, partendo da un livello

personale, con l’analisi e la modifica delle proprie pratiche quotidiane, fino ad arrivare

ad un livello sociale ed istituzionale, in cui sia il sistema stesso ad essere trasformato in

un sistema migliore, più umano e più rispettoso dell’intero eco-sistema in cui viviamo.

3 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, Carlo Delfino editore, Sassari 2008, p. 159.

7

I - Paulo Freire

“Cambiare il mondo

implica la costruzione

di una relazione dialettica

tra la denuncia

della situazione disumanizzante

e l’annuncio

del suo superamento,

in fin dei conti

il nostro sogno”.

(Paulo Freire) 4

Perché Paulo Freire

Nella ricerca di una pedagogia che sia in grado di cogliere il senso profondo dell’essere

umano, in un cammino di liberazione concreto, impegnato e schierato, nel desiderio di

costruire insieme una pedagogia volta a ristabilire un’etica e una giustizia sociale che la

società neoliberista vorrebbe accantonare a favore del mero profitto di pochi, non si può

non partire dal lavoro che ha caratterizzato l’intera vita di Paulo Freire. Non solo nel

suo impegno di pensatore e accademico, ma soprattutto in quello di educatore, di uomo

e, non ultimo, di testimone e di “lottatore perseverante”, come lui stesso si definisce.

Per Paulo Freire non si tratta, infatti, di avvicinarsi ad un metodo o di sposare una

filosofia dell’educazione, ma di valorizzare le ragioni ultime del nostro essere umani,

ricercando insieme un cammino che ci possa concretamente impegnare, sfidare, mettere

in contraddizione, ma che alla fine vada nella direzione di riconciliare gli uomini e le

donne con la loro umanità, gli uomini e le donne con il mondo. Le parole che Paulo

Freire scrive, prendono l’inchiostro dalla terra e dalla storia, ed è questo che le rende

cariche di senso, d’impegno civile e sociale, di scelta di campo tra chi, comodo, si

schiera con gli oppressori e chi, con determinazione e coraggio, decide invece di lottare

contro ogni forma di sopruso e violenza, contro un sistema miope e ingiusto, che fa

della negazione dell’umanità stessa la sua ragion d’essere. Ed è proprio attingendo dalle

parole di Paulo Freire che si può cogliere quale sia la sua idea di educazione:

“Non posso fare l’insegnante a favore semplicemente dell'Uomo o dell'Umanità, frase di una

vaghezza che contrasta troppo con la concretezza della pratica educativa. Faccio l’insegnante

a favore dell'onestà contro la spudoratezza, a favore della libertà contro l’autoritarismo,

dell’autorità contro la mancanza di regole, della democrazia contro la dittatura di destra o di

sinistra. Faccio l’insegnante a favore della lotta costante contro qualsiasi forma di

discriminazione, contro il dominio economico degli individui o delle classi sociali. Faccio

l’insegnante contro l’ordine capitalista vigente che ha inventato l’aberrazione a cui siamo di

4 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, EGA, Torino 2004, pp. 63-64.

8

fronte: la miseria nell’abbondanza. Faccio l’insegnante a favore della speranza che mi dà

forza nonostante tutto. Faccio l’insegnante contro la disillusione che mi consuma e mi

paralizza. Faccio l’insegnante a favore della bellezza della mia stessa pratica, bellezza che

svanisce se non mi prendo cura del sapere che devo insegnare, se non mi do da fare per

questo sapere, se non lotto per le condizioni materiali necessarie all’adempimento del mio

compito, senza le quali il mio corpo, trascurato, corre il rischio di lasciarsi andare e di non

essere più il testimone che deve essere, quello di un lottatore perseverante, che si affatica ma

non desiste.”5

Nel suo essere educatore, Paulo Freire non vuole sminuire l’importanza dei contenuti,

chiede anzi una particolare dedizione alla cura della formazione, nell’ottica di una

profonda conoscenza dell’oggetto da indagare, ma è anche perfettamente consapevole

che la pratica educativa non può ridursi al semplice passaggio di nozioni o

informazioni, come accade invece con l’educazione bancaria/depositaria. Il motivo per

cui vogliamo partire da Paulo Freire nasce proprio da questa prospettiva e dal fatto che

la forza del suo pensiero poggia sulla solida convinzione che la pedagogia possa portare

ad un cambiamento reale solo se accompagnata da una testimonianza etica, che accolga

l’educando con umiltà e rispetto. L’umiltà di chi sa che è necessario liberare spazio

dentro di sé, per lasciare entrare in maniera autentica l’altro. Il rispetto profondo che è

dovuto a chi abbiamo di fronte, che rappresenta sempre un mistero, un tesoro da

scoprire e da valorizzare. Il rispetto per il sapere che scopriamo essere insito in ogni

uomo e donna, che si relaziona con il mondo.

“Allo stesso modo non posso fare l’insegnante senza essermi preparato a insegnare bene e

nel modo corretto i contenuti della mia disciplina. Né posso ridurre la mia pratica di docente

al puro insegnamento di quei contenuti. Questa è soltanto una parte della mia attività

pedagogica. Altrettanto importante è infatti la mia testimonianza etica nell'insegnarli, questi

contenuti. È l’onestà con cui lo faccio. È la preparazione scientifica messa in mostra senza

arroganza, anzi, al contrario, con umiltà. È il rispetto mai negato nei confronti dell’educando,

al suo sapere “esperienziale” [...]. È importante che gli alunni si rendano conto dello sforzo

compiuto dall'insegnante nel cercare la sua coerenza.”6

Scegliere Paulo Freire significa quindi assumere, già di per sé, una presa di posizione

chiara, non contrattabile. Non si può parlare di giustizia sociale e sostenere l’iniquità,

parlare di accoglienza e alimentare le esclusioni, parlare di umanità e mercificare la vita,

parlare di sostenibilità e dilapidare il patrimonio ecologico che ci è stato affidato e che

avremmo il dovere di consegnare integro, a nostra volta, alle generazioni future.

Secondo Freire, la pedagogia non può essere slegata dall’esperienza, anzi, è il suo

5 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 82. 6 Ibidem

9

concetto stesso di prassi a definire il legame profondo tra teoria e pratica, come

percorso esperienziale che trova nel mondo il proprio interlocutore e nella riflessione

teorica il modo per dare un significato all’esperienza stessa. Non un sapere o un fare

fine a se stessi quindi, ma un sapere finalizzato alla pratica e un fare che senta la

necessità di essere indagato, rielaborato, ripensato in modo critico. Una liberazione

autentica può avvenire solo se il processo su cui si basa è in grado di generare un

cambiamento reale, nelle pratiche e nella cultura, a livello individuale, sociale ed

istituzionale. Una liberazione autentica, deve soprattutto riportare gli uomini e le donne

a riscoprire il valore assoluto del proprio essere umani, contrastando con ogni mezzo,

tutte quelle forze che, con arroganza, spingono nella sola direzione dell’interesse, del

profitto e del privilegio di pochi. Oltre ai suoi scritti e ai risultati ottenuti nel campo

dell’emancipazione sociale, la validità della proposta di Paulo Freire sta proprio nella

sua sensibilità nel dialogare con gli altri, nella sua lotta appassionata contro ogni

sistema iniquo e oppressivo, nella sua coerenza etica nel leggere il mondo, sempre e

comunque, dalla parte degli oppressi, degli ultimi e degli esclusi. Partire da Paulo Freire

significa scegliere concretamente da che parte stare e, allo stesso tempo, avere chiaro

che l’utopia non è altro che un orizzonte, per molti forse irraggiungibile, ma che per

ogni educatore impegnato dovrebbe rappresentare il riferimento verso cui spiegare le

proprie vele, il luogo verso cui indirizzare il proprio cammino, insieme a tutti quegli

uomini e a quelle donne che credono in un’umanità e in un mondo migliori, in una

visione planetaria più umana ed umanizzante. Iniziare i propri passi da Paulo Freire

significa impegnarsi in una rivoluzione amorosa a cui tutti siamo chiamati, una

rivoluzione che ha l’obiettivo di costruire una relazione dialettica tra la denuncia della

situazione disumanizzante e l’annuncio del suo superamento. Denuncia e annuncio,

fanno della pedagogia freiriana uno strumento di speranza, finalizzato ad affrontare le

situazioni limite che attanagliano questa nostra umanità, verso la creazione di

quell’inedito possibile, caro a Freire, ma anche a tutti quegli uomini e quelle donne che

credono ancora nella forza dei sogni.

10

Attualità del pensiero

La situazione attuale, a livello globale, è segnata da profonde crisi che investono il

sistema su diversi fronti: economico, politico, istituzionale, religioso, etico, ecologico,

sociale, relazionale. La prima reazione potrebbe essere quella di indignarsi, con forza, di

fronte ad un modello di sviluppo che sembra calpestare ogni diritto, ma questo

atteggiamento non basta. La ribellione può rappresentare un punto di partenza

indispensabile, quella che Freire definisce come “la giusta collera”, ma non è

sufficiente. Serve che l’educazione svolga un ruolo politico, nel senso elevato del

termine, per far sì che insieme si riesca a costruire una storia diversa da quella che ci

propone il panorama attuale. Una storia, quella di oggi, che è intrisa di squilibri e

oppressioni, di egoismi e divisioni, d’ingiustizie e privilegi. L’educazione deve essere

politica poiché vive della possibilità di agire nella storia ed è proprio nella

consapevolezza che la storia può cambiare, che l’educazione coglie la speranza in un

cambiamento realmente possibile delle situazioni limite. Educare significa stimolare la

passione per la libertà verso un essere di più, verso un’umanizzazione piena, perché gli

uomini liberati e le donne liberate possano iniziare a progettare insieme un sistema più

rispettoso dell’essere umano e dell’intero ecosistema in cui esso vive. Come spiega lo

stesso Freire:

“Il sogno dell’umanizzazione, la cui realizzazione è sempre un processo, è sempre divenire,

esige la rottura delle correnti reali, concrete, di ordine economico, politico, sociale,

ideologico ecc., che ci condannano alla disumanizzazione. Il sogno è così una esigenza o una

condizione che diventa permanente nella storia che facciamo e che ci fa e ri-fa.”7

Si capisce quindi come questo “sogno” sia intrinsecamente legato al cammino

dell’uomo, lungo il divenire della storia. Il cuore della pedagogia di Freire, allora, non

solo è attuale, ma è anzi il fulcro da cui partire per una rilettura critica degli scenari

complessi in cui oggi viviamo. Al centro della pedagogia freiriana troviamo, infatti,

temi costituenti come il rispetto, l’etica, l’equità, la giustizia, la libertà, la pace, la

speranza, che fanno di questa pedagogia una pedagogia etica e, come tale, sempre

attuale. Dai tempi della “Pedagogia degli oppressi” possono essere cambiati gli scenari

o i temi generatori, ma l’approccio di Paulo Freire ha, ancora oggi, molto da dire,

soprattutto se l’impegno con gli oppressi proviene da un vincolo profondo con loro, da

un legame così intenso che può nascere solo da un rapporto di fiducia e di amore. È più

7 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 120-121.

11

attuale che mai l’idea che l’educazione debba avere come obiettivo la liberazione

dell’essere umano, emergendo dalla sfera dell’ingenuità ad una critica consapevole,

dall’inerzia all’impegno, dal dolore alla speranza, dalla rassegnazione all’utopia. Come

spiega bene Bruno Schettini nel testo “Paulo Freire, Educazione Etica Politica”:

“Raccogliere l'eredità di Paulo Freire, nell'era della società globale, significa perseguire

intenzionalmente una nuova politica educativa che abbia come finalità l'emancipazione degli

individui dalle nuove forme di alienazione, la liberazione delle sue potenzialità cognitive,

relazionali, creative. La pedagogia freiriana ha in sé quei nuclei originari di significato che se

valorizzati possono offrire un ancoraggio epistemologico a nuovi percorsi di formazione dei

giovani e degli adulti.”8

Per quanto riguarda il presente lavoro, è importante annotare come, dopo la morte di

Paulo Freire, uno dei filoni di pensiero che più ha attinto alla sua opera è stato quello

concernente l’Ecopedagogia, in particolar modo grazie al fondamentale contributo da

parte di Francisco Gutiérrez e Moacir Gadotti, che ebbero l’opportunità di conoscere

Paulo Freire in prima persona. Rispetto al pensiero ecopedagogico, Paolo Vittoria, nel

suo testo “Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo” racconta che:

[...] Freire aveva cominciato a sviluppare riflessioni sulla necessaria educazione all'ecologia

poco prima della morte, programmando di scriverne un libro. Iniziò a scrivere un articolo

che è stato pubblicato postumo nel libro Pedagogia da indignação, dalla moglie Nita. Si tratta

della Terceira Carta: Do assassinato de Caldino Jesus dos Santos - indio pataxo (Terza

Lettera: sull'assassinio di Caldino Jesus dos Santos - indio pataxo). [...] Seguendo quel

procedimento del pensiero politico ed umano che descrive come il passaggio dal denunciare

le efferatezze all'annunciare realtà più umane, Freire passa ad affermare la convinzione che

non potrà esserci giustizia se non diventeremo capaci di amare la Terra e che l'ecologia

assume un'importanza fondamentale nell'epoca che viviamo. L'ecologia, aggiunge Freire,

deve essere presente nelle pratiche educative radicali, critiche e liberatrici. Se l'educazione

da sola non cambia il mondo, il mondo senza educazione non cambia. Al tempo stesso, se

l'educazione da sola non basta a salvare la Terra, essa senza educazione ecologica o eco-

pedagogia continuerà a soffrire delle prepotenze umane e il degrado ambientale procederà

indisturbato.9

La proposta di Paulo Freire, oggi più che mai valida, rappresenta quindi un invito

appassionato ad ogni uomo e ad ogni donna del nostro tempo, perché il cammino di

ognuno sia guidato dalla responsabilità etica che abbiamo nei confronti dell’ecosistema

in cui viviamo. Un cammino come questo non può essere intrapreso da soli, ma deve

essere fatto insieme, esercitando quella partecipazione attiva e democratica che è l’unica

via per rendere possibile il sogno di una cittadinanza planetaria.

8 Schettini B., Paulo Freire. “Ingaggiati” per la vita, in Schettini B., Toriello F. (a cura di), Paulo Freire,

Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, Luciano Editore, Napoli 2008, pp. 13-14. 9 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 109.

12

I.1 Paulo Freire

“C'è una grande differenza

tra Paulo ed altri educatori o pensatori.

È che Paulo è stato un nordestino del Brasile,

nato a Recife.

Fin da piccolo vedeva le ingiustizie,

il fatto che i neri fossero maltrattati,

i poveri fossero disprezzati e si chiedeva:

perché, se siamo tutti uguali,

siamo trattati in modo diverso?

Perché molti hanno, altri non hanno?

Questa è stata la preoccupazione di Paulo Freire

fin da bambino.”

(Ana Maria Araujo Freire) 10

I.1.1 L’Educatore e l’Uomo

Molti testi tracciano la biografia di Paulo Freire in maniera molto dettagliata, dalla sua

nascita a Recife il 19 Settembre del 1921, passando dall’esilio lontano dal suo Brasile,

verso innumerevoli paesi del mondo, fino al suo ritorno e alla morte a São Paulo, il 2

maggio del 1997. L’aspetto su cui vogliamo porre l’accento è qui però legato ad alcuni

momenti e aneddoti che ci possono aiutare a comprendere meglio l’elevato spessore

umano di una persona che, con tutte le sue forze, si mise umilmente al servizio di quanti

vivevano situazioni ingiustificabili di oppressione, affiancandoli nella lotta per

superarle. Non a caso è lo stesso Freire a sottolineare l’importanza delle proprie radici,

in quel percorso straordinario che è stata la sua vita: nascere in un Paese povero,

storicamente colonizzato e depredato dalle innumerevoli forme di conquistadores

susseguitesi l’una dopo l’altra, vuol dire per lui avere ben chiaro cosa significhi la

parola “oppressione” e il permearsi di essa nella testa e nel cuore degli oppressi, abitati

loro stessi, così come la loro terra, dalla presenza incessante dell’oppressore. Riguardo a

questa consapevolezza è esemplare l’episodio chiave raccontato dallo stesso Freire alla

moglie Elza, compagna ed ispiratrice di una vita, in cui Paulo le racconta il suo primo

ed ultimo giorno di lavoro come avvocato:

“«Mi sono commosso molto questo pomeriggio, quasi or ora», dissi a Elza. «Non sarò più

avvocato. Non è perché non veda nella giurisprudenza un fascino speciale, una necessità

fondamentale, un compito indispensabile che, al pari di qualsiasi altro, si deve basare

sull'etica, la competenza, la serietà, il rispetto verso gli altri. Ma non è essere avvocato quello

che voglio». Le parlai allora di ciò che era avvenuto, delle cose vissute, delle parole, dei

silenzi carichi di senso, di ciò che avevo detto e udito. Del giovane dentista che si trovava

davanti a me, o da me invitato per una chiacchierata dato che ero l'avvocato del suo

creditore. Infatti il dentista aveva messo su, non totalmente ma per lo meno in gran parte, il

10 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 33.

13

suo gabinetto e non aveva saldato i debiti. «Ho sbagliato - mi disse - o sono stato troppo

ottimista quando ho preso l'impegno cui oggi non posso far fronte. Non ho i mezzi con cui

pagare. D'altra parte, - continuava il giovane dentista con voce sincera - secondo la legge non

posso rimanere senza gli strumenti del mio lavoro. Lei può provvedere alla confisca dei miei

mobili, la sala da pranzo, il salotto...». E con un sorriso per nulla timido, più con una punta

d'umorismo che d'ironia, soggiunse: «Solo non può portarmi via la mia bambina di un anno e

mezzo». Rimasi in silenzio a pensare; poi dissi: «Penso che lei, la sua sposa e la sua

bambina, il salotto, la sala da pranzo dovrete vivere per alcuni giorni come se foste tra

parentesi in rapporto alle preoccupazioni che il suo debito le causa. Solo nella prossima

settimana potrò incontrarmi con il suo creditore cui rimetterò la causa. Ci vorrà

probabilmente una settimana per trovare un altro che, bisognoso come me, accetti di essere il

suo avvocato. Ciò le darà un po' di respiro, anche se tra parentesi. Vorrei pure dirle che con

lei io chiudo in questo momento la mia carriera d'avvocato neanche iniziata. Grazie». Un

giovane dentista, che aveva più o meno la mia stessa età, lasciò l'ufficio senza forse capire

pienamente ciò che gli avevo detto e ciò che aveva sentito. Con la sua mano fredda strinse

calorosamente la mia. Chissà se, in casa, ripensando alle parole ascoltate, non abbia

incominciato a capire qualcuno dei motivi che mi portarono a dirgli ciò che gli dissi. In quel

pomeriggio, riferendo il dialogo a Elza non avrei mai potuto immaginare che un giorno, anni

dopo, avrei scritto la Pedagogia degli oppressi, il cui tenore, la cui proposta ha qualcosa a

che vedere con l'esperienza di quel pomeriggio per quello che significò [...].”11

Elza lo ascoltò in silenzio, lo guardò negli occhi e con poche parole gli indicò quella che

diventerà la sua strada: «Me l’aspettavo, tu sei un educatore».12

Erano gli inizi degli

anni Sessanta in Brasile ed il primo passo del Paulo Freire educatore fu quello di

dedicarsi all’alfabetizzazione di chi, come analfabeta, era ufficialmente privo di diritti

politici, non avendo la possibilità di poter accedere al voto. Nel 1962, ad Angicos, un

piccolo centro nel nord-est del Brasile, cominciò così il suo primo percorso di

alfabetizzazione con i contadini del luogo. Come lo stesso Freire rilevò, il primo

approccio non fu per niente facile. Racconta egli stesso un aneddoto in cui, dopo essersi

presentato dinanzi a una platea con una sintassi eccessivamente accademica e senza

essersi premurato di aver interrogato i presenti, riguardo alla loro effettiva situazione,

ebbe una severa lezione da parte di uno di loro:

“Quando terminai, un signore ancora giovane, di quarant'anni circa, ma già molto

invecchiato, chiese la parola; finì per darmi la più chiara e acuta lezione che io abbia mai

ricevuto in tutta la mia vita di educatore. […] «Ora veda dottore, la differenza. Lei arriva a

casa stanco. Le può persino far male la testa per il lavoro che fa. Pensare, scrivere, leggere,

parlare, tutte quelle cose che lei ci ha detto or ora. Tutto ciò stanca anche». Continuò: «Ma

una cosa è arrivare a casa, anche se stanco, e trovare i bambini che hanno già fatto il loro

bagno, che sono ben vestiti, puliti, che hanno mangiato bene, che sono senza fame, e un’altra

è trovare i figli sporchi, affamati, che urlano, che fanno chiasso. E noi che dobbiamo

svegliarci alle quattro del giorno dopo per cominciare tutto da capo, nella sofferenza, nella

tristezza, nell'assoluta mancanza di speranza. Se picchiamo i nostri figli e andiamo persino

oltre i limiti dovuti, non è perché noi non li amiamo, no. E perché la dura realtà della vita

non ci dà modo di scegliere molto». Questo è il sapere di classe, dico io adesso. Queste

11 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 35-36. 12 Ibidem, p. 36.

14

parole le ho ascoltate quasi trentadue anni fa. E non le ho più dimenticate. […] Le parole di

quella notte ormai lontana costituiscono per me come un testo scritto, un saggio da dover

sempre consultare.”13

Episodi come questo lo aiutarono a ridefinire il proprio cammino, a trovare le strade

migliori per costruire dei percorsi educativi che partissero dalla convinzione che gli

uomini e le donne si educano insieme, con la mediazione del mondo e che nessuno può

ritenersi superiore ad un altro solo perché ha avuto la fortuna di avere accesso ad

un’istruzione istituzionale. L’alfabetizzazione divenne così lo strumento per dare valore

alle parole, per disvelare i meccanismi occulti dell’oppressione, per realizzare quel

cambiamento che non riguardava più solo le persone, ma l’intero sistema nella sua

complessità.

“Quando Goulart venne alla cerimonia di chiusura dell'esperienza di Angicos, un uomo

chiese la parola e disse al presidente che erano pronti anche a cambiare la Carta do Brasil, la

Costituzione brasiliana. Affermò che erano pronti non solo a leggere la costituzione ma

anche a farne un'altra. Questo intervento non fu riportato dalla stampa, perché segnalava

qualcosa di molto «duro», indicava un passo oltre il populismo. E la sinistra percepì con

meno chiarezza quello di cui la destra invece si rese ben conto: la «pericolosa» potenzialità

dell'alfabetizzazione.”14

A seguito del colpo di Stato militare in Brasile del 31 Marzo 1964 ai danni del governo

democratico di Joào Goulart, si instaurò un triumvirato militare e per Paulo Freire il

passaggio dalla prigione all’esilio fu breve: il Sudamerica viveva una stagione di

terribili tensioni e cambiamenti, dopo due mesi e mezzo di carcere, la fuga in Bolivia

durò solo un paio di settimane a causa di un altro rovesciamento politico e la successiva

destinazione fu il Cile, che si preparava da lì a poco all’esperienza socialista del

Governo guidato da Salvador Allende. Nonostante lo sconforto e il dolore, per una

dittatura che attanagliò il Brasile per oltre un ventennio, Paulo Freire continuava a

coltivare in sé la speranza di un ritorno in patria, in una cornice nuovamente

democratica:

“Soffrire l'esilio implica riconoscere che si è lasciato il contesto di origine, significa

sperimentare l'amarezza, la sicurezza di qualcosa di annebbiato in cui mi devo muovere con

certezza. Non si soffre l'esilio, quando esso è solo dolore è pessimismo. Non si soffre l'esilio,

quando esso è solo ragione. Soffro l'esilio quando il mio corpo cosciente, ragione e

sentimento, il mio corpo intero è colpito da esso. Così, non mi lamento solamente, ma

progetto. Non vivo solo nel passato, ma esisto nel presente in cui mi preparo per il possibile

ritorno.” 15

13 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 44-46. 14 Passetti E., Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, Elèuthera, Milano 1996, p. 60. 15 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., pp. 61-62.

15

Negli anni di esilio in Cile, Paulo Freire ebbe la fortuna di lavorare in un ambiente

propenso alle riforme sociali, tanto che, grazie al suo progetto educativo, il Governo

cileno ricevette dall’UNESCO il riconoscimento per essere una delle nazioni che meglio

aveva affrontato il problema dell’analfabetismo popolare. Non a caso la “Pedagogia

degli oppressi” fu scritta proprio qui, in questo periodo, diventando ben presto una delle

opere più influenti della pedagogia universale. Freire viveva però la soddisfazione più

grande nel vedere di persona i risultati del proprio lavoro, nei volti concreti delle

persone, nell’entusiasmo della gente, nella collaborazione appassionata e nell’impegno

attivo delle comunità locali.

“Restavo impressionato, sia quando ero informato nelle riunioni di valutazione sia quando

potevo constatare come i contadini facevano l’analisi della propria realtà locale e nazionale.

Il tempo senza limite di cui sembravano aver bisogno per soddisfare la necessità di dire la

loro. Era come se all’improvviso, rompendo la “cultura del silenzio”, scoprissero che non

solo potevano parlare, ma che il loro discorso critico sul mondo, il loro mondo, fosse un

modo per ricostruirlo.”16

E il fatto che non si trattasse solo di un’impressione personale, fu evidenziato anche

dalle numerose attestazioni di stima e di riconoscimento che arrivarono ben presto

anche da parte di membri di organismi istituzionali ed internazionali:

“Non dimenticherò mai ciò che mi disse un sociologo dell’ONU [...] in uno sperduto angolo

del Cile. I contadini discutevano il loro diritto alla terra, alla libertà di creare, di vivere

decentemente, di essere. Difendevano il diritto a essere rispettati come persone e come

lavoratori [...] «È valso la pena questo nostro pellegrinare di quattro giorni per tutti gli angoli

del Cile per ascoltare ciò che ci è stato detto questa notte». E, con humor: «Questi contadini

la sanno più lunga di noi».”17

Quest’aspetto rivoluzionario di un’alfabetizzazione che si accompagnava alla nascita di

nuovi movimenti popolari, portò a identificare Freire, una volta di più, come un

soggetto potenzialmente pericoloso per le frange politiche più conservatrici che

desideravano mantenere i propri privilegi e lo status quo. I più diffidenti ritenevano che

l’educazione non dovesse svolgere un ruolo politico, poiché l’educazione doveva essere

“a servizio dell’umanità” e non della politica. A quanti si ponevano in questo modo (e

tra di essi vi erano anche molti educatori) Freire rispondeva così:

“«E che cos'è l'umanità?» Il soggetto restava un po’ spaventato per la domanda, perché

scopriva che il suo concetto di umanità era un'astrazione. E, dunque, lo spavento aumentava,

16 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 59-60. 17 Idem, p. 61.

16

quando dicevo: «Per me l'umanità è Maria, è Josefa, è Carlos, è Antonio in una certa

posizione di classe. È questo che io intendo, al di fuori dell'astrazione dell'umanità».”18

In seguito all’esilio obbligato dal Brasile e alla successiva esperienza vissuta in Cile,

Freire, recandosi negli Stati Uniti, ebbe modo per la prima volta di uscire dal contesto

sudamericano. Qui poté rendersi conto di persona di quanto anche il mondo occidentale

vivesse al suo interno terribili contraddizioni, evidenti nello stridente confronto tra

l’abbondanza e la miseria, tra gli abbienti quartieri residenziali e le fatiscenti periferie

dei ghetti e degli slums. Il problema dell’oppressione non era quindi relegato

geograficamente al sud del mondo, ma esisteva, malauguratamente, in un’infinità di

“sud”, anche nel cuore dell’Occidente opulento. Fu anche per questo motivo,

probabilmente, che la versione inglese della “Pedagogia degli oppressi” ebbe un ampio

risalto, accendendo diverse occasioni d’incontro e dibattito. Freire era sempre ben

disposto al confronto e una delle dimostrazioni più grandi di questa sua apertura si ebbe

nella riflessione che nacque dopo le numerose critiche ricevute dal movimento

femminista americano, che gli contestò un utilizzo maschilista del linguaggio all’interno

del suo libro, in particolare nell’uso della parola “uomini” che veniva spesso utilizzata

per intendere anche le “donne”. La personale riflessione che ne seguì, lo portò a

chiedersi, ad esempio, come mai di fronte ad una platea di duecento donne e un solo

uomo, ogni riferimento dovesse essere declinato al maschile. Era chiaro che non si

trattava di un mero problema grammaticale ma ideologico:

“Scrissi allora, a tutte e a ciascuna, di aver ricevuto le loro lettere, ringraziandole per

l’eccellente aiuto che mi avevano dato. Da allora in poi sino a oggi mi riferisco sempre a

donna e a uomo o a esseri umani. Preferisco, a volte, che la frase risulti un po' meno

elegante; comunque, spiego in questa maniera il mio rifiuto del linguaggio maschilista. […]

E non si dica che questo è un problema di poco conto, perché, per la verità, è un problema

molto rilevante. […] Un rifiuto dell'ideologia maschilista, che porta necessariamente con sé

l’uso di un nuovo linguaggio, fa parte del sogno possibile in vista del cambiamento del

mondo.”19

In seguito all’esperienza statunitense di docenza ad Harvard, Paulo Freire fu chiamato a

lavorare presso il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC), noto anche con il nome di

Consiglio mondiale delle Chiese (CMC), l’organo principale che raduna le differenti

Chiese cristiane nel mondo, con sede in Svizzera, a Ginevra. Il Consiglio gli dava

l’opportunità di impegnarsi in progetti concreti di livello mondiale, inerenti

18 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 72. 19 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 88-89.

17

all’alfabetizzazione, alla lotta per i diritti umani, contro la povertà e per la tutela

dell’ambiente, in uno spirito radicalmente evangelico che si contrapponeva ai metodi di

conquista utilizzati dalla globalizzazione economica. Con questa nuova scelta

lavorativa, lontana dalle cattedre universitarie, si definiva meglio anche l’indole

pragmatica di Paulo Freire:

“Io preferivo andare al Consiglio, perché per me non si pone il problema di essere

professore. Mi ritengo professore in un angolo di una strada. Non ho bisogno del contesto

universitario per essere un educatore. Non è il titolo che l'università mi può dare che mi

interessa, ma la possibilità di lavoro. [...] Non mi interessa passare un anno studiando un

libro, ma un anno studiando una pratica direttamente. Il Consiglio mi dava questa

opportunità.”20

Nonostante l’esilio e la distanza dalla sua patria, anzi forse proprio perché forte di

questa sua condizione di esiliato, anche a Ginevra, Paulo Freire non perdeva mai

l’occasione di accogliere quanti volessero confrontarsi con lui. Un’apertura al dialogo

che, ben lontana da essere un mero metodo di lavoro, caratterizzò la sua intera esistenza,

creando rapporti di amicizia e di legame tali da sopravvivere anche ben oltre la sua

morte.

“Ed era anche raro che non sentissi qualcuno dirmi al telefono: «Sono qui a Ginevra da due

giorni. Stasera riparto per il Sudafrica. Non potendo entrare nel Paese con la Pedagogia degli

oppressi senza correre un grande rischio, senz'altro superfluo, l’ho letto in un sol giorno, fino

a notte inoltrata. Potrei parlarne con te oggi, prima di partire?». È chiaro che non ho mai

detto no a queste visite. Spostavo altri incontri, cancellavo interviste, cambiavo l’agenda, ma

non ho mai rifiutato questo tipo di colloqui.”21

In questo periodo, nella primavera del 1975, Freire fu chiamato, con la sua equipe di

lavoro, dal Governo della Guinea Bissau, ad avere un ruolo di spicco nella realizzazione

di un progetto nazionale di alfabetizzazione. La richiesta prevedeva l’avvio di una vera

e propria de-colonizzazione culturale, giacché l’area d’intervento era un’ex colonia,

affrancatasi da poco dalla dominazione portoghese. Si trattava di coinvolgere il più

possibile la popolazione locale e di costruire insieme una nuova società democratica,

che lottasse per un sistema più equo e giusto per tutti. È in questo periodo che Freire si

ritrovò profondamente nelle parole e nelle riflessioni di alcuni tra i maggiori conoscitori

dei meccanismi distorti causati dalla colonizzazione, come Frantz Fanon, autore del

libro “I dannati della terra” e Amilcar Cabral, leader del Partito Africano per

l’indipendenza della Guinea e di Capoverde, che però Freire non ebbe modo di

20 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 73. 21 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 165.

18

conoscere, poiché morì poco prima di vedere l’indipendenza della sua Guinea. La

constatazione di Freire su quanto l’oppresso sia abitato dall’oppressore è quasi

disarmante:

“Sembrava che la storia dei colonizzati “cominciasse” con l'arrivo dei colonizzatori, con la

loro presenza “civilizzatrice”; la cultura dei colonizzati, espressione della loro forma barbara

di comprendere il mondo. La cultura apparteneva soltanto ai colonizzatori. La musica dei

colonizzati, il loro ritmo, la loro danza, i loro balli, la leggerezza dei movimenti dei loro

corpi, la loro creatività in generale: nulla di questo aveva valore.”22

In questo senso non fu forse un caso che la lingua scelta dal Governo rivoluzionario per

l’alfabetizzazione, contro il parere dello stesso Freire, fosse il portoghese, anziché il

creolo, come lui avrebbe invece preferito. Freire ebbe ben chiaro, se mai ce ne fosse

stato il bisogno, che ogni percorso ha la sua storia, ogni esperienza va rivista,

riconsiderata, riprogettata secondo la situazione in cui si attua e in base alle persone che

ne sono coinvolte. In sintesi, nessuna esperienza, seppur di successo, come quella avuta

in Brasile e Cile, può essere ripetibile a priori ed è sempre necessario un minuzioso

lavoro di analisi e di adattamento progettuale, se si vogliono raggiungere dei risultati

apprezzabili. Non solo, l’educatore per incidere realmente nella realtà in cui interviene,

deve sempre avere chiaro il proprio ruolo politico, il suo agire nella storia. Secondo

Freire, non esiste educazione senza intenzionalità politica:

“Il compito che ci assumiamo è quello di dare la possibilità a un gran numero di nostri

compagni, soprattutto nelle campagne, ma non soltanto a loro, di leggere e scrivere, ciò che

era proibito nel regime coloniale: è un impegno politico. La stessa decisione di fare

alfabetizzazione è un atto politico. In verità, non c'è educazione e, quindi, alfabetizzazione

degli adulti, neutra. L'educazione tutta ha, in sé, un’intenzione politica [...]”23

Nel 1979 terminò finalmente il periodo dell’esilio e Paulo Freire poté fare ritorno nel

suo Brasile, per poi rientrarvi stabilmente nel 1980. Toccante è il racconto del suo

arrivo in dogana, dopo quindici anni di allontanamento forzato dal paese che amava:

“«Ha avuto problemi con il governo brasiliano?» mi chiese delicatamente il poliziotto con il

mio passaporto in mano. «Sì», risposi con intensità, senza arroganza. Con un sorriso

simpatico l’altro poliziotto si avvicinò con uno dei miei libri. Capii il suo gesto e lo firmai.

Attraversammo il controllo. Terminava di fatto e di diritto un esilio che avevo cominciato a

43 anni e da cui ritornavo a 58. Tornavo vecchio? No. Tornavo vivo, maturato, provato in

differenti momenti. Tornavo speranzoso, disposto a riapprendere il Brasile, per partecipare

alle lotte in favore della democrazia, della scuola pubblica che diventasse sempre più

22 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 76. 23 Idem, p. 80.

19

popolare, e per questo meno elitaria, più critica, più aperta. Tornavo giovane, nonostante

l'apparenza, con la barba bianca e un po’ più calvo.”24

Il rientro non fu indolore, riapprendere il Brasile significava anche cogliere i tempi di

una democrazia in cantiere, in cui gli esiliati erano ancora visti con diffidenza ed era

consentito loro di riaffacciarsi alla scena politica solo un passo alla volta, con grande

prudenza. La stessa decisione di Freire di riprendere il proprio ruolo di docente non

avvenne in modo particolarmente agevole. Affinché potesse tornare alla docenza

universitaria, il Governo brasiliano richiese, infatti, al professore del Dipartimento

dell’Educazione dell’Università di Campinas (UNICAMP) Rubem Alves, di stilare una

lettera di presentazione che parlasse di Paulo Freire. Rubem Alves non si lasciò

intimidire, ricco della sua esperienza nell’educazione popolare e soprattutto forte della

stima provata nei confronti del collega, scrisse una lettera di evidente protesta, che può

certo far comprendere il clima storico della vicenda, ma soprattutto il livello di

ammirazione che egli provava nei confronti di Freire:

“Un parere su Paulo Freire: il suo nome è conosciuto nelle università di tutto il mondo, non

lo sarà qui, nell’UNICAMP?… Non saprei dire in quante lingue siano stati pubblicati i suoi

libri. Immagino, (ma so bene che potrei sbagliarmi) che nessun altro dei nostri docenti avrà

pubblicato tanto, in tante lingue... Il suo nome, senza pareri domestici che lo valutino,

percorre le università dell'America del Nord e dell'Europa. E chi volesse integrare il suo

nome con una lettera di presentazione farebbe una cosa ridicola. No, non posso presupporre

che questo nome non sia conosciuto nell'UNICAMP. Questo significherebbe offendere chi

compone gli organi decisionali. Per questo il mio parere è un rifiuto di dare un parere. E

questo rifiuto esprime, in forma implicita o esplicita, il ritegno nell'affiancare il mio nome a

quello di Paulo Freire. Come se, senza il mio, il suo non si sostenesse. Ma si sostiene da solo.

Paulo Freire ha raggiunto il punto massimo che un educatore possa raggiungere. La

questione è se desideriamo averlo con noi. La questione è se lui desidera stare al nostro

fianco. È bene dire agli amici: Paulo Freire è un mio collega, facciamo lezione nello stesso

corridoio della Facoltà di Educazione dell'UNICAMP... Era ciò che dovevo dire. (Rubem

Alves, 25 Maggio 1985)”25

La volontà di accelerare il cambiamento dello scenario politico e sociale del paese, fece

sì che Freire prendesse parte in prima persona alla costituzione del Partito dei

Lavoratori (PT), una formazione politica che riuniva in sé l’anima della sinistra

sindacalista e quella del cristianesimo legato alla teologia della liberazione. Questo suo

ruolo, a cavallo tra l’educazione e la politica, lo vide protagonista anche del dialogo e

del sostegno ai tanti movimenti popolari che nacquero in quel periodo, come ad

esempio quello molto conosciuto dei “Sem Terra”, movimento contadino determinato a

24 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., pp. 83-84. 25 Idem, pp. 84-85.

20

battersi per i diritti più elementari come il cibo, la casa e la terra. Freire non abbandonò

mai il suo ruolo di educatore-politico impegnato nella storia, tanto che in occasione del

prestigioso premio, assegnatogli nel 1986 dall’UNESCO, relativamente all’educazione

per la pace, ebbe a dire:

“Dalle genti anonime, sofferenti, sfruttate, ho imparato soprattutto che la pace è

fondamentale, indispensabile, ma che la pace implica la lotta per la pace. La pace si crea e si

costruisce nel e per il superamento delle realtà sociali perverse. La pace si crea e si costruisce

nella costruzione incessante della giustizia sociale. Per questo non credo in nessuno sforzo

chiamato “educazione alla pace” che, invece di svelare il mondo delle ingiustizie, lo rende

opaco e tenta di miopizzare le sue vittime.”26

Nell’ottobre del 1986, Freire dovette affrontare la prova probabilmente più dura della

sua vita, la morte della moglie Elza, che lo aveva accompagnato lungo quarantadue anni

di sfide, vicissitudini e successi. Solo il suo amore per la vita gli permise di superare, un

poco alla volta, il profondo dolore di questa perdita. Non a caso, Paulo Freire, fece

scolpire questo epitaffio sulla propria tomba:

“Elza, / Ferita profonda / Dolore intenso / Notte senza domani / Giorni senza senso / Tempo

pietrificato, immobilizzato / Disperazione, angustia, solitudine. / Fu necessario accettare la

tua assenza / Perché essa diventasse presenza / Nell'amena nostalgia di te / Per questo tornai

alla vita / Senza negare te. / Paulo, 24/10/1991”27

Nel marzo del 1988, Paulo convoglierà a seconde nozze con Ana Maria Araùjo, detta

Nita, senza però che il ricordo di Elza sia mai cancellato e con la consapevolezza che la

vita doveva proseguire, nonostante tutto:

“Non ho avuto paura a rifare la mia vita a sessantasei anni. Non mi sono risposato per

sostituire Elza, né per prolungare Elza. Mi sono sposato di nuovo per continuare ad essere

vivo e perché ho amato di nuovo.”28

Paulo, con Maria Araújo Freire, continuò il suo lavoro pedagogico e politico, tanto che

nel gennaio del 1989 fu nominato Segretario dell’Educazione per lo Stato di São Paulo,

avendo così modo, per la prima volta, di esercitare un ruolo decisionale in ambito

istituzionale. Al termine di questa esperienza, rivolta soprattutto al mondo della scuola e

all’alfabetizzazione popolare degli adulti, Freire fece un bilancio personale riguardo a

questa sua decisione di entrare in politica in prima persona:

26 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, EMI,

Bologna 2011, p. 45. 27 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., pp. 87-88. 28 Idem, p. 88.

21

“Dopo aver ponderato una quantità di cose, decisi di accettare, anche come una possibilità in

più di verificare tutto quello di cui avevo sempre parlato. Avevo fatto tante critiche e volevo

sapere cosa avrei potuto fare con il potere nelle mie mani. Governando, si ha la possibilità di

avere del potere, ma non nella sua interezza. Basta trovarsi là, con un poco di potere, per

constatare che c'è assolutamente bisogno di una prospettiva democratica. Ho avuto

l'opportunità di conoscere infinite cose, di verificare conoscenze che già avevo e di

acquisirne altre. Ho potuto confermare un dato che considero fondamentale: cambiare le cose

è difficile, ma è possibile. Io credo che già soltanto per questo sia valsa la pena di avere

vissuto due anni e mezzo come assessore. […] Ma in nessun momento mi sono pentito di

aver accettato l'incarico di assessore all'Istruzione e credo che sarebbe stato un disastro se

l'avessi rifiutato. Penso che questa esperienza mi abbia permesso di terminare degnamente le

mie attività nella dimensione pubblica. Ho acquisito maggior forza e ho imparato ancor di

più come sia importante convivere con le diversità.”29

Il grande sforzo di Freire si orientò verso una scuola che divenisse, il più possibile, un

punto di riferimento per la costruzione partecipata della cultura, mediante un processo

in cui ognuno degli attori coinvolti poteva dare democraticamente il proprio parere e il

proprio apporto per migliorare il modo di fare educazione. Il risultato di questo percorso

fu che tutte le scuole della regione, nella loro totalità, fecero avere una propria proposta

per il miglioramento del programma didattico. Nel 1991, al termine di questa

esperienza, fu lo stesso Freire a farne un bilancio:

“Personalmente, considero un'esperienza straordinaria quella di essere stato assessore, perché

le proposte che avevo fatto nel 1965 continuavano ad essere valide e ora vedevo come quelle

proposte erano vissute, perfettamente incarnate. Ho potuto vivere l'esperienza di vedere le

mie idee messe in atto. Per me questo è stato meraviglioso.”30

Da un’idea dello stesso Freire, il 12 aprile del 1991, nacque a São Paulo l’Istituto Paulo

Freire (IPF), con l'intento di riunire persone ed istituzioni mosse dal comune sogno di

un’educazione umanizzante e trasformatrice, per approfondire le sue riflessioni,

migliorare le sue pratiche e, in definitiva, per la realizzazione concreta di un altro

mondo possibile. L’istituto, che raccoglie gli archivi personali dello stesso Freire, è

dislocato con varie sedi in diverse nazioni del mondo, tra cui l’Italia e dal 1998, a

cadenza biennale, promuove un Forum internazionale di approfondimento delle

tematiche freiriane. Dopo aver tracciato le linee guida, affinché il suo lavoro

proseguisse e venisse riletto per mano di altri, il 2 maggio del 1997, all’età di 74 anni,

dopo una vita vissuta lottando per un mondo più giusto, Paulo Freire morì a São Paulo,

a causa di un infarto. La compagna Nita descrive così gli ultimi e accorati istanti vissuti

con lui:

29 Passetti E., Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, op. cit., pp. 75-76. 30 Idem, p. 86.

22

“Partì con la sua capacità critica, con il suo coraggio e la sua prudenza. Con la sua bontà

indignata. Partì lasciando un'immensa nostalgia. Partì lasciando un patrimonio di grandezza

poco comune: di onore, di comportamento etico e capacità di amare che impregna tutta la

sua opera e la sua prassi, tutti i passi della sua vita. L'amore, indubbiamente, ha segnato la

presenza di Paulo come uomo, come intellettuale e militante nel mondo. Come padre, come

amico e, non ho timore ad affermarlo, soprattutto come marito.”31

Se ne andava uno dei pedagogisti più influenti del ventesimo secolo, ma soprattutto un

educatore e un uomo capaci di andare sempre al cuore delle questioni più profonde

dell’essere umano, con caparbietà e speranza, con rispetto e fiducia, accogliendo e

valorizzando quanti incontrava sulla sua strada. Non a caso, l’ultimo aneddoto che

trascriviamo, vuole essere paradigmatico di chi fosse, realmente, Paulo Freire:

“Vi racconterò la storia accaduta ad un uomo che ho conosciuto. Sono stato due anni fa nel

Salvador. Sono stato portato sulla cima di una montagna, in una radura della foresta dove si

trovava l'insediamento principale di una delle cinque zone guerrigliere che allora, due anni

fa, era preclusa all'esercito. [...] Dopo una riunione del gruppo, hanno cominciato a cantare e

uno di loro a un certo punto ha detto: «Io ho imparato a leggere in guerra grazie a

quest'uomo» e mi ha indicato. «La mia insegnante ha finito per diventare mia moglie.

Quando eravamo liberi dalle battaglie, eravamo soliti andare a fare il bagno in un fiume

molto bello che scorreva vicino alla zona in cui stavamo. Un giorno tentai di leggere e lei

prese a portarmi cose perché io leggessi, un ritaglio di giornale, quel che trovava... finché

una volta portò un libro di Freire, e da quel momento cominciò a leggere con me e per me.

Ho imparato a leggere sul suo libro». Io credo che un intellettuale non abbia bisogno di

nient'altro per essere felice. «Arrivò il momento in cui mi imbattei in una sua frase»,

continuò lui, «diceva che l'oppressore non libera né si libera, soltanto l'oppresso libera

l'oppressore. Quando ho letto questo ho sentito un fremito dentro di me, dentro il mio essere.

Io partecipavo alla guerriglia pensando che un giorno avrei avuto la possibilità di fucilarli

tutti. Avevo conservato dentro di me tutte le tracce delle repressioni che avevo sofferto, della

miseria del mio popolo, della fame, delle vessazioni, del mio desiderio di uccidere ad uno ad

uno tutti quelli che mi fossi trovato davanti. Il giorno in cui lessi quella frase, scoprii che la

rivoluzione non è questo, che la rivoluzione non è cambiare il popolo in un minuto».

L'abbracciai e gli dissi: «Lei mi ha capito molto bene, e guardi che molti intellettuali, di tutto

il mondo non hanno capito questa frase».”32

I.1.2 Influenze e analogie di pensiero

Pur non essendo tra le finalità ultime di questo lavoro, ci sembra comunque opportuno

dare alcuni riferimenti riguardo a quelle che sono state le influenze e le analogie più

importanti nella costruzione del pensiero di Paulo Freire. Senza dubbio la radice

filosofica freiriana è socratica, come anche il metodo di lavoro si può ricondurre a

quello socratico-maieutico: una metodologia educativa che è ben lontana dall’arte della

retorica e della persuasione tipica dell’educazione bancaria/depositaria. Infatti, Freire

utilizza il dialogo per confrontarsi con l’altro, non per istruirlo, ma per accoglierlo, non

31 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 92. 32 Passetti E., Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, op. cit., pp. 98-99.

23

per dargli la propria direzione, ma per trovarla insieme, attraverso la mediazione del

mondo, mediante quel “sapere dell’esperienza” che è presente in ognuno di noi, anche

se a volte inconsapevolmente. È in questa riscoperta del “sapere di sapere”

dell’educando, che è possibile che l’educatore stesso sia educato, nel confronto

dialogico con l’altro. Numerosi sono i nomi che vengono accostati a Paulo Freire nei

testi che indagano in maniera approfondita le origini del suo pensiero33

: Karl Jaspers

(1883-1969), filosofo e psichiatra tedesco, per la convinzione che nella relatività del

sapere si fondi l’idea di trascendenza e per l’idea che il rapporto tra esistenza e

trascendenza si realizzi nell’unità tra teoria e prassi; Emmanuel Mounier (1905–1950),

filosofo francese, padre del “personalismo comunitario”, per il ruolo riconosciuto al

dialogo, come fattore fondante della relazione umana, basato sull’accoglienza

dell’identità e delle differenze; Edmund Husserl (1859–1938), filosofo e matematico

austriaco naturalizzato tedesco, fondatore della “fenomenologia”, per la definizione

dell’antitesi, in ambito conoscitivo, tra atteggiamento ingenuo/dogmatico ed

atteggiamento critico/problematizzante, che è rintracciabile nelle differenze riportate da

Freire tra coscienza ingenua e coscienza critica. Altri nomi sono stati avvicinati, con

maggiore o minore assonanza, a quello di Freire: Carl Rogers (1902–1987), psicologo

statunitense, per aver gettato le basi della terapia “non direttiva” centrata sulla persona e

volta ad abbreviare le distanze, dal punto di vista relazionale, tra paziente e terapeuta.

Ivan Illich (1926–2002), scrittore, storico, pedagogista e filosofo austriaco, che si batté

contro qualsiasi schema preconcetto e che condivise con Freire la necessità di

un’educazione diversa, anche se a al contrario di Freire, propose la via estrema della

descolarizzazione. John Dewey (1859–1952), filosofo e pedagogista statunitense, che

fu accostato a Freire per l’idea dell’imparare facendo, per il lavoro cooperativo e per la

relazione tra pratica e teoria, anche se i due quadri concettuali sono ben diversi, non

essendo presente in Dewey il concetto di lotta, di riscatto sociale e il ruolo politico

connesso all’educazione. Lev Vygotskij (1896–1934), psicologo sovietico, padre della

scuola storico-culturale, con cui Freire sembra avere diverse similitudini, soprattutto

riguardo alla gestione dei gruppi di coscientizzazione, che alcuni ritengono funzionare

secondo l’approccio costruzionista. Così come, per lo stesso motivo, è associato a Freire

il nome di Jean Piaget (1896-1980), psicologo, biologo, pedagogista e filosofo

svizzero, per i suoi studi sperimentali riguardanti i processi cognitivi legati alla 33 Cfr. Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., pp. 98-107 e Cfr. Schettini B.,

Educazione etica e politica in Paulo Freire, in Schettini B., Toriello F. (a cura di), Paulo Freire, Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, op. cit., pp. 82-86.

24

costruzione della conoscenza, nel corso dello sviluppo. Un caso particolare è

rappresentato da Antonio Gramsci (1891-1937), politico, filosofo, giornalista, linguista

e critico letterario italiano. Freire lesse alcuni suoi contributi solo molti anni dopo la

stesura della “Pedagogia degli Oppressi”, restandone affascinato, condividendone

l’analisi critica del capitalismo e l’idea di un’educazione degli adulti volta ad una

rivoluzione culturale. Rimase però tra di loro una diversità di approccio che può essere

sintetizzata dall’esaustiva sintesi di Alfredo Tagliavia che definisce “Gramsci politico

dell’educazione e Freire educatore politico”.34

In questa ricerca di possibili influenze e

analogie rispetto al pensiero di Paulo Freire, è importante però evidenziare quanto

acutamente espresso da Paolo Vittoria, professore di Filosofia dell’Educazione ed

Educazione Popolare e Movimenti Sociali presso l’Università Federale di Rio de

Janeiro:

“II pensiero di Paulo Freire non si riconosce dogmaticamente in alcuna scuola teorica

specifica, ma si riferisce costantemente all'azione pratica, per cui non sarebbe giusto né

attinente definirlo, etichettarlo o categorizzarlo, il che non esime dal rintracciare nelle sue

idee influenze provenienti da letture di diverse correnti di pensiero che sono riconducibili per

lo più all'esistenzialismo, al personalismo, e al marxismo (umanista e dialettico). Non si

tratta di un pensiero eclettico, ma di una sintesi originale, deprivata da qualsiasi forma di

dogmatismo o di astrattismo, di cui l'impegno sociale è la priorità. [...] Secondo Freire, siamo

esseri di relazione. Essendo implicati nelle dinamiche relazionali, siamo esseri in permanente

formazione. Quindi esseri di ricerca che devono approssimarsi alla conoscenza in modo

aperto, nella coscienza che nessuno è depositario del sapere, ma il sapere si forma in processi

collettivi. L'essere umano, in quanto "essere di relazioni", e di ricerca è in dialettica con il

mondo: è la dialettica tra il soggetto-coscienza ed il mondo a determinare il processo

trascendente della conoscenza. Il soggetto esiste nel mondo e col mondo, come corpo

cosciente, che vive in una situazione concreta.”35

Partendo da questa premessa, è comunque doveroso approfondire uno degli aspetti

maggiormente centrali del pensiero di Freire e cioè il rapporto, assolutamente originale,

di due anime apparentemente inconciliabili come marxismo e cristianesimo. È lo stesso

Freire ad inquadrare per primo la questione:

“Tanto la mia posizione cristiana quanto il mio avvicinamento a Marx, non si esplicheranno

mai a livello «intellettualista», ma sempre riferiti al concreto. Non sono arrivato alle classi

popolari a causa di Marx. Sono arrivato a Marx a causa di esse. Il mio incontro con esse mi

ha fatto incontrare Marx, e non il contrario.”36

34 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit.,

p.72. 35 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 97. 36 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit., p.52.

25

Ciò comporta che, per Freire, non solo non vi è teoria senza pratica, ma che è proprio

dalla pratica che deve nascere la teoria: ogni pensiero deve potersi sporcare le mani

nella concretezza della vita, non può esistere teoria o sogno che non abbia l’obiettivo di

lottare per una reale trasformazione umanizzante della storia. Quello che lega Freire a

Marx non è l’ideologia, ma il carattere rivoluzionario dell’idea che gli uomini e le

donne, come creatori di cultura, sono in grado di trasformare il mondo, sono capaci cioè

di emanciparsi dalle condizioni di oppressione, creando un legame inscindibile tra il

concetto di educazione e politica, utopia ed impegno sociale. L’orizzonte di Freire però,

non è quello del socialismo reale o del determinismo storico, è quello piuttosto

dell’evoluzione della democrazia, da rappresentativa a partecipativa, in cui ognuno

possa finalmente esercitare, in modo attivo, la propria cittadinanza. In questa

prospettiva non è forse così impossibile trovare dei punti di contatto tra marxismo e

cristianesimo, sebbene la difficoltà di questa operazione sia evidenziata dallo stesso

Freire:

“Quanto più mi sono incontrato con Marx, direttamente o indirettamente, tanto più ho

compreso i Vangeli che avevo letto prima con un'interpretazione diversa. Voglio dire, Marx

in fondo mi ha insegnato a rileggere i Vangeli. Per molte persone, questo è assurdo.”37

Non a caso, Freire, in questo suo percorso di ricerca di una sintesi, si è ritrovato più

volte a confrontarsi con quella corrente della Chiesa sudamericana ispirata alla Teologia

della Liberazione, acquisendone concetti e allo stesso tempo fornendole spunti, in

particolare riguardo al tema dell’oppressione e del riscatto sociale. Le affinità di

pensiero riguardavano soprattutto l’idea che la Chiesa dovesse abbandonare la

solidarietà sterile di chi ha l’interesse a mantenere lo status quo, per diventare

finalmente una Chiesa profetica, promotrice di azioni sociali con i poveri e non più per i

poveri. Si può quindi affermare che il piano comune tra Freire e la Teologia della

Liberazione risieda nella convinzione che sia necessario cambiare l’intero sistema,

analizzando e scardinando tutti quei meccanismi che sono a servizio dell’oppressione,

intervenendo personalmente nella storia attraverso la lotta politica e sociale:

“La Teologia della Liberazione condanna il capitalismo come sistema economico anti-etico e

che contraddice i principi cristiani di fratellanza e solidarietà. Ragionamento che implica

necessariamente un'analisi politica, culturale, linguistica, economica e che, per questa stessa

ragione, necessita di strumenti interpretativi che contribuiscano a inquadrare le condizioni di

povertà, fame, esclusione come conseguenza di strutture complesse della società.”38

37 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 101. 38 Idem, p. 100.

26

Nonostante le numerose affinità e i punti di contatto è comunque necessario precisare

che le posizioni di Paulo Freire non hanno mai combaciato in toto, né con quelle del

marxismo sovietico-staliniano, né con quelle della Teologia della Liberazione, come

evidenzia bene, nel suo contributo su Freire, Alfredo Tagliavia:

“Per quanto concerne le prime, egli criticò apertamente e a più riprese le correnti del

pensiero marxista più legate al determinismo storico, accusandole di incapacità di

comprensione della realtà sociale e di ottusità, ribadendo che in ambito educativo è sempre la

teoria a discendere dalla pratica – cioè dall'analisi sul campo dei diversi contesti sociali,

economici e culturali, e mai accade il contrario. Per quanto riguarda le seconde, invece, va

rilevato che Freire, pur non avendo mai celato né rinnegato la sua fede cattolica, non sì

identificò in un movimento religioso specifico, né sembra sia stato un religioso praticante,

pur essendoci un indubbio e significativo legame fra molte delle sue idee e quelle dei

movimenti cattolici brasiliani più progressisti della seconda metà del Novecento.”39

In sostanza, riprendendo un’efficace considerazione del filosofo argentino Enrique

Dussel che sosteneva che, “se esiste una filosofia latinoamericana, questa è una filosofia

della liberazione”40

, è proprio in questo complesso mosaico di appartenenze e

contaminazioni, che il pensiero di Freire trova una sua costruzione originale, divenendo

un punto di riferimento e motivo di ispirazione per molti educatori che hanno

proseguito, e proseguiranno, lungo la strada da lui intrapresa.41

I.1.3 L’Educazione come strumento di Speranza

Uno degli errori più comuni che viene commesso, da parte di chi si avvicina in maniera

approssimativa al pensiero di Paulo Freire, è legato all’equivoco per cui la figura

dell’educatore è erroneamente equiparata a quella di un mero facilitatore. È lo stesso

Freire, però, a sgombrare il campo da qualsiasi fuorviante interpretazione:

“[...] io mi considero prima di tutto e sempre un insegnante. Non ho mai fatto finta di essere

un facilitatore. E ciò che voglio anche chiarire è che, nell'essere un insegnante, insegno

sempre per facilitare. Non posso accettare l'idea di un facilitatore che faciliti così da non

insegnare.”42

39 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit.,

pp.52-53. 40 Rodríguez López L., Freire e l’insegnamento moderno della libertà, in Schettini B., Toriello F. (a cura di), Paulo

Freire, Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, op. cit., p. 70. 41 In Italia è doveroso ricordare, ad esempio, le luminose testimonianze di: Danilo Dolci (1924-1997) sociologo,

poeta, educatore e attivista della nonviolenza; Aldo Capitini (1899-1968) filosofo, politico, antifascista, poeta ed

educatore italiano, promotore della marcia della pace Perugia-Assisi; Don Lorenzo Milani (1923-1967), priore di

Barbiana, insegnante, scrittore ed educatore italiano. 42 Freire P., Macedo D., Cultura, lingua, razza. Un dialogo, Editrice Universitaria Udinese, Udine 2008, p. 8

27

Non solo, poiché l’educazione prevede sempre degli obiettivi da raggiungere, non può

in nessun modo essere una pratica senza direzione. La pratica educativa è, e deve essere

sempre, direttiva, ma a differenza di quanti esercitano nell’educazione il proprio potere

di oppressione tramite la deposizione di nozioni, la direzione intesa da Freire è piuttosto

legata ad una preoccupazione etica nei confronti dell’educando, a cui vanno passati, sì, i

contenuti, ma che deve essere allo stesso tempo formato eticamente, al fine della ricerca

di una propria autonomia. In merito all’idea di un’educazione puramente “facilitatrice”,

il giudizio di Freire è molto duro:

“Il facilitatore che affermi che «poiché io rispetto gli studenti, non posso essere direttivo, e

poiché essi sono individui che meritano rispetto, dovrebbero determinare da sé la loro

direzione», non nega una natura direttiva dell'educazione che sarebbe indipendente dalla sua

soggettività. Questo facilitatore nega piuttosto a se stesso o a se stessa il compito

pedagogico, politico ed epistemologico di assumere il ruolo di soggetto in quella pratica

direttiva. [...] Questo educatore, di conseguenza, finisce per aiutare la struttura di potere.”43

Questa responsabilità nei confronti degli educandi comporta che l’educatore non possa

nascondersi, anzi, se il suo intento educativo ed etico è quello di rendere visibili le

contraddizioni della struttura di potere precostituita, in cui gli educandi vivono, richiede

all’educatore di esporsi in prima persona. Educare, in questo senso, significa lottare per

la trasformazione del mondo ed è in quest’accezione che l’educazione diventa uno

strumento di speranza, nella ricerca di un inedito, che per definizione ora non c’è, ma

che la speranza e la lotta rendono possibile. Non possono esistere però, ed è lo stesso

Freire a metterci in guardia, né speranza senza lotta, né lotta senza speranza:

“La mia speranza è necessaria ma non è efficiente. Essa, da sola, non vince la battaglia;

senza di essa, però, la lotta si infiacchisce e vacilla. Abbiamo bisogno di una speranza critica,

come il pesce ha bisogno d’acqua non inquinata! Pensare che la speranza da sola, trasformi il

mondo ed agire mossi da tale ingenuità è una maniera eccellente di cadere nella

disperazione, nel pessimismo, nel fatalismo.”44

E ancora:

“In quanto necessità ontologica, la speranza ha bisogno della pratica per divenire concretezza

storica.[...] Senza un minimo di speranza non possiamo nemmeno incominciare la lotta; ma,

senza la lotta, la speranza - come necessità ontologica - non trova appoggio, perde indirizzo e

diventa disperazione che, a volte, si trasforma in tragica assenza di speranza.”45

43 Freire P., Macedo D., Cultura, lingua, razza. Un dialogo, op. cit., pp. 10-11. 44 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 28. 45 Idem, p. 29.

28

L’educazione, quindi, per essere realmente strumento di speranza, necessita di educatori

seri, competenti e coraggiosi, che siano in grado di analizzare criticamente il contesto in

cui vivono, disvelandone gli aspetti disumanizzanti. La speranza ha bisogno di solide

fondamenta per sostenere il peso del cammino e, proprio per questo motivo, tra i

compiti fondamentali di un educatore c’è l’esigenza di una lettura critica del mondo che

sia capace, usando le parole di Freire, “di svelare le possibilità della speranza, senza la

quale è possibile fare ben poco”.46

La speranza, nella pedagogia freiriana assume, così,

un valore fondante, imprescindibile:

“[...] non capisco l'esistenza umana e la necessaria lotta per renderla migliore, senza speranza

e senza sogno. La speranza è necessità ontologica.”47

Senza speranza, c’è spazio solo per la disperazione. È la speranza a sostenere il sogno.

È la speranza ad alimentare la fiducia dell’umanità nel proprio cammino, volto

all’essere-di-più e l’educazione, se veramente a servizio dell’umanità, non può

prescindere da essa.

I.1.4 Una Storia da costruire

Ogni epoca ha delle sfide che le sono peculiari, delle situazioni limite, che pongono

interrogativi esistenziali agli uomini e alle donne che le appartengono. Nella pedagogia

freiriana, la Storia rappresenta un terreno di lavoro, in cui poter coltivare progetti

concreti di trasformazione e di emancipazione. Quella di Paulo Freire è difatti una

pedagogia che si fa carico del futuro, problematizzandolo e cercando di

responsabilizzare ogni uomo ed ogni donna, in ogni tempo, a fare la propria parte, in

prima persona, insieme agli altri:

“Mi piace essere uomo, essere persona, perché so che il mio passaggio attraverso il mondo

non è già stato determinato, non è prestabilito. Perché so che il mio “destino” non è un dato,

ma qualcosa che deve essere ancora realizzato e dalla cui responsabilità non posso esimermi.

Mi piace essere persona perché la Storia in cui mi realizzo con gli altri e della cui

costruzione faccio parte, è un tempo di possibilità e non di determinismo. Da qui deriva la

mia grande insistenza sulla problematizzazione del futuro e il mio convinto rifiuto della sua

inesorabilità.”48

46 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 29. 47 Idem, p. 28. 48 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 43.

29

Gli uomini e le donne sono dunque esseri in grado di scegliere, di prendere decisioni, di

schierarsi, di operare rotture, di contestare le strutture disumanizzanti che offendono il

valore profondo della vita, in definitiva sono e devono essere, per un vero e proprio

imperativo esistenziale, attori e attrici protagonisti, nella costruzione della Storia. In

questa cornice, l’educazione come liberazione, necessita di educatori, dice Freire, che

siano degli “attivisti critici”, dei “militanti” 49

, inquadrando il concetto di militanza in

quello sforzo permanente a crescere, a creare, anche perdendoci il sonno, fatto nel

tentativo di superare i muri che le situazioni limite ci pongono di fronte. Questo

atteggiamento militante e critico, oltre a nutrirsi di Speranza, trova il suo orizzonte nel

“sogno”, nell’inedito possibile:

“Sognare non è solo un atto politico necessario, ma anche una caratteristica della forma

concreta storico-sociale di essere donne e uomini. Fa parte della natura umana che, dentro la

storia, si costruisce in un continuo processo del divenire. Facendosi e ri-facendosi nel

processo di fare la storia, come soggetti ed oggetti, donne e uomini, divenendo esseri di

inserimento nel mondo e non del semplice adeguamento al mondo, sono riusciti a trovare

anche nel sogno un motore della storia.”50

Potrebbe accadere, però, che il sogno, calandosi nella Storia, sia diverso da quello che

avevamo immaginato. Per questo motivo è necessario che il sogno trovi la giusta

concretezza, legandosi ad un progetto, che abbia la prerogativa di ancorarlo a terra e di

renderlo maggiormente possibile:

“Nella percezione dialettica il futuro che sogniamo non è inesorabile. Dobbiamo farlo,

dobbiamo produrlo, o non verrà alla stessa maniera di come più o meno l'avremmo voluto.

Anche se è vero che dobbiamo costruirlo non arbitrariamente, ma con i mezzi, con la

concretezza di cui disponiamo e più ancora con il progetto, il sogno per cui lottiamo.”51

Nell’indeterminatezza della Storia, quindi, il compito inderogabile di ogni uomo e di

ogni donna capace di sognare, è di progettare e costruire insieme un cammino, in cui

l’umanità ritrovi, in pienezza, il senso profondo della propria esistenza su questa Terra.

49 Torres C.A., Morrow R.A., Theory and Methods of Paulo Freire, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire.

Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, CLUEB, Bologna 2002, p. 65. 50 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 112. 51 Idem, p.122.

30

I.1.5 L’eredità di Paulo Freire: radici, ali e sogni

Le tante testimonianze dirette che ci raccontano Paulo Freire, tracciano il profilo di un

uomo estremamente sensibile nell’ascolto, espressivo nella sua gestualità, appassionato

nella lotta, accogliente nell’incontro, coerente nel non tradire i propri valori, caparbio

nel raccogliere le sfide e nel perseguire la giustizia, pieno di speranza nel districarsi tra

le pieghe della Storia, coraggioso nel suo impegno civile, sociale e politico. In tanti

testi, interviste e dalle innumerevoli attestazioni di stima raccolte nei suoi confronti, non

vi è dubbio che Paulo Freire sia stato, ancora prima che un educatore, un perseverante

testimone del suo tempo. Tra le tante voci, ne vogliamo qui riportare alcune tra le più

rappresentative e significative. Ana Maria Saul, docente e collega, al periodo

dell’UNICAMP, racconta di lui:

“Nel primo giorno di lezione, inizialmente, si preoccupava di ascoltare i suoi alunni, affinché

le loro necessità e aspettative fossero contemplate nel lavoro da sviluppare. Ciò era

realizzato in un'aula disposta in circolo, ambiente propizio al dialogo, in cui tutti i

partecipanti potevano guardarsi in faccia e Paulo Freire poteva toccare alcuni tra i

partecipanti del cerchio, che stavano alla sua destra o alla sua sinistra, mettendo

delicatamente la mano sulle loro spalle; lo faceva in alcuni momenti con un gesto molto

spontaneo, come se volesse essere compreso meglio o invitare il suo interlocutore alla

partecipazione. Chi ha convissuto con Paulo Freire e ha avuto l'opportunità di stargli vicino,

sicuramente si ricorda l'espressività dei suoi gesti. Era un uomo che parlava con le mani.”52

Francisco Gutierrez, uno dei padri fondatori del’IPF di São Paulo, autore con Cruz

Prado Rojas del libro “Ecopedagogia e cittadinanza planetaria”, ad oggi presidente

dell’Istituto Latino per la Ricerca e la Cultura (ILPEC), con sede in Costa Rica, ma

soprattutto amico di Paulo Freire, lo ricorda così:

“E qui si trova l'insegnamento che appresi da Paulo Freire: imparare a vedere l'ovvio,

imparare a vedere ciò che è evidente, e di cui a volte, questo mondo, ci obbliga a non tener

conto e a non dar senso a quello che ha un senso. E così noi non ci soffermiamo sul senso.

