UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO - core.ac.uk · misura cautelare ... al di fuori di un disegno...
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO
DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO GENERALE
E TEORIA DELLE ISTITUZIONI
PAOLO TROISI
LE PROCEDURE DE LIBERTATE
NEI PERCORSI INTERPRETATIVI
DELLE SEZIONI UNITE DELLA
CASSAZIONE
SEZIONE DI DIRITTO PROCESSUALE PENALE
Q U A D E R N I
Copyright 2007 by Dipartimento di Diritto Pubblico Generale
e Teoria delle Istituzioni
Pubblicazione finanziata
dall’Università degli Studi di Salerno
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo
effettuata, compresa la fotocopia, non autorizzata.
I N D I C E
Introduzione ................................................................................. Pag. 1
Capitolo Primo
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE
Pag.
1. I provvedimenti impugnabili: premessa ................................... » 9
2. L’esperibilità del riesame contro tutti i provvedimenti adottati
da qualsiasi giudice nella fase delle indagini preliminari ed in
quelle successive ....................................................................... » 15
3. L’interesse ad impugnare anche nell’ipotesi di revoca o
sostituzione della misura coercitiva custodiale ........................ » 18
4. L’interesse ad impugnare anche per una sola delle plurime
imputazioni ............................................................................... » 25
5. La presentazione della richiesta di riesame in uffici giudiziari
diversi da quello di appartenenza del giudice che ha emesso il
provvedimento .......................................................................... » 26
6. La presentazione della richiesta di riesame con telegramma o
raccomandata ............................................................................ » 30
7. La decorrenza del termine per la proposizione della richiesta
di riesame da parte del difensore .............................................. » 31
8. La sospensione dei termini durante il periodo feriale ............... » 37
Capitolo Secondo
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI
Pag.
1. L’avviso all’autorità giudiziaria procedente di trasmissione
degli atti .................................................................................... » 45
INDICE II
2. Il dies a quo di decorrenza del termine per la trasmissione
degli atti .................................................................................... » 48
3. Un problema in tema di decorrenza del termine per la
trasmissione degli atti ............................................................... » 52
4. La necessità che gli atti pervengano al tribunale del riesame
nel termine di cinque giorni ...................................................... » 57
5. La perdita di efficacia della misura per omessa trasmissione al
tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle
intercettazioni ........................................................................... » 59
6. Le conseguenze dell’omessa trasmissione del verbale
dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato ............................ » 68
7. L’esclusione della perdita di efficacia della misura coercitiva
in caso di mancata o tardiva trasmissione della richiesta
cautelare .................................................................................... » 72
Capitolo Terzo
L’UDIENZA CAMERALE
Pag.
1. Il problema della notificazione dell’avviso della data
dell’udienza camerale al codifensore che non abbia
sottoscritto la richiesta di riesame ............................................ » 79
2. La rinnovazione dell’avviso nell’ipotesi di inosservanza del
termine dilatorio di tre giorni .................................................... » 85
3. Il diritto dell’interessato ad estrarre copia degli atti ................. » 88
4. La traduzione del detenuto all’udienza camerale ..................... » 90
5. L’omessa indicazione nell’avviso di udienza del diritto del
detenuto alla traduzione davanti al magistrato di sorveglianza
o al giudice del riesame ............................................................ » 95
6. La decorrenza del termine di dieci giorni per la decisione ....... » 96
7. Il deposito del dispositivo nel decimo giorno dalla ricezione
degli atti per evitare la perenzione della misura ....................... » 98
8. L’individuazione del dies ad quem nella ventiquattresima ora
del decimo giorno dalla ricezione degli atti .............................. » 104
9. Le conseguenze dell’invalidità della decisione adottata
tempestivamente ....................................................................... » 106
10. L’inapplicabilità al giudizio di rinvio del termine perentorio
di dieci giorni per la decisione .................................................. » 111
INDICE III
11. La sospensione per la risoluzione di una pregiudiziale
costituzionale ............................................................................ » 112
Capitolo Quarto
LA PERENZIONE DELLA MISURA
Pag.
1. I termini della questione e le prime prese di posizione della
giurisprudenza .......................................................................... » 115
2. L’intervento delle Sezioni unite per la risoluzione di un
contrasto giurisprudenziale ....................................................... » 117
3. Un secondo intervento delle Sezioni unite ............................... » 120
Capitolo Quinto
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI DEL TRIBUNALE DEL
RIESAME
Pag.
1. La declaratoria di incompetenza del giudice che ha adottato la
misura cautelare ....................................................................... » 125
2. La valutabilità dei gravi indizi di colpevolezza anche dopo il
rinvio a giudizio dell’imputato ................................................. » 135
3. Il potere di dare una diversa qualificazione giuridica al
fatto ........................................................................................... » 141
4. L’inapplicabilità del principio del tantum devolutum quantum
appellatum ................................................................................ » 145
5. I limiti di applicabilità dell’effetto estensivo ............................ » 146
6. I limiti di ammissibilità della motivazione per relationem ...... » 149
7. La condanna del soccombente al pagamento delle spese del
procedimento di riesame ........................................................... » 151
INDICE IV
Capitolo Sesto
IL GIUDICATO CAUTELARE
Pag.
1. L’operatività del principio del ne bis in idem rispetto al
provvedimento impositivo a seguito di riesame nel
merito ........................................................................................ » 155
2. L’effetto preclusivo dei provvedimenti de
libertate ..................................................................................... » 161
3. L’individuazione dei caratteri del giudicato cautelare .............. » 164
4. Gli effetti preclusivi della decisione emessa sull’appello del
magistrato del pubblico ministero contro l’ordinanza di
rigetto della richiesta di misura cautelare personale ................. » 171
5. Considerazioni conclusive sul giudicato cautelare ................... » 176
Bibliografia .................................................................................. Pag. 179
INTRODUZIONE
È ben noto come tra le innovazioni più pregnanti della
codificazione del 1988 risalti la razionalizzazione dei meccanismi
processuali di controllo sui provvedimenti de libertate.
Il previgente assetto normativo assicurava ai soggetti
interessati una limitata possibilità di reazione avverso le decisioni
cautelari, al di fuori di un disegno unitario improntato ai principi
fondamentali dettati dalla Carta costituzionale in materia di tutela
della libertà personale dell’individuo. Inoltre, i vari interventi
legislativi, che si erano succeduti e che erano culminati con
l’introduzione dell’istituto del riesame, non avevano contribuito a
conferire organicità e coerenza al sistema dei rimedi contro le
privazioni ante iudicium delle libertà fondamentali della persona.
Alla tutela asistematica della legislazione processuale
antecedente, il nuovo codice di rito ha sostituito un disegno
dogmatico unitario ed omogeneo, ispirato all’esigenza costituzionale
della costante rivedibilità delle limitazioni della libertà personale.
Tale disegno si articola su vari livelli.
Per un verso, specifici mezzi di impugnazione, disciplinati
dagli artt. 309, 310 e 311, consentono di sottoporre ad un controllo
sia di merito, che di legittimità, dinanzi ad un organo collegiale, nel
rispetto del principio del contraddittorio, le ordinanze che decidono,
inaudita altera parte, sulle richieste cautelari dell’organo del
pubblico ministero.
Per altro verso, il legislatore si è preoccupato di garantire il
costante adeguamento dello status libertatis dell’indagato o imputato
alle naturali modificazioni che il quadro indiziario e cautelare è
destinato a subire con l’evolversi della sequenza procedimentale,
assicurando, attraverso gli istituti della revoca, della sostituzione e
dell’estinzione, contemplati dagli artt. 299 e ss., una continua
influenza dell’accertamento compiuto nel procedimento principale
sulla vicenda cautelare.
Su un altro livello ancora, ma indubbiamente legato ai
precedenti, si colloca l’istituto della riparazione per l’ingiusta
detenzione, il quale opera non sul piano del controllo e della
INTRODUZIONE 2
correzione degli errori giudiziari commessi nelle procedure
incidentali de libertate, bensì su quello della riparazione, e risponde
alla necessità di attuare l’esigenza costituzionale, rimasta
indecifrata fino alla approvazione del nuovo corpus codicistico, di
predisporre rimedi riparatori operanti a favore dei soggetti
sottoposti a misure restrittive della libertà personale poi rivelatesi
ingiuste.
Ora, non si può negare come il punto centrale — e, nello
stesso tempo, nevralgico — del rinnovato sistema di tutela della
libertà personale, costruito dal riformatore del 1988, sia costituito
dall’istituto del riesame ex art. 309.
Nonostante le matrici genetiche del tribunale della libertà
siano ormai risalenti nel tempo ed evidenzino un lungo percorso
evolutivo, contrassegnato da dibattiti dottrinali mai sopiti, da
riforme anticipatorie, dall’esigenza di attuare i principi dettati dalla
Costituzione e dalle Carte internazionali sui diritti dell’uomo, è
indubbio che il rimedio del riesame, come congegnato dal codice
attualmente vigente, rappresenti, rispetto alle passate esperienze,
un’autentica svolta nell’orizzonte del rafforzamento e della
traduzione in termini processuali delle garanzie a tutela della
persona ristretta ante iudicium delle sue libertà fondamentali.
Fin dal suo varo, il rinnovato rimedio del riesame ha
presentato una natura ibrida.
Esso è indiscutibilimente un mezzo di impugnazione e, sul
punto, la collocazione topografica, che gli ha riservato il nuovo
codice, è già di per sé in grado di eliminare i dubbi esegetici che
avevano tanto animato il dibattito dottrinale pre-riforma. Tuttavia, è
altrettanto indiscutibile che la disciplina, riservatagli dal legislatore,
presenti rilevanti profili di atipicità — per quanto concerne la
brevità dei termini, la semplificazione del procedimento, la non
necessaria formulazione dei motivi, la deroga al principio
devolutivo, la perdita di efficacia, etc. — che ne segnano la distanza
rispetto ai distinti rimedi dell’appello de libertate e del ricorso per
cassazione.
Da altro punto di vista, esso rappresenta una fase eventuale
del procedimento applicativo della misura, in quanto è destinato a
INTRODUZIONE 3
consentire a posteriori, ma entro termini stringenti, quel
contraddittorio che, di regola, non precede l’iniziale decisione del
giudice.
Sotto questo profilo, non è vana la considerazione secondo
cui la dinamica del procedimento incidentale de libertate moltiplica i
rischi di incorrere in errori: da un lato, la valutazione degli elementi
probatori — spesso frutto della sola attività investigativa del
magistrato del pubblico ministero — prescinde da un confronto
dialettico tra le parti sulla loro effettiva consistenza ed attendibilità;
dall’altro lato, tale valutazione prelude all’adozione di
provvedimenti immediatamente esecutivi, con la conseguenza di
poter soltanto correggere e riparare — e non già prevenire —
l’errore eventualmente commesso. Apertis verbis, a differenza di
quanto avviene nel processo di cognizione, l’errore contenuto nel
provvedimento impositivo della misura, stante la sua — almeno di
regola — immediata esecutività, è da subito idoneo a riverberare i
suoi effetti pregiudizievoli nella sfera dell’interessato, cosicché
l’esigenza di correzione si presenta, in tutta la sua drammaticità, fin
dal primo momento. Ed è in vista di un simile obiettivo che rinviene
la sua reale giustificazione l’attuale fisionomia dell’istituto del
riesame, con particolare riferimento alla rapidità dello snodarsi
dell’accertamento e dell’ampiezza dei poteri cognitivi del tribunale
della libertà.
Se la trama normativa, intessuta dal nuovo codice, è stata il
frutto, come detto, di una riorganizzazione in chiave sistematica ed
organica dell’insieme dei rimedi posti a garanzia della libertà
personale, con al centro l’istituto del riesame, è anche vero, però,
che il complessivo disegno predisposto dal legislatore del 1988, in
apparenza chiaro e lineare, si è rivelato, allorché si è passati alla
sua messa in opera, di non semplice decifrazione e ciò, oltre a
rendere necessari interventi normativi in funzione correttiva, ha
aperto le porte all’attività concretizzatrice della giurisprudenza, la
quale non ha avuto gioco facile nel riempire le tessere in bianco di
un mosaico che, guardato da vicino, si è presentato lacunoso.
I contrasti interpretativi che si sono via via manifestati hanno
imposto, in innumerevoli occasioni, il ricorso alle Sezioni unite, per
INTRODUZIONE 4
sciogliere i dubbi, per chiarire le incertezze e per esplicitare
quell’apparato dogmatico e concettuale racchiuso nelle rapide e
scarne espressioni normative.
Così, sono state le Sezioni unite, attraverso un percorso
tutt’altro che lineare, caratterizzato da soluzioni maturate
progressivamente, da molteplici svolte e ripensamenti, scanditi
anche da significativi interventi del giudice delle leggi, a ricostruire,
dal punto di vista concettuale e pratico-operativo, le relazioni che
dinamicamente intercorrono tra i rimedi del riesame, della revoca e
della riparazione per l’ingiusta detenzione, pervenendo al termine
del cammino a delineare i caratteri di un istituto che rappresenta il
massimo emblema di giurisprudenza creativa, ovvero il giudicato
cautelare.
Sono state ancora le Sezioni unite a fornire, attraverso scelte
ermeneute non avulse da preventive prese di posizione di carattere
ideologico, i necessari chiarimenti in ordine all’individuazione dei
provvedimenti impugnabili con il riesame, alla delimitazione
dell’interesse ad impugnare, alle modalità di luogo e di tempo di
proposizione della richiesta, al meccanismo di trasmissione degli
atti, allo svolgimento dell’udienza camerale, all’ambito cognitivo del
tribunale del riesame ed al fenomeno della perenzione della misura.
E non c’è dubbio che, se in alcuni casi la soluzione
ermeneutica che ha finito per prevalere abbia rappresentato la
valorizzazione di istanze garantistiche non correttamente o non
chiaramente delineate dall’assetto normativo, in altri casi sono
prevalse esigenze di ordine pratico-operativo, a discapito della
portata garantistica del meccanismo procedurale congegnato dal
legislatore.
Fatto sta che il riesame cautelare, così come vive oggi nella
prassi, è il risultato di una complessa vicenda giurisprudenziale,
portata avanti dalle Sezioni unite, che hanno proceduto ad una
sostanziale rilettura dello scarno dettato normativo dell’art. 309
c.p.p.
Chiunque tentasse un approccio all’istituto in esame,
prescindendo dal diritto vivente e dai principi enunciati dalla
Suprema Corte nella sua più autorevole composizione, finirebbe per
INTRODUZIONE 5
percepire una realtà normativa parziale e fallace, non
corrispondente a quella che è attualmente vigente.
Con il presente contributo, quindi, s’intende fornire una
lettura, in chiave critica, delle regulae iuris enunciate dalle Sezioni
unite, che hanno finito per integrare l’esile corpo dell’art. 309 c.p.p.
Questo è l’indispensabile punto di partenza di una ricerca di
più ampio respiro, che voglia ricostruire la complessiva fisionomia
assunta dall’istituto del riesame ad ormai quasi vent’anni dalla
riforma codicistica.
L’ermeneutica moderna ha ben chiarito che qualsiasi
elaborazione dogmatica non può che essere commisurata alla trama
normativa di riferimento. E, in materia di riesame, la trama di
riferimento non può non comprendere i dicta delle Sezioni unite.
Capitolo Primo
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE
SOMMARIO: 1. I provvedimenti impugnabili: premessa. — 2. L’esperibilità del
riesame contro tutti i provvedimenti adottati da qualsiasi giudice nella fase
delle indagini preliminari ed in quelle successive. — 3. L’interesse ad
impugnare anche nell’ipotesi di revoca o sostituzione della misura
coercitiva custodiale. — 4. L’interesse ad impugnare anche per una sola
delle plurime imputazioni. — 5. La presentazione della richiesta di
riesame in uffici giudiziari diversi da quello di appartenenza del giudice
che ha emesso il provvedimento. — 6. La presentazione della richiesta di
riesame con telegramma o raccomandata. — 7. La decorrenza del termine
per la proposizione della richiesta di riesame da parte del difensore. — 8.
La sospensione dei termini durante il periodo feriale.
1. I provvedimenti impugnabili: premessa. — L’ambito
oggettivo del riesame è definito dal primo comma dell’art. 309 c.p.p.,
che individua nella «ordinanza che dispone una misura coercitiva» il
provvedimento impugnabile con il gravame in esame, con l’unica
eccezione costituita dalla «ordinanza emessa a seguito di appello del
pubblico ministero».
La formula utilizzata dal legislatore sembrerebbe lasciare
pochi spazi all’interpretazione: tutti i provvedimenti impositivi di
misure coercitive vanno impugnati con il mezzo del riesame;
unicamente avverso le ordinanze coercitive pronunciate dal tribunale
della libertà a seguito di appello del magistrato del pubblico
ministero risulta preclusa la proposizione del riesame e consentito il
solo ricorso per cassazione ex art. 311 c.p.p.
L’apparente chiarezza del disposto normativo non si è, però,
tradotta in un’altrettanto omogenea applicazione della norma in
commento; fin dalle prime prese di posizione giurisprudenziali,
l’individuazione dei provvedimenti impugnabili con il riesame ha
posto notevoli difficoltà esegetiche ed il confine con il diverso
CAPITOLO PRIMO 10
rimedio dell’appello de libertate si è palesato tutt’altro che certo e
definito (1).
La prassi giurisprudenziale, al fine di identificare un criterio
univoco di divisione delle sfere di operatività dei due istituti, ha fatto
ricorso alla distinzione tra provvedimenti genetici della misura e
provvedimenti che ne ripristinano l’efficacia, riservando solo ai
primi la proposizione del riesame.
Questa distinzione, tuttavia, anch’essa chiara in teoria, si è
rivelata di difficile trasposizione pratica e non ha impedito il formarsi
di indirizzi interpretativi contrastanti.
Se, ad esempio, la giurisprudenza è stata costante nel ritenere
esperibile il rimedio del riesame avverso l’ordinanza restrittiva,
emessa successivamente alla revoca, ex art. 299 c.p.p., del precedente
provvedimento cautelare (2), maggiori incertezze si sono poste in
(
1) In dottrina, sul tema dell’individuazione delle ordinanze soggette a
riesame, cfr. AMATO, sub art. 309, in Commentario del nuovo codice di procedura
penale, diretto da AMODIO e DOMINIONI, III, Parte seconda, Milano, 1990, p. 191;
APRILE, Letture sul riesame delle misure cautelari, in APRILE-NUZZO-
SANGUINETTI, La pratica penale, Milano, 2003, p. 649; BASSI-EPIDEMIO, Guida
alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, Milano, 2004, p. 39;
CHIAVARIO, Diritto processuale penale, Torino, 2006, p. 570; CONFALONIERI,
Punti fermi in tema di riesame, in Giur. it., 1997, II, c. 392; CORDERO, Procedura
penale, Milano, 2006, p. 541; DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale
penale, Padova, 2006, p. 783; FELICETTI, Tribunale della libertà, tribunali per i
minorenni e tribunali militari, in Cass. pen., 1985, p. 1312; GIANNONE, voce
Riesame in materia di misure cautelari personali, in Dig. disc. pen., vol. XII,
Torino, 1997, p. 240; LOSAPIO, sub art. 309, in Codice di procedura penale.
Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di LATTANZI e LUPO, vol. IV, tomo
II, Milano, 2003, p. 929; MARANDOLA, Riesame o appello per l’ordinanza
“disposta” a norma dell’art. 300 comma 5 c.p.p., in Cass. pen., 2003, p. 558;
MARCHETTI, In tema di estradizione suppletiva e riesame del provvedimento
coercitivo, in Cass. pen., 2000, p. 703; PIERRO, Il giudicato cautelare, Torino,
2000, p. 116; POLVANI, Le impugnazioni de libertate, Padova, 1999, p. 16;
SPANGHER, Appello o riesame per la misura cautelare ripristinata?, in Cass. pen.,
1997, p. 1448. Sia consentito, inoltre, il rinvio a TROISI, L’ordinanza cautelare
contestuale alla sentenza di condanna è soggetta a riesame se altra precedente
ordinanza è stata revocata, in Le Corti Salernitane, 2004, p. 736.
(2) Cfr., ex multis, Cass., Sez. V, 29 aprile 2002, Pascone ed altri, in
C.E.D. Cass., n. 221926, secondo cui «in tema di misure cautelari personali,
mentre il provvedimento di ripristino della custodia cautelare, in caso di
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 11
relazione al provvedimento disposto ai sensi dell’art. 300, comma 5,
c.p.p. (3) o in ordine al gravame utilizzabile avverso l’ordinanza
pronunciata ai sensi dell’art. 302 c.p.p. (4).
scarcerazione per decorrenza termini, è impugnabile con appello, nei confronti di
ordinanza restrittiva, emessa successivamente alla revoca del precedente
provvedimento cautelare, l’impugnazione esperibile è – viceversa – il riesame. Ne
consegue che, se il giudice del gravame, in tale secondo caso, equivocando sulla
natura della impugnazione, decida oltre i termini di cui al comma nono dell’art 309
c.p.p., l’ordinanza coercitiva perde efficacia».
(3) Secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, l’ordinanza
che ripristina la misura coercitiva a norma dell’art. 300, comma 5, c.p.p. nei
confronti di persona condannata in appello dopo l’assoluzione in primo grado non
può essere considerata come nuovo provvedimento coercitivo, dato il nesso
necessario e indissolubile che la lega a quella che ha disposto la precedente misura,
ed è pertanto impugnabile mediante appello ai sensi dell’art. 310 dello stesso
codice e non con il riesame previsto dal precedente art. 309. Così Cass., Sez. I, 12
febbraio 2002, Leuzzo, in Cass. pen., 2003, p. 558. La tesi che considera la misura
disposta contestualmente alla sentenza di condanna di secondo grado come un
mero ripristino di quella anteriore, la cui efficacia sarebbe stata temporaneamente
«sospesa», non appare, tuttavia, condivisibile. Ed infatti, l’ordinanza emessa ai
sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p. si fonda su presupposti (i «gravi indizi»
impliciti nell’affermazione di responsabilità contenuta nella sentenza di condanna)
e condizioni (le esigenze cautelari accertate ai sensi dell’art. 275, comma 1-bis,
c.p.p., tenendo conto, quindi, anche dell’esito del procedimento, delle modalità del
fatto e degli elementi sopravvenuti) che possono essere affatto diversi – come, del
resto, anche la misura può essere diversa – rispetto a quelli che avevano
giustificato il precedente provvedimento; essa è, quindi, il frutto di un esercizio ex
novo del potere cautelare ai sensi degli artt. 273, 274 e 275 c.p.p. e, come tale,
dovrebbe ritenersi che vada impugnata attraverso proposizione di richiesta di
riesame. In quest’ultimo senso, cfr. Cass., Sez. VI, 4 luglio 2000, Scarci, ivi, 2001,
p. 2756.
(4) Sul punto si registrano due orientamenti giurisprudenziali
contrastanti. Il primo indirizzo, di più recente emersione e sicuramente
maggioritario, ritiene che l’ordinanza cautelare emessa dopo l’estinzione di altra
precedente, divenuta inefficace ai sensi dell’art. 302 c.p.p. per omesso
interrogatorio dell’imputato nei cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della
custodia, deve considerarsi del tutto nuova e autonoma rispetto alla prima, e cioè
come vera e propria «ordinanza che dispone una misura coercitiva» a norma
dell’art. 309, comma 1, stesso codice, sicché essa è impugnabile con richiesta di
riesame e non con appello (cfr., Cass., Sez. I, 14 dicembre 2000, Galatolo, in
C.E.D. Cass., n. 218298; Cass., Sez. I, 6 giugno 1996, Nicosia, in Cass. pen., 1997,
p. 2168). Secondo un diverso orientamento interpretativo, invece, è assoggettabile
CAPITOLO PRIMO 12
In questi casi, la distinzione tra ordinanze genetiche ed
ordinanze di ripristino ha condotto a soluzioni operative di segno
contrario ed ha mostrato tutta la sua debolezza. Ed invero, essa
omette di considerare, da un lato, il valore di garanzia insito in tutte
le prescrizioni che prevedono cause estintive delle misure cautelari,
dall’altro, la maggiore portata garantistica che caratterizza il rimedio
del riesame rispetto all’appello.
Privare l’imputato, nei cui confronti sia stata rispristinata la
misura ex artt. 300, comma 5, e 302 c.p.p., di quel controllo più
pregnante e tempestivo costituito dal riesame, significa vanificare la
ratio che sta alla base dell’art. 309 c.p.p., con il quale il legislatore ha
voluto riservare al soggetto nei cui confronti sia applicata una misura
coercitiva un rimedio circondato da maggiori garanzie. Ogni
ordinanza coercitiva, sia essa genetica o di mero ripristino, si risolve
in una limitazione di libertà fondamentali prima della definitiva
affermazione della responsabilità penale e ciò comporta che i
presupposti e le condizioni su cui si fonda siano sempre
assoggettabili ad una verifica che esalti, come valore principale da
tutelare, la libertà personale dell’imputato (o indagato).
Del resto, la distinzione tra provvedimenti genetici e di
ripristino della misura — che non trova alcun riscontro né nella ratio
né nella lettera dell’art. 309 c.p.p. — è una pura «creazione»
giurisprudenziale.
Ed allora, la soluzione più conforme al sistema è forse
proprio quella di ritenere esperibile il riesame avverso tutti i
provvedimenti che applicano misure coercitive, in quanto, anche
allorché costituiscano reiterazione di ordinanze per qualsiasi ragione
caducate, devono sempre fondarsi sull’accertamento dell’esistenza in
concreto delle esigenze cautelari, nonostante in alcuni casi (si pensi
agli artt. 300, comma 5, e 307 c.p.p.) non vengano in rilievo, o
al rimedio dell’appello, e non del riesame, l’ordinanza con la quale il giudice
dispone la «rinnovazione» del provvedimento cautelare, precedentemente
dichiarato inefficace ex art. 302 c.p.p., posto che il riesame è rimedio afferente in
via esclusiva al provvedimento originario e genetico di disposizione della misura,
dovendosi, per contro, disconoscere tale natura a quello in questione, da
considerarsi, invece, «sostitutivo» della misura caducata (v. Cass., Sez. II, 18 aprile
1995, Mulè, in Cass. pen., 1996, 3053).
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 13
meglio non possano essere messi in discussione, i gravi indizi di
colpevolezza.
Né può essere quest’ultima circostanza a rappresentare la
linea di confine tra riesame ed appello.
In alcune sentenze la Suprema Corte ha sostenuto che il
rimedio del riesame è ammissibile solo allorquando l’impugnazione
rimetta in discussione l’intero quadro probatorio, esigendo la
valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, mentre laddove il
gravame miri unicamente ad una pronuncia sulla persistenza delle
esigenze cautelari e sull’adeguatezza della misura prescelta, lo
strumento predisposto sarebbe quello dell’appello; seguendo tale
criterio distintivo (diverso evidentemente da quello che si fonda sulla
dicotomia tra ordinanze genetiche e misure ripristinate) il giudice di
legittimità ha, in alcuni casi, giustificato l’appellabilità del
provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 307 c.p.p. (5); ma,
accogliendo tale prospettiva, dovrebbe considerarsi soggetta
all’appello anche la misura disposta, per la prima volta, dopo una
sentenza di condanna, il che è francamente inaccettabile.
In realtà, la distinzione tra i due mezzi di impugnazione non
può essere individuata nel diverso contenuto del controllo, nel senso
che si ricorre all’appello quando vengono in rilievo le sole esigenze
cautelari ed al riesame allorché si pone in discussione anche l’intero
quadro probatorio. Entrambi i rimedi comportano una verifica dei
presupposti e delle condizioni previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p. e
ciò che li distingue è la portata di un tale controllo, che solo nel
riesame va oltre il devolutum e deve avvenire nel rispetto di ben
precisi termini a pena di perenzione della misura.
Ne deriva che l’unico elemento che consente di ricostruire in
maniera corretta ed in modo coerente con le esigenze di garanzia, che
permeano l’intero sistema delle misure restrittive delle libertà
fondamentali in via cautelare, i confini tra riesame ed appello è
costituito dalla «applicazione» o meno di una misura coercitiva: tutte
le ordinanze che applicano una misura coercitiva sono impugnabili
attraverso il riesame. Tale gravame va considerato, quindi, esperibile
(
5) Cfr., ad esempio, Cass., Sez. V, 25 gennaio 1996, Arena, in Giust.
pen., 1996, III, c. 728.
CAPITOLO PRIMO 14
anche nei confronti delle ordinanze che reiterano precedenti
provvedimenti che siano venuti meno per la revoca della misura (art.
299 c.p.p.), per l’intervento di una pronuncia di proscioglimento (art.
300), per la scadenza del termine previsto per soddisfare l’esigenza
di cui all’art. 274 lett. a) (art. 301 c.p.p.), per l’omesso interrogatorio
di garanzia (art. 302 c.p.p.), per la decorrenza dei termini di custodia
(art. 307), per l’inosservanza dei termini di cui all’art. 309 c.p.p. (6) o
ancora perché disposte da giudice incompetente (art. 27 c.p.p.) (7).
Sono, invece, impugnabili attraverso l’appello i
provvedimenti che si limitano a rinnovare, sostituire o prorogare
l’efficacia di una misura già in corso (8).
Ad una tale conclusione, peraltro, è giunta in una occasione
anche la giurisprudenza di legittimità, con una decisione che, però, è
rimasta isolata (9).
(
6) Cfr., Cass., Sez. I, 5 aprile 1996, Morra, in Cass. pen., 1997, p. 1779,
secondo cui «nei confronti di ordinanza di custodia cautelare emessa
successivamente alla declaratoria di inefficacia di precedente ordinanza, per
inosservanza del termine di cui all’art. 309 commi 9 e 10 c.p.p., i rimedi esperibili
sono il riesame o il ricorso per cassazione per saltum, non l’appello».
(7) Cfr., Cass., Sez. I, 15 marzo 1995, Sancandi, in Cass. pen., 1996, p.
1492; Cass., Sez. VI, 4 ottobre 1995, Rilande, ivi, 1996, p. 3729, secondo cui
«l’ordinanza con la quale il giudice, che ha ricevuto gli atti a seguito di
dichiarazione di incompetenza, applica la misura cautelare ai sensi degli artt. 27 e
292 c.p.p., non è soggetta all'appello di cui all'art. 310, bensì alla richiesta di
riesame ex art. 309 dello stesso codice, né, nel relativo procedimento applicativo,
deve farsi luogo all’audizione del difensore prevista dall’art. 301 comma 2 c.p.p.
(nel testo risultante dopo la parziale dichiarazione di illegittimità operata dalla
sentenza n. 219/94 della Corte costituzionale): tale ordinanza, infatti, ha natura di
autonomo provvedimento coercitivo e non presenta alcun collegamento funzionale
con quella precedentemente adottata dal giudice incompetente, nè tantomeno di
questa costituisce rinnovazione».
(8) V., ex multis, Cass., Sez. Fer., 30 luglio 1992, Bucci, in Giust. pen.,
1992, III, c. 584.
(9) Si tratta di Cass., Sez. VI, 8 marzo 1999, Sciascia, in Cass. pen.,
2000, p. 1736, in cui si afferma che «in tema di impugnazione di misure coercitive,
avverso l’ordinanza che costituisce reiterazione di precedenti provvedimenti per
qualsiasi ragione caducati è proponibile il riesame e non l’appello, non ricavandosi
alcuna distinzione al riguardo dall’art. 309 c.p.p., che si riferisce indistintamente a
tutte le ordinanze applicative di misure coercitive».
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 15
2. L’esperibilità del riesame contro tutti i provvedimenti
adottati da qualsiasi giudice nella fase delle indagini preliminari
ed in quelle successive. — Sempre in tema di provvedimenti
impugnabili con il riesame, uno dei primi contrasti esegetici, che si è
manifestato in giurisprudenza e che ha richiesto l’intervento
risolutore delle Sezioni unite, ha interessato non tanto l’esatta
identificazione dei confini tra riesame ed appello de libertate, quanto
piuttosto l’individuazione del rimedio esperibile avverso le ordinanze
sulla libertà adottate dopo la chiusura delle indagini preliminari (10
).
Invero, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale si sono manifestati vari orientamenti interpretativi: mentre
alcune decisioni hanno considerato ammissibili, avverso i
provvedimenti in discorso, il riesame e l’appello previsti dagli artt.
309 e 310 c.p.p. (11
), altre pronunce hanno, invece, ritenuto che
contro i detti provvedimenti sia esperibile soltanto il ricorso per
cassazione (12
), ovvero l’impugnazione unitamente alla sentenza, in
alternativa con il ricorso immediato per cassazione, quando trattasi di
ordinanze pronunciate negli atti preliminari o nel dibattimento (13
);
infine, per quanto attiene alle ordinanze contestuali alla sentenza di
(
10) Sul tema in dottrina v. BALZAROTTI, I limiti oggettivi delle
impugnazioni de libertate; un contrasto giurisprudenziale da risolvere, in Cass.
pen., 1990, II, p. 295; FIORIO, Verso un nuovo orientamento giurisprudenziale in
tema di riesame dei provvedimenti collegiali, in Giur. it., 1991, II, c. 210;
GRIMALDI, Il tribunale della libertà come giudice generale di impugnazione, in
Riv. trim. pen. econ., 1991, p. 105; MAZZARA, Sulla motivazione immediata delle
ordinanze de libertate, in Giur. it., 1992, II, c. 651; SARACENI, L’impugnazione dei
provvedimenti sulla libertà personale emessi in dibattimento, in Cass. pen., 1989,
II, p. 41; SECHI, In tema di riesame dei provvedimenti collegiali, in Giur. it., 1990,
II, p. 220; STURIALE, La competenza del tribunale della libertà, in Giur. merito,
1991, p. 324; TREVISSON LUPACCHINI, Sull’ambito di operatività del riesame e
dell’appello avverso i provvedimenti de libertate, in Giur. it., 1991, II, c. 164; ID.,
nota a Trib. Vercelli, 17 settembre 1990, Russo, in Giur. it., 1991, II, c. 107.
(11
) Cfr. Cass., Sez. III, 12 ottobre 1990, Binotto, in C.E.D. Cass., n.
185626; Id., Sez. III, 16 maggio 1990, De Leonardis, ivi, n. 184761; Id., Sez. III,
23 febbraio 1990, Piras, ivi, n. 184757.
(12
) Cfr. Cass., Sez. I, 15 marzo 1990, Palma, in C.E.D. Cass., n.
184331.
(13
) Cfr. Cass., Sez. Fer., 7 agosto 1990, Sgarro, in C.E.D. Cass., n.
185226; Id., Sez. Fer., 31 luglio 1990, Di Pietra, ivi, n. 185080.
CAPITOLO PRIMO 16
condanna, si è sostenuto che l’unico rimedio esperibile sia il mezzo
di gravame previsto contro la stessa sentenza (14
).
Il Supremo Collegio ha ritenuto di dover condividere il primo
orientamento, secondo cui i rimedi del riesame e dell’appello de
libertate sono esperibili anche nelle fasi successive alla chiusura
delle indagini preliminari.
In tal senso depone non solo il tenore delle direttive n. 59 e n.
64 della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di rito (l. 16
febbraio 1987, n. 81), ma anche la sistematica del codice, avendo il
legislatore dettato la disciplina delle impugnazioni de libertate nel
libro IV e, cioè, in una sede distinta ed anteriore a quella delle
indagini preliminari. Siffatta diversità della sedes materiae già, di per
sé, dimostra che nel sistema vigente la disciplina delle misure
cautelari e dei relativi rimedi non è applicabile alla sola fase delle
indagini preliminari, ma si estende all’intero procedimento,
considerato sia nella fase pre-giurisdizionale che in quella
giurisdizionale.
Giova, altresì, rilevare che gli art. 309, comma 5, e 310,
comma 2, nella parte in cui dispongono che l’autorità giudiziaria
procedente trasmette al tribunale gli atti su cui si fonda l’ordinanza
impugnata, debbono essere interpretati alla stregua dell’art. 279, il
quale attribuisce la competenza, in tema di applicazione, revoca e
modifica delle misure cautelari, al «giudice che procede» nelle varie
fasi; quest’ultimo non è soltanto il giudice per le indagini preliminari,
ma anche, dopo la chiusura del procedimento preliminare, il giudice,
qualunque esso sia, competente per il giudizio.
Non appare, per altro verso, decisiva l’osservazione secondo
cui, consentendo l’esperimento dei rimedi previsti dagli artt. 309 e
310 c.p.p. avverso i provvedimenti de libertate adottati dopo la
conclusione delle indagini, si finirebbe per conferire ad un giudice
sottordinato la cognizione dei gravami proposti contro provvedimenti
adottati anche da un giudice superiore. È sufficiente obiettare al
riguardo che gli artt. 304 e 318 c.p.p. prevedono espressamente il
rimedio dell’appello ex art. 310 sia avverso le ordinanze di
(
14) Cfr. Cass., sez. VI, 24 marzo 1990, Nika Gakuba, in Cass. pen.,
1990, II, p. 200.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 17
sospensione dei termini di custodia cautelare pronunziate nella fase
del giudizio, sia contro le ordinanze di sequestro conservativo, le
quali, a norma dell’art. 316, possono essere emesse soltanto in ogni
fase e grado del processo di merito. Questi referenti normativi non
solo dimostrano che non sussiste alcuna incompatibilità fra il sistema
processuale vigente ed una rivalutazione nel merito di
provvedimenti, in tema di misure cautelari, da parte di un organo
collegiale all’uopo precostituito, ancorché sottordinato al giudice che
quei provvedimenti abbia adottato, ma la stessa previsione del
rimedio dell’appello in ordine ad una misura reale, disposta da
qualsiasi giudice durante il processo di merito, persuade a fortiori
che il legislatore non ha potuto denegare lo stesso rimedio nei
confronti delle più gravi misure cautelari incidenti sulla libertà ed
adottate nella medesima fase.
Ulteriori argomenti contrari alla soluzione in discorso non
possono essere tratti, secondo i giudici del Supremo Collegio, né
dall’art. 568 comma 2, né dal disposto di cui al terzo comma dell’art.
586. Il primo, in realtà, nel prevedere che sono soggetti al ricorso per
cassazione, quando non altrimenti impugnabili, i provvedimenti che
incidono sulla libertà personale, detta una norma di principio e di
chiusura, che, in quanto tale, trova la sua ratio proprio nella finalità
di adeguamento ai principi costituzionali e mira non già a limitare,
ma a potenziare i rimedi concessi in tema di libertà personale. Il
secondo, nella parte in cui stabilisce che contro le ordinanze in tema
di libertà personale, pronunziate negli atti preliminari e nel
dibattimento, è ammessa l’impugnazione immediata,
indipendentemente da quella contro la sentenza, non può significare
che avverso tali ordinanze è ammesso — in alternativa
all’impugnazione congiunta al gravame avverso la sentenza —
soltanto il ricorso per cassazione, in quanto l’impugnazione
immediata ed indipendente, di cui parla la disposizione, deve essere
individuata proprio nel riesame e nell’appello de libertate, trattandosi
dei rimedi previsti in modo specifico contro i provvedimenti sulla
libertà.
Le Sezioni unite sono pervenute, attraverso questo percorso
argomentativo, alla conclusione — ora pacificamente condivisa in
CAPITOLO PRIMO 18
dottrina ed in giurisprudenza — secondo cui «i rimedi del riesame e
dell’appello dinanzi al tribunale del capoluogo di provincia sono
esperibili contro tutti i provvedimenti comunque adottati da qualsiasi
giudice, sia nella fase delle indagini preliminari che in quelle
successive» (15
).
Si tratta, del resto, dell’unica soluzione compatibile con la
sistematica del codice e con la ratio sottesa alla previsione di
specifici mezzi di impugnazione avverso i provvedimenti in materia
di libertà personale.
Se si limitasse l’operatività di siffatti rimedi unicamente alla
fase delle indagini preliminari, si realizzerebbero irragionevoli
disparità di trattamento.
Ciò vale soprattutto con riferimento al riesame: privare
l’imputato, nei cui confronti sia stata adottata una misura coercitiva,
di quel controllo più pregnante e tempestivo costituito dal riesame,
significa, per un verso, vanificare la ratio che sta alla base dell’art.
309 c.p.p., con il quale il legislatore ha voluto riservare al soggetto
destinatario di una misura coercitiva un rimedio circondato da
maggiori garanzie, e, per l’altro, sottoporlo ad un trattamento
irragionevolmente deteriore rispetto a quello riservato all’indagato,
senza alcuna giustificazione.
Una simile disciplina si porrebbe in aperto contrasto con l’art.
3 Cost.
3. L’interesse ad impugnare anche nell’ipotesi di revoca o
sostituzione della misura coercitiva custodiale. — L’interesse ad
impugnare costituisce, ai sensi dell’art. 568 comma 4 c.p.p., il
presupposto necessario ed ineliminabile per la sollecitazione di un
qualsivoglia vaglio critico della pronuncia giurisdizionale. Non è
sufficiente, infatti, che il provvedimento sia impugnabile e che il
soggetto sia legittimato a proporre il mezzo di impugnazione previsto
(
15) Sez. Un., 23 novembre 1990 - 2 gennaio 1991, n. 11, Santucci, in
C.E.D. Cass., n. 186130.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 19
dalla legge, ma occorre che questi abbia un interesse attuale e
concreto al controllo della pronuncia del giudice (16
).
L’interesse ad impugnare sussiste solo se dalla decisione
derivi all’impugnante un pregiudizio da eliminare e sempre che
l’esperimento del rimedio fornito dalla legge consenta di porre fine al
pregiudizio lamentato.
La tematica dell’interesse ad impugnare le ordinanze
impositive di misure coercitive (17
) ha posto particolari
problematiche con riferimento alle ipotesi in cui all’accoglimento
dell’impugnazione non consegue una modificazione dello status
libertatis dell’interessato, o perché la revoca o la sostituzione della
misura sopraggiunge nel corso del procedimento incidentale de
libertate, o perché il gravame è limitato ad una sola delle imputazioni
in relazione alle quali la misura è stata disposta.
Su entrambe le questioni i necessari chiarimenti sono
provenuti dalle Sezioni unite della Suprema Corte.
Con tre sentenze deliberate all’esito della medesima camera
di consiglio del 12 ottobre 1993, il Supremo Collegio è intervenuto a
dirimere il contrasto giurisprudenziale relativo alla permanenza
dell’interesse ad ottenere una pronuncia, in sede di riesame, di
appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità dell’ordinanza
che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare in carcere, qualora
quest’ultima sia stata revocata nelle more del procedimento (18
).
(
16) Così DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit.,
p. 720.
(17
) Per un approfondimento della tematica v., tra gli altri, APRILE, Le
impugnazioni penali, Milano, 2004, p. 357; CERESA GASTALDO, Il riesame delle
misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, p. 162; POLVANI, Le
impugnazioni de libertate, cit., p. 225.
(18
) In dottrina, per un’analisi della questione, cfr. ANDOLINA, Misura
cautelare interdittiva revocata o scaduta: attualità dell’interesse ad impugnare, in
Dir. pen. proc., 1998, p. 1525; CAMPANELLO, Sull’interesse all’impugnazione dei
provvedimenti de libertate revocati, in Giur. it., 1993, II, c. 452; CERESA
GASTALDO, Sulla persistenza dell’interesse all’impugnazione dei provvedimenti
cautelari revocati, in Riv. it. dir. pen., 1994, p. 1610; COPPETTA, Riflessioni sulla
sussistenza dell’interesse ad impugnare, per fini riparatori, la misura custodiale
revocata, in Cass. pen., 1994, p. 2645; PALUMBO, L’interesse ad impugnare in
materia di provvedimenti cautelari, in Giust. pen., 1991, III, c. 385; SGROMO,
CAPITOLO PRIMO 20
Questo problema era stato risolto in senso negativo dalla
prevalente giurisprudenza, la quale, sul duplice presupposto che, a
norma dell’art. 568 comma 4 c.p.p., l’interesse all’impugnazione
deve essere concreto ed attuale e che il procedimento incidentale de
libertate mira soltanto a controllare se lo stato di libertà dell’indagato
sia stato legittimamente compresso, aveva sostenuto che la
permanenza di tale interesse dovesse essere apprezzata unicamente
con riguardo all’effetto primario e diretto dell’ordinanza impositiva
della misura, costituito dalla compressione della libertà, e che,
pertanto, lo stesso venisse meno ogni qual volta l’indagato fosse stato
liberato. Si escludeva, inoltre, che la permanenza dell’interesse
all’impugnazione potesse essere desunta dal diritto alla riparazione
per l’ingiusta detenzione, sia perché l’esercizio di questo diritto
integra una mera eventualità futura ed astratta, sia perché la decisione
irrevocabile, di cui all’art. 314 comma 2 c.p.p., non può formarsi nel
procedimento de libertate, che si conclude con una pronunzia
adottata allo stato degli atti, ma deve essere contenuta nella sentenza
definitiva di merito (19
).
L’orientamento favorevole alla persistenza dell’interesse
all’impugnazione si fondava, invece, sul duplice rilievo che, da un
lato, l’esclusione da parte del tribunale del riesame dei gravi indizi di
responsabilità si risolve, pur sempre, in un miglioramento della
situazione processuale dell’indagato e, dall’altro, l’interesse in esame
deve essere apprezzato anche in termini di diritto soggettivo di natura
patrimoniale con riguardo alla riparazione per l’ingiusta custodia
cautelare sofferta, la quale, ai sensi del secondo comma dell’art. 314
c.p.p., è svincolata dall’esito finale del giudizio (20
).
Revoca del provvedimento di custodia cautelare ed interesse ad impugnare, in
Giur. it., 1994, II, c. 823; VESSICHELLI, osservazioni a Cass., Sez. un., 12 ottobre
1993, Durante, in Cass. pen., 1994, p. 289.
(19
) Così Cass., Sez. II, 7 aprile 1993, Bossi, in C.E.D. Cass., n. 193911;
Id., Sez. VI, 5 marzo 1993, Sbraga, ivi, n. 193989; Id., Sez. VI, 15 dicembre 1992,
De Biasi, ivi, n. 192767; Id., Sez. V, 12 aprile 1991, De Biasi, ivi, n. 187372; Id.,
Sez. I, 25 giugno 1990, Dall’Orto, ivi, n. 185556.
(20
) Cass., Sez. V, 31 gennaio 1991, Longobardi, in C.E.D. Cass., n.
186456; Id., Sez. VI, 22 gennaio 1993, Guarnotta, ivi, n. 193829.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 21
Le Sezioni unite hanno ritenuto di aderire a quest’ultimo
indirizzo, anche se non hanno condiviso tutte le ragioni poste a suo
fondamento.
Più precisamente, hanno escluso che all’indagato rimesso in
libertà possano conseguire vantaggi in ordine alla situazione
probatoria delineatasi nel procedimento principale, tramite
l’annullamento dell’ordinanza applicativa della misura cautelare. Per
un verso, infatti, l’interesse al gravame, oltre che essere concreto ed
attuale, deve riguardare il conseguimento di una posizione di
vantaggio giuridicamente tutelata, per l’altro, la pronuncia adottata
dal tribunale del riesame in ordine alla carenza dei gravi indizi di
responsabilità non vincola né l’apprezzamento dell’ufficio del
pubblico ministero titolare delle indagini preliminari quanto alla
rilevanza degli elementi indiziari acquisiti, né tanto meno quello del
giudice per le indagini preliminari, ai fini del rinvio al giudizio, o del
giudice del dibattimento.
Nel deriva che, a seguito della rimessione in libertà
dell’indagato, l’interesse al gravame può sopravvivere solo sotto il
diverso profilo dell’eventuale incidenza dell’istituto della riparazione
per l’ingiusta detenzione sul regime delle impugnazioni avverso le
ordinanze in materia cautelare.
A venire in rilievo è il secondo comma dell’art. 314, che
subordina il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione al
duplice presupposto che la misura cautelare detentiva sia
formalmente illegittima, perché imposta e mantenuta in assenza delle
condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., e che
questa illegittimità sia stata accertata con una «decisione
irrevocabile».
Per quanto attiene al primo presupposto, fra le ipotesi di
illegittimità formale elencate nell’art. 273 c.p.p., rilevano, ai fini del
secondo comma dell’art. 314, soltanto l’assenza, all’epoca
dell’applicazione o della conferma della misura, di gravi indizi di
colpevolezza, ovvero la presenza, in quella stessa data, di cause di
non punibilità, di estinzione del reato o di estinzione della pena che si
ritenga irrogabile, poiché, come rilevato nella relazione al progetto
preliminare (pag. 78), la sussistenza di cause di giustificazione,
CAPITOLO PRIMO 22
implicando l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, rientra
nella previsione del primo comma della medesima norma. Non
rileva, invece, né la violazione dell’art. 274 c.p.p., relativo alle
esigenze cautelari, né l’inosservanza dei principi di adeguatezza e
proporzionalità delle misure, enunciati nel successivo art. 275.
Per quanto attiene al secondo presupposto, le Sezioni unite,
inserendosi in quell’indirizzo interpretativo teso a riconoscere anche
alle pronunce de libertate l’idoneità a produrre un effetto preclusivo
da bis in idem, sono pervenute alla conclusione che la «decisione
irrevocabile» ex art. 314, comma 2, c.p.p. va individuata
nell’ordinanza, non impugnata, adottata dal tribunale in sede di
riesame o di appello avverso il provvedimento de libertate, ovvero
nella pronunzia emessa dalla Corte di cassazione a seguito di ricorso
contro tale ordinanza, o in sede di ricorso per saltum contro lo stesso
provvedimento applicativo della misura (21
).
Pertanto, se, per un verso, l’effetto diretto e primario del
provvedimento, che impone o conferma la misura coercitiva,
risolvendosi nella compressione della libertà personale, viene meno
con la rimessione in libertà, per l’altro, dallo stesso provvedimento,
se ingiusto, deriva anche l’effetto ulteriore del diritto ad una equa
riparazione. E, poiché soltanto la pronunzia adottata dal tribunale del
riesame o dalla Corte Suprema nel procedimento incidentale de
libertate può integrare «la decisione irrevocabile», idonea, nei casi di
proscioglimento o di condanna di cui al comma 2 dell’art. 314, a
fondare siffatto diritto, ne consegue che la revoca della misura non
può incidere sull’attualità dell’interesse a coltivare il gravame.
Questa attualità, invero, persiste perché, solo attraverso una
pronunzia di annullamento della misura nella sede indicata,
l’indagato può precostituirsi il titolo per chiedere, nelle fattispecie
elencate dal citato art. 314 comma 2, un’equa riparazione per
l’ingiusta detenzione.
