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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE ________________________________ FACOLTÀ DI ECONOMIA Corso di Laurea in Economia Aziendale Tesi di Laurea IL MOBBING Relatore: Laureando: Char.ma Prof.ssa Francesca Visintin Fabbro Abner ________________________________ ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE ________________________________

FACOLTÀ DI ECONOMIA

Corso di Laurea in Economia Aziendale

Tesi di Laurea

IL MOBBING

Relatore: Laureando: Char.ma Prof.ssa Francesca Visintin Fabbro Abner

________________________________ ANNO ACCADEMICO 2006 - 2007

Indice Premessa pag. 2 Capitolo 1: Il fenomeno del mobbing pag. 4 1.1 Definizione di mobbing 1.2 Le tipologie di mobbing 1.3 Breve storia del mobbing Capitolo 2: la dinamica del mobbing negli ambienti di lavoro pag. 10 2.1 Le fasi del mobbing 2.2 I protagonisti del mobbing 2.3 Il bossing: la dimensione strategica del fenomeno Capitolo 3: I fattori del mobbing pag. 27 3.1 Premessa: dal macro al micro 3.2 Livello macro: fattori organizzativi e socio-economico-culturali 3.3 Livello micro: le culture micro-sociali e le identità individuali Capitolo 4: Gli effetti del mobbing pag. 38 4.1 Conseguenze per la vittima 4.2 Conseguenze per l’azienda 4.3 Conseguenze per la società Capitolo 5: Il management e la prevenzione del mobbing pag. 50 5.1 Premessa: ipotesi di azione 5.2 La prevenzione 5.3 Intervento nelle prime fasi 5.4 Intervento nelle fasi centrali e supporto nelle fasi finali Capitolo 6: I numeri del mobbing pag. 57 6.1 I numeri in Europa 6.2 I numeri in Italia Conclusioni pag. 67

Bibliografia pag. 70

Premessa

La presente tesi ha lo scopo di illustrare il fenomeno mobbing e le ripercussioni negative dello stesso

sull’organizzazione, sul bilancio, sulla produttività e sull’immagine sociale. Anche se una

quantificazione dei costi risulta molto difficile, in quanto gli studi al riguardo hanno scarsamente

considerato questo aspetto, seppur fondamentale per distinguerlo dal contesto sociologico-medico-

giuridico, e affrontarlo sotto una prospettiva puramente economica.

Possiamo tuttavia mostrare come il mobbing determini un impatto negativo sull’azienda, e di come

una buona gestione e prevenzione in materia ne migliori nettamente l’organizzazione (clima

aziendale, rapporti interpersonali, efficienza operativa individuale,etc.).

Il mobbing è un fenomeno che ha avuto eco recente soprattutto in ambito letterario dovuta alla

mutata sensibilità dei media verso questa forma di discriminazione. Non si è colto spesso il nodo

centrale della questione: il mobbing esiste da sempre, nasce contestualmente ai rapporti umani

organizzati, è parte integrante e “degenerante” del conflitto intra-aziendale. È naturale che quando si

instaurano dei rapporti di lavoro , alcune parti possono trovarsi in disaccordo, in contrasto su

determinate scelte da effettuare. Il conflitto è parte integrante di molte realtà occupazionali. È

costruttivo per certi versi mantenere un livello accettabile di competitività fra i lavoratori stimolando

la crescita individuale e collettiva. Il conflitto organizzativo si genera in particolare perché

all’interno della stessa realtà convivono diversi livelli sociali: la coppia( livello interpersonale), il

gruppo (livello sociale) e l’organizzazione( livello collettivo). Sono questi tre elementi dinamici a

creare continuamente tensione. La tensione è dunque un aspetto ineliminabile e “normale” delle

realtà relazionali e quindi anche di quelle organizzative. Ma non è necessariamente un aspetto

negativo; secondo molte teorie organizzative (soprattutto secondo il “modello a rete”, forma di auto-

organizzazione ad alto livello di indipendenza delle proprie componenti), aziende che hanno al loro

interno livelli adeguati di conflittualità risultano essere maggiormente efficienti (Morgan, 1995).

Il conflitto “degenera” se non viene mantenuto entro livelli prestabiliti, e lo scopo principale diventa

quello di estromettere il lavoratore dall’ambiente di lavoro. In questo campo rientra il mobbing , che

consiste in una forma di “terrorismo psicologico” nell’ambiente di lavoro, tramite ripetuti attacchi da

parte di colleghi , datori di lavoro e superiori gerarchici.

Le analisi che sono state fatte fino ad ora hanno tenuto principalmente in considerazione l’aspetto

personale, quello della vittima; una sola prospettiva, non prendendo in considerazione molti altri

fattori, che sono ugualmente importanti per inquadrare il mobbing. Oggi sempre più le aziende si

trovano a dover “fare i conti” con situazioni di questo tipo. Essa diventa oggetto di studio

economico da parte dell’impresa e in particolar modo dal Human Resource Management, la quale

cerca di effettuare le prime analisi quantitative dei costi sopportati dall’azienda per far fronte, o per

averlo fatto in passato, a situazioni di mobbing .

I dati forniti dall’Eurofound indicano un’espansione del fenomeno preoccupante dovuto

fondamentalmente alle mutate dinamiche del rapporto di lavoro e un progressivo e irreversibile

indebolimento della posizione del lavoratore dipendente. Questi costituiscono fattori tali da favorire

un terreno di cultura nella quale il mobbing può porre le proprie radici e prosperare. La direzione

risorse umane si trova nel delicato compito di creare strutture organizzative capaci di controllare e

verificare le situazioni a rischio, pianificare il lavoro in termini tali da disincentivare atteggiamenti

persecutori tra lavoratori.

In un’epoca di progressiva spersonalizzazione delle strutture e delle logiche le condotte di mobbing

diventano potenziale strumento ordinario di gestione dei conflitti e delle tensioni, fra i singoli , così

come tra l’ente e i dipendenti.

In questa tesi verrà analizzato il fenomeno tenendo conto di fattori macroeconomici, come la crisi

economica nazionale, la generalizzata tendenza alle fusioni tra società nazionali e internazionali

operanti nella medesima “nicchia” di mercato ( che favorisce il processo di selezione, con

conseguente atto di mobbing); fattori culturali, cioè i valori predominanti nei diversi paesi e nelle

diverse civiltà: l’importanza del lavoro, la competitività, il livello di aggressività giudicato

tollerabile, gli ammortizzatori sociali, l’apertura alla diversità e alla multiculturalità; fattori

individuali, quali la reazione, la capacità di resistenza, il grado di esaurimento.

Capitolo 1: Il fenomeno mobbing

1.1 Definizione di mobbing

Con la parola mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro che si

manifesta attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte di colleghi e superiori,

tali da generare stress ed intaccare la sfera psico-fisica, la dignità e la professionalità del

lavoratore.

È un termine di derivazione anglosassone (“to mob”) dal significato di assalire, aggredire in massa

e proveniente dal campo dell’etologia per indicare il comportamento di alcune specie animali i

quali, accerchiando per minacciare un membro del branco, lo costringono ad allontanarsi dal

gruppo.

Il mobbing si presenta con azioni ripetute per un periodo di tempo calcolato in almeno sei mesi,

compiute da uno o più mobber per danneggiare qualcuno ( che chiameremo mobbizzato), quasi

sempre in modo sistematico e con lo scopo di estromettere la vittima dal contesto lavorativo. Il

mobbizzato viene accerchiato e aggredito intenzionalmente da aggressori che mettono in atto

strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica , sociale e professionale. I rapporti

sociali si volgono alla conflittualità e si diradano sempre di più, relegando la vittima all’isolamento

ed all’emarginazione più disperata.

Quattro sono gli elementi che distinguono l’azione di mobbing dalla “ normale “ conflittualità

organizzativa:

• schemi di ruolo

• frequenza e ripetitività nel tempo delle azioni mobbizzanti

• crescente intensità emotiva

• funzione di rinforzo, consapevole o inconsapevole , dell’organizzazione

Esistono diverse definizioni di mobbing in ambito sociologico, lavorativo, giuridico, e medico-

legale che evidenziano aspetti diversi del fenomeno vessatorio.

Heinz Leymann, psicologo e psichiatra di origine tedesca, definisce il mobbing praticato nei

luoghi di lavoro come “… una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento

ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da uno o più soggetti, di solito un unico

individuo che, a causa di tale persecuzione, si viene a trovare in una condizione indifesa e diventa

oggetto di continue attività vessatorie e persecutorie che ricorrono con frequenza sistematica e

nell’arco di un periodo di tempo non breve, causandogli sofferenze mentali, psico-somatiche e

sociali”( H. Leymann, Mobbing Encyclopedia). Fondamentale per il riconoscimento del mobbing

sono la ricorrenza, la durata e l’intensità delle azioni vessatorie che non debbono tuttavia essere

confuse con il “bullismo” studentesco o il “nonnismo” militare le quali implicano sempre una

qualche forma di aggressione fisica. La caratteristica del mobbing è la violenza psicologica che

raramente sfocia in violenza fisica, ma si determina nei comportamenti subdoli e sofisticati con

l’obiettivo principale di intaccare l’equilibrio psico-fisico della vittima.

L’associazione tedesca contro lo stress psico-sociale ed il mobbing fondata nel 1993 ha fornito una

versione ufficiale del fenomeno Mobbing secondo la quale esso consisterebbe in una “

comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e dipendenti nella quale

la persona attaccata viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente e\o per

lungo tempo con lo scopo e\o la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro”.

Secondo questa definizione si sottolinea l’aspetto patologico della comunicazione tipico di molti

luoghi di lavoro nei quali gli individui sono obbligati a convivere con soggetti non scelti, ma

imposti dalla organizzazione lavorativa.

In Italia il fenomeno è emerso per la prima volta grazie allo studio effettuato da parte di un già

noto ricercatore Harald Ege che lo definisce come “ un’ azione ( o una serie di azioni) che si

ripete per un lungo periodo di tempo , compiuta da una o più mobber per danneggiare qualcuno

quasi per sempre in modo sistematico e con uno scopo specifico” ( H.Ege 1996).

In Italia non esiste una definizione legislativa di mobbing, anche se si è consolidata una

definizione giurisprudenziale ad opera soprattutto delle corti di merito, le quali definiscono il

cosiddetto mobbing come “ una pluralità di comportamenti , che si inseriscono in una precisa

strategia persecutoria, posti in essere dal datore di lavoro per isolare, fisicamente e

psicologicamente, il lavoratore”.( Trib. Tempio Pausania 10/07/2003).

Il disegno di legge numero 122 enuncia all’art. 1: “ si intende per violenza o persecuzione

psicologica ogni atto o comportamento adottati dal Datore di lavoro, dal committente, da

superiori, ovvero da colleghi di paro grado o di grado inferiore, con carattere sistematico, intenso

e duraturo, finalizzati a danneggiare l’integrità psico-fisica della lavoratrice o del lavoratore “(

comitato ristretto Lavoro Senato 2 febbraio 2005).

Sarebbe importante definire il fenomeno ricercandone gli elementi costitutivi per poi inquadrarlo

anche dal punto di vista giuridico, cosa che hanno fatto pochi paesi europei, primi fra questi la

Svezia, pioniere normativo con una definizione datata 1993, intesa a inquadrare perfettamente il

fenomeno e a limitarne molto la capacità espansiva. La legge svedese definisce il mobbing “… una

persecuzione durante il lavoro. Con persecuzione si intendono ricorrenti azioni riprovevoli o

chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da

determinare l’allontanamento di questi lavoratori dalla collettività che opera nei luoghi di

lavoro” (Legge del 21 settembre 1993).

La Francia , seconda dopo la Svezia ad emanare una legge specifica contro il mobbing, identifica

il fenomeno come un insieme di “… ripetute azioni di violenza psicologica aventi come oggetto o

conseguenza un degrado delle condizioni di lavoro di un lavoratore dipendente, capace di

determinare un pregiudizio ai diritti e alla dignità della persona, danneggiarne la salute fisica o

mentale o comprometterne il futuro professionale” (Legge numero 73 del 17 gennaio 2002).

1.2 Tipologie di mobbing

Il mobbing si manifesta come fenomeno assai eterogeneo e complesso, tante sono le possibili

modalità con cui questo viene ad essere applicato sull’individuo; la classificazione delle diverse

forme ravvisabili è per tale ragione appena definita e, conseguentemente, riconosciamo diversi tipi

di mobbing distinguibili sulla base del soggetto mobbizzante (o secondo quale direzione agisce il

mobbing) e sulla base del motivo per cui agisce il mobber.

In base al soggetto:

• mobbing verticale: è il comportamento attuato da un dirigente verso i suoi sottoposti.

• mobbing orizzontale: attività vessatoria condotta da parte di colleghi di pari grado o da

soggetti subordinati gerarchicamente.

• mobbing collettivo: comune strategia che vede il datore di lavoro come “ispiratore” ed i

colleghi come “esecutori”. La situazione di isolamento della vittima viene amplificata dai

comportamenti dei “ side mobbers”, soggetti che pur non essendo direttamente responsabili delle

condotte mobbizzanti, assistono silenziosamente alle persecuzioni dei colleghi e superiori nei

confronti della vittima.

• mobbing doppio: una situazione tipica della società italiana che si presenta quando il

mobbizzato trascina i disagi conseguiti attraverso lo stress da mobbing all’interno del nucleo

familiare il quale, dopo un iniziale periodo di comprensione, con l’aggravarsi della situazione

tende ad essere meno comprensivo fino a diventare insensibile alle richieste di aiuto che

provengono dal soggetto mobbizzato.( Ege ,1996).

• Bossing: forma posta al confine tra le due ampie classificazioni sopra esposte, che si

configura come una strategia di esclusione promossa dal vertice aziendale.

In base alla motivazione :

• mobbing strategico: attuato con lo specifico intento di allontanare definitivamente dal mondo

del lavoro, dipendenti considerati non più utili o soltanto non desiderati perché sono stati

selezionati altri individui per ricoprire il loro ruolo. Si identifica con il Bossing.

• mobbing emozionale: deriva da un’alterazione dei rapporti interpersonali sia di tipo

gerarchico che tra colleghi. In caso di mobbing orizzontale sono di solito i sentimenti di invidia,

rancori, desiderio di apparire migliori di fronte ai propri superiori, e molteplici altre motivazioni

personali. In caso di mobbing verticale è una condotta che verosimilmente agisce per motivi simili

a quelli che si hanno tra colleghi di pari grado: la repulsione, l’invidia, l’incomprensione, i

pregiudizi, i timori maniacali di un possibile danno. Il fine è quello di emarginare la vittima non

gradita dal gruppo, vista come possibile minaccia agli equilibri aziendali.

• mobbing inintenzionale: non vi è una ragione precisa e definita alla base dell’instaurarsi del

fenomeno.

Una classificazione stillata da Harald Ege , viene fatta in base alla direzione del mobbing:

• Up-down: il mobber è in una posizione superiore rispetto alla vittima e manifesta

atteggiamenti ed azioni riconducibili alla tematica dell’abuso di potere e può avvenire sia da

soggetti autoritari che soggetti discreti.

• Down-up: Il mobber è in una posizione inferiore rispetto a quella della vittima ed accade

quando l’autorità di un capo viene messa in discussione da uno o più sottoposti, in una sorta di

ammutinamento professionale generalizzato. In effetti, nelle situazioni di mobbing dal basso sono

solitamente più di uno, a volte anche tutti gli operai o i colleghi di un certo reparto, che attuano

una vera e propria ribellione contro il capo che non accettano.

La vittima si trova quanto mai in una condizione di isolamento totale e devastante ed infatti,

essendo il numero dei suoi delatori piuttosto alto, il suo tentativo di discolpa risulta difficile nei

confronti del suo responsabile che finirà col dare credito alla maggioranza delle voci.

• mobbing tra pari : mobber e vittima sono allo stesso livello.

Per Ege la gerarchia aziendale non ha alcuna influenza sul sorgere del mobbing in quanto, dopo

numerosi studi condotti su varie aziende, è giunto alla conclusione che il mobbing si verifica sia in

aziende gerarchizzate sia in aziende snelle e divise per funzioni.

1.3 Breve Storia del mobbing

Il mobbing è un fenomeno antico e ben conosciuto in ogni cultura, ma non è ancora individuabile

un momento o una fase storica nell’ambito della quale farlo risalire ma dalla fine degli anni ’70 si

riconosce una crescente presa di coscienza socio-giuridica sempre più sensibile alla tutela dei

soggetti “mobbizzati”.

Nel 1976 l’americana Brodsky pubblicò il primo libro sulle molestie nei luoghi di lavoro: “The

harassed worker” (“Il lavoratore molestato”) e per questo le si riconosce il merito di essere stata

l’iniziatrice degli studi in questo ambito. Utilizzò il termine harassment per descrivere un

comportamento che avviene nell’ambito lavorativo consistente in ripetuti e continui tentativi

attuati da un individuo allo scopo di tormentare, esasperare, frustrare o spingere alla reazione un

altro individuo. Da qui partirono gli studi negli Stati Uniti nel campo delle molestie sessuali (sono

inserite nei termini job harassment e work abuse) e delle discriminazioni razziali, che sono, però,

diverse dal mobbing vero e proprio.

Lo svedese Heinemann fu il primo nel 1972 a prendere a prestito dall’etologia il termine per

applicarlo al campo delle relazioni umane, infatti, egli lo utilizzò nell’ambito scolastico per

definire i comportamenti violenti tra gli studenti: fenomeno a cui è stato attribuito il termine

“bullying” (“bullismo”) : fare il prepotente, tiranneggiare. In alcuni Paesi però, mobbing e

bullismo sono usati, erroneamente, come sinonimi, invece è importante distinguerli poiché il

mobbing avviene esclusivamente in ambito lavorativo e il bullismo esclusivamente in ambito

scolastico.

Il mobbing fu descritto in maniera sistematica, per la prima volta, nel 1982 in una ricerca

pubblicata (nel 1984) dal Ministero nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro svedese

(Leymann e Gustavsonn, 1984). Il primo ricercatore che analizzò i contenuti e lo sviluppo del

mobbing sul posto di lavoro fu Heinz Leymann, psicologo del lavoro dell’Università di Umea, in

Svezia. Leymann, verso la fine degli anni ’80 sviluppò un questionario come strumento

d’indagine, chiamato LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terrorism). Grazie ai fondi per

la ricerca ottenuti dal governo svedese e a Karlskrona fondò la prima clinica per il trattamento

delle persone che soffrivano di disturbi post-traumatici da stress a causa del Mobbing, decidendo

di chiuderla qualche anno prima della sua morte, avvenuta nel 1999.

Il progetto di ricerca di Leymann fu avviato su iniziativa del Governo svedese a causa

dell’incremento dell’assenteismo sul posto di lavoro dovuto al disagio lavorativo.

La conoscenza e lo studio del fenomeno si estese in Germania e negli altri paesi del Nord Europa,

fino ad arrivare in Italia nel 1996 , grazie al contributo fondamentale di H. Ege, oggi considerato

uno dei maggiori esperti internazionali di mobbing.