Questa seconda opportunità, che mi è stata data da Paulo Freire, è che l'ovvio è molto

accettato dagli sfruttatori. […] Un'altra cosa, che dobbiamo ricordare, è che l'educatore deve

essere coerente, deve essere trasparente. Paulo Freire era una persona trasparente. Essere

solo coerente non basta. Paulo Freire sapeva che stava comunicando con qualcuno senza

parole. A volte, quando qualcuno scriveva una poesia, diceva: Paulo Freire con le sue spalle

incurvate, col suo modo di comunicare, col suo modo di vedere, con i suoi occhi… Mentre

Paulo Freire stava camminando, comunicava con amore, con questa trasparenza, che

comunica che uno è educatore ed un altro no. Ci sono persone che trasmettono scienza,

conoscenze, saperi, tecniche, ma non sono educatori, sono insegnanti.”53

52 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit.,

p.42. 53 Gutierrez F., La pedagogia di Paulo Freire nell’America Latina, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, op. cit., p. 46-47.

31

Joao Francisco de Souza, educatore popolare, sociologo e attivista freiriano, già

direttore dell’Università Federale di Pernambuco (UFPE) e direttore del Centro Studi

“Paulo Freire” presso la stessa sede di Recife, prima di essere tragicamente assassinato

durante un tentativo di rapina nel 2008, parlò così di Paulo Freire:

“La caratteristica di Paulo Freire che mi è rimasta più impressa è la coerenza tra la vita

pubblica, la vita di ricercatore e di studioso e la vita personale, con la famiglia e gli amici.

Paulo ha raggiunto un traguardo a cui tutti noi miriamo, proprio questa coerenza: era capace

di parlare in un'importante conferenza, come ad esempio l'ho ascoltato a Buenos Aires in uno

spazio che conteneva più di mille persone, come se stesse parlando con due amici. Il modo di

porre il problema, di condurre la discussione, di formularne i termini, lo impostava sempre

come se stesse conversando con gli amici, con grande naturalezza. […] Un altro elemento

importante era la sensibilità nell'identificare la situazione, potevi parlare con lui delle tue

preoccupazioni, non delle sue! Questo atteggiamento di ascolto (...) e la risposta non era un

indottrinamento, era uno sforzo reale di riflessione, di comprensione, di empatia, come

direbbero gli assistenti sociali. Questo aspetto era molto presente in lui. […] Aveva questa

attitudine nella maniera di parlare, di affermare, di portare le persone a riflettere. Dunque

direi che la dimensione umana garantiva la dimensione intellettuale, epistemologica,

investigativa del suo lavoro. Lui realizzò ciò a cui noi aspiriamo e che non sempre

raggiungiamo, proprio questa coerenza dello «star essendo», sempre in cerca di una

costruzione, di qualcosa che risponda alle inquietudini più profonde della vita. […] Una

persona che tentò di comprendere il mondo, di amare le persone e di lottare per un mondo

diverso, dove ci fossero giustizia, solidarietà, rispetto, crescita umana.»” 54

Infine, Moacir Gadotti, educatore e filosofo dell’educazione, autore di diversi testi,

alcuni in veste di co-autore con lo stesso Freire, tra i padri fondatori del’IPF di São

Paulo, di cui attualmente è Presidente onorario, ha questo ricordo di lui:

“Generazioni di educatori, antropologi, sociologi e politologi, professionisti nelle scienze

biologiche e naturali furono influenzati da Freire ed aiutarono a costruire una pedagogia

fondata sulla liberazione. Non solo in America Latina. Quello che scrisse faceva parte delle

vite di tutta una generazione, che apprese a sognare un mondo di uguaglianza, equità e

giustizia, che lottava e continua a lottare per questo mondo. Molti continuarono il suo lavoro

sebbene non lasciò "discepoli". Niente poteva essere meno freireano che essere discepolo o

seguire idee. Sempre ci stimolava a "reinventare" il mondo, a cercare la verità, e non a

copiare idee. Paulo Freire ci lasciò con radici, ali e sogni. E' la migliore eredità che un

educatore ci possa lasciare.”55

Quella lasciata da Paulo Freire è quindi un’eredità che lui stesso, in prima persona, ci

chiede di approfondire, criticare, re-inventare. È un’eredità, come dice Moacir Gadotti,

che ha già le basi da cui partire, delle radici profonde fatte di esperienze di lavoro

concrete, di progetti attivi in ogni angolo del pianeta, ma che non si deve fermare alla

lettura del mondo fatta da Freire. Le ali di cui parla servono appunto a proseguire il suo

54 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit.,

p.123-134. 55 Gadotti M., Attraversando frontiere, metodologie ed esperienze freireane, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, op. cit., p. 43.

32

cammino, adattandolo alla complessa realtà di oggi, ad un sistema sociale che è

profondamente cambiato da quello del nord-est brasiliano degli anni sessanta, in cui la

divisione tra oppressi e oppressori non aveva sfumature e non lasciava adito a

interpretazioni, tra un nord opulento e un sud impoverito, in cui l’alfabetizzazione era lo

strumento privilegiato per iniziare una lettura critica del mondo. In questo senso è

decisivo il fatto che Freire, in eredità, ci abbia anche lasciato un sogno, quello di un

mondo diverso, come dice bene Joao Francisco de Souza, dove ci siano giustizia,

solidarietà, rispetto e crescita umana. Da qui dobbiamo partire, insieme, con la concreta

consapevolezza di chi sa che il cambiamento richiede pazienza storica, perché

l’educazione stessa è un processo che richiede tempo e pazienza, per portare dei frutti

che siano realmente buoni e duraturi nel tempo.

I.1.6 Aspetti critici e questioni aperte

Nella sua lunga attività di pedagogista e di attivista, Paulo Freire, oltre alle numerose

attestazioni di stima e di riconoscimento, si è dovuto scontrare anche con diverse

critiche, attinenti a svariati aspetti del proprio lavoro. Alcune di esse sono legate al fatto

che egli era un personaggio scomodo, che lottava contro ogni tipo di oppressione e che,

tramite l’alfabetizzazione diffusa, stava raggiungendo risultati tali da compromettere le

strutture del potere costituito e, proprio per questa ragione, fu costretto all’esilio. Tali

critiche, dal nostro punto di vista, non meritano, però, di essere prese in considerazione,

essendo evidentemente delle critiche di parte e, in particolare, dalla parte di chi

opprimeva: esse, semmai, portano ad una ulteriore conferma dell’efficacia del suo

lavoro, piuttosto che fornire elementi per contestarlo. Ci sembra opportuno, invece,

soffermare la nostra attenzione su quelle osservazioni che riguardano la produzione

letteraria e pedagogica di Freire, entrando nel merito delle questioni più comunemente

sollevate dai suoi detrattori. In questo senso partiamo dalle critiche più comuni, raccolte

e sintetizzate, molto efficacemente, da Giorgio Pezza, giornalista e dottorando presso la

Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell’Università Pontificia Salesiana di

Roma, nei seguenti punti:

1) il linguaggio, conseguentemente il suo pensiero, è inaccessibile, complesso ed involuto.

Un educatore popolare non può permettersi sofismi di difficile comprensione, che

oltrepassano le reali esigenze degli educandi;

33

2) Freire è un umanista e intellettuale obsoleto, che parlò troppo tempo addietro di

un'educazione liberatrice che oggi non ha più senso, perché i tempi sono mutati in modo

radicale. Sebbene i principi siano validi, il suo metodo è ormai decaduto;

3) il metodo si riduce ad un verbalismo e tecnicismo metodologico, che riempie l'aria di

parole svuotate di significato come "coscientizzazione", "parole generatrici", "situazioni

limite", "rapporti dialogici fra educatori ed educandi";

4) un Freire la cui critica dei sistemi educativi "depositari" spesso ha voluto significare il

porre allo stesso livello educatore ed educando, annullando quel senso di direttività che

l'educazione deve mantenere;

5) è un idealista zuccheroso ed assolutamente poco concreto nelle sue riflessioni che,

nonostante pretendano di partire da situazioni reali, si spostano inevitabilmente su direttrici

eccessivamente utopiste;

6) un Freire che ingenuamente crede in un socialismo democratico, in una giustizia sociale

possibile, sulla possibilità di cambiare il mondo, costruire e dominare i processi storici

piuttosto che subirli.56

Indubbiamente molti di questi punti derivano, nella migliore delle ipotesi, da una

conoscenza poco approfondita sia del Freire educatore, che del Freire uomo. Senza

avere la pretesa di esaurirne la discussione e con l’impegno di affrontarli anche nel

prosieguo della trattazione, riteniamo comunque opportuno tracciarne alcune

considerazioni in merito:

1) Il linguaggio di Freire è figlio del suo tempo, contestare questo equivarrebbe a

rimproverare di arretratezza, o d’involuzione, qualsiasi autore o scrittore che abbia

espresso il proprio pensiero in un’epoca diversa dalla nostra. Se il linguaggio di Freire

può apparire complesso è legato all’evidenza che i temi da lui trattati sono

inevitabilmente complessi, riguardando le ragioni profonde del nostro essere umani

nella storia. Non si tratta di utilizzare un linguaggio semplice per promuovere

un’educazione popolare accessibile a tutti, ma di gettare le basi per una “Pedagogia

della Speranza” e, ancor di più, di tracciare le linee guida per una filosofia

dell’educazione che gli sia di sostegno. Un educatore popolare come Freire non ha

bisogno di dimostrare con la scrittura il valore del proprio lavoro, sono la sua storia

personale e le vicissitudini affrontate a causa di esso, a testimoniare per lui. Come non

sono i trecento lavoratori rurali di Angicos che, dopo solo un mese e mezzo di

discussioni nei Circoli di cultura, furono in grado di leggere e scrivere, a fare la

differenza, ma piuttosto il fatto che, grazie alla lettura e alla scrittura, questi contadini

iniziarono a cercare insieme una strada comune di emancipazione da chi li opprimeva,

proponendo, al Presidente brasiliano in persona, João Goulart, di riscrivere la Carta

costituzionale;

56 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, Aracne editore, Roma 2009, pp. 62-63.

34

2) Lo scopo ultimo dell’educazione è quello di aiutare gli uomini e le donne ad essere-

di-più ed è impossibile che ciò accada senza un’educazione liberatrice. Oggi più che

mai l’essere umano è attanagliato da una miriade di schiavitù ed oppressioni, alcune

evidenti, come in passato, che relegano molti alla povertà, all’esclusione,

all’emarginazione, altre che si celano invece dietro a condizionamenti, bisogni indotti,

promesse disattese, atteggiamenti che svuotano di senso le nostre vite, a favore dei

giochi di potere e del profitto di pochi. Non solo l’educazione liberatrice non ha finito il

suo tempo, ma deve tornare ad essere lo strumento privilegiato per aiutare l’umanità a

ritrovare la giusta direzione. Freire, in questo senso, ha ancora molto da dire;

3) È lecito pensare che il linguaggio di Freire abusi di tecnicismi e neologismi, come

coscientizzazione, situazioni limite, temi generatori e molti altri ancora, ma nelle sue

intenzioni essi avevano puramente la funzione di contenere concetti complessi, che il

solo vocabolario non riusciva ad esplicare in maniera esaustiva. Detto questo, anche

solo per i risultati raggiunti sul campo grazie al suo “metodo” (in realtà è più corretto

parlare di una filosofia dell’educazione), sembra quanto meno riduttivo, se non

addirittura scorretto, parlare di essi come di termini “svuotati di significato”. Servirebbe

chiedere all’umanità incontrata faccia a faccia da Freire, se queste parole fossero vuote.

Sarebbe necessario che fossero i tanti e le tante Maria, Josefa, Carlos, Antonio, ad

esprimersi in merito. Una parola è svuotata di senso solo nel momento in cui non svolge

la propria funzione, le parole di Paulo Freire, forse non tutte, ma certamente in buona

parte, ebbero il merito invece di cambiare la vita di molte persone;

4) Freire ha ben chiaro che educatore ed educando non sono, e non devono essere, dal

punto di vista educativo, sullo stesso piano. Rispettare un alunno non significa

rinunciare al proprio ruolo di educatore o di insegnante: la professionalità, la

competenza, l’esperienza, fanno parte di un bagaglio essenziale, affinché l’educazione

sia possibile. L’educatore non possiede, però, tutto il sapere, ne dispone solo di una

parte. Esiste, infatti, un sapere che è insito in ogni uomo/donna e che solo lui/lei

possiede, fosse anche solo per la propria intima idea di cosa voglia dire essere umani, di

partecipare alla creazione con la propria vita, con le proprie esperienze, con le proprie

emozioni. Cogliere questo, per un educatore, significa cogliere il mistero che sta dietro

ad ogni volto, ad ogni vita, in ogni passo del proprio cammino. Inoltre, come detto già

anche in I.1.3, l’educazione prevede sempre degli obiettivi da raggiungere e non può in

nessun modo essere una pratica senza direzione. La direzione intesa da Freire, più che

35

riguardare un elenco di contenuti predefiniti, è piuttosto legata ad una formazione etica

dell’educando, affinché raggiunga una sua reale autonomia;

5) Freire può anche essere considerato un’idealista, è vero, ma di quelli che hanno il

coraggio di impegnare la propria vita nell’ideale in cui credono, sporcandosi le mani in

progetti concreti di trasformazione della realtà storica in cui vivono. Si può ritenere che

il suo linguaggio sia “zuccheroso” o “utopista”, ma non si può dimenticare il suo

impegno nelle campagne nordestine, nelle periferie dell’America Latina, nei villaggi

della Guinea Bissau. Il suo è un linguaggio appassionato, denso di sogni da realizzare,

conscio dei suoi limiti, ma allo stesso tempo ricco di audacia, di giustizia, di speranza,

qualità che solo i sogni e gli obiettivi man mano raggiunti possono sostenere;

6) Come già spiegato in I.1.2, l’orizzonte di Freire non è quello del socialismo reale, ma

piuttosto un’evoluzione della democrazia che la porti dall’essere un organo

rappresentativo ad un organismo partecipativo, in cui ognuno si prenda la

responsabilità di fare la propria parte. Si tratta del concetto di cittadinanza attiva o, più

universalmente, di cittadinanza planetaria, che in questa accezione allarga il significato

di “appartenenza”, da un singolo territorio all’intero pianeta. È ammissibile che questo

progetto, se preso nella sua realizzazione finale, possa apparire difficilmente

realizzabile, quantomeno lontano da ciò che è stato costruito finora e da quanto stiamo

oggi vivendo. Freire, però, rifiuta per principio l’idea che la Storia non si possa

cambiare, che tutto sia già determinato ed immutabile. L’umanità stessa perderebbe il

senso della propria esistenza se rinunciasse al compito assegnatole di fare e ri-fare la

Storia e l’educazione cesserebbe di essere quella pratica di liberazione e trasformazione

di cui l’uomo ha invece bisogno, per raggiungere a pieno la propria umanizzazione, il

proprio essere-di-più. In definitiva è lo stesso Freire a chiarire quale sia la sua idea di

“utopia”, ben distante dalle accuse di un vuoto idealismo:

“«Per me utopico non significa qualcosa di irrealizzabile, non è espressione di idealismo.

Utopia significa un atteggiamento dialettico negli atti di denunciare e dell’annunciare-

denunciare la struttura che disumanizza ed annunciare la struttura che umanizzerà. Quindi

l’utopia è un impegno nella storia [...]. La coscientizzazione ha un chiaro rapporto con

l'utopia. Quanto più siamo coscientizzati, tanto più diveniamo, mediante l'impegno che

assumiamo di cambiare la realtà, annunciatori e denunciatori».”57

In definitiva rimangono molte le questioni aperte da affrontare, soprattutto in merito alla

necessaria rilettura del messaggio di Paulo Freire attualizzata ai giorni nostri (che

57 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 16-17.

36

peraltro è lui stesso ad incoraggiare), così che il suo lavoro prosegua e raggiunga altri

traguardi. Rimane però l’amara impressione che Paulo Freire non sia stato pienamente

compreso dagli autori delle critiche riportate in precedenza o, peggio ancora, che il

rifiuto della sua pedagogia sia frutto di una scelta precisa, quella di avere interesse a non

cambiare le cose.

37

I.2 L’Umanità in cammino.

I.2.1 L’Umanità negata. Oppressi e Oppressori.

“Coloro che aprono la strada al terrore

non sono i deboli, che lo subiscono,

ma i violenti che con il loro potere

creano la situazione concreta

in cui si generano “i dimissionari della vita”,

gli straccioni del mondo.”

(Paulo Freire) 58

La cultura del silenzio

Nella sua approfondita analisi riguardo al fenomeno dell’oppressione e delle sue cause,

Freire definisce cultura del silenzio, quella cultura che si forma a causa dei processi di

colonizzazione (nel suo caso, dell’America Latina) che, privando la coscienza della

possibilità di parola, portano al servile silenzio degli oppressi. Il tacere, di fronte alle

ingiustizie e alle prevaricazioni subite, determina così un atteggiamento di rassegnato

fatalismo di fronte alla realtà e alle sfide che essa presenta, negando, a chi subisce

l’oppressione, la possibilità di un riscatto. Le situazioni limite, colte come irreversibili,

restano delle domande senza risposta e si sedimentano, così, in una situazione

strutturale, in cui perde senso lo stesso porsi delle domande, indagare la realtà o leggere

il mondo. In definitiva, la cultura del silenzio non solo priva l’uomo della possibilità di

parola, ma lo porta anche a credere che questa sia la sua unica condizione possibile, cioè

l’essere-di-meno (ser menos) diviene il solo modo di esistere. È in questo atto di

impedimento all’essere-di-più (ser mais) che si struttura l’oppressione, non consentendo

all’essere umano di esprimersi, di migliorarsi, di andare oltre, di trascendere da sé,

negandogli la possibilità di un altro futuro possibile. Freire è lapidario nel descrivere

l’interesse dell’oppressore affinché questa situazione si realizzi:

“Per dominare, il dominatore non ha altra strada se non quella di negare alle masse popolari

la vera prassi. Negare il diritto a parlare, a pensare giusto. Le masse popolari non devono

oggettivare il mondo, denunciarlo, interrogarlo, trasformarlo in vista della sua

umanizzazione, ma adattarsi alla realtà che serve al dominatore.”59

Una volta che questa sensazione di impotenza si sedimenta stabilmente nell’oppresso,

subentra un sentimento di auto-svalutazione personale che alimenta il meccanismo di

58 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, EGA, Torino 2002, pp. 41-42. 59 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 123.

38

colpa, di inadeguatezza e di rassegnazione e che trasforma definitivamente

l’oppressione nell’unico destino possibile. Il primo obiettivo dell’oppressore diviene

quindi quello di perpetuare il più possibile la cultura del silenzio, investendo le

maggiori risorse possibili in un’educazione che renda chiaro all’educando di essere

l’oggetto dell’istruzione e non il soggetto della Storia:

“[…] l’educazione diventa l’atto di depositare, in cui gli educandi ricevono e l’educatore fa il

deposito.”60

Proprio per questa modalità dell’atto, Freire definisce questo tipo di educazione come

un’educazione bancaria/depositaria, definendo inoltre i diversi rapporti che la

caratterizzano in maniera espressamente “verticale”:

a) l'educatore educa, gli educandi sono educati;

b) l'educatore sa, gli educandi non sanno;

c) l'educatore pensa, gli educandi sono pensati;

d) l'educatore parla, gli educandi l'ascoltano docilmente;

e) l'educatore crea la disciplina, gli educandi sono disciplinati;

f) l'educatore sceglie e prescrive la sua scelta; gli educandi seguono la sua prescrizione;

g) l'educatore agisce; gli educandi hanno l'illusione di agire, nell'azione dell'educatore;

h) l'educatore sceglie il contenuto programmatico; gli educandi, mai ascoltati in questa

scelta, si adattano;

i) l'educatore identifica l'autorità del sapere con la sua autorità funzionale, che oppone in

forma di antagonismo alla libertà degli educandi; questi devono adattarsi alle sue

determinazioni;

j) l'educatore infine è il soggetto del processo; gli educandi puri oggetti.61

Ne deriva quindi che, tanto più gli educandi saranno disciplinati nell’archiviare gli

ordini e le nozioni ricevute, tanto meno la loro coscienza critica sarà in grado di

svilupparsi ed emergere dalla situazione di oppressione. L’educando diventa un oggetto

nelle mani del formatore che, in senso letterale, lo forma, gli dà cioè la “propria” forma,

senza mai ascoltarlo e tradendo così quella straordinaria unicità e quel diritto alla

libertà, che rendono speciale ogni essere umano. Come spiega bene lo stesso Freire:

“[...] trasformare l'esperienza educativa in un puro addestramento tecnico significa svilire

quanto vi è di profondamente umano nell’attività educativa: il suo carattere formativo. Se si

rispetta la natura dell'essere umano, l'insegnamento dei contenuti non può estraniarsi dalla

formazione morale dell'educando.”62

60 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 58. 61 Idem, p. 59. 62 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 29.

39

L’educazione bancaria/depositaria, in nome della memorizzazione e della disciplina,

limita la libertà dell’educando, la sua capacità di leggere il mondo, ne scoraggia la

creatività e ne preclude l’autonomia, traguardo imprescindibile per chi parla di

educazione. Questa modalità di insegnamento, come dice lo stesso Freire, “non forma,

addomestica”63

, facendo perdere, a chi la fa sua, l’occasione più grande che possa

capitare a chi si occupa di educazione:

“L’insegnante autoritario che si rifiuta di ascoltare gli alunni, chiude le porte a questa

avventura creativa. Nega a se stesso la partecipazione a un momento di rara bellezza: quello

dell’affermazione dell’educando come soggetto di conoscenza.”64

Si crea quindi, paradossalmente, una situazione in cui l’oppressore, come soggetto

dell’azione disumanizzante, nel suo precludere la libertà all’oppresso, a sua volta si

disumanizza, negando ad entrambi la possibilità di essere-di-più. Questo legame a

doppio filo, che si crea nelle situazioni di oppressione, non è però da considerarsi come

un destino ineluttabile e proprio per questo l’esigenza di una pedagogia critica è,

innanzitutto, un’esigenza etica: l’ordine ingiusto può e deve essere sovvertito, in ragione

dell’esigenza di libertà, consapevolezza ed autonomia, insita in ogni essere umano, per

quell’anelito di vita che chi educa non può ignorare. Altrimenti, come spiega Giorgio

Pezza, nel suo testo su Paulo Freire, la prospettiva è quella segnata da un’educazione

figlia della cultura del silenzio:

“Un tipo di educazione che disumanizza l'uomo perché non sollecita la capacità creatrice,

non si fa strumento di trasformazione e nemmeno di sapere. Un'educazione definita

"necrofila" che con l'andare del tempo rende l'individuo oggetto di manipolazione e di

oppressione, e genera quel silenzio tipico dell' "uomo morto".”65

Il dualismo nell’oppresso

Uno dei punti cruciali nella “Pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire, (ma affrontato

anche da altri autori a lui conosciuti, come Albert Memmi, scrittore e saggista francese

di origine tunisino-ebraica o Frantz Fanon, psichiatra, scrittore e filosofo francese,

nativo di Martinica, autore del libro “I dannati della Terra”) è rappresentato dal

dualismo che l’oppressione crea nell’oppresso, fenomeno che Giuseppe Elia, professore

ordinario dell’Università Statale di Bari spiega così:

63 Idem, p. 46. 64 Idem, p. 99. 65 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., p. 46.

40

“[...] l'oppresso "introietta" la figura del suo oppressore, [...] l'oppresso crede di risolvere la

situazione operando uno spostamento dal suo polo a quello del suo antagonista: in altre

parole egli desidera essere al posto del suo padrone, comportarsi come lui, parlare come lui.

Quindi benché il tutto avvenga in una situazione di dominazione, "non è il dominatore che

costruisce una cultura e la impone al dominato. Questa cultura è il risultato delle relazioni

strutturali tra i dominati e i dominatori".”66

In sostanza, la cultura che nasce dall’oppressione ha origine nella relazione tra oppresso

e oppressore. L’oppresso, che nel suo tentativo di svincolarsi dall’oppressione, desidera

prendere il posto dell’oppressore, in realtà non solo non si libera in modo autentico, ma

evidenzia che egli stesso è abitato dall’oppressore, agendo come lui, desiderando di

essere lui e rinnovando così la spirale iniqua dell’oppressione. La liberazione autentica

può avvenire solo interrompendo questo circolo vizioso, liberandosi in primo luogo

dall’oppressore dentro di sé. Questo non è però un percorso semplice da affrontare,

poiché subentra la paura, il tentativo di chi è oppresso di negare a se stesso una realtà

inconfutabile, che lo fa sentire umiliato, calpestato, autore incompetente e colpevole dei

propri insuccessi. È interessante inoltre rilevare che la paura non è provata solo dagli

oppressi, ma anche dagli oppressori, nonostante, come dice Freire, vi sia una

fondamentale differenza:

“Negli oppressi la paura della libertà è paura di assumerla. Negli oppressori invece è paura di

perdere la libertà di opprimere.”67

Freire evidenzia inoltre che la paura insita nell’oppresso non è frutto di astrazioni, ma è

una realtà molto concreta, causata da motivi molto concreti. È una paura che non ha

sede nella sua testa, ma che dà la sensazione di entrare sotto pelle, minando nelle

fondamenta il legittimo desiderio di libertà proprio di ogni essere umano e alimentando

così un cerchio di oppressione, che pare senza fine:

“[...] più gli oppressi considerano gli oppressori imbattibili, latori di un potere insuperabile,

meno fiducia avranno in se stessi. È stato sempre così e così è ancor oggi. Uno dei compiti

dell'educazione popolare progressista, ieri come oggi, è cercare di aiutare, per mezzo della

comprensione critica di come avvengono i conflitti sociali, il processo attraverso cui la

fragilità degli oppressi diventa una forza capace di trasformare in fragilità la forza degli

oppressori. Questa è la speranza che ci anima.”68

È partendo da questa speranza, di riuscire a sovvertire quei meccanismi che portavano

alla negazione dell’uomo, che Paulo Freire incominciò ad impegnarsi nella costruzione

66 Elia G., Paulo Freire una scelta per l’utopia, Mario Adda Editore, Bari 1998, p. 28. 67 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 32. 68 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 147.

41

di un’educazione diversa, capace di accompagnare verso un cammino di liberazione e

umanizzazione chi, ormai considerato come un oggetto, non aveva più diritto ad una

propria voce. Aiutare gli oppressi a riappropriarsi della parola, voleva dire spezzare le

catene imposte dalla cultura del silenzio e corrispondere alla vocazione ontologica

umana dell’essere-di-più, nel e con il mondo:

“La concezione antropologica di Freire ha il suo asse portante nel concetto dell'homo che

esiste nel e con il mondo. L'uomo, in quanto essere situato nel mondo, che supera l'hic et

nunc, lo trascende e con questo dà la possibilità a colui che esiste di entrare in rapporto

dialogico con la realtà oggettiva; l'uomo quindi inizia ad esistere quando, riflettendo su se

stesso, inizia a riflettere sulla sua presenza nel mondo, ne capta i limiti spazio-temporali, ma

nello stesso tempo li travalica prendendo coscienza che esistono un passato, un presente ed

un futuro.”69

La scoperta di essere uomo e donna nella Storia, possessori di un presente, ma anche

capaci di un futuro possibile, ancora inedito, permette di slegare il passato dalle catene

del fatalismo, lasciando il posto alla Speranza. È qui che l’educazione ritrova il proprio

ruolo, che non consiste nel deposito di nozioni nell’educando, ma nel suo

coinvolgimento in quello straordinario processo che porta alla produzione di una nuova

conoscenza comune. Qui trova il suo obiettivo, una pedagogia che faccia realmente

dell’oppressione e delle sue cause, un argomento di riflessione per gli oppressi.

69 Elia G., Paulo Freire una scelta per l’utopia, op. cit., pp. 23-24.

42

I.2.2 L’Umanità liberata. Essere-di-più.

“Io non sono all’origine un essere della disperazione

da convertire o meno alla speranza.

Al contrario, sono un essere della speranza

che per una serie di motivi è diventato disperato.

Da qui deriva che una delle nostre lotte come essere umani

deve essere quella per ridurre le ragioni oggettive

della disperazione che ci paralizza.”

(Paulo Freire) 70

Alcuni concetti chiave nel processo di coscientizzazione

Nessuno nasce privo di speranza, secondo Freire, l’essere umano è un essere della

speranza. È la violenza dell’oppressione a tramutare la speranza in disperazione, agendo

come una forza di immersione delle coscienze, che avvilisce, negli oppressi, la spinta

naturale ad essere-di-più. Per questo motivo, nel rapporto tra oppressori ed oppressi,

sono questi ultimi a dover lottare per la propria liberazione, per la propria “emersione”.

Perché ciò avvenga, essi devono avere la possibilità di acquisire una coscienza critica

della loro condizione, una consapevolezza che può instaurarsi solo con la prassi, una

combinazione, cioè, di azione e riflessione. Allo stesso tempo, però, l’oppressore opera

nella direzione opposta, facendo sì che l’immersione divenga una situazione-limite

immutabile e permanente, dalla quale non sia possibile affrancarsi. Per questo motivo,

secondo Freire:

“Ne deriva l’esigenza radicale di trasformare la situazione concreta che genera l’oppressione,

sia per l'oppressore che si scopre oppressore, sia per gli oppressi, che riconoscendosi come

contraddizione dell'oppressore, mettono in evidenza il mondo dell'oppressione e

percepiscono i miti che lo alimentano.”71

La critica al modello depositario/bancario di educazione rappresenta, come visto, il

primo passaggio che Freire attua, per dare avvio a questa trasformazione. Il deposito

dell’informazione da “chi sa” a “chi non sa”, prevede una conoscenza pre-esistente, che

non induce il bisogno di porsi domande, poiché il problema è già stato risolto e la

soluzione è già stata data. Possono nascere domande di chiarimento, di

approfondimento, ma non viene prodotta una nuova conoscenza, in quanto il metodo

depositario/bancario è essenzialmente anti-dialogico. Al contrario, l’approccio utilizzato

da Freire, per scardinare questa impostazione, è il modello problematizzante, in cui

70 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 59. 71 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 35.

43

viene incoraggiato il dialogo come strumento imprescindibile di incontro e confronto tra

persone che sanno cose diverse, che possiedono saperi diversi, ma che certamente

sanno, ciò che la vita ha dato loro modo di conoscere. Il lavoro di Freire parte così da

questo incontro e dalla ricerca di quelle parole generatrici che, scaturendo dal dialogo,

hanno la forza di dire qualcosa della persona incontrata, ne tracciano i tratti e,

soprattutto, ne descrivono il mondo di appartenenza. Con il metodo problematizzante, la

prospettiva è quella, non solo di stare nel mondo subendolo, ma di stare col mondo

problematizzandolo, aprendo, cioè, delle possibilità di cambiamento. Rispetto a questo

punto, Freire identifica diversi modi di stare col mondo, cui corrispondono tre diversi

stati di coscienza.

Al primo livello si trova una coscienza “intransitiva” (nel mondo), in cui non

“transita” nulla tra la persona e il mondo esterno, non esistono né domande né

interazioni:

“Una "coscienza intransitiva", che si può trovare tra le persone semplici e nelle comunità

chiuse; essa è caratterizzata dalla quasi completa impermeabilità ai problemi e alle sfide che

si pongono al di fuori della sfera biologicamente vitale [...] dalla quasi completa assenza di

coscienza storica [...].Una "coscienza intransitiva allo stato puro", Freire insiste,

evidentemente non esiste, ma si trova e anche abbastanza spesso, un tipo di coscienza, in cui

predominano gli atteggiamenti e i comportamenti indicati sopra.”72

Ad un secondo livello si trova una coscienza “transitiva naturale” o “transitiva

ingenua”, in cui la persona vede ciò che avviene nel mondo, si pone delle domande, ma

le risposte che si dà sono ingenue (ad es.: “è così, cosa ci vuoi fare!”), mitiche o legate

alla tradizione popolare (ad es.: “la mela cade vicino all’albero”, ”donne e buoi dei paesi

tuoi”) profondamente radicate nel sapere depositario/bancario. È da notare come oggi,

questo livello di coscienza e l’approccio che ne deriva, siano purtroppo molto diffusi:

“[…] una "coscienza transitiva ingenua", caratterizzata dalla semplificazione

nell'interpretazione dei problemi, dalla tendenza a pensare che l'epoca precedente fosse

migliore; dalla sottovalutazione dell'uomo del popolo; [...] dalla fragilità delle

argomentazioni; da un forte contenuto emotivo; dalla pratica della polemica più che dal

dialogo; dalle spiegazioni magiche [...]”73

Infine, vi è un livello di coscienza “transitiva critica”, in cui la persona non si

accontenta delle spiegazioni superficiali, ma si addentra nel problema, indagandone

72 Guidolin E., Bello R., Paulo Freire educazione come liberazione, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1989,

pp.83-84. 73 Idem, p. 84.

44

cause ed effetti, studia il fenomeno, interagisce con le altre persone e con il mondo,

agendo, influenzando, imparando e, in questo modo, creando cultura:

“[…] una "transitività critica", caratterizzata dalla profondità dell’interpretazione dei

problemi, dalla sostituzione di cause reali alle spiegazioni magiche, dalla sicurezza

dell'argomentazione, dalla pratica del dialogo e non della polemica, dalla ricettività di fronte

al nuovo (senza tuttavia respingere il vecchio), dal rifiuto di delegare e abbandonare la

propria responsabilità.”74

È importante rilevare che si tratta di stati della coscienza e non di fasi. Ciò comporta

che non è possibile tornare indietro, una volta che vi è stato un passaggio ad uno stato

superiore. È inoltre possibile iniziare il passaggio da una coscienza “intransitiva” ad una

coscienza “transitiva ingenua” anche attraverso la normale crescita evolutiva o per

mezzo di un miglioramento fisiologico-strutturale, legato ad un maggior benessere, ma

questo non è sufficiente. Per completare il passaggio da una fase all’altra è

indispensabile l’apporto di un’educazione problematizzante, critica, in cui

l’apprendimento avvenga in modo dialogico, consentendo all’educatore stesso di

apprendere, con la mediazione del mondo, o meglio, dei diversi mondi, che tra di loro

s’incontrano, producendo nuova conoscenza. L’obiettivo del processo di

coscientizzazione è quindi quello di giungere allo stato di coscienza “transitiva critica”,

dove l’essere umano, finalmente liberato, ha tutti gli strumenti per rispondere alla

propria vocazione ontologica dell’essere-di-più. Vocazione a cui si tende sempre,

essendo il processo di liberazione un cammino lungo tutta l’esistenza. Si spiega così il

termine di “coscientizzazione”, uno dei concetti più importanti della pedagogia

freiriana ma, allo stesso tempo, uno dei maggiormente discussi. Lo stesso Freire, negli

ultimi tempi, stanco delle strumentalizzazioni e del cattivo uso che se ne faceva, anche

da parte di educatori depositari, decise di non utilizzarlo quasi più, interessandosi più

del “processo” che non del “vocabolo”. Per definire correttamente il termine di

“coscientizzazione”, utilizziamo di seguito le parole di Ermenegildo Guidolin e Rocco

Bello, nel loro libro dal titolo “Paulo Freire, educazione come liberazione”:

“Non è solo la presa di coscienza, ma l'approfondimento della presa di coscienza, che porta

con sé un avvicinamento critico al mondo, in quanto oggetto di ricerca critica, per rivelarlo

nella sua ragione di essere. Consiste, dunque, nello sviluppo critico della presa di coscienza.

Sviluppo che non può esistere al di fuori della prassi, senza l'atto "azione riflessione". [...]

Coscientizzare vuol dire guidare l'adulto da uno stato di coscienza che non corrisponde più al

contesto storico in cui vive, ad un altro stato di coscienza che gli permetta una partecipazione

effettiva, obiettiva e critica al processo storico in cui è inserito [...] Il passaggio dalla "doxa"

74 Guidolin E., Bello R., Paulo Freire educazione come liberazione, op. cit., p. 84.

45

(opinione) che costituisce un rendersi conto del mondo al "logos" (ragione d'essere) della

realtà. [...] non è nella coscienza che si attua la trasformazione del mondo, ma è nel mondo,

attraverso la prassi, che si ha il processo della trasformazione.75

L’educazione si configura, così, come un atto d’amore e di coraggio, in cui non si ha

paura del confronto, della discussione, di un’analisi della realtà da costruire insieme.

Senza dialogo non può esistere educazione, senza che essa sia svuotata di quell’amore

che la rende incontro, partecipazione, condivisione e, non ultimo, impegno volto alla

trasformazione del mondo e all’emancipazione umana di tutti coloro che sono coinvolti

nel processo educativo. Questo percorso di coscientizzazione che porta all’essere-di-più,

dà luogo anche ad alcuni risultati fondamentali:

1) l’individuo è nuovamente inserito nella storia, può agire in maniera critica su di essa

e raccogliere le sfide che le situazioni-limite gli pongono; 2) tramite la prassi, la

combinazione cioè tra azione e riflessione, egli non solo è in grado di produrre

un’azione culturale in grado di dare senso al mondo che lo circonda, ma non è più

disposto ad accettare che la realtà gli venga confezionata da altri, per cui si unisce a

quanti condividono la sua tensione, così che l’azione culturale venga fatta insieme; 3)

l’uomo e la donna coscientizzati, divenuti consapevoli che l’oppressione è frutto della

violenza di chi la esercita, ma anche dell’incoscienza di chi la subisce, si adoperano,

attraverso il dialogo, ad incentivare relazioni interpersonali profonde, che disvelino i

perversi meccanismi su cui si fonda l’oppressione stessa; 4) il passaggio dall’essere

(uomo cosciente) all’essere-di-più (uomo di prassi) apre le porte all’inedito possibile e,

in definitiva, alla speranza che lo accompagna.

Pratiche di Coscientizzazione e analisi dei temi generatori

L’essere umano, una volta consapevole della propria incompletezza, inizia il suo

cammino verso l’essere-di-più. In questo movimento di ricerca, per Freire, la libertà,

lungi dall’essere un’idea confinata nella sfera mitica, rappresenta piuttosto la condizione

concreta e indispensabile affinché si realizzi una reale emancipazione. La situazione di

oppressione, deve essere quindi analizzata criticamente ed è necessario che ne vengano

rimosse le cause, in modo che possa essere superata e trasformata, creando le condizioni

necessarie affinché gli oppressi, una volta liberati, siano strutturalmente in grado di

essere-di-più. Perché avvenga una reale liberazione, non è sufficiente però rendersi

75 Guidolin E., Bello R., Paulo Freire educazione come liberazione, op. cit., pp. 92-93.

46

conto di essere limitati da una situazione di oppressione. La situazione-limite può essere

superata solo quando, il riconoscersi oppressi, porta ad una prassi liberatrice, che non

termini con la lotta per uscire dall’oppressione, ma che diventi un “processo permanente

di liberazione”, nella prospettiva di una pedagogia critica ed umanizzante:

“La pedagogia dell’oppresso, come pedagogia umanistica e liberatrice, avrà due momenti

distinti. Il primo, in cui gli oppressi scoprono il mondo dell’oppressione e si impegnano nella

prassi a trasformarlo; il secondo, in cui, trasformata la realtà oppressiva, questa pedagogia

non è più dell’oppresso e diventa pedagogia degli uomini che sono in processo di

permanente liberazione.”76

Una “Pedagogia umanistica”, che lo stesso Freire, dopo una rilettura critica del proprio

lavoro di una vita, chiamerà “Pedagogia della Speranza”, come segno di apertura al

sogno, all’utopia, a quello che egli ha definito come l’inedito possibile. Prima di

giungere a questo livello serve però prendere in considerazione alcuni passaggi

fondamentali, riguardo alla teoria e alla prassi metodologica di Paulo Freire. In primo

luogo, sebbene capiti spesso di sentirne parlare, è utile evidenziare che, in realtà, non

esiste un “metodo Paulo Freire”. La sua, come già detto in precedenza, è piuttosto una

filosofia dell’educazione, che non ha l’obiettivo di insegnare a leggere e scrivere, ma

che vede nell’alfabetizzazione un mezzo per leggere il mondo e, soprattutto, per andare

a modificarlo nei suoi meccanismi più distorti, nella convinzione che la lettura del

mondo sia un atto che precede la lettura della parola. Si può comunque parlare di

“metodo” nel momento in cui abbiamo chiaro che esso non rappresenta il centro del

lavoro di Paulo Freire. Il “metodo” non è, giusto per chiarire, lo strumento magico per

alfabetizzare l’intero pianeta, come non è neppure l’alfabetizzazione globale, l’obiettivo

finale di Freire. Fatta questa premessa e senza addentrarsi troppo nei dettagli, visto che

l’intento è puramente espositivo e più avanti ne sarà fatto anche un esempio pratico

applicato ai nostri giorni, il “metodo” utilizzato da Freire negli anni sessanta (nello

specifico contesto del nord-est brasiliano e successivamente in Cile, con i campesinos)

prevedeva cinque fasi distinte così riassumibili, in modo schematico:

1. indagine sull'universo lessicale dei gruppi con cui si deve lavorare, attraverso interviste

semistrutturate agli abitanti della comunità e del luogo in cui si verifica l'azione educativa;

2. scelta delle «parole generatrici» - ossia dei termini più frequentemente usati nel

linguaggio popolare locale, che evidenziano speranze, ansie, frustrazioni, propositi futuri

ecc. - attraverso un triplice criterio che comprende: a) ricchezza fonetica della parola, b)

grado di difficoltà fonetica della parola, c) contenuto pragmatico della parola;

76 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 40.

47

3. elaborazione dei «quadri-situazione», ossia di immagini – sotto forma di disegno,

diapositiva o altro supporto visivo – che rappresentino situazioni che hanno a che fare

direttamente con la vita quotidiana della comunità locale. Le situazioni «codificate» nel

quadro-situazione devono essere via via, attraverso il dibattito collettivo, «decodificate»

attraverso il disvelamento del loro significato reale;

4. elaborazione di schede che aiutano i coordinatori del dibattito all'interno del Circolo di

cultura nella selezione delle parole generatrici;

5. compilazione delle schede attraverso la decomposizione delle famiglie di fonemi di cui

constano le parole generatrici.77

Punti che sono riassumibili nella ricerca e nell'elaborazione dell’inventario lessicale (o

universo lessicale) delle persone incontrate e nel successivo lavoro di codifica e

decodifica, che restituirà significati nuovi alle parole e da cui saranno individuati i temi

generatori della comunità, verso cui orientare il lavoro di analisi e di trasformazione

della realtà. I temi generatori sono definiti, da Guidolin e Bello, come quei temi che

“contengono in sé la possibilità di moltiplicarsi in altrettanti temi che, a loro volta,

provocano nuovi compiti che devono essere compiuti”.78

Essi sono dei temi strutturali,

che riguardano cioè la persona o la società. Ne consegue che, affinché la situazione-

limite (o situazione problema) possa essere risolta, è sempre necessario cambiare un

aspetto strutturale, inerente alla persona o alla società. I temi generatori sono definiti da

coppie di parole (ad esempio, Solitudine vs. Relazione) che non sono l’opposto l’una

dell’altra, ma che sono tuttavia in forte collisione tra di loro. Infine, i temi generatori

sono “epocali”, riguardano cioè situazioni-limite inserite nella storia e questa

caratteristica fa sì che ogni epoca abbia dei temi generatori propri (Freire visse

nell’epoca di Oppressi vs. Oppressori, una coppia di temi generatori di oggi potrebbe

essere, ad esempio, Globale vs. Locale).

In linea generale si può capire, ora, come l’aspetto dell’alfabetizzazione sia funzionale

ad un processo pedagogico molto più complesso e soprattutto molto più profondo, che

prevede tre tappe fondamentali, di cui l’alfabetizzazione rappresenta solo la prima, la

coscientizzazione la seconda e la liberazione la terza. Dal punto di vista metodologico,

la prassi utilizzata da Freire nei circoli di cultura, segue i passaggi tradizionali della

ricerca-azione:

1. identificazione dei problemi da risolvere, dei fattori causali esistenti, delle limitazioni

ambientali presenti e delle professionalità di cui ci si può avvalere;

2. formulazione delle ipotesi di cambiamento e dei piani di implementazione;

3. applicazione delle ipotesi nei contesti-obiettivo del piano formulato;

4. valutazione dei cambiamenti intervenuti e implementazione dei metodi applicati;

77 Freire P., L’educazione come pratica della libertà, Mondadori, Milano 1977, pp. 138-142. 78 Guidolin E., Bello R., Paulo Freire educazione come liberazione, op. cit., p. 100.

48

5. approfondimento, istituzionalizzazione e diffusione capillare delle applicazioni con

valutazione positiva.79

In sostanza, il ruolo dell’educatore, consiste nell’elaborare l’inventario lessicale, in

collaborazione con la propria equipe di lavoro, non per farne una raccolta di “parole

generatrici”, ma per restituirlo come problema alla comunità. Una volta avvenuta

l’alfabetizzazione, la ricerca cercherà di addentrarsi al cuore del problema, indagandone

i temi generatori, con l’obiettivo di trovare insieme una risposta alle sfide strutturali che

essi pongono. L’azione educativa diviene in questo modo un’azione culturale.

Considerazioni

È ora chiaro come l’educazione liberatrice abbia il compito di mettere, al centro del

proprio progetto, l’essere umano, nella sua inedita possibilità di essere-di-più, così che

egli possa essere soggetto del proprio pensare e non solo il destinatario finale di un

discorso, costruito per lui da altri. In questo senso, uno degli atteggiamenti che Freire

predilige, parlando di chi è coinvolto nella pratica educativa, è la capacità di mantenere

vivo il gusto della ribellione, al fine di superare i propri condizionamenti, con passione,

coraggio e tenacia. Il pensiero critico, per sostenersi, ha inoltre bisogno della curiosità.

Compito dell’educazione liberatrice è quello di far sì che questa, maturando, passi dalla

fase ingenua a quella critica, caratterizzandosi in seguito come una vera e propria

curiosità epistemologica, capace di indagare e problematizzare, alla ricerca delle ragioni

profonde e delle risposte possibili. Solo attraverso una pedagogia critica può avvenire

questa transizione, dall’ingenuità alla consapevolezza, dalla rassegnazione all’impegno,

dal determinismo alla Storia. Come evidenzia bene il prof. Bartolomeo Bellanova,

docente di Pedagogia Sociale presso l’Università di Bologna, il percorso della

pedagogia freiriana è quello di un’educazione problematizzante, che accompagna le

persone alla riscoperta della propria autenticità, liberandole:

“L'originalità della prospettiva freireana consiste nel fatto che l'educazione è il mezzo della

coscientizzazione e dell'umanizzazione. Coscientizzarsi: significa chiarire le incoerenze,

andare alla radice di qualsiasi violenza, anche politica; significa problematizzare i bisogni

per risolverli; significa elaborare un progetto e costruire l'alternativa alla situazione

disumanizzante per renderla umanizzante; significa partecipare individualmente e

collettivamente alla propria formazione; significa realizzare l'utopia quale spinta ad andare al

79 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit., pp.111-112.

49

di là del dato storico acquisito e raggiungere il luogo che c'è: la persona nella sua autenticità

vera; significa aprire quel cammino nuovo verso la pace e la speranza.”80

L’Umanità liberata, riscoprendo il suo essere-di-più, ritrova anche il senso profondo del

suo essere-nel-Mondo. La coscienza della propria incompiutezza è la porta che apre il

cammino alle possibilità dell’educazione. Il riscoprirsi incompiuti rende infatti possibile

l’essere educati, dando alla persona l’occasione di aprirsi alla vita, dandole significato,

profondità e pienezza. Come dice bene Freire:

“[...] per noi donne e uomini, stare nel mondo significa necessariamente stare con il mondo e

con gli altri. Non è possibile stare nel mondo senza fare storia, senza essere da essa plasmati,

senza fare cultura, senza “trattare” la propria presenza nel mondo, senza sognare, senza

cantare, senza fare musica, senza dipingere, senza prendersi cura della terra, delle acque,

senza usare le mani, senza scolpire, senza fare filosofia, senza punti di vista sul mondo,

senza fare scienza, o teologia, senza timore davanti al mistero, senza imparare, senza

insegnare, senza idee di formazione, senza fare politica. L'educazione come processo si

fonda sull'incompiutezza dell'essere che si riconosce come tale. Donne e uomini diventano

educabili nella misura in cui si riconoscono incompiuti. Non è stata l'educazione a rendere

educabili donne e uomini, ma è stata la coscienza della loro incompiutezza a generare la loro

educabilità.”81

L’Umanità che si è liberata, grazie a un percorso di educazione problematizzante, ha

bisogno del confronto con l’altro, nessuno, infatti, secondo Freire, si libera da solo.

Questo comporta che l’essere-di-più non può interrompere il proprio percorso di

liberazione in se stesso, ma deve proseguirlo, aprendo spazi di condivisione e di crescita

con il resto dell’umanità, diventando non solo un essere-di-più, ma anche un essere-di-

più verso l’altro.

80 Bellanova B., Introduzione ai lavori. Le ragioni del II International Forum Paulo Freire, in Telleri F. (a cura di), Il

metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, op. cit., p. XXXVII. 81 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 47.

50

I.2.3 L’Umanità condivisa. Essere di più verso l’altro.

“Se gli uomini trasformano il mondo dandogli un nome,

attraverso la parola, il dialogo si impone come cammino

per cui gli uomini acquistano significato in quanto uomini.

Perciò il dialogo è un'esigenza esistenziale. […]

Non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo

per il mondo e per gli uomini.

Non è possibile dare un nome al mondo,

in un gesto di creazione e ricreazione,

se non è l'amore a provocarlo.”

(Paulo Freire) 82

Il dialogo come luogo dell’incontro

Il dialogo assume un ruolo centrale nella ricerca di un incontro autentico con l’altro.

Lontano dall’idea di essere un semplice metodo per condurre un discorso, il dialogo,

così come inteso da Freire, genera piuttosto una relazione epistemologica, in cui il

conoscere diventa un accogliere senza pregiudizi chi abbiamo di fronte e, con lui, il

mondo che egli porta con sé. Si tratta di un vero e proprio rapporto d’amore, in cui la

parola data dall’uno, s’intreccia con quella ricevuta dall’altro, diventando un qualcosa di

assolutamente nuovo per entrambi, proprio perché frutto di una condivisione profonda.

Nella pedagogia freiriana, questo concetto è ben definito dalla famosa definizione, dello

stesso Freire, per cui:

“[…] l'educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel

dialogo con l'educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa. […] A questo

punto nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione,

attraverso la mediazione del mondo.”83

Nell’azione dialogica esiste quindi un dualismo per cui, l’educatore, da una parte si

pone di fronte all’oggetto di conoscenza indagandolo, dall’altra condivide quanto

scoperto con gli educandi che, a loro volta, hanno la possibilità di ampliarne il

significato, restituendo all’educatore stesso la propria lettura del mondo. Se quindi

l’educazione bancaria ha il fine di mascherare la realtà seppellendola di miti e di dati

preconfezionati, l’educazione problematizzante è invece impegnata nella liberazione e

nella de-mitizzazione, utilizzando il dialogo come spazio di confronto critico, che

stimoli la creatività e il realizzarsi di quella prassi autentica dell’essere umano, che è

poi la sintesi tra la riflessione profonda sulla situazione-limite e l’azione concreta volta

82 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 79. 83 Idem, p. 69.

51

ad affrontarla. In queste visioni contrapposte, mentre l’azione anti-dialogica ha come

fine ultimo quello di conquistare l’altro, trasformandolo in una cosa, nell’azione

dialogica le persone, incontrandosi, hanno la possibilità di divenire protagoniste del

discorso, che si fa e che si ri-fa, in un processo di trasformazione del mondo che è

realizzabile solo se fatto insieme, l’uno con l’altro, ognuno con la propria unicità.

L’esigenza radicale, perché ciò avvenga, è che le persone si incontrino come uomini e

come donne, non come oggetti. L’essere-di-meno, infatti, è una prospettiva che non

riguarda solo l’oppresso reso oggetto, ma anche l’oppressore che, impedendo all’altro di

essere-di-più, rinuncia ad una parte fondamentale di sé. In definitiva, la sete di avere-di-

più, porta l’oppressore stesso ad essere-di-meno. Per scongiurare che ciò avvenga,

Freire pensa al dialogo come al pilastro di una pratica educativa autentica, fondato sul

rispetto, sulla fiducia e sull’umiltà:

“Il dialogo ha senso proprio perché i soggetti dialogici non solo conservano la propria identità, ma la

difendono e così possono crescere l’uno con l’altro. Il dialogo, per se stesso, non livella, non riduce l’uno

all’altro. Non è un favore che uno fa all’altro. Comporta, invece, un rispetto profondo dei soggetti

coinvolti, che però l’autoritarismo spezza o non permette che si installi. Così anche la sregolatezza, in

modo diverso ma allo stesso modo nefasto. Non c’è dialogo nello spontaneismo come nell’autoritarismo

dell’insegnante.”84

L’azione dialogica si trasforma quindi in un atto di speranza, in cui ognuno,

nell’incontro con l’altro, è alla costante ricerca di essere pienamente se stesso. In

contrapposizione ad essa c’è l’azione anti-dialogica, in cui vige, invece, la sola

rassegnazione.

Teoria dell’Azione anti-dialogica: La conquista

Uno degli obiettivi fondamentali dell’azione anti-dialogica è la “reificazione”

(objectification)85

dell’essere umano, il renderlo cioè “cosa”, “oggetto”, privandolo

della propria umanità e, di conseguenza, della possibilità di oggettivare a sua volta il

mondo. Si tratta di un processo di conquista che lo stesso Freire, spiega molto bene

nella Pedagogia degli oppressi:

84 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 139. 85 Quella che Kasser (2002) ha etichettato come la «reificazione dell'altro» (objectification), cioè la tendenza a

considerare gli altri come oggetti, si riferisce alla bassa generosità, empatia, capacità cooperativa, genuinità (non

strumentalità) e all'elevato cinismo e sfiducia che gli individui con questa tendenza mettono nei loro rapporti. Bartolini S., Manifesto per la felicità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, pp. 106-107.

52

“[…] gli oppressori si sforzano dì uccidere negli uomini la loro condizione di “esseri che

oggettivano il mondo”. Dal momento che non possono riuscirci in termini totali, devono

allora mitizzare il mondo. Quindi gli oppressori mettono in moto una serie di risorse per

mostrare alle masse conquistate o oppresse un falso mondo. Un mondo di inganni che,

alienandole sempre più, le mantenga passive. Nell'azione di conquista quindi, non è possibile

presentare il mondo come problema, ma piuttosto come un dato, qualcosa di statico a cui gli

uomini devono adattarsi.”86

Il “falso mondo” viene propinato al popolo tramite comunicati e miti, che racchiudono

una lettura del mondo precostituita, priva di implicazioni problematiche, in quanto la

situazione viene presentata come un dato di fatto, volutamente immutabile. Chi

conquista ha tutto l’interesse a mantenere lo status-quo, utilizzando i mezzi di

comunicazione di massa per poter depositare contenuti alienanti, che sono ben lontani

dal rappresentare la verità: la necessità di guerre preventive per esportare la

Democrazia, la minaccia dei migranti sopravvissuti al Mediterraneo che vengono a

rubarci il lavoro, l’indispensabilità di alcuni prodotti affinché la nostra vita sia migliore,

il mito della proprietà privata e della competizione economica come uniche strade per lo

sviluppo umano, rappresentano solo alcuni dei miti che vengono oggi instillati nel

genere umano. I mezzi di comunicazione, riempendosi la bocca di “comunicati”,

rinunciano così alla ragione profonda del loro ruolo, abdicando alla loro funzione in

favore di un messaggio che non ha bisogno di essere indagato, poiché presuppone di

avere in sé tutte le verità. In definitiva, il processo di conquista punta a rendere vera la

menzogna, così che l’oppresso non senta il bisogno di andare oltre ad una verità che

verrà prontamente ricostruita, appositamente per lui, dal sistema di potere costituito.

Teoria dell’Azione dialogica: La collaborazione

In contrapposizione alla conquista, la teoria dell’azione dialogica propone la

collaborazione.

“Attraverso l'unione di ciascun individuo, vi è una collaborazione democratica finalizzata

alla costruzione e la trasformazione del mondo. In questo movimento di collaborazione e

partecipazione, il dialogo e la comunicazione diventano gli strumenti del "che-fare" e della

demistificazione della realtà.”87

Mentre l’azione anti-dialogica della conquista prevede la reificazione dell’essere

umano, trasformato in oggetto, nell’azione dialogica della collaborazione, l’io e il tu

86 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 136. 87 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 39-40.

53

s’incontrano autenticamente nel dialogo, per dare un nome al mondo e per iniziare a

trasformarlo insieme. Un processo rivoluzionario, che abbia alle propria fondamenta il

valore della collaborazione, non può puntare alla conquista delle masse popolari, ma

deve ambire alla loro adesione spontanea. In questa prospettiva di condivisione, non

esiste più un sistema che tenta di mitizzare il mondo, ma una comunione di persone che,

insieme, prova a disvelarlo, problematizzandolo. Il dialogo diviene così il luogo

privilegiato dell’incontro, in cui nascono e si rafforzano quei rapporti di fiducia che

rappresentano, non tanto il dato di partenza, ma piuttosto il risultato del cammino

intrapreso insieme. È questa comunione a provocare la collaborazione.

Teoria dell’Azione anti-dialogica: Dividere per dominare

Nella teoria anti-dialogica del dividere per dominare, Freire evidenzia come sia

funzionale, per gli oppressori, creare più divisioni possibili tra gli oppressi, così che,

una volta frammentato il potere dell’opposizione, divenga molto più difficile, per le

singole parti, riunirsi attorno ad un obiettivo comune contro il sistema oppressivo.

Questa strategia contribuisce ad evitare che delle piccole realtà, ognuna con la propria

ridotta quota di potere, possano unirsi, formando una nuova entità unica più rilevante e

pericolosa, che possa mettere in discussione il potere di chi esercita l’oppressione:

“Gli oppressori tendono a frammentare l'unità degli oppressi, isolandoli, creando o

amplificando le divisioni fra loro, attraverso differenti modalità di azione che tendono ad

aumentare quel dualismo oppresso/oppressore che portano dentro. Non c'è oppressione più

grande di quella che un oppresso, divenuto per caso oppressore, riversa su un altro oppresso.

L'aspirazione ad essere oppressori è il processo di alienazione più frequente.”88

Alimentare la divisione delle minoranze diviene una condizione imprescindibile, per chi

vuole mantenere la continuità del proprio dominio. Il processo di divisione si

accompagna spesso a quello di alienazione, in cui concetti come organizzazione,

opposizione o lotta vengono additati come pericolosi e probabilmente lo sono, ma solo

per chi esercita il proprio potere in modo iniquo. È infatti indispensabile che l’azione

liberatrice parta da una contestazione critica del potere ingiusto, che punti ad una de-

mitizzazione e ad un cambiamento etico della società, ridisegnandone gli equilibri e i

valori. È solo nella trasformazione del mondo che la realizzazione di ogni singolo uomo

e donna può acquisire un significato pieno.

88 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 39-40.

54

Teoria dell’Azione dialogica: Unire per liberare

Secondo Freire, il processo di liberazione non può essere un fenomeno individuale:

nessuno è in grado né di educarsi, né di liberarsi da solo. Affinché avvenga un reale

cambiamento, in risposta alle sfide che le situazioni limite presentano all’essere umano,

è indispensabile che si attivi un livello di comunione, in cui i singoli siano in grado di

unirsi in un percorso di liberazione comune:

“La liberazione dall'oppressione diviene un fattore di comunione, per nulla individuale. Di per sé l'io

non si riconosce come essere se non in relazione agli altri; il cambiamento è possibile attraverso la

condivisione di consapevolezza del vivere una stessa situazione problematica.”89

L’enorme differenza tra un sistema oppressivo e una leadership rivoluzionaria sta

proprio in questo passaggio: nel primo vi è il tentativo di dividere le masse popolari, in

modo che non radunino le proprie forze per sovvertire l’ordine stabilito, nella seconda,

al contrario, l’obiettivo è proprio quello di riunirle in una comunione d’intenti, una volta

coscientizzate riguardo alla propria condizione di oppressione. Perché avvenga però una

reale liberazione, è indispensabile che la parola della leadership rivoluzionaria sia una

parola autentica, diversa da quella dei comunicati o degli slogan depositari, ma che sia

invece intrisa di quella prassi che le consenta di trasformare il mondo. Solo così il

dialogo è in grado di avviare un’azione culturale rispettosa delle peculiarità di ognuno.

L’unità nella diversità è l’unica risposta possibile a chi cerca di dividere per dominare.

89 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, Aracne editore, Roma 2009, pp. 39-40

55

I.2.4 L’Umanità responsabile. Essere di più nel Mondo.

“L’autorità coerentemente democratica

è convinta che non vi è autentica disciplina nella stasi,

nel silenzio di chi viene messo a tacere,

ma nel subbuglio degli inquieti,

nel dubbio che istiga,

nella speranza che risveglia.”

(Paulo Freire) 90

La parola autentica e la prassi liberatrice

Chi pensa autenticamente può essere molto pericoloso per l’oppressore, per questo

motivo la maggior parte degli sforzi di chi opprime è orientata a trasformare la

mentalità degli oppressi, partendo dal controllo del contesto culturale in cui essi vivono.

Il livello di manipolazione che ne consegue può radicarsi in un modo talmente

pervasivo, che l’oppresso si ritrova ad essere “abitato” dall’oppressore, innescando

un’inconsapevole connivenza, che lo porterà ad essere prigioniero di sé stesso, o meglio

ancora, dell’oppressore che è ospitato in lui. Solo quando questo meccanismo viene

disvelato, attraverso una prassi liberatrice, è possibile intraprendere quel cammino che

può finalmente portare l’essere umano, liberato, ad essere-di-più. Non si tratta di una

scoperta fatta a livello puramente intellettuale, ma avviene nell’incontro con l’altro, con

il contrario di sé, in un processo che riguarda l’essere umano nella sua pienezza, nella

sua corporeità, nei suoi dubbi, nelle sue emozioni, nei suoi sogni. Quanto più ci si dà

modo di incontrarsi, anche con chi è molto diverso da noi, senza timori né pregiudizi,

tanto più si crea l’opportunità preziosa di costruire una propria identità, che non abbia

paura di unirsi in comunione con l’altro, nella differenza. Allo stesso tempo, questo

dialogo, affinché possa portare ad una reale trasformazione del mondo, non può

esaurirsi nell’esclusivo rapporto tra due persone, ma deve nutrirsi di una parola

autentica, capace di aprirsi agli altri, una parola in grado di unire in sé azione e

riflessione, una parola che diventi prassi, come direbbe Freire. Solo una prassi

liberatrice può, infatti, dare un nome al mondo, problematizzandolo e rendendo così

storicamente possibile il superamento delle situazioni limite:

“L'esistenza, proprio perché è umana, non può essere muta, silenziosa, ma nemmeno può

nutrirsi di parole false; solo di parole vere, con cui gli uomini trasformano il mondo. Esistere

umanamente è dare un nome al mondo, è modificarlo. Il mondo denominato, a sua volta,

ritorna in forma di problema ai soggetti che gli danno un nome, ed esige da loro una nuova

denominazione. Non è nel silenzio che gli uomini si fanno, ma nella parola, nel lavoro,

90 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 74.

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nell’azione-riflessione. Se il parlare autenticamente, che è lavoro, che è prassi, significa

trasformare il mondo, parlare non è privilegio di alcuni uomini, ma diritto di tutti gli uomini.

Precisamente per questo, nessuno può parlare veramente da solo, o per gli altri, in un atto di

prescrizione, per cui ruba la parola ai più. Il dialogo è questo incontro di uomini, attraverso

la mediazione del mondo, per dargli un nome, e quindi non si esaurisce nel rapporto io/tu.”91

Ritrovare la parola, ma soprattutto la parola autentica, significa quindi, non solo uscire

dalla cultura del silenzio, ma darsi la concreta possibilità, come esseri umani, di

trasformare il mondo grazie ad una prassi liberatrice, divenendo in questo modo esseri

storico-sociali, in grado di agire in modo responsabile nella Storia. Mentre la parola

priva d’azione corre il rischio di scadere in una sterile verbosità e l’azione senza

riflessione di diventare puro attivismo fine a se stesso, l’unione di azione e riflessione fa

della prassi l’unica sintesi possibile, certamente la più efficace per il superamento delle

situazioni limite. Essere-di-più nel mondo significa prendersi carico responsabilmente di

questo compito, nessuno, infatti, è mai veramente libero, se il prezzo della propria

libertà viene pagato da altri.

Teoria dell’Azione anti-dialogica: La manipolazione

Freire inquadra la manipolazione come una manovra tipica dell’azione anti-dialogica.

La descrizione che ne fa Giorgio Pezza nel suo libro su Freire evidenzia, inoltre, quanto

possa essere tristemente attuale il problema dell’utilizzo della comunicazione e

dell’istruzione, al fine della conservazione di un potere oppressivo che intenda

controllare l’opinione pubblica a suo favore:

“Attraverso la manipolazione, chi domina tenta di assoggettare i dominati, facendolo

attraverso la presentazione di una serie di miti e di slogan, che immagazzinati e fatti propri

dai dominati, chiudono in un universo mistificato l'uomo e la sua coscienza. In questo modo

chi domina ha la possibilità incontrastata di costruire e rafforzare la propria leadership.”92

Il deposito incondizionato di miti e di slogan nella testa degli oppressi rende impossibile

una lettura obiettiva della realtà, che diventa così una realtà data, immodificabile ed

immutabile. Ogni opinione, ogni pensiero, ogni presa di posizione, deve fare i conti con

lo scenario che è stato predisposto da chi detiene il potere, da chi decide cosa è giusto

pensare oppure no. La manipolazione è fatta anche di menzogne, di promesse

irrealizzabili o di ideali proposti in modo subdolo che, in realtà, invece di avvicinare,

allontanano l’essere umano dalla possibilità di essere-di-più. Un esempio chiaro, che

91 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 78. 92 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 39-40.

57

riporta Freire in merito, è il modello borghese, quando viene proposto alle masse

popolari come possibilità democratica di ascesa sociale ma, in primo luogo, come

strumento privilegiato per il raggiungimento di un successo esclusivamente personale. Il

desiderio di arricchirsi, di competere per prevalere, di riscattare la propria condizione a

scapito di altri, rappresenta l’altra faccia del mito che, in realtà, ha come vero obiettivo

quello di spingere l’uomo ad avere-di-più per essere-di-meno. Gli interessi personali dei

singoli dividono così le masse popolari, riducendo le probabilità di una loro

organizzazione, in vista di una trasformazione del sistema sociale in una forma che sia

realmente equa e democratica.

Teoria dell’Azione dialogica: L'organizzazione

In opposizione al concetto di manipolazione, Freire propone quello di organizzazione,

nell’ambito di un’azione dialogica che coinvolga in prima persona le masse popolari

oppresse. Affinché ciò sia possibile, è necessaria una leadership rivoluzionaria capace

di problematizzare, insieme agli oppressi, le contraddizioni del sistema in cui essi sono

inseriti, al fine di un loro coinvolgimento e di una presa di posizione critica riguardo

alla propria condizione:

“Attraverso un'equilibrata organizzazione delle forze da parte di chi guida la liberazione

degli oppressi, è possibile agire culturalmente. Si delinea la figura del "leader

rivoluzionario", il quale, cosciente del contesto storico all'interno del quale è inserito, deve

saper dialogare con le masse, in modo da stabilire rapporti per costruire con esse il

cambiamento.”93

Il primo passaggio per il cambiamento è quindi di tipo culturale: solo un processo di

coscientizzazione comune può aiutare le masse popolari a leggere criticamente il

mondo, con l’obiettivo di scardinarne le contraddizioni. Il compito della leadership,

affinché non si cada nell’errore dei leader depositari, deve quindi essere quello di

cercare l’unità delle masse popolari, in vista di una loro liberazione e non di un’ulteriore

manipolazione, che le farebbe precipitare nella medesima situazione da cui

desideravano invece riscattarsi. La leadership rivoluzionaria, per essere credibile, deve

essere intrisa di prassi, deve essere coerente, audace, appassionata, umile ed avere, in

definitiva, come elemento portante e costitutivo, il valore della testimonianza:

“Tra gli elementi costitutivi della testimonianza, che non variano storicamente, c'è la

coerenza tra la parola e il gesto dì chi testimonia, l'audacia di colui che testimonia (che lo

93 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 39-40.

