UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTA’ DI SCIENZE ... · 2. La rivoluzione degli anni ’70...

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE - INDIRIZZO POLITICO SOCIALE - TESI di LAUREA In SOCIOLOGIA LE ALTE DIRIGENZE: LA FORMAZIONE COME STRUMENTO PER AFFRONTARE LA COMPLESSITA’. IL CASO ISVOR FIAT. Relatore: Candidato: Chiar.mo Prof. Alessandro CASICCIA Elia PIOVANO Matricola 084636 Anno Accademico 2006/2007

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE

- INDIRIZZO POLITICO SOCIALE -

TESI di LAUREA

In

SOCIOLOGIA

LE ALTE DIRIGENZE: LA FORMAZIONE COME STRUMENTO

PER AFFRONTARE LA COMPLESSITA’. IL CASO ISVOR FIAT.

Relatore: Candidato:

Chiar.mo Prof. Alessandro CASICCIA Elia PIOVANO

Matricola 084636

Anno Accademico 2006/2007

1

INDICE

− INTRODUZIONE p. 3

− CAPITOLO I: La formazione manageriale tra resistenze e

accelerazioni

1. Taylor e l’organizzazione scientifica del lavoro p. 5

2. Dalla formazione on the job alle competenze specifiche p. 10

3. La FNDAI e i primi corsi per dirigenti p. 13

4. Gli anni ’50 (dal dopoguerra alla Scuola di Direzione Aziendale) p. 15

− CAPITOLO II: Dall’orologio all’acqua

1. Il modello meccanico p. 20

2. La rivoluzione degli anni ’70 p. 29

3. Verso nuovi modelli organizzativi p. 35

4. Dal complicato al complesso p. 38

5. La teoria della complessità p. 44

− CAPITOLO III: La formazione manageriale tra necessità e

opportunità

1. Complessità e conoscenza p. 50

2. Dalla formazione alle formazioni p. 52

3. I nuovi dirigenti p. 58

4. La nascita di ISVOR e le corporate university p. 62

5. ISVOR e la formazione manageriale p. 66

6. Action learning e e-learning p. 73

2

− CAPITOLO IV: Il caso ISVOR FIAT

1. Formazione e Alta direzione p. 77

2. Il progetto Alta Direzione negli anni ’70 p. 80

3. Il Corso di Sviluppo Manageriale p. 86

4. Il Corso di Sviluppo Direttivo p. 88

5. Il programma per le Alte dirigenze p. 92

6. Gli anni ’80 p. 95

7. I seminari itineranti nello specifico p. 102

8. Il Programma di aggiornamento Alte direzioni p. 109

− CAPITOLO V: Conclusioni p. 124

− BIBLIOGRAFIA p. 142

3

INTRODUZIONE:

nell’esaminare la formazione come strumento per affrontare il cambiamento, il

passaggio dal complicato al complesso, ho pensato fosse opportuno ripercorrere

brevemente alcune tappe particolarmente significative, che evidenziassero come

questa non abbia seguito, almeno inizialmente, uno sviluppo lineare.

Nel primo capitolo ho dunque tracciato una breve evoluzione storica di come la

formazione manageriale si sia affermata in Italia.

Nei capitoli secondo e terzo ho posto in evidenza come le aziende, le grandi

aziende, in relazione al contesto sociale ed economico, abbiano dovuto aprirsi,

abbandonare la loro autoreferenzialità e considerare nel loro agire la variabilità

esterna.

Le grandi aziende per far fronte ad un mercato e ad una società sempre più

complessa si sono date una nuova organizzazione, più agile e flessibile, dove la

persona è chiamata ad essere un soggetto attivo e propositivo. Da qui l’esigenza

di una formazione che sappia accompagnare anche i massimi livelli aziendali

verso il nuovo, il complesso.

Ho ritenuto poi utile investigare cosa è accaduto nel reale andando ad esaminare

quanto fatto in materia di formazione e Alte dirigenze nella più grande industria

italiana, la Fiat.

Analizzando la formazione per le Alte direzioni svolta da Isvor Fiat nel

trentennio 1972 -2002 ho scelto di rivolgermi ai protagonisti, a chi ha

organizzato e pensato la formazione. L’andare direttamente da chi in quegli anni

è stato impegnato in un progetto di grandi dimensioni significa guardare da

dentro, entrare nella vita professionale, vedere aspetti che normalmente non

vengono evidenziati, lati umani ed emozionali che danno un maggior senso di

verità, di reale. In questa ricerca ho avuto la fortuna di incontrare il Dottor

Osvaldo Busana, che è stato responsabile della formazione istituzionale del

Gruppo Fiat e si è occupato in prima persona del programma di formazione per le

Alte direzioni.

4

Nel capitolo quarto ho dunque elaborato alcuni documenti inediti che il dottor

Busana mi ha fornito e che ho integrato con stralci delle due interviste che mi ha

concesso; non sono in realtà interviste strutturate, ma cordiali conversazioni nelle

quali ho raccolto una testimonianza viva di quanto ha fatto Isvor.

Una testimonianza fatta di ricordi, di aneddoti personali, di dietro le quinte che

integrano il documento scritto chiarendolo ed arricchendolo.

Nel capitolo quinto, infine, ho ripreso gli aspetti più significativi dell’evoluzione

della formazione per l’Alta dirigenza, riferendomi nello specifico al caso Fiat, e

ho tentato attraverso la teoria della complessità una lettura dei momenti

significativi che hanno portato il Gruppo Fiat ad avviare un programma di

formazione per le Alte dirigenze.

5

CAPITOLO I: La formazione manageriale tra resistenze e accelerazioni

1. Taylor e l’organizzazione scientifica del lavoro

Sul finire dell’Ottocento nasceva un movimento di pensiero che non riteneva più

tollerabile la contraddizione tra le potenzialità produttive delle industrie, ormai

pronte grazie agli sviluppi tecnologici e scientifici a produzioni di scala, e i

metodi con cui queste erano ancora governate.

L’ingegnere F.W.Taylor fu un esponente di questo movimento: la radicalità delle

sue convinzioni e il rifiuto di qualsiasi compromesso nell’applicare i suoi principi

di organizzazione scientifica del lavoro fecero sì che il suo nome finì con il

rappresentare l’intero movimento.

La crisi prodotta dal primo conflitto mondiale poneva con urgenza il problema

della riconversione delle fabbriche ad usi di pace, un ammodernamento degli

impianti e una nuova organizzazione più efficiente del lavoro.

La nuova fase di sviluppo economico era caratterizzata da una maggior

complessità dei mercati e da una crescente domanda di beni a costi contenuti,

stimolata da produzioni di scala rese possibili dall’avvio di nuove tecnologie;

tutto ciò rendeva obsoleti, se non antieconomici, i tradizionali metodi di

management a base familiare.

L’organizzazione scientifica del lavoro proposta da Taylor si inserisce in questo

contesto storico.

Taylor propone una rivoluzione mentale che coinvolga tutti i soggetti presenti nel

processo produttivo: dal datore di lavoro all’ultimo dipendente.

Una rivoluzione che nelle intenzioni di Taylor va oltre l’aspetto produttivo legato

alla fabbrica e investe tutta la società: «gli uomini si sono preoccupati di come

dividersi il surplus creato con il lavoro: gli operai cercando di avere il massimo

del salario, gli imprenditori il massimo del profitto. Questa tensione tra le due

parti ha prodotto conflitti e lotte sociali, si può uscire da questa condizione di

tensione, applicando i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro.

6

Le parti coinvolte, operai e datori di lavoro, devono distogliere il loro interesse

dalla divisione del surplus, ed insieme si concentreranno per aumentare l’entità

del surplus, finché esso diventa così grande che non sarà più necessario litigare

su come questo debba essere diviso»1.

Si doveva passare da una produzione che aveva come unica forza propulsiva il

profitto - “produzione capitalistica” - a una produzione razionalizzata con

“motivazioni di ingegneri”2.

Taylor propone una nuova pace sociale realizzabile unicamente attraverso

l’aumento della produzione e quindi per via di un incremento del rendimento

della forza lavoro.

Davanti a prospettive di ordine sociale ed efficienza produttiva, non solo gli stati

industrializzati a economia capitalistica furono attratti, anche l’ex l’Urss approvò

le teorie tayloristiche.

Infatti Lenin nel ’18 esortava i suoi ad assimilare il sistema Taylor per le

“ricchissime conquiste scientifiche” di cui era portatore3.

Posizione ribadita più tardi da Stalin nell’aprile del ’24 in un discorso tenuto

all’università di Sverdlov, noto come Principi del leninismo. Si trattava di

coniugare lo slancio rivoluzionario russo con lo spirito pratico americano dove

«lo spirito americano è una forza indomabile, che non sa e non riconosce nessuna

barriera, che rimuove con la sua tenacia ogni sorta di ostacoli, che, una volta

incominciato un lavoro, anche piccolo, non può non portarlo a termine, una forza

senza la quale è inconcepibile un serio lavoro costruttivo»4.

Nella pratica questi proclami si tradussero in programmi di collaborazione

tecnico-scientifica con gli ingegneri americani.

G. Bonazzi5 sintetizza in quattro punti i principi tayloristici, i quali non

riguardano solo la produzione, ma l’intera struttura organizzativa:

1 Taylor, F. W. L’organizzazione scientifica del lavoro, 1967 Etas Kompass, Milano

2 Salsano, A. Ingegneri e Politici. Dalla razionalizzazione alla rivoluzione manageriale, Nuovo

Politecnico 157 1987 Einaudi, Milano 3 Salsano, A. op. cit.

4 Salsano, A. op. cit.

5 Bonazzi, G. Storia del pensiero organizzativo, p. 35, 1991 Franco Angeli, Milano

7

• studio scientifico dei migliori metodi di lavoro in rapporto alle

caratteristiche dei lavoratori e delle macchine;

• selezione e addestramento scientifico della manodopera;

• instaurazione di stima e di cordiale collaborazione tra direzione e

manodopera;

• distribuzione uniforme del lavoro e delle responsabilità tra

amministrazione e manodopera.

Anche l’apparato direttivo deve essere riorganizzato e in qualche modo

razionalizzato. E’ necessaria una rigorosa pianificazione dei compiti che ponga

fine all’iniziativa personale.

Il principio di eccezione è l’elemento razionalizzatore per i livelli più alti della

dirigenza:

«il direttore riceve soltanto dei rapporti riassuntivi e sempre comparativi…anche

questi prima di giungere al direttore devono sempre essere attentamente

esaminati da un assistente il quale metterà in evidenza tutte le eccezioni, ossia le

deviazioni rispetto alle medie favorevoli o alla normalità… così il direttore avrà

in pochi minuti una visione completa del progresso o del regresso che si sta

realizzando e gli rimane molto tempo disponibile per esaminare i più vasti

problemi di condotta dell’azienda e per studiare il carattere e le attitudini dei suoi

più importanti collaboratori»6.

La massima dirigenza non deve occuparsi del funzionamento ordinario

dell’impresa, essa interviene soltanto nei casi eccezionali, perché il suo compito è

quello di dedicarsi ai problemi di strategia aziendale.

Dunque, le alte direzioni si concentrano non sul presente ma sul futuro

dell’impresa.

Il ruolo assegnato da Taylor al dirigente è un ruolo strategico: egli ha il compito e

la responsabilità di coordinare e sovrintendere il nuovo processo produttivo

razionalizzato.

6 Taylor, F. W. op. cit.

8

Un simile compito richiede professionalità e competenza, che non si possono

acquisire solo con la pratica, ma necessitano di una formazione ad hoc.

Non sempre le funzioni direttive hanno avuto la medesima importanza; quando il

processo produttivo era semplice e la divisione del lavoro poco sviluppata non

era necessaria nessuna preparazione specifica per condurre l’azienda.

La crescente importanza della funzione direttiva e del ruolo che il dirigente

andava assumendo, non solo in ambito lavorativo, ma nell’intera società, fu

oggetto di discussione ed analisi da parte degli intellettuali della prima metà del

Novecento.

J.P.Palewski nel ’28 affermava: «siamo giunti all’epoca che si può chiamare dei

tecnici7 della direzione […] i tecnici sono altrettanto lontani dagli ingegneri e dai

capitalisti che dagli operai»8.

George Valois in “Appel aux techniciens” del ’29 precisava che i tecnici sono:

«quel mondo di amministratori, di direttori, di gestori, di capireparto e oggi capi

culturali che costituiscono una vera classe tra la borghesia che possiede e il

proletariato che esegue, […] nella totalità dell’economia c’è un duello

inconsapevole in corso tra la borghesia possidente e la classe dei tecnici»9.

Max Nomad in un articolo del ’34 in “Scribner’s Magazine” dal titolo

“Capitalism without Capitalists” scrive che il capitalismo «ha prodotto il proprio

successore nella forma di un nuovo strato sociale di managers organizzatori,

tecnici e altri impiegati istruiti che hanno gradualmente assunto tutte le funzioni

di management tecnico e commerciale in origine appartenenti al capitalista

imprenditore individuale. E’ questa nuova classe media che, cresciuta in numero

e importanza, in un modo o nell’altro può presto, mediante lo Stato, assicurarsi

l’effettivo e completo controllo di tutta la fabbrica sociale»10

.

7 L’utilizzo dell’espressione tecnici deriva dal fatto che nei primi anni del Novecento la componente

produttiva, quindi tecnica, era prevalente rispetto alla parte commerciale e finanziaria. 8 Palewski, J.P. Histoire des chefs d’entreprise, 1928 Gallinard NRF, Paris

9 Valois, G. – De La Porte, R. Appel pour l’entrèe des techniciens dans la vie publique, in “Cahiers

blues”, 20 aprile 1929, n.11, p.8 10

Nomad, M. Capitalism without Capitalist, in “Scribner’s Magazine” n. 6, pp. 407-411, giugno 1934

9

J. Burnham, nel suo famoso libro “La rivoluzione dei tecnici”, si esprimeva

ancora più chiaramente: «la società vive un periodo di transizione o di passaggio:

da un tipo di società capitalistica a un tipo di società che chiameremo dei tecnici.

Questa transizione ha inizio con la prima guerra mondiale»11

. Burnham individua

i tecnici in quelle persone che hanno la funzione di guidare, amministrare,

gestire, organizzare il processo di produzione.

Simone Weil12

andava oltre alle proposizioni sin qui citate: Weil vede nei tecnici

una nuova classe dominante, più precisamente: «quel che va sotto il nome di

stalinismo e fascismo non è la dittatura del proletariato né una dittatura

esclusivamente capitalistica, ma quella di una nuova classe né proletaria né

capitalistica».

In Italia le tesi di Taylor incominciarono a circolare intorno agli anni precedenti

al primo conflitto mondiale, ma le pesanti critiche e le proteste dei lavoratori

americani e francesi consigliarono agli imprenditori italiani di avvicinarsi con

prudenza alle nuove teorie scientifiche del lavoro.

Tuttavia, le necessità produttive imposte dal conflitto, il turbolento clima sociale

del dopoguerra e il successo economico degli Stati Uniti indussero gli

imprenditori italiani ad abbandonare lo scetticismo iniziale e adottare le teorie di

Taylor, le quali promettevano, oltre ad un aumento della produttività, anche la

fine delle lotte sociali in nome di una nuova efficienza del mondo del lavoro.

Questo mutamento di pensiero degli imprenditori italiani fu incoraggiato e

sostenuto dal regime fascista, che vedeva nelle nuove teorie di Taylor la chiave

che avrebbe permesso all’Italia di affrontare i mercati internazionali con

successo.

L’espansione delle imprese, la crescente separazione fra proprietà e controllo

dell’impresa, la razionalizzazione dei processi produttivi e mercati sempre più

ampi e complessi richiedevano alle aziende di avere del personale con funzioni

direttive altamente qualificato e preparato.

11

Burnham, J. La rivoluzione dei tecnici, 1947 Mondadori, Milano 12

Salsano, A. op. cit.

10

La convinzione della necessità di avere percorsi formativi ad hoc per la classe

dirigente non era particolarmente diffusa tra gli imprenditori; la formazione

scolastica non era ritenuta uno dei fattori strategici per lo sviluppo economico e

industriale.

La formazione migliore, si diceva, era quella che si faceva sul campo, on the job:

«per la funzione di capo occorre soprattutto competenza ed esperienza: non

acquistate sui libri… ma acquistate incallendosi le mani sulle leve delle

macchine»13

e ancora «Nessuno può dire come si diventa capo, non si diventa

capo. Si nasce capo. Il comando è un mistero che nessuno ha mai svelato»14

.

Tali convinzioni andavano oltre i confini nazionali, ad esempio in Inghilterra

un’inchiesta condotta dalla rivista “Businnes Organization and Management” del

’26 registrava come pensiero prevalente:

«se il vostro ragazzo ha quasi diciassette anni, toglietelo appena potete dalla

scuola. Gli anni migliori per imparare cosa sono gli affari sono tra i diciassette e i

ventuno, […] è importante che durante questi anni il giovane colga quel senso di

spietatezza che contraddistingue il mondo degli affari»15

.

2. Dalla formazione on the job alle competenze specifiche

Alcuni imprenditori e dirigenti più aperti e attenti ai cambiamenti sociali ed

economici ritenevano che la direzione d’impresa e la sua gestione fossero

elementi strategici per lo sviluppo delle aziende e la loro sopravvivenza sui

mercati.

Dunque, gli uomini che dovevano ricoprire ruoli direttivi dovevano avere

preparazione e competenze specifiche.

13

Guarnieri, F. Battaglie economiche tra le due guerre, pp. 69-70, 1953 Garzanti, Milano 14

Il conte Volpi, presidente di Confindustria, così si esprimeva all’inaugurazione del ciclo di conferenze

tenute a Venezia all’apertura del Corso per Dirigenti di Aziende Industriali, in “Notiziario n.3” 1935

p.161 15

How shall I educate my son for a business career. An Enquire Obtains the Option of Several Business

Men, in “Business Administration and Management”, p. 30 XIII, n. 6 marzo 1926

11

Significative al riguardo sono le affermazioni di alcuni industriali e dirigenti del

tempo.

Mario Fassio, dirigente Fiat negli anni ’30:

«Cinquant’anni fa, poteva giungere all’apice d’una carriera l’uomo intelligente,

osservatore, tenace, che comincia a servire nell’azienda ancora ragazzo, con la

scopa e lo straccio per levare la polvere. Era l’epoca del self made man. Oggi non

vi arriverebbe più. Perché non bastano tutte le classiche qualità del self made

man oggi per dirigere: ma abbisogna la cultura: quella cultura professionale e

generale che un tempo non era affatto necessaria, anzi si considerava inutile ed

ingombrante. Siamo in tempi di armi dotte […]. I capi di oggi, non si fanno più

da se stessi. Devono sapere troppe cose, che non possono più apprendere da se

stessi»16

.

Per A. Pirelli17

, oltre alle doti umane e personali è necessaria la formazione:

«una buona preparazione di cultura generale serve non solo a prendere quota, ma

giova anche come base e come metodologia per l’inquadramento di ogni

problema».

Anche il professore F. M. Pacces, ordinario di tecnica industriale e commerciale

all’Università di Torino, convinto fautore dei principi dello scientific

management, sosteneva che una giusta formazione potesse aiutare o meglio

sostenere i futuri manager (dirigenti economici, secondo il linguaggio del Pacces)

nella competizione economica.

Era necessario, secondo Pacces, riformare le Scuole superiori di commercio e

parallelamente creare delle scuole ad hoc.

Anche a dire degli imprenditori i normali corsi universitari non sembravano

rispondere pienamente alle necessità della direzione aziendale:

alle varie discipline mancava una conoscenza comune dei principi base

dell’industria: gli ingegneri non avevano alcuna nozione di economia e gli

economisti non avevano nozioni tecniche degli impianti industriali.

16

Fassio, M. Vita aziendale tecnica, organizzazione ed etica, pp. 168-177, 1938 Hoepli, Milano

12

Per sopperire a questa mancanza di multi-disciplinarità nel ’26 a Roma venne

istituito un corso post laurea denominato “Scuola di Perfezionamento in

Commercio” presso la Regia Scuola di Ingegneria.

Gli insegnamenti del corso erano:

tecnica commerciale, organizzazione amministrativa, contabilità delle aziende,

economia industriale, legislazione sindacale, istituzione di diritto commerciale.

Parallelamente a Milano presso il Politecnico, il professore Mauro attivava un

corso facoltativo di dieci lezioni sull’organizzazione scientifica nell’economia

aziendale.

Il corso prevedeva insegnamenti sugli aspetti tecnici e gestionali degli impianti,

sul fattore umano e sull’economia generale.

Le numerose prese di posizione a favore dell’importanza di una classe dirigente

industriale preparata ed istruita erano comprovate dai successi economici d’oltre

oceano nelle fabbriche di Henry Ford.

La Fiat di Giovanni Agnelli fu l’azienda italiana che maggiormente si interessò al

fenomeno Ford, infatti numerose furono le visite di studio negli stabilimenti

americani da parte di alti dirigenti Fiat.

Il segreto del successo di Ford non era nel macchinario o negli impianti utilizzati

dagli americani, ma nel ruolo di coordinazione e organizzazione del

management.

Nella relazione della visita alle officine di costruzioni del nord America del ’26,

redatta dai dirigenti Fiat18

, si legge:

«è nel buon management, frutto di studio, ordine e metodo la causa principale del

successo americano».

Oltre a queste importanti prese di posizione, che cercavano di fare breccia in una

mentalità imprenditoriale ancora provinciale, un altro soggetto svolse un ruolo

particolarmente attivo nella diffusione del taylorismo: la Confindustria, che inviò

quale suo rappresentante Mario Fassio al primo congresso internazionale sullo

17

Pirelli, A. prolusione al Corso del Politecnico dell’a.a 1935-36, Arte e scienza della direzione, in

“Notiziario”

13

scientific management di Praga nel ’25, congresso nel quale venivano illustrate le

teorie di Taylor e si analizzavano le applicazioni e il grado di diffusione.

Il secondo congresso, tenutosi a Bruxelles, vide una notevole partecipazione

italiana, la quale dimostra l’avvio di un cambio di mentalità verso le teorie

scientifiche di Taylor.

Sull’onda di questo cambiamento venne costituito nel ’26 l’Ente Nazionale

Italiano per l’Organizzazione Scientifica (ENIOS) a cui capo fu nominato il

professor Francesco Mauro.

Nel ’27, su interessamento dello stesso Mauro, il terzo congresso internazionale

di scientific management venne organizzato a Roma.

Oltre alla presenza ai congressi internazionali, furono organizzati

corsi/conferenze sull’organizzazione scientifica del lavoro in varie università,

quali il Politecnico di Milano e Torino, la Regia Scuola di Ingegneria di Pisa e

l’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Sociali di Torino.

Nacque inoltre a Torino nel ’28 l’Istituto laboratorio per l’Organizzazione

Scientifica della produzione, offriva corsi serali per dirigenti di industria,

ingegneri e dottori in scienze commerciali.

Nel ’29 Pacces avvia l’Istituto Aziendale Italiano che aveva come obiettivo il

formare «una classe dirigente aziendale corporativa, tecnicamente preparata per

le competizioni della vita moderna»19

.

3. La FNDAI e i primi corsi per dirigenti

Tra le due guerre, l’Associazione Nazionale Fascista dei Dirigenti di Aziende

Industriali, costituita nel ’26, si distinse per la grande attività di sviluppo e

diffusione della professione del dirigente; nel ’34 l’Associazione aderisce alla

Confindustria diventando Federazione Nazionale Fascista dei Dirigenti di

Aziende Industriali (FNDAI)

18

Archivio Storico Fiat, fascicolo 15 19

Fauri, F. Istruzione e governo dell’impresa, 1998 Il Mulino, Bologna

14

Nell’organo di stampa della FNDAI, il Notiziario20

, si legge in un articolo del

’33:

«Fino a qualche anno fa, se si fosse domandato quale titolo accademico poteva

ritenersi occorrente per dirigere un’azienda […] ci si sarebbe sentiti rispondere,

non senza una certa baldanza, che per fare il dirigente di azienda tutti i titoli

erano uguali, e nessuno necessario».

Fortunatamente le cose stavano mutando, e anche per la carriera direttiva ci si

poteva preparare razionalmente.

La FNDAI si adoperò per istituire dei corsi di cultura per dirigenti delle Aziende,

che videro la luce negli anni compresi tra il ’34 e il ’37:

corsi inquadrati a livello universitario a frequenza serale, per permettere a

dirigenti e imprenditori di parteciparvi.

I corsi furono attivati in quattro province: a Milano e Napoli presso la Regia

Scuola di Ingegneria, a Torino presso il Regio Istituto Superiore di Scienze

Commerciali e a Firenze presso il Regio Istituto Superiore di Scienze Sociali.

Il corso più importante nella formazione manageriale è senza dubbio quello di

Milano del ’34, con la “Scuola superiore di politica ed organizzazione delle

imprese”, convenzionata con il Regio Istituto Superiore di Ingegneria.

Scopo del corso, come recita l’articolo n.2 della convenzione, era: “migliorare le

capacità tecniche dei dirigenti già in servizio nelle aziende e di orientare

utilmente i laureati che aspirano alla carriera direttiva nell’impresa, in modo che

essi abbiano adeguata conoscenza ed elevato senso di responsabilità in rapporto

alle esigenze dell’impresa produttiva moderna…”21

Al corso potevano partecipare dirigenti di Aziende, laureati in Ingegneria,

Chimica e Scienze Economiche e Commerciali e laureati di altre facoltà a

giudizio della Direzione.

Il corso ebbe un notevole successo: L.Urwick, direttore dell’International

Management Institute, lo definì the pioneer of modern management in Italy. Tale

20

Il primo numero della rivista “Il Notiziario del dirigente di azienda industriale” esce nel 1929. 21

Fauri, F. La formazione dei dirigenti in Gran Bretagna e in Italia, 1860-1960, 1988 Il Mulino, Bologna

15

successo, che durò sino all’83, si deve anche all’interessamento attivo del

professore Francesco Mauro.

Il corso era articolato su diciotto insegnamenti, tra i quali: teorica della direzione,

psicotecnica, organizzazione amministrativa e commerciale dell’impresa,

impianti e servizi industriali, organizzazione generale e tecnica dell’impresa.

4. Gli anni ’50

L’influenza americana sul piano sociale ed economico fu notevole; gli aiuti del

piano Marshall non si limitarono a forniture di materie prime e macchinari per

l’industria, andarono oltre: gli americani fornirono consulenza e formazione per

tutte quelle problematiche legate all’organizzazione del lavoro e del

management.

Nel ’51 nacque il Comitato Nazionale della Produttività (CNP) a presidenza del

Ministro per l’Industria e il Commercio, Pietro Campilli.

Il CNP, oltre a favorire l’aumento della produttività, si attivò nel diffondere

programmi di formazione destinati a dirigenti e a favorire lo sviluppo della

cultura manageriale.

Vennero organizzati convegni nel ’52 in varie città tra cui Genova, Torino,

Milano, Napoli, nei quali dirigenti e capi di azienda confrontavano esperienze di

direzione aziendale supportati da professori e dirigenti americani, i quali

esponevano nuove metodologie di management.

Sempre nello stesso anno venne organizzata a Fregene (Roma) una Conferenza

internazionale sulla produttività, che illustrava i metodi americani di “formazione

del capo in azienda”, e nel contempo aveva la funzione di formare esperti, che a

loro volta dovevano diffondere le nuove metodologie americane.

Inoltre il CNP creò un efficiente servizio di consulenza con esperti americani che

rispondevano ai problemi delle aziende in materia di organizzazione generale

della produzione, contabilità industriale, procedimenti di lavorazione, ricerche di

mercato e relazioni industriali.

16

A seguito delle attività divulgative e di formazione, alcune grandi aziende che

avevano inviato loro rappresentanti alla Conferenza di Fregene diedero vita a

Milano all’Istituto per l’Addestramento nell’Industria (IAI).

Negli stessi anni, a Torino nasce l’Istituto Postuniversitario per lo Sviluppo

dell’Organizzazione Aziendale (IPSOA). Il corso attivato dall’Istituto prevedeva

una frequenza a tempo pieno da novembre a giugno; i professori titolari erano

tutti americani e provenivano dalla Harvard Business School.

La particolarità della didattica dell’IPSOA riguardava la nuova metodologia

adottata e cioè lo studio di casi.

L’IPSOA terminò la sua attività nel ’64 ma l’esperienza didattica dei docenti che

collaborarono con l’istituto continuò presso altri istituti di formazione

manageriale, quali l’Istituto direzionale e tecnico dell’Eni, l’ISIDA (Istituto

Superiore per Imprenditori e Dirigenti d’Azienda) di Palermo, il Centro

Universitario di Organizzazione Aziendale (CUOA) di Padova.

Per le facoltà di Economia e Commercio l’evolversi verso quella che oggi

chiamiamo economia aziendale fu più lento e spesso i corsi non ebbero successo,

come nel caso del corso di Organizzazione Aziendale istituito dalla Facoltà di

Economia e Commercio di Bologna negli anni ’55-’56.

Le facoltà di Economia e Commercio non sembravano intenzionate ad aprirsi

allo studio di materie inerenti all’organizzazione aziendale; lo studio

commissionato dal Ministero della Pubblica Istruzione del ’56 per verificare la

possibilità di inserire tali materie nei piani di studio registrava una sostanziale

immobilità.

La riforma dell’insegnamento alla facoltà di Economia e Commercio verrà

introdotta nel ’69 ampliando i piani di studio alle materie di organizzazione

aziendale.

Un caso a parte nel panorama italiano è la Scuola di Applicazione industriale e

l’Università Bocconi.

Nel ’57, all’interno dell’Università di Torino, Pacces, con il contributo di Fiat,

Unione Industriale, Camera di Commercio e Banca S. Paolo fonda la Scuola di

17

applicazione industriale (SAI), che nei suoi obiettivi iniziali intendeva essere una

scuola di perfezionamento per soli ragionieri, ma successivamente l’iscrizione fu

aperta a quadri intermedi e dirigenti.

Con l’ampliamento del bacino di utenti, anche le finalità della Scuola vennero

riviste: «si intendeva sviluppare negli studenti quelle competenze ed attitudini

professionali generalmente riferibili alle problematiche dell’amministrazione e

della gestione d’impresa»22

.

Successivamente la Scuola cambiò nome diventando Scuola di applicazione di

Amministrazione, e nel ’63 venne integrata nella Facoltà di Economia e

Commercio di Torino.

Nel ’55 l’Università Bocconi istituisce un Corso di perfezionamento in Economia

Aziendale, aperto ai laureati in Economia, Giurisprudenza, Ingegneria, Chimica.

Il corso ha una durata di due anni con frequenza serale, gli insegnamenti

fondamentali suddivisi nei due anni sono:

• primo anno:

costi di produzione e distribuzione; bilanci delle imprese; finanziamenti di

impresa; variazioni monetarie; tecnica delle ricerche di mercato; tecnica del

commercio e dei regolamenti internazionali; relazioni umane nelle aziende;

• secondo anno:

tecnologia industriale, organizzazione e statistica industriale; economia delle

aziende industriali e commerciali; economia delle aziende di credito; legislazione

del lavoro e tecniche sindacali; il sistema dei prezzi; responsabilità penali nelle

aziende.

Il Corso nel ’69 viene sospeso. Vittorio Coda, Presidente della SDA Bocconi fino

al ’96, afferma: «era chiaro che il Corso Biennale Serale nella forma esistente

non contribuiva in alcun modo sostanziale alla formazione manageriale dei

dirigenti di medio livello che vi partecipavano»23

22

Fauri, F. op. cit. 23

Gemelli, G. Scuole di management, p.354, 1997 Il Mulino, Bologna,

18

L’università Bocconi e in particolare il suo corpo docente rivedono i propri

programmi sulla formazione manageriale, e si concentra su programmi formativi

post-laurea.

Nasce così un nuovo ente dedicato alla formazione manageriale, la Scuola di

Direzione Aziendale (SDA Bocconi) con una didattica rinnovata. L’esperienza

del professore Claudio Demattè24

, in Svizzera e negli USA presso l’università di

Harvard, risultò determinante nell’organizzazione della Scuola e nelle

metodologie formative: nuovi programmi e una partecipazione attiva degli

studenti attraverso discussioni in aula, analisi di casi, lavori di gruppo e

testimonianze.

Nel ’71 il Corso di Perfezionamento in Economia Aziendale viene riattivato, ma

le finalità, i contenuti e le modalità differiscono sostanzialmente dall’edizione

originale, si voleva infatti “insegnare-addestrare i partecipanti a far fronte a

problemi multi-funzionali”25

.