Capitolo 2: La dinamica del mobbing negli ambienti di lavoro

2.1 Il mobbing e le sue fasi

Il mobbing è un processo articolato che all’inizio potrebbe anche confondersi con altre forme di

conflittualità che si originano in ambito lavorativo dalle quali se ne differenzia soprattutto per il

disegno strategico e per l’obiettivo principale di estromettere il lavoratore dal contesto lavorativo.

Gli esperti hanno individuato delle fasi successive attraverso le quali il mobbing si presenta

definendone gli elementi costitutivi e gli stadi che attraversa con lo scopo di comprendere e

riconoscere il fenomeno.

Il modello più completo, già usato in Germania ed in Svezia, è quello a quattro fasi elaborato dallo

studioso tedesco Leymann, compatibile con la realtà svedese nella quale lo studioso operava, ma

altrettanto valido al contesto tedesco, dal quale lo studioso derivava le sue radici culturali. Il

modello Leymann, per la sua efficacia, è rinvenibile in molti studi condotti in Germania, oltre che

naturalmente nell’area scandinava dalla quale prende l’avvio.

Il modello si articola attraverso quattro fasi.

Prima fase: il conflitto quotidiano.

In tutti i luoghi di lavoro è assolutamente normale che nascono e si sviluppano dei conflitti ogni

giorno perché, come nella vita quotidiana, si possono incontrare e scontrare caratteri, opinioni e

abitudini diverse. Questi conflitti non sono sempre parte del mobbing, ma possono diventarlo nel

momento in cui il conflitto quotidiano non si risolve. Se il momentaneo screzio tra colleghi non si

chiarisce, se l’astio ed il desiderio di rivalsa da parte di uno o più degli attori si consolida e si

rafforza andando avanti anche per lungo tempo, si determina una situazione di estrema

conflittualità nella quale vengono minate le relazioni sociali, rendendo possibile l’insorgere di una

situazione di mobbing tra colleghi. E’ facile che nell’ambito di un ambiente nel quale esistono

rivalità e le relazioni interpersonali sono alterate ed estremizzate, si arrivi all’identificazione di una

vittima la quale, con l’avanzare del processo vessatorio, diventi una sorta di capro espiatorio. La

vittima comincia a rendersi conto che l’ambiente intorno a sé sta cambiando anche se può non

comprenderne appieno le ragioni e talvolta può non averne la certezza. Il lavoratore vessato

comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici espressione del disagio che, più o meno

consciamente, sta vivendo: incubi, insonnia, mal di stomaco, vomito, nausea, solitudine,

ripiegamento su di sé ed ansia generalizzata.

Seconda fase: L’inizio del mobbing e del terrore psicologico.

Il conflitto quotidiano, nato per caso, matura e diventa continuativo trasformandosi in mobbing

vero e proprio. Si radicalizzano i ruoli degli attori: il mobber, da una parte, è l’artefice ed

ispiratore delle azioni moleste e comincia ad agire in modo sistematico e per lo più intenzionale, il

mobbizzato diventa agli occhi di tutti, la vittima. Gli attacchi diventano più precisi e la vittima

subisce un processo di stigmatizzazione diventando per tutti il capro espiatorio ed il bersaglio

preferito di attacchi ed aggressioni da parte del gruppo accusando insofferenza verso il clima

aziendale.

Terza fase: errori ed abusi anche non legali da parte dell’Amministrazione del Personale.

La situazione di mobbing è ormai così evidente da oltrepassare i limiti dell’ufficio o del reparto in

cui è nata per diventare di pubblico dominio. La vittima comincia ad assentarsi più frequentemente

dal lavoro per problemi di salute, a richiedere permessi per visite mediche, a mettersi in malattia,

manifestando un calo di rendimento. A questo punto il caso arriva quasi sempre sul tavolo

dell’Ufficio del Personale che comincia a svolgere delle indagini. Il più delle volte non si è

compreso il processo alla base della situazione e più facilmente ne emerge che la vittima è un

elemento dannoso e dispendioso per l’azienda. L’Amministrazione del personale deciderà quindi

di eliminare la vittima, ricorrendo anche ad inganni e procedure ai limiti della legalità:

trasferimenti, declassamenti di mansioni, punizioni di vario tipo, in modo da porre la persona in

una situazione sgradevole tale da indurla a rassegnare le dimissioni.

Quarta fase: l’esclusione dal mondo del lavoro.

Il mobbing raggiunge il suo scopo: eliminare la vittima. Essa può dimettersi, esasperata dagli

attacchi del mobber e dagli abusi dell’azienda o può essere resa incapace di continuare a lavorare

dalle sue condizioni psicofisiche, può chiedere il prepensionamento oppure può addirittura essere

licenziata con un pretesto qualsiasi o un inganno. Secondo alcuni studiosi è’ la fase più pericolosa

che possono condurre a ripercussioni sia di natura “patrimoniale” che psicologica di grande rilievo

(Saolini, 2001).

A livello psicologico infatti può esplodere una forma di auto aggressività che, nei casi più

disperati, ha avuto esiti estremi quali il suicidio come conseguenza dell’esasperazione e del crollo

emotivo del lavoratore, e che molto più spesso viene rivolta verso l’esterno più immediato,

l’ambiente famigliare, con compromissione dei rapporti all’interno dello stesso.

Non tutti i casi di mobbing arrivano all’ultima fase. Solo le vittime dei casi estremi sono costrette

in un modo o nell’altro ad abbandonare il lavoro (Leymann, 1990).

Per Harald Ege, psicologo del lavoro dell’organizzazione e fondatore di PRIMA, associazione

italiana contro il mobbing e lo stress psicosociale a Bologna, il modello di Leymann non riesce a

riflettere con precisione la realtà lavorativa italiana. Per lo studioso tedesco la realtà sociale

italiana è distante e poco confrontabile a quella germanica e nordeuropea in genere ed egli apporta

perciò degli aggiustamenti al modello base di Leymann.

Il modello italiano di Ege introduce altre due fasi per un totale di sei fasi legate in modo logico tra

loro che si originano da una pre-fase detta “condizione zero” che non è ancora mobbing ma ne

costituisce il presupposto.

La “condizione zero”: si tratta di una pre-fase normalmente presente in Italia ma sconosciuta nella

cultura nordeuropea: il conflitto fisiologico, normale ed accettato.

Una tipica azienda italiana è generalmente conflittuale. Si tratta di una premessa, di un conflitto

che vede tutti contro tutti e non ha una vittima specifica: diverbi d’opinione, discussioni, piccole

accuse e ripicche. Questa conflittualità fisiologica non è di per sé mobbing, ma evidentemente può

essere un terreno fertile al suo esordio. Nella “condizione zero” non c’è da nessuna parte la

volontà di distruggere, ma solo quella di elevarsi sugli altri, una sorta di primus inter pares..

Prima fase: il conflitto mirato, si individua una vittima che diventa il “capro espiatorio” ed alla

quale si attribuisce la causa per qualsiasi problema aziendale e/o dei singoli lavoratori basandosi

sul presupposto, talvolta perfino circostanziale e casuale, che in una data circostanza il capro

espiatorio avesse effettivamente avuto la responsabilità per quel particolare accaduto. Sulla vittima

designata si veicola la conflittualità generalizzata ed il conflitto, che all’inizio poteva definirsi

fisiologico, si orienta anche in altre direzioni con l’obiettivo di distruggere l’avversario,

allargandosi in argomenti appartenenti alla sfera privata e non solo lavorativa. In questa fase il

fenomeno del mobbing non è ancora emerso con chiarezza e non è ancora possibile capire se mai

si realizzerà.

Seconda fase: l’inizio del mobbing.

Corrisponde alla 2° fase del modello di Leymann: gli attacchi da parte del mobber non causano

ancora sintomi o malattie di tipo psico-somatico sulla vittima, ma tuttavia le suscitano un senso di

disagio e fastidio. La vittima percepisce una tensione nei rapporti con i suoi colleghi e si chiede le

ragioni di tale cambiamento magari cominciando anche a sentirsi in colpa per qualcosa che ha

fatto e ricercando in sé stessa il motivo di rifiuto dell’ambiente.

Terza fase: primi sintomi psico-somatici.

La vittima manifesta i primi problemi di salute e questa situazione può protrarsi per lungo tempo.

Questi primi sintomi riguardano in genere un senso di insicurezza, panico, l’insorgere

dell’insonnia e problemi digestivi.

Quarta fase: errori ed abusi dell’Amministrazione del Personale.

Corrisponde alla 3° fase di Leymann, per cui il caso di mobbing diventa pubblico e spesso viene

favorito dagli errori di valutazione da parte dell’Ufficio del Personale che non si rendono conto

della strategia persecutoria nei confronti della vittima. Diventano più frequenti le assenze per

malattia, l’Amministrazione del Personale si insospettisce, inizia ad indagare, invia richiami

disciplinari alla vittima.

Quinta fase: serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima.

Il mobbizzato entra in una situazione di vera disperazione, di solito soffre di forme depressive più

o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie, che hanno solo un effetto palliativo in quanto il

problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. Spesso subisce il cosiddetto “doppio-

mobbing”, in quanto alle vessazioni che deve sopportare in azienda si aggiungono le

incomprensioni che provengono dal nucleo familiare il quale, se all’inizio delle vessazioni aveva

assunto un ruolo di comprensione sostenendo il famigliare, con il progredire della situazione di

malessere tende a ritenere che le colpe di quanto stia accadendo siano da attribuire al

comportamento della stessa vittima. Il lavoro mobbizzato, avendo perso i punti di riferimento

essenziali della propria esistenza, lavoro e famiglia, si destabilizza sempre più perdendo fiducia

anche in sé stesso, rinchiudendosi dentro sé e favorendo col proprio comportamento l’azione

dell’aggressore e l’aggravamento delle condizioni della propria psiche.

Gli errori da parte dell’amministrazione, dovuti spesso alla mancanza di conoscenza del fenomeno

mobbing e delle sue caratteristiche, che si materializzano con provvedimenti contro la vittima,

contribuiscono a peggiorare le condizioni della stessa che si convincerà di essere essa stessa la

causa di tutto peggiorando il suo isolamento, oppure si rafforzerà l’idea di vivere in un mondo di

ingiustizie nel quale è inutile qualunque azione. In entrambi i casi la vittima precipiterà ancora di

più nella depressione.

Sesta fase: esclusione dal mondo del lavoro.

Corrisponde alla 4° fase di Leymann ed implica l’uscita della vittima dal mondo del lavoro tramite

dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al prepensionamento ed addirittura richiesta di

malattia professionale e pensione di invalidità, oppure svilupperà manie ossessive quali l’omicidio

o la vendetta sul mobber. (Ege, 1997).

Questo modello a sei fasi risulta applicabile alla realtà dell’Italia e in generale a quella dei paesi

mediterranei ed è aderente alla situazione vissuta dalla vittima di mobbing, riuscendo quindi a

fornire una connessione logica ed esauriente delle varie fasi del processo.

Le variazioni sono una possibilità perché è verosimile che possano mancare una o più fasi ed il

mobbing può concludersi prima della sesta fase, tutto dipende sempre dalla particolare storia di

mobbing di ogni vittima.

Per quanto riguarda le azioni da mobbing Ege ha classificato quelle che vengono solitamente

compiute dagli aggressori al fine dell’emarginazione della vittima, individuando le seguenti

fattispecie:

1. la negazione degli atti umani (impedendo alla vittima di comunicare con i colleghi di lavoro);

2. l’isolamento sistematico (ponendo la vittima lontano dai colleghi o compiendo gesti di

negazione di colloqui);

3. il demansionamento o la privazione assoluta di qualsiasi mansione;

4. attacchi alla reputazione della persona (nell’aspetto che attiene alle sue opinioni politiche o agli

atteggiamenti sessuali o familiari).

5. la violenza o le molestie sessuali (seppure molto più raramente).

2.2 I protagonisti del mobbing

I partecipanti al fenomeno del mobbing sono anche definiti attori “…in quanto, proprio come su

un palcoscenico, ognuno di loro ricopre un ruolo particolare, che determina le sue azioni e

reazioni” (Ege, 1996:95).

I protagonisti del mobbing sono principalmente due: il mobbizzato ed il mobber.

Il mobbizzato è la vittima che raramente si accorge di quanto gli sta succedendo, almeno nella fase

iniziale, ed anzi è possibile che, attraverso le sue reazioni alle mutate condizioni intorno a sé,

faciliti l’instaurarsi del mobbing soffrendo senza ombra di dubbio degli effetti deleteri del terrore

psicologico. Il suo ruolo è di accogliere su di sé gli attacchi degli altri accollandosi, suo malgrado,

le responsabilità ed i problemi personali che i colleghi versano e proiettano su di lui.

Walter (1995) definisce la vittima del mobbing come una persona che si ammala, si assenta dal

posto di lavoro, si licenzia. E’ colpita da stress, attraversa fasi di depressione o manie suicide,

mostra mancanza di fiducia in sé, da un lato è convinta di non avere colpa e dall’altro crede di

sbagliare tutto. Leymann (1993) vede il mobbizzato come l’attore del processo di mobbing che

risulta il più danneggiato, colui che perde inesorabilmente e completamente.

Niedl (1993) cerca di trovare dei punti in comune tra le vittime e distingue quattro diverse

caratteristiche della persona che sono legate a delle variabili fisse:

• l’età: perché con essa aumenta il pericolo di essere mobbizzato;

• il sesso: sebbene uomini e donne vengono attaccati entrambi, si nota una leggera superiorità degli

attacchi verso le vittime di sesso femminile;

• il settore lavorativo: non esistono dei settori o attività in cui il mobbing si manifesta più

frequentemente di altri;

• il tipo di professione: in quelle amministrative la percentuale dei casi di mobbing è più alta che

negli altri impieghi (Niedl, 1995).

Questi autori hanno stilato una classificazione di tipi ideali di mobbizzati. Come tutte le

classificazioni, anche questa ha un valore formale e descrittivo e ci fornisce un aiuto nel

riconoscimento dei ruoli e della presenza della fattispecie di mobbing:

- il distratto, è colui che non si accorge che la situazione attorno a sé è cambiata e quindi non

riesce a valutarla in modo corretto e realistico;

- il paranoico, è colui che vive il suo ambiente in quanto pericoloso per sé al punto da considerare

sia l’organizzazione dell’ufficio che i suoi colleghi come intenti e dediti a danneggiarlo;

- il severo, è la persona che mantiene sempre le sue regole in modo rigido in ogni circostanza

pretendendo che anche gli altri facciano lo stesso;

- il passivo e dipendente, è chi vorrebbe sempre ricevere consensi e riconoscimenti da parte del

suo ambiente con un atteggiamento servile che spesso scatena l’antipatia dei colleghi;

- il presuntuoso è chi pensa di essere molto più di ciò che è o che fa in realtà;

- l’ipocondriaco è colui che esprime il peso e coinvolgimento emotivo causatogli dal lavoro

attraverso l’autocommiserazione sentendosi sempre vittima di forze esterne;

- il vero collega dimostra a tutti la sua amicizia ed è aperto e sincero in ogni occasione e tende,

quando qualcosa non funziona, ad esprimere apertamente il problema. Dato che un simile

atteggiamento diretto può essere estremamente pericoloso per un mobber che solitamente agisce in

modo subdolo e nascosto mettendolo a rischio di essere scoperto, il mobber allarga la sua azione

includendolo tra le sue vittime. Inoltre potrebbe verificarsi un’altra possibilità: come coloro che

sono troppo efficienti e simpatici, potrebbe alimentare l’invidia di qualcuno e provocare così il

mobbing verso di lui;

- il sicuro di sé, è una persona che crede in se stessa e nelle sue capacità al punto tale che neanche

le critiche degli altri lo toccano più di tanto. E’ la persona che facilmente attira e provoca l’invidia

dei colleghi;

- il camerata, questo tipo, come il vero collega, non ha problemi con nessuno: gli piace la

compagnia, organizza serate, è particolarmente popolare nell’ambiente lavorativo ed anche in

questo caso il possedere troppe qualità provoca la gelosia e l’invidia degli altri;

- il pauroso è il tipo che ha paura di tutto: di perdere il posto di lavoro, del suo capo, di fallire, di

fare errori. Viene mobbizzato in genere perché i colleghi temono di venire inglobati nell’alone di

dubbio, panico ed incertezze che egli diffonde, e di rischiare di perdere fiducia anche nelle loro

capacità. Generalmente perciò viene visto come un pericolo per la propria tranquillità, l’equilibrio

mentale e anche per il lavoro stesso;

- il permaloso è una persona molto sensibile, ha bisogno che il suo lavoro venga continuamente

riconosciuto ed apprezzato e vive le critiche con un effetto devastante per la propria autostima,

arrivando a percepire le critiche sul suo lavoro o sulla sua vita privata come pesanti azioni

mobbizzanti che alla fine lo portano alla distruzione completa del suo precario equilibrio;

- l’introverso ha evidenti difficoltà nei rapporti interpersonali e tuttavia la mancanza di

comunicazione con gli altri potrebbe essere intesa come un atteggiamento ostile che provoca

fastidio e disagio negli altri e, di contro, reazioni aggressive nei suoi confronti;

- il capro espiatorio è la “valvola di sfogo” presente in molti gruppi di lavoro che solitamente si

identifica con il componente più debole che, suo malgrado, svolge il ruolo della vittima sacrificale

alimentando le aggressività represse degli altri. E’ solitamente una persona molto insicura,

incapace di difendersi e di sottrarsi al ruolo di cui è stato investito.

Molto generalmente è stato osservato che più facilmente la vittima designata può essere qualsiasi

persona che si presenti come “diversa” agli occhi dei colleghi: ad esempio un uomo in un contesto

femminile o viceversa; un creativo in un ambiente rigido e viceversa una persona con poca

fantasia in un ambiente artistico.

Ci sono due tipi di reazione che una vittima può contrapporre al mobbing, quella passiva e quella

attiva scegliendo perciò direzioni diverse a seconda dell’atteggiamento con cui reagisce al

fenomeno.

1) Reazione passiva, il lavoratore non crede o non vuole accettare di essere in una situazione di

mobbing. Tenta di continuare a condurre normalmente la sua vita quotidiana in ufficio

accorgendosi però, con il progredire del tempo, che qualcosa non va più bene come prima e che i

rapporti sono cambiati soprattutto con una certa persona o con un certo gruppo di persone. Questa

situazione frustante potrebbe portarlo ad una forma di depressione anche se voglia continuare a

credere che, dopotutto, si tratti di piccoli ed insignificanti conflitti che presto si risolveranno. Se la

vittima non oppone alcuna resistenza e non si rende conto che gli attacchi che riceve sono

tutt’altro che casuali, finisce poi con il diventare sempre più insicura di sé, ad avere una continua

paura di sbagliare, a rinchiudersi in sé stessa aumentando ed allargando il suo stato di isolamento

anche nei confronti di gruppi e persone che non avevano nulla a che fare con il conflitto iniziale.

2) Reazione attiva, in questo caso la vittima, invece di subire passivamente il mobbing, prova a

difendersi. Potrebbe cercare di orientare l’attenzione dei colleghi verso le azioni del mobber, in

modo da avere testimoni per un’eventuale accusa, oppure cercare di allearsi con altri colleghi per

non restare isolato e per poter contare su qualcuno nel processo di difendersi dagli attacchi.