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porta ad affrontare l'esistenza come un rischio permanente), la radicalizzazione (mai la

settarizzazione) nella scelta fatta, che porta sempre più ad agire non solo colui che dà la

testimonianza, ma anche coloro che la ricevono. Il coraggio di amare, che, come abbiamo

già visto, non significa l'adattamento al mondo ingiusto, ma la trasformazione di questo

mondo attraverso la crescente liberazione degli uomini. La fede nelle masse popolari, dal

momento che la testimonianza si dà a loro.”94

L’organizzazione, come azione dialogica, ha bisogno quindi di una leadership che

abbia “il coraggio di amare”. In questo senso non si parla più di una strategia per la

spartizione del potere o di un metodo per giungere alla riconquista di diritti estorti

ingiustamente, ma di un processo altamente pedagogico, in cui la leadership

rivoluzionaria e il popolo sperimentano e costruiscono insieme il proprio cammino di

liberazione, attraverso la trasformazione del mondo.

Teoria dell’Azione anti-dialogica: L’invasione culturale

L’invasione culturale, come azione anti-dialogica condotta dall’oppressore, agisce a

livello sistemico, spogliando la cultura originale del popolo invaso di ogni diritto ad

esistere. Un nuovo sistema culturale viene quindi imposto con violenza dall’invasore,

una sopraffazione che a volte si nasconde dietro ad una “finta amorevolezza”, che ha

invece l’unico obiettivo di modificare il contesto culturale dell’altro a proprio favore:

“L'invasione culturale vede la penetrazione degli invasori all'interno di un contesto culturale

già codificato dagli invasi, e prevede la repressione della creatività e di espansione

intellettuale degli stessi invasi. L'invasione culturale è senza dubbio alienante, e seppur

realizzata con finta amorevolezza, risulta essere una forte violenza alla cultura invasa. Questa

perde la sua originalità, e si manifesta attraverso una relazione non reciproca in cui gli

invasori sono gli autori del processo culturale, mentre gli invasi subiscono le scelte dei loro

invasori, facendole proprie acriticamente.”95

L’invasione culturale si presenta in modo volutamente ambiguo, con l’ingannevole

volto di chi si propone di dare una mano, ma che dall’altra parte lavora affinché

l’oppresso sia privato della parola, delle proprie radici, delle proprie tradizioni, in

definitiva, della propria cultura. Dietro questo atteggiamento è nascosta, in modo

neanche troppo velato, la precisa volontà di dominare culturalmente ed economicamente

l’invaso. Così, da un lato l’invasione culturale è già a pieno titolo una dominazione,

dall’altro è invece una tattica di dominazione, in cui l’invaso viene manipolato e

successivamente conquistato. L’oppresso inizia a vedere il mondo con gli occhi

94 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 176. 95 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 39-40.

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dell’oppressore e, più l’invasione culturale arriva ad un livello profondo, tanto più chi è

invaso desidera con forza rassomigliare all’invasore. Affinché questa spirale di

prevaricazione si interrompa, è necessaria una pratica di coscientizzazione, che aiuti

l’invaso ad allontanarsi dall’invasore, in modo da oggettivare la situazione di

oppressione ed affrontarla criticamente. Questo rappresenta solo il primo passo verso

quella rivoluzione che auspica Freire e che lui stesso definisce come rivoluzione

culturale:

“Ciò esige dalla rivoluzione, una volta arrivata al potere, che, prolungando ciò che prima è

stata azione culturale dialogica, instauri la “rivoluzione culturale”. In questo modo il potere

rivoluzionario, coscientizzato e coscientizzatore non è solo un potere, ma un potere nuovo;

potere che non è solo il freno necessario a coloro che pretendono continuare a negare gli

uomini, ma anche un invito coraggioso a tutti coloro che vogliano partecipare alla

ricostruzione della società.”96

Qualsiasi rivoluzione, quindi, non può concludersi con la sola sconfitta dell’oppressore,

ma deve essere in grado, con tenacia e speranza, di rimettere insieme i pezzi di ciò che

sembrava perduto. In questo lavoro di recupero e di ricostruzione, la rivoluzione

culturale rappresenta il massimo punto di arrivo del processo di coscientizzazione,

spinto al suo livello più alto, per il coinvolgimento di tutti.

Teoria dell’Azione dialogica: La sintesi culturale

Ogni azione culturale ha il potere di incidere sulla struttura sociale, ora per mantenerla,

contribuendo alla logica conservatrice del potere dominante, ora per trasformarla,

attuando un cambiamento sociale in un’ottica di liberazione. Gli attori di questo

cambiamento sono coloro che si inseriscono nella storia con l’intento di ricrearla,

analizzando criticamente la realtà e intervenendo su di essa:

“Gli attori del cambiamento sociale sono le persone che costituiscono quello specifico

tessuto sociale, inserendosi all'interno del processo storico, facendo della realtà una loro

analisi critica. Tale analisi, propugnata e stimolata da quella che Freire chiama "leadership

rivoluzionaria", anticipa un'azione che egli stesso definisce "culturale" poiché si presenta in

modalità culturali specifiche del "mondo" entro cui si genera, e di rimando, crea cultura.”97

Al contrario di quanto avviene con l’azione anti-dialogica dell’invasione culturale,

frutto dei processi di conquista, divisione e manipolazione, nell’azione dialogica

96 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 156. 97 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 39-40.

60

proposta da Freire come sintesi culturale, gli attori non assumono le prerogative di chi

invade, anzi, anche se provenienti da altri mondi, incontrano il popolo per conoscerlo,

per imparare, per condividere e non per depositarvi la propria cultura. Gli attori del

cambiamento sociale, inserendosi criticamente nella realtà del popolo, non vogliono

negare le differenze, ma anzi partire da esse per arrivare ad una sintesi culturale, che

possa superare la situazione limite di una cultura imposta da altri. Essendo questa

sopraffazione culturale un dato storico e non una situazione ineluttabile, la risposta che

una leadership rivoluzionaria dovrebbe dare, non può prescindere dall’impegno

concreto di inserirsi nella Storia e di trasformarla. In questo senso la rivoluzione, deve

essere, in primo luogo, una rivoluzione culturale, che parta dalla ricerca dei temi

generatori, affinché ogni azione sia legata ai temi di fondo che riguardano e muovono il

popolo, nel solco della prassi freiriana, che unisce sempre tra di loro azione e

riflessione, nell’analisi critica e nella trasformazione del mondo. Questo movimento di

azione dialogica, che parte dal basso, evidenzia quanto sia importante inquadrare il

processo di coscientizzazione, non come un’elargizione fatta al popolo, ma come un

momento irrinunciabile di democrazia, affinché sia il popolo stesso, il reale protagonista

e fautore del proprio cambiamento. Inoltre, è interessante riportare quanto evidenziato

da Giuseppe Elia, docente di pedagogia all’Università degli studi di Bari e autore del

testo “Paulo Freire, una scelta per l’utopia”:

“[...] utopia e coscientizzazione sono strettamente legate: quanto più profonda sarà la

coscientizzazione, tanto più radicali saranno l'annuncio e la denuncia e tanto più profondo

sarà l'impegno volto alla trasformazione.”98

La profondità del processo di coscientizzazione è quindi prodromica di quelli che

saranno i risultati che si riusciranno ad ottenere: maggiore sarà la consapevolezza della

denuncia delle situazioni limite e maggiore sarà la determinazione nel dare loro una

risposta, così da passare da una società alienata ad una società che metta l’etica

universale dell’essere umano al centro di ogni sua azione. Freire indica così la strada

verso una società solidale, in cui ci sia il netto rifiuto verso qualsiasi forma di

discriminazione legata a pregiudizi di classe, razza o genere, che negherebbe

inevitabilmente l’idea stessa di Democrazia:

“Nelle mie relazioni con gli altri che non hanno necessariamente fatto le mie stesse scelte a

livello politico, etico, estetico, pedagogico, non posso comunque partire dall’idea che devo

“conquistarli”, non importa a che prezzo, né posso temere che pretendano di “conquistarmi”.

98 Elia G., Paulo Freire una scelta per l’utopia, op. cit., p. 73.

61

È nel rispetto delle nostre rispettive differenze, nella coerenza tra quel che faccio e quel che

dico, che mi incontro con loro. È nella mia disponibilità nei confronti della realtà che

costruisco la mia sicurezza, quella sicurezza indispensabile alla disponibilità stessa.”99

Una sicurezza che non si crea nel respingere l’altro, ma nell’accoglierlo nella differenza.

L’azione dialogica della sintesi culturale è così un invito ad aprirsi al mondo: ogni

essere umano, partendo dalla propria incompiutezza e spinto da un atteggiamento

curioso ed inquieto, può agire azioni culturali in grado di condurlo ad essere-di-più e,

allo stesso tempo, a cambiare il mondo, insieme a chi condivide con lui questo cammino

di liberazione. In un momento storico in cui sono ancora presenti molteplici forme di

disumanizzazione, è inoltre indispensabile rimarcare come l’essere-di-più non possa

ridursi al solo livello individuale, ma debba essere esteso necessariamente ad un essere-

di-più nel mondo, in cui si realizzi il sogno di un potere autenticamente democratico:

“Nel mio sogno c’entra lo Stato, ma non uno Stato arcaico. C’entra uno Stato democratico,

assolutamente democratico. Se lo Stato è democratico, esso è capace di attuare una gestione

che non ucciderà i suoi figli, anche se questi vorranno ridurne il potere. (Paulo Freire)” 100

Un concetto che viene ripreso anche da Donaldo Macedo, docente di Pedagogia

all’Università di Boston (Massachusetts), collaboratore e profondo conoscitore di Paulo

Freire:

“La forza di un progetto democratico radicale sta nel fatto che fornisce un riferimento etico

per impegnarsi in una critica della sua stessa autorità [...] bisogna lavorare in chiave

educativa non solo con le persone effettivamente oppresse, ma anche approfondire le

condizioni sociali, economiche e culturali che portano alla produzione di disuguaglianze così

tremende […]”101

Essere-di-più nel mondo significa quindi farsi carico di una grande responsabilità: non

basta, infatti, intraprendere percorsi di coscientizzazione che aiutino gli oppressi a

liberarsi, ma è anche indispensabile identificare ed estirpare ognuna di quelle cause che

conducono alla disumanizzazione della persona e dell’ambiente, coinvolgendo in questa

analisi critica del sistema anche chi non è oppresso o lo è solo in parte. È una strada

sicuramente in salita, ma è l’unico cammino possibile, se si ha a cuore la sopravvivenza

degli esseri umani sulla Terra.

99 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., pp. 106-107. 100 Passetti E., Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, op. cit., p. 96. 101 Freire P., Macedo D., Cultura, lingua, razza. Un dialogo, op. cit., pp. 40-41.

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I.2.5 L’Umanità in cammino. L’inedito possibile.

“Non esiste altro cammino

se non la pratica

di una pedagogia umanizzante”.

(Paulo Freire)102

Compiti della leadership rivoluzionaria

L’inèdito viable (tradotto in italiano come inedito possibile) rappresenta per Freire il

progetto realizzabile, ma non ancora realizzato, volto al superamento delle situazioni

limite che impediscono agli esseri umani di essere-di-più. È un progetto inedito, non

ancora percepito, che può però divenire possibile attraverso una prassi liberatrice, nel

quadro di una pedagogia umanizzante capace di tracciare un cammino, storicamente

realizzabile, di trasformazione del mondo. Freire sostiene che, affinché gli uomini e le

donne si affermino come esseri in grado di decidere criticamente del proprio futuro,

inserendosi nella Storia come protagonisti del cambiamento delle strutture di

oppressione in sistemi di partecipazione democratica, sia necessario fare riferimento ad

una teoria, che definisca l’orizzonte verso cui muoversi:

“[…] così come l'oppressore, per opprimere, ha bisogno di una teoria dell'azione oppressiva,

gli oppressi, per liberarsi, hanno egualmente bisogno di una teoria della loro azione.”103

L’elaborazione di una teoria volta a provocare una rivoluzione culturale deve partire, in

primo luogo, dalla fede nel popolo, nel credere, cioè, che le persone, non solo sono in

grado di avviare un proprio cammino di liberazione, ma che è insito in ogni animo

umano il bisogno profondo di condividere il grande sogno di un mondo in cui sia meno

difficile amare. È l’atteggiamento, con cui viene portata avanti una rivoluzione, a fare la

differenza, ancor prima delle azioni atte a condurla. È in questo senso che la pedagogia

di Paulo Freire assume una valenza politica, schierata, incapace di mostrarsi imparziale

di fronte alle contraddizioni che sviliscono la natura dell’essere umano e che negano il

primato dell’amore nei confronti del profitto, dell’interesse e del potere fine a se stesso.

Privarsi della possibilità di lottare con il popolo, considerandolo “ignorante” oppure

“inadeguato” ad essere coinvolto in una rivoluzione, significherebbe perdere la battaglia

in partenza o, peggio ancora, portarla avanti con l’atteggiamento populista di chi si

presenta al popolo come l’unico leader da seguire, come colui che possiede la verità e

102 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 55. 103 Idem, p. 184.

63

che la dispensa agli altri, con la stessa logica, paradossalmente, della cultura depositaria

che si vorrebbe invece combattere. Per questo motivo, non può esistere una reale prassi

liberatrice senza che vi sia un dialogo critico con gli oppressi, che porti ad azioni

culturali generatrici di successive azioni politiche, condivise con loro, in un cammino di

reale co-intenzionalità. È in questo percorso di condivisione che la rivoluzione assume

una caratterizzazione eminentemente pedagogica, in cui la chiave problematizzante

apre le porte al cambiamento, alla realizzazione di quell’inedito possibile, che sposta il

sogno dalla sfera dell’utopia a quella della Storia:

“L'educazione problematizzante, che non è un cristallizzarsi reazionario, è probabilità

rivoluzionaria dì futuro. Quindi è profetica e per questo capace di speranza. […] Profetismo

e speranza che risultano dal carattere utopico di tal forma di azione, intendendosi per utopia

l'unità indissolubile della denuncia con l'annuncio. Denuncia di una realtà disumanizzante e

annuncio di una realtà in cui gli uomini possano “essere di più”. Annuncio e denuncia non

sono però parole vuote, ma impegno storico.”104

La rivoluzione, così concepita, in quanto promotrice di libertà, diviene una rivoluzione

amorosa, capace di atti creatori, orientati alla piena umanizzazione dell’essere umano in

un essere-di-più. In questa cornice, la denuncia e l’annuncio rappresentano un atto di

coraggio, che è possibile solo grazie ad un amore che è impegno con gli uomini e con le

donne, coinvolgimento nella lotta, condivisione nelle sofferenze, sostegno reciproco

nella speranza. L’incidenza dell’azione rivoluzionaria non si esaurisce però nella

coscientizzazione degli oppressi, ma ha il suo obiettivo finale nel fare e ri-fare il mondo.

È la trasformazione della realtà, da oppressiva ad umanizzante, l’obiettivo finale:

“[...] essere veramente rivoluzionari vuol dire porsi concretamente al servizio delle classi

oppresse e non limitarsi a prendere atto dei loro bisogni. [...] se ci si rende conto veramente

di cosa comporta per tanti uomini l’”essere di meno”, non si può rimanere indifferenti al loro

destino facendo l'elemosina di vuote parole consolatrici: «io non posso vivere la mia pace

senza un impegno nei confronti dell'uomo, tale impegno non può esistere senza la loro

liberazione, e la loro liberazione esige la completa trasformazione delle strutture che li

disumanizzano»”. 105

Di fronte al grido degli oppressi di tutto il mondo, la risposta non può quindi limitarsi ad

una solidarietà sterile e distaccata. Quello che richiede Freire ad una rivoluzione

amorosa è di intraprendere cammini concreti di giustizia sociale, in cui vengano

spezzate le catene che legano, ancora oggi, troppe persone all’iniquo benessere e

all’insaziabile ingordigia di pochi privilegiati. Questo processo di liberazione interroga

104 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 73-74. 105 Elia G., Paulo Freire una scelta per l’utopia, op. cit., p. 78.

64

dialetticamente sia gli oppressi, alla ricerca delle migliori possibilità inedite di azione,

sia gli oppressori, impegnati, viceversa, nella strenua difesa dei propri privilegi e nel

mantenimento delle situazioni limite che rendono possibile l’oppressione stessa. In

questo panorama, a maggior ragione, il compito della leadership rivoluzionaria deve

essere quello di costruire un rapporto di fiducia e di co-intenzionalità con il popolo,

attraverso una lettura critica della realtà che sappia individuare le azioni possibili di

trasformazione. Si tratta di un lavoro complesso e faticoso, che richiede

necessariamente intelligenza tattica, lungimiranza politica e pazienza storica, al fine di

individuare cosa si può realmente fare nel momento presente, affinché si possa fare

domani ciò che non è possibile fare oggi. La leadership rivoluzionaria deve essere

consapevole che sarà possibile incidere sulla realtà, fare e ri-fare il mondo, dandogli un

nome e ricreandolo ogni giorno, solo se la liberazione avverrà attraverso un rapporto

dialogico con il popolo. Perché ciò accada, è necessario che il dialogo, più che un

metodo di incontro, costituisca, in modo imprescindibile, lo stile educativo, lo sfondo

pedagogico, in cui le persone si incontrino autenticamente per essere-di-più. Freire

stesso indica le caratteristiche che dovrebbe avere un rapporto dialogico realmente

liberante: l’umiltà, perché l’amore non è mai arrogante; una profonda fede negli uomini

e nelle donne, perché l’essere-di-più è un bisogno ontologico dell’essere umano e non

un traguardo per pochi; una salda speranza, perché non può esistere nessun dialogo

senza un sogno, senza un progetto da condividere e da costruire insieme; un serio

utilizzo del pensiero critico, in grado di problematizzare la realtà, indagando le risposte

possibili e le domande che ancora non sono state poste, alla ricerca di nuove strade e di

nuovi cammini di liberazione.

Utopia, Speranza ed Etica: verso l’inedito possibile

Come ricordano Rocco Pititto e Paolo Vittoria, nel loro contributo all’interno del testo

“Paulo Freire, Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo”, una

delle espressioni freiriane più celebri è: “O mundo nao è, o mundo està sendo” ovvero

“il mondo non è, il mondo sta essendo”.106

L’utilizzo di alcuni neologismi viene utile al

pedagogista brasiliano per definire concetti che il normale vocabolario difficilmente

riuscirebbe a spiegare. In questo caso l’intenzione è di definire la dinamicità della

106 Pititto R., Vittoria P., Il Circolo di studio:"Editando ação, inedito viàvel, futuritade", in Schettini B., Toriello F. (a cura di), Paulo Freire, Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, op. cit., p. 135.

65

Storia, che è in continua costruzione ed evoluzione, anche grazie all’intervento di tutti

quegli uomini e quelle donne che, nel bene e nel male, con la loro passione, le loro idee

e il loro lavoro intervengono ogni giorno, in un modo totalmente originale, a fare e a ri-

fare il mondo. Il mondo e la Storia non sono quindi né già scritti, né immutabili e la

consapevolezza che possano esistere dei cammini inediti, degli inediti possibili verso

cui indirizzare delle prassi di liberazione, rappresenta per gli esseri umani il primo

passo verso la ricerca del proprio essere-di-più. Se gli uomini e le donne possono

intervenire nella Storia, ciò significa, nella concezione freiriana, che anche l’utopia non

può essere racchiusa nell’orizzonte dell’irrealizzabile o dell’inattuabile. Anzi, è l’utopia

stessa, agli antipodi di qualsiasi logica determinista, a definire la direzione del cammino

dell’umanità, in un susseguirsi di sogni che non si esaurisce mai, dato che ogni volta che

un sogno viene realizzato, è già tempo che se ne generi un altro:

“L’utopia comporta sia la denuncia sia l’annuncio, ma la tensione tra di loro non si esaurisce

al momento della produzione del futuro, prima annunciato e poi diventato un nuovo presente.

Si instaura così una nuova esperienza di sogno, ma a condizione che la storia non si fermi,

non muoia, ma che continui.”107

Senza le dimensioni dell’utopia e del sogno, non è possibile comprendere la Storia

come possibilità, come futuro da scrivere insieme e, in questo senso, è indispensabile

che la dimensione della speranza sia ben presente e sostenga entrambe, portando la

convinzione e la forza nella lotta:

“La speranza fa parte della natura umana. Sarebbe una contraddizione se, incompiuto e

cosciente della sua incompiutezza, l'essere umano anzitutto non si inserisse o non si sentisse

disposto a partecipare a un movimento costante di ricerca e, in secondo luogo, se cercasse

senza speranza. La disperazione è la negazione della speranza.”108

Una Storia e un mondo senza speranza rappresentano una Storia e un mondo senza

futuro, senza possibilità di trasformazione, in un determinismo che mette l’umanità in

disparte, sul ciglio della disperazione. Solo la speranza di poter cambiare l’oppressione

in partecipazione e il potere oppressivo in struttura democratica, può dare forza alla

realizzazione storica del sogno di un’umanità migliore, in cui gli oppressori possano

comprendere che quelli che consideravano diritti inalienabili erano in realtà privilegi

costruiti sulle spalle di chi era privato di ogni diritto. Si tratta di un apprendimento

necessario agli oppressori, al fine di riscoprire il senso profondo della propria umanità,

107 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 113. 108 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., pp. 58-59.

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perché è solo riconoscendo l’immoralità dei propri soprusi che ne potrebbero cogliere il

peso. Così come sarebbe necessario l’apprendimento da parte degli oppressi che è

possibile ricostruire insieme un mondo differente, migliore, attraverso una lotta seria,

giusta, decisa, perseverante, che renda possibile nuovi modi di stare insieme, di

partecipare e di vivere, anche tra classi diverse, ma attraverso il dialogo e patti sociali

che mettano al centro di ogni decisione il valore della vita umana, come valore

imprescindibile di riferimento. Il cammino dell’umanità, in questa direzione, non può

però avvenire senza un’ulteriore dimensione, che si deve unire a quella dell’utopia e a

quella della speranza, ed è la dimensione etica. Non basta, infatti, creare percorsi di

coscientizzazione o parlare di prassi di liberazione, se ciò di cui si parla, o ciò che si fa,

è privo della forza di una testimonianza capace di comunicare il progetto di liberazione

impegnando la propria vita, nel confronto dialogico con gli altri, nel rispetto degli altri,

in comunione con gli altri. La testimonianza diviene così un atto che comunica, dando

forza ai sogni e alle parole, allargando le possibilità di azione anche a chi ha il coraggio

di raccoglierla, riconoscendone il valore etico. Ne descrive bene il senso lo stesso

Freire, parlando del suo essere insegnante, nel suo rapporto educativo con gli alunni:

“Così, per il fatto di essere una presenza, non posso essere una assenza ma un soggetto che

opera delle scelte. Devo dimostrare agli alunni la mia capacità di analizzare, di confrontare,

di valutare, di decidere, di fare delle scelte, di effettuare delle rotture. La mia capacità di

rendere giustizia, di non venir meno alla verità. E proprio per questo la mia testimonianza

deve essere etica.”109

Per Freire, testimoniare in modo etico, in ambito pedagogico, significa riconoscere che

l’educazione deve essere prima di tutto un’educazione politica. Questo non significa

mancare di rispetto agli educandi, anzi, è proprio nella chiarezza dell’educatore,

nell’affermazione della propria utopia, nella capacità di accogliere anche un discorso

opposto al proprio, nel confronto dialogico con l’altro, che l’incontro assume il valore di

un’opportunità educativa autentica e rispettosa dei soggetti coinvolti. Un’educazione

realmente liberatrice deve esser in grado di promuovere, nei confronti dell’educando, il

diritto alla parola e il diritto alla lotta per i propri sogni e le proprie idee, sempre in un

clima di rispetto reciproco, capace di accogliere le differenze e le tante sfumature che un

discorso, tra persone anche molto diverse, può avere. Promuovere il protagonismo

dell’educando, all’interno di un rapporto educativo, significa dargli la possibilità di

affrontare i tanti condizionamenti e le situazioni limite che gli impediscono di essere

109 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 78.

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pienamente se stesso. Il punto centrale da considerare non è tanto la presenza di una

struttura oppressiva o di condizionamenti che impediscono all’essere umano di essere-

di-più, quanto il fatto che esiste una possibilità inedita per cui questi possono essere

storicamente superati, come spiega bene lo stesso Freire:

“Ho affermato e riaffermato quanto mi rallegri il sapermi un essere condizionato, ma al

tempo stesso capace di superare quello stesso condizionamento. La grande forza su cui

costruire le fondamenta di una nuova ribellione, è l’etica universale dell’essere umano e non

quella del mercato, insensibile a ogni richiesta delle persone e aperta soltanto all'ingordigia

del profitto. È l'etica della solidarietà umana. Preferisco essere criticato come un idealista e

un sognatore incallito, per poter continuare, senza riluttanza, a scommettere sull’essere

umano, a battermi per delle norme di legge che lo difendano dagli assalti aggressivi e

ingiusti di quanti trasgrediscono l’etica stessa.”110

Gli esseri umani potranno proseguire il proprio cammino di liberazione, solo

riscoprendo il valore di una solidarietà vera, piena di speranza, capace di unire nella

diversità, ma soprattutto in grado di scardinare la moltitudine di strutture che sviliscono

tutti quegli uomini e quelle donne, resi schiavi di un destino scelto per loro da altri. Il

cammino è possibile, qualcuno già l’ha intrapreso, ma occorre farlo insieme, affinché

sia il cammino stesso a fare e a ri-fare un’umanità alla ricerca della propria strada.

Il ruolo dell’educazione

Carlos Díaz Marchant, presidente dell’Associazione degli Educatori dell’America

Latina e dei Caraibi (AELAC), ha evidenziato alcune caratteristiche peculiari che

possono aiutare ad inquadrare ciò che comunemente s’intende parlando di educazione

popolare: 1) è un processo che si sviluppa nella collettività, in cui il soggetto ha modo

di essere protagonista della propria educazione; 2) è critica, analitica, creativa e

partecipativa; 3) è un’educazione alternativa a quella borghese, tesa a lottare contro la

società capitalista; 4) prevede momenti di riflessione partecipativa del gruppo o della

comunità, per trovare le strade migliori al cambiamento sociale; 5) è un’educazione

politica, volta allo sviluppo di una coscienza critica popolare; 6) usa il termine popolare

rivolgendosi alle classi oppresse; 7) si inserisce in una strategia globale di azione

politica per la trasformazione radicale della società, in un movimento che prende il

nome di azione culturale, con l’obiettivo di costruire una società democratica di

giustizia e parità sociale; 8) è uno stimolo per gli educatori per riflettere sulla propria

posizione nei confronti del potere dominante, oltre a rappresentare un invito a mettersi a

110 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., pp. 102-103.

68

servizio delle classi popolari. 111

Non è possibile fare a meno di rilevare come questi

punti corrispondano ampiamente al pensiero di Paulo Freire, evidenziando alcuni tratti

fondanti di colui che, a tutt’oggi, è stato uno dei massimi esponenti mondiali

dell’educazione popolare. In particolare, è giusto notare come la natura politica e

schierata dell’educazione, in Paulo Freire, rappresenti sempre una scelta di campo

chiara in direzione degli oppressi, verso gli ultimi, gli straccioni del mondo, i dannati

della terra. Come evidenzia in maniera molto incisiva Peter Mayo, professore della

Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Malta:

“Perché con Freire non si può separare la pedagogia dalla politica. Ogni atto è un atto

politico. L'educazione è politica. Non c'è niente di neutrale nell'educazione e l'educatore

freiriano è, come direbbe Don Milani, un educatore schierato. Nel caso di Freire e Milani,

l'educatrice o l'educatore si schiera in favore degli oppressi, i "dannati della terra". Si schiera

per la giustizia sociale. Ma soprattutto l'educatore freiriano valorizza gli altri. Valorizza le

loro idee, le loro culture, la loro capacità di impegnarsi in un processo dialogico e collettivo

di apprendere e di insegnare.”112

Non è possibile scindere l’educazione dalla libertà. Senza libertà l’idea stessa di

educazione sarebbe priva di ogni valore. Per questo motivo, l’educazione popolare non

può che essere un’educazione problematizzante e liberatrice, in cui l’ideale della lotta

per la libertà è fondamentale, affinché gli uomini e le donne colgano l’opportunità di

inserirsi da protagonisti nella storia, con l’intento di cambiarla, in un cammino comune

e condiviso. Il compito educativo che fa leva sulla curiosità epistemologica è proprio

quello di aiutare le persone a comprendere la propria collocazione storica, così da

trasformare la curiosità in coscienza e conoscenza, da cui possano partire tutte quelle

azioni culturali e politiche volte a rendere migliore il mondo:

“Pensare la storia come possibilità significa riconoscere l'educazione come possibilità.

Significa riconoscere che, anche se l'educazione non può fare tutto da sola, può però certo

raggiungere qualche risultato. La sua forza, come sono solito dire, sta nella sua debolezza.

Una delle nostre sfide come educatori è quella di scoprire che cosa sia storicamente possibile

nel senso di poter contribuire alla trasformazione del mondo, dando vita a un mondo nuovo

che sia meno rigido, più umano, e nel quale si prepari la concretizzazione della grande

Utopia: l'Unità nella Diversità.”113

È bene rimarcare che la sfida educativa che ha lanciato Paulo Freire non si può fermare

alle singole coscienze, ma ha l’obiettivo finale di trasformare il mondo. L’utopia

freiriana è denuncia dell’ordine ingiusto e annuncio di una giustizia sociale ancora

111 Pezza G., Paulo Freire e la comunicazione partecipativa-transazionale, op. cit., pp. 22-23 e Cfr. Marchant C.D.,

De la Liberacion a la Esperanca, Olejnik, Santiago de Chile 1998, pp. 41-43. 112 Mayo P., Prefazione, in Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 17. 113 Freire P., Macedo D., Cultura, lingua, razza. Un dialogo, op. cit., pp. 72-73.

69

inedita, ma non impossibile. È la storia stessa, da buona maestra, a rammentarci di

come situazioni che sembravano destinate a durare in eterno, hanno invece avuto modo

di evolversi, di cessare o di cambiare. La consapevolezza che gran parte delle ingiustizie

non siano la risultante di un destino inesorabile, ma di scelte politiche ed economiche

ben precise, deve dare modo all’umanità intera di farsi carico di tutte le responsabilità in

merito al nostro futuro e a quello del pianeta in cui abitiamo:

“[…] per Freire l'utopia è sempre tensione per un "luogo possibile", mai una storia "senza

luogo": lo dimostra tutta la sua esistenza. Forse, come afferma Carlos Nùnez Hurtado, "non

ci si può più accontentare di 'leggere' Freire. Freire ingaggia. E l'ingaggiamento, nella nostra

epoca neoliberale, si è fatto molto raro. Molto probabilmente coloro i quali lo rinnegano o lo

denigrano si proteggono in fondo inconsciamente contro le implicazioni vitali di un pensiero

critico, politico, pedagogico ed epistemologico che, in modo armonioso e coerente, invita in

profondità a ingaggiarsi a favore della vita, della giustizia e dell'emancipazione.”114

È quindi giunto il tempo di cogliere l’invito di rileggere Paulo Freire e di fare nostra la

sua lotta perseverante, adattandola al tempo in cui viviamo, alle persone che

incontriamo, all’angolo di mondo in cui abitiamo, perché è proprio dal nostro Primo

Mondo che parte l’ordine ingiusto, quello che rende esseri-di-meno milioni di abitanti

sulla Terra, quello che dobbiamo iniziare a trasformare se vogliamo rendere possibile

l’utopia di una cittadinanza planetaria che si prenda cura del pianeta in cui vive.

114 Nùnez Hurtado C. in Toriello F., Paulo Freire. Dalle parole al mondo: un percorso interculturale, in Schettini B., Toriello F. (a cura di), Paulo Freire, Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, op. cit., p. 109.

70

II - I Nuovi Stili di Vita

“[Chi] esercita la propria libertà

sarà tanto più libero

quanto più si assumerà in modo etico

la responsabilità delle proprie azioni.

Prendere delle decisioni

significa operare delle rotture e,

per farlo, bisogna correre dei rischi.”

(Paulo Freire) 115

Perché parlare di “nuovi stili di vita”

L’esigenza di parlare di nuovi stili di vita nasce dal fatto che il periodo attuale ci pone

dinanzi ad una crisi che investe l’intero sistema su più fronti, non solo quello

economico. È infatti nella sua interezza che il sistema vacilla, dal punto di vista politico,

istituzionale, religioso, etico, ecologico, sociale, relazionale. Si tratta di una situazione

senza precedenti nella storia dell’umanità, anche solo per il fatto che, per la prima volta,

è a rischio il futuro stesso del pianeta Terra, in cui l’effetto dei cambiamenti climatici

comincia ad essere visibile anche ai più scettici tra gli osservatori. La scelta di rileggere

Paulo Freire all’interno di questo contesto, apre le porte, in primo luogo,

all’interrogativo su quale sia il futuro che l’umanità vuole costruire per le prossime

generazioni. Si tratta di fare una scelta, di assumersi delle responsabilità, di prendere

delle decisioni, di operare delle rotture con tutti quei meccanismi che hanno reso

possibile, a tutt’oggi, che milioni di esseri umani siano trattati come degli esseri-di-

meno, in una Terra calpestata, saccheggiata e offesa. Parlare di nuovi stili di vita non

significa quindi partire da una visione individualista, orientata al benessere personale o

alla qualità della vita fine a se stessa, ma vuol dire esercitare criticamente e storicamente

la propria libertà, coinvolgendo altri uomini e donne, nella costruzione di un nuovo

sistema eticamente sostenibile, volto all’umanizzazione dell’essere umano, nella

direzione di una cittadinanza planetaria. È una scelta che comporta certamente dei

rischi, ma che coglie in pienezza il significato profondo che lo stesso Freire attribuisce

alla parola libertà:

“La libertà, che è una conquista e non un’elargizione, esige una ricerca permanente. Ricerca

permanente che solo esiste nell'atto responsabile di colui che la realizza. Nessuno possiede la

libertà, come condizione per essere libero; al contrario, si lotta per la libertà perché non la si

possiede. E la libertà non è un punto ideale, fuori degli uomini, di fronte a cui essi si

alienano. Non è una idea che si fa mito. È una condizione indispensabile al movimento di

115 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 74.

71

ricerca in cui gli uomini sono inseriti, perché sono esseri inconclusi. Si impone quindi la

necessità di superare la situazione di oppressione. Ciò esige riconoscere "criticamente"

questa situazione, approfondirne le ragioni, affinché, attraverso un'azione trasformatrice che

incida su di essa, se ne instauri un'altra, che renda possibile quella ricerca di “essere di

più”.”116

La libertà non è quindi un dato acquisito, un traguardo raggiunto, ma è una ricerca

continua, un’apertura alle possibilità di trasformazione, un atteggiamento

intenzionalmente critico, finalizzato a trovare le risposte alle domande che la storia ci

pone, perché è solo intervenendo insieme nella storia che diventa possibile cambiare il

corso dei suoi eventi. In questo cammino di emancipazione, l’educazione, pur non

essendo l’unico strumento possibile, acquisisce un ruolo fondamentale, non fosse altro

perché, senza di essa, nessuna azione culturale ad ampio raggio sarebbe possibile e di

conseguenza nessuna rivoluzione culturale in grado di cambiare il mondo. Il compito

dell’educazione è di insegnare a pensare correttamente, come direbbe Freire, è di

sfidare, di mettere in discussione, di non dare nulla per scontato, di aprire gli occhi al

mondo, affinché sia possibile leggerlo, interpretarlo e una volta conosciuto,

trasformarlo. Al contrario della logica di chi deposita conoscenza nelle menti degli

alunni, educare secondo una pedagogia problematizzante significa aprirsi a quelle

domande necessarie alla creazione di una nuova conoscenza. A ciò si deve aggiungere

che, il pensiero critico, in Freire, oltre ad essere caratterizzato da una strutturale

componente dialogica, è anche fortemente orientato alla prassi, cioè al movimento

dialettico tra il fare e la riflessione sul fare. Il discorso sui nuovi stili di vita trova qui un

nesso molto significativo: in un mondo in cui ogni nostra scelta personale incide a

livello sociale, politico, etico, ambientale, anche a migliaia di chilometri di distanza,

rendersi consapevoli di quanto possano influire negativamente le nostre pratiche, può

aiutarci a far sì che, riflettendo su di esse, le si possa cambiare o, meglio ancora, le si

possa rendere delle buone pratiche, delle pratiche virtuose, improntate al rispetto del

pianeta e di ogni essere umano che lo abita. Uno degli errori più grandi che l’Umanità

può commettere è quello di credere che non ci sia più niente da fare, che la storia sia

ormai scritta in un inevitabile destino, ma questo è un discorso che chi è impegnato in

ambito pedagogico non può accettare. Nel migliore dei casi si tratta di un discorso di

comodo, da parte di chi non vuole rinunciare ai propri privilegi, viceversa si tratta della

disperazione di chi ha perduto la speranza e, con essa, la capacità di sognare un mondo

migliore, insieme al coraggio di lottare perché quest’ultimo si possa costruire insieme.

116 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 32-33.

72

Freire è molto chiaro riguardo alle responsabilità che ognuno di noi ha, nei confronti

della storia:

“Non sono cioè soltanto oggetto della storia ma anche un suo soggetto. Nel mondo della

storia, della cultura, della politica, constato non per adattarmi ma per cambiare. […] Non

posso stare nel mondo con i guanti, limitandomi a constatare. L'accomodamento per me deve

rappresentare solo il cammino verso l'inserimento, il che implica decisione, scelta, intervento

nella realtà. Ci sono domande da porre con insistenza da parte di tutti noi e che ci dimostrano

l'impossibilità dello studio per lo studio.”117

L’intento di rileggere Freire per gettare le basi di una Pedagogia politica dei nuovi stili

di vita parte proprio da una serie di domande, che interpellano ognuno di noi. Come è

possibile pensare che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito, in un

mondo che per forza di cose è finito? Quali sono, realmente, i bisogni più profondi

dell’essere umano, affinché possa diventare, in pienezza, un essere-di-più? Quale

cammino deve intraprendere l’Umanità perché si instauri, finalmente, una giustizia

sociale capace di dare, ad ogni uomo e ad ogni donna, la possibilità di vivere una vita

dignitosa? Nessun percorso educativo ha senso, se non è in grado di porsi domande di

questo tipo. Eppure, nonostante questo, l’unica risposta che finora ci siamo dati è quella

dell’efficienza del capitalismo, un sistema che ormai mostra molto di più che una crepa

nelle sue mura. Freire stesso, pur non avendo vissuto direttamente la crisi dei nostri

giorni, ne intravedeva già i risultati nefasti ed insisteva nel porsi delle domande molto

serie su questa presunta “efficienza”:

“Che efficienza è quella che riesce a “convivere con più di un miliardo di persone del mondo

in via di sviluppo, che vivono nella povertà”, senza parlare della miseria? Per non parlare poi

della quasi indifferenza con cui convive con sacche di povertà e di miseria all'interno del

proprio corpo, il mondo sviluppato. Che efficienza è quella che dorme in pace con la

presenza di un innumerevole drappello di uomini e donne che fanno della strada la propria

casa, e a cui per di più si attribuisce la colpa di farlo? Che efficienza è quella che non lotta

quasi per niente contro le discriminazioni di sesso, di classe, di razza, come se il negare il

diverso, o umiliarlo, offenderlo, disprezzarlo o sfruttarlo fosse un diritto degli individui o

delle classi, o delle razze, o di un sesso in situazione di potere sull’altro? [...] Io credo, al

contrario, che ciò che non era valido nell'esperienza del "socialismo reale" non era, in modo

preponderante, il sogno socialista, ma la sua cornice autoritaria - che lo contraddiceva e di

cui hanno colpa non solo Stalin, ma anche Marx e Lenin -, così come il positivo

nell’esperienza capitalista non era e non è il sistema capitalista, ma la cornice democratica in

cui si viene a trovare.”118

È inevitabile, pensando a Freire, che la discussione si sposti, a questo punto, su di un

piano politico, ma questo è dovuto semplicemente al fatto che è la Politica ad avere il

117 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 62. 118 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 115-117.

73

compito, per definizione, di amministrare il Bene comune. Al di là di qualsiasi

valutazione riguardo al sistema di governo ideale, la riflessione sul fatto che il

socialismo autoritario sia ormai un ricordo lontano e che il capitalismo abbia scavalcato

l’apice della sua parabola, fa pensare alla necessità di pensare a nuove prospettive, ma

con l’imperativo che, qualunque sia il sistema ideale, un socialismo democratico o

meno, non possa prescindere dalla realizzazione della vocazione umana delle persone ad

essere-di-più. Una Pedagogia politica dei nuovi stili di vita non potrà che partire da qui,

dalla vocazione ontologica di ogni essere umano ad essere-di-più. Qualsiasi altro

cammino, inevitabilmente, procederà nella direzione sbagliata.

74

II.1 Oppressi e Oppressori oggi. Nuove categorie per un Cammino Nuovo.

“Nessuno può “essere”, con autenticità,

mentre impedisce che gli altri siano.

È questa un'esigenza radicale.

L’essere di più

ricercato nell'individualismo

conduce a un avere di più egoista,

che è una forma di essere di meno.

Di disumanizzazione.”

(Paulo Freire) 119

II.1.1 Lo scenario attuale e le situazioni limite

Lo scenario attuale è evidentemente molto diverso da quello in cui ha vissuto Paulo

Freire, nel momento in cui, negli anni ’60, definì il rapporto che legava oppressi e

oppressori, tuttavia il suo rappresenta un discorso universale, che riguarda

l’incommensurabile valore dell’essere umano ed assume, proprio per questo motivo, un

significato capace di andare ben oltre il semplice trascorrere del tempo o delle correnti

di pensiero. Per una corretta rilettura di Freire, è comunque imprescindibile rendersi

conto di cosa voglia dire oggi, in questa particolare congiuntura storica, parlare ancora

di oppressi e oppressori: esistono ancora, in modo definito, queste categorie o vi sono

delle sovrapposizioni tra l’una e l’altra? È possibile che esistano diversi tipi e livelli di

oppressione? Può lo sfruttamento del pianeta essere configurato come una forma di

oppressione? Ha senso, ad oggi, pensare ad una Pedagogia che non parli solo agli

oppressi, ma anche agli oppressori? Queste ed altre domande rendono necessaria

l’analisi dello scenario attuale, per comprendere dove l’oppressione abbia trovato le

condizioni adatte ad alimentarsi, espandersi e adattarsi ai nuovi contesti globali.

L’impoverimento, il debito rubato

Ogni nuova vita umana che nasce sulla Terra, di per sé, viene al mondo con lo status di

“essere umano uguale agli altri”. In realtà accade, però, che questa uguaglianza

ontologica si scontri, troppe volte, con contesti ambientali e sociali disumanizzanti, che

limitano le possibilità di molti di liberarsi da situazioni di inedia e di sfruttamento.

Nessuno, avendone la facoltà, sceglierebbe di vivere nella miseria assoluta o in aree

disagiate in cui si è privi di ogni servizio di base o di qualsiasi assistenza. Ne deriva,

quindi, che la povertà non è una caratteristica insita nell’essere umano, né una

119 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 75.

75

condizione che normalmente egli ricerca, ma è un processo introdotto a causa di una

costruzione sociale, che permette ed alimenta il processo di impoverimento di milioni di

persone e di estese zone del pianeta. Per questo motivo, molti (tra cui i promotori della

campagna “Banning Poverty 2018”120

) ritengono più corretto parlare di impoverimento,

piuttosto che di povertà. L’impoverimento è, infatti, un processo in divenire, dinamico,

storico e, in quanto tale, è possibile intervenire su di esso per modificarne quei

meccanismi che generano squilibri vergognosi, non solo nel cosiddetto Terzo Mondo,

ma anche nelle sviluppate società occidentali, che stanno scoprendo, un po’ alla volta e

loro malgrado, questo fenomeno. Solo in Italia, secondo l’Istat, nel corso del 2013, le

persone in situazione di povertà relativa erano poco più di 10 milioni (il 16,6% della

popolazione), mentre quelle in stato di povertà assoluta erano circa 6 milioni (il 9,9%

della popolazione). In questo caso, la soglia della povertà relativa è definita, ad

esempio, per una famiglia di due componenti, da una spesa mensile di 972,52 euro

(corrispondente al 50% dei consumi medi), mentre quella per la povertà assoluta

corrisponde alla spesa minima necessaria per acquisire i beni e i servizi minimi, ai quali

non è possibile rinunciare e che dipendono da diverse variabili (luogo di residenza,

composizione del nucleo famigliare, età dei componenti, ecc.).121

Uscendo dai confini

nazionali e analizzando i dati economici mondiali, ci si può rendere conto dell’enorme

contraddizione per cui, nella storia dell’umanità, non è mai stata creata così tanta

ricchezza e, allo stesso tempo, così tanta povertà. Si tratta di squilibri scandalosi, che

anche le cifre faticano a raccontare, dove la scellerata ricchezza di pochi potenti si

scontra con la povertà assoluta di chi non riesce a soddisfare i più elementari bisogni

fondamentali, come mangiare, bere, vestirsi, avere un tetto sotto cui dormire o

un’istruzione sufficiente a leggere e a scrivere. Oxfam122

, una delle più importanti

confederazioni internazionali del mondo, specializzata in aiuti umanitari e progetti di

sviluppo, ha presentato un rapporto contenente alcuni dati che definiscono un quadro

sconcertante.123

Ad oggi, l’1% più ricco della popolazione mondiale possiede quasi la

metà della ricchezza complessiva: la metà più povera del mondo detiene infatti lo

0,71% dell’intera ricchezza globale, mentre l’1% dei più ricchi possiede addirittura il

120 http://www.banningpoverty.org/ , ultimo accesso 4 aprile 2015. 121 Istat, Anno 2013. La Povertà in Italia. Report del 14 luglio 2014, Roma 2014. 122 Oxfam è una confederazione internazionale composta da 17 organizzazioni di Paesi diversi, che collaborano con

quasi 3.000 partner locali, in oltre 90 paesi del mondo, per individuare soluzioni durature alla povertà e

all’ingiustizia. http://www.oxfamitalia.org/scopri/chi-siamo/identita , ultimo accesso 6 aprile 2015. 123 Oxfam, Working for few. Political capture and economic inequality, Oxford 2014.

76

46%.124

Dal 2014, l’uomo più ricco del mondo è tornato ad essere Bill Gates, padre

fondatore di Microsoft che, attualmente, possiede un patrimonio complessivo stimato di

circa 79,2 miliardi di dollari, pari a circa 87 miliardi di euro.125

La ricchezza detenuta

dalle 62 persone più ricche del mondo è uguale all’intero patrimonio dei 3 miliardi e

mezzo di abitanti più poveri del pianeta.126

Nel mondo, sette persone su dieci vivono in

paesi in cui la forbice della disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni.

L’1% più ricco della popolazione mondiale ha incrementato la propria quota di reddito

in 24 su 26 paesi per i quali si hanno i dati tra il 1980 e il 2012. Negli U.S.A., l’1% più

ricco della popolazione ha raccolto il 95% della crescita economica, dopo la crisi

finanziaria del 2009 che ha messo in ginocchio l’intero sistema economico mondiale,

mentre il 90% meno ricco si è impoverito, soffocato dai debiti.127

Uno scenario

generale, quello appena delineato, che è confermato dalla stessa Organizzazione delle

Nazioni Unite (O.N.U.) nel momento in cui segnala che, nonostante i recenti progressi

nella riduzione della povertà, più di 2,2 miliardi di persone sono vicine a vivere, o già

vivono, in una povertà multidimensionale (che comprende cioè, non solo gli aspetti

riguardanti l’impoverimento economico, ma anche quelli concernenti la salute, la

cultura, la situazione ambientale, ecc.). Allo stesso tempo, quasi l’80% di tutta la

popolazione mondiale è privo di una protezione sociale completa. Ci sono più di 800

milioni di persone che soffrono di fame cronica e, quasi la metà di tutti i lavoratori, più

di un miliardo e mezzo di persone, è impiegata in lavori senza contratto o precari. In

molti casi i poveri (come ad esempio nel caso di donne, immigrati, gruppi indigeni e

anziani) sono strutturalmente vulnerabili. La loro insicurezza si è evoluta ed è persistita

nel corso di lunghi periodi, così da creare divisioni di genere, etnia, razza, tipo di lavoro

e di status sociale, che purtroppo non sono facilmente superabili.128

Secondo le ultime

statistiche del 2014, la F.A.O., l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione

e l’agricoltura, mostra come la maggior parte degli affamati del mondo viva in Paesi in

via di sviluppo, per l’esattezza ben il 98% degli 805 milioni di persone che soffrono la

fame, distribuiti in questo modo: 526 milioni nella zona dell'Asia e dell’Oceano

Pacifico, 227 milioni in Africa, 37 milioni nella zona Latino-americana e caraibica, 15

milioni nei Paesi cosiddetti “sviluppati”. La maggior parte di tutte le persone che

124 Oxfam, Working for few. Political capture and economic inequality, op. cit., p. 2. 125 Forbes, The World’s Billionaires, http://www.forbes.com/billionaires/list/ , ultimo accesso del 6 Aprile 2015. 126

Oxfam, Un’economia per l’1%, Briefing paper, Oxford 2016, p. 2. 127 Oxfam, Working for few. Political capture and economic inequality, op. cit., p. 2. 128 United Nations Development Programme (UNDP), Human Development Report 2014. Sustaining Human Progress. Reducing Vulnerabilities and Building Resilience, New York 2014, p. 3.

77

soffrono la fame vive in zone rurali, soprattutto in Asia e in Africa. Per la propria

sostentazione, la stragrande maggioranza di loro dipende dall’agricoltura. Queste

popolazioni non hanno alcuna fonte alternativa di reddito o di occupazione e questo

comporta che siano notevolmente vulnerabili alle diverse crisi che li potrebbero colpire.

Molti cercano fortuna migrando verso le città alla ricerca di un’occupazione, con il

risultato di incrementare la continua espansione di baraccopoli, slums e favelas nei paesi

in via di sviluppo. La F.A.O. calcola che circa la metà delle persone che soffrono la

fame nel mondo sono organizzate in comunità agricole su piccola scala, sopravvivendo

in terre marginali, soggette a disastri naturali, come la siccità o le inondazioni, sempre

più causati dai cambiamenti climatici. Un altro 20% appartiene a famiglie senza terra,

ma che dipendono dall’agricoltura e circa il 10% vive in comunità la cui sussistenza

dipende dalle risorse forestali o derivate dalla pastorizia o dalla pesca. Il restante 20%

vive in baraccopoli alla periferia delle grandi città nei paesi in via di sviluppo. Il numero

di poveri e affamati abitanti delle città è in rapido aumento, in linea con la crescita della

popolazione urbana totale del mondo.129

Nel suo ultimo rapporto del 2014, l’Unicef,130

il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, l’organo dell’O.N.U. che ha il mandato di

tutelare e promuovere i diritti dei minori in tutto il mondo e di contribuire al

miglioramento delle loro condizioni di vita, evidenzia come tuttora persistano, a livello

strutturale, continue violazioni dei più elementari diritti umani. Ad oggi, ancora il 15%

dei bambini del mondo viene impegnato nel lavoro minorile, che compromette il loro

diritto di protezione dallo sfruttamento economico e viola il loro diritto di imparare e di

giocare. L’11% delle ragazze si è sposato prima di compiere i 15 anni, compromettendo

i loro diritti alla salute, all’istruzione e alla protezione sociale. Un solo dato potrebbe

bastare per definire la drammaticità della situazione: solo nel 2012, circa 6,6 milioni di

bambini, al di sotto dei 5 anni di età, sono morti per cause assolutamente prevenibili,

uno sterminio di vite umane paragonabile, per la tragicità delle dimensioni, ad una

Shoah, che si ripete ogni anno. Ogni giorno, nel mondo, muoiono circa 18 mila

bambini, al di sotto dei 5 anni, uno ogni cinque secondi. È come se ogni giorno venisse

cancellata l’intera popolazione di una città come Domodossola, ma abitata solo da

bambini e bambine, non ancora arrivati ai 5 anni di età. La cosa più scandalosa però, è

che molti potrebbero essere salvati con mezzi collaudati e a basso costo, poiché alcune

tra le cause di morte sono rappresentate da malattie banali, che potrebbero essere

129 F.A.O., http://www.wfp.org/hunger/who-are , ultimo accesso 6 Aprile 2015. 130 Unicef Italia, http://www.unicef.it/doc/366/missione.htm , ultimo accesso 6 Aprile 2015.

78

facilmente curabili, come una semplice diarrea.131

Sempre la F.A.O., mette in luce come

l’impoverimento colpisca inevitabilmente, in forma maggiore, i soggetti più deboli: nel

mondo, pur essendo spesso le donne le produttrici degli alimenti primari, l’incidenza di

tradizioni culturali e strutture sociali fa sì che siano proprio loro quelle più colpite dalla

fame e dalla povertà, rispetto agli uomini. E a ciò segue che, madri rachitiche o

sottopeso, a causa di una dieta inadeguata, spesso diano alla luce bambini con un peso

ridotto fin dalla nascita, perpetrando un vortice di violenza che si accanisce sui più

indifesi. Circa la metà delle donne incinte, nei paesi in via di sviluppo, soffre di carenza

di ferro. La mancanza di ferro porta alla morte di circa 315 mila donne ogni anno, a

causa di emorragie al momento del parto. Oltre a questo, le donne, in particolare quelle

incinte e che allattano, avrebbero bisogno di un apporto speciale di cibo, che spesso non

c’è e, di conseguenza, si continua a morire.132

“L’aspetto più sconvolgente” -

utilizzando le parole di Francesco Gesualdi, che nel suo libro “Sobrietà”, cita i dati del

rapporto O.N.U. del 1998 sullo sviluppo umano133

- “è che per eliminare la povertà

basterebbe solo l’1% del prodotto mondiale, mentre sarebbero sufficienti 40 miliardi di

dollari, pari allo 0,1% del reddito mondiale, per garantire a tutti l’accesso ai servizi

sociali di base”.134

Se la proporzione stimata dall’O.N.U. fosse valida, anche solo per

avere un’idea di paragone, essendo il prodotto interno lordo mondiale stimato intorno ai

72.216 miliardi di dollari135

: per eliminare la povertà, ad oggi, sarebbero sufficienti 722

miliardi di dollari, mentre, per garantire l’acceso ai servizi sociali di base, ne

servirebbero circa 72. Cifre esorbitanti se si utilizza il metro del consumatore medio, ma

che diventano irrisorie se si pensa che nel mondo, secondo quanto rilevato da una delle

più autorevoli fonti a riguardo, lo Stockholm International Peace Research Institute

(SIPRI), solo nel corso del 2013, le spese militari globali sono ammontate a circa 1.739

miliardi di dollari, con gli Stati Uniti d’America a fare la parte del leone, con i loro 640

miliardi di dollari annui e, a seguire, l’Europa con i suoi 410.136

La cruda realtà è che la

metà della popolazione dell’intero pianeta soffre la mancanza di un qualsiasi tipo di

sicurezza sociale, mentre solo il 20% può dire di avere una copertura adeguata.137

In

questo quinto di fortunati c’è anche l’Italia o, almeno, quella parte di Italia che l’Istat

131 Unicef, The State of World's Children 2014 in numbers. Every child counts, New York 2014, pp.3-6. 132 F.A.O., http://www.wfp.org/hunger/who-are , ultimo accesso 6 Aprile 2015. 133 UNDP, Rapporto 1998 sullo sviluppo umano, Rosenberg & Sellier, Torino 1998. 134 Gesualdi F., Sobrietà, Feltrinelli, Milano 2010, p. 12. 135 Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database, Ottobre 2013. 136 SIPRI, Military Expenditure Database, http://milexdata.sipri.org/ , ultimo accesso 7 Aprile 2015. 137 United Nations Development Programme (UNDP), Human Development Report 2014. Sustaining Human Progress. Reducing Vulnerabilities and Building Resilience, op. cit., p.8.

79

considera fuori dalla soglia della povertà. Dati alla mano, è evidente che non è la società

impoverita a produrre l’indigenza, ma quella parte di mondo che con la sua arroganza e

la sua noncuranza, sfrutta ed alimenta il malessere di molti, così da mantenere, in modo

iniquo, i propri privilegi. L’impoverimento risulta essere, così, una costruzione sociale,

poiché è creato volutamente e consapevolmente da un sistema immorale, che non

potrebbe reggersi con le proprie gambe, se lo stile di vita che esso propone fosse

allargato a tutta l’umanità. Ecco, allora, instaurarsi i meccanismi dell’esclusione che,

provocata dall’impoverimento, lo alimenta a sua volta, rendendolo un fenomeno

collettivo, affinché, di padre in figlio, di comunità in comunità, di governo in governo,

si possa perpetrare uno sfruttamento che generi solitudine, emarginazione e violenza.

L’impoverimento diviene, così, il frutto più aspro di una società ingiusta, che non crede

nei diritti fondamentali dell’essere umano, come quelli legati al valore della vita o alla

cittadinanza universale. Una società che ha rinnegato la propria responsabilità nei

confronti dei più deboli, degli indifesi, degli emarginati, degli oppressi, abdicando ad un

dovere etico, in ossequio al potere assoluto dell’economia globale, che tutto governa e

tutto regola, ignorando le comunità e favorendo i mercati. In questo senso, l’essere-di-

meno, descritto da Freire, diventa lo schiavo di oggi, a cui sono stati rubati l’umanità e il

futuro ma, paradossalmente, diventa un essere-di-meno anche il ricco consumatore del

“nord”, che con la sua insaziabile fame di avere, umilia l’umanità che è custodita dentro

di lui, con il solo risultato di disumanizzare, oltre all’altro, anche se stesso. Non solo,

come se non bastasse, oltre al mercato iniquo e allo sfruttamento, c’è un’altra via, molto

più subdola, che permette agli “arricchiti” di mantenere il proprio tenore di vita e

consiste, cioè, nel legare a sé gli ultimi del mondo attraverso un debito che non potranno

mai saldare. Come denuncia Francesco Gesualdi, allievo di Don Lorenzo Milani e

anima pulsante del “Centro Nuovo Modello di Sviluppo” di Vecchiano (PI), il debito

rappresenta un furto legalizzato:

“Una ricchezza enorme che invece di essere utilizzata per elevare il tenore di vita dei poveri

viene spedita al Nord per ingrassare chi già cola di grasso. Tra il 1980 e il 2008 i paesi del

Sud hanno versato qualcosa come 6500 miliardi di dollari. Ciononostante il loro debito è

passato da 520 a 3640 miliardi di dollari. I paesi più danneggiati, naturalmente, sono i più

poveri perché i loro bilanci pubblici, già magrissimi, a volte sono dimezzati dal pagamento

del debito. Lo Zambia, per esempio, nel periodo 1992-1997 ha devoluto al debito estero il

40% del suo bilancio pubblico, mentre alle spese sociali ha destinato un misero 6,7%. Ma

perché meravigliarsi se la povertà aumenta invece di diminuire?”138

138 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 33.

80

A fronte di questo scempio umanitario, non è più sufficiente scandalizzarsi per

fenomeni come quello dei 220.000 migranti giunti via mare sulle coste europee del

Mediterraneo nel solo 2014 o limitarsi a piangere gli oltre 3.500 di loro che in questo

mare hanno perso la vita.139

Pensare di risolvere il problema restituendo i migranti ai

loro confini, in molti casi consegnandoli ad una morte sicura, è solo un modo egoistico

di nascondere ai nostri occhi una povertà che ha la sfrontatezza di mettere in

discussione il nostro tenore di vita. È ormai chiaro come non sia più possibile, per

affrontare seriamente il problema dell’impoverimento, utilizzare le fallimentari strategie

utilizzate finora, ma sia necessario penalizzare tutte quelle leggi, quelle istituzioni e

quelle pratiche sociali che lo alimentano, favorendo invece quelle capaci di instaurare

processi virtuosi, in direzione del riconoscimento dei diritti più universali degli esseri

umani e del pianeta, iniziando dalla promozione e dalla salvaguardia del bene comune,

nell’interesse di tutti. Solo così il debito, che in realtà è il nostro debito nei confronti del

“sud” del mondo, potrà essere saldato.

I predatori ingordi

Secondo il “Conflict Barometer 2014”, redatto annualmente dall’Istituto Heidelberg for

International Conflict Research (HIIK),140

nel corso del 2014, si sono verificati nel

mondo ben 424 conflitti politici. Di questi, 223 hanno visto l’uso della violenza e, in

particolare, 46 sono da considerarsi come conflitti altamente violenti, comprendendo 25

guerre “limitate” (ad es. Egitto, Myanmar , Colombia, ecc.) e 21 guerre “estese” (ad es.

Congo, Nigeria, Sudan, Afghanistan, Iraq, Syria, ecc.). I rimanenti 201 conflitti sono

stati classificati come “non violenti”, con un incremento di dodici unità rispetto al 2013,

suddivisi tra “controversie” e “crisi non-violente”.141

Il dato preoccupante, su cui porre

l’attenzione, è che su 424 conflitti, ben 96, e cioè quasi un quarto del totale, sono legati

all’accaparramento di risorse naturali grezze o al profitto generato da esse. Di questi,

oltre il 77% sono conflitti di intensità medio-alta.142

Uno dei casi più emblematici,

riguardo al tema delle risorse, è certamente rappresentato dalla Repubblica Democratica

139 The UN Refugee Agency (UNHCR), Sea Arrivals to Southern Europe, 2014,

http://www.unhcr.it/risorse/statistiche/infografiche , ultimo accesso 19 Aprile 2015. 140 L'Istituto Heidelberg for International Conflict Research (HIIK) ha sede presso il Dipartimento di Scienze

Politiche dell’Università degli Studi di Heidelberg, in Germania ed è un'associazione senza scopo di lucro che si dedica alla ricerca, alla valutazione e alla documentazione di conflitti politici intra e inter-statali. L'HIIK si è evoluto

dal progetto di ricerca "COSIMO" (Conflict Simulation Model) guidato dal Prof. Dr. Frank R. Pfetsch (Università di

Heidelberg) e finanziato dalla German Research Association (DFG) nel 1991. 141 Heidelberg Institute for International Conflict Research, Conflict barometer 2014, HIIK, Heidelberg 2015, p. 15. 142 Idem, p. 18.

81

del Congo. Pur essendo uno dei paesi più ricchi di materie prime come legno, petrolio,

gas, uranio, oro, rame, cobalto e coltan, la R.D.C. è, paradossalmente, uno tra i paesi più

poveri al mondo, secondo solo alla Somalia per reddito pro-capite ($ 231 annui)143

e

all’ultimo posto assoluto per potere d’acquisto (con un indice di 0,78 a fronte di quello

di riferimento U.S.A., pari a 100)144

. Questa situazione è inoltre aggravata dal fatto che

la R.D.C. ha uno tra i più bassi indici di democrazia al mondo, preceduta solamente da

otto paesi, con un punteggio di 1,92 su un massimo di 10, che la colloca in una

situazione peggiore di paesi come l’Iran, la Birmania (Myanmar) o l’Afghanistan.145

Ma

com’è possibile che, a fronte di un sottosuolo così prospero di preziose risorse, la

Repubblica Democratica del Congo si ritrovi in queste condizioni? Una prima risposta è

contenuta in un rapporto dell’O.N.U. del 21 novembre 2011, in cui si indica come

l’esercito congolese sia direttamente coinvolto nell’estrazione e nel contrabbando

illegale di oro e di altri minerali nel Kivu e, soprattutto, si evidenzia come i proventi di

tali traffici vengano utilizzati per il finanziamento della guerriglia con i ribelli. Il quadro

presentato è quello di un territorio profondamente segnato da orrendi stupri di massa e

dal resoconto quotidiano di uccisioni di civili, giornalisti e attivisti dei diritti umani. I

“minerali insanguinati”, estratti illegalmente nella parte orientale del Congo e nella

regione dei Grandi laghi, finanziano quindi la guerra civile, che nel paese africano non è

mai finita. Il tutto per ricavare oro, cobalto e coltan (un minerale essenziale per la

produzione di telefoni cellulari), sfruttando, in modo criminale, donne e bambini,

calpestando ogni diritto umano fondamentale.146

Secondo Jacopo Arbarello, inviato

dell’Espresso, quello perpetrato in Congo è un duplice saccheggio:

“il primo ufficiale, ad opera delle multinazionali con l'appoggio del governo di Kinshasa, il

secondo di frodo, ad opera di migliaia di persone, minatori e contrabbandieri. Una ricchezza

immensa i cui beneficiari ultimi sono sempre gli stessi: noi occidentali, o meglio, la parte

ricca della popolazione mondiale, che utilizza questi metalli preziosi ottenuti a basso costo

per fare profitti altissimi. Nel frattempo il Congo resta una delle nazioni più povere e

sottosviluppate del pianeta. […] Il 90 per cento dell'oro di questa regione viene ancora

estratto a mano, da minatori che lavorano 12 ore al giorno con i piedi nell'acqua o scavano

buchi nella terra con la pala, aiutati dai bambini. I minatori sono i perdenti assoluti della

catena, quelli che lavorano di più e guadagnano meno. Si calcola per loro un guadagno

medio di 9 dollari al giorno. [...] E le cose stanno cambiando addirittura in peggio. Il futuro è

dell'industria mineraria, ovvero del saccheggio autorizzato e su larga scala sempre ad opera

degli stessi Paesi. Da qualche anno sono arrivate le multinazionali. Il governo del presidente

143 The Economist, Il mondo in cifre 2014 – edizione italiana, Internazionale, Roma 2014, p. 26. 144 Idem, p. 27. 145 Idem, p. 39. 146 Parlamento Europeo, "Minerali insanguinati" e instabilità politica in Repubblica Democratica del Congo,

http://www.europarl.europa.eu/news/it/news-room/content/20101203STO05948/html/Minerali-insanguinati-in-Repubblica-Democratica-del-Congo , aggiornamento del 14 marzo 2011, ultimo accesso 18 aprile 2015.

82

Kabila ha concluso moltissimi contratti di concessione a compagnie che vengono da Canada,

Stati Uniti, Cina, India, Malesia, Inghilterra e Belgio. […] Insomma, viste da Bukavu le

grandi compagnie internazionali prendono una luce sinistra. Per i congolesi, chiunque abbia

chiuso in questi anni contratti minerari miliardari con il governo di Kinshasa ha stretto un

patto con il diavolo. A braccetto con il diavolo camminano quasi tutti i Paesi più potenti del

mondo.147

È evidente come, per competere nel mercato globale, non sia sufficiente possedere la

migliore tecnologia, ma sia necessario avere anche il migliore accesso possibile alle

risorse energetiche e alle materie prime. In questo senso, il processo di colonizzazione,

che in passato avveniva prevalentemente tramite la conquista di altri Stati, oggi ripete il

proprio copione attraverso i canali della corruzione politica, del sovvenzionamento

illecito di gruppi armati o dittature militari, con lo sfruttamento della manodopera locale

e l’annientamento di ogni forma di protezione sociale ed ambientale. I predatori ingordi

si avventano sulla preda, senza pietà, senza ritegno, con la prepotenza di chi crede che

tutto gli sia dovuto, avendo il profitto come unico obiettivo. Non è un caso che, tra il

1996 e il 2013, le duecento multinazionali più ricche del mondo abbiano avuto un

incremento del 199,2% del fatturato e del 467,0% dei loro profitti.148

Come non c’è da

stupirsi se, tra le prime 100 economie mondiali, ben 68 sono multinazionali, con realtà

come Wal-Mart Stores, Royal Dutch Shell, Sinopec Group, China National Petroleum,

Exxon Mobil e BP, che superano i prodotti interni lordi di Stati come l’Olanda o

l’emergente India.149

La grande illusione di un mercato globale illimitato si scontra però

con l’impossibilità per molti di parteciparvi, solo una parte ridotta della popolazione

mondiale può, infatti, fregiarsi dello status di consumatore e questa situazione rende

ancora più aggressivi i comportamenti di chi ha bisogno di produrre e di vendere per

mantenere i propri privilegi.

