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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SALERNO

DIPARTIMENTO DI DIRITTO PUBBLICO GENERALE

E TEORIA DELLE ISTITUZIONI

PAOLO TROISI

LE PROCEDURE DE LIBERTATE

NEI PERCORSI INTERPRETATIVI

DELLE SEZIONI UNITE DELLA

CASSAZIONE

SEZIONE DI DIRITTO PROCESSUALE PENALE

Q U A D E R N I

Copyright 2007 by Dipartimento di Diritto Pubblico Generale

e Teoria delle Istituzioni

Pubblicazione finanziata

dall’Università degli Studi di Salerno

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo

effettuata, compresa la fotocopia, non autorizzata.

I N D I C E

Introduzione ................................................................................. Pag. 1

Capitolo Primo

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE

Pag.

1. I provvedimenti impugnabili: premessa ................................... » 9

2. L’esperibilità del riesame contro tutti i provvedimenti adottati

da qualsiasi giudice nella fase delle indagini preliminari ed in

quelle successive ....................................................................... » 15

3. L’interesse ad impugnare anche nell’ipotesi di revoca o

sostituzione della misura coercitiva custodiale ........................ » 18

4. L’interesse ad impugnare anche per una sola delle plurime

imputazioni ............................................................................... » 25

5. La presentazione della richiesta di riesame in uffici giudiziari

diversi da quello di appartenenza del giudice che ha emesso il

provvedimento .......................................................................... » 26

6. La presentazione della richiesta di riesame con telegramma o

raccomandata ............................................................................ » 30

7. La decorrenza del termine per la proposizione della richiesta

di riesame da parte del difensore .............................................. » 31

8. La sospensione dei termini durante il periodo feriale ............... » 37

Capitolo Secondo

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI

Pag.

1. L’avviso all’autorità giudiziaria procedente di trasmissione

degli atti .................................................................................... » 45

INDICE II

2. Il dies a quo di decorrenza del termine per la trasmissione

degli atti .................................................................................... » 48

3. Un problema in tema di decorrenza del termine per la

trasmissione degli atti ............................................................... » 52

4. La necessità che gli atti pervengano al tribunale del riesame

nel termine di cinque giorni ...................................................... » 57

5. La perdita di efficacia della misura per omessa trasmissione al

tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle

intercettazioni ........................................................................... » 59

6. Le conseguenze dell’omessa trasmissione del verbale

dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato ............................ » 68

7. L’esclusione della perdita di efficacia della misura coercitiva

in caso di mancata o tardiva trasmissione della richiesta

cautelare .................................................................................... » 72

Capitolo Terzo

L’UDIENZA CAMERALE

Pag.

1. Il problema della notificazione dell’avviso della data

dell’udienza camerale al codifensore che non abbia

sottoscritto la richiesta di riesame ............................................ » 79

2. La rinnovazione dell’avviso nell’ipotesi di inosservanza del

termine dilatorio di tre giorni .................................................... » 85

3. Il diritto dell’interessato ad estrarre copia degli atti ................. » 88

4. La traduzione del detenuto all’udienza camerale ..................... » 90

5. L’omessa indicazione nell’avviso di udienza del diritto del

detenuto alla traduzione davanti al magistrato di sorveglianza

o al giudice del riesame ............................................................ » 95

6. La decorrenza del termine di dieci giorni per la decisione ....... » 96

7. Il deposito del dispositivo nel decimo giorno dalla ricezione

degli atti per evitare la perenzione della misura ....................... » 98

8. L’individuazione del dies ad quem nella ventiquattresima ora

del decimo giorno dalla ricezione degli atti .............................. » 104

9. Le conseguenze dell’invalidità della decisione adottata

tempestivamente ....................................................................... » 106

10. L’inapplicabilità al giudizio di rinvio del termine perentorio

di dieci giorni per la decisione .................................................. » 111

INDICE III

11. La sospensione per la risoluzione di una pregiudiziale

costituzionale ............................................................................ » 112

Capitolo Quarto

LA PERENZIONE DELLA MISURA

Pag.

1. I termini della questione e le prime prese di posizione della

giurisprudenza .......................................................................... » 115

2. L’intervento delle Sezioni unite per la risoluzione di un

contrasto giurisprudenziale ....................................................... » 117

3. Un secondo intervento delle Sezioni unite ............................... » 120

Capitolo Quinto

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI DEL TRIBUNALE DEL

RIESAME

Pag.

1. La declaratoria di incompetenza del giudice che ha adottato la

misura cautelare ....................................................................... » 125

2. La valutabilità dei gravi indizi di colpevolezza anche dopo il

rinvio a giudizio dell’imputato ................................................. » 135

3. Il potere di dare una diversa qualificazione giuridica al

fatto ........................................................................................... » 141

4. L’inapplicabilità del principio del tantum devolutum quantum

appellatum ................................................................................ » 145

5. I limiti di applicabilità dell’effetto estensivo ............................ » 146

6. I limiti di ammissibilità della motivazione per relationem ...... » 149

7. La condanna del soccombente al pagamento delle spese del

procedimento di riesame ........................................................... » 151

INDICE IV

Capitolo Sesto

IL GIUDICATO CAUTELARE

Pag.

1. L’operatività del principio del ne bis in idem rispetto al

provvedimento impositivo a seguito di riesame nel

merito ........................................................................................ » 155

2. L’effetto preclusivo dei provvedimenti de

libertate ..................................................................................... » 161

3. L’individuazione dei caratteri del giudicato cautelare .............. » 164

4. Gli effetti preclusivi della decisione emessa sull’appello del

magistrato del pubblico ministero contro l’ordinanza di

rigetto della richiesta di misura cautelare personale ................. » 171

5. Considerazioni conclusive sul giudicato cautelare ................... » 176

Bibliografia .................................................................................. Pag. 179

INTRODUZIONE

È ben noto come tra le innovazioni più pregnanti della

codificazione del 1988 risalti la razionalizzazione dei meccanismi

processuali di controllo sui provvedimenti de libertate.

Il previgente assetto normativo assicurava ai soggetti

interessati una limitata possibilità di reazione avverso le decisioni

cautelari, al di fuori di un disegno unitario improntato ai principi

fondamentali dettati dalla Carta costituzionale in materia di tutela

della libertà personale dell’individuo. Inoltre, i vari interventi

legislativi, che si erano succeduti e che erano culminati con

l’introduzione dell’istituto del riesame, non avevano contribuito a

conferire organicità e coerenza al sistema dei rimedi contro le

privazioni ante iudicium delle libertà fondamentali della persona.

Alla tutela asistematica della legislazione processuale

antecedente, il nuovo codice di rito ha sostituito un disegno

dogmatico unitario ed omogeneo, ispirato all’esigenza costituzionale

della costante rivedibilità delle limitazioni della libertà personale.

Tale disegno si articola su vari livelli.

Per un verso, specifici mezzi di impugnazione, disciplinati

dagli artt. 309, 310 e 311, consentono di sottoporre ad un controllo

sia di merito, che di legittimità, dinanzi ad un organo collegiale, nel

rispetto del principio del contraddittorio, le ordinanze che decidono,

inaudita altera parte, sulle richieste cautelari dell’organo del

pubblico ministero.

Per altro verso, il legislatore si è preoccupato di garantire il

costante adeguamento dello status libertatis dell’indagato o imputato

alle naturali modificazioni che il quadro indiziario e cautelare è

destinato a subire con l’evolversi della sequenza procedimentale,

assicurando, attraverso gli istituti della revoca, della sostituzione e

dell’estinzione, contemplati dagli artt. 299 e ss., una continua

influenza dell’accertamento compiuto nel procedimento principale

sulla vicenda cautelare.

Su un altro livello ancora, ma indubbiamente legato ai

precedenti, si colloca l’istituto della riparazione per l’ingiusta

detenzione, il quale opera non sul piano del controllo e della

INTRODUZIONE 2

correzione degli errori giudiziari commessi nelle procedure

incidentali de libertate, bensì su quello della riparazione, e risponde

alla necessità di attuare l’esigenza costituzionale, rimasta

indecifrata fino alla approvazione del nuovo corpus codicistico, di

predisporre rimedi riparatori operanti a favore dei soggetti

sottoposti a misure restrittive della libertà personale poi rivelatesi

ingiuste.

Ora, non si può negare come il punto centrale — e, nello

stesso tempo, nevralgico — del rinnovato sistema di tutela della

libertà personale, costruito dal riformatore del 1988, sia costituito

dall’istituto del riesame ex art. 309.

Nonostante le matrici genetiche del tribunale della libertà

siano ormai risalenti nel tempo ed evidenzino un lungo percorso

evolutivo, contrassegnato da dibattiti dottrinali mai sopiti, da

riforme anticipatorie, dall’esigenza di attuare i principi dettati dalla

Costituzione e dalle Carte internazionali sui diritti dell’uomo, è

indubbio che il rimedio del riesame, come congegnato dal codice

attualmente vigente, rappresenti, rispetto alle passate esperienze,

un’autentica svolta nell’orizzonte del rafforzamento e della

traduzione in termini processuali delle garanzie a tutela della

persona ristretta ante iudicium delle sue libertà fondamentali.

Fin dal suo varo, il rinnovato rimedio del riesame ha

presentato una natura ibrida.

Esso è indiscutibilimente un mezzo di impugnazione e, sul

punto, la collocazione topografica, che gli ha riservato il nuovo

codice, è già di per sé in grado di eliminare i dubbi esegetici che

avevano tanto animato il dibattito dottrinale pre-riforma. Tuttavia, è

altrettanto indiscutibile che la disciplina, riservatagli dal legislatore,

presenti rilevanti profili di atipicità — per quanto concerne la

brevità dei termini, la semplificazione del procedimento, la non

necessaria formulazione dei motivi, la deroga al principio

devolutivo, la perdita di efficacia, etc. — che ne segnano la distanza

rispetto ai distinti rimedi dell’appello de libertate e del ricorso per

cassazione.

Da altro punto di vista, esso rappresenta una fase eventuale

del procedimento applicativo della misura, in quanto è destinato a

INTRODUZIONE 3

consentire a posteriori, ma entro termini stringenti, quel

contraddittorio che, di regola, non precede l’iniziale decisione del

giudice.

Sotto questo profilo, non è vana la considerazione secondo

cui la dinamica del procedimento incidentale de libertate moltiplica i

rischi di incorrere in errori: da un lato, la valutazione degli elementi

probatori — spesso frutto della sola attività investigativa del

magistrato del pubblico ministero — prescinde da un confronto

dialettico tra le parti sulla loro effettiva consistenza ed attendibilità;

dall’altro lato, tale valutazione prelude all’adozione di

provvedimenti immediatamente esecutivi, con la conseguenza di

poter soltanto correggere e riparare — e non già prevenire —

l’errore eventualmente commesso. Apertis verbis, a differenza di

quanto avviene nel processo di cognizione, l’errore contenuto nel

provvedimento impositivo della misura, stante la sua — almeno di

regola — immediata esecutività, è da subito idoneo a riverberare i

suoi effetti pregiudizievoli nella sfera dell’interessato, cosicché

l’esigenza di correzione si presenta, in tutta la sua drammaticità, fin

dal primo momento. Ed è in vista di un simile obiettivo che rinviene

la sua reale giustificazione l’attuale fisionomia dell’istituto del

riesame, con particolare riferimento alla rapidità dello snodarsi

dell’accertamento e dell’ampiezza dei poteri cognitivi del tribunale

della libertà.