Entrambe le reazioni peggiorano la situazione della vittima che di solito non ottiene nulla e non

migliora il suo stato. La vittima passiva arriva alla depressione non migliorando la sua situazione e

la vittima attiva, pur reagendo alle molestie e vessazioni non riesce comunque ad ottenere dei veri

cambiamenti anzi, si è consumata disperdendo le proprie risorse ed energie che sono ormai al

limite, mentre la sua posizione sociale è venuta meno per la nullità dei suoi risultati nella lotta.

Eppure una qualche conclusione favorevole per la vittima attiva esiste: rassegnandosi al fatto che

da sola non riesce ad uscire dalla situazione di mobbing, si rende conto della necessità di ricorrere

ad un aiuto esterno al posto di lavoro e questo può portargli dei benefici. La vittima passiva,

invece, non solo non capisce che ha bisogno di aiuto esterno, ma addirittura tende a rifiutarlo

(Ege, 1996).

Il mobber è l’aggressore che, spesso ha il vantaggio di poter agire insieme ad altri aggressori

formando un gruppo per distruggere la vittima con la sicurezza di restare impuniti. Egli può essere

sia un collega che un superiore o addirittura un subordinato il quale cerca alleati tra gli altri

lavoratori al fine di aggredire la vittima. L’unione fa la forza ma in senso negativo: se la vittima

trova il coraggio di lamentarsi con il superiore questa difficilmente sarà creduta di fronte alla

maggioranza che nega, e più probabilmente verrà essa stessa accusata di soffrire di ossessioni e

manie di persecuzione. I mobber sono persone che scelgono una deriva aggressiva e si impegnano

a proseguire il conflitto assicurandosi che esso si intensifichi, senza alcun senso di colpa anzi,

credendo di fare qualcosa di buono: non sono consapevoli delle conseguenze negative che il

mobbing ha per la vittima (Walter, 1993)!

Come per la vittima, gli autori hanno delineato dei tipi di mobber anche se questi ultimi sono

individui imprevedibili che sfuggono ad ogni tentativo di classificazione, e frequentemente

diventano tali per le circostanze in cui si trovano . I tipi di mobber possono comprendere:

- l’istigatore è sempre alla ricerca di nuove cattiverie ed a programmare nuove strategie per

stressare e distruggere la sua vittima. E’ la tipica persona che mobbizza qualcuno di proposito e

che probabilmente si diverte anche nel farlo;

- il conformista è colui che, pur non avendo responsabilità dirette nell’aggressione, si comporta

come uno spettatore colpevole di non fare nulla per bloccare l’azione di mobbing;

- il collerico deve al suo carattere l’impossibilità di frenare i suoi impulsi e controllare i suoi

sentimenti negativi verso qualcuno. Egli è intollerante verso le mancanze degli altri e sfoga

facilmente i suoi umori verso i colleghi che gli stanno intorno;

- il sadico è colui che prova piacere a tormentare gli altri e perciò si organizza programmando le

sue azioni in modo che queste quasi mai sono lasciate al caso, ma sono ponderate per raggiungere

gli obiettivi che lo stesso di pone;

- il megalomane è la persona con un’opinione falsata di sé, e solitamente si crede di essere quello

che lui vorrebbe essere e se la prende con chiunque possa dubitare della sua autorità,

particolarmente quella che non ha ma che crede e si vanta di avere;

- il criticone critica per abitudine senza proporre soluzioni alle quali non è per nulla interessato. Il

suo obiettivo infatti è la critica stessa nella quale è bravissimo e tendenzialmente rifiuta le proposte

che altri avanzano. Il criticone è una persona che generalmente rende l’atmosfera ed il clima di

lavoro particolarmente teso ed insopportabile e diventa distruttivo con coloro che ritiene possono

essere la causa della sua insoddisfazione;

- il leccapiedi è un tipo meschino che fa il tiranno verso i suoi sottoposti e si comporta invece da

schiavo con il suo capo, distribuisce “calci e pugni” ai colleghi per ostentare la sua forza

soprattutto se teme la loro competizione;

- il tiranno non cerca e non vuole né critiche né soluzioni, spesso non è interessato alle prestazioni

dei suoi colleghi o dei suoi sottoposti. Fa mobbing solo per il gusto di sottomettere qualcuno, i

suoi metodi sono spesso crudeli. Si comporta da vero dittatore, schiavizzando gli altri;

- l’invidioso, è una persona “orientata verso il suo esterno perennemente preoccupata dalle

variazioni del suo ambiente” (Brinkmann, 1995: 103). Sottomette solo per il gusto di danneggiare

la sua vittima;

- il carrierista cerca con tutti i mezzi di fare carriera senza mostrare alcuno scrupolo e pietà verso

le vittime e le persone che egli calpesta sulla strada pur di raggiungere i suoi obiettivi ed infatti

non ama la collaborazione sociale e si mostra preoccupato solo per sé.

Un ruolo importante nel processo di mobbing spetta ai cosiddetti “spettatori”, cioè coloro che, pur

non agendo direttamente insieme agli aggressori sulle vittime, partecipano ugualmente all’azione

di mobbing risultando determinanti per l’insorgenza del fenomeno, in quanto consentirebbero alla

persecuzione psicologica di venir consumata davanti ai propri occhi senza fare nulla per aiutare la

vittima.. Lo percepiscono, lo vivono di riflesso, si vedono come mediatori tra i protagonisti del

conflitto. Il loro ruolo è in effetti decisivo per la sopravvivenza dell’azione: di fronte al suo

manifestarsi, essi possono decidere con il loro comportamento se farlo proseguire o bloccarlo fin

dal suo inizio. Walter (1995) ha delineato le caratteristiche delle persone che non sono

direttamente coinvolte nel mobbing indicandole con il termine co-mobber o mobber indiretti. Per

lo studioso:

- sembrano non avere nulla a che fare con il mobbing, però sono in contatto con i mobber

(colleghi, capi, o dipendenti diretti),

- rifiutano di accettare qualunque responsabilità per il mobbing, però si propongono come

mediatori tra i protagonisti del conflitto,

- dimostrano grande fiducia in sé stessi, esprimendo le loro simpatie per una parte o per l’altra

oppure rifiutandosi di avere qualcosa con entrambi le parti in causa;

- spesso sono le persone chiave del vero conflitto (Walter, 1993).

Possiamo classificare gli spettatori in tre classi: i side- mobber, gli indifferenti e gli oppositori.

I side-mobber sono quelli che aiutano concretamente il mobber con il loro sostegno e la loro

alleanza. Ne fanno parte:

- il ruffiano che è simile alla vittima servile o al mobber leccapiedi e si comporta da fedele

compare dell’aggressore. Fuori da questa alleanza, è un conformista che va nella direzione della

corrente ed evita in ogni modo di farsi notare. Come collega è affidabile ma nel momento in cui un

gruppo o un capo comincia a fare mobbing verso qualcuno, accetta la situazione ed è pronto a

spalleggiare il mobber per paura di ritrovarsi allo scoperto;

- il falso innocente è preoccupato della sua apparenza e si impegna anche a rimanere fedele ad una

certa opinione o ad una corrente prevalente. E’ possibile che spalleggi il mobber o che rifiuti di

aiutare la vittima temendo di diventare lui stesso mobbizzato.

Gli indifferenti sono quelli che favoriscono il mobbing con il loro non-intervento contro le azioni

distruttive del mobber.

Ne fa parte:

- il rinunciatario perchè odia mettersi in evidenza e cerca di non venire mai coinvolto in nulla che

possa anche solo farlo sospettare di essere protagonista. Il rinunciatario tende a non assumere

proprio nessuna opinione, ritirandosi da tutto quel che accade.

Una persona che ha paura di prendere posizioni non è un vero sostegno attivo per il mobber, ma

con il suo silenzio non impedisce nemmeno l’azione di attacco sulla vittima. La sua posizione è di

indifferenza nei confronti del mobbing.

Infine ci sono gli oppositori, che cercano di aiutare la vittima o che non accettano in genere il

clima di tensione e di conflitto creatosi in ufficio e cercano di conseguenza una soluzione. Ne fa

parte:

- il diplomatico, che cerca sempre il compromesso di fronte ad un conflitto, anche se non vi è

coinvolto. Si assume il ruolo di intermediario, di quello che cerca di portare tutti a sedere attorno

ad un tavolo per trovare un compromesso. Il suo ruolo può portarlo ad essere amato o odiato da

tutti, come anche a suscitare l’invidia degli altri verso la sua popolarità. Però, con un mediatore

interno all’ufficio, il mobbing rischia di non estinguersi, ma di cambiare solo metodo.

2.3 Il bossing: la dimensione strategica del fenomeno

Il bossing è un tipo di mobbing che nasconde una vera e propria strategia aziendale di riduzione,

ringiovanimento o razionalizzazione del personale, oppure di semplice eliminazione di una

persona indesiderata. Essa viene compiuta dai quadri o dai dirigenti dell’azienda con lo scopo

preciso di indurre il dipendente divenuto “scomodo” a dare le dimissioni, cercando in questo modo

di ripararsi dalle vertenze sindacali.

Come può un’azienda rispondere alle crisi economiche o alla necessità di dare un nuovo assetto al

proprio management eliminando il personale in esubero oppure ridisegnando un proprio gruppo di

lavoro più rispondente ad eventuali cambi al vertice? Licenziare d’ufficio sarebbe necessario, ma

impossibile a livello sindacale. Cosa fare soprattutto se il lavoratore non accetta altre soluzioni

alternative e decide di rimanere in azienda nonostante eventuali nuove offerte?

L’unica via di scampo potrebbe sembrare proprio il ricorso a strategie di bossing: solo le

dimissioni volontarie dei dipendenti non risulterebbero in “tempeste sindacali” (Monateri,

2000:11) per cui quello che bisogna fare è indurre il personale ad andarsene spontaneamente.

Una strategia molto diffusa sembrerebbe essere quella di fare circolare una lista nera su cui

sarebbero scritti i nomi delle persone non indispensabili. Le liste nere devono essere più di una,

non devono mai sembrare “ufficiali”, ma sempre “segrete “ o “ufficiose” e devono comprendere

combinazioni di nomi diversi (Ege, 1996). Lo scopo è quello di affiancare alla tensione, anche

l’insicurezza e la paura, in modo che nessuno sappia più con esattezza come vanno le cose e se

possa essere o meno al sicuro.

Questa strategia aggiungerebbe ulteriore conflitto scatenando gli uni contro gli altri, alimentando

tensione ed insicurezza può dare luogo ad un cocktail fatale che sembrerebbe raggiungere i suoi

scopi: le dimissioni di parecchi dipendenti esasperati ed esauriti. L’azienda può raggiungere così

senza danni il numero di dipendenti con cui spera di poter superare la crisi. Il bossing può attuarsi

in modi diversi, ma tutti tendono alla creazione di un clima di tensione insopportabile attorno alla

persona da eliminare: atteggiamenti severi, minacce, rimproveri e perfino l’attuarsi di azioni di

sabotaggio difficilmente dimostrabili. Spesso a rendere il clima più insopportabile le aziende

scelgono il dirigente paranoico e autoritario in grado di assicurarsi una migliore gestione e una

“tensione produttiva”.

Quasi sempre si “gioca” ad ogni livello possibile: si tratta di una vera e propria strategia finalizzata

a distruggere il dipendente. Spesso anche una semplice ed insignificante distrazione, commessa

nella compilazione di un modulo, può diventare per il datore di lavoro uno strumento di

persecuzione e di accusa.

Avendo definito il bossing una strategia ci troviamo quasi sempre di fronte a programmi nei quali

l’etica e la morale sono assolutamente esclusi, nei quali ogni cosa è permessa se utile a

raggiungere l’obiettivo. E quando il mobber o l’aggressore è l’azienda stessa, essa non ha

nemmeno bisogno di ricorrere a mezzi estremi: è sufficiente privare il lavoratore dei suoi status-

symbol così duramente guadagnati (la macchina dell’azienda, il telefono cellulare, la postazione di

lavoro attrezzata, la stanza accogliente, etc.) oppure affidargli, di punto in bianco, dei lavori

dequalificanti in cui egli si trovi non soltanto degradato e dequalificato, ma anche impossibilitato a

compiere qualcosa di costruttivo, o ancora impedirgli di partecipare alla frequenza di corsi per

migliorare le sue competenze ed apprendere magari un nuovo programma o un nuovo prodotto che

sta per essere lanciato sul mercato.

Non vengono esclusi da questa pratica aziendale i quadri e i dirigenti che magari un tempo hanno

svolto essi stessi il ruolo di mobber e che, una volta non più utili al disegno aziendale perché

invecchiati oppure per altri motivi, si contrappongono al piano aziendale e diventano mobbizzati.

D’altronde per allontanare dei dirigenti bisogna pagare indennità altissime ed è più semplice

invece attaccarli ogni giorno, dequalificarli ed escluderli dal lavoro. Si attua cioè anche nei loro

confronti quella strategia di terrore e di tensione che prima, per seguire direttive aziendali, veniva

messa in pratica da loro stessi.

Il bossing esiste ed è documentato in tutta Europa, è sicuramente ben presente nella realtà italiana,

dove la scarsa offerta di lavoro causa un elevato livello di disoccupazione, poca mobilità, e dove i

lavoratori, per paura di perdere il proprio posto di lavoro e di non trovarne un altro, cercano di

resistere e di sopportare situazioni di pressione. Nei sistemi dove è maggiore la libertà di

licenziare, minore sarà la frequenza di strategie di bossing. Al contrario, in una realtà dove il

licenziamento è ammesso solo per giusta causa o giustificato motivo, pena sanzioni anche

rilevanti, il datore di lavoro può avere un interesse maggiore a provocare le dimissioni. In questo

caso, se il lavoratore ha scarse possibilità di trovare una diversa occupazione, tenterà di resistere

alle molestie con conseguenze davvero nefaste per lui.

Il bossing quindi si rivela uno strumento facile ed accessibile per allontanare persone ben precise,

quasi sempre soggetti deboli come i disabili oppure donne, ma anche i dipendenti con troppa

personalità o troppo zelo, o con un’anzianità che è divenuta troppo onerosa da un punto di vista

stipendiale. Una volta che l’azienda ha deciso di ricorrere al bossing come mezzo di soluzione

delle sue problematiche metterà a punto un vero piano strategico per eliminare il dipendente,

dando il via ad azioni premeditate ma anche circostanziate tanto quanto la fantasia dei suoi attori

possa originare oppure il contesto rendere possibile. Ogni soluzione è utile e molto spesso il datore

di lavoro si servirà anche dell’azione dei colleghi della vittima e del cosiddetto mobbing

orizzontale facendo in modo di far sentire il soggetto accerchiato da varie parti, aumentando la

tensione intorno a lui in modo tale che lo stesso entri in conflitti e commetta degli errori, oppure

attuando un serrato controllo che sfocia in continui richiami disciplinari per sciocchezze o

comportamenti fino a quel momento tollerati.

Tra le azioni di mobbing più frequenti si identifica la tattica dell’isolamento fisico, magari con il

trasferimento del lavoratore in uffici deserti, o in sedi distaccate di secondaria importanza o

addirittura in disuso. Ma l’isolamento si può attuare anche attraverso la cessazione del saluto da

parte dei superiori, il rifiuto del colloquio e l’interruzione della comunicazione soprattutto quando

il lavoratore chiede un confronto o dei chiarimenti su quello che sta accadendo. Il bossing è attuato

soprattutto nei confronti delle lavoratrici madri, di solito protette rigidamente dal licenziamento, e

può sopraggiungere ad esempio di ritorno da una maternità, magari con la richiesta di un tempo

part-time. La strategia del bossing colpisce l’operato del lavoratore investendo di critica ogni cosa

lo stesso produca. Si richiede spesso di ripetere del lavoro che non appare mai abbastanza ben fatto

e non soddisfa mai il datore o i suoi controllori. Oppure vengono radicalmente ridotte le

responsabilità lavorative, con assegnazione di compiti evidentemente inferiori alle possibilità del

dipendente o con una drastica riduzione del flusso di lavoro da sbrigare. Oppure al contrario il

soggetto viene oberato con molteplici attività, imponendo al soggetto obiettivi talvolta impossibili

da raggiungere. Altri segnali si possono rinvenire in pratiche aziendali ostruzionistiche con

mancanza di informazioni sul lavoro da svolgere o il rifiuto immotivato di permessi necessari o

negazione di formazione. Tutto quanto può contribuire a far “saltare i nervi”, o comunque umiliare

una persona. La facilità con cui sempre più ditte ricorrono a questi mezzi per operare rivoluzioni

nel proprio personale è impressionante e direttamente collegata al clima di crisi economica in cui il

mondo industrializzato si dibatte da anni. Chi pratica il bossing non conosce, o non si rende conto,

delle conseguenze deleterie che alla lunga potrebbero rilevarsi con forza. Innanzitutto non si

calcola quanto costa effettivamente il bossing all’azienda nel periodo che intercorre da quando lo

si inizia a quando si giunge alla meta desiderata ed il dipendente, a causa dei suoi problemi

psicosomatici legati alla tensione e all’insicurezza, comincia ad allontanarsi dall’ambiente

lavorativo. La persona che sta male psicologicamente e fisicamente si mette in malattia, o chiede

permessi per sottoporsi a visite ed esami e perciò rimane assente dal lavoro per molto tempo,

sebbene continui a venire retribuita oppure, anche quando è presente sul lavoro, il suo rendimento

produttivo è di gran lunga inferiore rispetto al solito: non è più concentrata o attenta e se è in preda

alla depressione potrebbe davvero non riuscire ad applicarsi anche nelle faccende minime.

Più un dipendente resiste al bossing e più i costi della ditta aumentano: deve pagare una persona

che è o assente o non rende più al massimo e spesso addirittura pagare già il suo sostituto, che

deve imparare il lavoro per subentrargli.

Ci sono persone in grado di resistere agli attacchi di bossing per anni, semplicemente perché quel

lavoro è tutto quello che hanno e non sono disposti per nessuno motivo a lasciarlo. L’azienda

perde denaro e il lavoratore perde la salute. Inoltre, anche chi cede, si dimette e cerca un altro

impiego, in questo secondo posto di lavoro non renderà mai più al cento per cento: infatti potrebbe

avere risentito psicologicamente della precedente storia di bossing, o semplicemente aver perso

ogni fiducia in qualsiasi azienda e non essere più disposto a darle il meglio di sé.

E’ difficile che un’impresa riesca a comprendere queste problematiche, ma nei casi in cui vertici

aziendali intelligenti e previdenti hanno valutato queste conseguenze, il risultato sono stati dei

contratti collettivi interni in cui il bossing è esplicitamente proibito.

Come abbiamo già detto il bossing è una forma di mobbing su scala aziendale anche se in esso si

registrano differenze di metodi, motivazioni e reazioni a seconda delle caratteristiche della società

in cui esso è perpetrato. Un’organizzazione che si basa sul profitto deve necessariamente tendere a

mantenere il bilancio in attivo, ovunque essa sia e quando gli affari cominciano ad andare male,

comincerà a licenziare il personale e se questo non è possibile per qualsiasi motivo, adotterà,

coscientemente o no, strategie di bossing più o meno pesanti. In alcuni paesi si registrano casi di

bossing anche all’interno di strutture pubbliche e statali, che normalmente dovrebbero essere

estranee alla logica del profitto: le motivazioni in questi casi non sono economiche, ma di altro

tipo, generalmente politiche.