Il mito della crescita infinita

Il termine “globalizzazione”, nella prima definizione coniata nel 1983 dal professor

Theodore Levitt, voleva definire la necessità di trasformare il mondo in un unico

mercato, in un’unica ed enorme piazza finanziaria che rendesse inutili i dazi,

proponendo un innovativo sistema economico globale, in cui le regole fossero meno

147 Arbarello J., Chi ruba i tesori del Congo, L'Espresso, 2 gennaio 2012. 148 Gesualdi F., TOP200. La crescita del potere delle multinazionali, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Vecchiano

(PI) 2014, p. 1. 149 Idem, p. 10

83

restrittive e gli ostacoli alla circolazione dei prodotti ridotti ai minimi termini.150

Questa

visione planetaria dell’economia si scontrò però, ben presto, con l’evidenza che non può

esistere un mercato senza qualcuno che sia in grado di comprare: il mondo, per quanto

grande, non era in grado di dare le stesse possibilità a tutti i suoi abitanti di accedere al

banchetto globale (basti pensare che, ad oggi, la quota di chi può “consumare” in modo

significativo è pari, in una stima ottimistica, a non più di un terzo della popolazione

mondiale). Inizialmente, si pensò di risolvere il problema con la ricerca di nuove

frontiere, ma essendo lo spazio sul pianeta limitato, le grandi realtà multinazionali

iniziarono a farsi la guerra tra di loro, con riduzioni sempre più aggressive dei costi di

produzione ed utilizzando ogni metodo possibile, pur di acquisire una posizione di

prevalenza nel mercato, come spiega Francesco Gesualdi, parlando dello sfruttamento

della manodopera:

“Non sempre sono le stesse, le strategie per ridurre il costo del lavoro. Un conto sono i

settori ad alta tecnologia, un altro quelli ad alta intensità di manodopera. Nel primo caso si

punta sull'automazione, per ridurre il personale. Nel secondo, l'obiettivo è di trasferire il

lavoro dove la gente si accontenta di salari anche sessanta volte più bassi. In Italia, un'ora di

lavoro di un operaio del settore tessile-abbigliamento costa 15 dollari e 60 centesimi, ma in

Indonesia costa solo 50 centesimi, nella Cina continentale 41 centesimi e in Bangladesh

addirittura 25 centesimi. Se si considera che in questi paesi è proibito scioperare e

organizzarsi in un sindacato, si capisce perché le scarpe sportive si producano quasi tutte in

Estremo Oriente.”151

Sentendo queste considerazioni, torna purtroppo alla mente il tragico crollo del “Rana

Plaza” del 24 aprile 2013 a Savar, nella grande area di Dacca, in Bangladesh, in cui

persero la vita 1.129 persone, il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica

tessile nella storia, oltre che una delle più drammatiche dimostrazioni di quanto possa

spingersi, al di fuori di ogni etica, la logica del profitto. L’edificio conteneva delle

fabbriche di abbigliamento, una banca, degli appartamenti e numerosi altri negozi. Il

giorno in cui si notarono delle crepe nei muri dell’edificio, la banca e i negozi ai piani

inferiori furono chiusi, mentre i proprietari delle fabbriche tessili, ignorando ogni

allarme, intimarono ai propri lavoratori di tornare l’indomani, giorno in cui l’edificio

cedette, collassando inesorabilmente, in pieno orario di lavoro. Tra le macerie, accanto

ai resti umani, furono recuperate le etichette di alcune tra le più famose griffes europee,

come la spagnola Mango, l’inglese Primark e l’italiana Benetton.152

Questa tragedia è

stata possibile perché il sistema, così come è costruito, ha bisogno che la riduzione dei

150 Cfr. Gesualdi F., Sobrietà, Feltrinelli, Milano 2010, p. 30 151 Ibidem. 152 http://www.cleanclothes.org/ e http://www.abitipuliti.org/ , ultimo accesso 26 aprile 2015.

84

costi sia imputata a qualcuno e, il più delle volte, si tratta di lavoratrici e lavoratori

oppressi, che pagano i nostri sconti al supermercato con la propria vita. È poi evidente

che, affinché tutto ciò si perpetui, il sistema ha soprattutto bisogno che chi è in grado di

consumare lo faccia il più possibile, senza limiti. È questa una delle principali ragioni

per cui c’è una così grande enfasi sull’importanza della crescita economica, sintetizzata

dal mantra “l’economia gira con te, fai girare l’economia!” e misurata attraverso lo

strumento del PIL, il Prodotto Interno Lordo (che rappresenta il valore monetario dei

beni e dei servizi finali prodotti in un certo intervallo di tempo, in genere un anno,

all’interno di un’economia). Il PIL è certamente un buon indicatore dell’attività

economica, ha il pregio di essere sintetico ed è correlato positivamente a diverse

dimensioni del benessere (aspettative di vita, democrazia interna, assenza di conflitti)

ma, nel momento in cui lo si considera come il punto di riferimento unico per le

politiche economiche di un paese, si commette inevitabilmente un gravissimo errore. In

primo luogo il PIL misura soltanto un flusso e cioè il reddito del sistema nel corso di un

anno, senza prendere in considerazione la dote che ogni paese porta con sé (edifici,

infrastrutture, ecosistema, ecc.) e senza includere alcune importanti attività che non

possono essere monetizzate, come il lavoro domestico, la cura dei bambini, le attività di

volontariato. Uno Stato potrebbe essere un paradiso terrestre oppure un deserto

inospitale, potrebbe avere una struttura sociale supportata efficacemente da realtà attive

nell’associazionismo e, contemporaneamente, il PIL potrebbe rimanere invariato.

Paradossalmente si ha invece un incremento del PIL: se più persone si ammalano,

aumentando di conseguenza il consumo di farmaci; se la gente si sente più insicura e

investe in antifurti e sistemi di sicurezza; se più cittadini possibili fumano, divorziano,

sprecano energia, fanno incidenti stradali e, non ultimo, favoriscono attività criminali

come lo spaccio di droga o la prostituzione.153

Sembra assurdo, ma una delle voci che

più alza il PIL è l’inquinamento, nella sua doppia veste di effetto collaterale di

un’attività economica e, in seguito, come giustificazione alla realizzazione di un’opera

di bonifica e ripristino di un’area contaminata. Da questo e da molti altri esempi si può

quindi capire come il PIL possa rappresentare un buon indicatore, ma solo “di ciò che

deve indicare”. Il problema, infatti, è che l’utilizzo che spesso se ne fa è improprio,

collegando il PIL direttamente al concetto di “benessere” di una popolazione. In realtà,

misurando il flusso generato dalla produzione di ricchezza, non è detto che quest’ultimo

incida positivamente sul benessere di un paese. Per questo motivo sono nati numerosi 153 Le attività criminali sono state inserite nel calcolo del PIL dall’Istat, a partire dall’ottobre 2014.

85

indici, secondo diverse filosofie ed approcci, che tengono conto di altri aspetti

(economici, culturali, sociali, ambientali, umani, …) che concorrono a definire la

misura di “Ben-essere” (e in alcuni casi di “Felicità”) di un determinato contesto

sociale. Tra gli indici più importanti troviamo: il FIL (Felicità Interna Lorda), per ora un

esperimento limitato alla piccola esperienza del Buthan; il Genuine Progress Index

(GPI), che tenta una correzione del PIL, aggiungendo o sottraendo la stima monetaria di

altre variabili considerate importanti nella misurazione di un progresso “autentico”

(vengono inclusi, ad esempio, lavoro domestico e volontario, mentre viene sottratto il

valore monetario dei costi sociali come criminalità, disoccupazione, inquinamento e

danni ambientali); l’Ecological Footprint o Impronta Ecologica, che fornisce una stima

di quanti “pianeti Terra” servirebbero per sostenere l’umanità, qualora tutti vivessero

secondo un certo stile di vita; lo Human Development Index (HDI) o Indice di Sviluppo

Umano, curato dall’ONU, che incrocia i dati relativi al reddito pro-capite, all’aspettativa

di vita alla nascita e un indice di istruzione basato sugli anni di scolarizzazione; l’Happy

Planet Index (HPI) che misura l’efficienza con cui le nazioni trasformano le proprie

risorse naturali in benessere sostenibile, inteso come vite lunghe e soddisfacenti,

calcolato come rapporto tra aspettativa di vita alla nascita aggiustata per un indicatore di

benessere soggettivo e l’impronta ecologica; il Better Life Index, realizzato dall’OCSE

dal 2011, che è un indice che cerca di quantificare la qualità della vita attraverso la

misurazione di più dimensioni; il BES (Benessere Equo Sostenibile), realizzato

dall’Istat e dal Cnel nel 2013, che non è un indicatore unico, ma si basa bensì su 134

indicatori raggruppati in 12 dimensioni come salute, benessere economico, relazioni

sociali, politica e istituzioni, sicurezza, ricerca e innovazione, ambiente, paesaggio e

patrimonio culturale, qualità dei servizi, benessere soggettivo, istruzione, lavoro e

conciliazione dei tempi di vita (il metodo partecipato utilizzato per il BES, costituisce

un’esperienza all’avanguardia anche a livello internazionale). In sostanza, è evidente

come, in un mondo finito, inseguire ciecamente una crescita infinita o riferirsi allo

sviluppo solo in termini economici, rappresenti un cammino non più sostenibile che, se

portato fino in fondo, condurrà gli esseri umani a scontrarsi con la dura realtà di un

ambiente devastato e di un’umanità consumata. Come dicono anche Francisco Gutierrez

e Cruz Prado Rojas nel loro libro “Ecopedagogia e cittadinanza planetaria”:

“Gli indicatori di sviluppo che siamo soliti utilizzare, come il Prodotto Nazionale Lordo e il

Prodotto Interno Lordo, risultano fortemente inadeguati per la conformazione della

cittadinanza planetaria. Abbiamo bisogno di indicatori di processo che denotino quei valori

86

che, come sappiamo, sono in evidente contraddizione con molte "verità", "princìpi" e

"valori" di una società economicista, meccanicista, dicotomica, moralista, patriarcale e

gerarchica. Gli indicatori di processo si riferiscono più alla qualità che alla quantità, più alla

vita della persona che alla produzione di massa e al consumo irrazionale. Abbiamo bisogno

di nuovi stili di vita a livello personale, istituzionale e organizzativo.”154

Un’Umanità consumata

Nell’immaginario del mondo occidentale, avere grandi disponibilità economiche e

quindi possibilità di consumare in modo sfarzoso, è considerato un segno di successo e

spesso una ragione di invidia da parte di molti. Ma nel momento in cui il valore di una

vita dipende da ciò che si ha e non da ciò che si è, l’Umanità rischia di perdere il

contatto con se stessa. La rincorsa al consumo e alla promessa di una felicità

irraggiungibile, se legata solamente al possesso delle cose, ha portato gli esseri umani a

dimenticarsi di quanto più vero e profondo li può rendere degli esseri-di-più, come

direbbe Paulo Freire. Niente di ciò che si può comprare, infatti, è in grado di soddisfare

il bisogno ontologico di ogni essere umano di vivere in pienezza la propria umanità, il

proprio essere-nel-mondo. Abbiamo costruito un sistema economico di cui siamo

orgogliosi, associandolo all’idea della civiltà del progresso e del benessere,

esportandolo al resto del mondo come un simbolo di emancipazione e libertà, ma il

triste tributo che abbiamo pagato è che l’Umanità, immersa nel proprio consumo, ha

finito per consumare se stessa. I dati che fotografano la direzione in cui ci stiamo

muovendo sono molti e abbracciano diversi ambiti della nostra vita. L’ACI, in

collaborazione con il Censis, nel 2013 ha redatto un rapporto in cui si calcola che,

mediamente, mantenere un’automobile costa, al singolo proprietario, 3.425 euro

all’anno, con un incremento del +4,4% rispetto all’anno precedente e con una spesa

media complessiva, per chilometro, di 0,36 euro.155

La conseguenza è che, spesso, ci si

ritrova a lavorare centinaia di ore, per mantenere un automezzo che ci permette di

andare sul luogo di lavoro e che, a sua volta, imbottigliato nel traffico, sottrae altre ore

preziose al nostro tempo di vita. È una situazione paradossale, se ci pensiamo ma,

nonostante questo, con oltre 62 autovetture ogni 100 abitanti, l’Italia è fra i paesi più

motorizzati dell’Ue, seconda solo al Lussemburgo156

, e da questo dato non ci si stupisce

che il 74,3% degli occupati che si sposta per lavoro lo faccia utilizzando l’automobile,

154 Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, EMI, Bologna 2000, p. 81. 155 ACI-Censis, XX Rapporto. Dov'è finita l'auto? Analisi di una crisi senza precedenti, ACI-Censis, Roma 2013,

p.18. 156 Istat, Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo. 2014, Roma 2014, p. 194-195.

87

contro il solo 11,9% che utilizza i mezzi pubblici.157

È evidente che andrebbe fatto un

serio ripensamento sull’organizzazione degli spazi urbani e dei trasporti, nell’ottica di

una mobilità nuova, più rispettosa dell’ambiente e più a misura dell’essere umano. La

tendenza invece è quella di proseguire nella cultura del cemento, senza un pensiero che

aiuti a ridurre il traffico e che possa ridare il tempo perduto a chi si muove e un’aria più

pulita al mondo in cui abitiamo. L’ISPRA, l’Istituto governativo che si occupa di

protezione e ricerca ambientale, nel suo rapporto del 2014 sul consumo di suolo, stima

che l’Italia, ogni secondo, sia ricoperta da 8 metri quadrati di asfalto e cemento che,

ininterrottamente, giorno e notte, vengono riversati sul territorio nazionale, con la

conseguente perdita di aree naturali ed agricole. I dati mostrano che, in Italia, il suolo

ormai irrecuperabile è passato dal 2,9% della superficie totale negli anni cinquanta, al

7,3% nel 2012. In termini assoluti, si stima che il consumo di suolo abbia intaccato

ormai quasi 22.000 chilometri quadrati di quello che viene considerato da tutti il “Bel

Paese”, una superficie vicina a quell’Emilia-Romagna.158

Cemento che, spesso, va ad

alimentare una delle conseguenze più insidiose del consumismo e cioè quella di avere

dato un prezzo a ciò che prima era semplicemente un bene comune, fruibile a tutti, come

spiega bene il prof. Stefano Bartolini, docente di Economia Sociale all’Università degli

Studi di Siena:

“Nella città moderna ciò che è di qualità è privato e costoso - belle case, bei locali pubblici,

bei negozi, spettacoli divertenti - mentre ciò che è comune e gratuito è degradato, come il

clima sociale o le strade e le piazze, rumorose, inquinate e pericolose a causa del traffico.

Uno dei fortunati beneficiari di questa situazione è l'industria dell'evasione. Un mondo in cui

il silenzio, l'aria pulita, un bagno in un mare o in un fiume pulito, passeggiate piacevoli

divengono un privilegio dei luoghi incontaminati e dei paradisi tropicali, è un mondo che

tende a spendere risorse considerevoli per evadere dagli ambienti invivibili che ha

costruito.”159

Il degrado ha l’effetto quindi di alimentare i consumi, mortificando però i diritti e le

relazioni umane delle persone, con l’inevitabile effetto di relegare ai margini chi non si

può permettere di accedere al circolo insaziabile del mercato. Per evadere da questo

vortice servono soldi, altro lavoro, altro tempo rubato alla nostra vita. Si tratta però di

una rincorsa senza senso, che è evidente nei dati che raccontano, nonostante il presunto

progresso e l’ostentato benessere, il peggioramento complessivo della qualità della vita

nel mondo occidentale, su diversi fronti. Sebbene in Italia, ad esempio, siano migliorate

157 Istat, Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo. 2014, Roma 2014, p. 202. 158 Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), Il consumo di suolo in Italia, ISPRA, Roma

2014, p. 7. 159 Bartolini S., Manifesto per la felicità, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2011, p. 36.

88

le condizioni di salute, l’Istat rileva come si sia invece ridotto il benessere psicologico

(l’indice di stato psicologico è passato dal punteggio medio di 49,8 del 2005 al 49 del

2012), con un peggioramento soprattutto per la popolazione adulta e i giovani uomini

(tra i 18 e i 24 anni l’indice passa dal 53,4 al 51,7 per i maschi).160

Nel rapporto “L’uso

dei farmaci in Italia”, realizzato dall’Osservatorio sull’impiego dei medicinali di AIFA,

il direttore generale dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Luca Pani, ha annunciato che,

nel 2020, “la depressione, dopo le malattie cardiovascolari, sarà la patologia

responsabile della perdita del più elevato numero di anni di vita attiva e in buona salute”

e, in linea con la prevalenza della malattia, l’uso di farmaci antidepressivi è cresciuto

costantemente nell’arco degli ultimi anni, registrando in Italia una variazione annua del

+5,0% dal 2006 al 2011.161

Passando agli stili di vita, la metafora per cui la cultura

consumista ci trasforma in una sorta di bidoni aspiratutto, trova la sua immagine più

efficace nel diffuso eccesso di peso tra la popolazione, che non accenna a diminuire. In

Italia, il 44,1% delle persone maggiorenni sono in sovrappeso o obese e la sedentarietà

riguarda ormai il 41,3% della popolazione con più di 14 anni.162

Molte delle malattie

croniche, tra le principali cause di morte, si potrebbero prevenire adottando uno stile di

vita salutare fin dall’età giovanile ma, nonostante questo, in Italia, con riferimento alla

popolazione con più di 14 anni, i fumatori rappresentano il 21,9% del totale, mentre i

consumatori di alcol a rischio sono il 14,1%.163

Questi dati, purtroppo, sono coerenti

anche con quelli contenuti nel libro “Manifesto per la felicità” del prof. Stefano

Bartolini per cui:

“I risultati indicano che gli individui consumisti godono di un minor benessere. Sono meno

soddisfatti della loro vita, meno felici, hanno meno frequenti emozioni positive (come gioia e

contentezza), più stress, più probabilità di contrarre malattie mentali come ansia e

depressione, più frequenti emozioni negative (come sentirsi arrabbiati, tristi o spaventati).

Inoltre guardano più tv, consumano più alcool e droghe, e godono di una salute peggiore.”164

Le contraddizioni del consumismo non si fermano, però, con il rifugiarsi davanti alla

televisione, negli accoglienti fast food a buon mercato o con l’approdo a vizi più o meno

leciti, il male che l’umanità fa a se stessa, spesso si riversa anche su ciò che la circonda.

Un dato sconcertante, stimato dalla FAO e diffuso in occasione di Expo 2015 “Nutrire il

Pianeta - Energia per la Vita” a Milano, ci racconta che, ogni anno, nel mondo, un terzo

160 Istat, Cnel, Bes 2014. Il benessere equo e sostenibile in Italia. Sintesi, Istat 2013, p. 5. 161 Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), L'uso dei farmaci in Italia. Rapporto nazionale. Anno 2013, AIFA, Roma

2014 p. 178. 162 Istat, Cnel, Bes 2014. Il benessere equo e sostenibile in Italia. Sintesi, op. cit., p. 5. 163 Istat, Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo. 2014, op. cit., p. 102. 164 Bartolini S., Manifesto per la felicità, op. cit., p. 24.

89

della produzione mondiale, pari a circa 1 miliardo e 600 milioni di tonnellate di

alimenti, viene gettato via, quando l’80% di questo cibo sarebbe ancora consumabile.

Lo spreco non si limita al cibo, ma anche alle risorse che sono state impiegate a

produrlo, basti pensare che, affinché questi alimenti fossero fruibili, sono stati necessari:

250 miliardi di litri di acqua, pari al fabbisogno di New York City per i prossimi 120

anni; 1,4 miliardi di ettari, pari al 30% della superficie agricola utilizzabile mondiale;

3,3 miliardi di tonnellate di CO2, la metà dell’anidride carbonica prodotta dagli USA in

un anno. Senza contare il costo economico dello spreco, quantificabile in 750 miliardi di

dollari, pari a poco meno del PIL della Svizzera.165

Qualcuno potrebbe dire che queste

cifre sono il prezzo del progresso ma, in realtà, non vi può essere alcun progresso in una

civiltà che non è in grado di comprendere i limiti propri e del pianeta in cui abita.

L’Umanità, affossata dallo spreco, corre il rischio di rimanere sepolta sotto i suoi stessi

rifiuti o, peggio ancora, di restare priva di quelle risorse che gli consentono la vita. Ma

anche questo non basta, ad invertire la tendenza. L’abitudine a consumare, spinta alla

sua ennesima potenza, brucia anche le relazioni, i rapporti umani, il senso stesso di

vivere. Gli esseri umani, assuefatti al condizionamento, faticano a prendere le redini di

un’esistenza che ha bisogni molto più profondi di quelli che una qualsiasi carta di

credito è in grado di acquistare. È un meccanismo che i pubblicitari conoscono bene, dal

momento che gli spot, oggi, non sponsorizzano più dei prodotti, ma delle emozioni,

degli status, l’illusione stessa della felicità. Un’umanità che si rimette in cammino,

verso una direzione nuova, non può quindi esimersi dal porsi le seguenti domande, che

Francesco Gesualdi, degno allievo di Don Lorenzo Milani, ci consegna:

“E ogni volta che metti mano al portafogli, fatti una domandina semplice semplice: "II nuovo

acquisto che sto per fare vale lo stress che ho procurato alla mia vita? Vale l'affetto che ho

fatto mancare ai miei figli? Vale la litigata che ho fatto con il mio partner? Il mio nuovo

acquisto contribuirà a rendere il mondo migliore, più sicuro, più sano?".”166

La differenza tra un’Umanità consumata e un’Umanità giusta, accogliente e solidale,

passerà dalle risposte che sapremo dare.

165 Osservatorio sugli sprechi delle famiglie italiane, Knowledge for Expo. Rapporto 2014, Waste Watcher, Milano

2014, pp. 3-4. 166 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 53.

90

La fabbrica dei desideri

Sembra insensato, ma nonostante le sue continue promesse volte a soddisfare i bisogni

della gente, la società dei consumi, per proseguire la sua folle corsa verso il profitto, ha

bisogno che il consumatore sia incessantemente insoddisfatto. Questo per il semplice

fatto che una persona felice non ha bisogno di procurarsi dei surrogati, al fine di

migliorare la propria condizione emotiva o sociale. In questo campo, una delle strategie

più efficaci è quella dell’obsolescenza programmata (o pianificata), che fa sì che un

determinato prodotto abbia un periodo prefissato, ma ragionevole, di vita. Il guasto

potrà avvenire a causa di componenti elettronici programmati per interrompere il loro

funzionamento, una volta scaduto un tempo sufficientemente adeguato, come quello del

periodo di garanzia, oppure a causa di materiali scadenti di durata limitata, resta il fatto

che, con tutta probabilità, il costo elevato della riparazione giustificherà l’acquisto di un

nuovo apparecchio. Un’evoluzione particolarmente sofisticata di obsolescenza è invece

rappresentata dall’obsolescenza percepita (o simbolica) che, pur avendo lo stesso

obiettivo di quella programmata, attraverso apposite campagne di marketing, punta a far

sì che sia il consumatore stesso a liberarsi di un determinato prodotto, “percependolo”

ormai come vecchio, obsoleto e fuori moda, anche se ancora perfettamente

funzionante.167

La fabbrica dei desideri, per mantenere la sua efficienza, deve essere in

grado di fare promesse accattivanti oggi, così da poterle infrangere domani e più grande

sarà la frustrazione creata, maggiore sarà l’illusione che dovrà essere confezionata dalla

promessa successiva. Non è possibile lasciar affievolire il desiderio ed è per questo

motivo che l’offerta pubblicitaria non è più indirizzata, da tempo, alla vendita di un

prodotto o alla descrizione delle sue caratteristiche, ma alla promessa di riuscire a

rispondere a bisogni profondi e immateriali, come l’amore, la sicurezza, il successo,

l’autostima, il riconoscimento sociale, il benessere. Una vita più sobria e con più tempo

a disposizione da dedicare agli altri avrebbe un risultato certamente migliore nella

risposta a questi bisogni, ma alla fabbrica dei desideri, come detto, interessa vendere

prodotti e aumentare i fatturati, non rendere le persone felici. Paradossalmente, una

pubblicità efficace, ha il pregio di far sentire il consumatore un perdente, un essere

inadeguato, un essere-di-meno e, come se non bastasse, questo meccanismo perverso è

particolarmente efficace con i bambini, che da esseri indifesi diventano le vittime

167 Annie Leonard, The story of Stuff, Free Range Studios, Berkeley 2007, http://storyofstuff.org , ultimo accesso 1 Maggio 2015.

91

sacrificali del sistema, in nome di quel modello, reso famoso dalla multinazionale

“Procter and Gamble”, per cui il consumatore deve essere fidelizzato «dalla culla alla

tomba», diventando il target, il bersaglio da colpire:

“Esaminate il linguaggio dei pubblicitari. Si parla di marketing virale, di sorprendere quando

le difese sono abbassate, di vulnerabilità, di bombardamento, i ragazzi sono posseduti, presi,

cresciuti, tenuti. Il linguaggio della pubblicità è un linguaggio di guerra, e non c'è dubbio su

chi la stia vincendo.”168

L’esito di questa guerra viene facilitato, forse inconsapevolmente, anche dalle

Istituzioni scolastiche, nel momento in cui i ragazzi vivono il proprio percorso

formativo come un’esperienza di segregazione fisica, in balìa di un potere che non li

interpella mai, in nessuna decisione che li riguardi, in una clima di competizione, in cui

l’alunno più bravo è quello che dà le risposte corrette e non quello che si pone le

domande migliori. Queste modalità scoraggiano, nel bambino e nell’adolescente, la

curiosità, lo spirito critico, la creatività, doti fondamentali affinché l’essere umano sia in

grado di costruire un pensiero critico maturo, una propria autonomia e un corretto

rapporto con il mondo che lo circonda. Alla composizione di questo scenario, ha

contribuito anche la contrazione significativa che hanno subito la quantità e la qualità

del tempo libero, i bambini passano infatti più tempo davanti alla televisione che non

all’aria aperta a giocare. L’Eurispes ha calcolato che, in Italia, nel primo semestre del

2013, il tempo medio di esposizione davanti alla televisione è tendenzialmente

aumentato e ha raggiunto le 4 ore e 34 minuti, il che fa dell’Italia il paese più

teledipendente al mondo, secondo solo agli Stati Uniti (4 ore e 53 minuti).169

Il consumo

di televisione scorre parallelo ad un consumo multimediale esteso e multi-piattaforma,

intrecciato ad una rilevante attività di social networking, variamente composta da chat,

sms, Facebook, Twitter e WhatsApp. I minori, meno legati alle tradizionali abitudini di

consumo e più aperti all’innovazione, sono tra i soggetti più coinvolti da queste

trasformazioni.170

In Italia sono oltre 41 milioni gli utenti che dispongono di una

connessione internet tramite computer (escludendo l’utilizzo di smartphone) con un

tempo speso on-line superiore alla media di un’ora al giorno.171

Leggendo questi dati è

facile chiedersi con chi stanno passando il loro tempo i nostri figli e quali valori,

inconsapevolmente, stanno assorbendo, come spugne immerse nella cultura del

168 Bartolini S., Manifesto per la felicità, op. cit., p. 133. 169 Eurispes, Rapporto Italia 2014. Sintesi, Eurispes, Roma 2014, Scheda 59 p. 101. 170 Idem, Scheda 34 p. 58. 171 Idem, Scheda 24 p. 44.

92

consumismo, della competizione e dell’insoddisfazione indotta. Un altro aspetto di forte

preoccupazione è che, negli ultimi anni, la pubblicità ha iniziato a raggiungere i

consumatori non solo con spazi ben definiti e riconoscibili, ma anche con strategie

persuasive che rendono possibile veicolare una proposta pubblicitaria, come se in realtà

non lo fosse. Si tratta di fenomeni mascherati come: il marketing virale, in cui vengono

regalati dei prodotti a delle persone in grado di fare tendenza e a cui viene chiesto di

distribuirli ad altri, in cambio di un compenso; il real life marketing, una tecnica che

consiste nel retribuire personaggi di tendenza per indossare un marchio, farsi vedere a

bere una bevanda o consigliare un prodotto; l’ultimate cool, dove in contesti limitati

viene individuato il Soggetto Alpha, quello che viene riconosciuto come il più

invidiabile da tutti gli altri, così da farlo diventare il testimonial di un determinato

prodotto, in quello stesso contesto. L’ultima frontiera, futuristica, ma non troppo, è

rappresentata dal Sistema ZMET sviluppato dall’Università di Harvard, costituito da

scanner cerebrali in grado di rilevare le reazioni di una persona, a livello inconscio, di

fronte a un determinato prodotto, un confine, questo, che una volta superato porterebbe

le grandi aziende a possedere le chiavi dei nostri cervelli.172

L’effetto finale di questo

vero e proprio bombardamento di condizionamenti è che le persone che passano

maggiormente il loro tempo a contatto con questi messaggi, sono anche le più

vulnerabili di fronte ai modelli che la civiltà del consumo propone. La fabbrica dei

desideri, come è stata progettata, ha l’obiettivo di portare le persone ad essere infelici di

ciò che hanno, orientandole a valori egoistici come il denaro, il successo e il possesso.

La sensazione è che non siano le persone sole, depresse o ansiose a rifugiarsi nella

televisione, ma che sia la televisione stessa a produrre parte del loro malessere. È una

depressione che in senso allargato riguarda tutta la società occidentale, che sembra

incapace di cogliere le possibilità inedite di un futuro che sembra immutabile, ma che in

realtà, in quanto tempo storico, può essere cambiato. Si tratta quindi di far sì che questo

inedito diventi possibile, cercando di orientare il cammino dell’Umanità verso il

benessere di tutti gli uomini e le donne, alla ricerca di quella felicità che abbiamo

smarrito per strada, ma che, sicuramente, non potremo mai acquistare in nessun punto

della grande distribuzione.

172 Cfr. Bartolini S., Manifesto per la felicità, op. cit., pp. 122-124.

93

La ricerca della felicità

La felicità può essere definita come “lo stato d’animo di chi è sereno, non turbato da

dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato”,173

ma è chiaro che definire la

felicità non è così semplice, viste le complesse implicazioni che il termine porta con sé.

A maggior ragione se si prendono in considerazione le innumerevoli riflessioni che

sono state fatte sul tema dalle più diverse discipline, dalla filosofia alla psicologia, dalla

biologia alla teologia. Non è sicuramente l’obiettivo di questo testo definire cosa sia la

felicità, forse è più facile rendersi conto personalmente di come ci si senta ad essere o

meno felici, piuttosto che definire tutte le sfumature del termine, ma in nostro aiuto può

venire un’immagine, che c’entra con l’etimologia della parola. Felicità deriva infatti dal

latino felicitas (da felix-icis, “felice”), la cui radice si riporta al verbo inusuale fèo (in

greco phyo) che significa “produco” e che rimanda alla parola “fecondo”. In definitiva,

la felicità è un frutto ed è l’etimologia a regalarci questa immagine, con Catone che,

nell’arbor felix (il fico) vede l’albero fruttifero, simbolo di abbondanza e prosperità. Ma

non solo. La radice di “felicità” riporta anche alla parola “feto” (dal latino fètus e dal

greco fytòs, il “fecondato”), che rappresenta il “germoglio”, il frutto per eccellenza, il

senso stesso dell’esistenza (dal sanscrito bhû-this, “esistenza”).174

Forse, quindi, non

saremo in grado di definire la felicità in tutti i suoi contorni, ma ci rendiamo conto di

quanto possa valere il ricercarla il più possibile nelle nostre vite, essendo uno dei frutti

più ambiti della nostra esistenza, uno degli indicatori più importanti di quello che Paulo

Freire definirebbe come il nostro essere-di-più. Sono molte le componenti soggettive ed

oggettive che influiscono sulla felicità delle persone, tra queste c’è il livello di

soddisfazione per la vita che una persona conduce. La Commissione Europea, tramite lo

strumento dell’Eurobarometro, ha rilevato che, in Italia, il grado di soddisfazione che le

persone provano per la propria vita, a partire dagli anni novanta, ha iniziato a diminuire.

Prendendo in considerazione il periodo che va dal novembre del 1990 al novembre del

2014, le persone “non molto soddisfatte” e quelle “per niente soddisfatte”, in Italia,

sono passate dal 26%175

al 35%176

del totale, con un incremento del +9%, nonostante le

condizioni economiche siano complessivamente migliorate. Uno dei motivi è che alcuni

173 Treccani, Enciclopedia on-line, http://www.treccani.it/enciclopedia/felicita/ , ultimo accesso 2 Maggio 2015. 174 Pianigiani O., Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, http://www.etimo.it/ , ultimo accesso 2 Maggio

2015. 175 Commission of the European Communities, Eurobarometer. Pubblic opinion in the European Community, CEE,

Brussels 1990. 176 European Commission, Standard Eurobarometer. Pubblic opinion in the European Union, CE, Brussels 2014.

94

beni relazionali, legati cioè alle relazioni sociali tra le persone, hanno subito un forte

declino. Pensiamo, ad esempio, alla fotografia che fanno l’Istat e il Consiglio Nazionale

dell’Economia e del Lavoro (CNEL) riguardo alla percezione del “senso di fiducia” in

Italia:

“[...] emerge una profonda diffidenza da parte dei cittadini. Nel 2012 solo il 20% delle

persone di 14 anni e più ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia, dato in calo

rispetto al 2010 (21,7%) e tale quota scende al 15,2% nel Mezzogiorno. L’Italia è uno dei

paesi Ocse con i più bassi livelli di fiducia verso gli altri, soprattutto a confronto con paesi

quali la Danimarca e la Finlandia, dove la quota di persone che esprime tale fiducia

raggiunge il 60%. Viviamo, dunque, in una società in cui la presenza di reti sociali, familiari

e di volontariato non sono sufficienti a garantire un tessuto sociale forte: nel Sud e nelle Isole

tutte le forme di reti sociali appaiono più deboli rispetto al resto del Paese e la fiducia negli

altri raggiunge il minimo. Peraltro, un Paese con un problema di scarsa fiducia tra i cittadini

può incontrare maggiori difficoltà a creare le condizioni per una vita economica e sociale

pienamente soddisfacente.”177

Il motivo per cui la felicità non sembra essere direttamente proporzionale alla

disponibilità economica, venne studiato negli anni settanta dal prof. Richard Easterlin,

docente di economia all’Università della Southern California, che evidenziò come la

felicità è, sì correlata al reddito, ma che questo non rappresenta un parametro decisivo

per il suo raggiungimento. Nella ricerca della felicità, insieme ad altre variabili,

concorre infatti anche il peso che hanno nella nostra vita i beni relazionali. La funzione

che lega la felicità al reddito e ai beni relazionali prende il nome di “Paradosso di

Easterlin”, proprio perché, se l’aumento del reddito contribuisce ad aumentare la felicità

(soprattutto a bassi livelli di reddito), dopo aver superato una certa soglia di

soddisfazione, la quantità di tempo richiesta per portare a livelli sempre maggiori il

proprio status economico, fa sì che, paradossalmente, venga sacrificato, sempre di più, il

tempo normalmente dedicato ai rapporti umani e, il conseguente deterioramento di

questo aspetto fondamentale della vita che ne deriva, porta inevitabilmente ad una

diminuzione complessiva della felicità. Le spiegazioni più convincenti del paradosso

della felicità si basano sulla metafora del treadmill (il tappeto rullante o tapis roulant):

la felicità non aumenta perché l’aumento del reddito porta con sé la crescita di altre

variabili in una direzione opposta, così come correndo su un rullo restiamo fermi,

poiché l’effetto della nostra corsa è di far andare il tappeto nella direzione contraria a

quella dove stiamo correndo. Lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, vincitore del

Nobel per l’economia nel 2002 per avere integrato i risultati della ricerca psicologica sul

177 Istat, Cnel, Bes 2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia. Sintesi, Istat 2013, p. 9.

95

giudizio umano con la scienza economica, nei suoi lavori distingue due tipi differenti di

treadmill effects: il rullo edonico e il rullo delle aspirazioni. Il rullo edonico deriva

dalla teoria del livello di adattamento, secondo cui l’essere umano è in grado di adattarsi

al mutamento delle circostanze. Gli aumenti di reddito e i miglioramenti degli standard

di vita producono quindi variazioni di benessere solo nel breve o brevissimo periodo,

dopo di che, si torna presto a un livello base di felicità. È lo stesso principio per cui

poniamo molta attenzione ad un prodotto che abbiamo appena acquistato, avendone

grande soddisfazione immediata e poi, poco dopo, abituandoci alla sua presenza,

finiamo per dargli meno importanza. Il rullo delle aspirazioni, invece, dipende dal

livello di aspirazione, che rappresenta il confine tra i risultati soddisfacenti e quelli

insoddisfacenti: all’aumentare del reddito, aumentano anche le aspettative sui beni che

vorremmo consumare, in una spirale che induce le persone a dover spostare sempre più

in là il livello di soddisfazione dei propri desideri. Se oggi dovessi acquistare un

prodotto che risponde alle mie aspettative, con l’alzarsi del mio status economico,

domani crescerebbero anche le mie aspirazioni, facendomi desiderare un prodotto

migliore in sostituzione del precedente. Una terza spiegazione del paradosso,

rappresentata da un rullo posizionale, è nata grazie al contributo dell’economista e

sociologo statunitense Thorstein Bunde Veblen e afferma che il benessere che

riceviamo dal consumo ha un valore relativo, che si costruisce in base al confronto con

gli standard di consumo degli altri. Non è tanto quindi il valore assoluto di ciò che

abbiamo a fare la differenza, ma quanto questo riesce a distinguerci dalle altre persone

che frequentiamo. Il livello di soddisfazione desiderato sarà raggiunto solo quando

questo confronto ci vedrà vincitori, nello schema più classico della competizione di tipo

consumistico: potrei anche avere un consistente aumento dello stipendio, ma se il mio

collega prendesse di più, il mio desiderio di recuperare la posizione persa, mi

costringerebbe ad una nuova rincorsa. In definitiva, il consumo degli altri condiziona

negativamente il mio benessere, così come il mio condiziona il loro, in una ruota che si

rincorre e che fa girare l’economia, molto di più di quanto faccia crescere la felicità.178

Il prof. Stefano Bartolini, nel suo libro “Manifesto per la felicità” descrive infine un

quarto tipo di rullo, il rullo relazionale, in cui lo scorrimento in senso opposto del

tappeto è dovuto, in questo caso, al peggioramento delle relazioni umane: un maggiore

livello di felicità non può essere raggiunto, perché lo sforzo per raggiungerlo, attraverso

178 Bruni L., Economia e felicità. Una nuova scienza?, Treccani, Roma 2009, http://www.treccani.it/enciclopedia/economia-e-felicita_(XXI_Secolo)/ , ultimo accesso 2 Maggio 2015.

96

un aumento del proprio status economico, viene continuamente vanificato dal

peggioramento delle relazioni interpersonali, sempre meno continuative e

significative.179

La metafora del tapis roulant, con tutte le sue diverse accezioni, non

può che mettere in discussione i nostri stili di vita. Il grande sogno americano che ha

rappresentato, e rappresenta tuttora, l’orizzonte immaginario del mondo occidentale, ha

portato con sé, insieme alla crescita economica, anche un significativo deterioramento

delle relazioni umane e dei beni relazionali. Come rilevato da numerose ricerche, nei

cittadini statunitensi, che occupano la prima fila di questa folle corsa, sono vari gli

indicatori che “segnalano un aumento della solitudine, delle difficoltà comunicative,

della paura, del senso di isolamento, della diffidenza, dell’instabilità delle famiglie,

delle fratture generazionali, una diminuzione della solidarietà e dell’onestà, della

partecipazione sociale e civica, un peggioramento del clima sociale.”180

Non è difficile,

vedendo questo scempio relazionale, comprendere come questa situazione abbia un

impatto devastante sulla felicità delle persone, anche perché i beni relazionali hanno il

limite, che è anche il loro pregio, di non poter essere comprati. La cultura consumista

tenta di trovare una risposta a queste carenze rifugiandosi nei beni materiali, che

richiedono però più ore di lavoro per essere acquistati e che finiscono per sottrarre

ulteriore tempo vitale alle relazioni umane. Infilandosi in questa spirale, la civiltà

occidentale è caduta in una trappola che si nutre di tempo e di sentimenti, di emozioni e

di desideri, di relazioni e di benessere, aumentando così i fatturati delle multinazionali,

ma lasciandoci ogni giorno più poveri, delle sole cose in grado di dare un senso più

profondo alle nostre vite. Per difenderci dal degrado dobbiamo spendere e, nel farlo,

aumentiamo quella stessa crescita economica che a sua volta genera un ulteriore

degrado ambientale e relazionale. In questo vortice perverso, il mostro della crescita

finisce per fagocitare l’Umanità intera, nutrendosi del suo stesso potere auto-distruttivo.

C’è inoltre un altro aspetto fondamentale, che spesso non viene preso in considerazione,

ed è quello della progressiva scomparsa dei beni gratuiti, come spiega bene il prof.

Stefano Bartolini, che ha svolto approfonditi studi sulla questione:

“[…] la visione tradizionale della crescita racconta una storia parziale. La storia cioè secondo

cui i beni che per una generazione sono beni di lusso divengono beni standard per la

generazione successiva e bisogni assoluti per quella che segue ancora. La storia della crescita

economica è piena di esempi del genere (elettrodomestici, automobili, viaggi, medicine,

consumi culturali ecc.). Ma questo è solo un pezzo della storia. Il suo lato oscuro è quello di

179 Bartolini S., Manifesto per la felicità, op. cit., p. 75. 180 Idem, p. 16.

97

beni gratuiti per una generazione che divengono beni scarsi e costosi per la generazione

successiva e beni di lusso per quella che segue ancora. Silenzio, aria pulita, un bagno in un

mare o in un fiume pulito, passeggiate piacevoli, prati, boschi, o semplicemente curiosità

umana o quartieri senza criminalità sono tutti esempi di beni disponibili gratuitamente o

quasi ai nostri nonni e spesso ai nostri padri, ma che per noi sono divenuti scarsi.”181

Nel mondo patinato delle pubblicità non c’è alcun bisogno che questi dettagli vengano

spiegati, i desideri vengono realizzati, le promesse mantenute, i prodotti ricambiano il

nostro amore, ma una volta fuori dall’illusione, è necessario che l’Umanità si interroghi

su quanto ancora è disposta a pagare per un progresso economico che rende gli uomini e

le donne più poveri di ciò che davvero conta. Il consumismo non crea persone felici,

perché non è pensato per questo. Se desideriamo un mondo diverso, è necessario

intraprendere un altro cammino, nella direzione opposta.

Pachamama, la Madre rinnegata

In lingua quechua, Pachamama (o Mamapacha) rappresenta la Madre Terra, una divinità

venerata dagli Inca e da altri popoli andini, come Dea della terra, dell’agricoltura e della

fertilità. Questi popoli nativi del Sudamerica vivevano una fede profonda nei confronti

di una Terra che consideravano come loro Madre, in armonia con il ciclo vitale di ogni

creatura e nel rispetto del principio naturale per cui tutto ciò che si consuma deve avere

il tempo di ricrearsi, per tornare nuovamente disponibile. Il libro “Ecopedagogia e

cittadinanza planetaria” riporta che:

“Gli esseri umani riuscivano a vivere egualitariamente, senza che un sesso fosse considerato

superiore all'altro, e in forte unione con la natura "identificata nella dea dalla quale, come

Madre Divina, ricevevano la vita materiale e spirituale". [...] L'evoluzione culturale di una

società di cui la vita e la promozione della vita erano stati la forza motrice si è interrotta

bruscamente con l'apparizione di invasori che si imposero con la forza, con guerre e

tecnologie di distruzione al servizio dello sterminio e della morte. Oggi, "migliaia di anni

dopo, dinanzi alla possibilità di una seconda trasformazione sociale - questa volta da una

società dominata ad una versione più avanzata di società solidale- stiamo mettendo in gioco,

né più né meno, la sopravvivenza della nostra specie".”182

La prospettiva per cui gli abitanti della Terra consumano, ogni anno, più di quanto la

Terra stessa sia in grado di rigenerare, ha spinto un’organizzazione no-profit, il Global

Footprint Network, ad utilizzare il concetto di “impronta ecologica”183

, come unità di

181 Bartolini S., Manifesto per la felicità, op. cit., pp. 84-85. 182 Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, EMI, Bologna 2000, pp. 93-94. 183 Il concetto di “Impronta Ecologica” è stato concepito nel 1990 da Mathis Wackernagel e William Rees

dell’Università della British Columbia, è oggi ampiamente usato da scienziati, aziende, governi, agenzie, individui ed istituzioni che lavorano per monitorare l’uso delle risorse ecologiche e promuovere lo sviluppo sostenibile.

98

misura della domanda di risorse naturali da parte dell’umanità. Essa misura quanta

superficie, in termini di terra e acqua, la popolazione umana necessita per produrre, con

la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti. I

risultati dicono che, dalla metà degli anni ottanta, l’umanità sta vivendo in una

situazione di overshoot, ovvero al di sopra dei propri mezzi, in termini ambientali, con

una domanda annuale di risorse utilizzate al di sopra di quanto la Terra riesca a generare

ogni anno:184

“Nel 1961, l'umanità usava solo tre quarti della capacità della Terra di generare cibo, fibre,

legname, risorse ittiche e di assorbire i gas che generano effetto serra. La maggior parte delle

nazioni aveva una biocapacità più grande della loro rispettiva Impronta. Oggi, l'86% della

popolazione mondiale vive in nazioni che richiedono alla natura più di quanto i loro

ecosistemi nazionali riescano a produrre. Secondo i calcoli del Global Footprint Network,

oggi ci sarebbe bisogno di 1,5 Terre per produrre le risorse ecologiche rinnovabili necessarie

per sostenere l’Impronta attuale dell'umanità. Proiezioni moderate riguardanti la

popolazione, l’energia e il cibo indicano che l'umanità potrebbe richiedere la biocapacità di

tre pianeti ben prima della metà di questo secolo. Questo potrebbe essere fisicamente

irrealizzabile.”185

Leggendo i dati è evidente come, giorno dopo giorno, stiamo dilapidando un immenso

patrimonio di risorse, a danno del pianeta e delle nostre stesse vite. Tagliamo gli alberi

prima che diventino adulti, peschiamo più pesce di quanto gli ecosistemi oceanici siano

in grado di rigenerare ed emettiamo più carbonio nell’atmosfera di quanto le foreste

siano in grado di assorbire. Le conseguenze sono che la nostra scorta di risorse

disponibili viene intaccata in modo significativo di anno in anno, i sistemi naturali non

sono più in grado di assorbire i rifiuti che produciamo e la qualità dell’aria, soprattutto

nelle aree urbane, è peggiorata in maniera esponenziale. Il WWF nel rapporto “Living

Planet 2014”, redatto con il contributo del Global Footprint Network, stima che, se tutti

gli abitanti del Pianeta avessero un’impronta ecologica come quella del Qatar, avremmo

bisogno di quasi cinque pianeti (4,8), se l’impronta fosse quella degli Stati Uniti ne

servirebbero circa quattro (3,9), mentre con quella dell’Italia, di pianeti ne basterebbero

poco più di due e mezzo (2,6), il che significa comunque consumare più del doppio

delle risorse naturali che il pianeta Terra è in grado di offrire. Il vero problema, che

purtroppo ancora in pochi si pongono, è che di pianeti ne abbiamo solo uno.186

Se la

Terra, nell’arco di un anno, è in grado di rigenerare solo un certo numero di risorse

184 Global Footprint Network, Advancing the Science of Sustainability, Oakland 2015,

http://www.footprintnetwork.org/it/index.php/GFN/ , ultimo accesso 3 Maggio 2015. 185 Global Footprint Network, Earth Overshoot Day 2014, Oakland 2014,

http://www.footprintnetwork.org/images/uploads/EOD14italian.pdf , ultimo accesso 3 Maggio 2015. 186 WWF, Living Planet. Report 2014. Specie e spazi, gente e luoghi. Sintesi, WWF, Gland 2014, p. 13.

99

rinnovabili e le mette a disposizione dell’umanità, nel momento in cui queste risorse

vengono consumate prima che l’anno termini, si verifica una situazione di overshoot. Il

primo Earth Overshoot Day, in cui l’umanità ha passato questo limite, è stato il 19

dicembre 1987, nel 1990 il giorno si è spostato al 7 dicembre, nel 2008 al 23 settembre.

Nel 2014 l’Overshoot Day si è tenuto il 19 Agosto, in una tendenza negativa che sembra

non riuscire ad arrestarsi. A maggior ragione se pensiamo che l’Italy Overshoot Day,

dedicato al nostro paese, era già stato “celebrato” cinque mesi prima, il 22 Marzo 2014,

il secondo giorno di una primavera che, appena iniziata, aveva già contratto un debito

con tutte le altre stagioni. Sono innumerevoli i dati che fotografano il problema,

pensiamo ad esempio ad uno dei beni primari ed irrinunciabili, come l’acqua. Dice un

rapporto dell’Unesco:

”Il diritto fondamentale di acqua potabile non è esercitato da circa 3,5 miliardi di donne e

uomini - che spesso non hanno accesso a punti affidabili di energia, in particolare energia

elettrica. Come ha mostrato il 2013, Anno Internazionale per la Cooperazione per l'Acqua,

non vi è abbastanza acqua sulla terra - dobbiamo gestirla meglio insieme.”187

[…]

“L'agricoltura è attualmente il maggior consumatore di acqua a livello mondiale,

responsabile per il 70% del consumo totale. La produzione alimentare e la catena di

distribuzione corrispondono a circa il 30% del consumo di energia totale globale.”188

Nonostante ci si renda conto di quanto l’acqua sia una risorsa fondamentale per la vita

di tutti gli esseri viventi, allo stesso tempo, contro ogni logica, non siamo in grado di

mettere a punto delle strategie efficaci, capaci di prendersi realmente cura dei nostri

mari. L’inquinamento è tale che, solo per fare un esempio, esiste un’isola nel mezzo

dell’Oceano Pacifico, chiamata “Great Pacific Garbage Patch” (nota anche come

“Pacific Trash Vortex”), composta per l’80% da plastica. Un enorme accumulo di

spazzatura, con un diametro di circa 2.500 chilometri, profondo almeno trenta metri e

con un peso stimato di almeno 3,5 milioni di tonnellate che le correnti oceaniche

alimentano di immondizia, come se fosse un nuovo continente.189

Un’altra risorsa che,

soprattutto l’Italia, per la propria particolare conformazione idro-geologica, dovrebbe

conservare con cura, è il suolo. A questo proposito è il FAI, in collaborazione con il

WWF, a lanciare l’allarme, con il rapporto “Terra rubata - Viaggio nell’Italia che

scompare”:

187 Unesco-UNwater, Water and Energy. The United Nations World Water Development Report 2014, Unesco, Parigi

2014, p. V. 188 Idem, p. 54. 189 Bignami L., Nel Pacifico l'Isola della spazzatura per l'80 per cento formata di plastica in "La Repubblica", 29 ottobre 2007.

100

“Negli ultimi 50 anni, l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza

con un aumento di quasi 600.000 ettari, cioè una superficie artificializzata quasi

confrontabile con quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia, ben superiore a quella

dell’intera Liguria e quasi il doppio del territorio regionale della Valle d’Aosta. Se il trend

non si inverte, nei prossimi 20 anni la superficie occupata dalle aree urbane crescerà di 75

ettari al giorno (equivalenti a oltre 100 campi da calcio). Questo nonostante i residenti delle

città scelgano spesso di andare ad abitare altrove. Per ogni abitante perso, la città cresce di

800 metri quadrati.”190

Nonostante sia colpita ormai con una certa frequenza da frane, inondazioni e

smottamenti, la situazione riguardante il consumo di suolo non è drammatica solo in

Italia. Basti pensare alla dissennata deforestazione che ancora oggi colpisce

l’Amazzonia, che nel corso degli ultimi quarant’anni ha visto distruggere 720.000

chilometri quadrati di foresta, pari alla superficie complessiva di Italia e Germania

insieme. Un danno esponenziale, se si pensa che l’espansione dell’allevamento bovino,

che ha reso queste aree pascolo per il bestiame, è anche la prevalente responsabile delle

emissioni di gas serra in Brasile, giunto da poco e molto rapidamente, al quarto posto

della classifica dei maggiori paesi produttori di CO2 nel mondo.191

Il problema della

deforestazione è anche spesso un problema di legalità. Nell’Agosto del 2014,

utilizzando localizzatori GPS nascosti, Greenpeace ha monitorato alcuni camion che

trasportavano legno nello stato brasiliano del Pará, documentando che il taglio illegale

di legno nella foresta amazzonica sta proseguendo nonostante le restrizioni ed i controlli

del Governo brasiliano. Basta una notte, per fornire documenti contraffatti a carichi di

legname tagliato illegalmente e destinato ai grandi mercati d’Europa, Cina, Giappone e

Stati Uniti.192

In Italia, l’illegalità ambientale ha il nome cupo di “Ecomafia” e,

nonostante vi sia stato un calo numerico dei reati, negli ultimi anni ne è aumentata la

pericolosità. Pesano sempre di più gli illeciti relativi al settore agroalimentare,

addirittura raddoppiati in un anno, il ciclo dei rifiuti (+14,3% rispetto al 2012) e le

illegalità commesse ai danni della fauna (+6,6%). Nel 2014 il conto dei clan ecomafiosi

è salito a 321, mentre le Amministrazioni Comunali sciolte per condizionamento

mafioso e commissariate, dal 1991 ad oggi, sono arrivate a quota 248, principalmente

190 FAI,WWF, Terra rubata. Viaggio nell’Italia che scompare. Le analisi e le proposte di FAI e WWF sul consumo

del suolo, Milano 2012. 191 Greenpeace Italia, Promesse infrante. L'allevamento bovino in Amazzonia è ancora causa di deforestazione,

lavoro schiavile e invasioni di terre indigene, Greenpeace Italia, Roma 2011, p. 5. 192 Greenpeace Italia, Allarme Amazzonia: notti di terrore per le foreste, Greenpeace Italia, Roma 2014,

http://www.greenpeace.org/italy/it/ufficiostampa/rapporti/Allarme-Amazzonia-notti-di-terrore-per-le-foreste/ , ultimo accesso 4 Maggio 2015.

101

per questioni legate alla gestione del territorio, nei settori del cemento e dei rifiuti.193

Questo per far comprendere quanto le questioni ambientali, nascondano in realtà, alle

proprie spalle, complessi interessi politici ed economici. Si tratta di attività criminali

che, a livello mondiale, trovano il loro apice nella distorsione più sconsiderata che possa

colpire l’Umanità: la guerra e, in particolare, la guerra per le risorse. Michael Renner,

ricercatore capo presso il “Worldwatch Institute” 194

di Washington e curatore

dell’edizione 2014 di “State of the World”, nel suo libro inchiesta sulle guerre

ambientali “The anatomy of resource wars”, fa un elenco impietoso di alcuni tra i

conflitti più sanguinosi per l’accaparramento delle risorse, aggiornato al 2002. La lista

degli Stati coinvolti è interminabile:

“Afghanistan (1979-2001) oppio, lapislazzuli, smeraldi; Angola (1975-2002) diamanti,

petrolio; Birmania (dal 1949) legno, gas naturale, oppio, pietre preziose; Cambogia (1988-

1997) legno, rubini, zaffiri; Colombia (dal 1948) petrolio, coca; Repubblica Democratica del

Congo (dal 1996) diamanti, oro, coltan, rame, cobalto, legno, caffè, altri; Indonesia (Aceh)

(dal 1976) Gas naturale, legno; Indonesia - Kalimantan (dalla fine anni 1960) legno;

Indonesia - West Papua (dalla metà anni ’60) oro; Liberia (dal 1989) diamanti, legno;

Nigeria (dal 1990) petrolio; Papua Nuova Guinea (1988-1998) rame; Sierra Leone (1991-

2001) diamanti.”195

Dal 2002 molti altri Paesi si sono aggiunti alla lista, colpiti da vere e proprie invasioni,

spesso camuffate da missioni di pace o esportazioni di democrazia a buon mercato, ma

scorrendo l’elenco dei nomi si vede come il fenomeno abbia ormai preso dimensioni

planetarie, divenendo drammaticamente attuale. Nonostante nei prossimi anni,

all’accaparramento delle risorse si sommerà anche la loro progressiva diminuzione,

come nel caso del petrolio, il rapporto “Living Planet” indica come le emissioni di

carbonio derivanti dall’uso dei combustibili fossili costituiscano, ad oggi, la maggiore

componente dell’Impronta Ecologica dell’umanità. Non solo, da oltre mezzo secolo

continuano a mostrare un trend in crescita. Se nel 1961costituivano il 36% del totale

della nostra Impronta Ecologica, nel 2010 costituiscono il 53%.196

La Terra assorbe ciò

che riesce, rigenera quanto può, nelle sua capacità, ma la velocità con cui noi la

inquiniamo, fa sì che la sua risposta diventi ogni giorno più imprevedibile,

193 Legambiente, Ecomafia 2014. Le storie e i numeri della criminalità ambientale, Edizioni Ambiente, Milano 2014,

p. 5. 194 Il “Worldwatch Institute”, fondato nel 1974 da Lester Brown come Istituto di ricerca indipendente dedicato alle

questioni ambientali globali, è stato fin da subito riconosciuto come autorevole, in tutto il mondo, per la lungimiranza delle sue analisi basate su fatti e documentazioni accessibili. Il suo obiettivo è quello di sviluppare soluzioni

innovative ai problemi planetari, facendo leva sui Governi , le imprese del settore privato e l’azione partecipata dei

cittadini, per rendere possibile un futuro sostenibile. 195 Renner M., The Anatomy of Resource Wars, Thomas Prug Editor, Washington 2002, p. 15. 196 WWF, Living Planet. Report 2014. Specie e spazi, gente e luoghi. Sintesi, WWF, op. cit., p. 13.

102

incontrollabile e violenta. Chi pensava ai cambiamenti climatici come ad un fenomeno

inverosimile, in questi anni si è dovuto purtroppo ricredere. Era il novembre del 2013

quando, nelle Filippine, il tifone “Haiyan”, uno dei più forti mai registrati, portò alla

morte di migliaia di persone, facendo salire a quattro milioni il numero degli sfollati e

lasciando due milioni e mezzo di persone senza aiuti alimentari. L’Unicef, molto attenta

al tema dei cambiamenti climatici, visto che i bambini sono loro malgrado anche i

soggetti più vulnerabili di fronte a queste nuove sfide, in un suo rapporto traccia delle

previsioni a cui speriamo di non giungere mai:

“I climatologi sono sempre più sicuri che gli esseri umani stanno alterando il clima della

Terra drammaticamente e che, in assenza di una forte presa di posizione collettiva, ci

troveremo di fronte alla catastrofica situazione di un riscaldamento globale di 4°C o più,

entro il 2100. La più grande sfida per i nostri figli e i figli dei nostri figli sarà quella di

nutrire i 9 miliardi di persone previsti per la metà del XXI secolo, in un mondo devastato da

temperature sempre più calde, in un clima sempre più estremo e con un livello del mare

destinato ad aumentare.”197

Una delle più importanti istituzioni scientifiche del mondo, l’IPCC (Intergovernmental

Panel on Climate Change), nel suo ultimo rapporto198

, ha evidenziato come l’influenza

umana sul sistema climatico sia chiara e come le recenti emissioni di gas-serra, dovute

all’intervento umano, siano le più alte mai registrate nella storia. L’incapacità, fino ad

ora, da parte dei paesi industrializzati, di mettere freno all’inquinamento del pianeta, sta

mettendo fortemente a rischio il futuro dell’umanità, con danni gravi, diffusi ed

irreversibili al delicato ecosistema che ci nutre e in cui viviamo. Molte sono le opzioni e

le possibilità per invertire questa rotta, ma nessuna singola soluzione potrà essere

efficace, se non verrà inserita in più ampio impegno che coinvolga istituzioni, società e

singole persone, in un cambio di mentalità, culturale e ambientale, che ci riporti alla

cura e all’amore per una Terra che ci è Madre, ma che ogni giorno, con i nostri

comportamenti, rinneghiamo. Francesco Gesualdi coglie in pieno il cuore del problema,

quando osserva che:

“Un tempo, se chiedevi a un ragazzino da cosa dipende la nostra vita, ti avrebbe risposto che

dipende dall'aria che respiriamo, dall'acqua che beviamo, dal cibo che mangiamo, dalla

pioggia e dal sole. Oggi ti risponde che dipende dai soldi. Il guaio è che rispondiamo così

anche noi adulti, perché la cultura del denaro si è impadronita della nostra mente e della

nostra vita. Ma i nodi stanno venendo al pettine. Tempo fa un vecchio capo indiano

d'America199

aveva tentato di metterci in guardia: "Quando l'ultimo albero sarà stato

197 UNICEF, Children on the front line. The Challenges of Climate Change, UNICEF, Firenze 2014, p. 5. 198 IPCC, Climate Change 2014. Synthesis Report, Intergovernmental Panel on Climate Change, Ginevra 2015. 199 Si riferisce a Toro Seduto (1831–1890), capo tribù dei Hunkpapa Sioux (Lakota).

103

abbattuto, l'ultimo fiume avvelenato, l'ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può

mangiare il denaro". Purtroppo non lo abbiamo ascoltato e la sua profezia si sta

avverando.”200

La postdemocrazia

Uno degli strumenti privilegiati, per la trasformazione degli scenari fin qui denunciati, è

rappresentato certamente dalla Politica, che dovrebbe rappresentare, nel suo significato

più profondo, l’arte di amministrare il Bene comune, mettendo le Istituzioni al servizio

delle persone, incentivando la cultura della partecipazione e della condivisione. La

realtà italiana ci parla, però, di una crescente disaffezione da parte dei cittadini e di una

fiducia decisamente bassa nelle Istituzioni. Se è vero, infatti, che, ad oggi, gli elettori

con diritto di voto sono circa 50 milioni, i votanti sono però in costante diminuzione.

L’affluenza alle urne per le ultime elezioni europee ha raggiunto, infatti, il livello più

basso mai registrato, passando dall’85,7% del 1979 al 57,2% del 2014.201

Alquanto

impietoso è anche il quadro disegnato dall’Eurispes nel proprio “Rapporto Italia 2014”

dove, nella scheda “Uno Stato di necessità”, definisce la relazione tra italiani, politica

ed Istituzioni:

“Anche quest'anno la tradizionale rilevazione dell'Eurispes evidenzia lo scollamento tra i

cittadini e le Istituzioni, che si manifesta attraverso un grado di sfiducia diffuso e

generalizzato. [...] Il rapporto dei cittadini con le Istituzioni chiamate a rappresentarli,

tutelarli e guidarli si è sfaldato con un peggioramento costante nell'arco di dieci anni (2004-

2014) [...] si registra un numero più elevato di sfiduciati tra gli over65 (77,5%) e, allo stesso

tempo, un aumento del dissenso tra i 18-24enni (74,3%; nel 2013 erano il 66,9%). [...]

Osservando nella sua totalità il campione intervistato, quanti non si riconoscono in nessuna

area politica rappresentano il 36,1%; a questi si aggiungono coloro che non hanno saputo o

non hanno voluto rispondere in merito a quale sia la propria area politica di riferimento

(12,4%). Quasi la metà del Paese quindi non sembra avere un chiaro orientamento politico e

non si sente rappresentata dai diversi schieramenti. Si salvano Quirinale e Magistratura, ma

senza raggiungere il 50% dei consensi. [...] Ai margini del consenso si attestano invece il

Governo, che si mantiene attorno al 16% dei fiduciosi, e il Parlamento, che, seppur in

crescita rispetto a una fiducia ai minimi storici registrata nel 2013 (9%), non riesce ad andare

oltre al 16% dei consensi. Il dato più preoccupante in verità è che entrambe queste due

ultime Istituzioni, benché emanazione e proiezione del voto degli italiani, vivono più di tutte

le altre il peso di una sfiducia radicata e diffusa tanto da raccogliere la disaffezione di 4

cittadini su 5.”202

Questa nuova modalità di intendere la Politica che, complessivamente, riguarda non

solo il panorama italiano, ma in generale tutte le democrazie “occidentali”, ha portato il

politologo britannico Colin Crouch a coniare, nel 2003, il termine di Postdemocrazia,

200 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 36. 201 Istat, Annuario statistico italiano 2014, Istat, Roma 2014, p. 284. 202 Eurispes, Rapporto Italia 2014. Sintesi, Eurispes, Roma 2014, Scheda 21 p. 38.

104

intendendo un sistema politico regolato ancora dalle tradizionali regole democratiche,

ma che di fatto si è svuotato progressivamente della prassi politica, riducendo le

occasioni di partecipazione da parte dei cittadini e aumentando, invece, la burocrazia, il

ruolo dei tecnocrati, la moltiplicazione di organi intergovernativi, la visione economica

dello Stato a sfavore di quella sociale, accentuando, in particolar modo, i legami di

potere con le lobbies e con i media. Afferma lo stesso Colin Crouch:

“Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è

uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle

tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi

gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico,

limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la

politica viene decisa in privato dall'integrazione tra i governi eletti e le élite che

rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”203

S’instaura quindi una forma di governo che non rappresenta più l’ideale pieno della

democrazia, ma che allo stesso tempo ha ancora alcune sue caratteristiche, come se la

democrazia avesse raggiunto il culmine di una parabola e adesso fossimo arrivati in una

fase discendente, in cui gli interessi di una minoranza potente hanno un peso specifico

ben più importante di quello della maggioranza dei cittadini, così da piegare il sistema

politico agli obiettivi di una nuova ed influente oligarchia, di cui lo stesso potere

politico è parte essenziale. Nella postdemocrazia, le élite politiche hanno imparato in

modo sistematico a manipolare e guidare i bisogni della gente, tanto che le campagne

elettorali seguono ormai tutti i dettami delle strategie legate al marketing pubblicitario,

invece di preoccuparsi dello spessore dei contenuti e del valore delle proprie idee. Il

rischio è chiaramente quello di una classe politica che interpreti lo Stato come

un’azienda profit, dimenticando dei principi fondanti come quelli di democrazia e di

sussidiarietà, scambiando i cittadini con consumatori da soddisfare (o quantomeno da

distrarre), affinché tornino a pagare il conto, necessario a sostenere il sistema. La

postdemocrazia, di fatto, è l’evoluzione dello Stato democratico verso una strada che,

più che con i valori della costruzione del Bene comune, ha affinità con il mondo dello

spettacolo e con quello della commercializzazione dei beni, in uno scenario orientato

all’interesse di pochi e finalizzato agli interessi privati, più che a quelli pubblici.

Viviamo in una fase di passaggio in cui, certamente, non tutto è perduto e dove sono

molti i rappresentanti dei cittadini che credono ancora nel valore delle Istituzioni e

nell’importanza etica del proprio ruolo, così come sono ancora fondamentali la

203 Crouch C., Postdemocrazia, Laterza, Roma 2003, p. 6.

105

presenza, la capillarità e la vitalità di tanti volontari che si impegnano nel mondo

dell’associazionismo, su tutto il territorio italiano. Le ragioni del diffondersi della

postdemocrazia, con tutta probabilità, non vanno quindi cercate nel mancato interesse

delle persone per le questioni sociali, quanto nelle difficoltà che esse trovano ad

affrontare le questioni sociali all’interno di un sistema postdemocratico, che non ha

nessun vantaggio a risolvere questioni che rappresentano una spesa, anziché un ritorno

economico. In questo senso, se l’Umanità vuole realmente intraprendere un cammino

verso una vera cittadinanza planetaria, è necessario ricostruire una democrazia

partecipativa, che parta dal basso e che trovi la sua linfa nel radicamento locale, nei

luoghi dove le persone si possono ancora incontrare, discutere, dialogare, per costruire

insieme le basi di una convivenza solidale, sostenibile ed eticamente orientata, in cui

nessuno venga escluso, emarginato o abbandonato ad un destino scritto per lui da altri.

È partendo dal basso che la Politica può giocare la sua partita più importante.