Se la trama normativa, intessuta dal nuovo codice, è stata il

frutto, come detto, di una riorganizzazione in chiave sistematica ed

organica dell’insieme dei rimedi posti a garanzia della libertà

personale, con al centro l’istituto del riesame, è anche vero, però,

che il complessivo disegno predisposto dal legislatore del 1988, in

apparenza chiaro e lineare, si è rivelato, allorché si è passati alla

sua messa in opera, di non semplice decifrazione e ciò, oltre a

rendere necessari interventi normativi in funzione correttiva, ha

aperto le porte all’attività concretizzatrice della giurisprudenza, la

quale non ha avuto gioco facile nel riempire le tessere in bianco di

un mosaico che, guardato da vicino, si è presentato lacunoso.

I contrasti interpretativi che si sono via via manifestati hanno

imposto, in innumerevoli occasioni, il ricorso alle Sezioni unite, per

INTRODUZIONE 4

sciogliere i dubbi, per chiarire le incertezze e per esplicitare

quell’apparato dogmatico e concettuale racchiuso nelle rapide e

scarne espressioni normative.

Così, sono state le Sezioni unite, attraverso un percorso

tutt’altro che lineare, caratterizzato da soluzioni maturate

progressivamente, da molteplici svolte e ripensamenti, scanditi

anche da significativi interventi del giudice delle leggi, a ricostruire,

dal punto di vista concettuale e pratico-operativo, le relazioni che

dinamicamente intercorrono tra i rimedi del riesame, della revoca e

della riparazione per l’ingiusta detenzione, pervenendo al termine

del cammino a delineare i caratteri di un istituto che rappresenta il

massimo emblema di giurisprudenza creativa, ovvero il giudicato

cautelare.

Sono state ancora le Sezioni unite a fornire, attraverso scelte

ermeneute non avulse da preventive prese di posizione di carattere

ideologico, i necessari chiarimenti in ordine all’individuazione dei

provvedimenti impugnabili con il riesame, alla delimitazione

dell’interesse ad impugnare, alle modalità di luogo e di tempo di

proposizione della richiesta, al meccanismo di trasmissione degli

atti, allo svolgimento dell’udienza camerale, all’ambito cognitivo del

tribunale del riesame ed al fenomeno della perenzione della misura.

E non c’è dubbio che, se in alcuni casi la soluzione

ermeneutica che ha finito per prevalere abbia rappresentato la

valorizzazione di istanze garantistiche non correttamente o non

chiaramente delineate dall’assetto normativo, in altri casi sono

prevalse esigenze di ordine pratico-operativo, a discapito della

portata garantistica del meccanismo procedurale congegnato dal

legislatore.

Fatto sta che il riesame cautelare, così come vive oggi nella

prassi, è il risultato di una complessa vicenda giurisprudenziale,

portata avanti dalle Sezioni unite, che hanno proceduto ad una

sostanziale rilettura dello scarno dettato normativo dell’art. 309

c.p.p.

Chiunque tentasse un approccio all’istituto in esame,

prescindendo dal diritto vivente e dai principi enunciati dalla

Suprema Corte nella sua più autorevole composizione, finirebbe per

INTRODUZIONE 5

percepire una realtà normativa parziale e fallace, non

corrispondente a quella che è attualmente vigente.

Con il presente contributo, quindi, s’intende fornire una

lettura, in chiave critica, delle regulae iuris enunciate dalle Sezioni

unite, che hanno finito per integrare l’esile corpo dell’art. 309 c.p.p.

Questo è l’indispensabile punto di partenza di una ricerca di

più ampio respiro, che voglia ricostruire la complessiva fisionomia

assunta dall’istituto del riesame ad ormai quasi vent’anni dalla

riforma codicistica.

L’ermeneutica moderna ha ben chiarito che qualsiasi

elaborazione dogmatica non può che essere commisurata alla trama

normativa di riferimento. E, in materia di riesame, la trama di

riferimento non può non comprendere i dicta delle Sezioni unite.

Capitolo Primo

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE

SOMMARIO: 1. I provvedimenti impugnabili: premessa. — 2. L’esperibilità del

riesame contro tutti i provvedimenti adottati da qualsiasi giudice nella fase

delle indagini preliminari ed in quelle successive. — 3. L’interesse ad

impugnare anche nell’ipotesi di revoca o sostituzione della misura

coercitiva custodiale. — 4. L’interesse ad impugnare anche per una sola

delle plurime imputazioni. — 5. La presentazione della richiesta di

riesame in uffici giudiziari diversi da quello di appartenenza del giudice

che ha emesso il provvedimento. — 6. La presentazione della richiesta di

riesame con telegramma o raccomandata. — 7. La decorrenza del termine

per la proposizione della richiesta di riesame da parte del difensore. — 8.

La sospensione dei termini durante il periodo feriale.

1. I provvedimenti impugnabili: premessa. — L’ambito

oggettivo del riesame è definito dal primo comma dell’art. 309 c.p.p.,

che individua nella «ordinanza che dispone una misura coercitiva» il

provvedimento impugnabile con il gravame in esame, con l’unica

eccezione costituita dalla «ordinanza emessa a seguito di appello del

pubblico ministero».

La formula utilizzata dal legislatore sembrerebbe lasciare

pochi spazi all’interpretazione: tutti i provvedimenti impositivi di

misure coercitive vanno impugnati con il mezzo del riesame;

unicamente avverso le ordinanze coercitive pronunciate dal tribunale

della libertà a seguito di appello del magistrato del pubblico

ministero risulta preclusa la proposizione del riesame e consentito il

solo ricorso per cassazione ex art. 311 c.p.p.

L’apparente chiarezza del disposto normativo non si è, però,

tradotta in un’altrettanto omogenea applicazione della norma in

commento; fin dalle prime prese di posizione giurisprudenziali,

l’individuazione dei provvedimenti impugnabili con il riesame ha

posto notevoli difficoltà esegetiche ed il confine con il diverso

CAPITOLO PRIMO 10

rimedio dell’appello de libertate si è palesato tutt’altro che certo e

definito (1).

La prassi giurisprudenziale, al fine di identificare un criterio

univoco di divisione delle sfere di operatività dei due istituti, ha fatto

ricorso alla distinzione tra provvedimenti genetici della misura e

provvedimenti che ne ripristinano l’efficacia, riservando solo ai

primi la proposizione del riesame.

Questa distinzione, tuttavia, anch’essa chiara in teoria, si è

rivelata di difficile trasposizione pratica e non ha impedito il formarsi

di indirizzi interpretativi contrastanti.

Se, ad esempio, la giurisprudenza è stata costante nel ritenere

esperibile il rimedio del riesame avverso l’ordinanza restrittiva,

emessa successivamente alla revoca, ex art. 299 c.p.p., del precedente

provvedimento cautelare (2), maggiori incertezze si sono poste in

(

1) In dottrina, sul tema dell’individuazione delle ordinanze soggette a

riesame, cfr. AMATO, sub art. 309, in Commentario del nuovo codice di procedura

penale, diretto da AMODIO e DOMINIONI, III, Parte seconda, Milano, 1990, p. 191;

APRILE, Letture sul riesame delle misure cautelari, in APRILE-NUZZO-

SANGUINETTI, La pratica penale, Milano, 2003, p. 649; BASSI-EPIDEMIO, Guida

alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, Milano, 2004, p. 39;

CHIAVARIO, Diritto processuale penale, Torino, 2006, p. 570; CONFALONIERI,

Punti fermi in tema di riesame, in Giur. it., 1997, II, c. 392; CORDERO, Procedura

penale, Milano, 2006, p. 541; DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale

penale, Padova, 2006, p. 783; FELICETTI, Tribunale della libertà, tribunali per i

minorenni e tribunali militari, in Cass. pen., 1985, p. 1312; GIANNONE, voce

Riesame in materia di misure cautelari personali, in Dig. disc. pen., vol. XII,

Torino, 1997, p. 240; LOSAPIO, sub art. 309, in Codice di procedura penale.

Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di LATTANZI e LUPO, vol. IV, tomo

II, Milano, 2003, p. 929; MARANDOLA, Riesame o appello per l’ordinanza

“disposta” a norma dell’art. 300 comma 5 c.p.p., in Cass. pen., 2003, p. 558;

MARCHETTI, In tema di estradizione suppletiva e riesame del provvedimento

coercitivo, in Cass. pen., 2000, p. 703; PIERRO, Il giudicato cautelare, Torino,

2000, p. 116; POLVANI, Le impugnazioni de libertate, Padova, 1999, p. 16;

SPANGHER, Appello o riesame per la misura cautelare ripristinata?, in Cass. pen.,

1997, p. 1448. Sia consentito, inoltre, il rinvio a TROISI, L’ordinanza cautelare

contestuale alla sentenza di condanna è soggetta a riesame se altra precedente

ordinanza è stata revocata, in Le Corti Salernitane, 2004, p. 736.

(2) Cfr., ex multis, Cass., Sez. V, 29 aprile 2002, Pascone ed altri, in

C.E.D. Cass., n. 221926, secondo cui «in tema di misure cautelari personali,

mentre il provvedimento di ripristino della custodia cautelare, in caso di

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 11

relazione al provvedimento disposto ai sensi dell’art. 300, comma 5,

c.p.p. (3) o in ordine al gravame utilizzabile avverso l’ordinanza

pronunciata ai sensi dell’art. 302 c.p.p. (4).

scarcerazione per decorrenza termini, è impugnabile con appello, nei confronti di

ordinanza restrittiva, emessa successivamente alla revoca del precedente

provvedimento cautelare, l’impugnazione esperibile è – viceversa – il riesame. Ne

consegue che, se il giudice del gravame, in tale secondo caso, equivocando sulla

natura della impugnazione, decida oltre i termini di cui al comma nono dell’art 309

c.p.p., l’ordinanza coercitiva perde efficacia».