L’Università Bocconi, accanto al Corso di perfezionamento, attiva negli anni

’71-’72 il Corso Intensivo di Gestione d’Azienda, della durata di sette settimane,

dedicato ad imprenditori a capo di piccole e medie imprese.

Le iniziative di formazione manageriale proseguirono nel ’75 con l’avvio del

primo Master in Direzione Aziendale (MDA) della Scuola.

La Scuola di Direzione Aziendale era diventata una vera e propria business

school italiana, ed il successo dei suoi corsi e seminari legittimava il suo

riconoscimento a livello internazionale.

L’evoluzione dei corsi con un orientamento manageriale proseguì all’interno dei

Politecnici e nell’83 il Politecnico di Milano attivò il corso di laurea in

Ingegneria delle tecnologie Industriali ad indirizzo economico organizzativo che

in seguito sarà poi denominato Ingegneria Gestionale.

24

Direttore della SDA Bocconi dalla fondazione all’89. Nel ‘70 partecipa all’International Teachers

Programme di Losanna e frequenta con una borsa di studio un semestre ad Harvard.

25

Gemelli, G. op. cit. p. 358

19

In generale le università italiane, oltre al citato corso Mauro del Politecnico di

Milano, attivarono nel dopoguerra corsi e centri di formazione manageriali, tra

questi il corso di perfezionamento di Organizzazione aziendale presso la Facoltà

di Napoli, l’Istituto di Studi Aziendali presso l’Università di Genova, il Centro

Studi sui Problemi del Lavoro presso la Facoltà di scienze politiche di Firenze e

l’Istituto di Tecnica della Produzione del Politecnico di Torino.

Alcune considerazioni:

in questa breve panoramica sull’evoluzione della formazione manageriale, senza

pretesa di completezza, emerge, a mio avviso, un percorso che si muove tra

resistenze e accelerazioni.

Molti imprenditori di piccole e medie aziende non hanno riconosciuto

l’importanza e la necessità della formazione per le figure dirigenziali: vi fu una

resistenza giustificata dall’idea che per occupare posti di responsabilità fossero

necessarie solo doti personali, e queste non potevano essere acquisite sui libri.

Un altro tipo di imprenditori, spesso legati a grande aziende, e una parte di

intellettuali compresero l’importanza della formazione per le classi dirigenti,

grazie anche agli stimoli culturali provenienti dall’estero.

Le doti personali, pur essendo importanti, non erano considerate più sufficienti

per competere in un mercato sempre più complesso e dinamico.

Il sistema formativo italiano si mosse con relativa lentezza, tuttavia vi furono

iniziative innovative e pionieristiche, in particolare presso i Politecnici.

Alcune iniziative non ebbero successo e le esperienze più radicali furono accolte

con scetticismo e interpretate come fughe in avanti.

Tuttavia, il seme della formazione manageriale era stato gettato e prima o poi

avrebbe dato i sui frutti.

20

CAPITOLO II: Dall’orologio all’acqua

Il vecchio universo era un

orologio regolato perfettamente.

Il nuovo è una nube incerta.

Edgard Morin26

1. Il modello meccanico

Per alcuni siamo ormai entrati nel “tempo del post fordismo”, per altri il

fordismo con le sue implicazioni sociali ed economiche vive una fase di

trasformazione: cambia volto, ma la sua parte più profonda rimane inalterata.

In ogni caso la centralità dell’industria nel mondo occidentale è ancora un dato di

fatto.

Al riguardo il dizionario di sociologia di Gallino definisce la società industriale27

di tipo capitalistico come:

[…] una società entro la quale, indipendentemente dalla forma di governo, i più

importanti rapporti e relazioni sociali, la stratificazione sociale, le principali

istituzioni economiche e politiche, le forme del potere e del dominio, la cultura

materiale e non materiale, sono condizionati e improntati, più che da ogni altro

fattore direttamente o indirettamente dalla presenza e dall’attività dell’industria,

dallo sviluppo delle aziende industriali, dal lavoro nelle fabbriche.

Il modello organizzativo fordista, tipico delle società industriali del secolo

scorso, si inserisce all’interno di un modello di riferimento più ampio, chiamato

orologio o meccanico28

.

«Secondo questo modello una buona organizzazione è quella in cui funzioni,

compiti, strutture organizzative, mansioni, procedure, processi sono

massimamente specificati e razionalmente interconnessi attraverso un piano

26

Morin E., Il metodo, ordine, disordine, organizzazione, p.79, Feltrinelli 1989, Milano 27

Gallino L., Dizionario di Sociologia, p. 405, volume II 2006 Utet, Torino

21

preordinato, allo scopo di assicurare la massima efficienza globale e la massima

prevedibilità e governabilità delle singole parti».

I principi di base del modello meccanico si possono riassumere come segue:

• Massima specificazione e formalizzazione degli elementi dell’organizzazione

(organigrammi, job description, procedure dettagliate);

• Responsabilità e autorità chiaramente definite, delegate o controllate

attraverso la linea gerarchica;

• Mantenimento e innovazione assegnate allo staff, coordinamento e

trasformazioni assegnate alla linea;

• Controllo per programmi e procedure;

• Definizione dei confini organizzativi per livello gerarchico, tecnologia,

territorio, tempo, al fine di ottimizzare le risorse interne e il controllo;

• Elevata divisione del lavoro ( forte demarcazione delle mansioni, separazione

tra ideazione e controllo ed esecuzione, parcellizzazione del lavoro esecutivo);

• Mercato del lavoro aziendale basato sulle mansioni svolte, separazione tra

mercato del lavoro industriale ed altri mercati del lavoro;

• Separazione fra posizione/mansione e persone;

• Cultura della dipendenza e dell’esecuzione;

• Relazioni industriali di tipo antagonistico.

L’organizzazione che si basa sul modello meccanico, o un suo stretto derivato,

presuppone di operare in un ambiente economico e sociale, interno ed esterno,

stabile, regolare nei suoi eventi, lineare nelle sue relazioni, prevedibile e

ordinato.

In queste condizioni un sistema di regole prescritte, una struttura gerarchica

marcata, un controllo formalizzato, mansioni e ruoli definiti non sono altro che

28

Butera, F. L’orologio e l’organismo, p. 282, 1988 Franco Angeli, Milano

22

strumenti organizzativi che rispondono all’idea di ordine, di stabilità e di

prevedibilità.

Maurizio Magnabosco, alto dirigente Fiat, responsabile delle relazioni interne,

riferendosi alla natura meccanica del vecchio modello fordista dice:

«Nel modello «meccanico» invece, ogni singola parte possiede una propria

specifica ratio e viene ricondotta al tutto solo in forza di un “progetto” ad essa

esterno (come i pezzi di un motore)»29

.

Queste caratteristiche di natura organizzativa devono essere ricondotte allo scopo

primo dell’organizzazione fordista: la produzione di massa attraverso l’uso di

economie di scala.

Infatti il mercato viene considerato potenzialmente infinito e in continua crescita,

non vi sono limiti, gli unici limiti ad una continua dilatazione dei volumi

produttivi sono all’interno dell’organizzazione: nella tecnologia degli impianti e

nel rapporto con la forza lavoro.

L’alterità del soggetto produttivo è riconosciuta, è parte del processo produttivo,

è un costo necessario.

La produzione di massa, cioè grandi produzioni in serie, standardizzazione dei

prodotti, pianificazione delle attività produttive sul medio e lungo periodo, hanno

determinato il modello organizzativo e non solo.

La definizione prima citata di società industriale evidenzia chiaramente il peso,

l’influenza profonda che l’attività industriale con il suo sviluppo ha sul nostro

modo di essere, di pensare, sulla nostra società.

La grande impresa fordista insediata nel territorio ha con esso un rapporto

economico, politico e sociale forte, intenso; l’impresa viene riconosciuta come

organizzazione ed anche come istituzione che crea lavoro e genera profitto e in

una certa qual misura anche sapere e cultura, quella cultura industriale che ha

permeato in profondità la nostra società del secolo appena trascorso.

29

Revelli M., Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, p. 188, in Ingrao, P.-

Rossanda, R, “Appuntamenti di fine secolo” 1995 Manifestolibri, Roma

23

Non solo: la presenza fisica dei grandi insediamenti industriali come la Fiat

Lingotto e Mirafiori di Torino, la General Motors di Detroit e la Renault di

Parigi, tanto per citarne alcuni, collocano l’impresa su un territorio con una

fisicità forte, le mura dell’impresa la delimitano spazialmente, la situano con

precisione in un quartiere, in una città, in un Paese.

I confini dell’organizzazione non solo identificano lo spazio deputato al lavoro

ma sono anche un punto di riferimento concreto, che in un certo qual modo

genera un senso di sicurezza sociale, che permette di dire: lì c’è la Fiat, oppure

la General Motors o la Renault.

Vi è quindi un rapporto complesso tra impresa, territorio e persone, che non

sempre si risolve in termini positivi, ma anche quando si manifesta attraverso la

dialettica e la conflittualità, esso mantiene intatta tutta la sua importanza

«La produzione produceva il mercato. La fabbrica produceva la società»30

La grande impresa è il centro di tutto, in essa si pensa, si pianifica, si produce, si

lotta; è il luogo della concretezza, dell’ordine razionale.

L’agire produttivo in tutte le sue fasi è sacro, la produzione è sacra!

Nulla e nessuno può e deve fermarla, essa deve proseguire ininterrottamente

come l’acqua in un fiume.

E’ interessante notare come l’idea del fluire della produzione intesa come un

fiume sia presente nei discorsi dei dirigenti Fiat già nei primi anni ’30:

«Come avviene in un fiume, anche qui le varie correnti del flusso produttivo

devono procedere in modo continuo e uniforme dall’origine sino alla meta finale.

Guardando il complesso schematico in senso inverso, esso appare come una

ramificazione avente per tronco collettore la linea di montaggio e finemente

suddiviso all’origine nelle migliaia di elementi che compongono la vettura»31

.

30

Revelli, M., op. cit. p. 163 31

Bigazzi, D., op. cit. p. 96

24

Per garantire il corretto svolgersi del flusso produttivo, la grande impresa si è

data un’organizzazione di tipo piramidale, top down, che nella sua struttura di

comando assomiglia o deriva da quella burocratico-militare.

«Alla Fiat si giunse, in epoca vallettiana, a contare fino a quattordici livelli

gerarchici distribuiti lungo una catena lineare (in cui, cioè, ogni livello non

poteva assumere decisioni senza interpellare il superiore)».32

Tutto segue un flusso preordinato da un’attenta pianificazione di medio-lungo

periodo: i vertici aziendali con il supporto degli enti di staff stabiliscono cosa

dove, come e quando produrre.

Nell’organizzazione fordista non è ammessa l’incertezza e l’indeterminazione;

non ci possono essere vuoti, la continuità e la ripetitività devono essere

assicurate; come in un puzzle ogni tessera è a fianco dell’altra, al suo posto e tutte

insieme formano un unico disegno, la produzione.

L’idea di ordine, precisione e continuità viene espressa e alimentata anche

attraverso l’architettura dello stabilimento, come accade per il Lingotto:

le officine sono numerate secondo il piano di ubicazione, officina 1 – piano 1,

officina 2 – piano 2, così sino al quinto piano, permettendo così di muoversi con

esattezza nello stabilimento; a questo si deve aggiungere la numerazione delle

colonne interne, in modo tale che il reticolo consenta di muoversi nello

stabilimento senza incertezze e con la massima precisione, riducendo sprechi di

tempo.

L’ordine, la disciplina, la sequenzialità lineare del lavoro attraverso la sua

scomposizione, comportamenti prevedibili e durevoli, sono alla base

dell’organizzazione fordista.

Il gigantismo degli insediamenti industriali è funzionale alla produzione di

massa: gli spazi sono pensati per assicurare un processo e un flusso produttivo

ordinato e razionale, senza movimentazioni inutili di materiali e persone; le linee

di produzione sono progettate e costruite per produrre un unico modello per molti

32

Revelli, M., op.cit. p.165

25

anni, la tecnologia, normalmente di tipo monofunzionale, è progettata per

produrre lotti con una minima varianza.

Non solo gli aspetti produttivi hanno valore nel considerare la grandezza degli

stabilimenti, anche i valori di orgoglio nazionale hanno la loro parte:

Asrael Callaboni, uno dei tecnici Fiat che si occuparono dell’avviamento del

Lingotto, ebbe a dire:

«Non solamente agli Americani è riservata la soddisfazione di avere in Detroit

uno stabilimento Ford […] ma anche a noi Italiani di condizioni più modeste, è

dato di essere gloriosi, di vedere sorgere nella nostra Torino questi nuovi e

grandiosi stabilimenti, […] una sola e potente organizzazione da far destare

l’ammirazione degli Americani stessi»33

.

Affinché la pianificazione industriale si traduca in unità di prodotto è necessario

preservare l’impresa dalle fluttuazioni del mondo esterno, che potrebbero mettere

a rischio la produzione stessa, cioè il raggiungimento dell’obiettivo primo.

In questo senso l’organizzazione è isolata, distinta dal mondo esterno, si

potrebbe allora pensare l’insediamento industriale, con le sue mura di cinta e le

sue guardie agli ingressi, come una fortezza che cerca di proteggere il più

possibile il suo agire produttivo.

Non è un caso che lo stabilimento della Wolkswagen di Wolfsburg, in Germania,

progettata nel ’37 era pensato «in chiave monumentale militaresca: con una

soluzione simile a quella di Mirafiori, ma assai più esasperata, gli ingressi alle

officine avvenivano tramite avancorpi che richiamavano le torri di una città

fortificata»34

.

E ancora, riferendosi a Mirafiori «facevano riscontro, all’esterno, gli avancorpi

corrispondenti agli ingressi, che facevano pensare alle antiche muraglie che

cingevano le città fortificate»35

.

L’impresa fordista non può sostenere forze esterne che vadano a perturbare la

linearità e l’ordine organizzativo; ogni elemento che può condurre verso una

33

Callaboni, A. I nuovi stabilimenti Fiat Lingotto, pp.29-30 in “L’attività tecnica d’officina”, n.8, 1922 34

Bigazzi, D., op. cit. p. 93

26

situazione di non equilibrio, di disordine, di rottura, è pericoloso e deve essere

rimosso o quanto meno ridotto, reso il meno offensivo possibile.

Vi è in questa logica anche un’idea di autoreferenzialità, l’impresa con la sua

organizzazione basta a se stessa, ciò che è fuori dalle sue mura deve adeguarsi

alle sue esigenze, si potrebbe dire che è la fortezza a dominare, a dettare le

regole, i ritmi; chi è fuori dalla fortezza non ha altra scelta se non quella di

adattarsi o ribellarsi.

E’ l’impresa ad essere il perno attorno al quale tutto o quasi ruota: il mercato, il

lavoro, la politica, la lotta sindacale, l’urbanizzazione ed il tempo con la sua

scansione classica: tempo di lavoro e tempo di riposo.

L’impresa fordista, per produrre prodotti in gran quantità – produzione di massa

– ricerca una condizione di equilibrio; le sue parti, almeno da un punto di vista

teorico, si muovono come gli ingranaggi di un orologio: precisi, sincroni e

ordinati.

L’orologio è certamente una metafora, ma essa ha un effetto pervasivo, sia

sull’organizzazione che sulle persone che vi operano.

La precisione dell’orologio e dei suoi componenti è in un certo qual modo

replicato nell’organizzazione del lavoro: i ruoli, le mansioni, le funzioni i livelli

gerarchici aziendali sono chiari, ben definiti.

Si ha la certezza su cosa accadrà, poiché ogni parte si muove secondo una

specifica ratio.

In una qualche misura il futuro è già scritto, il copione è noto, tutti sanno quando

entrare in scena e cosa recitare.

Il senso di certezza, di determinazione di quanto deve accadere deriva da un’idea

riduzionista la quale:

«scompone i sistemi che analizza in elementi semplici e si pone come obiettivo la

descrizione del comportamento del sistema esclusivamente a partire dai

comportamenti degli elementi che lo costituiscono»36

.

35

Bigazzi, D., op. cit. p.101 36

Bertuglia, C.-Vaio, F. Non linearità, caos, complessità, p. 33, 2003 Bollati Boringhieri, Torino

27

In altre parole vi è una relazione di linearità, di proporzionalità fra il

comportamento delle parti (micro – sotto sistema) e quella dell’intero sistema

(macro).

Si ha quindi l’idea che si possa guidare un sistema attraverso una variazione di

input sapendo con certezza che a piccole variazioni in ingresso corrispondono

piccole variazioni in uscita, e in particolare si presume che le conseguenze siano

proporzionali e note.

Dunque, un intero sistema è modificabile e governabile sapendo che

intervenendo sulle sue parti in modo opportuno si avranno determinati risultati

sull’intero sistema perché il sistema è sottoposto a delle Leggi.

«Piccole variazioni delle variabili in uscita sono riconducibili a piccole variazioni

delle variabili in ingresso e, similmente, grandi variazioni in uscita sono

riconducibile a grandi variazioni delle variabili in ingresso»37

.

Chiunque abbia visto il funzionamento di una linea di montaggio in un qualsiasi

stabilimento si rende conto di quanto questa linearità e proporzionalità sia vera e

viva nelle persone che vi lavorano.

Non vi è molto da discutere, tutta l’organizzazione si muove e reagisce secondo

questa logica di proporzionalità e prevedibilità:

le pianificazioni aziendali, le grandi produzioni di serie, l’organizzazione del

lavoro hanno a fondamento questi principi.

La variabilità, l’indeterminazione, il disordine e si può aggiungere la creatività,

sono condizioni alle quali l’impresa fordista non è preparata, vengono percepite

come dannose e pericolose.

L’azienda non ha solo il primato della produzione, essa è anche depositaria di un

patrimonio di conoscenze, di cultura e valori, che vengono considerati come gli

unici modelli ufficiali in opposizione ad altri saperi.

In questo senso lo scopo della formazione è modellare un tipo di personalità che

sia conforme al sistema delle idee, alle pratiche professionali, alle tradizioni

proprie dell’azienda.

28

Per il corretto funzionamento dell’orologio - impresa è necessario ripristinare nel

più breve tempo possibile la condizione di stabilità e di equilibrio.

E’ sicuramente vero che questa forma mentis è più forte nel nucleo tecnico, come

suggerisce J.D.Thompson38

, e poi man mano che da esso ci si allontana, questa si

attenua a favore di comportamenti più discrezionali, ma a mio avviso questa

cultura è presente in tutti gli ambiti e in tutti i livelli aziendali, anzi con

l’aumentare delle responsabilità aziendali si è visto che aumenta l’identificazione

con i valori aziendali.

Un esempio significativo, seppur datato, lo riferisce Bigazzi riguardo agli

standard di ordine e pulizia richiesti dai dirigenti Fiat:

«A partire da Valletta, per arrivare fino ai quadri di rango inferiore, l’ordine dei

materiali di lavoro e la pulizia delle macchine e dei reparti erano considerati una

precondizione necessaria all’efficienza fornendo allo stesso tempo un indicatore

della buona gestione organizzativa e disciplinare dello stabilimento»39

.

La modalità con cui si manifesta questa adesione ai valori e alla cultura aziendale

varia nella forma e nell’intensità, ma io credo che essa sia un tratto comune e

trasversale all’organizzazione:

il rispetto per la gerarchia aziendale, la certezza dei risultati, la produzione prima

di tutto, l’essere dei buoni esecutori, avere un’idea di ordine che spesso si

vorrebbe che travalicasse l’azienda, il pensare l’azienda come luogo sociale ma

privato in cui si fanno fatti e non parole, da contrapporre quindi ad altri luoghi

sociali ma pubblici, il percepire l’azienda come il fulcro delle attività

economiche sociali di una nazione; tutti questi aspetti hanno finito per creare una

cultura e un sistema di valori che nel corso del tempo sono diventati parte di

coloro che nell’industria hanno lavorato.

Sarebbe però riduttivo circoscrivere un discorso industriale alle sole persone che

nell’industria, in particolare nella grande industria, hanno lavorato; è l’intera

37

Bertuglia, C.-Vaio, F., op. cit. p.263 38

Thompson, J.D. L’azione organizzativa, 1999 Isedi, Torino 39

Bigazzi, D., op. cit. p.120

29

società ad essere coinvolta nell’industrializzazione in tutte le sue articolazioni

sociali, politiche ed economiche.

La società industriale con tutte le sue caratteristiche è stata per tutti un punto di

riferimento, un luogo a cui guardare, e attraverso essa leggere il reale, sia per chi

accettava il suo modello di sviluppo evidenziandone i meriti e sia per quelli che

si opponevano contestandolo e mettendo in luce la sua iniquità.

Un luogo di incontro e scontro, di lotta e di conflitto, di dialettica, ma anche di

formazione di identità collettive, di storia e di passioni.

Indipendentemente dalla scelta di campo, tutti, favorevoli e contrari, riconoscono

l’importanza e la centralità di quel luogo che ha così profondamente segnato la

storia del secolo scorso.

Dice Revelli:

«La produzione produceva il mercato. La fabbrica produceva la società».

Rovesciando la sua frase si ha una buona sintesi dei cambiamenti che andavano a

concretizzarsi nella nostra società industriale a partire dagli anni ’70:

il mercato produceva la produzione, e la società produceva la fabbrica.

Non si tratta solo di un ribaltamento sintattico, è un rovesciamento delle basi che

hanno sostenuto il paradigma fordista.

2. La rivoluzione degli anni ’70

Gli anni ’70 sono stati anni di grandi trasformazioni organizzative in particolare

per le grandi imprese.

Diverse e molteplici sono le cause che hanno portato a questo epocale

rovesciamento che naturalmente non si è dispiegato in breve tempo, ma che una

volta iniziato, come su un piano inclinato non si è più arrestato, anzi la sua

velocità è andata aumentando.

Si arriva agli anni ’70 dopo un periodo di forte espansione economica e di

sviluppo sociale, un periodo per certi versi eccezionale dovuto a diversi fattori:

30

• le economie occidentali uscivano dalla crisi degli anni ‘30 e dalla seconda

guerra mondiale con una estrema necessità di beni strumentali e con attese di un

“mondo migliore” da parte della popolazione. Ciò ha determinato un inevitabile

aumento della domanda;

• lo sviluppo della domanda a sua volta ha originato forti investimenti con il

conseguente miglioramento della produttività in quasi tutti i settori industriali;

• la produttività nel settore agricolo ha avuto un forte aumento che, oltre ad

abbassare il prezzo delle risorse alimentari, ha anche reso disponibile forza

lavoro di cui l’industria aveva necessità per la propria espansione;

• l’innovazione tecnologica è stata molto intensa, stimolata in un primo

tempo dall’utilizzazione commerciale delle numerose scoperte ad “uso di guerra”

degli anni ’40 e in un secondo tempo dai forti investimenti in ricerca. Tali

investimenti a loro volta sono stati resi possibili dagli elevati profitti delle

imprese e dallo sviluppo della domanda;

• l’innalzamento del livello medio di istruzione ha dato forti benefici a tutti

i settori industriali a partire dagli anni cinquanta proprio quando era necessario

aumentare il ricorso al lavoro specializzato40

.

Questi fattori, insieme ad altri, contribuirono allo sviluppo economico e sociale

dei paesi industrializzati europei: per rendere più concreto quanto detto è

sufficiente ricordare che il PIL di questi paesi, negli anni compresi tra il ‘60 –

‘7341

aveva un valore medio anno del 4,8%.

La seconda metà degli anni ’70 e i primi anni ’80 sono anni di svolta per le

economie dei paesi industrializzati: si passa da un valore di PIL del 4,8% per

scendere con il primo shock petrolifero del ’73 a un valore di PIL del 0,8% per

poi risalire a un 3,4% e scendere nuovamente a 0,8% con il secondo shock

petrolifero e risalire nell’82 - ’87 a un valore del 2.6%.

40

Pellicelli, G., L’impresa oggi, p.9 1983 Etas Libri, Milano 41

Pellicelli, G., op. cit.

31

Sviluppo del Prodotto Interno Lordo in Europa

0,0

1,0

2,0

3,0

4,0

5,0

6,0

1960 - 73 1973 - 75 1975 - 79 1979 - 81 1982 1982 - 87

anni

% d

i svil

up

po

Questa alternanza di andamenti economici ebbe sulle imprese un forte impatto:

era ormai chiaro che l’economia non avrebbe più raggiunto i valori degli anni

Sessanta e quindi diventava necessario ripensare al proprio posizionamento sul

mercato, ricercare nuove economicità, rivedere l’organizzazione e ridisegnare

nuove strategie.

Le imprese in qualche modo sono state costrette ad interrogarsi, a guardarsi

dentro e a porsi una domanda fondamentale e per certi versi rivoluzionaria per i

tempi di allora:

che cosa chiede il mercato?

E’ una domanda che presuppone un cambio di prospettiva, una presa di coscienza

che il mondo stava cambiando e non sarebbe più stato quello di prima.

Gli anni ’70 non sono solo caratterizzati da un andamento altalenante

dell’economia, altre forze concorrono significativamente al cambiamento, che

non può essere circoscritto solo al dato economico, perché è tutta la società che si

muove.

Il sindacato dei lavoratori, da parte sua, rivendica una migliore condizione di

lavoro, contestandone l’organizzazione tradizionale; nuove forme organizzative e

di lavoro vengono introdotte nelle imprese, ad esempio: le isole di montaggio, i

gruppi di lavoro, la rotazione e la mobilità.

32

Parallelamente vi è un notevole sviluppo di nuove tecnologie che condizionano il

processo produttivo e quindi il lavoro e la sua organizzazione.

I robot entrano nelle linee di montaggio e sostituiscono gli operai nei lavori più

pericolosi e nocivi; in generale è l’automazione, attraverso lo sviluppo della

micro elettronica, ad entrare nella fabbrica, ma anche negli uffici.

I primi personal computer fanno la loro comparsa sulle scrivanie andando

gradatamente ad automatizzare anche una parte del lavoro impiegatizio.

E’ interessante un articolo dell’83 scritto da G. Turani, che spiega molto bene la

sensazione che si provava allora (ma anche oggi) nel vedere i robot al lavoro

nelle fabbriche:

«Dentro a una sorta di gigantesca libreria metallica ci sono le scocche della

Ritmo e della Uno, in un apparente disordine.

In realtà tutto è controllato da un calcolatore centrale.

[…] Lungo tutto il pavimento si muovono, silenziosissimi, dei carrier, dei

pianali.

Seguono dei percorsi che si intrecciano e che finiscono dentro immense

macchine piene di tubi, di mani metalliche, di congegni.

I carrier si presentano a ritmo incessante davanti alla libreria metallica e se ne

vanno portandosi via una scocca per uno.

[…] Guidati dalla lontana intelligenza del calcolatore, […] portano la scocca

dentro al robogate42

.

Dopo pochi secondi il carrier porta la scocca, ormai saldata, in un’altra libreria

metallica, dove più tardi proseguirà per altre lavorazioni.

L’ingegnere della Fiat accompagnando nelle visita allo stabilimento dice:

[…] Saldiamo 1300 scocche al giorno senza un operaio. Prima della rivoluzione

avremmo avuto bisogno di impiegarne almeno 300.

Così invece, tutto va avanti da solo»43

.

42

Robogate: sistema robotizzato a tecnologia flessibile per assemblare le scocche delle vetture 43

Turani, G. A che serve l’operaio? Ora nelle fabbriche dominano i tecnici e i robot, in Erbani, F. (a cura

di) “L’ESPRESSO 50 ANNI”, 2005 gruppo editoriale L’espresso, Roma

33

Sono dunque anni di fermento, di trasformazioni che cercano in vario modo di

rispondere al progressivo rallentamento dell’economia, ma sono anche tempi in

cui è necessario un cambio di mentalità, di cultura, di visione del mondo; un

cambio al quale non tutti sono pronti, ed al quale è necessario prepararsi.

Sono i settori maturi come la siderurgia, i cantieri navali, l’auto che

tradizionalmente hanno avuto una funzione di traino dell’economia a soffrire di

più, ad avere un maggior calo della domanda.

Marco Revelli ci fa notare come il mercato dell’auto, tipico esempio di prodotto

fordista, abbia rallentato la sua crescita: a partire dagli anni ’70 il mercato

dell’auto «si era sviluppato fin dalla sua nascita con ritmi estremamente rapidi,

tipici di un prodotto a domanda potenzialmente illimitata, facendo segnare

incrementi medi annui intorno al 10%.

A metà degli anni ’70 [...] il ritmo di crescita ha di colpo rallentato: + 8% nella

seconda metà degli anni ’70, +5% nella prima metà degli anni ’80, +3% nella

seconda metà, fino all’attuale fase vicina alla crescita zero»44

.

L’importanza del settore auto per lo sviluppo dell’economia e dell’industria

italiana è nota: nel ’59 in Italia circolavano poco più di un milione e mezzo di

autovetture, alla fine del ’72, tredici anni dopo, le auto erano diventate tredici

milioni.

Si arriva dunque agli anni ’70 dopo un periodo di espansione economica in cui i

mercati sembravano illimitati, e forse lo erano, dove tutto ciò che era prodotto

veniva assorbito, anche per via di quel bisogno di ricostruzione e del desiderio di

lasciarsi alle spalle i tempi bui della guerra, ora questa espansione sembra

rallentare e, quasi come la traiettoria di una parabola, inizia la fase discendente.

D'altronde i mercati dei paesi industrializzati sono vicini alla saturazione, e i

paesi non industrializzati o in via di industrializzazione non hanno le risorse per

acquistare beni di consumo durevole come l’automobile.

Le imprese si trovano ad operare in un contesto del tutto nuovo, nel quale la

produzione è soggetta a un limite e questo limite non proviene , questa volta,

34

dalla capacità produttiva dell’impresa o dalla conflittualità della forza lavoro, ma

dal mercato stesso, di fronte a questa situazione le imprese non possono fare altro

che prenderne atto e trovare nuove soluzioni per vivere anche in un’epoca di

crescita lenta.

In questo contesto diventa sempre più chiaro che la vecchia logica fordista basata

sulla produzione di massa con una riduzione dei costi attraverso economie di

scala, non può essere più valida:

«la dilatazione ad libitum dei volumi produttivi secondo dinamiche lineari non

può più rappresentare il terreno sui cui regolare la dinamica costi – profitti»45

.

Il mercato non è più una variabile dipendente, è diventato il punto di riferimento,

il centro della scena, dal quale dipendono tutte le politiche aziendali.

E’ la società, attraverso la variabilità della sua domanda, a imporre il tipo e la

quantità di prodotto, facendo sì che le aziende si trovino a dover continuamente

seguire e adattarsi alle fluttuazioni della domanda.

Le grandi produzioni di serie non costituiscono più l’asse portante della filosofia

produttiva: vengono richiesti prodotti e beni sempre meno standardizzati e

sempre più personalizzati.

Un esempio di offerta di prodotto altamente personalizzato ci viene fornito dalla

pubblicità della casa automobilistica Maserati; in un’inserzione pubblicitaria

apparsa sul settimanale L’espresso46

, dopo aver elencato le caratteristiche

tecniche della sua automobile, la Quattroporte, segnala ai potenziali clienti, che

sono possibili 4 milioni di personalizzazioni, attraverso il Programma di

personalizzazione delle Officine Alfieri Maserati.

Certamente, per i prodotti di lusso, l’alto grado di personalizzazione è sempre

stato un elemento caratterizzante, tuttavia mi pare che una combinazione così

elevata di personalizzazioni sia indicativa di quanto le aziende cerchino di

soddisfare i gusti del singolo cliente, arrivando a costruire, pur seguendo una

filosofia industriale, prodotti unici a tutti gli effetti.

44

Revelli, M. op. cit. p.173 45

Revelli, M. op. cit. p. 178

35

3. Verso nuovi modelli organizzativi

Tutto ciò si ripercuote pesantemente sui piani industriali: produzioni in piccoli

lotti, cicli di vita del prodotto brevi o brevissimi, mesi o settimane.

La prevedibilità, la programmazione di medio lungo periodo, per certi versi

appaiono lontani, ormai si naviga a vista!

In un contesto così variabile e dinamico, le aziende devono diventare agili,

snelle, sincronizzate al loro interno, veloci nel cogliere i cambiamenti nei gusti

dei consumatori e nella società più in generale.

Di notevole efficacia al riguardo è la metafora presentata da G. Bonazzi47

con il

tubo di cristallo per rappresentare i nuovi modelli organizzativi: snellezza,

rapidità del flusso produttivo da un lato, partecipazione, condivisione di

responsabilità da parte dei lavoratori tutti dall’altro, sono le due componenti

necessarie affinché il tubo di cristallo non vada in pezzi.