II.1.2 Nuove categorie per un Cammino Nuovo

Leggendo queste pagine, risulta evidente come gli scenari in cui viviamo siano

estremamente complessi e, molto spesso, fortemente correlati tra di loro, così da

condizionarsi a vicenda. Facendo una rilettura di Paulo Freire, sarebbe quindi

semplicistico, ridurre il concetto di oppressione ad un fenomeno unilaterale, per cui

esiste un oppressore che agisce il proprio potere negativamente verso un oppresso. Se,

infatti, è molto chiaro che esistono oppressori privi del minimo senso etico che

agiscono come predatori senza scrupoli pur di mantenere alto il tenore delle proprie vite

e, come controparte, esiste invece una categoria di oppressi che non è in grado di

provvedere ai più elementari bisogni vitali, vivendo costantemente sotto la soglia della

povertà assoluta, è anche vero che esiste una moltitudine di persone che porta in sé, un

livello più o meno alto di entrambe le caratteristiche. Parafrasando Freire, potremmo

definire come dualismo dell’oppressore (speculare al dualismo dell’oppresso) questa

sorta di contaminazione che fa sì che esistano oppressori che, pur esercitando

un’oppressione, ne restano però prigionieri, con il risultato di diventare a loro volta

oppressi. Si tratta dell’esasperazione del meccanismo per cui, secondo Freire stesso,

“nessuno può essere, con autenticità, mentre impedisce che gli altri siano: l’essere di

più ricercato nell’individualismo conduce a un avere di più egoista, che è una forma di

106

essere di meno. Di disumanizzazione.”204

L’iniquità prodotta dall’attuale sistema

capitalista, con la collaborazione, più o meno consapevole, di milioni di consumatori in

tutto il mondo, si è trasformata così in una perdita di valori che ha creato, nel cosiddetto

Primo Mondo, una vera e propria voragine di senso, sprofondando nella solitudine, nella

sfiducia e nell’incertezza milioni di persone. I segnali che descrivono la situazione

attuale li abbiamo visti, in modo dettagliato, in precedenza: l’impoverimento e

l’esclusione di quanti non riescono più a permettersi di stare nel sistema, perdendo lo

status di esseri umani per il solo fatto di non poter partecipare al banchetto mondiale del

consumo; l’ingordigia di oligarchie politiche o multinazionali, che non hanno rispetto di

nulla e di nessuno, pur di accaparrarsi le risorse necessarie ad alimentare la propria

insaziabile fame di profitto; un sistema economico che si crede immortale, senza limiti,

destinato ad una crescita infinita che si alimenta però di risorse limitate, se non

addirittura in fase di esaurimento; un’Umanità volta allo spreco, incapace di analizzare

il presente e programmare un futuro più equo e sostenibile, in definitiva un’Umanità

talmente votata al consumo, che un po’ alla volta ha finito per consumare se stessa; un

sistema economico che, volutamente, produce desideri e promesse irrealizzabili, che

vanno a braccetto con l’obsolescenza dei prodotti e con il bisogno insito dell’essere

umano di trovare risposte ai propri bisogni profondi, che nessun oggetto o servizio potrà

però mai colmare; una Madre Terra rinnegata, calpestata, sfruttata, che rientra di diritto,

come organismo vivente, nel novero degli oppressi, probabilmente la prima tra gli

oppressi, dato che è lei a nutrirci e a darci la vita, anche se spesso ce ne dimentichiamo;

infine, una politica svuotata dei suoi valori costituenti, come la partecipazione, il

mettersi a servizio dei più deboli, la cura del Bene Comune, a favore invece del potere

di pochi e dell’interesse di lobbies che hanno a cuore solo i propri interessi privati. Di

fronte ad un quadro così desolante, sarebbe lecito abbandonare ogni speranza e

rassegnarsi allo sconforto, ma è lo stesso Freire ad aiutarci a fare un passo oltre:

“Il discorso ideologico della globalizzazione cerca di mascherare che essa viene

rimpinguando la ricchezza di pochi e contemporaneamente viene acutizzando la povertà e la

miseria di milioni di altri. Il sistema capitalistico raggiunge con il neoliberismo

globalizzatore il massimo dell’efficacia della sua intrinseca iniquità. Attendo, convinto che

prima o poi arriverà, il momento in cui, passato lo stupore di fronte al crollo del muro di

Berlino, il mondo si riprenderà e rifiuterà la dittatura del mercato, fondata sulla perversità

della sua etica del profitto.”205

204 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 75. 205 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 101.

107

C’è quindi la consapevolezza che anche il sistema capitalistico sia un fenomeno storico

e, come tale, possa essere inquadrato in un periodo che ha avuto un inizio e che,

probabilmente, avrà una sua fine. Nessun cittadino dell’antica Roma avrebbe

immaginato di vedere il crollo del proprio Impero, così come in pochi avrebbero

immaginato un declino così repentino di una super-potenza mondiale come la ex-

Unione Sovietica. È importante quindi essere consapevoli che, quando una società è

costruita, dal punto di vista strutturale, istituzionale e sociale, su delle basi fragili, inique

e insostenibili, il suo inevitabile destino è quello di crollare, come la statua gigante

apparsa in sogno al Re Nabucodonosor nella Bibbia (Daniele 2, 31-34), che era sì

imponente, fatta di oro, argento e bronzo, ma avendo i piedi di argilla, colpita da una

pietra, si frantumò miseramente ai piedi del Re.206

Vi è una profonda differenza però,

oggi, rispetto alle esperienze del passato ed è rappresentata dal significativo impatto che

la nostra impronta ecologica ha sul pianeta Terra. Si presenta di fronte a noi una

situazione completamente nuova: l’oppressione non riguarda più i soli rapporti tra gli

esseri umani, ma ha coinvolto interamente anche Madre Terra, colei che ci nutre e che

dà all’Umanità stessa l’opportunità di vivere. I livelli di inquinamento, di consumo di

suolo, di accaparramento delle risorse di cui abbiamo parlato, dovrebbero interrogarci,

in maniera molto seria, sul fatto che, o sarà l’Umanità a trovare un nuovo cammino o

sarà la Terra stessa a costringere gli uomini e le donne ad interrompere lo scempio

perpetrato nei suoi confronti. Non è infatti in discussione il futuro del pianeta Terra, ma

il destino dell’Umanità che lo abita. Con questa consapevolezza, dovremmo trovare,

come esseri umani, delle risposte condivise ed efficaci alle sfide che abbiamo di fronte,

come rileva acutamente il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman:

“Condividiamo tutti lo stesso pianeta e non abbiamo qualche altro posto dove andare, quindi

i nostri destini sono molto più interconnessi di quanto saremmo disposti ad ammettere,

mentre le sfide che ci vengono lanciate (al pari delle strategie che ci ispirano) sono molto più

simili di quanto siamo inclini a immaginare. Le sfide sono molteplici, spuntano con poche

avvisaglie o senza alcun preavviso e ci colgono impreparati ma richiedono risposte

rapide.”207

In questo senso, il tempo che abbiamo a disposizione deve essere utilizzato nel modo

migliore. Il rapido esaurimento delle risorse (o la loro ridotta disponibilità, come nel

caso dell’acqua potabile) e il fenomeno dei cambiamenti climatici, in continua

206 Centro Nuovo Modello di Sviluppo, A.Zanotelli, Lettera ad un consumatore del Nord, EMI, Bologna 1990, p. 14. 207 Bauman Z., Homo consumens, Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson, Trento 2006, p. 14.

108

evoluzione verso soglie di temperatura globale che metterebbero a repentaglio la vita

stessa sulla Terra, ci mettono nella condizione, se non di cercare di risolvere tutti i

problemi, quanto meno di prepararci al meglio al futuro che ci aspetta, adottando già da

ora tutte quelle pratiche che potrebbero rendere sostenibile la nostra esistenza sul

pianeta, riducendo la nostra impronta ecologica fino a renderla compatibile con il

normale ciclo vitale. È un problema di prospettiva che coinvolge inevitabilmente chi, in

questo momento, è il maggior responsabile del problema, cioè quel 20% della

popolazione mondiale che vive con l’80% delle risorse che, assuefatto a questa

sproporzione, ritenendola un dato di fatto o peggio ancora un merito acquisito, ha

bisogno di intraprendere dei percorsi di coscientizzazione riguardo alla situazione

drammatica che la Terra e la maggior parte dei suoi abitanti stanno vivendo. Freire, nel

testo Pedagogia della Speranza, descrive molto bene il tipo di apprendimento che

sarebbe necessario agli uomini e alle donne del Primo mondo, affinché si instauri una

nuova prospettiva democratica, più equa, giusta e sostenibile, volta a sovvertire l’ordine

ingiusto che abbiamo creato:

“[…] l’“apprendimento” - da parte di chi è abituato ad avere tutto il potere - che parecchie

cose che appaiono come una minaccia ai suoi privilegi, intesi da lui ovviamente come diritti

inalienabili, non sono altro che la messa in pratica dei diritti di coloro ai quali fino ad ora ne

veniva proibito l’esercizio. L’“apprendimento” dell’immoralità dei propri privilegi, e quindi

della necessità di estirparli, come quello di sfruttare i deboli, di proibir loro di “essere” o di

rifiutar loro la speranza.” 208

Il rischio, infatti, di chi vive egoisticamente il proprio benessere, ignorando che

quest’ultimo è figlio di un diffuso e profondo malessere altrui, è quello che evidenzia

bene Vincenzo Altomare, nel testo da lui dedicato alla pedagogia di Paulo Freire, dal

titolo “La parola liberatrice”:

“Qualunque restrizione alle loro comodità, fatte in nome del diritto di tutti a vivere

dignitosamente, è percepita come una forma di violenza e di sopruso ch'essi devono subire

inopinatamente. La mentalità degli oppressori è predatoria: dominata dalla logica dell'avere

essi tendono a concepire tutto, dalla natura alla storia viva dei popoli, come qualcosa di

manipolabile, di oggettivo, di assoggettabile. Il materialismo più crasso è la loro vera

filosofia. Il possedere diventa condizione dell'essere. Aspirano ad 'avere di più', non ad

'essere di più'! E quell'aspirazione diventa, nel loro immaginario collettivo, una sorta di

diritto naturale, inviolabile e benedetto perfino dalla religione. Ma non considerano che,

quanto posseggono, deriva in realtà da un processo di usurpazione e di saccheggio di risorse

naturali e umane che appartengono ad altre comunità, ad altri popoli, ad altri ecosistemi.”209

208 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 218. 209 Altomare V., La parola liberatrice. La pedagogia di Paulo Freire, Pazzini Stampatore Editore, Rimini 2009, pp.51-52.

109

Allo stesso tempo, il consumatore, che partecipa al meccanismo dell’oppressione,

alimentando quella parte di economia ingiusta, che crea inquinamento, schiavi bambini,

paradisi fiscali, corruzione, soprusi, devastazione e guerre, ha come contrappasso un

crescente senso di insoddisfazione, di insicurezza, di solitudine, di infelicità che lo

opprime, rendendolo paradossalmente, a sua volta, oppressore ed oppresso. Infatti,

come sottolinea Paolo Vittoria, docente e pedagogista presso l’Università Federale di

Rio de Janeiro:

“Oppressione è anche il sentimento dell'occidentale della classe media, su cui le trame della

società contemporanea spesso costruiscono percorsi di alienazione, di dipendenza che sono il

prodotto di un sistema di rapporti sociali ed economici che presentano il rischio di auto-

opprimere e reprimere. Sarebbe opportuna una riflessione attenta su quante forme di

colonizzazione sono presenti nel nostro mondo: in ambito economico, politico, sociale,

familiare, sentimentale, infine educativo. Ci sono colonizzazioni evidenti, quasi eclatanti, ma

anche colonizzazioni sotterranee, meno riconoscibili: sono quelle in cui gli oppressi non

sanno o non hanno piena coscienza di esserlo, perché non vedono gli oppressori.”210

Affrontando questo delicato aspetto legato all’oppressione, ci sembra fondamentale

premettere, per sgomberare il campo da qualsiasi fuorviante interpretazione, come esista

un tipo di oppressione che potremmo definire come oppressione assoluta,

identificabile cioè con la totale spoliazione di ogni diritto e bene, tipica di quella parte

di mondo che sopravvive con le briciole di ciò che rimane e che il subire questo tipo di

oppressione, sia ben diverso dal sentirsi inadeguati o frustrati, visto che in palio c’è la

vita stessa e non la soddisfazione personale o la piena realizzazione dei propri sogni.

Detto questo, resta comunque il fatto che anche il consumatore oppressore subisce

un’oppressione, che potremmo definire come un’oppressione relativa, in risposta ad

un sistema che egli stesso contribuisce a creare con le proprie mani, con i propri

consumi e con il proprio stile di vita, volto a rispondere a bisogni indotti e non a quelli

più veri, insiti invece nel profondo dell’essere umano. Pur essendo un’oppressione

relativa, essa è comunque un’oppressione reale, in quanto oggettivizza l’uomo,

rendendolo un ingranaggio del sistema, assegnandogli un valore non tanto per ciò che è,

ma per ciò che egli metterà a disposizione per far girare l’economia. Come nel caso

dell’oppressione assoluta, anche se con risvolti chiaramente diversi, il risultato finale è

la progressiva disumanizzazione dell’essere umano, in particolar modo sotto il profilo

valoriale, etico, sociale e spirituale. In questa prospettiva, il processo di

coscientizzazione e di liberazione non andrebbe tanto indirizzato al consumatore come

210 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 123.

110

oppressore, ma a quella parte di oppresso che è dentro di lui e che, una volta liberata,

disvelerebbe i meccanismi stessi dell’oppressione alla totalità della persona, che

ritroverebbe così, in pienezza, la propria umanità. Questo accadrebbe in coerenza con

quanto sostenuto da Paulo Freire per cui:

“[…] l'oppressore non è in condizione né di liberarsi né di liberare l'oppresso. È quest'ultimo

che, nel liberarsi, libera l'oppressore; libera l'oppressore nella misura in cui gli impedisce di

continuare ad opprimerlo. Questa è un'affermazione di fatto, positiva, e in essa non esiste

alcun idealismo. Non ho voluto dire che l'oppresso farà un discorso, che sarà benevolo,

niente del genere. Lui libera perché proibisce che un altro soggetto lo opprima. È una

liberazione etica con ripercussioni politiche.”211

L’apprendimento diventa quindi quello dell’oppresso, che ritrova la propria possibilità

di essere-di-più e che desidera condividere, con altre persone, la possibilità inedita di

costruire un mondo in cui poter realizzare nuove pratiche, improntate alla democrazia,

alla giustizia e alla fratellanza. L’altro aspetto fondamentale della pedagogia freiriana è,

infatti, che “nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in

comunione, attraverso la mediazione del mondo.”212

Per costruire un cammino nuovo,

nel Primo mondo, così come nel Nordest del Brasile, è necessario che le persone si

uniscano tra di loro e si impegnino in una lotta comune, aprendosi ad una lettura critica

del mondo che permetta loro di renderlo migliore. Un altro aspetto interessante da

sottolineare è legato al fatto che, riprendendo in Freire i concetti di coscienza

“intransitiva”, coscienza “transitiva naturale” o “transitiva ingenua” e di “coscienza

transitiva critica”, si può presupporre che, rispettivamente, esistano delle analoghe

tipologie di consumatori che facciano riferimento ai diversi stadi della coscienza: il

consumatore conformista/manipolabile, che è in balìa di ciò che i messaggi

pubblicitari lo inducono a comprare, al di là delle reali necessità o delle funzionalità del

prodotto in vendita; il consumatore superficiale/istintivo, che è magari a conoscenza di

aspetti poco etici di alcune multinazionali e della precaria situazione generale, ma che

allo stesso tempo ritiene che si possa fare molto poco per cambiare le cose, ragion per

cui delega ad altri la soluzione dei problemi; il consumatore critico/consapevole, che

non solo ritiene che fare la spesa equivalga ad esercitare un voto rispetto al mondo che

verrà, ma che ragiona complessivamente, in maniera critica ed articolata riguardo al

proprio stile di vita, analizzando il più possibile le conseguenze del proprio agire

quotidiano. Proprio come descrive Freire per il passaggio da una coscienza all’altra, allo

211 Passetti E., Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, op. cit., pp. 97-98. 212 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 69.

111

stesso modo, il processo di coscientizzazione può compiersi solo all’interno dello stadio

critico/consapevole. Qui, il consumatore abbandona i panni di chi consuma, per mettere

quelli di chi si rende conto, in una prospettiva critica e problematizzante, di far parte di

un complesso sistema ecologico e relazionale, in cui ogni pratica deve essere scelta in

modo responsabile, se si ha a cuore il progetto di un mondo più pulito, più giusto e più

solidale. È evidente, per quanto rilevato in precedenza, che la complessità degli scenari

non può essere affrontata con la coscientizzazione di un solo consumatore o di un

gruppo di consumatori. Per trovare delle strade nuove occorre che il fenomeno

dell’oppressione venga affrontato in una maniera più ampia e, a tal proposito, è molto

interessante l’accostamento tra oppressione e violenza che propone Vincenzo Altomare,

parlando del lavoro del sociologo norvegese Johan Galtung, uno dei padri degli studi

sulla pace e sulla risoluzione dei conflitti, nonché fondatore del Peace Research Institute

di Oslo (PRIO):

“A tal proposito può esserci di aiuto la triplice distinzione suggerita da Johan Galtung. Egli,

infatti, distingue fra violenza diretta, violenza strutturale e violenza culturale. La prima è

data dallo scontro fisico e/o verbale fra due o più persone, come da gruppi e addirittura

popoli. La violenza strutturale, invece, indica i terreni di coltura sui quali germoglia

l'ingiustizia, quella - ad esempio - causata dalle istituzioni economiche, politiche e

finanziarie ed esercitata su persone e comunità, che risultano così limitate al massimo grado

nell'esercizio della loro libertà di scelta e di autonomia nell'agire. Infine, la violenza culturale

è l'insieme degli atteggiamenti indotti dalla situazione sociale o da un sistema educativo che

genera nelle persone rassegnazione, indifferenza, disimpegno, fatalismo, disinteresse, apatia,

interesse solo per sé, razzismo, xenofobia, apartheid e forme diverse di segregazione, e via

dicendo.”213

Mutuando questa illuminante intuizione di Johan Galtung, si potrebbe quindi parlare: di

oppressione diretta, quando il processo di oppressione lega tra di loro, in modo diretto,

delle persone, dei gruppi o delle popolazioni; di oppressione strutturale, quando

l’oppressione è insita nella struttura economico-politica, che ne viene permeata in modo

diffuso e pervasivo; di oppressione culturale, quando l’oppressione viene promossa

all’interno del sistema socio-culturale, così da giustificarne e motivarne l’esistenza,

come condizione giusta e necessaria per la salvaguardia dello status quo e

dell’immobilismo culturale di una società. Questa equiparazione è giustificata dal fatto

che chi opprime, a tutti gli effetti, opera una violenza che può manifestarsi a vari livelli.

L’oppressione, nella sua radice etimologica, deriva dal latino ob- (innanzi, contro) e

213 Altomare V., La parola liberatrice. La pedagogia di Paulo Freire, op. cit., pp. 45-46.

112

prèmere (calcare, stringere, abbattere, premere)214

, cioè premere contro, stringere,

togliere il respiro, così da isolare l’oppresso nel silenzio, privandolo della parola e del

diritto ad esprimersi, trasformandolo in oggetto, derubato della propria umanità. Questo

comporta che per estirpare il fenomeno dell’oppressione non è sufficiente allentare la

pressione esercitata sul costato di chi vorrebbe parlare, ma è necessario fare un’analisi

seria delle cause stesse dell’oppressione, cogliendo le eventuali radici nel sistema

economico-politico e socio-culturale, che potrebbero rappresentarne l’origine reale.

Così come sarebbe riduttivo considerare la pace come l’assenza di guerra o la salute

come l’assenza di malattie, allo stesso modo l’oppressione non può essere rimossa con

la sola rimozione della violenza. Serve passare ad un secondo livello di intervento,

affinché attraverso un approccio critico-problematizzante vengano rimosse le cause

stesse dell’oppressione, con la costruzione di una società più giusta, equa, responsabile,

solidale. Infine serve arrivare ad un terzo livello, che è quello del perdono e della

riconciliazione. Nessuna oppressione può essere vinta con il subentrare di una nuova

oppressione, così come, ricorda Martin Luther King, “la tenebra non può scacciare la

tenebra: solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio: solo l’amore può farlo.

L’odio moltiplica l’odio, la violenza moltiplica la violenza, la durezza moltiplica la

durezza, in una spirale discendente di distruzione.”215

Seguendo il pensiero di Freire, il

compimento di una rivoluzione si ha quando la liberazione dell’oppresso, porta anche

alla liberazione dell’oppressore, che privato della possibilità di opprimere, viene a sua

volta liberato. Solo così l’Umanità potrà essere libera di iniziare un nuovo cammino.

I temi generatori

All’origine di ogni situazione-problema, secondo Freire, ci sono sempre delle coppie

dialettiche che rappresentano i temi generatori del problema stesso (come ad esempio

nel caso della coppia oppressi-oppressori). Questi temi sono storici, in quanto

appartengono al processo dinamico con cui la storia si costruisce e trasforma il mondo. I

temi generatori hanno in sé la possibilità di generare altrettanti temi che, a loro volta,

provocano nuovi interrogativi a cui rispondere e aprono la strada a nuove sfide che

richiedono di essere affrontate. In questo senso, ricercare dei temi generatori per il

nostro tempo significa darci la possibilità di problematizzare in maniera critica il

214 Pianigiani O., Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, http://www.etimo.it/ , ultimo accesso 2 Giugno

2015. 215 King M.L., La forza di amare, Società Editrice Internazionale SEI, Torino 2014, p. 82.

113

mondo, all’interno del contesto in cui viviamo. Servirebbe probabilmente un lavoro

approfondito di ricerca per giungere a delle conclusioni più circostanziate ma, senza

avere la pretesa di esaurire la discussione, ci sembra comunque importante fare delle

ipotesi su quelli che potrebbero essere alcuni tra i temi generatori del nostro tempo, così

che si possa aprire un confronto costruttivo intorno ad essi:

Solitudine – Relazione. Il mondo “occidentale”, come abbiamo visto, spinge oltremodo

in direzione dell’individualismo, dell’egoismo, della competizione e dell’esclusione di

chi non è gradito al sistema, restando sordo a quello spirito di fratellanza che si basa

invece sulla responsabilità reciproca, sull’accoglienza, sulla fiducia, sulla solidarietà.

Ragionare sulla coppia Solitudine - Relazione potrebbe aprire delle riflessioni

interessanti su ciò che significa, a livello personale, vivere la solitudine come un

processo di esclusione o come una scelta, favorendo un’analisi di quanto la dimensione

relazionale sia una condizione imprescindibile del nostro essere umani.

Individualismo – Comunità. L’aspetto relazionale diviene ancora più complesso nel

momento in cui raggiunge una dimensione più ampia, a livello sociale. Ragionare sulla

coppia Individualismo – Comunità significa addentrarsi in quei meccanismi che portano

alla crescita o alla diminuzione dell’egoismo all’interno di una comunità, per

comprendere se lo stile della propria società di appartenenza è quello non solo di

escludere, ma di arrivare a colpevolizzare lo stesso escluso della propria emarginazione,

oppure se prevalga la coesione sociale di chi riconosce nello stare insieme una

condizione essenziale affinché l’apporto di tutti, insieme, renda migliori le vite di

ciascuno.

Privato – Pubblico. L’aspetto sociale, nel momento in cui si struttura in forma

istituzionale, diventa un argomento molto delicato, in cui si contrappongono, in maniera

non sempre chiara le dimensioni del profitto e del Bene comune. Il rapporto tra Privato

e Pubblico è un argomento di estrema attualità in cui, spesso, le questioni sono

banalizzate, attribuendo al sistema privato tutti quei requisiti di efficienza che vengono

contestati a tutto ciò che appartiene invece alla sfera pubblica. In realtà sarebbe più

opportuno riscoprire il valore etico di ciò che significhi amministrare realmente il Bene

comune, evidenziando il ruolo fondamentale della Politica nel generare percorsi di

partecipazione e giustizia sociale, che aiutino anche il Privato a trovare una propria

114

collocazione in una società costruita e pensata in funzione dell’essere-di-più degli

esseri umani e non per la loro mercificazione.

Locale – Globale. Sono qui in relazione il piccolo e il grande, il vicino e il lontano, il

simile e il diverso, l’identità culturale e l’apertura alla mondialità. Senza dubbio il tema

generatore che scaturisce dalla coppia Locale – Globale, non può prescindere dal

comprendere un’analisi di ciò che rappresenti oggi la globalizzazione, parola spesso

ingannevole, che nel significato sembra orientarsi verso un mondo unico e che in realtà

procura divisioni, rotture e ferite profonde all’interno dell’Umanità. Disuguaglianze che

portano inevitabilmente a percorsi di violenza, oppressione e ingiustizia, che

raggiungono livelli difficilmente sanabili. Nonostante questo, la coppia di termini

rappresenta anche una riscoperta di ciò che è vicino, di ciò che è percepito come

conosciuto, famigliare e, proprio per questo, più facilmente trasformabile, migliorabile,

a portata di mano. Sono molti i presupposti per cui, pensare globalmente e agire

localmente, potrebbe essere una buona modalità verso cui indirizzare le nostre pratiche.

Crescita economica – Sviluppo Sostenibile. In primo luogo è necessario, come ricorda

spesso lo stesso Freire, non confondere sviluppo con modernizzazione. Anche solo per il

fatto che crescita economica e sviluppo Sostenibile sono in contrapposizione, serve ad

evidenziare come sia indispensabile superare l’idea di sviluppo come di qualcosa

puramente economico e/o tecnologico. Esiste anche uno sviluppo umano, che prende in

considerazione, oltre agli aspetti economici, anche ambiti fondamentali a livello sociale

come la difesa dei diritti umani, la promozione della pace, la difesa e la cura

dell’ambiente, l’attenzione alle politiche sanitarie, educative e sociali, allo sviluppo

economico locale, alla partecipazione democratica, alla costruzione di una società più

giusta, equa e attenta ai più deboli. Spesso si sente parlare di crescita, dimenticando che

la crescita in sé non è un valore, soprattutto, se si ha la consapevolezza che, senza

sostenibilità, la crescita smisurata non può che portare alla fine di risorse, che sono, per

loro natura, limitate. Servirebbe partire dall’analisi del filosofo e sociologo francese

Edgar Morin che, a proposito della definizione di sviluppo dice:

“Concepito in modo solo tecnico-economico, lo sviluppo a breve termine è insostenibile.

Abbiamo bisogno di un concetto più ricco e complesso dello sviluppo, che sia nello stesso

115

tempo materiale, intellettuale, affettivo, morale… Il XX secolo non è uscito dall’età del ferro

planetaria, vi è sprofondato.”216

Natura – Tecnologia. Partire da questo tema generatore significa addentrarsi nel

campo più affine al rapporto esistente tra gli esseri umani e Madre Terra. Oggi più che

mai è indispensabile che si maturi una sensibilità ecologica tale da spostare il baricentro

da una concezione antropocentrica del mondo ad una eco-biocentrica, in cui ci sia il

passaggio culturale che il mondo è a disposizione dell’Umanità, a patto che l’Umanità

non solo se ne serva, ma che a sua volta si metta al servizio, secondo un modello

relazionale che non sia unidirezionale, ma di forte correlazione tra tutti gli attori

dell’eco-sistema. La maturazione dell’idea del pianeta Terra come Madre, è

un’immagine fortemente emotiva, che spiega più di mille parole, quale debba essere il

cammino da percorrere insieme.

Questi rappresentano solo alcuni tra i temi generatori possibili. Ripensare Freire

significa anche cercare nuovi percorsi in questa direzione, nuove domande, nuove

occasioni di confronto, nuove sfide da affrontare insieme. La pedagogia freiriana

risponde all’iniquità con l’impegno per la giustizia, alla rassegnazione con la speranza,

nella consapevolezza che è una nostra grande responsabilità quella di lasciare ai nostri

figli un mondo migliore di quello che abbiamo ereditato. Sono molte le persone che

sono consapevoli che quello che stiamo percorrendo è un cammino sbagliato, il

problema è che sono molti anche quelli che sentono la fatica del dover cambiare. In

questo senso serve che l’educazione apra le porte a percorsi di coscientizzazione, che

aiutino la nostra società pigra ed opulenta a fare un passo verso l’impegno al

cambiamento. Non è un passaggio semplice, come abbiamo visto. Per questo motivo

serve far leva sull’oppresso che anche i consumatori oppressori portano dentro di loro,

con la consapevolezza che ognuno di noi, per quanto arrivi ad essere obiettivo,

coscientizzato ed impegnato, fa comunque parte del sistema che vorrebbe combattere. È

lo stesso Freire a trattare questo aspetto, cercando di mantenere la maggiore onestà

intellettuale possibile:

“Ho cercato di pensare e di insegnare tenendo un piede dentro e un piede fuori dal sistema.

Cioè, non posso essere totalmente fuori dal sistema se il sistema continua ad esistere. Sarò

totalmente fuori solo nel caso in cui il sistema stesso sarà trasformato. Ma esso non è stato

216 Morin E., I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Cortina, Milano 2001, p. 70.

116

trasformato perché, in realtà, va avanti trasformandosi. Così, per produrre un effetto, non

posso vivere ai margini del sistema. Devo starci dentro.”217

E nello stare dentro al sistema, avremo bisogno di una pedagogia che ci aiuti ad

analizzare criticamente il mondo in cui viviamo, così che il nostro comportamento sia

finalmente guidato da pratiche sostenibili rispettose di Madre Terra e degli esseri umani

che la abitano, da pratiche improntate alla giustizia, che ci aiutino a costruire un mondo

in cui gli uomini e le donne siano fratelli e sorelle, non pericolosi rivali. Una pedagogia

che cambiando il nostro stile di vita, ad oggi eticamente ed ecologicamente

insostenibile, sappia indicare all’Umanità nuove strade, nuovi cammini, inediti, ma

storicamente possibili, affinché gli esseri umani possano riscoprire il senso profondo del

loro essere-di-più, così che la loro presenza nel mondo possa fare la differenza tra una

civiltà dell’egoismo e una civiltà della condivisione, tra un destino sfarzoso per pochi e

un futuro, più umano, per tutti.

217 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit., p.82.

117

II.2 Per una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita.

“L’educazione non è

la chiave risolutiva,

ma la soluzione dei problemi

non può avvenire

senza di essa.”

(Paulo Freire)218

II.2.1 Il ruolo dell’educazione e le dimensioni essenziali

Come spesso afferma Paulo Freire, l’educazione non è la chiave risolutiva dei problemi,

ma la soluzione dei problemi non può avvenire senza di essa: l’educazione, da sola, non

può quindi cambiare la società ma, allo stesso tempo, la società non può cambiare senza

l’educazione. Come educatori, prima ancora di ragionare rispetto a qualunque sia la

nostra impostazione pedagogica, se la nostra prospettiva è a favore della vita umana, del

rispetto dei diritti di ognuno, dell’equità, della sostenibilità, della convivenza pacifica e

della giustizia sociale, non abbiamo altra strada se non quella di vivere in prima persona

questi valori, diminuendo il più possibile la distanza tra ciò che sogniamo e ciò che

facciamo, tra ciò che diciamo e ciò che agiamo nelle nostre vite. La testimonianza

onesta e appassionata di chi educa è il primo passo, la pietra angolare che sostiene la

coerenza di una pedagogia critica-problematizzante, che ha l’obiettivo di aiutare le

persone a rendersi libere, raddrizzando le storture di una società ingiusta, che promuove,

all’opposto, l’immobilità degli oppressi. L’educazione è una peculiarità umana, un atto

di intervento nel mondo, che crea e ri-crea la storia. Non si tratta quindi di trasmettere

dei contenuti, ma di produrre insieme dei significati, prendendo coscienza della realtà

che ci circonda e delle possibilità inedite che abbiamo di scardinare quei meccanismi

immorali, che confinano il potere nelle mani di pochi. Senza ripetere quanto già detto

nella prima parte, dedicata in maniera specifica a Paulo Freire, ma solo per fissare

alcuni punti imprescindibili della sua concezione pedagogica, è indispensabile

sottolineare come per Freire: l’educazione sia, in primo luogo, uno strumento di

speranza, in contrapposizione alla rassegnazione di chi pensa che le cose non possano

cambiare mai e che il destino sia già stato scritto per lui da altri; l’educazione, per essere

pienamente efficace, debba essere un’educazione popolare, critica, analitica, creativa,

partecipativa, ma soprattutto che preveda il dialogo, l’incontro, il confronto tra le

persone, così che costruiscano insieme il proprio cammino; l’educazione debba

218 Passetti E., Conversazioni con Paulo Freire, il viandante dell’ovvio, op. cit., p. 43.

118

promuovere e coltivare la curiosità (innata nell’essere umano, ma troppo spesso arginata

da un sistema troppo occupato a conservare se stesso), così che diventi una curiosità

epistemologica, orientata all’analisi critica e alla ricerca di soluzioni alle situazioni-

problema che la vita ci pone; l’educazione abbia un’idea di utopia come luogo a cui è

possibile approdare, verso cui orientare le proprie vele; l’educazione sia politica,

impegnata, concreta, ingaggiata in una lotta perseverante per la costruzione di una

società migliore, più sobria, più accogliente, più giusta, orientata eticamente alla

realizzazione dell’essere-di-più-nel-mondo da parte di tutti, nessuno escluso.

L’educazione può diventare uno strumento rivoluzionario solo se ci si lascia

continuamente interrogare da domande profonde, che danno senso alla stessa idea di

educazione:

“Chi sceglie e come sono insegnati i contenuti? In cosa consiste insegnare? Che cosa

significa imparare? Come si svolgono i rapporti tra insegnare e imparare? Cos’è la

conoscenza derivata dall’esperienza? Possiamo scartarla per imprecisione, per

disorganizzazione, o come superarla? Chi è l’insegnante? Qual è il suo ruolo? E l’allievo, chi

è? Qual è il suo ruolo? Se l’insegnante non è uguale all’allievo vuol dire che deve essere

autoritario? È possibile essere democratici e dialogici senza abdicare al ruolo di insegnante,

differente da quello dell’allievo? Il dialogo si riduce a un dibattito senza conseguenze che

rafforza la mentalità di lasciare le cose così come sono? Ci può essere uno sforzo serio di

scrittura e di lettura della parola senza la lettura del mondo? La critica che si fa

necessariamente all’educazione “depositaria” vuol dire che l’educatore, che la pratica, non

ha più niente da insegnare o non deve farlo più? Sarebbe possibile un insegnante che non

insegna? Cos’è la codificazione, qual è il suo ruolo nell’insieme di una teoria della

conoscenza? Come capire, soprattutto come vivere, il rapporto pratica-teoria senza che ciò

diventi un luogo comune? Come superare la tentazione “militante”, volontaristica, come pure

quella intellettualistica, “verbosista”? Come trattare il rapporto linguaggio-cittadinanza? Se

non ci facciamo continuamente provocare da queste domande e non ci sforziamo di

rispondervi, non sarà possibile fare educazione in pienezza, come pratica politica e

gnoseologica. Credo, infine, che le mie risposte siano già implicite nella maniera in cui

presento le domande.”219

Trovare insieme la risposta a queste domande significa fare educazione, costruire dei

percorsi di crescita e di maturazione umana, nel segno di una precisa intenzionalità

educativa. È appunto la presenza di un’intenzionalità a spronare chi partecipa all’atto

educativo, verso obiettivi, ideali, sogni e utopie. In questo senso non può esistere

un’educazione autentica che rimanga neutrale. Chiunque educa in maniera autentica fa

infatti politica, perché la stessa educazione è politica. Se vuole realmente realizzare la

propria vocazione più profonda, quella cioè di trasformare il mondo insieme alle

persone che vi appartengono, l’educazione non può che essere politica. Questo non

219 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 157.

119

significa orientare le persone a sogni impossibili o a promesse irrealizzabili, ma neanche

negare ai più intraprendenti il diritto a sognare. Seguendo il cammino tracciato da

Freire, sposare questa idea di educazione vuol dire proporre una nuova filosofia

educativa e sociale che ha come fine ultimo quello di leggere il mondo, al fine di

trasformarlo. È necessario, affinché ogni azione educativa sia efficace, che vi sia a

monte una riflessione sull’essere umano e sul contesto concreto in cui egli vive. Ogni

relazione dell’essere umano con il proprio ambiente di appartenenza è una sfida e per

ogni sfida non vi sono delle risposte giuste, anzi, il più delle volte ci sono molteplici

risposte alla stessa sfida. La consapevolezza di quanto sia importante una seria ed

obiettiva analisi del contesto, nella definizione di una pratica educativa, ha fatto sì che

lo stesso Freire si interrogasse riguardo alle implicazioni che comporta l’educare al

cambiamento di un sistema, quando l’educatore stesso ne fa parte. A questo proposito,

Peter Mayo, docente presso l’Università di Malta, ricorda:

“Freire, parlando del ruolo dell'educatore, inserito nelle strutture educative di una società

capitalista, sottolineava che la sua presenza doveva essere caratterizzata da una presenza

"tatticamente dentro e strategicamente fuori", cioè da un atteggiamento di ricerca dell'inedito

possibile all'insegna di una qualità di processi e prodotti che veda, al centro di tutto, cittadini

consapevoli, responsabili e solidali con chi si trova in una condizione di oppressione.”220

Questo atteggiamento non è sempre facile da realizzare ed è per questo motivo che è

necessario essere a conoscenza dei pericoli, così da starne il più possibile in guardia.

Ermenegildo Guidolin e Rocco Bello, autori del testo “Paulo Freire educazione come

liberazione” sottolineano come:

“L'uomo non può partecipare attivamente alla storia, alla società, alla trasformazione della

realtà se non è aiutato a prendere coscienza della realtà e della propria capacità di

trasformarla. Non si lotta contro le forze che non si comprendono [...]. Bisogna dunque fare

di questa presa di coscienza l'obiettivo primario dell'educazione, bisogna anzitutto provocare

un atteggiamento critico, di riflessione che impegni all'azione.”221

Allo stesso tempo, l’educazione ha una grande responsabilità, perché non è sufficiente

stare nel mondo. È importante essere coscienti del fatto che leggere il mondo ci aiuta ad

apprendere la realtà, ma questo lavoro ha senso solo al fine di cambiarla e, cambiando la

realtà, cambiano anche le persone che sono entrate in relazione, all’interno del processo

educativo. È analizzando criticamente il contesto e mettendo insieme le forze, che

220 Cit. Mayo P. in Telleri F., Paulo Freire e l’educazione degli adulti, in Schettini B., Toriello F., Paulo Freire,

Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, op. cit., p. 20. 221 Guidolin E., Bello R., Paulo Freire educazione come liberazione, op. cit., p. 83.

120

l’educazione può esprimere concrete pratiche di libertà, fraternità ed uguaglianza, pur

nella diversità. Quando Freire parla di rivoluzione intende appunto la realizzazione di

questo percorso, volto a trasformare i legami di oppressione in legami umani di amore.

Gli obiettivi finali di un’educazione criticamente impegnata nella storia sono la piena

realizzazione dell’essere umano in un essere-di-più e la trasformazione del mondo, con

la consapevolezza che dire che l’uomo crea la storia è ben diverso dal dire che ne è il

padrone. Troppo spesso, infatti, l’arroganza e la supponenza hanno fatto dell’essere

umano il peggior nemico di Madre Terra e della stessa Umanità, come sostenuto nel

libro di Francisco Gutierrez e Cruz Prado Rojas, “Ecopedagogia e cittadinanza

planetaria”, uno dei contribuiti più preziosi alla nascita di una disciplina pedagogica

autonoma, definita appunto come Ecopedagogia:

“Si rende necessario intraprendere percorsi educativi nuovi in grado di farci uscire dal

contingente "hic et nunc", per proiettarci in una nuova dimensione: la dimensione del futuro,

del domani e di una diversa presenza dell'uomo sulla Terra. [...] Gli autori adoperano il

termine Ecopedagogia. Intendono in tal modo riferirsi alla riflessione necessaria, oggi più

che mai, su una teoria e una prassi educativa che tengano conto che l'uomo ha il

diritto/dovere di sentirsi non tanto il dominatore della Terra, ma soprattutto un cittadino

planetario, quale principale custode delle risorse, delle bellezze e delle diverse forme di vita.

Non tenerne conto potrebbe essere estremamente rischioso non solo per la sua vita sul

"pianeta azzurro", ma anche per la sopravvivenza dello stesso pianeta. [...] Ecopedagogia,

dunque, è una proposta di orientamento nuovo della riflessione e dell'azione educativa:

orientamento che rimette in primo piano la necessità di affrontare con urgenza un problema,

quello educativo, che si sta rivelando come il nodo nevralgico per il futuro non solo

dell'umanità sulla Terra, ma dello stesso pianeta, che da meraviglia forse unica nell'universo

rischia di essere trasformato in deserto inospitale e inabitabile.”222

Nel tentativo di definire il ruolo dell’educazione, all’interno di una Pedagogia politica

dei Nuovi Stili di Vita, ci sembra importante sottolineare come, spesso, in diversi

contributi sul tema, il prefisso “Eco” di Ecopedagogia, assuma un valore predominante

rispetto al resto del discorso, come se la situazione-problema preponderante fosse legata

quasi esclusivamente all’aspetto ecologico-ambientale. In realtà, legando

l’Ecopedagogia al tema dell’oppressione e spostando il baricentro della questione

sull’importanza degli Stili di Vita, vorremmo focalizzare l’attenzione sulle nostre

responsabilità, su quanto, come esseri umani, siamo allo stesso tempo i fautori degli

attuali scenari mondiali, ma anche i possibili agenti di cambiamento. Non solo.

Premesso, come già detto in precedenza, che qualsiasi cosa accada, è probabile che la

Terra sopravviva comunque all’ignoranza umana, è fondamentale che venga centrata

222 Bellanova B., Telleri F., Presentazione all’edizione italiana. Dai diritti dell’uomo ai diritti del pianeta, in Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, op. cit., p. 8.

121

l’attenzione intorno al tema della giustizia sociale. Si tratta di una questione etica di

altissima importanza, che riguarda la coscienza di ognuno di noi, abitanti privilegiati

della parte opulenta del mondo. La costruzione di un futuro sostenibile, in cui il rispetto

del ciclo di vita di Madre Terra si unisca alla consapevolezza degli esseri umani di

essere figli della stessa Terra e fratelli nella diversità, sarà possibile solo se avremo il

coraggio di costruire percorsi educativi che parlino al cuore dell’essere umano, senza se

e senza ma. È fondamentale che l’educazione si riappropri del proprio ruolo, che non è

quello di riempire le teste di inermi studenti con nozioni utili ai soli quiz televisivi, ma

piuttosto quello di creare domande, di porre sfide continue, con l’intento di ritrovare il

senso di un mondo fondato sulla pace, sull’equità sociale, sulla giustizia, sul rispetto,

sull’accoglienza, sulla condivisione, volto alla promozione di una cultura della vita e

alla piena realizzazione degli uomini e delle donne che vivono sulla Terra. Il luogo di

questa rivoluzione è innanzitutto la nostra vita, mentre il tempo è l’oggi, l’adesso, l’ora,

con lo sguardo rivolto al futuro. L’atto educativo è nel succedersi quotidiano di queste

sfide ed è proprio la vita il luogo del senso. È da questa consapevolezza che si può

iniziare a rileggere Freire, ma come dice bene Paolo Vittoria:

“[…] non può essere un autore, un educatore o uno scrittore solo a teorizzare la re-

invenzione del pensiero di Paulo Freire. Esso andrà re-inventato mediante le ipotesi comuni

di intervento educativo, la ricerca collettiva di relazioni più umane, profonde, creative, ma

non tralasciando l'attenta conoscenza della sua pedagogia e dei contesti di intervento.”223

Chiunque si avvicini a Paulo Freire, quindi, deve avere chiaro che il cammino si fa e si

costruisce insieme, perché è solo insieme agli altri che si può trasformare il mondo.

La necessità di un approccio problematizzante

In linea con la pedagogia freiriana, uno degli aspetti fondanti di una Pedagogia politica

dei Nuovi Stili di Vita, non può che essere un approccio problematizzante, in grado di

affrontare le questioni che ogni giorno ci interpellano come esseri umani. Una

Pedagogia critica non si accontenta, infatti, di una lettura del mondo così com’è, ha

bisogno invece di analizzare, esplorare, interrogare, al fine di cogliere le risposte inedite

a tutte le situazioni-problema che le si pongono di fronte. Si tratta di un processo di

riflessione spesso faticoso, ma estremamente efficace nel produrre nuova conoscenza,

attraverso l’esperienza e la riflessione sulla pratica (che nella terminologia freiriana

223 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 28.

122

prende il nome di prassi). La conoscenza non è definita, non è depositata, la conoscenza

è piuttosto un problema, a cui si deve trovare insieme una risposta, partendo dall’analisi

del contesto in cui il problema stesso è stato generato. Come spiega bene Giuseppe Elia,

docente di pedagogia all’Università degli studi di Bari e autore del testo “Paulo Freire,

una scelta per l’utopia”:

“Quindi, un'educazione problematizzante si identifica con il movimento di permanente ed

incessante ricerca dell'uomo. Un movimento, tuttavia, che essendo storico ha le sue radici nel

contesto particolare di ciascun uomo, il che presuppone un'analisi accurata della realtà in

vista di un'azione trasformatrice. [...] l'educazione problematizzante fa della realtà oggettiva

una precisa situazione di sfida: l'uomo comune, sentendosi sfidato, per quanto grandi

possono essere le difficoltà e gli ostacoli, non perde di vista il fatto di essere il soggetto della

storia si impegna allora, in uno sforzo supremo, a superare i suoi stessi limiti nella ricerca di

soluzioni ardite ed inusitate, quelle che Freire definisce 'possibilità ancora inedite di

azione'”.224

L’approccio problematizzante rende quindi la Pedagogia critica, uno strumento di

coscientizzazione che ha l’obiettivo di promuovere, lontano da posizioni fatalistiche o

mitiche, una coscienza critica tra le persone, che aiuti a vedere il mondo senza

preconcetti o pregiudizi, indagandolo, problematizzandolo, andando alla radice delle

questioni, scendendo in profondità, fino a trovare i temi generatori del nostro tempo.

Un’educazione che sappia incamminarsi in questa direzione è diventata ormai un

imperativo etico per una società che, come la nostra, è guidata dal profitto, dalla

competizione, dai condizionamenti, dall’apparenza, dall’egoismo. Affinché

l’educazione problematizzante diventi realmente efficace è necessario che: chi partecipa

all’atto educativo viva il dialogo, non come uno strumento, ma come un atto d’incontro,

un atto di amore in cui le persone ricerchino insieme il proprio essere-di-più; la

disponibilità a cambiare e a mettersi in discussione non sia un atteggiamento a priori,

ma rappresenti un serio esame di coscienza nei confronti delle proprie prassi e del

mondo (o dei mondi) di appartenenza, così da mantenere o migliorare ciò che di buono

il passato ha da consegnare al futuro, nonostante tutto; l’educazione viva di un

movimento di ricerca permanente, in cui il rimettere in discussione le proprie posizioni

non sia il segno di una mancanza di fermezza, ma di una volontà di dare loro delle

fondamenta più sicure. A questo proposito Daniele Novara, pedagogista e docente,

fondatore del Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti di Piacenza,

scrive che:

224 Elia G., Paulo Freire una scelta per l’utopia, Mario Adda Editore, Bari 1998, pp. 58-59

123

“La pedagogia di Paulo Freire insinua il tarlo del dubbio nelle nostre pseudo-sicurezze, ci

insegna l’impertinenza, ci insegna a vivere con un atteggiamento creativo, con lo spirito di

chi vuol fare della propria vita qualcosa di unico.”225

I buoni educatori, secondo Freire, non sono quelli che cantano la “ninna-nanna” agli

educandi, ma quelli che sono in grado di lanciare loro delle sfide. È così facendo che gli

educandi si stancano, certo, per la tortuosità del cammino, ma non si addormentano,

perché non lasciano sopite le proprie coscienze nella cultura del silenzio. Non è dato

sapere quando avverrà la maturazione dell’educando, è certo però che non esiste né un

tempo stabilito, né una formula magica, ma solo l’impegno da parte di chi, come

educatore, ha il dovere di cercare di promuovere tutti quei processi educativi che,

centrati sull’esperienza, stimolino gli educandi all’analisi critica della realtà, alla

decisione e alla responsabilità. In questo senso la pedagogia di Freire, può essere un

punto di riferimento, per la costruzione di pratiche di libertà: è imparando a leggere il

mondo che lo si può comprendere, è correndo il rischio di una decisione che si impara a

scegliere, è prendendosi delle responsabilità che si inizia a crescere. Scrive infatti lo

stesso Freire:

“A mio parere è preferibile rafforzare il diritto che la libertà ha di decidere, anche a costo di

correre il rischio di non compiere la scelta giusta, piuttosto che seguire la decisione dei

genitori. È decidendo che si impara a decidere. Non posso apprendere ad essere me stesso se

non decido mai, perché ci sono sempre la saggezza e il buon senso di mio padre e di mia

madre a compiere per me la scelta.”226

La prospettiva di una pedagogia critico-problematizzante non è quella di stigmatizzare

gli errori, ma di imparare da essi, incentivando la libertà degli esseri umani a sbagliare,

a rialzarsi, ad imparare. Nessuno può apprendere ad esercitare la propria libertà, se non

ha mai la possibilità di esprimere la propria opinione, di incidere nei processi di scelta,

nel prendere delle decisioni, nel prendersi la responsabilità delle proprie scelte e

posizioni. Nessuno può pensare di migliorare se stesso e il mondo in cui abita, senza il

coraggio di rischiare qualcosa, senza l’apertura alle possibilità di errore o evitando il

confronto con un parere diverso dal proprio. La paura è uno dei nemici più grandi del

cambiamento e, proprio per questo, esercitare la propria libertà aiuta l’educando a

trovare il coraggio di scegliere e dà la possibilità all’educatore che ha attivato il

processo educativo di incentivarne l’autonomia, l’autostima, la consapevolezza, la

225 Novara D., Il metodo Paulo Freire in Italia, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e

sviluppo sostenibile, op. cit., p. 94. 226 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 84.

124

responsabilità, il protagonismo e la speranza. Per realizzare tutto questo serve che il

confronto sia aperto, schietto, su dati reali, su fatti concreti, troppo spesso, infatti, il

contesto educativo è racchiuso in un setting ovattato, in cui le questioni vengono trattate

a livello puramente teorico, come ad esempio quando la povertà viene trattata come un

concetto astratto su cui scrivere un tema e non come una piaga dell’Umanità che ha

nomi, volti e cari su cui piangere, ogni giorno, ogni secondo di ogni giorno. È una

preoccupazione, questa, cara allo stesso Freire, che ne parla in questo modo:

“Perché non discutere con gli alunni la realtà concreta a cui collegare la disciplina di cui si

sta insegnando il contenuto? La realtà brutale in cui la violenza è una costante e in cui le

persone sono costrette a convivere più con la morte che con la vita. Perché non stabilire un'

“intimità” tra i saperi curriculari fondamentali per gli alunni, e l'esperienza sociale che essi

hanno come individui? Perché non discutere le implicazioni politiche e ideologiche di tanto

disinteresse da parte dei ceti dominanti nei confronti delle aree povere della città, o l'etica di

classe che vi sottende?”227

È forse ora più chiaro come l’educazione, per Freire, non possa che essere politica. Una

Pedagogia dei Nuovi Stili di Vita che non partisse da questi presupposti rischierebbe di

essere un discorso fine a se stesso, orientato verso chi ha già tutto, incentrato sul

benessere fisico e sull’ecologia, ma non è questa l’accezione di educazione che potrà

portare il mondo fuori dal guado in cui si è incagliato.

Il dialogo come stile di vita

Un altro aspetto fondante, che può qualificare una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di

Vita come realmente critica e problematizzante, è l’utilizzo del dialogo. Quest’ultimo

non può essere però ridotto ad un mero strumento metodologico, piuttosto deve essere

considerato come un pre-requisito della relazione tra gli esseri umani, che nello spazio

dialogico possono trovare il luogo privilegiato per un incontro autentico tra di loro. Il

dialogo rappresenta un’esigenza esistenziale, in quanto, attraverso la parola, gli uomini

e le donne hanno la possibilità di trasformare il mondo dandogli un nome. Come avverte

Freire, “non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo per il mondo e per gli

uomini. Non è possibile dare un nome al mondo, in un gesto di creazione e ricreazione,

se non è l’amore a provocarlo.”228

Il dialogo, per Freire, inizia già dal pensare quale

argomento sia più opportuno affrontare con gli educandi, segno della sua incessante

227 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 26. 228 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 79.

125

ricerca riguardo ai contenuti dell’educazione, ma è nella sua impostazione pedagogica

che si distanzia maggiormente dalla pratica depositaria dell’educazione, tipica dei

sistemi che vogliono conservare il proprio potere:

“Freire sviluppò un vero e proprio sistema pedagogico basato sul dialogo: l’educatore pone

una serie di domande "legittime" per costruire un significato comune, collettivo. Non mira a

imporre i suoi significati, ma a costruire delle occasioni di dialogo, di confronto. È questo il

metodo della coscientizzazione: è un metodo maieutico, basato cioè sul presupposto che

nessuno può insegnare nulla agli altri se non a partire da un contenuto già presente nella

mente dei singoli; l’insegnamento è un’occasione per recuperare questo contenuto, per farlo

tornare a galla. Secondo questa concezione, ognuno è portatore di una cultura, e questa

cultura è importante.”229

Si ottiene così un dialogo tra persone che sanno cose diverse, che possiedono saperi

diversi e che, proprio per questo motivo, hanno il diritto di esprimere la propria parola,

affinché unita alle altre, abbia a costruire una parola nuova, comune, condivisa. In

questa direzione, la pratica dialogica è inquadrabile in una corrente costruttivista e

critica, che non si esaurisce mai nella teoria, ma che si intreccia con l’esperienza dei

diversi saperi. Il dialogo autentico, se è fondato realmente sull’amore, nell’educatore

critico ed impegnato, non può che essere uno stile di vita, un modo di essere, di leggere

il mondo, di incontrare gli altri, di lottare nel rispetto e nell’accoglienza delle diversità.

Inquadrando il dialogo come un aspetto fondante della sua pedagogia, Freire si spinse

talmente avanti da fargli dire che “siamo convinti che, quanto prima comincia il

dialogo, più rivoluzione ci sarà”230

. Legando così indissolubilmente il dialogo ad una

rivoluzione, prima di tutto culturale, oggi più che mai necessaria, se vogliamo invertire

la rotta rispetto al mondo che stiamo preparando ai nostri figli.

La questione del metodo

Spesso il nome di Paulo Freire viene accostato alla parola “metodo”. Non è un caso se

la raccolta degli interventi del secondo International Forum Paulo Freire, che si tenne a

Bologna nel 2000, venne intitolata, appunto, “Il metodo Paulo Freire: nuove tecnologie

e sviluppo sostenibile”. In realtà, però, come anticipato in precedenza, non è pienamente

corretto definire la pedagogia freiriana come un metodo. Non lo è perché, la pedagogia

pensata da Freire è, nella sua essenza più profonda, un’impostazione educativa, una

229 Novara D., Il metodo Paulo Freire in Italia, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e

sviluppo sostenibile, op. cit., p. 89. 230 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 125.

126

filosofia dell’educazione e non un insieme di procedimenti sequenziali atti a

raggiungere un obiettivo predefinito. Lo stesso “metodo” di alfabetizzazione, che è la

parte del lavoro di Freire che più si avvicina al concetto di metodo, non è riproducibile

in modo meccanico, ma è un procedimento filosofico che varia secondo il contesto

socio-culturale in cui si svolge e muta anche in base alla lettura del mondo che viene

fatta dalle persone che interagiscono dialogicamente tra loro. L’obiettivo

dell’alfabetizzazione era sì, infatti, di leggere la parola, ma al fine di leggere il mondo.

È quindi necessario comprendere come, più che dal “metodo”, una pedagogia critica-

problematizzante debba partire innanzitutto dalle persone, che rappresentano il nucleo

più vero e profondo della pedagogia. Una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita

deve quindi avere dei presupposti teorici, delle fondamenta ben solide, ma soprattutto

deve continuamente puntare ad un’approfondita visione del mondo, frutto di una seria

analisi critica della realtà, piuttosto che fondarsi su di una serie di passaggi da seguire

pedissequamente, così da arrivare al risultato desiderato. In questo senso, stiamo

probabilmente parlando di qualcosa di più di un metodo ed è necessario che una

pedagogia, così impostata, sia in grado di rileggere il mondo tramite la denuncia delle

situazioni limite e, in seguito, sia capace di trasformarlo, grazie all’annuncio di

quell’inedito possibile che, ancora in divenire, può essere in grado, in un futuro

prossimo, di incidere significativamente sulle infinite distorsioni che la nostra società in

questo momento produce. Perché questo accada, è indispensabile apprendere dal

contesto e dalle storie di vita delle persone che incontriamo, prima ancora di pretendere

di insegnare loro qualcosa. Serve l’umiltà di chi si spoglia delle proprie certezze per

andare incontro all’altro. Serve costruire e ricostruire la propria autorevolezza attraverso

l’ascolto dell’altro, valorizzando la sua unicità. Il problema non è quello di trovare un

metodo, ma di costruire insieme una pedagogia in grado di dialogare ad un livello

profondo con gli esseri umani, liberandoli dai tanti condizionamenti, dai pregiudizi e da

tutte quelle catene, spesso non percepite, che limitano nell’uomo lo spirito critico e la

determinazione a conquistare la propria libertà. Fatto questo passaggio, le attività e le

proposte potrebbero essere infinite, ma senza questa prospettiva nessuna azione avrebbe

senso, in quanto fine a se stessa. L’educazione autentica, secondo Freire, non si può

avere depositando delle nozioni nella testa degli educandi: quello educativo non è un

movimento che va dall’educatore all’educando, ma è un processo che si disvela

insieme, un passo alla volta, dall’educatore con l’educando, attraverso la mediazione del

127

mondo. Il frutto di questa mediazione sfida entrambi, dando origine a visioni, dubbi e

speranze, che costituiranno il contenuto stesso dell’educazione:

“L’educando si riconosce conoscendo gli oggetti, scoprendo che è capace di conoscere,

assistendo all’attribuzione dei significati e in questo processo diventa anche lui qualcuno che

attribuisce significati in forma critica. Più che essere educando a causa di un motivo

qualunque, l’educando ha bisogno di diventare tale accettandosi come soggetto conoscente e

non come effetto del discorso dell’educatore. In ciò consiste, in ultima analisi, la grande

importanza politica dell’atto di insegnare.”231

Riscoprire questo aspetto significa ridare valore al senso dell’educare, prima ancora che

alle azioni da mettere in campo, significa scegliere insieme una direzione, prima ancora

di decidere con che mezzo arrivarci. La questione del metodo è una questione valida,

ma solo partendo da questi presupposti, altrimenti il rischio è di svuotare l’educazione

del suo significato più autentico.

Le chiavi pedagogiche

Nel loro lavoro su “Ecopedagogia e cittadinanza planetaria”, Francisco Gutierrez, uno

dei padri fondatori del’IPF di São Paulo e la sposa, Cruz Prado Rojas, leader sindacale

della Confederazione Generale dei Lavoratori (CGT) e fondatrice, in Costarica, del

primo Dipartimento delle donne che lavorano,232

hanno svolto un approfondito lavoro

nell’individuare alcune chiavi pedagogiche che consentano all’Ecopedagogia di

garantire la legittimità e l’intenzionalità dei processi educativi. Il motivo di questa scelta

è legato alla volontà di costruire una pedagogia in grado di proporre delle attività e dei

processi aventi un’unità di senso, con alla loro base, cioè, una chiara intenzionalità

educativa e non delle azioni che si esauriscano in se stesse, prive di un apertura al

mondo e non orientate alla trasformazione sociale. Nell’ottica di pensare ad una

Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, recuperare questo lavoro significa partire da

una base comune, che dia delle coordinate condivise a tutte quelle pedagogie che hanno

a cuore la liberazione dell’essere umano, educandolo al rispetto e all’amore per i propri

fratelli e per una Terra, che non è solo un pianeta, ma che è, a tutti gli effetti, Madre. In

231 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 67. 232 Francisco Gutierrez, amico di Paulo Freire, ha un dottorato di Ricerca in Educazione con una specializzazione in Pedagogia della Comunicazione e Mediazione Pedagogica. È attualmente presidente dell’Istituto Latino per la

Ricerca e la Cultura (ILPEC), con sede in Costa Rica. La sua sposa e collaboratrice, Cruz Prado Rojas, oltre che

essere una leader sindacale, ha studiato legge e ha conseguito un master in comunicazione e un dottorato in

pedagogia. Insieme hanno scritto uno dei testi di riferimento per quanto riguarda il tema dell’Ecopedagogia, dal titolo appunto “Ecopedagogia e cittadinanza planetaria”.

128

sintesi, con qualche rivisitazione, le chiavi pedagogiche proposte da Francisco Gutierrez

e da Cruz Prado Rojas sono le seguenti:233

Camminando si apre cammino. Pedagogia è aprire nuovi cammini, dinamici, inediti,

irripetibili, vissuti e spirituali: serve trovare un senso al proprio camminare e il luogo

del senso sta nell’apprendimento quotidiano; occorre orientare pedagogicamente le

nostre pratiche verso l’obiettivo di una cittadinanza ambientale e planetaria; il

cammino va sostenuto con strumenti concettuali, mezzi e strategie in grado di incidere

in modo efficace su una realtà in continuo movimento.

Camminare con senso. L’educazione è un processo in cui si elaborano dei significati,

camminare con senso significa dare senso alle nostre azioni quotidiane, dando loro un

significato, passando dall’azione alla prassi, come direbbe Freire. La condivisione delle

prassi, fa sì poi che il senso possa divenire collettivo, spronando le persone a

camminare insieme, costruendo e ri-costruendo insieme il cammino. Più alto è il valore

che riusciamo a dare al nostro cammino, individuale e comunitario, maggiore è la

possibilità di avvicinarsi ad una reale cittadinanza planetaria.

Camminare in atteggiamento di apprendimento. È necessario essere coscienti del

percorso di crescita che si sta affrontando ed è importante farlo in modo aperto, in

ricerca, con una modalità che Freire definirebbe come curiosità epistemologica. Il

nostro sistema economico e sociale è talmente complesso, che ci richiede di saper

leggere criticamente e strategicamente tutte le sfide che ci si pongono di fronte, con

l’atteggiamento umile di chi sa di dover imparare ancora molto sulla vita, sulle persone

e sulle trasformazioni che ogni giorno coinvolgono il mondo e chi lo abita. Camminare

in atteggiamento di apprendimento significa essere aperti al nuovo, alle emozioni, alla

creatività, alla relazione, alla conoscenza, alla complessità, alla responsabilità.

Camminare in dialogo con l’ambiente. Il dialogo rappresenta l’essenza stessa dell’atto

educativo, è il luogo dell’incontro con l’altro e si costruisce man mano, valorizzando e

accogliendo le esperienze, le aspettative e i sogni di chi condivide con noi il proprio

cammino. Non può esistere un vero dialogo senza l’amore verso il prossimo, con il

233 Cfr. Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, op. cit., pp. 64-78.

129

rispetto di chi accoglie e discute posizioni anche molto diverse dalla propria, mettendo

al primo posto l’opportunità di crescere insieme come esseri umani, come esseri-di-più.

Nel camminare, privilegiare l’intuizione. In senso etimologico, intuire significa

riuscire a “vedere dentro” ed è la capacità di percepire rapidamente. L’intuizione non

nasce dal caso, ma va piuttosto coltivata, curata, con un’educazione che sia capace di

lavorare sull’intelligenza emotiva, rendendo più naturale all’essere umano il contatto e il

dialogo con la sfera emotiva, che riguarda il campo delle emozioni e

dell’immaginazione, fondamentale nel processo di apprendimento.

Camminare come processo produttivo. Così come l’obiettivo di un buon albero è di

produrre buoni frutti, così il processo educativo deve essere realizzato per produrre delle

buone prassi, affinché l’educando possa costruire conoscenze insieme agli altri,

imparando ad esprimere il proprio punto di vista, la propria lettura del mondo. Se il

frutto dell’educazione è buono, ne trarranno giovamento tutti: l’educatore, come

conferma della bontà del cammino; l’educando, come gratificazione per le sfide

affrontate e superate; il mondo, come possibilità di divenire, nella sua continua

trasformazione, un luogo migliore in cui vivere.

Camminare ri-creando il mondo. L’educazione deve essere in grado di creare

conoscenza, di produrre cambiamenti e perché questo sia possibile, è necessario che vi

sia libertà di espressione. In senso etimologico, l’espressione rappresenta la parola, ma

anche il sentimento, le passioni dell’animo. È solo dando voce all’essere umano e

lasciandogli la possibilità di esprimere la propria umanità agli altri, che daremo

l’opportunità agli uomini e alle donne di crescere umanamente come fratelli e sorelle,

creando e ri-creando il mondo, a partire da ciò che ci rende esseri-di-più, capaci di

rispondere storicamente a tutte quelle sfide che ci vorrebbero rilegare, come esseri-di-

meno, in un mondo-di-meno.

Camminare valutando il processo. Non è sempre facile valutare un processo

educativo, molte volte, infatti, ci si scontra con l’impossibilità di avere dati che diano un

rimando oggettivo dei valori che si vogliono misurare. La soluzione proposta da

Francisco Gutierrez e Cruz Prado Rojas consiste nel cercare di dare una valutazione al

processo educativo integrandolo il più possibile con la qualità del prodotto che ne

130

scaturisce: migliore è il processo, migliori saranno i prodotti e viceversa. Esiste, di fatto,

una circolarità tra processo e prodotto, che si autoalimenta, in base ai risultati ottenuti.

Il punto qualificante e centrale del processo educativo, che ne determina la valutazione,

è che il prodotto che ne deriva abbia senso per colui che apprende. Questo comporta che

un processo educativo debba essere valutato riguardo ai seguenti aspetti:

l’appropriazione dei contenuti, non in quanto depositati, ma come produzione di una

conoscenza collettiva; il miglioramento degli atteggiamenti e delle pratiche; uno

sviluppo della creatività nell’educando; la capacità di relazionarsi con gli altri e di

esprimere le proprie opinioni; una crescita che evidenzi uno sviluppo personale

complessivo.

A queste chiavi pedagogiche se ne potrebbero aggiungere anche altre, ma queste sono

certamente degli assoluti punti di riferimento, da tenere ben presenti nella costruzione di

una pedagogia che abbia a cuore il discorso umano e ambientale, calandolo nella

situazione odierna. Senza voler mancare di rispetto ai due autori, che hanno posto, di

fatto, le basi della moderna Ecopedagogia, e con la speranza che condividerebbero il

senso di questa proposta, vorremmo poter aggiungere altre due chiavi pedagogiche, di

pressante attualità e di forte impatto socio-politico:

Camminare in modo etico, perseguendo la giustizia sociale. La forza di un

messaggio sta anche nella forza della testimonianza di chi lo porta. Non può esistere

un’educazione autentica, se chi educa non vive con coerenza i valori di cui si fa

portavoce. Educare significa essere testimoni autentici e appassionati, “lottatori

perseveranti”, direbbe Freire, ed è questa passione che ci aiuta a puntare i riflettori in

primo luogo su noi stessi, che dovremmo imparare a metterci in discussione, con umiltà,

dialogicamente aperti alle critiche, imparando dai nostri errori, raccogliendo le sfide

sempre nuove che la vita ci dà. Ma non basta. L’etica che ricerchiamo, in ogni aspetto

del nostro essere umani, dovrebbe essere condivisa con gli altri, così da costruire

circuiti virtuosi sempre più vasti ed efficaci. Sono troppi i campanelli d’allarme che ci

avvertono di quanto non basti più una solidarietà sterile e di facciata, quasi che la carità

sia un dono elargito da un’umanità superiore ai più poveri. Il mondo ha fame di

giustizia sociale, di equilibrio, di ridistribuzione delle risorse, di equità, di Istituzioni

che elaborino leggi giuste, volte a mutare un sistema che, se non cambierà, certamente

finirà, ma ad un prezzo troppo caro per tutti.

131

Camminare come fratelli e sorelle, come cittadini di un unico pianeta. In una

situazione internazionale come quella attuale, che vede migliaia di profughi e migranti

bussare alle porte del mondo “occidentale”, non si può pensare che la soluzione sia di

chiudere gli occhi, noncuranti delle sfide che ci vengono poste. Nemmeno si può

credere che la via da perseguire si trovi innalzando nuovi muri, sbarrando frontiere o

affondando barconi. Chi si muove dalla propria terra in condizioni disumane, lo fa

chiedendo giustizia, ancora prima del pane, lo fa inseguendo il proprio diritto a vivere

libero, ancora prima di desiderare una cittadinanza, lo fa in cerca di pace, sfuggendo a

guerre che spesso sono il risultato degli interessi economici di pochi potenti, noncuranti

di altro che non sia il proprio sordido profitto. In questa situazione, l’educazione ha

l’obbligo morale di promuovere una cultura, in cui Madre Terra arrivi ad essere

considerata come quella casa comune, in cui l’Umanità in cammino possa trovare quella

pace, che le consentirebbe di sentirsi figlia di un unico mondo, in cui gli uomini e le

donne non siano solo cittadini planetari, ma fratelli e sorelle sotto lo stesso cielo.

Un’educazione che non abbia chiara questa prospettiva è un’educazione incapace di

andare al cuore dell’Umanità e, come tale, è destinata a perpetrare modelli di società

iniqui ed escludenti, in cui l’essere umano è ridotto ad essere un ingranaggio

senz’anima, complice inconsapevole di un mercato che mastica e sputa tutto ciò che è

inutile, vecchio e diverso. È questa prospettiva che una Pedagogia politica dei Nuovi

Stili di Vita vorrebbe scongiurare, nel suo desiderio di costruire insieme un mondo

diverso, migliore di quello che ci è stato consegnato.