(3) Secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, l’ordinanza

che ripristina la misura coercitiva a norma dell’art. 300, comma 5, c.p.p. nei

confronti di persona condannata in appello dopo l’assoluzione in primo grado non

può essere considerata come nuovo provvedimento coercitivo, dato il nesso

necessario e indissolubile che la lega a quella che ha disposto la precedente misura,

ed è pertanto impugnabile mediante appello ai sensi dell’art. 310 dello stesso

codice e non con il riesame previsto dal precedente art. 309. Così Cass., Sez. I, 12

febbraio 2002, Leuzzo, in Cass. pen., 2003, p. 558. La tesi che considera la misura

disposta contestualmente alla sentenza di condanna di secondo grado come un

mero ripristino di quella anteriore, la cui efficacia sarebbe stata temporaneamente

«sospesa», non appare, tuttavia, condivisibile. Ed infatti, l’ordinanza emessa ai

sensi dell’art. 300, comma 5, c.p.p. si fonda su presupposti (i «gravi indizi»

impliciti nell’affermazione di responsabilità contenuta nella sentenza di condanna)

e condizioni (le esigenze cautelari accertate ai sensi dell’art. 275, comma 1-bis,

c.p.p., tenendo conto, quindi, anche dell’esito del procedimento, delle modalità del

fatto e degli elementi sopravvenuti) che possono essere affatto diversi – come, del

resto, anche la misura può essere diversa – rispetto a quelli che avevano

giustificato il precedente provvedimento; essa è, quindi, il frutto di un esercizio ex

novo del potere cautelare ai sensi degli artt. 273, 274 e 275 c.p.p. e, come tale,

dovrebbe ritenersi che vada impugnata attraverso proposizione di richiesta di

riesame. In quest’ultimo senso, cfr. Cass., Sez. VI, 4 luglio 2000, Scarci, ivi, 2001,

p. 2756.

(4) Sul punto si registrano due orientamenti giurisprudenziali

contrastanti. Il primo indirizzo, di più recente emersione e sicuramente

maggioritario, ritiene che l’ordinanza cautelare emessa dopo l’estinzione di altra

precedente, divenuta inefficace ai sensi dell’art. 302 c.p.p. per omesso

interrogatorio dell’imputato nei cinque giorni dall’inizio dell’esecuzione della

custodia, deve considerarsi del tutto nuova e autonoma rispetto alla prima, e cioè

come vera e propria «ordinanza che dispone una misura coercitiva» a norma

dell’art. 309, comma 1, stesso codice, sicché essa è impugnabile con richiesta di

riesame e non con appello (cfr., Cass., Sez. I, 14 dicembre 2000, Galatolo, in

C.E.D. Cass., n. 218298; Cass., Sez. I, 6 giugno 1996, Nicosia, in Cass. pen., 1997,

p. 2168). Secondo un diverso orientamento interpretativo, invece, è assoggettabile

CAPITOLO PRIMO 12

In questi casi, la distinzione tra ordinanze genetiche ed

ordinanze di ripristino ha condotto a soluzioni operative di segno

contrario ed ha mostrato tutta la sua debolezza. Ed invero, essa

omette di considerare, da un lato, il valore di garanzia insito in tutte

le prescrizioni che prevedono cause estintive delle misure cautelari,

dall’altro, la maggiore portata garantistica che caratterizza il rimedio

del riesame rispetto all’appello.

Privare l’imputato, nei cui confronti sia stata rispristinata la

misura ex artt. 300, comma 5, e 302 c.p.p., di quel controllo più

pregnante e tempestivo costituito dal riesame, significa vanificare la

ratio che sta alla base dell’art. 309 c.p.p., con il quale il legislatore ha

voluto riservare al soggetto nei cui confronti sia applicata una misura

coercitiva un rimedio circondato da maggiori garanzie. Ogni

ordinanza coercitiva, sia essa genetica o di mero ripristino, si risolve

in una limitazione di libertà fondamentali prima della definitiva

affermazione della responsabilità penale e ciò comporta che i

presupposti e le condizioni su cui si fonda siano sempre

assoggettabili ad una verifica che esalti, come valore principale da

tutelare, la libertà personale dell’imputato (o indagato).

Del resto, la distinzione tra provvedimenti genetici e di

ripristino della misura — che non trova alcun riscontro né nella ratio

né nella lettera dell’art. 309 c.p.p. — è una pura «creazione»

giurisprudenziale.

Ed allora, la soluzione più conforme al sistema è forse

proprio quella di ritenere esperibile il riesame avverso tutti i

provvedimenti che applicano misure coercitive, in quanto, anche

allorché costituiscano reiterazione di ordinanze per qualsiasi ragione

caducate, devono sempre fondarsi sull’accertamento dell’esistenza in

concreto delle esigenze cautelari, nonostante in alcuni casi (si pensi

agli artt. 300, comma 5, e 307 c.p.p.) non vengano in rilievo, o

al rimedio dell’appello, e non del riesame, l’ordinanza con la quale il giudice

dispone la «rinnovazione» del provvedimento cautelare, precedentemente

dichiarato inefficace ex art. 302 c.p.p., posto che il riesame è rimedio afferente in

via esclusiva al provvedimento originario e genetico di disposizione della misura,

dovendosi, per contro, disconoscere tale natura a quello in questione, da

considerarsi, invece, «sostitutivo» della misura caducata (v. Cass., Sez. II, 18 aprile

1995, Mulè, in Cass. pen., 1996, 3053).

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 13

meglio non possano essere messi in discussione, i gravi indizi di

colpevolezza.

Né può essere quest’ultima circostanza a rappresentare la

linea di confine tra riesame ed appello.

In alcune sentenze la Suprema Corte ha sostenuto che il

rimedio del riesame è ammissibile solo allorquando l’impugnazione

rimetta in discussione l’intero quadro probatorio, esigendo la

valutazione dei gravi indizi di colpevolezza, mentre laddove il

gravame miri unicamente ad una pronuncia sulla persistenza delle

esigenze cautelari e sull’adeguatezza della misura prescelta, lo

strumento predisposto sarebbe quello dell’appello; seguendo tale

criterio distintivo (diverso evidentemente da quello che si fonda sulla

dicotomia tra ordinanze genetiche e misure ripristinate) il giudice di

legittimità ha, in alcuni casi, giustificato l’appellabilità del

provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 307 c.p.p. (5); ma,

accogliendo tale prospettiva, dovrebbe considerarsi soggetta

all’appello anche la misura disposta, per la prima volta, dopo una

sentenza di condanna, il che è francamente inaccettabile.

In realtà, la distinzione tra i due mezzi di impugnazione non

può essere individuata nel diverso contenuto del controllo, nel senso

che si ricorre all’appello quando vengono in rilievo le sole esigenze

cautelari ed al riesame allorché si pone in discussione anche l’intero

quadro probatorio. Entrambi i rimedi comportano una verifica dei

presupposti e delle condizioni previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p. e

ciò che li distingue è la portata di un tale controllo, che solo nel

riesame va oltre il devolutum e deve avvenire nel rispetto di ben

precisi termini a pena di perenzione della misura.

Ne deriva che l’unico elemento che consente di ricostruire in

maniera corretta ed in modo coerente con le esigenze di garanzia, che

permeano l’intero sistema delle misure restrittive delle libertà

fondamentali in via cautelare, i confini tra riesame ed appello è

costituito dalla «applicazione» o meno di una misura coercitiva: tutte

le ordinanze che applicano una misura coercitiva sono impugnabili

attraverso il riesame. Tale gravame va considerato, quindi, esperibile

(

5) Cfr., ad esempio, Cass., Sez. V, 25 gennaio 1996, Arena, in Giust.

pen., 1996, III, c. 728.

CAPITOLO PRIMO 14

anche nei confronti delle ordinanze che reiterano precedenti

provvedimenti che siano venuti meno per la revoca della misura (art.

299 c.p.p.), per l’intervento di una pronuncia di proscioglimento (art.

300), per la scadenza del termine previsto per soddisfare l’esigenza

di cui all’art. 274 lett. a) (art. 301 c.p.p.), per l’omesso interrogatorio

di garanzia (art. 302 c.p.p.), per la decorrenza dei termini di custodia

(art. 307), per l’inosservanza dei termini di cui all’art. 309 c.p.p. (6) o

ancora perché disposte da giudice incompetente (art. 27 c.p.p.) (7).

Sono, invece, impugnabili attraverso l’appello i

provvedimenti che si limitano a rinnovare, sostituire o prorogare

l’efficacia di una misura già in corso (8).

Ad una tale conclusione, peraltro, è giunta in una occasione

anche la giurisprudenza di legittimità, con una decisione che, però, è

rimasta isolata (9).

(

6) Cfr., Cass., Sez. I, 5 aprile 1996, Morra, in Cass. pen., 1997, p. 1779,

secondo cui «nei confronti di ordinanza di custodia cautelare emessa

successivamente alla declaratoria di inefficacia di precedente ordinanza, per

inosservanza del termine di cui all’art. 309 commi 9 e 10 c.p.p., i rimedi esperibili

sono il riesame o il ricorso per cassazione per saltum, non l’appello».

(7) Cfr., Cass., Sez. I, 15 marzo 1995, Sancandi, in Cass. pen., 1996, p.

1492; Cass., Sez. VI, 4 ottobre 1995, Rilande, ivi, 1996, p. 3729, secondo cui

«l’ordinanza con la quale il giudice, che ha ricevuto gli atti a seguito di

dichiarazione di incompetenza, applica la misura cautelare ai sensi degli artt. 27 e

292 c.p.p., non è soggetta all'appello di cui all'art. 310, bensì alla richiesta di

riesame ex art. 309 dello stesso codice, né, nel relativo procedimento applicativo,

deve farsi luogo all’audizione del difensore prevista dall’art. 301 comma 2 c.p.p.

(nel testo risultante dopo la parziale dichiarazione di illegittimità operata dalla

sentenza n. 219/94 della Corte costituzionale): tale ordinanza, infatti, ha natura di

autonomo provvedimento coercitivo e non presenta alcun collegamento funzionale

con quella precedentemente adottata dal giudice incompetente, nè tantomeno di

questa costituisce rinnovazione».

(8) V., ex multis, Cass., Sez. Fer., 30 luglio 1992, Bucci, in Giust. pen.,

1992, III, c. 584.

(9) Si tratta di Cass., Sez. VI, 8 marzo 1999, Sciascia, in Cass. pen.,

2000, p. 1736, in cui si afferma che «in tema di impugnazione di misure coercitive,

avverso l’ordinanza che costituisce reiterazione di precedenti provvedimenti per

qualsiasi ragione caducati è proponibile il riesame e non l’appello, non ricavandosi

alcuna distinzione al riguardo dall’art. 309 c.p.p., che si riferisce indistintamente a

tutte le ordinanze applicative di misure coercitive».

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 15

2. L’esperibilità del riesame contro tutti i provvedimenti

adottati da qualsiasi giudice nella fase delle indagini preliminari

ed in quelle successive. — Sempre in tema di provvedimenti

impugnabili con il riesame, uno dei primi contrasti esegetici, che si è

manifestato in giurisprudenza e che ha richiesto l’intervento

risolutore delle Sezioni unite, ha interessato non tanto l’esatta

identificazione dei confini tra riesame ed appello de libertate, quanto

piuttosto l’individuazione del rimedio esperibile avverso le ordinanze

sulla libertà adottate dopo la chiusura delle indagini preliminari (10

).

Invero, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura

penale si sono manifestati vari orientamenti interpretativi: mentre

alcune decisioni hanno considerato ammissibili, avverso i

provvedimenti in discorso, il riesame e l’appello previsti dagli artt.