Di qui, l’affermazione del seguente principio di diritto:
«L’interesse dell’indagato ad ottenere una pronunzia, in sede di
riesame, di appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità
dell’ordinanza che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare
(
21) V. infra, cap. VI, § 2.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 23
permane anche nel caso in cui quest’ultima sia stata revocata nelle
more del procedimento. Infatti, la pronunzia inoppugnabile di
annullamento della misura suddetta adottata nel procedimento
incidentale de libertate costituisce “decisione irrevocabile”, idonea,
nei casi di proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314 comma
2 c.p.p., a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per
l’ingiusta detenzione» (22
).
Il principio ora enunciato, tuttavia, è destinato a trovare
applicazione unicamente «nel caso in cui la misura applicata o
mantenuta sia la custodia cautelare, comprensiva anche degli arresti
domiciliari, e non pure quando si tratti di altre misure coercitive od
interdittive, atteso che su di queste non può fondarsi il diritto alla
riparazione suddetta. Ne consegue che la revoca di tali ultime
misure, sopravvenuta nel corso del procedimento incidentale,
importa il venir meno dell’interesse al gravame da parte
dell’indagato» (23
).
Più di recente, le Sezioni unite, sia pure intervenute a
dirimere un contrasto giurisprudenziale relativo ad altro tema, hanno
avuto modo di chiarire che l’interesse ad impugnare, collegato
sempre al diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, permane
anche nel caso in cui la misura custodiale venga sostituita, nelle more
del procedimento de libertate, con altra misura: «In materia
cautelare, l’interesse dell’indagato all’impugnazione permane anche
nel caso in cui, nelle more del procedimento incidentale de libertate,
la misura della custodia cautelare in carcere sia sostituita con quella
del divieto di dimora, sempre che l’applicazione dell’originaria
misura possa costituire per l’interessato presupposto del diritto a
un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente,
essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza
(
22) Sez. Un., 12 ottobre - 8 novembre 1993, n. 20, Durante, in C.E.D.
Cass., n. 195355, n. 195353 e n. 195352; conforme, Sez. Un. 12 ottobre - 12
dicembre 1993, Stablum e Capitali, in Cass. pen., 1994, p. 283.
(23
) Si tratta della coeva Sez. Un., 12 ottobre - 20 dicembre 1993, n. 22,
Corso, in C.E.D. Cass., n. 195357.
CAPITOLO PRIMO 24
che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt.
273 e 280 c.p.p.» (24
).
La conclusione propugnata dal Supremo Collegio — seguita
costantemente dalla giurisprudenza di legittimità e ribadita più volte
dalle stesse Sezioni unite (25
) —, se da un lato ha sconfessato
l’indirizzo giurisprudenziale teso ad escludere in ogni caso la
persistenza dell’interesse ad impugnare nei casi di rimessione in
libertà dell’indagato, dall’altro è stata oggetto di critiche in dottrina,
in quanto ha valorizzato il diritto al controllo del provvedimento
cautelare solo con riferimento alle ipotesi in cui è coinvolto il diritto
patrimoniale alla riparazione, mentre l’interesse ad ottenere una
pronuncia favorevole in sede di impugnazione va certamente oltre il
campo delle misure detentive ed investe anche la tematica delle
esigenze cautelari, soprattutto alla luce degli effetti preclusivi alla
riproposizione della misura che possono derivare dall’ordinanza resa
all’esito del procedimento incidentale di impugnazione.
Oggi, inoltre, è destinata ad essere sottoposta a revisione, a
seguito delle modifiche apportate dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46,
l’affermazione secondo cui dall’annullamento dell’ordinanza
applicativa della misura cautelare non deriverebbero vantaggi
concreti ed attuali all’indagato nel procedimento principale, essendo
l’efficacia della pronuncia in ordine alla carenza dei gravi indizi di
responsabilità rigorosamente circoscritta nell’ambito del
procedimento incidentale de libertate.
Il nuovo comma 1-bis dell’art 405 c.p.p., infatti, prevedendo
che «il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula
richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è
pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti,
successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta
alle indagini», ha fatto venir meno la pretesa irrilevanza della
(
24) Sez. Un., 28 marzo - 28 luglio 2006, n. 26795, Prisco, in C.E.D.
Cass., n. 234268.
(25
) Cfr. Sez. Un., 8 luglio - 28 luglio 1994, n. 11, Buffa, infra, cap. VI,
§ 3; Id., 25 giugno - 18 luglio 1997, n. 7, Chiappetta, in C.E.D. Cass., n. 208165;
Id., 13 luglio - 24 settembre 1998, n. 21, Gallieri, ivi, n. 211194.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 25
pronuncia resa all’esito dell’esperimento delle impugnazioni de
libertate rispetto alla posizione dell’indagato nel procedimento
principale.
Fermi restando i problemi interpretativi che la disposizione in
esame indubbiamente pone (26
), la cui analisi esula dalla presente
sede, è comunque possibile affermare che alla luce del nuovo assetto
normativo, nel caso in cui nelle more del ricorso per cassazione
venga revocata la misura cautelare, necessariamente permane un
interesse concreto ed attuale dell’indagato ad ottenere la pronuncia
della Corte di cassazione sulla sussistenza dei gravi indizi, in vista
della definizione anticipata del procedimento con provvedimento di
archiviazione, e ciò anche qualora, trattandosi ad esempio di misura
cautelare non custodiale, non ricorra la prospettiva di agire per
ottenere la riparazione per ingiusta detenzione.
4. L’interesse ad impugnare anche per una sola delle
plurime imputazioni. — Come anticipato, analogo problema sulla
sussistenza dell’interesse ad impugnare si è posto con riferimento
all’ipotesi in cui il gravame sia limitato ad una sola delle imputazioni
in relazione alle quali la misura è stata disposta, in quanto, anche in
tal caso, all’accoglimento dell’impugnazione non consegue una
modificazione dello status libertatis dell’interessato.
Le Sezioni unite, chiamate a pronunciarsi su un contrasto
giurisprudenziale in tema di reato di concussione, hanno avuto modo
di chiarire ulteriormente la nozione di «interesse ad impugnare»,
affermando il seguente principio di diritto: «In materia impugnazioni
de libertate, il ricorrente ha interesse a proporre il gravame anche se
lo stesso sia limitato ad una sola delle imputazioni, poiché il venir
meno del titolo della custodia con riferimento esclusivo ad una delle
accuse, pur senza incidere sull’assoggettamento del medesimo alla
misura cautelare a causa del mantenimento del provvedimento
restrittivo in relazione ad altro reato, rende meno gravosa la
posizione difensiva e consente il riacquisto della libertà, nel caso in
(
26) Sul punto di rinvia a DELL’ANNO, “Archiviazione cautelare” e
conseguenti problemi operativi, in AA. VV., La nuova disciplina delle
impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di GAITO, Torino, 2006, p. 29.
CAPITOLO PRIMO 26
cui il titolo legittimante l’applicazione della misura venga meno, per
un qualsiasi motivo, in ordine all’altro reato» (27
).
Si tratta di un principio pienamente condivisibile, in quanto il
venir meno del titolo custodiale con riferimento ad una delle
imputazioni rappresenta certamente una posizione di vantaggio
giuridicamente tutelata, tale sostanziare il requisito dell’interesse ad
impugnare, nonostante non determini il riacquisto dello status
libertatis.
Tale interesse, alla luce del nuovo comma 1-bis dell’art. 405
c.p.p., introdotto dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46, appare ancora più
evidente, essendo la posizione di vantaggio conseguibile dal
ricorrente non più limitata alla sola procedura incidentale, ma
suscettibile di estendersi anche al procedimento principale. Ed infatti,
qualora il tribunale della libertà riconosca l’insussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza con riferimento ad una sola delle imputazioni
e tale statuizione sia confermata dalla Suprema Corte, il magistrato
del pubblico ministero, in assenza di nuovi elementi, è tenuto a
presentare richiesta di archiviazione limitatamente a quella notizia di
reato.
5. La presentazione della richiesta di riesame in uffici
giudiziari diversi da quello di appartenenza del giudice che ha
emesso il provvedimento. — La disciplina della presentazione della
richiesta di riesame, dettata dai primi quattro commi dell’art. 309
c.p.p. — applicabili, peraltro, anche all’appello de libertate e (ad
eccezione del comma 4) al ricorso per cassazione di cui all’art. 311
c.p.p. —, ha posto alcune difficoltà interpretative, che hanno
originato altrettanti contrasti giurisprudenziali, sia con riferimento al
luogo ed alle modalità di proposizione dell’impugnazione, sia
relativamente all’individuazione del dies a quo di decorrenza del
termine di impugnazione per il difensore (28
).
(
27) Sez. Un., 11 maggio - 23 giugno 1993, n. 7, Romano, in C.E.D.
Cass., n. 193746. Nello stesso senso v. Cass., Sez. I, 4 luglio 1995, Tomasello, in
C.E.D. Cass., n. 202205.
(28
) Per un esame delle varie questioni interpretative, distinte da quelle
sottoposte all’attenzione delle Sezioni unite, che si sono poste in tema di
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 27
Una prima difficoltà esegetica, a dirimere la quale sono
dovute intervenire le Sezioni unite, si è posta con riferimento alla
portata del rinvio alle «forme» previste dall’art. 582 c.p.p., contenuto
nel comma 4 dell’art. 309.
Nella fattispecie concreta, sottoposta all’attenzione del
Supremo Collegio, gli imputati, destinatari di ordinanza di custodia
cautelare in carcere, presentavano, a mezzo dei loro difensori,
richiesta di riesame, depositandola negli uffici della pretura del luogo
in cui si trovavano. Il tribunale del riesame, rilevata la violazione del
comma 4 dell’art. 309 c.p.p., per non essere stato l’atto di
impugnazione presentato nella cancelleria dello stesso tribunale,
dichiarava inammissibile la richiesta di riesame.
A seguito del ricorso per cassazione, la prima Sezione penale,
ravvisando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine al
se il rinvio all’art. 582 c.p.p., operato dall’art. 309 comma 4 c.p.p.,
comprenda o meno anche il secondo comma del predetto art. 582, ha
rimesso la soluzione della questione alle Sezioni unite (29
).
Secondo un primo orientamento, il rinvio all’art. 582
interessa tale articolo nella sua interezza e ciò sta a significare che il
legislatore ha voluto estendere alla richiesta di riesame,
espressamente qualificata come impugnazione, tutte le disposizioni
concernenti la presentazione (fatta eccezione solo per quella
presentazione della richiesta di riesame, v. ALFONSO, L’utilizzo del telefax: nel
terzo millennio è ancora inammissibile, in Foro ambr., 2001, p. 189;
CONFALONIERI, I controlli sulle misure cautelari, in Le impugnazioni penali, a cura
di GAITO, Torino, 1998, p. 990; LOSAPIO, sub art. 309, cit., p. 969; MARANDOLA,
Annullamento con rinvio al tribunale del riesame e successivo accoglimento di una
richiesta di rimessione, in Cass. pen., 1996, p. 1484; ORLANDO, L’incidenza del
favor impugnationis sull’errore nella presentazione della richiesta di riesame, in
Cass. pen., 2000, p. 3355; PALUMBO, Sulla proponibilità del riesame a mezzo
telefax, in Giur. it., 2001, p. 801; RINELLA, Per il latitante “involontario” il
termine di riesame decorre dall’esecuzione, in Dir. e giust., 2004, f. 12, p. 73.
(29
) In dottrina cfr. AMATO, sub art. 309, cit., p. 198; GIANNONE, sub
art. 309, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da
CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, p. 264; MIDOLO, In tema di luogo di
presentazione della richiesta di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p., in Cass. pen.,
1992, p. 1197; POLVANI, Le impugnazioni de libertate, cit., p. 207.
CAPITOLO PRIMO 28
riguardante il luogo normale di presentazione), in modo da agevolare
il concreto esercizio del relativo diritto (30
).
Altro indirizzo giurisprudenziale sosteneva la tesi contraria,
secondo cui il rinvio effettuato alle forme previste dall’art. 582 c.p.p.
non comprende anche il comma 2 di tale ultimo articolo; a questa
conclusione si perveniva sia ponendo l’accento sulla necessità di
riconoscere prevalenza alla norma specifica di cui alla prima parte
del comma 4 dell’art. 309, in base alla quale la richiesta è presentata
nella cancelleria del tribunale indicato nel comma 7, sia individuando
la ratio di detta norma specifica nell’esigenza di assicurare la celerità
della procedura. Si affermava, comunque, che la domanda di riesame
è ammissibile qualora, pur presentata ai sensi del comma 2 dell’art.
582, pervenga ugualmente alla cancelleria del tribunale del riesame
nel termine di dieci giorni previsto dall’art. 309 (31
).
Le Sezioni unite, investite della questione, hanno fatto
proprio il primo orientamento.
Ed invero, con riguardo al dato testuale va osservato che il
richiamo alle forme previste dall’art. 582 è formulato nell’art. 309
comma 4 nella sua globalità e senza limitazioni; sul punto, non è
vano il rilievo che, in genere e salvo particolari limitazioni, il rinvio
operato da una norma alle forme previste da altra disposizione non è
limitato ai meri requisiti formali di un atto, ma si estende ad ogni
modalità procedurale della norma alla quale il rinvio viene effettuato.
Sicché, l’apparente contrasto fra l’esplicita indicazione della
cancelleria del tribunale di cui al comma 7 dell’art. 309 ed il
successivo generico richiamo alle forme di cui all’art. 582 (che
potrebbe far ritenere che da quel richiamo sia esclusa la possibilità
della presentazione dell’atto in diversi uffici) può essere spiegato nel
senso che il legislatore abbia voluto indicare l’organo definitivo
destinatario dell’istanza e non quello al quale necessariamente questa
deve essere in un primo momento presentata.
(
30) Cass., Sez. V, 11 ottobre 1990, Putrino, in C.E.D. Cass., n. 185864;
Id., Sez. I, 9 maggio 1990, Galasso, ivi, n. 184898.
(31
) Cass., Sez. I, 5 novembre 1990, Mignani e altro, in C.E.D. Cass., n.
186093.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 29
Non appare condivisibile neanche l’argomento che pretende
di individuare la tassatività dell’indicazione in ragioni di celerità. Ed
infatti, la preoccupazione di assicurare la massima rapidità alla
procedura di riesame o d’appello non può finire per compromettere
proprio l’attuazione di quel diritto che si pretende di assicurare ancor
più rapidamente, precludendo l’esercizio dello stesso in casi di
obiettiva difficoltà, data anche la ristrettezza del termine, di
presentare l’atto esclusivamente nella cancelleria del tribunale
competente.
Una simile soluzione contrasterebbe non solo con quel favor
impugnationis, cui è indubbiamente ispirato il sistema processuale,
ma anche con lo stesso diritto di difesa costituzionalmente garantito.
Per altro verso, una volta riconosciuta la possibilità di
presentazione dell’atto nei diversi uffici di cui al comma 2 dell’art.
582, è alla data di tale presentazione che deve farsi riferimento per
stabilirne la tempestività, essendo del tutto irrilevante, a tal fine, la
data in cui l’atto perviene al tribunale competente.
La Corte ha, pertanto, affermato il seguente principio: «Il
rinvio effettuato dall’art. 309, comma 4, c.p.p. (applicabile anche
all’appello in virtù del richiamo dell’art. 310, comma 2) alle
“forme” dell’art. 582, comprende anche il comma 2 dello stesso art.
582, secondo il quale le parti private ed i difensori possono
presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria della
pretura [n.d.r.: ora nella cancelleria del tribunale o del giudice di
pace] in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu
emesso il provvedimento, ovvero davanti ad un agente consolare
all’estero. E, una volta avvenuta la presentazione in tali ultimi uffici
nel termine di dieci giorni di cui al comma 3 dell’art. 309 c.p.p., è
del tutto irrilevante, ai fini della tempestività, che l’atto raggiunga o
meno entro lo stesso termine la cancelleria del tribunale indicato nel
comma 7 dello stesso art. 309 c.p.p.» (32
).
Non c’è dubbio che la conclusione cui sono pervenute le
Sezioni unite sia la più aderente alla lettera della legge e la più
coerente con il sistema delle impugnazioni. Con riferimento al
(
32) Sez. Un., 18 giugno - 27 luglio 1991, n. 11, D’Alfonso ed altro, in
C.E.D. Cass., n. 187922.
CAPITOLO PRIMO 30
riesame ed all’appello, infatti, si pongono quelle stesse esigenze di
favor impugnationis che hanno indotto il legislatore a consentire, con
il comma 2 dell’art. 582, la presentazione dell’atto presso uffici
diversi da quello legittimato, in via primaria, a riceverlo; anzi, tali
esigenze risultano amplificate, stante la sensibile riduzione dei
termini impugnatori (33
).
6. La presentazione della richiesta di riesame con
telegramma o raccomandata. — Le Sezioni unite sono intervenute
a risolvere un contrasto interpretativo cui aveva dato luogo la
formulazione originaria dell’art. 309, comma 4, c.p.p., che, mentre
rinviava alle forme dell’art. 582 c.p.p. per la presentazione della
richiesta di riesame, non richiamava anche il disposto dell’art. 583
c.p.p., relativo alla possibilità di spedire l’atto di impugnazione con
raccomandata o con telegramma (34
).
La Corte, partendo dal decisum della sentenza D’Alfonso del
1991 (35
), ha sostenuto che «in materia di misure cautelari, sia reali
che personali, la richiesta di riesame può essere proposta anche con
telegramma o con atto trasmesso a mezzo raccomandata, a norma
dell’art. 583 c.p.p., ed in tal caso l’impugnazione si considera
proposta nella data di spedizione della raccomandata o del
telegramma» (36
)
Ad avviso del Supremo Collegio, in mancanza di indicazioni
in senso contrario, il rinvio all’art. 582, per quanto concerne le forme
della presentazione della richiesta di riesame, non può non
comprendere le modalità previste dall’art. 583. Del resto, non vi
sarebbe ragione di comprimere il diritto di impugnazione impedendo
(
33) La giurisprudenza di legittimità ha precisato, anche di recente, che
l’art. 582 comma 2 c.p.p., nel prevedere la possibilità, per la parte privata, di
presentare l’atto d’impugnazione nella cancelleria del tribunale o del giudice di
pace del luogo in cui essa si trova, non richiede che tra detto luogo e la parte esista
alcun vincolo territoriale. In tal senso, v. Cass., Sez. V, 16 novembre 2005, n. 70,
in C.E.D. Cass., n. 232531.
(34
) In dottrina cfr. AMATO, sub art. 309, cit., p. 195.
(35
) V., supra, § 5.
(36
) Sez. Un., 11 maggio - 7 luglio 1993, n. 8, Esposito, in C.E.D. Cass.,
n. 193750.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 31
la spedizione a norma dell’art. 583, dato che una simile
compressione non troverebbe giustificazione neanche adducendo
esigenze di celerità; si tratta, infatti, di esigenze che non appaiono
incompatibili con i tempi del servizio postale, se si considera che la
richiesta di riesame può essere presentata anche presso gli uffici
indicati dal comma 2 dell’art. 582, i quali, poi, per trasmettere l’atto
si avvalgono appunto del servizio postale.
Deve rilevarsi che con l’art. 16 l. 8 agosto 1995, n. 332, nel
quarto comma dell’art. 309 è stato esplicitamente inserito il richiamo
alle forme previste dall’art. 583 c.p.p., cosicché la questione ha perso
di attualità.
7. La decorrenza del termine per la proposizione della
richiesta di riesame da parte del difensore. — La richiesta di
riesame deve essere proposta nel termine perentorio di dieci giorni,
che decorre, per l’interessato, dalla data di esecuzione o notificazione
del provvedimento cautelare e, per il difensore, dalla notificazione
dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la misura.
Con riguardo alla decorrenza del termine per il difensore, le
Sezioni unite sono state chiamate a chiarire se il dies a quo possa
essere individuato in un momento anteriore alla notifica dell’avviso
di deposito, allorché risulti che il difensore abbia acquisito la
conoscenza effettiva del provvedimento.
Nel caso affrontato dalla Corte, il tribunale della libertà aveva
dichiarato inammissibile la richiesta di riesame presentata oltre il
termine prescritto dall’art. 309 comma 3 c.p.p., ritenendo che, nella
fattispecie concreta, tale termine dovesse decorrere dal giorno in cui
il difensore aveva partecipato all’interrogatorio di garanzia ex art.
294 c.p.p. e non dalla successiva notifica dell’avviso di deposito
dell’ordinanza cautelare.
Il ricorso per cassazione è stato rimesso al Supremo Collegio,
ravvisandosi l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale intorno alla
questione sul se il termine per la proposizione della richiesta di
riesame, per il difensore, possa decorrere dal giorno in cui lo stesso
abbia assistito all’interrogatorio della persona sottoposta a misura
cautelare personale, indipendentemente dalla notifica, prevista
CAPITOLO PRIMO 32
dall’art. 309 comma 3 c.p.p., dell’avviso di deposito dell’ordinanza
impositiva della misura.
Questa questione si inserisce, a sua volta, in quella più
generale relativa al se il termine di dieci giorni, previsto a pena di
decadenza, possa farsi decorrere dalla conoscenza effettiva del
provvedimento, conseguita dal difensore prima della notifica
dell’avviso di deposito (37
).
Si tratta di una problematica — ovvero quella
dell’ammissibilità di equipollenti alla notifica dell’avviso di
deposito, da cui far decorrere il termine di dieci giorni per la
proposizione dell’impugnazione — che si è posta sin dall’entrata in
vigore del nuovo codice di procedura penale e che già in altre due
occasioni era stata sottoposta all’attenzione delle Sezioni unite,
senza, tuttavia, trovare soluzione, a causa delle peculiarità connesse
ai rispettivi casi, che avevano implicato decisioni su questioni
diverse (38
).
Sul tema, invero, si sono manifestati almeno tre orientamenti.
Secondo un primo indirizzo, deve escludersi, in modo
assoluto, la possibilità che atti o fatti diversi possano ritenersi
equipollenti alla notifica dell’avviso di deposito del provvedimento
cautelare, in quanto il diritto di difesa tecnica deve potersi fondare
anche sulla congruità logico-giuridica della motivazione, il che
presuppone l’esame integrale del provvedimento (39
).
Altro orientamento ha ammesso la possibilità che il termine
di dieci giorni decorra da fatti o atti diversi dalla notifica dell’avviso
(
37) In dottrina, sul tema, v. ANSELMI, Conoscenza del provvedimento e
termini per la richiesta di riesame, in Giur.it., 2004, p. 364; LEO, Solo con la
notifica dell’ordinanza cautelare il difensore viene a conoscere gli atti processuali,
in Guida dir., 2003, n. 21, p. 59; RUGGIERO, La notifica al difensore dell’avviso del
deposito dell’ordinanza che ha disposto la misura cautelare e l’irrisolta questione
dell’ammissibilità di equipollenti, in Cass. pen., 2003, p. 1275.
(38
) Si tratta di Sez. Un., 5 ottobre - 25 novembre 1994, n. 15, Tibaldi, in
C.E.D. Cass., n. 199096, e di Sez. Un., 3 febbraio - 16 febbraio 1995, n. 3, p.m. in
proc. Gallo e altri, ivi, n. 200116.
(39
) Cass., Sez. IV, 5 luglio 2000, Milosevic, in C.E.D. Cass., n. 216946;
Id., Sez. VI, 24 novembre 1995, Cursio, ivi, n. 204114; Id., Sez. I, 4 aprile 1995,
PM in proc. Maddaloni, ivi, n. 201744; Id., Sez. I, 30 maggio 1994, Gaetani, ivi, n.
198322; Id., Sez. VI, 1° marzo 1994, Bruno, ivi, n. 198481.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 33
di deposito allorché il difensore abbia ricevuto aliunde sicura
conoscenza del provvedimento cautelare (40
), cosicché è stato
considerata equipollente alla notifica dell’avviso di deposito la
presenza del difensore all’interrogatorio ex art. 294 (41
).
In posizione intermedia, altre pronunce, pur escludendo tra
gli atti equipollenti l’interrogatorio di garanzia dell’imputato, hanno
riconosciuto come termine valido di decorrenza per l’impugnazione
del difensore l’espletamento di attività difensiva, consistita in
richieste di revoca o sostituzione della misura (42
).
Le Sezioni unite, investite del contrasto, hanno
sostanzialmente accolto il primo dei tre orientamenti sopra indicati,
escludendo, all’esito di un’attenta ed articolata disamina della
questione, che la notificazione dell’avviso di deposito possa essere
sostituita dalla partecipazione del difensore all’interrogatorio di
garanzia o da un fatto o un atto previsto a diverso fine, seppure se ne
desuma la conoscenza altrimenti conseguita del provvedimento.
Secondo il Supremo Collegio, il comma 3 dell’art. 309, nel
far decorrere, per il difensore, il termine di dieci giorni dalla notifica
dell’avviso di deposito dell’ordinanza impositiva della misura, non
ha inteso subordinare tale decorrenza alla mera comunicazione di
esistenza del provvedimento (cosa che avviene già al momento in cui
il difensore è avvisato dell’avvenuta esecuzione dell’ordinanza
coercitiva), né alla sua compiuta conoscenza, bensì all’assicurazione,
resagli appunto mediante la notifica dell’avviso di deposito, di poter
avere accesso al documento e di poter coordinare la difesa tecnica
mediante il colloquio con il suo assistito. Sotto quest’ultimo profilo,
(
40) Cass., Sez. III, 22 dicembre 1999, Porru, in C.E.D. Cass., n. 215620;
Id., Sez. II, 6 febbraio 1995, Matafiori, ivi, n. 201784; Id., Sez. VI, 26 aprile 1994,
Trimboli, ivi, n. 199060; Id., Sez. I, 28 gennaio 1993, Mannarino, ivi, n. 193320.
(41
) Cfr. Cass., Sez. V, 13 giugno 2002, Mirabella, in C.E.D. Cass., n.
222447.
(42
) Cass., Sez. I, 8 novembre 2000, Staterini, in Giur. it., 2001, c. 1222;
Id., Sez. VI, 13 aprile 1994, Mammoliti, in C.E.D. Cass., n. 198311; cfr., anche,
Cass., Sez. VI, Lavdosh, in Cass. pen., 2002, p. 3162, relativa ad un caso in cui,
prima della notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza presso la cancelleria del
giudice, il difensore aveva ricevuto avviso dell’udienza fissata per la trattazione
della richiesta di riesame proposta dal suo assistito.
CAPITOLO PRIMO 34
assume rilevanza il comma 3-bis dell’art. 309, inserito dall’art. 16 l.
8 agosto 1995, n. 332, secondo cui, nel termine di impugnazione del
difensore, così come dell’indagato-imputato, non si computano i
giorni durante i quali è stato disposto il differimento del colloquio, a
norma dell’articolo 104, comma 3, c.p.p.
Le due condizioni — ovvero l’accessibilità del documento e
la possibilità di coordinamento della difesa mediante colloquio —
sono autonome e ciascuna di esse mira ad una distinta certezza
legale, assicurata da un diverso adempimento dell’autorità onde,
consentito il colloquio ancor prima della notifica dell’avviso di
deposito al difensore, non è possibile far decorrere da quel momento
il termine iniziale per la sua richiesta, sulla scorta di una presunzione
di conoscenza reale da parte sua, essendo il provvedimento già stato
consegnato all’imputato.
Il nodo decisivo della questione sta, ad avviso delle Sezioni
unite, nella considerazione che la conoscenza del provvedimento
cautelare e delle ragioni ad esso sottese, che il difensore potrebbe
acquisire aliunde prima della notifica dell’avviso di deposito, non è
mai equiparabile a quella che la legge assicura a seguito
dell’avvenuta notifica. E ciò appare chiaro non appena si consideri
che l’art. 293 comma 3 c.p.p., a seguito delle modifiche apportate
dall’art. 10 l. n. 332 del 1995, fa precedere alla notificazione
dell’avviso di deposito al difensore l’effettivo deposito, non solo
dell’ordinanza impositiva, ma anche della richiesta del magistrato del
pubblico ministero e degli atti con la stessa presentati.
L’importanza di questo deposito, ai fini dell’esercizio del
diritto di difesa, è stata evidenziata dalla Corte costituzionale che,
con la sentenza n. 192 del 1997 (43
), ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 293, comma 3, c.p.p. nella parte in cui «non prevede la
facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all’ordinanza che ha
disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e
degli atti presentati con la stessa»; solo assicurandogli tale
prerogativa, il difensore è posto nelle condizioni di valutare con
piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per
tutelare la libertà personale del proprio assistito, dalla richiesta di
(
43) Corte cost., 24 giugno 1997, n. 192, in Giur. cost., 1997, p. 1876.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 35
riesame ovvero di revoca o sostituzione della misura alla
proposizione dell’appello.
Il giudice delle leggi ha, in tal modo, ancorato la ratio della
norma che disciplina il deposito al principio di garanzia della difesa
tecnica in tema di libertà, di cui è mero corollario quella per cui è
prevista la notifica dell’avviso di deposito.
È, dunque, dal collegamento sistematico tra l’art. 293 comma
3 e l’art. 309 comma 3 c.p.p. che emerge, con tutta evidenza, la
ragion d’essere della decorrenza del termine dalla notificazione
dell’avviso di deposito: solo in quel momento il difensore acquisisce
la certezza legale dell’avvenuto deposito dell’ordinanza che dispone
la misura, insieme con la richiesta del magistrato del pubblico
ministero e gli atti con essa presentati al giudice, e, pertanto, solo da
quel momento ha la certezza legale di poter conseguire tutti gli
elementi necessari per instaurare il contraddittorio intorno al
provvedimento che applica la misura, raffrontando previamente gli
argomenti di difesa al ragionamento svolto dalla parte avversa nel
richiedere la misura, alla stregua di quanto documentato e perciò
sottratto al segreto.
Se è questa la certezza legale assicurata dalla notifica
dell’avviso di deposito, allora è a questa certezza che occorre far
riferimento nell’andare a verificare se esista un atto o un fatto
equipollente alla notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza
cautelare.
Il punto di partenza è quello di chiarire che cosa debba
intendersi per atto equipollente; secondo le Sezioni unite, possono
considerarsi equipollenti sia gli atti che sono strutturalmente previsti
per assolvere in alternativa la stessa funzione, sia quelli che, pur
avendo diversa struttura, sono previsti per assolverla in via
sostitutiva.
In materia di notifica, il comma 4 dell’art. 148 c.p.p. prevede
un’ipotesi di equipollenza per alternativa nella consegna di copia
dell’atto all’interessato da parte della cancelleria, con annotazione
sull’originale. Il comma 5 prevede, invece, l’ipotesi di equipollenza
per sostituzione, quando dell’atto sia data dal giudice lettura alle
persone presenti e ne sia fatta menzione a verbale.
CAPITOLO PRIMO 36
Ciò posto, se si pone mente alla circostanza che, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 293 comma 3 e 309 comma 3, oggetto
della notifica è l’avviso di deposito dell’ordinanza, all’evidenza nulla
esclude che sia possibile applicare il comma 4 o 5 dell’art. 148 a
seconda dell’occasione.
Nulla vieta che, ad esempio, in sede d’interrogatorio ex art.
294 c.p.p., il giudice dia al difensore presente l’avviso del deposito di
cui all’art. 293 comma 3 e disponga che se ne dia atto a verbale. In
questo caso, essendo stato adottato un sostitutivo tipico, è possibile
far decorrere il termine di cui all’art. 309 comma 3 c.p.p.
Se, invece, si vuole attribuire ad un atto previsto ad altro fine
— pertanto non dall’art. 148 — la stessa efficacia della notifica
dell’avviso di deposito, lo si qualifica impropriamente equipollente,
in quanto ci si riferisce non ad un atto idoneo a conseguire la stessa
certezza legale, bensì ad un fatto attraverso il quale è in via d’ipotesi,
cioè induttivamente, possibile ottenere la prova che l’interessato
abbia avuto conoscenza integrale del provvedimento; ma tanto è
insufficiente.
In altri termini, equipollente della notifica dell’avviso di
deposito è solo l’atto che, offrendo pari certezza legale di
accessibilità agli atti del procedimento, esonera il giudice da
verifiche di conoscenza reale da parte del destinatario di tutto quanto
è oggetto di deposito.
Questa conclusione, del resto, risulta confermata anche dalla
natura di mezzo di impugnazione propria del riesame, il che impone
di applicare il principio di stretta legalità o tassatività delle cause di
inammissibilità dell’impugnazione.
Non essendo possibile rinvenire alcuna previsione espressa
che conferisca rilevanza, o comunque consideri alternativa, la
conoscenza altrimenti conseguita del provvedimento, il regime di
riesame delle misure coercitive non può differenziarsi da quello degli
altri mezzi di impugnazione.
Pertanto, la richiesta di riesame del provvedimento di
custodia, proposta dal difensore, non può essere dichiarata
inammissibile, in deroga all’art. 173 c.p.p., facendo decorrere il
termine per proporla, invece che dalla notificazione dell’avviso di
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 37
deposito di cui all’art. 309 comma 3, dalla sua partecipazione
all’interrogatorio previsto dall’art. 294 o da un fatto o un atto
previsto a diverso fine, seppure se ne desuma la conoscenza
altrimenti conseguita del provvedimento.
Il principio di diritto, che se ne trae, è il seguente: «Il termine
per la proposizione della richiesta di riesame dell’ordinanza che
dispone una misura coercitiva decorre, per il difensore
dell’imputato, dal giorno in cui gli è stato notificato l’avviso del
relativo deposito, a norma dell’art. 309 comma 3 c.p.p., e non da
quello della sua partecipazione all’interrogatorio previsto dall’art.
294 c.p.p. o di altro evento che faccia presumere la sua conoscenza,
altrimenti conseguita, del provvedimento medesimo» (44
).
La soluzione, cui sono pervenute le Sezioni unite, appare
l’unica veramente aderente al tenore letterale del comma 3 dell’art.
309; essa, del resto, rappresenta il frutto dell’applicazione dei
principi generali di tassatività dei termini perentori e delle cause di
inammissibilità dell’impugnazione, risulta coerente con la funzione
che il legislatore ha assegnato al sistema delle notificazioni e
garantisce a pieno il diritto di difesa del soggetto destinatario di una
misura cautelare.
8. La sospensione dei termini durante il periodo feriale. —
La disciplina della sospensione dei termini durante il periodo feriale
è dettata dall’art. 240-bis disp. a.c.t. c.p.p., introdotto dal d.lgs. 20
luglio 1990, n. 193, che ha sostituito l’art. 2 della l. 7 ottobre 1969, n.
742.
Tale disposizione prevede alcune eccezioni alla regola
generale della sospensione dei termini nel periodo feriale, tra le quali
assumono particolare rilevanza quelle contemplate dai primi due
commi: il primo comma stabilisce che, in materia penale, la
sospensione dei termini, compresi quelli fissati per la fase delle
indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi ad imputati
in stato di custodia cautelare qualora essi o i loro difensori rinuncino
alla sospensione; ai sensi del secondo comma, inserito dall’art. 21-bis
(
44) Sez. Un., 26 febbraio - 17 aprile 2003, n. 18751, Mario e altri, in
C.E.D. Cass., n. 224183.
CAPITOLO PRIMO 38
d.l. 8 giugno 1992, n. 306, «la sospensione dei termini delle indagini
preliminari di cui al primo comma non opera nei procedimenti per
reati di criminalità organizzata».
Con riferimento alla regola dettata dal primo comma, le
Sezioni unite, con una pronuncia relativa alle impugnazioni in
materia di misure cautelari reali, ma chiaramente estensibile alle
impugnazioni disciplinate dagli artt. 309, 310 e 311 c.p.p., hanno
chiarito che anche nei procedimenti incidentali concernenti i
provvedimenti cautelari i termini processuali sono sospesi nel
periodo feriale (45
).
Questa conclusione — ribadita dalla successiva
giurisprudenza di legittimità (46
) — si ricava dall’ampiezza della
formulazione letterale del comma 1 dell’art. 240-bis, la quale
coinvolge tutti i termini procedurali in materia penale, compresa la
fase delle indagini preliminari, e, quindi, a ben guardare, anche i
procedimenti con detenuti, come si evince dal rilievo che a chi si
ritrovi in stato di custodia cautelare ed al suo difensore è attribuita la
facoltà di rendere inoperante la sospensione mediante rinunzia.
Del resto, partendo dalla ratio sottesa all’istituto — che è
quella di assicurare ai soggetti coinvolti nel procedimento un
congruo periodo di riposo scevro da preoccupazioni di
pregiudizievole decorso di termini, proteggendo anche il cittadino da
frettolose stesure di atti importanti —, appare plausibile ritenere che
il legislatore abbia inteso stabilire una regola generale di sospensione
operando, nel bilanciare i diversi e contrastanti interessi, una scelta a
favore di quelli sopra enunciati rispetto all’esigenza di celerità
fisiologica in tutti i procedimenti penali e facendo eccezione
condizionata (alla opzione di rinuncia) solo per il caso emergenziale
di procedimento con imputato o indagato che abbia perso la libertà
personale; in quest’ultimo caso, infatti, è stato considerato
preminente l’interesse del soggetto detenuto ad ottenere una
(
45) Sez. Un., 20 aprile - 24 giugno 1994, n. 5, Iorizzo, in C.E.D. Cass.,
n. 197702.
(46
) Cfr. Cass., Sez. II, 1° febbraio 2001, Perri, in C.E.D. Cass., n.
218206.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 39
pronuncia urgente, rispetto a quelli tutelati dalla disciplina della
sospensione dei termini durante il periodo feriale.
Se ne ricava che la sospensione feriale dei termini si applica
anche a tutti i termini che riguardano i procedimenti impugnatori de
libertate, salvo la possibilità, nel caso di custodia cautelare, per
l’interessato o per il suo difensore di rinunciare alla sospensione.
Maggiori problemi interpretativi si sono posti, invece, in
ordine all’applicabilità ai procedimenti di impugnazione de libertate
della disposizione di cui al comma 2 dell’art. 240-bis disp. a.c.t.
c.p.p. (47
).
Le Sezioni unite sono state investite della questione se si
applichi ai termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di
misure cautelari personali anche il secondo comma dell’art. 240-bis
disp. a.c.t. c.p.p., il quale prescrive la non operatività della
sospensione dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti
per reati di criminalità organizzata.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, deve
ritenersi che il secondo comma dell’art. 240-bis, laddove prevede
testualmente la «sospensione dei termini delle indagini preliminari»,
si riferisca non già alla «sospensione dei termini [...] stabiliti per la
fase delle indagini preliminari», come recita il primo comma, ma
esclusivamente ai termini relativi all’attività di indagine del
magistrato del pubblico ministero, con esclusione quindi dei termini
attinenti al procedimento incidentale di riesame di natura
giurisdizionale. Con la norma in esame, il legislatore ha accolto
l’esigenza di non sottoporre a moratoria il potere di indagine
(
47) Sul tema, in dottrina, v. APRILE, Osservazioni circa l’applicabilità
al procedimento di impugnazione innanzi al tribunale del riesame della disciplina
della sospensione dei termini procedurali durante il periodo feriale, in Nuovo dir.,
1994, p. 980; BERETTA, Sospensione feriale dei termini e procedura di riesame, in
Cass. pen., 1994, p. 1575; LACCHI, La moratoria feriale nel riesame delle
ordinanze custodiali per i reati di criminalità organizzata, in Giur. it., 1997, II, c.
341; MELILLO, Appunti in tema di sospensione feriale dei termini relativi a
procedimenti per reati di criminalità organizzata, in Cass. pen., 2005, p. 2925;
VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi delle decisioni de libertate, in Riv.it.dir. e
proc.pen., 1993, p. 1147; VANNI, Se e come si può differire il riesame dopo la
scadenza del periodo feriale, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 980.
CAPITOLO PRIMO 40
dell’organo del pubblico ministero, cosicché non pare possibile
estendere la prevista deroga all’operatività della sospensione ai
procedimenti incidentali de libertate, ancorché relativi a
provvedimenti cautelari emessi nella fase delle indagini preliminari,
con la conseguenza che a tali procedimenti rimane applicabile la
disciplina generale, e cioè la sospensione dei termini nel periodo
feriale con la facoltà, in caso di imputati in custodia cautelare, di
rinuncia da parte degli imputati stessi o dei loro difensori (48
).
In senso contrario, si è sostenuto che l’interpretazione
limitativa della portata del secondo comma «urta proprio contro il
tenore letterale della norma», poiché la locuzione «sospensione dei
termini delle indagini preliminari» è destinata ad assumere un
significato globale in forza del rinvio in essa contenuto ai termini
procedurali del primo comma, il cui testo, appunto, recita
«sospensione dei termini [...] compresi quelli stabiliti per la fase delle
indagini preliminari»; del resto, le medesime ragioni «di particolare
urgenza per la estrema pericolosità sociale della criminalità
organizzata», che escludono la sospensione delle indagini preliminari
nel periodo feriale, valgono altresì ad escludere detta sospensione nei
procedimenti de libertate incidentali alla fase delle indagini
preliminari (49
).
Le Sezioni unite hanno fatto propria quest’ultima soluzione
ermeneutica, riconoscendo che «nei procedimenti per reati di
criminalità organizzata, la non operatività della sospensione,
durante il periodo feriale, dei termini delle indagini preliminari, si
estende anche ai termini di impugnazione dei provvedimenti in
materia di misure cautelari personali» (50
).
Ad avviso dei giudici del Supremo Collegio, se la ratio della
previsione di cui al comma 2 dell’art. 240-bis è quella di assicurare
alle indagini preliminari, che costituiscono la fase essenziale per la
(
48) Cass., Sez. II, 5 aprile 1994, Marafioti, in C.E.D. Cass., n. 201499;
Id., Sez. I, 8 marzo 1994, Scialpi, ivi, n. 196959.
(49
) Cass., Sez. I, 23 marzo 1994, Parisi ed altri, in C.E.D. Cass., n.
196857; Id., Sez. I, 23 marzo 1994, Lovreglio, ivi, n. 196863.
(50
) Sez. Un., 8 maggio - 26 giugno 1996, n. 12, Giammaria, in C.E.D.
Cass., n. 205039.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 41
formulazione dell’accusa, celerità, prontezza ed efficacia rispetto a
fenomeni di elevata pericolosità sociale, che esigono un tempestivo
ed indilazionabile intervento dell’autorità giudiziaria, allora non è
sostenibile giuridicamente, ma neppure logicamente, che la norma
sia indirizzata esclusivamente all’attività di indagine del magistrato
del pubblico ministero.
Ed infatti, eventuali stasi procedurali, dovute alla sospensione
dei termini nel periodo feriale, che incidano sui procedimenti aventi
ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti de libertate, non
possono che riflettersi con causalità necessaria sullo svolgimento e
sull’esito stesso dell’attività di indagine, e quindi sul procedimento
principale. Ne consegue che la preoccupazione di assicurare nei
procedimenti per reati di criminalità organizzata la massima rapidità,
rimuovendo la moratoria feriale, non può trovare un’efficace risposta
se non con riguardo all’intera fase delle indagini preliminari,
comprensiva, pertanto, dei procedimenti incidentali de libertate.
Ove, invece, si accogliesse l’opposta tesi, si avrebbe una
rimozione della moratoria feriale, in caso di procedimenti con
imputati in custodia cautelare, di carattere unidirezionale, dando
facoltà solo agli imputati ed ai loro difensori di rimettere in moto il
meccanismo procedurale, e non già al magistrato del pubblico
ministero, interessato, nei procedimenti per reati di criminalità
organizzata, a far rimuovere quei provvedimenti di diniego o revoca
della misura cautelare che potrebbero frustrare le esigenze di cautela
funzionali alle indagini in corso, con incidenza sull’esercizio stesso
dell’azione penale.
Ed è proprio questa l’argomentazione che rende sicuramente
preferibile, sia sul piano logico, che su quello strettamente giuridico-
sistematico, la soluzione esegetica sposata dalle Sezioni unite.
La tesi che nega l’applicabilità del secondo comma dell’art.
240-bis ai procedimenti incidentali de libertate si fonda su un
assunto non condivisibile, secondo cui la trattazione dei suddetti
procedimenti non può incidere sullo svolgimento e sulla
prosecuzione delle indagini preliminari.
Questo vizio d’origine finisce per far cadere la teoria in
discorso in autocontraddizione: per un verso, si afferma che lo scopo
CAPITOLO PRIMO 42
della norma è quello di agevolare l’organo del pubblico ministero
nello svolgimento delle indagini preliminari relative a reati di
difficile accertamento, quali quelli di criminalità organizzata; per
altro verso, non ci si avvede che la sospensione dei termini delle
impugnazioni de libertate può avere come diretta conseguenza
proprio quella di pregiudicare l’attività d’indagine dell’ufficio del
pubblico ministero.
Si pensi all’ipotesi in cui il giudice per le indagini preliminari
rigetti, il 30 luglio, la richiesta di applicazione di una misura
cautelare fondata sul pericolo di dispersione o inquinamento delle
fonti di prova; in questo caso, procrastinare l’appello del magistrato
del pubblico ministero fino alla scadenza del periodo feriale significa
realizzare quel pregiudizio all’attività di indagine che il comma 2
dell’art. 240-bis ha inteso scongiurare con riferimento ai
procedimenti per reati di criminalità organizzata.
Pertanto, l’interpretazione accolta dalle Sezioni unite
costituisce l’unica compatibile con la lettera e la ratio della
disposizione in esame.
Sempre le Sezioni unite, con la sentenza su ricorso Petrarca
del 2005, hanno fornito importanti chiarimenti in ordine
all’interpretazione del disposto di cui all’art. 240-bis, comma 2, disp.
a.c.t. c.p.p.
In primo luogo, confermando la soluzione esegetica sposata
dalla sentenza Giammaria, hanno ribadito che la non operatività della
sospensione, durante il periodo feriale, dei termini delle indagini
preliminari nei procedimenti per i reati di criminalità organizzata
deve intendersi estesa anche ai termini di impugnazione dei
provvedimenti in materia di misure cautelari personali.
In secondo luogo, hanno precisato che la disposizione di cui
al comma 2 dell’art. 240-bis non presuppone, per la relativa
operatività, l’esistenza di uno status custodiale, che, al contrario,
risulta richiesto soltanto nella previsione di cui al primo comma del
medesimo articolo.
In terzo luogo, hanno affrontato il delicato problema della
nozione di criminalità organizzata accolta dalla previsione in esame.
LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 43
Il Supremo Collegio, sulla scia della prevalente
giurisprudenza di legittimità, ha inteso il concetto di «criminalità
organizzata» in senso criminologico o teleologico, riconoscendo che
tale concetto, nell’ambito del disposto di cui al citato comma 2
dell’art. 240-bis, si riferisce «non solo ai reati di criminalità mafiosa
ed assimilata ed ai delitti associativi previsti da norme incriminatrici
speciali, ma anche a qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex
art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse, con l’ovvia
esclusione del mero concorso di persone del reato, ove manca il
requisito dell’organizzazione» (51
).
Il legislatore, infatti, ha voluto garantire una trattazione
rapida per tutte le condotte criminali poste in essere da una pluralità
di soggetti che, al fine di commettere più reati, abbiano costituito un
apparato organizzativo il cui rilievo predomini rispetto all’apporto
causale del singolo partecipe: e ciò in considerazione del particolare
allarme sociale che qualsiasi struttura organizzativa criminale suscita
nell’opinione pubblica.
La riconduzione del disposto del comma 2 dell’art. 240-bis
alla fattispecie associativa generale impedisce, inoltre, la possibilità
di eterogenee interpretazioni casistiche, non rispettose del principio
di legalità, che impone un’esigenza di determinatezza tanto più
evidente quando di tratti di indicare categorie di reati.
Tale conclusione si presenta altresì coerente con la ratio
sottesa alla clausola di inoperatività della moratoria feriale dei
termini procedurali, che si identifica nell’interesse generale alla
massima speditezza della trattazione dei procedimenti relativi ai
delitti, ai quali, in diretta connessione all’operare di stabili
strutturazioni criminose, inerisce un particolarmente elevato allarme
sociale.
(
51) Sez. Un., 22 marzo - 11 maggio 2005, n. 17706, Petrarca ed altri, in
C.E.D. Cass., n. 230895.
Capitolo Secondo
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI
SOMMARIO: 1. L’avviso all’autorità giudiziaria procedente di trasmissione degli
atti. — 2. Il dies a quo di decorrenza del termine per la trasmissione degli
atti. — 3. Un problema in tema di decorrenza del termine per la
trasmissione degli atti. — 4. La necessità che gli atti pervengano al
tribunale del riesame nel termine di cinque giorni. — 5. La perdita di
efficacia della misura per omessa trasmissione al tribunale del riesame dei
decreti autorizzativi delle intercettazioni. — 6. Le conseguenze
dell’omessa trasmissione del verbale dell’interrogatorio di garanzia
dell’indagato. — 7. L’esclusione della perdita di efficacia della misura
coercitiva in caso di mancata o tardiva trasmissione della richiesta
cautelare.
1. L’avviso all’autorità giudiziaria procedente di
trasmissione degli atti. — Il comma 5 dell’art. 309 c.p.p. prescrive
che «il presidente cura che sia dato immediato avviso all’autorità
giudiziaria procedente la quale, entro il giorno successivo, e
comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti
presentati a norma dell’articolo 291, comma 1, nonché tutti gli
elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle
indagini».
La formulazione di questa disposizione si è rivelata poco
chiara ed ha legittimato plurime soluzioni esegetiche sotto molteplici
profili: l’individuazione della data di decorrenza del termine; il
significato da attribuire al verbo «trasmettere»; l’identificazione degli
atti che devono essere trasmessi pena la perenzione della misura (52
).
(
52) In generale, sul tema, v. APRILE, Letture sul riesame delle misure
cautelari, cit., p. 659; BARBIERI, Ancora incertezze sugli atti da trasmettere al
tribunale del riesame, in Giur. it., 2001, p. 1463; BASSI-EPIDEMIO, Guida alle
impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 105; BENENATI, Gli atti da
trasmettere al tribunale del riesame: un problema ancora irrisolto, in Giur. it.,
1999, p. 594; CONFALONIERI, Verso la tutela sostanziale della difesa nel riesame
delle misure cautelari, in Giur. it., 1995, II, c. 534; ID., I controlli sulle misure
cautelari, cit., p. 975; COPPETTA, Mancata trasmissione al giudice del riesame
degli atti a base del provvedimento restrittivo: un’ipotesi di annullamento senza
CAPITOLO SECONDO 46
Più volte le Sezioni unite sono dovute intervenire per
sciogliere i dubbi interpretativi suscitati dalla previsione in discorso.