132

I principi basilari

Al fine di definire i principi basilari di una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, ci

sembra opportuno partire dal prezioso lavoro che negli ultimi anni è stato svolto da

numerosi pedagogisti nell’ambito dell’Ecopedagogia, scienza nata negli anni ’90 su

stimolo dello stesso Paulo Freire e di alcuni suoi stretti collaboratori, uno su tutti,

Moacir Gadotti. In questa ricerca, è molto utile il contributo di Alfredo Tagliavia che,

nel testo “L’eredità di Paulo Freire”, traccia un riepilogo di quelli che sono i principi

che stanno alla base di questa pedagogia:

- il rispetto dell'ambiente e la cura dei territori;

- il rispetto di tutte le forme di vita e la salvaguardia della biodiversità;

- una visione planetaria e ambientale della cittadinanza;

- la costituzione di reti sociali, culturali ed economiche informali e solidali;

- la promozione di un modello di «razionalità emotiva» in alternativa alla razionalità

occidentale;

- la promozione di un modello di sviluppo basato sulla sostenibilità;

- la messa a punto di pratiche educative innovative per l'affermazione dei principi sopra

elencati.234

Per l’impostazione che ne deriva, attenta alla cura dell’ambiente in una prospettiva di

sostenibilità ed orientata ad una visione planetaria di cittadinanza attiva, questi principi

sono assolutamente condivisibili anche per la costruzione di una Pedagogia politica dei

Nuovi Stili di Vita. Il forte legame con il pianeta Terra, riconosciuto come elemento

essenziale per ogni forma di vita, viene qui affiancato ad un impegno socio-culturale,

indispensabile affinché si possa costruire una società più giusta e solidale, anche a

livello economico ed istituzionale. Le persone, inoltre, in questa visione del mondo,

vengono valorizzate per quello che sono, grazie all’incoraggiamento di tutti quegli

aspetti emozionali, dalla creatività all’intuizione, dalla fantasia all’empatia, che

caratterizzano in modo profondo il nostro essere umani. Riguardo all’evoluzione del

concetto di Ecopedagogia, una delle tappe fondamentali è rappresentata certamente

dalla stesura della Carta della Terra, 235

promossa dalle Nazioni Unite ed elaborata da

una commissione internazionale indipendente. Moacir Gadotti, attuale direttore

dell’Istituto Paulo Freire (IPF) in Brasile, racconta che durante le fasi di composizione

del testo, l’IPF, come membro della Commissione per la Carta della Terra, fu

234 Tagliavia A., L’eredità di Paulo Freire. Vita, pensiero, attualità pedagogica dell’Educatore del mondo, op. cit.,

p.169. 235 Commissione della Carta della Terra, La Carta della Terra, Parigi 2000, www.cartadellaterra.it , ultimo accesso 20 Giugno 2015.

133

incaricato insieme all’Istituto Latino per la Ricerca e la Cultura (ILPEC), coordinato da

Francisco Gutierrez in Costa Rica, di raccogliere e codificare, in chiave educativo-

pedagogica, i diversi contributi raccolti, provenienti dalle realtà partecipanti alla

Commissione. A tal fine, l’IPF organizzò una Prima Internazionale della Carta della

Terra a San Paolo nell’Agosto del 1999 ed uno dei risultati di questo incontro fu la

stesura di una Carta dell’Ecopedagogia, in difesa di una Pedagogia della Terra,

contenente i principi fondamentali da cui partire:

1. Il pianeta come una singola comunità.

2. La Terra come madre, organismo vivente e in continua evoluzione.

3. Una nuova consapevolezza di ciò che è sostenibile, di ciò che ha senso per la nostra

esistenza.

4. La tenerezza verso questa casa, la nostra comune destinazione, la Terra.

5. La giustizia socio-cosmica: Terra come un organismo vivente, è anch’essa oppressa.

6. Una pedagogia che promuove la vita: essere coinvolti, comunicare, condividere,

discutere, raccontare.

7. La conoscenza è completa solo quando è condivisa.

8. Camminare coerentemente e in modo significativo nella vita di tutti i giorni.

9. Una razionalità intuitiva e comunicativa, emotiva, non strumentale.

10. I nuovi atteggiamenti: ri-educare gli occhi, il cuore.

11. Cultura della sostenibilità: allargare la nostra visione.236

La potenza di questi principi, molto sintetici ma allo stesso tempo notevolmente

efficaci, sta soprattutto nella forza dell’immagine che ci regalano del pianeta Terra, non

solo come pianeta inanimato, ma come organismo vivente. Una creatura a cui

riconoscere addirittura il ruolo di Madre, oppressa, al pari degli oppressi che la abitano

e che necessitano di una pedagogia capace di creare percorsi di liberazione e di giustizia

sociale, oltre che ambientale. L’attenzione è qui rivolta anche alla sfera emotiva, alla

passione, alla condivisione e, soprattutto, alla richiesta di un impegno quotidiano e

personale, da perseguire con coerenza, ri-educandoci a ri-leggere il mondo, con occhi

nuovi e cuore nuovo. A seguito di questo ed altri lavori, la Carta della Terra venne

approvata presso la sede dell’UNESCO a Parigi nel 2000 e rappresenta ancora oggi un

monito di grande intensità per tutta l’Umanità, una dichiarazione di principi etici

fondamentali, in cui si propone a tutti i popoli, legati tra di loro da un’interdipendenza

globale e da una responsabilità condivisa, di impegnarsi a costruire insieme, nel corso

del XXI secolo, una società globale giusta, sostenibile e pacifica. La Carta della Terra

rappresenta una visione di speranza e un appello imprescindibile, rivolto ad ognuno di

noi, ad agire per la costruzione di un mondo migliore. Il testo prevede una suddivisione

236 Gadotti M., A Carta da Terra na Educação, Editora e Livraria Instituto Paulo Freire, São Paulo 2010, p. 20.

134

in quattro aree essenziali, suddivise, a loro volta, in un totale di sedici principi

fondamentali, che rappresentano una pietra miliare per tutte quelle pedagogie che

vogliano costruire dei percorsi di liberazione dell’essere umano e di salvaguardia del

pianeta, nel rispetto del valore delle vite di ognuno e di una Terra, che spesso, suo

malgrado, ci vede come ospiti scomodi ed arroganti. La struttura della Carta della

Terra, in definitiva, è la seguente:

Rispetto e cura per la comunità della vita.

1. Rispettare la Terra e la vita, in tutta la sua diversità

2. Prendersi cura della comunità vivente con comprensione, compassione e amore

3. Costruire società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche

4. Tutelare i doni e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future

Integrità ecologica

5. Proteggere e ripristinare l'integrità dei sistemi ecologici terrestri, con speciale riguardo

alla diversità biologica e ai processi naturali che sostentano la vita.

6. Prevenire i danni come misura più efficace di protezione ambientale, e agire con cautela

quando le conoscenze sono limitate.

7. Adottare sistemi di produzione, consumo e riproduzione che salvaguardino la capacità

rigenerativa della Terra, i diritti umani e il benessere delle comunità.

8. Sviluppare lo studio della sostenibilità ecologica e promuovere il libero scambio e

l'applicazione diffusa delle conoscenze acquisite.

Giustizia economica e sociale

9. Eliminare la povertà come imperativo etico, sociale e ambientale.

10. Garantire che le attività economiche e le istituzioni a tutti i livelli promuovano lo

sviluppo umano in modo equo e sostenibile.

11. Affermare l'uguaglianza e le pari opportunità fra i sessi come prerequisiti per lo sviluppo

sostenibile, e garantire l'accesso universale all'istruzione, all'assistenza sanitaria, e alle

opportunità economiche.

12. Sostenere senza alcuna discriminazione i diritti di tutti a un ambiente naturale e sociale

capace di sostenere la dignità umana, la salute fisica e il benessere spirituale, con

speciale riguardo per i diritti dei popoli indigeni e delle minoranze.

Democrazia, non-violenza e pace

13. Rafforzare le istituzioni democratiche a tutti i livelli e garantire trasparenza e

responsabilità nella governance, partecipazione allargata nei processi decisionali, e

accesso alla giustizia.

14. Integrare nell'istruzione formale e nella formazione permanente le conoscenze, i valori e

le capacità necessarie per un modo di vivere sostenibile.

15. Trattare ogni essere vivente con rispetto e considerazione.

16. Promuovere una cultura della tolleranza, della non violenza e della pace.237

L’aspetto rivoluzionario di questo testo, che andrebbe approfondito nella sua versione

completa, consiste nel considerare la Terra come un unico grande eco-sistema, in cui

tutto è in relazione con tutto e in cui, proprio per questo motivo, esiste un’enorme

237 Commissione della Carta della Terra, La Carta della Terra, op. cit., www.cartadellaterra.it , ultimo accesso 20 Giugno 2015.

135

responsabilità personale, dal punto di vista etico, riguardo a ciascuna delle scelte che

quotidianamente prendiamo: ognuna di esse, infatti, può incidere positivamente o

negativamente sull’ideale di mondo che vorremmo realizzare. Nella costruzione di una

Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, un aspetto chiave, che ci fa essere in forte

sintonia con la Carta della Terra, è la grande considerazione, non solo dell’aspetto

ecologico-ambientale, ma anche di tutte quelle tematiche orientate alla cultura della

vita, alla giustizia economica e sociale, alla costruzione di Istituzioni democratiche che

sappiano costruire nuove regole per un mondo più equo e giusto. Essendo quella attuale

una realtà complessa, il fatto di avere un approccio critico e sistemico è l’unica strada

percorribile per risolvere, non solo la singola questione ambientale, ma per arrivare a

trasformare l’intero sistema, in modo strutturale e complessivo, affinché la Pedagogia

dei Nuovi Stili di Vita possa dare non solo dei riferimenti, ma indicare anche delle vie

storiche e politiche per il superamento di quelle situazioni limite che rendono gli esseri

umani degli esseri-di-meno. La Carta della Terra è un manifesto di tale valore e

importanza, dal punto di vista ambientale, sociale, culturale e politico, che lo stesso

Moacir Gadotti, nel testo “A Carta da Terra na Educação”, si spinge ad equipararla alla

Dichiarazione dei diritti dell’uomo, adattata ai giorni nostri238

ed è anche grazie a

questa approvazione così autorevole, che ne raccogliamo i principi contenuti, come

solide fondamenta per una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita.

Le qualità dell’educatore

È evidente come la figura dell’educatore, nell’applicazione di una pedagogia, abbia un

peso decisivo: la sua presenza, il modo di porsi, i valori di riferimento, la formazione, le

competenze, il carattere, le esperienze vissute e il modo con cui esse sono state

rielaborate. Tutto ciò che riguarda questa figura, ha inevitabilmente una ricaduta,

positiva o negativa che sia, rispetto alla qualità complessiva di un processo educativo e

nei risultati che esso può raggiungere. Questa consapevolezza non rappresenta a priori

un fattore negativo, anzi, nella straordinaria complessità di ciò che ci fa crescere come

esseri umani, è probabilmente segno di una grande ricchezza avere degli educatori tanto

diversi tra loro, così da poter cogliere da ognuno degli spunti diversi. È importante,

però, definire alcune caratteristiche che non sono invece contrattabili in una pedagogia

problematizzante. 238 Gadotti M., A Carta da Terra na Educação, op. cit., p. 19.

136

In primo luogo, chi educa deve avere la sensibilità di non attribuire significati a

mondi che non conosce, ponendosi in ascolto delle istanze dell’altro, dando

accoglienza pur nella diversità, predisponendosi in una posizione di rispetto delle

culture, delle opinioni, delle provenienze e dell’umanità che è insita in chi abbiamo di

fronte e che accumuna, ontologicamente, ogni essere umano. Non è possibile agire in

una prospettiva critica e problematizzante, partendo da un atteggiamento di pregiudizio.

Non esistono uomini o donne che non hanno qualcosa da dire, un segno da lasciare, una

mano da stringere, un’emozione da regalarci.

L’educatore che opera nell’ambito di una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita è

un educatore schierato. Comunque vadano le cose è dalla parte degli oppressi, come

scelta decisa di campo, come responsabilità etica nei confronti di chi subisce ingiustizie,

di chi è escluso, di chi ha smarrito il senso più autentico della propria umanità. Proporre

una trasformazione dei propri stili di vita ad altre persone, significa avere fatto delle

scelte precise dal punto di vista etico, prima di tutto nella propria vita, significa avere la

consapevolezza che esistono percorsi di giustizia sociale con cui non è possibile fare

compromessi. Non si tratta, infatti, di fare una buona azione o di nascondersi dietro ad

una solidarietà di facciata, ma di essere solidali con il dolore, con le sofferenze, con le

paure, con le persone in carne ed ossa, con i loro volti, con le sfide che possiamo

affrontare insieme.

Per questo motivo, è un educatore solidale con gli oppressi ed è capace, all’interno del

processo educativo, di vivere ed esprimere le proprie emozioni, prima fra tutte l’amore,

orientato all’autonomia dell’educando, alla sua liberazione dalle schiavitù e dai

condizionamenti che cercano di trasformarlo, a volte a sua insaputa, in un essere-di-

meno.

Un’altra dote dell’educatore è che è impegnato ad imparare, per cambiare il mondo.

Il suo è un atteggiamento aperto alle nuove esperienze, allo stupore, alla curiosità

espistemologica, come direbbe Freire. Non si ferma di fronte ai problemi, anzi, è

predisposto a cercare sempre nuove sfide, nuove domande, nuove porte da aprire. Il suo

è uno spirito critico, che si nutre di incontri e di conoscenze, che non cerca con la

supponenza di chi ha già la sua risposta, ma con l’umiltà di chi si domanda se la risposta

che ha trovato può essere ulteriormente indagata, così da migliorarne l’efficacia.

L’educatore che opera nel campo dei Nuovi Stili di Vita, non solo crede nel

cambiamento e nella realizzazione del cosiddetto inedito possibile ma, prima di tutto,

ha fiducia che il cambiamento sia possibile solo con l’altro. Come nessuno educa

137

nessuno, così nessuno cambia nulla, se si muove da solo. Con questa consapevolezza, è

necessario che l’incontro con l’altro diventi un’occasione privilegiata per condividere e

costruire insieme un futuro diverso da quello che ci è stato prospettato. Per

intraprendere questo cammino è in primo luogo necessaria la Speranza, quella di chi sa

di stare lottando per una causa giusta. Una Speranza che può avere il volto serio della

fiducia, che viene riposta nelle mani dell’altro o il volto più spensierato dell’allegria, di

chi sa che non ha nulla da perdere, se ha trovato in sé la consapevolezza di ciò che è

veramente essenziale nella vita.

Utilizzando il dialogo come luogo privilegiato di incontro con l’altro, l’educatore

problematizzante usa una parola generatrice, una parola viva, di contenuto, che

provoca, che invita alla riflessione e al cambiamento. Affinché la parola sia realmente

efficace, è necessario fare esperienza dell’umanità e dei rapporti umani, cogliendo la

differenza tra le “chiacchiere” e le parole di senso, tra le “interviste” e le domande che

vanno al fondo dell’esistenza, cogliendo l’essenza di ciò che ogni essere umano anela,

per sentirsi pienamente vivo e integralmente umano. Saggezza, equilibrio, capacità di

mediazione, lealtà verso chi ci viene affidato, sono alcune delle qualità utili alla ricerca

di parole generatrici. Esse, però, devono essere accompagnate da un positivo senso di

inquietudine, che non ci faccia mai sentire ormai arrivati ad un traguardo. In fondo, è

questo l’atteggiamento provocatore di chi insegue un’utopia, di chi vede cioè

nell’orizzonte stesso, il vero traguardo.

Affinché l’educatore sia credibile, è indispensabile che sia un testimone coerente e un

lottatore perseverante. In educazione, la serietà e la rettitudine non sono valori

contrattabili. Questo non significa essere dei santi, ma avere la consapevolezza che la

distanza tra ciò che diciamo e ciò che facciamo può aprire delle falle molto grandi in

quella che è la nostra credibilità di educatori. A maggior ragione in una Pedagogia

politica dei Nuovi Stili di Vita, in cui la denuncia di un sistema iniquo è al centro stesso

dei principi che ne fondano l’esistenza. La denuncia delle situazioni limite e l’annuncio

dell’inedito possibile acquistano un significato solo nella coerenza di scelte e di prassi

che ne dimostrino il valore. In questo senso, lo stesso Freire si è definito un lottatore

perseverante, uno di quelli che dedicano la propria vita, a quello in cui credono.

138

Caratteristiche essenziali del cittadino planetario

Francisco Vio Grossi, che al fianco di Paulo Freire in veste di Presidente, fu Segretario

generale del Consiglio di Educazione popolare in America Latina e nei Caraibi

(CEAAL),239

nel corso della sua pluriennale esperienza in campo pedagogico, parlando

del profilo ideale dei cittadini planetari, indica dieci caratteristiche che per lui sono

essenziali:

1. Cercano il contatto e la comunione con la natura. Si sentono parte di essa, ma non suoi

proprietari. […]

2. Vivono la vita come processo, come flusso permanente di energie, di situazioni, come

un trascorrere relativamente imprevedibile. Sono capaci di vivere l'incertezza e si

allontanano dalle concezioni rigide e statiche della vita.

3. Si preoccupano e sospettano del potere, della gerarchia come mezzo per dominare gli

altri. […]

4. Cercano l'integrazione di elementi che di solito vengono separati, contrapposti e

considerati isolatamente: scienza e senso comune, pensiero e azione, uomo e donna,

mente e corpo, ragione e sentimento, oggettività e soggettività, serietà e frivolezza,

sensatezza e follia...

5. Si interessano molto più a fare domande che a dare per scontate le risposte. Sono

ricercatori permanenti che prendono in considerazione anche il lato nascosto della vita,

quello non detto, non "sistemato", le storie non raccontate. In generale, la loro criticità

permanente li conduce a una ricerca spirituale.

6. Comunemente non si lasciano attrarre e dominare dal possesso di beni materiali come

simboli di status sociale.

7. Sono persone aperte al nuovo, cioè non dogmatiche né rigide; osano avanzare in nuovi

territori ignoti della conoscenza e della vita.

8. Sono solidali, vogliono collaborare con gli altri, cercano di essere meno egoisti e

paternalisti.

9. Diffidano della burocrazia come forma istituzionale che privilegia il beneficio dei

burocrati rispetto a quello degli altri cittadini.

10. Confidano nel valore della propria esperienza; diffidano, invece, dell'autorità che si

erige come superiore.240

Ne consegue che uno degli obiettivi principali di un’educazione problematizzante, come

può essere una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, deve essere quello di creare le

condizioni più congeniali affinché si diffonda un sottofondo culturale capace di

sensibilizzare più persone possibili, riguardo al tema della cittadinanza planetaria.

L’educazione, in questo senso, ha un ruolo fondamentale nel creare percorsi che portino

a: una consapevolezza ecologico-ambientale; uno sguardo critico-problematizzante

aperto sul mondo e sulle strutture che lo regolano; una sobrietà che riconosca

l’importanza degli aspetti essenziali della vita; un’apertura sincera e fiduciosa all’altro,

239 Il CEAAL è un’associazione di 195 organizzazioni civili, fondata nel 1982, con una presenza in 21 paesi

dell’America Latina e dei Caraibi, con l’obiettivo di sviluppare attività di educazione popolare. 240 Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, op. cit., pp. 37-38.

139

che come noi è di passaggio su questa Terra, uomo e donna come noi, anche se non

sempre ha avuto le stesse possibilità, escluso da un sistema economico che, come

cittadini del mondo “occidentale”, contribuiamo più o meno consapevolmente a

perpetuare. La cittadinanza planetaria, nonostante il nome possa sembrare altisonante,

in realtà è un concetto che parte dal basso, dall’incontro tra le persone, dall’umiltà del

confronto, dal riconoscimento dell’altro come fratello, cittadino di un mondo che ci è

stato affidato e che dovremmo custodire responsabilmente. Si tratta di un compito

planetario, ma che comincia dalle persone che ci sono vicine, dai volti che ci

interrogano, dalle ingiustizie che tocchiamo con mano, perché non possono esistere né

una cittadinanza senza giustizia sociale, né una planetarietà senza prossimità. È questa

certamente una delle sfide cruciali che l’Umanità, nel nostro tempo, si appresta ad

affrontare.

II.2.2 I nuovi rapporti

Una volta definite le linee guida di una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, è

necessario identificare gli ambiti in cui essa può essere applicata e a chi si può rivolgere

prevalentemente. Occorre quindi cogliere alcune peculiarità che distinguono questa

pedagogia dalla più conosciuta Ecopedagogia, da cui essa deriva e da cui coglie

importantissimi e fondamentali riferimenti.

Dall’Ecopedagogia ad una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita

L’Ecopedagogia, come abbiamo visto, è una scienza piuttosto recente, che ha raccolto

negli ultimi anni importanti contributi da parte di molti autori particolarmente attenti

all’andamento della situazione ecologica del pianeta, ma anche preoccupati degli

squilibri che il sistema capitalista sta continuando a creare tra gli esseri umani,

reiterando una suddivisione dell’umanità tra oppressi e oppressori, che sembrava poter

essere superata a seguito delle promesse, poi disattese, di uno sviluppo diffuso e globale

per tutti. L’Ecopedagogia ha così il pregio di aver gettato le basi per una pedagogia che

è rivolta a tutti gli uomini e a tutte le donne, visti come figli e figlie della stessa madre,

ossia Madre Terra, un ecosistema vivente che è rappresentato come la casa comune,

come il luogo vivente della vita. Sarebbe lecito, a questo punto, chiedersi perché ci sia

l’esigenza di parlare di una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, quando esiste già

140

un’Ecopedagogia. La necessità, in realtà, deriva dal fatto che, pur facendo parte a pieno

titolo dell’Ecopedagogia, la Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita ne evidenzia

alcuni aspetti peculiari, che la rendono, di fatto, una pedagogia ben definita e a sé stante.

In primo luogo, essa è destinata particolarmente a quel quinto della popolazione

mondiale che, per semplificazione, spesso è identificato con il mondo “occidentale” (o

“nord” del mondo o “Primo mondo”). È evidente, infatti, come una pedagogia che

richieda un cambiamento degli stili di vita in una logica di sobrietà, equità e giustizia,

non possa rivolgersi a chi non ha i più elementari servizi di base o è ridotto alla povertà

assoluta. Essa si può però applicare a quanti, con il loro comportamento quotidiano e le

proprie scelte, spesso inconsapevoli, contribuiscono al mantenimento del sistema socio-

economico basato sul modello capitalista. In secondo luogo, la Pedagogia politica dei

Nuovi Stili di Vita evidenzia con vigore il tema della responsabilità e quello della

giustizia sociale, che può e deve essere raggiunta grazie ad un impegno personale,

sociale ed istituzionale, facendo delle scelte etiche e politiche, che abbiano effetti

concreti di cambiamento nella storia. Il focus è quindi centrato sulla prassi, che parte

dalla denuncia di ciò che crea squilibri, iniquità e perdita di valori, fino ad arrivare

all’annuncio delle possibilità inedite, di quell’inedito possibile che è in grado di

generare scelte e pratiche virtuose, da portare avanti ogni giorno, nella vita quotidiana.

La Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita è quindi una pedagogia che ci interroga

personalmente e che problematizza ogni aspetto della nostra vita, dal nostro rapporto

con le persone, all’uso che facciamo delle risorse a nostra disposizione, dall’utilizzo dei

nostri soldi, al modo con cui ci muoviamo per gli spostamenti quotidiani, da dove

abitiamo, a come produciamo, dal modo con cui ci rapportiamo con l’ambiente, a quello

con cui curiamo la nostra sfera emotiva, fisica e spirituale. Ma quella dei Nuovi Stili di

Vita è anche una pedagogia che spinge le persone ad affrontare le sfide insieme, a

trovare soluzioni comuni, con la consapevolezza che, parafrasando Freire, nessuno

cambia il mondo da solo. Proprio in riferimento al pedagogista brasiliano, pensiamo che

non solo sia utile rileggere la pedagogia freiriana in questa chiave, ma riteniamo anche

che la pedagogia freiriana si sposi perfettamente con le modalità, i principi e gli

obiettivi che la Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita si pone, alla ricerca di

un’armonia sociale, in cui si crei equità, di un’armonia ambientale, in cui si

promuova la sostenibilità e di un’armonia personale, in cui si realizzi il

soddisfacimento di tutte le dimensioni dell’essere umano. Come sostiene Paolo Vittoria,

141

docente e pedagogista presso l’Università Federale di Rio de Janeiro e autore del libro

“Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo”:

“[...] In questa fase storica il popolo mondiale, e non solo quello latino-americano, rischia di

essere oppresso da un modello di sviluppo economico in cui taluni aspetti comportano

alienazione, precarietà, dipendenza dai mass-media, difficoltà relazionali, oltre che povertà,

miseria, indigenza, degrado ambientale. Per questa ragione è necessario affidarci a pedagogie

che invitino a ragionare, a riflettere, a discutere, a formarsi reciprocamente, in cui ciascuno

faccia la sua parte e intervenga in modo attivo, creativo, critico, dialogico. [...] La radicalità

politico-educativa non va confusa con una posizione settaria e incondizionata, ma procurata

nella costante ricerca di forme di educazione che incoraggino il pensiero e l'azione per una

società che ripensi la politica in termini di "indignazione", "partecipazione", "creazione",

"bene comune".”241

Nel condividere queste considerazioni, ci sembra importante che siano creati percorsi

educativi in grado di mettere in discussione e ripensare i nostri stili di vita, in modo da

promuovere nuovi rapporti con le cose, con le persone, con la natura e con la

mondialità, affinché le parole trovino sostanza nelle azioni, creando pratiche virtuose

(nel solco delle prassi freiriane), in grado di trasformare il mondo in un luogo migliore,

in cui vivere insieme.

Un nuovo rapporto con le cose / Il mondo dell’economia

Tra le persone che meglio hanno saputo fotografare in maniera critica il consumismo,

c’è sicuramente Francesco Gesualdi, uno dei principali promotori del “Centro Nuovo

Modello di Sviluppo” di Vecchiano (PI), oltre che allievo, non a caso, di Don Lorenzo

Milani. In una delle tante riflessioni sul sistema capitalista e consumista di cui facciamo

parte, egli rileva come:

“Questo sistema materialista ci fa credere che il benessere consista esclusivamente nel

possesso di oggetti. Più ne abbiamo, più dovremmo considerarci benestanti. Ma noi non

siamo dei bidoni aspiratutto. Siamo creature che, oltre alle esigenze del corpo, abbiamo

bisogni affettivi, sociali, intellettuali, spirituali. Solo se tutte queste dimensioni sono

soddisfatte in maniera armonica possiamo parlare di benessere. Nell'altro caso possiamo

parlare tutt'al più di benavere, che è un'altra cosa.”242

Sarebbe sufficiente aprire i cassetti di casa, gli scaffali, gli armadi, guardarsi attorno

onestamente, per renderci conto di quante sono le migliaia di oggetti inutili di cui ci

circondiamo. Questi oggetti hanno richiesto nostro tempo prezioso per essere comprati e

241 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 27. 242 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 53.

142

spesso continuano a richiederne, per via della cura, della manutenzione o per la

semplice archiviazione. Sarà anche un fatto scontato, ma gli oggetti richiedono tempo,

che molte volte regaliamo loro, condizionati da un’economia dell’inganno, fondata sulla

frustrazione delle attese e sulla disillusione dei desideri. Nel limite del possibile,

dedichiamo sempre più ore al lavoro, perché sentiamo la necessità di possedere cose

sempre nuove, la sera ci sdraiamo spossati, abbandonati sul divano, bombardati dalla

pubblicità che il televisore ci regala a mani basse, ricordandoci quanto siamo inadeguati

e quanto quel determinato prodotto potrebbe risolvere i nostri bisogni più profondi.

Torniamo quindi a lavoro, in una spirale che non si esaurisce, fino al raggiungimento

dell’oggettivazione dell’essere umano, nella sua metamorfosi in un ingranaggio

perfettamente inserito nel sistema. La continua obsolescenza, non solo ha ridotto la

strada tra lo scaffale del negozio e il bidone della spazzatura, ma ha anche creato le

condizioni ideali affinché lo stesso essere umano, consumato, divenga egli stesso un

bene di consumo e come tale possa essere usato e poi gettato. La cultura dello scarto ha

prodotto l’esclusione di milioni di esseri umani, che non hanno accesso nemmeno allo

status di “sfruttati”, ma semplicemente di “esclusi”, perché considerati come residui

inutili, da separare al più presto dal resto dell’umanità. Parlando di questo tema, Papa

Francesco, all’interno dell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium”, si spinge oltre,

affermando che:

“Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con

questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza

accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli

altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se

tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci

anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora

comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero

spettacolo che non ci turba in alcun modo.”243

Quanti sono prigionieri di questo sistema tendono ad essere più infelici, perché sono

ormai incapaci di ascoltare i propri bisogni più profondi, quelli che ci rendono, in un

modo unico, degli esseri umani. È probabilmente questa, la più grande vittoria del

mercato, ma anche una delle più grandi sconfitte dell’Umanità. Per questo motivo si

rende necessario, oggi più che mai, riscoprire un nuovo rapporto con le cose, prendendo

il coraggio di operare alcune svolte fondamentali, divenute ormai imprescindibili per le

nostre vite: dal consumismo al consumo critico, scegliendo i prodotti secondo la loro

243 Papa Francesco, Evangelii gaudium, Edizioni San Paolo, Torino 2013, n.54 p.81-82.

143

effettività utilità, analizzando le conseguenze etiche di ogni nostro acquisto, come se

stessimo esercitando un voto sul mondo che vorremmo; dalla dipendenza alla

sobrietà, liberandoci dal superfluo e dai condizionamenti indotti, godendo del poco e

condividendo il più possibile con gli altri; dallo spreco al recupero, riducendo al

minimo la nostra impronta ecologica, autoproducendo ed incentivando pratiche

circolari, che rispettino il ciclo naturale della vita; dal profitto alla giustizia sociale,

affinché si costruisca insieme un’economia più giusta, equa, etica e solidale, rispettosa

dell’ambiente e delle persone.

Un nuovo rapporto con le persone / Il mondo affettivo e relazionale

La cultura ha un peso decisivo nel definire le modalità di relazionarsi delle persone

all’interno di una società ed è per questo motivo che è interessante rilevare come, il

professor Stefano Bartolini, nel libro “Manifesto per la felicità”, presenti le seguenti

considerazioni, in merito all’argomento:

“Il legame tra cultura e relazioni è l'oggetto di un vasto numero di studi di psicologi sociali.

Essi mostrano che il tipo di cultura che funziona peggio per le relazioni è quella detta «del

consumo». La cultura del consumo, o cultura consumista, consiste nel dare grande

importanza nella vita alle motivazioni estrinseche e bassa alle motivazioni intrinseche. [...]

Infatti il termine «estrinseco» si riferisce a motivazioni esterne a un'attività, come il denaro,

mentre «intrinseco» fa riferimento a motivazioni interne, come l'amicizia, la solidarietà o il

senso civico. Insomma gli individui che adottano valori consumisti attribuiscono un'elevata

priorità a obiettivi come il denaro, i beni di consumo e il successo, mentre ne attribuiscono

una scarsa agli affetti, alle relazioni in generale, ai comportamenti pro-sociali.”244

Ne deriva che una società abituata a dare grande importanza alle motivazioni

estrinseche avrà meno possibilità di sviluppare, al proprio interno, relazioni umane in

cui siano incentivati atteggiamenti pro-sociali come l’empatia, l’accoglienza, l’ascolto,

la cooperazione, la solidarietà, la sincerità, la fiducia, producendo, al contrario, stati

d’animo improntati all’indifferenza, al pessimismo, al cinismo, al fatalismo, alla

diffidenza. Questa situazione alimenta paradossalmente, a sua volta, la cultura del

consumo: le relazioni insoddisfacenti create, infatti, spingono le persone all’acquisto di

beni di consumo, così da compensare la perdita di qualità della propria vita sociale.

Compensazione che, nella logica del mercato, deve rimanere però sempre incompiuta,

affinché il grande cerchio dell’economia non si chiuda mai. Come abbiamo visto, la

società consumista, per produrre di più, non ha bisogno di persone felici, ma di persone

244 Bartolini S., Manifesto per la felicità, op. cit., p.23.

144

insoddisfatte, preoccupate, accondiscendenti, orientate a risolvere i propri bisogni a

colpi di bancomat, quando in realtà la risposta dovrebbe essere un’altra, da ricercare più

a fondo: nell’incontro con l’altro, nella condivisione, nel dialogo, nell’aiuto reciproco,

nell’ascolto, nella comprensione, nella gratuità, nel dono. Sono le relazioni umane a

dare sapore alla vita, non a caso Madre Teresa di Calcutta ha definito più volte la

solitudine come il male più grande del nostro tempo. In questo senso occorre

promuovere un nuovo rapporto con le persone, un nuovo modo di rapportarsi con gli

altri, recuperando la ricchezza dell’incontro, che rappresenta sempre un momento unico,

per abbracciare il mistero che è custodito in ogni vita umana, la ricchezza, vera, che

ogni essere umano porta dentro di sé. Perché ciò accada, è necessario dare un giusto

valore al tempo. A forza di sentir dire che “il tempo è denaro” abbiamo finito, infatti,

con il monetizzare una dimensione che in realtà nessuno può comprare. Nessuno, infatti,

può allungare la propria vita di un solo attimo, così come nessuno dei momenti passati,

ci potrà mai essere restituito. Cogliere il valore del tempo, come dimensione fondante

della vita, può aiutare l’essere umano a dargli un senso profondo: proprio perché nessun

istante può essere rivissuto, è importante vivere in pienezza ogni attimo che la vita ci

dona e, come esseri sociali, la condivisione del proprio tempo con gli altri è una delle

strade migliori per diventare degli esseri-di-più e riscoprire il gusto della vita. Dice

Padre Adriano Sella, una delle voci più autorevoli, in Italia, riguardo al tema dei nuovi

stili di vita:

“L'altro viene visto sempre più come una minaccia, alla propria libertà e al proprio agire; in

tal modo si riproduce nella vita sociale lo stesso schema che vige in economia dove la legge

della competitività porta a distruggere l'altro per poter competere e sopravvivere nel libero

mercato. La diversità viene intesa come devianza da quello che si pensa costituito o naturale;

non c'è lo sforzo di capire e di conoscere, ma solamente la tendenza a rifiutare e a reprimere

l'altro. Bisogna quindi ricostruire i nostri rapporti umani, interpersonali, nonviolenti e di

profondo rispetto della diversità, educando all'alterità non come minaccia ma come

ricchezza. Le relazioni umane saranno l'unica ricchezza che nessuno potrà mai portarci via

totalmente: possono solamente impedirci di viverle bene, e riescono a farlo quando per

esempio ci riempiono la giornata di lavoro per non avere tempo a disposizione per noi. Mai

però potranno sradicarci la bellezza e la ricchezza di un sorriso, di un abbraccio, di un bacio,

di momenti conviviali, dell'amicizia e dell'amore, perché sono carne della nostra carne,

sangue del nostro organismo. Il "paradosso della felicità" dimostra che il gusto della vita non

dipende dalla ricchezza economica, ma dalla ricchezza umana, cioè dalle relazioni

interpersonali.”245

Riscoprire il valore delle relazioni umane rappresenta, quindi, una delle strade

privilegiate verso la felicità, in direzione di una piena realizzazione della nostra vita. Un

245 Sella A., Miniguida dei nuovi stili di vita, Editrice Monti, Varese 2011, pp. 21-23.

145

essere-di-più che, per quanto ci venga raccontato, non ci potrà mai essere regalato da

nessun prodotto presente sul mercato.

Un nuovo rapporto con la natura / Il mondo dell’ambiente

La situazione ambientale, come abbiamo visto dai numerosi dati raccolti, è ormai

preoccupante. Oltre al consumo esasperato, all’accaparramento insensato e all’iniqua

distribuzione delle risorse, stiamo assistendo ad uno dei più rapidi cambiamenti

climatici della storia della Terra, con livelli di inquinamento mai raggiunti sul pianeta.

Tra la larga maggioranza degli scienziati, è ormai opinione comune, che vi sia l’assoluta

urgenza di affrontare al più presto lo squilibrio ecologico, che gli esseri umani hanno

creato con le loro stesse mani e che ora rischia prepotentemente di ritorcersi contro di

loro. Come ha evidenziato bene Papa Francesco nell’enciclica “Laudato si'”:

“Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione:

quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura

come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in

essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati. Le ragioni per le quali un luogo viene

inquinato richiedono un’analisi del funzionamento della società, della sua economia, del suo

comportamento, dei suoi modi di comprendere la realtà. Data l’ampiezza dei cambiamenti,

non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni singola parte del

problema. È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei

sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale

e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la

soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la

dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.”246

Questo approccio ci aiuta a comprendere come la situazione ambientale sia sempre

strettamente connessa alla giustizia sociale e alle pratiche umane che incidono

irrimediabilmente sui processi di deturpazione della natura e di esclusione dei poveri,

dei più deboli, degli indifesi. Per questo motivo, affrontare la questione ecologica non

significa solo rispettare l’ambiente, ma anche modificare i nostri comportamenti,

affinché si instauri un nuovo rapporto con la natura, che porti ad una sostenibilità della

nostra impronta ecologica sul pianeta, ma che consenta anche di ricomporre

un’Umanità frammentata, che nel nome del profitto rinnega la Terra come Madre,

insieme ai figli che la abitano. In merito a questo, sostiene con forza Padre Adriano

Sella:

246 Papa Francesco, Laudato si'. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, Città del Vaticano 2015, n. 139.

146

“Bisogna mettere in atto una rivoluzione culturale, sradicando quella visione utilitaristica

della terra che la considera solamente un oggetto, una merce con cui si può fare profitto e

che si cerca di spremere, il più possibile per ricavarne soldi anche a costo di depredarla.

Invece dobbiamo riscoprirla come Gaia, ossia un superorganismo vivente che pulsa perché è

vita. Siamo chiamati tutti a passare dalla violenza ambientale al rispetto del creato, dall'uso

indiscriminato alla responsabilità ambientale, dalla mercificazione della natura alla giusta

relazione con "nostra sorella e madre Terra".”247

Dalle nostre scelte di oggi, dipenderà il futuro dei nostri figli ed è una nostra precisa

responsabilità, quella di non presentare loro un conto, che potrebbero non essere in

grado di pagare. Serve una conversione ecologica, che ci aiuti a riconoscerci come parte

di un tutto, esseri viventi su un pianeta vivente. Se la vita umana proseguirà sulla Terra,

dipenderà anche dalle scelte che oggi faremo per i nostri figli, a cui, nel bene e nel male,

affideremo il risultato delle nostre azioni.

Un nuovo rapporto con la mondialità / Il mondo dei popoli

I dati presentati riguardo alle enormi disparità presenti tra i popoli della Terra mostrano

chiaramente come la situazione stia raggiungendo livelli ormai insostenibili di

ingiustizia e di sofferenza tra i diseredati del mondo. Uno tra tutti è il dato che si

riferisce ai migranti che fuggono dalla miseria, dal degrado ambientale e dalle guerre,

persone che spesso non riescono ad accedere nemmeno allo status di “rifugiati” e

finiscono il loro viaggio abbandonati in un vuoto normativo che li disconosce persino

come esseri umani degni di aiuto. Ci si aspetterebbe una presa di posizione da parte di

chi vive nella parte più ricca del mondo e, invece, dove non vige l’indifferenza, c’è la

paura dell’altro, che viene percepito come una minaccia della nostra identità o come un

problema sociale di cui faremmo volentieri a meno, chiusi come siamo a piangere sulla

crisi che affligge le nostre economie. La mancanza di solidarietà ed accoglienza ai

drammi reali che questi nostri fratelli e sorelle vivono sulla propria pelle rappresenta

purtroppo una grave mancanza di quel senso di responsabilità su cui si dovrebbe

fondare ogni società che si voglia definire civile. Un tessuto culturale nutrito

quotidianamente di egoismo e pregiudizi, ci ha fatto dimenticare che noi stessi siamo

stati un popolo di migranti e soprattutto siamo stati un popolo che, appena ne ha avuta

l’occasione, ha partecipato al processo di colonizzazione di terre altrui. Nel suo

impegno nel definire la necessità di nuovi stili di vita, Padre Adriano Sella, ha inserito

247 Sella A., Miniguida dei nuovi stili di vita, op. cit., p. 24.

147

un nuovo rapporto con la mondialità come uno dei quattro nuovi rapporti che

dovremmo riuscire a costruire insieme nella costruzione di un cammino nuovo per

l’Umanità. Egli identifica come cruciali alcuni passaggi fondamentali:

“Dall'indifferenza sui problemi mondiali alla solidarietà e responsabilità: non possiamo

vivere nell'indifferenza di quello che accade nel mondo. Dalla chiusura e dal

fondamentalismo all'apertura e al coinvolgimento: non dobbiamo chiuderci a riccio o peggio

ancora vivere forme di integralismo che non ci permettono di incontrare l'altro, di scoprire

nel suo volto la bellezza della diversità e l'importanza di impegnarsi insieme per un altro

mondo possibile e migliore. Dall'assistenzialismo alla giustizia sociale: per non limitarci a

forme di elemosina o di assistenza che non ci aiutano a costruire rapporti paritari tra persone

e popoli basati sui diritti umani. Dalle tendenze nazionalistiche all'educazione alla

mondialità: per poter uscire dal nostro guscio paesano, riscoprendo la ricchezza di un mondo

fatto a colori che ci permette di respirare a trecentosessanta gradi per non rischiare di

soffocare a causa della nostra poca aria che è intrisa di pregiudizi e di rifiuti.”248

Queste importanti trasformazioni riguardano sicuramente più livelli, da quello personale

a quello istituzionale, al fine di promuovere una cultura dell’unità nelle differenze, tanto

cara a Paulo Freire. Inoltre, il tema di un nuovo rapporto con la mondialità dovrebbe

riuscire a comprendere una questione fondamentale per il futuro dell’Umanità e cioè

l’importanza di un’educazione finalizzata ad una cittadinanza attiva e responsabile,

tipica della cittadinanza planetaria che, più di ogni altro concetto, racchiude in sé il

desiderio di ogni uomo e di ogni donna di poter vivere sulla Terra come fratelli e

sorelle, uniti dalla grande responsabilità di sostenersi a vicenda, qualsiasi siano le

situazioni problema da affrontare insieme e ripensando all’impegno in Politica, come

uno strumento al servizio di tutti. Solo praticando politiche virtuose sarà possibile

costruire un tessuto sociale, economico e culturale, in grado di realizzare un futuro

giusto e sostenibile per le prossime generazioni.

II.2.3 I tre livelli di intervento

Una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, per essere efficace a livello educativo e

culturale, deve riuscire a lavorare su più livelli di intervento. Quando si parla di

cambiamento degli stili di vita, la tendenza, abbastanza comune, è di pensare ad una

trasformazione che coinvolga esclusivamente la sfera personale, principalmente dal

punto di vista del benessere e della salute. Come abbiamo visto, questo è senza dubbio

un aspetto importante, ma non è quello centrale in una pedagogia che intende perseguire

248 Sella A., Miniguida dei nuovi stili di vita, op. cit., pp. 24-26.

148

un progetto molto più ampio e complesso. È chiaro che la prima trasformazione, in una

prospettiva equa e sostenibile, deve partire da una scelta personale ed etica, coerente

con i valori espressi dalla Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, ma questo

passaggio non è sufficiente. L’impegno di una sola persona può essere da esempio ed è

certamente fondamentale per aprire un varco nella cultura di massa, ma deve essere poi

seguito da dei processi che siano diversi dalla somma di tanti singoli contributi, bensì da

tutti quei passaggi che Freire, nella propria teoria dell’azione dialogica, definisce come

indispensabili, per far sì che le persone, insieme, trasformino il mondo. Come abbiamo

visto nella prima parte a lui dedicata, Freire identifica questi passaggi nella

collaborazione, nell’unire per liberare, nell’organizzazione, nella sintesi culturale e,

infine, nella rivoluzione culturale. Se si vuole produrre un cambiamento efficace,

occorre quindi lavorare almeno su tre livelli, interdipendenti, ma allo stesso tempo

legati tra di loro in forma progressiva e circolare: il livello personale e famigliare; il

livello comunitario e sociale; il livello istituzionale e sistemico.

Il livello personale e famigliare

Attraverso una rilettura delle proprie scelte quotidiane, la singola persona può rendersi

conto di quali siano i comportamenti e le pratiche più idonee a rendere la propria

impronta ecologica il meno impattante possibile sul pianeta, oltre che valutare tutti

quegli aspetti che riguardano i quattro rapporti fondamentali: con le cose, con le

persone, con la natura e con la mondialità. Ogni aspetto della nostra vita può essere

rivisto, dal modo in cui consumiamo, alla cura che abbiamo delle nostre relazioni, dal

lavoro che facciamo, al modo con cui ci spostiamo, dall’utilizzo che facciamo del

tempo, al modo con cui ci rapportiamo con il denaro. Ogni scelta che quotidianamente

prendiamo può condurre l’Umanità ad essere-di-più o ad essere-di-meno, ragion per cui

ogni nostra pratica porta con sé una grande responsabilità dal punto di vista etico. A

questo livello è posta anche la famiglia, come cellula fondamentale della società, come

primo laboratorio di vita, in cui sperimentare modelli di sostenibilità che, oltre ad essere

di testimonianza, possono anche essere estesi ad un ventaglio sempre più ampio di

persone. In questo ruolo, la famiglia può diventare il primo esempio di come una

rivoluzione culturale sia concretamente possibile.

149

Il livello comunitario e sociale

Nel livello immediatamente successivo, quello comunitario e sociale, le relazioni

umane diventano più complesse, ma proprio per questo sono anche molto più stimolanti

ed arricchenti, sia in termini di contenuti che nella condivisione di esperienze e di

pratiche positive. Spesso è proprio dal basso, da associazioni o piccoli gruppi, che

partono le rivoluzioni più risolute a trasformare il mondo. Nel nostro caso si tratterebbe

di lavorare con tutte quelle realtà della società civile, che condividono i principi e le

pratiche legate ai nuovi stili di vita, cercando di trasmettere il messaggio secondo cui è

possibile instaurare nuovi rapporti, più rispettosi della dignità di ciascuno e improntati

ad un’esistenza più sostenibile e giusta per tutti. Il livello comunitario e sociale è, in

primo luogo, quello locale e orizzontale, in cui ognuno si può rendere protagonista,

insieme a tutte quelle persone che ne condividono gli ideali, di un cambiamento

dell’attuale sistema sociale ed economico, creando una nuova cultura che scardini le

contraddizioni di un sistema costruito sul profitto di pochi e prospettando la possibilità

inedita di un mondo nuovo, in cui gli esseri umani, unendo le proprie forze, possano

costruire insieme il proprio essere-di-più-nel-mondo.

Il livello istituzionale e sistemico

Il terzo livello, che non è da considerarsi l’ultimo, essendoci in realtà un rapporto tra i

tre livelli che non è puramente verticale, ma circolare, è rappresentato dal livello

istituzionale e sistemico. Esso riguarda quelle strutture, politiche ed istituzionali, che

possono produrre trasformazioni ampie e diffuse, avendone l’autorità e la legittimità per

farlo, ognuna nel proprio ambito (culturale, politico, religioso, civile). Questo è un

aspetto assolutamente strategico, perché punta a far sì che la cultura dei nuovi stili di

vita divenuta oggetto, ad esempio di un programma politico, possa produrre dei

cambiamenti strutturali, sia in termini legislativi, sia in processi a lungo termine, unendo

la politica del qui ed ora, a quella più lungimirante legata al progetto di paese, città o

Stato che vorremmo realizzare per le future generazioni. Il livello istituzionale è anche

quello che ha il potere di governare le politiche sociali, economiche, ambientali e

culturali, orientandole in direzione di un mondo sostenibile, equo e solidale o,

viceversa, nelle mani arroganti delle lobbies del mercato e delle multinazionali che ne

fanno parte. Per quanto la Politica venga molte volte bistrattata, a livello istituzionale

150

rappresenta, ancora oggi, la strada maestra per cambiare un sistema malato ed egoista,

che spesso non è in grado di vedere più in là delle vittorie in campagna elettorale. Delle

Istituzioni, che fossero animate da una cittadinanza attiva e responsabile, sarebbero in

grado di produrre una circolarità virtuosa, in grado di costruire insieme un sistema

sociale ed economico migliore, più vicino alle questioni ambientali e di giustizia

sociale, emergenze ormai improrogabili per una società civile che non intenda abdicare

ai propri doveri e alle proprie responsabilità.

Quello da percorrere è, in definitiva, un cammino lungo e tortuoso, ma è anche l’unico

che porti in una direzione compatibile con l’esistenza degli esseri umani in armonia con

Madre Terra. Non è un caso che le comunità indigene, secondo lo scrittore e saggista

uruguaiano Eduardo Galeano, siano quelle con più futuro di tutte, rifiutandosi di violare

la Terra e venerandola con la sacralità degna di una Madre.249

Occorre quindi rendersi

conto che la comunità non è un’entità astratta, ma inizia da noi, da ognuno di noi, che

attraverso la condivisione, l’educazione, la testimonianza e la coerenza delle proprie

azioni, può agire con responsabilità il proprio compito di cittadino planetario, inserito

nel mondo tra milioni di fratelli e sorelle, che hanno il diritto di vivere la propria vita

come esseri-di-più e non come schiavi al servizio del nostro benessere. Allo stesso

tempo, serve essere realistici e concreti, unendo l’utopia a cammini possibili e questo,

come avverte giustamente Francesco Gesualdi, richiede la scelta delle strategie più

adeguate, adattate alle più diverse situazioni:

“L'esperienza ci ha insegnato che per vincere non basta avere ragione. Bisogna avere la forza

per farla valere. A volte ne basta poca perché si agisce su un anello debole del sistema. A

volte ce ne vuole tanta perché ci scontriamo con la sua parte più muscolosa. Se vogliamo

fare cambiare le cose, dobbiamo cercare di portare a casa il maggior numero di vittorie

possibile, senza logorarci troppo. Il cammino si prospetta lungo e potremo continuare a dare

filo da torcere al sistema solo a patto di conservare le nostre energie. Se invece le bruciamo

tutte in scontri catastrofici, finiremo esausti ai bordi della strada.”250

Consci di quanto il cammino da fare sia ancora lungo, come in Freire, c’è però la

consapevolezza che nessun potere iniquo può sopravvivere di fronte ad una moltitudine

di persone coerenti, organizzate tra di loro, che combattono insieme per i propri ideali di

giustizia. È per la costruzione di una cultura di partecipazione indirizzata in questo

249 Cfr. Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, op. cit., p. 50. 250 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., pp. 147-148.

151

senso, che una Pedagogia dei Nuovi Stili di Vita deve impegnare le proprie forze, a

livello personale, sociale ed istituzionale, affinché l’educazione sia realmente politica.

II.2.4 I binari di riferimento

La Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita ha una visione dell’Umanità come di

un’unica famiglia, un’unica comunità planetaria, con un destino comune e

interconnesso ed è indirizzata verso le principali sfide che gli esseri umani devono

affrontare insieme, che riguardano, in primo luogo, gli ambiti: relazionale, sociale,

spirituale, ambientale, economico, politico e culturale. Essa vuole gettare le basi per la

costruzione di processi che riescano a portare alla trasformazione dell’attuale sistema

socio-economico in un sistema nuovo, diverso, in cui nuovi stili di vita siano portatori di

quel cambiamento necessario alla realizzazione di un futuro sostenibile, costruito un

passo alla volta da un’Umanità consapevole del valore etico della propria responsabilità,

nei confronti della Terra e di chi la abita. Affinché i nuovi stili di vita, possano prendere

piede, è necessario percorrere alcuni binari, come li definisce Padre Adriano Sella, che

nel suo approfondito lavoro sul tema, ne ha approfonditi tre: la sobrietà, il tempo e lo

spazio.

La sobrietà

La sobrietà caratterizza uno degli elementi fondamentali della Pedagogia politica dei

Nuovi Stili di Vita. Innanzitutto è bene sgomberare il campo da una definizione di

sobrietà come “rinuncia a qualcosa”. Al contrario, la sobrietà, vissuta come scelta

autonoma e consapevole, è piuttosto una “rinuncia ai condizionamenti” e rappresenta, in

questo senso, una delle espressioni più alte della libertà, perché ci ridona il tempo

assorbito dalle cose, liberandolo per le relazioni umane e per tutte quelle attività

(artistiche, culturali, di senso, ecc.) che nutrono in profondità l’animo umano. Come

dice Padre Adriano Sella: ”La sobrietà fa riscoprire l’essenziale della vita, cioè i beni

relazionali, e fa recuperare molto tempo libero perché ci libera dall’accumulazione

sfrenata di oggetti che assorbono tutto il nostro tempo.”251

Anche Papa Francesco

riferendosi alla sobrietà, nell’enciclica “Laudato si'” sulla cura della casa comune, ha

posto l’accento su come:

251 Sella A., Miniguida dei nuovi stili di vita, op. cit., pp. 31.

152

“Si può aver bisogno di poco e vivere molto, soprattutto quando si è capaci di dare spazio ad

altri piaceri e si trova soddisfazione negli incontri fraterni, nel servizio, nel mettere a frutto i

propri carismi, nella musica e nell’arte, nel contatto con la natura, nella preghiera. La felicità

richiede di saper limitare alcune necessità che ci stordiscono, restando così disponibili per le

molteplici possibilità che offre la vita.” 252

Vivere la vita con sobrietà significa anche rispondere in modo critico agli innumerevoli

condizionamenti cui siamo continuamente esposti, cercando la consapevolezza di cosa

sia veramente necessario e quanto sia invece superfluo per le nostre vite. Se questo

atteggiamento, a livello personale, ci può aiutare ad aprire una riflessione seria sul

nostro stile di vita, ancora di più dovrebbe stimolarci il pensare all’impronta ecologica

di ogni nostra scelta quotidiana. Che cosa significherebbe per l’Umanità se ogni abitante

della Terra consumasse come consumo io, come consuma la mia famiglia, la mia

comunità, il mio Paese? Scegliere la sobrietà significa farsi anche carico di una precisa

responsabilità, quella che compete a quella parte di mondo che consuma più di quanto

abbia a disposizione. L’unico modo per rispondere a questa domanda è di agire nuovi

stili di vita sostenibili e, appunto, responsabili dal punto di vista etico. La nostra società

è talmente permeata dall’idea che la felicità passi esclusivamente dal possedere cose,

che ci ha portato a dimenticare quegli aspetti della vita che le danno il vero sapore,

perché ne colgono l’essenza e il valore più profondo. Nulla di ciò che si compra, ci può

rendere realmente felici. Nonostante questo, impegniamo gran parte del nostro tempo e

delle nostre energie ad alimentare un sistema economico che, ad ogni nostro acquisto,

risponde con l’accaparramento di nuove risorse, creando nuovi squilibri e facendo

pagare ogni nostro buono sconto a qualche lavoratore del sudest asiatico, ridotto in

schiavitù per rispondere ai nostri capricci e ai desideri del momento, rimpiazzati ben

presto dall’ultimo modello di un qualsiasi prodotto in arrivo. La verità è che la nostra

società opulenta non troverà mai la capacità di vivere la sobrietà nei consumi, fino a

quando non ci sarà una profonda rivoluzione culturale, che parta dal basso, in grado di

educare i nostri occhi a guardare le cose con distacco, lasciando spazio al cuore di

essere libero di accogliere valori ben più importanti del denaro. Francesco Gesualdi, che

ha dedicato un intero libro alla “Sobrietà”, ci regala questa riflessione:

“La morale della favola è che non si può più parlare di giustizia senza tener conto della

sostenibilità e l'unico modo per coniugare equità e sostenibilità è che i ricchi si convertano

alla sobrietà. Ossia a uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più

lento, più inserito nei cicli naturali. Sobrietà non significa ritorno alla candela o alla morte

252 Papa Francesco, Laudato si'. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, op. cit., n. 223.

153

per tetano. Significa eliminare gli eccessi e rimodellare il nostro modo di produrre,

consumare e organizzare la società. Tuttavia, siamo così abituati all'abbondanza che l'idea di

vivere diversamente ci spaventa. Nella nostra fantasia si affacciano immagini di privazioni e

sofferenze. Il terrore ci pervade e facciamo dietrofront verso "l'isola del più" che, pur

essendo popolata da mostri quali la guerra, l'ingiustizia e il degrado ambientale, ci offre un

grande senso di sicurezza.253

In questo senso, una pedagogia critica e problematizzante può aiutare l’Umanità in

cammino a cogliere una prospettiva nuova con cui leggere il mondo, aprendoci alla

consapevolezza che la sobrietà è, in realtà, l’unica strada possibile verso la liberazione

dell’oppresso che abita in noi, cittadini ricchi del Primo mondo, consumatori e

oppressori, consapevoli o no, ma certamente bisognosi di spalancare i nostri occhi a

quella realtà disumanizzante che abbiamo contribuito a creare con i nostri stili di vita. È

da questa consapevolezza che deve ripartire il cammino.

Il tempo

Il tempo, anche solo per la sua funzione “di misurare la durata di tutto ciò che è”,

rappresenta una delle dimensioni più importanti e affascinanti della vita di ogni essere

umano. Innanzitutto, la prima lezione che il tempo ci dà, è che la quantità di minuti e

secondi che abbiamo a disposizione su questa Terra ha un limite, infatti, non è infinita.

Questo comporta che non siamo immortali, che abbiamo dei limiti e che siamo solo di

passaggio, anche se non ci è dato sapere per quanto. La cultura consumista, nel suo

lavoro di conquista delle menti umane, non solo è riuscita a distoglierci dal fatto che il

pianeta è uno e non ne abbiamo altri a disposizione, ma è riuscita a convincerci che

anche il tempo è infinito o almeno durerà fino a quando saremo utili a sostenere la

crescita dell’economia. La lotta insensata con il tempo che alcune pubblicità

propongono, trova terreno fertile nelle paure di chi, in una ruga, vede la disfatta di una

giovinezza ormai sfiorita, ma che può essere ricostruita, recuperata, artefatta. Il tempo

passa, ma non nel mondo patinato delle pubblicità, dove anche il tempo è distorto,

rapidissimo nell’agganciare le sue prede, praticamente fermo, se deve sancire un’idea di

bellezza che nella realtà non esiste e non può esistere, per il semplice fatto che siamo

esseri mortali. È proprio la morte la contraddizione maggiore di questo modo di vivere,

vista come la fine di tutto e non come il compimento di un percorso, fatto di tanti

piccoli passi quotidiani, che le hanno dato un senso. Chi, grazie alla scelta di una vita

253 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 48.

154

sobria, libera il proprio tempo dalle cose, si costruisce la grande opportunità di vivere

un tempo di qualità, denso, carico di vissuti profondi, di emozioni, di relazioni, di

amore. Riscoprire con umiltà la finitezza umana, può aiutarci a recuperare il valore del

tempo che abbiamo a disposizione, riscoprirne il valore, scegliendo i modi di

impegnarlo e renderlo un tempo vissuto in pienezza, libertà e passione. Un tempo così

può scorrere lento, perché deve essere colto, assaporato, gustato, a discapito di quanti ce

lo vorrebbero rubare, come facevano i Signori grigi di “Momo”, il romanzo fantastico

di Michael Ende, che sulla metafora del tempo ha scritto un capolavoro. La Pedagogia

politica dei Nuovi Stili di Vita deve rimettere il tempo al centro della vita umana, un

tempo di qualità, che dia valore al nostro sentire, al nostro essere umani, conclusi, finiti,

mortali, ma proprio per questo spronati ad utilizzare al meglio quel poco che ci è dato a

disposizione, con vite dense, vissute in pienezza, che siano di testimonianza e di

speranza per quanti verranno dopo di noi.

Lo spazio

Lo spazio è un’altra entità, oltre al tempo, su cui i nuovi stili di vita possono trovare un

binario utile per crescere e diffondersi. Lo spazio identifica il luogo della vita e, come

tale, è anche il luogo in cui si manifestano le relazioni e le prassi umane. Esistono spazi

vicini e spazi lontani, che definiscono la distanza tra una logica locale, in cui vige

un’idea di prossimità ed una logica globale, in cui vi è più un’idea generale di sistema.

Agire nello spazio significa tenere conto di queste distanze: muovendosi nel vicino, con

la consapevolezza che è il luogo privilegiato dell’incontro, ma anche quello in cui è

possibile raggiungere i risultati più limitati; muovendosi nel lontano, sapendo di avere

la possibilità di ottenere risultati molto più ampi, ma con molte più variabili e difficoltà

da affrontare. Certamente lo spazio, come luogo di vita è uno spazio da curare, da

custodire e da amare, affinché si renda possibile quella casa comune auspicata da chi

crede in una cittadinanza planetaria. Lo spazio riguarda anche una dimensione

spirituale: è uno spazio, infatti, a segnare la distanza tra due parole, a delimitare un

silenzio, che sa di riflessione e di cura di un luogo intimo, che rappresenta la dimora del

nostro cuore. Fare spazio nella propria vita significa contribuire ad una cultura

dell’incontro, dell’ascolto umile, del confronto critico, in cui il silenzio sia l’occasione

per far tacere le nostre supponenze e in nostri pregiudizi, così da acquisire la capacità di

guardare il mondo con gli occhi degli altri. È un silenzio molto diverso da quello

155

imposto dalla cultura del silenzio, questo lascia spazio all’incontro, all’ascolto, alla

saggezza, alla vita. Lo spazio è anche qualcosa di molto concreto, una casa, un

condominio, un cortile, una piazza, un quartiere, una città, un Paese. Ogni luogo, con le

proprie caratteristiche, assume un significato che travalica ciò che si può vedere, carico

com’è di vissuti, rappresentazioni, culture e valori. Rapportarsi con uno spazio significa

quindi abbracciare significati complessi, ma anche scontrarsi con una realtà viva,

concreta, che ci interroga e ci mette in discussione. Persone con volti e mani, che

possono lasciarsi vivere e abbandonarsi alle logiche di chi decide per loro, oppure

vivere intensamente le proprie vite e lo spazio che le circonda, trasformando così il

mondo.

Oltre a questi tre binari, esistono alcune caratteristiche di cui abbiamo già parlato, ma

che sono utili da ricordare, affinché una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita sia

dotata di senso e realmente efficace, nelle prassi proposte e costruite insieme per la

trasformazione dell’attuale sistema. È necessario, infatti, che:

Vi sia una precisa consapevolezza del quadro generale in cui ci si muove, così da

dare un significato alle prassi che vada oltre all’immediato, ma che sia frutto di una

riflessione integrale e complessa sul sistema. Si può ad esempio decidere di andare

sul luogo di lavoro in bicicletta per un gusto personale di utilizzo del mezzo oppure

per la consapevolezza che è indispensabile pensare ad una mobilità nuova e

sostenibile. È chiaro che una piena consapevolezza è in grado di dare più forza alle

scelte che ogni giorno prendiamo, anche nel caso in cui le scelte fatte fossero già

quelle più sostenibili.

Riguardo alla sostenibilità, vi sia una riflessione rispetto ai comportamenti

personali e produttivi che incidono sulla nostra impronta ecologica. La sostenibilità

deve diventare il punto d’inizio di ogni nostra scelta, se vogliamo che la natura sia

in grado di riprodurre il proprio ciclo vitale. Sostenibilità significa anche rispetto dei

tempi, delle stagioni, affinché l’essere umano incida nel modo meno impattante

possibile sull’ecosistema, nel pieno rispetto della natura e delle bio-diversità.

Ci si renda conto che, ognuno di noi, nessuno escluso, ha una precisa responsabilità

riguardo alla situazione attuale e allo scenario che desidera costruire per le prossime

generazioni. Essere cittadini responsabili significa abbracciare quella dimensione,

cara a Freire, di denuncia e annuncio, che può rendere possibile il cambiamento,

realizzando l’inedito possibile.

156

A pari passo con la responsabilità, vi siano precise scelte dal punto di vista

dell’etica, così che, in ogni campo, si prendano in considerazione solo quelle prassi

in grado di aiutare ogni essere umano, nessuno escluso, ad essere-di-più.

Sia chiaro che la giustizia sociale è una prerogativa irrinunciabile per chi è aperto

alla speranza di trasformare il mondo e di creare un sistema socio-economico nuovo,

rispettoso dei diritti naturali di tutti e intenzionato a trasformare l’attuale

globalizzazione dell’indifferenza, come la definisce Papa Francesco, in una

globalizzazione della speranza.

Una volta definite le caratteristiche della Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, non

resta quindi che fare degli esempi di alcuni strumenti pedagogici che potrebbero essere

utilizzati, in linea con i principi di riferimento di cui abbiamo parlato finora.

II.2.5 Alcuni strumenti pedagogici

Qui di seguito, senza la pretesa di essere esaustivi, riguardo alle molteplici applicazioni

che si potrebbero utilizzare nel cammino verso una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di

Vita, elencheremo alcune esperienze legate all’utilizzo di una pedagogia critica, in

grado di indagare i mondi di appartenenza dei partecipanti, alla ricerca di situazioni

limite da approfondire, affrontare e superare:

Il “metodo” Paulo Freire

Laboratorio sulla pedagogia critica di Paulo Freire: “Dalle situazioni problema

allo sviluppo della coscienza critica” presso il “Training Centre for International

Cooperation” di Trento / Novembre 2012. Il presente laboratorio si è svolto a cura del

Professor Piergiorgio Reggio, pedagogista e formatore, vice-presidente dell’Istituto

Paulo Freire Italia e docente di “Competenze socioeducative” presso la Facoltà di

Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano.

a) Individuazione delle “situazioni problema”

Lo scopo del laboratorio era quello di prendere confidenza con alcuni passaggi

fondamentali del “metodo” utilizzato da Paulo Freire, così da applicarlo in diversi

contesti. Nell’impostazione classica, il primo punto di lavoro riguarda l’individuazione

157

di alcune “situazioni problema” riguardanti i mondi di appartenenza dei partecipanti

(nel nostro caso erano presenti 15 persone). In assoluta libertà, ognuno può proporre

delle “situazioni problema” ritenute personalmente significative (elencate di seguito,

così come sono state pronunciate):

v La spesa oltre le disponibilità

La discriminazione delle donne

La violenza

Persone che dormono per strada

Difficoltà a motivare una classe

Disaccordo tra docenti

Genitori in disaccordo

Difficoltà di comunicazione tra pari

(tra adulti, tra adolescenti)

Difficoltà integrazione disabili, dentro

e fuori da scuola

Difficoltà a trovare lavoro (giovani,

immigrati, maggiori di 30, maggiori

di 50).

Come si può notare, le “situazioni problema” sono molto diverse tra di loro, proprio per

le variegate appartenenze dei partecipanti, per la diversità dei vissuti e delle sensibilità.

È certamente possibile che lo stesso lavoro, fatto in luoghi diversi o in tempi diversi,

possa dare risposte diverse. Ciò non toglie che ogni partecipante è parte attiva della

condivisione, stimolato da chi ha il compito di coordinare gli interventi (nel nostro caso

il prof. Piergiorgio Reggio), così che non si perda il filo del discorso. Una volta raccolte

diverse “situazioni limite”, viene chiesto ai membri del gruppo di sceglierne una,

tenendo conto del fatto che la situazione scelta deve rappresentare una situazione

conosciuta, non necessariamente di persona, ma conosciuta (la conoscenza della

questione è chiaramente determinante, vista l’impronta storica e contestuale della

pedagogia critica di Paulo Freire). Dopo un breve confronto, in cui ognuno può

esprimere il proprio punto di vista, viene quindi decisa, con il coinvolgimento di tutti, la

“situazione limite” da indagare. Nel nostro caso la “situazione limite” scelta è stata

quella denominata “la spesa oltre le disponibilità” (definita nel corso del confronto

anche come “le famiglie spendono oltre le proprie possibilità”).

b) Ricerca delle parole significative e composizione dell’“inventario dell’universo

lessicale”

Successivamente, viene chiesto ai membri del gruppo di iniziare tra di loro delle

conversazioni, con una o più persone (meglio se variando di volta in volta gli

158

interlocutori) riguardo al tema scelto. Allo stesso tempo, due persone del gruppo (se non

si trattasse di una “simulazione”, sarebbero due ricercatori esterni) vengono incaricate

di seguire i dialoghi tra le persone, cercando di cogliere le “parole chiave” più ricorrenti

e più significative che, una volte raccolte, andranno a comporre l’“inventario

dell’universo lessicale” del gruppo. Lo scopo è quello di approfondire il problema,

raccogliendo le parole che fanno parte del campo semantico dei partecipanti e procedere

poi con la costruzione di una lista di parole significative, riguardanti la “situazione

limite” scelta. Se la ricerca fosse adeguatamente approfondita e svolta all’interno di una

comunità, il lavoro richiederebbe tempi abbastanza lunghi e un rigore metodologico ben

descritto da Freire in diversi dei suoi libri, preoccupato soprattutto di non scadere in

atteggiamenti depositari e di realizzare incontri realmente autentici con le persone.

Infatti, il rischio di manipolazione è sempre alto, come il rischio che attività usate

comunemente, come ad esempio il “brainstorming”, vengano ad esempio utilizzate per

far dire quello che vogliamo, piuttosto che indagare in modo approfondito la situazione.