309 e 310 c.p.p. (11

), altre pronunce hanno, invece, ritenuto che

contro i detti provvedimenti sia esperibile soltanto il ricorso per

cassazione (12

), ovvero l’impugnazione unitamente alla sentenza, in

alternativa con il ricorso immediato per cassazione, quando trattasi di

ordinanze pronunciate negli atti preliminari o nel dibattimento (13

);

infine, per quanto attiene alle ordinanze contestuali alla sentenza di

(

10) Sul tema in dottrina v. BALZAROTTI, I limiti oggettivi delle

impugnazioni de libertate; un contrasto giurisprudenziale da risolvere, in Cass.

pen., 1990, II, p. 295; FIORIO, Verso un nuovo orientamento giurisprudenziale in

tema di riesame dei provvedimenti collegiali, in Giur. it., 1991, II, c. 210;

GRIMALDI, Il tribunale della libertà come giudice generale di impugnazione, in

Riv. trim. pen. econ., 1991, p. 105; MAZZARA, Sulla motivazione immediata delle

ordinanze de libertate, in Giur. it., 1992, II, c. 651; SARACENI, L’impugnazione dei

provvedimenti sulla libertà personale emessi in dibattimento, in Cass. pen., 1989,

II, p. 41; SECHI, In tema di riesame dei provvedimenti collegiali, in Giur. it., 1990,

II, p. 220; STURIALE, La competenza del tribunale della libertà, in Giur. merito,

1991, p. 324; TREVISSON LUPACCHINI, Sull’ambito di operatività del riesame e

dell’appello avverso i provvedimenti de libertate, in Giur. it., 1991, II, c. 164; ID.,

nota a Trib. Vercelli, 17 settembre 1990, Russo, in Giur. it., 1991, II, c. 107.

(11

) Cfr. Cass., Sez. III, 12 ottobre 1990, Binotto, in C.E.D. Cass., n.

185626; Id., Sez. III, 16 maggio 1990, De Leonardis, ivi, n. 184761; Id., Sez. III,

23 febbraio 1990, Piras, ivi, n. 184757.

(12

) Cfr. Cass., Sez. I, 15 marzo 1990, Palma, in C.E.D. Cass., n.

184331.

(13

) Cfr. Cass., Sez. Fer., 7 agosto 1990, Sgarro, in C.E.D. Cass., n.

185226; Id., Sez. Fer., 31 luglio 1990, Di Pietra, ivi, n. 185080.

CAPITOLO PRIMO 16

condanna, si è sostenuto che l’unico rimedio esperibile sia il mezzo

di gravame previsto contro la stessa sentenza (14

).

Il Supremo Collegio ha ritenuto di dover condividere il primo

orientamento, secondo cui i rimedi del riesame e dell’appello de

libertate sono esperibili anche nelle fasi successive alla chiusura

delle indagini preliminari.

In tal senso depone non solo il tenore delle direttive n. 59 e n.

64 della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di rito (l. 16

febbraio 1987, n. 81), ma anche la sistematica del codice, avendo il

legislatore dettato la disciplina delle impugnazioni de libertate nel

libro IV e, cioè, in una sede distinta ed anteriore a quella delle

indagini preliminari. Siffatta diversità della sedes materiae già, di per

sé, dimostra che nel sistema vigente la disciplina delle misure

cautelari e dei relativi rimedi non è applicabile alla sola fase delle

indagini preliminari, ma si estende all’intero procedimento,

considerato sia nella fase pre-giurisdizionale che in quella

giurisdizionale.

Giova, altresì, rilevare che gli art. 309, comma 5, e 310,

comma 2, nella parte in cui dispongono che l’autorità giudiziaria

procedente trasmette al tribunale gli atti su cui si fonda l’ordinanza

impugnata, debbono essere interpretati alla stregua dell’art. 279, il

quale attribuisce la competenza, in tema di applicazione, revoca e

modifica delle misure cautelari, al «giudice che procede» nelle varie

fasi; quest’ultimo non è soltanto il giudice per le indagini preliminari,

ma anche, dopo la chiusura del procedimento preliminare, il giudice,

qualunque esso sia, competente per il giudizio.

Non appare, per altro verso, decisiva l’osservazione secondo

cui, consentendo l’esperimento dei rimedi previsti dagli artt. 309 e

310 c.p.p. avverso i provvedimenti de libertate adottati dopo la

conclusione delle indagini, si finirebbe per conferire ad un giudice

sottordinato la cognizione dei gravami proposti contro provvedimenti

adottati anche da un giudice superiore. È sufficiente obiettare al

riguardo che gli artt. 304 e 318 c.p.p. prevedono espressamente il

rimedio dell’appello ex art. 310 sia avverso le ordinanze di

(

14) Cfr. Cass., sez. VI, 24 marzo 1990, Nika Gakuba, in Cass. pen.,

1990, II, p. 200.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 17

sospensione dei termini di custodia cautelare pronunziate nella fase

del giudizio, sia contro le ordinanze di sequestro conservativo, le

quali, a norma dell’art. 316, possono essere emesse soltanto in ogni

fase e grado del processo di merito. Questi referenti normativi non

solo dimostrano che non sussiste alcuna incompatibilità fra il sistema

processuale vigente ed una rivalutazione nel merito di

provvedimenti, in tema di misure cautelari, da parte di un organo

collegiale all’uopo precostituito, ancorché sottordinato al giudice che

quei provvedimenti abbia adottato, ma la stessa previsione del

rimedio dell’appello in ordine ad una misura reale, disposta da

qualsiasi giudice durante il processo di merito, persuade a fortiori

che il legislatore non ha potuto denegare lo stesso rimedio nei

confronti delle più gravi misure cautelari incidenti sulla libertà ed

adottate nella medesima fase.

Ulteriori argomenti contrari alla soluzione in discorso non

possono essere tratti, secondo i giudici del Supremo Collegio, né

dall’art. 568 comma 2, né dal disposto di cui al terzo comma dell’art.

586. Il primo, in realtà, nel prevedere che sono soggetti al ricorso per

cassazione, quando non altrimenti impugnabili, i provvedimenti che

incidono sulla libertà personale, detta una norma di principio e di

chiusura, che, in quanto tale, trova la sua ratio proprio nella finalità

di adeguamento ai principi costituzionali e mira non già a limitare,

ma a potenziare i rimedi concessi in tema di libertà personale. Il

secondo, nella parte in cui stabilisce che contro le ordinanze in tema

di libertà personale, pronunziate negli atti preliminari e nel

dibattimento, è ammessa l’impugnazione immediata,

indipendentemente da quella contro la sentenza, non può significare

che avverso tali ordinanze è ammesso — in alternativa

all’impugnazione congiunta al gravame avverso la sentenza —

soltanto il ricorso per cassazione, in quanto l’impugnazione

immediata ed indipendente, di cui parla la disposizione, deve essere

individuata proprio nel riesame e nell’appello de libertate, trattandosi

dei rimedi previsti in modo specifico contro i provvedimenti sulla

libertà.

Le Sezioni unite sono pervenute, attraverso questo percorso

argomentativo, alla conclusione — ora pacificamente condivisa in

CAPITOLO PRIMO 18

dottrina ed in giurisprudenza — secondo cui «i rimedi del riesame e

dell’appello dinanzi al tribunale del capoluogo di provincia sono

esperibili contro tutti i provvedimenti comunque adottati da qualsiasi

giudice, sia nella fase delle indagini preliminari che in quelle

successive» (15

).

Si tratta, del resto, dell’unica soluzione compatibile con la

sistematica del codice e con la ratio sottesa alla previsione di

specifici mezzi di impugnazione avverso i provvedimenti in materia

di libertà personale.

Se si limitasse l’operatività di siffatti rimedi unicamente alla

fase delle indagini preliminari, si realizzerebbero irragionevoli

disparità di trattamento.

Ciò vale soprattutto con riferimento al riesame: privare

l’imputato, nei cui confronti sia stata adottata una misura coercitiva,

di quel controllo più pregnante e tempestivo costituito dal riesame,

significa, per un verso, vanificare la ratio che sta alla base dell’art.

309 c.p.p., con il quale il legislatore ha voluto riservare al soggetto

destinatario di una misura coercitiva un rimedio circondato da

maggiori garanzie, e, per l’altro, sottoporlo ad un trattamento

irragionevolmente deteriore rispetto a quello riservato all’indagato,

senza alcuna giustificazione.

Una simile disciplina si porrebbe in aperto contrasto con l’art.

3 Cost.

3. L’interesse ad impugnare anche nell’ipotesi di revoca o

sostituzione della misura coercitiva custodiale. — L’interesse ad

impugnare costituisce, ai sensi dell’art. 568 comma 4 c.p.p., il

presupposto necessario ed ineliminabile per la sollecitazione di un

qualsivoglia vaglio critico della pronuncia giurisdizionale. Non è

sufficiente, infatti, che il provvedimento sia impugnabile e che il

soggetto sia legittimato a proporre il mezzo di impugnazione previsto

(

15) Sez. Un., 23 novembre 1990 - 2 gennaio 1991, n. 11, Santucci, in

C.E.D. Cass., n. 186130.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 19

dalla legge, ma occorre che questi abbia un interesse attuale e

concreto al controllo della pronuncia del giudice (16

).

L’interesse ad impugnare sussiste solo se dalla decisione

derivi all’impugnante un pregiudizio da eliminare e sempre che

l’esperimento del rimedio fornito dalla legge consenta di porre fine al

pregiudizio lamentato.

La tematica dell’interesse ad impugnare le ordinanze

impositive di misure coercitive (17

) ha posto particolari

problematiche con riferimento alle ipotesi in cui all’accoglimento

dell’impugnazione non consegue una modificazione dello status

libertatis dell’interessato, o perché la revoca o la sostituzione della

misura sopraggiunge nel corso del procedimento incidentale de

libertate, o perché il gravame è limitato ad una sola delle imputazioni

in relazione alle quali la misura è stata disposta.

Su entrambe le questioni i necessari chiarimenti sono

provenuti dalle Sezioni unite della Suprema Corte.

Con tre sentenze deliberate all’esito della medesima camera

di consiglio del 12 ottobre 1993, il Supremo Collegio è intervenuto a

dirimere il contrasto giurisprudenziale relativo alla permanenza

dell’interesse ad ottenere una pronuncia, in sede di riesame, di

appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità dell’ordinanza

che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare in carcere, qualora

quest’ultima sia stata revocata nelle more del procedimento (18

).

(

16) Così DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit.,

p. 720.

(17

) Per un approfondimento della tematica v., tra gli altri, APRILE, Le

impugnazioni penali, Milano, 2004, p. 357; CERESA GASTALDO, Il riesame delle

misure coercitive nel processo penale, Milano, 1993, p. 162; POLVANI, Le

impugnazioni de libertate, cit., p. 225.