Il mercato globale, le nuove tecnologie, l’innovazione se da un lato sono

un’opportunità di sviluppo industriale e sociale, possono essere anche causa di

esclusione per i singoli e per le organizzazioni.

R. K. Merton48

, ci ripropone il concetto dell’incapacità addestrata, di Th.

Veblen, che in questo caso può essere utilizzato per evidenziare il fatto che se

non vi è aggiornamento professionale e culturale, ma anche organizzativo, dei

singoli e delle organizzazioni, se non si ha voglia di mettersi in gioco, se la

novità spaventa, se non si ha il coraggio di abbandonare vecchie certezze, si

rischia che pratiche professionali una volta efficaci risultino oggi essere

inadeguate e controproducenti, sia per la persona che per l’impresa.

In altre parole, nuove forme organizzative e l’introduzione di nuove tecnologie

ad alta automazione sono la via che le imprese percorrono per abbattere i costi,

non essendo più possibile ridurli distribuendoli sulle grandi produzioni.

46

Settimanale L’espresso p.30, n.11 del 24 marzo 2005 47

Bonazzi G., Il tubo di cristallo, modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat Auto, 1993 Il Mulino,

Bologna 48

Merton R.K., Teoria e struttura sociale, p.407 volume II 1993, Il Mulino, Bologna

36

Il nuovo scenario competitivo si ripercuote inevitabilmente sul lavoro e la sua

organizzazione; le linee guida dell’impresa fordista diventano, in un contesto

fortemente dinamico, dei vincoli, dei freni: le pianificazioni di medio e lungo

periodo, la rigidità gerarchica e l’elevata burocrazia, non sono più compatibili

con la nuova realtà.

Parallelamente l’impresa perde una parte della sua centralità e della sua

autoreferenzialità e supremazia a favore di un rapporto più simmetrico e di

aumentata interdipendenza con quanto la circonda.

L’analisi del rapporto fra incertezza esterna e struttura organizzativa diventa

dunque oggetto di studio primario da parte delle organizzazioni e di istituti di

ricerca / intervento, per individuare risposte e strumenti efficaci per affrontare la

nuova complessità.

Tutto ciò, non è indolore, non è privo di costi economici e sociali, un

cambiamento così profondo non può che incidere sulla vita lavorativa delle

persone.

Una nuova cultura aziendale si fa strada; termini come: mercato, flessibilità,

fabbrica corta o snella, attenzione al cliente, delega, cooperazione, verifica dei

risultati, riduzione costi, qualità totale, incertezza entrano nel vocabolario del

lavoro, diventando parti di un linguaggio comune e presto questo linguaggio e le

idee che esso esprime, travalicheranno le mura dell’impresa per entrare nella

società proprio perché il cambiamento investe non solo il lavoro, ma tutti gli

ambiti sociali.

Nuove strategie aziendali e nuovi modelli organizzativi vengono messi in atto per

superare pratiche lavorative ritenute ormai troppo lente e pesanti, che a lungo

andare si rivelano antieconomiche.

Vengono ridotti i livelli gerarchici di comando, i ruoli resi più aperti e meno

definiti, gli spazi vuoti lasciati da maglie organizzative più morbide devono

essere riempiti dal consenso, dalla partecipazione e dalla cooperazione tra chi

lavora.

37

L’individuo con la sua soggettività viene visto sotto una nuova luce, diventa una

ricchezza da spendere all’interno dell’organizzazione; non più una minaccia, la

creatività del singolo o del gruppo di lavoro, se ben utilizzata, può diventare una

risorsa per far fronte ad una complessità crescente con la quale l’organizzazione

costantemente ormai si trova a confrontarsi.

Gli anni ’70 e ’80 sono stati protagonisti di una trasformazione epocale dei

processi di lavoro e di organizzazione produttiva che ha investito le aziende in

tutti i suoi livelli, dal vertice alla base.

La dimensione sociale, quella umana, oltre a quella organizzativa e tecnologica, è

stata attraversata appieno dal cambiamento.

La richiesta di far fronte alla complessità attraverso una maggior partecipazione,

nuovi stili di leadership, ridefinizione del proprio ruolo, la comprensione delle

strategie organizzative ma anche l’ansia per il nuovo, sono stati elementi che un

po’ tutti hanno avvertito in prima persona, a partire dai livelli dirigenziali più alti.

E’ necessario quindi fornire gli strumenti culturali per comprendere il

cambiamento, per leggere la nuova complessità, per agire in situazioni non

sperimentate e per muoversi in un’azienda che opera non più nella stabilità e

nell’equilibrio, ma nel non equilibrio, nella regione al margine del caos.

In particolare il vertice aziendale deve ripensare una nuova configurazione

organizzativa in relazione ai nuovi contesti sociali ed economici.

Sono loro che per primi comprendono la complessità e la necessità del

cambiamento e per primi, insieme alle massime dirigenze, devono cambiare.

Infatti i vertici aziendali e le Alte dirigenze delle aziende, quelle di maggiori

dimensioni, sperimentano che la complessità e il cambiamento non possono

essere più ignorati, tenuti fuori dalle porte degli uffici o dai cancelli delle

fabbriche, ma si dove imparare a conviverci, dotando i propri uomini di strumenti

culturali e operativi che permettano loro di muoversi in uno scenario di

complessità crescente.

Il carattere sempre più internazionale delle grandi organizzazioni e l’utilizzo di

tecnologie informative, hanno ridotto per non dire annullato le dimensioni

38

spazio-tempo, costringendo le funzioni aziendali più elevate a giocare su tavoli

planetari, richiedendo così conoscenze sempre più ampie, complesse e in

continuo aggiornamento.

Era ed è necessario imparare a muoversi nel nuovo, nell’imprevisto,

nell’incertezza.

4. Dal complicato al complesso

Il punto di snodo in questo passaggio è comprendere e dunque anche accettare

che si è passati da una realtà che si potrebbe definire complicata ad una realtà

complessa.

Questo passaggio dal complicato al complesso è fondamentale, riuscire a porsi in

questa nuova prospettiva consente di osservare quanto accade intorno a noi da

una diversa angolazione e trovare nuove modalità d’azione.

Infatti è proprio nell’etimologia, nel significato di complicato e di complesso, che

si coglie la differenza, il salto di prospettiva: entrambi i termini derivano dal

latino ed hanno la medesima radice, cum-plicum e cum-plexum; plicum indica la

piega di un foglio e plexum il nodo, l’intreccio.

Tabella di sintesi49

:

Complicato Complesso

Etimologia cum plicum cum plexum

Approccio analitico sistemico

Soluzione spiegato nelle sue pieghe compreso nel suo insieme

Esempio meccanismo organismo

I due termini presuppongono una diversa modalità di affrontare i problemi, e di

interpretare la realtà: il primo ci indica che la soluzione è nelle sue pieghe, nel

49

De Toni, A.F.-Comello, L. Prede o ragni. Uomini e organizzazioni nella ragnatela della complessità,

p.12, 2005 Utet, Torino

39

suo interno, nelle sue parti. Dunque andando a studiare analiticamente il

problema, spiegando le sue singole parti, si perviene alla soluzione.

Il secondo termine, complesso, prevede un approccio molto diverso: le parti prese

singolarmente non hanno più valore in sè, è l’insieme, l’intreccio, la totalità che

deve essere considerata, non più una descrizione e spiegazione analitica, ma

un’analisi di sistema.

Con il termine complicato, l’impresa, l’organizzazione è letta attraverso il

modello «meccanico» in cui ogni singola parte possiede una propria specifica

ratio e viene ricondotta al tutto solo in forza di un “progetto” ad essa esterno,

(come i pezzi di un motore); passando ad una visione complessa dell’impresa,

essa è vista come un sistema (complesso) dove convivono omogeneità, diversità

e molteplicità a seconda che si considerino le parti o il tutto, inoltre il sistema

possiede qualità proprie che non sono attribuibili ai suoi singoli componenti.

Il modello meccanico, prima citato, deriva da una visione del mondo e della

realtà fortemente influenzata dalla scienza classica che studia l’oggetto a partire

dai suoi elementi costituenti, cioè le singole parti.

È dalla scomposizione dell’oggetto nelle sue singole parti che si perviene alla

determinazione delle caratteristiche e proprietà dell’oggetto stesso.

Spiegando gli elementi, le parti e le leggi alle quali sono sottoposti, si arriva alla

determinazione dell’oggetto, cioè del tutto, il quale è la risultante della

sommatoria delle parti.

Inoltre le parti sono autonome, distinte, autosufficienti con caratteristiche proprie

e indipendenti dall’ambiente in cui sono inserite.

L’esempio del motore è illuminante: ogni parte è deputata ad un compito, a

svolgere una funzione, ogni parte è autonoma e con sue caratteristiche ed il

motore è la somma delle singole parti.

In termini generali, l’impresa, la grande impresa risente fortemente di

un’impostazione derivante dalla scienza classica, si può dire che essa abbia una

cultura deterministica, sia per quanto riguarda l’organizzazione che la

conduzione.

40

Le parti che compongono l’impresa sono state pensate come entità autonome, o

comunque con un alto grado di indipendenza, pertanto si può operare su una

delle parti senza andare a modificare l’impresa tutta, inoltre l’idea di autonomia e

di autosufficienza e relativa chiusura dell’oggetto impresa, si è concretizzata, ad

esempio, attraverso la sua capacità di imporre unilateralmente, all’ambiente

circostante, cioè al mercato e alla società il suo ordine, la sua cultura, i suoi ritmi

secondo la logica del profitto.

A dire il vero, l’approccio riduzionista, tipico della fisica classica, per il suo

successo venne esportato ed adottato nei vari campi scientifici, dunque non vi è

da stupirsi se lo si ritrova, con qualche variante e aggiustamento, anche in alcune

teorie organizzative.

Ma è proprio a partire dalla fisica che si ha una prima rottura del paradigma

riduzionista: «l’atomo non è più l’entità prima, irriducibile e indivisibile: esso è

un sistema costituito da particelle in reciproca interazione»50

.

L’idea di oggetto isolato, chiuso, indipendente, autonomo ed autosufficiente

cade, o meglio perde gran parte della sua importanza e validità, non solo nella

fisica ma anche nelle altre discipline scientifiche.

Dice E. Morin:

«Oggi vediamo che le scienze biologiche e fisiche sono caratterizzate da una crisi

della spiegazione semplice. E di conseguenza quelli che sembravano essere

residui non scientifici delle scienze umane – l’incertezza, il disordine, la

contraddizione, la pluralità, la complicazione, ecc. – fanno oggi parte della

problematica di fondo della conoscenza scientifica»51

.

Questo ha fatto sì che vi sia un avvicinamento tra le scienze matematiche (fisica,

chimica e biologia) e le scienze umanistiche, come la sociologia, la filosofia e la

psicologia, dando vita a campi di analisi multidisciplinari, come la stessa teoria

della complessità.

50

Morin E., op. cit. 51

Bocchi, G.-Cerutti, M., La sfida della complessità, pag.49, 1992 Feltrinelli, Milano

41

Dunque lo studio e la spiegazione di un oggetto, deve considerare l’oggetto

stesso in relazione all’ambiente in cui è inserito, deve tenere conto delle sue parti

e delle loro interazioni, in altre parole deve considerare l’oggetto nel suo essere

sistema.

Così anche l’impresa non può più essere vista come un oggetto isolato, e ancora

meno la si può descrivere e spiegare a partire dai suoi singoli componenti, come

se essa fosse una sommatoria di parti. L’impresa può essere compresa a partire

dall’ambiente in cui essa è inserita e attraverso le interazioni delle sue parti:

l’impresa è un sistema complesso.

Ed è proprio nell’idea stessa di sistema che, secondo Edgard Morin, è insita

l’idea di complessità, infatti il sistema è ad un tempo omogeneo ed eterogeneo e

diverso: se si considera il sistema dal punto di vista del tutto esso appare

omogeneo, se invece si considerano le sue costituenti allora si scoprono diversità

ed eterogeneità.

In questo risiede un aspetto significativo della complessità che caratterizza

l’oggetto sistema, poiché convivono caratteri che a prima vista sembrano

escludersi, ed è proprio in questo paradosso che vive secondo Morin la

complessità sistemica.

Pertanto non si può ragionare solo in termini del tutto o solo in termini di parti,

questi due aspetti devono essere considerati congiuntamente in modo

complementare ed antagonistico.

L’unità globale, ovvero il sistema, presenta qualità proprie che non si riscontrano

a livello dei suoi componenti, il tutto è più della somma delle parti.

Questo fenomeno è detto emergenza, nel senso che il sistema fa emergere qualità

e proprietà nuove.

L’emergenza, così intesa, non si manifesta solo al livello del tutto, è presente

anche al livello delle singole parti, attraverso processi di retroazione:

le macro emergenze retroagiscono sugli elementi che compongono il sistema,

facendo sì che le parti sviluppino nuove qualità, che non si manifesterebbero nel

caso in cui esse si trovassero in uno stato di isolamento, fuori dal sistema.

42

L’essere parte di un sistema comporta anche vincoli e restrizioni, il tutto è meno

della somma delle parti.

Le parti non sono libere di agire, di muoversi a piacimento, vi sono dei vincoli,

dei limiti che riducono il grado di libertà dei singoli componenti; così alcune

proprietà o qualità possono venire attenuate o inibite a favore di altre, in

relazione a un progetto più ampio, quello del sistema appunto.

Riassumendo, si può dire che il sistema:

� è un’unità globale, non elementare, poiché è costituito da parti diverse in

interrelazione;

� è costituito da elementi diversi che hanno caratteristiche diverse;

� ha qualità proprie che non derivano dalla sommatoria delle proprietà dei

singoli elementi; se il sistema viene scomposto a livello di parti perde le sue

qualità.

Morin, proseguendo la sua analisi sulla complessità, invita a superare la

dicotomia sistema aperto – sistema chiuso, poiché tale dicotomia non risponde

alla realtà, è solo un’astrazione:

un sistema aperto ha una sua chiusura così come un sistema chiuso ha una sua

apertura.

Apertura e chiusura coesistono, convivono.

Il sistema si apre verso l’esterno per scambiare e ricevere informazioni, energia o

altro che gli consenta la sopravvivenza, ma poi si richiude.

E’ una chiusura attiva, attraverso la quale il sistema rielabora, metabolizza, fa

proprio quanto scambiato con l’esterno, per poi riaprirsi nuovamente.

Questo processo di apertura – chiusura è vitale per il sistema:

con l’apertura vi è lo scambio, la relazione, il confronto e una certa ridefinizione

di se stesso in rapporto all’altro o ad altri sistemi, poi con la chiusura vi è una

rielaborazione delle informazioni acquisite, in relazione alla propria identità, alla

propria storia.

43

L’immagine che bene identifica questo processo di apertura e chiusura del

sistema è lo stesso Morin a fornirla:

«Apertura e chiusura coesistono, come nell’idea di frontiera: essa proibisce ed

autorizza il passaggio, è ciò che chiude e apre»52

.

Le parti, inoltre, posseggono una doppia identità, una specifica e una del tutto.

Questa diversità è bilanciata nel sistema dall’organizzazione, la quale ha la

funzione di creare e mantenere l’unità del sistema, senza perdere la ricchezza

della diversità delle parti che lo compongono.

Di particolare importanza poi è lo stato in cui i sistemi si trovano: se

immaginiamo un asse nel quale riportare i diversi stati nel quale il sistema può

muoversi, ai due estremi si ha:

• ordine ripetitivo (stato stazionario)

• varietà estrema (caos)

I due estremi sono pericolosi per la vita del sistema in quanto l’ordine ripetitivo

elimina ogni possibilità di diversità interna, e questo genera la comparsa di

sistemi organizzati poveramente e poveramente emergenti; nel caso opposto, in

cui vi è l’estrema varietà, la diversità è massima, il sistema non riesce attraverso

l’organizzazione a mantenere la propria unità.

«Lo sviluppo della complessità richiede dunque ad un tempo una maggior

ricchezza nella diversità e una maggior ricchezza nell’unità»53

52

Morin, E. op. cit. p.174

53

Morin, E., op. cit. p.150

Ordine

ripetitivo

Varietà

estrema

44

Una maggior complessità equivale secondo Morin ad una maggior varietà nel

sistema.

Poiché un aumento della diversità, oltre ad un certo limite, può risultare dannoso

per la vita del sistema, è necessario che venga adottata una nuova

organizzazione, più aperta, affinché venga valorizzata la varietà e nel contempo

sia garantita l’unità del sistema stesso.

La diversità non può più essere vista come una devianza da un percorso

predefinito, un uscire da linee gerarchiche rigide, l’essere allineati e coperti,

tanto per utilizzare un gergo militare; questa cultura, questo modo di intendere i

rapporti nell’impresa non è più utile per il sistema impresa.

Il valorizzare la diversità, il confronto, la persona, far emergere le qualità dei

componenti del sistema, fa sì che, attraverso processi di feed-back, il sistema,

nella sua globalità, si arricchisca.

5. La teoria della complessità

La teoria della complessità, nata in anni recenti e sviluppatasi anche grazie

all’informatica, è una scienza multidisciplinare, nel senso che attinge e integra i

risultati di diverse scienze anche molto diverse tra loro, dalla fisica e chimica

all’economia, per arrivare alla filosofia e le scienze sociali.

L’apertura ai vari contributi è una ricchezza: la diversità di approcci e

metodologie, almeno in questo caso, non rimangono chiusi nei propri ambiti, si

contaminano, dialogano e si arricchiscono a vicenda.

Questo permette anche di affrontare il tema della complessità partendo da strade

differenti, ognuna delle quali esprime la sua complessità.

In particolare, la teoria della complessità studia l’evoluzione dei sistemi

complessi dinamici indipendentemente dalla natura del sistema, questo permette

una sua applicazione a una vasta classe di fenomeni, ad esempio

allo studio dell’evoluzione del tempo atmosferico, alla turbolenza dei fluidi, alla

formazione di organizzazioni sociali.

45

I sistemi complessi si trovano in una particolare condizione o stato di instabilità

che non è riferibile all’equilibrio stabile e neanche al caos.

Per usare le parole di Morin: né l’ordine ripetitivo, né la variabilità estrema.

E’ una condizione lontana dall’equilibrio in cui il sistema vive in una tensione tra

l’immutabilità e la variabilità massima.

«La complessità è pertanto uno stato liquido: non è né l’immutabile status quo

del ghiaccio, né l’incontrollabile anarchia del vapore, ma l’acqua che porta la

vita».54

Questa zona intermedia in cui si trova il sistema viene comunemente chiamata

Orlo del Caos o Margine del Caos, ed è proprio qui che il sistema tende a creare

nuove configurazioni, e far emergere nuove proprietà a seguito di sollecitazioni

interne o esterne.

La novità, l’evento portano il sistema a fluttuare verso nuove regioni del margine

del caos, segnando così un cambiamento, una rottura con il passato, una distanza

tra un prima e un dopo.

Per la teoria della complessità, l’evento non è un qualcosa di negativo da

eliminare o ridurre, ma rappresenta il presupposto per il salto evolutivo che

induce il sistema a ricercare una nuova condizione di stabilità relativa, una nuova

complessità.

Stabilità

e

ordine

Disordine

e

caos

Margine

del

Caos:

complessità

46

«Il margine del caos è là dove la vita ha abbastanza stabilità da sostenersi e

creatività sufficiente da meritare il nome vita. Il margine del caos è dove nuove

idee e genotipi innovativi erodono senza tregua i confini dello status quo, e dove

persino la vecchia guardia meglio trincerata sarà infine capovolta»55

.

Vi è una relazione circolare tra evoluzione del sistema e margine del caos:

Evoluzione

Orlo del Caos

L’evoluzione spinge il sistema verso una maggior complessità, la quale porta il

sistema a esplorare nuove regioni del margine del caos, e questo a sua volta

determina una nuova evoluzione.

I sistemi dissipativi, studiati da Ilya Prigogine, premio Nobel per la chimica nel

‘77, dimostrano concretamente che particolari sistemi, in condizioni lontane

dall’equilibrio, danno vita a nuove configurazioni, ed assumono nuove proprietà.

Un esempio tipico di strutture dissipative è costituito dalle celle di Bèrnard:

Henri Bèrnard, fisico francese, scoprì all’inizio del XX

secolo, che il riscaldamento di uno strato sottile di liquido può dar luogo a

strutture stranamente ordinate.

Quando il liquido viene riscaldato uniformemente dal basso, si stabilisce un

flusso costante di calore, dal basso verso l’alto. Il liquido rimane a riposo e il

calore viene trasferito per sola conduzione. Tuttavia, quando la differenza di

temperatura fra le due superfici superiore e inferiore raggiunge un certo valore

critico, alla conduzione subentra la convezione, in cui il calore viene trasferito

54

De Toni, A.F.-Comello, L. op.cit. p.113 55

Waldrop, M.M., Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos. p.8, 1996 Instar Libri, Torino

47

dal moto coerente di grandi quantità di molecole. A questo punto appare uno

schema davvero sorprendente di celle esagonali,in cui il liquido più caldo sale

attraverso le celle, mentre quello più freddo scende verso il fondo lungo le loro

pareti.

Le celle di Bèrnard ci portano ad esaminare un ulteriore fenomeno legato alla

teoria della complessità: l’auto organizzazione.

I sistemi dissipativi importano dall’ambiente energia – informazione, la quale

viene dissipata all’interno del sistema stesso, causando un riassestamento del

sistema con la comparsa di nuove strutture che, in condizione di equilibrio, sono

assenti.

Alla base del fenomeno dell’auto organizzazione vi sono forze, sollecitazioni che

inducono il sistema ad esplorare nuovi scenari, a seguire nuove traiettorie e

indirizzarsi verso nuovi attrattori, i quali rappresentano possibili stati a cui il

sistema tende.

Superata la soglia critica, compaiono nuove strutture di maggior complessità,

portando così il sistema in una nuova condizione di equilibrio dinamico.

In questo percorso, gli elementi costitutivi del sistema, attraverso un processo di

interazione, generano una nuova struttura organizzata, che nasce secondo uno

schema bottom – up.

Questo tipo di sistemi complessi vengono detti dissipativi proprio perché, a

differenza di altri, raggiungono l’equilibrio assorbendo e non liberando energia.

Nel sistema interviene un cambiamento, qualcosa di non previsto, che segna una

differenza tra un passato e un futuro, la novità rende l’evoluzione del sistema

irreversibile, agisce in direzione del nostro futuro.

Dunque l’instabilità del sistema non è negativa di per se stessa, anzi è

fondamentale per l’evoluzione del sistema.

E’ dal non equilibrio, dalla varietà che nasce la complessità e un nuovo ordine si

manifesta nel sistema, così come accade per le celle di Bèrnard.

48

Il fisico e cibernetico Heinz von Foester definisce l’auto organizzazione come

«ordine dal rumore: un sistema che si auto organizza non si limita a importare

ordine dal proprio ambiente, ma assorbe materia ricca di energia, la integra nella

propria struttura, e in questo modo accresce il proprio ordine interno»56

.

Il sistema, attraverso i suoi componenti, perviene ad una nuova complessità

organizzativa, che è prodotta non dall’azione individuale delle singole parti, ma

dall’interazione e dalla cooperazione dei costituenti del sistema stesso.

Il nuovo punto di arrivo del sistema nella regione dell’orlo del caos non è

definitivo: al cambiare di particolari condizioni, il sistema si sposterà verso nuovi

attrattori, tuttavia questa instabilità relativa non è un male poiché rende il sistema

aperto ai cambiamenti, alla novità, mentre invece la stabilità riduce e soffoca il

nuovo.

diagramma delle biforcazioni

Il diagramma delle biforcazioni, permette di chiarire ulteriormente quanto fin qui

è stato scritto.

Per piccole variazioni di λ, che possiamo definire come flusso di energia–

informazioni, il sistema continua a rimanere in equilibrio, in quanto riesce a

smorzare piccole fluttuazioni interne o disturbi esterni.

All’aumentare di λ, oltre un certo valore critico, indicato con λc – il sistema inizia

a diventare instabile, nel senso che non riesce più ad assorbire le fluttuazioni

56

De Toni, A.F.,-Comello, L., op. cit. p.85

49

interne o le sollecitazioni esterne (energia–informazioni): il cambiamento di fase

avviene nel punto di biforcazione in cui λ= λc.

Superato λc il sistema, dopo alcuni tentativi, si indirizzerà verso una nuova

configurazione, verso un nuovo punto di equilibrio b1 o b2.

L’opzione scelta (b1 o b2) costituisce un passaggio importante, un momento di

discontinuità nella vita del sistema e da tale scelta dipenderà la sua evoluzione

futura.

50

CAPITOLO III: La formazione manageriale tra necessità e opportunità.

1. Complessità e conoscenza

Da più parti si sottolinea il fatto che viviamo in un’epoca di cambiamento

incessante che pervade in varia misura il panorama sociale e politico nella sua

interezza.

Le trasformazioni di questi ultimi anni non si riferiscono solo al lavoro e ai suoi

processi o ai nuovi assetti organizzativi delle imprese, ma hanno una portata ben

più ampia: riguardano la politica sociale ed economica di uno stato che tende a

liberalizzare e privatizzare gran parte delle competenze e funzioni pubbliche; a

questo si aggiungano gli effetti sempre più visibili, anche nella vita quotidiana,

della globalizzazione e le frequenti crisi economiche e finanziarie che mettono a

rischio milioni di posti di lavoro.

Tutto ciò contribuisce a generare un senso di incertezza e precarietà sia tra gli

attori sociali che tra le organizzazioni.

Si ha la consapevolezza di vivere un tempo di elevata complessità, di fronte al

quale si è incerti sul come agire, su quale strada sia meglio percorrere, un po’

tutti: singoli, gruppi e organizzazioni, vivono questo senso di smarrimento,

davanti al quale è necessario re-inventarsi, trovare nuove strategie, aumentare la

propria capacità di adattamento, abbandonare consolidate sicurezze per essere

pronti ad approdare sempre in nuovi porti.

La domanda di fondo, allora, potrebbe essere: che fare? Come affrontare la

complessità, il nuovo che avanza?

La conoscenza rappresenta per l’individuo, come per le organizzazioni, la

principale risorsa con cui affrontare le difficoltà che si presentano e, attraverso

questa, trovare nuove vie per raggiungere gli obiettivi prefissati.

In altre parole, uno degli strumenti per fronteggiare la complessità e l’incertezza

è la formazione, che permette al singolo di interpretare le innumerevoli

informazioni discordanti di una realtà in continuo mutamento, cogliere i problemi

posti dalla complessità ed elaborare strategie per risolverli.

51

La formazione è una delle chiavi che ci permette di elaborare soluzioni

innovative, schemi di ragionamento, strategie di cambiamento, in modo che gli

individui e le organizzazioni non si limitino a subire l’innovazione, magari

ostacolandola, ma si facciano promotori cogliendo tutto quanto vi è di buono in

essa.

L’intervento all’Assemblea di Confindustria nel maggio ’04 da parte del suo

Presidente Luca Cordero Di Montezemolo è significativo: egli sottolinea con

chiarezza l’importanza della formazione come fattore strategico di crescita e

sviluppo, non solo per la persona o per la singola azienda, ma per l’intero Paese.

«Le nuove produzioni e i nuovi lavori presuppongono forti investimenti in

formazione e ricerca. Il mondo è tornato a viaggiare sulle idee.

Questo dovrebbe renderci tutti più ottimisti. Ma le idee non vengono solo dalla

fantasia innata dei geni isolati, sono il prodotto di una applicazione perseverante

e di uno studio profondo e diffuso di milioni di individui.» E ancora «Scuola e

Università sono un patrimonio fondamentale per il nostro Paese, dove si formano

i nostri giovani. E’ da lì che verrà il nostro futuro. [...] La competitività del Paese

si misura sulla massa delle competenze, non sulle punte di eccellenza di pochi

individui.»

Da più parti viene riconosciuta l’importanza della formazione come uno degli

strumenti per creare valore, non solo alla produttività d’impresa, ma anche ai

singoli e al sistema socio-economico in generale.

Le organizzazioni hanno necessità di comprimere i costi ed essere veloci

nell’adattarsi ai cambiamenti di mercato, le grandi ristrutturazioni hanno

ridisegnato le organizzazioni rendendole più flessibili e meno gerarchiche,

alleggerendole di molte di quelle fasi tecnico-procedurali che ne rallentavano

l’azione e i tempi di risposta.

La persona, il capitale umano è oggi il vero differenziale che permette

all’organizzazione di migliorare la propria performance; con il suo bagaglio di

conoscenze e con la sua individualità essa torna ad essere al centro dei processi

lavorativi: pluralismo, differenze di pensiero, spazi di iniziativa e di originalità,

52

innovazione, non sono più visti come elementi di disturbo, di devianza rispetto

ad un agire preordinato e programmato, ma come una ricchezza da preservare e

se possibile incrementare.

Oggi si richiede a tutti i livelli, ma in particolar modo a chi riveste ruoli di alta

responsabilità, una competenza professionale sempre più elevata.

La competenza professionale è una forma di sapere che nasce da un percorso

formativo istituzionalizzato, scuola media superiore e università, dove il soggetto

riceve gli elementi di conoscenza ritenuti necessari allo svolgimento della

professione, e dalla prassi legata all’esperienza, alla pratica professionale, dove le

conoscenze vengono adattate e rinnovate.

In un contesto in cui gli scenari mutano con grande velocità, la formazione in una

qualche misura deve essere polivalente e articolata in modo tale che possa essere

spesa nei diversi contesti che si vengono a configurare.

Così non solo le agenzie istituzionalmente delegate alla formazione sono

fondamentali, ma assumono importanza anche tutte quelle conoscenze acquisite

in contesti diversi come la famiglia, le attività svolte nel tempo libero e la vita

sociale.

2. Dalla formazione alle formazioni

L’apprendimento si muove dunque in un continuum che va dalla massima

informalità alla massima organizzazione del momento formativo, fornendo così

alla persona un insieme di conoscenze che determinano quella professionalità

allargata di cui oggi, più di ieri, vi è necessità.

I nuovi processi produttivi, ad alta intensità di capitale umano, hanno necessità di

una competenza professionale allargata che va oltre alle conoscenze e tecniche

riferite alla funzione svolta; sono richieste abilità extra funzionali come la

cooperazione, il saper ascoltare i propri collaboratori, la leadership, la

comprensione dei vincoli organizzativi, il saper affrontare situazioni con un

53

elevato grado di incertezza non in modo ansioso, ed altro ancora, che potrei

sintetizzare con il termine capacità culturali.

Non è un caso che sempre più spesso si parli di formazioni e non di formazione;

vi è in questo passaggio dalla formazione alle formazioni una grande attenzione

alle metodologie, ai contenuti e alle finalità dell’intervento formativo, poiché

esso deve rispondere, il più possibile, alla specificità culturale e situazionale

dell’organizzazione.

La formazione cambia perché si modifica il concetto di professionalità da

formare. Un esempio concreto di questo cambiamento può essere rappresentato

efficacemente dalla formazione outdoor: è una metodologia formativa

relativamente nuova la quale prevede che piccoli gruppi svolgano attività fisiche

prevalentemente all’aperto, simulando condizioni operative e di vita comune.

All’interno dei percorsi formativi istituzionali del Gruppo Fiat per i

“professional”57

(a partire dal ’97) e nel Corso di Formazione Direzionale (a

partire dal 2001) è inserita la formazione outdoor, basata sui metodi di

experiential learning o apprendimento dall’esperienza che utilizzano il supporto

di situazioni reali per simulare comportamenti individuali e di gruppo.

E’ interessante riprendere l’articolo apparso sulla rivista Professional58

dal titolo

“I nuovi manager? Camminano bendati e scalano pareti”:

in effetti i partecipanti a questi corsi hanno camminato bendati su terreni

accidentati guidati in silenzio, per mano, da un compagno, e hanno scalato pareti

anche alte dodici metri. Ferrua Maresa e Dario Pagano, gli autori dell’articolo,

riferiscono che questi esercizi servono «per migliorare il comportamento

organizzativo: adattabilità ai cambiamenti, fiducia, leadership, team working e

problem solving».

Osvaldo Busana, intervistato in qualità di responsabile del Centro di management

e programmi per i giovani di Isvor Fiat afferma, riferendosi a queste esperienze:

«si tratta di esperienze che migliorano la conoscenza e sviluppano la fiducia

57

Professional: famiglia professionale con incarichi direttivi del Gruppo Fiat 58

Rivista del Gruppo Fiat, Professional, n. 10 ottobre 2001

54

reciproca in tempi brevi (risultati che in aula si ottengono solo più

lentamente)…si sviluppano la solidarietà e lo spirito di gruppo».