Possiamo affermare che il bossing come pratica è presente in tutte le culture, perché le leggi

economiche sono ovunque le stesse. Quello che cambia da società a società è il metodo di

attuazione del bossing, poiché, le culture sono diverse per aspettative, ruoli, valori. Ad esempio è

popolare trovarsi senza mansioni o senza scrivania in quasi tutti i paesi però non è altrettanto

comune la pratica di togliere gli status symbol ai dirigenti eccessivamente invecchiati. Ciò infatti

dipende dal diverso ruolo che l’esperienza e l’anzianità di servizio rivestono all’interno della

cultura del lavoro di quella società. In Europa dove anzianità ed esperienza sono ancora valori che

contano si tenderà ad usare altre strategie, negli Stati Uniti, paese giovane e dinamico nel quale

l’intraprendenza e la novità sono dei valori aggiunti, la persona meno giovane subisce sicuramente

pressioni importanti (Ege, 1997).

Ci sono culture che tendono più di altre ad analizzare un problema sotto diverse e sempre nuove

angolazioni, invece di ricorrere alle solite e obsolete soluzioni. In Italia, si tende a ripercorrere

strade già conosciute forse per timore di sbagliare o di rinnovarsi (Ege,1998) e per ridurre il

personale non si esita a mettere in atto strategie di bossing, che sono il metodo più semplice e

diretto per arrivare allo scopo. I paesi scandinavi, invece, sono culturalmente portati alla ricerca

della perfezione, così, in questa loro tendenza, cercano e valutano strumenti sempre nuovi, che

possano giungere ad una soluzione ottimale del problema. Così accade anche in casi in cui il

bossing sarebbe a prima vista il metodo più diretto per risolvere, per esempio, il problema della

crisi economica di un’azienda. I dirigenti scandinavi, prima di ricorrere al bossing, si guarderanno

perlomeno attorno per trovare altre vie: faranno fare ricerche di mercato, convocheranno esperti e

consulenti (Rupprecht-Stroell, 2001).

Una soluzione per le aziende, per far fronte alla crisi, potrebbe essere quella di portare “la

settimana lavorativa a 28 ore per tutti i dipendenti, abbassando conseguentemente gli stipendi. In

questo modo si evitano molti licenziamenti: meno lavoro, ma per tutti” (Ege,1997:127).

Le strategie di bossing sono condizionate dalle caratteristiche particolari della situazione in cui

devono funzionare.

Grande importanza nella scelta del metodo persecutorio, per esempio, hanno la posizione sociale e

l’età della vittima: togliere determinati privilegi infatti potrà avere un effetto psicologicamente

devastante su persone non più giovani, abituate già da anni ad usufruirne e sicuri del proprio ruolo

e della propria esperienza. Un giovane rampante appena insediatosi nell’ambito ruolo manageriale

non sarà mai altrettanto umiliato. Privare della comodità dell’automobile della ditta sarà un’azione

più grave e penalizzante se coinvolge una persona che lavora lontana da casa, o che è costretto a

continui spostamenti per lavoro.

La decisione di una particolare strategia di bossing dipende anche dal settore di produzione della

ditta e dalle mansioni dei lavoratori che si intendono colpire.

Per tutte queste considerazioni, il peso della cultura è sensibilmente in secondo piano, in quanto

contano più le circostanze particolari del caso. E’ senz’altro vero, comunque, che la cultura può

influenzare la scelta di perpetrare bossing a livello di aspettative e sistemi di valori morali e umani.

Capitolo 3: I fattori del mobbing Se si vogliono mettere in atto delle misure preventive contro il mobbing sarà bene individuare i

fattori che lo originano o che costituiscono una sorta di pre-condizione al suo possibile sviluppo.

Come enuncia diligentemente Favretto non si può attribuire al suo manifestarsi un'unica causa, in

quanto il fenomeno è spiegabile solamente con la compresenza di più elementi che si collocano

Cause Mobbing Organizzazione Organizational injustice Clima organizzativo Politiche organizzative Organizzazione del lavoro Aggressore Gruppo Ostilità e critiche Cambiamento del gruppo Group pressure Group identification

Work related

mobbing

deadlines irragionevoli

eccessivo

monitoraggio

… commenti offensivi e

insulti

mobbing sulla

persona Persona Personalità Qualifica Social skills

Fattori socioeconomici

“nell’insieme delle manifestazioni della vita sociale e organizzativa”. Egli li distingue in quattro

strati:

1. socioeconomico e culturale : la globalizzazione, l’economia incerta , la concorrenza spietata,

i licenziamenti e il precariato lavorativo, ecc.

2. organizzativo: condizioni di lavoro, stress, cambiamenti in corso, ristrutturazioni, passaggi di

ruolo, competizione, aumenti del carico di lavoro e delle responsabilità a tutti i livelli gerarchici,

richiesta da parte dell’organizzazione di polifunzionalità -multiskilling- e di saper svolgere anche

il lavoro altrui,ecc.

3. microsociale : particolari caratteristiche del gruppo lavorativo: identità, appartenenza,

microconflittualità, individuazione di un capro espiatorio, ecc.

4. individuale : la personalità, caratteristiche tipiche, stili di coping ( il coping è costituito

dall’insieme di sforzi esercitati dall’individuo per risolvere un determinato problema), ecc. Fig.num2:Livelli di analisi ( e di intervento) delle pre-condizioni di mobbing. socioeconomico Livello macro organizzativo

microsociale

Livello micro

individuale A B C D

Perché si verifichi il fenomeno devono verificarsi certe condizioni, che non devono essere

solamente compresenti, ma devono verificarsi con particolari e definibili caratteristiche. Le analisi

letterarie spesso trascurano il fattore organizzativo, dando maggior risalto al rapporto individuo-

gruppo, certamente perché appare più eclatante, visibile e comprensibile. Sicuramente i fattori

organizzativi sono meno rilevabili, variano da settore a settore, da impresa a impresa, complicando

notevolmente l’attività di ricerca degli esperti del mobbing. A nostro parere però sono proprio

determinate condizioni che permettono e favoriscono il conflitto individuale, intra-gruppo e fra

gruppi differenti. Di conseguenza sarebbe più opportuno inserire questo particolare tipo di conflitto

all’interno delle relazioni umane e organizzative piuttosto che effettuare un’analisi sterile mobber/s-

mobbizzato. Sono proprio le condizioni organizzative che favoriscono il fatto che il mobbing

diventi tale, cioè perpetrato, continuo nel tempo, sistematico, nascosto e non facilmente contenibile

( Favretto, 2005).

L’analisi verrà effettuatasi più livelli perché, come si evince dalla figura numero 2, non si può dare

una spiegazione unilaterale del mobbing ( Zapf, 1999), la quale molto probabilmente si genera

laddove vi sia la presenza combinata di più fattori scatenanti: il quadro socioeconomico di un

determinato paese ( globalizzazione, modificazione dello stile lavorativo, concorrenza ampliata,

etc.), la sensibilizzazione culturale verso il fenomeno da parte dell’azienda e delle persone che ci

lavorano o che entrano in contatto con essa, il quadro organizzativo( leadership, cultura

organizzativa, stressor organizzativi,etc.) e quello microsociale ( ostilità, invidia, pressioni di

gruppo, capro espiatorio, etc.), e quello individuale( personalità, qualità, skill sociali, etc.).

3.2 Livello macro : fattori organizzativi e socioeconomico-culturali

Il mobbing è una nuova disciplina di ricerca che non era mai stato sistematizzato con precisione e

non aveva mai ricevuto un nome specifico che lo identificasse. Bisogna aggiungere che tuttora il

termine viene identificato anche con il nome bullying, workplace harassment, e sempre di più si

identifica con il bossing( mobbing di tipo strategico). Il suo insorgere è, secondo molti autori,

collegato direttamente al periodo di transizione economica post-taylorista.

Ma quale serie di eventi ha portato al manifestarsi del mobbing proprio in quel periodo? Si sa, le

discriminazioni nei luoghi di lavoro sono sempre esistite e non è una scoperta recente. È difficile

sostenere che ciò che è presente nell’ organizzazione sociale poi non abbia ripercussioni

nell’ambiente di lavoro. L’unica differenza oggigiorno sta nell’accresciuta sensibilità sociale

contro le discriminazioni.

Fino alla crisi degli anni ’20 e oltre, le imprese erano organizzate diversamente. L’ordine era

tenuto sotto controllo dai capo-reparto che detenevano molto potere, era a loro discrezione

assumere i lavoratori oppure no, formare la squadra, e governarla attraverso lo stretto controllo

della produzione.

Come pure i licenziamenti e la distribuzione quotidiana degli incarichi di lavoro. La

discriminazione in questo periodo era considerata la norma.

La situazione cambia in modo radicale con l’avvento del modello organizzativo inventato e

propagandato dall’ ingegnere Taylor. Con l’invenzione dell’ organizzazione tayloristica del

lavoro (OSL) si pretende di ridurre il lavoratore a semplice appendice della macchina. La sua

mansione viene semplificata e schematizzata per poterla misurare attraverso il controllo tempi e

metodi.

Bisogna dire che sicuramente provoca quell’effetto alienante che molti autori hanno criticato, però

questo metodo ha il pregio di aver eliminato del tutto, o quasi, i particolarismi e le clientele che si

erano formati. Si introducono meccanismi di controllo finalizzati all’incremento della produttività,

si eliminano i lavoratori e le forme di lavoro inefficienti, vengono standardizzate le mansioni.

Tutto ciò ha come conseguenza positiva la riduzione delle disuguaglianza, e come negativa la

riduzione delle relazioni sociali.

Negli anni ’50 e ’60 invece, grazie agli studi di E. Mayo e della scuola delle relazioni umane, si

capisce che nessuno può considerarsi estraneo alle interferenze sociali, intersoggettive, personali e

che nemmeno l’organizzazione tayloristica è riuscita a ridurre il lavoro ed il lavoratore ad una

semplice appendice della macchina. Tutte le regole introdotte con la taylorizzazione finiscono con

il trasformare, e non eliminare, le disuguaglianze. Adesso i controlli all’ingresso del mercato del

lavoro sono ferrei, e all’interno dei luoghi di lavoro le discriminazioni si vedono di meno ma

colpiscono più a fondo, hanno a che fare con convinzioni politiche, con il livello di

sindacalizzazione, e con i pre-requisiti soggettivi del lavoratore. Mayo introduce in questi anni il

concetto di relazione primaria, di solidarietà intersoggettiva, di carisma soggettivo. Questo boom

comunicativo ha l’effetto di introdurre tutte quelle forme comunicative e di controllo che

presentano caratteri negativi: la maldicenza, il pettegolezzo, il conformismo, il privilegio

sociale,etc.

In questo periodo siamo di fronte ad una tappa fondamentale del processo di apertura dei confini

dell'impresa che si trasforma lentamente da sistema chiuso, isolato dal contesto sociale, a sistema

aperto, che viene influenzato dalle molteplici sollecitazioni che provengono dall’esterno.

Vengono proposti nuovi modelli organizzativi, studi sull’importanza della leadership, emergono

nuove proposte sulla creazione di nuove tecniche di controllo e di verifica, un vero e proprio

terremoto rivoluzionario nell’organizzazione del lavoro.

Il tentativo tayloristico era di razionalizzare l'organizzazione del lavoro industriale. Si voleva

isolare l’organizzazione dalle influenze dell’ambiente esterno. Ciò che si assiste, in seguito è la

rinuncia a questo progetto con il tentativo di attuare un integrazione fra le influenze esterne e

l’organizzazione stessa. Per Mayo il primato andava assegnato alle relazioni interpersonali, per

Seltznich al principio dell'autorità carismatica e alla creatività della leadership, per Druker la

tecnica negoziale e la motivazione soggettiva; ognuno di questi modelli postula un'impresa che è

concepita come un “..sistema che si apre al mondo intero, che non resiste più alle influenze e alle

sollecitazioni che provengono dall'esterno, ma che deve cercare, per quanto possibile, di

adeguarsi progressivamente ai cambiamenti del mercato e alle trasformazioni della società.”

Giungiamo con questo alla rivoluzione organizzativa che da un trentennio a questa parte sta

tentando di relegare nel dimenticatoio il modello tayoloristico per sostituirlo con modelli

maggiormente orientati alla flessibilità e al pluralismo organizzativo. Si cerca in primo luogo di

attuare una ricomposizione delle mansioni all’interno dell’azienda, e si cerca di recuperare il

lavoratore de-professionalizzato del modello tayloristico. Purtroppo non portano a grandi risultati

e saranno immediatamente abbandonati nel momento in cui l'invenzione delle macchine a

controllo numerico e dei robot introduce nei processi produttivi metalmeccanici, e non solo in

questi, processi di ricomposizione tecnologica che hanno bisogno di differenti livelli di

professionalità.

Si produce una sorta di scrematura a livello operativo, in quanto da un lato abbiamo operai ancora

meno professionalizzati di un tempo, e dall’altra si formano tecnici molto specializzati,

indispensabili per un corretto funzionamento dell’azienda, in grado di intervenire in situazioni di

varianza e di guasto. Si evolve anche il concetto di fatica, non più così ripetitiva come un tempo(

anche se in certi settori permane tuttora), ma più stressante in termini di mansioni particolarmente

prive di qualifica. Il lavoro di fabbrica diventa in questo modo flessibile perché l'operaio,

ulteriormente de-professionalizzato, diventa fungibile più di quanto non lo fosse nel modello

organizzativo precedente. La flessibilità che viene introdotta nel lavoro di fabbrica, passa anche ad

altri settori produttivi, che normalmente non erano soliti scomporre in livelli bassi di

qualificazione i propri dipendenti. Purtroppo questo processo di de-professionalizzazione porta ad

una precarizzazione del lavoro che ben in pochi si sarebbero potuti immaginare. Dalla

parcellizzazione e standardizzazione del lavoro si è passati ad una maggior necessità di fungibilità.

Il lavoro richiede disponibilità alla mobilità, fiducia intersoggettiva, commitment nei confronti

dell’impresa, attenzione, precisione, dinamismo. Il lavoratore non necessariamente deve essere

maschio di età centrale, ma può di nuovo essere una persona qualunque. Però si torna a quella

discrezionalità e a quella fiducia, che caratterizzavano le imprese dei primi anni ’20, dove la

“mancanza di eguaglianza in termini di funzioni” provocava facilmente competitività e instabilità

della posizione lavorativa. Da questa situazione complessiva deriva il fatto che oggi torniamo a

parlare con sempre maggiore insistenza di discriminazione sui luoghi di lavoro e delle nuove

forme di discriminazione maggiormente incentrate sulla molestia psicologica. Mc Carthy (2001)

afferma che “..lo scenario economico mondiale si è trasformato, da sistema chiuso, ha aperto le

porte a all’incertezza, all’ossessione di guadagnare fette di mercato, il tutto permettendo alla

violenza del mercato libero di inserirsi nelle dinamiche interne dell’impresa. Le pressioni

generate da queste forze possono abbassare la soglia oltre la quale i dirigenti , specie quelli che

operano al limite delle proprie capacità di adottare comportamenti scorretti”.

Precariato, flessibilità, globalizzazione, multiskilling, lean management, lavoro interinale, sono i

nuovi termini che caratterizzano il mercato del lavoro odierno, molto competitivo, poco

equilibrato, estremamente dinamico.

I lavoratori si ritrovano ad affrontare ambienti lavorativi in continua trasformazione. Sono

improntati al continuo sviluppo delle proprie competenze (know-how) tramite la formazione e

l‘aggiornamento professionale cosa che obbliga i giovani, ed anche coloro che hanno una

rilevante anzianità all’interno dell’impresa, a dover combattere ogni giorno per il posto di lavoro.

Gli “anziani” sono consapevoli dei maggiori costi da sostenere per l’aggiornamento professionale

perché possiedono un background formativo di base obsoleto se confrontato con quello posseduto

oggi dalla media dei lavoratori compresi tra i 20 ed i 30 anni. I “giovani” sono più disposti a subire

determinati comportamenti vessatori, molti sono entrati in un mondo del lavoro già modificato,

precarizzato, flessibilizzato. Sono molto più inclini alla mobilità, alla de-professionalizzazione,

alla competitività. Con l’introduzione del lavoro interinale non riescono a sviluppare un

commitment emotivo, un involvement nei confronti delle organizzazioni che di volta in volta

offrono loro una occupazione. Tutto ciò instilla in loro un’aggressività a tutto campo per occupare

delle posizioni privilegiate e un’insensibilità verso le condizioni psicologiche dei propri colleghi.

Per determinati posti di lavoro è l’azienda stessa che non permette un eccessivo coinvolgimento

del lavoratore. Viene promosso un elevato turnover allo scopo di poter individuare la persona

adatta a coprire quello specifico ruolo, risparmiando notevolmente sui costi di uscita del lavoratore

“sgradito”.

Questi sono tutti esempi che ci dimostrano quanto sia cambiata la società industriale. Un elemento

fondamentale per capire il formarsi del mobbing è la competizione fra gli individui. È chiaro come

i nuovi modelli organizzativi siano maggiormente incentrati sulla competizione a tutto campo. I

lavoratori devono sapersi ritagliare il proprio spazio all’interno dell’impresa. Si creano situazioni

di tensione, e non è raro che il conflitto, inizialmente controllato, degeneri in scontro o guerra

brutale. In tali circostanze l’umano organizzativo cercherà in tutti i modi alleanze e alleati per

riuscire a sopraffare il suo o i suoi competitori. È molto facile superare la sottile linea di

demarcazione tra una sana e fisiologica competizione e il manifestarsi di una situazione di over

competition. In tutte le condizioni di eccessiva competitività si creano delle vittime che pagano,

come minimo, in termini di qualità del lavoro.

L’eccessivo carico di lavoro, il sottoutilizzo di skill, lo stile manageriale, il clima organizzativo,

l’insicurezza del lavoro, la mancanza di opportunità di crescita, e le condizioni ambientali,

costituiscono premesse forti che possono favorire il manifestarsi del mobbing .

Zapf ( 1999) sostiene che il clima organizzativo, un alto livello di di-stress (stress distruttivo), e

generici problemi a livello organizzativo sono tra le più frequenti cause di mobbing dal punto di

vista della vittima. Il mobbing difatti è un problema prima organizzativo che individuale. Sono

luoghi nei quali può nascere il disturbo, il disagio, un conflitto distruttivo.

Queste sono alcune circostanze organizzative che possono avere un impatto sul numero totale dei

conflitti sul luogo di lavoro:

• Difetti nella gestione del personale

• Scarso livello etico dell’azienda

• Richiesta di prestazioni sempre più elevate

• Discriminazioni per “diversità”

• Scadenti capacità di risoluzione dei conflitti da parte del management

.

Va distinto nell’ultimo caso il conflitto fisiologico da quello patologico. Il primo risulta

costruttivo, portatore di spinte migliorative all’interno di un organizzazione. Il secondo determina

diminuzione della produttività, abbassamento morale dei lavoratori, innesco a catena di altri

conflitti, reazioni inappropriate da parte degli attori coinvolti.