(18

) In dottrina, per un’analisi della questione, cfr. ANDOLINA, Misura

cautelare interdittiva revocata o scaduta: attualità dell’interesse ad impugnare, in

Dir. pen. proc., 1998, p. 1525; CAMPANELLO, Sull’interesse all’impugnazione dei

provvedimenti de libertate revocati, in Giur. it., 1993, II, c. 452; CERESA

GASTALDO, Sulla persistenza dell’interesse all’impugnazione dei provvedimenti

cautelari revocati, in Riv. it. dir. pen., 1994, p. 1610; COPPETTA, Riflessioni sulla

sussistenza dell’interesse ad impugnare, per fini riparatori, la misura custodiale

revocata, in Cass. pen., 1994, p. 2645; PALUMBO, L’interesse ad impugnare in

materia di provvedimenti cautelari, in Giust. pen., 1991, III, c. 385; SGROMO,

CAPITOLO PRIMO 20

Questo problema era stato risolto in senso negativo dalla

prevalente giurisprudenza, la quale, sul duplice presupposto che, a

norma dell’art. 568 comma 4 c.p.p., l’interesse all’impugnazione

deve essere concreto ed attuale e che il procedimento incidentale de

libertate mira soltanto a controllare se lo stato di libertà dell’indagato

sia stato legittimamente compresso, aveva sostenuto che la

permanenza di tale interesse dovesse essere apprezzata unicamente

con riguardo all’effetto primario e diretto dell’ordinanza impositiva

della misura, costituito dalla compressione della libertà, e che,

pertanto, lo stesso venisse meno ogni qual volta l’indagato fosse stato

liberato. Si escludeva, inoltre, che la permanenza dell’interesse

all’impugnazione potesse essere desunta dal diritto alla riparazione

per l’ingiusta detenzione, sia perché l’esercizio di questo diritto

integra una mera eventualità futura ed astratta, sia perché la decisione

irrevocabile, di cui all’art. 314 comma 2 c.p.p., non può formarsi nel

procedimento de libertate, che si conclude con una pronunzia

adottata allo stato degli atti, ma deve essere contenuta nella sentenza

definitiva di merito (19

).

L’orientamento favorevole alla persistenza dell’interesse

all’impugnazione si fondava, invece, sul duplice rilievo che, da un

lato, l’esclusione da parte del tribunale del riesame dei gravi indizi di

responsabilità si risolve, pur sempre, in un miglioramento della

situazione processuale dell’indagato e, dall’altro, l’interesse in esame

deve essere apprezzato anche in termini di diritto soggettivo di natura

patrimoniale con riguardo alla riparazione per l’ingiusta custodia

cautelare sofferta, la quale, ai sensi del secondo comma dell’art. 314

c.p.p., è svincolata dall’esito finale del giudizio (20

).

Revoca del provvedimento di custodia cautelare ed interesse ad impugnare, in

Giur. it., 1994, II, c. 823; VESSICHELLI, osservazioni a Cass., Sez. un., 12 ottobre

1993, Durante, in Cass. pen., 1994, p. 289.

(19

) Così Cass., Sez. II, 7 aprile 1993, Bossi, in C.E.D. Cass., n. 193911;

Id., Sez. VI, 5 marzo 1993, Sbraga, ivi, n. 193989; Id., Sez. VI, 15 dicembre 1992,

De Biasi, ivi, n. 192767; Id., Sez. V, 12 aprile 1991, De Biasi, ivi, n. 187372; Id.,

Sez. I, 25 giugno 1990, Dall’Orto, ivi, n. 185556.

(20

) Cass., Sez. V, 31 gennaio 1991, Longobardi, in C.E.D. Cass., n.

186456; Id., Sez. VI, 22 gennaio 1993, Guarnotta, ivi, n. 193829.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 21

Le Sezioni unite hanno ritenuto di aderire a quest’ultimo

indirizzo, anche se non hanno condiviso tutte le ragioni poste a suo

fondamento.

Più precisamente, hanno escluso che all’indagato rimesso in

libertà possano conseguire vantaggi in ordine alla situazione

probatoria delineatasi nel procedimento principale, tramite

l’annullamento dell’ordinanza applicativa della misura cautelare. Per

un verso, infatti, l’interesse al gravame, oltre che essere concreto ed

attuale, deve riguardare il conseguimento di una posizione di

vantaggio giuridicamente tutelata, per l’altro, la pronuncia adottata

dal tribunale del riesame in ordine alla carenza dei gravi indizi di

responsabilità non vincola né l’apprezzamento dell’ufficio del

pubblico ministero titolare delle indagini preliminari quanto alla

rilevanza degli elementi indiziari acquisiti, né tanto meno quello del

giudice per le indagini preliminari, ai fini del rinvio al giudizio, o del

giudice del dibattimento.

Nel deriva che, a seguito della rimessione in libertà

dell’indagato, l’interesse al gravame può sopravvivere solo sotto il

diverso profilo dell’eventuale incidenza dell’istituto della riparazione

per l’ingiusta detenzione sul regime delle impugnazioni avverso le

ordinanze in materia cautelare.

A venire in rilievo è il secondo comma dell’art. 314, che

subordina il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione al

duplice presupposto che la misura cautelare detentiva sia

formalmente illegittima, perché imposta e mantenuta in assenza delle

condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., e che

questa illegittimità sia stata accertata con una «decisione

irrevocabile».

Per quanto attiene al primo presupposto, fra le ipotesi di

illegittimità formale elencate nell’art. 273 c.p.p., rilevano, ai fini del

secondo comma dell’art. 314, soltanto l’assenza, all’epoca

dell’applicazione o della conferma della misura, di gravi indizi di

colpevolezza, ovvero la presenza, in quella stessa data, di cause di

non punibilità, di estinzione del reato o di estinzione della pena che si

ritenga irrogabile, poiché, come rilevato nella relazione al progetto

preliminare (pag. 78), la sussistenza di cause di giustificazione,

CAPITOLO PRIMO 22

implicando l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, rientra

nella previsione del primo comma della medesima norma. Non

rileva, invece, né la violazione dell’art. 274 c.p.p., relativo alle

esigenze cautelari, né l’inosservanza dei principi di adeguatezza e

proporzionalità delle misure, enunciati nel successivo art. 275.

Per quanto attiene al secondo presupposto, le Sezioni unite,

inserendosi in quell’indirizzo interpretativo teso a riconoscere anche

alle pronunce de libertate l’idoneità a produrre un effetto preclusivo

da bis in idem, sono pervenute alla conclusione che la «decisione

irrevocabile» ex art. 314, comma 2, c.p.p. va individuata

nell’ordinanza, non impugnata, adottata dal tribunale in sede di

riesame o di appello avverso il provvedimento de libertate, ovvero

nella pronunzia emessa dalla Corte di cassazione a seguito di ricorso

contro tale ordinanza, o in sede di ricorso per saltum contro lo stesso

provvedimento applicativo della misura (21

).

Pertanto, se, per un verso, l’effetto diretto e primario del

provvedimento, che impone o conferma la misura coercitiva,

risolvendosi nella compressione della libertà personale, viene meno

con la rimessione in libertà, per l’altro, dallo stesso provvedimento,

se ingiusto, deriva anche l’effetto ulteriore del diritto ad una equa

riparazione. E, poiché soltanto la pronunzia adottata dal tribunale del

riesame o dalla Corte Suprema nel procedimento incidentale de

libertate può integrare «la decisione irrevocabile», idonea, nei casi di

proscioglimento o di condanna di cui al comma 2 dell’art. 314, a

fondare siffatto diritto, ne consegue che la revoca della misura non

può incidere sull’attualità dell’interesse a coltivare il gravame.

Questa attualità, invero, persiste perché, solo attraverso una

pronunzia di annullamento della misura nella sede indicata,

l’indagato può precostituirsi il titolo per chiedere, nelle fattispecie

elencate dal citato art. 314 comma 2, un’equa riparazione per

l’ingiusta detenzione.

Di qui, l’affermazione del seguente principio di diritto:

«L’interesse dell’indagato ad ottenere una pronunzia, in sede di

riesame, di appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità

dell’ordinanza che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare

(

21) V. infra, cap. VI, § 2.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 23

permane anche nel caso in cui quest’ultima sia stata revocata nelle

more del procedimento. Infatti, la pronunzia inoppugnabile di

annullamento della misura suddetta adottata nel procedimento

incidentale de libertate costituisce “decisione irrevocabile”, idonea,

nei casi di proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314 comma

2 c.p.p., a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per

l’ingiusta detenzione» (22

).

Il principio ora enunciato, tuttavia, è destinato a trovare

applicazione unicamente «nel caso in cui la misura applicata o

mantenuta sia la custodia cautelare, comprensiva anche degli arresti

domiciliari, e non pure quando si tratti di altre misure coercitive od

interdittive, atteso che su di queste non può fondarsi il diritto alla

riparazione suddetta. Ne consegue che la revoca di tali ultime

misure, sopravvenuta nel corso del procedimento incidentale,

importa il venir meno dell’interesse al gravame da parte

dell’indagato» (23

).

Più di recente, le Sezioni unite, sia pure intervenute a

dirimere un contrasto giurisprudenziale relativo ad altro tema, hanno

avuto modo di chiarire che l’interesse ad impugnare, collegato

sempre al diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, permane

anche nel caso in cui la misura custodiale venga sostituita, nelle more

del procedimento de libertate, con altra misura: «In materia

cautelare, l’interesse dell’indagato all’impugnazione permane anche

nel caso in cui, nelle more del procedimento incidentale de libertate,

la misura della custodia cautelare in carcere sia sostituita con quella

del divieto di dimora, sempre che l’applicazione dell’originaria

misura possa costituire per l’interessato presupposto del diritto a

un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente,

essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza

(

22) Sez. Un., 12 ottobre - 8 novembre 1993, n. 20, Durante, in C.E.D.

Cass., n. 195355, n. 195353 e n. 195352; conforme, Sez. Un. 12 ottobre - 12

dicembre 1993, Stablum e Capitali, in Cass. pen., 1994, p. 283.

(23

) Si tratta della coeva Sez. Un., 12 ottobre - 20 dicembre 1993, n. 22,

Corso, in C.E.D. Cass., n. 195357.

CAPITOLO PRIMO 24

che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt.

273 e 280 c.p.p.» (24

).

La conclusione propugnata dal Supremo Collegio — seguita

costantemente dalla giurisprudenza di legittimità e ribadita più volte

dalle stesse Sezioni unite (25

) —, se da un lato ha sconfessato

l’indirizzo giurisprudenziale teso ad escludere in ogni caso la

persistenza dell’interesse ad impugnare nei casi di rimessione in

libertà dell’indagato, dall’altro è stata oggetto di critiche in dottrina,

in quanto ha valorizzato il diritto al controllo del provvedimento

cautelare solo con riferimento alle ipotesi in cui è coinvolto il diritto

patrimoniale alla riparazione, mentre l’interesse ad ottenere una

pronuncia favorevole in sede di impugnazione va certamente oltre il

campo delle misure detentive ed investe anche la tematica delle

esigenze cautelari, soprattutto alla luce degli effetti preclusivi alla

riproposizione della misura che possono derivare dall’ordinanza resa

all’esito del procedimento incidentale di impugnazione.