Nel medesimo articolo vi è la testimonianza di Antonella Chiusa59

:

«è stata un’esperienza piacevole perché ci ha dato la possibilità di stare con i

colleghi in modo diverso dal solito. Inoltre, si costruisce un senso di gruppo

molto forte e un senso altrettanto profondo di solidarietà.

Anche coloro che normalmente vogliono emergere nella vita hanno avuto lezioni

di umiltà, hanno capito che per ottenere risultati è importante imparare a

comunicare e ad ascoltare gli altri».

Questi interventi formativi sono una dimostrazione di come le organizzazioni

cerchino di stimolare e valorizzare tutte quelle abilità extra funzionali che sono

diventate parte integrante del sapere professionale.

Il conoscere può essere definito come un processo attivo che avviene entro

pratiche sociali che coinvolgono tanto la mente delle persone quanto il corpo,

quanto la società, (le relazioni con gli altri,) quanto la tecnologia, il sapere

incorporato dagli artefatti.

Questo processo di conoscenza può essere favorito dalle organizzazioni.

Le imprese, dunque, diventano luoghi dove, con la loro organizzazione interna, si

crea un sapere attraverso le pratiche lavorative quotidiane, ed è proprio in esse

che vi è la creazione, il mantenimento e la trasmissione delle conoscenze.

Ciò avviene in special modo nelle comunità professionali dove particolari

pratiche come il linguaggio, la forma mentis, le attività lavorative concrete, il

confronto con gli altri membri della comunità costituiscono fatti nei quali vi è la

riproduzione delle conoscenze.

Le organizzazioni, per governare la complessità di un mercato dinamico e

incerto, si trovano oggi a dover sviluppare al massimo grado la loro capacità di

apprendere, di rivedere e correggere le proprie pratiche e processi lavorativi; é un

dinamismo indotto dalla sempre più stretta interconnessione tra l’organizzazione

e l’ambiente in cui essa è inserita.

55

In questo quadro è possibile ispirarsi alla metafora organicista, che concepisce le

organizzazioni come sistemi viventi – sistemi aperti che si modificano per

adeguarsi all’ambiente.

Riconosciuto questo bisogno evoluzionistico, le organizzazioni devono favorire

tutti quegli strumenti che permettono loro di apprendere per rimodellarsi in

relazione al contesto operativo: organigrammi e strutture organizzative meno

rigide, riunioni, attivazione processi di feed back, dibattiti sui fattori di successo

o insuccesso, capacità di far emergere l’errore, non per punire ma per correggere,

circolazione più fluida delle informazioni.

Gareth Morgan60

suggerisce quattro principi guida per favorire un approccio ai

problemi organizzativi e direzionali che risulti orientato all’apprendimento:

• è necessario favorire e apprezzare un atteggiamento mentale aperto e

riflessivo che accetti l’errore e l’incertezza come caratteristica inevitabile per chi

opera in ambienti complessi ed instabili.

Questo atteggiamento è indispensabile se si vuole far sì che i membri

dell’organizzazione sappiano gestire l’incertezza in maniera costruttiva;

• è necessario favorire un approccio all’analisi e alla soluzione dei problemi

complessi che riconosca l’importanza di prendere in considerazione più punti di

vista.

[...] In questo modo i problemi possono venire sviscerati completamente e magari

ridefiniti al punto tale da venir affrontati e risolti secondo modalità nuove;

• invece di specificare solo gli obbiettivi in termini di profitto o quote di

mercato, l’organizzazione dovrebbe anche pianificare che cosa desidera evitare.

[...] L’effetto che ha questo approccio sulle strategie è quello di definire uno

spazio mutevole per azioni possibili che rientrano nei limiti critici;

• il quarto principio che favorisce la capacità di apprendere ad apprendere si

riferisce al bisogno di metter in opera delle attività e di dar vita a strutture e

processi organizzativi che aiutino la realizzazione dei principi sopraccitati.

59

Responsabile dell’Ente affari legali di Business Solution 60

Morgan, G. Images. Le metafore dell’organizzazione, pp.113,114, 1992 Franco Angeli, Milano

56

Nuovi scenari socio economici, nuovi prodotti e nuove tecnologie spingono le

organizzazioni a muoversi su terreni non sempre conosciuti e spesso accidentati.

L’apprendimento organizzativo passa, anche, attraverso l’esplorazione di nuove

strade, di nuove soluzioni.

Questo non significa che tutto ciò che si è fatto sino a ieri non sia più valido,

anzi, piuttosto lo si deve integrare e migliorare in relazione alle nuove necessità.

In questa ricerca di nuove strade e di miglioramento di quelle esistenti sono

coinvolte nell’apprendimento le persone, i gruppi e le comunità professionali che

operano nell’organizzazione.

In altre parole, l’apprendimento e la crescita culturale dell’organizzazione si

muovono su diversi piani e in diverse direzioni: dal micro al macro e dal macro

al micro secondo lo schema:

individuo → gruppo → organizzazione

organizzazione → gruppo → individuo.

In questo percorso bi-direzionale vi è da un lato la spinta verso il nuovo, verso la

ricerca di nuove soluzioni, e dall’altro il consolidamento di quanto si è venuto ad

apprendere.

Semplificando e schematizzando i vari passaggi si potrebbe dire che l’individuo,

attraverso la sua esperienza lavorativa e le sue conoscenze, elabora e propone

possibili nuove soluzioni;

il gruppo o la comunità professionale di appartenenza le sperimenta e dopo la

validazione le adotta tra le sue pratiche;

l’organizzazione, attraverso l’uso di procedure o altri sistemi codificati, rende tali

pratiche istituzionalizzate.

L’istituzionalizzazione delle nuove pratiche ha una ricaduta sull’intera

organizzazione, su tutti i membri che vi operano, facendo sì che vi sia un nuovo

riposizionamento dei singoli e dell’organizzazione stessa.

57

In questo percorso/processo di innovazione e sperimentazione che, partendo dal

singolo, arriva alla comunità di pratica61

per poi coinvolgere l’intera

organizzazione, vi è un processo di formazione continua e di apprendimento.

Le organizzazioni dunque sono (anche) luoghi dove si crea e si trasmette la

conoscenza.

La formazione professionale è uno strumento essenziale per sviluppare e

acquisire tutte quelle competenze tecnico-manageriali di cui l’organizzazione ha

bisogno per vivere.

Molteplici possono essere le metodologie e gli strumenti utilizzati per favorire

l’apprendimento organizzativo: da un apprendimento di tipo informale, attraverso

lo svolgimento quotidiano delle attività lavorative, ovvero training on the job a

percorsi di apprendimento strutturato, che in alcuni casi possono essere concepiti

e progettati ad hoc per il singolo partecipante, o interventi formativi che hanno

come riferimento il contesto organizzativo nel suo complesso.

Tuttavia, qualsiasi sia la metodologia scelta, la persona con la sua individualità è

il punto di riferimento per ogni percorso di crescita, sia individuale che

organizzativo.

Infatti, non solo si richiede al singolo di svolgere la propria funzione con

partecipazione e senso di responsabilità per raggiungere gli obiettivi dati, ma si

richiede anche di aver consapevolezza della propria professionalità riconoscendo

i propri punti deboli e diventando portatore di una domanda di formazione.

La gestione della propria professionalità e quindi delle proprie conoscenze e

competenze è parte di quell’insieme di abilità che vanno a formare quella che ho

indicato come professionalità allargata.

Non è dunque un caso che gli alti dirigenti vengano coinvolti nel disegnare, in

accordo alle funzioni aziendali preposte, i propri percorsi formativi o parte di

essi.

61

Con il termine comunità di pratica si identifica un micro sistema sociale che, operando congiuntamente

su specifici ambiti lavorativi, attiva contestualmente processi di generazione e di consolidamento di

sapere pratico. Gli elementi che la qualificano sono dunque le pratiche condivise, l’impegno alla

58

La pratica di razionalizzare i propri bisogni di conoscenza e domandare una

formazione che vada a colmare i gap che inevitabilmente si vengono a creare

nella vita professionale, ma anche proporre argomenti di studio e

approfondimento che siano in qualche modo anticipatori di nuovi scenari

competitivi, sottintende ad una consapevolezza e una gestione della propria

professionalità tipica delle figure aziendali che ricoprono incarichi di alto livello.

3. I nuovi dirigenti

La gestione e la conduzione delle organizzazioni è un aspetto molto importante e

delicato della vita organizzativa.

Essa, grazie anche all’effetto globalizzazione, non ha solo conseguenze dirette sui

membri dell’organizzazione stessa, ma anche sul tessuto economico sociale

locale ed extra locale, il quale può anche essere spazialmente lontano dal centro

decisionale dell’organizzazione.

Nelle società a capitalismo avanzato, e in particolare nelle società per azioni, la

figura che istituzionalmente ha il compito di gestire e condurre l’organizzazione

è il dirigente.

La complessità di tale ruolo e la responsabilità che esso comporta non può essere

trascurata, infatti nel corso del tempo la qualifica di dirigente ha subito delle

trasformazioni proprio per rispondere adeguatamente alle esigenze economico

sociali che nel corso dell’ultimo secolo si sono venute a creare.

Infatti, almeno da un punto di vista giurisprudenziale, vi sono stati dei

cambiamenti significativi, e a livello comunitario la materia è ancora dibattuta, in

quanto vi sono differenti concezioni tra i paesi membri della Comunità Europea

sulla qualifica di dirigente.

reciprocità e l’identità professionale. Cito la definizione tratta da. La pratica del knowledge management:

confronto tra approcci possibili; Mattalucci, L in “Studi organizzativi” n. 1 - 2003

59

La rivista Realtà, periodico della Confederazione italiana dei dirigenti e delle alte

professionalità (CIDA)62

, propone un articolo a firma di Stefano Tonachella nel

quale si analizza la complessità della figura dirigenziale da un punto di vista

giuridico:

«L’orientamento giurisprudenziale tradizionale vedeva il dirigente come una

sorta di alter ego dell’imprenditore, un soggetto che, dotato di competenze

particolari, era preposto dall’imprenditore alla direzione dell’azienda o di un suo

ramo. Nella sostanza, il dirigente veniva visto, come un soggetto che, nell’ambito

delle direttive generali fissate dall’imprenditore, aveva ampia autonomia e libertà

di determinazione che, unite al potere gerarchico riconosciutogli, gli

permettevano di influenzare l’andamento aziendale e di operare scelte

discrezionali nell’ambito delle finalità perseguite dall’impresa.

In particolare, ai fini dell’individuazione della categoria, si consideravano indici

rivelatori la stretta collaborazione con l’imprenditore, la posizione gerarchica di

supremazia assunta all’interno della realtà aziendale, la subordinazione esclusiva

all’imprenditore, la responsabilità verso quest’ultimo dell’andamento aziendale,

il potere di rappresentanza e, soprattutto, il vincolo fiduciario che legava

imprenditore e dirigente e che faceva di quest’ultimo appunto l’alter ego

dell’imprenditore».63

Tale definizione oggi avrebbe un’applicazione alquanto ridotta, poiché

l’identificazione del dirigente come alter ego dell’imprenditore, della proprietà,

sarebbe limitata ad una ristretta cerchia di dirigenti, quelli che comunemente

vengono chiamati top manager.

Recentemente la Sezione lavoro della Cassazione con la sentenza 12860 del

dicembre ’98 ha superato la concezione tradizionale del dirigente inteso come

alter ego dell’imprenditore per passare ad una concezione che tiene conto

dell’attuale realtà produttivo-organizzativa.

62

Organizzazione sindacale che rappresenta la dirigenza e le alte professionalità di tutti i settori socio-

produttivi, pubblici e privati, sul piano professionale economico e sociale. 63

Tonachella, S. Il dirigente è colui che dirige, in “Realtà”, LIX 2002Gennaio-Aprile

60

Le trasformazioni economico-organizzative intervenute negli ultimi anni hanno

fatto sì che molte organizzazioni assumessero dimensioni rilevanti e strutture

organizzative complesse ed articolate, e conseguentemente anche la figura

dirigenziale si è aggiornata.

La Corte di Cassazione ha così stabilito che, all’interno delle organizzazioni, vi

sono diverse figure dirigenziali: il top manager o dirigente apicale, che determina

la strategia aziendale; il middle management o dirigente medio che esegue le

decisioni adottate dal primo.

La varietà di tipologie di dirigenti deriva dal fatto che non è più l’aspetto

gerarchico ad essere l’elemento qualificante ma l’esercizio dei poteri decisionali,

in relazione alla professionalità e all’autonomia tipici del dirigente, che vanno ad

influenzare gli obiettivi di fondo dell’intera organizzazione o parte di essa

La sentenza emessa dalla Cassazione, cui ho accennato prima, mostra quanto sia

importante definire un corretto inquadramento della figura del dirigente, anche in

relazione al dibattito in sede di Comunità Europea nel quale si cerca di trovare

una posizione comune, sapendo che, quale che sia la definizione che verrà

adottata, non riguarderà solo una categoria professionale, ma avrà effetti sui

lavoratori e sugli azionisti, piccoli e grandi.

La definizione riportata nel Dizionario di Sociologia di Luciano Gallino64

,

conferma la complessità e la responsabilità che tale ruolo comporta, infatti alla

voce dirigenti si legge:

«stato o classe tipico delle società industriali avanzate, costituito da capi

stipendiati ai quali, nelle medie e grandi aziende industriali, commerciali,

finanziarie... gli enti di controllo attribuiscono, entro determinati limiti, l’autorità

per formulare e portare a esecuzione le principali decisioni necessarie per la

gestione aziendale, come quelle relative agli investimenti, alla localizzazione

delle unità produttive, all’impiego dei mezzi di produzione, ai livelli di

occupazione, alle politiche commerciali, al trattamento retributivo e normativo

dei lavoratori, ai rapporti con le altre aziende ed enti pubblici e privati».

61

Nel leggere queste definizioni, si può pensare di trovarsi di fronte a super uomini

e super donne (poche per la verità), un’idea alimentata anche dai numerosi film

statunitensi sull’argomento: ad esempio nel film Pretty Woman65

, Richard Gere

interpreta il personaggio di un alto dirigente professionalmente preparato,

efficiente, impeccabile nel lavoro come nella vita; in altri film questo stereotipo

di classe dirigente viene scherzosamente ridimensionato, un esempio per tutti è

Animal House66

in cui gli studenti più scalmanati di un college americano, quelli

che studiano meno, che infrangono tutte le regole della scuola (e quindi della

società americana) saranno poi, come si legge nei titoli di coda del film, la futura

classe dirigente americana.

Nell’immaginario collettivo questa idea di efficienza e rigore professionale, che

accompagna la figura del manager, arriva da lontano, infatti già negli anni Venti

e Trenta del Novecento, secolo che vede l’affermazione dei manager, vi erano

degli osservatori, tra questi Th.Veblen, che vedevano nei dirigenti “un soggetto

emergente, del tutto nuovo, in grado non solo di garantire una competente

gestione della produzione e della vita economica ma anche di assicurare

l’avvento di una società rinnovata e giusta.”67

Ad a un simile pensiero si deve contrapporre una realtà che in alcune occasioni,

purtroppo frequenti in questi ultimi anni, si è dimostrata diversa.

La crisi degli anni ‘30, e gli scandali dei primi anni del Duemila, hanno messo in

discussione le attese e la fiducia che molti avevano riposto nelle élite dirigenziali

«sul piano dell’etica degli affari e della responsabilità pubblica, ma in larga

misura anche su quello della stessa efficienza rispetto agli obiettivi.»68

Davanti ad una realtà sociale ed economica sempre più complessa e mutevole, le

organizzazioni, in particolare quelle di notevole dimensione, hanno costituito

delle strutture formative interne che potessero fornire un aiuto e un supporto alle

64

Gallino, L., Dizionario di Sociologia, p.417 , 2006 Utet, Torino 65

Pretty Women, 1990 – USA di G.Marshall 66

Animal House, 1978 – USA di John Landis 67

Casiccia, A. Il trionfo dell’élite manageriale, p.. 24, 2004 Bollati Boringhieri Torino

68

Casiccia, A. op. cit. p.20

62

loro dirigenze attraverso una formazione trasversale e mirata, una formazione in

grado di dare delle chiavi di lettura della realtà economica e sociale in modo tale

che la dirigenza, in particolare l’Alta dirigenza, possa avere a disposizione

ulteriori strumenti per operare con cognizione di causa.

In un qualche modo la creazione di questi centri di formazione interni cerca di

rispondere a due esigenze molto sentite dalle aziende:

a) sostenere e incrementare le competenze;

b) creare e alimentare una corporate identity comune e condivisa.

4. La nascita di ISVOR e le Corporate University

Davanti ai profondi cambiamenti sociali, economici e culturali le organizzazioni

avvertono la necessità, non più derogabile, di riformare il loro management;

questa necessità emerge chiaramente nel racconto di G. Gambigliani,

amministratore delegato Isvor Fiat negli anni ’78 – ’94, al riguardo della nascita

della Corporate University di Fiat, l’Isvor.

«Siamo nel ’71 il monolito Fiat – migliaia di miliardi di fatturato, centinaia di

migliaia di dipendenti nel mondo, 3.500 dirigenti, 30.000 quadri – centralizzato e

organizzato sulla base delle funzioni, per reggere la sfida del futuro deve

modificare radicalmente la sua organizzazione.

E’ il momento del grande cambiamento: la ristrutturazione è orientata verso la

divisionalizzazione, verso unità che assumeranno ciascuna i propri obiettivi

economici, strategici e di profitto.

[...] Ma non c’è solo un problema di riorganizzazione. C’è anche l’esigenza di

aiutare la formazione di una classe dirigente di manager: la Fiat è infatti

ricchissima di tecnici, di specialisti funzionali, ma non ha management. I

manager di primo livello vengono assunti dal di fuori – basta citare il dr. Romiti -

ma non si possono assumere dall’esterno 500 direttori e 3.000 dirigenti. Bisogna

fare un’operazione di mutamento delle competenze dei dirigenti verso un

indirizzo manageriale.

63

Questa è la ragione per cui nasce l’Isvor.

[...] Il corso con cui deve partire il Centro di management (Isvor) è un corso per

direttori del livello più elevato, di otto settimane, totalmente residenziale».69

Nel corso del tempo, Isvor si è sviluppata e ha ampliato la sua offerta formativa

rivolgendosi anche ad altre figure aziendali, ma i corsi dedicati al management e

i programmi dedicati alle Alte Direzioni continuano ad essere un aspetto

qualificante e fondamentale per la vita dell’Isvor.

«Tutti i dirigenti e i direttori di nuova nomina devono frequentare i corsi che

durano quattro settimane e sono totalmente residenziali. Sono 200/250 i dirigenti

che vengono nominati ogni anno e 30/40 direttori.

Oggi sono programmi basati soprattutto su attività di benchmarking e action

learning: imparare facendo, andando in giro, vedendo, facendo dei progetti reali,

discutendo con i capi e con l’amministratore delegato di aziende reali. La

formazione supera i confini dell’aula e non è più misurata sul gradimento del

corso ma soprattutto sui risultati»70

.

Vengono comunemente chiamate Corporate University le strutture formative

interne alle aziende, che assumono diverse forme e modelli; la loro caratteristica

distintiva è data dal fatto che sono possedute e controllate direttamente dalle

corporation che le hanno create e che quindi esistono in quanto funzionali ai loro

obiettivi strategici.

Pur nelle rispettive diversità il vertice aziendale è coinvolto attivamente nelle

attività delle Corporate University: sia nelle fasi di sponsorship, di testimonianza

all’interno dei programmi, sia in attività di vera e propria docenza, oltre che di

co-progettazione dei contenuti formativi.

In questo impegno vi è la consapevolezza dei vertici aziendali dell’importanza

della formazione come leva per attivare processi di integrazione e cambiamento

culturale, incremento della competitività attraverso occasioni di apprendimento e

aggiornamento delle competenze.

69

Gemelli, G., Scuole di management, p.527, 1997 Il Mulino, Bologna 70

Gemelli, G. op. cit. p. 528

64

Tale consapevolezza viene ribadita nella dichiarazione Valori e Politiche del

Gruppo Fiat nella sezione Politica per la formazione:

«La formazione è uno degli strumenti indispensabili per migliorare, arricchire e

aggiornare le competenze individuali e collettive. In un contesto economico e di

mercato in costante evoluzione, che fa della conoscenza la basilare risorsa

competitiva, il Gruppo Fiat offre ai propri collaboratori adeguate opportunità di

crescita e sviluppo delle proprie competenze.

In questo senso, la formazione è parte integrante dell’attività lavorativa, segue

l’arco di vita professionale dei dipendenti e costituisce il supporto per

l’apprendimento dei valori aziendali.

[...] Il management ha la responsabilità di definire gli investimenti formativi e di

assicurarne un’efficace realizzazione. Il manager, inoltre, è egli stesso formatore

inteso come punto di riferimento, docente di know-how e portatore di esperienza

e dedica una parte significativa del suo tempo alla formazione continua dei suoi

collaboratori.

[...] Il sistema di formazione è organizzato in programmi istituzionali di Gruppo

legati all’ingresso nelle Società o all’assunzione di nuovi ruoli, e in programmi di

sviluppo delle competenze specifiche, per le aree manageriali e tecnologiche.

Per realizzare un sistema formativo organico e continuo sono necessari: un forte

coinvolgimento del vertice aziendale; un’analisi sistematica dei bisogni

organizzativi, professionali e personali; la pianificazione degli interventi

formativi; la progettazione di percorsi di apprendimento personalizzati e

flessibili; la valutazione dei risultati ottenuti.»71

Le prime Corporate University nascono negli Stati Uniti d’America intorno agli

anni ’50 ma si diffondono, anche in Europa, realmente a partire dagli anni ’90.

Sono molteplici i fattori che hanno portato ad una rapida diffusione di queste

strutture:

• l’importanza crescente della conoscenza come elemento di competitività;

71

Gruppo Fiat, Politica per la formazione in “Valori e politiche del Gruppo Fiat”, 1997 Torino

65

• la necessità di attuare cambiamenti aziendali in tempi relativamente

rapidi;

• la creazione di un sistema di valori aziendali comune e condiviso, anche in

relazione ad una internazionalizzazione e organizzazione multi-divisionale

sempre più spinta;

• le opportunità tecnologiche.

Queste strutture nascono essenzialmente come centri di formazione manageriale

con programmi dedicati alle Alte direzioni, ma nel corso del tempo alcune di esse

hanno elaborato piani formativi anche per altre figure professionali operanti in

azienda.

Si potrebbe parlare di una parziale variazione di rotta, giustificata dalle recenti

crisi economiche; vi è stata una razionalizzazione d’uso e di finalità: sono

diventate unità di business e quindi più attente a tutti quegli aspetti legati al

bilancio economico e contemporaneamente hanno rivolto la loro attività anche al

mercato esterno, extra corporate.

«Si è andata affermando», commenta Osvaldo Busana in Le Corporate

University in Italia72

, «la logica del pay for service secondo la quale esse si

finanziano grazie alla vendita dei propri servizi a tutta la catena del valore».

Un esempio di questa apertura all’esterno e dunque di una diversificazione del

servizio offerto la si ritrova nell’esperienza di Isvor Knowledge System73

.

Claudio Poli, amministratore delegato di Isvor Fiat negli anni ‘94-‘04, in un

intervista del marzo ’03 afferma: «la necessità delle aziende di competere

attraverso la conoscenza rafforza senz’altro il ruolo delle Corporate University».

La Corporate University opera in un costante contatto con l’azienda per cui

realizza i suoi servizi, e attraverso attività di ricerca, studio e innovazione

72

Materiali Isvor, n.16 73

Isvor Knowledge System (IKS) è una società di formazione e consulenza, fa parte di Business Solution,

società del Gruppo Fiat, nasce nel gennaio ‘01 su iniziativa Isvor Fiat e si rivolge a organizzazioni e

aziende dei settori pubblico e privato avvalendosi delle sue risorse professionali, della sua trentennale

esperienza, della sua rete di relazioni con la comunità scientifica e con il management delle maggiori

aziende internazionali.

66

coerenti con le attività di business aggiorna e sviluppa il capitale intellettuale

dell’azienda.

Tale attività, tuttavia, non è esclusivamente dedicata all’azienda madre: in alcuni

casi, la Corporate University lavora anche per realtà esterne, vendendo così il

proprio sapere, il proprio prodotto.

Questa apertura la spinge a divenire centro di profitto o a creare strutture

parallele dedicate al mercato esterno, come ha fatto Isvor Fiat creando Isvor

Knowledge System».

Nel 2001 IKS acquisisce il controllo della Scuola di pubblica Amministrazione di

Lucca e concentra in essa tutte le sue attività di consulenza e formazione verso

gli enti pubblici e il comparto sanità.

5. ISVOR e la formazione manageriale

IKS struttura la sua offerta formativa per il management su tre livelli: un primo

livello base è costituito dal Basic Management Program, una serie di corsi

dedicati ai dirigenti generali, futuri city manager, segretari generali e direttori di

posizione. In questo livello formativo vengono sviluppate le competenze

fondamentali per il ruolo di manager.

Il programma prevede anche delle visite di benchmarking: in una primaria

azienda privata e in un ente della Pubblica Amministrazione italiano e francese.

Il secondo livello prevede corsi monografici che approfondiscono particolari aree

tematiche, andando così a rispondere alle singole esigenze formative del

dirigente.

I corsi sono altamente personalizzati a seconda degli interessi e dei bisogni

formativi ravvisati in ogni situazione specifica.

Il terzo livello prevede corsi di alto profilo destinati al top management: city

manager, capi dipartimento, direttori generali e, in generale, tutti i ruoli di alto

profilo direttivo.

67

Per i corsi destinati agli executive, IKS si avvale di Isvor che ha un’esperienza

trentennale nella formazione delle Alte dirigenze di organizzazioni pubbliche e

private.

Si legge nel documento di presentazione di IKS: «l’obiettivo è sviluppare

consapevolezza e competenze per definire vision, mission e strategie guida della

propria organizzazione e, attraverso questo processo di apprendimento, imparare

a gestire il cambiamento».

I corsi, a numero chiuso, non oltre ventiquattro partecipanti, si suddividono in

quattro moduli di tre giornate l’uno, per un totale di dodici giorni; oltre a questi

moduli sono previsti tre study tour.

Nel corso vengono sviluppati temi come: l’esame degli scenari di riferimento; la

diagnosi di cosa ci si aspetta dalla moderna P.A.; le competenze necessarie per

guidare il cambiamento.

Per quanto riguarda la metodologia formativa, si deve evidenziare che i corsi per

gli executive si avvalgono della testimonianza di manager operanti in diverse

organizzazioni e prevedono delle visite studio presso aziende di successo.

IKS sottolinea la necessità per la P.A. di coniugare efficienza economica e

qualità di servizio.

Sono quindi necessarie competenze che permettano di gestire lo sviluppo

organizzativo unendo professionalità, modernità, managerialità e senso dello

Stato.

I corsi proposti da IKS sembrano andare in questa direzione, infatti i moduli del

Basic Management Program prevedono lo sviluppo di tematiche quali:

l’infrastruttura d’impresa e il servizio al cittadino-cliente; gli strumenti per la

gestione e il controllo dei processi; i sistemi di sviluppo del personale e il

knowledge management74

; le capacità manageriali.

74

Knowledge Management: termine di lingua inglese per identificare “l’insieme delle politiche aziendali,

delle prassi e degli strumenti (regole organizzative, tecnologie incentivi, ecc.) finalizzate a sviluppare e

diffondere le conoscenze che servono a coloro che, nei loro diversi ruoli, operano in una data

organizzazione per affrontare e risolvere i problemi lavorativi incontrati” Cito la definizione di

Mattalucci, L. tratta da La pratica del knowledge management: confronto tra approcci possibili; in “Studi

Organizzativi” n.1 - 2003

68

Basic Management Program

Modulo1-l’infrastruttura d’impresa e il servizio al cittadino–cliente (durata 2

giornate)

Unita 1-Logiche e organizzazione nella P.A. oggi

l’organizzazione del servizio al cliente-utente;

metodi, tecniche per la misura della soddisfazione del cliente;

la P.A. sul territorio: ruoli e funzioni;

il nuovo ruolo del management nell’organizzazione attuale della

P.A.:attenzione ai servizi, alla gestione, alle persone.

Unità 2-il cambiamento e le tendenze evolutive nell’organizzazione: esempi e

casi

cultura del servizio;

analisi di casi: esempi di innovazione nelle P.A. e nel settore dei servizi,

esperienze eccellenti nel pubblico e nel privato.

Unità 3-Gestire i processi di comunicazione esterna per il trerritorio

marketing territoriale;

perché considerare la comunicazione interna ed esterna;

i processi di comunicazione: fasi, output, attività, ruoli, strumenti e

condizioni di efficacia

Modulo 2 - strumenti per la gestione e il controllo dei processi

(durata 4 giorni)

Unità 1-I processi fondamentali del settore di appartenenza

i processi fondamentali del settore di appartenenza: fasi, output, attività,

ruoli.

Unità 2-Presidiare la qualità del servizio e i risultati gestionali

fasi e ruoli del processo di gestione del servizio;

parametri di qualità del servizio;

come si identificano i parametri di redditività;

metodi, tecniche e strumenti per la misura della soddisfazione del cliente;

elementi di controllo e di gestione

Unità 3-elementi di project management

le principali fasi di gestione di un progetto;

metodi e strumenti di pianificazione e controllo dei progetti;

gestione delle modifiche e reporting finale.

69

Modulo 3 - i sistemi di sviluppo del personale e il knowledge management

(durata 3 giornate)

Unità 1–modelli e strumenti per la descrizione e valutazione delle competenze

la rilevanza del fattore competenze per la competitività delle

organizzazioni;

modelli per l’analisi e la descrizione delle competenze dell’ente, dei ruoli

e delle persone;

strumenti per la valutazione

Unità 2-piani di sviluppo per le persone e piani formativi dell’ente

costruire profili di ruolo;

analizzare il gap di competenze;

individuare priorità per lo sviluppo delle persone e a livello di ente

Unità 3-sistemi e strumenti di knowledge management

metodi e strumenti per la codifica del know-how

portali e intranet aziendali: criteri per la progettazione, la gestione,

l’alimentazione, la fruizione e l’aggiornamento

Modulo 4-le capacità manageriali (durata 3 giornate)

Unità 1-stili e modalità di leadership

diversi stili e modelli di leadership;

criteri per trasmettere la vision;

diffondere valori;

attribuire delega;

coinvolgere e motivare, sviluppare le potenzialità delle persone;

le capacità relazionali fondamentali

Unità 2-costruire il team

costruire un gruppo che sappia trasformarsi in squadra;

scegliere le persone in relazione al ruolo che devono giocare;

fattori di integrazioni e produttività nel team;

criteri per l’efficacia del lavoro di team

Unità 3-la gestione delle persone

formulare e assegnare obiettivi ai collaboratori;

valutare i collaboratori;

promuovere lo sviluppo per le persone e per l’ente;

attuare le capacità manageriali nel management di servizio

70

Elenco dei corsi monografici a catalogo proposti da IKS

MARKETING E CORSI DI ORIENTAMENTO AL SERVIZIO

Titoli dei corsi

� La cultura del servizio

� La relazione con gli utenti destinatari del servizio

BASICS DI ECONOMIA

Titoli dei corsi

� Tecniche di reporting

� Elementi di controllo di gestione

� Programmazione e bilancio nella P.A.

� La contabilità integrata

� Analisi dei costi

� Il rendiconto finanziario ed economico-patrimoniale nelle P.A.

LEADERSHIP E COMPORTAMENTO

Titoli dei corsi

� La dimensione della leadership

� Motivazione e sviluppo della potenzialità delle persone

� Team building direzionale

� Comunicazione interpersonale efficace

� Sviluppare la progettualità e la propositività

STRUMENTI OPERATIVI

Titoli dei corsi

� Gestione del tempo

� Tecniche di sviluppo della memoria

� Parlare in pubblico

� Gestire lo stress

� Gestione delle riunioni

� Redigere una comunicazione scritta

� Caratteristiche e opportunità dell’ICT

� Office automation e potenzialità delle reti

� Tecniche di negoziazione

� Manager docente

71

� Processi e strumenti per lavorare a distanza

� Tecniche di ricerca di mercato e sul territorio

METODI E STRUMENTI DI GESTIONE

Titoli dei corsi

� Metodi e strumenti di change management

� Gestire le persone (valutare i collaboratori)

� Gestione dei processi

� Project management

� Problem solving e decision making

� Sistemi di sviluppo del personale

All’interno del processo di formazione, i metodi della formazione rivestono un

ruolo centrale perché costituiscono il mezzo attraverso il quale passa la

formazione.