Le analisi effettuate da Zapf dimostrano che sono soprattutto i difetti nella gestione del personale a

far aumentare il rischio di mobbing. Nelle organizzazioni di ogni tipo, in genere ciascun individuo

dovrebbe avere la possibilità di ricoprire ruoli e funzioni chiare, riconosciute, incontrovertibili.

Spesso ciò non accade perché l’organizzazione non intende riconoscere in pieno certi ruoli, o

perché non è sicura della propria scelta o perché potrebbero essere provvisori. Questo crea

confusione nella mente del lavoratore, provocando facilmente di-stress, tensione con i colleghi,

aumentando la probabilità che il lavoratore sfoghi le proprie ansie contro il prossimo, con

conseguente rischio di mobbing se lo scopo risulta essere quello di estromettere il collega

dall’azienda. Due sono i fattori organizzativi che possono creare più di frequente situazioni di

questo tipo:

• l’ambiguità di ruolo

• conflitto di ruolo

Si ha ambiguità di ruolo quando l’insieme delle mansioni e dei compiti che riguardano uno

specifico ruolo non sono sufficientemente chiari. Si è invece in presenza di conflitto di ruolo

quando le richieste di uno o più superiori risultano contraddittorie. Queste sono in stretta

correlazione con il cosiddetto contratto psicologico, ossia la percezione di ciò che l’individuo

ritiene gli debba essere corrisposto dall’organizzazione, quindi sulle aspettative, e di ciò che egli

ritiene possa offrire, quindi sul proprio senso di auto efficacia. Risulterà chiaro come una non-

chiarezza sul ruolo da svolgere o una sua contraddittorietà, possono favorire in lui sentimenti

ostili, fino alla rottura del contratto stesso. Se l’organizzazione non mantiene le promesse,

l’individuo cambia la propria percezione del clima organizzativo ed aumenta la probabilità che

possa sviluppare rancore nei confronti di chiunque, e possano accadere eventi di mobbing.

È dunque la dimensione organizzativa, nelle sue varie sfaccettature, ad avere un ruolo

probabilmente prevalente nella genesi del mobbing. La ricerca in questo campo non ha ancora

raggiunto una adeguata massa critica per il fatto di aver posto l’attenzione più sul piano

giurisprudenziale-psicologico-medico, sotto un ‘ottica più curativa che preventiva.

3.3 Fattori micro: le culture micro-sociali e le identità individuali

Zapf, uno dei maggiori esponenti della scuola Leymanniana, propone quattro concause

nell’escalation conflittuale che caratterizza il mobbing:

• può esserci una persona con una tendenza o una predisposizione a usare violenza sugli altri

(caratteristiche individuali imputati al mobber);

• per l’aggressore potrebbe essere più facile usare violenza sul membro di un outgroup, per

l’incapacità di quest’ultimo di sapersi integrare nel gruppo (caratteristiche del mobbizzato come

causa di mobbing);

• l’accadere del mobbing può essere supportato da tensioni nel gruppo di lavoro, per le quali fa

comodo un capro espiatorio per allentare la tensione intra-gruppo;

• può essere facile sopraffare qualcuno se le condizioni lavorative lo permettono. Condizioni

di lavoro inadeguate possono portare i lavoratore a sbagliare (organizzazione come causa di

mobbing).

Le prime due ipotesi si possono far discendere dalla psicologia dei tratti e si focalizzano sulle

caratteristiche psicologiche degli individui; le ultime due si focalizzano invece sulle caratteristiche

della situazione. Alcuni fattori, secondo Favretto, contribuiscono soprattutto all’emergere dei

conflitti: le condizioni organizzative, l’accettazione della violenza e del sopruso come qualcosa di

fisiologico da accettare in quanto espressione della competitività, e in ultima analisi la

cristallizzazione di culture e di sottoculture nei luoghi di lavoro. Vi sono poi altri fattori che

contribuiscono soprattutto alla sua intensificazione: caratteristiche psicologiche degli attori

coinvolti, tratti di personalità, stili individuali, ecc.

Le organizzazioni sono naturalmente e fisiologicamente portatrici e generatrici di culture. Dentro a

una qualsiasi organizzazione umana, si generano movimenti che si identificano in un gruppo,

conseguentemente vi sono tendenze a configurare dei ruoli, dei riti e dei micro-valori. In sostanza

si formano delle micro-culture all’interno di ogni azienda.

Differenze culturali, fisiologiche, ma anche comportamentali, possono offrire un terreno fertile

alle azioni che si identificano con il mobbing.

Fischer (1994) definisce la cultura organizzativa come: “l’insieme di assunti di base che un certo

gruppo ha inventato, scoperto e sviluppato quando è riuscito a far fronte ai suoi problemi di

adattamento esterno o di integrazione interna. Tali assunti, che sono rivelati validi, vengono

acquisiti e trasmessi ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare, sentire quei

problemi”. La cultura organizzativa, in genere, viene differenziata e articolata al suo interno.

L’assegnazione di ruoli isolati o di posizioni specifiche che permettano una prossimità fisica o

psicologica tra determinati individui rispetto ad altri, conduce alla nascita di controculture e

sottoculture. Le prime si contrappongono nettamente alla cultura predominante, proponendo forme

e strutture organizzative realmente alternative basate su modelli e valori autonomi; le seconde

rappresentano una pseudo-opposizione, nel senso che spesso si limitano a riproporre sotto forme

diverse le medesime strutture organizzative. Ogni ufficio, ogni comparto, e di conseguenza ogni

gruppo è produttore di una propria specifica cultura, possiede cioè valori e punti di vista che le

sono proprie. In alcuni casi il confronto fra vari gruppi può portare a forme di contrasto e di

conflitto, sia tra singoli appartenenti ai diversi gruppi, sia a livello di collettività. Leymann

annovera tra le cause del conflitto che possono portare al mobbing , la dinamica sociale del gruppo

di lavoro, sostenendo che un gruppo di lavoro, se sottoposto a forti pressioni e a richieste

insostenibili di esecuzioni dei compiti, tende a sviluppare maggiori conflitti rispetto a un gruppo

non sollecitato in tal senso.

Il gruppo non appena sente una minaccia al suo equilibrio, reagisce rinforzando le regole, ed

eventualmente cercando un capro espiatorio. È forte la tendenza ad escludere i membri che non si

adeguano alle regole interne, soprattutto nel caso di sottoculture e controculture. Vi è sempre, o

quasi sempre la tendenza a favorire l’ingroup (il proprio gruppo). Una delle spiegazioni possibili è

data dalla “Teoria del cambiamento sociale” (Tajfel, 1981), che enuncia l’estrema difficoltà da

parte dell’individuo di spostarsi da un gruppo all’altro, tale difficoltà è maggiore quando vi siano

conflitti tra gruppi. Passare da un gruppo all’altro nella maggioranza dei casi comporta

elevatissimi costi in termini individuali, relazionali, e di gruppo. Sulla base di queste prospettive il

mobbing può essere disegnato come un fenomeno di dialettica tra culture, sottoculture e

controculture e, allo stesso modo, l’azione mobbizzante viene svolta dal mobber come membro di

una cultura in confronto o in scontro con individui marcati dall’appartenenza ad altre sotto o

controculture, e all’interno della stessa cultura (Favretto, 2005). A volte è persino il gruppo stesso

che si muove nei confronti del singolo, visto come elemento di ostilità. Possedere elementi,

caratteristiche diverse da quelle del gruppo possono alimentare odio, invidia, rancore, creando

rivalità e tensioni che sfociano in veri e propri boicottaggi ai danni dell’individuo.

Individuo che ha la possibilità di reagire e contrattaccare oppure può tenere un comportamento

remissivo e distaccato a seconda degli schemi mentali che mette in atto .

Può essere utile in questo caso uno studio di Walter. Egli a differenza di molti autori prende in

considerazione i caratteri soggettivi dell’individuo. Egli afferma che vi possono essere tre stati

dell’Io (Io inteso come soggetto). Ogni persona può riconoscersi in uno di questi tre stati quando si

rapporta con le altre persone. 1)Stato del genitore-Io: il nostro modo di pensare e di agire e

condizionato in parte dagli schemi mentali appresi durante la nostra infanzia, quando i nostri

genitori, o altre persone importanti ci hanno fatto da modello. 2) Stato dell’Io: in questo stadio

siamo capaci di giudicare l’ambiente circostante, tramite parametri logici e obiettivi che abbiamo

appreso durante il corso della vita, sulla base della nostra esperienza. Abbiamo appreso la capacità

di oggettività.3) Stato del bambino-Io. Si annullano tutte le nostre sicurezze, ci assillano paure,

dubbi, speranze, preoccupazioni, desideri. Secondo Walter (1993), i conflitti si creano quando le

persone coinvolte si trovano su diversi livelli dell’Io: in questo modo, la valutazione delle

situazioni che si presentano nella realtà risulta diversa da persona a persona e difficilmente si

riesce a trovare una base comune di intesa.

Il mobbizzato è riconducibile caratterialmente allo stato del bambino-Io. Infatti, se fosse un

genitore-Io, sarebbe anche lui convinto, come il mobber, di essere nel giusto e la condizione di

equilibrio così creatosi escluderebbe a priori la presenza di mobbing. Solo se si trova nella

situazione del bambino- Io, la persona che è attaccata dall’aggressore cade nel ruolo della vittima:

egli infatti non cerca via di uscita sottomettendosi né affronta mai realmente la situazione, non

essendo in grado di percepirla e comprenderla a fondo. I fattori stressanti sono costituiti da singoli

avvenimenti separati, ma non solo: anche da circostanze che possono avvenire

contemporaneamente. Gli indicatori di stress assumono peso e consistenza diversa a seconda della

persona che li subisce. Sono scale di misure soggettive, che non possono indicare in modo

obiettivo la situazione.

Walter sostiene che affinché si verifichi un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro, si deve

dare la possibilità all’individuo di soddisfare i suoi desideri, materiali ed immateriali. In molti casi

questo non avviene, per cui si crea una sentimento di malessere nei confronti del proprio impiego.

Secondo l’autore, sono proprio quelli che chiama micro-conflitti a determinare quel sentimento di

frustrazione e risentimento. Ne individua quindici: 1) insicurezza del posto di lavoro; 2) mancanza

di riconoscimento, di sostegno e di possibilità di promozioni; 3) fine della carriera; 4) mancanza di

riposo; 5) determinazione, controllo e sorveglianza esterni; 6) intrighi e reticenza di informazioni;

7) conflitti con il superiore; 8) conflitti con i colleghi, simpatie e antipatie; 9) concorrenza tra

colleghi; 10) compiti oscuri ed incongruenti; 11) noia e monotonia del lavoro; 12) richieste

eccessive o insufficienti; 13) pressione causata da responsabilità non proprie; 14) isolamento sul

lavoro e nella vita privata; 15) mancanza di identificazione con l’azienda ed i suoi scopi (Walter,

1993). Questi micro- conflitti se possono si mantengono entro certi limiti. Non è detto che il

conflitto debba essere per forza di cose patologico. Un buon conflitto fisiologico è naturale, anzi

deve essere promosso dall’azienda per il buon funzionamento dell’organizzazione. Se però supera

una certa soglia e mina in maniera grave e continuativa, sia le relazioni interpersonali, quindi il

clima organizzativo, sia i processi produttivi o di erogazione dei servizi, sia l’equilibrio psico-

fisico della persona non risulta più accettabile.

Capitolo 4: Gli effetti del mobbing

4.1 Conseguenze per la vittima

Per analizzare le conseguenze dei disagi lavorativi bisogna guardare in modo attento il contesto in

cui si è verificata l’azione sia dal versante delle dinamiche relazionali sia nella tipologia del

contesto lavorativo, dei rischi potenziali che esso nasconde. Un’attenta “analisi dello scenario” nei

casi di sospetto mobbing, dovrebbe riguardare la vittima delle vessazioni (il mobbizzato), l’autore

delle azioni mobbizzanti (il mobber) e le relazioni interpersonali che si sono venute a creare

all’interno dei rapporti lavorativi fra colleghi. Bisogna esaminare il contesto aziendale, attraverso

l’analisi delle culture organizzative e del contesto economico delle organizzazioni, per capire se il

mobbing può essere conseguenza di problemi economici o di gestione del personale.

Per la vittima, il mobbing significa danni finanziari, spesso di entità considerevole (pensiamo alle

costose visite mediche specialistiche e alle sedute psicanalitiche, oltre alla scomparsa della

regolare entrata mensile dello stipendio nei casi in cui il mobbing sfocia nella perdita del posto di

lavoro) e danni di tipo sociale (cioè il crollo della sua immagine sociale e la perdita di colleghi, di

collaboratori o di amici che non sopportano più l’umore depressivo della vittima o del partner). Si

tratta di conseguenze dolorose ma nello stesso tempo comprensibili. Le conseguenze delle

violenze psicologiche sul posto di lavoro producono effetti patologici, sia ai singoli lavoratori sia

all’interno delle relazioni interpersonali dei gruppi di lavoro.

Per il lavoratore, che ha subito comportamenti mobbizzanti, le conseguenze sono di tre tipi:

psicologico, relazionale ed economico (Ascenzi e Bergagio, 2000).

Dal punto di vista psicologico è facile ipotizzare le conseguenze devastanti derivanti dalle

situazioni di mobbing. Il lavoro, nella nostra società, è fonte di realizzazione personale in quanto

elemento fondamentale di autonomia personale e di gratificazione. Per molte vittime il lavoro è

percepito come un modo di essere e di esistere. Quando sorgono problemi sul posto di lavoro,

conseguenti a questo fenomeno, si determina un calo dell’autostima e un senso di colpa. I

problemi relazionali, riguardano l’esterno dell’ambiente lavorativo. Il mobbizzato, già provato nei

suoi rapporti relazionali con i propri colleghi, tende a ritirarsi ed isolarsi anche nei rapporti

familiari. Tutto ciò sembrerebbe essere tipico dei paesi mediterranei dove il legame familiare è

molto sentito ed il legame emotivo tra i diversi membri della famiglia può costituire, all’inizio del

mobbing, un vantaggio perché l’interessato può scaricarvi le sue frustrazioni e ricevere

incoraggiamento e sostegno. Come già si evidenziava nel paragrafo precedente alla lunga le

famiglie dei mobbizzzati non riescono a sostenere psicologicamente la vittima che diventa una

minaccia per l’integrità e la salute del nucleo familiare, e con il progredire del mobbing si può

arrivare a separazioni o divorzi all’interno delle famiglie dei mobbizzati. In letteratura, come già

evidenziato, questo fenomeno si definisce “doppio mobbing” (Ege, 1998). Inoltre, in alcune

famiglie, la perdita del posto di lavoro equivale anche alla perdita inevitabile di rapporti extra-

familiari portando anche ad un impoverimento dell’individuo (Ascenzi e Bergagio, 2000).

Gli autori, Ege, Menelao, Della Porta, hanno rilevato un sistema di sintomi psicosomatici

conseguenti al mobbing. Le patologie riscontrate sono a carico dell’apparato digerente,

dell’apparato respiratorio, degli arti, del cuore, degli occhi, della testa, della pelle e del sistema

immunitario.

Sintomi da pressione psicologica. Il mal di testa è un sintomo comune in casi di stress, per cui è

ugualmente ricorrente nelle situazioni critiche dovute al mobbing. In particolare, è una reazione

fisica alla pressione psicologica esercitata dai mobber e dall’ambiente stesso, spesso confusa con il

rumore, o il fumo, o l’aria viziata. Una persona sensibile accusa di frequente anche capogiri e

disturbi all’equilibrio. La causa è ancora la pressione psicologica da stress. In alcuni soggetti si

può arrivare fino agli svenimenti, spesso con conseguenze ancora peggiori per il mobbizzato. Gli

aggressori, infatti, hanno ulteriori occasioni per accusare la loro vittima di essere troppo debole e

quindi inadatta a ricoprire il suo posto di lavoro (Ege 1996).

Difficoltà nelle funzioni intellettuali. Molto sintomatico è l’annebbiamento improvviso e

temporaneo della vista, che causa al soggetto una chiara difficoltà nello svolgere il suo lavoro.

Qualsiasi tipo di esame clinico in questo senso darà risultato negativo: non c’è infatti nessuna

causa fisica che disturba la vista, ma tutto è dovuto all’azione che lo stress esercita sul sistema

nervoso della vittima. A queste si possono aggiungere difficoltà di memoria o di concentrazione

che si evidenziano attraverso episodi flagranti: si esce di casa senza chiavi, ci si dimentica dove è

posteggiata la macchina, si sta ore sulla stessa pagina. Questi sono chiari segni di esaurimento

psichico. La cura sarebbe il riposo, soprattutto mentale, lontano dall’ambiente di lavoro. Il

mobbizzato ha perso ormai ogni diritto, tanto più quello al riposo (Ege, 1996).

Disturbi del sonno. Si sa che il sonno riduce i conflitti quotidiani, i dispiaceri, ridandoci l’energia

per ricominciare le nostre fatiche ogni giorno. Quanto sarebbe importante per una vittima

riacquistare il riequilibrio naturale di cui ha bisogno più di ogni altra cosa attraverso il sonno,

eppure la tensione gli causa insonnia, incubi, interruzioni del sonno, risvegli anticipati. Questo

succede perchè i problemi di lavoro lo assillano fino a tarda notte e gli impediscono di staccarsi

dalla situazione dell’ufficio (Ege,1996).

Problemi delle funzioni gastriche e digestive. La gastrite ed i bruciori di stomaco sono altri

effetti tipici dello stress, applicabili anche allo stress provocato dal mobbing. Inappetenza, nausea

e vomito sono ugualmente frequenti e assalgono la vittima nei momenti più imbarazzanti, spesso

fornendo ai mobber ulteriori opportunità di pettegolezzo. Nei casi peggiori si può arrivare anche a

patologie intestinali, spesso con danni anche molto gravi alla salute (Ege, 1996).

Dolori muscolari. Spesso si manifestano in soggetti già predisposti per questo malessere, i loro

mali si acuiscono anche in modo molto doloroso in seguito alla somatizzazione della tensione da

mobbing. Dolori alla schiena, cervicali, reumatismi, spesso non sono dovuti al tempo

meteorologico, come si crede, ma vanno considerati in modo più profondo e globale (Menelao,

Della Porta, Rindonone, 2001).