Oggi, inoltre, è destinata ad essere sottoposta a revisione, a

seguito delle modifiche apportate dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46,

l’affermazione secondo cui dall’annullamento dell’ordinanza

applicativa della misura cautelare non deriverebbero vantaggi

concreti ed attuali all’indagato nel procedimento principale, essendo

l’efficacia della pronuncia in ordine alla carenza dei gravi indizi di

responsabilità rigorosamente circoscritta nell’ambito del

procedimento incidentale de libertate.

Il nuovo comma 1-bis dell’art 405 c.p.p., infatti, prevedendo

che «il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula

richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è

pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di

colpevolezza, ai sensi dell’articolo 273, e non sono stati acquisiti,

successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta

alle indagini», ha fatto venir meno la pretesa irrilevanza della

(

24) Sez. Un., 28 marzo - 28 luglio 2006, n. 26795, Prisco, in C.E.D.

Cass., n. 234268.

(25

) Cfr. Sez. Un., 8 luglio - 28 luglio 1994, n. 11, Buffa, infra, cap. VI,

§ 3; Id., 25 giugno - 18 luglio 1997, n. 7, Chiappetta, in C.E.D. Cass., n. 208165;

Id., 13 luglio - 24 settembre 1998, n. 21, Gallieri, ivi, n. 211194.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 25

pronuncia resa all’esito dell’esperimento delle impugnazioni de

libertate rispetto alla posizione dell’indagato nel procedimento

principale.

Fermi restando i problemi interpretativi che la disposizione in

esame indubbiamente pone (26

), la cui analisi esula dalla presente

sede, è comunque possibile affermare che alla luce del nuovo assetto

normativo, nel caso in cui nelle more del ricorso per cassazione

venga revocata la misura cautelare, necessariamente permane un

interesse concreto ed attuale dell’indagato ad ottenere la pronuncia

della Corte di cassazione sulla sussistenza dei gravi indizi, in vista

della definizione anticipata del procedimento con provvedimento di

archiviazione, e ciò anche qualora, trattandosi ad esempio di misura

cautelare non custodiale, non ricorra la prospettiva di agire per

ottenere la riparazione per ingiusta detenzione.

4. L’interesse ad impugnare anche per una sola delle

plurime imputazioni. — Come anticipato, analogo problema sulla

sussistenza dell’interesse ad impugnare si è posto con riferimento

all’ipotesi in cui il gravame sia limitato ad una sola delle imputazioni

in relazione alle quali la misura è stata disposta, in quanto, anche in

tal caso, all’accoglimento dell’impugnazione non consegue una

modificazione dello status libertatis dell’interessato.

Le Sezioni unite, chiamate a pronunciarsi su un contrasto

giurisprudenziale in tema di reato di concussione, hanno avuto modo

di chiarire ulteriormente la nozione di «interesse ad impugnare»,

affermando il seguente principio di diritto: «In materia impugnazioni

de libertate, il ricorrente ha interesse a proporre il gravame anche se

lo stesso sia limitato ad una sola delle imputazioni, poiché il venir

meno del titolo della custodia con riferimento esclusivo ad una delle

accuse, pur senza incidere sull’assoggettamento del medesimo alla

misura cautelare a causa del mantenimento del provvedimento

restrittivo in relazione ad altro reato, rende meno gravosa la

posizione difensiva e consente il riacquisto della libertà, nel caso in

(

26) Sul punto di rinvia a DELL’ANNO, “Archiviazione cautelare” e

conseguenti problemi operativi, in AA. VV., La nuova disciplina delle

impugnazioni dopo la “legge Pecorella”, a cura di GAITO, Torino, 2006, p. 29.

CAPITOLO PRIMO 26

cui il titolo legittimante l’applicazione della misura venga meno, per

un qualsiasi motivo, in ordine all’altro reato» (27

).

Si tratta di un principio pienamente condivisibile, in quanto il

venir meno del titolo custodiale con riferimento ad una delle

imputazioni rappresenta certamente una posizione di vantaggio

giuridicamente tutelata, tale sostanziare il requisito dell’interesse ad

impugnare, nonostante non determini il riacquisto dello status

libertatis.

Tale interesse, alla luce del nuovo comma 1-bis dell’art. 405

c.p.p., introdotto dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46, appare ancora più

evidente, essendo la posizione di vantaggio conseguibile dal

ricorrente non più limitata alla sola procedura incidentale, ma

suscettibile di estendersi anche al procedimento principale. Ed infatti,

qualora il tribunale della libertà riconosca l’insussistenza dei gravi

indizi di colpevolezza con riferimento ad una sola delle imputazioni

e tale statuizione sia confermata dalla Suprema Corte, il magistrato

del pubblico ministero, in assenza di nuovi elementi, è tenuto a

presentare richiesta di archiviazione limitatamente a quella notizia di

reato.

5. La presentazione della richiesta di riesame in uffici

giudiziari diversi da quello di appartenenza del giudice che ha

emesso il provvedimento. — La disciplina della presentazione della

richiesta di riesame, dettata dai primi quattro commi dell’art. 309

c.p.p. — applicabili, peraltro, anche all’appello de libertate e (ad

eccezione del comma 4) al ricorso per cassazione di cui all’art. 311

c.p.p. —, ha posto alcune difficoltà interpretative, che hanno

originato altrettanti contrasti giurisprudenziali, sia con riferimento al

luogo ed alle modalità di proposizione dell’impugnazione, sia

relativamente all’individuazione del dies a quo di decorrenza del

termine di impugnazione per il difensore (28

).

(

27) Sez. Un., 11 maggio - 23 giugno 1993, n. 7, Romano, in C.E.D.

Cass., n. 193746. Nello stesso senso v. Cass., Sez. I, 4 luglio 1995, Tomasello, in

C.E.D. Cass., n. 202205.

(28

) Per un esame delle varie questioni interpretative, distinte da quelle

sottoposte all’attenzione delle Sezioni unite, che si sono poste in tema di

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 27

Una prima difficoltà esegetica, a dirimere la quale sono

dovute intervenire le Sezioni unite, si è posta con riferimento alla

portata del rinvio alle «forme» previste dall’art. 582 c.p.p., contenuto

nel comma 4 dell’art. 309.

Nella fattispecie concreta, sottoposta all’attenzione del

Supremo Collegio, gli imputati, destinatari di ordinanza di custodia

cautelare in carcere, presentavano, a mezzo dei loro difensori,

richiesta di riesame, depositandola negli uffici della pretura del luogo

in cui si trovavano. Il tribunale del riesame, rilevata la violazione del

comma 4 dell’art. 309 c.p.p., per non essere stato l’atto di

impugnazione presentato nella cancelleria dello stesso tribunale,

dichiarava inammissibile la richiesta di riesame.

A seguito del ricorso per cassazione, la prima Sezione penale,

ravvisando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine al

se il rinvio all’art. 582 c.p.p., operato dall’art. 309 comma 4 c.p.p.,

comprenda o meno anche il secondo comma del predetto art. 582, ha

rimesso la soluzione della questione alle Sezioni unite (29

).

Secondo un primo orientamento, il rinvio all’art. 582

interessa tale articolo nella sua interezza e ciò sta a significare che il

legislatore ha voluto estendere alla richiesta di riesame,

espressamente qualificata come impugnazione, tutte le disposizioni

concernenti la presentazione (fatta eccezione solo per quella

presentazione della richiesta di riesame, v. ALFONSO, L’utilizzo del telefax: nel

terzo millennio è ancora inammissibile, in Foro ambr., 2001, p. 189;

CONFALONIERI, I controlli sulle misure cautelari, in Le impugnazioni penali, a cura

di GAITO, Torino, 1998, p. 990; LOSAPIO, sub art. 309, cit., p. 969; MARANDOLA,

Annullamento con rinvio al tribunale del riesame e successivo accoglimento di una

richiesta di rimessione, in Cass. pen., 1996, p. 1484; ORLANDO, L’incidenza del

favor impugnationis sull’errore nella presentazione della richiesta di riesame, in

Cass. pen., 2000, p. 3355; PALUMBO, Sulla proponibilità del riesame a mezzo

telefax, in Giur. it., 2001, p. 801; RINELLA, Per il latitante “involontario” il

termine di riesame decorre dall’esecuzione, in Dir. e giust., 2004, f. 12, p. 73.

(29

) In dottrina cfr. AMATO, sub art. 309, cit., p. 198; GIANNONE, sub

art. 309, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da

CHIAVARIO, vol. III, Torino, 1990, p. 264; MIDOLO, In tema di luogo di

presentazione della richiesta di riesame ai sensi dell’art. 309 c.p.p., in Cass. pen.,

1992, p. 1197; POLVANI, Le impugnazioni de libertate, cit., p. 207.

CAPITOLO PRIMO 28

riguardante il luogo normale di presentazione), in modo da agevolare

il concreto esercizio del relativo diritto (30

).

Altro indirizzo giurisprudenziale sosteneva la tesi contraria,

secondo cui il rinvio effettuato alle forme previste dall’art. 582 c.p.p.

non comprende anche il comma 2 di tale ultimo articolo; a questa

conclusione si perveniva sia ponendo l’accento sulla necessità di

riconoscere prevalenza alla norma specifica di cui alla prima parte

del comma 4 dell’art. 309, in base alla quale la richiesta è presentata

nella cancelleria del tribunale indicato nel comma 7, sia individuando

la ratio di detta norma specifica nell’esigenza di assicurare la celerità

della procedura. Si affermava, comunque, che la domanda di riesame

è ammissibile qualora, pur presentata ai sensi del comma 2 dell’art.

582, pervenga ugualmente alla cancelleria del tribunale del riesame

nel termine di dieci giorni previsto dall’art. 309 (31

).

Le Sezioni unite, investite della questione, hanno fatto

proprio il primo orientamento.

Ed invero, con riguardo al dato testuale va osservato che il

richiamo alle forme previste dall’art. 582 è formulato nell’art. 309

comma 4 nella sua globalità e senza limitazioni; sul punto, non è

vano il rilievo che, in genere e salvo particolari limitazioni, il rinvio

operato da una norma alle forme previste da altra disposizione non è

limitato ai meri requisiti formali di un atto, ma si estende ad ogni

modalità procedurale della norma alla quale il rinvio viene effettuato.

Sicché, l’apparente contrasto fra l’esplicita indicazione della

cancelleria del tribunale di cui al comma 7 dell’art. 309 ed il

successivo generico richiamo alle forme di cui all’art. 582 (che

potrebbe far ritenere che da quel richiamo sia esclusa la possibilità

della presentazione dell’atto in diversi uffici) può essere spiegato nel

senso che il legislatore abbia voluto indicare l’organo definitivo

destinatario dell’istanza e non quello al quale necessariamente questa

deve essere in un primo momento presentata.

(

30) Cass., Sez. V, 11 ottobre 1990, Putrino, in C.E.D. Cass., n. 185864;

Id., Sez. I, 9 maggio 1990, Galasso, ivi, n. 184898.