Il primo intervento è stato occasionato dalla necessità di
risolvere una questione che non più attuale a seguito delle modifiche
introdotte dalla l. 8 agosto 1995, n. 332, ossia se il tribunale del
riesame, nel caso in cui non siano stati trasmessi tutti gli atti
presentati al giudice procedente a norma dell’art. 291, comma 1,
c.p.p., possa, con provvedimento interlocutorio, richiedere gli atti
mancanti e se la decorrenza del termine di cui all’art. 309, comma 9,
abbia o meno inizio dal momento della ricezione degli atti
richiesti (53
).
rinvio?, in Cass. pen., 1992, p. 3093; GIANNONE, Commento all’art. 16 della legge
1995 n. 332, in Leg. pen., 1995, p. 730; GREVI, Misure cautelari, in AA. VV.,
Compendio di procedura penale, a cura di CONSO e GREVI, Padova, 2006, p. 445;
ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, in
Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995 n. 332, a cura di GREVI,
Milano, 1996, p. 100; LOSAPIO, sub art. 309, cit., p. 999; NAPPI,
Sull’individuazione degli atti che il p.m. deve trasmettere al giudice per le
decisioni de libertate, in Gazz. giur., 1996, f. 44, p. 1; NUZZO, Considerazioni sugli
elementi a favore dell’imputato nel procedimento cautelare, in Cass. pen., 1998, p.
178; SANTALUCIA, Gli elementi a favore dell’indagato tra dovere di azione e
prerogative difensive a tutela della libertà personale, in Giust. pen., 1997, III, c. 1;
SPANGHER, Commento all’art. 16 della legge n. 332 del 1995, in AA. VV.,
Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti di difesa e riforma della
custodia cautelare, Padova, 1995, p. 287; ID., Pluralità di imputazioni e parziale
trasmissione degli atti al tribunale del riesame, in Cass. pen., 2003, p. 775;
TRIGGIANI, Sulla necessità di trasmettere al tribunale del riesame tutti gli atti già
presentati al g.i.p. con la richiesta di applicazione di una misura coercitiva, in
Cass. pen., 1998, p. 2067; VALENTINI, Incompleta trasmissione di atti al tribunale
del riesame: quali oneri per la difesa che eccepisce le eventuali omissioni?, in
Cass. pen., 2002, p. 3511.
(53
) Sulla questione in dottrina cfr. ADORNO, Termine per la decisione
del tribunale del riesame, trasmissione «frazionata» degli atti, richieste di riesame
proposte separatamente da più indagati o imputati nel medesimo procedimento, in
Cass. pen., 1995, p. 3430; ATZEI, Trasmissione frazionata degli atti e decorso del
termine per il riesame di provvedimenti sulla libertà personale, in Giur. it., 1994,
II, c. 552; DELLA MARRA, Scarcerazione per parziale ritardata trasmissione degli
atti al tribunale della libertà, in Giur. it., 1991, II, c. 323; GIANNONE, Misure
cautelari personali (impugnazioni), in Commento al nuovo codice di procedura
penale, coordinato da CHIAVARIO, Primo Agg., Torino, 1993, p. 249;
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 47
La formulazione originaria dell’art. 309 c.p.p. prevedeva
l’inefficacia sopravvenuta della misura cautelare per la sola ipotesi in
cui la decisione sulla richiesta di riesame non fosse assunta entro il
termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti da parte del tribunale.
Nessun termine perentorio era, invece, fissato per la
trasmissione degli atti e ciò aveva consentito alla giurisprudenza di
legittimità di dar vita ad un orientamento interpretativo volto ad
ammettere la c.d. trasmissione frazionata degli atti.
Questo meccanismo, tuttavia, finiva per eludere le strette
cadenze temporali per la decisione sulla richiesta di riesame.
Ed infatti, le Sezioni unite avevano, in un primo tempo,
precisato che il termine di dieci giorni per la decisione iniziasse a
decorrere dal momento in cui il tribunale riceveva tutti gli atti, e non
solo parte di essi, a suo tempo presentati dal magistrato del pubblico
ministero (54
).
Sulla scorta di questa pronuncia, il Supremo Collegio aveva,
poi, riconosciuto al tribunale del riesame, nell’ipotesi di trasmissione
soltanto parziale degli atti, il potere di disporre il rinvio della
decisione ai fini dell’acquisizione degli atti mancanti, con la
conseguenza di far decorrere il termine previsto dal comma 9
dell’art. 309 solo dal momento della ricezione degli ulteriori atti
richiesti.
Il principio di diritto, introdotto nel sistema, era, pertanto, il
seguente: «Poiché il tribunale del riesame può procedere al giudizio
solo con piena cognizione degli atti, nell’ipotesi di mancata
trasmissione di tutta la documentazione a suo tempo presentata dal
magistrato del pubblico ministero con la richiesta della misura
cautelare, è legittimo il rinvio della decisione ai fini
dell’acquisizione degli atti mancanti; tale provvedimento
interlocutorio, mirato alla completa cognizione della
documentazione, non si qualifica infatti come atto istruttorio, bensì
come provvedimento necessario, strumentale alla decisione, e
costituisce espressione di un dovere funzionale il cui esercizio è
indispensabile per la definizione del procedimento incidentale. In
(
54) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, infra, cap.
III, § 6.
CAPITOLO SECONDO 48
tale ipotesi il termine previsto dall’art. 309 comma 9 c.p.p. decorre
dal momento della ricezione degli ulteriori atti richiesti» (55
).
La sostanziale vanificazione, in tal modo realizzata, delle
esigenze di rapidità sottese alla previsione di un termine perentorio
per la decisione (56
) ha indotto, però, il legislatore, con l’art. 16 della
l. n. 332 del 1995, ad introdurre il termine di cinque giorni per la
trasmissione degli atti, sanzionandone il rispetto a pena di inefficacia
della misura cautelare.
Ne consegue che il principio di diritto enunciato dalla
pronuncia in esame non è più attuale, in quanto, come ha avuto modo
di precisare, in obiter dictum, una successiva sentenza delle Sezioni
unite (57
), per effetto della citata modifica legislativa è venuta meno
l’ipotesi di slittamento del dies a quo del termine per la decisione del
riesame, nel caso di ricezione frazionata degli atti, essendo prevista
la caducazione dell’ordinanza custodiale ove non vengano trasmessi,
nel termine di cinque giorni, tutti gli atti a suo tempo presentati al
giudice che ha emesso il provvedimento coercitivo.
2. Il dies a quo di decorrenza del termine per la
trasmissione degli atti. — Le Sezioni unite sono intervenute a
risolvere un contrasto interpretativo, manifestatosi nella
giurisprudenza di legittimità, in ordine alla decorrenza del termine di
cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale della libertà,
cui è collegata la sanzione dell’inefficacia della misura.
La nuova formulazione dell’art. 309, comma 5, c.p.p.,
risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 16 della l. 8 agosto
1995, n. 332, prevede che «il presidente cura che sia dato immediato
avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale, entro il giorno
successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al
tribunale gli atti [...]».
(
55) Sez. Un., 5 - 21 luglio 1995, n. 25, Parlati, in C.E.D. Cass., n.
202016.
(56
) Per considerazioni di questo tipo v. LOZZI, Lezioni di procedura
penale, Torino, 2006, p. 325.
(57
) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.
Schillaci, infra § 4; nello stesso senso, Sez. Un., 27 marzo 1996 - 31 maggio 1996,
n. 3, p.m. in proc. Monteleone ed altro, infra § 5.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 49
La disposizione in discorso, fin dalla sua entrata in vigore, si
è presentata equivoca, soprattutto con riferimento all’individuazione
del dies a quo di decorrenza del termine (58
).
L’orientamento che, in un primo momento, ha preso corpo
nella giurisprudenza di legittimità e che è stato avallato anche dalle
Sezioni unite (59
) è stato quello di riconoscere all’espressione «dare
avviso» il significato di «portare a conoscenza del soggetto
destinatario l’atto trasmesso», con la conseguenza di far decorrere il
termine di cui al comma 5 dell’art. 309 dal giorno in cui l’avviso del
tribunale perviene all’autorità procedente e non già dal giorno di
trasmissione dell’avviso stesso.
A questa interpretazione ha, tuttavia, immediatamente reagito
la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 232 del 1998 (60
), nel
dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
309 commi 5 e 10 c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13 e 24
Cost., nella parte in cui non è prevista la perdita di efficacia
dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva in caso di non
immediato avviso della presentazione della richiesta di riesame
(
58) Per un approfondimento della questione v. APRILE, Anche per le
Sezioni unite della Cassazione il termine di cinque giorni per la trasmissione degli
atti decorre dalla presentazione della richiesta di riesame, in Nuovo dir., 1999, p.
163; BRICCHETTI, Ribaltato l’orientamento della Cassazione e il termine di
decorrenza diventa perentorio, in Guida dir., 1998, n. 26, p. 77; CERESA
GASTALDO, Una inedita interpretazione della Corte costituzionale circa la
decorrenza del termine ex art. 309 comma 5 c.p.p. nel procedimento di riesame de
libertate, in Cass. pen., 1998, p. 2855; FRIGO, Finalmente il valore della libertà
personale supera il muro degli adempimenti burocratici, in Guida dir., 1998, n. 26,
p. 77; ROMEO, Tempi del riesame e conti che non tornano, in Cass. pen., 1998, p.
2884; SANTORIELLO, Una nuova interpretazione del comma 5 dell’art. 309 c.p.p.;
tanti dubbi e nessuna certezza, in Giur. cost., 1998, p. 1799; ID., Il riesame delle
misure cautelari personali: analisi dei più recenti orientamenti giurisprudenziali,
in Giur. cost., 2000, I, 779; SPANGHER, La «ragionevole» prevalenza dei diritti
dell’imputato sulle difficoltà organizzative, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 1100;
TIBERI, Ragionevolezza dei tempi del giudizio di riesame, in Giur. it., 1999, p.
1486; ZAPPALÀ, Le misure cautelari, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-
ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 2006, p. 471.
(59
) Sez. Un., 25 marzo - 30 giugno 1998, n. 10, Savino, in C.E.D. Cass.,
n. 210804.
(60
) Corte cost., 22 giugno 1998, n. 232, in Giur. cost., 1998, p. 1799.
CAPITOLO SECONDO 50
all’autorità giudiziaria procedente, ha interpretato il quinto comma
dell’art. 309 nel senso che il termine perentorio per la trasmissione
degli atti decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta
di riesame.
Ad una simile conclusione i giudici di Palazzo della Consulta
sono pervenuti individuando la ratio del nuovo termine perentorio
stabilito dal legislatore del 1995, per la trasmissione degli atti, in
quella di impedire che il termine per la decisione decorra da un dies a
quo lasciato alla determinazione degli organi giudiziari, non astretti
nei loro adempimenti a vincoli temporali assistiti da sanzione
processuale.
Tale ratio sarebbe certamente frustrata se si facesse decorrere
il termine per la trasmissione degli atti dalla ricezione, da parte
dell’autorità procedente, dell’avviso della presentazione della
richiesta di riesame, in quanto l’obbligo di «immediato avviso» non è
assistito, nel caso di inadempimento, da alcuna sanzione processuale.
Una situazione normativa così ricostruita non potrebbe
sottrarsi a censure di incostituzionalità, poiché verrebbe meno, in un
ambito particolarmente delicato com’è quello dei rimedi apprestati
dall’ordinamento a tutela della libertà personale, l’effettività del
diritto di difesa, di cui fa parte il diritto alla decisione «entro brevi
termini» o «senza indugio» sul ricorso al tribunale chiamato a
decidere se sussistano i presupposti legali per la misura coercitiva.
Tuttavia, ad avviso del giudice delle leggi, la lettura
sistematica dell’assetto normativo conduce a risultati diversi.
L’immediato avviso, di cui al comma 5 dell’art. 309, non
costituisce, invero, un adempimento dotato di una sua autonoma
funzione processuale, ma è solo la condizione materiale affinché
l’autorità procedente, che degli atti dispone, possa adempiere
all’obbligo di trasmetterli. E non vi è, per altro verso, nessun
ostacolo giuridico a che l’avviso venga di norma inoltrato nello
stesso contesto temporale in cui perviene la richiesta, facendo così
coincidere il momento dell’avviso con quello della presentazione
della richiesta stessa.
La prescrizione secondo cui l’avviso deve essere
«immediato» significa, appunto, che l’eventuale intervallo temporale
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 51
fra la presentazione della richiesta e l’avviso della avvenuta
presentazione non assume rilievo giuridico. Se così è, deve
ulteriormente concludersi che il termine perentorio per la
trasmissione degli atti, assistito dalla sanzione processuale della
decadenza della misura, non decorre da un evento, come la ricezione
dell’avviso da parte dell’autorità procedente, che non ha giuridica
autonomia, ma decorre dal giorno stesso della presentazione della
richiesta, inteso come spazio temporale definito e giuridicamente
rilevante entro il quale si collocano sia la presentazione stessa, sia
l’avviso relativo all’autorità procedente.
Dal punto di vista testuale, anche se il «giorno successivo»,
cui la disposizione continua a riferirsi, si intenda come quello
immediatamente seguente al giorno di ricezione dell’avviso da parte
dell’autorità procedente, nulla vieta, invece, di considerare che il
«quinto giorno», entro il quale devono «comunque» essere trasmessi
gli atti, a pena di decadenza della misura ai sensi del comma 10, sia il
quinto giorno successivo alla presentazione della richiesta alla
cancelleria del tribunale del riesame, potendosi ritenere implicito il
riferimento proprio a quell’atto (la richiesta) al quale invariabilmente
alludono i commi dell’art. 309 precedenti a quello in esame.
L’interpretazione propugnata dalla Corte costituzionale non è
stata, però, uniformemente seguita dalla successiva giurisprudenza di
legittimità; e, a fronte del persistere dell’indirizzo ermeneutico teso
ad identificare il dies a quo della decorrenza del termine di cinque
giorni nel momento in cui perviene all’autorità procedente il
prescritto avviso (61
), la questione è stata rimessa all’esame delle
Sezioni unite.
Il Supremo Collegio, partendo dalla considerazione che le
pronunce interpretative di rigetto della Corte costituzionale
costituiscono precedente autorevole al quale i giudici — salvo la
possibilità di sollevare nuovamente la questione di legittimità
costituzionale — sono tenuti ad uniformarsi, in mancanza di validi
motivi contrari, ha considerato l’interpretazione praticata dai giudici
(
61) Cfr. Cass., Sez. V, 1° luglio 1998, Catapano, in Cass. pen., 1998, p.
3035.
CAPITOLO SECONDO 52
costituzionali «assolutamente incontestabile e perfettamente in linea
con i principi costituzionali».
Essa ha il merito di eliminare ogni irragionevole disparità di
trattamento tra situazioni identiche, posto che la decorrenza del
termine viene fatta coincidere per tutti i ricorrenti dalla data in cui
l’istanza perviene nella cancelleria del tribunale del riesame, termine
definito e determinabile con certezza, e non è più affidata alle
mutevoli sollecitudini dell’autorità giudiziaria, con il che si realizza
anche la funzione primaria di garanzia posta a base dell’istituto.
La Corte è pervenuta, dunque, alla seguente affermazione di
principio: «In tema di procedimento di riesame, il termine di cinque
giorni entro il quale l’autorità giudiziaria procedente deve
trasmettere, a pena di inefficacia della misura, gli atti previsti dal
comma 5 dell’art. 309 c.p.p. al tribunale della libertà, decorre dal
giorno della presentazione della richiesta di riesame» (62
).
Questa conclusione merita di essere condivisa, anche se non
si può non rimarcare la scarsa chiarezza del dato legislativo, il quale
lascia certamente aperta la via a plurime opzioni ermeneutiche;
tuttavia, la considerazione della ratio della novella del 1995, ben
inquadrata dalla Corte costituzionale, e l’obbligo per l’interprete di
preferire, tra più letture di un testo normativo, quella che consenta di
evitare profili di illegittimità costituzionale della disposizione
rendono la soluzione adottata dal giudice delle leggi, prima, e dalle
Sezioni unite, poi, l’unica compatibile con il sistema (63
).
3. Un problema in tema di decorrenza del termine per la
trasmissione degli atti. — Le Sezioni unite, con due sentenze
(
62) Sez. Un., 16 dicembre 1998 - 18 gennaio 1999, n. 25, Alagni, in
C.E.D. Cass., n. 212073.
(63
) Di recente la Suprema Corte, nel ribadire il principio, ha precisato
che la decorrenza del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti al
tribunale inizia dalla ricezione della richiesta da parte della segreteria del tribunale
ordinario e non dalla concreta consegna dell'atto alla cancelleria della sezione
competente; il tribunale, invero, va considerato come unico ufficio giudiziario e
non hanno rilievo, ai fini dell'art. 309 comma 5 c.p.p., i tempi di smistamento degli
atti tra le varie ripartizioni interne. In tal senso, Cass., Sez. IV, 20 dicembre 2005,
n. 2909, in C.E.D. Cass., n. 232886.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 53
pronunciate all’esito della medesima camera di consiglio e depositate
lo stesso giorno, perfettamente coincidenti quanto all’iter
motivazionale seguito ed al principio di diritto espresso, sono state
chiamate a stabilire se, in caso di presentazione della richiesta di
riesame ai sensi dell’art. 582 comma 2 c.p.p., il termine perentorio di
cinque giorni per la ricezione degli atti debba decorrere dal giorno in
cui la richiesta stessa è stata presentata alla cancelleria del tribunale o
del giudice di pace del luogo in cui la parte ed il difensore si trovano,
ovvero dalla data in cui l’istanza è pervenuta alla cancelleria del
tribunale del riesame, alla quale — in attuazione della disposizione
del citato secondo comma dell’art. 582 — l’atto deve essere
immediatamente trasmesso (64
).
Sul tema, in giurisprudenza, a seguito della sentenza n. 232
del 1998 della Corte costituzionale (65
), si era manifestato un
contrasto interpretativo, avendo la Suprema Corte avallato diverse
letture del dictum del giudice delle leggi.
Ed è proprio dalla necessità di definire l’esatta portata della
sentenza n. 232 del 1998 che hanno preso le mosse le Sezioni unite,
al fine di risolvere la questione relativa alla decorrenza del termine di
cui al comma 5 dell’art. 309 nell’ipotesi di presentazione della
richiesta di riesame in luoghi diversi dalla cancelleria del tribunale
della libertà.
Invero, la stessa Corte costituzionale, con la citata pronuncia,
ha precisato «che — ferma la disciplina delle modalità e dei termini
per la proposizione della richiesta di riesame, di cui agli artt. 309,
commi 1 e 4, 582 e 583 c.p.p. — ai fini della decorrenza di detto
termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti vale,
come dies a quo, il giorno in cui la richiesta stessa perviene alla
cancelleria del tribunale del riesame».
(
64) Sul tema v. CIANI, osservazioni a Cass., Sez. un., 22 marzo 2000,
Audino, in Foro it., 2000, II, p. 393; NUZZO, Orientamenti giurisprudenziali sulla
decorrenza del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame, in
Cass. pen., 2000, p. 3237; PALLA, osservazioni a Cass., Sez. un., 22 marzo 2000,
Audino, in Cass. pen., 2000, p. 2231; SCHETTINO, Favor libertatis e procedimento
di riesame delle ordinanze che dispongono misure coercitive, in Cass. pen., 2001,
p. 1144.
(65
) V., supra, § 2.
CAPITOLO SECONDO 54
Da questa affermazione traspare — secondo la Suprema
Corte — che la decorrenza del termine perentorio dal giorno stesso
della presentazione della richiesta è collocata su un piano diverso da
quello inerente alle modalità di tempo e di luogo di proposizione
dell’istanza di riesame e che il principio enunciato nella sentenza n.
232 del 1998 è riferito soltanto all’ipotesi esplicitamente prevista
dall’art. 309, comma 4, prima parte, c.p.p., in cui l’istanza è
direttamente presentata al tribunale competente a decidere
sull’impugnazione e non è operante, invece, nella diversa ipotesi di
cui all’art. 582, comma 2, c.p.p., nella quale la richiesta di riesame è
presentata alla cancelleria del tribunale o del giudice di pace del
luogo nel quale si trovano le parti, decorrendo il predetto termine
perentorio, in quest’ultima evenienza, dal giorno in cui la richiesta
stessa «perviene» alla cancelleria del tribunale del riesame.
Tale opzione interpretativa, del resto, è l’unica coerente con il
complesso della disciplina dettata dall’art. 309: solo nel momento in
cui la richiesta di riesame è ricevuta dal tribunale competente a
decidere può divenire operante l’obbligo dell’«immediato avviso»
all’autorità procedente ed è, dunque, possibile individuare un punto
di riferimento cronologico, certo e definito, idoneo a soddisfare
l’esigenza dell’osservanza di un termine perentorio, che regoli i
tempi per l’avvio e per la conclusione del procedimento di riesame,
condizionando il mantenimento della stessa efficacia della misura
coercitiva.
Né, avallando una simile soluzione ermeneutica, si
determinano ingiustificate disparità di trattamento. Difatti, la
previsione delle modalità di proposizione di cui agli artt. 582 e 583
c.p.p. costituisce specifica espressione del favor impugnationis, in
quanto mette a disposizione dell’interessato plurime forme
processuali che agevolano e rendono meno oneroso l’esercizio del
diritto di chiedere il sollecito controllo di legalità della misura
cautelare personale; in quest’ottica, risponde ad evidenti ragioni di
ordine logico e costituisce equilibrato contemperamento di interessi
costituzionalmente rilevanti la soluzione interpretativa per cui
l’ampliamento delle facoltà attribuite in ordine alle forme di
presentazione della richiesta di riesame risulta bilanciato da una
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 55
attenuazione (peraltro, di modesta entità) delle esigenze di massima
rapidità della procedura, facendo dipendere la decorrenza del termine
perentorio di cinque giorni dal giorno della presentazione della
richiesta nella cancelleria del tribunale del riesame ovvero dal giorno
della ricezione, in corrispondenza della diversa scelta compiuta
dall’interessato.
Ciò comporta, come ulteriore conseguenza, che il principio
della non coincidenza del decorso del termine perentorio con la data
di presentazione della richiesta ai sensi degli artt. 582 e 583 c.p.p.
non può essere esteso all’ipotesi in cui l’interessato non si trovi in
condizione di scegliere la forma processuale che garantisce la
massima rapidità, costituita dalla diretta presentazione presso la
cancelleria del tribunale del riesame, perché detenuto (art. 123,
comma 1, c.p.p.) o perché in stato di arresto o di detenzione
domiciliare ovvero perché custodito in un luogo di cura (art. 123,
comma 2, c.p.p.).
Con riferimento a queste ultime ipotesi, le Sezioni unite,
prendendo atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale ed
andando oltre il thema decidendum alle stesse devolute, hanno
ritenuto che non sia possibile scindere il momento della
presentazione da quello dell’immediato decorso del termine, non solo
per la ragione che all’interessato è preclusa la possibilità di attivare il
mezzo processuale più rapido col recarsi a presentare la richiesta
nella cancelleria del tribunale del riesame, ma anche perché lo stesso
art. 123 espressamente equipara la presentazione al direttore del
carcere alla ricezione da parte dell’autorità competente, attribuendo
immediata efficacia all’atto come se fosse direttamente ricevuto
dall’autorità giudiziaria destinataria.
Di qui, l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:
«Qualora la richiesta di riesame sia presentata nella cancelleria del
tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano le parti o
davanti a un agente consolare all’estero, a norma dell’art. 582,
comma 2, c.p.p., ovvero sia proposta con telegramma o mediante
raccomandata, il termine perentorio di cinque giorni per la
trasmissione degli atti al tribunale del riesame, a norma dell’art. 309
comma 5, decorre dal giorno in cui la richiesta stessa perviene alla
CAPITOLO SECONDO 56
cancelleria del tribunale del riesame, e non già dal giorno della sua
presentazione o proposizione, non potendo ipotizzarsi, a carico del
presidente del tribunale, l’adempimento dell’obbligo di immediato
avviso prima della ricezione della richiesta.
Il principio enunciato nella sentenza n. 232 del 1998 della
Corte costituzionale, in virtù del quale il termine in questione
decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta, è
riferito solo al caso, esplicitamente previsto dall’art. 309, comma 4,
prima parte, c.p.p., di presentazione della richiesta direttamente al
tribunale competente a decidere su di essa, al quale va assimilata
l’ipotesi della presentazione, a norma dell’art. 123 stesso codice, da
parte di imputato detenuto, in stato di arresto o detenzione
domiciliare, ovvero custodito in luogo di cura» (66
).
Entrambi questi principi meritano di essere condivisi.
La facoltà, rimessa alla libera scelta delle parti, di utilizzare
forme alternative al deposito della richiesta presso la cancelleria del
tribunale del riesame giustifica una disciplina parzialmente diversa
quanto all’individuazione del dies a quo del termine per la
trasmissione degli atti, che ne procrastini la decorrenza alla ricezione
dell’atto di impugnazione da parte dell’organo competente a
decidere; diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione —
non accettabile — che il presidente del tribunale debba richiedere la
trasmissione degli atti senza essere a conoscenza dell’avvenuta
presentazione del ricorso e che il termine decorra prima ed a
prescindere dal fatto che questi sia stato posto nella condizione di
chiederne l’inoltro.
Per altro verso, qualora il deposito della richiesta in luogo
diverso dalla cancelleria del tribunale del riesame non costituisca
l’esercizio di una facoltà, allora non si può far ricadere
sull’interessato il rischio del ritardo di un atto compiuto in
conformità della legge, quand’anche nessun rimprovero di colposa
negligenza possa essergli rivolto; la soluzione adottata dalle Sezioni
unite, con riferimento all’ipotesi di presentazione della richiesta ai
(
66) Sez. Un., 22 marzo - 2 maggio 2000, n. 10, Solfrizzi, in C.E.D.
Cass., n. 215827 e Sez. Un., 22 marzo - 2 maggio 2000, n. 11, Audino, ivi, n.
215828.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 57
sensi dell’art. 123 c.p.p., rispecchia, quindi, la ratio della normativa
che, nell’equiparare l’efficacia della dichiarazione ricevuta nel luogo
di detenzione dagli organi competenti a quella effettuata all’autorità
giudiziaria, ha voluto colmare, o almeno ridurre al minimo, lo scarto
di tempo tra la situazione virtuale e quella reale e garantire la
maggior tutela alla persona detenuta dal pregiudizio di ritardi
imputabili ad altri.
4. La necessità che gli atti pervengano al tribunale del
riesame nel termine di cinque giorni. — A seguito della modifica
dei commi 5 e 10 dell’art. 309, ad opera dell’art. 16 l. 8 agosto 1995,
n. 332, si è manifestato, nella giurisprudenza di legittimità, un
contrasto interpretativo relativamente al se la perdita di efficacia
dell’ordinanza cautelare, per la trasmissione degli atti oltre i termini
allo scopo previsti dal comma 5, si riferisce al mero «invio» degli atti
da parte dell’autorità giudiziaria procedente oppure al «far pervenire»
gli atti stessi non oltre il quinto giorno al tribunale del riesame (67
).
Secondo un primo orientamento, sotto il profilo letterale il
verbo «trasmettere» significa propriamente «inoltrare», «inviare»,
«spedire», con la conseguenza che per evitare la perenzione è
sufficiente che gli atti siano stati inviati; e non potrebbe essere
altrimenti, apparendo evidente che, con la perenzione della misura
coercitiva personale, il legislatore ha voluto sanzionare l’inerzia
(
67) Sul tema v. BENENATI, Il rispetto dei tempi nel procedimento di
riesame: un’esigenza irrinunciabile, in Giur. it., 1998, p. 761; CESQUI, La misura
cautelare perde efficacia se entro cinque giorni dalla richiesta di riesame gli atti
non sono effettivamente pervenuti al tribunale del riesame, in Gazz. giur., 1998, f.
4, p. 7; GIULIANI, Caducazione della misura cautelare per ritardata
«trasmissione» degli atti al tribunale del riesame, in Dir. pen. e proc., 1998, p.
338; MERCORE, Il fascicolo del riesame tra esigenze contenutistiche, termini e
sanzioni processuali, in Cass. pen., 1998, p. 575; NUZZO, La «trasmissione degli
atti» al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. pen.,
1998, p. 1919; VERRINA, Diritto primario di libertà dell’indagato ed accezione
interpretativa dell’art. 309 c.p.p. alla stregua del «diritto vivente», in Giur. it.,
1998, 1212.
CAPITOLO SECONDO 58
dell’autorità procedente e non già l’inerzia del servizio postale o di
altro servizio usato per la trasmissione degli atti (68
).
Ad avviso dell’opposto indirizzo, invece, risulta assai arduo
ritenere che il legislatore si sia disinteressato del tempo intermedio
tra l’invio degli atti ed il momento in cui pervengono al tribunale,
sicché il significato del termine «trasmettere» non può non assumere,
nel contesto del comma 5 dell’art. 309, una connotazione diversa da
quella dei sinonimi «inviare», «mandare», proprio nel senso che esso
implica l’idea del collegamento tra i due soggetti ed i due luoghi che
resta fissata nel termine del «far pervenire» (69
).
Le Sezioni unite, chiamate a dirimere il contrasto, hanno dato
credito a quest’ultima soluzione interpretativa.
Invero, il canone ermeneutico dettato dall’art. 12 disp. prel
c.c. impone, fra due possibili alternative semantiche, l’una e l’altra
ugualmente plausibili sul piano lessicale, di accordare preferenza a
quella che, nella situazione descritta dalla norma, è la più aderente o
la sola corrispondente allo scopo della legge.
Tale è il caso della voce «trasmettere» che, stando al
vocabolario comune, non ha un significato univoco, potendo essere
intesa, nel singolo contesto, tanto nel senso di «inviare» o «mandare»
da parte del mittente, quanto nel senso di «far pervenire» al
destinatario.
Che quest’ultimo e non il primo sia il significato che la
locuzione «trasmette» assume nel contesto dell’art. 309 comma 5
c.p.p. non par dubbio, ove si consideri che l’interesse protetto dalla
norma non è quello del mittente (autorità giudiziaria procedente) a
compiere l’atto dell’invio entro un certo termine, ma è, invece,
l’interesse de libertate della persona sottoposta a misura coercitiva,
la cui richiesta di riesame si vuole sia, in ogni caso, definita entro
brevissimi termini, nel rispetto del principio costituzionale secondo
cui «la libertà personale è inviolabile».
(
68) Cfr. Cass., Sez. I, 29 maggio 1997, p.m. in proc. Romeo, in C.E.D.
Cass., n. 207855.
(69
) V. Cass., Sez. II, 14 giugno 1997, p.m. in proc. La Mantia, in C.E.D.
Cass., n. 208080.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 59
L’interpretazione in discorso, facendo perno sul dato
oggettivo, documentalmente verificabile, che gli atti devono
pervenire al tribunale entro e non oltre il termine di cinque giorni
dall’avviso, indipendentemente dalla data dell’invio e del mezzo
utilizzato, ha l’indubbio vantaggio di consentire al tribunale e
soprattutto allo stesso indagato o imputato di accertare
tempestivamente l’avvenuta scadenza al fine del ripristino della
libertà, senza attendere l’arrivo degli atti presso il tribunale, per
constatarne solo in via postuma la tardività.
Il Supermo Collegio ha, pertanto, enunciato il seguente
principio di diritto: «Ai fini della caducazione automatica
dell’ordinanza applicativa della misura cautelare prevista dall’art.
309, comma 10, c.p.p., in riferimento al precedente comma quinto, e
cioè allorché la trasmissione degli atti non avviene nel termine ivi
previsto, si ha inosservanza del termine quando gli atti non
pervengono nel termine medesimo al tribunale del riesame, a nulla
rilevando che il loro invio sia avvenuto nei cinque giorni
dall’avviso» (70
).
La conclusione così raggiunta risulta sorretta da convincenti
argomentazioni e merita di essere condivisa, apparendo conforme
allo spirito della miniriforma del 1995 e conferendo effettività al
diritto di difesa in tema di libertà personale.
5. La perdita di efficacia della misura per omessa
trasmissione al tribunale del riesame dei decreti autorizzativi
delle intercettazioni. — Le Sezioni unite, con due successive
sentenze — la sentenza Monteleone del 27 marzo 1996 e quella
Glicora del 20 novembre 1996 —, hanno affrontato la questione
relativa alle conseguenze dell’omessa trasmissione al tribunale del
riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni (71
).
(
70) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.
Schillaci, in C.E.D. Cass., n. 209034.
(71
) In dottrina v. APRILE, Le impugnazioni penali, cit., p. 331;
ASTARITA, Limiti all’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche
nelle decisioni de libertate, in Cass. pen., 2003, p. 2050; DI CHIARA, osservazioni a
Cass., Sez. un., 27 marzo 1996, Monteleone, in Foro it., 1996, II, c. 720; FUMU,
Inutilizzabilità delle intercettazioni illegittime nelle indagini preliminari:
CAPITOLO SECONDO 60
L’intervento delle Sezioni unite è stato reso necessario dal
manifestarsi, fin dai primi anni di applicazione del nuovo codice di
procedura penale, di un contrasto giurisprudenziale in ordine
all’applicabilità, nel procedimento cautelare, del disposto del primo
comma dell’art. 271 c.p.p., che vieta l’utilizzazione dei risultati delle
intercettazioni qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi
consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le
prescrizioni dettate dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, c.p.p.
Questa specifica problematica — la cui analisi, peraltro, esula
dalla presente sede — non è più attuale a seguito dell’entrata in
vigore della l. 1° marzo 2001, n. 63, il cui art. 11, inserendo il
comma 1-bis nell’art. 273 c.p.p., ha espressamente previsto che nella
valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applica il disposto
dell’art. 271, comma 1, c.p.p., confermando, così, il divieto di
utilizzazione, anche ai fini cautelari, delle intercettazioni le cui
operazioni siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o
in dispregio delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1
e 3, c.p.p.
Tuttavia, le sentenze in esame non hanno perso la loro
rilevanza, soprattutto in tema di trasmissione degli atti al tribunale
del riesame.
La questio iuris che si pone attiene al se il magistrato del
pubblico ministero, che abbia fondato la richiesta di applicazione
della misura cautelare sui risultati delle intercettazioni di
comunicazioni o di conversazioni, debba trasmettere al giudice per le
indagini preliminari, prima, ed al tribunale della libertà, poi, i decreti
finalmente effettivo controllo di legalità e sanzione penale, in Cass. pen., 1996, p.
2918; GIRONI, Inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni telefoniche in sede
cautelare ed ambito di applicabilità delle disposizioni generali sulle prove, in Foro
it., 1996, II, p. 710; GROSSO, Il controllo del tribunale del riesame
sull’adeguatezza degli adempimenti ex art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., in Cass. pen.,
2002, p. 1768; MALAVASI, Deposito dei provvedimenti autorizzativi delle
intercettazioni nel giudizio cautelare: il caso dell’autorizzazione in un diverso
procedimento, in Cass. pen., 2002, p. 290; PUGLIESE, Il regime di utilizzabilità
delle intercettazioni telefoniche nel procedimento cautelare, in Giur. it., 1997, II, c.
121; VESSICHELLI, Ancora sul controllo di legittimità delle intercettazioni
telefoniche da parte del tribunale del riesame, in Cass. pen., 1997, p. 2041.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 61
che hanno autorizzato le operazioni di intercettazioni e, nel caso in
cui questi ultimi non vengano trasmessi, quali conseguenze
giuridiche si producono.
La questione è stata trattata solo in obiter dictum dalla
sentenza Monteleone, con riferimento, peraltro, ad una fattispecie
anteriore alla novella introdotta dalla l. n. 332 del 1995.
Le Sezioni unite sono partite dalla considerazione che, in
tema di inutilizzabilità, la disciplina applicabile nella materia delle
intercettazioni è quella contenuta nell’art. 271 c.p.p., norma a
carattere speciale che prevale, perciò, su quella generale di cui all’art.
191 c.p.p.; tale inutilizzabilità colpisce non l’intercettazione in
quanto mezzo di ricerca della prova, bensì i suoi risultati, i quali, a
loro volta, possono rivestire sia la natura di «prova», tipica della fase
del giudizio, sia quella di «indizi», tipica della fase delle indagini
preliminari, cosicché la sanzione comminata dal primo comma
dell’art. 271 c.p.p., lungi dall’essere limitata alla sola fase del
giudizio, opera anche durante le indagini preliminari. La rilevabilità
di ufficio e l’eccepibilità in ogni stato e grado del procedimento della
sanzione in discorso comporta che il giudice per le indagini
preliminari e quello del riesame (o dell’appello) devono esercitare il
potere-dovere di verificare la legittimità delle intercettazioni al fine
di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.
Da queste argomentazioni il Supremo Collegio ha dedotto
che è onere del magistrato del pubblico ministero trasmettere al
giudice per le indagini preliminari e successivamente al tribunale del
riesame o dell’appello i decreti autorizzativi delle intercettazioni.
L’inosservanza di questo onere, ha rimarcato la Corte, se
nella vigenza della precedente disciplina comportava l’obbligo per il
tribunale, in sede di riesame, di procedere all’acquisizione dei decreti
mancanti, a seguito della novella del 1995 determina la caducazione
della misura, non essendo più consentita l’acquisizione degli atti
mancanti al di là del termine perentorio di cinque giorni prescritto
dall’art. 309, comma 5, c.p.p. (72
).
(
72) Sez. Un., 27 marzo 1996 - 31 maggio 1996, n. 3, p.m. in proc.
Monteleone ed altro, in C.E.D. Cass., n. 204811.
CAPITOLO SECONDO 62
Nell’avvalorare questa conclusione, le Sezioni unite non
hanno, tuttavia, precisato se la sanzione dell’inefficacia della misura
cautelare scaturisca in ogni caso di incompleta trasmissione degli atti
al tribunale del riesame, ovvero solo quando i detti atti, rimessi al
giudice per le indagini preliminari nella loro interezza, pervengano,
poi, al tribunale solo in parte.
La risposta a quest’ulteriore interrogativo è stata fornita dalla
successiva sentenza Glicora che, sul punto, ha colmato la lacuna
contenuta nella motivazione della sentenza su ricorso Monteleone.
Le Sezioni unite hanno avuto modo di evidenziare che il
comma 5 dell’art. 309 c.p.p., come novellato dalla citata l. n. 332 del
1995, prescrive, in caso di riesame, che l’autorità giudiziaria
procedente debba trasmettere al tribunale gli atti presentati a norma
dell’art. 291, comma 1, c.p.p. nonché tutti gli elementi sopravvenuti
a favore della persona sottoposta alle indagini.
Detta previsione va raccordata con quella dettata dall’ultimo
comma dell’art. 309, che dispone la perdita di efficacia della misura
nell’ipotesi in cui la trasmissione degli atti non sia avvenuta «nei
termini di cui al comma 5».
Il tenore letterale e logico delle due disposizioni risulta, ad
avviso della Corte, inequivoco: la perdita di efficacia del
provvedimento custodiale consegue solo al caso di mancato invio al
tribunale di «tutti gli atti» a suo tempo trasmessi al giudice
procedente.
Qualora, invece, anche quest’ultimo giudice abbia ricevuto
gli atti in maniera parziale, non opera una siffatta sanzione, sia in
quanto dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge che il
giudice è tenuto ad esaminare gli atti che ha ricevuto (e non gli altri
eventualmente in possesso del magistrato del pubblico ministero), sia
in quanto detto giudice non può farsi carico di un adempimento che
non dipende da lui.
In definitiva, il comportamento omissivo del magistrato del
pubblico ministero, circa il mancato inoltro di alcuni atti, assunti
prima della richiesta della misura cautelare, atti che, pertanto, il
giudice procedente non ha potuto valutare, ed il corrispondente
mancato esame degli stessi da parte del tribunale del riesame non
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 63
determinano la perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare, ma solo
la inutilizzabilità di quelli che li presuppongono.
Questo significa che, laddove i decreti autorizzativi delle
intercettazioni non rientrino tra gli atti già trasmessi con la richiesta
al giudice di prime cure, l’omessa trasmissione degli stessi al
tribunale del riesame non determina la perdita di efficacia della
misura, ma unicamente il dovere del tribunale di non utilizzare i
risultati delle intercettazioni e di verificare, quindi, se gli elementi
residui consentano o meno di sostenere l’applicazione della misura.
Dalla pronuncia in commento è possibile ricavare i seguenti
principi di diritto: «In tema di intercettazioni di conversazioni e
comunicazioni, l’inutilizzabilità — che è disciplinata dall’art. 271
c.p.p., siccome norma a carattere speciale, prevalente, come tale, su
quella del precedente art. 191 — colpisce non l’intercettazione in
quanto mezzo di ricerca della prova, bensì i suoi risultati, che
possono rivestire sia la natura di prova, tipica della fase del
giudizio, sia quella di indizi, tipica della fase delle indagini
preliminari. È, invero, irragionevole ricollegare la sanzione
dell’inutilizzabilità a questa o a quella fase del procedimento ovvero
a questo o a quel particolare tipo di violazione. E, poiché tale
inutilizzabilità è rilevabile d’ufficio o eccepibile ad istanza di parte
in ogni stato e grado del procedimento, ne consegue che, in sede
cautelare, il giudice per le indagini preliminari e quello del riesame
(o dell’appello) devono esercitare il potere-dovere di verificare la
legittimità delle intercettazioni al fine di valutarne l’utilizzabilità dei
risultati e, quindi, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Ne
discende che è onere del magistrato del pubblico ministero
trasmettere al giudice per le indagini preliminari e, successivamente,
al tribunale della libertà in sede di riesame o di appello i decreti
autorizzativi delle intercettazioni, al fine di consentire ad essi
l’esercizio delle funzioni di controllo loro demandate dalla legge.
In tema di riesame di misure cautelari personali, la perdita di
efficacia del provvedimento custodiale consegue solo al caso di
mancato invio al tribunale di tutti gli atti a suo tempo trasmessi al
giudice per le indagini preliminari in sede di richiesta della misura,
mentre una siffatta sanzione non opera, allorché quest’ultimo
CAPITOLO SECONDO 64
giudice aveva ricevuto gli atti in maniera parziale, sia perché dal
combinato disposto dei commi quinto e decimo dell’art. 309 c.p.p.
risulta che egli è tenuto ad esaminare gli atti ricevuti (e non altri,
eventualmente in possesso del magistrato del pubblico ministero), sia
perché non gli si può far carico di un adempimento che non dipende
da lui. Conseguentemente, il comportamento omissivo del magistrato
del pubblico ministero circa il mancato inoltro di alcuni atti, assunti
prima della richiesta della misura, atti che, pertanto, il giudice per le
indagini preliminari non ha potuto valutare, e il corrispondente
mancato esame degli stessi da parte del tribunale del riesame non
determina la perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare, ma solo
l’inutilizzabilità di quelli che li presuppongono» (73
).
La sentenza Glicora, come appare evidente, ha
ridimensionato la conclusione cui erano pervenute le precedenti
Sezioni unite Monteleone, che, in verità, avevano fatto ricorso ad una
interpretazione estensiva dell’art. 309 comma 5 c.p.p.,
sostanzialmente intendendo che gli atti da trasmettere al tribunale del
riesame entro il quinto giorno non fossero soltanto quelli
«...presentati a norma dell’art. 291 comma 1 c.p.p.», ma anche quelli
che comunque avrebbero dovuto essere presentati e non lo sono stati.
È difficile negare che, sotto il profilo della tutela dei diritti
della persona sottoposta a misura cautelare, quest’ultima
interpretazione sia la più garantista, in quanto responsabilizza
l’organo del pubblico ministero, imponendogli di trasmettere in ogni
caso i decreti autorizzativi delle intercettazioni, così come quelli di
convalida e di proroga, indispensabili per verificare la legittimità
delle relative operazioni.
Per altro verso, tuttavia, non si può nascondere la difficoltà di
avvalorare una simile interpretazione estensiva, riferita ad una
disposizione che, irrogando la sanzione della caducazione della
misura, riveste certamente carattere eccezionale.
In questo quadro, appare condivisibile la presa di posizione
della sentenza Glicora, che, sicuramente aderente al disposto
normativo, ha realizzato il giusto compromesso tra le opposte
(
73) Sez. Un., 20 novembre 1996 - 5 marzo 1997, n. 21, Glicora ed altri,
in C.E.D. Cass., n. 206954-206955.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 65
soluzioni esegetiche, ricollegando, in ogni caso, la sanzione
dell’inutilizzabilità all’omessa trasmissione dei decreti autorizzativi
delle intercettazioni.
Nondimeno, essa si espone ad alcune incongruenze, onerando
la difesa ad effettuare il non agevole riscontro, ex post, circa la
corrispondenza tra gli atti presentati al giudice di prime cure e quelli
trasmessi al tribunale del riesame e finendo per «avvantaggiare» il
magistrato del pubblico ministero totalmente inadempiente, il quale
si troverebbe comunque al riparo dal pericolo di veder dichiarata
inefficace la misura impugnata, potendo poi addirittura avvalersi del
fatto che, una volta dichiarata l’inutilizzabilità delle intercettazioni,
la misura rimanga in essere alla luce di altri elementi indizianti in sé
gravi.
In ogni caso, occorre rilevare che i successivi orientamenti
giurisprudenziali non sempre hanno recepito integralmente
l’insegnamento delle Sezioni unite, anzi ne hanno spesso
ridimensionato la portata.
La prevalente giurisprudenza, in realtà, ha continuato ad
affermare, in linea con il dictum della sentenza Glicora, che
l’inefficacia della misura si produce solo nell’ipotesi in cui i decreti
autorizzativi delle intercettazioni, così come i decreti di convalida
delle intercettazioni disposte d’urgenza dal magistrato del pubblico
ministero, non trasmessi al tribunale del riesame, rientravano tra gli
atti allegati alla richiesta di applicazione della misura cautelare (74
).
Qualora, invece, il magistrato del pubblico ministero abbia
omesso di trasmettere al giudice procedente ed ometta, quindi, di
trasmettere al tribunale del riesame copia dei decreti di
autorizzazione all’effettuazione delle intercettazioni, detta omissione,
pur non determinando di per sé la perdita di efficacia della misura
cautelare, costituisce violazione di un obbligo finalizzato a far sì che
possa essere vagliata la legittimità e l’ammissibilità delle suddette
(
74) Cfr. Cass., Sez. IV, 24 novembre 2000, Sadra e altro, in C.E.D.
Cass., n. 218291.
CAPITOLO SECONDO 66
intercettazioni, con conseguente inutilizzabilità dei relativi
risultati (75
).
Tale inutilizzabilità, tuttavia, può essere evitata, secondo un
primo indirizzo esegetico, attraverso il deposito dei decreti nei giorni
antecedenti all’udienza camerale davanti al tribunale del riesame e,
quindi, in tempo utile per il rispetto del principio del
contraddittorio (76
); altro orientamento ritiene che l’acquisizione dei
decreti, a seguito di richiesta di parte, possa avvenire anche nel corso
dell’udienza camerale (77
), sempre che la difesa sia posta nelle
condizioni di controllare la legittimità delle intercettazioni
eseguite (78
).
Queste posizioni, invero, si presentano condivisibili nella
misura in cui si precisa che l’acquisizione dei decreti, decorso il
termine perentorio dei cinque giorni, in tanto è possibile, in quanto i
decreti non siano stati precedentemente trasmessi al giudice
procedente — altrimenti si verifica la caducazione della misura —, e
che tale acquisizione può consentire di utilizzare i risultati delle
intercettazioni solo se è effettuata nel rispetto del principio del
contraddittorio, riconoscendo alla difesa — se mai anche attraverso
la concessione di un breve termine — la possibilità di interloquire
sulla legittimità delle operazioni eseguite.
Altra giurisprudenza, invece, ha disatteso il principio di
diritto enunciato dalle Sezioni unite Glicora.
Si è affermato che, in tema di riesame della misura coercitiva,
i decreti che autorizzano l’intercettazione telefonica non rientrano fra
gli atti su cui il giudice procedente fonda il provvedimento cautelare
e, pertanto, la mancata trasmissione dei medesimi al tribunale non
comporta la perdita di efficacia della misura; qualora, poi, il tribunale
ritenga opportuno acquisire i decreti stessi, nessun vizio discende dal
(
75) Cass., Sez. I, 22 dicembre 2000, Caramazza, in C.E.D. Cass., n.
218189.
(76
) Cass., Sez. I, 8 ottobre 2003, Minichini, in C.E.D. Cass., n. 226547.
(77
) Cass., Sez. I, 15 febbraio 2005, Ferrini, in C.E.D. Cass., n. 231083;
Id., Sez. IV, 1° dicembre 2004, Kelolli e altro, ivi, n. 230685; Id., Sez. I, 29
settembre 2000, Morgante, ivi, n. 217615.
(78
) Cass., Sez. VI, 19 febbraio 2003, Georgiev, in C.E.D. Cass., n.
225736; Id., Sez. I, 25 giugno 1998, Selis, ivi, n. 211425.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 67
fatto che i documenti non siano messi a disposizione delle parti entro
i tre giorni dalla data di udienza, posto che il comma 8 dell’art. 309
c.p.p. stabilisce il termine a comparire, ma non fissa alcun termine
iniziale specifico per il deposito degli atti e dei documenti
acquisiti (79
).
Questa presa di posizione si inserisce in quel filone
giurisprudenziale, consacrato anche da una sentenza delle Sezioni
unite (80
), che tende a distinguere tra atti a contenuto sostanziale, la
cui mancata trasmissione determina in ogni caso la caducazione della
misura, ed atti che abbiano una mera funzione di impulso
procedimentale, i quali possono essere prodotti ed acquisiti
indipendentemente dall’osservanza del termine perentorio indicato
nel comma 5 dell’art. 309 c.p.p.
Di qui, la considerazione dei decreti autorizzativi delle
intercettazioni come atti aventi carattere processuale, in quanto privi
di contenuto probatorio, la cui omessa o tardiva trasmissione non
determina mai l’inefficacia della misura.
Appare evidente come questo orientamento introduca una
distinzione — atti a contenuto sostanziale ed atti aventi carattere
processuale — che non è contemplata dalla lettera dell’art. 309 c.p.p.
— che, invece, impone la trasmissione di tutti gli atti presentati a
norma dell’art. 291 c.p.p. — e che si pone, altresì, in contrasto con la
ratio garantistica della disposizione, volta ad assicurare che in tempi
brevi il giudice del riesame disponga dell’intero compendio
documentale presentato in sede di richiesta della misura cautelare, al
fine di una rapida e completa verifica della legittimità vincolo de
libertate.