Sintomi di nervosismo. Possono essere causati anche dal solo pensiero di ritornare nell’ambiente

pesante dell’ufficio o del reparto e di rivedere le facce dei consueti aguzzini, oppure dalla paura di

essere rimproverati, o addirittura licenziati, a seguito di errori compiuti sotto pressione o di cui si è

stati ingiustamente accusati dai mobber. Ognuno reagisce a suo modo. Si registrano palpitazioni,

difficoltà respiratorie, pressioni sul petto, sudori improvvisi, agitazione generale, tensione nervosa,

irrequietezza costante anche in assenza di situazioni critiche e disturbi di ansia. L’ansia insorge in

occasione della percezione individuale di un pericolo in modo naturale, come una funzione

adattiva dell’organismo, ma può divenire patologica quando l’individuo non riesce più a compiere

delle azioni normali e vivere la quotidianità come ha sempre fatto fino a quel momento (Menelao,

Della Porta, Rindonone, 2001). In questo caso l’ansia si manifesta con atteggiamenti di “lotta e

fuga” dal lavoro per sottrarsi alla situazione ansiogena. A volte si possono avere invece reazioni

aggressive ed esagerate, che hanno il risultato di causare imbarazzo nella vittima e negli altri, e

che generalmente portano ad ulteriori recrudescenze nei suoi confronti che appare effettivamente

meritare la situazione in cui si trova. La vittima che presenta questi sintomi, infatti, viene accusata

di essere troppo nervosa, intrattabile, maleducata, di non sapere affrontare le situazioni con la

calma e la professionalità dovute. Spesso chi l’accusa in questo senso non è nemmeno il mobber,

ma un superiore, ignaro di tutto, che nota obiettivamente le sue reazioni inconsulte. In questo

modo l’aggressore avrà gioco facile nell’allargare la sua azione distruttiva, coinvolgendo in essa

anche i vertici aziendali.

Manifestazioni depressive. Il sentirsi abbattuti, sconfitti senza un futuro in casi di mobbing non è

solo dovuto a fantasmi della mente, ma è una reazione a qualcosa che davvero esiste: il mobber in

effetti sta togliendo la terra da sotto i piedi del mobbizzato che, pur percependolo, non riesce ad

evitarlo. La vittima scoppia in lacrime senza motivo, si mostra apatica e pessimista: è il tunnel

della depressione, da cui bisognerebbe guardarsi, e che fa tanto piacere al mobber. Generalmente

con il termine depressione si intende un disturbo psichico di tipo affettivo che investe l’umore del

soggetto. Il vissuto depressivo può essere una reazione ai problemi professionali e lavorativi.

Generalmente i sintomi descritti sono inerenti al disturbo di adattamento che si manifesta in

un’ansia generalizzata, depressione, alterazione della condotta con manifestazione di disturbi

somatoformi. Nei casi più gravi gli stati depressivi portano a dipendenza da alcool, da tabacco,

dall’uso di droga. In alcuni casi lo stato di depressione può giungere fino al suicidio o all’omicidio

(Ege, 1996). In Svezia si calcola che la percentuale dei suicidi è tra il 10-15% conseguente ai

disagi lavorativi. In Italia la percentuale dei suicidi dovuti ai problemi sul posto di lavoro è del

13% (Gilioli, 2000). In uno studio si è dimostrato che le violenze psicologiche sul posto di lavoro

portano l’individuo a commettere reati criminali. Questi reati vengono commessi per collera,

infrazioni, reazioni violente, aggressività o eccessi di difesa (Ascenzi e Bergagio, 2000). Spesso la

depressione non è soltanto psichica, ma anche fisica: la vittima si sente senza energie e senza

motivazione. Sul versante psichico porta insicurezza e sviluppa mille paure: di fallire, di agire, di

vivere, solitudine e sopraffazione di un mondo vissuto come ostile cosa che, purtroppo, non è

troppo lontano dalla realtà. La vittima è davvero principalmente sola di fronte a tutto e tale si

sente. Per questo motivo la terapia più comune a cui spesso ricorre è quella psicanalitica o

psichiatrica.

Nei casi più gravi, solitamente quando la situazione di mobbing è legata ad un infortunio sul

lavoro, si può manifestare un disturbo più grave conosciuto come disturbo post-traumatico da

stress. L’evento traumatico viene vissuto persistentemente in uno (o più) dei seguenti modi: 1)

ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri, o

percezioni; 2) sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento; 3) agire o sentire come se l’evento

traumatico si stesse ripresentando (sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni); 4)

disagio psicologico intenso durante l’esposizione a fattori scatenanti interni ed esterni che

simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico. Il disturbo causa disagio

clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree

importanti. (Menelao, Della Porta, Rindonone, 2001). Questo disturbo è raramente una

conseguenza di mobbing in quanto più facilmente i lavoratori che si ammalano sviluppano un

disturbo di adattamento. Alcuni fattori predispongono lo sviluppo del disturbo post-traumatico da

stress: 1) la vulnerabilità genetico-costituzionale alle malattie psichiatriche; 2) le esperienze

negative o traumatiche nell’infanzia; 3) certe caratteristiche di personalità; 4) recenti stress o

cambiamenti esistenziali; 5) un sistema di supporto compromesso o inadeguato; 6) un grave e

recente abuso di alcol; 7) la percezione che il controllo è esterno invece che interno (Menelao,

Della Porta, Rindonone, 2001).

Secondo una ricerca condotta dalla Clinica del Lavoro di Milano, nel 1999, circa un quinto delle

vittime di mobbing ha sofferto di disturbo traumatico da stress (Gilioli, 2000).

Esiste naturalmente una notevole differenza individuale alle azioni da mobbing che viene

determinata dalla frequenza e la durata delle azioni vessatorie e la soglia di reazione individuale.

Per quanto riguarda i problemi economici, anche in questo caso è facile ipotizzare le conseguenze

devastanti che si vengono a creare quando viene a mancare il reddito e contemporaneamente si

devono spendere soldi per le visite mediche e le consulenze legali, e quando magari si sperimenta

la difficoltà nel reinserirsi in un nuovo ambiente lavorativo, con la conseguenza della possibilità

di diventare un disoccupato cronico.

4.2 Le conseguenze per l’azienda

Il mobbing produce effetti negativi alle aziende, in quanto determina conseguenze dirette

all’interno del gruppo di lavoro. Sul posto di lavoro si creano riduzioni della capacità produttiva e

dell’efficienza lavorativa, critiche nei confronti del datore di lavoro, elevati tassi di assenteismo

per malattia, tendenze ad ingigantire i piccoli problemi, la continua ricerca di capri espiatori.

La capacità e la rapidità del gruppo di lavoro è direttamente proporzionale alla capacità di gestire

il conflitto da parte del datore di lavoro. I costi per l’azienda in cui si verificano casi di mobbing

sono altissimi, purtroppo però sembra non vengano adeguatamente tenuti in considerazione dagli

addetti alla Direzione. Tutto ciò è derivato dall’aumento delle assenze per malattia, dalle

sostituzioni, dai prepensionamenti e dalle vertenze. Si calcola che le prestazioni lavorative di un

soggetto, vittima di mobbing, calino del 60%, in termini di produttività ed efficienza. Il costo per

l’azienda è del 180% in più (Menelao, Della Porta, Rindonone, 2001). In alcune ricerche effettuate

in Germania, sarebbe stato riscontrato che il costo diretto del mobbing nelle aziende di 1000

dipendenti si aggirerebbe intorno ai 168.000 dollari (Ege, 1996). Dalle ricerche statistiche emerge

che un lavoratore sottoposto a vessazioni costa alle aziende tedesche in un anno tra i 50 e i 150 di

ex milioni di lire (Ascenzi e Bergagio, 2000). Questa cifra è dovuta alle assenze per malattia, al

minor rendimento e al calo di efficienza lavorativa (Gilioli, 2000).

Negli Stati Uniti, nella metà degli anni ’90, i costi per il mobbing ammontavano a più di 4 miliardi

di dollari. In Svizzera, invece, a circa 2 milioni di franchi (Gilioli, 2000).

Da tutto ciò emerge l’esigenza da parte delle aziende di attuare una gestione più efficace ed

efficiente delle risorse umane nei luoghi di lavoro. In tutto il mondo si stanno realizzando

esperienze positive nelle aziende. Allo scopo di prevenire i costi del mobbing, in Germania la casa

automobilistica Volkswagen ha sottoscritto un accordo con il sindacato, che prevede la presenza

nell’azienda di un esperto a cui tutti i lavoratori si possono rivolgere. Questi può intervenire

mettendo in atto provvedimenti, trasferimenti, ecc. (Ascenzi e Bergagio, 2000). In Australia, a

causa del costo elevato a carico delle aziende, è stato proposto di rendere obbligatorio per le

direzioni del personale di effettuare inchieste specifiche in tutti i casi di disagio lavorativo.

Attraverso ciò forse sarà possibile, per i datori di lavoro, modificare la gestione lavorativa e si

potranno migliorare i rapporti sociali interni (Ascenzi e Bergagio, 2000).

L’entità del danno economico dell’azienda varia a seconda del numero e dell’accanimento dei

mobber, dato che ognuno di essi spende nell’azione distruttiva il tempo lavorativo regolarmente

retribuito ed ogni azione di sabotaggio va a danno non solo della vittima ma anche della ditta.

L’azione del mobber è considerata una conseguenza indiretta del mobbing che un’azienda subisce:

perché provoca gravi danni, arrivando a compiere spesso sabotaggi che danneggiano l’azienda

prima ancora della vittima, o inducono la vittima a compiere degli errori, anche questi costosi per

la ditta, dedicando tra il 5 ed il 10% del suo tempo lavorativo alla progettazione ed esecuzione

delle azioni mobbizzanti.

La vittima può essere costretta a periodi più o meno lunghi di malattia in cui l’azienda deve pagare

un suo sostituto e questo è uno degli effetti diretti del mobbing che l’azienda subisce poiché deve

continuare a sostenere economicamente il 100% della paga del mobbizzato e del mobber ed in più

deve aggiungere il costo per il sostituto. Se il mobbing è lasciato diffondersi indisturbato, esso può

giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro,

causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre nuova

formazione. Nel caso in cui il lavoratore mobbizzato abbia subito un danno permanente alla sua

capacità lavorativa, stabilito da perizie medico legali, egli può citare in giudizio l’azienda stessa,

che in caso di perdita della causa può essere costretta a risarcirlo con somme di denaro anche

ingenti. I costi del mobbing si ripercuotono poi sull’intera società: un mobbizzato è di solito pre-

pensionato invalidato dal lavoro e secondo stime statistiche, un lavoratore costretto alla pensione a

soli 40 anni costa già 1 miliardo e 200 milioni di vecchie lire in più rispetto ad uno pensionato

all’età prevista (Ege,1998).

E’ auspicabile nel prossimo futuro che “l’azienda-macchina” si trasformi ben presto in “azienda-

essere vivente” (Menelao, Della Porta, Rindonone, 2001). Nell’”azienda-essere vivente” l’impresa

può adeguarsi ai continui cambiamenti dovuti alla trasformazione economica, rendendo così

possibile una distribuzione di creatività, di comunicazione e di processi decisionali circolari.

E’ evidente che le caratteristiche di questo tipo di impresa sono in antitesi a quelle in cui si verifica

il mobbing.

Riepilogando, i costi organizzativi sono identificabili in:

• Assenza per malattie

• Pre-pensionamento

• Costi di rimpiazzo: Reclutamento, selezione, training , mentoring e coaching.

• Performance/ produttività ridotta ( mancanza di valore aggiunto al prodotto o servizio);

• Perdita d’immagine e reputazione.

Leymann ha stimato (1990) che ogni vittima di mobbing produce un costo all’organizzazione che

può variare da 30000 € a 100000 € all’anno.

Kivimaki et al. (2000) in uno studio su due ospedali finnici riscontrò che i mobbizzati avevano il

26% in più di assenze certificate da malattia di chi invece non lo era. Su questa base, fu stimato un

costo annuale di assenza da mobbing pari a 195000 € circa.

Hoel e Cooper ( 2000) , con l’utilizzo di un metodo deduttivo fecero un indagine allo scopo di dare

una stima quantitativa dei costi che sostiene un impresa per il mobbing. Questo studio fu effettuato

in Gran Bretagna , utilizzando dati nazionali che riguardavano il 1998. In Gran Bretagna i tassi di

assenteismo dovuti al mobbing erano del 10% nel 1998, un quarto dei quali si dichiarò mobbizzato

negli ultimi 5 anni. Comparando i dati assenteistici dovuti a malattia, tra chi si sosteneva

mobbizzato e chi no, fu riscontrato una percentuale di assenteismo di 7 giorni lavorativi in più dei

cosiddetti mobbizzati. Basandosi su questi dati, i due autori hanno dedotto che si perdono in media

(in Gran Bretagna) 18 milioni di giorni lavorativi ( su una forza lavoro composta di 24 milioni di

persone ) all’anno. Il costo per assenza è di 56 £ al giorno ( pari a 69 € circa) per individuo. Il

costo totale annuale sale a 1,5 miliardi £ ( pari a circa 1,857 miliardi € l’anno). In media un quarto

dei mobbizzati ( 25%) decide di lasciare l’organizzazione. Le stime sui costi di

rimpiazzamento possono variare da impresa a impresa e da mansione a mansione. Una media

molto approssimativa di determinati costi è di 1900 £ ( 2352 € circa). Basandosi su una

percentuale del 10% di mobbizzati sul totale dei lavoratori, sono circa 600000 le persone che

lasceranno il proprio lavoro per motivi dovuti al mobbing. Siccome è ampiamente dimostrato che

non tutti lasceranno il loro lavoro subito, questo numero andrà ridotto di molto. Se si riduce la

stima di un terzo, passando a 200000 persone come stima conservativa, il costo totale di rimpiazzo

sarà di 380 milioni £ ( 470 milioni e mezzo di € circa ). In Italia uno studio di questo tipo non è

stato ancora effettuato per la scarsa attenzione data al fenomeno da parte di Confindustria e le

aziende in generale.

Passando alla valutazione dei dati di produttività e di performance, veniva chiesto a determinati

intervistati di valutare in percentuale la propria performance rispetto a un massimo del 100%.

Dalle indagini chi si dichiarava mobbizzato affermava una perdita produttiva del 7% rispetto ai

non-mobbizzati. Essendo questi dati basati sulle autocertificazioni, sono molto incerti e risulta

quindi impossibile quantificare correttamente la perdita di produttività associata al mobbing.

Facendo il totale dei costi si ha:

Assenza da malattia associata al mobbing £ 1,5 miliardi

Costi di rimpiazzamento £ 380 milioni

Perdita di produttività £ ? ? ? ? ? ? ?

Costi totali £ 1,880 miliardi

( € 2,328 miliardi)

Sulla base di un caso tipico aziendale di mobbing sul posto di lavoro in un azienda Britannica (

Hoel et al.2003) furono calcolati per l’organizzazione i seguenti costi:

Oltre ai danni economici, spese legali da affrontare, ci possono essere nelle aziende altri possibili

effetti collaterali del mobbing, quali ad esempio i danni di immagine relativi alla comparsa sui

mass-media della notizia che all’interno di quell’impresa si sono verificati casi di mobbing.

Evitare e combattere il mobbing non va solo a vantaggio della vittima (per cui le conseguenze

sono comunque più gravi) ma anche del suo datore di lavoro e dell’intera società civile, dato che

ha effetti ampiamente distruttivi, complicati dal fatto che scarse e tortuose sono le possibilità di

difesa. Si tratta di una materia delicatissima, in cui la legislazione è scarsa ed ambigua ed il

“confine tra lecito esercizio del comando ed il puro arbitrio aggressivo è più impalpabile che

mai” (Gilioli, 2000:146). E’ d’importanza cruciale definire i ruoli di intervento su questa difficile

problematica. L’azione dei sindacati è fondamentale per quanto riguarda l’informazione, la

divulgazione e la raccolta dei casi di mobbing, nonché la messa a punto di strategie sindacali di

intervento.

Assenza £ 6972

Costi di rimpiazzo £ 7500

Produttività ridotta *

Costi legali £ 2110

Tempo impiegato dai Local management e Line-management £ 1847

Tempo impiegato dai Corporate officers ( incluso staff welfare) £ 2600

Costo dei processi disciplinari ( lamentele/sollecitazioni) £ 2100

Costi di testimonianza £ 3780

Trasferimenti 0

Litigio * ( 0)

Effetti su coloro coinvolti indirettamente *

Effetti misti ( effetti sulle pubbliche relazioni,etc..) *

Costi totali ( al minimo) £ 28109

( € 34812 )

* incerto o impossibile da stimare

4.3 Le conseguenze per la società

Il mobbing danneggia gravemente la società stessa. Se un mobbizzato è costretto a protratte

assenze per malattia, l’Inps, ente statale e quindi finanziato dalla comunità, eroga denaro

all’azienda affinché questa persona sia regolarmente retribuita. Anche la Asl, sempre statale,

contribuisce alle spese per le visite mediche, le analisi, le terapie e gli eventuali interventi di altro

genere necessari allo stato di salute della vittima di mobbing. Infine l’I.N.A.I.L., statale, interviene

nell’accertamento del mobbing in quanto malattia professionale attraverso l’anamnesi lavorativa

pregressa e attuale, l’anamnesi fisiologica, l’anamnesi patologica remota e prossima, l’esame

obiettivo completo, le indagini neuropsichiatriche, i test psicodiagnostici, e la diagnosi medico-

legale. Per quanto riguarda il danno biologico permanente la circolare dell’I.N.A.I.L. prevede tra

le menomazioni delle voci relative al solo disturbo post-traumatico da stress di grado moderato o

severo.

Per lo Stato il fenomeno mobbing ha gravi conseguenze, che vanno ad interessare diverse voci del

bilancio complessivo come la spesa sanitaria e i prepensionamenti. Per la prevenzione è necessaria

innanzi tutto un’azione volta ad evitarlo. In alcuni stati della Comunità Europea, dove il fenomeno

è stato studiato da più tempo e dove si è provveduto a porre in essere leggi ad hoc, le aziende

considerano la “risorsa umana” non solo come espressione astratta, ma come un insieme di

individui forniti d'intelligenza ed emozioni e inseriti in relazione gli uni con gli altri. Ed è proprio

l’attenzione a queste interazioni che determina la qualità psicologica dell’ambiente di lavoro, che a

sua volta determina l’insorgenza o meno di fenomeni quali il mobbing (Menelao, Della Porta,

Rindonone, 2001).

In Germania il mobbing ha portato ad un interesse sempre crescente dei sindacati da una parte e

del servizio sanitario dall’altra, che si sono dotati di strumenti per la diagnosi e la cura del

mobbing e generalmente sono in grado di offrire un servizio di assistenza completo per le vittime,

che comprende sia terapie psicologiche che cure fisiche. In Svezia il mobbing è considerato un

reato e circa il 15% dei suicidi è addebitato a questo fenomeno: grazie alle misure previste da una

legge ad hoc, il governo è in grado di proteggere il bilancio nazionale dagli eccessivi costi della

spesa sanitaria dovuti a questo fenomeno. In Italia, dagli studi fatti si calcola che almeno un

milione di lavoratori sia sottoposto a forme di persecuzioni definibili come mobbing (Menelao,

Della Porta, Rindonone, 2001). In Parlamento giacciono otto proposte di legge, molto articolate,

che peraltro non riescono ad arrivare in fondo all’iter previsto per la loro approvazione (Casilli,

2000).

Alcuni progetti prefigurano responsabilità disciplinari per chi pratica mobbing, l’annullamento di

ogni atto discriminatorio, la possibilità per il lavoratore colpito di farsi risarcire il danno con

procedimenti civili, l’interdizione per un anno da qualsiasi ufficio per chi pratica bossing .

Soprattutto, molta attenzione è riservata ai processi di prevenzione, informazione, coinvolgimento

dei datori di lavoro, dei dipendenti, dei sindacati. Nel nostro paese è ancora a rischio l’incolumità

fisica dei lavoratori, se si considera la cifra elevatissima di incidenti sul lavoro che registrano le

statistiche, per cui occuparsi di problemi psicologici dei lavoratori potrebbe sembrare una

questione di secondaria importanza (Menelao, Della Porta, Rindonone, 2001).