(31

) Cass., Sez. I, 5 novembre 1990, Mignani e altro, in C.E.D. Cass., n.

186093.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 29

Non appare condivisibile neanche l’argomento che pretende

di individuare la tassatività dell’indicazione in ragioni di celerità. Ed

infatti, la preoccupazione di assicurare la massima rapidità alla

procedura di riesame o d’appello non può finire per compromettere

proprio l’attuazione di quel diritto che si pretende di assicurare ancor

più rapidamente, precludendo l’esercizio dello stesso in casi di

obiettiva difficoltà, data anche la ristrettezza del termine, di

presentare l’atto esclusivamente nella cancelleria del tribunale

competente.

Una simile soluzione contrasterebbe non solo con quel favor

impugnationis, cui è indubbiamente ispirato il sistema processuale,

ma anche con lo stesso diritto di difesa costituzionalmente garantito.

Per altro verso, una volta riconosciuta la possibilità di

presentazione dell’atto nei diversi uffici di cui al comma 2 dell’art.

582, è alla data di tale presentazione che deve farsi riferimento per

stabilirne la tempestività, essendo del tutto irrilevante, a tal fine, la

data in cui l’atto perviene al tribunale competente.

La Corte ha, pertanto, affermato il seguente principio: «Il

rinvio effettuato dall’art. 309, comma 4, c.p.p. (applicabile anche

all’appello in virtù del richiamo dell’art. 310, comma 2) alle

“forme” dell’art. 582, comprende anche il comma 2 dello stesso art.

582, secondo il quale le parti private ed i difensori possono

presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria della

pretura [n.d.r.: ora nella cancelleria del tribunale o del giudice di

pace] in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello in cui fu

emesso il provvedimento, ovvero davanti ad un agente consolare

all’estero. E, una volta avvenuta la presentazione in tali ultimi uffici

nel termine di dieci giorni di cui al comma 3 dell’art. 309 c.p.p., è

del tutto irrilevante, ai fini della tempestività, che l’atto raggiunga o

meno entro lo stesso termine la cancelleria del tribunale indicato nel

comma 7 dello stesso art. 309 c.p.p.» (32

).

Non c’è dubbio che la conclusione cui sono pervenute le

Sezioni unite sia la più aderente alla lettera della legge e la più

coerente con il sistema delle impugnazioni. Con riferimento al

(

32) Sez. Un., 18 giugno - 27 luglio 1991, n. 11, D’Alfonso ed altro, in

C.E.D. Cass., n. 187922.

CAPITOLO PRIMO 30

riesame ed all’appello, infatti, si pongono quelle stesse esigenze di

favor impugnationis che hanno indotto il legislatore a consentire, con

il comma 2 dell’art. 582, la presentazione dell’atto presso uffici

diversi da quello legittimato, in via primaria, a riceverlo; anzi, tali

esigenze risultano amplificate, stante la sensibile riduzione dei

termini impugnatori (33

).

6. La presentazione della richiesta di riesame con

telegramma o raccomandata. — Le Sezioni unite sono intervenute

a risolvere un contrasto interpretativo cui aveva dato luogo la

formulazione originaria dell’art. 309, comma 4, c.p.p., che, mentre

rinviava alle forme dell’art. 582 c.p.p. per la presentazione della

richiesta di riesame, non richiamava anche il disposto dell’art. 583

c.p.p., relativo alla possibilità di spedire l’atto di impugnazione con

raccomandata o con telegramma (34

).

La Corte, partendo dal decisum della sentenza D’Alfonso del

1991 (35

), ha sostenuto che «in materia di misure cautelari, sia reali

che personali, la richiesta di riesame può essere proposta anche con

telegramma o con atto trasmesso a mezzo raccomandata, a norma

dell’art. 583 c.p.p., ed in tal caso l’impugnazione si considera

proposta nella data di spedizione della raccomandata o del

telegramma» (36

)

Ad avviso del Supremo Collegio, in mancanza di indicazioni

in senso contrario, il rinvio all’art. 582, per quanto concerne le forme

della presentazione della richiesta di riesame, non può non

comprendere le modalità previste dall’art. 583. Del resto, non vi

sarebbe ragione di comprimere il diritto di impugnazione impedendo

(

33) La giurisprudenza di legittimità ha precisato, anche di recente, che

l’art. 582 comma 2 c.p.p., nel prevedere la possibilità, per la parte privata, di

presentare l’atto d’impugnazione nella cancelleria del tribunale o del giudice di

pace del luogo in cui essa si trova, non richiede che tra detto luogo e la parte esista

alcun vincolo territoriale. In tal senso, v. Cass., Sez. V, 16 novembre 2005, n. 70,

in C.E.D. Cass., n. 232531.

(34

) In dottrina cfr. AMATO, sub art. 309, cit., p. 195.

(35

) V., supra, § 5.

(36

) Sez. Un., 11 maggio - 7 luglio 1993, n. 8, Esposito, in C.E.D. Cass.,

n. 193750.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 31

la spedizione a norma dell’art. 583, dato che una simile

compressione non troverebbe giustificazione neanche adducendo

esigenze di celerità; si tratta, infatti, di esigenze che non appaiono

incompatibili con i tempi del servizio postale, se si considera che la

richiesta di riesame può essere presentata anche presso gli uffici

indicati dal comma 2 dell’art. 582, i quali, poi, per trasmettere l’atto

si avvalgono appunto del servizio postale.

Deve rilevarsi che con l’art. 16 l. 8 agosto 1995, n. 332, nel

quarto comma dell’art. 309 è stato esplicitamente inserito il richiamo

alle forme previste dall’art. 583 c.p.p., cosicché la questione ha perso

di attualità.

7. La decorrenza del termine per la proposizione della

richiesta di riesame da parte del difensore. — La richiesta di

riesame deve essere proposta nel termine perentorio di dieci giorni,

che decorre, per l’interessato, dalla data di esecuzione o notificazione

del provvedimento cautelare e, per il difensore, dalla notificazione

dell’avviso di deposito dell’ordinanza che dispone la misura.

Con riguardo alla decorrenza del termine per il difensore, le

Sezioni unite sono state chiamate a chiarire se il dies a quo possa

essere individuato in un momento anteriore alla notifica dell’avviso

di deposito, allorché risulti che il difensore abbia acquisito la

conoscenza effettiva del provvedimento.

Nel caso affrontato dalla Corte, il tribunale della libertà aveva

dichiarato inammissibile la richiesta di riesame presentata oltre il

termine prescritto dall’art. 309 comma 3 c.p.p., ritenendo che, nella

fattispecie concreta, tale termine dovesse decorrere dal giorno in cui

il difensore aveva partecipato all’interrogatorio di garanzia ex art.

294 c.p.p. e non dalla successiva notifica dell’avviso di deposito

dell’ordinanza cautelare.

Il ricorso per cassazione è stato rimesso al Supremo Collegio,

ravvisandosi l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale intorno alla

questione sul se il termine per la proposizione della richiesta di

riesame, per il difensore, possa decorrere dal giorno in cui lo stesso

abbia assistito all’interrogatorio della persona sottoposta a misura

cautelare personale, indipendentemente dalla notifica, prevista

CAPITOLO PRIMO 32

dall’art. 309 comma 3 c.p.p., dell’avviso di deposito dell’ordinanza

impositiva della misura.

Questa questione si inserisce, a sua volta, in quella più

generale relativa al se il termine di dieci giorni, previsto a pena di

decadenza, possa farsi decorrere dalla conoscenza effettiva del

provvedimento, conseguita dal difensore prima della notifica

dell’avviso di deposito (37

).

Si tratta di una problematica — ovvero quella

dell’ammissibilità di equipollenti alla notifica dell’avviso di

deposito, da cui far decorrere il termine di dieci giorni per la

proposizione dell’impugnazione — che si è posta sin dall’entrata in

vigore del nuovo codice di procedura penale e che già in altre due

occasioni era stata sottoposta all’attenzione delle Sezioni unite,

senza, tuttavia, trovare soluzione, a causa delle peculiarità connesse

ai rispettivi casi, che avevano implicato decisioni su questioni

diverse (38

).

Sul tema, invero, si sono manifestati almeno tre orientamenti.

Secondo un primo indirizzo, deve escludersi, in modo

assoluto, la possibilità che atti o fatti diversi possano ritenersi

equipollenti alla notifica dell’avviso di deposito del provvedimento

cautelare, in quanto il diritto di difesa tecnica deve potersi fondare

anche sulla congruità logico-giuridica della motivazione, il che

presuppone l’esame integrale del provvedimento (39

).

Altro orientamento ha ammesso la possibilità che il termine

di dieci giorni decorra da fatti o atti diversi dalla notifica dell’avviso

(

37) In dottrina, sul tema, v. ANSELMI, Conoscenza del provvedimento e

termini per la richiesta di riesame, in Giur.it., 2004, p. 364; LEO, Solo con la

notifica dell’ordinanza cautelare il difensore viene a conoscere gli atti processuali,

in Guida dir., 2003, n. 21, p. 59; RUGGIERO, La notifica al difensore dell’avviso del

deposito dell’ordinanza che ha disposto la misura cautelare e l’irrisolta questione

dell’ammissibilità di equipollenti, in Cass. pen., 2003, p. 1275.

(38

) Si tratta di Sez. Un., 5 ottobre - 25 novembre 1994, n. 15, Tibaldi, in

C.E.D. Cass., n. 199096, e di Sez. Un., 3 febbraio - 16 febbraio 1995, n. 3, p.m. in

proc. Gallo e altri, ivi, n. 200116.

(39

) Cass., Sez. IV, 5 luglio 2000, Milosevic, in C.E.D. Cass., n. 216946;

Id., Sez. VI, 24 novembre 1995, Cursio, ivi, n. 204114; Id., Sez. I, 4 aprile 1995,

PM in proc. Maddaloni, ivi, n. 201744; Id., Sez. I, 30 maggio 1994, Gaetani, ivi, n.

198322; Id., Sez. VI, 1° marzo 1994, Bruno, ivi, n. 198481.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 33

di deposito allorché il difensore abbia ricevuto aliunde sicura

conoscenza del provvedimento cautelare (40

), cosicché è stato

considerata equipollente alla notifica dell’avviso di deposito la

presenza del difensore all’interrogatorio ex art. 294 (41

).

In posizione intermedia, altre pronunce, pur escludendo tra

gli atti equipollenti l’interrogatorio di garanzia dell’imputato, hanno

riconosciuto come termine valido di decorrenza per l’impugnazione

del difensore l’espletamento di attività difensiva, consistita in

richieste di revoca o sostituzione della misura (42

).

Le Sezioni unite, investite del contrasto, hanno

sostanzialmente accolto il primo dei tre orientamenti sopra indicati,

escludendo, all’esito di un’attenta ed articolata disamina della

questione, che la notificazione dell’avviso di deposito possa essere

sostituita dalla partecipazione del difensore all’interrogatorio di

garanzia o da un fatto o un atto previsto a diverso fine, seppure se ne

desuma la conoscenza altrimenti conseguita del provvedimento.