Ancora meno condivisibile è un ulteriore indirizzo
interpretativo, che esclude che dalla mancata trasmissione al
tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni
possa derivare l’inutilizzabilità dei relativi risultati (81
). Se è vero,
(
79) Cfr. Cass., Sez. IV, 1 giugno 2001, Laribi, in C.E.D. Cass., n.
219685; Id., Sez. I, 30 giugno 1999, Santoro, ivi, n. 214019.
(80
) Sez. Un., 27 marzo - 22 maggio 2002, n. 19853, p.m. in proc.
Ashraf, infra § 7.
(81
) Cfr. Cass., Sez. II, 22 ottobre 1998, in C.E.D. Cass., n. 211651.
CAPITOLO SECONDO 68
infatti, che dall’omessa allegazione non può desumersi né
l’inesistenza, né l’invalidità dei decreti in questione, è anche vero
che, senza di essi, il tribunale del riesame non è posto nelle
condizioni di svolgere il necessario controllo sulla legittimità delle
operazioni di intercettazioni e, pertanto, non può utilizzare i relativi
risultati.
6. Le conseguenze dell’omessa trasmissione del verbale
dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato. — Sempre in tema
di individuazione degli atti che devono essere trasmessi, ai sensi del
comma 5 dell’art. 309 c.p.p., al tribunale del riesame, altra questione,
che ha dato vita ad un contrasto interpretativo, attiene
all’individuazione delle conseguenze derivanti dall’omessa
trasmissione al tribunale del riesame del verbale dell’interrogatorio
di garanzia dell’indagato (82
).
Tale atto, infatti, non rientra tra quelli presentati al giudice
procedente, ex art. 291 c.p.p., unitamente alla richiesta cautelare,
venendo posto in essere solo successivamente all’adozione della
misura. Il quesito che si è posto consiste, quindi, nello stabilire se
esso debba comunque essere trasmesso al giudice del riesame, ai
sensi del comma 5 dell’art. 309 c.p.p., quale elemento sopravvenuto
a favore della persona sottoposta alle indagini.
La questione ha dato vita a vari orientamenti interpretativi.
Secondo una prima presa di posizione, l’interrogatorio di
garanzia va sempre trasmesso al tribunale del riesame nel termine di
(
82) Cfr., in dottrina, DE AMICIS, Omessa trasmissione del verbale
dell’interrogatorio di «garanzia» e riesame del provvedimento cautelare, in Cass.
pen., 2001, p. 2656; GAZZANIGA, Sulle conseguenze dell’omessa trasmissione del
verbale di interrogatorio al tribunale del riesame entro il termine previsto dall’art.
309 comma 5 c.p.p., in Cass. pen., 2002, p. 698; MARANDOLA, Riesame del
provvedimento cautelare e trasmissione ex art. 309 comma 5 c.p.p.
dell’interrogatorio della persona in vinculis, in Cass. pen., 1996, p. 3736;
ORLANDI, Omesso invio dell’interrogatorio di garanzia al giudice del riesame:
causa di nullità del giudizio di impugnazione o motivo di inefficacia del
provvedimento impugnato?, in Cass. pen., 1997, p. 2778; VASSALLO,
L’interrogatorio di garanzia va trasmesso al tribunale del riesame solo se
favorevole all’indagato, in Cass. pen., 2001, p. 3346.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 69
legge, sotto comminatoria di inefficacia della misura. Esso, infatti,
rientra tra gli atti sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle
indagini, in quanto svolge la funzione di rendere edotto l’indagato
degli elementi di accusa esistenti a suo carico e di consentire allo
stesso una immediata difesa. Non prevedere che tale atto sia
conosciuto ed esaminato dal tribunale del riesame significa privare
l’organo giudicante di un elemento di valutazione importante, poiché
trattasi di uno degli atti difensivi di maggiore rilievo specialmente
nella fase delle indagini preliminari. Né è possibile subordinare la
trasmissione del verbale ad una preventiva valutazione del contenuto
dell’atto per verificare se esso oggettivamente contenga elementi
difensivi, in quanto una simile valutazione di merito compete
esclusivamente all’organo che deve decidere in ordine alla libertà e
non può essere riservata al magistrato del pubblico ministero (83
).
In senso opposto, si è affermato che l’interrogatorio di
garanzia rappresenta, di per sé, un atto neutro, non essendo stato
concepito come istituto diretto alla raccolta di elementi di prova,
bensì come mezzo predisposto a realizzare il contatto dell’indagato
con il suo giudice, affinché questi possa accertare, nel più breve
termine possibile, se permangano le condizioni di applicabilità della
misura. Quando l’art. 309, comma 5, c.p.p. indica gli elementi
sopravvenuti in favore dell’indagato, non si riferisce a mere
asserzioni difensive ma, al contrario, a circostanze fattuali, di natura
oggettiva, che risultino utili a discolparlo; le mere asserzioni
difensive, rese nell’interrogatorio, non rientrano, quindi, nell’ambito
di operatività della previsione in discorso (84
).
Un terzo indirizzo ha sostenuto che il legislatore, con la
locuzione «elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta
alle indagini», si sia voluto riferire a fatti oggettivi e non a semplici
posizioni difensive e che, pertanto, il verbale dell’interrogatorio di
(
83) Cfr. Cass., Sez. V, 13 dicembre 1999, Garofalo, in C.E.D. Cass., n.
215470; Id., Sez. V, 26 novembre 1996, Marmai, ivi, n. 206637; Id., Sez. V, 28
ottobre 1996, Minniello, ivi, n. 206552.
(84
) Cass., Sez. VI, 16 febbraio 2000, Procopio, in C.E.D. Cass., n.
215863; Id., Sez. I, 14 ottobre 1999, Pupillo, ivi, n. 214703; Id., Sez. II, 28 ottobre
1997, Brenvaldi, ivi, n. 209010.
CAPITOLO SECONDO 70
garanzia, in un siffatto contesto, non rientra nella previsione
normativa, a meno che elementi fattuali favorevoli all’indagato siano
contenuti in detto verbale, nel qual caso è onere della parte fornirne
specifica indicazione con la richiesta che il verbale stesso sia
trasmesso al giudice del riesame (85
).
Investite della questione, le Sezioni unite hanno, innanzitutto,
ritenuto di non poter condividere il primo orientamento sopra
esposto. L’interrogatorio di garanzia, infatti, non rappresenta sempre
ed in concreto «elemento favorevole all’indagato», potendo, al
contrario, risolversi in suo danno, come nel caso della confessione; in
queste ipotesi, imporre la trasmissione del relativo verbale al giudice,
equivale a riconoscere in capo al magistrato del pubblico ministero
l’obbligo di comunicargli tutti gli elementi sopravvenuti, di
qualsivoglia segno essi siano, il che rappresenta un palese
stravolgimento della norma, che pacificamente è stata dettata
nell’interesse dell’indagato e che finirebbe, invece, per ritorcersi
contro di lui.
Scopo dell’interrogatorio di garanzia è, di regola, quello di
consentire, in tempi ristretti, il contatto dell’indagato con il giudice,
perché questi possa valutare se permangano le condizioni di
applicabilità della misura e non anche quello della raccolta di
elementi di prova. Solo qualora, nella fattispecie concreta, si verifichi
siffatta eventualità, il magistrato del pubblico ministero deve
rimettere al giudice anche il relativo verbale.
Questa conclusione è confortata — ad avviso della Corte —
sia dal tenore letterale, che dalla ratio del disposto di cui al comma 5
dell’art. 309.
Sotto il primo profilo, tale disposizione esplicitamente
impone al magistrato del pubblico ministero di trasmettere al
tribunale del riesame gli «atti» posti a fondamento della misura
coercitiva e gli «elementi» sopravvenuti favorevoli all’indagato.
Orbene, la distinzione tra «atto» ed «elemento» è evidente e
corrisponde, in pratica, a quella tra contenente e contenuto, nel senso
(
85) Cfr. Cass., Sez. VI, 19 giugno 1999, Buccoliero, in C.E.D. Cass., n.
214514; Id., Sez. VI, 7 aprile 1999, Vernieri, ivi, n. 214768; Id., Sez. V, 25 gennaio
1996, Massaro, ivi, n. 203956.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 71
che nell’«atto» possono rinvenirsi «elementi» se del caso favorevoli
all’indagato. Le due locuzioni, in altri termini, non coincidono
affatto, nel senso che la prima è più ampia della seconda che, a sua
volta, si traduce non in mere asserzioni difensive, ma in specifici dati
fattuali, di natura oggettiva, che, se sopravvenuti e discolpanti,
determinano l’obbligo di invio di cui alla disposizione citata.
Anche la ratio della previsione induce ad avallare il
medesimo risultato esegetico; a parere dei giudici di legittimità,
infatti, la sanzione dell’inefficacia, collegata all’omessa trasmissione
degli elementi sopravvenuti favorevoli all’indagato, risponde al fine
di evitare eventuali poco commendevoli comportamenti dell’organo
del pubblico ministero, il quale, pur essendo venuto in possesso di
elementi favorevoli all’indagato, volutamente o colposamente ometta
di comunicarli al tribunale, che, in tal modo, non può avere
conoscenza completa di tutta la situazione probatoria. Un siffatto
pericolo, però, non può mai verificarsi in concreto qualora non sia
trasmesso l’interrogatorio di garanzia, dal momento che di esso è già
a perfetta conoscenza l’indagato medesimo ed il suo difensore, che
hanno, pertanto, tutti i mezzi per avvalersene ed adeguatamente
difendersi.
Di qui, il Supremo Collegio ha tratto la conclusione che «tra
gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle
indagini non rientra necessariamente il verbale dell’interrogatorio
di garanzia, che, pertanto, va trasmesso al tribunale del riesame, a
norma dell’art. 309 comma 5 c.p.p., solo se in concreto li
contenga» (86
).
Il percorso argomentativo utilizzato dalla Corte, tuttavia, non
convince appieno, soprattutto in relazione alla ricostruzione della
ratio della previsione dettata dal comma 5 dell’art. 309 c.p.p.
Scopo della norma non è semplicemente quello di assicurare
al tribunale la conoscenza completa di tutta la situazione probatoria,
ma anche quello di garantire che l’organo decidente venga a
conoscenza degli elementi favorevoli all’indagato nei termini
prescritti. La possibilità per la difesa di produrre successivamente il
(
86) Sez. Un., 26 settembre 2000 - 11 gennaio 2001, n. 25, Mennuni, in
C.E.D. Cass., n. 217443.
CAPITOLO SECONDO 72
verbale di interrogatorio non può, pertanto, considerarsi
perfettamente equivalente alla sua trasmissione ad opera dell’autorità
giudiziaria procedente, posto che il difensore potrebbe non accorgersi
tempestivamente dell’omesso invio dell’atto e portarlo a conoscenza
del tribunale — se mai depositandolo direttamente in udienza — in
tempi prossimi alla scadenza dei dieci giorni per la decisione, senza
che i giudici del riesame possano utilizzare tutto il tempo a loro
disposizione per sottoporlo ad adeguata valutazione.
In ogni caso, occorre considerare che la valutazione sul se il
contenuto dell’interrogatorio possa contenere elementi favorevoli per
l’indagato va effettuata caso per caso, alla luce degli atti e delle
situazioni processuali concretamente esistenti; non si può negare,
contrariamente a quanto sostenuto dalle Sezioni unite, che anche la
confessione resa in sede di interrogatorio di garanzia possa assumere
il valore di elemento sopravvenuto favorevole all’indagato, laddove,
ad esempio, la misura sia fondata esclusivamente sul pericolo di
inquinamento probatorio, potendo indurre il giudice del riesame a
revocare o sostituire la misura inizialmente applicata.
Ed allora, l’orientamento fatto proprio dalla sentenza
Mennuni, in tanto è condivisibile, in quanto si riconosca che il
tribunale del riesame, acquisito il verbale dell’interrogatorio di
garanzia — se mai su richiesta della difesa — dopo la scadenza dei
cinque giorni previsti dal comma 5 dell’art. 309, debba
necessariamente dichiarare la caducazione della misura, qualora
individui nel contenuto dell’interrogatorio quegli «elementi
sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini» che il
magistrato del pubblico ministero doveva obbligatoriamente
trasmettere nel termine previsto dalla legge.
7. L’esclusione della perdita di efficacia della misura
coercitiva in caso di mancata o tardiva trasmissione della
richiesta cautelare. — Le Sezioni unite sono state chiamate a
rispondere all’interrogativo se l’omessa o ritardata trasmissione della
richiesta di misura cautelare, presentata ai sensi dell’art. 291, comma
1, c.p.p. dal magistrato del pubblico ministero al giudice procedente,
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 73
determini o meno la perdita di efficacia della misura in forza del
disposto di cui al comma 10 dell’art. 309 c.p.p. (87
).
Una parte della giurisprudenza aveva ritenuto che la richiesta
del magistrato del pubblico ministero costituisce atto che deve essere
necessariamente trasmesso al giudice del riesame, essendo tale
richiesta il presupposto della misura cautelare ex art. 291 c.p.p., in
relazione alla quale la difesa è posta in grado di conoscere gli
elementi su cui si fonda, nonché tutti gli elementi eventualmente a
favore dell’indagato-imputato. Si era, addirittura, sottolineato che
non adempie a tale obbligo il magistrato del pubblico ministero che
trasmette la richiesta al tribunale della libertà solo a mezzo di
supporto informatico, e cioè registrata su «dischetto» inserito nel
fascicolo, ciò in quanto tale modalità di trasmissione non è
equiparabile all’atto trascritto, per le difficoltà oggettive di procedere
alla trascrizione e per i tempi tecnici che essa comporta, a fronte dei
termini strettissimi entro cui il giudizio davanti al tribunale del
riesame deve svolgersi (88
).
In senso opposto, altra corrente giurisprudenziale aveva
ritenuto irrilevante l’omessa trasmissione della richiesta cautelare, in
quanto, a seguito della modifica dell’art. 293 comma 3 c.p.p., la
difesa può svolgere un rapido ed effettivo controllo del
(
87) Sulla questione v. BRICCHETTI, Le Sezioni Unite abbandonano la
concezione formale ed aderiscono all’orientamento sostanziale, in Guida dir.,
2002, n. 25, p. 66; DELL’AGLI, La intempestiva trasmissione della richiesta di
misura cautelare al tribunale del riesame non determina l’automatica caducazione
dell’ordinanza applicativa del provvedimento de libertate: un revirement delle
sezioni unite, in Arch.nuova proc.pen., 2002, p. 553; DI BITONTO, Effetti
dell’omessa o tardiva trasmissione al tribunale della libertà della richiesta di
misura cautelare personale, in Cass. pen., 2002, p. 2643; LEO, Gli atti da
trasmettere al tribunale del riesame a pena di inefficacia della misura cautelare:
un nuovo e fondamentale approdo delle Sezioni unite, in Cass. pen., 2002, p. 2647;
NUZZO, Sulla necessità di trasmettere al tribunale del riesame la richiesta di
applicazione della misura cautelare, in Cass. pen., 2000, p. 3091; SAVINO, Potere
di accusa e diritto di difesa: rimeditazione sulle garanzie del procedimento de
libertate, in Cass. pen., 2001, p. 932.
(88
) Cfr. Cass., Sez. I, 30 marzo 2001, Hu Shondeng, in C.E.D. Cass., n.
218583; Id., Sez. I, 19 novembre 1998, Vulluet, ivi, n. 212194; Id., Sez. VI, 30
ottobre 1998, Girotto, ivi, n. 212212.
CAPITOLO SECONDO 74
provvedimento cautelare, con il deposito dello stesso nella
cancelleria del giudice che ha adottato la misura; per altro verso, fra
gli atti che l’autorità procedente deve trasmettere al tribunale del
riesame non rientra la richiesta di applicazione della misura
cautelare, atteso che tale richiesta rappresenta un semplice atto di
impulso processuale, la cui funzione si esaurisce con l’adozione del
provvedimento applicativo della misura e, trattandosi di atto di parte,
non è comunque possibile trarre da essa elementi a favore o contro
gli indagati (89
).
Il Supremo Collegio ha fatto proprio quest’ultimo
orientamento, manifestando la convinzione che al giudice del
riesame non debba garantirsi in via generale ed astratta qualsiasi
controllo sulla legittimità del provvedimento impugnato. La funzione
del tribunale del riesame, infatti, si compendia e si esaurisce nel
controllo del ragionamento adottato dal giudice della cautela, con la
concreta previsione dell’esame degli atti presentati dal magistrato del
pubblico ministero al giudice ed effettivamente utilizzati
nell’economia del provvedimento impositivo, restando esclusa la
necessità della presenza di un atto non decisivo, ritenuto dalla difesa
interessante per il giudizio di impugnazione e conosciuto dalla stessa,
il cui ruolo attivo di propulsione, ai fini dell’acquisizione o della
produzione diretta, attenua il ricorso al meccanismo sanzionatorio
dell’art. 309 c.p.p.
Apertis verbis, ogni ulteriore verifica sulla legittimità del
provvedimento impositivo, che richieda l’esame di atti processuali
diversi da quelli utilizzati e ritenuti decisivi dal giudice di prima
istanza, è rimessa essenzialmente all’iniziativa della difesa,
attraverso la produzione e la successiva acquisizione, sganciata da
termini perentori, di tali atti.
Alla base di una simile conclusione vi è stata la
constatazione, da parte della Corte, che la novella introdotta dalla l.
n. 332 del 1995 e la successiva evoluzione interpretativa siano
espressione di un tendenziale atteggiamento a responsabilizzare la
difesa, la quale è posta nelle condizioni di ottenere tempestivamente
(
89) V. Cass., Sez. V, 15 febbraio 2000, Terracciano, in Cass. pen.,
2001, p. 932; Id., Sez. II, 1° febbraio 2000, Carloni, ivi, n. 215406.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 75
la conoscenza degli elementi sostanziali su cui la cautela si fonda e di
produrre, fino all’udienza camerale e nel corso della stessa, tutto il
materiale utile per la decisione in sede di riesame, in vista di
specifiche prospettazioni.
Il corollario di questa evoluzione — hanno evidenziato i
giudici di legittimità — è stata la delimitazione delle conseguenze
caducatorie dell’omessa trasmissione di atti alla denuncia di
specifiche omissioni di dati sostanziali decisivi, presi in
considerazione dal giudice cautelare e sui quali deve svolgersi il
controllo in sede di riesame.
Da mezzo di difesa per «costringere» l’ufficio del pubblico
ministero a scoprire la sua strategia accusatoria, il riesame si è
connotato, secondo l’evoluzione giurisprudenziale, di una logica di
tipo sostanziale, con la polarizzazione del controllo del tribunale
sulla valutazione degli indizi, operata dal giudice cautelare,
attraverso la trasmissione dei dati dai quali possano desumersi gli
elementi di colpevolezza, le esigenze cautelari e l’adeguatezza della
misura prescelta, definitivamente superando l’originaria
finalizzazione dell’istituto stesso a costituire garanzia dell’accesso
difensivo agli atti.
In un tale contesto, è venuta ad accentuarsi la concezione
sostanziale della trasmissione degli atti considerati funzionali al
compito del giudice del riesame, la cui mancanza comporta la
sanzione di cui al decimo comma dell’art. 309 c.p.p.
L’approdo, dunque, è in direzione di una concezione
sostanzialistica dell’atto, da cui deriva la superfluità della
trasmissione della richiesta cautelare, che non ha rilievo ai fini del
merito della questione cautelare, nulla aggiungendo al quadro
indiziario già emergente dagli atti allegati, che si limita solo a
richiamare; dalla richiesta cautelare, infatti, non è possibile trarre
elementi a favore o contro l’indagato, avendo l’atto mera funzione
processuale che si esaurisce nell’impulso al procedimento cautelare.
Del resto, va posto in luce che il primo comma dell’art. 291
c.p.p. pone esplicita distinzione tra «richiesta» del magistrato del
pubblico ministero ed «elementi» sui quali si fonda; la lettera della
legge opera, quindi, una divaricazione, esaltando la funzione di atto
CAPITOLO SECONDO 76
propulsivo della prima, il cui contenuto è solo una riflessa
elencazione degli elementi a sostegno della richiesta cautelare,
mentre accentua il momento contenutistico dei secondi, delineando
una separazione tra atto formale ed atti sostanziali allegati a
sostegno.
La conclusione cui è pervenuto il Supremo Collegio è la
seguente: «L’omessa o tardiva trasmissione al tribunale del riesame
della richiesta di misura cautelare personale non determina la
perdita di efficacia del provvedimento coercitivo a norma dell’art.
309, commi 5 e 10, c.p.p., in quanto si riferisce ad un atto di natura
meramente processuale, funzionale all’attivazione del procedimento
cautelare, che nulla aggiunge al quadro indiziario risultante dagli
elementi presentati a sostegno di essa» (90
).
Appare evidente come la soluzione esegetica accolta dalle
Sezioni unite si allontani da una mera interpretazione letterale del
disposto normativo.
Non si può negare, a dispetto di quanto affermato dalla Corte,
che la locuzione «atti presentati a norma dell’art. 291 comma 1
c.p.p.», contenuta nell’art. 309 comma 5 c.p.p., ricomprenda
chiaramente anche la richiesta cautelare, la cui presentazione
costituisce il necessario antecedente dell’allegazione degli elementi
di prova destinati a supportarla. Il sostantivo «atti» — impiegato per
individuare l’oggetto della trasmissione — non si riferisce solo ai
risultati investigativi necessari a dimostrare sul piano probatorio la
sussistenza dei presupposti del provvedimento restrittivo richiesto dal
magistrato pubblico ministero e, nella sua genericità, non consente di
escludere dalla trasmissione quelli che per loro natura risultino
insuscettibili di utilizzazione probatoria, come la richiesta di
applicazione della misura avanzata dall’organo dell’accusa.
D’altra parte, come rilevato anche in dottrina (91
),
quest’ultima interpretazione del dato normativo appare la più
(
90) Sez. Un., 27 marzo - 22 maggio 2002, n. 19853, p.m. in proc.
Ashraf, in C.E.D. Cass., n. 221393.
(91
) V., in proposito, DI BITONTO, Effetti dell’omessa o tardiva
trasmissione al tribunale della libertà della richiesta di misura cautelare
personale, cit., p. 2646.
LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 77
coerente con la ragion d’essere del giudizio davanti al tribunale del
riesame, che è quella di assicurare in tempi brevi il pieno controllo
sulla sostanziale giustizia e sulla formale correttezza della misura
coercitiva. In questa prospettiva, il giudice del riesame è tenuto a
verificare, tra l’altro, l’avvenuta osservanza del cosiddetto principio
della domanda in materia cautelare, in forza del quale è preclusa
l’imposizione di misure restrittive in mancanza della relativa
richiesta del magistrato del pubblico ministero.
L’esegesi avallata dal Supremo Collegio, quindi, non solo
introduce una distinzione — atti a contenuto sostanziale ed atti aventi
carattere processuale — che non è contemplata dalla lettera dell’art.
309 c.p.p. (92
) — che, invece, impone la trasmissione di tutti gli atti
presentati a norma dell’art. 291 c.p.p. —, ma si pone, altresì, in
contrasto con la ratio garantistica della disposizione, volta ad
assicurare che in tempi brevi il giudice del riesame disponga
dell’intero compendio documentale presentato in sede di richiesta
della misura cautelare, al fine di una rapida e completa verifica sul
vincolo de libertate (93
).
All’ampiezza della cognizione del tribunale in sede di
riesame deve necessariamente corrispondere la completezza degli atti
da portare a sua conoscenza, che sono tutti quelli esibiti dall’organo
pubblico ministero al fine di ottenere il provvedimento applicativo di
una misura cautelare.
(
92) Cfr. anche PIERRO, Il giudicato cautelare, cit., p. 143, secondo cui la
distinzione tra atti di rilevanza sostanziale ed atti a valenza meramente processuale
non appare condivisibile «perché prefigura un modulo interpretativo riduttivo,
improntato al puro decisionismo potestativo del giudicante, e rispecchia una
concezione strumentale, soggettivistica e non verificabile del giudizio
giurisdizionale, sicuramente oggi non più sostenibile».
(93
) Secondo una diversa interpretazione, invece, la sanzione della
perdita di efficacia della misura dovrebbe essere circoscritta alla sola ipotesi in cui
non abbia avuto luogo alcuna tempestiva trasmissione di atti al tribunale del
riesame, fermo restando il dovere di quest’ultimo di decidere comunque, entro il
termine di legge, sulla base degli atti che siano stati trasmessi, con ovvie ricadute
sull’onere del magistrato del pubblico ministero e dell’imputato di produrre in
udienza ex art. 309 comma 9 gli altri elementi in loro possesso. In questo senso, v.
GREVI, Misure cautelari, cit., p. 449.
CAPITOLO SECONDO 78
Contrariamente a quanto asserito dalla sentenza in esame, il
compito del tribunale del riesame non si esaurisce e non può esaurirsi
nel controllo del ragionamento adottato dal giudice della cautela,
subordinando una più generale verifica sulla legittimità del
provvedimento impugnato solo alla tempestiva iniziativa della difesa,
in quanto il sistema delineato dall’art. 309 induce fondatamente ad
affermare che il giudice del riesame può talmente prescindere dal
ragionamento del primo giudice da confermare il provvedimento
coercitivo anche sulla base di ragioni diverse da quelle indicate
originariamente e che il giudizio instaurato con la richiesta di
riesame è così tanto svincolato dalle ragioni di doglianza difensive
che queste possono anche non essere mai presentate.
Ed allora, la linea ermeneutica prevalsa con la decisione in
commento sembra rispondere unicamente all’esigenza di far fronte
alle innegabili impellenze di carattere pratico, che sovente non
consentono di realizzare in tutta compiutezza la trasmissione degli
atti imposta dall’art. 309 comma 5 c.p.p.
Capitolo Terzo
L’UDIENZA CAMERALE
SOMMARIO: 1. Il problema della notificazione dell’avviso della data dell’udienza
camerale al codifensore che non abbia sottoscritto la richiesta di
riesame. — 2. La rinnovazione dell’avviso nell’ipotesi di inosservanza del
termine dilatorio di tre giorni. — 3. Il diritto dell’interessato ad estrarre
copia degli atti. — 4. La traduzione del detenuto per la partecipazione
all’udienza camerale. — 5. L’omessa indicazione nell’avviso di udienza
del diritto del detenuto alla traduzione davanti al magistrato di
sorveglianza o al giudice del riesame. — 6. La decorrenza del termine di
dieci giorni per la decisione. — 7. Il deposito del dispositivo nel decimo
giorno dalla ricezione degli atti per evitare la perenzione della misura. —
8. L’individuazione del dies ad quem nella ventiquattresima ora del
decimo giorno dalla ricezione degli atti. — 9. Le conseguenze
dell’invalidità della decisione adottata tempestivamente. — 10.
L’inapplicabilità al giudizio di rinvio del termine perentorio di dieci giorni
per la decisione. — 11. La sospensione per la risoluzione di una
pregiudiziale costituzionale.
1. Il problema della notificazione dell’avviso della data
dell’udienza camerale al codifensore che non abbia sottoscritto la
richiesta di riesame. — In tema di notifica dell’avviso della data
dell’udienza di riesame, la cui disciplina è contenuta nel comma 8
dell’art. 309 c.p.p. (94
), le Sezioni unite sono intervenute a risolvere
due questioni, oggetto di altrettanti contrasti giurisprudenziali,
relative, l’una, all’ipotesi in cui l’interessato sia assistito da due
difensori, di cui solo uno abbia sottoscritto l’istanza di riesame, e,
l’altra, alle conseguenze derivanti dall’inosservanza del termine
dilatorio di tre giorni.
(
94) Per un’analisi della tematica v., tra gli altri, APRILE, Le
impugnazioni delle ordinanze sulla libertà personale, Milano, 1996, p. 48; BASSI-
EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 191;
IASEVOLI, Sul computo del termine per la notifica della data di udienza di riesame:
un «passo indietro» della Cassazione, in Cass. pen., 2000, p. 990; LOSAPIO, sub
art. 309, cit., p. 1065; POLVANI, Le impugnazioni de libertate, cit., p. 285.
CAPITOLO TERZO 80
Con riguardo alla prima questione, l’interrogativo che si è
posto attiene al se, nel caso in cui l’indagato o l’imputato sia assistito
da due difensori, l’avviso della data dell’udienza fissata per la
discussione della richiesta di riesame debba essere dato ad entrambi,
anche quando la richiesta sia stata proposta soltanto da uno di
essi (95
).
In giurisprudenza è pacifico che l’avviso della data
dell’udienza camerale ex art. 309 c.p.p. debba essere notificato ad
entrambi i difensori di fiducia allorquando costoro abbiano
sottoscritto la richiesta che ha dato luogo al procedimento incidentale
di riesame ovvero qualora tale richiesta sia stata sottoscritta dal solo
indagato o imputato. Ed è ugualmente pacifico che, in queste ipotesi,
il mancato avviso ad uno dei difensori dà luogo ad una nullità a
regime intermedio, che si sana ove non sia stata tempestivamente
eccepita (96
).
Un contrasto interpretativo si è manifestato, invece, con
riferimento al caso in cui la richiesta di riesame sia stata presentata
soltanto da uno dei difensori ritualmente nominati.
Secondo un primo indirizzo, che ha preso corpo fin
dall’entrata in vigore del nuovo codice di rito, qualora l’avviso della
data di udienza sia notificato al solo difensore che ha presentato
l’istanza di riesame, non ricorre la violazione dell’art. 309, comma 8,
c.p.p., poiché la norma citata dispone che l’avviso sia notificato
«all’imputato o indagato ed al suo difensore», sicché tale difensore
deve essere individuato unicamente in quello che ha proposto
l’istanza (97
). Questa soluzione normativa è coerente sia con la
diversità del procedimento incidentale rispetto a quello principale, sia
(
95) Cfr., in dottrina, CARCANO, Pluralità dei difensori e relativi avvisi,
in Cass. pen., 2002, p. 72; DELLA MARRA, Sull’omesso avviso della data fissata
per l’udienza di riesame ad uno dei due difensori dell’imputato, in Giur. it., 1992,
II, c. 255; ZAPPULLA, In tema di omesso avviso della fissazione dell’udienza al
difensore che non ha sottoscritto la richiesta di riesame, in Cass. pen., 2002, p.
297.
(96
) Cfr. Cass., Sez. I, 10 novembre 1995, Delli Carri, in C.E.D. Cass., n.
203435; Id., Sez. I, 3 novembre 1992, Locorotondo, ivi, n. 192488.
(97
) Cass., Sez. VI, 25 ottobre 1990, Galatolo, in C.E.D. Cass., n.
186318.
L’UDIENZA CAMERALE 81
con la necessità di assicurare la compatibilità dell’esercizio del diritto
di difesa con l’esigenza di rapido svolgimento della procedura
camerale di riesame (98
).
In senso contrario, altro orientamento giurisprudenziale ha
sostenuto che il mancato avviso della data dell’udienza camerale di
riesame ad uno dei difensori nominati dall’imputato che non abbia
sottoscritto la richiesta è causa di nullità a regime intermedio e
determina la nullità degli atti posti in essere in assenza del difensore
non avvertito. Il difensore, al quale l’ottavo comma dell’art. 309 fa
riferimento, è, infatti, il difensore che l’imputato ha indicato
avvalendosi delle facoltà attribuite dalla legge, con la conseguenza
che deve considerarsi tale anche il difensore che, regolarmente
nominato, non abbia, per qualsiasi ragione, sottoscritto l’istanza di
riesame (99
).
Una questione analoga, riferita all’ipotesi del mancato avviso
della richiesta di proroga dei termini di custodia cautelare ad uno dei
due difensori nominati dall’indagato, era già stata affrontata dalle
Sezioni unite, le quali avevano risposto al quesito affermando che
«l’omessa notifica ad uno dei due difensori dell’indagato della data
di deliberazione in camera di consiglio sulla richiesta del pubblico
ministero di proroga della custodia cautelare dà luogo alla nullità del
procedimento camerale dinanzi al giudice per le indagini preliminari
e, conseguentemente, del provvedimento di proroga, nullità che è a
così detto regime intermedio, sia che si proceda con il rito di cui
(
98) Cass., Sez. I, 10 giugno 1999, Randazzo, in C.E.D. Cass., n.
214009; Id., Sez. III, 20 gennaio 1999, Maliqi, ivi, n. 213167; Id., Sez. I, 12
novembre 1997, Vitiello, ivi, n. 209180; Id., Sez. V, 26 febbraio 1997, De Rosa,
ivi, n. 207475; Id., Sez. VI, 22 febbraio 1996, Imperato, ivi, n. 205027; Id., Sez. I,
24 marzo 1995, Severa, ivi, n. 201180; Id., Sez. VI, 26 gennaio 1993, Ferlin, ivi, n.
192965.
(99
) Cass., Sez. III, 14 giugno 2000, Biba, in C.E.D. Cass., n. 216818;
Cass., Sez. II, 20 ottobre 1997, Bellomo, ivi, n. 210593; Cass., Sez. III, 1°
dicembre 1999, Russo, ivi, n. 215354; Cass., Sez. V, 16 luglio 1996, Ezuriche, ivi,
n. 205091.
CAPITOLO TERZO 82
all’articolo 127 c.p.p., sia che si proceda con la massima libertà di
forme» (100
).
Questo autorevole precedente giurisprudenziale ha costituito
il punto di partenza per la risoluzione del contrasto delineatosi in
materia di mancato avviso della data dell’udienza di riesame al
difensore che non abbia sottoscritto l’istanza. Il Supremo Collegio,
infatti, con la sentenza in esame, ne ha recepito integralmente le
argomentazioni, le quali, pur riferite al distinto istituto della proroga
dei termini di custodia cautelare, trovano il loro fondamento nella
normativa generale sul diritto di difesa e sulla nomina del difensore
di fiducia.
Nell’affermare la necessità dell’avviso ad entrambi i difensori
anche quando la richiesta di riesame sia stata proposta da uno solo di
essi, le Sezioni unite, sulla scia della citata sentenza Gattellaro,
hanno evidenziato che la duplicità del difensore recepisce
l’aspirazione dell’imputato (o indagato) ad assicurarsi una difesa
articolata e diversificata in modo che ognuno dei due officiati possa
espletare nel migliore dei modi il proprio compito nell’ambito della
rispettiva specializzazione; alla duplice nomina è, pertanto,
immanente la presunzione, superabile solo per disposto di legge, che
l’imputato o indagato intende utilizzare l’opera di due difensori in
modo articolato e con reciproca integrazione, sicché risulta arbitrario
inferire a priori, da determinati comportamenti (ad esempio, dal fatto
che uno solo abbia proposto impugnazione), l’intenzione
dell’interessato di utilizzare un solo difensore.
Né in senso opposto a questa conclusione vale richiamare le
peculiarità del procedimento di riesame e le esigenze di celerità ad
esso sottese, in quanto non si vede, dovendo i due avvisi ai difensori
marciare in parallelo e non consecutivamente, quale intralcio possa
portare lo spedirne contemporaneamente due invece di uno.
A sostegno della tesi accolta, la Corte ha, inoltre, invocato il
disposto dell’allora vigente art. 486, comma 5, c.p.p., ora trasposto
nel comma 5 dell’art. 420-ter c.p.p.; tale disposizione, nel prevedere
che il giudice debba sospendere o rinviare anche di ufficio il
(
100) Sez. Un., 25 giugno - 16 luglio 1997, n. 16, Gattellaro, in C.E.D.
Cass., n. 208163.
L’UDIENZA CAMERALE 83
dibattimento nel caso di assenza del difensore quando la stessa sia
dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo
impedimento purché prontamente comunicato, precisa che tale
norma non si applica se l’imputato è assistito da due difensori e
l’impedimento riguarda uno dei medesimi, ovvero quando il
difensore impedito ha designato un sostituto o quando l’imputato
chiede che si proceda in assenza del difensore impedito. Ebbene, ad
avviso dei giudici di legittimità, appare di tutta evidenza che la
regola da ultimo enunciata rappresenta una eccezione al sistema
secondo cui l’imputato o l’indagato hanno diritto ad essere
effettivamente assistiti da due difensori di fiducia ed il fatto che, per
giustificare tale deroga, il legislatore abbia dovuto emanare una
specifica norma dimostra inequivocabilmente che in ogni caso
diverso debba essere integralmente rispettato il diritto del prevenuto
ad essere difeso da entrambi i difensori nominati.
Alla stregua di questi argomenti, il Supremo Collegio ha
risolto il contrasto giurisprudenziale sottoposto alla sua attenzione
nel senso che, «in caso di assistenza dell’indagato da parte di due
difensori, l’avviso della data di udienza fissata per la discussione
dell’istanza di riesame va dato ad entrambi, anche quando l’istanza
sia stata presentata da uno solo di essi; l’omissione di siffatto
adempimento determina una nullità a regime intermedio» (101
).
(
101) Sez. Un., 27 giugno - 11 settembre 2001, n. 33540, Di Sarno, in
C.E.D. Cass., n. 219229. Sulle modalità per rilevare la nullità, la giurisprudenza
più recente ha chiarito che quando l’indagato è assistito da due difensori,
l’omissione dell’avviso della data dell'udienza camerale ad uno dei due difensori
dà luogo ad una nullità di ordine generale, a regime intermedio, sanabile quando
l’indagato o l’altro difensore siano presenti all’udienza ed omettano di dedurre la
relativa eccezione entro i termini fissati dall’art. 182 comma 2 c.p.p., e ciò anche se
il difensore non sia a conoscenza della situazione di co-difesa, in quanto l’indagato
presente è in ogni momento in condizione di comunicare la circostanza della
nomina di un secondo difensore al proprio difensore di fiducia, mettendolo in
grado di sollevare nei termini l'eccezione di nullità. Così Cass., Sez. VI, 10
novembre 2005, n. 42799, in C.E.D. Cass., n. 232757.
CAPITOLO TERZO 84
La Corte ha, inoltre, precisato, sulla scia di precedenti
decisioni rese nella medesima composizione (102
), che
l’annullamento dell’ordinanza in sede di legittimità, per mancato
avviso della data dell’udienza da uno dei difensori, non comporta la
caducazione della misura cautelare, sempre che la decisione,
ancorché nulla, sia stata resa nei dieci giorni prescritti dal comma 9
dell’art. 309 c.p.p.
La soluzione ermeneutica sposata dalle Sezioni unite in
merito alla necessità che l’avviso dell’udienza sia sempre notificato
ad entrambi i difensori — soluzione seguita in maniera costante dalla
successiva giurisprudenza di legittimità (103
) — è stata sottoposta a
critica da una parte della dottrina (104
), che ha evidenziato come essa
comporta, da un lato, un maggior dispendio di tempo e di energie
dell’ufficio, in contrasto con la necessità di celerità del rito, e,
dall’altro, non appare indispensabile al fine di assicurare piena
assistenza e difesa all’interessato, atteso che il secondo difensore
dovrebbe essere informato dal codifensore della pendenza della
procedura di gravame e ha piena facoltà di partecipare all’udienza
camerale.
Tuttavia, queste considerazioni sembrano, in ogni caso,
fondarsi su una interpretazione eccessivamente restrittiva della lettera
del comma 8 dell’art. 309 c.p.p., laddove questa disposizione non fa
alcun riferimento, neppure implicito, al difensore che ha proposto
l’istanza di gravame, ma, prescrivendo che l’avviso debba essere
notificato all’imputato ed al «suo» difensore, mira chiaramente ad
assicurare che l’interessato sia assistito nell’udienza di riesame dal
difensore o dai difensori che, in forza dell’art. 96 c.p.p., abbia
regolarmente nominato.
(
102) Sez. Un., 12 febbraio - 6 maggio 1993, n. 2, Piccioni, infra § 9; Id.,
22 novembre 1995 - 7 marzo 1996, n. 40, Carlutti, infra § 4; Id., 17 aprile - 3 luglio
1996, n. 6, Pagnozzi, infra § 9.
(103
) Cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI, 10 novembre 2005, Kartelov, in
C.E.D. Cass., n. 232757.
(104
) Cfr. BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al
Tribunale del riesame, cit., p. 216.
L’UDIENZA CAMERALE 85
2. La rinnovazione dell’avviso nell’ipotesi di inosservanza
del termine dilatorio di tre giorni. — La seconda problematica di
cui sono state investite le Sezioni unite è inerente all’individuazione
della disciplina da applicarsi nel caso in cui, a fronte della
inosservanza del termine di tre giorni liberi e consecutivi — che
secondo il dettato degli artt. 309, comma 8, e 324, comma 6, c.p.p.
deve intercorrere tra la data dell’udienza per il riesame e la
comunicazione o la notifica del relativo avviso —, la parte compaia e
dichiari di essere intervenuta al solo fine di eccepire l’irritualità della
notificazione o della comunicazione (105
).
La Corte, inquadrata la violazione del termine dilatorio di tre
giorni tra le nullità di ordine generale a regime intermedio ai sensi
degli artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p., soggetta come tale alle preclusioni
ed alle sanatorie contemplate dal codice, ha focalizzato la sua
attenzione sulla controversa questione relativa al se la mancata
osservanza dell’intervallo postulato dagli artt. 309, comma 8, e 324,
comma 6, c.p.p. possa o meno essere sanata accordando alla parte,
comparsa al fine di eccepirla, un termine a difesa che, sommato al
precedente, renda lo spazio temporale complessivo conforme a
quello minimo di tre giorni richiesto dalla legge.
Una parte della giurisprudenza aveva dato risposta positiva a
questo interrogativo, evidenziando che la regola stabilita dall’art. 184
comma 2 c.p.p., che garantisce quantomeno cinque giorni, deve
essere adattata alla procedura del riesame, la quale è caratterizzata da
termini brevissimi sia per la notifica dell’avviso, sia per la decisione
ad opera del tribunale, altrimenti il risultato sarebbe quello di
frustrare — nell’impossibilità, che quasi sempre si verificherebbe,
per il giudice di merito, di emanare una decisione tempestiva —
proprio la finalità cui è indirizzata la sanatoria (106
). Si era, altresì,
(
105) Per un approfondimento della questione v. BASSI-EPIDEMIO, Guida
alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 236; RICCI, Sulla nullità
della notifica al difensore dell’avviso dell’udienza di riesame, in Giur. it., 1997, II,
c. 586.
(106
) Cfr. Cass., Sez. VI, 5 giugno 2000, Bonalumi, in C.E.D. Cass., n.
217537; Id., Sez. II, 24 ottobre 1996, Comberiati, ivi, n. 206420; Id., Sez. I, 24
ottobre 1996, Iamonte, ivi, n. 206189; Id., Sez. I, 23 settembre 1996, Di Martino,
ivi, n. 205752.
CAPITOLO TERZO 86
sostenuto che la comparizione del difensore sana il vizio inerente al
mancato rispetto dei tre giorni richiesti dall’art. 309, comma 8, c.p.p.,
dovendo essere concesso alla parte interessata un termine che il
giudice determina di volta in volta, contestualmente valutando le
esigenze difensive e quelle processuali (107
).
Altro orientamento, invece, pur riconoscendo la necessità di
adeguare la previsione dell’art. 184, comma 2, c.p.p. alle peculiarità
del procedimento del riesame, aveva affermato che il termine a difesa
non può essere inferiore ai tre giorni, trattandosi di termine autonomo
e non essendo utilizzabile quello contenuto in un atto nullo (108
).
Le Sezioni unite hanno disatteso entrambi questi indirizzi
interpretativi, considerando inapplicabile, al procedimento di
riesame, il disposto di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 184.
Anzitutto, ad avviso dei giudici del Supremo Collegio, la
prima soluzione proposta risulta priva di qualsiasi aggancio
normativo ed introduce un criterio, quello dell’integrazione del
termine, in contrasto con l’intento legislativo; infatti, l’art. 184,
comma 2, c.p.p., fissando autonomamente il termine di cinque giorni,
non si preoccupa che esso, unito ai giorni già decorsi, possa essere
superiore od inferiore a quello originario; a sua volta, il comma 3 del
medesimo articolo, nel rimandare al termine inizialmente disposto,
evidenzia la volontà di non considerare, in tema di sanatoria, i giorni
irritualmente concessi.
Neppure potrebbe farsi riferimento, nell’ottica del secondo
orientamento minoritario, al metodo di determinazione del termine
cui si ispira il citato terzo comma dell’art. 184 c.p.p. che, in realtà,
riguarda un’ipotesi ben precisa e diversa, cioè la citazione per il
dibattimento, alla quale non può certamente assimilarsi l’avviso per
l’udienza camerale.
Invero, l’argomentazione fondamentale, dalla quale ha preso
avvio la disamina della questione ad opera delle Sezione unite, è
quella di considerare la sanatoria di una nullità, in presenza e
(
107) Cass., Sez. I, 3 febbraio 1993, Di Marco, in C.E.D. Cass., n.
193393; Id., Sez. I, 13 ottobre 1992, Marlogio, ivi, n. 195098.
(108
) Cass., Sez. VI, 26 maggio 1992, Quency, in C.E.D. Cass., n.
192328; Id., Sez. I, 30 aprile 1992, Cuomo, ivi, n. 190391.
L’UDIENZA CAMERALE 87
nonostante tempestiva eccezione, come una deroga al principio
generale, ricavabile dal nostro sistema in tema di invalidità, del
diritto della parte ad ottenere la ripetizione dell’atto con modalità
immuni dal vizio denunciato; pertanto, le regole particolari, che
prevedono forme specifiche di sanatoria, non possono essere estese
in forma generalizzata, al di là della specifica previsione normativa.
Per tale via, rilevando l’incompatibilità del termine di cui
all’art. 184, comma 2, c.p.p. con il procedimento del riesame, in
quanto sarebbe irragionevole la concessione di un lasso di tempo
superiore a quello originario di giorni tre, il Supremo Collegio ha
escluso che la disciplina dei commi 2 e 3 dell’art. 184 c.p.p. possa
riguardare il procedimento per il riesame, con la conseguenza che,
nell’ambito di quest’ultimo, la nullità della notifica dell’avviso per
l’udienza camerale, se determinata dal mancato rispetto del termine
di cui agli artt. 309, comma 8, e 324, comma 6, c.p.p. e se
validamente eccepita, non è suscettibile di sanatoria; in questo caso,
il giudice non può far altro che provvedere, ex art. 185 c.p.p., alla
rinnovazione dell’atto nullo, così garantendo sempre il rispetto del
termine dei tre giorni liberi e consecutivi.
Né vale obiettare, ad avviso dei giudici di legittimità, che una
simile conclusione potrebbe compromettere la tempestiva emissione
della decisone sul riesame nel termine previsto dal comma 9 dell’art.
309, con la conseguente caducazione della misura ai sensi del comma
10 del medesimo articolo; l’eventuale inefficacia della misura,
infatti, è posta a tutela del soggetto da essa colpito e non può essere,
pertanto, impedita interpretando a scapito del medesimo la normativa
che assicura non solo la sua comparizione all’udienza del riesame,
ma anche, e soprattutto, la possibilità concreta dell’esercizio al diritto
di difesa.
La Corte ha, pertanto, enunciato il seguente principio di
diritto: «Escluso che la disciplina dei commi 2 e 3 dell’art. 184 c.p.p.
possa riguardare il procedimento per il riesame, deve ritenersi che
nell’ambito di quest’ultimo la nullità della notifica dell’avviso per
l’udienza camerale, se determinata dal mancato rispetto del termine
di cui agli art. 324, comma 8, e 309, comma 6, c.p.p. e se
validamente eccepita, non sia suscettibile di sanatoria:
CAPITOLO TERZO 88
conseguentemente il giudice è tenuto a provvedere, ex art. 185 c.p.p.,
alla rinnovazione dell'atto nullo, così garantendo sempre il rispetto
del termine dei tre giorni liberi e consecutivi» (109
).
Questa soluzione ermeneutica — che si presenta
sistematicamente corretta — è stata seguita dalla successiva,
prevalente giurisprudenza (110
), anche se non sono mancate prese di
posizioni difformi, tese a riconoscere che, qualora l’avviso sia stato
rinnovato per mancato rispetto del termine dilatorio di tre giorni,
debbano essere considerati, ai fini del computo del nuovo termine,
anche i giorni che separano la data dell’udienza e l’avviso originario,
in quanto corrisponde all’assetto dei termini del procedimento del
riesame, caratterizzati da una estrema brevità, valorizzare l’effetto
sostanziale che tale avviso ha avuto sulla preparazione del ricorrente
a sostenere le sue ragioni davanti al giudice del riesame (111
).
3. Il diritto dell’interessato ad estrarre copia degli atti. —
Nella formulazione originaria, l’art. 309, comma 8, ultima parte,
c.p.p. prevedeva che gli atti trasmessi restassero depositati fino al
giorno dell’udienza.
Se non vi erano dubbi sulla facoltà dell’istante e del suo
difensore di esaminare la documentazione trasmessa dall’autorità
procedente, era, invece, discusso se ad essi spettasse anche il diritto
ad ottenere il rilascio di copia degli atti (112
).
Le Sezioni unite avevano risolto il contrasto giurisprudenziale
manifestatosi sul punto, affermando che «nelle procedure ex artt.
(109
) Sez. Un., 30 gennaio - 7 marzo 2002, n. 8881, Munerato, in C.E.D.
Cass., n. 220841.
(110
) Cass., Sez. II, 10 dicembre 2003, Giovino, in C.E.D. Cass., n.
227801; Id., Sez. II, 12 novembre 2003, Bertolini, ivi, n. 226982; Id., Sez. II, 3
luglio 2003, Improta, ivi, n. 226447.
(111
) Così Cass., Sez. VI, 28 marzo 2003, Giordano, in C.E.D. Cass., n.
225915.
(112
) In dottrina, DINACCI, Incostituzionale l’orientamento riduttivo delle
sezioni unite sul diritto alla copia degli atti nei controlli de libertate, in Giur. it.,
1995, II, c. 600; FABBRI, Il diritto al rilascio di copia degli atti depositati nel
giudizio di riesame fra la giurisprudenza delle sezioni unite e le modifiche
normative, in Cass. pen., 1995, p. 2488.
L’UDIENZA CAMERALE 89
309 e 310 c.p.p. non sussiste un diritto della parte interessata ad
ottenere de plano copia degli atti di indagine» (113
).
Secondo i giudici del Supremo Collegio, i diritti della difesa
risultano, comunque, tutelati adeguatamente dalla possibilità di
esaminare gli atti depositati in cancelleria e, quindi, di estrarne copia
informale, mentre il riconoscimento di un diritto in senso tecnico ad
ottenere copia degli atti del procedimento, oltre ad essere escluso
dalla lettera della legge, urterebbe contro lo stesso interesse
dell’indagato ad una rapida decisione in ordine al suo status
libertatis.