D’altro canto, per “salute” ormai, non si intende più solo quella fisica, ma anche quella psicologica

e sociale ma l’insieme dei parametri psicofisici e sociali che definiscono la persona, come è stato

più volte ribadito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nel nostro paese i cambiamenti liberisti hanno portato a ridurre le garanzie del lavoro con

l’introduzione di varie forme di lavoro a termine, di subappalti, interinali ecc. (Saolini, 2001).

Queste circostanze, unite al problema della disoccupazione che affligge vaste aree della

popolazione soprattutto nel Mezzogiorno, delineano scenari contraddittori nel mondo del lavoro.

Se da una parte si cerca di aumentare la tutela della salute psicofisica, dall’altra l’instabilità dei

posti di lavoro e la loro penuria costringe i lavoratori a sopportare condizioni di lavoro che sono

causa non solo di mobbing ma anche, spesso, di incidenti sul lavoro. E’ necessario non solo

approvare urgentemente una legge che tuteli con maggior efficacia i lavoratori anche dallo stress

psicologico sul posto di lavoro, ma soprattutto far sì che le fasce più deboli possano accedere agli

strumenti sindacali e di controllo sull’ambiente di lavoro, senza rischiare continuamente il posto.

Il mobbizzato è giunto ad uno stato fisico o psichico in cui non può più svolgere normalmente

alcun tipo di lavoro (esaurimento nervoso, depressione cronica, etc). In situazioni di danni

permanenti alla salute, la vittima può essere costretta al pre-pensionamento in età ancora

relativamente giovane. Anche in questo caso i costi per la società sono enormi: non si deve infatti

considerare solo la pensione che il mobbizzato riceve con 10 – 20 anni di anticipo rispetto alla

normale età pensionabile, a cui sarebbe sicuramente arrivato se non fosse stato mobbizzato.

Pensiamo anche ai contributi sullo stipendio che non versa più e alla perdita sociale della risorsa

umana relativa alla sua attività lavorativa che non svolge più: in pratica, possiamo affermare che la

sua forza lavorativa non è più al servizio della società con molti anni in anticipo.

Le ricerche europee sono arrivate ad una stima approssimativa del danno economico che un pre-

pensionamento a 40 anni causa alla società: la cifra si aggira su un miliardo e 200 milioni di

vecchie lire ( 600 mila euro circa). Una cifra da capogiro, a cui va aggiunto il costo della persona

che, non producendo più, occupa però un posto in ospedale o ad una visita specialistica, o ad una

seduta di terapia.

Anche l’ambiente della vittima subisce un danno da mobbing: spesso gli umori altalenanti o

insopportabili della vittima riescono a far saltare i nervi anche ai familiari ed agli amici.

Immaginiamo una coppia in cui uno dei due partner cominci a subire mobbing diventando

intrattabile, sempre di malumore e depresso. Porterebbe a casa i suoi problemi sul lavoro, a volte

per cercare di liberarsene si darebbe all’alcol, o al fumo, o forse diventerebbe violento. Ce n’è

abbastanza per separarsi, “il divorzio sembra corretto includerlo all’interno dei costi a carico

della società dovuti al mobbing” (Ege, 1996:177).

Capitolo 5: Gestione e prevenzione del mobbing

5.1 Premessa: ipotesi di azione Per intervenire sul mobbing bisogna innanzitutto conoscerlo. Negli ultimi anni questo fenomeno

ha avuto molta eco sui media nazionali, e come la maggior parte delle notizie, sembra sia passato

di moda. Non se ne parla più, o meglio non se ne parla in modo concreto, nei luoghi adatti. Pochi

in Italia, conoscono il mobbing, e la maggior parte solo superficialmente.

Lo Stato, le confederazioni sindacali, quelle imprenditoriali, sembrano tutte non afferrare che deve

essere messo in atto una vera e propria opera formativa a tutto campo, in primis sul luogo di

lavoro, ma senza trascurare le scuole e l’assistenza pubblica. Maggiore dialogo sociale,

sicuramente, ma anche trattare temi quale una migliore qualità del lavoro, e un inquadramento

normativo a prevenzione dei rischi sulla salute della persona ( ricordiamo che l’INAIL ha definito

il mobbing come malattia professionale, è un costo che grava sulla società, e sull’azienda, già

assicurata da questo punto di vista) e alla sua tutela. Sarebbe auspicabile accogliere la risoluzione

“ Mobbing sul posto di lavoro” del Parlamento Europeo ( AS 0283/2001) che, grazie a uno studio

su 21.500 lavoratori effettuato dalla Fondazione di Dublino, ha individuato le cause, le possibili

conseguenze e le potenziali vittime. Questa risoluzione invita tra l’altro a omologare la trattazione

di una materia che presenta un incidenza con “..sensibili variazioni tra gli Stati membri…dovuto

al fatto che in alcuni paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri la sensibilità al

fenomeno è maggiore e che esistono differenze tra i sistemi giuridici nonché differenze culturali;

che la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali dell’aumento della frequenza

di suddetti fenomeni”. E, avendo stimato che ben l’8% dei lavoratori europei risulterebbe vittima

di mobbing, dovuto a “ problemi organizzativi irrisolti” e che le conseguenze per il singolo,

l’impresa e la società possano essere rilevanti “..sia opportuno prestarvi maggiore attenzione e

rafforzare le misure per farvi fronte, inclusa la ricerca di nuovi strumenti per combattere il

fenomeno”. La risoluzione invita inoltre gli Stati membri a “..rivedere e, se del caso, a completare

la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali

sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del

“mobbing”.

In Italia infatti non esiste nel codice penale una espressa norma che sanzioni tali atti vessatori. Il

lavoratore può intentare causa solo per il risarcimento del danno, senza vedere condannato in sede

penale il proprio mobber. Tutto questo difficilmente incentiva l’emergere del problema. Un

modello di proposte, è quello promosso dall’ Istituto Italiano di Medicina Sociale che indica

quattro punti fondamentali per la prevenzione del mobbing:

1. Sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

2. Potenziamento della formazione sul posto di lavoro e nelle scuole.

3. Potenziamento della ricerca e approccio multidisciplinare al problema ( psicologia del

lavoro, medicina del lavoro, diritto, sociologia, scienze economiche, scienze politiche,

organizzazione del lavoro).

4. Istituzione di osservatori permanenti per anticipare i rischi nuovi ed emergenti, tra cui lo

stress sul lavoro.

Dal nostro punto di vista una adeguata formazione, ed un’opera informativa nell’ambiente di

lavoro (istituzione di codici di prevenzione anti-mobbing, newsletter,ecc..) aiutano a conoscere il

fenomeno, e ad affrontarlo con maggiore serenità. Infatti ciò che accade con maggior frequenza è

l’incapacità per il mobbizzato di rendersi conto della propria situazione. Se fosse maggiormente

formato (e informato), consapevole di ciò che sta accadendo, preparato ad affrontarlo con il

metodo giusto, ma soprattutto capace di prevenirlo con una giusta dose di anticipo, si

risparmierebbe notevoli costi, e li farebbe risparmiare alla società e all’impresa. La formazione

diventa quindi una missione che ha l’obiettivo di prevenire, curare, assistere ed intervenire sul

fenomeno, in modo che questo causi il minor numero di danni possibili. Molte aziende all’estero

hanno formato i propri dipendenti e collaboratori tramite seminari sul mobbing e il risultato è stato

quello di avere un netto miglioramento delle condizioni lavorative dell’organizzazione, e una

notevole riduzione dei costi aggiuntivi riguardanti il personale.

Una impresa che implementa un programma anti-mobbing nell’azienda deve fare i conti con altri

programmi manageriali: programmi di gestione, corsi di formazione per la gestione dei conflitti,

programmi per la prevenzione dell’alcool, di cooperazione, di gestione delle vertenze

lavorative,ecc. Ci vuole un intervento articolato, che prevede la collaborazione di professionisti

esperti sulle problematiche del lavoro e mobbing, tramite strumenti idonei di ricerca, che

permettano una panoramica completa e dettagliata del fenomeno nel contesto specifico aziendale.

Non è facile implementare un programma anti-mobbing, esso può avere successo a seconda della

pressione che il fenomeno esercita sull’azienda. In genere sono più interessate a programmi di

investimento sociale, per migliorare l’immagine e la reputazione aziendale, che a iniziative di

prevenzione.

Se però il problema esercita notevole pressione sull’azienda, spesso vengono attivati programmi

sociali. Solitamente deve accadere qualcosa di veramente spettacolare per costringere in qualche

modo l’azienda ad affrontare un problema, già conosciuto ma poco compreso (nel caso del

mobbing, chi o cosa può mettere pressione all’azienda se non la pubblica opinione e le

associazioni in difesa dei lavoratori?). Inoltre il termine “mobbing” possiede una connotazione

molto negativa. Se comparato con altri programmi preventivi, difficilmente può essere usato per

promuovere l’immagine aziendale. Come per “ l’alcool sul posto di lavoro”, molte compagnie

preferiscono negare l’esistenza del problema il più a lungo possibile.

5.3 La prevenzione

Vi sono molti modelli per la prevenzione del mobbing, anche se l’impressione generale è che

solamente alcuni si focalizzano bene sul problema. La prima cosa da effettuare quando si vuole

implementare un sistema preventivo anti- mobbing è analizzare a che livello è sviluppato il

conflitto, a prescindere dal modello.

Resch differenzia tra : 1) prevenzione 2) intervento nelle prime fasi 3) intervento nelle fasi centrali

e 4) supporto nelle ultime fasi.

La prevenzione si riferisce solamente a quelle strategie che si possono mettere in atto prima che

della comparsa di un vero e proprio processo mobbizzante, ed è quella su cui concentreremo la

nostra analisi.

Il ruolo organizzativo, da quanto emerso nel terzo capitolo, è centrale nel favorire o nel prefigurare

le condizioni del manifestarsi del work abuse. Una serie di modifiche sul livello organizzativo può

favorire la prevenzione del mobbing. Una serie di proposte viene stilata da Favretto( Fattori del

mobbing, 2005):

• Job design: strategie di ricomposizione delle mansioni. Tra le più note vi sono: la job

rotation (rotazione dei compiti), job enlargement (allargamento dei compiti), job enrichment

(arricchimento dei compiti). Queste azioni di job redesign riducono lo stress negativo, aumentano

il controllo sul lavoro e, potenziando le discrezionalità decisionali, riducono la possibilità che le

tensioni si “sfoghino” nell’individuazione di un capro espiatorio. È provato (Zapf, Knorz e Kulla

, 1996) che la possibilità di avere maggiore autonomia nella gestione del proprio lavoro è

significativamente più bassa nelle vittime da mobbing rispetto a un gruppo di controllo costituito

da impiegati non mobbizzati. In genere un qualsiasi provvedimento che incrementi il controllo dei

lavoratori sul proprio job, in termini di discrezionalità decisionale, indipendenza, autonomia,

costituisce una misura di prevenzione. Inoltre, il miglioramento delle condizioni di lavoro, nella

direzione di una maggior partecipazione del lavoratore alla progettazione dei propri compiti riduce

lo stress e la possibilità di conflitti interpersonali.

• Stili di leadership: a) modificazione dello stile di leadership. Se il vecchio modello favoriva

l’insorgere del mobbing, è più opportuno modificarlo. Il cambiamento deve essere effettuato in

primis dal top management che funge da modello. Difatti, i valori proposti dal top management

vengono più facilmente interiorizzati dalla cultura organizzativa secondo uno studio effettuato da

Sackman(1983). Per rendere più efficace la diffusione del cambiamento si suggerisce, inoltre,

l’adozione di strategie manageriali tipo mentoring: un'attività che mira alla valorizzazione delle

potenzialità dell'individuo, attraverso un processo di affiancamento da parte di un collega più

anziano e più esperto - denominato mentore - si supporta il processo di inserimento e di

apprendimento del neoassunto; tutoring: Servizio di assistenza che consiste nell'affiancare il

discente durante l'apprendimento, al fine di fornirgli spiegazioni sui corsi, le lezioni o sui

contenuti; e coaching: accompagnamento di un individuo (Coachee), un gruppo o un'équipe, da

parte di uno specialista del cambiamento: il Coach. Il coaching è una relazione di collaborazione,

partnership finalizzata al raggiungimento di obiettivi personali, relazionali o professionali. Agendo

sull'autoconsapevolezza personale e sul proprio senso di autoefficacia, facilita l'espressione e lo

sviluppo delle potenzialità. b) sperimentazione on the job, in quanto l’apprendimento sociale sui

posti di lavoro permette una migliore trasferibilità delle nuove skill a tutto il contesto lavorativo. c)

risultati del training di leadership, valutati direttamente dai lavoratori. La valutazione rappresenta

uno strumento di feedback importante per definire la qualità e l’efficacia del training stesso.

• Social empowerment: miglioramento della posizione sociale di ogni individuo. Ogni singolo

individuo deve avere diritto alla protezione, anche qualora non fosse d’accordo con il gruppo

sull’implementazione delle procedure. Non è detto poi che l’azione migliorativa porti i frutti

sperati. Infatti, per esempio, nonostante in Germania queste procedure esistano già, i lavoratori

sembrano non volerne usufruirne a sufficienza. La causa di ciò potrebbe essere attribuita a

possibili sanzioni. Per questo motivo la tattica migliorativa deve essere accompagnata da

procedure stabilite a livello aziendale, che includano: anonimato, leggi chiare, possibilità di

avvalersi di legali esperti, counsellor, figure di riferimento, ecc.

• Aumento degli standard morali: consiste in un’opera di marketing interno che si muove

verso l’obiettivo di incrementare una maggior sensibilizzazione di tutti coloro che sono coinvolti

nel processo di prevenzione. Lo stesso Likert (New patterns of management, 1961), nelle sue

ricerche sugli stili di management, aveva messo in evidenza che lo stile partecipativo di gruppo era

quello che assicurava una soddisfazione maggiore nei lavoratori, con conseguente riduzione di

insoddisfazione, disagio lavorativo e fatica mentale.

5.3 Intervento nelle prime fasi

Se si interviene in questa fase, significa che l’organizzazione non ha applicato correttamente i

metodi preventivi. In questa fase la vittima (fase 1 di Leymann) percepisce un malessere, ma può

non essere consapevole delle cause. Può cercare una soluzione presso le strutture di assistenza che

conosce, ma se non sono adeguate ad accoglierlo sarà molto difficile individuare le reali cause dei

problemi dell’individuo. In questo stadio si può verificare una situazione molto pericolosa per la

vittima, determinata da un’azione esterna condotta da chi interviene sui sintomi apparenti. In

questa fase è essenziale la figura del consulente:

• Funge da moderatore nel conflitto di primo livello.

• Ha la possibilità di dialogare con le parti in causa : le vittime, i presunti aggressori e i

colleghi, il reparto dirigenziale, e la Direzione Risorse Umane, informandoli della presenza del

mobbing all’interno dell’azienda.

Deve procedere secondo una metodologia che deriva dal diagramma di Ishikawa( relazione

effetto-causa). In primo luogo si individuano i problemi, in questo caso i conflitti, si effettua

un’analisi degli stessi per verificare la reale presenza di mobbing (schemi di ruolo, frequenza e

ripetitività nel tempo delle azioni mobbizzanti, crescente intensità emotiva, rinforzo

dell’organizzazione). In genere tiene colloqui individuali con i diretti interessati( i mobbizzati)

prima di coinvolgere il resto delle parti del conflitto, per non comprometterne la situazione sociale.

Rientra nei suoi compiti quello di informare la vittima su dove potersi rivolgere (personale interno,

o interno). Dal colloquio il moderatore deve essere capace di individuare le cause principali che

hanno prodotto quella particolare situazione, e informare la dirigenza aziendale su dove è

opportuno intervenire. Effettuerà in seguito il colloquio con le altre parti coinvolte, i quali

negheranno, come si può ben immaginare, l’esistenza del conflitto stesso, o di averne avuto parte.

Il moderatore in questo caso deve avere la capacità di discutere i problemi facendo astrazione dalle

persone, focalizzando l’attenzione sugli interessi in comune, illustrando ed analizzando i diversi

punti di vista, senza infondere la paura di poter essere giudizio di critica da parte sua o degli altri,

stimolando le varie parti alla presa in considerazione del problema sotto un’ottica differente.

Risulta chiaro che la soluzione ai conflitti necessita di tempo per le parti in causa di avviare un

dialogo costruttivo.

Rimane molto importante che l’azienda percepisca il costo derivante da una non ottimale gestione

del conflitto. Più questi sono quantificabili e più il vertice dirigenziale può, dati alla mano,

verificare quanto necessario possa essere l’implementazione di un buon programma di

prevenzione del mobbing, e di un individuo che presenti le caratteristiche mediatorie richieste, nel

caso si verificasse il passaggio allo stadio successivo.

5.4 Intervento nelle fasi centrali e supporto nelle fasi finali Se si arriva alla terza fase questo significa che il conflitto esce dall’ambiente lavorativo. La vittima

è in procinto di lasciare l’azienda, si assenta con notevole frequenza, ed è sempre più isolato.

Manifesta i primi sintomi depressivi, ansiotici, somatoformi, alteranti la condotta e l’emotività. È

necessaria la presenza di un medico che conosca il fenomeno, esterno all’azienda, che si occupi

direttamente della salute psicofisica della vittima. Sarà necessario da parte della dirigenza

riorganizzare la situazione interna, e in determinati casi prendere provvedimenti contro chi ha

agito da mobber, tramite trasferimenti o licenziamenti.

Se nella malaugurata ipotesi la vittima dovesse vivere la quarta fase del mobbing (fase 4

Leymann) Nel caso in cui la vittima arrivi a vivere la quarta fase del mobbing, cioè l’uscita dal

mondo del lavoro, l’azienda dovrà fare in modo di non far perdere la dignità al lavoratore. È molto

facile per la vittima di percepirsi come fallita, di non avere più la possibilità di trovare le forze per

“ affrontare un nuovo lavoro. Diviene necessaria un’assistenza che consenta alla persona di creare

una nuova possibilità di inserirsi con fiducia nel mondo del lavoro. Colleghi, superiori, amici,

familiari possono rivestire un ruolo cruciale per salvare la vittima dalla depressione, dal

deperimento psicofisico anche quando l’età è avanzata, in ogni caso è necessario che questo riceva

una formazione adeguata alla comprensione del mobbing; infatti solo attraverso la conoscenza del

fenomeno sarebbe possibile apprendere una capacità di difesa efficace per riacquistare una

completa sicurezza sul posto di lavoro.

Capitolo 6: I numeri del mobbing

6.1 I numeri in Europa

Abbiamo effettuato un’ analisi della situazione del mobbing in Europa, e Italia in particolare , per

esaminare la dinamica evolutiva del mobbing nel corso degli anni. Una visualizzazione dei dati

può essere molto utile, soprattutto per fare un raffronto tra i vari paesi, i vari settori, le tipologie di

individuo. Lo scopo è quello di individuare i punti maggiormente critici e avere una panoramica

globale del fenomeno; sono i dati che “ parlano” , si esprimono in tutta la loro evidenza empirica.