Per questo motivo sarebbe utile che i ricercatori avessero seri momenti di confronto

nella raccolta delle parole e che non ne aggiungessero altre per loro libera iniziativa,

anche ritenendole arricchenti o pertinenti al discorso. È importante che le parole «non

vengano tradite» e, a questo proposito, che vi sia una certa dimestichezza con il

linguaggio usato, così da limitare i fraintendimenti. Proseguendo con il nostro caso,

l’“inventario lessicale” si è pian piano arricchito delle seguenti parole:

Spese

Debiti

Pubblicità

Marchio

Stipendio

Mangiare

Cellulare

Figli

Bisogno

(indotto)

Marketing

Studio

Comunicazione

Prospettiva

Soldi

Alimentari

Priorità

Scelta

Desiderio

Viaggi

Risparmio

Investimento

c) Scelta delle “parole generatrici”

L’aspetto più importante nella scelta delle “parole generatrici”, a partire dall’”inventario

dell’universo lessicale”, è che dalle parole possano essere trovate delle situazioni

159

problematiche da affrontare e che questa ricerca venga fatta insieme. Questo comporta

che, affinché il lavoro in tutte le sue fasi sia fatto correttamente, è necessario che

l’approccio sia, allo stesso tempo, problematizzante e dialogico. Infatti, uno dei cardini

della pedagogia freiriana è che “le persone sanno” e che è necessario partire da ciò che

uno vive nel proprio mondo, affinché riesca poi a problematizzarlo, oggettivarlo e

ricrearlo. La scelta delle “parole generatrici” viene fatta trovando degli universi di senso

in cui poterle accorpare, delle categorie in cui archiviarle, secondo criteri coerenti. Il

lavoro, che come detto comporta un nuovo approfondimento del tema, nel nostro caso

ha portato a questo risultato:

1. Moneta / Denaro: spese, debito, stipendio, soldi

2. Tempo Futuro: risparmio, investimento, prospettiva

3. Esterno / Mondo: comunicazione, pubblicità, marchio

4. Interno: bisogno, priorità, scelta, desiderio

5. Beni: mangiare, cellulare, studio, alimentari, viaggi

6. Figli (in questo caso la parola è rimasta da sola)

La scelta delle “parole generatrici” viene fatta in base a criteri semantici (relazione tra

parola e realtà), pragmatici (potenzialità della parola di generare coscientizzazione),

didattici (possibilità di correlare ad essa apprendimenti disciplinari). Da una prima

analisi, si può evidenziare che: “Moneta / Denaro” e “Beni” rappresentano ciò che vedo,

ciò che posso toccare con mano, con cui ho una relazione quotidiana; comunicazione,

pubblicità, marchio vengono dal “fuori” e andrebbero ulteriormente approfondite nei

loro significati; bisogno, priorità, scelta, desiderio, parlano invece del “dentro”, del

mondo “interno” profondo, anche se “bisogno” è indotto dal “fuori”, per cui rimane a

collegare i due mondi, interno ed esterno; risparmio, investimento, prospettiva, parlano

di un tempo “futuro”, di un progetto, del guardare avanti nel tempo; la parola “figli”

resta invece trasversale al resto e sarebbe interessante anche approfondire il fatto per cui

si è deciso di lasciarla da sola, forse anche per la carica evocativa o per la sua forte

caratterizzazione relazionale. L’aspetto affascinante è quanto le persone del gruppo

siano legate a queste parole che, proprio perché “generatrici”, hanno la capacità di

parlarci della “situazione problema”, evidenziandone le diverse sfaccettature e, allo

stesso tempo, ampliando la profondità dei singoli significati.

160

d) La codifica

Il processo di codifica consiste nell’elaborazione di “forme sintetiche”, che

rappresentano la “situazione-problema” che le parole esprimono. Freire, avendo a che

fare con analfabeti adulti, utilizzava disegni di grandi dimensioni, oggi è invece

possibile, creativamente, trovare forme di codifica originali, adeguate alle culture, ai

nuovi linguaggi, impiegando le tecnologie e le modalità comunicative più adatte. La

codifica delle “parole generatrici” può essere fatta in diversi modi: in forma scritta, con

il raggruppamento delle parole in categorie (fermandosi alla fase precedente, che

rappresenta già una prima forma di codifica oppure ampliandone il lavoro); in forma

visiva, con immagini, fotografie, diapositive, disegni, vignette, fumetti; in forma

multimediale, con l’utilizzo di strumentazioni audio/video; in forma di gioco, di

situazione animativa o tramite una breve rappresentazione teatrale, mostrando alcuni

degli aspetti rappresentativi del tema indagato; in altre e diverse forme ancora, a

seconda della creatività, della tipologia dei partecipanti e della valutazione dell’efficacia

dei linguaggi più opportuni da utilizzare. Nel nostro caso, partendo dalle “parole

generatrici” scelte, due membri del gruppo (in una ricerca sul campo si sarebbe trattato

dell’”equipe dei ricercatori”) hanno provato a cercare su internet delle immagini che

potessero condensare l’insieme delle parole scelte. Il presupposto dei due incaricati è

stato quello che, digitando le parole nel motore di ricerca di “Google immagini”,

sarebbero comparse delle immagini che comunemente vengono associate ad esse.

Questa modalità potrebbe non sembrare ortodossa ma, visto il tempo limitato a

disposizione, si è dimostrata invece molto efficace nella discussione, anche a seguito del

buon dialogo che ne è scaturito. In definitiva, l’immagine scelta come prima codifica è

stata la seguente (vedere Fig.II.1):

Fig.II.1: “La spesa oltre le disponibilità” ovvero “le famiglie spendono oltre le proprie possibilità”

161

e) La decodifica

La decodifica è da attuare traducendo i significati, contenuti sinteticamente nella

presentazione della “situazione-problema”, in elementi di analisi: facendo la distinzione

tra le cause e gli effetti; valutando le diverse dimensioni del problema, dal punto di vista

sociale, psicologico, culturale, istituzionale, economico e materiale. La decodifica è un

procedimento critico che avviene in gruppo, attraverso il dialogo. La decodifica deve

essere in grado di fornire una lettura, un’interpretazione che possa ampliare il discorso,

a differenza della codifica che lo stringe. La figura di una donna, ad esempio, ci

potrebbe restituire il significato di “cura”, che è un concetto molto più profondo del

puro aspetto anatomico di ciò che semplicemente si vede. Tornando al nostro caso,

immaginiamo ad esempio, ad un primo livello, di partire dalla parola generatrice

“Esterno / Mondo” e dalle sue componenti: comunicazione, pubblicità, marchio. Un

modo per indagare che tipo di mondo ci rappresentano queste parole è quello di indicare

uno alla volta i singoli elementi. Ipotizziamo ad esempio di concentrarci sulla parola

“marchio”: potremmo sviluppare altri spunti, parlando di aziende (Nike, Nestlé), di

modelli (Panda, Clio), di marchi di qualità (doc, dop) e chissà di quanti altri aspetti

ancora. Da qui potremmo poi indagare le esperienze ed i “sentiti” riguardo alle parole.

Nel nostro gruppo, la prima associazione fatta da uno dei membri, è stata che il marchio

era “simpatico” e alla domanda «Perché?» si è fatto riferimento a quello della “Coop” e

alla pubblicità con Luciana Littizzetto. Da altri interventi si è detto che «in quel caso il

marchio ha dei criteri», altri ne “apprezzano il linguaggio”, altri, andando oltre,

sottolineano che «è la persona che decide di fidarsi di un marchio, per vari motivi». «E

quali sarebbero questi motivi?». È chiaro che da qui il dialogo prosegue e più si

arricchisce e più le parole condivise iniziano a disvelare un mondo, che appartiene al

gruppo e alle persone che lo abitano. In definitiva, la parola “marchio” ci dice qualcosa

sul mondo. Ed il processo appena descritto rappresenta una lettura di esso, così che

l’insieme di tutte le letture personali porta ad una decodifica molto ricca.

Proseguendo con l’esempio, una volta investigati diversi aspetti relativi all’”inventario

dell’universo lessicale”, abbiamo iniziato a decodificare l’immagine rappresentata in

fig.1. Alla domanda «Cosa vedi?» il primo sguardo è andato alle gambe dell’uomo e

della donna, gambe stremate, esauste. L’attenzione è poi passata ai volti, terrorizzati,

stanchi. «Perché?» Forse sono così per il peso di ciò che portano o per la ricerca di un

equilibrio: «i soldi se ne vanno», «ce la faremo mai?», «il mutuo, il leasing dell’auto».

Gli spunti sono molti e la discussione si ravviva, ma è opportuno tenere presente che gli

162

interventi devono parlare di sé o di sé in rapporto al mondo. Come detto in precedenza,

non serve, per forza di cose, un’esperienza diretta e personale, quanto una conoscenza

della situazione o di qualcuno che l’abbia vissuta. «Avete presente situazioni simili? È

capitato di parlarne con altri?»: questa domanda fa proseguire il dialogo e allo stesso

tempo evidenzia come spesso le “situazioni-problema” presentano delle “coppie” (in

questo caso la coppia “da soli/con altri”). Presentando questa coppia al gruppo, le prime

sensazioni riguardano «il senso di solitudine vissuto», che viene attenuato se la

situazione viene condivisa con altre persone che «aiutano ad avere un altro modo di

vedere le cose». Vengono esplicitate anche esperienze conosciute di persona,

riguardanti «amici che vivevano di mese in mese, non pensando al futuro». Il

coordinatore approfondisce quindi la questione «Che differenza hai trovato tra sola ed

insieme?». La risposta arriva un po’ alla volta: «Ho provato… come posso definirlo? Un

senso di sollievo, di sostegno, di conforto, frutto di altri punti di vista, del confronto,

della vicinanza, dell’empatia».

La lettura non finisce, anzi, ogni nuovo intervento alimenta il dialogo e la “situazione-

problema” da cui eravamo partiti (“la spesa oltre le disponibilità” / “le famiglie

spendono oltre le proprie possibilità”) rivela, in un continuo crescendo, di avere delle

radici molto più profonde di quanto si potesse immaginare. Secondo Freire, alla radice

di ogni “situazione-problema” ci sono sempre delle coppie dialettiche che

rappresentano i “temi generatori” del problema stesso, quei temi cioè che contengono in

sé la possibilità di moltiplicarsi in altrettanti temi che, a loro volta, provocano nuovi

interrogativi cui rispondere e che aprono la strada a nuove sfide che devono essere

affrontate.

f) La ricerca dei temi generatori

Nelle fasi precedenti, il ruolo di chi conduce il gruppo nel suo percorso di ricerca è un

ruolo direttivo, orientato verso l’utilizzo di una pedagogia profondamente critica, che

cerca di approfondire la “situazione-problema”, prima di cercarne le cause. In questa

fase, si iniziano invece a rintracciare i “temi generatori” che, come detto, stanno alla

radice della “situazione-problema”. La modalità proposta nel corso del nostro

laboratorio è stata la seguente, definita anche come “Albero dei problemi”:

163

Situazione-problema:

“La spesa oltre le disponibilità” / “Le famiglie spendono oltre le proprie

possibilità”.

Coordinatore: «Vi vengono in mente dei motivi, delle cause?».

1. «Amore scriteriato verso i figli, il marito, la moglie…».

2. «Imitazione, emulazione di altri, ricerca di uno status».

3. «Mancanza di un’educazione riguardo alla gestione economica».

4. «Difficoltà a gestire imprevisti o le proprie incapacità».

«Sceglietene uno tra questi quattro». Il gruppo sceglie la risposta numero 2, da cui si

riparte. Si noti che, oltre che scelte, le risposte sono state ovviamente proposte e scritte

dai membri del gruppo, alla luce del precedente lungo lavoro di approfondimento.

Coordinatore: «Perché ci sono delle persone che vorrebbero avere un altro status?».

1. «Insoddisfazione per come si è, per come si vive…».

2. «Per povertà culturale, non accetta i suoi limiti».

3. «È condizionato dalle mode, dalla società, dai modelli».

4. «Non sono riconosciuto/a, non accettato/a, non appartengo a…».

«Sceglietene uno tra questi tre». Il gruppo sceglie la risposta numero 1, da cui si riparte.

Si sottolinea che il Coordinatore, prima di far procedere il gruppo alla scelta, ha escluso

come risposta possibile la numero 2, poiché, per esperienza, ritiene che la si possa

ritrovare ad un livello più profondo della struttura ad albero che stiamo man mano

costruendo.

Coordinatore: «Perché dovrei essere insoddisfatto di come sono?».

1. «Non ho raggiunto i miei obiettivi, non ho ciò che volevo».

2. «Non mi sento in grado di soddisfare le aspettative degli altri, di aiutare gli

altri».

3. «Disorientamento personale, non so cioè cosa voglio».

«Sceglietene uno tra questi tre». Il gruppo sceglie la risposta numero 2.

164

Coordinatore: «Perché non mi sento in grado di soddisfare le aspettative degli altri?».

1. «Le aspettative sono imposte, non mi appartengono».

2. «Esperienze di fallimento precedenti, mi dicono che non ce la faccio».

3. «La paura di deludere le persone che mi stimano, paura che cambino

l’opinione positiva di me».

Le ultime tre risposte si caratterizzano dalle precedenti per la grande profondità a cui

l’analisi della “situazione-problema” è giunta. Si tratta sostanzialmente di una

differenza di “natura”, nel senso che il livello di indagine è arrivato al livello dei temi

strutturali, che riguardano cioè l’aspetto “personale” e quello relativo all’assetto

“sociale” (economico, istituzionale). Il nostro percorso lungo l’“Albero dei problemi”

conferma quindi quello che Freire ha sempre sostenuto riguardo ai “temi generatori” e

cioè che sono temi strutturali e che nella loro profondità vanno a toccare, con le loro

radici, sia la persona, che la società, nella sua struttura sociale, economica e politica. Per

affrontare una “situazione-problema” è quindi necessario partire dai “temi generatori” e,

nel nostro caso specifico, è necessario sottolineare che, se non vengono risolti gli ultimi

tre punti (aspettative sociali, insicurezze personali e paure relazionali), non è possibile

risolvere il problema da cui siamo partiti. In generale, quindi, per cambiare le

“situazioni-problema”, è sempre necessario intervenire sulla persona e sulla società. In

questo senso diventa molto chiaro il pensiero di Freire, nel momento in cui s’immagina

l’educazione come uno strumento privilegiato di cambiamento e di lotta, per la

costruzione di un mondo in cui l’Umanità ritrovi finalmente la propria pienezza.

La modalità utilizzata nell’esempio, che rappresenta forse più una logica che un metodo

(lo stesso Freire, come detto, sosteneva di non avere un metodo, ma qualcosa di più

simile ad una filosofia dell’educazione), aiuta anche a superare quel senso di impotenza

che si potrebbe avere di fronte a “situazioni-problema” che possono sembrare

insormontabili. Al suo opposto, rappresenta anche un buon antidoto all’atteggiamento di

superficialità o banalizzazione, che si può avere davanti a problemi che non abbiamo

approfondito sufficientemente: vedere la complessità della struttura ad albero, frutto di

questo lavoro, può aiutarci a capire come le “situazioni-problema” possano essere

affrontate solo un pezzo alla volta, scendendo il più possibile verso la radice, affinché

anche i livelli superiori possano averne un beneficio. Si tratta quindi di lavorare intorno

165

ai “temi-generatori” di oggi, così come Freire nella coppia “oppressi-oppressori” ha

approfondito quelli del suo tempo.

Il Teatro dell’oppresso

Uno degli strumenti più efficaci per mettere in discussione l’attuale sistema socio-

economico e per promuovere una riflessione intorno alla necessità di nuovi stili di vita,

sostenibili e solidali, è rappresentato dal Teatro dell’Oppresso (TdO), frutto della

ricerca e del genio creativo di Augusto Boal (Rio de Janeiro, 16 marzo 1931 – Rio de

Janeiro, 2 maggio 2009), regista teatrale, scrittore e politico brasiliano, dagli anni ’50

Direttore del Teatro Arena di San Paolo. Se, infatti, nel teatro tradizionale, la relazione

tra attori e platea è completamente unidirezionale e intransitiva, nel TdO, al contrario,

viene promosso ed incoraggiato il rimando da parte del pubblico, lo scambio di opinioni

e il dialogo tra il “conduttore”, gli attori e gli spettatori. Il funzionamento del TdO è

semplice, anche se la sua realizzazione richiede una formazione specifica ed una buona

padronanza dello strumento: dopo che alcuni attori (in genere almeno tre: un

oppressore, un oppresso e un terzo elemento) hanno rappresentato sul palco una

situazione di oppressione rimasta insoluta, il pubblico viene interpellato da un

“conduttore” (jolly) riguardo a quanto osservato e, una persona alla volta, può proporre

una propria soluzione/variazione alla scena, sostituendo sul palco uno degli attori.

Grazie a questa modalità, gli spettatori divengono di fatto “spett-attori”, con la

possibilità di intervenire da protagonisti sulla realtà, trasformandola. Come ricorda

Roberto Mazzini, uno dei padri della diffusione del TdO in Italia, Augusto Boal era

solito dire “Basta con un teatro che contempla il mondo, è necessario trasformarlo!”254

e

questo suo percorso di affinità con la pedagogia freiriana lo portò successivamente a

sperimentazioni sempre più impegnate politicamente, fino all’elaborazione del Teatro

Legislativo, un tentativo di unire la cittadinanza attiva, il teatro e la produzione di leggi

condivise. In definitiva, l’obiettivo del TdO è di spronare lo spettatore (e il cittadino) ad

osservare le situazioni intorno a lui, con l’obiettivo di trasformarle, costruendo insieme

degli scenari migliori. È importante rilevare come, le situazioni limite rappresentate in

scena, debbano essere risolte insieme. Spesso, infatti, le buone intenzioni di chi

interviene vengono modificate dalla presenza di altri attori, con cui è necessario

254 Mazzini R., Esperienze e strategie di arte negli oppressi, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, op. cit., p. 361.

166

relazionarsi, discutere e trovare una mediazione soddisfacente, che può anche non

combaciare con l’intenzione dichiarata inizialmente da chi, come singolo, è intervenuto

sul palco. Questo aspetto ci aiuta anche a capire quanto sia la distanza, a volte, tra i

progetti che prepariamo a tavolino e i processi, che invece si sviluppano all’interno di

una realtà articolata, costituita da molteplici fattori, che devono essere continuamente

tenuti in considerazione, se si vogliono seriamente risolvere le situazioni problema nella

loro reale complessità. Il TdO parte dal presupposto che chiunque possa fare teatro,

interpretare un ruolo, prendere una posizione e, per questo motivo, può essere definito

pienamente come un teatro politico, ma assolutamente non ideologico, visto che si situa

in uno spazio di confronto autentico e privo di preclusioni. Il suo utilizzo comprende

anche altre tecniche (Teatro Immagine, Teatro Forum, Teatro Invisibile, Flic dans la

tête, ecc.) che possono essere integrate al TdO o utilizzate in maniera autonoma. La

produzione letteraria di Augusto Boal in merito è vasta e ricca di innumerevoli spunti,

come anche quella di diversi altri autori, pertanto rimandiamo a loro per un

approfondimento riguardo allo strumento. La nostra intenzione qui è solamente quella

di evidenziare come il TdO rappresenti un’occasione preziosa per una pedagogia

problematizzante ed esperienziale, che intenda realmente interrogare gli esseri umani,

spronandoli a trasformare tutte quelle situazioni oppressive, che nella vita quotidiana

contribuiscono a renderci degli esseri-di-meno, in un mondo-di-meno. Analizzare con il

TdO alcune situazioni limite, come ad esempio il tema dello spreco, del rispetto

ambientale, della povertà relazionale, dei condizionamenti, delle ingiustizie sociali,

potrebbe rappresentare un’importante scossa a quell’indifferenza che colpisce, in

particolare, il mondo occidentale in cui viviamo.

Il gioco di simulazione

Uno degli strumenti che consente maggiormente di attivare dei processi di

coscientizzazione è rappresentato dal gioco di simulazione, in cui una persona deve

prendere delle decisioni come se fosse nella vita reale, all’interno di un contesto non

reale, ma comunque verosimile, costruito ad hoc, così da ricreare un’ambientazione

stimolante, interessante, nel limite del possibile anche divertente, tale da rendere il

gioco piacevole da svolgere. Il gioco di simulazione è uno strumento pedagogico molto

potente, perché permette a chi lo svolge di aprire una riflessione importante riguardo

alle proprie pratiche, al proprio modo di fare delle scelte, al proprio stile di vita. I temi

167

trattati possono essere i più svariati, dalla simulazione della spesa, alla scelta di dove

aprire un conto corrente, l’importante è che il gioco sia costruito seriamente,

prevedendo: un tema di fondo (contenuti, riferimenti, bibliografie), modalità di

svolgimento (regole di base, numero dei partecipanti, luogo, materiali, tempistiche), una

verifica o un rimando finale (in cui chi gestisce il gioco ha la possibilità di aprire un

confronto sulle pratiche osservate, utilizzando il metodo maieutico e stimolando la

riflessione con dati/informazioni verificabili riguardo al tema). Molto spesso, questo

strumento mette in forte discussione le persone, perché le pone di fronte a

comportamenti assodati, comuni, considerati come la norma, ma che se analizzati in

maniera profonda, rivelano contraddizioni, condizionamenti e, non di rado, profonde

frustrazioni. Sono moltissimi gli esempi reperibili, all’interno di libri dedicati o di siti

internet di realtà impegnate nel campo di un’educazione di tipo esperienziale e

problematizzante. Giusto per fare un esempio, uno dei giochi di simulazione più riusciti

è probabilmente la Boicottega255

, una simulazione in cui viene riproposta la spesa

settimanale, con tanto di carrello e prodotti di marca sugli scaffali. Nel corso del gioco,

chi partecipa, scopre come dietro ad ogni prodotto acquistato vi sia un’azienda (o spesso

una multinazionale) che può avere comportamenti più o meno corretti riguardo ai diritti

dei lavoratori, al rispetto dell’ambiente, all’utilizzo di paradisi fiscali per il deposito di

capitali, al rispetto della legalità e dei diritti umani, al finanziamento di regimi

oppressivi o all’azione di lobbying su Governi compiacenti. L’obiettivo è di educare ad

un consumo critico e consapevole, restituendo al consumatore un punteggio che

identifichi la propria tipologia di consumatore (conformista/manipolabile,

superficiale/istintivo, critico/consapevole) e i possibili accorgimenti da adottare per

migliorare la sostenibilità dei propri acquisti, con soluzioni anche molto pratiche. La

prospettiva è di far cogliere come ogni acquisto, in realtà, rappresenti un vero e proprio

voto rispetto al mondo che vorremmo costruire per i nostri figli. Una variante del gioco

di simulazione è il gioco di ruolo, in cui il ruolo assunto non è preso a livello personale,

ma “nei panni di altri”. In questo senso, si aprono ancora più possibilità di creare

situazioni creative ed originali, tenendo però sempre ben presenti i capisaldi della

Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita approfonditi in precedenza, che aiutano a dare

255 La Boicottega è un laboratorio sul consumo critico che è stato elaborato grazie alla Commissione dei Nuovi Stili

di Vita della Diocesi di Padova, sotto il coordinamento di Padre Adriano Sella. Una versione in carte da gioco è stata

rielaborata da IPSIA (l'Ong delle Acli) di Brescia, incrociando i dati con la "Guida al Consumo Critico" del Centro

Nuovo Modello di Sviluppo. I materiali della versione originale si possono trovare al seguente indirizzo: http://nuovistilidivitapadova.org/laboratori/boicottega/ , ultimo accesso il 26 Luglio 2015

168

un senso profondo all’esperienza di gioco, evitando che si banalizzino temi

fondamentali per il futuro dell’Umanità.

La Formazione

Uno degli equivoci più fuorvianti rispetto alla pedagogia freiriana è che essa sia

considerata come vuota di contenuti, essendo contraria al sistematico deposito di

informazioni, ma è lo stesso Freire a chiarire un modo, significativamente valido, di

approfondire dei contenuti senza però scadere nella logica dell’educazione depositaria:

“[…] avviene quando l’insegnante fa una piccola esposizione dell’argomento e dopo il

gruppo degli studenti partecipa assieme all’insegnante all’analisi della stessa esposizione. In

questo modo, l’insegnante, con la piccola esposizione introduttiva, sfida gli allievi che così

partecipano, interrogandosi e facendo domande all’insegnante, all’approfondimento e ai

risvolti dell’esposizione iniziale. Un lavoro di questo genere non può affatto essere

considerato nocivo o tradizionale, nel senso negativo del termine. […] In ultima analisi,

mostra agli allievi come studia, come si “avvicina” a un certo tema, come pensa

criticamente. Spetta agli allievi avere o creare e sviluppare la capacità critica di seguire il

movimento che l’insegnante fa nell'avvicinamento e nella ricerca del tema.”256

È quindi possibile presentare dei dati, dei contenuti, delle situazioni problema, a patto

che non rimangano delle informazioni fini a se stesse, ma che siano dibattute, analizzate

criticamente, alla ricerca di quelle soluzioni che vadano nella direzione di una

trasformazione positiva, verso quell’inedito possibile tanto caro a Freire. La formazione

può quindi avvalersi di contenuti, anzi, la denuncia di alcune situazioni richiede

inevitabilmente che vi sia una seria preparazione e raccolta di dati, così da poter

analizzare il più criticamente possibile ogni argomento trattato. A maggior ragione in

una società come la nostra dove, la larga diffusione della comunicazione, spesso non

corrisponde alla veridicità e alla completezza delle informazioni. Nell’ambito della

Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita è auspicabile, quindi, che nascano e si

diffondano occasioni di formazione, con l’utilizzo anche di strumenti diversi tra di loro,

dall’utilizzo delle tecniche viste in precedenza, a corsi di formazione veri e propri, dalla

condivisione di idee, all’approfondimento di fonti inerenti alle tematiche fin qui trattate.

L’aspetto importante della formazione è che sia critica, analitica, problematizzante,

capace di smuovere le coscienze dal torpore e di promuovere prassi efficaci di

cambiamento a tutti i livelli, personale, sociale e istituzionale. Lo sbocco ideale di tali

percorsi dovrebbe, infatti, andare nella direzione di costituzione di gruppi di persone, in

256 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 140-141.

169

grado di divenire a loro volta promotori di una nuova cultura, improntata a nuovi stili di

vita pienamente sostenibili, rispettosi di tutta l’Umanità e di Madre Terra.

L’informazione

Mentre il livello formativo prevede un rapporto interpersonale di prossimità, se

l’obiettivo è di raggiungere un numero più ampio possibile di individui può essere utile

anche un livello di tipo informativo, in cui sia fondamentale la maggior diffusione

possibile delle informazioni. La differenza tra informazione e formazione è quella che

passa tra il passaggio di un contenuto e il suo approfondimento, ma non si deve

sottovalutare che, una volta raggiunta una persona, l’informazione può essere da stimolo

ad analizzare criticamente alcune questioni, così come un piccolo seme ha la possibilità

di trasformarsi in un frutto. Ad esempio, esistono numerose riviste che fanno della

buona informazione il loro seme: “Altreconomia”, “Valori”, “Mosaico di Pace”,

“Nigrizia”, “Animazione Sociale”, “Educazione Democratica”, sono solo alcune delle

testate di contro-informazione che lavorano per un mondo più giusto e solidale.

L’obiettivo comune è quello, su vari fronti, di provocare un cambiamento culturale, il

più diffuso e capillare possibile, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Nel

panorama dell’informazione digitale, grandi risorse risiedono nel web, grazie a siti

internet, profili di social network (facebook, twitter, youtube, ecc.), blog tematici,

condivisione di risorse digitali, diffusione di campagne di sensibilizzazione, promozione

del crowdfunding per la raccolta di fondi a sostegno di progetti creativi di sviluppo

umano, sociale e ambientale. Non avendo a disposizione le risorse economiche di chi,

attualmente, detiene il potere, una presenza diffusa e capillare di piccole fonti di contro-

informazione sarebbe comunque potenzialmente in grado di raggiungere milioni di

persone, sopperendo efficacemente alla mancanza di risorse, con la partecipazione di

una cittadinanza attiva. Si tratta, in effetti, di riuscire ad utilizzare tutti i mezzi a nostra

disposizione, per poterci districare tra le maglie di chi vorrebbe conservare questo

sistema, ormai evidentemente logoro e privo di un futuro sostenibile. Grandi eventi a

livello nazionale e internazionale sono la dimostrazione più eloquente di come siano

sempre più le persone che sentono il bisogno di trovare insieme un nuovo cammino,

basti pensare a manifestazioni ed eventi come “Fa’ la cosa giusta”, “Terra Futura”,

“Novo Modo”, “Ecomondo”, “Terra Madre” e molte altre ancora, che promuovono con

serietà e dedizione una cultura di nuovi stili di vita sostenibili.

170

II.3 Un nuovo rapporto con le Cose

“È per me un’immoralità,

che agli interessi radicalmente umani

si sovrappongano, come si sta facendo,

quelli del mercato.”

(Paulo Freire)257

Lo scenario

Nelle pagine precedenti, con diversi esempi, abbiamo visto come la cultura del

consumismo abbia portato l’Umanità stessa a consumarsi, trascinando con sé il pianeta

che le era stato affidato: un saccheggio irrefrenabile di risorse, con un impatto

ambientale senza precedenti; il mancato riconoscimento della dignità di persone

sottopagate o, peggio ancora, ridotte in schiavitù, con la trasgressione di ogni minima

norma sulla sicurezza del lavoro; l’impoverimento di interi popoli, abbandonati a se

stessi dagli sfruttatori di turno e poi respinti alle frontiere da parte di chi ha contribuito

alla loro povertà; la sovvenzione di conflitti e regimi oppressivi da parte di lobbies

multinazionali, che premono sui Governi per incrementare i propri profitti; paradisi

fiscali che aiutano a proliferare la corruzione, l’illegalità, la frode, in favore di pochi

arricchiti senza alcuna dignità morale. Da questo scenario, nel cosiddetto Primo Mondo,

emergono posizioni diverse, tra chi sostiene che ognuno dovrebbe essere in grado di

risolvere i problemi a casa sua e chi sostiene invece che sia importante assistere

indistintamente tutti i bisognosi, chi dice che sia il sistema stesso a dover essere

cambiato e chi considera il “progresso” come un destino inevitabile, anche se porta con

sé alcuni “effetti collaterali”. Quello che non è possibile ignorare è che: alimentando

questo sistema, finanziando con i nostri acquisti delle multinazionali senza scrupoli,

vivendo al di sopra delle nostre possibilità, portando avanti pratiche che danneggiano

l’ambiente, siamo in primo luogo noi, consumatori del Primo Mondo, l’ingranaggio

portante del meccanismo che produce così tanta iniquità. E valgono a poco, purtroppo,

le nostre elemosine, se da una parte togliamo tutto e dall’altra cerchiamo, con il nostro

obolo, di mettere a tacere le nostre coscienze. Quelle sull’assistenzialismo e sul ricorso

ad una solidarietà di facciata, non sono considerazioni nuove, se nel IV secolo a.C. il

vescovo Gregorio di Nissa, Padre della Chiesa, recitava così:

257 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 80.

171

“Forse tu fai delle elemosine. Ma da dove le prendi, se non dalle tue rapine crudeli, dalla

sofferenza, dalle lagrime, dai sospiri? Se il povero sapesse da dove viene il tuo obolo, lo

rifiuterebbe perché avrebbe l'impressione di mordere la carne dei suoi fratelli e di succhiare

il sangue del suo prossimo. Egli ti direbbe queste parole coraggiose: «Non saziare la mia sete

con le lagrime dei miei fratelli. Non dare al povero il pane impastato con i singhiozzi dei

miei compagni di miseria. Restituisci al tuo simile ciò che gli hai sottratto ingiustamente, e io

ti sarò molto grato. Che vale consolare un povero, se ne crei altri cento?».258

Non si tratta quindi di aiutare qualcuno, ma di saldare un debito. Non si tratta di tornare

al Medioevo, fermando il progresso tecnologico e la ricerca, ma di metterli al servizio

degli esseri umani, nessuno escluso. Non si tratta di proclamare altisonanti dichiarazioni

d’intenti, ma di iniziare ad agire prassi e politiche nuove, nella direzione di nuovi stili di

vita, improntati alla sostenibilità, all’equità e alla giustizia sociale. Il rischio è altrimenti

quello, ben descritto da Freire, di alimentare un circolo vizioso, che da una parte

produce miseria e dall’altra si nutre di essa:

“Gli oppressori, falsamente generosi, hanno bisogno che l'ingiustizia perduri, affinché la loro

"generosità" continui ad avere le occasioni per realizzarsi. L’“ordine sociale” ingiusto è una

fonte da cui sgorga perennemente questa falsa generosità, che si alimenta con la morte, lo

scoraggiamento e la miseria.”259

Ma è proprio nella loro condizione di oppressori che, paradossalmente, i consumatori

del cosiddetto Primo Mondo, dando un valore alle persone per quello che hanno e non

per quello che sono, finiscono loro stessi per divenire degli oggetti, degli esseri-di-

meno, disumanizzandosi. Come spiega Freire:

“Quindi per gli oppressori ciò che vale è “avere di più”, e sempre “di più”, anche a spese di

un “avere di meno” o di un “avere niente” degli oppressi. “Essere” per loro è “avere” e avere

come classe che possiede. Non possono accorgersi, nella loro situazione di oppressori, di

usufruttuari, che se l'avere è condizione per essere, tale condizione è necessaria per tutti gli

uomini. Non possono accorgersi che, nella ricerca egoistica di avere, in quanto classe che

possiede, affogano nel possesso, e non “sono” più. Non possono più “essere.”260

Come descritto nei paragrafi “La fabbrica dei desideri” e “La ricerca della felicità” (in

II.1.1), ogni messaggio pubblicitario rivolto al consumatore va in questa direzione. Il

prodotto è infatti raffigurato come l’antidoto ai bisogni profondi dell’essere umano, che

viene svuotato della propria umanità, per poter essere riempito di cose, spacciate, a

tempo determinato, per la soluzione di tutti i nostri problemi relazionali e di autostima.

Ma è chiaro che non sono le cose a dare valore all’essere umano, quanto, piuttosto, la

258 Gregorio di Nissa, Sermone contro gli usurai, 330. 259 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 29. 260 Idem, p. 45.

172

sua stessa umanità, i suoi valori, i sogni, gli affetti, le emozioni, la possibilità inedita di

essere-di-più. Ed è da questa oppressione relativa, così come l’abbiamo definita in

precedenza, che serve operare una rivoluzione culturale, affinché anche nel Primo

Mondo, vi sia la possibilità di aprire gli occhi su di un sistema malato, ingiusto e

profondamente inadeguato a rispondere ai reali bisogni delle persone. Attivare processi

di liberazione nel consumatore del Primo Mondo significa scioglierlo dai

condizionamenti, riconciliandolo con la propria umanità, riconducendolo all’essenziale,

alla sobrietà, alla gioia, allo stupore, alla creatività, alla relazione. Tuttavia questo non

basta, occorre, infatti, che ogni nostra prassi sia mossa da un profondo senso etico, che

estenda la nostra liberazione ad un cammino di liberazione di tutta l’Umanità:

“Non possiamo considerarci dei soggetti della ricerca, della decisione, della rottura, della

scelta, come soggetti storici del cambiamento, se non ci consideriamo dei soggetti etici.”261

La povertà e l’ingiustizia non rappresentano né un dato di fatto, né una fatalità, per

questo motivo è necessario un atteggiamento problematizzante e critico che abbia come

obiettivo la trasformazione della realtà, in vista di una permanente umanizzazione degli

esseri umani. È un cammino certamente impervio, ma c’è da parte di Freire la

consapevolezza che sia anche storicamente possibile:

“Mi piacerebbe fosse ben chiaro che non sto lavorando soltanto di immaginazione, perché so

quanto sia difficile l’applicazione di una politica dello sviluppo umano che privilegi

fondamentalmente l’uomo e la donna, e non soltanto il profitto. Ma so anche che, se abbiamo

davvero la pretesa di superare la crisi in cui ci troviamo, si impone un cammino etico. Non

credo a nulla che avvenga senza o al di fuori di esso. Se da un lato non si può avere sviluppo

senza profitto, dall’altra quest’ultimo non può essere l’obiettivo dello sviluppo, perché, il suo

fine ultimo sarebbe la felicità immorale di chi investe.”262

Nei confronti dei continui condizionamenti da cui siamo bombardati ogni giorno, forse

non è facile mantenere uno spirito critico ed una curiosità epistemologica attivi a tempo

pieno, tuttavia è possibile attivare buone prassi che ci aiutino a definire meglio la

direzione in cui vogliamo andare, rinunciando al superfluo e lasciandoci guidare

dall’effettiva utilità delle cose di cui ci circondiamo, selezionando quelle veramente utili

o, meglio ancora, quelle che sono strettamente indispensabili. Basta sfogliare la “Guida

al consumo critico”263

per comprendere come sotto i marchi di Coca Cola, Nestlé,

Unilever, Procter & Gamble ed altre migliaia di multinazionali come loro, si stia

261 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 16. 262 Idem, p. 104. 263 Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Guida al consumo critico, EMI, Bologna 2009.

173

combattendo una battaglia da cui nessuno uscirà vincitore, almeno nel futuro prossimo,

quello che riguarderà le prossime generazioni. La questione veramente importante, però,

è che la responsabilità delle scelte è tutta nostra. Abbiamo, infatti, la grande opportunità,

con ognuna delle scelte che compiamo ogni giorno, di esprimere il nostro voto sul

mondo che verrà, di porre una pietra per la costruzione di un futuro migliore oppure no.

Ed è possibile fare scelte diverse, ma non è possibile fare a meno di scegliere, da che

parte stare.

Gli obiettivi

Riprendendo i contenuti programmatici della Carta della Terra, per il raggiungimento

di un nuovo rapporto con le cose si devono prendere in considerazione i seguenti

obiettivi, così da costruire insieme un nuovo sistema basato su una reale Giustizia

economica e sociale:

Eliminare la povertà come imperativo etico, sociale e ambientale.

Garantire che le attività economiche e le istituzioni a tutti i livelli promuovano lo

sviluppo umano in modo equo e sostenibile.

Affermare l'uguaglianza e le pari opportunità fra i sessi come prerequisiti per lo

sviluppo sostenibile, e garantire l'accesso universale all'istruzione, all'assistenza

sanitaria, e alle opportunità economiche.

Sostenere senza alcuna discriminazione i diritti di tutti a un ambiente naturale e sociale

capace di sostenere la dignità umana, la salute fisica e il benessere spirituale, con

speciale riguardo per i diritti dei popoli indigeni e delle minoranze.264

Il nostro rapporto con le cose passa necessariamente dal rapporto che abbiamo con il

denaro, che troppo spesso occupa una posizione di predominio sulle nostre scelte e su

quelle della società in cui viviamo. La crisi attuale è, infatti, prima di tutto, una crisi

antropologica, in cui tutto viene monetizzato e in cui i valori estrinseci (legati ai beni

materiali, alle cose, al compenso economico) hanno, un po’ alla volta, tolto spazio ai

valori intrinseci (legati alle relazioni umane, alle persone, alla dimensione del dono),

contribuendo a creare un sistema sociale frammentato ed egoista, riducendo l’essere

umano al ruolo di consumatore e di oggetto stesso del consumo. È imprescindibile,

quindi, che un ripensamento dell’attuale sistema economico debba inevitabilmente

partire dal concetto che il denaro deve essere uno strumento a servizio dell’essere

umano, non governarlo. Il cammino dell’Umanità non può avere un futuro se proseguirà

264 Commissione della Carta della Terra, La Carta della Terra, op. cit., www.cartadellaterra.it , ultimo accesso 20 Giugno 2015.

174

ciecamente la sua rotta in meccanismi iniqui e perversi, in cui il mercato la fa da

padrone:

“I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta

che il consumismo sfrenato, unito all’inequità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In

tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non

risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano

maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta,

invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. Alcuni semplicemente si

compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite

generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi

e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi.”265

L’educazione di cui invece il nostro mondo ha bisogno è un’educazione che sappia

aiutare gli uomini e le donne del nostro tempo a riconciliarsi con la propria umanità,

con il proprio essere umani, con la possibilità, unica e inedita, di essere-di-più. Serve

quindi, ad ogni livello, personale, sociale e istituzionale, che ogni essere umano e

l’intero ecosistema vengano messi al centro di ogni scelta e di ogni decisione. Come

sostiene Francesco Gesualdi, “L’Umanità non ha bisogno dell’Organizzazione mondiale

del commercio, ma di un’Organizzazione mondiale dei Beni comuni, perché il nostro

interesse primario è la salvaguardia degli elementi naturali su cui si basa la nostra

esistenza”.266

Serve uno sguardo nuovo ad ogni nostra pratica, al modo in cui prendiamo

le decisioni che riguardano il nostro futuro. Occorre ridare dignità a Paesi che hanno

tutte le risorse per camminare da soli, senza il cappio del debito stretto intorno al collo.

Occorre ripensare a politiche che riorganizzino l’economia, promuovendo le pratiche

virtuose e punendo quelle che degradano l’ambiente e gli esseri umani. Occorre ridare

importanza all’economia pubblica, al no profit, al volontariato, al fai-da-te, in modo che

non sia il solo profitto a determinare il senso di ogni nostra azione, ma il Bene comune,

l’interesse di tutti.

“Si commercia per vivere. Non possiamo più concepire il mercato come il signore della vita:

quando ci accorgiamo che uccide, dobbiamo fermarlo. Quando da strumento al nostro

servizio si trasforma in mostro che ci divora, dobbiamo ridimensionarlo.”267

Un’economia equa, solidale, etica, circolare, locale, pulita, non solo è auspicabile, ma è

possibile, anche perché già c’è. Non mancano, infatti, gli esempi di chi, un tentativo

dopo l’altro, sta provando a segnare un cammino nuovo, per la costruzione di

265 Papa Francesco, Evangelii gaudium, op. cit., n.60 pp. 86-87. 266 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 78. 267 Ibidem.

175

un’economia diversa, etica e sostenibile. Quella che al momento manca, è piuttosto una

visione comune, un progetto complessivo, politicamente orientato, che dia forza al

sogno di un sistema economico e sociale che sia realmente a servizio dell’Umanità e del

pianeta. È questa la grande sfida che si pone di fronte al nostro essere cittadini

planetari, fratelli e sorelle nel mondo: la capacità di unire le nostre forze e le buone

pratiche in un progetto capace di contenerle, condividerle, diffonderle e valorizzarle. È

una sfida educativa, culturale e politica, che è necessario affrontare al più presto, se

abbiamo davvero a cuore il destino dell’Umanità e delle generazioni che verranno.

Le buone pratiche a livello personale / famigliare

Uno dei concetti più cari a Freire è quello che definisce la prassi, come l’unione di

azione e riflessione, sintesi di un’analisi critica del mondo e dell’impegno volto a

trasformarlo. In questo senso, la Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita, deve essere

in grado di generare e promuovere delle prassi che siano coerenti con gli obiettivi

presentati in precedenza e che chiameremo, d’ora in poi, buone pratiche. Riguardo ad

un nuovo rapporto con le cose, sono molti gli esempi e le buone pratiche che varrebbe

la pena elencare ed approfondire, ma ci sembra più opportuno lasciare la possibilità al

lettore di approfondire individualmente ogni singola voce e trovarne di altre, vista

l’ampiezza della letteratura in merito e delle numerose fonti attualmente a disposizione.

Qui di seguito, partendo dal livello personale/famigliare, analizzeremo solo alcune tra le

pratiche più importanti, lasciando aperta la possibilità che quelle elencate possano

essere ampliate da altri significativi esempi che, per forza di cose, abbiamo qui

tralasciato.

A livello personale/famigliare, è importante, in primo luogo, tenere presente la

cosiddetta “Regola delle 5 R”, che identifica tutte quelle pratiche volte a: ridurre,

riusare, recuperare, riciclare e risparmiare.268

Alla base di questa regola vi è il concetto

di Sobrietà. Infatti, è importante come il consumatore si renda conto che il primo passo

per ridurre il proprio impatto negativo sul mondo è proprio quello di ripensare al modo

in cui egli consuma. Ridurre significa, innanzitutto, fare delle scelte, in termini di

quantità e di qualità, che ci possano aiutare a comprendere quali siano le cose realmente

utili di cui abbiamo davvero bisogno e quelle che sono invece superflue, a cui possiamo 268 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 54-58.

176

rinunciare. Ridurre significa anche ripensare al modo con cui ci rapportiamo alle risorse

a nostra disposizione, prima di tutto l’acqua e l’aria, a che uso ne facciamo, a quanta

energia e che tipo di energia utilizziamo, a quali mezzi impieghiamo per spostarci,

all’importanza che diamo alla velocità e alla comodità nell’ambito delle nostre vite. Se

facessimo un serio esame di coscienza, ci potremmo rendere conto di quanto le nostre

esistenze siano piene di cose inutili, ben lontane dall’essenziale. Sobrietà significa

anche: riutilizzare un oggetto che funziona, senza pensare di cambiarlo al primo spot

che ci dice che è obsoleto; favorire quelle pratiche di consumo che prevedono il

riutilizzo dei contenitori (distributori “alla spina”, vuoti a rendere) o imballaggi meno

impattanti; recuperare un oggetto o parti di esso dandogli nuova vita, in una nuova veste

o una nuova funzione; riciclare quanto più possibile, evitando gli sprechi e

promuovendo la cultura della raccolta differenziata, nei luoghi pubblici e di lavoro;

risparmiare il più possibile, così da avere più tempo a disposizione per le relazioni

umane, invece che per il lavoro finalizzato agli acquisti. La Sobrietà è, in fin dei conti,

un cammino di liberazione, da tutti quei fardelli che appesantiscono le nostre vite, da

tutte quelle cose, che occupano spazio e pensieri, ma che soprattutto ci sottraggono

tempo prezioso, quello impiegato per acquistarle e quello necessario a mantenerle,

sistemarle, organizzarle. È tempo di vita che regaliamo al mercato, troppo prezioso

perché sia buttato.

Per quanto riguarda l’acquisto di cose, sono diverse le pratiche che possono essere

attuate per contrastare un tipo di mercato che abbiamo visto essere fonte di ingiustizie,

inquinamento e illegalità. In primo luogo è possibile attuare campagne di boicottaggio

nei confronti di quelle aziende, spesso multinazionali, che ad esempio ledono i diritti dei

lavoratori, inquinano l’ambiente, hanno interessi finanziari in paradisi fiscali fuori dalla

legalità, favoriscono le azioni di lobbying e di corruzione, sovvenzionano regimi

dittatoriali e il commercio di armi, sfruttano le risorse di paesi impoveriti, depredandoli.

Sono diversi i casi di boicottaggio che hanno raggiunto dei risultati parziali, ma

comunque confortanti, spingendo quanto meno alcune multinazionali a rivedere il

rispetto dei diritti dei lavoratori, a fronte di un calo del proprio fatturato, a causa della

campagna stessa. Un secondo strumento è quello del consumo critico, che consiste nel

fare la spesa scegliendo i prodotti non solo in base al prezzo o agli sconti che vengono

applicati, ma tenendo conto dei comportamenti, dal punto di vista etico, dell’azienda

che li produce. Ogni nostro acquisto, infatti, ha una ricaduta, che può essere positiva,

177

finanziando aziende virtuose, oppure negativa, contribuendo a sovvenzionare realtà che

hanno come unico fine il profitto, al di là di ogni regola. A questo proposito, è da

segnalare l’incessante lavoro del “Centro Nuovo Modello di Sviluppo” di Vecchiano

(PI), che cura la già citata “Guida al consumo critico”,269

oltre al sito internet di

“Imprese alla sbarra”,270

uno strumento preziosissimo per chi volesse approfondire

l’argomento.

Un altro aspetto importante è che non tutto ciò che ci serve deve essere per forza

acquistato. Una via possibile è ad esempio quella dell’autoproduzione e del fai-da-te,

comunemente utilizzata da chi abita in campagna e normalmente dimenticata dal

mercato, visto che rappresenta una forma di lavoro in cui non è previsto passaggio di

denaro e non ha ricadute positive sul PIL (a differenza, paradossalmente, del commercio

di droga o della prostituzione). Questa pratica, oltre a liberarci dalla logica dell’acquisto

a tutti i costi (è possibile, infatti, produrre in casa un detersivo, coltivare un orto,

costruirsi degli utensili di riciclo, ecc.), fa sì che le persone sviluppino la propria

creatività, oltre a raggiungere la soddisfazione per aver prodotto qualcosa con le proprie

mani, secondo l’effettivo bisogno.

Tra le tante riflessioni che ci sarebbero da fare, una delle più importanti, in merito al

livello personale/famigliare, è legata al modo in cui investiamo i nostri soldi. Può

capitare, infatti, che tutti i nostri tentativi di migliorare il mondo, impegnandoci nel

sociale e nell’associazionismo, siano vanificati dal modo in cui gestiamo i nostri

risparmi, affidati nelle mani di banche senza scrupoli, che, spesso, per aumentare i

propri interessi fanno investimenti in uno dei commerci più fluenti e redditizi, quello

delle armi. Ad oggi, sono numerosissime le banche che rientrano nella lista delle banche

armate, presentata periodicamente dal Ministero dell’Economia, purtroppo con sempre

minore trasparenza.271

Occorre quindi rivolgersi a banche realmente “differenti”, che

abbiano abbracciato la finanza etica come uno stile che le contraddistingue e non come

uno specchietto per le allodole con cui coprire i propri comportamenti spregiudicati.

Una delle più interessanti esperienze in merito è certamente quella di Banca Etica,272

nata dall'impegno di migliaia di cittadini e organizzazioni che si sono interrogate sulla

269 Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Guida al consumo critico, op. cit. 270 http://www.impreseallasbarra.org/ , ultimo accesso 19 agosto 2015. 271 http://www.banchearmate.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015. 272 http://www.bancaetica.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015.

178

necessità di utilizzare il denaro in modo etico e responsabile. Fare una scelta in questo

senso ci dà anche modo di sapere, in trasparenza, come vengono investiti i nostri soldi,

scegliendo di finanziare le realtà che più ci sono affini (no-profit, cooperazione

internazionale, energie pulite, ecc.).

Le buone pratiche a livello comunitario / sociale

La spinta che nasce delle singole scelte personali, unita al desiderio delle persone di

condividere saperi ed esperienze, porta spesso alla creazione di buone pratiche che

trovano applicazione anche ad un livello comunitario e sociale. Sono ad esempio molte

le pratiche che si diffondono attorno ad un nuovo rapporto con il cibo, privilegiando

aziende e produttori locali (definiti anche a “km 0”), con certificazioni biologiche o

comunque con particolari attenzioni alla qualità dei processi e al rispetto dell’ambiente

in ogni fase della produzione. Riflessioni sul proprio modo di alimentarsi hanno anche

favorito la nascita di movimenti vegetariani, vegani, ecc., come anche la sensibilità

intorno ad una cultura del cibo contrapposta a quella dei fast food e definita, Slow Food,

273 da cui prende il nome, appunto, l’associazione internazionale no profit che è

impegnata ormai da diversi anni a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi

produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi i

territori e le tradizioni locali.

Un passaggio interessante all’interno delle buone pratiche a livello comunitario e

sociale è legato alla condivisione come scelta di non possesso, una scelta

assolutamente rivoluzionaria nel contesto storico ed economico in cui viviamo. In

questa direzione vanno ad esempio le esperienze di co-housing274

, in cui ad alloggi

privati vengono associati ampi spazi destinati all’uso comune e alla condivisione tra chi

vi abita (lavanderie, ampie cucine, sale per l’accoglienza e lo svago, spazi gioco per i

bambini, servizi di pubblica utilità ed utensili ad uso condiviso, ecc.). Un po’, in realtà,

come avveniva nelle cascine una volta, in cui abitavano i nostri nonni con le loro

famiglie. Non a caso, un’altra forma di questo tipo è quella dell’autoproduzione

condivisa, di cui esistono esempi eccellenti, come gli orti sociali e i community

gardens, nelle più svariate configurazioni e proposte. L’aspetto rivoluzionario è che 273 http://www.slowfood.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015. 274 Oltre alla co-abitazione e alla collaborazione, spesso, si affiancano al co-housing progetti di co-progettazione e co-costruzione.

179

queste attività, oltre a rispondere a dei bisogni materiali, hanno il pregio di unire le

persone tra di loro, a differenza di qualsiasi prodotto reperibile sul mercato. In questo

senso, va anche la pratica del baratto, in cui non è il denaro a definire il valore di un

bene, ma la sua utilità. La diffusione dei social networks ha avuto il pregio di ravvivare

questo antico canale di scambio, in cui è possibile sperimentare anche il senso della

gratuità, nel momento in cui si decide di non chiedere nulla in cambio di quanto dato.

Chi non dovesse credere possibile che possa esistere una società che riesca a funzionare

senza il denaro, dovrebbe infine fare una visita a Nomadelfia,275

una comunità di

cattolici praticanti, fondata da Don Zeno Saltini e situata in provincia di Grosseto, che

ha adottato uno stile di vita completamente ispirato a quanto riportato negli Atti degli

Apostoli, nel segno della fraternità e della condivisione. Un’esperienza certamente forte,

per molti non praticabile su larga scala, ma che sicuramente rappresenta un esperimento

interessante, oltre che una forte provocazione al nostro sistema economico e sociale.

Sempre nell’ambito delle buone pratiche a livello sociale, un discorso fondamentale

riguarda l’utilizzo di modalità di acquisto improntate ad un mercato equo e solidale

(Fairtrade),276

nato intorno agli ideali del consumo critico e che si è ampiamente

diffuso a livello internazionale, con un proprio marchio di certificazione indipendente,

che assicura le migliori condizioni possibili di vita e lavoro per i produttori e i lavoratori

dei Paesi in via di sviluppo, a cui viene corrisposto un compenso equo, a differenza di

quanto solitamente concesso dalle grandi multinazionali. In Italia, è molto diffusa ad

esempio l’esperienza di Altromercato,277

un Consorzio formato da un centinaio di

cooperative e organizzazioni no profit, che promuove e diffonde la cultura del

commercio equo e solidale attraverso la gestione di numerose Botteghe Equo-Solidali.

Acquistare prodotti storicamente e culturalmente provenienti da paesi del “Sud” del

mondo (cacao, tè, caffè, zucchero, banane, ecc.) attraverso questi canali, significa in

molti casi dare un aiuto concreto a piccoli progetti e a realtà locali di riscattarsi da una

condizione di isolamento e povertà, riconoscendo, oltre al giusto compenso, la dignità e

il valore del loro lavoro.

Un altro modo, socialmente molto diffuso, di acquistare in modo critico, è quello reso

possibile dalla straordinaria esperienza dei Gruppi di Acquisto Solidale (G.A.S.), 275 http://www.nomadelfia.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015. 276 http://www.fairtradeitalia.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015. 277 http://www.altromercato.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015.

180

costituiti per la maggior parte da famiglie che si organizzano per effettuare acquisti in

comune, secondo i principi del consumo critico, dando priorità alla qualità dei prodotti,

alla collaborazione con produttori locali, a criteri che siano in sintonia con il rispetto

dell’ambiente e delle persone. Il termine solidale definisce lo spirito peculiare con cui

vengono valorizzate le relazioni all’interno del gruppo, con la divisione di compiti e

ruoli tra i partecipanti, oltre che attraverso il rapporto di fiducia e vicinanza che si cerca

di instaurare con i diversi produttori. Non di rado, i G.A.S.: diventano un’arricchente

occasione di amicizia e di socializzazione; favoriscono lo sviluppo di economie locali o

di colture di nicchia, dando respiro ai piccoli produttori, che si ritrovano ad avere la

garanzia di clienti fidelizzati; diventano strumenti preziosi per la diffusione di una

nuova cultura del consumo, offrendo all’intera comunità momenti di riflessione e

incontri su temi specifici, in linea con gli ideali condivisi dal consumo critico, equo e

solidale. A sottolineare la grande diffusione e la proficua esperienza sviluppata dai

G.A.S., sono in seguito nate delle reti più ampie, definite come Distretti di Economia

Solidale (D.E.S), reti solidali di imprese locali, cooperative, associazioni, produttori,

gruppi di acquisto e consumatori, unite per la promozione e la costruzione di un nuovo

modello economico, che renda possibile il sogno di un nuovo modo di intendere

l’economia, più vicino alle persone, che all’interesse di pochi.

Una delle esperienze più interessanti e complete, rispetto ad nuovo rapporto con le cose,

è rappresentata dalla Campagna dei Bilanci di Giustizia.278

L’obiettivo è di

monitorare le abitudini all’interno delle famiglie, così da identificare tutti quegli aspetti

riguardanti il consumo che possono essere spostati dal normale circuito economico ad

uno più sostenibile, equo e solidale. Grazie allo strumento delle schede mensili, le

famiglie partecipanti hanno l’opportunità di stilare un proprio bilancio famigliare che

tiene conto, non solo delle spese economiche, ma anche di quanto esse contribuiscono o

meno alla costruzione di un mondo migliore e più giusto. L’opportunità è quella di fare

un’approfondita analisi critica di quanto le nostre scelte quotidiane (riguardanti gli

acquisti, i mezzi di trasporto, i consumi energetici, le abitudini alimentari, la modalità di

investire i risparmi, ecc.) incidono sul pianeta e sugli esseri umani, dandoci la

possibilità di rileggere le nostre pratiche, modificandole e guadagnando in qualità della

vita, riprendendo possesso del tempo e gustando il piacere dell’autoproduzione. Il fine

278 http://www.bilancidigiustizia.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015.

181

ultimo dei “Bilanci di Giustizia” è, in definitiva, di cambiare l’economia dalle piccole

cose, dai gesti quotidiani.

L’ultimo aspetto che merita di essere trattato a livello sociale e culturale, riguarda l’idea

di una nuova economia e le caratteristiche che dovrebbe avere: un’economia locale,

più vicina alle persone e alle comunità, più facilmente interpellabile e controllabile,

distante dalle logiche globalizzanti delle multinazionali e dai trattati bilaterali tra Stati;

un’economia sganciata dai grandi interessi e più vicina alla gente, disposta a spendersi

in esperienze di microcredito che aiutino le fasce deboli della popolazione a riscattarsi

verso una vita dignitosa; un’economia circolare, che ponga al centro la sostenibilità del

sistema, in cui non ci siano scarti, in quanto ogni risorsa viene riutilizzata, in

contrapposizione all’attuale modello lineare, che parte dalla materia e arriva al rifiuto;

un’economia civile, improntata ad una nuova prospettiva culturale, in cui l’intera

economia venga rifondata sui principi di reciprocità e fraternità, in cui il vero profitto

sia rappresentato dal raggiungimento del Bene comune.

Le buone pratiche a livello istituzionale / sistemico

Il livello istituzionale/sistemico è senza dubbio quello più articolato e complesso. Fare

un elenco di buone pratiche in questo ambito può sembrare riduttivo, vista l’ampiezza

dei temi da trattare, ma è importante comunque porre alcuni punti fermi intorno a cui

lavorare: la finanza etica è possibile e il successo dell’esperienza di Banca Etica

dovrebbe far riflettere l’intero panorama politico, sulla necessità di premiare esperienze

che intendano l’interesse, come l’interesse di tutti e non come il profitto per pochi; sono

oggi più che mai necessarie politiche economiche che vadano verso la realizzazione di

un’economia etica e di condivisione, in cui anche i tempi e le modalità del lavoro

siano più vicini alla dimensione umana; una maggiore tutela del Bene Comune, con la

costruzione di una società più sobria e solidale, in cui il tempo risparmiato per gli

acquisti possa essere utilizzato per la comunità e per le relazioni umane; legislazioni

ferree per le realtà che non rispettano l’uomo e l’ambiente, affinché vi sia una reale

protezione di quanto ci è più caro, ripensando anche di limitare, oltre a danni evidenti

come quelli creati da disastri ambientali o da violazioni dei diritti dei lavoratori, anche

quelli più subdoli, provocati ad esempio da pubblicità aggressive nei confronti di minori

incapaci di difendersi; legislazioni favorevoli per le realtà che attuano

182

comportamenti virtuosi, così da incentivare la creatività e l’impegno verso nuovi

modelli di sostenibilità, utilizzando quanto tolto ai disonesti per darlo a quanti operano

per uno sviluppo umano reale; piani di offerta formativa (Scuola, Università…) per

la costruzione di un pensiero critico, che dovrebbe essere il fondamento

imprescindibile del nostro essere-di-più-nel-mondo; Piani di offerta formativa

(Scuola, Università…) per imparare il “fare”, in cui gli educandi ritrovino il gusto

dell’esperienza, dello sporcarsi le mani, di impegnarsi in prima persona in un progetto

che faccia loro incontrare altri volti, altri mondi, altre sfide, altre prospettive di pensiero,

troppo spesso infatti la Scuola tende a contenere e a preservare un tesoro di possibilità

che rischia di non essere mai speso, inespresso, tra le pagine di un libro e quattro mura.

183

II.4 Un nuovo rapporto con le Persone

“Se gli uomini trasformano il mondo

dandogli un nome, attraverso la parola,

il dialogo si impone come cammino

per cui gli uomini acquistano significato in quanto uomini.

Perciò il dialogo è un'esigenza esistenziale. […]

Non esiste dialogo però, se non esiste un amore profondo

per il mondo e per gli uomini.

Non è possibile dare un nome al mondo,

in un gesto di creazione e ricreazione,

se non è l'amore a provocarlo.”

(Paulo Freire)279

Lo scenario

La cultura consumista, come abbiamo visto, ha purtroppo fatali ricadute anche nella

qualità dei rapporti umani, che spesso sono segnati dalla frenesia e da un tessuto

culturale che ha la tendenza a materializzare ogni cosa, anche l’amore. La prima ad

associare lo scenario attuale alla definizione di “materializzazione dell’amore” è stata la

sociologa americana Arlie Russell Hochschild, professoressa emerita dell’Università di

Berkeley (California), sostenendo che:

“Il consumismo si ripercuote anche sui risvolti emotivi della vita lavorativa e familiare.

Esposti al bombardamento incessante della pubblicità, per effetto delle tre ore di televisione

che guardano, in media, ogni giorno (pari a metà del loro tempo libero), i lavoratori sono

persuasi ad avere «bisogno» di un maggior numero di cose. Per comprare ciò di cui, a questo

punto, hanno bisogno, servono loro dei soldi. E per guadagnarli, lavorano più a lungo. Ma

dato che stanno più a lungo fuori di casa, cercano di rimediare alla propria assenza facendo

dei regali costosi ai familiari. In altre parole, materializzano il proprio amore. E il ciclo

continua.”280

Avere meno tempo per le relazioni umane significa anche avere minori possibilità di

sviluppare quelle competenze che ci permettono di gestire al meglio i rapporti

interpersonali, con il rischio che l’assenza fisica porti progressivamente anche ad un

distacco emotivo, alimentato da una sempre minor dimestichezza da parte degli esseri

umani ad incontrarsi in maniera autentica. Ne conseguono conflitti seri o banali,

fraintendimenti, relazioni instabili e strumentali, un senso diffuso di insicurezza,

sfiducia e solitudine. La sistematica mancanza di tempo che ha portato a questa

situazione, è anche uno dei motivi per cui le controversie non vengono poi affrontate e

risolte, nella frenesia delle nostre vite c’è sempre, infatti, qualcosa di più urgente da

279 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 79. 280 Cfr. Hochschild R., The Commercialization of Intimate Life, Berkeley, University of California Press, 2003, pp.208 ss.

184

fare. Il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman dipinge un quadro avvilente della

società dei consumi:

“Le società di consumatori tendono verso la disgregazione dei gruppi a vantaggio della

formazione di sciami perché il consumo è un'attività solitaria (è perfino l'archetipo della

solitudine) anche quando avviene in compagnia. Essa non stimola la formazione di legami

durevoli, ma solo di legami che durano il tempo dell'atto di consumo. Questi legami possono

mantenere unito lo sciame per la durata del volo (cioè, fino al prossimo cambio di obiettivo),

ma rimangono del tutto occasionali e superficiali; non hanno alcuna influenza sui movimenti

futuri dello sciame e non proiettano alcuna luce sul passato dei suoi componenti.”281

Nello sciame esiste solo una prossimità fisica, non esiste la cooperazione e chi tradisce

la direzione del movimento né è irrimediabilmente escluso, come i milioni di impoveriti

che non hanno accesso al grande mercato globale. È chiaro, però, che se veramente

l’essere umano porta in sé un’inedita possibilità di essere-di-più, non è accettabile che

la logica del consumo divori ogni traccia della sua umanità, della sua vocazione

ontologica ad essere-di-più nell’incontro con l’altro e nel mondo. L’essere umano è

molto più di quello che il processo di reificazione (objectification) vorrebbe farci

credere, è fatto di gesti, di memoria, di emozioni, come ben evidenzia Paulo Freire in

questo passaggio:

“Portiamo con noi la memoria di molte trame, il corpo impregnato della nostra storia, della

nostra cultura; la memoria, a volte diffusa, a volte nitida, chiara nelle vie dell'infanzia,

dell'adolescenza; la reminiscenza di qualcosa di remoto che, all'improvviso, risalta limpido

davanti a noi, e in noi; un gesto timido, la mano che si è stretta, il sorriso che si è perso in un

tempo di incomprensioni, una frase, una semplice frase possibilmente già dimenticata da chi

l'aveva detta”282

Le relazioni autentiche si nutrono spesso della poesia di piccoli gesti, ricordi, che nella

loro semplicità possono lasciare un segno indelebile nelle nostre vite, più di mille

parole. In questo senso è indispensabile cogliere il significato di un silenzio o il valore

di un sorriso, pagine continuamente da interpretare e accogliere, all’interno dello spazio

dialogico e pedagogico in cui ci muoviamo. Come dice Freire: “L’educatore che

ascolta, impara la difficile lezione di trasformare il suo discorso all’alunno, a volte

necessario, in un colloquio con lui.”283

Se è vero che le carenze affettive generano

insicurezza, la cultura del consumo non può essere più la risposta alle nostre aspettative,

in un circolo vizioso che crea bisogni e finge di soddisfarli, per poi tradirci con un

281 Bauman Z., Homo consumens, Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, op. cit., p. 49. 282 Frazão Soares Linhares C., Memorie e narrazioni come lettura e rilettura, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo

Freire. Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, op. cit., p. 306. 283 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 90.

185

nuovo prodotto. La risposta all’esigenza esistenziale di relazioni umane autentiche è nel

dialogo, nel volto di chi ci sta di fronte, in una stretta di mano, in un abbraccio sincero,

nella costruzione condivisa di una società equa, accogliente, pacifica, solidale, attenta a

non escludere nessuno, in cui l’amore, libero da ogni tentativo di materializzazione,

riscopra il proprio compimento nell’incontro con l’altro.

Gli obiettivi

Ritornando ai contenuti della Carta della Terra, per un nuovo rapporto con le persone

si devono prendere in considerazione i seguenti obiettivi, così da costruire insieme una

nuova cultura per il rispetto e la cura per la comunità della vita:

Rispettare la Terra e la vita, in tutta la sua diversità.

Prendersi cura della comunità vivente con comprensione, compassione e amore.

Costruire società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche.

Tutelare i doni e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future.284

Un nuovo rapporto con le persone, quindi, deve necessariamente prestare la giusta

attenzione al tema della vita, in un senso ampio di cura, di attenzione responsabile

all’altro, di fratellanza universale, di unità nelle differenze, come direbbe Freire.

Rimettere al centro la vita significa anche dare il giusto peso al tempo e ai tanti impegni,

lavorativi e non, che occupano ogni casella delle nostre giornate, lasciandoci spesso

senza respiro. Il tempo rischia, in questo caso, di diventare un limite, più che una

possibilità. Questa situazione trova la sua peggiore dimostrazione, purtroppo, nel modo

in cui i bambini del mondo occidentale vivono il tempo a loro disposizione, impegnati

come dei capi di Stato, invece di essere lasciati liberi di dedicarsi a momenti di gioco

insieme, in sani spazi di svago all’aria aperta. In realtà il tempo è la sostanza stessa della

vita e senza un’attenzione particolare alla qualità del nostro tempo, non possiamo

pensare di migliorare la qualità delle nostre vite. Il tempo contiene anche l’inedito

possibile, il tempo delle possibilità, in cui progettare il mondo che vorremmo

tramandare alle generazioni future. Oltre ai temi della vita e del tempo, uno dei cardini

nella costruzione di un nuovo rapporto con le persone, è legato ad una nuova

prospettiva di solidarietà, più vicina alla prossimità che all’assistenzialismo:

284 Commissione della Carta della Terra, La Carta della Terra, op. cit., www.cartadellaterra.it , ultimo accesso 20 Giugno 2015.

186

“[La solidarietà] è dare se stessi, la propria pienezza esistenziale, come ci insegnano Paulo

Freire ed Erich Fromm. Non è sacrificarsi per gli altri, ma sacrificarsi con gli altri per un

mondo, una società, un quartiere, una scuola, una classe, una famiglia migliore, più giusta,

solidale. Chi non ama, difficilmente comprende l'altro. Tuttavia, nella sfera educativa,

l'amore non è appropriazione; è un'intercomunicazione tra più coscienze che si rispettano e

dialogano per intervenire nella realtà.”285

Un nuovo rapporto con le persone non può quindi nutrirsi di se stesso, ma deve sfociare

in un impegno comune, affinché le relazioni umane possano svolgersi in un mondo

migliore, costruito grazie al contributo di tutti e, come ci ricorda Freire, l’unico

elemento che può provocare questo cambiamento è l’amore.