La metodologia formativa si muove su tre piani:

a) situazione di apprendimento;

b) tecniche;

c) strumenti.

� Situazione di apprendimento:

è il modo in cui viene organizzato il gruppo di partecipanti all’attività formativa.

Vi sono metodi individuali (counseling, mentoring, coaching) e metodi di gruppo

(corsi, seminari, laboratori, action learning). Definire la situazione di

apprendimento significa creare la struttura relazionale all’interno della quale

raccogliere e confrontare le esperienze dei partecipanti e produrre

apprendimento.

� Tecniche:

le tecniche possono essere classificate in relazione allo scopo o alla funzione

principale che perseguono; a titolo di esempio:

72

scopo / funzione principale tecnica

fornire conoscenza lettura o lezione

insegnare abilità dimostrazione o simulazione

favorire il cambiamento di

atteggiamenti o sviluppare

capacità

role play, studio di casi, e auto

casi

incoraggiare la creatività brainstorming o auto analisi e

riflessione

� Strumenti:

si intendono tutti quegli strumenti che possono migliorare l’efficacia delle

situazioni di apprendimento: lucidi, film, particolare disposizione dell’aula,

questionari, schede guida per discussioni.

La scelta e l’applicazione di una buona metodologia formativa consentono al

formatore di continuare ad imparare, integrando nuove conoscenze e

informazioni, e permettono di evidenziare il cambiamento in atto, di integrare i

bisogni individuali, gli interessi e l’esperienza di tutti i soggetti coinvolti nella

vicenda formativa.

La scelta di un metodo presuppone non solo una motivazione operativa, ma,

innanzi tutto, una scelta di campo tra chi intende i metodi della formazione basati

sul trasferimento del sapere e chi sull’elaborazione dell’esperienza.

La metodologia basata sul trasferimento del sapere si basa sull’idea di una

ricezione più o meno passiva dei messaggi che, una volta compresi e

memorizzati, vengono integrati con altre conoscenze possedute.

Tali metodi fanno riferimento a modelli di apprendimento per ripetizione,

imitazione e ascolto.

Vengono particolarmente usati per l’apprendimento di conoscenze teoriche e

abilità procedurali.

73

La metodologia fondata sull’elaborazione dell’esperienza pone in evidenza il

ruolo attivo dei partecipanti nel determinare e nel dirigere il proprio

apprendimento. In questo contesto il formatore si pone come facilitatore delle

relazioni e dello scambio di sapere, come traduttore della teoria in pratica e

mediatore tra saperi e linguaggi.

L’apprendimento viene fondato sulla scoperta di nuove relazioni, tra fatti e

concetti, sull’interpretazione dell’esperienza, di fenomeni, di eventi e

l’attribuzione di nuovi significati.

In questa categoria metodologica vi è l’idea che il soggetto della formazione è la

persona adulta, e in quanto tale portatore di conoscenza ed esperienza che non

può essere ignorata.

Diverse sono le metodologie utilizzate, ma una loro comune caratteristica risiede

nel contributo attivo dei partecipanti e il loro coinvolgimento a vario livello.

Alcune di queste metodologie sono ormai ampiamente consolidate, come lo

studio di caso, il role play, il gruppo esperienziale, il gruppo di studio, il lavoro

di progetto, l’auto caso.

6. Action Learning e e-learning

Altre metodologie hanno trovato applicazione in tempi relativamente più recenti,

come ad esempio l’Action Learning.

Action Learning è un termine utilizzato per identificare un piano di sviluppo

delle capacità manageriali attraverso programmi formativi non tradizionali.

L’idea di fondo parte dalla considerazione che la competenza al fare sia la

competenza distintiva dell’azione manageriale.

L’Action Learning consente di avviare un processo di elaborazione

dell’esperienza e del sapere, evidenziando l’impossibilità di avere risposte

precostituite ai problemi. La ricerca delle risposte a ciò che è nuovo o

sconosciuto, rappresenta in definitiva le finalità di Action Learning.

74

L’Action Learning supera la tradizionale separazione tra i due momenti formativi

dell’apprendere prima e dell’agire poi per passare ad una sintesi: imparare

facendo. In tal senso non esiste né un tempo dell’apprendere né un tempo del

lavorare, in quanto l’apprendimento è incorporato nelle pratiche e nei

comportamenti quotidiani.

E’ proprio nella possibilità di adottare e integrare le diverse metodologie

formative in relazione agli obiettivi e ai partecipanti il punto di forza delle

Corporate University

Molte grandi aziende come Lufthansa, Genera Electric, Ford, Dupont, Siemens,

Fiat hanno avviato programmi di Action Learning; l’attività della Dupont può

essere interessante:

«il programma Leadership for Growth è rivolto ai 400 top executive.

Per tre settimane, ogni team si focalizza su domande di base del business. Il

programma è insieme un’attività di formazione (ad esempio, sul decision making,

le tecniche di negoziazione) ma anche un intelligence unit per sfruttare le

competenze dei team nella ricerca di nuovi prodotti e strategie.

Il programma è una risposta alla forte divisionalizzazione del gruppo, che

ostacola la ricerca di sinergie al suo interno.

La prima regola è che nessuno del team di progetto deve appartenere alla

divisione in cui ricade il progetto, la seconda è che ognuno porta le sue skill e il

suo background. Dupont ha fornito tutte le informazioni in suo possesso (dati,

ricerche di mercato ecc.) più un budget per raccogliere nuove informazioni;

inoltre ogni team ha il proprio coach.»75

Negli ultimi anni, superata la fase pioneristica e di sperimentazione, troviamo nei

programmi delle Corporate University, accanto alla formazione tradizionale e

all’Action Learning, una nuova modalità di fare formazione, e-learning.

L’e-learning si è sviluppata e ha trovato applicazione grazie alla coesistenza di

almeno tre fattori:

75

Gabellano, S., Martino, F., Business school e corporate university negli Stati Uniti e in Europa, p.43

Materiali Isvor numero n. 16 2001

75

� nuove opportunità tecnologiche: sviluppo di reti informatiche internet e

intranet, hardware e software più potenti e sofisticati;

� nuove forme organizzative: diffusione delle imprese a rete e

globalizzazione dei mercati, necessitano di strumenti che generino integrazione e

una comune identità;

� riduzione e contenimento dei costi: in particolare legati a spese di

trasferta, distacco dal lavoro, uso flessibile del tempo.

L’offerta formativa via WEB utilizza differenti modalità che si riflettono

sull’utilizzo della tecnologia, dei modelli di apprendimento, degli stili

organizzativi di lavoro.

Gli strumenti utilizzati si possono suddividere in quattro aree secondo due

dimensioni: temporalità e processo di interlocuzione.

L’aspetto temporale si suddivide in sincrono e asincrono. La formazione è

sincrona quando i partecipanti si incontrano nel medesimo momento; è asincrona

quando l’incontro è in momenti differenti.

Il processo di interlocuzione a sua volta si suddivide in simmetrico e

asimmetrico. La formazione è simmetrica quando il partecipante è sia emittente

che ricevente; è asimmetrica quando il formatore è la parte emittente e il

partecipante ricevente e destinatario.

Incrociando le diverse combinazioni si possono avere diverse modalità di

formazione via WEB.

� Asincrona – Asimmetrica:

il partecipante lavora autonomamente, segue un percorso strutturato in cui la

trasmissione dei contenuti e la verifica dell’apprendimento si alternano nell’arco

della formazione.

� Sincrona – Asimmetrica:

permette una formazione in tempo reale in cui il partecipante può scegliere il

punto da cui iniziare il percorso formativo in relazione alle sue esigenze.

� Asincrona e Simmetrica:

76

vi è la possibilità di creare un sistema di comunicazione tra tutti gli attori

partecipanti.

� Sincrona – Simmetrica: l’applicazione più interessante al riguardo è la

creazione di classi virtuali, dove partecipanti e formatori lavorano insieme

utilizzando strumenti quali lavagne (virtuali) dove scrivere messaggi, simulatori,

video conferenza.

La classe virtuale può rappresentare l’unico luogo di incontro tra docente e

partecipanti oppure un’opportunità di incontro ulteriore che si somma

all’incontro fisico; un luogo dove i partecipanti possono trovare uno spazio di

riflessione e ri-progettazione e quindi di formazione rispetto alla propria pratica

professionale; uno spazio che va ad integrarsi e non a sostituirsi a quello

dell’aula fisica.

E-learning per molte aziende è una realtà consolidata, per altre la

sperimentazione è avviata.

La DaimlerChrysler, ad esempio, ha fondato la sua Corporate on line che fornirà

ai sui senior management non soltanto un continuo aggiornamento

sull’evoluzione del business, ma anche uno strumento di diffusione delle

conoscenze.

77

CAPITOLO IV: Il caso ISVOR FIAT

1. Formazione e Alta direzione

Un programma formativo permanente per l’Alta direzione si basa su alcuni

assunti fondamentali, che costituiscono i presupposti per la sua efficacia e per il

suo successo.

I vertici aziendali sono coinvolti pienamente e attivamente nel programma

formativo poiché loro è la responsabilità finale del programma e inoltre sono essi

stessi i primi destinatari della formazione.

Un rapporto stretto tra struttura formativa, Isvor e i vertici aziendali Fiat,

consente di trasmettere con un elevato grado di fedeltà e tempestività le idee e gli

indirizzi espressi dal vertice nei diversi ambiti e livelli dell’azienda.

La formazione, da questo punto di vista, è il veicolo più indicato per una

trasmissione a cascata: essa infatti è depositaria fin dall’origine dei messaggi

autentici che devono essere diffusi.

Un programma di formazione per i massimi livelli aziendali è uno stimolo, una

sfida professionale a trovare e far proprio quanto c’è di meglio nel novero di

conoscenze, capacità, esperienze maturate da chi è all’avanguardia.

E’ quindi un processo che va oltre all’innovazione continua, è l’andare sulla

frontiera più avanzata, di chi già oggi sta affrontando problemi che, per buona

parte del sistema competitivo, cominceranno a contare soltanto a partire da

domani.

Inoltre in un programma di questa natura e portata, dove i partecipanti sono

insieme oggetto e soggetto di apprendimento, la formazione diventa un’

occasione di condivisione di esperienze e un formidabile collante per il gruppo di

direzione.

Le occasioni formative diventano così anche terreno abituale di frequentazione in

cui ci si aggiorna vicendevolmente sulle innovazioni apportate e sulle soluzioni

date ai problemi comuni, crescendo insieme in un processo continuo di

apprendimento collettivo.

78

Non solo, è tutta l’azienda a beneficiare della riuscita del programma di

formazione: all’esterno (dell’azienda) si consolida l’immagine di un gruppo di

direzione coeso, illuminato, innovativo, sperimentatore di soluzioni di

avanguardia; all’interno si trasmette la sensazione di elevata preparazione e di

adeguatezza professionale dei più alti responsabili e quindi di maggior fiducia

nell’avvenire competitivo: a ciò si aggiunge la conferma della grande

considerazione in cui, a partire dal vertice, sono tenuti i fatti formativi.

La formazione scende nei diversi livelli aziendali solo dopo aver coinvolto i

primi livelli, è quindi un apprendimento serio, voluto, sperimentato e

interiorizzato, fatto discendere solo e in quanto lo si è prima condiviso e se ne è

personalmente usufruito.

Questo genera nelle persone ai diversi gradi di struttura sottostanti un’attitudine

diffusa ad accostarsi i processi di apprendimento con serietà, motivazione e

volontà di riuscita.

Nel considerare il programma di formazione per le alte dirigenze, è bene

ricordare alcune caratteristiche del Gruppo Fiat, che, viste le sue dimensioni,

risulta essere il più grande gruppo industriale italiano, e pertanto si presenta come

un caso a parte.

Un primo aspetto da considerare riguarda l’elevato numero di società che

compongono il Gruppo, caratterizzate, in misura maggiore o minore, da un alto

livello di differenziazione.

Discende da questa caratteristica la necessità di bilanciare, nel miglior modo

possibile, negli appartenenti all’Alta Direzione, due diverse identità culturali che

devono coesistere ed integrarsi: quella della singola società di appartenenza e

quella propria del Gruppo, la corporate identity.

I direttori di più alto livello, da un punto di vista gestionale, non appartengono

alla società in cui operano, ma vengono amministrati contabilmente come risorse

Fiat, pertanto creare e alimentare nel tempo l’identità di Gruppo è stata in Fiat

una delle esigenze fondamentali, che è stata perseguita coerentemente attraverso

79

il progetto formativo, teso a favorire una migliore conoscenza reciproca e una più

efficace coesione trasversale tra i primi livelli aziendali.

La grande dimensione del Gruppo ha poi favorito la nascita di una struttura

apposita, l’Isvor, a cui è stato affidato lo sviluppo di tali iniziative.

La creazione dell’Isvor nel ‘72 è avvenuta dal prato verde, partendo da zero,

senza incrostazioni dal passato o strutture pre-esistenti marcianti a velocità

diverse.

Questo ha permesso che nel tempo si venisse a creare per il management un

apprendimento collettivo, armonico e diffuso, privo di scosse e fratture.

In conseguenza alla nascita di Isvor, la fruizione di attività formative all’esterno

dell’azienda è sempre stata marginale e comunque circoscritta a iniziative di

natura specialistica e complementare alla formazione svolta all’interno.

Questo in funzione di quel retaggio culturale, accumulato gradualmente e

omogeneamente, di passate esperienze che, tutte assime, sono venute formando

per il Gruppo un patrimonio originale e prezioso, tale da condizionare in modo

determinante ogni formula successiva.

Riferirsi principalmente alla formazione interna non significa chiudersi in se

stessi o adottare forme di impermeabilità rispetto al mondo esterno; Fiat non ha

mai rinunciato al confronto con l’altro, con il diverso, si è sempre confrontata e

misurata con i migliori, Fiat ha sempre avuto la vocazione a guardare fuori di sé,

ad aprirsi e a definire nuovi orizzonti, come dimostra il programma di

formazione permanente per le Alte Direzioni.

Da un lato dunque la curva di esperienza e di apprendimento collettivo e

dall’altro la sistematicità del confronto con le best practice hanno prodotto nel

tempo l’effetto congiunto di una continua e proficua innovazione metodologica

del fare formazione, determinando progressivamente un passaggio

dall’insegnamento tradizionale all’organizzazione di nuove occasioni di

apprendimento.

Il programma permanente di formazione per le Alte Direzioni è giustamente

considerato un fiore all’occhiello a cui guardare con soddisfazione e orgoglio.

80

Le figure che maggiormente partecipano alla definizione del programma

formativo sono essenzialmente quattro:

� il Vertice Aziendale, che ha il compito di proporre, condividere e ratificare

indirizzi di temi e modalità;

� la Direzione del Personale e Organizzazione, che per logica aziendale svolge

l’attività di rilevazione e verifica delle necessità del gruppo di direzione;

� Isvor, che, in stretto contatto con la Direzione del Personale e

Organizzazione, ha la responsabilità di proporre la strategia di formazione;

� l’Alta dirigenza, cioè gli stessi partecipanti al programma, in quanto coinvolti

personalmente nelle definizione delle proprie necessità e quindi nella scelta

degli argomenti da approfondire.

Consegue dunque che il processo di formazione indirizzato all’Alta Direzione è

un meccanismo interattivo, suddiviso e condiviso tra i ruoli, tutti di pari

rilevanza; un’attività trainante che spesso coincide con lo stesso processo di

sviluppo organizzativo dell’azienda.

2. Il progetto Alta Direzione negli anni ’70

I programmi che caratterizzano l’inizio dell’attività dell’Isvor, ma più in generale

ciò che determina la sua esistenza e la sua concezione, deriva da un triennio ’71-

’73 di intenso lavoro di analisi e preparazione, all’interno di un quadro di

cambiamenti e nuove idee che attraversavano in quegli anni la Fiat.

Sin dagli inizi, con le scelte che determineranno la nascita di Isvor, il vertice

aziendale è profondamente coinvolto, non a caso è da subito presente e

deliberante nei comitati guida del nascente Istituto di Formazione.

Nel marzo ’67 il vertice aziendale commissiona alla società di consulenza

Worden&Risberg una ricerca approfondita con la finalità di analizzare

l’organizzazione presente e futura della Fiat […] sia in riferimento all’ambiente

politico sociale in cui deve operare, che ad alcuni trend di base che si sono

manifestati negli anni più recenti.

81

Riprendendo in mano quelle pagine datate, è interessante riconsiderare le più

significative osservazioni di sintesi con cui il documento sullo stato della Fiat in

quegli anni si concludeva.

Le ripropongo qui di seguito pressoché integralmente:

� La struttura organizzativa di vertice non è stata formalmente definita ed è

rimasta immutata nel corso degli anni malgrado il fatturato nel decennio ’56-

’65 sia addirittura triplicato.

� La responsabilità decisionale è altamente centralizzata (come dimostra

l’incredibile numero di incombenze gravanti sul Direttore generale: dalle

decine di rapporti gerarchici alle moltissime decisioni di routine a lui

spettanti, compresa l’autorizzazione per le lettere di ringraziamento agli

impiegati che vanno in pensione e la concessione di sconti speciali sulle

autovetture).

� Il Comparto Automotoristico ha dimensioni troppo ampie per essere

efficacemente organizzato su basi funzionali.

� Non esistono documenti in cui le politiche e gli obiettivi del gruppo siano

definiti.

� Non esiste un manuale completo e definito delle procedure né sono

disponibili aggiornate descrizioni delle mansioni.

� Il programma di formazione e sviluppo del Gruppo deve essere rafforzato ed

esteso.

� Deve essere data maggior considerazione all’andata in congedo per limiti di

età dei direttori, dei dirigenti e del personale e ai problemi della loro

sostituzione.

� Vi è la necessità di considerare attentamente i vantaggi relativi

all’introduzione di personale particolarmente qualificato dall’esterno.

� Tra il personale di direzione Fiat è diffuso un generale consenso sulla

necessità di modificare la struttura organizzativa.

Si può quindi constatare come l’esigenza di una scomposizione del monolite, il

ringiovanimento dei quadri direttivi, una nuova organizzazione e la necessità di

82

dare impulso alla formazione del personale, siano già presenti nella relazione

conclusiva della ricerca.

Con l’inizio degli anni ’70 i cambiamenti suggeriti e auspicati dal documento

prenderanno corpo.

Dottor Busana, può darmi qualche chiarimento in merito alla ricerca condotta

dalla società di consulenza Worden&Risberg?

«La ricerca avviene nei primi anni ’70; io sono entrato in azienda nel ’74 e a mia

volta scoprii questi documenti che dovetti citare quando parlai del programma

“Alte Direzioni”.

Tutto era partito da questa ricerca i cui risultati furono presentati in maniera, che

io ricordi, anche un po’ segreta, perché era un modo di guardare dentro la realtà

dell’azienda non convenzionale per un’azienda che allora era molto fiera di se

stessa, molto forte e che non aveva voglia, neanche nei confronti di se medesima,

di mettere in luce dei lati negativi o comunque non così positivi, di andare a

vedere le proprie debolezze o addirittura magagne, e quindi fu un’indagine

condotta ad alto livello e poi tenuta nel segreto nelle stanze di vertice. E fu

presentata a Umberto Agnelli (se ben ricordo) e di lì emerse la necessità di un

intervento a tappeto sul livello massimo dell’azienda, il livello direttivo, quelli

che allora rappresentavano le prime dipendenze dall’amministratore delegato di

allora, per imprimere una svolta fondamentale al modo di operare, anche alla

mentalità che allora era la mentalità di un’azienda che non aveva avuto rivali, che

era considerata vincente, molto potente, che però doveva anche affacciarsi a uno

scenario in rapido mutamento e quindi doveva incominciare a fare un po’ di atto

di umiltà dicendo finora io non ho avuto ostacoli di sorta e sono stata padrona

incontrastata del terreno, se mi si presentano forze rivali come mi devo

atteggiare: sono punzecchiature di zanzare, sono qualcosa che mi procura

qualche piccolo dolore ma non mi tocca più di tanto, oppure sono cose più

consistenti?

83

Ecco, il saper guardare anche un po’ nel futuro di quello che l’evoluzione degli

scenari avrebbe portato era la base di fondo per poter, per tempo, anche

modificare se stessi, trasformarsi dal monolite classico in qualcosa di più duttile,

di più sfaccettato che fu poi il processo cosiddetto di divisionalizzazione, dove la

grande piramide “terra, mare, cielo” per intenderci, si frantuma, naturalmente in

maniera programmata, dando origine, uno dietro l’altro, a dei corpi in qualche

misura separati, che stessero in piedi da soli, non vivessero di questa specie di

convivenza forzata, fra cose molto distanti tra loro, come potevano essere i

motori marini rispetto alle automobili, le utilitarie piuttosto che i motori

aeronautici, ecc..

E’ chiaro che dietro c’era la meccanica, ma era ovviamente un legame molto

debole, tenue dal punto di vista di tenuta d’insieme, poi c’era tutta la specificità

anche molto significativa».

La prima concreta risposta all’esigenza evidenziata dalla Worden&Risberg di

rafforzare ed estendere la formazione e lo sviluppo si realizza nel ’71 attraverso

un’indagine sulle necessità di formazione; nell’indagine vengono coinvolti 124

direttori responsabili dei vari settori aziendali e, attraverso la somministrazione di

due distinti questionari, viene chiesto:

a) quali necessità di perfezionamento mostrino i loro quadri per un migliore

assolvimento delle funzioni direttive; b) quali bisogni di aggiornamento essi

stessi abbiano riguardo a problemi, metodi e tecniche proprie di ogni settore e

funzione aziendale.

Dunque una vera e propria prima analisi dei bisogni formativi, dalla quale

emerge che:

� il problema formativo è fortemente sentito;

� la Direzione Fiat ritiene necessario impegnare i propri dirigenti in attività

formative per non meno di due settimane all’anno;

84

� esistono aree di problemi per cui si reputa particolarmente urgente un

intervento formativo, ad esempio: informazioni sulla Fiat, ruoli e obiettivi

dell’impresa rispetto al contesto esterno, funzioni del dirigere (programmare,

pianificare, organizzare, controllare e così via) e ancora, conoscenze

finanziarie, comprensione delle interrelazioni tra settori e funzioni aziendali,

abilità razionali (decisione, sintesi) e relazionali, capacità di delegare autorità

e responsabilità; infine, sviluppo di atteggiamenti quali franchezza di rapporti

verso l’alto, il basso e laterali, consapevolezza dei riflessi economici della

propria azione gestionale, accettazione delle responsabilità attribuite dal

decentramento, minor resistenza al cambiamento e positività verso

l’innovazione.

Gli argomenti da affrontare sono, come si vede, molteplici; diventa quindi

necessario definire le priorità, i livelli di approfondimento e le modalità di

erogazione.

Rilevato il bisogno formativo e l’esistenza di una cospicua domanda interna di

interventi, condivisa da tutto il gruppo di Alta Direzione, nel ’72 si avvia il primo

programma formativo erogato da Isvor, dal nome Seminari di Introduzione alla

Formazione o Seminari di Sensibilizzazione, ma più comunemente chiamati,

dagli addetti ai lavori, seminarietti.

Dottor Busana, i 124 direttori sono un campione rappresentativo dell’Alta

Direzione?

«I 124 sono i massimi livelli, le posizioni elevate in azienda, quindi non fu

un’indagine campionaria, l’indagine fu svolta a tappeto, sulle massime

responsabilità aziendali.

La scelta condivisa tra i membri di vertice, dopo che furono analizzati i risultati e

si videro le evidenze più ricorrenti, fu di andare più su alcune cose piuttosto che

su altre, naturalmente con il benestare del vertice aziendale».

85

La ricerca Worden&Risberg in un certo qual modo è stata determinate per la

nascita dell’Istituto.

«Il tutto fu originato, in qualche misura, da questa ricerca che mostrava come il

mondo si stava evolvendo rapidamente e che la Fiat rischiava di essere

inadeguata con questa sua forma autoreferenziale.

L’idea (riferendosi all’Isvor) è quella mutuata anche da esperienze all’estero a

cui la famiglia Agnelli è sempre stata molto sensibile, e parlo dell’esperienza

Cedep76

in Francia, che fu anche più o meno contemporanea alla nascita di

Insead77

.

Cedep era un’istituzione fondata da un formatore insigne e insigne

membro della consulenza internazionale, un siciliano dal nome Salvatore Teresi,

detto Totò Teresi.

Teresi fondò la Cedep, accanto all’Insead, come una società di formazione

manageriale che serviva un consorzio di aziende francesi particolarmente

quotate, e quindi potevano, mettendo insieme le loro forze, dotarsi di una scuola

propria, anziché mandare i propri partecipanti a open program presso quelle che

incominciavano a funzionare come business schools europee, e Insead è stata una

delle prime.

Questa scuola, Cedep, è una scuola dedicata che utilizzava professori

universitari, ma non solo, aveva le caratteristica di lavorare nell’ambito e al

servizio del business che rappresentavano il gruppo di aziende formatrici e

finanziatrici di questa scuola, e quindi era una specie di tentativo di creare una

struttura dedicata.

76

Il Cedep è un organizzazione senza scopo di lucro creata nel 1971 dall’iniziativa di 6 compagnie

europee: Bekaert (Belgio), BSN (Francia), Gervais Danone (Francia), L’Oreal (Francia), Rhone-poulenc

(Francia), Sandoz (Svizzera).

Le compagnie associate operano in vari settori. Insieme finanziano e gestiscono il centro europeo per la

formazione continua, Cedep. La missione del Cedep è quella di collaborare strettamente con un numero

limitato di compagnie-membro su un periodo sufficientemente lungo nell’attuare e contribuire alla

formazione della loro classe manageriale. 77

L’Insead viene fondata nel 1957. Promuove un metodo di insegnamento non dogmatico che metta

insieme persone, culture e idee da tutto il mondo per sviluppare leaders responsabili e intraprendenti che

sappiano creare valore nelle loro organizzazioni.

86

Su questa base, che subito divenne un successo, l’idea fu di creare una scuola di

formazione per Fiat e fu proprio il dottor Teresi a concepire questo disegno, che

poi presentò a Umberto Agnelli e al resto del comitato esecutivo della Fiat di

allora.

Agnelli era già convinto, però si trattava di convincere alcuni personaggi storici

che componevano il Consiglio Direttivo dell’azienda di allora (Gioia, i Pannucci,

ecc.) personaggi di grande peso, bracci destri e sinistri di Valletta…

Comunque persone che avevano un potere immenso. Questi accettarono la

proposta e nel ’72 nacque l’Isvor».

3. Il Corso di Sviluppo Manageriale

I Seminari di introduzione alla formazione, iniziati nel ’72 hanno una durata di

due giorni e coinvolgono 600 tra direttori e vicedirettori del Gruppo.

Gli obiettivi sono molteplici: rinforzo del ruolo, miglioramento del clima, di

informazione e formazione in senso stretto.

Si tratta essenzialmente di fornire ai partecipanti informazioni esaurienti su

obiettivi e progetti del nuovo Istituto per lo Sviluppo Organizzativo, in relazione

alle politiche di formazione elaborate per la Fiat.

Inoltre nei Seminari vengono illustrate le future attività formative, in particolare

un primo corso avanzato di management, che successivamente prenderà il nome

di Corso di Sviluppo Manageriale (CSM).

I Seminari costituisco anche un’importante occasione per rendere più sistematica

e capillare l’indagine sulle necessità formative percepite dai partecipanti, questa

ulteriore indagine è svolta sulla base di un questionario dal titolo: gap tra oggi e

domani.

Il questionario, oltre a indagare sui bisogni individuali di formazione, si propone

di analizzare il clima organizzativo esistente e, attraverso l’esame delle risultanze

con i partecipanti, di far prendere loro coscienza dei maggiori problemi che si

profilano per i ruoli direttivi in mutamento.

87

A tale scopo è anche previsto, nel programma del seminario, un lavoro di

progetto conclusivo per stimolare propositi e far emergere proposte di

cambiamento per il futuro.

I risultati emersi dall’indagine del questionario presentato durante i Seminari di

introduzione alla formazione rappresentano un momento significativo di verifica

dei bisogni formativi della fascia medio alta della direzione aziendale e

forniscono nel corso del ’73 materia di ispirazione per la progettazione del futuro

Corso di Sviluppo Manageriale, che sino al ’77 rappresenta il prodotto più

importante ed emblematico dell’Isvor.

Il Corso di Sviluppo Manageriale non si propone obiettivi di

professionalizzazione specifica, tende invece, attraverso una riflessione critica

sul momento aziendale in atto e sul relativo ruolo del dirigente, a suscitare una

sensibilità diffusa verso i valori gestionali con cui l’azienda intende connotare il

cambiamento intrapreso.

Il corso si articola su una durata di otto settimane suddivise in quattro blocchi di

dieci giorni ciascuno, intervallati dall’attività lavorativa.

Gli obiettivi principali sono:

� rivestire un ruolo di supporto al cambiamento organizzativo perseguito dal

vertice (il decentramento) in stretta coerenza con gli indirizzi politici già

promulgati nel ’72 in materia sia di controllo di gestione sia di sviluppo

quadri;

� sensibilizzare una fascia di direzione molto ampia (direttori e vicedirettori)

all’evoluzione aziendale in atto, al fine di disporre di una massa critica di

consensi capace di dare esito positivo al processo avviato;

� rappresentare un biglietto da visita di prestigio dell’attività formativa avviata

in Fiat.

Il Corso di Sviluppo manageriale viene erogato con successo per alcuni anni,

senza sostanziali variazioni.

Tuttavia i profondi cambiamenti organizzativi (dalla struttura multidivisionale,

varata nel ’72 e completata nel ’74 alla struttura holding, sancita nel maggio ’76

88

con il passaggio ad undici settori industriali) fanno emergere nuove esigenze di

formazione.

4. Il Corso di Sviluppo Direttivo

Con la riorganizzazione, vengono a crearsi nuove e numerose posizioni

organizzative di allocazione decentrata e di primaria responsabilità, e ci si rende

conto che la popolazione dei direttori non può più essere considerata come un

unico e compatto segmento di utenza.

Al fine di migliorare l’offerta formativa, si suddivide la popolazione dei direttori

in due diversi gruppi:

� direttori senior, o di alta direzione, con responsabilità di direzione generale o

ad essa assimilabile quanto a complessità e a livello di influenza sui risultati e

sulle politiche aziendali;

� i restanti direttori.

La divisione dei due gruppi di direzione è formalmente definita dalla politica di

sviluppo quadri del ’72 con l’introduzione delle fasce Hay78

di classificazione

delle posizioni dirigenziali.

Si distinguono pertanto tra direttori di classe 17, 18, 19 destinatari (potenziali)

del Corso Sviluppo Manageriale, rinnovato negli obiettivi e nei contenuti, e

direttori di classe 20 e 21 a cui indirizzare un nuovo programma di formazione.

Nel ’77 e ’78, secondo la distinzione indicata, prenderanno il via il Corso di

Sviluppo Direttivo (CSD) e il Programma per Direttori Senior.

Iniziativa: Corso di Sviluppo

Direttivo (CSD)

Programma per Direttori

Senior

Destinatari: Direttori di fascia

17, 18, 19

Direttori di fascia

20, 21

78

Metodo di valutazione delle posizioni professionali che si basa essenzialmente su tre fattori:

competenza, problem solving, finalità.

89

L’evoluzione naturale del Corso di Sviluppo Manageriale è dunque il Corso di

Sviluppo Direttivo, il quale mantiene la caratteristica di avere una lunga durata,

sei settimane, con sei moduli da cinque giorni, intervallati con quaranta giorni di

attività in azienda.

Il corso si propone di sviluppare nei partecipanti le capacità indispensabili per

indirizzare la propria unità complessa verso i risultati attesi.

Nello spazio di alcuni anni cambia dunque l’obiettivo. Dalla sensibilizzazione e

dal cambiamento culturale ad un obiettivo di professionalizzazione gestionale.

La divisionalizzazione del Gruppo Fiat è compiuta, le condizioni generali sono

dunque mutate, si tratta adesso di operare efficacemente nella nuova realtà.

Dottor Busana, può spiegarmi la suddivisione dei direttori in classi diverse?