Questa decisione era stata criticata da una parte della dottrina,
che aveva evidenziato come essa finisse per ledere la parità tra le
parti del procedimento, quanto a contenuto ed estensione del diritto
alla conoscenza degli atti, e a fortiori il diritto di difesa
dell’interessato.
L’art. 16 della l. 8 agosto 1995, n. 332, ha, però, capovolto la
soluzione esegetica accolta dalla prevalente giurisprudenza,
prevedendo espressamente, al comma 8 dell’art. 309, la facoltà per il
difensore di esaminare gli atti depositati in cancelleria e di estrarne
copia.
La Corte di cassazione ha, tuttavia, chiarito che la facoltà del
difensore di esaminare gli atti depositati in cancelleria e di estrarne
copia deve necessariamente coniugarsi con le esigenze di rapidità e
snellezza della procedura, derivanti dalla brevità del termine (fissato
in tre giorni) previsto per la notifica degli avvisi e dalla natura
perentoria di quello (fissato in dieci giorni) stabilito per la decisione,
termine, peraltro, insuscettibile di sospensione o di interruzione; ne
consegue che, quando le operazioni di formazione e rilascio delle
copie possono determinare ritardo, comportando il probabile
mancato rispetto dei termini predetti, il difensore non può pretendere,
né l’autorità giudiziaria può concedere, dilazioni, qualora risulti
impossibile procedere per tempo alla copia di tutti gli atti
richiesti (114
).
(
113) Sez. Un., 3 febbraio - 14 aprile 1995, n. 4, Sciancalepore, in C.E.D.
Cass., n. 200711.
(114
) Cass., Sez. V, 20 marzo 2001, Mion, in C.E.D. Cass., n. 218787.
CAPITOLO TERZO 90
4. La traduzione del detenuto all’udienza camerale. — Ai
sensi del comma 8 dell’art. 309 c.p.p., il procedimento davanti al
tribunale del riesame si svolge in camera di consiglio nelle forme
previste dall’art. 127 c.p.p. Il comma 3 di quest’ultima disposizione
riconosce all’interessato il diritto ad essere sentito se compare e, nel
caso in cui sia detenuto o internato in luogo posto fuori della
circoscrizione del giudice e ne faccia richiesta, il diritto ad essere
sentito personalmente, prima del giorno dell’udienza, dal magistrato
di sorveglianza del luogo.
Tale previsione, applicata al giudizio di riesame, ha dato
luogo a non poche difficoltà interpretative, principalmente con
riferimento alla portata ed alle conseguenze della violazione del
diritto del detenuto ad essere tradotto all’udienza camerale.
La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite attiene,
più precisamente, alla problematica delle conseguenze derivanti dalla
mancata partecipazione all’udienza camerale di riesame dell’indagato
o imputato che ne abbia fatto espressa richiesta ai sensi dell’art. 127,
comma 3, c.p.p.; in particolare, in giurisprudenza si è manifestato un
contrasto interpretativo sulla qualificazione della invalidità derivante
dalla mancata traduzione del detenuto quale nullità assoluta,
rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ovvero
quale nullità a regime intermedio, assoggettata alla disciplina di cui
agli artt. 180 e 182 c.p.p. (115
).
(
115) In dottrina v. BORDIERI, La garanzia del diritto dell’imputato alla
partecipazione all’udienza di riesame anche mediante videoconferenza, in Cass.
pen., 2003, p. 3131; DELLA MARRA, Sulla partecipazione dell’imputato detenuto
all’udienza di riesame, in Giur. it., 1992, II, c. 724; DI CHIARA, Procedimento di
riesame e autodifese dell’interessato in vinculis: note a margine di un indirizzo
innovativo, in Gazz. giur., 1997, p. 22; MAMBRUCCHI, Rispetto del diritto di difesa
e alchimie interpretative sull’efficacia della decisione invalida, in Riv. it. dir. e
proc. pen., 1996, p. 1183; PAZIENZA, osservazioni a Cass., Sez. un., 22 novembre
1995, Carlutti, in Cass. pen., 1996, p. 2129; RUGGIERO, La videoconferenza
nell’udienza camerale di riesame, in Cass. pen., 2003, p. 3140; TRIGGIANI, Sul
diritto dell’imputato detenuto (o internato) a partecipare all’udienza di riesame, in
Cass. pen., 1994, p. 3053.
L’UDIENZA CAMERALE 91
Mentre, infatti, alcune pronunce hanno affermato il carattere
assoluto ed insanabile, ai sensi dell’art. 179 c.p.p., della nullità della
procedura camerale ex art. 309 c.p.p., svoltasi in assenza
dell’indagato che aveva chiesto di essere sentito (116
), altre hanno
optato per l’inquadramento di detta nullità tra quelle di tipo
intermedio, disciplinate dagli artt. 178 lett. c), 180 e 182 c.p.p. (117
).
La tematica si pone negli stessi termini sia se l’interessato è
detenuto nell’ambito della circoscrizione del tribunale del riesame,
sia se è detenuto al di fuori. Ed infatti, nonostante il comma 3
dell’art. 127 c.p.p., applicabile in forza del rinvio effettuato dal
comma 8 dell’art. 309, stabilisca che il detenuto o internato al di
fuori della circoscrizione del tribunale debba essere sentito il giorno
prima dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, la Corte
costituzionale ha interpretato questa disposizione nel senso che essa
non esclude la comparizione personale dell’interessato se questi ne
abbia fatto richiesta oppure se il giudice lo ritenga ex officio
opportuno (118
). La relativa omissione viene a porsi, pertanto, sotto il
profilo della patologia processuale, sullo stesso piano di quella che si
verifica in caso di omessa traduzione del detenuto ristretto
nell’ambito territoriale del tribunale.
La mancata traduzione all’udienza del detenuto che ne abbia
fatto richiesta è espressamente sanzionata con una nullità dal quinto
comma dell’art. 127 c.p.p. Si tratta, tuttavia, di stabilire se questa
nullità sia inquadrabile come nullità assoluta o debba essere
considerata una nullità a regime intermedio.
Le Sezioni unite hanno sposato la prima tesi, affermando che
«la mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita,
dell’imputato, indagato o condannato che ne abbia fatto richiesta,
all’udienza di riesame determina la nullità assoluta e insanabile, a
norma dell’art. 179 c.p.p., dell’udienza camerale e della successiva
(
116) Cass., Sez. VI, 1° giugno 1993, Rossi, in C.E.D. Cass., n. 194939;
Id., Sez. VI, 6 maggio 1993, Portaro, ivi, n. 194930; Id., Sez. VI, 30 aprile 1992,
Caterino ed altri, ivi, n. 192306; Id., Sez. V, 5 settembre 1991, Cusimano, ivi, n.
188350.
(117
) Cass., Sez. V, 16 marzo 1994, Piras, in C.E.D. Cass., n. 198001;
Id., Sez. I, 12 maggio, Di Giacomo, ivi, n. 195417.
(118
) Corte cost., 31 gennaio 1991, n. 45, in Cass. pen., 1991, II, p. 417.
CAPITOLO TERZO 92
pronuncia del tribunale sull’istanza di riesame. Infatti, la citazione
dell’imputato, dell’indagato o del condannato — detenuto
nell’ambito o al di fuori della circoscrizione del tribunale — realizza
un’unica fattispecie complessa, costituita dall’avviso, dalla
dichiarazione di volontà dell’interessato detenuto di comparire e
dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi, per il
rapporto di stretta consequenzialità che li caratterizza, in una
visione unitaria dello scopo loro proprio, la vocatio in iudicium per
la valida instaurazione del contraddittorio» (119
).
La Corte, nell’argomentare questa conclusione, ha rilevato
che, nell’ipotesi di imputato, indagato o condannato detenuto, la cui
partecipazione all’udienza camerale è subordinata ad una sua
positiva manifestazione di volontà in tal senso — esprimibile anche
nel caso di detenzione fuori della circoscrizione del giudice —,
l’ordine di traduzione e la sua esecuzione costituiscono, insieme con
l’avviso dell’udienza camerale e la sua notificazione, atti indefettibili
della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio.
Senza di essi, infatti, l’avviso non può svolgere in concreto l’unica
funzione che gli è propria, quella della vocatio in iudicium, che può
definirsi tale solo in quanto rivolta a chi ad essa sia in grado di
rispondere.
Così ricostruita, la citazione dell’imputato, dell’indagato o del
condannato realizza un’unica fattispecie complessa, costituita
dall’avviso, dalla dichiarazione di volontà dell’interessato detenuto
di comparire e dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi,
per il rapporto di stretta consequenzialità che li caratterizza, in una
visione unitaria in funzione dello scopo loro proprio, la vocatio in
iudicium per la valida instaurazione del contraddittorio.
La traduzione del detenuto, dunque, si pone quale elemento
cardine di una fattispecie composita costituente la vocatio in
iudicium dell’indagato o imputato, rappresentando un momento
fondamentale ai fini dell’esercizio, da parte dell’interessato, del
diritto di difesa.
(
119) Sez. Un., 22 novembre 1995 - 7 marzo 1996, n. 40, Carlutti, in
C.E.D. Cass., n. 203771.
L’UDIENZA CAMERALE 93
Occorre, peraltro, evidenziare come la particolare struttura
del giudizio di riesame, con la deroga al principio devolutivo proprio
delle impugnazioni, connoti di spiccato rilievo la presenza
all’udienza camerale dell’indagato. La richiesta di riesame, sia essa
dell’indagato o del difensore, può essere immotivata ed i motivi
possono essere formulati dall’interessato direttamente in udienza,
anche quando la richiesta sia del difensore.
L’indagato, inoltre, quando ha proposto istanza motivata, può
prospettare motivi nuovi all’udienza dinanzi al tribunale; da parte
sua, il tribunale può annullare il provvedimento impugnato o
riformarlo in senso favorevole all’interessato anche per motivi
diversi da quelli enunciati.
Attraverso queste considerazioni, il Supremo Collegio,
ponendo l’accento sia sulla natura di fattispecie complessa da
attribuire alla citazione dell’imputato o dell’indagato nella procedura
di riesame, sia sul carattere essenziale della sua presenza all’udienza,
è pervenuto alla conclusione che, nel giudizio di riesame, la mancata
traduzione, perché non disposta o non eseguita, determina la nullità
assoluta ed insanabile ex art. 179 c.p.p. dell’udienza camerale e della
successiva pronuncia del tribunale sull’istanza di riesame.
Così facendo, le Sezioni unite hanno ritenuto che il momento
della traduzione del detenuto all’udienza camerale attenga non
semplicemente all’intervento in udienza dell’indagato o imputato,
quanto piuttosto alla sua citazione, con la conseguenza che l’omessa
traduzione integra la nullità assoluta prevista dall’art. 179 c.p.p.
La soluzione fatta propria dalla sentenza in commento si
presenta come l’unica in grado di salvaguardare appieno le istanze
garantistiche sottese all’istituto del riesame (120
).
(
120) V., più di recente, Cass., Sez. V, 27 settembre 2006, Sciascia, in
C.E.D. Cass., n. 235284, in cui si afferma che nel procedimento camerale di
riesame il tribunale è tenuto ad assicurare la presenza dinanzi a sé dell'imputato o
indagato che ne abbia fatto richiesta, anche se questi sia detenuto fuori della
circoscrizione del tribunale stesso, in ragione della peculiare struttura del giudizio
di riesame che consente la proposizione dei motivi di impugnazione anche per la
prima volta in udienza o comunque la presentazione di motivi nuovi. La mancata
traduzione dà luogo a nullità assoluta e insanabile, ex art. 179 c.p.p., della udienza
CAPITOLO TERZO 94
Appare di estremo rilievo, innanzitutto, la valorizzazione, da
parte delle Sezioni unite, delle citate affermazioni della Corte
costituzionale con riguardo alla sussistenza — per l’indagato
detenuto fuori dalla circoscrizione del tribunale — di un vero e
proprio diritto soggettivo ad essere ascoltato dal giudice investito
della decisione sull’istanza di riesame. In effetti, se soltanto il
contatto diretto ed orale con l’organo giudicante sprigiona
impressioni e fattori di convincimento non sostituibili, è evidente il
pregiudizio che subisce chi viene ascoltato da un giudice non
naturale, prima ed al di fuori dell’udienza camerale, senza avere la
possibilità di instaurare un contatto immediato con l’organo chiamato
a decidere.
La più recente giurisprudenza di legittimità tende a
riconoscere che il tribunale del riesame è tenuto ad assicurare —
eventualmente anche attraverso le modalità della videoconferenza —
la presenza dinanzi a sé dell’imputato o indagato che ne abbia fatto
richiesta, anche se questi sia detenuto fuori della circoscrizione del
tribunale stesso, in ragione della peculiare struttura del giudizio di
riesame che consente la proposizione dei motivi di impugnazione
anche per la prima volta in udienza o, comunque, la presentazione di
motivi nuovi (121
).
Meritevole di consenso è anche la configurazione come
assoluta della nullità derivante dall’omessa traduzione del detenuto.
Per un verso, la Corte non è caduta nell’equivoco di esasperare
l’aspetto nominalistico del dettato dell’art. 179 c.p.p., considerando
operante la nullità per «omessa citazione dell’imputato» anche nei
procedimenti camerali, nella consapevolezza che il medesimo rigore
sanzionatorio debba presidiare tutte quelle sedi in cui l’indefettibilità
del contraddittorio necessita di una concreta protezione. Per altro
verso, ha correttamente inquadrato il momento della traduzione
camerale e della successiva pronuncia del tribunale, senza tuttavia che perda
efficacia la misura coercitiva disposta.
(121
) Cass., Sez. Fer., 30 agosto 2005, Gentile, in C.E.D. Cass., n.
232224; Id., Sez. V, 11 maggio 2004, Barbaro, ivi, n. 229653; Id., Sez. I, 16 aprile
2004, Assinnata, ivi, n. 228909; Id., Sez. II, 6 novembre 2002, Bello, ivi, n.
223357; Id., Sez. I, 14 novembre 2001, Schiavone, ivi, n. 220338.
L’UDIENZA CAMERALE 95
nell’ambito della fattispecie complessa «citazione»: non si può
immaginare di citare un soggetto ed invitarlo ad invocare il proprio
intervento, per poi frustrarne la legittima volontà di partecipazione
attraverso la preclusione alla materiale possibilità di accesso.
5. L’omessa indicazione nell’avviso di udienza del diritto
del detenuto alla traduzione davanti al magistrato di
sorveglianza o al giudice del riesame. — Le Sezioni unite,
intervenendo a dirimere un contrasto giurisprudenziale in materia di
utilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboranti non documentate
integralmente con mezzi di riproduzione fonografica e/o audiovisiva,
hanno avuto modo di chiarire che, fermo il diritto del detenuto alla
traduzione, su sua esplicita richiesta, per essere sentito davanti al
giudice di sorveglianza o a quello del riesame, «l’indicazione di tale
diritto nell’avviso di udienza non è prevista da nessuna norma, né la
sua omissione può integrare una nullità stante il principio di
tassatività delle stesse che devono, peraltro, concernere
l’inosservanza di disposizioni espressamente stabilite per gli atti del
procedimento ex art. 177 c.p.p.» (122
).
Il Supremo Collegio ha, inoltre, considerato manifestamente
infondata l’eccezione di incostituzionalità del comma 8 dell’art. 309
c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non
prevede come obbligatoria, a pena di nullità, la comunicazione o
informazione all’indagato detenuto che egli, ricevuto l’avviso della
data fissata per l’udienza camerale, sia tenuto ad avanzare espressa
richiesta, qualora lo reputi opportuno, per essere tradotto davanti al
giudice del riesame o di sorveglianza per esporre le sue difese, per la
disparità di trattamento che la norma porrebbe in essere tra
«ignoranti e non ignoranti» della disposizione medesima.
I giudici di legittimità hanno precisato, al riguardo, che una
norma emanata nei modi di legge è applicabile a tutti coloro che ne
sono destinatari, prescindendosi dall’informazione del singolo
sull’esistenza ed il tenore di essa. Ciò che assume rilevanza è la
possibilità, offerta a chiunque, di avere la conoscenza precisa della
(
122) Sez. Un., 25 marzo - 30 giugno 1998, n. 9, D’Abramo, in C.E.D.
Cass., n. 210799-210800.
CAPITOLO TERZO 96
norma, assicurata la quale ogni errore derivante da violazione degli
obblighi di informazione giuridica che sono alla base di ogni
convivenza civile risulta inescusabile.
E poiché, di fronte alla norma, tutti i consociati si trovano
nella medesima condizione, lo stato di ignoranza o di conoscenza da
parte del singolo non è differenza di cui l’ordinamento debba farsi
carico con l’onere di suppletive indicazioni.
In tal modo, la Suprema Corte ha applicato correttamente sia
il principio codicistico di tassatività delle cause di nullità, sia il
principio, coessenziale ad ogni società civile, dell’irrilevanza per
l’ordinamento giuridico dell’errore inescusabile di diritto.
6. La decorrenza del termine di dieci giorni per la
decisione. — La decisione del tribunale del riesame deve intervenire
entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, pena la
perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva della misura
coercitiva (123
).
Le Sezioni unite sono state chiamate in più occasioni a
dirimere i contrasti interpretativi cui la disciplina dettata sul punto
dall’art. 309, commi 9 e 10, c.p.p. ha dato luogo.
Il primo intervento del Supremo Collegio ha interessato una
questione che non è più attuale a seguito delle modifiche apportate al
comma 5 ed al comma 10 dell’art. 309 c.p.p. dall’art. 16 l. 8 agosto
1995, n. 332.
Nell’ipotesi di invio frazionato degli atti presentati a norma
dell’art. 291, comma 1, c.p.p., si era posto il problema
dell’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la
decisione, questione risolta, dal Supremo Collegio, nel senso che tale
termine «inizia a decorrere dal momento in cui si perfeziona l’arrivo
in tribunale di tutti gli atti — e non solo di parte di essi — a suo
tempo presentati dal magistrato del pubblico ministero al giudice per
le indagini preliminari a sostegno della misura cautelare a norma
(
123) Si veda, per le problematiche sottese al tema, VALENTINI REUTER,
Il rispetto dei termini delle decisioni de libertate, cit., loc. cit.
L’UDIENZA CAMERALE 97
dell’art. 291 comma 1 c.p.p., nonché degli altri atti in connessione
essenziale con quelli» (124
).
Da questa conclusione, altra pronuncia delle Sezioni unite
aveva successivamente tratto un’ulteriore conseguenza, nel senso che
il tribunale del riesame, nel caso in cui non gli siano stati trasmessi
tutti gli atti presentati dal giudice per le indagini preliminari a norma
dell’art. 291 c.p.p., può richiedere, con provvedimento interlocutorio,
gli atti mancanti ed in tale ipotesi il termine previsto dall’art. 309
comma 9 c.p.p. decorre dal momento della ricezione degli ulteriori
atti richiesti (125
).
È chiaro che, con l’introduzione, ad opera della novella del
1995, del termine perentorio di cinque giorni, per la trasmissione
degli atti, un potere del tribunale del riesame di integrare la
documentazione mancante non è più ipotizzabile, in quanto, qualora
nel termine non vengano trasmessi tutti gli atti indicati nel comma 5
dell’art. 309 c.p.p., si determina la perenzione della misura ai sensi
del comma 10 della medesima disposizione.
Ne consegue — come ha avuto modo di precisare, in obiter
dictum, una successiva sentenza delle Sezioni unite (126
) — che, per
effetto della citata modifica legislativa, è venuta meno l’ipotesi di
slittamento del dies a quo del termine per la decisione del riesame,
nel caso di ricezione frazionata degli atti, essendo prevista la
caducazione dell’ordinanza custodiale ove non vengano trasmessi,
nel termine di cinque giorni, tutti gli atti a suo tempo presentati al
giudice che ha emesso il provvedimento coercitivo.
È, per altro verso, conclusione pacifica in giurisprudenza
quella in virtù della quale il termine di dieci giorni, previsto dall’art.
309 comma 9 c.p.p., decorre dalla data di ricezione degli atti e non da
(
124) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, in C.E.D.
Cass., n. 194309.
(125
) Sez. Un., 5 - 21 luglio 1995, n. 25, Parlati, supra, cap. II, § 1.
(126
) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.
Schillaci, supra, cap. II, § 4; nello stesso senso, Sez. Un., 27 marzo 1996 - 31
maggio 1996, n. 3, p.m. in proc. Monteleone ed altro, supra, cap. II, § 5.
CAPITOLO TERZO 98
altri atti, come l’emissione del decreto che fissa l’udienza in camera
di consiglio per la trattazione dell’istanza di riesame (127
).
Continua ad essere attuale, invece, il principio, enunciato
dalla sentenza in esame, relativo all’individuazione del dies a quo
con riferimento all’ipotesi di ricorsi attivati separatamente da più
coindagati nello stesso procedimento principale: «Nel caso in cui più
coindagati raggiunti da provvedimenti applicativi di misure
coercitive abbiano avanzato richieste di riesame in tempi diversi,
l’arrivo in tribunale degli atti relativi ai primi richiedenti, ancorché
comprensivi pure di quelli concernenti gli altri, non vale a far
decorrere anche nei riguardi di questi ultimi il termine fissato
dall’art. 309 comma 9 c.p.p. per la decisione del tribunale, essendo
necessario a tal fine che il tribunale riceva o gli atti specificamente
riguardanti costoro o notizia che tutti gli atti indispensabili al
riesame anche nei loro confronti siano già in suo possesso» (128
).
La regola, secondo cui, in tale eventualità, il termine per la
decisione non decorre dalla data di ricezione degli atti relativi alla
prima richiesta di riesame, bensì dalla data di ricezione da parte del
tribunale della nota del requirente nella quale si attesti che gli atti
sono stati già trasmessi al tribunale in occasione della prima richiesta
di riesame, ovvero dalla data in cui il tribunale riceva gli atti
specificamente inerenti alle posizioni dei richiedenti il riesame dopo
la prima istanza, qualora siano diversi o ulteriori, è confermata dalla
più recente giurisprudenza di legittimità (129
).
7. Il deposito del dispositivo nel decimo giorno dalla
ricezione degli atti per evitare la perenzione della misura. — Le
Sezioni unite, con due sentenze — la sentenza Moni del 1996 e la
sentenza Manno del 1998 —, sono state chiamate a pronunciarsi
sulla questione se sia necessario, perché la misura cautelare
confermata dal tribunale della libertà non perda efficacia, depositare,
(
127) Così, in obiter dictum, Sez. un., 26 settembre - 9 ottobre 2000, n.
26, Scarci e altri, in C.E.D. Cass., n. 216769.
(128
) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, cit.
(129
) Cfr. Cass., Sez. VI, 6 dicembre 2002, Papa, in C.E.D. Cass., n.
223558.
L’UDIENZA CAMERALE 99
entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, l’ordinanza
di conferma nella sua interezza o se il termine possa dirsi rispettato
quando, prima della sua scadenza, sia comunque intervenuta la
decisione e sia stato depositato il solo dispositivo (130
).
Sul tema si sono contrastate in giurisprudenza due
contrapposte linee interpretative che hanno attribuito rilevanza, ai
fini del rispetto del termine di dieci giorni, l’una, al deposito
dell’intero provvedimento, ritenendosi che soltanto con il deposito di
tutta l’ordinanza la decisione emessa in camera di consiglio acquista
rilevanza esterna (131
), e l’altra al deposito del solo dispositivo (132
).
Il Supremo Collegio, investito della questione, ha ritenuto,
con la sentenza su ricorso Moni, di dover far proprio quest’ultimo
orientamento, fondando la sua posizione sul combinato disposto
degli artt. 128 e 309, comma 10, c.p.p.
L’art. 128 c.p.p., occupandosi del deposito dei provvedimenti
del giudice emessi a seguito di procedimento in camera di consiglio,
enuncia la regola generale del distacco temporale tra la deliberazione
o la decisione ed il deposito del provvedimento, regola, peraltro, che
rappresenta una costante per le sentenze.
Il sostantivo «deliberazione» — secondo la Corte — è
sinonimo, nello stesso linguaggio del codice, di «decisione», sicché
prevedere, come fa l’art. 128 c.p.p., che i provvedimenti emessi in
(
130) In dottrina, per un’analisi della questione, v. BACCARI, Incertezze
interpretative circa il momento in cui “interviene” la decisione del tribunale del
riesame, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, p. 1396; BOIDO, Deposito frazionato
dell’ordinanza di riesame e rispetto del termine ex art. 309 comma 10 c.p.p., in
Giur. it., 1997, II, c. 185; BRICCHETTI, Ma i ritardi nella presentazione dei motivi
non cancellano la misura coercitiva, in Guida dir., 1998, n. 28, p. 71;
CONFALONIERI, Sul deposito differito della motivazione delle decisioni de libertate,
in Giur. it., 1997, II, c. 275; DIDDI, Decisione in camera di consiglio ed
integrazione della relativa fattispecie, in Giust. pen., 1996, III, c. 207; PEREGO,
Misure cautelari: deposito frazionato dell’ordinanza di riesame, motivazione per
relationem e condanna alle spese, in Foro ambr., 2000, p. 504; SPANGHER, Ritardo
nel deposito della motivazione da parte del tribunale del riesame: termini e
contenuto del ricorso, in Cass. pen., 1998, p. 1174.
(131
) Cass., Sez. II, 28 luglio 1994, Susi, in C.E.D. Cass., n. 199033.
(132
) Cfr. Cass., Sez. II, 25 maggio 1993, Guarneri, in C.E.D. Cass., n.
195384.
CAPITOLO TERZO 100
camera di consiglio debbono essere depositati entro i cinque giorni
dalla deliberazione equivale a dire che essi debbono essere depositati
entro cinque giorni dalla decisione.
Per altro verso, se è vero che «deliberazione» e «decisone»
sono sinonimi — indicando sia tutto l’iter di riflessione e di
discussione richiesto dai problemi di diritto processuale e sostanziale
propri della fattispecie all’esame del giudice, sia la conclusione di
questo iter —, è, altresì, innegabile che, nel linguaggio del codice, la
deliberazione è, ontologicamente, cosa diversa rispetto sia al
dispositivo, sia alla motivazione, che costituiscono la
materializzazione della decisione, assolutamente indispensabile per
proiettarla all’esterno.
La distinzione è presente proprio nella norma dell’art. 128
c.p.p., il quale parla di deliberazione e di deposito e, espressamente,
di dispositivo, prescrivendo che con l’avviso di deposito è notificato
anche quest’ultimo.
Da ciò discende non solo che la decisone è cosa diversa dal
dispositivo e dalla motivazione, ma che il dispositivo, sia nelle
sentenze, sia nelle ordinanze, previste dall’art. 128 c.p.p., costituisce
una realtà a sé stante, diversa e dalla decisione e dalla motivazione;
emerge, in altri termini, che il dispositivo esiste e ha la sua
autonomia anche in quelle ordinanze.
Questa ricostruzione, secondo la Suprema Corte, consente di
interpretare correttamente il disposto del comma 10 dell’art. 309
c.p.p., dal quale si desume inequivocabilmente che, entro il termine
di dieci giorni, deve, perentoriamente, deliberarsi, decidersi, il che
altro non può voler dire se non che la decisone deve essere, in quel
termine, immodificabile.
Anche se, per una qualsiasi ragione, il termine di dieci giorni
può rivelarsi insufficiente, il tribunale, entro questo termine, deve,
comunque, fare intervenire la decisione, farla apparire, pena la
perdita di efficacia della ordinanza che ha disposto la misura
coercitiva.
Consegue da ciò che l’espressione «se la decisione non
interviene nel termine prescritto», che si legge nell’articolo 309,
comma 10, c.p.p., sta a significare che il tribunale, se, ovviamente,
L’UDIENZA CAMERALE 101
può fare intervenire e rendere visibile, entro quel termine, la
decisione in entrambe le parti, del tutto autonome — dispositivo e
motivazione —, nelle quali la stessa si materializza, può anche
avvalersi della regola che gli permette di redigere la motivazione
entro cinque giorni, provvedendo, peraltro, entro il termine
perentorio di dieci giorni, alla decisione, cioè a decidere e, inoltre, a
rendere visibile il decisum con il deposito del dispositivo, che della
decisione è la sintesi.
Il primo effetto del deposito del solo dispositivo è rendere
certo agli interessati che, entro quel termine, la decisione è
intervenuta e che è intervenuta con un determinato, irreversibile
contenuto. Il secondo effetto è rendere possibili i provvedimenti
occorrenti, che, in tema di libertà, sono, per le ordinanze del
tribunale, la restituzione dell’indagato alla libertà o la sottoposizione
dello stesso ad una misura meno restrittiva, quale la misura degli
arresti domiciliari o quella del divieto di espatrio o del divieto e
obbligo di dimora.
Questa conclusione, ad avviso delle Sezioni unite, non
contrasta con l’esigenza, sottesa al disposto del comma 10 dell’art.
309, di ottenere in tempi brevi la decisione, in quanto quest’ultima è
resa visibile attraverso il deposito del dispositivo. Ove il giudice, poi,
non sia in grado di depositare immediatamente anche la motivazione
del provvedimento, deve, entro cinque giorni dalla decisione,
provvedere a quel deposito, essendo tenuto a ciò in forza dell’art. 128
c.p.p. e del dovere di rispettare tutte le norme processuali, anche
quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione
processuale, prescritto dall’art. 124 c.p.p.
Il principio di diritto, enunciato con la sentenza in esame, è il
seguente: «La disposizione di cui al comma 10 dell’art. 309 c.p.p.,
secondo la quale l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde
immediatamente efficacia se la decisione sulla richiesta di riesame
non interviene entro il termine prescritto, deve essere intesa nel
senso che è necessario e sufficiente, perché non si produca
l’automatico effetto caducatorio, che entro il decimo giorno dalla
ricezione degli atti il tribunale abbia deliberato in merito alla
richiesta medesima ed abbia, inoltre, provveduto al deposito del
CAPITOLO TERZO 102
dispositivo; mediante tale deposito, infatti, si rende certo, per gli
interessati, che la decisione — con quel determinato, irreversibile
contenuto — è intervenuta nel termine e si rende altresì possibile
l’adozione degli eventuali conseguenti provvedimenti; la motivazione
dell’ordinanza di riesame, viceversa, in applicazione della norma
generale sul procedimento camerale di cui all’art. 128 c.p.p., può
essere depositata, senza influenza alcuna sull’efficacia della misura,
nel termine ordinatorio — la cui osservanza è tuttavia doverosa per
il giudice ai sensi dell’art. 124 c.p.p. — dei cinque giorni successivi
alla deliberazione predetta» (133
).
La soluzione individuata dalla Sezioni unite è stata criticata
dalla prevalente dottrina (134
), la quale ha evidenziato,
principalmente, come l’escludere dal termine di dieci giorni il
deposito della motivazione significhi comprimere le garanzie
dell’imputato, sacrificando, in particolare, il tempestivo esercizio del
diritto ad impugnare la decisione del riesame e la garanzia
costituzionale che pretende, per ogni forma di restrizione della libertà
personale, l’esistenza di un atto motivato dell’autorità
giurisdizionale.
I dubbi e le perplessità suscitati dalla sentenza Moni hanno
indotto a rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni
unite, in una prospettazione, però, più ampia, incentrata non soltanto
sul diritto di libertà, ma sulla correlazione dei diritti di libertà e di
difesa. Difatti, il distacco temporale tra decisione e deposito del
provvedimento incide sì sulla conoscibilità dei motivi dell’ordinanza
e, quindi, sulla garanzia de libertate da essa rappresentata (art. 13,
comma 2, Cost.), ma, allontanando nel tempo la verifica di
(
133) Sez. Un., 3 luglio 1996 - 14 aprile 1996, n. 7, Moni, in C.E.D.
Cass., n. 205255.
(134
) Cfr., in chiave critica, BENENATI, Il rispetto dei tempi nel
procedimento di riesame: un’esigenza irrinunciabile, cit., loc. cit.; BOIDO,
Deposito frazionato dell’ordinanza di riesame e rispetto del termine ex art. 309
comma 10 c.p.p., cit., loc. cit.; CONFALONIERI, Sul deposito differito della
motivazione delle decisioni de libertate, cit., loc. cit.; SPANGHER, Ritardo nel
deposito della motivazione da parte del tribunale del riesame: termini e contenuto
del ricorso, cit., loc. cit. V., anche, LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 326,
che parla di «discutibile orientamento della Corte di cassazione».
L’UDIENZA CAMERALE 103
legittimità da parte della Corte di cassazione, va a prolungare la
sequenza procedimentale, compromettendo ad un tempo libertà
personale ed esercizio del diritto di difesa.
Le Sezioni unite Manno del 25 marzo 1998 hanno, tuttavia,
pienamente confermato il decisum della pronuncia Moni, affermando
che «ai fini della perdita di efficacia del provvedimento che dispone
la misura coercitiva personale per omessa decisione del tribunale
sulla richiesta di riesame entro il decimo giorno dalla ricezione degli
atti, deve farsi riferimento alla data di deliberazione, il cui
documento sia stato depositato in cancelleria, e non alla data di
deposito dell’ordinanza, completa di tutti i suoi elementi, e quindi
anche della motivazione, che deve essere depositata entro cinque
giorni dalla deliberazione, a norma dell’art. 128 c.p.p. L’eventuale
inosservanza di tale ultimo termine, quantunque sfornita di sanzione
processuale, espone i magistrati a responsabilità civile e
disciplinare, oltre che, all’occorrenza, penale» (135
).
Hanno, peraltro, dichiarato manifestamente infondata, in
relazione agli artt. 3, 13 comma 2 e 24 Cost., la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 309 comma 10 c.p.p., interpretato
nel senso che è sufficiente ad evitare l’effetto caducatorio ivi previsto
il deposito tempestivo del solo dispositivo dell’ordinanza di riesame.
Sul punto, hanno osservato che, in relazione al principio di
eguaglianza, la norma citata non è caratterizzata da incertezza alcuna
circa il termine di deposito dell’ordinanza (la cui eventuale elusione
rappresenta una patologia giudiziaria sanzionabile civilmente,
disciplinarmente e, all’occorrenza, anche penalmente), sicché non è
ravvisabile in essa alcuna ingiustificata disparità di trattamento;
quanto al diritto alla libertà personale, non si rinviene alcuna
violazione di esso, in quanto il legislatore, con una scelta
discrezionale incensurabile, ha optato, nel procedimento di riesame,
per una garanzia sostanziale del diritto di libertà, da ritenersi
realizzata mediante il controllo giurisdizionale nel contraddittorio
delle parti, da eseguire in un termine caducatorio, correlato alla
decisione del tribunale conclusiva del procedimento, con carattere di
(
135) Sez. Un., 25 marzo 1998 - 2 giugno 1998, n. 12, Manno, in C.E.D.
Cass., n. 210607.
CAPITOLO TERZO 104
assoluta certezza, così com’è certo anche il termine legale di deposito
del provvedimento; con riferimento, infine, al diritto di difesa, non
solo non risulta dalla norma in discussione incertezza alcuna sul
termine di deposito, fissato in cinque giorni, ma risulta anche
ragionevolmente garantito il tempestivo esercizio del diritto di
impugnazione dell’ordinanza del tribunale del riesame, con il
predetto dies ad quem.
8. L’individuazione del dies ad quem nella
ventiquattresima ora del decimo giorno dalla ricezione degli atti. — Le Sezioni unite sono intervenute a risolvere il contrasto, insorto
nella giurisprudenza di legittimità, sul se il termine previsto dall’art.
172, comma 6, c.p.p. valga anche per il giudice e, in particolare, per
il deposito della decisione ai sensi dell’art. 309, commi 9 e 10,
c.p.p. (136
).
A fronte del consolidato orientamento teso ad escludere una
simile conclusione, un’isolata sentenza aveva sostenuto che il
disposto dell’art. 172, comma 6, c.p.p., essendo inserito tra le regole
generali sui termini processuali (a differenza di quanto avveniva con
l’art. 181 c.p.p. 1930), non può riferirsi solo alle attività delle parti,
specialmente quando, dalla decorrenza di un termine di decadenza,
discendono conseguenze così rilevanti in tema di libertà personale,
come la perdita di efficacia di una misura coercitiva, a meno di non
voler interpretarlo nel senso più sfavorevole per l’indagato,
interpretazione che non appare condivisibile (137
).
Le Sezioni unite hanno, tuttavia, sconfessato questo
orientamento, evidenziando come la diversa collocazione
sistematica, rispetto al codice previgente, non ha stravolto il
significato della disposizione e come il deposito dei provvedimenti
del giudice non abbia nulla a che vedere con il fare dichiarazioni, il
(
136) Cfr., sul tema, AMODIO, Orario degli uffici giudiziari e garanzie
costituzionali, in Cass. pen., 1996, p. 1103; BARGIS, Deposito di provvedimenti
giudiziari dopo la chiusura dell’ufficio, in Dir. pen. proc., 1996, p. 607; GREVI,
Scadenza del termine per la decisione da parte del tribunale del riesame ed orario
di chiusura degli uffici giudiziari, in Cass. pen., 1995, p. 2612.
(137
) Cass., Sez. V, 11 aprile 1995, Mendella, in C.E.D. Cass., n.
201315.
L’UDIENZA CAMERALE 105
depositare documenti ed il compiere altri atti in un ufficio
giudiziario, di cui parla il sesto comma dell’art. 172 c.p.p.
La conclusione cui sono pervenute — e che si presenta
sistematicamente corretta — è che il termine speciale, di cui all’art.
172 comma 6 c.p.p., non è termine che può valere anche per il
deposito dei provvedimenti del giudice, conclusione che, indiscussa
nella vigenza del codice abrogato, non può essere posta in forse dalla
dimostrata irrilevanza della diversa sistemazione data dal vigente
codice alla norma e che è avvalorata dalla perfetta corrispondenza
letterale della norma abrogata e di quella oggi in vigore, la quale non
consente di includere il deposito della decisione in una delle attività
descritte, con gli stessi termini, dalle due norme. Ne consegue che «il
termine per il deposito della ordinanza scade, perentoriamente, non
nel momento in cui gli uffici vengono chiusi al pubblico, ma
nell’ultima ora — nella ventiquattresima ora — dell’ultimo
giorno» (138
).
In dottrina sono state mosse alcune critiche alla decisione in
commento. Si è, in particolare, evidenziato che non solo il significato
dell’art. 172 comma 6 c.p.p. alla luce della sua nuova fisionomia di
norma generale, ma anche il ruolo attribuito al deposito nell’iter del
procedimento camerale, fanno ritenere non consentita la
pubblicazione dell’ordinanza al di fuori della scadenza dell’orario
stabilito dai regolamenti per l’apertura delle cancellerie al pubblico.
Dopo che il contenuto normativo del vecchio art. 181 c.p.p. 1930 è
stato elevato a norma generale nell’art. 172 comma 6 del codice
vigente, diventa ineludibile recepire e dare rilievo all’interesse
protetto dalla norma processuale, ovvero l’interesse dell’indagato
impugnante che nessuna condotta discrezionale proroghi, anche solo
di poche ore, il momento in cui è per legge prevista la perdita di
effetti della misura restrittiva ovvero la conoscenza della pronuncia
di rigetto del gravame.
Si è rimarcato che il deposito dell’ordinanza fuori dell’orario
di apertura della cancelleria, oltre ad integrare una inammissibile
proroga della privazione della libertà personale, costituisce un atto
(
138) Sez. Un., 27 settembre 1995 - 14 dicembre 1995, n. 30, Mannino,
in C.E.D. Cass., n. 202901.
CAPITOLO TERZO 106
che impedisce al difensore dell’indagato di prendere conoscenza
immediata del provvedimento per sottoporlo a controllo ai fini del
ricorso per cassazione, prima ed indipendentemente dall’avviso
previsto dall’art. 128 c.p.p. Il deposito è, infatti, il modo di
comunicazione dell’ordinanza assunta nel procedimento camerale e
svolge la stessa funzione di pubblicità rivestita dalla lettura del
dispositivo ovvero della sentenza intera nella udienza dibattimentale.
Un deposito fatto fuori orario, quando il difensore non è in grado di
sapere cosa è stato deciso all’ultimo momento dal giudice, è, quindi,
come una sentenza dibattimentale pronunciata a porte chiuse.
La successiva giurisprudenza si è, comunque, conformata al
dictum della sentenza in esame, precisando che, ai sensi dell’art. 172
comma 6 c.p.p., deve distinguersi tra l’orario di servizio, che
riguarda il personale degli uffici giudiziari, la cui durata è regolata
contrattualmente e che non ha rilevanza esterna, dall’orario in cui
l’ufficio è aperto al pubblico per «fare dichiarazioni, depositare
documenti o compiere altri atti», che è stabilito dai relativi
regolamenti e dalla cui inosservanza possono derivare effetti
pregiudizievoli per gli interessati. Il termine «pubblico» sta ad
indicare, nell’accezione di cui alla citata norma, tutte le persone
estranee all’ufficio giudiziario nel quale l’atto deve essere compiuto
ed in particolare le parti che sono le dirette interessate al compimento
delle attività suindicate; e non vi è dubbio che tra le parti debba
essere annoverato anche il magistrato del pubblico ministero (139
).
9. Le conseguenze dell’invalidità della decisione adottata
tempestivamente. — Le Sezioni unite sono state chiamate per due
volte, a distanza di tre anni, a pronunciarsi sulla medesima questione,
ovvero se l’invalidità dell’ordinanza pronunciata dal tribunale del
riesame determini l’inefficacia della misura ai sensi del comma 10
dell’art. 309 c.p.p. e, in entrambi i casi, hanno affermato il seguente
principio di diritto: «In tema di riesame delle ordinanze che
dispongono una misura coercitiva, la perdita di efficacia
dell’ordinanza cautelare, a norma dell’art. 309, comma 10, c.p.p., si
(
139) Cass., Sez. I, 17 dicembre 1997, Tarantino, in C.E.D. Cass., n.
210194.
L’UDIENZA CAMERALE 107
verifica nel solo caso in cui il tribunale non provveda nel termine
stabilito, con esclusione, quindi, dell’ipotesi in cui il provvedimento
del tribunale, emesso tempestivamente, sia per qualche ragione
annullabile» (140
).
La fattispecie concreta, sottoposta all’attenzione del Supremo
Collegio, riguardava, in ambedue le occasioni, l’inosservanza del
termine dilatorio di tre giorni, prescritto dal comma 8 dell’art. 309
c.p.p., per la notifica dell’avviso dell’udienza all’imputato ed al
difensore, inosservanza che, per orientamento costante della
giurisprudenza di legittimità, integra una nullità di ordine generale a
norma dell’art. 178 lett. c) c.p.p., che si propaga, ex art. 185 c.p.p.,
all’ordinanza pronunciata dal tribunale.
Sul tema si era manifestato un contrasto giurisprudenziale, in
quanto alcune decisioni della Suprema Corte avevano ritenuto che, a
norma dell’art. 309 comma 10 c.p.p., l’invalidità dell’ordinanza del
tribunale del riesame determinasse la caducazione della misura
cautelare (141
); secondo altre, invece, per evitare la perdita di
efficacia, doveva considerarsi sufficiente che, nel termine stabilito, il
tribunale avesse deciso sulla richiesta di riesame, indipendentemente
dalla validità della decisione (142
).
Le Sezioni unite, investite della questione, con la sentenza
Piccioni del 1993 hanno fatto proprio quest’ultimo orientamento.
Ad avviso del Supremo Collegio, l’art. 309 comma 10 c.p.p.,
con le parole «se la decisione [...] non interviene entro il termine
prescritto», fa riferimento alla mancanza del provvedimento e non
(
140) Sez. Un., 12 febbraio - 6 maggio 1993, n. 2, Piccioni, in C.E.D.
Cass., n. 193414; Id., 17 aprile - 3 luglio 1996, n. 6, Pagnozzi, ivi, n. 205254. In
dottrina, cfr. ARRIGO, Inesistenza materiale e giuridica del provvedimento che
decide sulla richiesta di riesame, in Giur. it., 1998, c. 553; GIULIANI,
Annullamento dell’ordinanza di riesame e caducazione del provvedimento
cautelare ex art. 309 comma 10 c.p.p., in Cass. pen., 1993, p. 2799; SMERIGLIO,
Invalidità dell’ordinanza di riesame e caducazione della misura cautelare tra
riforme mancate e conferme giurisprudenziali, in Giur. it., 1997, II, c. 538;
VIGGIANO, Validità dell’ordinanza di riesame ed efficacia della misura coercitiva,
in Giur. it., 1994, II, c. 323.
(141
) Cfr. Cass., Sez. II, 4 luglio 1990, in C.E.D. Cass., n. 184989.
(142
) V., tra le altre, Cass., Sez. Fer., 5 settembre 1991, Cusimano, in
C.E.D. Cass., n. 188351.
CAPITOLO TERZO 108
anche alla sua invalidità, e non è vero che l’annullamento di un
provvedimento invalido determina una situazione processuale uguale
a quella che si verifica nel caso in cui non sia stata emessa alcuna
decisione.
I concetti di inesistenza e di invalidità, infatti, sono diversi:
mentre l’inesistenza è di per sé irrimediabile, l’invalidità processuale,
che si risolve nell’annullabilità, può all’opposto risultare priva di
conseguenze se non viene rilevata nelle forme stabilite. Così, mentre
la mancanza della decisione sulla richiesta di riesame può essere
riconosciuta senza limiti di tempo, lo stesso non può dirsi per
l’invalidità della decisione, che diventa non più rilevabile se non è
fatta valere mediante il ricorso per cassazione, nel termine stabilito
dall’art. 311, comma 1, c.p.p.
In altre parole, la lettera della legge — hanno concluso le
Sezioni unite — fa ritenere che la perdita di efficacia del
provvedimento coercitivo si verifichi nel solo caso in cui il giudice
non provveda nel termine stabilito e non anche nel caso in cui il suo
provvedimento sia per qualche ragione annullato. La norma ha la
funzione di garantire, nel breve termine stabilito, un controllo di
merito sul provvedimento coercitivo, ma non anche quello di
sanzionare l’eventuale invalidità di questo provvedimento con uno
strumento diverso da quelli generalmente previsti.
Nonostante la successiva giurisprudenza, anche nella
medesima composizione (143
), si sia conformata al dictum delle
Sezioni unite, con ordinanza del 24 gennaio 1996 la prima Sezione
della Corte di cassazione — a conferma della delicatezza della
tematica in esame — ha rimesso nuovamente la risoluzione della
questione al Supremo Collegio, evidenziando che la regola espressa
dalla sentenza Piccioni non può considerarsi valida nei casi in cui il
provvedimento, ancorché annullabile, non sia stato assunto a seguito
di regolare giudizio, ovvero quando non sia stato possibile realizzare
il contraddittorio; in tale ipotesi, infatti, non si ha un «giudizio» nel
senso voluto dall’ordinamento, ma un procedimento abnorme, non
consentito dalla legge, sicché la decisione assunta non è soltanto
(
143) Cfr. Sez. Un., 22 novembre 1995 - 7 marzo 1996, n. 40, Carlutti,
supra § 4.
L’UDIENZA CAMERALE 109
invalida, ma, per la mancanza delle condizioni in cui va emessa,
addirittura inesistente.
Le Sezioni unite, tuttavia, con la sentenza Pagnozzi del 1996,
hanno ritenuto di dover ribadire quanto già affermato tre anni prima,
e cioè che l’inosservanza del termine di cui all’articolo 309 comma 8
c.p.p. non fa perdere efficacia al provvedimento cautelare, ai sensi
del comma 10 dello stesso articolo. Il vizio di forma, consistente
nella violazione del termine dilatorio di tre giorni, non determina,
infatti, l’inesistenza, ma soltanto la nullità del procedimento e,
conseguentemente, della ordinanza del tribunale, sicché il relativo
procedimento — il giudizio — non è, come sostenuto dell’ordinanza
di rimessione, un procedimento «abnorme», «non consentito dalla
legge», «inesistente», «giuridicamente irrilevante».
Si tratta, invece, di un procedimento soltanto nullo e che, in
quanto tale, è sfociato in un provvedimento soltanto nullo, in un
provvedimento che l’ordinamento giuridico riconosce come proprio
anche se viziato e, quindi, in un provvedimento giuridicamente
rilevante, tanto rilevante che, per il principio del giudicato cautelare,
se non fosse stato impugnato, avrebbe prodotto l’effetto di rendere
non ulteriormente discutibile, quanto ai profili dedotti esplicitamente
o implicitamente.
Le pronunce in esame — confermate anche dalla successiva
giurisprudenza a Sezioni unite della Suprema Corte (144
) — sono
state variamente criticate in dottrina, soprattutto sotto il profilo della
distinzione tra inesistenza e nullità dell’ordinanza del riesame,
sostenendosi che ogni ipotesi di nullità dell’atto dovrebbe ritenersi
idonea, con l’annullamento, a provocare la perdita di efficacia della
misura coercitiva.
Tuttavia, a prescindere da quest’ultima argomentazione,
comunque discutibile, ciò che lascia perplessi delle sentenze in
commento — anche in una prospettiva de iure condendo — sono i
possibili abusi che il principio di diritto enunciato è in grado di
legittimare, abusi tali da trasformare il controllo del riesame in un
controllo meramente formale.
(
144) Cfr. Sez. Un., 27 giugno 2001 - 11 settembre, Di Sarno, supra § 1.
CAPITOLO TERZO 110
Si pensi all’ipotesi in cui il tribunale del riesame, a causa di
inefficienze organizzative, non sia in grado di rispettare il termine di
tre giorni, prescritto dal comma 8 dell’art. 309, senza che ciò
impedisca di rendere la decisione nei dieci giorni di cui al comma 9
del medesimo articolo; in questo caso, l’inosservanza del termine
dilatorio potrebbe costituire il non ortodosso escamotage per ovviare
alla non altrimenti evitabile caducazione della misura.
E si pensi anche all’analoga ipotesi in cui il tribunale, per
evitare la rinnovazione della notifica, resa a meno di tre giorni dalla
data dell’udienza, rinnovazione che determinerebbe la scadenza dei
dieci giorni, pronunci la decisione, in violazione del diritto al
contraddittorio, al solo fine di impedire la perenzione.