Sono state effettuate molte ricerche a riguardo, sia in campo europeo che italiano. Tutte mostrano

chiaramente come in base alle statistiche sui disturbi da lavoro, sia cresciuta l’incidenza dei

problemi di salute psicologica e stress, provocata da mobbing o molestie di vario genere, inclusa

violenza fisica e varie forme di discriminazione. Le varie ricerche dimostrano le ampie

ripercussioni sull’individuo, sulla sua performance, sullo sviluppo di un ambiente di lavoro sereno,

sulla performance organizzativa e su quella economica.

Uno studio molto interessante è quello della European Foundation for the Improvement of Living

and Working Conditions ( EuroFound) effettuato sulle vite lavorative degli europei.

Esso mostra che 1 lavoratore su 20 , in media , ha subito molestie di tipo psicologico negli ultimi

12 mesi. Solamente 1 lavoratore su 100 ha dichiarato di aver subito vessazioni psicologiche per

motivi legati alla propria credenza religiosa, origine etnica, o preferenze sessuali. D’altronde,

hanno precisato gli autori, sono cifre sottostimate, in quanto molti di coloro che hanno subito

azioni vessatorie non lavorano più, e dunque non possono apparire nelle statistiche.

Fig num. 1: Incidenza della violenza, molestia e discriminazione a lavoro ( %)

Circa 1 persona su 20 in Europa dichiara di essere stato sottoposto ad azioni mobbizzanti sul posto

di lavoro nel 2005.

Tuttavia vi è una ampio range di variabilità tra i vari paesi: dal 17% in Finlandia, al 12% in

Olanda, fino al 2% in Italia e Bulgaria. Questo può riflettere lo stato di consapevolezza della

sensibilità al fenomeno tanto quante le differenze nell’attuale incidenza. È difatti noto come la

Finlandia e la stessa Olanda abbiano riportato anche il livello più alto di incidenza di

“intimidazioni” nella statistica stilata nel 2000, rispettivamente al 15% e al 14%. Fig. num.2: Mobbing per sesso e paese( %)

Le donne( 6%) sono più soggette al mobbing degli uomini(4%), e le donne più giovani corrono un

rischio maggiore( 8% di quelle sotto i 30 anni).In Italia la situazione sarebbe quasi in parità, con

una maggioranza, seppur minima, delle donne.

Fig num. 3 : Mobbing sessuale, in base a sesso ed età(%)

Vi sono sostanziali differenze nell’incidenza del mobbing a seconda della dimensione

dell’impresa: coloro che lavorano nelle grandi imprese ( più di 250 dipendenti) riportano i valori

più alti ( 8%). Anche il settore è una variabile importante. In molti settori dove il rischio fisico è

elevato – agricolture, costruzioni e attività manifatturiere- si riportano bassi livelli di molestie

psicologiche. Viceversa nei settori con bassi livelli di rischio fisico, viene rilevata una elevata

esposizione a fattori di rischio psicosociale. Chi lavora in ambito curativo( infermieri, ostetrici,

tirocinanti ospedalieri,etc.) ha una probabilità 8 volte più alta di subire abusi psicologici e fisici.

Questo si verifica ad ogni livello, a prescindere dalla posizione professionale dell’individuo.

Fig. num 4: Violenza a lavoro, i settori e le occupazioni più esposte

Il 6% dei lavoratori del settore pubblico ha dichiarato di aver subito mobbing, rispetto al 4% del

settore privato. Per ciascuna delle domande relative alla violenza sul posto di lavoro, più del

doppio dei lavoratori del settore pubblico ha dichiarato di aver subito minacce di violenza, o veri e

propri abusi rispetto ai lavoratori del settore privato. Un motivo valido, secondo Vittorio Di

Martino, Helge Hoel and Cary L. Cooper (l’EuroFound), per cui i dipendenti pubblici sembrano

più inclini a subire violenza sta nel fatto che interagiscono molto più spesso con la clientela

rispetto ai “colleghi” privati. Almeno metà (50%) dei lavoratori pubblici ha riportato che il proprio

lavoro li faceva interagire direttamente, e per la maggior parte del tempo, con non-colleghi ( ¾ del

turno lavorativo), rispetto al 38 % dei dipendenti privati.

Fig. num 5: Esposizione alla violenza nel settore curativo e educativo, in base alla categoria occupazionale, EU27(%)

Chi è esposto al mobbing tende a riportare maggiori malattie cosiddette professionali. Ciò che si

nota maggiormente è che la proporzione di chi manifesta sintomi di fattori psicosociali, quali

insonnia, ansia e irritabilità, è circa 4 volte più grande tra chi ha subito molestie rispetto a chi

invece non le ha subite. Gli effetti non sono tuttavia esclusivamente psicologici o mentali, possono

essere anche fisici, come infiammazioni gastro-intestinali. Molti tra i mobbizzati hanno poi la

tendenza a manifestare più sintomi. Circa il 40% di loro afferma di essere affetto da 6 o più dei 17

sintomi indicati nel questionario.

Fig. num 6: problemi di salute legati al mobbing

Il risultato è quello di favorire una maggior assenza da parte dei mobbizzati, protratta nel tempo,

con una media di oltre 60 giorni per anno. Ovviamente gli autori non affermano che ci sia

necessariamente una correlazione specifica tra l’aumento del mobbing e l’aumento delle giornate

di assenza dovute al lavoro. Può essere che questo stia solamente all’interno di una serie di fattori

che contribuisca ai livelli di assenza attribuibili a problemi di salute legati al lavoro dei singoli

individui.

L’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, giunge a una

serie di conclusioni:

• 1 persona su 20 in Europa è sottoposto a mobbing, con un ampio range di variabilità da un

paese all’altro.

• Le donne sono più soggette al mobbing degli uomini ( 6% contro 4%).

• I settori maggiormente colpiti sono : medico, sociale, e amministrativo pubblico.

• i mobbizzati hanno una media di assenze di 60 giorni l’anno.

In Italia , non esistendo ancora una legge specifica contro il mobbing, si assiste ad una situazione

falsata rispetto alla maggioranza dei paesi europei. I dati indicano una percentuale di mobbizzati

del 4% rispetto al totale dei lavoratori. La non consapevolezza, il timore di uscire allo scoperto, la

mancanza di strutture di supporto adeguate influiscono negativamente sull’analisi del fenomeno.

Uno dei massimi esperti di mobbing sul territorio nazionale è lo psicologo Harald Ege. Egli fu il

primo a pubblicare una ricerca approfondita del mobbing ( datata 1998) che offre una ricca

stratificazione in grado di offrire una panoramica abbastanza ampia al riguardo.

Tramite un questionario, sottoposto a vittime di mobbing, che ha chiamato LIPT ( Leymann

Inventory of Psychological Terrorism,1997), Ege ha potuto intervistare persone provenienti da

quasi tutte le regioni italiane. Le domande vertevano su 5 aree di interesse:

• parte generale sul luogo di lavoro

• parte generale sulla persona intervistata

• parte specifica sulle diverse azioni di mobbing subite

• le circostanze del mobbing

• le conseguenze riportate a livello di salute psicofisica

Come si può vedere dal grafico numero 7 i settori maggiormente colpiti nel 1997,erano: l’

industria di produzione( 38%) e l’amministrazione pubblica( 22%). Nel primo settore, secondo

Ege, è l’ambizione degli individui che può spiegare il mobbing, mentre nel secondo settore

possono essere i favoritismi di ogni tipo e un diffuso sentimento di noia: i primi portano ad

eliminare chi non fa parte della “famiglia”, i secondi sono l’effetto di personale in esubero che

porta ad avere più tempo libero , molto pericoloso quando non c’è affiatamento tra colleghi.

Fig. num 7: il settore di provenienza delle vittime di mobbing

0%

5%

10%

15%

20%

25%

30%

35%

40%

Ind.

prod

.ben

i/ser

v.

Am

m.p

ubb.

Com

m./M

ag

Set

t. Scu

ola/

Univ.

Agr

ic./F

or.

San

ità/O

sp.

Altr

i set

tori

Il mobbing, nella maggioranza dei casi, si sviluppa nelle aziende di una certa dimensione, con un

alto numero di dipendenti, anonimità elevata sia nei confronti dei propri colleghi, sia nei confronti

dell’organizzazione.

Fig. num 8: numero dei dipendenti nelle aziende vittime di mobbing

51-100

13%31-50

9%

101-500

28%

11 a 30

9%

<11

2%

>501

39%

I dati fornitici dall’ISPESL ( Istituto superiore per la sicurezza e la salute sul lavoro), sono più

aggiornati ( 2005) e vedono sempre pubblica amministrazione e difesa, con una percentuale del

14%, subito seguite da sanità e istruzione, ristorazione e alberghiero, trasporti e comunicazioni

(12%). Agli ultimi posti si trovano, invece, settori come agricoltura, pesca, elettricità, gas e acqua,

con il 3%.

Fig. num 9: i settori più colpiti dal mobbing ( dati ISPESL, 2005)

0%

2%

4%

6%

8%

10%

12%

14%

16%

1

pubblica amm.ne

difesa

sanità

ristorazione

istruzione

alberghiero

trasporti

comunicazioni

agricoltura

pesca

elettricità

acqua

gas

A differenza dei dati europei, sembra che la pubblica amministrazione e la difesa siano i più colpiti

dal fenomeno (questo alla luce del fatto che Ege effettua un raggruppamento improprio del settore

industriale che non c’è nell’analisi europea, la quale mantiene la distinzione tra attività

manifatturiere, costruzioni, trasporti,etc.). Solamente al terzo- quarto posto la sanità, che non

incide quanto le prime due. In Europa invece, come abbiamo potuto constatare, è proprio

quest’ultima a detenere il primato, a pari merito con il settore sociale. In Italia, forse la situazione

è leggermente diversa per il semplice motivo che anche le cause che stanno all’origine del

mobbing sono diverse. Nelle amministrazioni pubbliche italiane, è noto da tempo come spesso si

necessiti di raccomandazioni per entrare e per fare carriera, idem per la difesa. Dove i

licenziamenti sono rari e il mantenimento del posto di lavoro una certezza, l’unica arma

disponibile sembra essere il mobbing e non ci si fa scrupoli ad usarlo. Bisogna costringere il

lavoratore ad andarsene di sua spontanea volontà. Con un’allocazione del posto di lavoro

inefficace, come avviene spesso in Italia quando si parla di settore pubblico, il pericolo mobbing è

una realtà.

Secondo Ege il mobbing interessa maggiormente le donne, anche se di poco, i lavoratori che non

occupano un incarico dirigenziale ( 65% impiegati, 18% operai, 13% dirigenti, 4% quadri).

Per quanto riguarda la distribuzione geografica del fenomeno, l’ente dichiara i maggiori casi in

Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia, mentre il fanalino di coda è rappresentato dalla Valle

d’Aosta ed il Molise. Dato confermato anche dall’ISPESL, con una percentuale maggiore nel Nord

Italia ( 65% ), e un basso livello di istruzione ( 52% diplomati, 24% laureati).

L’elaborazione dei dati ha fornito inoltre elementi particolarmente interessanti riguardo i giochi di

ruolo vittima/ carnefice, che forniscono delle evidenze nel confermare l’esistenza di diverse

tipologie di mobbing. Il 53% delle persone, infatti, indica come mobbers (persecutori) i superiori

in gerarchia, mentre solo il 7,1% ha identificato in tale ruolo i colleghi. Ma ciò che colpisce è che

il 26,5% dei soggetti sostiene che i mobbers sono sia i superiori, sia i colleghi; ed un altro 11,1%

indica “tutti”. Per spiegare tale risultato, che riguarda complessivamente il 37,6% del campione, si

può ipotizzare che, oltre una certa misura, il fenomeno del mobbing assume una tale intensità

emotiva che la vittima perde di lucidità razionale e, sentendosi “accerchiata”, non riesce più a

distinguere i diversi ruoli giocati da chi lo circonda. Rimane comunque il dato molto forte che in

Italia il mobbing appare più frequentemente promosso dai “Capi”.

La consapevolezza del fenomeno mobbing sta iniziando ora a muovere i primi passi. Attualmente

non c’è ancora una legislazione in materia, questo perché ci deve essere prima di tutto una presa di

coscienza generale del problema. Molti lavoratori non sanno ancora distinguere situazioni di

mobbing da litigi estemporanei in taluni luoghi di lavoro.

Una ricerca IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative) del 2004 effettuata su un campione

di 3000 lavoratori italiani afferma che il 70,4% degli italiani mostra di non conoscere il fenomeno.

solamente il 18,9% manifesta una spiccata sensibilità verso il fenomeno.

L’ultimo grafico rappresenta chiaramente la situazione italiana in contrasto con la media dei paesi

dell’Unione Europea. Siamo al penultimo posto assieme alla Spagna, e vicini al Portogallo. il

motivo forse sta nei tratti culturali che ci accomunano. La fase zero di Ege per questi paesi, può

coincidere con la fase 2 dei paesi Scandinavi. Una molestia accettata come prassi in Italia, può

essere motivo di denuncia se solo ci si sposta più a Nord.

Fig.num 10 : consapevolezza del mobbing , per paese

Nonostante l’incidenza del fenomeno in Europa e il grande allarme sociale che ha suscitato, in

Italia si assiste ancora alla “snobbizzazione” da parte delle categorie imprenditoriali, e il non

adeguato supporto informativo da parte dei sindacati. In questo senso sono le regioni, a

promuovere, e anche a finanziare iniziative di supporto, come i punti di ascolto, spesso in

contrasto con le altre organizzazioni di categorie, e con proposte di legge in materia che non

intendono proporre soluzioni risolutive, quanto azioni positive, di monitoraggio e riflessione con

l’avvio di un dibattito su problematiche di grande importanza che incidono pesantemente sulla

sfera individuale, organizzativa, e sociale.

Conclusioni

Il mobbing è per definizione una forma di terrorismo psicologico che si differenzia dalle molestie

per la frequenza e la sistematicità delle azioni vessatorie. Prevede determinati schemi di ruolo

posti in essere da un singolo o da un gruppo (mobber/s) nei confronti di un altro (mobbizzato ).

Può essere di tipo verticale, se è un superiore che lo attua nei confronti del suo sottoposto, o di tipo

orizzontale se l’azione è svolta da un collega di pari grado.

Abbiamo visto che spesso e volentieri il mobbing viene promosso dall’azienda stessa quando deve

procedere a ristrutturazioni del personale. In questi casi la Direzione Risorse Umane risulta

incapace di gestirne efficientemente ed efficacemente la selezione, il reclutamento, e

l’organizzazione.

Le cause possono risalire al contesto economico, in continua mutazione, sempre più competitivo,

con salti tecnologici sempre più ravvicinati, che “costringono” il management ad aggiornare

costantemente le politiche di gestione dei lavoratori. Questi ultimi sono sempre più de-

professionalizzati, precari, e in continua concorrenza con il prossimo. Il background formativo va

costantemente aggiornato perché c’è sempre il rischio di possedere delle competenze obsolete, non

più necessarie ad un azienda in continua trasformazione.

Il mobbing si può verificare in qualsiasi struttura: gerarchica, de-verticalizzata, divisa per funzioni,

gestita per processi. Provoca costi diretti, dovuti all’assenza del lavoratore, al suo rimpiazzamento,

e costi indiretti, quali abbassamento di produttività, conflitti interpersonali che provocano un

sistema “elettrico” e instabile. Gli ambienti di lavoro sono male organizzati, la vittima spesso non

ha la possibilità di rivolgersi a mediatori interni. La mancanza di una buona comunicazione

interaziendale sembra essere uno dei fattori che possono portare al mobbing.

Oggi, sempre di più lo stile di leadership deve saper gestire le relazioni aziendali. Con una

concorrenza sempre più spinta, saper trovare un vantaggio competitivo in ogni campo è

fondamentale per la sopravvivenza dell’impresa. Il modello giapponese in questo caso, ci viene in

aiuto. Porre l’attenzione sul fattore uomo, più che sul fattore tecnologia, sembra essere il must del

terzo millennio. L’accresciuta sensibilità nei confronti della sicurezza, della qualità, dell’ambiente

deve essere posta anche sulle relazioni umane, tramite la formazione di tutto il personale alla

capacità di dialogo, al superamento dei conflitti interpersonali, alla scelta dei metodi per arrivare

ad una gestione efficace ed efficiente delle situazioni critiche. L’ultimo aspetto deve riguardare in

primis il personale direttivo, rispettivamente dirigenti e quadri. L’autorità deve essere capace di

fare da modello, perché questo poi si ripercuote su tutto il sistema aziendale ( il mobbing si

presenta con modalità tanto simili quanto probabili nei livelli più alti come in quelli più bassi

dell’impresa). Le aziende devono collaborare anche dal punto di vista informativo, tramite una

partnership con le varie strutture istituzionali: i sindacati e i centri di ascolto.

In mancanza di una adeguata norma a tutela dei lavoratori, una maggior consapevolezza sul

fenomeno può permetterne l’individuazione, facilitando il lavoro degli operatori delle risorse

umane. Non ci deve essere il timore da parte del singolo di affrontare l’ostacolo, di parlare

apertamente del problema,e di saperlo contestualizzare. Se il lavoratore sa percepire il disagio

dovuto all’attribuzione di mansioni dequalificanti, e alla costante aggressività di colleghi o

direttori, e ha la possibilità di affidarsi a strutture interne ed esterne capaci di offrire un notevole

aiuto per la gestione del conflitto, si sentirà più sicuro di sé, il conflitto non sarà più un tabù, ma

verrà affrontato in maniera positiva.

Saper prevenire il mobbing, è sicuramente un obiettivo della Direzione Risorse Umane, saper

motivare il lavoro del dipendente (job rotation, job enrichment, job enlargement), saper agire sulle

pressioni di gruppo, e sullo stile di leadership. Devono essere migliorati gli aspetti qualitativi della

vita lavorativa, tramite una buona gestione del contratto psicologico, dell’ambiente lavorativo, e

del lavoro stesso. Certo la flessibilità che sta vivendo oggi il mercato del lavoro non aiuta, ma

ostacola la risoluzione del problema. Sta all’impresa saper affrontare nel modo corretto i momenti

di transizione ( fusioni, ristrutturazioni aziendali, cessioni, scorpori,etc..), utilizzando di volta in

volta forme di comunicazione che si adattano perfettamente alla situazione contingente.

Il mobbing non è irreversibile, però si necessitano segnali convincenti da parte delle

confederazioni imprenditoriali e sindacali, un accordo comune per arginare il più possibile un

fenomeno compreso, ma finora poco conosciuto.

I nuovi centri di ascolti sorti ultimamente in tutta la nazione, possono fungere da punto di

convergenza fra le parti, e svolgono un importante lavoro di informazione a tutela della persona.

Essendo relativamente autonome hanno la possibilità di effettuare delle indagini territoriali, per

effettuare delle prime stime del fenomeno. Ci vorrà ancora del tempo perché le indagini effettuate

su base statistica diano la loro rilevanza. Tutto questo comunque non sarà sufficiente senza una

garanzia normativa, che tuteli in primo luogo la persona, e che faccia da incentivo per un lavoro di

comune accordo fra le parti: impresa, sindacati e Stato.

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