«La classificazione fa riferimento a fasce retributive. Il sistema Hay è un sistema

internazionale che suddivideva la popolazione manageriale in diverse fasce

retributive legate a dei fattori di responsabilità, ampiezza di cose gestite e poi

anche l’impatto sui risultati aziendali, quindi tutto questo era un meccanismo che

la Fiat aveva sposato, fatto proprio per volontà di Umberto Agnelli.

La modalità Hay venne adottata nella politica di sviluppo quadri del ’72, essa era

per altro una metodologia americana che è stata utilizzata da diverse aziende

internazionali, e che aveva il grande vantaggio della confrontabilità, perché

essendo molto diffusa, dava la possibilità di fare analisi di mercato anonime, che

facevano vedere come la Fiat, rispetto ad una fascia 17 di un’altra azienda,

pagasse di più o di meno del mercato.

Queste indagini retributive sono sempre state un aspetto molto importante per i

gestori, per sapere se era opportuno proseguire su una certa politica o andare su

un’altra.

Detto tutto questo, molto praticamente, le classi 20-21 e oltre, perché poi c’era il

cosiddetto open, oltre il 21, rappresentavano i primissimi livelli aziendali.

90

Mettendo insieme tutte queste persone si arriva a circa 100-150, perché ogni

azienda ha il suo comitato direttivo che è composto da circa 10 - 12 persone, e

quindi si arriva al numero che le ho indicato.

Questo è un primo livello sotto il vertice, perché sono alle dirette dipendenze dei

vari amministratori delegati, sotto di loro vi è naturalmente un secondo livello di

direttori, il direttore finanziario ha poi sotto di sé il responsabile del controllo di

gestione, del settore finanziario e dell’estero, ecc. secondo le più classiche

piramidi aziendali.

Parliamo in questo caso della fascia 17, 18, 19, quella dei direttori che pur

avendo questo grado erano di secondo livello rispetto alle prime dipendenze del

vertice».

Con la divisionalizzazione aumenta il grado di complessità aziendale; la

formazione attraverso Isvor è stata quindi lo strumento per affrontare il

cambiamento?

«Per il primo livello si fecero delle cose, per il secondo altre, quelle di intervento

fondativo, di grande cambiamento, partirono dal primo livello e a cascata sugli

altri, però fu coinvolto per primo il primo livello aziendale, proprio perché si

intendeva incominciare dai capi azienda in testa, essendo un cambiamento

culturale profondo.

Farli diventare dei manager, più aperti, più duttili, tali da farli affrontare le sfide

che si stavano lanciando, era condizione fondamentale, e per fare questo

l’intervento di Isvor fu quello di far seguire di pari passo la formazione di questi

vertici, a un grande cambiamento organizzativo che fu la divisionalizzazione,

cioè che fu la nascita dei diversi settori di attività autonomi che avessero il

proprio marketing, la propria funzione di produzione, ecc. e che quindi si

misurassero con i rispettivi concorrenti di quel business specifico, allora Fiat

automobili, Fiat veicoli industriali (Iveco) ecc. e poi però anche le attività

diversificate, cioè i componenti e tutti gli altri settori.

91

Questo processo di divisionalizzazione avvenne negli anni ’70 e Isvor con

Marentino fu pronto ad accompagnare questi cambiamenti, a supportarli da un

punto di vista delle competenze manageriali di primo livello, favorendo anche

questo cambiamento difficile di mentalità di persone che prendevano ordini,

sostanzialmente, ed erano degli esecutori, se pur di altissimo livello, di un verbo

unico, quello quasi del potere assoluto alla Valletta, ma diventando dei capi di

azienda un po’ alla volta piuttosto che dei capi funzioni, dinamici, pronti ad

affrontare il futuro.

Queste persone ricevettero delle iniezioni di base, allora nessuno se ne adontò

perché il controllo di gestione era qualcosa che non si conosceva nella Fiat di

allora, era una diavoleria, inventata da qualcuno di cui non si sentiva il bisogno

in una situazione autorefenziale, perché i conti erano ampiamente positivi e se si

guadagnavano fior di quattrini e non vi era il bisogno di queste nuove

metodologie, certo non per questo non si facevano registrazioni di cassa accurate,

però quell’attenzione ai costi, per un’azienda di grossissimo successo, non era

sentita, poi invece le tecniche manageriali nel frattempo si andavano sofisticando

e la Fiat dovette farle proprie un po’ alla volta e quindi ci fu proprio a cominciare

da questi vertici una vera e propria acculturazione alle tematiche del management

che stavano emergendo.

Lo stesso marketing che stava emergendo era qualcosa di cui non si sentiva il

bisogno perché le macchine si vendevano da sole, anzi c’era la fila fuori, perché

non c’era la concorrenza; da un certo momento in avanti le cose invece

incominciarono a uscire dai confini, anche tutti i dazi doganali e tutte le barriere

importative andarono un po’ alla volta sfaldandosi, e ci fu quel grandissimo

cambiamento che interessò gli anni ’70 - ’80 e a seguire, e quindi ci fu bisogno

proprio di accompagnare queste persone per mano facendo loro acquisire questi

basic.

L’Isvor ebbe all’inizio questa funzione veramente fondamentale di Corporate

University ante litteram, nel senso che allora non vi era nemmeno il concetto di

scuola aziendale del management di primo livello tesa a favorire il

92

raggiungimento degli obiettivi organizzativi di business dell’azienda, essendo

una specie di cinghia di trasmissione, un tutt’uno in questo processo».

5. Il programma per le Alte Dirigenze.

L’analisi dello sviluppo professionale delle Alte Dirigenze inizia nel ’75: in un

documento riservato di luglio, vengono identificati con molta lucidità alcuni

vincoli esistenti e condizioni da rispettare nel progettare un programma

formativo per alto livello direzionale.

Nella nota viene posto in evidenza l’ostacolo rappresentato dal tempo a

disposizione, risorsa che per questa fascia di popolazione aziendale è sempre

molto limitato, dunque l’obbligo di prevedere moduli di formazione di non più di

due o tre giorni consecutivi, pena probabili defezioni e quindi rischi di insuccesso

e inefficacia della formazione.

Definito lo spazio temporale dedicato alla formazione, l’attenzione del

documento si concentra sui temi da trattare e sui quali organizzare

l’apprendimento.

Il criterio guida è la vicinanza dei temi alla realtà dei partecipanti; gli argomenti

devono collocarsi idealmente a metà tra scienza ed esperienza, in una relazione

dialettica tra l’apporto di esperti scientifici della disciplina di riferimento e il

contributo concreto di testimoni diretti, meglio di protagonisti di realizzazioni

effettive sul campo indagato: dovrebbe trattarsi pertanto di responsabili di

azienda, interni ed esterni al Gruppo ed anche stranieri.

Dopo ulteriori analisi e valutazioni, il programma viene presentato al vertice

aziendale nel febbraio ’77 e varato nello stesso anno.

Gli obiettivi del Programma per Direttori Senior sono i seguenti:

93

� consentire un’analisi dei più avanzati modelli concettuali delle esperienze e

delle problematiche relative alla definizione delle strategie aziendali,

nell’ambito di una migliore conoscenza dell’ambiente circostante;

� valutare con l’ausilio di esperti e colleghi di altre imprese la possibilità di

utilizzare nelle specifiche realtà del Gruppo Fiat teorie ed esperienze

manageriali collaudate;

� ricercare modelli di intervento, sia nei settori che nelle unità di corporate, per

minimizzare le inevitabili disfunzioni connesse con il processo di

decentramento e sviluppo della Fiat.

Il programma si articola in una decina di seminari monografici di breve durata,

due o tre giorni, per un totale di venti-trenta giornate complessive da spendersi

nell’arco di un paio d’anni.

La popolazione coinvolta è la fascia dell’Alta Direzione, direttori di primo

livello:

� responsabili di grandi gruppi operativi;

� collaboratori in staff di responsabili di grandi gruppi operativi;

� i direttori generali di aziende intermedie;

� responsabili di grandi unità all’interno dei gruppi.

Scorrendo i titoli e i nomi dei relatori, anche di statura internazionale, si nota la

volontà e l’impegno di affrontare i problemi della Fiat da angolazioni il più

possibile diversificate.

Quando è possibile, accanto a relatori internazionali è prevista la presenza di un

testimone aziendale su esperienze specifiche: un controrelatore interno, per

consentire un’analisi più accurata e concreta della realtà Fiat.

94

Contenuto e relatori del Programma per Direttori Senior:

Temi e argomenti Relatori

I problemi della Fiat oggi.

Analisi e discussione tra i partecipanti sui principali

problemi aziendali e confronto con il vertice aziendale.

U. Agnelli, C. Romiti

L’analisi dell’ambiente.

Metodologie di analisi e controllo del contesto

ambientale e selezione di quanto è più interrelato

all’azienda per una migliore pianificazione e

formulazione di politiche.

P.R.Goetschin,

G.Taucher (Losanna)

Company strategy.

Confronto sullo sviluppo strategico delle aziende

europee e applicazione dei modelli a specifiche

situazioni aziendali.

L.A. Benningson

E.A.K. Rhenman

R. Norman (Star)

Business planning.

Metodologie di analisi del business ai diversi gradi di

sviluppo: dalle nuove iniziative ai settori industriali

maturi.

Faculty della Star

G. Von Hertzen

Temi e argomenti Relatori

Developing people and organisation.

Strategie di sviluppo organizzativo per aziende

multibusiness; sviluppo dei ruoli e cambiamenti

strutturali.

Faculty della Star

La gestione del cambiamento e le variabili umane.

Scenari del cambiamento esterno e interno alle

organizzazioni. Obiettivi e strumenti della direzione

generale e ripercussioni sulle strutture.

H.C. De Bettignies

dell’Insead di

Fontanbleau

Problematiche finanziarie.

Confronto su modelli finanziari, efficienze

economiche, decisioni di investimenti, controlli

budgetari.

Panel di esperti interni

ed esterni

(Monti, Clemens,

Konig, Pohle)

Tecnologia, ricerca, sviluppo, innovazione.

Relazioni tra tecnologia e processi produttivi, tra

innovazione e sviluppo aziendale in funzione delle

dimensioni del mercato e dell’impresa.

E. B. Roberts del

M.I.T. di Boston

Le imprese multinazionali.

Strategie di organizzazione delle multinazionali:

G. Pellicelli,

J. Stopford della

95

differenze tra Europa, USA e Giappone; la gestione

finanziaria delle imprese multinazionali.

London School of

Economics

Il contesto Fiat.

Confronto interno su temi come rapporti centro-

periferia, sviluppo Fiat all’esterno, funzione economica

politica e sociale dell’impresa.

Vertice aziendale

Il Programma per Direttori Senior è senza dubbio un lavoro di alto livello, ma vi

furono ulteriori iniziative?

«Quando parliamo di Alte Direzioni in questa fase primigenia non parliamo di

quegli eventi come seminari itineranti, seminari brevi, che vennero 10 anni più

tardi e io fui corresponsabile, che furono le vere iniziative per l’Alta Direzione:

seminari itineranti, seminari brevi – che furono un altro stadio molto più

sofisticato, dopo tutta la fase dell’acquisizione di ciò che era dato per scontato

che un manager, ma anche di primo livello, oggi un dirigente, se vogliamo, e

quindi un direttore conoscesse; una volta fatta questa base poi si trattò di

evolvere verso cose e contenuti molto più sofisticati, lì ci fu una vera necessità di

affacciarsi verso l’esterno».

6. Gli anni Ottanta.

I primi anni ’80 sono contraddistinti dallo sforzo di riportare le aziende Fiat in

condizioni accettabili di competitività.

La svolta a cui il gruppo ha dato luogo nell’80 è stata in fondo motivata dalla

consapevolezza del vertice che non vi sono alternative: la situazione esistente è

ormai insostenibile, così come le condizioni nelle fabbriche, soprattutto per la

fascia più esposta, quella dei quadri.

Gli scioperi del ’79 e dell’80 e la marcia dei quarantamila non rappresentano

perciò che l’ultima spinta di un movimento di frantumazione della condizione

esistente ormai ritenuta da tutti irrinunciabile e non più dilazionabile.

96

La svolta consente ben presto di recuperare nel management il senso di identità e

di identificazione con l’azienda, anche attraverso una rinnovata chiarezza di

comportamenti a riguardo delle responsabilità, del rigore e della concretezza.

In un quadro di cambiamenti che interessano tutta la società italiana, il personale

inizia ad essere consapevole che l’azienda può risalire la china su cui è venuta

franando.

Nei periodi difficile e drammatici, non si era più trovato spazio per iniziative

formative nei confronti della direzione di primo livello, quasi come se non si

fosse voluto distoglierli da una concentrazione esclusiva sui recuperi di

efficienza e sugli sforzi per portare le aziende in condizioni di affrontare gli anni

del non sviluppo.

Nell’83 viene riavviato il programma di formazione per la direzione di primo

livello.

Si ha consapevolezza che quanto è stato fatto ancora non è sufficiente per creare

un differenziale positivo rispetto alla migliore concorrenza.

E’ necessario e favorire un momento di riflessione sulla situazione del Gruppo, e

rilanciare su nuove basi professionali l’impegno e l’orientamento del

management, naturalmente con il consenso e il sostegno del vertice aziendale.

Si vuole proporre un sistema di aggiornamento permanente con un’offerta

formativa a respiro pluriennale.

Un gruppo di lavoro, composto da Fiat Capogruppo e Isvor, definisce, con il

consenso del vertice aziendale, nei primi mesi dell’anno, formula, temi e durata,

attraverso intervista campionaria ai direttori di settore.

Il programma è così strutturato:

un seminario di apertura a fine anno, modulo istituzionale, per tutti i membri

dell’Alta direzione, da svolgersi alla presenza dei massimi responsabili aziendali,

a cui tocca il compito di illustrare le problematiche Fiat degli ultimi anni e le

prospettive future.

Vengono poi organizzate quattro iniziative formative, seminari, da svilupparsi

nell’84 su altrettanti temi ritenuti prioritari:

97

� come seguire i cambiamenti del mercato esterno per anticiparne le

conseguenze nel proprio modo di operare;

� il miglioramento delle competenze economico finanziarie;

� la dimensione commerciale dell’azienda;

� le metodologie di lavoro per i manager.

Ogni tema è sviluppato all’interno di un seminario della durata di sei – otto

giorni, suddivisi in moduli di due ogni due mesi.

Per una migliore gestione del tempo i moduli si svolgono il venerdì e il sabato.

Oltre ai citati seminari, vengono organizzati anche alcuni seminari brevi, della

durata di un giorno, un giorno e mezzo, su temi di attualità che possono essere di

interesse alla dirigenza.

Un aspetto rilevante da sottolineare è il carattere opzionale dell’offerta formativa:

ogni singolo direttore richiede di partecipare in base alle sue necessità formative.

Tuttavia un’azienda può lanciare una campagna su un tema che ritiene

prioritario, in questo caso l’opzionalità decade. Fiat Auto nell’84 decide di

iscrivere tutta l’Alta Direzione del settore al seminario sul miglioramento delle

competenze economico-finanziarie.

Il programma prosegue sino all’87 senza particolari cambiamenti di struttura,

solo gli argomenti dei seminari vengono aggiornati e integrati, con l’ingresso di

due nuovi titoli:

� il sistema organizzativo e la gestione delle risorse umane;

� i riflessi sulla gestione aziendale dell’automazione in fabbrica, in ufficio e

nella progettazione.

Per quanto riguarda i seminari brevi o giornate spot, gli argomenti trattati negli

anni ’85 e ’87 sono:

� responsabilità legali del consiglio di amministrazione e dei dirigenti di

azienda;

� l’economia USA e i suoi riflessi sull’economia italiana;

� sviluppo dell’office automation;

� sistemi di valutazione e di incentivazione per il management;

98

� l’economia americana post-elezioni presidenziali;

� le forme alternative al finanziamento;

� C.I.M. (Computer Integrated Manufacturing);

� il Gruppo Fiat e la Comunità Europea: apertura degli appalti pubblici e

antidumping;

� le relazioni politiche e di affari tra Stati Uniti e Asia e tra Europa e Asia.

Per quale motivo l’adesione a questi programmi formativi era facoltativa?

«Era facoltativa perché si voleva che ci fosse la molla della motivazione; si dava

per scontato che a quel livello di responsabilità, le persone che avevano impegni

molto gravosi fossero loro a scegliere, ma questo è un principio che vale sempre

nel campo della formazione, la motivazione ad apprendere è la molla

fondamentale e sappiamo benissimo che noi possiamo mettere nell’aula anche il

personaggio più noto che esista al mondo, il massimo esponente di una

determinata corrente di pensiero, disciplina anche scientifica, ma se la persona

non ha una motivazione personale, la presenza di queste persone, di queste

risorse non è sufficiente».

Di particolare importanza è l’incontro istituzionale di fine anno, un punto fermo

del programma per l’Alta Direzione. E’ un momento fondamentale di riflessione

collettiva sugli avvenimenti salienti di un esercizio in chiusura e, nel contempo,

si sviluppa un’occasione indispensabile di confronto e indirizzo del vertice sulle

azioni da intraprendere per l’anno successivo.

Tutto questo contribuì a una comunicazione più diretta e sistematica con il

vertice aziendale e una maggior conoscenza personale tra colleghi.

Nel tempo si venne anche a creare una cultura comune e un rafforzamento della

professionalità di ciascuno in una prospettiva non funzionale, ma di general

management.

99

Dottor Busana, lei ha sicuramente partecipato a questi incontri di fine anno, mi

può raccontare come si svolgevano?

«Si incominciò a dare anche una sottolineatura formale a questi appuntamenti del

gruppo Alta Direzione radunandoli al di là delle singole iniziative che

singolarmente le persone decidevano di seguire lungo l’anno.

Si decise di consacrare poi questa popolazione aziendale identificata come la

popolazione di riferimento con questi incontri istituzionali di fine anno che

furono il cemento, il momento anche formale di incontro, con il rito, anche la

ritualità tipica degli incontri al vertice in cui per una o due giornate, la formula

variava ogni anno, con tutto lo stato maggiore schierato, a cominciare

dall’avvocato Agnelli, poi naturalmente Umberto Agnelli, tutto il vertice che

stava lì per tutte le giornate che fossero.

Stavano tutto il tempo ad ascoltare le relazioni dei capi azienda su come l’anno si

era svolto con punti forti e deboli e soprattutto lanciando anche previsioni

sull’anno successivo.

Ogni partecipante aveva poi l’impegno a diffondere gerarchicamente a cascata

nel proprio ambito i risultati dell’incontro, infatti furono messe a punto delle

tecnologie che prevedevano che si realizzassero dei filmati, con delle sintesi, e le

cassette venivano date in dotazione a ciascun membro dell’Alta Direzione con

addirittura anche degli story board per favorire la comunicazione in cascata.

Quindi veramente nacque un sistema al servizio di queste persone che tra l’altro

erano ogni volta anche mobili, nel senso che a parte quelli che mantenevano

vecchie responsabilità, ogni anno c’era una quota di persone nuove che si

affacciavano e quindi come in tutti questi casi, c’era anche l’attesa di sapere chi

faceva parte nuova del programma, e quindi c’era una lettera a firma dell’ing.

Cantarella, o del dottor Romiti che invitava e quindi sottolineava l’ingresso

individuale formalmente in questo novero di privilegiati a cui per altro toccavano

le maggiori responsabilità aziendali».

100

Tra gli anni ’83-’87 si conclude il primo ciclo del Programma di Aggiornamento

Alte Direzioni; per cogliere i nuovi bisogni formativi e calibrare il nuovo ciclo

triennale del programma, Isvor, tra maggio e novembre ’87, in occasione del

seminario Relazioni Interne, svolge una ricerca.

Ai partecipanti è somministrato un questionario di analisi, viene inoltre effettuata

una serie di incontri-interviste, organizzati con due o tre opinion leader per volta,

attraverso cui raccogliere maggiori informazioni e suggerimenti per il futuro.

Dalla rilevazione emerge che le finalità formative delle iniziative precedenti

hanno esaurito il loro compito: occorre piuttosto migliorare l’integrazione tra i

membri del gruppo di direzione e rafforzare la padronanza di specifici strumenti

gestionali.

Vi è nella direzione la consapevolezza, anche in relazione allo sviluppo

qualitativo del Gruppo Fiat e alla sua internazionalizzazione, della necessità di

superare una metodica formativa basata essenzialmente su modelli e strumenti

mediati da esperti e istituzioni culturali; e indirizzarsi verso un confronto diretto

e continuo con realtà aziendali interne ed esterne al Gruppo impegnate con

successo nella competizione internazionale.

Vengono così identificati tre orientamenti di fondo per l’avviamento del nuovo

ciclo:

� maggiore continuità e tempestività di analisi e classificazione di realtà di

interesse per la Fiat, (anche interne al Gruppo), allo scopo di favorire

accelerazioni e capitalizzazione di esperienze;

� ampliamento delle modalità di apprendimento, mediante strutture formative

aperte ed innovative: non solo incontri e seminari a formula modulare, ma

anche viaggi all’estero e visite mirate a contesti eccellenti – learning by

walking around;

� riferimento costante al tema dell’internazionalizzazione, intesa come capacità

di muoversi in paesi e culture diverse, una condizione sempre più essenziale

per lo sviluppo del business.

Le aree tematiche di interesse, emerse dalla rilevazione si riferiscono a:

101

� qualità e servizio al cliente;

� alleanze strategiche tra imprese (cooperative venture);

� nuove forme organizzative;

� innovazione, potenziamento di abilità personali (negoziazione e leadership).

Un’ulteriore indagine svolta tra tutti i membri dell’Alta Direzione e la

consultazione dei vertici di settore di ogni società del Gruppo permette di

focalizzare meglio i temi da sviluppare e di identificare le priorità dei diversi

comparti aziendali in relazione ai rispettivi indirizzi strategici.

I temi che risultano in testa alle preferenze sono: qualità e servizio al cliente,

cooperative venture e potenziamento delle abilità personali.

L’impianto del programma rimane sostanzialmente immutato: vengono

confermati gli incontri istituzionali, i seminari residenziali e gli incontri brevi, ma

si decide anche di sperimentare un nuovo tipo di seminari: i seminari itineranti.

Attraverso i seminari itineranti si vuole coniugare da un lato il rigore e la logica

concettuale propria di ogni seminario e dall’altra l’esperienza di viaggi all’estero

per toccare con mano contesti industriali di eccellenza.

Si tratta di veri e propri seminari della durata media di una settimana, svolti non a

Marentino, ma in giro per l’Europa, per gli Stati Uniti o per il Giappone.

Si tratta essenzialmente di visite di analisi e confronto all’interno di gruppi

industriali di prestigio in cui siano in atto esperienze rilevanti per il tema da

approfondire e tali da poterne dibattere con il management che le sta direttamente

affrontando e gestendo.

Normalmente a un esperto scientifico, di prestigio internazionale, è affidato per

ogni seminario itinerante il compito di inquadramento concettuale e di filo rosso

dell’iniziativa.

Egli in sostanza, dopo aver contribuito ad identificare e a contattare le aziende

per gli incontri, accompagna il gruppo di partecipanti durante le visite e

favorisce il processo di apprendimento, dalle fasi di preparazione iniziale a quelle

di sintesi dell’esperienza e di interiorizzazione e diffusione dei risultati

all’interno del Gruppo.

102

L’avvio ufficiale del nuovo ciclo del Programma formativo per le Alte Direzioni

è nell’88 con il primo seminario itinerante sul tema cooperative venture.

Visto il successo della sperimentazione, vengono organizzati, nel medesimo

anno, altri due seminari itineranti sul tema della qualità, e le nuove forme

organizzative

7. I seminari itineranti nello specifico.

L’intuizione che è alla base dei seminari itineranti è quella secondo cui, per

individui di larga e variegata esperienza e con responsabilità di general

management, com’è proprio dei membri dell’Alta Direzione, è indispensabile

passare da una concezione tradizionale dell’insegnamento (per quanto sia alto il

livello di chi lo impartisce) ad una maggiormente avanzata, non più basata cioè

su di una relazione prioritaria docente-discente, ma su un’occasione di

apprendimento per così dire multipla, costruibile con stimoli e fonti diverse, ma

comunque sempre con il carattere della presa diretta, della immersione autentica

nelle situazioni reali, del contatto non mediato con le realizzazioni più avanzate e

con i diretti protagonisti di esse.

Si configura così una nuova forma didattica che sinteticamente si può riassumere

nei tre punti seguenti:

� passaggio da un insegnamento tradizionale a situazioni di apprendimento

collettivo strutturate da esperti;

� orientamento alla concretezza e al confronto diretto, in realtà eccellenti, con

protagonisti di realizzazioni all’avanguardia;

� riflessione critica ed elaborazione delle esperienze comuni.

La formula del seminario itinerante, con il viaggiare, visitare realtà nuove e

diverse, permette un confronto con l’altro, evidenziando concretamente le

distanze da colmare con le realtà più avanzate, aumentando la consapevolezza di

quanto vi sia da apprendere per poi fare.

103

Inoltre, lo stare insieme in un piccolo gruppo per alcuni giorni, condividendo

tempo di lavoro e tempo libero, migliora la conoscenza reciproca e la messa in

comune di punti di vista ed esperienze.

Vi è da considerare anche l’eccezionalità, l’irripetibilità dell’evento e il notevole

sforzo economico compiuto dall’azienda; questi fattori inducono i partecipanti a

ricavare il massimo dal seminario, e li responsabilizza a trasmettere agli altri,

superiori, colleghi, collaboratori, i principali insegnamenti dell’esperienza di

formazione.

Ogni seminario è un evento a sé stante, in cui ogni volta possono mutare le

condizioni di svolgimento: dal tema da approfondire agli esperti che lo

conducono, dal programma agli orari, dagli itinerari alle aziende da visitare,

senza contare poi la gestione degli imprevisti.

Un seminario itinerante è frutto di un complicato processo organizzativo sempre

mutevole e, quindi, non riproducibile se non nelle sue linee generali di

intelaiatura complessiva.

Si possono comunque riscontrare delle costanti. Di queste almeno una è

strutturale: l’insieme delle parti di cui un seminario si compone, le altre risultano

dall’esperienza svolta: l’alto livello degli interlocutori incontrati nelle aziende

ospitanti, il grado elevato di preparazione degli incontri e di accoglienza riservata

a Fiat, l’interesse e l’eco suscitati da queste iniziative.

Le parti che compongono un seminario itinerante, sono, sintetizzando al

massimo, tre:

� la preparazione e l’organizzazione;

� lo svolgimento vero e proprio;

� il rientro.

Preparazione e organizzazione:

è la fase iniziale, nella quale vi è la ricerca, la presa di contatto e di intesa con le

aziende da visitare, ma anche tutta l’organizzazione logistica del viaggio.

104

In questa fase propedeutica è previsto un incontro con il responsabile del

seminario e dell’eventuale esperto con i partecipanti per un inquadramento

concettuale, per la presentazione dell’azienda, del programma del viaggio e per

illustrare e distribuire il materiale didattico.

Il seminario itinerante:

normalmente la sua durata è di nove giorni.

Le visite alle aziende sono precedute da una riunione con l’esperto, il quale

rimette a fuoco i punti essenziali da affrontare; un lavoro analogo di studio è

svolto al termine della visita: viene stimolata una riflessione a caldo e chiesto ai

partecipanti di compilare una scheda individuale di commento.

A conclusione del seminario, prima del volo di ritorno, il responsabile con i

partecipanti riepiloga i risultati più rilevanti delle visite e raccoglie le memorie

sulle singole aziende, che ogni partecipante ha redatto.

In ultimo, ma non per importanza, il responsabile definisce date e incarichi di

lavoro in vista della riunione di debriefing e degli impegni di diffusione allargata

dell’esperienza.

Non è infrequente che durante la settimana del viaggio vi sia l’occasione per una

o due riunioni su un tema complementare o di approfondimento rispetto

all’argomento oggetto dei lavori del seminario, affidata ad un relatore di

prestigio.

Il rientro:

al rientro, entro quindici-venti giorni, vi è un incontro post seminario, tra il

responsabile e i partecipanti.

Vengono richiamati gli insegnamenti salienti ricavati dall’esperienza, steso un

verbale di rapporto sui contenuti, progettate le modalità di diffusione di quanto

appreso, nei diversi livelli aziendali.

105

Infine, coloro che hanno partecipato al seminario, presentano ai colleghi i

risultati dell’esperienza; questo avviene a distanza di due o tre mesi con modalità

differenti:

incontri brevi aperti a tutta l’Alta Direzione, oppure riunione ristretta per un

pubblico prescelto o ancora sotto forma di pubblicazione diffusa ampiamente o

indirizzata prioritariamente al vertice o a una funzione di comparto aziendale

specifico.

Questo non è che l’impianto base, ma come si è detto, di volta in volta possono

essere apportate variazioni anche significative.

Nel 1999, ad esempio, il Corso di Formazione Direzionale è durato 19 giorni ed è

stato suddiviso modularmente in 3 parti: il primo modulo, di due settimane, si è

svolto in aula a Marentino in forma residenziale, occupandosi principalmente di

un aggiornamento sulla situazione del Gruppo Fiat e su una focalizzazione sui

temi aziendali di maggior rilevanza. Tra i manager docenti è intervenuto lo stesso

presidente di Fiat, Paolo Fresco. Il secondo modulo, di una settimana e mezza, si

è articolato in due momenti: due viaggi di studio all’estero di cinque giorni

ciascuno più un successivo lavoro a Marentino di tre giorni, dedicato alla

sistematizzazione dell’esperienza svolta e alla redazione di un rapporto di sintesi

sull’apprendimento realizzato. Il primo dei due viaggi ha avuto luogo in Europa,

tra Svizzera, Olanda e Inghilterra; il secondo si è svolto negli Stati Uniti:

Fortunatamente lo sforzo organizzativo di questa portata è premiato dalle

considerazioni positive di coloro che vi hanno partecipato, e anche i risultati in

termini di apprendimento sono stati confortanti, come dimostrano le osservazioni

di alcuni partecipanti:

«…Quello che ho ricavato dalle visite non è soltanto l’approfondimento del tema

specifico ma anche la possibilità di impatto diretto con molti aspetti dei vari

mondi aziendali che abbiamo incontrato: dagli assetti strategico-organizzativi, ai

fatti di cultura, alle scelte di immagine, ai valori manageriali prevalenti.»

106

«…ho trovato utilissima, tra il resto, la possibilità di confrontare e approfondire

con i colleghi le esperienze vissute e gestite da ciascuno all’interno di Fiat: di

molte di queste realtà prima non ero a conoscenza.»

«… ciascuna azienda visitata si è mostrata molto preparata ed interessata alla

visita: il livello degli interlocutori è risultato sempre elevato; molto alto anche il

grado di ospitalità e di considerazione espresso nei nostri confronti.»

Emergono in queste considerazione alcuni aspetti positivi e caratterizzanti della

formula seminario itinerante:

i partecipanti ricavano dalle visite una visione di insieme delle aziende e dei loro

valori e non solo l’approfondimento di un singolo aspetto del tema oggetto degli

incontri; è per loro un’immersione in nuovi scenari competitivi, un’anticipazione

di realtà con la quale, prima o poi, si confronteranno.

Si tratta di una vera e propria analisi sul campo del sistema competitivo, i cui

risultati a poco a poco diventano patrimonio aziendale, contribuendo ad innalzare

la consapevolezza del gruppo di direzione.

Non solo il gruppo viaggiante si arricchisce di nuove esperienze durante la visita,

anche l’azienda ospitante, vista la portata dell’operazione, è stimolata a dare il

meglio di sé, ad assicurare la massima efficacia possibile agli incontri.

Viaggiare per andare a vedere a molta distanza altre realtà, scambiare

direttamente pareri ed esperienze entro una cultura-Paese diversa dalla propria,

magari con una preparazione linguistica imperfetta, vivere in prima persona un

modo inedito di far formazione, tutto questo rappresenta una sfida e tende a far

passare in secondo piano disagi anche notevoli come i ritmi interni al seminario e

l’impegno fisico dei continui spostamenti che avvengono spesso su lunghe

distanze.

Ancora qualche considerazione: un aspetto di sicura complessità è

l’identificazione delle aziende interlocutrici e il processo da attivare per ottenere

il consenso ad essere visitate.

Di fondamentale importanza è la serietà con cui l’azienda ospitante affronta il

tema di studio, una disponibilità vera a effettuare incontri non rituali, incentrati

107

con trasparenza su fatti gestionali messi realmente in atto, e non presentazioni di

maniera o mere dichiarazioni di intenti.