Si tratta di casi limite, che, tuttavia, ben possono verificarsi
nella prassi, nonostante il dovere di lealtà sancito dall’art. 124 c.p.p.;
la portata della violazione del diritto al contraddittorio che si realizza
in tali evenienze risulta evidente se si pone mente alla circostanza
che l’istanza di riesame potrebbe anche non essere motivata,
cosicché il non perfezionarsi di un regolare contraddittorio e la
decisione resa inaudita altera parte (o, comunque, a seguito del
rigetto dell’eccezione di nullità formulata dalla difesa) finiscono per
privare l’imputato del diritto di produrre nuovi motivi in udienza e
per eludere il diritto ad ottenere un controllo sostanziale, entro il
termine di dieci giorni, sulla legittimità del provvedimento
impugnato e sulla sussistenza dei presupposti e delle condizioni per
l’esercizio del potere cautelare.
Una simile decisione, infatti, non è espressione di quel
contraddittorio recuperato, cui mira l’imputato colpito dall’ordinanza
impositiva di una misura cautelare.
In quest’ottica, una lettura sistematica della disposizione,
orientata dalla ratio legis ad essa sottesa, imporrebbe di intendere il
termine «decisione», contenuto nel comma 10 dell’art. 309 c.p.p.,
come «decisione resa nel rispetto delle regole poste a garanzia del
contraddittorio», con la conseguente caducazione della misura
nell’ipotesi in cui la decisione, pur resa nel termine di dieci giorni,
sia nulla per l’omesso o non tempestivo avviso dell’udienza
all’imputato o al difensore.
L’UDIENZA CAMERALE 111
Né vale obiettare, come hanno fatto le Sezioni unite, che tale
nullità non significa giuridica irrilevanza della decisione, dato che
essa si sana qualora non venga proposto ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza del riesame. Ed infatti, un simile argomento non
ha pregio, in quanto anche la caducazione della misura, per essere
stata l’ordinanza pronunciata dopo la scadenza dei dieci giorni, non
può essere fatta più valere se non eccepita tempestivamente con il
ricorso per cassazione, formandosi sul punto il giudicato
cautelare (145
).
10. L’inapplicabilità al giudizio di rinvio del termine
perentorio di dieci giorni per la decisione. — Le Sezioni unite
sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione relativa
all’applicabilità del disposto dell’art. 309, comma 10, c.p.p. anche
nel giudizio di rinvio, questione che, risolta in senso negativo dalla
pressoché costante giurisprudenza di legittimità, è stata sottoposta
all’attenzione del Supremo Collegio sulla base di due considerazioni:
l’ingiustificata disparità di trattamento che, alla luce
dell’interpretazione prevalente, si realizza in situazioni analoghe,
relativamente a fasi consecutive ad uno stesso procedimento iniziato
con la presentazione della richiesta di riesame; la regressione del
procedimento, conseguente all’annullamento con rinvio, che impone
al giudice di rinnovare tutti gli adempimenti previsti dalla legge,
rispettando, quindi, la medesima disciplina anche per ciò che
concerne i termini della decisione (146
).
Questi argomenti non sono stati, però, ritenuti decisivi dalle
Sezioni unite, che hanno confermato l’orientamento tendente ad
escludere l’applicabilità dell’art. 309, comma 10, c.p.p. al giudizio di
rinvio: «Nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento di un
provvedimento del tribunale del riesame da parte della Corte di
(
145) In tal senso, v. infra, cap. IV, § 3.
(146
) In dottrina, su questi temi, v. SPANGHER, “Recidiva specifica
intraquinquennale”: nessun termine nel giudizio di rinvio per il riesame, in Dir.
pen. e proc., 1996, p. 991; TREVISSON LUPACCHINI, Il problema dei termini in caso
di “regressione” al tribunale del riesame dopo l’annullamento da parte della
Corte di cassazione, in Giur. it., 1996, II, c. 631.
CAPITOLO TERZO 112
cassazione, non è applicabile la disposizione di cui all’art. 309
comma 10 c.p.p., secondo la quale l’ordinanza che dispone la misura
coercitiva perde immediatamente efficacia se la decisione sulla
richiesta non interviene entro il termine di dieci giorni dalla
ricezione degli atti» (147
).
In particolare, hanno osservato che il dato testuale della
disposizione ancora la decorrenza del termine alla ricezione degli atti
da parte del tribunale del riesame, situazione questa che non può
essere assimilata alla trasmissione degli atti effettuata dalla Corte di
cassazione dopo la sentenza di annullamento. Inoltre, apparirebbe
quanto meno incongrua l’esigenza della ripetuta osservanza del
termine perentorio dopo la fase di legittimità, nel corso della quale
non si è mai contestato che i termini ivi previsti siano ordinatori.
Questa conclusione, se per un verso appare aderente al dato
testuale della disposizione, dall’altro, tuttavia, lasciando il tribunale
del riesame svincolato da termini per la decisione, rischia di arrecare
un serio pregiudizio al diritto del imputato (o indagato) ad ottenere
un rapido controllo sulla legittimità del provvedimento coercitivo e
sulla sussistenza dei presupposti e delle condizioni previste dalla
legge, diritto che si pone negli stessi termini — ed esige eguale tutela
— sia al momento della presentazione della richiesta di riesame, sia a
seguito dell’annullamento con rinvio da parte della Cassazione,
indice, quest’ultimo, che il precedente controllo era viziato nel
merito o nella procedura.
11. La sospensione per la risoluzione di una pregiudiziale
costituzionale. — Le Sezioni unite sono state chiamate a risolvere la
questione sul se il termine perentorio entro il quale, a norma dell’art.
309 comma 9 c.p.p., deve intervenire, a pena di inefficacia della
misura coercitiva personale, la decisione sulla richiesta di riesame,
resti sospeso per effetto della sospensione del procedimento disposta
(
147) Sez. Un., 17 aprile - 8 maggio 1996, n. 5, D’Avino, in C.E.D.
Cass., n. 204463.
L’UDIENZA CAMERALE 113
per la risoluzione di una questione pregiudiziale di legittimità
costituzionale (148
).
Tuttavia, il Supremo Collegio non ha affrontato lo spinoso
problema, in quanto ha rilevato che la soluzione del quesito sul se la
predetta sospensione processuale, disposta nel procedimento di
riesame, possa produrre effetti riflessi e possa coinvolgere, a causa
del naturale decorso del tempo, il termine di cui al citato comma 9 e,
per ciò stesso, anche l’efficacia dell’ordinanza applicativa della
misura, non compete al giudice del riesame impedito dalla
temporanea paralisi processuale e neppure potrebbe essere riservata
allo stesso giudice, procrastinandone l’intervento all’esito della
decisione sulla questione costituzionale, dato che quest’ultima
opzione si risolverebbe in una illegittima e non consentita
compressione del diritto di agire in giudizio costituzionalmente
garantito al soggetto sottoposto alla misura.
La Corte ha, quindi, concluso stabilendo che, «in pendenza di
un giudizio di legittimità costituzionale derivante da una questione
sollevata dal giudice del riesame, l’interessato ha la sola possibilità
di promuovere una pronuncia di accertamento finalizzata alla
declaratoria della sopravvenuta caducazione della misura ed
all’ottenimento dell’ordinanza di immediata liberazione o di
cessazione della misura estinta, azione esperibile davanti a uno dei
giudici individuabili in base ai criteri indicati dall’art. 279 c.p.p., cui
spetta di provvedere a mezzo dell’ordinanza prevista dall’art. 306
c.p.p., appellabile ai sensi dell’art. 310 dello stesso codice» (149
).
Non si può non evidenziare, però, che, con una successiva
pronuncia, le Sezioni unite hanno contraddetto il principio secondo
cui la caducazione della misura possa essere fatta valere dinanzi al
giudice del procedimento principale ex art. 306 c.p.p. (150
).
(
148) In dottrina, sulla delicata questione, v. DEAN, Sulla sospensione del
procedimento di riesame a seguito di incidente di legittimità costituzionale, in
Giur. it., 1997, II, c. 350.
(149
) Sez. Un., 17 aprile - 3 luglio 1996, n. 8, Vernengo, in C.E.D. Cass.,
n. 205258.
(150
) Si tratta di Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo,
infra, cap. IV, § 3.
CAPITOLO TERZO 114
Cosicché resta ancora aperta, non solo la questione sul se la
sospensione del processo di riesame in pendenza dell’incidenza di
costituzionalità abbia riflessi sul termine di cui al comma 9 dell’art.
309, ma anche quella connessa relativa all’individuazione del giudice
competente a dichiarare l’eventuale perenzione della misura.
Capitolo Quarto
LA PERENZIONE DELLA MISURA
SOMMARIO: 1. I termini della questione e le prime prese di posizione della
giurisprudenza. — 2. L’intervento delle Sezioni unite per la risoluzione di
un contrasto giurisprudenziale. — 3. Un secondo intervento delle Sezioni
unite.
1. I termini della questione e le prime prese di posizione
della giurisprudenza. — Una delle questioni interpretative che ha
maggiormente impegnato la giurisprudenza di legittimità, in materia
di riesame, è quella relativa alle modalità attraverso le quali può
essere rilevata o dedotta la perdita di efficacia della misura
coercitiva, prevista dal comma 10 dell’art. 309 c.p.p. (151
).
Su questa tematica si è sviluppata una complessa vicenda
giurisprudenziale, che ha visto il succedersi di più interventi delle
Sezioni unite, tesi ad individuare i meccanismi processuali attraverso
i quali poter far valere la sopravvenuta inefficacia della misura
coercitiva ex art. 309 comma 10 c.p.p., per l’inosservanza dei termini
perentori fissati dal comma 5 e dal comma 9 della medesima
disposizione. E, la soluzione che ha finito per prevalere, con la
sentenza Piscopo del 2000, ha rappresentato un punto di rottura
rispetto alle conclusioni raggiunte dalla precedente giurisprudenza
(
151) In dottrina v. ADORNO, Sui limiti alla deducibilità
dell’inosservanza del termine di cui all’art. 309 comma 9 c.p.p., in Cass. pen.,
1996, p. 1503; APRILE, Letture sul riesame delle misure cautelari, cit., p. 693;
BARBIERI, Caducazione della misura e sua rilevabilità, in Giur. it., 2001, p. 562;
BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p.
358; CERESA GASTALDO, Le Sezioni unite disorientate tra inefficacia
dell’ordinanza coercitiva e validità della pronuncia di riesame «fuori termine», in
Cass. pen., 1999, p. 3089; INZERILLO, La continua verifica della ritualità della
custodia cautelare, in Giur. it., 2000, p. 131; MAGGIO, Perdita d’efficacia della
custodia cautelare e sua rilevabilità d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 1012;
SANTORIELLO, Vizi formali del provvedimento coercitivo e giudizio cautelare, in
Giur. it., 2000, c. 142; TASSI, Brevi note sui recenti interventi delle Sezioni unite in
tema di competenza a dichiarare la perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva a
norma dell’art. 309 c.p.p., in Arch.nuova proc.pen., 1999, p. 131.
CAPITOLO QUARTO 116
delle Sezioni unite, avendo capovolto gli orientamenti manifestatisi
sul tema.
I termini della questione possono essere così riassunti: se
l’inefficacia della misura ex art. 309 comma 10 possa essere
dichiarata dal giudice del procedimento principale ai sensi dell’art.
306 c.p.p.; se possa essere fatta valere con il ricorso per cassazione
avverso l’ordinanza del giudice del riesame; se possa essere rilevata
d’ufficio dalla Corte di cassazione anche oltre i limiti del devoluto.
La giurisprudenza di legittimità è concorde nell’affermare
che, essendo il riesame preordinato a verificare soltanto i presupposti
legittimanti l’avvenuta adozione della misura cautelare e non anche
quelli incidenti sulla sua persistenza, non è consentito dedurre, nel
corso di detto procedimento, la successiva perdita di efficacia della
misura, derivata dalla mancanza o dalla invalidità di successivi
provvedimenti. In questa prospettiva, si è ritenuto che esulano
dall’ambito del riesame le questioni relative alla mancanza, alla
tardività e comunque all’invalidità dell’interrogatorio previsto
dall’art. 294 c.p.p., le quali, inerendo a vicende del tutto avulse
dall’ordinanza cautelare oggetto di gravame, si risolvono in vizi
processuali, che non ne intaccano l’intrinseca legittimità, ma, agendo
sul diverso piano della persistenza della misura, ne importano
l’estinzione automatica, che deve essere disposta, nell’ambito di un
distinto procedimento, con l’ordinanza specificamente prevista
dall’art. 306 c.p.p., suscettibile di appello a mente dell’art. 310 (152
).
Questo principio è stato successivamente applicato dalle
Sezioni unite Moni del 1996, chiamate a risolvere un contrasto
inerente l’interpretazione del comma 9 dell’art. 309 c.p.p. (153
), anche
alla causa di inefficacia prevista dal comma 10 della medesima
disposizione; in quella sede, tuttavia, il Supremo Collegio ha anche
precisato che, allorché la questione di inefficacia venga proposta,
insieme ad altre concernenti l’originaria legittimità del
provvedimento, con il ricorso per cassazione, deve ritenersi attratta
da questo e può, quindi, essere direttamente esaminata dal giudice di
legittimità, affinché non sia ritardata la decisione de libertate che si
(
152) Cfr. Sez. Un., 5 - 20 luglio 1995, n. 26, Galletto, infra, cap. V, § 7.
(153
) V. supra, cap. III, § 7.
LA PERENZIONE DELLA MISURA 117
sarebbe dovuta richiedere in altra sede. Per converso, non vi sarebbe
spazio per il dispiegarsi della descritta vis attrattiva del ricorso
proposto nel procedimento di impugnazione della misura ove, con
esso, si denunciasse esclusivamente la sopravvenuta inefficacia del
provvedimento coercitivo.
Secondo questa prima soluzione, ribadita anche dalle Sezioni
unite Alagni del 1998 (154
), l’inefficacia della misura ex art. 309
comma 10 deve, di regola, essere fatta valere dinanzi al giudice del
procedimento principale, ai sensi dell’art. 306 c.p.p., potendo,
comunque, essere dedotta con il ricorso per cassazione quando, oltre
che l’inefficacia, vengano prospettate questioni relative alla
legittimità del provvedimento del riesame.
2. L’intervento delle Sezioni unite per la risoluzione di un
contrasto giurisprudenziale. — Un più compiuto inquadramento
della tematica si deve a due coeve sentenze del 1999 (155
), che hanno
in parte sconfessato il principio di diritto enunciato dalle Sezioni
unite Moni e Alagni.
Con la prima sentenza (la n. 1 del 1999, su ricorso Caridi ed
altri), la Suprema Corte è stata chiamata a stabilire se l’inosservanza
dei termini previsti dall’art. 309 comma 5 c.p.p. e la conseguente
perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva possano, nel giudizio di
cassazione instaurato avverso la decisione del riesame, essere rilevate
anche d’ufficio ai sensi dell’art. 609 comma 2 c.p.p., ovvero dedotte
quali motivi nuovi in forza del combinato disposto degli artt. 311
comma 3 e 585 comma 4 c.p.p.
Alla sostanziale risposta negativa data alla questione dalle
precedenti Sezioni unite Moni e Alagni, si erano contrapposte alcune
pronunce a Sezioni semplici, le quali avevano, invece, affermato che
legittimato alla declaratoria d’inefficacia ex art. 309 comma 10 è
soltanto il giudice dell’impugnazione de libertate, essendo la perdita
(
154) V. supra, cap. II, § 2.
(155
) Sez. Un., 15 gennaio - 23 marzo 1999, n. 1, Caridi e altri, in C.E.D.
Cass., n. 212744 e n. 212745; Id., 15 gennaio - 31 marzo 1999, n. 2, Liddi e altri,
ivi, n. 212807.
CAPITOLO QUARTO 118
d’efficacia della misura ricollegata ad invalidità proprie del
medesimo procedimento incidentale (156
).
Il Supremo Collegio, a fronte di questo contrasto
giurisprudenziale, ha adottato una posizione intermedia, facendo leva
sulla ratio garantistica, a tutela della libertà personale, che sta a
fondamento della previsione di termini perentori per lo svolgimento
dei necessari controlli sulle misure cautelari coercitive.
Ferma la facoltà di chiedere, in ogni tempo e salvo il limite
del giudicato cautelare, al giudice del procedimento principale la
dichiarazione di sopravvenuta caducazione della misura, deve,
tuttavia, essere riconosciuta, anche nel corso del giudizio incidentale
di riesame, la possibilità di far valere l’automatica caducazione
dell’ordinanza di custodia cautelare per l’inosservanza dei termini
della medesima procedura richiamati dall’art. 309, comma 10, c.p.p.
L’imputato (o l’indagato), quindi, non è obbligato a devolvere la
cognizione al giudice del procedimento principale, corrispondendo
alla logica complessiva del sistema processuale il riconoscimento che
il giudice della procedura incidentale d’impugnazione è giudice della
propria competenza, della regolare instaurazione del contraddittorio e
della validità di ogni suo atto. A maggior ragione, egli è giudice del
rispetto dei termini della procedura, dalla cui inosservanza può
derivare la perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva, logicamente
pregiudiziale rispetto ad ogni altra questione di legittimità o di
merito.
Se, però, nel giudizio di riesame l’inefficacia del
provvedimento coercitivo non sia stata dedotta o rilevata d’ufficio,
essa può essere conosciuta nell’eventuale successivo giudizio di
cassazione, in cui la questione può, dunque, essere sollevata dal
ricorrente indipendentemente da altri motivi attinenti alla legittimità
originaria della misura, o rilevata d’ufficio anche oltre i limiti del
devoluto; la perdita di efficacia del provvedimento impugnato,
infatti, incide sul thema decidendum, devoluto alla Corte di
cassazione con motivi di ricorso riferiti alla legittimità originaria
(
156) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. V, 12 ottobre 1998, Cesario, in Arch.
nuova proc. pen., 1998, p. 819.
LA PERENZIONE DELLA MISURA 119
della misura, essendo la permanenza della forza cogente del titolo
pregiudiziale ai fini della decisione.
Questa conclusione è stata ripresa dalla seconda sentenza (la
n. 2 del 1999, su ricorso Liddi e altri), con cui le Sezioni unite sono
state sollecitate a risolvere il contrasto interpretativo manifestatosi in
ordine al se la perdita d’efficacia della misura cautelare, ai sensi
dell’art. 309 comma 10, possa essere dichiarata dal giudice del
procedimento principale in applicazione dell’art. 306 c.p.p.
Richiamando, oltre alla sentenza Caridi, anche altra
pronuncia delle Sezioni unite che, in un obiter dictum, aveva dato
soluzione positiva al problema (157
), il Supremo Collegio ha
affermato il principio secondo cui l’immediata liberazione della
persona sottoposta alla misura coercitiva, quale effetto automatico
dell’inosservanza dei termini previsti ai commi 5 e 9 dell’art. 309
c.p.p., può essere chiesta anche al giudice del procedimento
principale a norma dell’art. 306 c.p.p., salvo che la relativa richiesta
non sia già stata respinta nel procedimento incidentale di
impugnazione, dal momento che, in tal caso, si determina la
preclusione endoprocessuale derivante dalla formazione del
cosiddetto giudicato cautelare.
Dal complesso delle due pronunce risulta enunciata una
precisa regola iuris: sia il giudice del procedimento incidentale sia
quello del procedimento principale — salvo il limite del giudicato
cautelare — sono legittimati a rilevare, anche d’ufficio, la
caducazione ex art. 309 comma 10 c.p.p. della misura cautelare
coercitiva impugnata con richiesta di riesame.
Questa regola è stata, tuttavia, da subito smentita da un
diverso orientamento interpretativo, che ha escluso, per un verso, la
possibilità di far valere la suddetta causa di inefficacia dinanzi al
giudice del procedimento principale (158
) e, per l’altro, la sua
rilevabilità d’ufficio qualora non sia stata dichiarata nel
(
157) Sez. Un., 17 aprile - 3 luglio 1996, Vernengo, supra, cap. III, § 11.
(158
) Cass., Sez. VI, 2 febbraio 2000, Diana, in C.E.D. Cass., n. 217140.
CAPITOLO QUARTO 120
procedimento del riesame, potendo essere dedotta dalla parte
unicamente con il ricorso per cassazione (159
).
3. Un secondo intervento delle Sezioni unite. — Il
riemergere del contrasto giurisprudenziale ha reso necessario un
nuovo intervento delle Sezioni unite, le quali, come anticipato, hanno
sconfessato l’orientamento maggioritario. In altri termini, il Supremo
Collegio, investito della risoluzione di un contrasto giurisprudenziale
tra l’indirizzo interpretativo fatto proprio da precedenti pronunce a
Sezioni unite e quello, di segno contrario, accolto da alcune decisioni
a Sezioni semplici, ha finito per accordare consenso a quest’ultimo.
Il principio di diritto che ne è scaturito è il seguente:
«L’omissione, da parte del giudice del riesame, della pronuncia,
anche d’ufficio, della sopravvenuta perdita di efficacia della misura
cautelare ai sensi dell’art. 309 comma 10 c.p.p., costituisce un vizio
della decisione che, come tale, può essere fatto valere
esclusivamente con il ricorso per cassazione nell’ambito del
procedimento de libertate e non anche con la richiesta di
declaratoria dell’inefficacia della misura rivolta al giudice del
procedimento principale.
Nel giudizio di riesame la doverosa verifica, anche di ufficio,
della tempestività del procedimento, ai fini dell’eventuale
caducazione ex art. 309, comma 10, c.p.p., si configura come un
tema ulteriore della decisione, che si aggiunge a quello della verifica
della validità del provvedimento applicativo impugnato e dei
presupposti della misura cautelare applicata, con la conseguenza
che il giudice del riesame che accerti la caducazione della misura ex
art. 309, comma 10, c.p.p. è tenuto a compiere egualmente il giudizio
sulla validità del provvedimento applicativo e sui presupposti della
misura cautelare.
L’omessa pronuncia della caducazione della misura
cautelare personale da parte del giudice del riesame non può essere
dedotta né rilevata nel successivo giudizio di cassazione se non sia
stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso; la Corte di
(
159) Cass., Sez. VI, 22 aprile 1999, Scognamiglio, in C.E.D. Cass., n.
214206.
LA PERENZIONE DELLA MISURA 121
cassazione, nel caso di accoglimento del motivo, anche unico, con il
quale sia stata denunciata l’omessa pronuncia della caducazione,
dovrà annullare senza rinvio la decisione impugnata limitatamente a
tale omissione, dichiarando la cessazione di efficacia della
misura» (160
).
Secondo la Corte, alla luce della natura ibrida del giudizio di
riesame — il quale si presenta, per un verso, come una fase eventuale
del procedimento applicativo della misura, in quanto è destinato a
consentire a posteriori, ma entro termini stringenti, quel
contraddittorio che, di regola, non precede l’iniziale decisione del
giudice, e, per altro verso, come un’impugnazione totalmente
devolutiva, intesa a verificare sia la validità del provvedimento
applicativo, sia i presupposti della misura cautelare — deve ritenersi
che la doverosa verifica, anche d’ufficio, della tempestività del
procedimento, ai fini dell’eventuale caducazione ex art. 309 comma
10 c.p.p., si configuri come oggetto aggiuntivo, piuttosto che
sostitutivo, rispetto alla verifica della validità del provvedimento
applicativo impugnato e dei presupposti della misura cautelare
applicata. Il giudice del riesame, che accerti l’inefficacia della misura
ai sensi dell’art. 309 comma 10 c.p.p., è, pertanto, tenuto a compiere
egualmente il giudizio sulla validità del provvedimento applicativo e
sui presupposti della misura cautelare. Dalle conclusioni di questo
accertamento dipenderà, infatti, sia la possibilità di un’immediata
reiterazione della misura, sia l’esperibilità di un’azione di riparazione
per ingiusta detenzione.
Ed è evidente, inoltre, che è inficiata per omessa pronuncia su
un punto della decisione l’ordinanza di riesame che, nel confermare
la misura cautelare impugnata, ometta di dichiararne l’inefficacia, ex
art. 309 comma 10, eventualmente verificatasi.
Da questa ricostruzione derivano due conseguenze rilevanti.
Innanzitutto, deve ritenersi che l’omessa pronuncia della
caducazione da parte del giudice del riesame non possa essere né
dedotta, né rilevata nel successivo giudizio di cassazione, se non sia
stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso. La natura ibrida del
(
160) Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo, in C.E.D.
Cass., n. 216261.
CAPITOLO QUARTO 122
procedimento di riesame, infatti, non si estende al giudizio di
cassazione, che rimane limitato ad un controllo di legittimità sulla
decisione impugnata, ed è certamente da escludersi che tale omessa
pronuncia integri un’invalidità rilevabile d’ufficio dalla Corte oltre i
limiti del devolutum, posto che nessuna norma prevede un simile
regime di rilevabilità. Ne consegue che la Corte di cassazione, nel
caso di accoglimento del motivo, anche unico, con il quale sia stata
denunciata l’omessa pronuncia della caducazione, deve annullare
senza rinvio la decisione impugnata limitatamente a tale omissione,
dichiarando la cessazione di efficacia della misura.
In secondo luogo, l’omessa pronuncia della caducazione,
configurata come un vizio della decisione di riesame, è destinata
necessariamente a rimanere sanata ove non dedotta nel giudizio di
cassazione, realizzandosi una preclusione analoga a quella che
impedisce al giudice del procedimento principale di rilevare le
invalidità del provvedimento applicativo della misura, previste
dall’art. 292 c.p.p., non dedotte tempestivamente con una delle
impugnazioni proponibili ai sensi degli artt. 309 e 311 c.p.p.
Né è possibile configurare — ad avviso delle Sezioni unite —
una doppia competenza, del giudice del procedimento principale e
del giudice del procedimento di riesame, a dichiarare la caducazione
prevista dall’art. 309 comma 10 c.p.p. Dovrebbe ammettersi, infatti,
che la richiesta di dichiarare l’inefficacia della misura sia proponibile
al giudice del procedimento principale anche in pendenza del
procedimento incidentale di riesame, con il rischio di una
contraddittorietà delle pronunce difficilmente superabile; così come
dovrebbe ammettersi che anche a distanza di mesi il giudice del
procedimento principale venga richiesto di accertare, ad esempio, se
al giudice del riesame erano stati trasmessi tempestivamente tutti gli
atti effettivamente rilevanti ai fini della decisione. Sicché l’art. 306
c.p.p. deve essere interpretato nel senso che competente a dichiarare
la caducazione di una misura cautelare sia esclusivamente il giudice
del procedimento (principale o incidentale) nell’ambito del quale si è
verificato l’evento che l’ha determinata.
E, nel caso della caducazione prevista dall’art. 309 comma 10
c.p.p., deve, perciò, attribuirsi al solo giudice del riesame il dovere di
LA PERENZIONE DELLA MISURA 123
dichiarala anche d’ufficio, potendo la Corte di cassazione rilevare la
sopravvenuta perenzione della misura solo in conseguenza
dell’accertamento dell’omessa sua dichiarazione da parte del giudice
del riesame, ove una tale omissione sia stata denunciata con uno
specifico motivo d’impugnazione.
La sentenza in commento ha avuto sicuramente il merito di
chiarire che la verifica sull’osservanza delle norme interne del
procedimento costituisce un oggetto aggiuntivo, e non sostitutivo, del
giudizio di riesame, il che implica l’obbligo del giudice di decidere
sulla legittimità del provvedimento coercitivo e sui presupposti che
lo sorreggono anche qualora accerti la perdita di efficacia della
misura ex art. 309, comma 10, c.p.p. La caducazione della misura
non può mai mettere in ombra il necessario controllo sulla legittimità
della privazione (o limitazione) della libertà personale di cui il
giudice viene investito e non può sottrarlo dall’obbligo di rendere
una decisione di merito, con i vantaggi, in tema di reiterazione della
misura, che possono derivarne per l’imputato. Apertis verbis, il
diritto dell’imputato ad ottenere un controllo tempestivo sulla
sussistenza dei presupposti e delle condizioni che legittimano
l’esercizio del potere cautelare non può venir meno a causa del
mancato rispetto dei termini da parte dell’organo decidente.
È bene evidenziare che questa conclusione si è posta in netto
contrasto con la prevalente giurisprudenza di legittimità, avendo in
precedenza le stesse Sezioni unite ritenuto che la perdita di efficacia
del provvedimento custodiale, ai sensi del comma 10 dell’art. 309,
determina una situazione incompatibile con l’esercizio della potestà
di decisione sull’impugnazione, a cagione del venir meno della
misura coercitiva, che si traduce giuridicamente in una causa di
preclusione per il tribunale e ciò perché è ormai trascorso il termine
riservato alla verifica giurisdizionale del titolo custodiale (161
).
Sistematicamente corretta si presenta la distinzione, in
materia di sopravvenuta inefficacia di una misura coercitiva, tra le
cause di inefficacia che trovano origine nel procedimento incidentale,
le quali possono e debbono essere rilevate o dedotte nell’ambito del
(
161) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.
Schillaci, supra, cap. II, § 4.
CAPITOLO QUARTO 124
procedimento stesso e sino al giudizio di cassazione, e quelle che
derivano da accadimenti esterni (come il mancato tempestivo
interrogatorio di garanzia), che seguono la via dell’art. 306 c.p.p.
Tuttavia, non si può non evidenziare come la soluzione
esegetica che ha finito per prevalere non sia immune da
inconvenienti, nella misura in cui priva il sistema di un rimedio
tempestivo ed efficace, cui l’interessato possa ricorrere, per vedersi
dichiarare la perenzione dell’ordinanza coercitiva.
Imporre all’interessato, privato ante iudicium della libertà
personale, che, se mai, non abbia potuto eccepire, dinanzi al tribunale
del riesame, la sopravvenuta caducazione della misura — si pensi
all’ipotesi in cui il dispositivo dell’ordinanza venga depositato oltre i
dieci giorni dalla ricezione degli atti —, di attendere l’esito del
ricorso per cassazione, significa prolungare, di molti mesi, uno status
detentionis illegittimo, frustrando, in fin dei conti, proprio l’esigenza
alla cui soddisfazione è preposta la regola dettata dal comma 10
dell’art. 309, che è quella di evitare che la misura venga mantenuta
oltre il tempo concesso per la doverosa verifica sulla correttezza
dell’esercizio del potere cautelare.
Capitolo Quinto
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI DEL TRIBUNALE
DEL RIESAME
SOMMARIO: 1. La declaratoria di incompetenza del giudice che ha adottato la
misura cautelare. — 2. La valutabilità dei gravi indizi di colpevolezza
anche dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. — 3. Il potere di dare una
diversa qualificazione giuridica al fatto. — 4. L’inapplicabilità del
principio del tantum devolutum quantum appellatum. — 5. I limiti di
applicabilità dell’effetto estensivo. — 6. I limiti di ammissibilità della
motivazione per relationem. — 7. La condanna del soccombente al
pagamento delle spese del procedimento di riesame.
1. La declaratoria di incompetenza del giudice che ha
adottato la misura cautelare. — Una questione molto dibattuta in
giurisprudenza è quella relativa alla possibilità di dedurre, in sede di
riesame, l’incompetenza del giudice che ha pronunciato il
provvedimento cautelare (162
).
La materia è alquanto complessa e si inserisce in un quadro
normativo non del tutto chiaro; per un verso, vengono in rilievo le
disposizioni dettate, in generale, in tema di incompetenza del
giudice, che distinguono il regime di rilevabilità e deducibilità a
seconda che si tratti di incompetenza per materia, per territorio o per
connessione (art. 21 c.p.p.) e diversificano le conseguenze della
declaratoria di incompetenza a seconda che questa intervenga nel
corso delle indagini preliminari, nel dibattimento di primo grado, in
appello o in sede di ricorso per cassazione (artt. 22-25 c.p.p.); per
altro verso, assume rilevanza la speciale disciplina dettata per il
(
162) In dottrina, sul punto, v. CIAPPI, Sulla possibilità che il tribunale
della libertà verifichi, in sede di riesame, la competenza territoriale del giudice per
le indagini preliminari che abbia disposto il provvedimento cautelare oggetto di
gravame, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 1502; GRIFANTINI, Misure cautelari e
incompetenza del giudice nella fase delle indagini preliminari: quali rimedi dopo
la sentenza delle Sezioni Unite?, in Cass. pen., 1994, p. 2945; TERRANOVA,
Incompetenza del giudice che abbia provveduto in materia cautelare e sua
deducibilità in sede di impugnazione, in Giur. it., 1996, II, c. 352.
CAPITOLO QUINTO 126
procedimento incidentale de libertate, ove si prevede che anche il
giudice che riconosca la propria incompetenza per qualsiasi causa
possa, con lo stesso provvedimento declinatorio della competenza,
disporre la misura cautelare, qualora ne sussistano i presupposti e
ricorra l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari
contemplate dall’art. 274 c.p.p. (art. 291, comma 2, c.p.p.), fermo
restando che l’ordinanza così pronunciata cessa di avere effetto se,
entro venti giorni dalla trasmissione degli atti, il giudice competente
non provvede ai sensi dell’art. 292 c.p.p. (art. 27 c.p.p.).
Non si può trascurare, inoltre, il disposto di cui all’art. 279
c.p.p. che, in materia cautelare, attribuisce la competenza secondo un
criterio funzionale, identificando l’organo giurisdizionale legittimato
nel «giudice che procede» e, prima dell’esercizio dell’azione penale,
nel «giudice per le indagini preliminari».
Fin dalle prime applicazioni del codice di procedura penale,
si è delineato in giurisprudenza un contrasto interpretativo.
Secondo un primo orientamento, è consentito sia all’indagato
che al giudice eccepire o rilevare, nel corso del procedimento
incidentale, l’incompetenza per materia o per territorio dell’organo
cautelare (163
).
Su posizioni opposte si è collocato, invece, l’indirizzo
maggioritario, che ha escluso l’impugnabilità, per ragioni di
competenza, delle ordinanze cautelari pronunciate dal giudice
incompetente.
A sostegno di tale posizione, si è affermata, innanzitutto, la
mancanza del potere dell’indagato di eccepire l’incompetenza nel
corso delle indagini preliminari, poiché l’art. 21 comma 2 c.p.p.
prevede la possibilità di far valere il difetto di competenza territoriale
davanti al giudice dell’udienza preliminare, mentre l’art. 22 c.p.p.,
che riguarda sia la competenza per materia che quella per territorio,
attribuisce solo al giudice per le indagini preliminari la possibilità di
rilevare la propria incompetenza (164
).
(
163) Così Cass., Sez. VI, 20 agosto 1992, Panigritti, in C.E.D. Cass., n.
192238.
(164
) V., per tutte, Cass., Sez. I, 3 febbraio 1994, Varasano, in Mass. pen.
cass., 1994, f. 5, p. 99.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 127
In secondo luogo, si è sostenuto sia il difetto di legittimazione
del giudice dell’impugnazione a verificare la competenza cautelare,
atteso che questa funzione non rientra fra quelle assegnate al
tribunale del riesame o alla Corte di cassazione, sia la carenza
dell’interesse dell’indagato a proporre tale eccezione, dal momento
che l’incompetenza, anche se accertata, non può determinare la
nullità del provvedimento impugnato, in quanto l’art. 27 c.p.p. ne fa
derivare soltanto l’inefficacia, nel caso in cui l’organo competente
non provveda entro venti giorni dall’ordinanza di trasmissione degli
atti (165
).
In quest’ottica, si è, altresì, precisato che, al fine di applicare
l’art. 27 c.p.p., è necessario che la dichiarazione di incompetenza sia
emessa dallo stesso giudice che ha disposto la misura e non da un
giudice diverso, com’è quello dell’impugnazione (166
).
Ora, occorre premettere come la questione in esame si pone
solo con riferimento alla fase delle indagini preliminari, in quanto,
una volta esercitata l’azione penale, ogni controversia in ordine alla
competenza va risolta nell’ambito del procedimento principale (167
).
Appare indiscutibile, inoltre, come un problema di
incompetenza può essere sollevato durante l’intero arco del
procedimento penale; ed infatti, affinché si esplichi la funzione
giurisdizionale non si deve attendere necessariamente che il
magistrato del pubblico ministero, esaurita la fase delle indagini,
investa il giudice di una richiesta di archiviazione o di una pronuncia
sull’azione penale, in quanto, anche durante le indagini preliminari, il
giudice preposto a questa fase può essere sollecitato ad adottare i
(
165) Cfr., in tal senso, Cass., Sez. I, 7 luglio 1994, Ardino, in Cass. pen.,
1996, p. 228.
(166
) Cfr. Cass., Sez. I, 28 gennaio 1994, Rodriguez, in Cass. pen., 1995,
p. 2612.
(167
) In giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. II, 4 giugno 1998, Maddaloni e
altro, in Giust. pen., 1999, III, c. 441, secondo cui la sindacabilità, da parte del
tribunale del riesame, della competenza territoriale del giudice che ha emesso una
misura cautelare si esaurisce nella fase delle indagini preliminari, sicché, una volta
chiusa tale fase, ogni questione concernente detta competenza resta preclusa dal
sopravvenuto radicarsi della competenza del giudice che procede.
CAPITOLO QUINTO 128
provvedimenti che la legge gli riserva come espressione della sua
competenza funzionale (168
).
Nel corso delle indagini, assume rilievo principalmente il
criterio di competenza per territorio. Con riguardo, invece, al criterio
della materia, la competenza unitaria del giudice per le indagini
preliminari per tutte le materie di competenza della giurisdizione
ordinaria non minorile fa sì che la questione di competenza per
materia sia prospettabile solo con riferimento ai reati riservati al
giudice minorile (169
).
È stata, inoltre, qualificata come incompetenza funzionale —
il cui regime è assimilabile a quello dell’incompetenza per materia
per difetto — l’ipotesi in cui il giudice per le indagini preliminari
venga investito di funzioni — comprese quelle cautelari — che
dovrebbero essere esercitate dal collegio per i reati ministeriali. Il
collegio per i reati ministeriali, infatti, previsto dall’art. 7 della l.
cost. 16 gennaio 1989 n. 1, non è un giudice speciale né un organo
della giustizia penale-costituzionale, ma è soltanto un organo
specializzato della giurisdizione ordinaria, il quale, dotato di
specifica competenza funzionale in relazione alla particolare
qualificazione dei reati dei quali deve occuparsi, esercita, con
riguardo a questi ultimi, oltre alle funzioni proprie del pubblico
ministero, anche quelle del giudice per le indagini preliminari.
Conseguentemente, ove tali ultime funzioni vengano esercitate da un
normale giudice per le indagini preliminari, il provvedimento da
questi adottato non può dirsi viziato da carenza di giurisdizione, ma
soltanto da incompetenza funzionale (170
).
Ed è proprio con riferimento a quest’ultima situazione che le
Sezioni unite si sono occupate per la prima volta della questione
della sindacabilità, in sede di riesame, della competenza del giudice
che ha disposto la misura.
(
168) Così DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit.,
p. 89.
(169
) In tal senso, BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al
Tribunale del riesame, cit., p. 412, nota 154.
(170
) Così Sez. Un., 20 luglio 1994 - 1 agosto 1994, n. 14, De Lorenzo,
in C.E.D. Cass., n. 198218.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 129
Il Supremo Collegio ha, in primo luogo, rilevato che in tema
di incompetenza per materia e di incompetenza funzionale il nuovo
codice ha sostituito il termine «giudizio» con il termine «processo»,
riaffermando la regola della rilevabilità, anche d’ufficio, in qualsiasi
«stato e grado» del processo (art. 21, comma 1, c.p.p.).
Già la sola sostituzione del termine è indicativa della
deducibilità dell’incompetenza nella fase precedente al giudizio.
Né a diversa conclusione può pervenirsi sulla base della
diversa disciplina prevista dall’art. 22. L’apparente diversità è
indicativa, soltanto, dell’esistenza di diversi presupposti per
l’applicabilità delle due norme. L’art. 21 risolve il problema in
relazione alle singole ipotesi di incompetenza, stabilendo quando e
come possano essere rilevate od eccepite, tant’è che affida ai
successivi articoli la disciplina dei conseguenziali provvedimenti del
giudice. Invece l’art. 22 regola i diversi provvedimenti che il giudice,
a seconda delle fasi procedimentali in cui opera, deve adottare in
relazione ad un accertato difetto di competenza.
Lo stesso contenuto dell’art. 22, comma 1, c.p.p. non solo
attribuisce al giudice per le indagini preliminari il potere di
riconoscere la propria incompetenza, ma si armonizza
compiutamente con la struttura e le finalità della fase processuale
nella quale si inserisce la pronuncia sulla competenza.
Quella norma comprende, quindi, sia l’ipotesi in cui il
giudice, una volta acquisiti gli atti, sia in grado di riconoscere la
propria incompetenza, che quelle ipotesi nelle quali, delineatosi il
contraddittorio tra le parti, l’incompetenza può da queste essere
eccepita.
Ma, sicuramente di portata assorbente è l’affermazione
secondo cui ciascun giudice, nell’assumere un provvedimento, è
sempre obbligato al rispetto della propria competenza ed è, perciò,
abilitato a verificarne l’esistenza sulla base delle risultanze di cui
dispone. E su tale sua valutazione, positiva o negativa, giammai potrà
essere precluso il sindacato del giudice della impugnazione, una
volta che sia legittimamente investito dell’esame del problema, quali
che possano essere gli effetti che scaturiscono dal riconoscimento
CAPITOLO QUINTO 130
dell’incompetenza del giudice che ha emesso il provvedimento
impugnato.
Tale possibilità a maggior ragione dev’essere consentita
allorquando l’incompetenza denunciata si traduca in un difetto di
attribuzione del giudice in relazione alla funzione esercitata, giacché
tale difetto lo priva della specifica idoneità all’adozione del
provvedimento.
La stessa provvisoria ultrattività delle misure cautelari
disposta dal giudice dichiaratosi incompetente dimostra la maggiore
rilevanza attribuita al difetto di competenza del giudice per le
indagini preliminari dal nuovo codice, rispetto alla disciplina
precedente, e, soprattutto, dà un connotato di evidente concretezza
all’interesse dell’indagato, nei cui confronti è stata disposta la misura
cautelare, al riconoscimento dell’incompetenza del giudice; da tale
riconoscimento, infatti, consegue una limitazione temporale
dell’efficacia della misura e, soprattutto, la necessità di una rinnovata
ed autonoma valutazione che il giudice competente dovrà effettuare
sulle condizioni di applicabilità delle misure cautelari e sulle
esigenze meritevoli di tutela.
Non contrasta, inoltre, con tali conclusioni la previsione
normativa contenuta nell’art. 291, comma 2, c.p.p.; quest’ultima
disposizione, proprio perché rappresenta una deroga al principio
generale secondo il quale al giudice incompetente è preclusa
l’adozione di qualsiasi provvedimento diverso dal riconoscimento
della propria incompetenza e dalla trasmissione degli atti al giudice
competente, impone al giudice un obbligo ulteriore, e cioè quello di
verificare, in concreto, se sussiste l’urgenza di dover soddisfare
taluna delle esigenze cautelari.
Pertanto, l’eccezionale legittimazione all’emissione del
provvedimento cautelare da parte del giudice incompetente,
giustificata soltanto dalla necessità di scongiurare i pericoli connessi
al prevedibile ritardo con il quale il giudice competente avrebbe
potuto provvedere, non esonera il giudice dal doveroso rispetto della
competenza, né tanto meno disperde gli effetti che conseguono
all’accertamento della violazione di quell’obbligo, specie quando il
difetto di competenza equivale ad un difetto di attribuzioni.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 131
Le Sezioni unite, attraverso queste argomentazioni, sono
pervenute alla conclusione che nessuna preclusione sussiste, in sede
di impugnazione, al riconoscimento della incompetenza funzionale
del giudice per le indagini preliminari che ha pronunciato l’ordinanza
cautelare (171
).
L’esame della questione è stato approfondito da un
successivo intervento delle Sezioni unite, che se ne occupato sotto il
profilo dell’incompetenza per territorio.
Nell’avvalorare la medesima conclusione, la Corte ha rilevato
come la competenza, quale limite della giurisdizione, sia un
presupposto processuale indissociabile dalla funzionale attività del
giudice. Il nuovo codice, in questa prospettiva, lungi dal precludere il
sindacato giurisdizionale sulla competenza del giudice, lo ha
armonizzato con le peculiari caratteristiche del procedimento
incidentale che si sviluppa e si esaurisce nella fase delle preliminari
indagini. Ne fanno fede i ripetuti richiami alla competenza del
giudice negli artt. 279 e 291 c.p.p.
E, se tali sono i principi ai quali si è ispirato il nuovo
ordinamento processuale e tale è il quadro normativo di riferimento,
sarebbe difficile sostenere l’irrilevanza della competenza del giudice
in relazione all’adozione di un provvedimento cautelare, perché ciò
equivarrebbe a negare il sindacato giurisdizionale sulla competenza
in una materia nella quale sono in gioco fondamentali ed
irrinunciabili diritti del cittadino.
Ad avviso del Supremo Collegio, la previsione normativa che
elimina ogni dubbio in materia è quella dettata dal comma 2 dell’art.
291 c.p.p., il quale, nel prevedere, come deroga eccezionale al
principio enunciato nel comma 1, la possibilità, per il giudice
incompetente, di disporre una misura cautelare, ne subordina
l’esercizio all’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari
previste dall’art. 274. Dall’esame di tale norma discendono due
incontestabili conseguenze:
a) il potere di disporre una misura cautelare da parte del
giudice incompetente, per qualsiasi causa, è del tutto eccezionale,
(
171) Sez. Un., 20 luglio 1994 - 1 agosto 1994, n. 14, De Lorenzo, cit.
CAPITOLO QUINTO 132
perché legittimo soltanto se sussiste l’improrogabile necessità di
salvaguardare le esigenze cautelari;
b) il sindacato sul corretto esercizio di quel potere
eccezionale non può che essere comprensivo della valutazione dei
presupposti che lo hanno attivato, e cioè sia l’incompetenza del
giudice che l’urgenza del provvedimento assunto.
Ed allora, se in relazione all’applicazione dell’art. 291
comma 2 c.p.p., sia il giudice del riesame che la Corte di cassazione
possono essere legittimamente investiti, nei limiti delle rispettive
facoltà, della verifica dei presupposti richiesti da questa norma,
sarebbe, a dir poco, contraddittorio sostenere una diversa conclusione
sol perché un giudice, pur essendo incompetente, non lo abbia
riconosciuto.
L’irrazionale disparità di trattamento finirebbe per rimettere
ad una scelta insindacabile del giudice il sindacato giurisdizionale
sulla sua competenza, ma tale conseguenza è sotto molteplici aspetti
inaccettabile.
Inoltre, la Corte ha ricordato come esista una regola
fondamentale e costante del nostro ordinamento processuale, inserita
nel quadro complessivo delle garanzie giurisdizionali ed espressione,
essa stessa, di un’illuminata tradizione, cioè quella che riconosce al
giudice dell’impugnazione il potere di sostituire, a tutti gli effetti, la
propria decisione a quella impugnata: tale potere sostitutivo è
conseguente al necessario riconoscimento al giudice
dell’impugnazione degli stessi potenziali poteri dispositivi
esercitabili dal giudice che ha emesso il provvedimento.
Questa regola, con riferimento al riesame, è espressamente
codificata nel comma 9 dell’art. 309 c.p.p., secondo cui il tribunale, a
prescindere dai motivi dedotti, ed addirittura indipendentemente dal
fatto che dei motivi siano stati prospettati a sostegno della richiesta di
riesame, ha la stessa cognizione del giudice che ha disposto la misura
cautelare, tant’è che può persino provvedere alla sua sostituzione,
rivalutando autonomamente tutte le risultanze di cui dispone, sia ai
fini della verifica degli indizi di colpevolezza, che in relazione alle
esigenze cautelari ed alla necessità della loro adeguata tutela.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 133
Le Sezioni unite, per tale via, sono pervenute ad affermare il
seguente principio di diritto: «L’incompetenza per territorio del
giudice che ha disposto una misura cautelare è sindacabile in sede di
impugnazione. Ed infatti, il potere di disporre una misura cautelare
da parte del giudice incompetente, per qualsiasi causa, è del tutto
eccezionale, in quanto legittimo solo se sussiste l’improrogabile
necessità di salvaguardare le esigenze cautelari; ne consegue che il
sindacato sul corretto esercizio di tale eccezionale potere non può
che essere comprensivo della valutazione dei presupposti che lo
hanno attivato, e cioè sia dell’incompetenza del giudice, sia
dell’urgenza del provvedimento assunto» (172
).
Ora, non si può disconoscere la perfetta aderenza al sistema
della conclusione propugnata dal Supremo Collegio. Se, infatti, non
fosse consentito sindacare, in sede di impugnazione de libertate, la
competenza del giudice che ha emesso un provvedimento cautelare,
si violerebbe sia il principio del giudice naturale che quello della
precostituzione, previsti dall’art. 25 comma 1 Cost. e valevoli per
tutte le forme di competenza, compresa quella cautelare.
L’impossibilità di eccepire l’incompetenza in sede di
impugnazione de libertate lascerebbe senza controllo la decisione del
giudice per le indagini preliminari, sotto il profilo che ci interessa. E
ciò andrebbe a discapito del diritto dell’indagato o l’imputato ad
ottenere una rinnovata ed autonoma valutazione di tutti i presupposti
dell’ordinanza cautelare da parte del suo giudice naturale.
La successiva giurisprudenza si è prevalentemente uniformata
al dictum delle Sezioni unite, anche se non sono mancate posizioni di
dissenso (173
).
(
172) Sez. Un., 25 ottobre - 12 dicembre 1994, n. 19, De Lorenzo, in
C.E.D. Cass., n. 199393.
(173
) Cass., Sez. V, 29 maggio 1998, Lasi, in Cass. pen., 1999, p. 3192,
secondo cui, nel corso delle indagini preliminari, in sede di riesame non sono
proponibili questioni in ordine alla competenza del giudice che ha emesso
l’ordinanza impugnata, non potendo trovare applicazione, per difetto dei relativi
presupposti, le disposizioni generali dettate, in materia di incompetenza per
territorio, dagli artt. 21 comma 2 e 24 c.p.p. e non rientrando, d’altra parte, nei
poteri del tribunale del riesame pronunciare l’annullamento della suddetta
ordinanza per violazione delle regole sulla competenza territoriale, attesa l’assenza
CAPITOLO QUINTO 134
Problemi esegetici ha posto anche la questione relativa alle
conseguenze della declaratoria di incompetenza del giudice,
pronunciata in sede di riesame.
Se, in un primo momento, le Sezioni unite avevano chiamato
in causa la categoria della nullità (174
), successivamente hanno
chiarito che la pronuncia di incompetenza da parte del giudice
dell’impugnazione avverso provvedimenti cautelari determina, al
pari della declaratoria di incompetenza del giudice che aveva
disposto la misura cautelare, l’inefficacia differita, ex art. 27 c.p.p.,
della misura cautelare stessa (175
).