Le buone pratiche a livello personale / famigliare

A livello personale e famigliare sono diverse le buone pratiche che potrebbero aiutarci

a condurre una vita ricca di relazioni umane. Diversi punti sono già stati affrontati,

come la necessità di rivedere il proprio rapporto con il tempo, puntando alla sobrietà

come ad un’occasione per liberare le nostre vite da inutili fardelli, circondandoci meno

di cose e più di relazioni. Lasciare spazio all’incontro con gli altri significa prendersi

cura dei rapporti che più ci stanno a cuore (di coppia, di amicizia, famigliari,

intergenerazionali, ecc.), ma anche di crearne di nuovi, grazie alla disponibilità ad

aprirsi e ad accogliere l’altro, attraverso semplici gesti (un saluto, un abbraccio, la

disponibilità ad ascoltare) o creando occasioni di partecipazione sociale (gruppi di

interesse, associazioni, incontri). Le possibilità sono infinite, ma la qualità delle nostre

vite non potrà che avere un positivo giovamento, sia dal punto di vista dei legami

instaurati, che dalle occasioni di crescita e di apertura al mondo che ne potrebbero

derivare. È in questa filosofia di vita che va ricercata la felicità, non certo relegandoci la

sera davanti ad un televisore con il dolby surround, ma sviluppando la nostra creatività,

coltivando amicizie, interessi. In questo atteggiamento aperto e fiducioso, i primi spazi

da coltivare sono quelli a noi prossimi: il proprio condominio, il mezzo pubblico con cui

ci si sposta, il quartiere, la parrocchia, le associazioni e i gruppi locali. Sono spazi che

richiedono un impegno diretto, mettendoci in discussione in prima persona, ma sono

anche quelli da cui si può avere un rimando immediato, anche perché a volte basta

davvero poco per migliorare il clima intorno a noi. Un capitolo a parte riguarda invece

la cura della sfera spirituale. Non è questo il luogo per approfondirne l’importanza e il

285 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 116.

187

profondo significato per le nostre vite, ma delle relazioni umane, che vogliano definirsi

autentiche, non possono prescindere da un’abitudine permanente a guardare dentro di

sé, alla ricerca delle ragioni profonde della nostra esistenza. Ognuno di noi ha la

possibilità di donare agli altri, solo quanto ha avuto la possibilità e la cura di coltivare

dentro di sé. In questo scambio di contenuti profondi sta la ricchezza e la bellezza del

rapporto dialogico con l’altro.

Le buone pratiche a livello comunitario / sociale

A livello comunitario e sociale, un nuovo rapporto con le persone non può quindi che

realizzarsi uscendo di casa o aprendola ad altri, allargando i propri orizzonti a tutte

quelle esperienze di socialità e associazionismo che possono avere delle ricadute

positive anche nella realtà che ci circonda: gruppi di interesse e condivisione (ludici,

artistici, culturali, impegnati); esperienze di grande impatto sociale e relazionale come il

co-housing (in ambito abitativo), il co-working (in ambito lavorativo) o il couch-surfing

(in ambito turistico); appartenenza a gruppi di associazionismo e volontariato,

disponibilità all’accoglienza e all’affido famigliare; esperienze nel mondo della

cooperazione e del no profit; partecipazione a tavoli di rete pensati per mettere insieme

più realtà intorno ad un obiettivo comune. Tra i tanti esempi possibili, una delle

esperienze più interessanti è senza dubbio quella delle Banche del Tempo,286

che

utilizzano il tempo come moneta di scambio, anziché il denaro. Nate, spesso, dalla

disponibilità di tempo di persone (casalinghe, pensionati, disoccupati) che avevano delle

competenze specifiche, unite al tempo per metterle a disposizione degli altri, questo

strumento, estraneo alla logica dello scambio merce-denaro, è diventato ben presto un

modo originale di costruire relazioni umane di qualità. Quello delle Banche del Tempo

non è volontariato, non essendoci la gratuità del gesto, ma vi è quella piena reciprocità

che nasce in quei gruppi di persone che, collaborando insieme, riscoprono la

dimensione comunitaria del mutuo aiuto e del sostegno comune.

Le buone pratiche a livello istituzionale / sistemico

A livello istituzionale e sistemico, un nuovo rapporto con le persone dovrebbe essere

segnato da nuove politiche che favoriscano l’incontro e la collaborazione tra le

286 http://www.associazionenazionalebdt.it/ , ultimo accesso 26 agosto 2015.

188

persone, con un ritorno positivo sull’intera comunità. Esperienze che vanno in questa

direzione sono rappresentate, ad esempio, da tutte quelle realtà istituzionali che

riflettono sull’architettura delle città e sulla fruibilità degli spazi, in una dimensione più

umana, che consenta alle persone di passeggiare, di incontrarsi, di fruire di luoghi puliti

e ben curati, in cui siano promosse e valorizzate iniziative artistiche, musicali e

culturali. Se gli spazi fossero densi di significato e non delle semplici aree di passaggio,

anche le persone sarebbero più motivate ad abitarli, usufruendo magari di una rete di

trasporto pubblico capillare o approfittando di zone chiuse al traffico per muoversi

liberamente a piedi o in bicicletta. Uno sforzo che le istituzioni dovrebbero fare è quello

di abbandonare la logica del PIL, adottando nuovi indicatori che siano efficaci a

monitorare la qualità della vita delle persone e della società, al fine di attuare tutte le

politiche necessarie a migliorarla in modo efficace (vedi “La ricerca della felicità” in

II.1.1). Un altro passaggio potrebbe essere quello di stimolare la cittadinanza attiva,

con iniziative mirate al coinvolgimento e a rendere responsabili Associazioni e cittadini,

anche con strumenti innovativi come il bilancio partecipato, che prevede il

coinvolgimento dei cittadini nell’elaborazione del bilancio istituzionale e nella lettura

dei reali bisogni della comunità. In questo ambito sarebbe interessante un lavoro di

recupero di quello straordinario strumento che è la nostra Costituzione, approfondendo

fin da bambini l’importanza e il valore della democrazia, come opportunità di

partecipazione ed impegno civile. La Scuola dovrebbe inoltre proporre progetti

esperienziali e di cooperazione, fuori dalla logica della competitività, così da abituare

gli studenti a lavorare insieme, a condividere le idee, a confrontarsi, maturando un

pensiero critico e stimolando quella curiosità epistemologica tanto cara a Freire. Molti

pensano che coltivare il sogno di una società relazionale, in cui le persone siano in

grado di ritrovarsi e di collaborare tra di loro, sia un’idea totalmente utopica, nel senso

denigrante del termine. La realtà è che abbiamo già visto (e tuttora stiamo vedendo) a

quali risultati ci ha portato una società consumista, incapace di dare valore alle relazioni

umane. Se realmente vogliamo perseguire un concreto sviluppo umano e una migliore

qualità della vita, è indubbio che la strada che dobbiamo percorrere non sia quella

attuale ed è assolutamente improrogabile la ricerca di un nuovo cammino.

189

II.5 Un nuovo rapporto con la Natura

“[...] questa tragica trasgressione dell'etica ci avverte di come sia urgente

che assumiamo il dovere di lottare per i principi etici fondamentali,

come il rispetto della vita degli esseri umani, delle vite degli altri animali,

la vita degli uccelli, la vita dei fiumi e delle foreste.

Non credo nell'amorevolezza delle donne e degli uomini, tra gli esseri umani,

se noi non diventiamo capaci di amare il mondo.

L'ecologia ha un'importanza fondamentale alla fine di questo secolo.

Deve essere presente in ogni pratica educativa

di carattere radicale, critica o liberatrice.”

(Paulo Freire)287

Lo scenario

Il 18 Gennaio del 2014, sulla prima pagina de “La Stampa” (dopo la pubblicazione su

numerose altre testate internazionali come Daily Mail, CBS, Time, Huffington Post)

capeggiava una grande fotografia, raffigurante un gigantesco maxischermo posizionato

in piazza Tienanmen, sovrastata dal titolo “Troppo smog, a Pechino l’alba sul

maxischermo”, riportando la notizia secondo cui l’installazione era stata messa dalle

autorità cinesi, per consentire alla cittadinanza di vedere l’alba almeno virtualmente,

dato che gli alti livelli di inquinamento atmosferico impedivano alle persone di scorgere

il sole.288

In realtà lo schermo era presente da diverso tempo nella piazza, al fine di

mostrare spot pubblicitari, spesso di mete turistiche, di cui l’alba in questione faceva

appunto parte. La questione potrebbe essere considerata come un equivoco ridicolo, se

non fosse che la notizia era talmente verosimile da essere scambiata, universalmente,

per vera. Come rileva, infatti, il prestigioso World Watch Institute, nel suo rapporto

periodico sullo stato del pianeta:

“Un recente studio su "The Lancet" suggerisce che nel solo 2010, l'inquinamento

atmosferico in Cina ha causato circa 1,2 milioni di morti premature. La Cina ha

recentemente superato gli Stati Uniti come leader mondiale nell'emissione di anidride

carbonica (CO2), con un volume pari al 29 per cento delle emissioni globali di CO2 nel

2012. Nello stesso anno, in Cina le emissioni medie di CO2 per persona sono aumentate del

9%, arrivando a 7,2 tonnellate; questo porta le emissioni pro capite della Cina a livello di

quelle dell'Unione europea, secondo quanto rilevato dal "Netherlands Environmental

Assessment Agency" (l'Agenzia di valutazione ambientale dei Paesi Bassi). Per la maggior

parte delle persone in Cina, queste valutazioni terribili rappresentano solo una piccola

sorpresa: gli effetti dell'inquinamento sono infatti visibili ovunque. Nei primi mesi del 2012,

un pesante smog ha ricoperto più di 1 milione di chilometri quadrati di Cina per diversi

giorni. Più di recente, nel mese di ottobre 2013, livelli record di smog hanno colpito Harbin,

la principale città nord-orientale. Secondo un sondaggio del "Pew Research Center", le

preoccupazioni dei cittadini cinesi sull'ambiente hanno avuto un forte aumento nel 2013: il

287 Freire P., Pedagogia da indignação. Cartas pedagógicas e outros escritos, Editora UNESP, São Paulo 2000, p.31. 288 Troppo smog, a Pechino l’alba sul maxischermo, La Stampa, 18 gennaio 2014.

190

47% ha considerato l'inquinamento atmosferico "un problema molto grande", rispetto al 36

per cento del 2012.”289

Non ci dovremo stupire quindi, se in un futuro prossimo, risentiremo parlare del

maxischermo di piazza Tienanmen, simbolo oscuro di un’alba che è ormai giunta al suo

tramonto. Come abbiamo visto nella parte dedicata a “Pachamama, la Madre rinnegata”

(in II.1.1) e in questo ulteriore spunto di riflessione, la situazione ambientale del pianeta

è giunta ormai ad una soglia di non-ritorno, che l’Umanità non si può permettere di

varcare. È indispensabile che gli esseri umani passino da una concezione

antropocentrica del mondo ad una eco-biocentrica, smettendo di vestire i panni di chi è

al di sopra delle parti, credendosi padroni e creatori del pianeta. Non deve cadere nel

vuoto il grido di chi vede in Madre Terra la più grande tra gli oppressi. Ci troviamo di

fronte alla necessità di promuovere una nuova e diffusa cultura ecologica, creando

processi di coscientizzazione che siano in grado di stimolare, tra le persone, una seria

analisi critica della situazione attuale, spronandole a ricercare nuove e virtuose pratiche,

rispettose della Terra e di quanti la abitano. Come ci indica Freire, non è possibile

amarsi in pienezza, come fratelli e sorelle, se non si è capaci di amare il mondo, la

nostra casa comune.

Gli obiettivi

Facendo riferimento alla Carta della Terra, per un nuovo rapporto con la natura, per la

salvaguardia, la custodia e la cura dell’integrità ecologica di Madre Terra, si devono

prendere in considerazione i seguenti obiettivi:

Proteggere e ripristinare l'integrità dei sistemi ecologici terrestri, con speciale riguardo

alla diversità biologica e ai processi naturali che sostentano la vita.

Prevenire i danni come misura più efficace di protezione ambientale, e agire con cautela

quando le conoscenze sono limitate.

Adottare sistemi di produzione, consumo e riproduzione che salvaguardino la capacità

rigenerativa della Terra, i diritti umani e il benessere delle comunità.

Sviluppare lo studio della sostenibilità ecologica e promuovere il libero scambio e

l'applicazione diffusa delle conoscenze acquisite.290

Un nuovo rapporto con la natura deve essere in grado di sviluppare quella “capacità di

riconoscere le molteplici connessioni che ci legano all’ambiente”, che lo psicologo 289 The WorldWatch Institute, Governing for Sustainability. State of the World 2014, Island Press, Washington 2014,

p. 181. 290 Commissione della Carta della Terra, La Carta della Terra, op. cit., www.cartadellaterra.it , ultimo accesso 20 Giugno 2015.

191

statunitense Daniel Goleman definisce come intelligenza ecologica.291

Il sentirsi al di

sopra delle parti, infatti, ha portato ad un utilizzo ciecamente strumentale del pianeta,

depredato a fini puramente utilitaristici, nell’illusione che una crescita illimitata fosse

possibile. Ma i segnali, che ormai hanno raggiunto la nostra quotidianità (dai

cambiamenti climatici al dissesto idrogeologico, dall’inquinamento atmosferico alla

riduzione dei beni comuni a nostra disposizione), rendono sempre più improrogabile lo

sforzo di promuovere e costruire insieme un nuovo rapporto con Madre Terra. Se la

cultura consumista ha portato ad una cultura di morte, raggiungendo apici di violenza e

distruzione mai visti finora, occorre che l’Umanità coltivi una cultura della vita, in

funzione del Bene comune e della fraternità tra i popoli, riscoprendo la Terra come

Madre, in un legame che vada oltre al rapporto strumentale, ma che si sposti alla logica

del sentire, dell’emozione, in definitiva, dell’amore. Come in tutti i rapporti d’amore,

però, non basta dire di amare la Terra, ma serve che vi sia un impegno concreto e

responsabile nel perseguire quotidianamente gli obiettivi contenuti nella Carta della

Terra. Questo è possibile attraverso un’analisi seria, critica e capillare di quelle che

sono le nostre pratiche, i nostri comportamenti, soprattutto nell’ambito dei consumi,

affinché vi sia la consapevolezza che: non si può dire di amare la Terra, se i nostri

acquisti finanziano aziende multinazionali che calpestano l’ambiente e i diritti dei

lavoratori; non si può dire di amare la Terra, se i nostri consumi vanno ben oltre le

possibilità del pianeta; non si può dire di amare la Terra, se mettiamo al primo posto le

nostre comodità e il nostro ben-avere di fronte agli squilibri immorali con cui milioni di

persone fanno i conti ogni giorno; non si può dire di amare la Terra, se ignoriamo che la

Terra è una sola e la stiamo perdendo. Si tratta di una questione etica. È giunta l’ora,

infatti, “di operare uno spostamento radicale verso la coscientizzazione socio-politica. È

nella prospettiva di una formazione al pensare riflessivamente critico che la pedagogia

di Freire diventa fondamentale”.292

La realizzazione di una cittadinanza planetaria,

attiva, impegnata e responsabile, deve essere quindi al centro di una Pedagogia politica

dei Nuovi Stili di Vita, che intenda cambiare, non solo l’attuale rapporto che gli esseri

umani hanno con la natura, ma che aiuti a far comprendere quel legame unico e

indissolubile, che unisce l’Umanità ad una Terra che gli è Madre.

291 Goleman D., Intelligenza ecologica, BUR Rizzoli, Milano 2009, p. 3. 292 Mortari L., La formazione eco-pedagogica degli educatori, in Telleri F. (a cura di), Il metodo Paulo Freire. Nuove tecnologie e sviluppo sostenibile, op. cit., p. 454.

192

Le buone pratiche a livello personale / famigliare

A livello personale e famigliare, sono molte le buone pratiche che potrebbero aiutarci a

vivere un nuovo rapporto con la natura. A titolo di esempio, basti solo pensare a quante

volte, nell’arco di una giornata, abbiamo a che fare con l’acqua: quanto tempo teniamo

aperto un rubinetto, quante volte azioniamo lo sciacquone, quanto stiamo sotto la

doccia, quanti litri di acqua sono stati utilizzati per produrre il cibo che consumiamo o

l’abbigliamento che indossiamo, quanta acqua utilizziamo per lavare i piatti, i vestiti, i

pavimenti e via dicendo. Anche se non ce ne accorgiamo, il modo in cui consumiamo le

risorse a nostra disposizione definisce la nostra impronta ecologica sul pianeta. Di

quanti pianeti avrebbe bisogno l’Umanità, se tutti consumassero come consumo io?

Esistono le risorse per soddisfare il mio stile di vita o è più utile che io ripensi ad un

nuovo stile di vita? Ognuno di noi può darsi una risposta, ma l’esercizio fatto con

l’acqua potrebbe essere ripetuto per l’energia elettrica, l’alimentazione, il modo in cui ci

spostiamo, in definitiva ogni pratica che ci mette in relazione con le risorse naturali. È

quindi fondamentale che vi sia una riflessione critica verso scelte responsabili, in

grado di ridurre la nostra impronta ecologica, nella direzione di quella sobrietà che

abbiamo perso, in nome di un benessere e di una comodità insostenibili. Non si tratta di

tornare all’età della pietra, ma di riscoprire quell’efficienza contadina che i nostri nonni

conoscevano bene e che parla di un uso intelligente dell’energia, di parsimonia e di un

recupero responsabile delle risorse. Tra gli obiettivi primari dovremmo prendere in

considerazione: una sostanziosa riduzione dei rifiuti, evitando gli sprechi, utilizzando

materiali biodegradabili, ricorrendo alla raccolta differenziata, ma soprattutto facendo

un’analisi preventiva sul tipo e la necessità degli imballaggi nei nostri acquisti; un

risparmio energetico nel segno della sobrietà e della effettiva utilità, prediligendo fonti

rinnovabili per i nostri consumi; un alimentazione sana, sobria, completa ed essenziale,

che riduca quegli alimenti che prevedono fasi di produzione altamente impattanti per il

pianeta; fare esercizio fisico, stare in movimento, riscoprire il contatto con la natura e la

bellezza nelle piccole cose; adottare il consumo critico e la finanza etica come uno stile

di vita, decidendo di non finanziare quelle realtà che non rispettano l’ecosistema;

privilegiare una mobilità sostenibile nei nostri spostamenti quotidiani, dando la

precedenza a modalità non inquinanti e al trasporto pubblico; scegliere forme di turismo

responsabile ed eco-sostenibile, rispettose delle culture, dei territori, dei popoli e delle

loro tradizioni.

193

Le buone pratiche a livello comunitario / sociale

A livello comunitario e sociale, un nuovo rapporto con la natura è possibile nel

momento in cui le pratiche individuali, di cui abbiamo parlato in precedenza, sono

condivise da più persone e rilette spesso in forme innovative e originali. Nel campo

della mobilità sostenibile, ad esempio, sono diverse le esperienze di forme nuove di

mobilità, rispettose dell’ambiente. Tra queste c’è il car sharing, che è un servizio che

permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola e riportandola ad un

punto stabilito, pagando in base ai chilometri percorsi. Questa modalità aiuta anche a

selezionare i viaggi strettamente necessari da quelli superflui, evitando così l’abuso del

mezzo per brevi spostamenti, visto che si ha un rapporto diretto con i costi di utilizzo. Il

servizio può essere gestito da un’azienda o da gruppi di acquisto composti da privati,

che ritengono superfluo avere un auto di esclusiva proprietà. La logica della

condivisione vale ovviamente anche per altri mezzi, su tutti la bicicletta, che vede

ormai, in numerose città, una rete capillare di punti di bike sharing. Un’altra filosofia è

invece quella del car pooling che, tradizionalmente, prevede invece la condivisione

dell’automezzo per recarsi al lavoro con altri colleghi. Nel caso in cui, invece, il

proprietario dell’auto decida di condividere la tratta stradale con persone diverse, unite

dalla necessità di compiere lo stesso tragitto, si parla allora di ride sharing, molto

diffuso anche grazie alle comunità on-line nate nell’era digitale. L’auto è comunque, in

assoluto, una seconda scelta dal punto di vista ambientale. Nei casi in cui è possibile,

sono assolutamente da preferire gli spostamenti a piedi o in bicicletta, integrandoli,

nell’evenienza, con il servizio di trasporto pubblico, che andrebbe certamente

migliorato e incentivato. Da questa attenzione sono nate esperienze altamente

pedagogiche e di pubblica utilità, come: il Piedibus (o Pedibus), una forma di trasporto

scolastico a piedi per piccoli alunni, che vengono accompagnati a scuola da “autisti”

adulti, con le modalità di uno scuolabus (fermate, tragitti, ecc.); le giornate ecologiche

di “In bici a scuola” promosse in tutta Italia dall’Associazione Critical Mass, di

“Puliamo il mondo” di Legambiente o di “M’illumino di meno” a cura della

trasmissione radiofonica Caterpillar; le tante ciclo-officine nate per accompagnare nella

manutenzione della bicicletta i ciclisti meno esperti, fornendo loro tutti gli attrezzi e,

allo stesso tempo, creando nuove opportunità di lavoro a chi le gestisce con tanta

194

passione; veri e propri strumenti didattici, tra tutti il manuale di Pedalogia 293

, ideato

dal professore e scrittore Emilio Rigatti. In questo campo basterebbe solo un po’ più di

lungimiranza a livello politico e lasciare spazio alla fantasia, visto che le idee certo non

mancano. Senza la pretesa di esaurire l’argomento, altre importanti esperienze, a

livello comunitario e sociale per un nuovo rapporto con la natura, sono rappresentate

da: associazioni attivamente impegnate nel campo della sostenibilità ambientale (tra le

tante WWF, Greenpeace, Legambiente, FIAB, Salvaiciclisti, ecc.); movimenti attivi

intorno ai temi dell’alimentazione e del rispetto degli animali; Gruppi di Acquisto

organizzati per comprare, ad un prezzo più accessibile, attrezzature o servizi che

riguardano il campo delle fonti rinnovabili (ad esempio i G.A.F. - Gruppo Acquisto

Fotovoltaico) o della sostenibilità in generale (Gruppi di acquisto per auto/bici

elettriche, i già citati G.A.S., ecc.); esperienze di co-housing, eco-villaggi e fattorie

didattiche, tutte occasioni di socialità, crescita e condivisione, pensate in cornici naturali

a misura di essere umano; esperienze di turismo eco-sostenibile e sociale, come

l’interessante progetto di WWOOF, un movimento mondiale che mette in relazione

volontari e progetti rurali naturali, promuovendo esperienze educative e culturali basate

su uno scambio di fiducia senza scopo di lucro 294

; le nuove forme di ospitalità che

prendono il nome di “Alberghi Diffusi” (che possono evolversi in “Residence Diffusi” o

addirittura in “Paesi Albergo”), in cui le strutture e i servizi sono dislocati

orizzontalmente, in immobili diversi all’interno dello stesso nucleo urbano, con

l’intenzione di favorire un maggiore contatto con i residenti, ristrutturando vecchi

edifici in disuso e valorizzando borghi e paesi con centri storici di interesse artistico e

architettonico 295

; esperienze di orti sociali e comunitari, oppure proposte pedagogiche

come il progetto per le Scuole denominato “Orto in condotta”, promosso da Slow

Food, che dona ai bambini l’opportunità di prendersi cura dei prodotti della terra.

Le buone pratiche a livello istituzionale / sistemico

Il livello istituzionale/sistemico per il raggiungimento di un nuovo rapporto con la

natura è molto articolato e complesso. Innanzitutto, va segnalato, negli ultimi anni, un

sempre maggiore impegno da parte della Chiesa Cattolica in ambito ecologico-

293 Rigatti E., Se la scuola avesse le ruote. Le avventure di una classe in bicicletta e manuale di pedalogia , Ediciclo

Editore, Portogruaro (VE) 2010. 294 http://www.wwoof.it/it/ , ultimo accesso il 6 settembre 2015. 295 http://www.alberghidiffusi.it/ , ultimo accesso il 6 settembre 2015.

195

ambientale. Lo sforzo è senza dubbio quello di promuovere la Salvaguardia del

Creato, come la riscoperta di un Dono da custodire. Il considerare la Terra, non solo

come Madre, ma anche come Sorella, frutto della creazione di un Dio Padre, che ci

rende allo stesso tempo figli e fratelli, è senza dubbio una prospettiva che, al di là del

nostro credo, ci può far riflettere sul valore dello straordinario patrimonio che ci è stato

messo a disposizione. L’impegno e l’attenzione di questi anni sono sfociati

nell’importantissima enciclica “Laudato si'”,296

a cura di Papa Francesco, che ha avuto

il merito di riportare l’attenzione sulle tematiche legate all’ambiente e alla giustizia

sociale. È da notare, inoltre, come il tema dei nuovi stili di vita sia di fatto nato e

cresciuto grazie al preziosissimo apporto di Commissioni Diocesane dedicate, che negli

ultimi anni sono riuscite ad organizzarsi in reti sempre più ampie. Tra le altre, si segnala

l’esperienza della Diocesi di Padova, che da anni è all’avanguardia nella diffusione di

una nuova cultura, grazie anche all’opera instancabile di Padre Adriano Sella, autore di

numerosi testi.

Per un nuovo rapporto con la natura è poi indispensabile un lavoro serio e strutturato

per ripensare nuove ed efficaci politiche che vadano in direzione della tutela e della

sostenibilità dell’ambiente: favorire l’utilizzo, la diffusione e la verificabilità di

certificazioni ambientali per le aziende, così che possano garantire un uso equilibrato

delle risorse, nel rispetto dell’ambiente e delle leggi vigenti; favorire la ricerca

scientifica, il monitoraggio del territorio e la collaborazione con quegli enti che avendo

studiato in maniera approfondita le attuali problematiche ambientali (l’IPCC297

rappresenta l’esempio più illustre), potrebbero aiutare i Governi a strutturare politiche

funzionali alla riduzione dell’inquinamento e alla riqualificazione dei territori;

incentivare la diffusione di fonti rinnovabili di energia e il lavoro in questo settore,

riducendo e penalizzando il più possibile le emissioni di CO2; strutturare campagne per

la riduzione degli sprechi, promuovendo la raccolta differenziata e la filosofia di rifiuti

zero; pensare a politiche che al consumo di suolo favoriscano la valorizzazione dei

luoghi, delle tradizioni e dei paesaggi, che in Italia certo non mancano, rappresentando

un punto di forza del nostro Paese; penalizzare con eco-tasse le realtà e i comportamenti

più inquinanti, cercando, allo stesso tempo, di educare al cambiamento, promuovendo la

logica dell’economia circolare; ripensare a spazi pubblici che ridiano respiro e

296 Papa Francesco, Laudato si'. Lettera enciclica sulla cura della casa comune, op. cit.. 297 Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) su http://www.ipcc.ch/ , ultimo accesso 27 agosto 2015.

196

convivialità alle città, investendo in attività culturali, musicali e artistiche, all’interno di

parchi in cui i bambini e le loro Famiglie possano giocare insieme; ripensare

l’architettura delle città, così da dare loro spazi nuovi e accessibili di mobilità

sostenibile, penalizzando il traffico e ampliando le possibilità di trasporto pubblico

urbano.

Dal punto di vista didattico, servirebbe che la Scuola, a tutti i livelli, attivasse

programmi di eco-pedagogia seri, che non si limitino alla passeggiata fuori porta, ma

che aiutino allo sviluppo di quella sensibilità ecologica che nella nostra società

consumista non siamo stati finora capaci di maturare. In questo senso sarebbe utile un

approfondimento di tutto il prezioso lavoro contenuto nella Carta della Terra, che

rappresenta una guida fondamentale ed illuminante di ciò che, come esseri umani,

dovremmo fare, per garantire la nostra sopravvivenza sulla Terra in modo responsabile

e sostenibile.

197

II.6 Un nuovo rapporto con la Mondialità

“La lotta non si giustifica solo con lo scopo che gli uomini abbiano la libertà di mangiare,

ma anche la libertà di creare e costruire, di ammirare e rischiare.

Tale libertà richiede che l’individuo sia attivo e responsabile,

non schiavo e neppure ruota ben lubrificata dell’ingranaggio.”

(Paulo Freire)298

Lo scenario

Sentendo parlare di fenomeni migratori, non è raro imbattersi in improvvisate analisi sui

numerosi problemi legati alla globalizzazione, che vengono spesso concluse con un

processo sommario ai migranti stessi, colpevoli di abbandonare il proprio Paese

d’origine, anziché rimboccarsi le maniche per migliorarne la situazione. Queste letture

approssimative rappresentano un terreno fertile per tutte quelle realtà, razziste e

populiste, che fanno della chiusura, dell’intolleranza e dell’egoismo, il loro motivo

d’essere. Come abbiamo visto in II.1.1, la postdemocrazia ha indubbiamente facilitato il

proliferare di questa situazione, allontanando i cittadini dalla politica, diminuendo le

occasioni di partecipazione, riducendo il momento legislativo ad un mero tecnicismo,

volto peraltro, in molti casi, a soddisfare interessi di parte. In questo clima di

disaffezione per l’impegno politico e per la partecipazione democratica, trovano quindi

spazio slogan e proposte di una banalità sconcertante, come quella di “affondare i

barconi”, che trovano però un vasto apprezzamento in una larga fascia di popolazione

che si sente minacciata dall’arrivo degli stranieri. Non è un caso che, tra le figure più

odiate vi siano i “profughi” provenienti dagli angoli più saccheggiati e impoveriti del

pianeta, come rileva giustamente Bauman, infatti, “essi sono i nostri uccelli del

malaugurio, quando bussano alla nostra porta ci ricordano quanto siano fragili il nostro

benessere e la nostra pace”.299

Come nel peggiore dei reality, per andare avanti è

necessario che qualcuno venga eliminato, escluso, “nominato”. Dove il “nominare”, non

è “dare un nome” o “dare una dignità”, ma piuttosto toglierla, in nome di privilegi che

non possono essere toccati. Proprio per questo motivo, per la pedagogia freiriana,

affrontare il tema della mondialità, significa in primo luogo ripartire da una seria

denuncia dell’attuale situazione di milioni di impoveriti nel mondo e del sistema che li

ha generati. Infatti, se nella concezione depositaria si è ormai assuefatti a vivere di

propaganda, al contrario, in una pedagogia che crede in una reale liberazione dell’essere

298 Freire P., La Pedagogia degli oppressi, op. cit., pp. 54-55. 299 Bauman Z., Homo consumens, Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, op. cit., p. 73.

198

umano, non è accettabile che l’educazione si esaurisca nel pressapochismo degli slogan.

In un reale percorso di liberazione è determinante che le persone coscientizzate lottino

per la propria emancipazione, consapevoli che non è l’oppresso che deve provare

vergogna di essere oppresso ma chi, vivendo bene e senza problemi, non fa niente per

cambiare la realtà che dà origine all’oppressione. Freire è molto chiaro in merito alla

questione:

“Non unirò la mia voce a quella di chi parlando di pace, chiede agli oppressi, ai poveracci

del mondo, di rassegnarsi. La mia voce ha un’altra semantica, intona un’altra musica. Parlo

della resistenza, dell’indignazione, della “giusta collera” di chi viene tradito e di chi viene

ingannato. Parlo del loro diritto e del loro dovere di ribellarsi contro le trasgressioni etiche di

cui sono vittime ogni volta più tormentate. L’ideologia fatalista del discorso e della politica

di stampo neoliberale, è un passaggio della svalutazione degli interessi umani rispetto a

quelli del mercato.”300

L’impoverimento, la fame, la disoccupazione, l’inquinamento, i cambiamenti climatici,

non sono l’esito di un destino cieco e ineluttabile, ma la causa di un sistema economico

dannoso e immorale, della cui trasformazione, chi detiene il potere, si deve al più presto

fare carico. Non è possibile progettare un futuro di pace per l’Umanità, ad esempio, se

le spese militari continuano a sovrastare quelle dedicate all’educazione, alla

cooperazione, allo sviluppo umano, alle attività culturali, alla ricerca, all’ambiente.

Serve uno sforzo deciso che riporti le persone ad avere la consapevolezza di essere

cittadini, prima che consumatori. Il mercato ci ha dato finora l’illusione di rappresentare

l’essenza stessa della democrazia, essendo il sistema che più di ogni altro ha promesso

di darci la possibilità di scegliere, ma la realtà è ben diversa nel momento in cui, da

questa libertà di facciata, hanno iniziato a nascere ingiustizie, oppressioni, squilibri,

devastazioni e morte. La responsabilità di chi nutre questo sistema è purtroppo grande

ed è nel tentativo di fare luce su questa situazione, per scardinarne i meccanismi, che

potrebbe essere utile una Pedagogia politica dei Nuovi Stili di Vita indirizzata ai

consumatori del Primo mondo. Nella legittimità del dubbio che una persona inserita nel

sistema non possa cambiare il sistema di cui fa parte, ci sembra giusto riprendere la

posizione di Paulo Freire in merito, dato che ne ha vissuto la contraddizione in prima

persona:

“Non è traslocando in una favela che proverò loro la mia autentica solidarietà politica, per

non parlare poi della quasi sicura perdita di efficacia della mia lotta proprio in funzione di

quel trasloco. La cosa fondamentale è la mia decisione etico-politica, la mia volontà per

300 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., pp. 80-81.

199

nulla leziosa di intervenire nel mondo. È quello che Amilcar Cabral aveva definito «suicidio

di classe», e al quale nella Pedagogia degli oppressi ho fatto riferimento con il termine di

pasqua o attraversamento. In fondo, riduco la distanza dalle condizioni infami in cui vivono

gli sfruttati, nel momento in cui, aderendo realmente al sogno di giustizia, lotto per la

trasformazione radicale del mondo e non rimango soltanto in attesa che essa arrivi perché

così mi è stato detto.”301

La risposta è quindi in una lotta perseverante e coerente, nella volontà umile di

affrontare le proprie contraddizioni, nell’impegno etico e politico per costruire una

nuova struttura sociale ed economica, rispettosa dell’essere umano e del pianeta. Ma per

raggiungere insieme il sogno, caro a Freire, di un’Unità nella Diversità, serve, in primo

luogo, intraprendere una rivoluzione culturale che mostri i limiti dell’attuale sistema,

così da superarne le distorsioni e, in secondo luogo, è necessario che questa rivoluzione

sia sostenuta da progetti politico-pedagogici, in grado di rispondere alle domande

profonde dell’essere umano e di attivare trasformazioni concrete per una sua

liberazione. L’orizzonte è quello della cittadinanza planetaria, l’unica risposta possibile

al bisogno esistenziale degli esseri umani ad essere-di-più-nel-mondo:

“La planetarietà deve portarci a sentire e vivere la nostra quotidianità in relazione armonica

con gli altri esseri viventi del pianeta Terra. [...] Considerare gli esseri umani come membri

di un immenso cosmo ci obbliga a un profondo cambiamento di valori, relazioni e significati

in quanto ci riconosciamo parte di una globalità. Le attività umane, in quanto processo di

autorganizzazione cosmica permanente, ci portano a sviluppare atteggiamenti fondamentali

di apertura, interazione solidale, soggettività collettiva, equilibrio energetico e forme di

sensibilità, affettività e spiritualità. La pedagogia della cittadinanza ambientale dell'era

planetaria appare fin troppo densa di valori al confronto con i ristretti limiti dell'educazione

tradizionale, centrata sulla logica della competizione, dell'accumulazione e della produzione

illimitata di ricchezza senza considerazione per i limiti della natura e per le necessità degli

altri esseri del cosmo.”302

L’educazione, da sola, forse non cambierà il mondo, ma come insegna Freire, senza

l’apporto di un’educazione critica e problematizzante, non sarà possibile neppure

intraprendere il cammino.

Gli obiettivi

Coerentemente con quanto riportato nella Carta della Terra, per un nuovo rapporto con

la mondialità, per la costruzione condivisa di nuova cittadinanza planetaria fondata

sulla democrazia, la non violenza e la pace, gli obiettivi da prendere in considerazione

sono i seguenti:

301 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 109. 302 Gutierrez F., Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, op. cit., p. 31.

200

Rafforzare le istituzioni democratiche a tutti i livelli e garantire trasparenza e

responsabilità nella governance, partecipazione allargata nei processi decisionali, e

accesso alla giustizia.

Integrare nell'istruzione formale e nella formazione permanente le conoscenze, i valori e

le capacità necessarie per un modo di vivere sostenibile.

Trattare ogni essere vivente con rispetto e considerazione.

Promuovere una cultura della tolleranza, della non violenza e della pace.303

La post-democrazia deve essere superata con una volontà condivisa di riavvicinare i

cittadini alla Politica, per la tutela del Bene comune e per la costruzione di una nuova

cultura di partecipazione attiva, che coinvolga e valorizzi le minoranze, anche chi, nella

cultura del silenzio, non ha la possibilità di far sentire la propria voce. La rivoluzione

culturale di cui oggi ha bisogno il mondo “occidentale”, deve essere sostenuta anche

dalle politiche scolastiche e formative legate all’educazione, come passo

imprescindibile per il raggiungimento di un pensiero critico diffuso e aperto al

confronto, che sia da fondamento ad una nuova democrazia reale e partecipata.

Occorre rimarcare, in questo senso, quanto sia importante che la Politica si doti di

strumenti pedagogici idonei, affinché l’Umanità si ritrovi intorno a valori condivisi,

come la collaborazione, l’accoglienza e la pace. Non si tratta di immaginare

l’impossibile, ma di credere realmente a quel sogno inedito di Unità nella Diversità, che

rappresenta l’unica possibilità di sopravvivere ai nostri egoismi, ai nostri pregiudizi e ai

nostri limiti:

“[...] pensare la storia come possibilità significa riconoscere l'educazione come possibilità.

Significa riconoscere che, anche se l'educazione non può fare tutto da sola, può però certo

raggiungere qualche risultato. La sua forza, come sono solito dire, sta nella sua debolezza.

Una delle nostre sfide come educatori è quella di scoprire che cosa sia storicamente possibile

nel senso di poter contribuire alla trasformazione del mondo, dando vita a un mondo che sia

meno rigido, più umano, e nel quale si prepari la concretizzazione della grande Utopia:

l'Unità nella Divesità.”304

L’etica ci insegna che è nostra responsabilità prendersi cura dei nostri fratelli e delle

nostre sorelle, così da essere autenticamente solidali contro l’egoismo dell’indifferenza.

È un compito storicamente possibile ed eticamente improrogabile, per un’Umanità che

voglia essere-di-più-nel-mondo.

303 Commissione della Carta della Terra, La Carta della Terra, op. cit., www.cartadellaterra.it , ultimo accesso 20

Giugno 2015. 304 Freire P., Macedo D., Comprendere le differenze culturali nella storia, cit., pp. 72-73 in Toriello F., Paulo Freire.

Dalle parole al mondo: un percorso interculturale, in Schettini B., Toriello F. (a cura di), Paulo Freire, Educazione Etica Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, op. cit., p. 109.

201

Le buone pratiche a livello personale / famigliare

Per vivere un nuovo rapporto con la mondialità a livello personale e famigliare, il

primo passo consiste nel maturare un atteggiamento nuovo nei confronti dell’altro e

dei mondi da cui proviene. Un’attenzione nuova rivolta verso chi non è ancora

conosciuto e verso quei contesti che lo hanno visto crescere, vivere, rendendolo un

essere umano unico. In questo senso l’apertura all’altro può manifestarsi con la

disponibilità a mettersi in discussione, nell’andare oltre ai propri pregiudizi, nel darsi

modo di conoscere altre culture, altri mondi possibili. Al contrario di quanto si possa

pensare, le relazioni interculturali rappresentano un’occasione importante anche per

riscoprire le proprie radici, con la riflessione su di esse e con la riappropriazione del

senso profondo e della tradizione in cui esse sono nate. Solo chi non ha questa

consapevolezza può aver paura dell’incontro con l’altro e di perdere la propria identità.

Chi ha chiaro da dove viene, sa anche che può incontrare l’altro, riscoprendone

l’unicità, la comunanza del proprio essere umani e fratelli su questa Terra,

accogliendone le differenze. È questo lo spirito, ad esempio, che muove la buona

pratica del turismo responsabile, un nuovo modo di viaggiare nel rispetto dei popoli,

delle tradizioni e delle culture, che spesso diviene occasione per il finanziamento di

progetti di sviluppo pensati con e per le realtà locali.

Un altro aspetto fondamentale, per un nuovo rapporto con la mondialità, è incentrato su

una cittadinanza attiva e responsabile, un’appartenenza cioè, che vada oltre

all’esercitare il diritto di voto o alle lamentele generiche riguardanti le strutture di

potere. Esercitare il proprio ruolo politico significa prendersi carico dei problemi reali

per risolverli, significa attivare strategie comuni per la costruzione di una società più

equa e più giusta, partendo dal livello locale fino a toccare le sfere più alte del potere. È

inutile lamentarsi della desolazione del quadro politico, se ogni singola decisione viene

delegata a chi è stato eletto. Il voto non è la fine, ma il punto d’inizio della nostra

responsabilità civica e politica. Partecipare ai consigli comunali, dare la propria

disponibilità a fare parte di commissioni o di associazioni impegnate nei problemi

concreti del territorio, farsi promotori di proposte e di azioni volte al cambiamento

sociale, sono solo alcune delle buone pratiche possibili in cui ci potremmo impegnare.

Una cittadinanza planetaria sarà possibile solo partendo dal basso, dalle piccole e

202

grandi sfide di ogni giorno e, superarle insieme, vuol dire partecipare già ora alla

costruzione del sogno.

Le buone pratiche a livello comunitario / sociale

A livello comunitario e sociale, un nuovo rapporto con la mondialità può trovare la

propria realizzazione in tutte quelle pratiche che prevedono un impegno comune verso

una convivialità delle differenze. Questo concetto è richiamato da Padre Adriano Sella

nella guida realizzata sui nuovi stili di vita, riferendosi alla figura illuminante e preziosa

di Don Tonino Bello, che diceva: «Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma

non è neppure l’equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra. Pace è

mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli. Convivialità delle differenze,

appunto».305

Questo atteggiamento spalanca le porte a tutte quelle realtà associative e a

tutte quelle ONG che si occupano seriamente di cooperazione allo sviluppo,

incontrando in prima persona i poveri, gli ultimi, gli emarginati delle periferie del

mondo. Avere un rapporto di convivialità significa uscire dai propri egoismi, per

incontrare il volto dell’altro, le sue mani, i suoi desideri, le sue paure. Non c’è incontro

autentico, senza questa disponibilità a conoscere e a condividere.

Altre buone pratiche di tipo comunitario e sociale, prevedono l’incontro con l’altro

con la facilitazione di figure professionali qualificate, intendendo, ad esempio,

laboratori in cui siano presenti mediatori culturali o professionalità in grado di

affrontare percorsi interculturali o di geopolitica. Sarebbe interessante dare a tutti la

possibilità di esprimersi e di insegnare qualcosa della propria cultura, in un

arricchimento che diventerebbe, così, pienamente reciproco.

Nel campo della cittadinanza attiva e responsabile è utile segnalare tutte quelle

iniziative comunitarie e sociali indirizzate a campagne di pressione rivolte a realtà

economiche e politiche, su più livelli (classificabili come iniziative di difesa, richieste di

correzione o richieste di riforma).306

Tali iniziative possono poi sfociare nella

costituzione di comitati, associazioni, adesione a partiti già strutturati, con l’intento di

avere un’efficacia sempre maggiore. Uno degli esempi più significativi di questo

305 Sella A., Miniguida dei nuovi stili di vita, op. cit., p. 68. 306 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., p. 146.

203

impegno collettivo è quello messo in campo dalla campagna “Sbilanciamoci!”, 307

che

propone attività di denuncia, di sensibilizzazione, di pressione, affinché la politica,

l’economia e la società si indirizzino verso la realizzazione dei principi della solidarietà,

dell’uguaglianza, della sostenibilità e della pace. La campagna parte dal presupposto

che è necessario cambiare radicalmente la prospettiva delle politiche pubbliche,

rovesciando le priorità economiche e sociali, per rimettere al centro i diritti delle

persone, la costruzione di un mondo più solidale e la salvaguardia dell’ambiente,

anziché le esigenze dell’economia di mercato, fondata su privilegi, sprechi e

diseguaglianze. Un’altra realtà da segnalare è quella di Openpolis,308

un gruppo che

mette a disposizione un’immensa banca dati sulla vita politica italiana, con

l’elaborazione di dossier su temi specifici, con l’intento di attivare un atteggiamento

critico e consapevole nei confronti della politica, a tutti i livelli. Infine non è possibile

dimenticare tutte quelle piccole ma formidabili esperienze legate ai Consigli Comunali

dei Ragazzi (C.C.R.), che danno la possibilità a giovani cittadini di avvicinarsi al

mondo della Politica e del Bene comune, impegnandosi in progetti concreti sul

territorio, spesso in collaborazione con le Istituzioni Scolastiche, che sono loro da

supporto. Sostenere progetti di questo tipo significa compiere un reale passo nella

direzione di una Politica che riscopra il senso profondo della propria vocazione.

Le buone pratiche a livello istituzionale / sistemico

A livello istituzionale e sistemico, un nuovo rapporto con la mondialità può trovare la

propria realizzazione in tutte quelle pratiche che rendano possibile il sogno di una reale

cittadinanza planetaria: progetti di cooperazione internazionale che siano realmente

finalizzati all’emancipazione e allo sviluppo umano di popoli oppressi e depredati;

progetti di sostegno ed integrazione sociale, che prediligano la dignità

all’assistenzialismo, la valorizzazione al pregiudizio; politiche economiche

internazionali che rigettino l’iniquo strumento del debito e le strategie dei patti tra Stati,

come strumenti che ingrassano pochi speculatori, lasciando dietro di sé una schiera

infinita di impoveriti che chiede giustizia; politiche internazionali che bandiscano l’uso

delle armi come forma privilegiata per la risoluzione dei conflitti, con tagli importanti

alle spese militari, in luogo di scelte che perseguano la giustizia e la pace tra i popoli. In

307 http://www.sbilanciamoci.org/ , ultimo accesso 27 agosto 2015. 308 http://www.openpolis.it/ , ultimo accesso 27 agosto 2015.

204

definitiva, delle reali politiche sociali di sostegno ed integrazione per una

cittadinanza planetaria, che partano dal concetto che anche nei conflitti, la mediazione

non deve essere fondata per forza di cose sul compromesso, che ha sempre

un’accezione negativa, ma sulla costruzione di ponti. La mediazione, anche nel caso di

posizioni fortemente divergenti, può aiutare a far emergere nuove possibilità,

mostrandoci come la situazione, a volte, non sia un gioco in cui per forza di cose quello

che guadagna uno lo perde l’altro. I diritti dell’Umanità sono oggi ben chiari e contenuti

in Dichiarazioni internazionali che non avrebbero bisogno di spiegazioni, ma solo di

essere riscoperte, rilette e applicate.

Un segno luminoso di una cittadinanza attiva e responsabile, che si realizza a livello

istituzionale e sistemico, è certamente rappresentato dall’impegno sociale e politico

portato avanti dall’Associazione dei Comuni Virtuosi, un esempio tangibile di cosa

significhi fare politica pensando a progetti che diano risposte concrete per un futuro

migliore e sostenibile. L’Associazione nazionale dei Comuni Virtuosi nasce nel maggio

del 2005 ed è una rete di Enti locali, che opera a favore di un’armoniosa e sostenibile

gestione dei propri territori, diffondendo verso i cittadini nuove consapevolezze e stili di

vita all’insegna della sostenibilità, sperimentando buone pratiche attraverso l’attuazione

di progetti concreti ed economicamente vantaggiosi, legati alla gestione del territorio,

all’efficienza e al risparmio energetico, a nuovi stili di vita e alla partecipazione attiva

dei cittadini.309

Dal punto di vista didattico, servirebbe che la Scuola, a tutti i livelli, attivasse

programmi di educazione alla mondialità e all’intercultura, approfondendo quegli

scenari geo-politici e quelle situazioni-limite che affliggono l’Umanità, promuovendo

possibilità di incontro reale tra popoli e mondi diversi, partendo dalla riscoperta di

situazioni ed esperienze locali, fino ad arrivare a proposte di scambi culturali all’estero,

che diano agli educandi la possibilità di sperimentarsi come “stranieri”, acquisendo così

un nuovo punto di vista. È celebre l’episodio secondo cui Albert Einstein, alla richiesta

della dogana statunitense, in cui gli si chiedeva di scrivere di che “razza” fosse, scrisse,

semplicemente: “umana”. Non vi è altra prospettiva di educazione, se non quella di

riscoprire questa profonda verità, che ognuno di noi ha già scritto dentro di sé.

309 http://comunivirtuosi.org/ , ultimo accesso 27 agosto 2015.

205

II.7 Conclusioni

“Non c’è cambiamento senza sogno,

come non c’è sogno senza speranza.”

(Paulo Freire)310

Jared Mason Diamond, biologo, psicologo evoluzionista e docente di Geografia presso

l’Università di Los Angeles, in California, vincitore del Premio Pulitzer per la saggistica

nel 1998, nel testo “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”,311

descrive

quali siano, secondo il suo parere, i fattori fondamentali per cui delle società umane

possano correre il rischio di implodere fino ad estinguersi. I fattori da lui descritti sono i

seguenti: l’impatto umano sull’ambiente, nel momento in cui le persone distruggono

il patrimonio di risorse da cui dipendono; i cambiamenti climatici, nel momento in cui

vengono messe a repentaglio le condizioni stesse della vita umana; l’andamento delle

relazioni con le confinanti civiltà amiche che possono favorire una società (relazioni

commerciali, culturali, di sostegno, ecc.); l’andamento delle relazioni con popoli ostili

che possono compromettere la stabilità di una società (presenza di conflittualità, guerre,

atti di violenza, ecc.); infine, l’ultimo punto, che riguarda tutti quei fattori politici,

economici, sociali e culturali che influiscono sulla risoluzione dei precedenti problemi

e il superamento delle situazioni limite, come direbbe Freire,. Nella sua analisi, Jared

Mason Diamond riporta l’esempio emblematico di Rapa Nui (comunemente chiamata

con il nome di Isola di Pasqua, per essere stata avvistata dal navigatore olandese, Jacob

Roggeveen, il giorno di Pasqua del 1722). In origine, Rapa Nui era un’isola verdissima

con grandi e rigogliose foreste, una vera e propria oasi naturale che traboccava di ogni

specie di uccelli, fino a quando scelte insensate e condizioni avverse favorirono la

completa distruzione del suo eco-sistema, trascinando con sé quanti la abitavano:

“Il suolo d’origine vulcanica di Rapa Nui era talmente generoso che le piante coltivate dai

Polinesiani prosperarono con una facilità miracolosa. I Maori cominciarono così a disboscare

le foreste per avere sempre più terreni a disposizione, e i roditori fecero la loro parte,

divorando i semi degli arbusti autoctoni. Per costruire canoe e trasportare le sculture in pietra

dei Moai, si disboscarono le foreste in modo inesorabile, finché, nel giro di un millennio,

sull’isola non rimase un solo albero; le piogge corrosero il suolo privo di vegetazione,

causando l’impoverimento della terra e della resa agricola nel momento stesso della massima

incidenza demografica (i Maori erano arrivati a 9000). Il terreno eroso provocò la siccità dei

corsi d’acqua che inaridirono. Privi del legno necessario per costruire imbarcazioni per

catturare pesci e delfini, di cui si cibavano, i Maori e le loro gigantesche sculture di pietra

rimasero “imprigionati” nella loro Rapa Nui, per sempre. Mangiarono tutti i polli, poi tutti

310 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 112. 311 Cfr. Diamond J.M., Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2005.

206

gli uccelli originari dell’isola. Fu sterminata ogni forma di vita vegetale e animale, cosicché

iniziarono a mangiarsi tra loro, con veri e propri atti di cannibalismo. I gruppi di famiglie,

costretti all’antropofagia per sopravvivere, intrapresero cruente guerre e quando nel 1722

l’olandese Roggeveen, sbarcò sull’isola, non vi trovò che centinaia di ossa ammucchiate in

una terra desolata e pietrosa e pochi sventurati che guerreggiavano per sfamarsi. Molte statue

dei Moai erano state distrutte, la ferocia dei loro creatori si abbatté come una mannaia per

cancellare le “personificazioni” di un potere con cui gli antichi capi avevano raschiato la

natura rigogliosa dell’isola e dunque la vita. Un potere che, alla fine, li aveva annientati.”312

È chiaro che Rapa Nui è un’isola di poco più di 160 kmq e non c’è paragone né con la

grandezza del pianeta Terra, né con la complessità delle dinamiche che regolano la vita

del suo eco-sistema. Sarebbe quindi riduttivo leggerne gli eventi come la predizione

certa di ciò che accadrà su scala mondiale. Viene però spontaneo chiedersi come fecero

gli abitanti di quell’isola a non accorgersi dello scempio che stava avvenendo, come

poterono, cioè, intestardirsi in quel modo, nel consumare più di quanto la natura potesse

dar loro. Non si rendevano conto di ciò che stava accadendo? Sembra incredibile per

noi, che oggi ne conosciamo la storia, ma per chi viveva come loro, in quel tempo

presente, il rischio più grande era forse quello di rendersi conto della gravità della

situazione solo dopo che l’ultimo albero fosse ormai tagliato. E così avvenne. Allo

stesso modo, quello che a noi sembra incredibile oggi, potrebbe essere la causa per cui

le generazioni future, un giorno, ci interroghino con il loro: “Ma non vi rendevate conto

di ciò che stava accadendo?”. Sono tanti i muri da abbattere, i modi sbagliati con cui

affrontiamo i problemi, senza andare al nocciolo delle questioni. Jared Mason Diamond

individua almeno due situazioni limite in cui le probabilità di un collasso di una società

sono maggiori. Il primo caso è quando si genera un conflitto tra gli interessi a breve

termine della classe dirigente e quelli a lungo termine della società, in particolar modo

se l’élite oligarchica è abbastanza forte da proteggere sé stessa dalle conseguenze delle

proprie azioni. Il pericolo è che l’élite, a lungo termine, porti la società ad un tracollo.

La seconda condizione è quella in cui è particolarmente difficile per una società

prendere buone decisioni, quando esiste un conflitto che coinvolge valori fortemente

radicati che sono buoni in certe circostanze, ma poco validi in altre. In questo senso, ad

esempio, la forte coesione sociale aiutò i Vichinghi a restare uniti diversi secoli, ma la

ridotta apertura ad altre culture impedì loro di imparare dagli Inuit, visti con disprezzo,

come sopravvivere in un clima artico. La forte identità e la bassa concezione dell’altro,

in condizioni climatiche avverse, li condusse all’estinzione. Qual è, quindi, il cammino

possibile per un’Umanità come la nostra che vive contraddizioni mai viste nel corso di

312 Cfr. Diamond J.M., Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino 2005, cap. II.

207

tutta la sua storia? Cos’è possibile fare per affrontare gli attuali problemi sociali ed

ambientali, che coinvolgono oggi gli esseri umani e il futuro della loro permanenza

sulla Terra? La risposta non può essere che un insieme di risposte. Come abbiamo visto

in precedenza, la complessità dei problemi da affrontare è immane. Ma la Speranza,

facendosi forza di esperienze ed esempi concreti, ci dice che, se è vero che i problemi

sono molti, anche la gamma delle risposte possibili è ampia, ma è indispensabile avere

una lettura più critica della realtà, selezionando solo quelle soluzioni che vadano nella

direzione di uno sviluppo umano reale, di un’emancipazione umana che non faccia

pagare il proprio conto all’ambiente circostante e che sia eticamente responsabile dei

diritti di tutti, nella piena promozione di quell’Unità nella differenza, che solo

un’autentica rivoluzione culturale può rendere possibile. Freire sosteneva che “uno dei

successi dell’ideologia fatalista del neoliberismo è quello di convincere i danneggiati

delle economie dipendenti che la realtà è così, che non c’è nulla da fare se non seguire

l’ordine naturale dei fatti”.313

Oggi siamo andati però oltre, togliendo, da una parte il

pane e condizioni degne di una vita umana a milioni di persone e, dall’altra,

promettendo loro una vita migliore, regalando cioè il sogno di un mondo in cui tutti

possano realizzare l’obiettivo di una vita basata sul modello di benessere (o meglio,

ben-avere) dell’Occidente. Ma nessuno se la sente di guardare in faccia la realtà,

dicendo la pura e semplice verità, secondo cui, cioè, se tutti sul pianeta Terra vivessero

con l’impronta ecologica di un occidentale, tutto il sistema collasserebbe. Questo

perché è l’iniquità a sostenerne l’esistenza, perché è lo sfruttamento di una moltitudine

di esseri umani a garantire lo sfarzo di pochi eletti, perché è l’inquinamento insensato di

Madre Terra a rendere possibile l’accesso, a caro prezzo, ad oasi pulite e paradisi

tropicali in cui rifugiarsi. Fino a quando, come profetizzò Toro Seduto, sarà forse troppo

tardi per accorgersi che il denaro non si può mangiare e che l’acqua, l’aria e la vita

stessa, non hanno prezzo. Prima possibile, quindi, la sfida per un futuro migliore dovrà

essere giocata sulla trasformazione dei nostri stili di vita. Se da una parte si dovrà

perseguire un miglioramento, in termini di dignità umana, delle condizioni degli

impoveriti della Terra, dall’altra parte e cioè la nostra, si dovrà pensare ad un

ridimensionamento di tutto ciò che è inutile, di tutto ciò che è superfluo, di tutto ciò che

alimenta e sostiene il meccanismo perverso della società dei consumi, che reifica gli

esseri umani e materializza anche la loro dimensione più pura, l’amore. Una Pedagogia

politica dei Nuovi Stili di Vita, che parli di sobrietà agli uomini e alle donne del Primo 313 Freire P., Pedagogia dell'autonomia. Saperi necessari per la pratica educativa, op. cit., p. 101.

208

mondo, rappresenta quindi una pedagogia di liberazione, capace di alleggerirci da tutto

ciò che ci fa sentire degli esseri-di-meno, target indifesi in balìa di chi vorrebbe

decidere per noi. Si delinea quindi un cammino secondo cui la valorizzazione del

tempo, la riscoperta dell’altro, la promozione delle relazioni, la salvaguardia

dell’ambiente, l’impegno sociale e politico vanno nella direzione di una vita migliore in

cui è possibile essere-di-più per se stessi, verso gli altri, nella trasformazione, insieme,

del mondo. È Francesco Gesualdi a fare una sintesi acuta di quanto occorrerebbe fare:

“Solo accettando di produrre e consumare di meno potremo fermare il saccheggio del Sud

del mondo, le guerre per l'accaparramento delle risorse, il degrado del pianeta e consentire

agli impoveriti di costruire il proprio sviluppo. Apparentemente, la sobrietà è solo una

questione di stile di vita. In realtà, è una rivoluzione economica e sociale che manda in

frantumi il principio su cui è costruito l'intero edificio capitalista. È il principio della crescita,

invocato non solo dalle imprese, ma anche da chi si batte per i diritti, in base al credo che

senza crescita non possa esistere sicurezza sociale né piena occupazione. Fino a oggi

nessuno ha osato mettere in discussione questo dogma e stiamo affogando nella nostra

opulenza iniqua e violenta. Ma non è vero che l'unico sistema possibile si basi sulla crescita.

Se riuscissimo a ridimensionare il ruolo del denaro e del mercato, ci renderemmo conto che è

possibile costruire un'altra economia capace di farci vivere bene pur disponendo di meno.”314

È nel passaggio dalla responsabilità personale all’impegno sociale e politico che si

gioca il futuro della nostra Umanità che, per la prima volta nella storia, si trova a

mettere in gioco il pianeta in cui vive. Per questo è imprescindibile che l’educazione

svolga il proprio ruolo politico di attivare processi virtuosi, legati alla responsabilità,

all’etica, alla sostenibilità e alla giustizia sociale, affinché nessuno, mai più, venga

escluso. Come esseri umani, come custodi del pianeta, abbiamo il dovere di rispondere

a questa e a mille altre sfide ancora. Sono sfide difficili, ma rispondendo solo a quelle

facili non andremo lontano. Siamo in grado di immaginare che un giorno avverrà

l’atterraggio di un astronauta su Marte o verrà scoperto un vaccino per l’AIDS,

riusciamo a pensare di andare in città su delle auto volanti o di vivere fino a 130 anni,

ma non siamo capaci di progettare ora, insieme, un futuro in cui i nostri figli e le nostre

figlie possano vivere in pace? Come dice bene Freire: “Non c’è cambiamento senza

sogno, come non c’è sogno senza speranza.”315

L’educazione, orientata al progetto di un

mondo più giusto, diventa così un atto di amore, un amore che dovrebbe essere a

fondamento di qualsiasi pedagogia che si voglia prendere a cuore il destino

dell’Umanità. Affinché questo amore si realizzi in pienezza, serve però che il mondo

stesso divenga parte viva del processo educativo. L’amore cambia le persone e le

314 Gesualdi F., Sobrietà, op. cit., pp. 7-8. 315 Freire P., Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla pedagogia degli oppressi, op. cit., p. 112.

209

persone, nell’amore, hanno la possibilità di cambiare il mondo e trasformarlo in un

luogo in cui sia possibile amare. Chi, in questa sfida dell’educazione, resta alla finestra,

esercitando un ruolo neutro, apolitico, non schierato, perde la possibilità di contribuire a

quella rivoluzione amorosa auspicata da Freire. Come spiega bene Vincenzo Altomare,

nel testo di pedagogia freiriana dal titolo “La parola liberatrice”:

“Trasformare la storia è la vocazione degli uomini: di tutti e di ciascuno. L'educazione è viva

e vera solo se sprigiona passione civica, amore per la partecipazione diretta nel vivo dei

processi: per cui chi educa a divenire spettatori, diseduca, deforma, disinforma. Freire

sostiene che non esiste dialogo senza amore per il mondo e per gli uomini: naturalmente, si

tratta di amore politico, l'unico davvero autentico. L'amore o è politico o non è! Chi ama,

infatti, si gioca, si dona, e così facendo muove al cambiamento (miglioramento) dell'altro:

non lo lascia prigioniero del passato e dei suoi errori. Nel dialogo, dischiude mondi inediti,

suscita la volontà di prendere in mano il timone della propria vita, di diventare parte attiva

nel processo degli eventi, narratore e creatore di eventi. L'amore è un impegno con gli

uomini. È così che questi si scoprono ‘compagni’ (cum-panis: condividere il pane), co-

viandanti in un medesimo e lunghissimo viaggio.”316

Un lunghissimo viaggio, che è il cammino dell’Umanità. Come è giusto deporre

qualsiasi forma di ottimismo fine a se stesso, che diverrebbe alla fine, deleterio, allo

stesso tempo serve che la Speranza divenga la spinta verso un’educazione che sia in

grado di rispondere con autorevolezza e pienezza al suo ruolo. Una Pedagogia politica

dei Nuovi Stili di Vita, non solo non è inutile, ma rappresenta il tentativo concreto di

uno sforzo per cambiare il mondo. Adottare nuove pratiche, nuovi stili di vita,

accogliere le persone che incontriamo nella loro umanità, disporsi all’incontro,

all’ascolto e al dialogo, recuperare il proprio tempo e riempirlo di vita, impegnarsi

socialmente per la costruzione di un presente e un futuro migliore per le nuove

generazioni, vicine e lontane, diminuire la nostra impronta ecologica nei confronti di

una Terra che ci è Madre, che ci nutre e ci dà la vita: nessuno di questi sforzi andrà

perduto, perché ognuno di essi ha lasciato un segno, un seme che può dare frutto, a volte

inspiegabilmente, in un modo imperscrutabile. Se poi non si credesse a questo, è

innegabile come l’esercizio di pratiche virtuose, ci riconcili con il nostro essere umani

sulla Terra, restituendoci il senso della nostra dignità, oltre che renderci delle persone

migliori, che possano guardare negli occhi i propri figli dicendo di averci almeno

provato. Si tratta di un cammino lungo, che richiede pazienza, quella pazienza tipica di

chi si prende cura della terra, attendendone i frutti o di chi si occupa di educazione,

insegnando ed imparando, facendo e ri-facendo il cammino. Freire ha avuto molte cose

316 Altomare V., La parola liberatrice. La pedagogia di Paulo Freire, op. cit., pp. 65-66.

210

da dirci, ma vorrebbe che, molte ancora, fossimo noi a dirle, con il cammino umile della

testimonianza, con la lotta perseverante di chi non si accontenta di cambiare le regole

del sistema, ma ne vuole creare uno migliore, più giusto, più equo, più sostenibile, più

solidale, in un cammino in cui l’Umanità ritrovi, nell’amore, la propria direzione.

II.8 Bibliografia

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http://www.openpolis.it/ , ultimo accesso 27 agosto 2015

http://www.oxfamitalia.org/scopri/chi-siamo/identita , ultimo accesso 6 aprile 2015

http://www.sbilanciamoci.org/ , ultimo accesso 27 agosto 2015

http://www.slowfood.it/ , ultimo accesso 19 agosto 2015

http://www.wwoof.it/it/ , ultimo accesso il 6 settembre 2015

Pianigiani O., Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, http://www.etimo.it/ , ultimo

accesso 2 Maggio 2015

Treccani, Enciclopedia on-line, http://www.treccani.it/enciclopedia/felicita/ , ultimo accesso 2

Maggio 2015

II.9 Ringraziamenti

Ringrazio le mie “Famiglie”, le mie sorelle e i miei fratelli, ma in particolar modo, mio

Padre e mia Madre, che mi hanno insegnato, ogni giorno della loro vita, cosa voglia dire

Amare.

Ringrazio la Prof.ssa Rosanna Cima, per la disponibilità, la pazienza e la fiducia

dimostrate nei miei confronti. Mariateresa Muraca e Giuliano Pascali per il loro

supporto. La Prof.ssa Brunella Franceschini, per la passione educativa con cui mi ha

valorizzato come persona e come studente, riconoscendo in me qualcosa di speciale.

Ringrazio il monaco eremita Don Luciano, per avermi spronato sempre nel cammino e

per la sua preziosa amicizia.

Ringrazio il gruppo di “Aiutiamoci”, per avermi dato la forza di riprendere gli studi e

per le tante e sincere amicizie che mi ha saputo regalare.

Ringrazio le tante persone che mi hanno aiutato a conoscere meglio la straordinaria

figura di Paulo Freire in questi anni, in particolare: Moacir Gadotti, Carlos Alberto

Torres, Paulo Roberto Padilha, Sheila Ceccon, Piergiorgio Reggio, Ennio Ripamonti,

Simone De Florian, Don Gino Piccio, Roberto Mazzini, Franco Floris e tutti gli

appassionati autori, lottatori perseveranti, menzionati in questo lavoro.

Ringrazio per le loro importanti testimonianze nell’ambito dei nuovi stili di vita e del

pensiero critico: Francesco Gesualdi, Padre Adriano Sella, Stefano Bartolini, Emilio

Rigatti, Padre Alex Zanotelli, Don Luigi Ciotti, Marco Boschini e Dario Ciapetti.

Ringrazio la Cooperativa “La nuvola nel sacco” che mi ha dato modo di fare il lavoro di

educatore in questi anni, facendo e ri-facendo il cammino. Ad essa, affianco la

Cooperativa “Tornasole”, la compagnia del TdO “sPunti di Vista”, IPSIA e le ACLI di

Brescia.

Ringrazio Paulo Freire, per la prospettiva nuova che mi ha donato, di leggere il mondo

e, con il mondo, la mia vita.

“Un giorno ho incontrato Elza all'angolo di una strada. Io dico sempre che

nessuno prende appuntamento con l'amore. L'idea che l'amore accade, ha la sua

ragione. Ci si incontra in un angolo, in un qualsiasi angolo dell'esistenza.

Tuttavia, nessuno incontra da solo, perché è anche incontrato. In un qualsiasi

angolo dell'esistenza ho incontrato Elza e lei mi ha incontrato. L'incontro è

andato bene.”315

Elza diverrà la moglie e compagna di vita di Paulo per 42 anni.

Dal loro amore nasceranno cinque figli: Maria Madalena, Maria de Fatima, Maria

Cristina, Joaquim e Lutgardes. Elza sarà una persona indispensabile non soltanto

per l'intenso amore che ha condiviso con Paulo, ma per l'appoggio, il contributo, i

suggerimenti che ha dato alle sue esperienze umane e professionali.316

Anche io, come Paulo, ho la mia Elza. E questo lavoro non sarebbe stato possibile senza

di Lei. La ringrazio per essere al mio fianco, sempre. Come Sposa, come Madre e come

Educatrice: «In un qualsiasi angolo dell’esistenza ti ho incontrata e tu hai incontrato me.

Devo dire che l’incontro è andato molto bene...».

315 Barreto V., Paulo Freire para educadores, Arte e Ciência, São Paulo 1998, p. 22 in Vittoria P., Narrando Paulo

Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 37. 316 Vittoria P., Narrando Paulo Freire. Per una pedagogia del dialogo, op. cit., p. 37.

Stampato il 21 Marzo 2016 su carta con certificazione FSC

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