Il parlare delle proprie esperienze su temi strategici ha acquistato a sua volta, in

tempi di competizione globale, una valenza strategica.

Per tale motivo è parso che le aziende contattate fossero disponibili a svelarsi

soltanto in presenza di contropartite reali, nonostante Fiat abbia assicurato la

massima disponibilità a contraccambiare l’ospitalità e si sia impegnata ad usare

le informazioni con la massima riservatezza, alcune aziende non si sono

dimostrate disponibili, ma considerando il numero elevato di visite, la

percentuale di rifiuto è molto bassa.

Con l’avvio dei primi seminari itineranti nell’88, in linea con l’idea di una

diffusione sistematica degli insegnamenti ricevuti durante i viaggi studio, nell’89

vengono programmati seminari residenziali sugli stessi temi affrontati durante i

viaggi e affidati ai medesimi esperti utilizzati all’estero, dando così la possibilità

a chi non ha partecipato al seminario di approfondire gli stessi argomenti.

Vengono organizzati anche gli incontri brevi, infatti più volte si organizzano

riunioni allargate, aperte a tutta l’Alta Direzione, in cui trasmettere in sintesi le

principali risultanze di un’esperienza particolarmente qualificante vissuta

all’estero.

In questi casi, sono gli stessi partecipanti che organizzano il contenuto e

relazionano nell’incontro.

Nuovi temi di studio andranno ad aggiungersi, tra l’88 e il ’91, come per esempio

i mutamenti nell’impiego e nella gestione delle risorse umane, tuttavia il tema

principale attorno al quale si realizza il maggior numero di iniziative, sia

itineranti che residenziali, è quello della qualità, a dimostrazione della rilevanza e

della priorità strategica che nel frattempo, per iniziativa ed impulso diretto del

vertice, il tema è venuto acquisendo nel Gruppo Fiat.

Per completezza di informazione, oltre alle attività descritte, venne organizzato,

in via sperimentale, un seminario residenziale all’estero, precisamente a Ginevra.

108

Il programma prevedeva sia attività svolte in aula che visite ad aziende di rilievo

della zona.

L’iniziativa consentiva di unire all’apprendimento teorico, tipico di una

situazione residenziale, uno scambio di esperienze con la comunità d’affari

ginevrina e con i rappresentanti Fiat locali.

Infine nel ’90 e sino al ’92 per il tema della leadership, argomento inserito nel

tema sviluppo delle abilità personali, venne impostata una campagna (iniziativa

formativa non opzionale) tesa a raggiungere tutta l’Alta Direzione e destinata poi

ad estendersi a cascata su tutta la dirigenza del Gruppo.

Una menzione particolare, infine, va agli esperti scientifici, che con il loro

determinante contributo professionale hanno permesso la buona riuscita delle

diverse iniziative formative.

La caratura internazionale, la loro professionalità e la loro esperienza, sono

un’ulteriore dimostrazione dell’impegno profuso da Fiat per la formazione dei

propri massimi dirigenti.

Non è possibile citarli tutti, tuttavia è d’obbligo ricordare almeno coloro che

hanno svolto un ruolo più consistente e continuo nella progettazione e nello

svolgimento delle iniziative di maggior impegno, come i seminari itineranti e

residenziali.

Tema:

cooperative venture.

Esperto:

professore Peter Lorange,

all’epoca direttore dell’Institute of Management

ad International Studies alla Wharton School

dell’Università di Pennsylvania e

successivamente presidente della Norwegian

School of Management di Oslo. Recentemente ha

assunto la responsabilità dell’I.M.D. di Losanna.

Tema:

nuove forme organizzative.

Esperto:

professore Jay R. Galbraith,

senior research scuentist alla School of Business

Administration dell’Università di Southern

California.

109

Tema:

Mutamenti nell’Impiego e

nella gestione delle risorse

umane.

Esperto/i:

Isvor si è riferita essenzialmente al gruppo

professionale operante presso il Center for

Effective Organization (CEO) dell’Università di

Southern California a cui appartiene lo stesso Jay

R. Galbraith. In particolare vanno menzionati il

professore E. E. Lawler, direttore del centro, la

dottoressa Susan A. Mohrman, senior research

scientist e il dottore Morgan W. McCall.

Tema:

qualità

Esperto:

Ingegnere Arturo Onnias, consulente e dirigente

aziendale di lunga esperienza internazionale nei

diversi comparti della funzione qualità.

Tema:

sviluppo delle abilità

personali.

Comunicazione.

Leadership professionale

Esperto/i:

professore R. Dilts, consulente e docente di

queste tematiche, è tra i fondatori della

programmazione neurolinguistica (PNL).

Professore Bernard Bass, direttore del Center for

Leadership Studies dell’Università di

Binghamton-stato di new York e il professore

bruce J. Avorio operante nello stesso centro.

8. Programma di Aggiornamento Alte Direzione

1988-1991

431 Partecipanti

248 partecipanti a

seminari itineranti

183 partecipanti a

seminari residenziali

Seminari Itineranti

20

Seminari Itineranti

110

106

Aziende visitate

Temi affrontati n. di seminari svolti per

tema

Qualità e servizio al cliente 11

Cooperative venture 4

Nuove forme organizzative 3

Coinvolgimento risorse umane 2

Paesi visitati n. di seminari svolti

Stati Uniti d’America 10

Europa 6

Europa dell’Est 1

Giappone 3

Seminari Residenziali

14 Seminari Residenziali

Temi affrontati n. di seminari svolti per

tema

Qualità e servizio al cliente 2

Cooperative venture 2

Nuove forme organizzative 1

Comunicazione 2

Leadership 7

111

Incontri brevi organizzati tra il 1988 e il 1991

750 Partecipanti

Temi:

� il pensiero strategico: una metodologia per il management;

� incontro con Jay R. Galbraith;

� il management dell’innovazione e del cambiamento;

� alleanze strategiche: l’esperienza di otto grandi aziende americane;

� incontro con Henrj Kissinger sullo scenario Usa e mondiale dopo le elezioni

presidenziali statunitensi;

� incontro con il vertice aziendale sulle risultanze dei primi seminari itineranti;

� workshop con Peter Lorange sulle cooperative venture;

� incontro con Sue Mohrman sui “Mutamenti nell’impiego e gestione delle

risorse umane”;

� business process management;

� measuring and improving custemer satisfation in British telecom;

� la qualità in Digital Equipment Corporation: il tempo come fattore

competitivo;

� qualità in Westinghouse: il caso Thermo King;

� management della tecnologia: l’approccio giapponese nel settore

automotoristico.

Il Programma di Aggiornamento Alte Direzioni è stato un lavoro di grande

impegno e complessità. Un lavoro che ha segnato la storia dell’Isvor, ma si

potrebbe dire anche della Fiat.

112

Dottor Busana, lei è stato in Isvor una delle persone che maggiormente ha

contribuito alla riuscita del Programma, mi può raccontare secondo la sua

esperienza e il suo punto di vista il lavoro di quegli anni?

«Parliamo del Programma Aggiornamento Alte Direzioni, in tutte queste

iniziative esiste un periodo che va ricordato, può essere ricordato come momento

più felice, diciamo il momento più fertile, quello in cui sono state fatte le cose

più significative, una sorta di momento magico in cui si svolgono felicemente

delle attività che si contraddistinguono in maniera più significativa di altre e

qualificano un certo programma, un certo oggetto, in questo caso appunto il

Programma Aggiornamento Alte Direzioni.

Spesso queste attività, svolte in un periodo storico preciso, se sono state, come

nel caso a cui sto pensando, particolarmente efficaci, addirittura esse tendono a

lasciare una scia positiva quasi come fosse una rendita che nel tempo continua a

qualificare quell’iniziativa, a qualificarla positivamente anche in memoria di

questa stagione particolarmente fervida e importante.

Così è stato anche per il Programma Alte Direzioni e quindi anche per questo

oggetto di cui stiamo parlando, anche perché c’è stato un periodo che si è svolto

sostanzialmente fra il ’88 e il ’91 e quindi sostanzialmente un triennio in cui si

sono svolte tali e tante attività e di tale rilevanza e innovazione da connotare

profondamente, segnare in maniera innovativa e positiva un programma come

questo e, come già dicevo prima, dargli anche un’impronta che nel tempo si è

conservata e ha permesso poi al programma di continuare ad essere importante

negli anni per l’Azienda; di che cosa parliamo: parliamo sostanzialmente di quei

famosi seminari itineranti dei quali si è già trattato altre volte, che però allora

ebbero innanzi tutto una fondazione, poi un impulso, una moltiplicazione, da uno

iniziale che si fece per prova, quasi per testare una formula che era stata proposta

dal professore Peter Lorange che allora insegnava strategie alla Wharton School,

Università della Pensilvania, personaggio particolarmente abile e

straordinariamente interessante, un uomo nato a Oslo, andato poi negli Stati

113

Uniti, ha fatto l’imprenditore e ha svolto l’attività accademica accanto anche alla

redazione di moltissimi libri sul tema di strategia aziendale, ma poi soprattutto di

cooperative venture, ovvero di alleanze, strategie di fusioni e di unioni di forze

da parte di grandi imprese per fronteggiare la competizione.

Infatti, il tema allora per cui lui fu preso come consulente esperto internazionale

era proprio quello delle cosiddette cooperative venture.

Peter Lorange allora aveva già scritto in quegli anni, quando il tema delle

alleanze poi è diventato di diffusione molto ampia quasi da diventare una moda,

e la Fiat ha fatto moltissimi passi in questa direzione a partire da quegli anni fino

a quelli più recenti fortunati e sfortunati, pensiamo anche solo alla General

Motors, tanto per citarne uno particolarmente sfortunato, ma ce ne sono stati altri,

tanti molto positivi, e non solo per la Fiat Auto ma anche per l’Iveco a suo

tempo, pensiamo anche alla Fiat Trattori e a tutta la sua storia con la Fiat Allis e

poi più recentemente con la Case sino a diventare l’odierna CNH; ebbene allora

lui aveva, nel ’88, quando fu contattato dall’Isvor, già scritto alcuni libri sul tema

delle alleanze strategiche e lui coniò e usò questo termine delle cooperative

venture che è un termine ampio che comprende tutte le forme di alleanza: da

quelle più superficiali, come accordi commerciali o poco più, alle vere e proprie

fusioni attraverso varie forme di cosiddette joint venture e cioè messe insieme di

business diversi al 50% piuttosto che al 30%-70% o al 40%-60% quindi con

diverse composizioni di proprietà tra l’azienda “A” e l’azienda “B” che decidono

di fare un pezzo di strada insieme, per arrivare invece alla fusione o

all’acquisizione che è la forma ovviamente più estesa, perché vuol dire acquisire

un altro business, farlo proprio, incorporare un altro soggetto nella propria

dimensione.

Allora lui era già teorico riconosciuto in campo internazionale su questa

tematica, la Fiat si affacciava un po’ a questi temi, così come tutte le aziende di

quel periodo, allora il tema era ancora abbastanza pionieristico, era visto come un

modo per affrontare i costi sempre maggiori della competizione. Il fatto di

dividere le forze, almeno in alcuni campi, naturalmente sulla base di affinità e

114

interessi comuni, dove la logica era quella del win - win del cioè vinciamo

insieme e non tanto del win - lose e cioè una parte guadagna e l’altra perde; il

presupposto fondamentale di un’alleanza qualunque fosse o qualunque sia la

forma é proprio il fatto che si vince in due, ci sia proprio un interesse condiviso e

un guadagno condiviso, oltre che ovviamente anche dei sacrifici sostenuti alla

pari fra l’uno e l’altro partner.

Peter Lorange fu l’ispiratore non solo di questa tematica che divenne uno dei

filoni di insegnamento all’Alta Direzione del gruppo Fiat, ma fu anche

l’ispiratore della formula di questi cosiddetti seminari itineranti, che detti in

parole molto semplici e brevi erano poi una settimana di programma svolto

all’estero, in cui si prendeva un gruppo di partecipanti dell’Alta Direzione, in

genere una dozzina, comunque da dieci a quindici, non superando questo numero

per ragioni anche logistiche, e li si sottoponeva a un tour de force di visite

guidate all’interno di aziende eccellenti di quel paese oggetto del viaggio,

normalmente gli Stati Uniti d’America, ma andammo anche in Giappone

piuttosto che in alcuni paesi europei, perché ovviamente l’eccellenza è diffusa,

non è patrimonio esclusivo degli Stati Uniti o del Giappone soltanto ma si

possono trovare aziende eccellenti anche in Europa e perché no, anche in Italia; e

allora il punto era che bisognava fare un bagno di conoscenza sul dove erano le

situazioni più avanzate per poter in qualche misura verificare la distanza da

colmare e quindi lo scarto che esisteva fra dov’era il più avanzato e dov’era la

Fiat, e attraverso questa consapevolezza, che è un elemento fondamentale, la

presa di coscienza: “noi siamo qui e siamo distintissimi”, piuttosto che “non così

distanti rispetto al più bravo”. Si trattava poi di dire “bene, se è vero che c’è

questa distanza come la colmiamo? In quanto tempo? Facendo che cosa?”

Il 1988 fu l’esordio assoluto sia della formula che di uno, che non fu soltanto

quello, dei filoni di tematiche strategiche che fu visto in quel periodo degno di

essere approfondito e portato all’attenzione dei direttori di primo livello,

coinvolgendoli su questi temi strategici scelti accuratamente come i più rilevanti

per Fiat in modo da far aprire gli occhi alle persone e far loro venire idee e

115

soprattutto far impostare loro piani anche di progetti di avvicinamento e di

miglioramento della situazione esistente.

Quindi in quell’anno, nell’88, si fece il primo dei seminari negli Stati Uniti: il

tema fu appunto le cooperative venture, io vi partecipai, allora un po’ come

osservatore e anche un po’ come apprendista dove il professore Peter Lorange

era il conduttore del gruppo e io appunto ero con lui a vedere come operava,

allora fu il dottore Gambigliani, amministratore delegato di Isvor, che era anche

responsabile del programma, io allora ero il responsabile operativo, fu lui

(Gambigliani) che decise che io andassi con il gruppo proprio per capire come

avveniva e come si svolgeva questa modalità didattica, chiamata anche learning

by walking around, perché in fondo si trattava di prendere e viaggiare, andare in

un posto, stare una giornata in una azienda che era vista come un punto di

eccellenza, che ospitava il gruppo dal mattino fino a metà pomeriggio con la

colazione offerta, in cui si continuava a discutere con questi personaggi che

facevano gli ospiti e con coloro che ricevevano il gruppo, presentavano le loro

esperienze e si ponevano a disposizione per approfondire, andando nei

particolari; e si voleva ricavare il massimo cercando di capire come quell’azienda

aveva fatto o stava svolgendo una determinata attività sotto quel titolo che era

quello delle alleanze strategiche, ovviamente allora si andò in aziende che o ne

stavano facendo o ne avevano appena concluso un’altra.

Magari in qualche caso avevano anche avuto qualche esperienza non positiva,

perché si impara ovviamente anche dagli errori.

Questa formula prevedeva che ogni giorno si cambiasse azienda e quindi ci fosse

anche un impegno logistico molto rilevante tale da chiedere alle persone di fare

levatacce, di muoversi con valige e tutto rapidamente per andare a prendere un

aereo perché la tappa successiva era a centinaia di chilometri di distanza da

quella del giorno stesso.

In qualche caso si è arrivati a spostarsi da costa a costa negli Stati Uniti, facendo

tappe intermedie e quindi viaggiando tre-quattro ore in aereo in una giornata, a

fine o all’inizio della giornata, per spostarsi alla tappa successiva, arrivando poi

116

alla sera in albergo, avere il tempo di fare una cena magari anche tardi, andare a

dormire per recuperare un po’ di forze e al mattino essere ospiti alle nove

nell’azienda di turno successiva.

Quindi, una formula che sfidava anche quasi fisicamente i partecipanti, però dava

moltissimo, perché portava le persone a vivere l’atmosfera, conoscere i luoghi,

non sentirne solo parlare, non vedere in un filmato, ma incontrare le persone, in

qualche misura entrare in quel mondo, scambiare vis a vis idee, opinioni e quindi

essere testimoni oculari.

Questo dal punto di vista dell’apprendimento è straordinariamente importante,

l’abbiamo verificato tante volte, abbiamo visto che una formula come questa ha

moltissimi vantaggi che non sono solo quelli di entrare più approfonditamente in

una tematica che è quella scelta, nel senso di saperne di più, ma ci sono mille

altre ricadute positive, che sono quelle intanto di rafforzare le proprie capacità di

comprensione e di espressione in un’altra lingua, essere in grado di percepire

maggiormente una cultura diversa, essendo immersa in essa, e quindi fare

un’esperienza di coesione di un team, che magari, proprio perché costretto anche

a questo impegno fisico rilevante, ha poi il piacere anche di un momento di

socializzazione insieme, allora si va poi volentieri a cena, cosa che probabilmente

non accadrebbe tra persone che non necessariamente hanno un’amicizia

precedente o altro; questo tipo di esperienza rende anche molto coeso il gruppo,

perché alla fine dell’esperienza è veramente un team, quando si tratta di scrivere

le impressioni, di portare l’esperienza a uno stato di consapevolezza prima, ma

anche di espressione scritta in modo da essere poi un qualcosa, un oggetto di

apprendimento, a disposizione di altri, a disposizione dell’Azienda, quasi che

l’investimento fatto, che ovviamente aveva costi elevati, pensando a quello che

voleva dire portare quindici persone negli Stati Uniti, ovviamente viaggiando con

i comfort necessari, sia dal punto di vista degli alberghi che degli aerei, dovesse

portare i suoi frutti, e il modo per far rientrare i costi era quello di mettere

l’apprendimento poi a disposizione, questo voleva dire che poi al rientro c’erano

alcune giornate, in genere tre giorni, non necessariamente consecutivi, in cui il

117

gruppo rielaborava l’esperienza svolta e metteva a punto una relazione condivisa

che andava poi presentata, in genere al vertice aziendale per primo e poi veniva

sotto varie formule considerata come materiale da diffondere e quindi poteva dar

luogo a un incontro breve di una giornata, in cui si diffondeva l’invito a tutti, e

chi veniva evidentemente voleva dire che poteva e aveva interesse a farlo; in

genere, se si mandava l’invito a trecento persone, un centoventi - centocinquanta

li si aveva sempre nell’anfiteatro di Marentino, anche perché erano temi che

“tiravano” molto, erano temi del momento, poi c’era una sorta di tam tam

positivo, in quel caso lì, naturalmente con un filo rosso fatto dall’esperto, il

“Peter Lorange della situazione” ma poi con la viva voce dei protagonisti che

raccontavano quello che avevano visto con qualche forma magari di aneddotica

anche per dare un tocco di vissuto a quella cultura diversa dalla nostra portata a

conoscenza ai colleghi che non avevano vissuto l’esperienza.

Tutto questo era un processo, quindi, che partendo dall’idea di portare delle

persone a fare un viaggio di studio, aveva poi alcuni momenti successivi di

elaborazione e di diffusione della conoscenza.

Talvolta un altro importantissimo elemento di ricaduta positiva era: fatto

l’incontro breve che illustra quello che si è visto, dopo che magari sullo stesso

tema, come allora fu, si erano fatti tre, quattro cinque seminari itineranti, in posti

diversi del mondo, era il momento per mettere insieme tutta questa conoscenza

non solo monograficamente riferita a quel viaggio negli Stati Uniti piuttosto che

a quell’altro in Giappone, ma mettendo tutto insieme, per poi ricavare un

seminario di tre giorni, questo a iscrizione sempre volontaria, in cui ovviamente

il tema veniva elaborato in una forma tra il teorico e il pratico, diciamo così,

intendendo per pratico l’esperienza vissuta, che permetteva alle persone di

accedere nel modo più diretto ed efficace alla mole di conoscenza accumulata.

Accanto a questo tema ce ne furono altri contemporanei, per cui si viaggiava non

solo per le cooperative venture, ma per altri due o tre temi: uno era le nuove

forme organizzative, a nuove forme di gestione del personale e la qualità totale.

Questo fece sì che accumulando molti di questi seminari, circa una ventina in tre

118

anni - quindi uno sforzo immenso da parte della Fiat, sia di impegno economico

diretto ma anche indiretto, cioè il tempo di queste persone - un paio di centinaia

di persone viaggiarono in quegli anni, nel triennio, in diverse parti del mondo,

questo fu una sorta di acceleratore anche di disinvoltura di andata all’estero, per

alcuni nonostante tutto, cioè nonostante la presenza della Fiat in molti mercati,

parliamo in fondo dell’88 non della situazione attuale - della cosiddetta

globalizzazione, quindi era veramente ante litteram tutto questo, e per alcuni ci

fu proprio una sorta di esordio di andata all’estero, si trattava anche di imparare a

prendere un aereo per andare oltre oceano, non da qui a Roma, con tutto quello

che ciò comporta come esperienza che uno fa e poi gli resta, naturalmente cito un

esempio molto semplice e non certo particolarmente rilevante per dire che poi

l’apprendimento era su molti piani.

Quindi ci fu una messa insieme di conoscenze così articolata che ci fu materia

poi per fare il 3 luglio ’89, un incontro storico, che io ricordo con particolare

vivezza, perché fui un po’ il protagonista, fui uno di quelli chiamati a presentare

una parte, quindi fra i relatori, con tutti i comitati direttivi schierati di tutte le

aziende del gruppo, quindi se vogliamo il vertice aziendale al gran completo,

intendendo al gran completo per quello che ciò significa cioè con il dottor

Romiti, allora amministratore delegato, ma anche l’avvocato Agnelli in prima

fila, nell’anfiteatro di Corso Dante, ricordo benissimo che allora si fece il punto

su cosa avevano voluto dire i due anni ’88 - ’89 di esperienze di questa natura

portando gli insegnamenti e quindi le learnt lessons di ciò che era venuto fuori

viaggiando sotto il tema cooperative venture, nuove forme organizzative e

qualità».

119

Programma dell’incontro del 3 luglio 1989 con il vertice aziendale

Introduzione: Dr. Gambigliani

Cooperative Venture Capo Progetto: Dr. Busana

Relatori: Ing. Becutti

Ing. Lo Verso

Nuove Forme

Organizzative

Capo Progetto: Dr. Martino

Relatori: Ing. Corradi

Dr. Fattori

Dr. Simonelli

Qualità e servizio al

cliente

Capo Progetto: Dr. Caielli

Relatori: Ing. Bisceglia

Prof. Filippi

Dr. Maritano

Ing. Monferino

Ing. Pianta

Ing. Razelli

Considerazioni Finali: Dr. Romiti

«Tutto questo fu un’occasione anche di straordinaria coesione di questo gruppo

dell’Alta Direzione che si sentiva un gruppo di persone che stavano facendo dello

sviluppo organizzativo e la dimostrazione di tutto questo, che io cito sempre

perché è un dato oggettivo, fu che nel ’90, quindi un anno dopo, la Fiat al di là

poi di fare, di aver fatto o di iniziare a fare molte delle cose che poi fece

soprattutto in campo di alleanze internazionali, alleanze strategiche e così via,

lanciò il programma Qualità Totale e il programma Qualità Totale sicuramente,

120

per ammissione di tutti, è figlio dei seminari itineranti fatti sulla qualità,

attraverso i quali si vide che il Giappone era avanti in maniera stellare, che gli

Stati Uniti anche con gli insegnamenti di Deming a sua volta avevano preso una

distanza e che quindi l’Europa ma la Fiat in questo caso dovesse nella percezione

dei vertici aziendali fare anch’essa un passo in avanti deciso e quindi si elaborò

questo programma della Qualità Totale, con il dottor Romiti che fece il discorso

ricordato poi negli anni successivi in cui annunciò e in qualche misura diede

l’avvio ufficiale a questo programma di Qualità Totale che avrebbe rivoluzionato

il modo Fiat di fare qualità e ricorse in quell’occasione all’immagine di un treno

che parte e lui stesso che saliva su quel treno e quindi era anche lui con il resto

della Fiat impegnato in prima persona nel dare successo, esito positivo, a un

grande programma di questa natura.

In effetti Fiat fece molto, poi i risultati furono forse anche un po’ inferiori alle

attese come spesso succede, però io ricordo il senso di missione volta a cambiare

la Fiat, che ebbe sicuramente come ispiratore questo principio didattico che

sperimentammo con grande successo dell’imparare viaggiando, vedendo con i

nostri occhi la realtà dei migliori.

Quindi, riepilogando, seminari itineranti come momento di innesto di un ciclo di

apprendimento, con la ricaduta di una diffusione degli apprendimenti a tutti

coloro che erano interessati attraverso queste forme di presentazione dei risultati

ad assemblee molto ampie e poi i seminari specialistici di approfondimento in cui

si univa alla presentazione di quanto era stato visto anche i principi teorici,

quindi seminari un po’ più dedicati, se vogliamo, a quelli che poi dovevano

operare in prima persona e quindi, parliamo di qualità ai responsabili di qualità,

ma non solo a questi perché ovviamente poi il capo stabilimento è il responsabile

principale della qualità dello stabilimento, al di là del fatto che poi allora ci fosse

“l’uomo o la donna della qualità.”

Se parliamo di cooperative venture, possiamo pensare al responsabile delle

strategie che magari è poi quello che fa il negoziatore anche di un’alleanza,

questa era la persona adatta o il partecipante ideale di un seminario di

121

approfondimento di queste tematiche, in cui si vedevano anche i principali errori

in cui incorrere facendo alleanze in maniera superficiale o partendo da principi

non corretti ecc. -mi rifaccio al win win piuttosto che al win lose-, non è neanche

l’unico principio ma questo è facile ricordarlo e citarlo, ma anche lì non è che

riguardasse solo i negoziatori ma riguardava anche coloro che poi dovevano

spartire un nuovo modus vivendi con l’alleato recentemente acquisito.

La convivenza poi di due realtà che si erano fuse, che avevano deciso di avere lo

stesso destino su quel determinato tema, anche il come viverla questa esperienza,

il come aprirsi agli altri, essere non chiusi all’altra cultura, spesso anche

significativamente diversa, recettivi, aperti a scambiare e ricevere oltre che a

dare, tutto questo faceva parte dell’insegnamento e dell’apprendimento, quindi

queste iniziative non erano per specialisti, erano per tutti coloro che in qualche

modo poi venivano toccati da questo nuovo modo di essere all’interno

dell’azienda.

Questo se vogliamo è un po’ l’essenza di un triennio che segnò profondamente il

Programma Alte Direzioni e da ultimo, parlando di queste iniziative che vanno

dal seminario itinerante, al seminario breve di tre giorni, all’incontro di una

giornata in cui si presenta l’esperienza, la quarta gamba di un tavolo può essere

ed è sicuramente l’incontro istituzionale di fine anno, o l’incontro istituzionale di

metà anno come fu quello che ho citato del luglio ’89, perché in casi eccezionali

si decise anche di farne un’edizione straordinaria come fu quella volta.

L’incontro istituzionale era l’occasione per fare quadrato, per serrare le fila di

fronte a un impegno di un nuovo grande progetto in cui tutti bisognava che si

remasse nella stessa direzione, per prendere consapevolezza di una forte carenza

verso la quale tutti dovevano dare il massimo per cercare di ovviare, per fare il

bilancio di un anno trascorso ma soprattutto per lanciare l’anno successivo e

quindi vedere come impostarlo, sotto quali auspici, con quali grandi progetti e

linee guida.

Ecco, tutto questo fu ciò che rappresentò in quegli anni, e anche per buona parte

degli anni successivi, l’intelaiatura forte e molto efficace di un programma che

122

effettivamente segnò la storia di quegli anni dal punto di vista della formazione,

perché ovviamente se parliamo poi dell’interesse dell’Isvor, avere un programma

come questo voleva dire avere una sorta di motore, di volano che permetteva poi,

avendo molto legata, vicina e coinvolta, a tiro si potrebbe dire, tutta la fascia

dell’Alta Direzione, tutto questo faceva sì che un po’ come effetto a cascata

positivo, ci fosse poi un fiorire di iniziative che quegli stessi personaggi poi

potevano lanciare come committenti, perché loro avevano fatto su di sé

un’esperienza di apprendimento efficace e quindi affrontato da questo punto di

vista veniva percepito come effettivamente di grande utilità strategica e come

tale non c’era in quel periodo nessun desiderio di andare a rivolgersi ad altri

fornitori piuttosto che cercare altre soluzioni, perché si dava credito ad una

società di formazione , ad una corporate university come ad una sorta di forza

strategica che effettivamente poteva dare una grossa mano all’azienda per

raggiungere i propri obiettivi e tutto questo a dimostrazione di come poi nel

campo della formazione conti molto che ci sia una coerenza complessiva e che

nel momento in cui la committenza di più alto livello è avvinta, legata da un

qualcosa di cui ha fatto essa stessa un’esperienza positiva, poi per tutto il resto si

genera un circolo virtuoso.

Tutto questo che sto descrivendo, che allora fece le fortune immediate, le fortune

nel senso della considerazione e della visibilità, sicuramente molto più interna

che esterna, perché allora vigeva il principio dell’understatement, poi la Fiat non

aveva grande interesse a pubblicizzare queste cose, tanto è vero che poi, quando

anni più tardi ci fu qualcuno, e fu Federico Butera, che fece uno di questi

seminari itineranti a metà degli anni ’90, io ricordo un suo articolo su

“L’Impresa” in cui lui, forse anche in buona fede, non voglio dire che non lo

fosse, non ho elementi per dirlo, con il beneficio del dubbio, era come se avesse

inventato lui la formula, semplicemente perché la Fiat non l’aveva allora diffusa,

non l’aveva portata a conoscenza della knowledge community.

Per tanti anni si andò avanti anche un po’ vivendo di rendita sulla scorta di queste

esperienze positive.

123

Io da allora porto con me delle amicizie con dei personaggi che poi sono

diventati magari l’amministratore delegato di una grande società, ricordo

Umberto Quadrino che oggi è a capo dell’Edison, che poi era stata acquisita dalla

Fiat, il professor Rosa che era il responsabile a suo tempo della Sorin Biomedica,

era un personaggio noto in Italia e non solo, oppure Sergio de Pahlen, il secondo

marito di Margherita Agnelli, che allora era il responsabile delle relazioni

internazionali della Fiat France, cito questi tre personaggi perché con loro

facemmo il viaggio in Giappone, con loro e con altri, ma questi erano più

conosciuti di altri, con loro io ho poi conservato un’amicizia negli anni che mi

porta a dare del tu a queste persone, adesso ho citato un fatto personale, ma tutto

questo fece allora anche da coesione straordinaria, per cui tutte quelle persone

che continuavano a fare la loro carriera, portarono negli anni, dentro di sé, un

ricordo positivo dell’Isvor».

124

CAPITOLO V: Conclusioni

Il ruolo che gioca la grande impresa nella nostra vita è notevole, anzi

notevolissimo: influisce non solo nell’ambito lavorativo ma anche sui consumi,

sull’ambiente, sui valori sociali e sul nostro denaro, direttamente o

indirettamente.

Gli effetti delle politiche di queste grandi organizzazioni ricadono dunque non

solo sulle persone che ci lavorano, e già questo basterebbe per meritare

attenzione, ma sull’intera società e in tempi di globalizzazione, la società, il

territorio non è più quello nazionale ma mondiale, dove politiche aziendali,

magari ritenute di poco conto, possono generare, da qualche parte nel pianeta,

conseguenze inimmaginabili:

«il battito d’ali di una farfalla potrebbe provocare un uragano nell’altro

emisfero.»79

Forse l’effetto butterfly è un po’ esagerato, ma rende bene l’idea del

fatto che non possiamo più ignorare quanto accade anche molto lontano da noi.

Dunque non è irrilevante chiedersi se le persone che sono alla guida di queste

organizzazioni, i vertici aziendali e i massimi dirigenti, siano adeguatamente

preparati, o meglio responsabilmente preparati.

Analizzare le iniziative poste in essere per la formazione professionale di questi

particolari lavoratori e lavoratrici è in realtà chiedersi se essi siano

adeguatamente preparati per ricoprire il ruolo di primaria responsabilità nella

loro azienda.

Per quanto ho potuto verificare, anche attraverso i documenti e gli incontri con il

dottor Busana, il lavoro di formazione e di aggiornamento professionale svolto

nel gruppo Fiat, negli anni tra il ’70 – ’90, per le Alte dirigenze, è stato un lavoro

serio, profondo e impegnativo, nel quale come si è visto i primi a crederci sono

state le persone destinatarie della formazione, i vertici aziendali e le Alte

dirigenze appunto.