La circostanza che la formulazione letterale dell’art. 27 c.p.p.,
in tema di misure cautelari disposte da giudice incompetente, postuli
l’identità tra giudice che dispone la misura e giudice che dichiara,
contestualmente o successivamente, la propria incompetenza, non
esclude che la disciplina della caducazione automatica della misura
cautelare contenuta in detto articolo si estenda anche alle ipotesi di
diversità tra giudice che dispone la misura e giudice che dichiari
l’incompetenza, in quanto il carattere provvisorio della efficacia della
misura disposta da giudice incompetente è espressione di un potere
eccezionale e, pertanto, non può essere limitato ai casi di identità tra
giudice disponente la misura e giudice che dichiara l’incompetenza.
Tuttavia, il tribunale del riesame dovrà annullare l’ordinanza
impugnata qualora, nel rilevare l’incompetenza del giudice che ha
adottato il provvedimento, escluda la ricorrenza del requisito
dell’urgenza richiesto dal comma 2 dell’art. 291 c.p.p. (176
).
di norme, generali o specifiche, che prevedano siffatta violazione come causa di
nullità. Nello stesso senso, Cass., Sez. I, 20 maggio 1996, Graviano, in Cass. pen.,
1997, p. 2156.
(174
) Cfr. Sez. Un., 20 luglio 1994 - 1 agosto 1994, n. 14, De Lorenzo,
cit.
(175
) V. Sez. Un., 24 gennaio - 12 aprile 1996, n. 1, Fazio, in C.E.D.
Cass., n. 204164; negli stessi termini già si erano espresse Sez. Un., 25 ottobre - 12
dicembre 1994, n. 19, De Lorenzo, cit.
(176
) V., da ultimo, in tal senso Cass., Sez. IV, 21 giugno 2005, T., in
C.E.D. Cass., n. 232027, in cui si afferma quanto segue: «l’incompetenza del
giudice che ha adottato una misura cautelare può essere dedotta con le
impugnazioni de libertate e, conseguentemente, riconosciuta dal giudice del
riesame o da quello di legittimità, i quali dovranno apprezzare non solo la
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 135
2. La valutabilità dei gravi indizi di colpevolezza anche
dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. — La vicenda che si passa
ad esaminare si è innestata su un contrasto giurisprudenziale
manifestatosi fin dalle prime applicazioni del nuovo codice di rito ed
ha registrato l’intervento di due pronunce, di segno opposto, delle
Sezioni unite, intervallate da una dichiarazione di illegittimità
costituzionale degli artt. 309 e 310 c.p.p. (177
).
questione di competenza, ma anche, in caso di ritenuta incompetenza, la
sussistenza del presupposto dell’urgenza che, ai sensi dell’art. 291 comma 2 c.p.p.,
legittima, nel caso, il giudice richiesto della misura ad adottarla, pur essendo
incompetente. Ne consegue che l’incompetenza eventualmente dichiarata dal
giudice dell’impugnazione renderà provvisoria l’efficacia del provvedimento
cautelare, legittimamente adottato in caso di urgenza, secondo il disposto dell’art.
27 c.p.p.; mentre, nel caso in cui il giudice dell’impugnazione apprezzi
l’insussistenza dell’urgenza, con la declaratoria di incompetenza, dovrà annullare
la misura. Tale apprezzamento deve essere effettuato con riferimento ai dati
processuali, ove si tratti di impugnazione di merito, ovvero con esclusivo
riferimento a quanto implicitamente desumibile dalla motivazione del
provvedimento impugnato, ove si tratti di impugnazione di legittimità, non essendo
consentito alla Corte di cassazione di procedere alla disamina degli atti». Occorre
rilevare, tuttavia, come questo indirizzo non sia completamente pacifico. Anche di
recente si è sostenuto che una volta riconosciuta in sede di riesame l’incompetenza
del giudice che ha adottato una misura cautelare, il tribunale non può pronunciare
annullamento né riforma del provvedimento impugnato, ma, dopo averlo
confermato, deve provvedere ai sensi dell’art. 27 c.p.p. È, pertanto, abnorme il
provvedimento con cui il giudice del riesame, avendo escluso la sussistenza del
presupposto dell’urgenza richiesto dall’art. 291 comma 2 c.p.p., annulli la misura
cautelare personale, trasmettendo gli atti al giudice territorialmente competente.
Così Cass., Sez. VI, 16 maggio 2005, F. e altro, in C.E.D. Cass., n. 232237.
(177
) In dottrina, per un esame della questione, v. BASSI, I rapporti fra il
giudizio di gravità indiziaria in materia cautelare e il decreto che dispone il
giudizio all’indomani della riforma del giudice unico, in Cass. pen., 2002, p. 3721;
DI BITONTO, Gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 comma 1 c.p.p. e decreto che
dispone il giudizio; torna in auge la giurisprudenza meno garantista, in Cass. pen.,
2001, p. 3485; DIOTALLEVI, La possibilità di rivalutare i gravi indizi di
colpevolezza per il reato per cui è stata applicata una misura cautelare dopo
l’emissione del decreto di rinvio a giudizio: le Sezioni unite ricompongono il
quadro giurisprudenziale tra pronunce della Corte costituzionale e arrets di
legittimità, in Cass. pen., 2003, p. 396; GIACCA, In tema di rivalutazione dei gravi
indizi di colpevolezza dopo il rinvio a giudizio, in Cass. pen., 1994, p. 2747;
CAPITOLO QUINTO 136
Già le Sezioni unite Santucci del 1990 si erano poste il
quesito se, in ordine ai provvedimenti de libertate adottati negli atti
preliminari, nel dibattimento, nella sentenza o successivamente a
quest’ultima, fosse consentito al tribunale di verificare, nel merito,
oltre la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. e
l’adeguatezza e proporzionalità delle misure ex art. 275, anche la
sussistenza e la persistenza dei gravi indizi di responsabilità; tuttavia,
in quella sede la questione non venne affrontata, esulando dal thema
decidendum demandato alla Suprema Corte (178
).
Il sopravvenire di un contrasto giurisprudenziale sul tema ha
reso necessario l’intervento delle Sezioni unite che, con la sentenza
Liotta del 1995, hanno condiviso l’orientamento tendente a
ricollegare alla pronuncia del decreto che dispone il giudizio una
preclusione a valutare, in assenza di fatti nuovi sopravvenuti, i gravi
indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p., enunciando il seguente
principio di diritto: «Il rinvio a giudizio dell’imputato disposto a
conclusione dell’udienza preliminare, implicando un accertamento
positivo della sussistenza di elementi tali da integrare quella
qualificata probabilità di affermazione della responsabilità che è
richiesta perché si possa configurare il requisito dei “gravi indizi di
colpevolezza” di cui all’art. 273 c.p.p., preclude, in assenza di fatti
nuovi sopravvenuti — la cui idoneità a fondare la revoca della
misura cautelare rimane affidata al giudice del dibattimento —, la
possibilità di rimettere in discussione il requisito medesimo» (179
).
Ed infatti, secondo i giudici del Supremo Collegio, il rinvio a
giudizio dell’imputato, disposto a conclusione dell’udienza
preliminare, implica — soprattutto a seguito della modifica dell’art.
425 c.p.p., operata dalla l. n. 105 del 1993, con la soppressione
PRESTIPINO, Sui «limiti» del riesame dopo il rinvio a giudizio, in Giur. it., 1995, II,
c. 478; SANNA, Decreto di rinvio a giudizio e controllo sugli indizi di reità, in Dir.
pen. e proc., 1996, p. 1216; SCOMPARIN, La rivalutazione dei gravi indizi di
colpevolezza dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio: una sentenza
additiva che riscopre alcuni capisaldi del rito penale, in Giur. cost., 1996, p. 687.
(178
) Sez. Un., 23 novembre 1990 - 2 gennaio 1991, n. 11, Santucci,
supra, cap. I, § 2.
(179
) Sez. Un., 25 ottobre - 27 novembre 1995, n. 38, Liotta, in C.E.D.
Cass., n. 202858.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 137
dell’aggettivo «evidente» — un accertamento positivo della
sussistenza di elementi tali da integrare quella qualificata probabilità
di affermazione della responsabilità che è richiesta perché si possa
configurare il requisito della gravità indiziaria di cui all’art. 273
c.p.p. Esso, quindi, va a pieno titolo annoverato tra quelle statuizioni
adottate da organi giurisdizionali nell’ambito dello stesso processo, a
fondamento delle quali è posta, in modo esplicito od implicito, la
sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, le quali, in mancanza di
fatti nuovi sopravvenuti, ne precludono la rivalutazione.
Questa presa di posizione ha fatto sorgere un problema di
compatibilità costituzionale degli artt. 309 e 310 c.p.p., così come
interpretati dalle Sezioni unite.
La Corte costituzionale, investita della questione, mutando
radicalmente la prospettiva del quadro normativo di riferimento, ha
dichiarato costituzionalmente illegittime le citate disposizioni, per
violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono la
possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza
quando sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio (180
).
Alla base della soluzione fatta propria dai giudici di Palazzo
della Consulta, vi è la considerazione che solo «ove intervenga una
decisione che in ogni caso contenga in sé una valutazione del merito
di tale incisività da assorbire l’apprezzamento dei gravi indizi di
colpevolezza, potrà dirsi ragionevolmente precluso il riesame di tale
punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi in sede di
impugnative proposte avverso i provvedimenti de libertate».
Partendo da tale premessa, la Corte è pervenuta a risultati
completamente opposti rispetto a quelli conseguiti dalle Sezioni
unite, escludendo che l’atto di rinvio a giudizio possa presentarsi
«come decisione fondata su una valutazione del merito
necessariamente sovrapponibile a quella che inerisce alla verifica del
presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, che legittima
l’applicazione ed il mantenimento delle misure cautelari personali,
con la conseguenza di non poter ritenere assorbita quest’ultima
delibazione nella prima e, dunque, coerentemente precluso il relativo
controllo nella incidentale sede del gravame cautelare».
(
180) Corte cost., 15 marzo 1996, n. 71, in Giur. cost., 1996, p. 669.
CAPITOLO QUINTO 138
Ad avviso del giudice delle leggi, decisiva in tal senso è la
valutazione comparata degli artt. 425 e 530 c.p.p., i quali, se possono
ritenersi fra loro assimilabili in relazione alle ipotesi di prova
positiva dell’innocenza ed a quella speculare di totale assenza di
prova della colpevolezza, di talché la medesima situazione di fatto è
idonea a determinare, su di un piano di sostanziale simmetria, la
sentenza di assoluzione in dibattimento e quella di non luogo a
procedere nell’udienza preliminare, non altrettanto è a dirsi con
riferimento alle ipotesi in cui la prova risulti insufficiente o
contraddittoria. In questo caso, infatti, alla sentenza di assoluzione
imposta dall’art. 530, comma 2, c.p.p. non corrisponde un omologo
per la sentenza di non luogo a procedere, ma una più articolata regola
di giudizio che deve necessariamente tener conto della diversa natura
e funzione che quella pronuncia è destinata a svolgere nel sistema,
ovvero quella di paralizzare la domanda di giudizio formulata dal
magistrato del pubblico ministero.
Da ciò consegue che, ove la prova risulti insufficiente o
contraddittoria, l’adozione della sentenza di non luogo a procedere
può dirsi imposta soltanto nei casi in cui si appalesi la superfluità del
giudizio, vale a dire nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che
l’eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti
per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria.
Ove ciò non accada risulta, invece, scontato il provvedimento di
rinvio a giudizio che, in una simile eventualità, lungi dal rinvenire il
proprio fondamento in una previsione di probabile condanna, si
radica null’altro che sulla ritenuta necessità di consentire, nella
dialettica del dibattimento, lo sviluppo di elementi ancora non
chiariti.
La conclusione cui è pervenuta la Corte costituzionale è che,
in siffatte ipotesi, il decreto che dispone il giudizio non può ritenersi
in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di
colpevolezza ex art. 273 c.p.p., sicché precluderne l’esame nelle
impugnazioni de libertate equivale ad introdurre nel sistema un
limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio ed al tempo
stesso gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 139
nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto quale
è quello della libertà personale.
A seguito della parziale declaratoria d’incostituzionalità degli
artt. 309 e 310 c.p.p., anche la giurisprudenza di legittimità si è
costantemente espressa nel senso che non vi è preclusione alcuna al
riesame dell’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza dopo il rinvio
a giudizio disposto all’esito dell’udienza preliminare.
Nel contesto delle significative novità normative apportate
all’udienza preliminare dalla l. 17 dicembre 1999, n. 479, e di
plurimi interventi del giudice delle leggi (181
), che hanno imposto
un’opportuna rimeditazione dei temi concernenti la funzione
dell’udienza preliminare e lo standard probatorio per il rinvio a
giudizio, si è, però, riproposto nella giurisprudenza di legittimità il
contrasto interpretativo sulla possibilità di valutazione, dopo il rinvio
a giudizio, della gravità degli indizi di colpevolezza richiesti per
l’adozione di una misura cautelare personale.
A fronte dell’indirizzo prevalente, secondo il quale rimane
fermo per il giudice del riesame, anche dopo il decreto di rinvio a
giudizio, il potere-dovere di valutare l’adeguatezza del quadro
indiziario posto a base del provvedimento impugnato (182
), altro
orientamento ha ritenuto, invece, che il decreto che dispone il
giudizio sia suscettibile di assorbire l’apprezzamento dei gravi indizi
di colpevolezza e, in assenza di nuovi elementi, di precludere il
riesame sul punto, poiché esso, nella riformulazione normativa,
costituisce ormai il risultato di un apprezzamento di merito
prognostico di responsabilità, assimilabile e sovrapponibile a quello
di qualificata probabilità di colpevolezza richiesto dall’art. 273
c.p.p. (183
).
Si è, pertanto, reso necessario un nuovo intervento delle
Sezioni unite, le quali, con la sentenza Vottari del 2002, hanno
(
181) Cfr. Corte cost., 12 luglio 2002, n. 335, in Cass. pen., 2003, p.
3357; Id., 6 luglio 2001, n. 224, ivi, 2001, p. 3304; Id., 8 giugno 2001, n. 185, ivi,
2001, p. 2976.
(182
) Cass., Sez. V, 1° luglio 2002, D’Emanuele, in C.E.D. Cass., n.
222989; Id., Sez. I, 27 febbraio 2002, Ndreca Fan, ivi, n. 221551.
(183
) Cass., Sez. II, 15 marzo 2001, Tavanxhiu, in Cass. pen., 2001, p.
3485.
CAPITOLO QUINTO 140
ritenuto che, a seguito delle novità normative introdotte dalla legge n.
479 del 1999, non sia venuta meno la forza cogente del nucleo
centrale e del dictum della pronuncia costituzionale n. 71 del 1996.
Ed invero, secondo il Supremo Collegio, pur essendo
innegabile che, all’interno di un disegno frammentario del
legislatore, gli strappi acceleratori verso un vero e proprio giudizio di
merito, rispetto all’originario carattere di momento di impulso
meramente processuale, hanno influito sulla struttura dell’udienza
preliminare, la regola di diritto per il rinvio a giudizio è rimasta
identica.
Apertis verbis, il radicale incremento dei poteri di cognizione
e di decisione del giudice dell’udienza preliminare, pur legittimando
quest’ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della
probabilità di colpevolezza dell’imputato, non lo ha, tuttavia,
disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione
prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di
successo della prospettazione accusatoria ed all’effettiva utilità della
fase dibattimentale, di cui il legislatore della riforma ha perseguito,
espressamente, una significativa deflazione.
Per altro verso, il combinato disposto degli artt. 273, commi 1
e 1-bis, e 292, comma 2 lett. c-bis) e comma 2-ter, nell’accentuare
l’obbligo della motivazione e la pregnanza delle valutazioni circa la
forte valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, postula
una rigorosa selezione dei casi di esercizio del potere coercitivo,
mediante il riferimento a situazioni indiziarie obiettivamente
consolidate ed idonee a sorreggere il giudizio prognostico di
responsabilità a carico della persona, richiedendosi per le decisioni di
tipo cautelare un approfondito ed incisivo apprezzamento
probabilistico di segno positivo in ordine alla colpevolezza, ancorché
condotto allo stato degli atti e basato non su prove ma su indizi, tale
da superare la tradizionale divaricazione tra le sommarie delibazioni
di tipo indiziario, rilevanti in sede di cautele, ed il giudizio sul merito
dell’accusa riservato alla sede dibattimentale.
Rimane, invece, estranea a quest’ottica ogni valutazione di
strumentale sufficienza dell’atto processuale ad uno scopo, come
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 141
l’utilità del dibattimento per la translatio iudicii disposta mediante il
decreto di rinvio a giudizio.
Non esiste, pertanto, una convergenza biunivoca della
funzione e del giudizio prognostico sottesi al decreto che dispone il
giudizio rispetto alla funzione ed alla prognosi pertinenti al diverso
profilo della gravità indiziaria, ai fini della legittima restrizione della
libertà personale, sembrando evidente, nella logica complessiva del
sistema processuale, che la valutazione contenutistica degli indizi di
colpevolezza ex art. 273 c.p.p. abbia ben altra consistenza qualitativa
e quantitativa rispetto alla regula iuris propria del rinvio a giudizio.
Inoltre, l’assenza di motivazione e la caratteristica di
inoppugnabilità fanno del decreto che dispone il giudizio una
decisione assolutamente inidonea a riverberare la sua efficacia
nell’ambito cautelare, sì da legittimare la restrizione della libertà
personale dell’imputato.
All’esito di questa analisi, le Sezioni unite sono pervenute
alla conclusione — pienamente condivisibile dal punto di vista
logico-giuridico, nonché sistematicamente corretta — secondo cui «il
tribunale del riesame, anche dopo il decreto di rinvio a giudizio per
il reato relativo alla misura cautelare personale, ha il potere-dovere
di valutare l’adeguatezza del quadro indiziario posto a base del
provvedimento impugnato» (184
).
3. Il potere di dare una diversa qualificazione giuridica al
fatto. — Le Sezioni unite si sono pronunciate sul contrasto, insorto
nella giurisprudenza di legittimità, sul se, nell’ambito delle misure
cautelari personali, il tribunale, in sede di riesame o di appello, possa
diversamente qualificare il fatto contestato (185
).
Sulla questione, infatti, la Corte di cassazione, mentre in
alcune pronunce aveva affermato il principio secondo il quale, nel
(
184) Sez. Un., 30 ottobre - 26 novembre 2002, n. 39915, Vottari, in
C.E.D. Cass., n. 222602.
(185
) Sulla questione, DIDDI, In tema di modificabilità dell’accusa in
sede di riesame di provvedimenti custodiali, in Giust. pen., 1994, III, c. 444;
MAINA, Le sezioni unite superano il contrasto con un’estensione analogica del
codice di rito, in Guida dir., 1997, n. 6, p. 63.
CAPITOLO QUINTO 142
corso delle indagini preliminari — e, quindi, sia dinanzi al giudice
per le indagini preliminari, sia dinanzi al tribunale, in sede di riesame
o di appello, ex artt. 309 e 310 c.p.p. —, non è possibile che si dia al
fatto una qualificazione giuridica diversa da quella attribuitagli dal
magistrato del pubblico ministero nella richiesta della misura, in altre
aveva, invece, sostenuto che anche in sede di indagini preliminari è
consentito al giudice di dare al fatto una diversa definizione o
qualificazione giuridica.
Il Supremo Collegio ha ritenuto di far proprio questo secondo
indirizzo interpretativo, ancorando la soluzione del quesito
sottoposto alla sua attenzione al disposto di cui al primo comma
dell’art. 521 c.p.p., il quale, riconoscendo al giudice il potere di dare
al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata
nell’imputazione, esprime un principio di portata generale.
Apertis verbis, la norma in discorso è espressione
dell’indefettibile funzione della giurisdizione di accertare se la
fattispecie concreta sia sussumibile nella fattispecie astratta
ipotizzata, in quanto costituisce intimo corollario dello ius dicere
verificare che fatto e schema legale coincidano e, dunque,
modificare, se occorre, la qualificazione giuridica del fatto
prospettata dal magistrato del pubblico ministero, riconducendo,
così, la fattispecie concreta, anche se a determinati e limitati fini,
nello schema legale che le è proprio.
Argomento contrario a questa conclusione non può trarsi
dalla circostanza che analogo potere non è attribuito al giudice
dell’udienza preliminare dall’art. 423 c.p.p., perché quest’ultima
disposizione si interessa del «fatto», intendendo per «fatto un dato
empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un
episodio della vita umana, cioè la fattispecie concreta e non la
fattispecie astratta e non, se si vuole, lo schema legale nel quale
collocare quell’episodio della vita umana».
Affermare che il giudice dell’udienza preliminare non possa
dare al fatto una diversa qualificazione giuridica sul presupposto che
la norma in questione attribuisce soltanto all’organo dell’accusa
questo potere, significa affermare cosa non rispondente al vero; la
norma, infatti, conferisce al magistrato del pubblico ministero, e
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 143
soltanto a lui, il potere di modificare il fatto, sicché il magistrato è
l’esclusivo dominus del fatto come fattispecie concreta, ma non
anche l’esclusivo dominus del fatto come fattispecie astratta.
Ed è sotto quest’ultimo profilo che assume decisiva rilevanza
il primo comma dell’art. 521, il quale consente di cogliere con
esattezza che la qualificazione giuridica del fatto è cosa ben diversa
dal fatto, dalla fattispecie concreta. In altri termini, modificare la
definizione giuridica del fatto non solo non significa modificare il
fatto, ma non significa neppure modificare l’imputazione, se è vero
che la correlazione tra l’imputazione e la sentenza resta in tutta la sua
pienezza anche se viene data al fatto una diversa qualificazione
giuridica.
Se, dunque, dare una diversa qualificazione giuridica del fatto
vuol dire, in ultima analisi, applicare esattamente la legge, non può
non riconoscersi che nell’udienza preliminare debba farsi luogo
all’applicazione analogica della norma dell’art. 521 c.p.p., in quanto
norma che esprime un valore che non può non essere di portata
generale.
La stessa soluzione — come ritenuto dal Supremo Collegio
— si impone anche per i procedimenti de libertate e, a maggior
ragione, per quelli — che, tra gli stessi, sono i più numerosi — che si
svolgono nella fase delle indagini preliminari, in cui, peraltro, non vi
è ancora un’imputazione formulata dal magistrato del pubblico
ministero, ma una richiesta contenente, spesso, addebiti provvisori ed
anche sommari.
Il problema della possibilità di dare al fatto una diversa
qualificazione o definizione giuridica si pone, comunque, anche per i
procedimenti sulle misure che si svolgono in fasi procedimentali
diverse dalle indagini preliminari. L’autonomia del giudice del
procedimento che ha ad oggetto le misure cautelari, procedimento
che, oltre tutto, vede investito del riesame o dell’appello un giudice
che nel processo non ha avuto e non ha alcun ruolo, non può non
essere «autonomia completa» che gli consenta, senza che egli tocchi
minimamente il fatto, di definirlo, di qualificarlo, a quei fini, in modo
diverso da come gli è stato prospettato nella richiesta, anche se con
CAPITOLO QUINTO 144
l’accortezza di chi deve prendere atto che del fatto è stato già
vagliato anche lo schema legale.
In ogni caso, la correzione della qualificazione giuridica non
va oltre il procedimento incidentale de libertate.
Di qui, l’enunciazione del seguente principio di diritto: «Nel
pronunciare sull’istanza di riesame o sull’appello in materia di
misure cautelari personali, il tribunale può dare al fatto una
qualificazione giuridica diversa da quella indicata dal magistrato
del pubblico ministero nella richiesta di applicazione della misura,
con effetti circoscritti all’ambito del procedimento incidentale de
libertate» (186
).
La conclusione cui sono prevenute le Sezioni unite e le
argomentazioni addotte a sostegno della stessa sono pienamente
condivisibili; la tutela della libertà personale abbisogna di una
giurisdizione che si esplichi in tutte le sue prerogative e di un giudice
che eserciti, nella pienezza dei suoi poteri, il ruolo di garante della
libertà dell’indagato o dell’imputato. Sotto questo profilo, non gli
può essere in alcun modo preclusa la possibilità, coessenziale alla
stessa funzione giurisdizionale, di controllare la correttezza della
qualificazione giuridica data al fatto dal magistrato del pubblico
ministero.
Successivamente alla sentenza in esame, la prevalente
giurisprudenza si è conformata al dictum delle Sezioni unite (187
);
tuttavia, non sono mancate pronunce che hanno continuato ad
escludere che il giudice, in sede di riesame o appello de libertate,
possa procedere alla modificazione della qualificazione giuridica del
fatto, a meno che l’esigenza di tale modifica possa essere soddisfatta
senza bisogno di ulteriori indagini (188
).
(
186) Sez. Un., 19 giugno - 22 ottobre 1996, n. 16, Di Francesco, in
C.E.D. Cass., n. 205617.
(187
) Cfr. Cass., Sez. VI, 11 marzo 2003, Ceglia, in C.E.D. Cass., n.
225216; Id., Sez. II, 20 ottobre 1999, Schettino, ivi, n. 216348.
(188
) Così Cass., Sez. V, 15 luglio 1999, Conti, in C.E.D. Cass., n.
214481.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 145
4. L’inapplicabilità del principio del tantum devolutum
quantum appellatum. — Le Sezioni unite, chiamate a pronunciarsi
su un contrasto giurisprudenziale in materia di concorso eventuale
nel reato associativo, hanno avuto modo di precisare, alla luce del
chiaro tenore letterale del sesto comma dell’art. 309 c.p.p., che, «in
tema di riesame di misure cautelari, non è applicabile la particolare
disposizione dell’art. 581 lett. c) c.p.p., che impone, a pena di
inammissibilità, l’indicazione dei motivi di impugnazione
contestualmente alla presentazione del gravame» (189
).
Al riesame non si applica, dunque, il principio del tantum
devolutum quantum appellatum, stante la facoltatività, prevista dal
citato sesto comma dell’art. 309 c.p.p., della indicazione dei motivi a
sostegno dell’impugnazione proposta (190
).
Secondo una parte della dottrina, l’inapplicabilità del
principio devolutivo renderebbe il riesame un vero e proprio novum
iudicium, giacché l’estensione automatica ed integrale ad ogni profilo
della fattispecie cautelare trarrebbe solo occasione dalla attivazione
della procedura, ma non sarebbe ancorata ai temi di trattazione
delimitati dalla domanda introduttiva. Il riesame, in altri termini,
rappresenterebbe il paradigma esemplare del «gravame puro», di
quella categoria di impugnazioni, cioè, caratterizzata dal
trasferimento integrale della cognitio causae, affinché sia ridecisa ex
novo (191
).
(
189) Sez. Un., 5 ottobre - 28 dicembre 1994, n. 16, Demitry, in C.E.D.
Cass., n. 199388.
(190
) Cfr., sul punto, tra gli altri, BASSI-EPIDEMIO, Guida alle
impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 825; CORDERO, Procedura
penale, cit., p. 543; CORSO, Le misure cautelari, in AA. VV., Manuale di procedura
penale, Bologna, 2006, p. 313; FERRAIOLI, Il riesame dei provvedimenti sulla
libertà personale, Milano, 1989, p. 588; GREVI, Misure cautelari, cit., loc. cit.;
TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2006, p. 373; ZAPPALÀ, Le misure
cautelari, cit., p. 472.
(191
) In tal senso, v. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 541, il quale
osserva che con il termine «gravame» i vecchi proceduristi denominavano l’atto
che devolve al secondo giudice l’intera res iudicanda, con la conseguenza che la
decisione anteriore scade a precedente storico, dissolta dall’impugnante, e il caso
va deciso ex novo. Secondo l’A. nel nostro sistema sono qualificabili «gravami»
l’opposizione a decreto penale di condanna ed il riesame, mentre l’appello è un
CAPITOLO QUINTO 146
Questa impostazione, tuttavia, non è stata ritenuta pienamente
condivisibile.
La mera facoltatività di presentazione dei motivi non è,
infatti, peculiarità sufficiente per configurare l’istituto quale giudizio
ex novo sulla domanda cautelare; non basta l’ampiezza e la portata
degli spazi cognitivi oltre i limiti segnati dagli errori allegati alla
domanda per riportare l’organo decidente nella stessa posizione del
giudice che ha emesso l’ordinanza coercitiva.
La riprova dell’assunto sta nella constatazione che tra i poteri
decisori del tribunale del riesame non rientra quello di modificare, in
senso più sfavorevole all’imputato, il provvedimento cautelare
sottoposto al suo sindacato. Tale limite cognitivo impedisce di
concepire il riesame quale novum iudicium, consentendo di
ricondurlo più correttamente nella categoria dei controlli incidentali
sui provvedimenti de libertate.
Quindi, se è vero che il collegio giudicante abbia il compito
di sottoporre al suo vaglio critico l’intero percorso logico-giuridico
che ha condotto all’applicazione della misura, riesaminando i
presupposti, le condizioni ed i criteri di scelta della misura, è anche
vero che ciò avviene esclusivamente nell’interesse del ricorrente,
cosicché il tratto distintivo dell’istituto non sta tanto nella
inoperatività del tantum devolutum quantum appellatum, quanto
piuttosto nello scopo di assicurare la salvaguardia dei diritti primari
della persona (192
).
5. I limiti all’applicabilità dell’effetto estensivo. — Le
Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione
relativa all’applicabilità alle impugnazioni proponibili contro i
provvedimenti de libertate dell’effetto estensivo previsto dall’art.
587 c.p.p.
istituto ibrido: «mira a giudizi sul merito e la nuova decisione sostituisce
l’appellata, sciogliendo l’alternativa conferma-riforma, ma occorrono dei motivi»
che misurano l’effetto devolutivo.
(192
) Per ulteriori considerazioni in tal senso si rinvia a PIERRO, Il
giudicato cautelare, cit., p. 157.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 147
Sul tema, la giurisprudenza della Corte di cassazione si era
ripartita in tre indirizzi.
Un primo orientamento aveva risolto positivamente la
questione, ritenendo che, se viene proposto un mezzo di
impugnazione avverso un provvedimento che incide sulla libertà
personale di più coindagati e tale gravame sia presentato solo da
alcuni di questi, l’eventuale accoglimento dell’impugnazione, con il
conseguente annullamento del titolo della custodia cautelare, spiega
effetto anche nei confronti del non impugnante, purché il motivo
posto a base dell’annullamento non sia riferibile alla posizione del
singolo indagato (193
).
Altro indirizzo, invece, aveva negato ogni effetto estensivo
automatico, ammettendo, talvolta, che la nuova situazione, scaturente
dall’accoglimento dell’impugnazione del soggetto diligente, potesse
integrare un elemento idoneo a fondare un provvedimento di revoca
della misura cautelare (194
).
In senso intermedio, si era ammesso l’effetto estensivo della
decisione solo qualora il procedimento incidentale, di riesame o di
appello, fosse sorto cumulativamente e fosse stato proseguito dal
solo soggetto diligente.
Le Sezioni unite hanno mostrato di condividere quest’ultimo
orientamento.
Posta la distinzione tra «effetto estensivo dell’impugnazione»
— che consente, ove possibile, anche al soggetto non impugnante di
partecipare al giudizio di impugnazione — ed «effetto estensivo della
decisione» — che rende operanti, sussistendone le condizioni, anche
per il soggetto non impugnante, gli effetti favorevoli della decisione
stessa, nonostante sia rimasto estraneo al giudizio di impugnazione
—, il Supremo Collegio ha, innanzitutto, escluso che, in materia de
libertate, possa operare il primo, sostenendo che la disciplina
delineata dagli artt. 309, 310 e 311, per la peculiarità di strutture e
per la rapidità delle relative decisioni, risulta incompatibile con
(
193) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 26 giugno 1995, Scirocco, in C.E.D.
Cass., n. 202798.
(194
) Cass., Sez. I, 29 settembre 1995, Raffa, in C.E.D. Cass., n. 202743.
CAPITOLO QUINTO 148
l’estensione dell’impugnazione proposta dal coindagato diligente ai
coindagati estranei al procedimento.
Tuttavia, nell’ipotesi di procedimento incidentale che sorga e
si svolga in modo unitario e cumulativo è sempre possibile, «sulla
base dei principi propri dell’ordinamento processuale, estendere,
ove ne ricorrano i presupposti, gli effetti favorevoli della decisione,
purché non fondata su motivi personali di uno degli impugnanti, ad
altro coindagato nello stesso procedimento» (195
).
Questo principio di diritto è stato seguito dalla prevalente
giurisprudenza di legittimità, che ha ritenuto che il presupposto per
l’operatività dell’effetto estensivo della decisione sia costituito dalla
circostanza che il procedimento incidentale si svolga in modo
unitario e cumulativo, in quanto l’estensione riguarda la posizione di
coloro che non abbiano preso parte al procedimento per non aver
neppure proposto l’impugnazione o perché il loro gravame sia stato
dichiarato inammissibile (196
).
Non sono mancate, però, pronunce nel senso che la
frammentazione del procedimento, derivante dalla diversità dei
mezzi di impugnazione proposti, non preclude l’estensione degli
effetti favorevoli della decisione, allorché il vizio del provvedimento
cautelare sia così radicale da essere necessariamente comune a tutti i
coindagati (197
).
Sul punto, in dottrina (198
), si è sostenuto che nessun elemento
autorizza un’impostazione per la quale la condizione di operatività
dell’art. 587 c.p.p., in relazione all’effetto estensivo delle decisioni in
bonam partem in materia di provvedimenti de liberate, sarebbe
condizionata dalla presenza d’un procedimento cumulativo,
risultando esclusa nelle altre ipotesi; fermo restando quanto disposto
(
195) Sez. Un., 22 novembre 1995 - 15 febbraio 1996, n. 41, Ventura ed
altro, in C.E.D. Cass., n. 203635.
(196
) Cfr. Cass., Sez. II, 14 dicembre 1999, Bonforte, in C.E.D. Cass., n.
216353.
(197
) Cass., Sez. V, 24 marzo 2004, Monteforte, in C.E.D. Cass., n.
229193.
(198
) SPANGHER, Prime riflessioni su di un tema complesso: l’effetto
estensivo dell’impugnazione e l’effetto estensivo della decisione dei gravami de
libertate, in Cass. pen., 1996, p. 3389.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 149
dalle Sezioni unite nel caso di procedimento avviatosi e sviluppatosi
cumulativamente, nel qual caso l’eventuale carente applicazione
dell’art. 587 c.p.p. resta inserita nella vicenda processuale, così da
poter essere fatta valere anche con il gravame, nelle altre ipotesi
l’effetto estensivo della pronuncia può essere riconosciuto dal
giudice con la sua decisione nel procedimento di gravame ovvero
essere sollecitato dal coimputato non impugnante in via autonoma.
6. I limiti di ammissibilità della motivazione per
relationem. — Le Sezioni unite, chiamate a risolvere un contrasto
giurisprudenziale in ordine all’interpretazione del disposto di cui al
comma 3 dell’art. 268 c.p.p., hanno avuto modo di chiarire i limiti
entro i quali risulta legittimo motivare per relationem il
provvedimento conclusivo del giudizio di riesame (199
).
L’ammissibilità del ricorso alla motivazione per relationem,
in materia di impugnazioni de libertate, è stata riconosciuta dalle
Sezioni unite Moni del 1996 (200
), le quali hanno affermato che
l’ordinanza applicativa della misura e quella che decide sulla
richiesta di riesame sono tra loro strettamente collegate e
complementari, sicché la motivazione del tribunale del riesame
integra e completa l’eventuale carenza di motivazione del
(
199) In generale, sul tema della motivazione dell’ordinanza di riesame,
v. AMATO, sub art. 309, cit., p. 202; CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure
coercitive nel processo penale, cit., p. 183; ID., Il riesame sulla legittimità
dell’ordinanza cautelare: cade il teorema della «motivazione integratrice», in
Cass. pen., 1995, p. 1917; CONFALONIERI, Requisiti essenziali della motivazione
della decisione del tribunale della libertà, in Giur. it., 1994, II, c. 92; GIOSTRA,
Commento all’art. 9 della legge n. 332 del 1995, in AA. VV., Modifiche al codice
di procedura penale, cit., p. 133; ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e
procedimento applicativo, cit., p. 105; NAPPI, Vizio di motivazione dell’ordinanza
coercitiva e ricorso immediato per Cassazione, in Cass. pen., 1998, p. 882;
ORLANDI, Riesame del provvedimento cautelare privo di motivazione, in Cass.
pen., 1996, p. 1521; TURCO, La motivazione dell’ordinanza di riesame: limiti al
potere di integrazione, in Cass. pen., 2001, p. 3096; VERRINA, La motivazione
nelle decisioni del tribunale della libertà, in Cass. pen., 1995, p. 1570;
VESSICHELLI, nota a Cass., Sez. V, 22 aprile 1997, Pallesca, in Cass. pen., 1998, p.
565.
(200
) V. supra, cap. III, § 7.
CAPITOLO QUINTO 150
provvedimento del primo giudice e, viceversa, la motivazione
insufficiente del giudice del riesame può ritenersi integrata da quella
del provvedimento impugnato, allorché, in quest’ultimo, siano state
indicate le ragioni logico-giuridiche che, ai sensi degli artt. 273, 274
e 275 c.p.p., ne hanno determinato l’emissione.
Si tratta di un orientamento ben radicato nella giurisprudenza
di legittimità, teso a consentire al giudice del riesame di motivare il
suo provvedimento facendo riferimento all’ordinanza impositiva che
ha dato luogo all’impugnazione, atto, quest’ultimo, certamente
conosciuto dalle parti (201
).
Un indirizzo più rigoroso, pur senza negare la legittimità
della motivazione per relationem, ha, tuttavia, precisato che, se
l’ordinanza del tribunale della libertà può fare riferimento a quanto
indicato in altri provvedimenti al fine di evitare la ripetizione di
elementi già conosciuti dalle parti, il mero appiattimento del giudice
su valutazioni emergenti da altro provvedimento, senza alcun apporto
critico e senza la presa in considerazione delle specifiche doglianze
rivolte dagli interessati al provvedimento oggetto dell’impugnazione,
concreta il vizio di mancanza della motivazione di cui all’art. 606
lett. e) c.p.p.; e ciò perché, in materia cautelare, vige il principio
secondo cui l’obbligo di esporre i motivi per i quali non sono stati
ritenuti rilevanti gli elementi addotti dalla difesa, previsto dall’art.
292, comma 2, lett. c-bis) c.p.p., è imposto sia al giudice che
pronuncia l’ordinanza applicativa della misura cautelare, sia al
tribunale del riesame, quando in tal sede detti elementi siano stati
prospettati (202
).
È questa la prospettiva che ha sposato di recente il Supremo
Collegio, considerando «illegittimo il provvedimento conclusivo del
giudizio di impugnazione cautelare che sia genericamente motivato
con un rinvio al provvedimento impugnato; la motivazione per
relationem, ad avviso dei giudici di legittimità, può svolgere
esclusivamente una funzione integrativa, inserendosi in un contesto
(
201) Cfr., ex multis, Cass., Sez. V, 7 novembre 1996, Perrone, in C.E.D.
Cass., n. 206570; Id., Sez. I, 7 febbraio 1995, Magliocco, ivi, n. 200930.
(202
) Così Cass., Sez. II, 28 novembre 1997, Costanzo, in C.E.D. Cass.,
n. 209601.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 151
che disattende i motivi di gravame con un richiamo ad accertamenti
e ad argomenti contenuti nel provvedimento impugnato, ma non può
costituire una sostanziale vanificazione del mezzo di impugnazione
attraverso un generale e generico rinvio a quel provvedimento» (203
).
In tale senso risulta orientata anche la più recente
giurisprudenza, che ha fatto propria la soluzione adottata dalle
Sezioni unite, soluzione che si presenta come l’unica in grado di
assicurare appieno la garanzia della motivazione e, attraverso di essa,
la garanzia della giurisdizione.
Non si può non convenire sull’affermazione secondo cui
l’obbligo di motivazione risulta inadempiuto allorquando la
motivazione dell’ordinanza si risolva nel mero richiamo alle
argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, omettendo la
valutazione delle doglianze contenute nella richiesta di riesame; un
simile apparato motivazionale, infatti, finisce per vanificare la
garanzia del doppio grado di giurisdizione, facendo venir meno lo
stesso oggetto del procedimento di riesame, costituito dalla revisione
critica della precedente statuizione, alla luce dei rilievi svolti dal
ricorrente (204
).
7. La condanna del soccombente al pagamento delle spese
del procedimento di riesame. — Si è molto discusso se il principio
generale fissato dall’art. 592, comma 1, c.p.p., secondo cui «con il
provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l’impugnazione,
la parte privata che l’ha proposta è condannata alle spese del
(
203) Sez. Un., 26 novembre 2003 - 19 gennaio 2004, n. 23, Gatto, in
C.E.D. Cass., n. 226488. In senso analogo già si era espressa Sez. Un., 22 marzo -
2 maggio 2000, n. 11, Audino, supra, cap. II, § 3.
(204
) Cass., Sez. I, 1° ottobre 2004, in C.E.D. Cass., n. 231022. Cfr.
anche Cass., Sez. IV, 16 febbraio 2005, n. 19338, B. e altro, ivi, n. 231554, in cui si
afferma che in tema di motivazione dei provvedimenti cautelari, il giudice del
riesame, in particolare nei procedimenti complessi nei quali è necessario
individuare le relazioni intercorrenti tra molti soggetti e confrontare risultati
probatori di diverso genere (intercettazioni, sequestri, pedinamenti, etc.), non può
limitarsi ad una mera elencazione, sia pure di tipo ricostruttivo, degli elementi di
prova acquisiti, ma deve valutare il compendio fattuale al fine di poter affermare la
gravità indiziaria che costituisce il presupposto dell’applicazione della misura.
CAPITOLO QUINTO 152
procedimento», trovi applicazione anche con riguardo alle
impugnazioni de libertate (205
).
Una parte della giurisprudenza di legittimità ha seguito un
orientamento negativo, affermando che «posto che l’art. 592 c.p.p.
prevede e disciplina la condanna alle spese nei ―giudizi‖ di
impugnazione, nel presupposto, quindi, di una soccombenza rispetto
all’azione penale esercitata dalla pubblica accusa, mentre la
decisione adottata dal tribunale del riesame, difettando il suddetto
presupposto, non è qualificabile come vero e proprio ―giudizio‖, ma
come semplice accertamento limitato alla misura cautelare
considerata, che si colloca all’esito di un procedimento meramente
incidentale, ne deriva che è illegittima la condanna dell’imputato al
pagamento delle spese processuali nel caso di conferma, da parte del
tribunale, dell’ordinanza oggetto della richiesta di riesame» (206
).
Secondo l’opposto orientamento, «in materia di condanna alle
spese ed eventualmente alla sanzione pecuniaria nella fase di
legittimità, poiché è indubbia la natura di mezzi di impugnazione sia
dell’istanza di riesame, sia dell’appello, sia del ricorso per cassazione
proposti avverso i provvedimenti cautelari o probatori, proprio la
mancanza di una normativa specifica rende applicabili i principi
generali stabiliti al riguardo per le impugnazioni in genere e per il
ricorso di cassazione in particolare» (207
).
Le Sezioni unite, investite del contrasto giurisprudenziale,
hanno sposato quest’ultimo indirizzo, prendendo le mosse dal rilievo
che il legislatore, inserendo il riesame, al pari dell’appello e del
ricorso per cassazione avverso le ordinanze in tema di misure
cautelari, nel capo VI del libro IV del nuovo codice di rito, intitolato
«Delle impugnazioni», gli ha espressamente conferito la natura di
mezzo d’impugnazione, ancorché la disciplina di tale rimedio
(
205) Sul tema v. PEREGO, Nel procedimento di riesame, con l’ordinanza
che conferma il provvedimento cautelare l’impugnante è condannato al pagamento
delle spese processuali, in Foro ambr., 2000, p. 504.
(206
) Cass., Sez. I, 13 luglio 1994, Ietro, in C.E.D. Cass., n. 199357; Id.,
Sez. I, 17 giugno 1993, Perrone, ivi, n. 194744.
(207
) Cass., Sez. III, 13 gennaio 1995, Madonna, in C.E.D. Cass., n.
202381; Id., Sez. VI, 3 giugno 1994, Metrangolo, ivi, n. 199537; Id., Sez. VI, 22
dicembre 1993, Chianese, ivi, n. 197374.
I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 153
presenti indubbi profili di atipicità per quanto concerne la brevità dei
termini, la semplificazione del procedimento, la non necessaria
formulazione dei motivi, la deroga al principio devolutivo ed infine
la perdita di efficacia della misura se la pronunzia non intervenga in
un termine perentorio.
Da siffatto inquadramento consegue che, per quanto non
espressamente regolato e nei limiti della compatibilità con gli
specifici caratteri del riesame, a quest’ultimo si estendono le
disposizioni generali sulle impugnazioni.
Occorre allora indagare se, anche alla luce del principio della
compatibilità, sia estensibile al rimedio in discorso il disposto di cui
all’art. 592 c.p.p.
Il Supremo Collegio ha risposto positivamente al quesito
sulla base dei seguenti argomenti: 1) l’art. 592, comma 1, c.p.p.
collega la condanna alle spese a qualsiasi «provvedimento» con il
quale l’impugnazione venga respinta o dichiarata inammissibile, con
un’espressione certamente ampia, comprensiva sia delle sentenze che
delle ordinanze; 2) il riferimento al «giudizio di impugnazione»,
contenuto nei commi secondo e terzo dell’articolo in esame, è, di per
sé solo, inidoneo a delimitare l’ampia portata del primo comma,
riferendosi le dette norme ad ipotesi particolari, quale la riforma della
sentenza di assoluzione di primo grado, ovvero l’intervento dei
coimputati non impugnanti nel caso di un possibile effetto estensivo
dell’impugnazione proposta; 3) la formulazione letterale del comma
1 dell’art. 592 è identica a quella dell’art. 616, prima parte, c.p.p., il
quale enuncia una regola, la cui estensibilità anche ai ricorsi avverso
i provvedimenti de libertate costituisce un dato pacifico.
Inoltre, le Sezioni unite, in ordine alla compatibilità del
disposto di cui al primo comma dell’art. 592 c.p.p. con la particolare
natura di impugnazione atipica propria del procedimento di riesame,
hanno osservato che, ai sensi di questa norma, interpretata anche alla
stregua dell’art. 616 c.p.p., la condanna alle spese processuali poggia
su due presupposti, rispettivamente integrati dal dover essere tale
statuizione contenuta in un provvedimento definitivo, per tale
intendendosi quello che concluda il procedimento dinanzi al giudice
che ne è stato investito, e dalla soccombenza, costituito dal mancato
CAPITOLO QUINTO 154
accoglimento dell’impugnazione proposta. Ebbene, entrambi tali
presupposti ricorrono rispetto all’ordinanza di rigetto o di
inammissibilità pronunziata dal tribunale in esito del giudizio di
riesame; anche tale ordinanza, infatti, esaurisce in via definitiva il
procedimento incidentale, il quale, pur inserendosi in quello
principale, presenta un’indubbia autonomia quanto all’oggetto ed alle
finalità; lo stesso provvedimento, peraltro, attraverso la declaratoria
di rigetto o di inammissibilità della richiesta di riesame, determina la
soccombenza dell’istante.
La Corte ha concluso, quindi, affermando che, «poiché il
riesame ha natura di mezzo di impugnazione, deve trovare
applicazione, anche con riguardo ad esso, il principio generale
fissato in materia di spese dall’art. 592, primo comma, c.p.p.;
pertanto, atteso che l’ordinanza di rigetto o di inammissibilità del
gravame, pronunziata dal tribunale, esaurisce in via definitiva il
procedimento incidentale e determina la soccombenza dell’istante,
legittimamente viene disposta, in tale provvedimento, la condanna al
pagamento delle spese processuali» (208
).
Questa soluzione esegetica si presenta sistematicamente
ineccepibile, per la piena compatibilità della statuizione sulle spese
con i provvedimenti di rigetto o di inammissibilità pronunciati
all’esito della procedura di riesame.
(
208) Sez. Un., 5 - 20 luglio 1995, n. 26, Galletto, in C.E.D. Cass., n.
202014.
Capitolo Sesto
IL GIUDICATO CAUTELARE
SOMMARIO: 1. L’operatività del principio del ne bis in idem rispetto al
provvedimento impositivo a seguito di riesame nel merito. — 2. L’effetto
preclusivo dei provvedimenti de libertate. — 3. L’individuazione dei
caratteri del giudicato cautelare. — 4. Gli effetti preclusivi della decisione
sull’appello del magistrato del pubblico ministero avverso l’ordinanza di
rigetto della richiesta di misura cautelare personale. — 5. Considerazioni
conclusive sul giudicato cautelare.
1. L’operatività del principio del ne bis in idem rispetto al
provvedimento impositivo a seguito di riesame nel merito. — La
nozione di giudicato cautelare rappresenta una delle più evidenti
espressioni di giurisprudenza creativa, trattandosi di un fenomeno
elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nella sua opera esegetica
della disciplina delle impugnazioni de libertate, a fronte di
un’evidente lacuna normativa (209
). Sono state, in particolare, le
(
209) In dottrina, sul concetto di giudicato cautelare, v. APRILE, Recenti
orientamenti interpretativi della Corte di cassazione in tema di «tribunale di
libertà», in Nuovo dir., 1994, II, p. 973; ARRIGO, Il giudicato allo stato degli atti
nelle misure cautelari, in Giur. it., 1996, II, c. 669; BARGIS, Procedimento de
libertate e giudicato cautelare, in AA. VV., Presunzione di non colpevolezza e
disciplina delle impugnazioni, Atti del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi
del processo penale tenutosi a Mattinata 25-27 settembre 1998, Milano, 2000, p.
183; ID., Procedimento de libertate e giudicato cautelare, in Gazz. Giur., 1998, f.
42, p. 1; BONSIGNORE, Operatività del ne bis in idem in tema di revoca o
sostituzione di misure cautelari personali e reiterabilità delle relative istanze, in
Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 444; CERESA GASTALDO, Sulla persistenza
dell’interesse all’impugnazione dei provvedimenti cautelari revocati, cit., loc. cit.;
CONFALONIERI, Ne bis in idem in materia di misure cautelari, in Giur. it., 1993, II,
c. 215; GAZZANIGA, Sopravvenienza di elementi a carico dell’imputato prosciolto
in primo grado e applicabilità delle misure cautelari alla luce del principio ne bis
in idem, in Cass. pen., 1996, p. 2666; GIRONI, Revoca o sostituzione di misure
cautelari e reiterabilità delle relative istanze secondo il nuovo codice di rito
penale, in Foro it., 1991, II, c. 147; GRADILONE, Aspetti problematici del rapporto
fra richiesta di revoca e richiesta di riesame delle misure cautelari personali, in
Giust. pen., 1994, III, c. 258; LACCHI, Il ne bis in idem cautelare nei reati
CAPITOLO SESTO 156
Sezioni unite, con una serie di pronunce aventi ad oggetto la
risoluzione di questioni interpretative poste dalla disciplina dettata
dall’art. 309 c.p.p., a definire i caratteri e delineare i limiti del c.d.
giudicato cautelare.
L’elaborazione giurisprudenziale del concetto di giudicato
cautelare, ovvero della preclusione da bis in idem derivante dai
provvedimenti cautelari, rinviene il suo primo tassello in una
sentenza con cui le Sezioni unite hanno dato il via ad una riflessione
giurisprudenziale, destinata ad essere sottoposta a successive
precisazioni e ripensamenti, sempre ad opera del massimo consesso
giurisdizionale.
Il contrasto giurisprudenziale, del quale è stato investito il
Supremo Collegio, attiene alla reiterabilità o meno, in assenza di
apprezzabili mutamenti dei presupposti di fatto, dei provvedimenti
cautelari relativamente ai quali si sia verificata la condizione che ne
determina la perdita di efficacia ai sensi dell’art. 309, comma 10,
c.p.p., in conseguenza dell’inosservanza del termine di cui al
precedente comma 9.
Nel caso affrontato dalla Corte, a seguito della declaratoria di
inefficacia della misura della custodia cautelare in carcere ex art. 309
comma 10 c.p.p., il giudice per le indagini preliminari, ritenendo che
non sussistesse alcuna preclusione in tal senso, disponeva
associativi, in Giur. it., 2000, p. 2142; LAVARINI, Revoca e riesame delle misure
coercitive, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, p. 534; LORUSSO, Una impropria
utilizzazione del concetto di giudicato penale: il cd. ne bis in idem cautelare, in
Cass. pen., 1994, p. 648; MONACO, Il cd. giudicato cautelare. Caratteri in breve,
in Cass. pen., 1996, p. 870; PIERRO, Il giudicato cautelare, cit., p. 232; POTETTI,
Riesame, appello e revoca in tema di misure cautelari: una convivenza difficile, in
Cass. pen., 1994, p. 2934; PRESTIPINO, Sulla reiterabilità di una misura cautelare
già revocata, in Giur. it., 1992, II, c. 680; RIVELLO, Il giudicato cautelare e le
interconnessioni tra processo penale comune e processo penale militare, in Cass.
pen., 1996, p. 2677; SPAGNOLO, I poteri cognitivi e decisori del tribunale della
libertà investito dell’appello de libertate del pubblico ministero: i confini tra
devolutum e decisum, in Cass. pen., 2004, p. 2756; SPANGHER, Le Sezioni Unite
sui rapporti tra riesame e richiesta di revoca dei provvedimenti cautelari, in Dir.
pen. proc., 1995, p. 69; VESSICHELLI, osservazioni a Cass., Sez. un., 12 ottobre
1993, Durante, cit., loc. cit.; ID., osservazioni a Cass., Sez. un., 1° luglio 1992,
Grazioso, in Cass. pen., 1992, p. 2998.
IL GIUDICATO CAUTELARE 157
nuovamente la misura custodiale caducata, «osservando che i gravi
indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari già posti a fondamento
del primo provvedimento coercitivo non solo persistevano immutati
ma avevano trovato conferma nelle indagini successivamente
espletate».
Veniva, conseguentemente, denunciata dai ricorrenti
l’illegittimità della reiterazione del provvedimento restrittivo
riconosciuto inefficace per violazione dell’art. 309, comma 9, c.p.p.,
perché non consentita dall’ordinamento giuridico processuale, che
non la contempla tra le ipotesi in cui è ammessa la riadozione di un
provvedimento cautelare perento.
Ed invero, la questione aveva già costituto oggetto di opposte
soluzioni adottate dalle Sezioni semplici della Suprema Corte.
In un primo senso, si era negata la reiterabilità, salvo che per
la sopravvenienza di fatti nuovi, della misura cautelare caducata per
effetto della inosservanza del termine stabilito per l’espletamento
della procedura di riesame, invocando il «principio di tassatività dei
casi in cui la legge prevede che possano essere emesse misure
cautelari personali», enunciato dall’art. 272 c.p.p.; se ne era dedotto
che il ripristino di una misura cautelare estinta per inosservanza o
scadenza di un termine può essere consentito solo in presenza di una
esplicita previsione normativa, come stabilito dagli artt. 302, 305
comma 2 e 307 comma 1 c.p.p., altrimenti verrebbe ad essere del
tutto frustrato lo scopo garantistico perseguito dal legislatore con la
previsione dell’effetto caducatorio collegato alla inosservanza del
termine, in quanto la caducazione resterebbe vanificata mediante
l’emanazione di un nuovo provvedimento identico al precedente e
basato sui medesimi presupposti (210
).
Di diverso avviso, altro orientamento giurisprudenziale aveva
evidenziato l’inesistenza di qualsivoglia disposizione che, nella
fattispecie in esame, vieti, ancorché in modo implicito, la
reiterazione, come invece si verifica, ad esempio, nel caso della
intervenuta decorrenza dei termini di custodia cautelare, al di fuori
delle ipotesi di reiterabilità contemplate dal comma 2 lett. a) e b)
(
210) Cass., Sez. I, 3 ottobre 1991, Amoruso, in C.E.D. Cass., n. 188477.
CAPITOLO SESTO 158
dell’art. 307 c.p.p. (211
). Si era, in quest’ottica, proceduto alla
distinzione tra l’ipotesi di pronuncia giurisdizionale che abbia
escluso la sussistenza dei presupposti e delle condizioni di cui agli
artt. 273 e 274 c.p.p., pronuncia che esclude, alla luce del principio
del ne bis in idem, la reitarabilità della misura, e quella del tutto
diversa in cui la misura coercitiva sia rimasta caducata per ragioni
puramente formali, non implicanti un giudizio sulla sussistenza delle
condizioni normativamente richieste per l’emissione dei
provvedimenti cautelari, nel qual caso la reiterabilità della misura
trova fondamento normativo nell’art. 302 c.p.p., che esprime un
principio di portata generale e, pertanto, applicabile a tutte le forme
di perdita di efficacia del provvedimento per ragioni formali (212
).
Le Sezioni unite hanno accolto quest’ultimo indirizzo,
compiendo una disamina a tutto campo della questione di diritto
rimessa al loro esame.
Riconosciuto che il decorso del termine fissato dal comma 9
dell’art. 309 c.p.p. non costituisce di per sé causa di preclusione per
la emanazione di un successivo provvedimento di identico contenuto,
non creando alcuna situazione di incompatibilità tra l’atto caducato
nei suoi effetti e quello emanando, l’analisi della Corte è divenuta
più generale ed il nodo della questione si è spostato
sull’individuazione dei limiti di operatività del principio del ne bis in
idem in materia cautelare.
Secondo il Supremo Collegio, l’effetto preclusivo da bis in
idem va, senz’altro, riconosciuto allorquando il provvedimento sia
rimasto caducato in conseguenza di riesame del merito effettuato con
decisione giurisdizionale non più soggetta a gravame, in cui sia stata
esclusa la ricorrenza delle condizioni generali di legittimità,
«determinandosi in tal caso quella situazione di inconciliabilità tra i
due provvedimenti, quello caducato e quello riemesso, che non
possono, pertanto, coesistere».
(
211) Cass., Sez. I, 3 marzo 1992, Trapanese, in C.E.D. Cass., n. 189232;
Id., Sez. I, 8 novembre 1991, Pezzella, ivi, n. 188847.
(212
) Cass., Sez. II, 25 marzo 1992, Del Monte, in C.E.D. Cass., n.
189942.
IL GIUDICATO CAUTELARE 159
Il principio del ne bis in idem, previsto dall’art. 649 c.p.p.,
opera, quindi, anche in materia cautelare quando il giudice deve
prendere in esame quegli stessi presupposti che siano già stati
sottoposti a valutazione in sede di gravame e ritenuti insussistenti,
insufficienti o invalidi; al contrario, quando l’inefficacia
dell’originario provvedimento sia derivata da sopravvenute
condizioni estrinseche, come da irregolarità della procedura di
riesame, nessuna preclusione può considerarsi esistente.
Che la reiterazione della misura coercitiva della custodia
cautelare in carcere debba ammettersi quando il precedente
provvedimento sia rimasto caducato per ragioni puramente formali è
desumibile dagli stessi principi generali enunciati nelle disposizioni
raccolte nel titolo primo del quarto libro del codice di procedura
penale, che regolano tutta la materia cautelare e valgono in ogni fase
e grado del processo; più in particolare, è nel disposto dell’art. 302
c.p.p. che si coglie, al di là della disciplina dettata per la specifica
ipotesi in essa prevista, il riconoscimento normativo della
reiterabilità, in generale, delle misure di rigore caducate per ragioni
puramente formali, e, quindi, dell’assenza di alcun effetto preclusivo
della inefficacia stessa, in qualunque caso del genere essa si sia
verificata, dovendo escludersi in linea di principio che l’inefficacia
dell’atto possa determinare conseguenze disomogenee a seconda
della formalità inosservata.
Per cui, ha concluso la Corte, «ferme restando le condizioni e
le esigenze previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p., la cui sussistenza è
richiesta per l’adozione di una qualsiasi misura cautelare, la
reiterazione del provvedimento caducato risulta razionalmente
subordinata nella specie all’adempimento da parte del giudice
dell’incombente in precedenza omesso (appunto l’interrogatorio), in
quanto atto di per sé ripetibile e necessario ai fini della valutazione
richiesta dai citati artt. 273 e 274 c.p.p.».
Il principio di diritto adottato dalle Sezioni unite può essere
espresso nei seguenti termini: «Deve ritenersi ammissibile la
reiterazione, anche in mancanza di apprezzabili mutamenti della
situazione di fatto, dell’ordinanza con la quale è stata applicata una
misura cautelare coercitiva, quando ne sia stata dichiarata
CAPITOLO SESTO 160
l’inefficacia per inosservanza del termine perentorio stabilito, ai fini
del riesame del provvedimento stesso, dall’art. 309 c.p.p., nonché in
ogni altro caso in cui il precedente provvedimento sia rimasto
caducato per ragioni puramente formali. La reiterazione del
provvedimento impositivo deve, invece, ritenersi preclusa,
allorquando il provvedimento sia rimasto caducato in conseguenza
del riesame del merito effettuato con decisione giurisdizionale non
più soggetta a gravame, con la quale sia stata esclusa la ricorrenza
delle condizioni generali di legittimità, attesa l’inconciliabilità che si
determinerebbe tra i due provvedimenti e la preclusione processuale
derivante dall’applicazione del disposto dell’art. 649 c.p.p., nel
quale è accolto il principio del ne bis in idem, operativo anche in
materia cautelare» (213
).
La pronuncia in esame rappresenta, come anticipato, il primo
tentativo di descrivere il fenomeno del giudicato cautelare, fenomeno
che, tuttavia, è stato solamente abbozzato, attraverso il mero
riconoscimento dell’esistenza di una preclusione — di cui, peraltro,
non viene chiarita la portata — derivante dall’ordinanza, non più
soggetta ad impugnazione, che abbia escluso la sussistenza dei
presupposti e delle condizioni di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p.
Appare sicuramente condivisibile la risoluzione data alla
questione oggetto di contrasto, ovvero la riconosciuta reiterabilità
dell’ordinanza cautelare caducata ai sensi dell’art. 309, comma 10,
c.p.p. e, più in generale, venuta meno per ragioni puramente formali.
Tuttavia, questo non significa, come sembrerebbe leggersi tra
le righe della sentenza, che, in tale ipotesi, non sia ipotizzabile alcun
effetto preclusivo. In verità, la preclusione deve essere collegata
all’oggetto della decisione, la quale rappresenta il limite di
operatività della cosa giudicata.
Apertis verbis, l’ordinanza, non più impugnabile, che abbia
dichiarato la perenzione della misura, se per un verso non impedisce
— salvi espressi divieti di legge — la reiterazione della stessa,
preclude, comunque, che la questione dell’inefficacia possa costituire
oggetto di una nuova decisione da parte di un altro giudice.
(
213) Sez. Un., 1° luglio - 10 settembre 1992, n. 11, Grazioso ed altri, in
C.E.D. Cass., n. 191183.
IL GIUDICATO CAUTELARE 161
Si tratta di una conclusione che è stata meglio precisata dalla
giurisprudenza successiva, che, proprio con riferimento
all’inefficacia comminata dal comma 10 dell’art. 309 c.p.p., è giunta
a riconoscere alla pronuncia resa su di essa — così come all’omessa
pronuncia sulla stessa — da parte della Corte di cassazione il valore
di cosa giudicata, a cui si collega la preclusione a sollevare la
quaestio dell’inefficacia sia nel procedimento principale, che in altro
eventuale attivato da richiesta di revoca o altrimenti (214
).
Appare, per tale ragione, inconferente e fonte di confusione il
principio per cui il giudicato cautelare si riferisce solo alle questioni
di merito e non già alle questioni di carattere processuale.
2. L’effetto preclusivo dei provvedimenti de libertate. —
Come detto, le Sezioni unite Grazioso del 1992 si sono limitate a
riconoscere l’operatività di un effetto di ne bis in idem anche in
materia cautelare, collegandolo alle pronunce non più impugnabili
che abbiano escluso, nel merito, la sussistenza dei presupposti e delle
condizioni previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p. A questa affermazione
di principio non è seguito, però, un approfondimento della tematica e
sono rimaste estranee all’analisi della Suprema Corte le
problematiche fondamentali poste dal concetto di giudicato cautelare:
in primo luogo, l’individuazione delle pronunce cautelari in grado di
produrre una preclusione da bis in idem e, in secondo luogo, la
precisazione della portata e del contenuto di una simile preclusione.
La questione che, in altri termini, è rimasta sullo sfondo della
sentenza e che rappresenta il punto nevralgico della tematica in
esame è quella attinente alla possibilità di concepire, e fino a che
punto, un effetto tipico del giudicato, quale il ne bis in idem,
derivante da un provvedimento, quello reso in materia cautelare, che
è per sua natura sempre revocabile.
Il primo tentativo di dare un più compiuto inquadramento alla
materia si deve ad una successiva sentenza, con la quale le Sezioni
unite, chiamate a risolvere un contrasto attinente altro tema, ovvero
l’individuazione del dies a quo del termine di dieci giorni previsto
(
214) Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo, supra, cap.
IV, § 3.
CAPITOLO SESTO 162
dal comma 9 dell’art. 309, hanno colto l’occasione per enunciare un
obiter dictum che, sia pure schematicamente, descrive i rapporti tra
richiesta di riesame ed istanza di revoca.
Secondo il Supremo Collegio, riesame e revoca non sono
meccanismi processuali sovrapponibili, in quanto unicamente
attraverso il primo risulta possibile contestare la sussistenza
originaria dei presupposti e delle condizioni legittimanti l’esercizio
del potere cautelare, mentre la revoca può avere luogo solo in
conseguenza di quanto acquisito successivamente alla definitività del
titolo custodiale e sostanzialmente o processualmente inficiante le
condizioni in base alle quali era stato emesso quel determinato
provvedimento (215
).
Questa presa di posizione, tuttavia, anziché rendere più
limpido il quadro normativo in cui si inserisce la questione del
giudicato cautelare, ha prestato il fianco al determinarsi, in seno alla
giurisprudenza di legittimità, di un contrasto relativo
all’ammissibilità del riesame proposto successivamente alla richiesta
di revoca della misura cautelare, contrasto che è stato risolto ad un
anno di distanza, sulla base di un’impostazione affatto diversa della
tematica, dalle Sezioni unite Buffa (216
).
Ma, prima ancora di questo problema, è stato sottoposto
all’attenzione delle Sezioni unite altro contrasto interpretativo,
relativo sempre ai rapporti tra riesame e revoca, e più precisamente
inerente la permanenza o meno dell’interesse ad impugnare quando,
nelle more del giudizio di riesame, di appello o di cassazione,
l’ordinanza impositiva della custodia cautelare in carcere sia stata
revocata, con conseguente remissione in libertà dell’indagato o
dell’imputato.
Rinviando ad altro paragrafo l’analisi della soluzione data a
tale questione dalle tre sentenze intervenute sul tema e deliberate
(
215) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, supra, cap.
III, § 6.
(216
) V., infra, § 3.
IL GIUDICATO CAUTELARE 163
nella stessa camera di consiglio (217
), in questa sede appare
necessario esaminare la parte motiva della prima pronuncia — a cui
le altre due risultano perfettamente conformi —, in cui il Supremo
Collegio, nel risolvere il quesito posto, ha esaminato il problema
interpretativo relativo alla nozione di «decisione irrevocabile», fatta
propria dal comma 2 dell’art. 314 c.p.p.
Attraverso un’attenta disamina delle diverse significazioni
che il concetto di «decisione irrevocabile» potrebbe assumere nel
contesto della disciplina della riparazione per l’ingiusta detenzione,
le Sezioni unite sono giunte ad affermare che la «decisione
irrevocabile», integrante ex art. 314 comma 2 c.p.p. il titolo del
diritto alla riparazione, deve essere individuata nell’ordinanza, non
impugnata, adottata dal tribunale ex artt. 309 e 310 in sede di riesame
o di appello avverso il provvedimento de libertate, ovvero nella
pronunzia emessa dalla Corte di cassazione a seguito di ricorso
contro tale ordinanza, o in sede di ricorso per saltum contro lo stesso
provvedimento applicativo della misura.
L’esigenza di evitare un’illimitata reiterazione di
provvedimenti o di richieste di revoca, incompatibile con l’economia
processuale, impone di riconoscere anche alle pronunce in esame una
sia pur limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale,
fondata sul principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.
La Corte ha, quindi, affermato che «anche alle ordinanze,
non impugnate, adottate dal tribunale ex artt. 309 e 310 c.p.p. in
sede di riesame o di appello avverso provvedimenti de libertate,
nonché alle pronunzie emesse dalla cassazione a seguito di ricorso
contro tali ordinanze, o in sede di ricorso per saltum contro il
provvedimento applicativo della misura, va riconosciuta una sia pur
limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale, fondata sul
principio del ne bis in idem, di cui all’art. 649 c.p.p.».
In forza di tale principio, «soltanto un successivo,
apprezzabile mutamento del fatto consente sia la reiterazione di
un’ordinanza applicativa di misure cautelari, annullata dal tribunale
(
217) Sez. Un., 12 ottobre - 8 novembre 1993, n. 20, Durante; Id., 12
ottobre - 12 dicembre, Stablum e Capitali; Id., 12 ottobre - 20 dicembre 1993, n. 22
Corso, su cui v. supra, cap. I, § 3.
CAPITOLO SESTO 164
del riesame per ragioni di merito, con pronunzia non più soggetta a
gravame, sia la revoca, per inidoneità degli indizi, della medesima
ordinanza, la quale sia stata, invece, confermata in sede di gravame
o sia, comunque, divenuta definitiva, sia, infine, la reiterazione di
una richiesta di revoca, qualora un’ordinanza di rigetto di una
precedente istanza sia stata confermata in sede di
impugnazione» (218
).
Ed anche ove si ritenga — conclude la Corte — che il
giudicato formatosi nel procedimento de libertate copra soltanto le
circostanze dedotte e valutate dal giudice, ma non anche il
deducibile, resta pur sempre che le pronunzie adottate in tale
procedimento posseggono, nei limiti derivanti dalla loro funzione, il
carattere dell’irrevocabilità, che ne permette l’inserimento nello
schema di cui all’art. 314, comma 2, c.p.p.
La pronunzia in esame ha confermato e specificato le
conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite Grazioso e Dell’Omo,
riconoscendo l’idoneità a produrre un effetto preclusivo analogo a
quello — ben più intenso — disciplinato dall’art. 649 c.p.p.
unicamente ai provvedimenti de libertate resi all’esito dei
procedimenti incidentali di impugnazione.
La Corte, tuttavia, non si è interrogata a fondo sui rapporti
che intercorrono tra il carattere di «irrevocabilità» che i
provvedimenti in discorso sono suscettibili di acquisire e l’istituto
della revoca disciplinato dall’art. 299 c.p.p., se non per subordinare il
venir meno dell’effetto preclusivo ad «un successivo, apprezzabile
mutamento del fatto», con una soluzione che, come si avrà modo di
precisare, è stata ridimensionata dalla successiva giurisprudenza
delle Sezioni unite.
Inoltre, appare solo accennata l’ulteriore problematica
attinente alle circostanze coperte dal giudicato cautelare, che sono
quelle dedotte e valutate dal giudice e non anche quelle deducibili.
3. L’individuazione dei caratteri del giudicato cautelare. — Sullo sfondo della tematica del giudicato cautelare e dei dubbi
che in tale concetto si annidano, soprattutto con riferimento ai limiti
(
218) Sez. Un., 12 ottobre - 8 novembre 1993, n. 20, Durante, cit.
IL GIUDICATO CAUTELARE 165
ed alla portata dell’effetto preclusivo da bis in idem che i
provvedimenti de libertate sono suscettibili di produrre, si staglia
l’annosa questione relativa ai rapporti tra riesame e revoca, che, nei
primi anni di applicazione del codice vigente, ha dato luogo a disagi
giurisprudenziali e ad incertezze applicative.
È chiaro che una definizione più compiuta del fenomeno del
giudicato cautelare passa necessariamente per un chiarimento in
merito alle relazioni giuridiche intercorrenti tra questi due rimedi
processuali. E non è un caso che la sentenza destinata a rappresentare
il principale punto di riferimento nell’elaborazione giurisprudenziale
del concetto di ne bis in idem cautelare sia intervenuta proprio a
dirimere il contrasto interpretativo sorto in ordine alle interrelazioni
tra giudizio di riesame e procedura di revoca.
Eliminati i dubbi sulla persistenza dell’interesse ad agire nel
caso di revoca della misura coercitiva nelle more del giudizio di
riesame (219
), rimaneva da sottoporre ad una più attenta riflessione il
dilemma concernente l’ammissibilità o meno della richiesta di
riesame presentata dopo l’istanza di revoca.
Nella fattispecie concreta, che ha determinato l’intervento
delle Sezioni unite, il ricorrente, sottoposto alla misura degli arresti
domiciliari, aveva proposto, all’esito dell’interrogatorio di garanzia,
istanza di revoca e, a seguito del rigetto della stessa, aveva presentato
tempestiva richiesta di riesame; quest’ultima era stata dichiarata
inammissibile, in quanto preclusa dalla precedente istanza di revoca.
Il ricorso, assegnato alla Sezione sesta della Corte di
cassazione, è stato rimesso alle Sezioni unite, per dirimere il
contrasto giurisprudenziale manifestatosi sul tema.
Il prevalente orientamento risolveva la questione sulla base di
due argomentazioni; per un verso, si affermava che nel procedimento
incidentale de libertate opera la regola generale secondo cui, qualora
siano previsti più mezzi di impugnazione, la scelta di uno di essi
consuma il potere di esperire l’altro o gli altri; per altro verso, si
evidenziava che l’istanza di revoca, per essere fondata sulla
sopravvenienza di una nuova situazione incompatibile con il
permanere della misura cautelare, ne sconta la legittimità originaria,
(
219) V., supra, § 2 e cap. I, § 3.
CAPITOLO SESTO 166
nel senso, cioè, che la proposizione dell’istanza di revoca implica
l’acquiescenza del proponete sulla legittimità originaria
dell’ordinanza cautelare e, quindi, la formazione sul punto di un
giudicato, o meglio di una preclusione allo stato degli atti (220
).
In senso diverso, si rilevava, da un lato, che il principio della
consunzione del potere di impugnazione derivante dall’esercizio di
uno dei rimedi consentiti fosse erroneamente invocato, non avendo
l’istanza di revoca natura di mezzo di impugnazione, e, dall’altro,
che nell’ordinamento processuale penale manca una norma
corrispondente all’art. 329 c.p.c., che qualifica, in termini generali,
l’acquiescenza espressa o tacita quale presupposto
dell’improponibilità dell’impugnazione e, quindi, della formazione
del giudicato (221
).
Le Sezioni unite, con la sentenza su ricorso Buffa del 1994,
hanno accolto quest’ultimo orientamento, sulla base delle seguenti
argomentazioni: a) riesame e revoca non hanno la stessa natura
giuridica, in quanto, se il primo è espressamente annoverato tra i
mezzi di impugnazione de libertate, eguale natura non può essere
riconosciuta alla seconda, sulla base del decisivo rilievo che essa può
essere disposta anche di ufficio nelle ipotesi previste dall’art. 299,
comma 3, c.p.p.; b) riesame e revoca si distinguono anche per
funzioni: al tribunale del riesame, per un verso, è attribuito in via
esclusiva il controllo sulla validità dell’ordinanza cautelare, con
riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 c.p.p., per l’altro,
è affidata la verifica, alla stregua degli artt. 273, 274, 275 e 280
c.p.p., della legittimità dell’adozione della misura cautelare, sia con
riguardo alla situazione processuale coeva al provvedimento
impugnato, sia valutando gli elementi sopravvenuti dedotti in
udienza; diversamente, l’ordinanza in tema di revoca della misura
mira a verificare la sussistenza attuale delle condizioni di
(
220) Cass., Sez. I, 17 maggio 1994, Polenghi, in C.E.D. Cass., n.
198149; Id., Sez. I , 3 febbraio 1994, Palladino, ivi, n. 196970; Id., Sez. Fer., 10
settembre 1992, Glazner, ivi, n. 191902; Id., Sez. Fer., 18 agosto 1992, De Salvo,
ivi, n. 191962.
(221
) Cass., Sez. VI, 8 aprile 1994, Fontana, in Arch.nuova proc.pen.,
1994, p. 524.
IL GIUDICATO CAUTELARE 167
applicabilità della misura, prescritte dagli artt. 273 e 274 c.p.p., o di
quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia ai fatti
sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all’ordinanza impositiva,
facendoli oggetto di una valutazione eventualmente diversa da quella
prescelta dal giudice che ha applicato la misura.
Ne discende che il giudice competente a pronunziarsi sulla
revoca della misura non incontra alcuna preclusione, quanto
all’accertamento della carenza originaria (oltre che persistente) di
indizi o di esigenze cautelari, nella mancata impugnazione
dell’ordinanza cautelare nei termini previsti dagli artt. 309 e 311
c.p.p.
Ed invero, una preclusione processuale è suscettibile di
formarsi solo a seguito delle pronunzie emesse, all’esito del
procedimento incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema,
ovvero dal tribunale, in sede di riesame o di appello, avverso le
ordinanze in tema di misure cautelari personali. Si tratta di un effetto
connaturato allo stesso sistema delle impugnazioni, che, per sua
natura, è diretto in modo specifico ad ottenere, da un giudice
collegiale sopraordinato, un controllo sulle condizioni di legittimità
della disposta misura; per cui, qualora tale controllo sia stato
effettuato, le relative pronunzie non possono non spiegare
un’efficacia preclusiva allo stato degli atti, in ordine alle questioni
trattate, per evidenti ragioni di economia processuale, che
giustificano l’estensione analogica al settore in discorso del principio
del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.
Peraltro, l’effetto preclusivo in discorso non copre anche le
questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte nei
procedimenti di impugnazione avverso ordinanze in materia di
misure cautelari personali, in forma sia esplicita che implicita,
intendendosi queste ultime come le questioni che, quantunque non
enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di
quelle espressamente dedotte.
La conclusione è che le pronunce in esame, «se non
impugnabili o, a loro volta, non impugnate, spiegano un’efficacia
preclusiva sulle suindicate questioni, con la conseguenza che, così
come non è consentita l’adozione di una nuova ordinanza cautelare
CAPITOLO SESTO 168
sulla base degli stessi elementi ritenuti insussistenti o irrilevanti in
sede di gravame, allo stesso modo, più in generale, le questioni in
discorso restano precluse in sede di adozione di ogni successivo
provvedimento relativo alla stessa misura ed allo stesso
soggetto» (222
).
Come appare evidente, con questa sentenza l’istituto del
giudicato cautelare risulta compiutamente delineato nei suoi caratteri
fondamentali: esso è suscettibile di formarsi solo a seguito delle
pronunce emesse all’esito dei procedimenti incidentali di
impugnazione; è allo stato degli atti; copre solo le questioni dedotte,
esplicitamente o implicitamente, con le impugnazioni de libertate e
non anche quelle deducibili.
Ciò implica, con riferimento ai rapporti tra riesame e revoca,
per un verso, che la richiesta di riesame, proposta successivamente
all’istanza di revoca, è sempre ammissibile, per l’altro, che il giudice,
in sede di revoca, può legittimamente rivalutare il quadro cautelare
anche sulla base dei soli fatti originariamente allegati a sostegno
della domanda cautelare, salvo la preclusione che impedisce di
sottoporre a diverso apprezzamento, in mancanza di mutamenti della
situazione originaria, le circostanze dedotte, esplicitamente o
implicitamente, con le impugnazioni de libertate (223
).
In ogni caso, per quanto detto, il giudice investito dell’istanza
di revoca non può conoscere dei vizi di validità dell’ordinanza
impositiva, con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292
c.p.p.; le violazioni dell’art. 292 c.p.p. possono, infatti, essere
dichiarate solo dal giudice del riesame o dalla Corte di cassazione,
perché la scadenza dei termini previsti per le impugnazioni de
libertate sana le nullità del provvedimento applicativo derivanti dalla
mancanza di questi requisiti di validità, quando non si tratti di vizi
rendono il provvedimento inesistente e ineseguibile a norma
(
222) Sez. Un., 8 luglio - 28 luglio 1994, n. 11, Buffa, in C.E.D. Cass., n.
198213.
(223
) Questa conclusione è stata, di recente, confermata da Sez. Un., 24
maggio - 9 luglio 2004, n. 29952, Romagnoli, in C.E.D. Cass., n. 228117, che ha
risolto, con riferimento alle misure cautelari reali, il medesimo contrasto
interpretativo, affrontato dalla sentenza Buffa.
IL GIUDICATO CAUTELARE 169
dell’articolo 292 comma 3. In questi casi, pertanto, dalla mancata
proposizione dell’impugnazione o dalla conclusione del relativo
procedimento incidentale deriva, comunque, la preclusione a dedurre
l’invalidità del provvedimento applicativo per violazione dell’art.
292 c.p.p., anche se la questione non sia stata oggetto di specifica
deduzione. E viceversa, l’annullamento del provvedimento
applicativo per difetto dei requisiti di validità non preclude
l’applicazione della medesima misura con un nuovo provvedimento,
in quanto non contiene alcun accertamento in ordine al presupposti
della misura.
È bene evidenziare come la prevalente giurisprudenza di
legittimità si sia sostanzialmente conformata al dictum delle Sezioni
unite e come lo stesso si presenti razionalmente motivato e coerente
con il sistema delle impugnazioni de libertate.
Esso, tuttavia, per essere pienamente condivisibile, merita di
essere sottoposto ad un’ulteriore precisazione: l’intervento del
giudicato cautelare non esonera il giudice, investito della richiesta di
revoca, dalla doverosa verifica in ordine all’esistenza di ragioni che
rivelino l’insussistenza dei presupposti e delle condizioni della
misura, e ciò anche sulla base dei medesimi elementi già valutati con
l’esperimento dei mezzi di impugnazione, purché la valutazione a
suo tempo resa appaia superabile attraverso ragioni non
precedentemente prospettate e sempre che la nuova decisione non si
ponga in contraddizione con quella già resa.
Questa ulteriore precisazione è stata effettuata da una
successiva sentenza delle Sezioni unite che, chiamata a dirimere il
contrasto giurisprudenziale relativo alla rilevabilità dell’inefficacia
prevista dall’art. 309 comma 10 c.p.p., ha affrontato, in un obiter
dictum, la tematica del giudicato cautelare, anche alla luce del nuovo
comma 3-ter dell’art. 299 c.p.p., inserito dall’art. 13 l. 8 agosto 1995,
n. 332, che implicitamente consente di prospettare a sostegno di una
richiesta di revoca anche fatti già valutati.
In realtà, secondo il Supremo Collegio, la preclusione che
deriva dal cosiddetto giudicato cautelare attiene alle singole questioni
e non al procedimento previsto dall’art. 299 c.p.p., che può essere
sempre attivato dall’interessato con la richiesta di revoca ed
CAPITOLO SESTO 170
eventualmente con le successive impugnazioni. Sicché, il giudice
adito, quando rileva che vengono riproposte questioni già discusse e
valutate nel corso di precedenti incidenti de libertate, può limitarsi a
richiamare le decisioni conclusive di quei procedimenti incidentali,
ma non può dichiarare inammissibili in nome del giudicato cautelare
né la richiesta di revoca, né le impugnazioni. Il giudice della revoca,
infatti, è sempre tenuto ad accertare d’ufficio se vi siano ragioni,
anche diverse da quelle prospettategli dall’interessato, che
dimostrino l’insussistenza dei presupposti della misura; e, quindi, la
decisione che disattende la richiesta di revoca è sempre di rigetto,
non d’inammissibilità.
Ciò nondimeno, il giudice della revoca può ritenere superate,
in ragione di un diverso contesto valutativo, le decisioni già assunte a
seguito delle impugnazioni de libertate, ma non può contraddirle,
perché quelle decisioni hanno un’efficacia preclusiva che vincola il
giudice e le parti ad assumere per definitive le questioni
effettivamente esaminate.
Ma v’é di più.
Il giudicato cautelare non esclude neppure che il giudice
possa rivalutare i medesimi fatti e pervenire ad una diversa decisione
sulla base di nuove ragioni in precedenza non prospettate, come si
desume sia dall’art. 299, comma 1, c.p.p., che consente di revocare la
misura anche per vizi originari, sia dall’art. 299, comma 3-ter, c.p.p.,
il quale, come anticipato, implicitamente riconosce all’interessato il
diritto di richiedere la revoca anche sulla base di fatti già valutati.
Alla luce della ratio di queste disposizioni, che è
evidentemente quella di consentire una permanente e costante
verifica dei presupposti della custodia cautelare, la teoria del
cosiddetto giudicato cautelare — afferma la Corte — «si giustifica
perché tende a consentire un più agevole ricorso alla motivazione per
relationem al fine di disattendere richieste ripetitive e defatiganti»;
non si giustificherebbe, invece, «se venisse utilizzata per eludere i
doveri che dall’art. 299 c.p.p. derivano al giudice del merito» (224
).
(
224) Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo, supra, cap.
IV, § 3. In termini similari v., più di recente, Cass., Sez. V, 19 ottobre 2005, n.
40281, in C.E.D. Cass., n. 232798, secondo cui in tema di revoca di misure
IL GIUDICATO CAUTELARE 171
Il carattere di novità necessario per superare il giudicato
cautelare può consistere, sulla scorta di quanto finora detto, sia
nell’allegazione di un fatto in precedenza non esaminato, sia nella
formulazione di un nuovo argomento, ovvero di un argomento
retorico appartenente ad una tipologia diversa da quelli in precedenza
utilizzati.
4. Gli effetti preclusivi della decisione emessa sull’appello
del magistrato del pubblico ministero contro l’ordinanza di
rigetto della richiesta di misura cautelare personale. — Le
Sezioni unite, di recente, hanno avuto modo di tornare sulla
questione del giudicato cautelare, esaminandola, questa volta, non
più sotto il profilo dei rapporti tra richiesta di riesame ed istanza di
revoca, ma affrontando il complesso tema dei rapporti tra
proposizione dell’appello de libertate e nuova richiesta cautelare.
Il contrasto giurisprudenziale che ha originato l’intervento del
Supremo Collegio — ossia se, nel procedimento di appello contro le
ordinanze in materia di misure cautelari personali, sia consentita
l’acquisizione e l’utilizzazione di elementi probatori sopravvenuti
all’adozione del provvedimento impugnato e addotti dalle parti —
attiene alla disciplina dell’appello ex art. 310 c.p.p.
Tuttavia, questa sentenza merita di essere analizzata nella
presente sede nella misura in cui la Corte, alla luce della soluzione
data all’interrogativo postole, considerando ammissibile, entro certi
limiti ed a precise condizioni, l’introduzione del novum in appello, si
è trovata ad affrontare una questione del tutto nuova, che coinvolge
direttamente la tematica del giudicato cautelare, ossia quella della
cautelari personali, la preclusione derivante dal cosiddetto giudicato cautelare
attiene alle singole questioni e non al procedimento previsto dall’art. 299 c.p.p.,
che può essere sempre attivato dall’interessato. Conseguentemente il giudice adito
con la richiesta di revoca o con la successiva impugnazione di una decisione di
diniego della revoca può limitarsi a richiamare le decisioni conclusive di
precedenti procedure de libertate, qualora rilevi la riproposizione di questioni già
valutate in precedenza, ma non può dichiarare inammissibili, in forza del giudicato
cautelare, né le richieste di revoca né le impugnazioni, essendo sempre tenuto ad
accertare d’ufficio la sussistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate
dall’interessato, indicative dell’insussistenza dei presupposti della misura.
CAPITOLO SESTO 172
contemporanea pendenza di un procedimento di appello avverso
l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale e di
una rinnovata la domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo
stesso fatto.
Le Sezioni unite, poste di fronte alla necessità di regolare
questo fenomeno, hanno fatto ricorso alla categoria della preclusione
endoprocedimentale, configurando i rapporti tra proposizione
dell’appello de libertate e nuova richiesta cautelare non in termini di
concorrenza, bensì di alternatività. Hanno, in altre parole, affermato
il principio per cui, qualora il magistrato del pubblico ministero si
determini a coltivare contemporaneamente entrambe le vie (da un
lato, rinnovando al giudice per le indagini preliminari la richiesta di
misura cautelare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso
fatto, mediante l’allegazione di elementi nuovi, e, dall’altro,
insistendo nell’appello avverso il provvedimento reiettivo), al
giudice del procedimento principale sia preclusa, in pendenza
dell’appello avverso la sua prima decisione, la potestà di statuire
ancora in ordine alla medesima domanda devoluta in sede di
gravame al vaglio del tribunale della libertà: «non può invero
consentirsi all’organo dell’accusa, nell’investire della decisione sulla
stessa azione cautelare diversi giudici, di perseguire l’abnorme
risultato di un duplice, identico titolo, l’uno ―a sorpresa‖ e
immediatamente esecutivo, l’altro disposto all’esito di
contraddittorio camerale e del quale resta sospesa l’esecutività fino
alla decisione definitiva».
Questa conclusione si è resa necessaria proprio alla luce del
principio del ne bis in idem cautelare e degli effetti preclusivi che la
decisione definitiva sull’appello del magistrato del pubblico
ministero contro l’ordinanza di rigetto della richiesta di una misura
cautelare è in grado di produrre; ed infatti, le Sezioni unite,
rifacendosi al principio espresso dalla sentenza Buffa, hanno
affermato che con il sopraggiungere di questa decisione si realizza
una situazione di relativa stabilità del decisum, nel senso che esso
spiega una limitata efficacia preclusiva endoprocedimentale, allo
stato degli atti, in ordine alle questioni in fatto e in diritto
esplicitamente o implicitamente dedotte — ma non anche a quelle
IL GIUDICATO CAUTELARE 173
deducibili — in quel giudizio; di talché, le medesime questioni, nella
carenza di deduzione da parte del magistrato del pubblico ministero
di nuove e significative acquisizioni che implichino un mutamento
della situazione di riferimento, sulla quale la decisione di appello era
fondata, restano precluse in sede di adozione da parte del giudice di
un successivo provvedimento cautelare nei confronti dello stesso
soggetto e per lo stesso fatto.
La Corte ha, pertanto, formulato le seguenti affermazioni di
principio: « Qualora il magistrato del pubblico ministero, nelle more
della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva
della richiesta di misura cautelare personale, rinnovi la domanda
nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando
elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, è precluso
al giudice, in pendenza del procedimento di appello, decidere in
merito alla medesima domanda cautelare.
La decisione emessa sull’appello instaurato dal magistrato
del pubblico ministero contro l’ordinanza di rigetto della richiesta di
misura cautelare personale, una volta divenuta definitiva, ha
efficacia preclusiva, rebus sic stantibus, in ordine alle questioni in
fatto o in diritto esplicitamente o implicitamente dedotte, non anche
a quelle deducibili, in quel giudizio; pertanto le questioni dedotte, in
difetto di nuove acquisizioni probatorie che implichino un
mutamento della situazione di fatto sulla quale la decisione era
fondata, restano precluse nel procedimento cautelare eventualmente
attivato dal magistrato del pubblico ministero mediante nuova
richiesta nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso
fatto» (225
).
La soluzione adottata dalla sentenza in esame si presenta
sicuramente condivisibile sotto il profilo della riconosciuta
alternatività tra appello de libertate del magistrato del pubblico
ministero e nuova richiesta cautelare. L’esigenza di evitare la
litispendenza di procedimenti sullo stesso oggetto e nei confronti del
medesimo soggetto, suscettibili di pervenire a statuizioni
contraddittorie sulla base della valutazione dei medesimi elementi,
(
225) Sez. Un., 31 marzo - 20 aprile 2004, n. 18339, Donelli ed altro, in
C.E.D. Cass., n. 227358 e n. 227359.
CAPITOLO SESTO 174
rende plausibile e sistematicamente accettabile la soluzione di
anticipare la preclusione da bis in idem alla scelta dell’organo
dell’accusa di far valere le proprie doglianze attraverso
l’impugnazione dell’ordinanza di rigetto.
Più complesso è il discorso relativo al perfezionarsi del
giudicato cautelare nell’ipotesi di ordinanza di rigetto della richiesta
cautelare. Le Sezioni unite, richiamando la sentenza Buffa e
collegando l’effetto preclusivo alla decisione definitiva sull’appello
del magistrato del pubblico ministero, sembrano aver escluso che un
simile effetto possa derivare anche dalla mancata impugnazione
dell’ordinanza di rigetto.
Ebbene, questa conclusione presta il fianco ad alcune
osservazioni. Il principio espresso dalla sentenza Buffa — secondo
cui l’effetto di ne bis in idem deriva solo dalle ordinanze pronunciate
all’esito dei procedimenti incidentali di impugnazione — attiene ai
rapporti tra richiesta di riesame ed istanza di revoca e si presenta
pienamente condivisibile se riferito al provvedimento impositivo
della misura coercitiva.
L’operazione di estenderlo anche all’ordinanza di rigetto non
appare, invece, accettabile. Ed infatti, altro è il controllo
sull’esistenza e sulla persistenza dei presupposti e delle condizioni
legittimanti l’esercizio del potere cautelare, che deve sempre essere
assicurato a seguito dell’applicazione di una misura cautelare, altro è
il controllo che può sollecitare il magistrato del pubblico ministero
avverso il provvedimento che abbia rigettato la sua richiesta, non
condividendo le deduzioni in essa contenute; quest’ultimo controllo
può essere ottenuto solo attraverso l’appello ex art. 310 c.p.p., la cui
omessa proposizione non può che generare una preclusione da bis in
idem sulle circostanze dedotte e valutate. Questo significa che il
giudice del procedimento principale non può applicare la misura,
prima negata, sulla base di una semplice diversa valutazione dei
medesimi elementi.
Del resto, nella giurisprudenza di legittimità può essere
rinvenuto un orientamento teso ad evidenziare che nell’ipotesi in cui
il magistrato del pubblico ministero non abbia impugnato
un’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione di una misura
IL GIUDICATO CAUTELARE 175
cautelare personale, si forma il giudicato cautelare, per cui sussiste
una preclusione alla reiterazione, negli stessi termini, della istanza
respinta, mentre non vi è preclusione qualora la nuova richiesta
contenga una diversità di allegazioni e deduzioni (226
); invero, per i
provvedimenti in materia cautelare, diversi da quelli genetici e
soggetti come tali ad appello ex art. 310 c.p.p., la preclusione del
giudicato cautelare vale, relativamente alle censure che ne potevano
formare oggetto, anche in caso di mancata proposizione o di
declaratoria di inammissibilità del gravame; e ciò in forza del
carattere devolutivo del mezzo, che, altrimenti, ne risulterebbe
vanificato (227
).
Questa distinzione, ai fini del formarsi del giudicato
cautelare, tra provvedimenti impositivi della misura, impugnabili con
il riesame, ed altri provvedimenti cautelari, impugnabili con
l’appello, si spiega anche sulla base di un’ulteriore osservazione: in
sede di adozione del provvedimento coercitivo originario manca, di
regola, un atto difensivo di parte, che consenta di delimitare con
chiarezza i punti sui quali il giudice è chiamato a decidere, così da
determinare sugli stessi la preclusione processuale da ne bis in idem,
volta a prevenire la proposizione delle medesime questioni.
Apertis verbis, non si può ritenere operante, ai danni
dell’indagato o imputato, una preclusione da bis in idem,
collegandola ad un provvedimento sul quale l’interessato non ha
avuto modo di interloquire e non ha, pertanto, potuto prospettare
questioni idonee ad essere coperte dal giudicato.
Al contrario, nell’ipotesi di rigetto della richiesta cautelare
del magistrato del pubblico ministero, così come di rigetto
dell’istanza di revoca o sostituzione dell’interessato, il
provvedimento reiettivo, anche se non impugnato, è in grado di
acquisire la forza del giudicato cautelare sulle specifiche questioni
dedotte dall’organo dell’accusa o dall’indagato o imputato e
specificamente valutate dal giudice procedente.
(
226) Cass., Sez. VI, 25 ottobre 2002, Ricceri, in C.E.D. Cass., n.
223654.
(227
) Cass., Sez. VI, 11 febbraio 1999, Romeo, in C.E.D. Cass., n.
214052; Id., Sez. VI, 12 gennaio 1998, Internicola, ivi, n. 210589.
CAPITOLO SESTO 176
5. Considerazioni conclusive sul giudicato cautelare. —
Sulla scorta degli interventi giurisprudenziali sopra esaminati è
possibile ricostruire il sistema del ne bis in idem cautelare.
Con riferimento alle ordinanze impositive della misura, la
preclusione processuale da bis in idem è suscettibile di formarsi solo
a seguito delle pronunce emesse, all’esito del procedimento
incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal
tribunale in sede di riesame o di appello, se non impugnabili o non
impugnate.
Se l’ordinanza genetica della misura cautelare non viene
impugnata e, comunque, finché il novero dei rimedi impugnatori non
sia stato esaurito, alcun effetto di ne bis in idem si produce ed il
giudice competente a pronunciarsi sulla revoca della misura cautelare
non incontra alcuna preclusione quanto all’accertamento della
carenza originaria, oltre che persistente, di indizi o di esigenze
cautelari.
Per altro verso, se nella pendenza del procedimento
sull’impugnazione de libertate interviene la revoca della misura
cautelare, l’interesse dell’indagato ad ottenere una pronuncia, in sede
di riesame, di appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità
dell’ordinanza che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare
permane, in quanto l’ordinanza inoppugnabile di annullamento della
misura suddetta, adottata nel procedimento incidentale de libertate
costituisce «decisione irrevocabile», idonea, nei casi di
proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314 comma 2 c.p.p., a
fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per l’ingiusta
detenzione.
Dalla mancata impugnazione dell’ordinanza impositiva della
misura deriva unicamente la preclusione a valutare la validità
formale del provvedimento impositivo. Da un lato, infatti, il giudice
investito dell’istanza di revoca non può conoscere dei vizi di validità
dell’ordinanza dispositiva della misura, con riguardo ai requisiti
formali enumerati nell’art. 292 c.p.p. Dall’altro, le violazioni dell’art.
292 c.p.p. possono essere dichiarate solo dal giudice del riesame o
dalla Corte di cassazione, perché la scadenza dei termini previsti per
IL GIUDICATO CAUTELARE 177
le impugnazioni de libertate sana le nullità del provvedimento
applicativo derivanti dalla mancanza di questi requisiti di validità,
quando non si tratti di vizi che rendono il provvedimento inesistente
ed ineseguibile a norma dell’articolo 292 comma 3.
Le medesime conclusioni non valgono per le ordinanze
diverse da quelle impositive, ovvero per le ordinanze di rigetto della
richiesta cautelare presentata dal magistrato del pubblico ministero e
per le ordinanze con le quali il giudice procedente decide sull’istanza
di revoca o di sostituzione presentata dall’interessato.
Per tali provvedimenti deve ritenersi, sulla scorta di quanto
osservato nel precedente paragrafo, che la preclusione del giudicato
cautelare vale, relativamente alle censure che ne potevano formare
oggetto, anche in caso di mancata proposizione o di declaratoria di
inammissibilità del gravame; e ciò in forza del carattere devolutivo
del mezzo dell’appello, che, altrimenti, ne risulterebbe vanificato.
Inoltre, qualora il magistrato del pubblico ministero, nelle
more della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza
reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, rinnovi la
domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto,
allegando elementi probatori «nuovi», preesistenti o sopravvenuti, è
precluso al giudice, in pendenza del procedimento di appello,
decidere in merito alla medesima domanda cautelare.
Il giudicato cautelare ha una portata più modesta rispetto a
quella determinata dalla cosa giudicata (228
), sia perché è limitata allo
stato degli atti, sia perché non copre anche le questioni deducibili, ma
soltanto le questioni dedotte implicitamente o esplicitamente,
intendendosi queste ultime come le questioni che, quantunque non
enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di
quelle espressamente dedotte.
Questo significa, tenuto conto degli enunciati normativi di cui
ai commi 1 e 3-ter dell’art. 299 c.p.p., che il carattere di novità
necessario per superare il giudicato cautelare e comportare la
necessità di nuove valutazioni può consistere nell’allegazione sia di
(
228) Sull’effetto preclusivo del giudicato ex art. 649 c.p.p., sia
consentito il rinvio a TROISI, La nozione giurisprudenziale di litispendenza penale,
in Dir. pen. e proc., 2006, p. 719.
CAPITOLO SESTO 178
un fatto in precedenza non esaminato, sia di un nuovo argomento,
inteso come indicazione e interpretazione di norme giuridiche di
riferimento in precedenza non esaminate o formulazione di
argomenti retorici appartenenti ad un tipo diverso da quelli in
precedenza utilizzati (229
).
(
229) In tal senso v. anche BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni
dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 881.
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