79

L’espressione citata è stata coniata dal meteorologo Edward Lorenz nel 1961 presso il Massachussets

Institute of Tecnology di Boston ed è nota come “effetto butterfly”.

125

In un qualche modo, l’Azienda si è messa in gioco, ha scommesso sul proprio

personale di più alto livello, sapendo che un eventuale fallimento avrebbe avuto

ricadute non solo aziendali ma ben più ampie e gravi.

Questa tensione al miglioramento, a perseguire una professionalità in linea con i

tempi, anzi più volte si è cercato di giocare di anticipo, emerge dalle parole di chi

ha lavorato nel Programma di Formazione per le Alte Dirigenze: l’informalità

degli incontri, lo scivolare sui ricordi personali, l’uscire in qualche modo da

un’ufficialità aziendale, mi ha permesso di entrare in quella dimensione umana

che rende più vera la testimonianza e il ricordo di un’esperienza lavorativa in

qualche modo irripetibile, constatando anche così l’impegno e la serietà di quel

lavoro.

Certamente il caso Fiat non può costituire un esempio generalizzante, ma viste le

dimensioni e l’importanza dell’azienda può essere preso d’esempio, un buon

esempio direi.

In concomitanza al variare dell’andamento dei mercati; all’alternarsi di periodi

di crisi e di cicli espansivi e ad una maggiore dinamicità e complessità sociale, il

ruolo dirigenziale sembra fare un salto evolutivo in avanti. L’azione dirigenziale

diventa più complessa.

In altre parole, quando si vive un periodo di transizione, di cambiamento, la

funzione dirigenziale è la prima ad essere investita.

Lo si è visto nei primi del ‘900 dove gli sviluppi tecnologici e scientifici uniti a

produzioni di scala imponevano metodi di governo delle grandi imprese nuovi,

non più legati a modelli di gestione familiare.

F.W. Taylor immaginava un dirigente che avesse la capacità e la conoscenza per

coordinare e sovrintendere il processo produttivo razionalizzato, e a un livello

dirigenziale ancora più alto, la sua funzione diventa strategica: la massima

dirigenza non deve occuparsi del funzionamento ordinario, le alte direzioni si

concentreranno non sul presente ma sul futuro dell’impresa.

Non sempre si è colto il legame tra la complessità del mercato e la preparazione

professionale del dirigente.

126

Questa miopia non è solo un fatto circoscritto al lavoro, è un fatto sociale: una

parte degli imprenditori di inizio ‘900, quelli più conservatori, meno inclini a

guardare al domani, non capirono il ruolo e il senso di queste nuove figure.

Non colsero l’importanza della nascita di un nuovo soggetto lavorativo che, per

dirla con le parole di G. Valois, si poneva su un piano intermedio tra la borghesia

che possiede e il proletariato che esegue.

La diffidenza si manifestava nel pensare che non era necessaria una vera e

propria formazione acquisita nelle scuole medie superiori e nelle università, ma

era sufficiente sporcarsi le mani, fare la gavetta, questa era considerata l’unica

formazione valida.

Dunque è un attacco alle fondamenta di una nuova professione che anche

attraverso la formazione si stava legittimando.

Tuttavia, gli aumenti produttivi legati al primo conflitto mondiale, ed una nuova

pace sociale con i lavoratori in nome di maggior efficienza produttiva, spinsero

gli imprenditori italiani ad adottare i principi di F.W. Taylor, che come si è visto

non riguardavano solo la forza lavoro operaia ma tutte le funzioni operanti nelle

imprese, dirigenti compresi.

La razionalizzazione dei processi produttivi, la maggior dimensione delle

imprese e la crescente separazione tra proprietà e controllo rendevano non più

rinviabile la formazione di una classe dirigente preparata.

Tali convinzioni venivano poi confermate dai risultati economici provenienti dal

Nord America: le relazioni alle visite dei dirigenti Fiat agli stabilimenti Ford

indicavano chiaramente che la superiorità americana non era nella tecnologia ma

in un management adeguatamente preparato.

L’uomo che si fa da solo –self made man – era ormai cosa di altri tempi, per

governare le grandi imprese era necessaria una cultura solida.

Il diffondersi dei principi tayloristici e un nuovo panorama economico e sociale

sono stati un incentivo a professionalizzare maggiormente i futuri dirigenti.

Il fiorire di iniziative formative come quella del ’29 del professor Pacces

dimostrano come nel panorama industriale italiano fosse in atto un rilevante

127

cambiamento culturale: la classe dirigente doveva ricevere una formazione

adeguata che la sostenesse nella competizione economica e la guidasse a operare

con elevato senso di responsabilità.

Nel corso degli anni sono numerose le iniziative di formazione un po’ in tutta

Italia e si assiste ad una progressiva articolazione dei corsi e ad un maggior

approfondimento delle materie insegnate; anche la frequenza diventa un

elemento caratterizzante, non solo più corsi serali a integrazione dell’attività

lavorativa, ma veri e propri corsi riservati a laureati con frequenze obbligatorie.

Da notare che già negli anni ’30 gli imprenditori richiedevano corsi di studi meno

specialistici e più trasversali, multi-disciplinari, che permettessero ai futuri

dirigenti di affrontare le diverse problematiche che si presentavano in azienda,

che non erano solo di natura tecnica o economica, ma spesso i due ambiti si

sovrapponevano.

In sostanza accadeva che gli ingegneri non avessero nessuna conoscenza in

campo economico e gli economisti nessuna nozione tecnica.

Tale rilievo conferma che la formazione degli alti dirigenti, proprio per il loro

ruolo strategico e politico, non deve essere troppo settoriale ma piuttosto aperta

in modo tale da avere una visione ampia dei problemi aziendali nella loro totalità.

Tra le numerose iniziative un’esperienza formativa molto interessante è quella

proposta dall’IPSOA, che si distingue dalle altre per una didattica innovativa per

i tempi – studi di caso – e per la docenza: tutti i professori sono americani

provenienti da Harvard Business School, e la metodologia adottata tenta di

ridurre il divario tra una formazione universitaria classica e il mondo del lavoro,

coniugando gli aspetti teorici a quelli esperienziali; è un modello formativo che,

con alcune varianti, verrà poi ripreso negli anni a seguire anche da Isvor Fiat.

Si assiste ad un’attivazione crescente di corsi di sviluppo manageriale e a diverse

iniziative che a vario titolo vanno ad interessare le fasce dirigenziali;

parallelamente il ruolo del dirigente, anche in relazione alle accresciute

dimensioni aziendali, alla complessità dei processi produttivi e a un mercato

128

sempre più ampio e vivace, assume una rilevanza di primo piano nell’azienda e

nella società.

Sembra esserci una relazione circolare fra mercato, processi produttivi e ruolo

professionale: un mercato sempre più vasto e dinamico, e processi produttivi

complessi, inducono a una maggior professionalità dei manager, che attraverso il

loro agire aumentano la complessità aziendale la quale a sua volta determina una

maggiore complessità del mercato.

Ormai è chiaro che è necessaria una preparazione alta per la funzione

dirigenziale, ma questa risente inevitabilmente ed è in qualche modo

condizionata dai modelli culturali e sistemi di valore del suo tempo.

Per buona parte del ‘900 l’economia industriale dell’organizzazione scientifica di

F.W.Taylor e il modello di produzione e consumo concepito da Ford hanno

determinato una cultura industriale essenzialmente basata su un’idea di ordine,

stabilità e prevedibilità.

La metafora organizzativa dell’orologio ci rimanda all’idea che l’impresa è

costituita da parti diverse e ognuna svolge una sua funzione, esattamente come le

parti di un motore, e il tutto è costituito dalla somma dei singoli elementi.

Tale visione è stata a lungo dominante e la sua applicazione si è concretizzata nei

grandi stabilimenti industriali come il Lingotto e Mirafiori.

Vista da questo lato l’organizzazione – modello meccanico – appare chiaro che

ogni deviazione da quanto stabilito e pianificato è dannosa in quanto la macchina

non è in grado di sopportare la variabilità, l’incertezza, la novità che rompe la

linearità dell’agire organizzativo.

Nei casi di variabilità, di devianza, l’organizzazione, come tutte le macchine,

attiva dei processi di feed back negativi, delle retroazioni che la riportano nei

valori e nelle condizioni predefinite.

Un feed back di questo tipo può essere rappresentato dal funzionamento di una

caldaia, una macchina appunto: il termostato rileva la temperatura nell’ambiente,

e se questa è al di fuori dei valori impostati, il termostato comanderà alla caldaia

129

di bruciare più o meno combustibile, riportando così la temperatura

nell’ambiente ai valori prefissati.

L’organizzazione piramidale – top down – i numerosi livelli gerarchici, i

quattordici livelli in epoca vallettiana sono significativi, la scomposizione del

lavoro, mansioni e procedure definite e un’attenta pianificazione dell’attività

lavorativa, si possono considerare strumenti per mantenere l’organizzazione in

una condizione di equilibrio, di stabilità e prevedibilità.

La visione tradizionale sulle organizzazioni deriva dalla fisica newtoniana.

Questa visione presenta il mondo come stabile, predicibile, e con cause ed effetti

chiaramente identificabili. Secondo questa prospettiva l’organizzazione è come

una macchina: le sue parti determinano il tutto, e il tutto è compreso analizzando

le sue parti.

La linearità del flusso produttivo è poi assimilata nell’idea di fiume con i vari

affluenti: alla linea principale di lavorazione confluiscono le lavorazioni

secondarie.

Tutto deve procedere, scorrere linearmente, senza imprevisti e scosse, e anche

quando si verificano delle anomalie, l’impresa dispone di un patrimonio di

esperienze che unite alla conoscenza dei processi produttivi, fornisce criteri di

azione che sembrano abbastanza sicuri.

Questo modo di intendere l’organizzazione ha determinato una cultura industriale

molto forte, dove la centralità della produzione, i toc80

, l’accettazione

dell’autorità espressa dalla catena di comando, l’idea di ordine e stabilità come

riferimenti assoluti e una sostanziale avversità per il disordine, non solo fisico ma

anche sociale, ammesso che si possa parlare di disordine, sono diventati elementi

culturali di riferimento.

A questi fattori si deve aggiungere la consapevolezza della forza e del peso che la

propria azienda, Fiat in questo caso, ha non solo a livello cittadino ma sull’intera

80

Espressione gergale per indicare i particolari della produzione. Il termine è molto diffuso nelle officine,

ma ormai è diventato patrimonio comune anche nei livelli dirigenziali.

130

nazione, rendendo così ancora più salde alcune convinzioni e modelli culturali di

derivazione aziendale.

Eugenio Scalfari, nell’intervista del 6 aprile del ’69 all’ora presidente della Fiat

Gianni Agnelli, riguardo ai problemi dell’immigrazione della forza lavoro dal

sud al nord del Paese, e i costi sociali che essa produce, esprime con chiarezza, in

alcuni passaggi, la forza e il peso della Fiat:

«[…] Così partivano, i giovani del paese, risalivano costiere coi lunghi convogli,

lasciandosi alle spalle un mondo antico e disperato col miraggio della città, delle

luci al neon, della motocicletta e della Fiat. La Fiat: era questo il faro la cui luce

era arrivata a sfiorare il buio secolare del più profondo Sud italiano»81

.

Il presidente della Fiat parlando dei flussi migratori e dei costi sociali ad essi

collegati afferma: «L’anno scorso ne abbiamo assunti 18 mila alla Fiat, e nessuno

se n’è accorto.

Quest’anno ne assumeremo 15 mila, ma in realtà l’aumento sarà di 3.000

soltanto, gli altri 12 mila servono a sostituire quelli che se ne vanno, il turnover,

appunto.

D’altra parte è interesse di tutti che l’industria, e un’industria come la nostra in

particolare, si mantenga costantemente in una fase di equilibrata espansione.»

«[…] Basterebbe non dico un regresso, ma anche soltanto una stasi per innescare

un processo involutivo. Lo vedemmo nel ‘64. Sembrava che l’intero Piemonte e

addirittura l’Italia stessero per crollare perché la Fiat aveva dovuto ridurre il

livello di occupazione e le ore di lavoro.

Per fortuna le prospettive attuali sono completamente opposte».

Questa era la Fiat di quegli anni, un’azienda forte e autorevole, le cui scelte

influivano sensibilmente sia sulla sua forza lavoro che sull’intero Paese.

Lo Statuto dell’Associazione Gruppo Dirigenti Fiat82

del ’74 evidenzia

chiaramente il senso di appartenenza e di identificazione aziendale, ma anche il

81

Scalfari E., Roma propone e Torino dispone in “L’ESPRESSO 50 ANNI” op. cit. 82

Pubblicazione a cura dell’Associazione Gruppo Dirigenti Fiat in occasione dei trent’anni di attività.

2004 Torino

131

riconoscimento della propria funzione dirigenziale, sia nell’Azienda che nella

società.

Le finalità dell’Associazione espresse nell’articolo 4 dello Statuto sono:

� rafforzare ed approfondire la conoscenza e la solidarietà fra i dirigenti Fiat,

ricercando e tutelando anche comuni interessi e motivazioni di aggregazione

di vita sociale;

� valorizzare e tutelare il ruolo del dirigente nell’Azienda e nella società, nella

consapevolezza di una crescente responsabilità e di una sentita esigenza

partecipativa;

� essere componente attiva nella definizione della politica aziendale e

nell’evoluzione dei rapporti sociali, economici e culturali del Paese;

� agevolare l’aggiornamento professionale dei dirigenti Fiat, anche al fine di

consentire più efficaci apporti di capacità professionale e di esperienza

aziendale a tutti i livelli e in qualsiasi sede, nazionale ed internazionale.

Queste quattro finalità dimostrano che l’obiettivo dello Statuto è quello di

svolgere una leadership responsabile all’interno dell’Azienda e nel contesto della

società civile.

La grande fabbrica è il punto di riferimento, è un luogo fisico imponente, si

potrebbe dire che sia un attrattore sociale, dove, oltre alla materialità della

produzione, confluiscono cultura e sapere, lotte e passioni.

La conoscenza è dunque un fattore di primaria importanza per le organizzazioni,

in particolare per le figure professionali più elevate, come le Alte dirigenze.

Il fattore culturale, qui inteso in una accezione ampia, si sviluppa lungo due

dimensioni: soggettiva, viene cioè richiesto da parte delle imprese un livello di

istruzione sempre più elevato per la propria forza lavoro di alto profilo;

oggettiva: la conoscenza è incorporata negli strumenti impiegati e nei servizi

forniti, cioè nel lavoro.

L’associazione viene così definita a pag. 2: L’Associazione Gruppo Dirigenti Fiat è un’associazione

autonoma, senza scopo di lucro, indipendente da ogni potere economico, politico e sindacale.

132

La grande impresa, attraverso le sue pratiche lavorative, le grandi produzioni di

serie e un’organizzazione del lavoro fortemente piramidale, ha escluso quasi

totalmente il concetto di variabilità, di diversità, di altro.

Questo è avvenuto sul piano tecnico attraverso l’utilizzo di tecnologie

monofunzionali, progettate per eseguire un solo tipo di lavorazione, e sul piano

sociale reprimendo tutti quei comportamenti non conformi alle prescrizioni, ivi

compresa la creatività.

Questo agire organizzativo se pur ha avuto una sua ragion d’essere in epoca di

fordismo maturo, non è privo di conseguenze.

L’ordine ripetitivo, la mancanza di diversità, riducono la complessità

dell’organizzazione, ci ricorda E.Morin, in quanto gli individui sono indotti ad

assumere comportamenti conformati a quanto richiesto dalla cultura

organizzativa, a diventare degli esecutori, magari anche di altissimo livello ma

pur sempre esecutori.

Questo comportamento indotto riduce gli spazi di espressione, di creatività,

rimangono così inespresse molte delle qualità delle persone che lavorano

nell’azienda.

Viene così a mancare quel processo bottom – up, dove l’organizzazione,

ricevendo contributi dalla sua forza lavoro, si arricchisce, aumenta la sua

complessità e integra nei processi lavorativi nuove e diverse modalità di azione.

Anche da questo si desume che la grande impresa fordista sia stata concepita e

guidata seguendo l’idea di complicato e non di complesso.

Con gli anni ’70, dopo un forte periodo di espansione economica e sviluppo

sociale, l’economia incomincia a mostrare segni di variabilità crescente,

inducendo le imprese a rivedere le proprie strategie e modelli organizzativi.

«La congiuntura che investì il sistema economico fra gli anni Settanta e gli anni

Ottanta sanzionò, da un lato la crisi delle forme di impresa sino ad allora

dominanti - quelle cioè riconducibili al modello della grande impresa di matrice

nordamericana- rivelatasi inadatta ad operare efficacemente in una situazione di

crescente turbolenza ambientale. Dall’altro lato, sancì il grande sviluppo di

133

quelle forme di organizzazione della produzione che si dimostrarono in grado di

operare adottando modelli di governo dell’impresa capaci di esaltare doti quali la

flessibilità e la creatività, ovvero dei caratteri sostanzialmente differenti da quelli

tipici della corporation nordamericana, fondati – come detto – sulla ricerca della

massima efficienza nello svolgimento dei processi aziendali e su rigida

pianificazione»83

.

Sono anni di fermento, di trasformazione, diventa necessario un cambio di

mentalità, una nuova cultura industriale, una diversa visione del mondo.

La capacità di assorbimento dei mercati consolidati si riduce e quelli emergenti

non hanno ancora la forza per compensare le mancate vendite.

Per la prima volta i limiti alla produzione non sono all’interno dell’impresa ma

fuori, nel mercato.

Il mercato diventa il vero protagonista dell’agire produttivo, la variabilità della

domanda e la richiesta di prodotti sempre più personalizzati inducono le

organizzazioni a introdurre nuovi modelli organizzativi e nuove strategie.

La vecchia logica fordista, in un periodo di crescita lenta, non è più valido, la

dilatazione dei volumi su cui ripartire i costi, la linearità del flusso produttivo e le

pianificazioni di lungo periodo sono filosofie non più praticabili.

La grande impresa perde la sua autoreferenzialità, a favore di un rapporto più

simmetrico con l’ambiente e l’incertezza e la variabilità esterna diventano fattori

con i quali misurarsi e confrontarsi.

Vengono adottati nuovi modelli organizzativi più corrispondenti ai tempi, più

leggeri e dinamici, dove la reattività alla variabilità diventa un elemento

essenziale per la sopravvivenza dell’impresa.

Conseguentemente, la vecchia struttura piramidale si abbassa: i livelli gerarchici

si riducono, i ruoli si fanno più aperti, alle persone viene chiesto di contribuire al

buon funzionamento aziendale attraverso la loro creatività, attraverso la proposta

di soluzioni innovative.

83

Zampi, L. Le reti di ruoli imprenditoriali, p.20, 1997 Giapichelli, Torino

134

L’organizzazione non vive più in un contesto stabile, lineare di equilibrio, ma si

trova nella variabilità, nell’incertezza, ogni volta si deve trovare un nuovo punto

di equilibrio, allora ogni risorsa deve essere capitalizzata, anche la diversità un

tempo ostacolata diventa una ricchezza.

L’autorità, il comando non possono più essere le linee guida, specialmente

quando l’organizzazione deve realizzare obiettivi di innovazione.

L’impresa si trova a dover far fronte a un contesto ambientale e produttivo del

tutto nuovo, le conoscenze già acquisite non bastano, non ci si può limitare

all’applicazione del patrimonio di conoscenze già posseduto.

Siamo di fronte ad un passaggio fondamentale, di primaria importanza, al mutare

delle condizioni economiche e sociali, l’impresa deve rivedere completamente se

stessa, ciò che prima era da evitare, ritenuto dannoso per l’organizzazione, oggi

diventa un elemento da ricercare, da richiedere, da stimolare. La diversità, la

creatività entrano nell’impresa come veri protagonisti, l’impresa diventa sistema,

le sue parti interagiscono, si relazionano, il risultato aziendale è il frutto della

collaborazione e dell’interazione tra le parti, questa volta il tutto è più della

somma delle parti.

La diversità diventa un elemento costitutivo del sistema: omogeneità e diversità

convivono attraverso una nuova organizzazione aziendale.

La complessità diventa parte dell’organizzazione, anzi è l’organizzazione a

diventare complessa.

Il sistema attraverso i suoi componenti perviene ad una nuova complessità

organizzativa, che è prodotta non dall’azione individuale delle singole parti, ma

dall’interazione e dalla cooperazione dei costituenti del sistema.

Si attivano ora le emergenze, i processi bottom – up: il contributo attivo della

forza lavoro arricchisce l’organizzazione, la porta ad un livello di complessità

maggiore, emergono nuove qualità che sino a prima erano nascoste, inibite.

E’ un arricchimento per tutti, sia per i membri dell’organizzazione che per

l’organizzazione stessa.

135

Senza spingersi troppo in là e parlare di partecipazione democratica da parte dei

lavoratori, non è questo il caso, tuttavia mi pare si arrivi a concepire dei nuovi

rapporti di lavoro, un nuovo modello relazionale dove si esce dalla dicotomia: o

questo o quello per passare invece a: questo e quello, diversamente si può dire

che non vi è più un solo modo di operare, quello imposto dall’azienda - one best

way - ma ci possono essere anche altre modalità, altri stili di leadership, altre

culture.

La conoscenza, il sapere, rappresentano dunque per l’individuo e per le

organizzazioni una risorsa fondamentale per affrontare le difficoltà, per elaborare

soluzioni innovative, per raggiungere gli obiettivi prefissati e per non subire

passivamente il cambiamento.

Sono molte le voci che si alzano a questo riguardo, tutte concordano sul fatto che

la conoscenza è un elemento fondamentale nella competizione economica, non a

caso si parla di società della conoscenza.

Anche la giurisprudenza ha recepito il maggior peso che ha assunto l’aspetto

professionale, nei ruoli dirigenziali, a scapito di un’interpretazione più legata agli

aspetti gerarchici e all’autorità.

Il comando e l’autorità non sono più i cardini attorno ai quali si incentra la

professionalità, ma la partecipazione, la condivisione, la cooperazione e tutte

quelle abilità che favoriscono l’emergere dei processi di auto-organizzazione, di

bottom - up di cui si è parlato.

Anche la consapevolezza della propria professionalità, il riconoscere i propri

bisogni formativi, contribuire nel disegnare percorsi di apprendimento è parte di

quelle abilità richieste alle figure dirigenziali; non è un caso infatti che spesso

questa popolazione aziendale sia coinvolta a pieno titolo, come è accaduto in

Fiat, nel definire programmi di formazione.

Cambiando la professionalità, cambia anche la formazione, non più corsi

standardizzati ma proposte ad hoc su misura che rispondano alle esigenze

specifiche delle singole organizzazioni e delle singole popolazioni aziendali.

136

Una formazione che sappia stimolare tutte quelle abilità extra funzionali, come

nel caso della formazione outdoor in cui vengono posti in risalto gli aspetti più

relazionali del lavoro.

Le organizzazioni di maggior dimensione hanno fondato negli anni dei veri e

propri centri dedicati alla formazione come dimostra l’Isvor Fiat, in assoluto una

delle primissime Corporate Univeristy.

L’idea di fondo che sta alla base delle Corporate University è ben rappresentata

dall’esperienza Cedep: un gruppo di aziende unendo le loro forze creano una

struttura formativa dedicata alle loro esigenze, al proprio business.

Vi è la necessità da parte delle imprese non solo di sostenere e migliorare la

professionalità delle loro Alte dirigenze, in particolare nei periodi di transizione e

di cambiamento organizzativo, ma anche di trasmettere con tempestività ed

efficacia gli indirizzi espressi dal vertice attraverso la formazione, non a caso il

rapporto tra vertice e struttura formativa è molto stretto.

Le metodologie formative diventano sempre più complesse e sofisticate,

determinando così un passaggio da forme tradizionali a soluzioni innovative di

apprendimento: seminari, convegni, viaggi studio, apprendimento individuale,

formazione outdoor, formazione a distanza, sono solo alcune delle diverse

modalità attraverso le quali il processo formativo si realizza.

Uno dei punti di forza delle Corporate University è nella possibilità di adottare e

integrare diverse opportunità formative in relazione alle esigenze ed agli obiettivi

aziendali.

Gli anni ’70 sono anni di profondi cambiamenti sia sociali che economici: la Fiat,

come dimostra l’intervista di E. Scalfari ad Agnelli, è un’azienda forte e potente,

ma nonostante questo sul finire degli anni ’60 inizia un lavoro che si potrebbe

definire di analisi, di verifica, che la porterà verso nuovi modelli organizzativi.

Il resoconto giornalistico del famoso accordo stipulato in Russia dalla Fiat, nel

’65, si conclude con una considerazione particolarmente interessante, che da lì a

poco si sarebbe concretizzata con una profonda ristrutturazione del Gruppo Fiat:

137

«L’affare più grande del mondo fu praticamente concluso la mattina del 1° luglio

1965». I due protagonisti dell’accordo furono Vittorio Valletta, presidente della

Fiat, e Kostantin Rudniev, vice – presidente del Consiglio dei Ministri

dell’URSS.

Fonte: Archivio Storico Fiat

«[…] Egli (Vittorio Valletta) si recava infatti a concludere il più grande accordo

industriale che qualsiasi paese abbia mai stipulato con la Russia degli zar o con

quella Lenin.

E’ in un certo senso singolare che un contratto così ambito sia stato conquistato

proprio dalla Fiat, ditta prudente, favorevole da sempre alla politica del piede in

casa, orientata verso la produzione di piccole e piccolissime cilindrate, aiutata

ieri dall’autarchia ed ancora oggi da un regime fiscale che le assicura condizioni

di particolare vantaggio. Ma i tempi stanno rapidamente cambiando e i dirigenti

della Fiat lo hanno capito.» 84

Lo studio della Worden&Risberg del ’67 è la conferma dell’inizio di questa fase

di analisi e verifica da parte dei vertici Fiat, poiché gli scenari economici e sociali

in rapido mutamento impongono una riflessione.

84

Corbi, G. La Fiat va in Russia, in “L’espresso 50 anni” op.cit.

138

Mi sembra di poter dire che questo sia un punto di svolta, nella storia del

Gruppo: a seguito dei risultati dello studio Worden&Risberg si darà vita a tutta

una serie di iniziative organizzative ancora oggi visibili, tra cui la nascita

dell’Isvor.

Possiamo leggere questi avvenimenti attraverso la teoria della complessità, per

avere una diversa angolazione di veduta.

La stabilità e l’ordine hanno consentito alle grandi imprese di operare, per buona

parte del ‘900, in una condizione di sostanziale equilibrio; le normali

perturbazioni sociali ed economiche in qualche modo venivano smorzate e

assorbite dall’organizzazione, la quale poteva continuare il suo percorso lineare.

Le variazioni economiche e sociali vengono assorbite dall’organizzazione sino a

quando non si arriva ad una soglia critica.

La ricerca studio Worden&Risberg del ’67 non fa altro che certificare questa

criticità ed evidenziare che l’Azienda si trova ormai nel punto di biforcazione.

In questa nuova condizione il vertice aziendale deve operare delle scelte che

saranno poi determinanti per la futura evoluzione aziendale.

La direzione presa è stata quella di andare verso un profondo cambiamento

organizzativo: la struttura multidivisionale varata nel ’72 e completata nel ’74 e

in seguito la struttura holding, maggio ’76.

In un certo qual modo, i risultati della ricerca Worden&Risberg possono essere

assimilati al flusso di energia e informazioni che va a rompere l’equilibrio nella

cella di Bèrnard, l’impresa così può essere vista come un sistema dissipativo.

Le conclusioni della ricerca sono un flusso potente di informazioni che entrano

nell’Azienda e l’Azienda utilizza, dissipa, al suo interno. L’ordine organizzativo

viene rotto, ma è proprio da questa rottura che nasce una nuova Fiat, una nuova

struttura.

I risultati e la loro elaborazione segnano una differenza tra un prima e un dopo,

un’evoluzione irreversibile nell’organizzazione Fiat.

139

Come per le celle di Bèrnard, la rottura dell’equilibrio, l’instabilità, porta il

sistema, la Fiat, verso un nuovo ordine, questa volta però non più statico ma

dinamico. Dal disordine nasce l’ordine!

Concretamente i risultati dello studio Worden&Risberg daranno vita ad una serie

di indagini interne rivolte ai massimi dirigenti per conoscere i loro bisogni

formativi e quelli dei loro più stretti collaboratori.

Fin da subito l’Alta dirigenza è coinvolta attivamente nel cambiamento, nel

definire i propri bisogni formativi, nell’evidenziare la necessità di una maggior

informazione sulla Fiat, e i suoi obiettivi in relazione al contesto esterno.

Il passaggio ai nuovi modelli organizzativi segna una svolta nel modo di operare

in azienda, in particolare è necessario un cambio di mentalità, di cultura:

dall’essere direttori Fiat a diventare dei manager, più aperti, più duttili, pronti ad

affrontare le sfide che si presentano.

Il ruolo di Isvor, della formazione, è proprio questo sostenere, accompagnare e

formare le Alte dirigenze nel cambiamento organizzativo.

Con la rottura dell’equilibro organizzativo, prodotta dai risultati dello studio

Worden&Risberg e dalla loro elaborazione, l’azienda si trova a operare nella

zona detta orlo del caos o margine del caos, dove l’impresa ricerca e crea nuove

configurazioni organizzative.

La divisionalizzazione prima e l’holding dopo, non sono altro che nuovi luoghi di

attrazione nella regione del caos.

Per muoversi verso i nuovi obiettivi è necessaria la condivisione degli obiettivi,

una cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nel cambiamento, l’incoraggiamento

della creatività, e tutti quei processi bottom – up che possono favorire il

raggiungimento del risultato voluto.

E’ necessario pensare l’impresa come un sistema!

Infatti sin da subito, nella definizione dell’attività formativa, sono coinvolti a

pieno titolo tutte le funzioni aziendali coinvolte nel cambiamento, pertanto il

Programma di Formazione delle Alte Dirigenze nasce e si sviluppa attraverso una

profonda interazione tra le varie funzioni aziendali.

140

Questa scelta sarà anche il suo punto di forza, in quanto è un lavoro condiviso,

partecipato, è il risultato concreto del pensare l’azienda come un sistema.

L’evoluzione organizzativa genera una maggior complessità nel sistema Fiat, che

si riflette sul processo formativo.

Non è più sufficiente un unico programma di formazione per tutta la popolazione

dirigenziale, è necessario attivare differenti percorsi che siano più corrispondenti

ai diversi livelli direttivi: il Programma per Direttori Senior (CSD) dedicato

all’Alta Direzione risponde a questa esigenza.

I contenuti dei temi trattati durante i seminari del corso e l’apporto di specialisti

internazionali riflettono la necessità di fornire a questa particolare popolazione

aziendale una formazione di alto livello che consenta l’analisi dei più avanzati

modelli teorici, uniti a testimonianze di esperienze manageriali di successo, sia in

ambito Fiat che esterne.

Scorrendo i titoli degli argomenti studiati si nota l’apertura verso problematiche

non più solo interne all’ambito Fiat ma di interesse generale, temi con i quali la

comunità manageriale internazionale si sta confrontando.

Si ha la voglia e la necessità di guardare fuori, di confrontarsi, di definire se

stessi in relazione agli altri.

Vertice aziendale

Alta dirigenza

Personale e

Organizzazione

Isvor

Programma di

formazione Alte

Dirigenze

141

Con l’avvio di un nuovo ciclo del Programma, negli anni ’88 – ’91 saranno

introdotti i seminari itineranti, che renderanno concreti l’interesse e l’apertura

verso nuove realtà da parte del management Fiat.

I seminari itineranti e l’incontro istituzionale di fine anno rappresentano le

iniziative di maggior peso e impatto, ma tutte sono parte di un lavoro, di un

progetto comune, di un Programma.

Emerge dall’impianto formativo, oltre che dal numero di persone coinvolte e dal

numero di aziende visitate, una complessità alta che investe tutto il gruppo

direzionale, ma vi è una complessità anche a livello delle singole iniziative poste

in essere, come dimostrano i seminari itineranti.

Il viaggiare, l’andare a visitare aziende e paesi lontani, il confrontarsi con culture

diverse, è il segno di un’apertura dell’Azienda all’esterno, che consente di

ricevere e scambiare informazioni; dopo l’apertura vi è la chiusura, una chiusura

attiva dove si rielabora quanto appreso, si metabolizza e si trasmette, perché la

conoscenza deve essere un patrimonio comune.

Ci si chiude per riaprirsi, per crescere nuovamente.

142

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