Secondo il Supremo Collegio, il comma 3 dell’art. 309, nel

far decorrere, per il difensore, il termine di dieci giorni dalla notifica

dell’avviso di deposito dell’ordinanza impositiva della misura, non

ha inteso subordinare tale decorrenza alla mera comunicazione di

esistenza del provvedimento (cosa che avviene già al momento in cui

il difensore è avvisato dell’avvenuta esecuzione dell’ordinanza

coercitiva), né alla sua compiuta conoscenza, bensì all’assicurazione,

resagli appunto mediante la notifica dell’avviso di deposito, di poter

avere accesso al documento e di poter coordinare la difesa tecnica

mediante il colloquio con il suo assistito. Sotto quest’ultimo profilo,

(

40) Cass., Sez. III, 22 dicembre 1999, Porru, in C.E.D. Cass., n. 215620;

Id., Sez. II, 6 febbraio 1995, Matafiori, ivi, n. 201784; Id., Sez. VI, 26 aprile 1994,

Trimboli, ivi, n. 199060; Id., Sez. I, 28 gennaio 1993, Mannarino, ivi, n. 193320.

(41

) Cfr. Cass., Sez. V, 13 giugno 2002, Mirabella, in C.E.D. Cass., n.

222447.

(42

) Cass., Sez. I, 8 novembre 2000, Staterini, in Giur. it., 2001, c. 1222;

Id., Sez. VI, 13 aprile 1994, Mammoliti, in C.E.D. Cass., n. 198311; cfr., anche,

Cass., Sez. VI, Lavdosh, in Cass. pen., 2002, p. 3162, relativa ad un caso in cui,

prima della notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza presso la cancelleria del

giudice, il difensore aveva ricevuto avviso dell’udienza fissata per la trattazione

della richiesta di riesame proposta dal suo assistito.

CAPITOLO PRIMO 34

assume rilevanza il comma 3-bis dell’art. 309, inserito dall’art. 16 l.

8 agosto 1995, n. 332, secondo cui, nel termine di impugnazione del

difensore, così come dell’indagato-imputato, non si computano i

giorni durante i quali è stato disposto il differimento del colloquio, a

norma dell’articolo 104, comma 3, c.p.p.

Le due condizioni — ovvero l’accessibilità del documento e

la possibilità di coordinamento della difesa mediante colloquio —

sono autonome e ciascuna di esse mira ad una distinta certezza

legale, assicurata da un diverso adempimento dell’autorità onde,

consentito il colloquio ancor prima della notifica dell’avviso di

deposito al difensore, non è possibile far decorrere da quel momento

il termine iniziale per la sua richiesta, sulla scorta di una presunzione

di conoscenza reale da parte sua, essendo il provvedimento già stato

consegnato all’imputato.

Il nodo decisivo della questione sta, ad avviso delle Sezioni

unite, nella considerazione che la conoscenza del provvedimento

cautelare e delle ragioni ad esso sottese, che il difensore potrebbe

acquisire aliunde prima della notifica dell’avviso di deposito, non è

mai equiparabile a quella che la legge assicura a seguito

dell’avvenuta notifica. E ciò appare chiaro non appena si consideri

che l’art. 293 comma 3 c.p.p., a seguito delle modifiche apportate

dall’art. 10 l. n. 332 del 1995, fa precedere alla notificazione

dell’avviso di deposito al difensore l’effettivo deposito, non solo

dell’ordinanza impositiva, ma anche della richiesta del magistrato del

pubblico ministero e degli atti con la stessa presentati.

L’importanza di questo deposito, ai fini dell’esercizio del

diritto di difesa, è stata evidenziata dalla Corte costituzionale che,

con la sentenza n. 192 del 1997 (43

), ha dichiarato l’illegittimità

dell’art. 293, comma 3, c.p.p. nella parte in cui «non prevede la

facoltà per il difensore di estrarre copia, insieme all’ordinanza che ha

disposto la misura cautelare, della richiesta del pubblico ministero e

degli atti presentati con la stessa»; solo assicurandogli tale

prerogativa, il difensore è posto nelle condizioni di valutare con

piena cognizione di causa quali siano gli strumenti più idonei per

tutelare la libertà personale del proprio assistito, dalla richiesta di

(

43) Corte cost., 24 giugno 1997, n. 192, in Giur. cost., 1997, p. 1876.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 35

riesame ovvero di revoca o sostituzione della misura alla

proposizione dell’appello.

Il giudice delle leggi ha, in tal modo, ancorato la ratio della

norma che disciplina il deposito al principio di garanzia della difesa

tecnica in tema di libertà, di cui è mero corollario quella per cui è

prevista la notifica dell’avviso di deposito.

È, dunque, dal collegamento sistematico tra l’art. 293 comma

3 e l’art. 309 comma 3 c.p.p. che emerge, con tutta evidenza, la

ragion d’essere della decorrenza del termine dalla notificazione

dell’avviso di deposito: solo in quel momento il difensore acquisisce

la certezza legale dell’avvenuto deposito dell’ordinanza che dispone

la misura, insieme con la richiesta del magistrato del pubblico

ministero e gli atti con essa presentati al giudice, e, pertanto, solo da

quel momento ha la certezza legale di poter conseguire tutti gli

elementi necessari per instaurare il contraddittorio intorno al

provvedimento che applica la misura, raffrontando previamente gli

argomenti di difesa al ragionamento svolto dalla parte avversa nel

richiedere la misura, alla stregua di quanto documentato e perciò

sottratto al segreto.

Se è questa la certezza legale assicurata dalla notifica

dell’avviso di deposito, allora è a questa certezza che occorre far

riferimento nell’andare a verificare se esista un atto o un fatto

equipollente alla notifica dell’avviso di deposito dell’ordinanza

cautelare.

Il punto di partenza è quello di chiarire che cosa debba

intendersi per atto equipollente; secondo le Sezioni unite, possono

considerarsi equipollenti sia gli atti che sono strutturalmente previsti

per assolvere in alternativa la stessa funzione, sia quelli che, pur

avendo diversa struttura, sono previsti per assolverla in via

sostitutiva.

In materia di notifica, il comma 4 dell’art. 148 c.p.p. prevede

un’ipotesi di equipollenza per alternativa nella consegna di copia

dell’atto all’interessato da parte della cancelleria, con annotazione

sull’originale. Il comma 5 prevede, invece, l’ipotesi di equipollenza

per sostituzione, quando dell’atto sia data dal giudice lettura alle

persone presenti e ne sia fatta menzione a verbale.

CAPITOLO PRIMO 36

Ciò posto, se si pone mente alla circostanza che, ai sensi del

combinato disposto degli artt. 293 comma 3 e 309 comma 3, oggetto

della notifica è l’avviso di deposito dell’ordinanza, all’evidenza nulla

esclude che sia possibile applicare il comma 4 o 5 dell’art. 148 a

seconda dell’occasione.

Nulla vieta che, ad esempio, in sede d’interrogatorio ex art.

294 c.p.p., il giudice dia al difensore presente l’avviso del deposito di

cui all’art. 293 comma 3 e disponga che se ne dia atto a verbale. In

questo caso, essendo stato adottato un sostitutivo tipico, è possibile

far decorrere il termine di cui all’art. 309 comma 3 c.p.p.

Se, invece, si vuole attribuire ad un atto previsto ad altro fine

— pertanto non dall’art. 148 — la stessa efficacia della notifica

dell’avviso di deposito, lo si qualifica impropriamente equipollente,

in quanto ci si riferisce non ad un atto idoneo a conseguire la stessa

certezza legale, bensì ad un fatto attraverso il quale è in via d’ipotesi,

cioè induttivamente, possibile ottenere la prova che l’interessato

abbia avuto conoscenza integrale del provvedimento; ma tanto è

insufficiente.

In altri termini, equipollente della notifica dell’avviso di

deposito è solo l’atto che, offrendo pari certezza legale di

accessibilità agli atti del procedimento, esonera il giudice da

verifiche di conoscenza reale da parte del destinatario di tutto quanto

è oggetto di deposito.

Questa conclusione, del resto, risulta confermata anche dalla

natura di mezzo di impugnazione propria del riesame, il che impone

di applicare il principio di stretta legalità o tassatività delle cause di

inammissibilità dell’impugnazione.

Non essendo possibile rinvenire alcuna previsione espressa

che conferisca rilevanza, o comunque consideri alternativa, la

conoscenza altrimenti conseguita del provvedimento, il regime di

riesame delle misure coercitive non può differenziarsi da quello degli

altri mezzi di impugnazione.

Pertanto, la richiesta di riesame del provvedimento di

custodia, proposta dal difensore, non può essere dichiarata

inammissibile, in deroga all’art. 173 c.p.p., facendo decorrere il

termine per proporla, invece che dalla notificazione dell’avviso di

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 37

deposito di cui all’art. 309 comma 3, dalla sua partecipazione

all’interrogatorio previsto dall’art. 294 o da un fatto o un atto

previsto a diverso fine, seppure se ne desuma la conoscenza

altrimenti conseguita del provvedimento.

Il principio di diritto, che se ne trae, è il seguente: «Il termine

per la proposizione della richiesta di riesame dell’ordinanza che

dispone una misura coercitiva decorre, per il difensore

dell’imputato, dal giorno in cui gli è stato notificato l’avviso del

relativo deposito, a norma dell’art. 309 comma 3 c.p.p., e non da

quello della sua partecipazione all’interrogatorio previsto dall’art.

294 c.p.p. o di altro evento che faccia presumere la sua conoscenza,

altrimenti conseguita, del provvedimento medesimo» (44

).

La soluzione, cui sono pervenute le Sezioni unite, appare

l’unica veramente aderente al tenore letterale del comma 3 dell’art.

309; essa, del resto, rappresenta il frutto dell’applicazione dei

principi generali di tassatività dei termini perentori e delle cause di

inammissibilità dell’impugnazione, risulta coerente con la funzione

che il legislatore ha assegnato al sistema delle notificazioni e

garantisce a pieno il diritto di difesa del soggetto destinatario di una

misura cautelare.

8. La sospensione dei termini durante il periodo feriale. —

La disciplina della sospensione dei termini durante il periodo feriale

è dettata dall’art. 240-bis disp. a.c.t. c.p.p., introdotto dal d.lgs. 20

luglio 1990, n. 193, che ha sostituito l’art. 2 della l. 7 ottobre 1969, n.

742.

Tale disposizione prevede alcune eccezioni alla regola

generale della sospensione dei termini nel periodo feriale, tra le quali

assumono particolare rilevanza quelle contemplate dai primi due

commi: il primo comma stabilisce che, in materia penale, la

sospensione dei termini, compresi quelli fissati per la fase delle

indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi ad imputati

in stato di custodia cautelare qualora essi o i loro difensori rinuncino

alla sospensione; ai sensi del secondo comma, inserito dall’art. 21-bis

(

44) Sez. Un., 26 febbraio - 17 aprile 2003, n. 18751, Mario e altri, in

C.E.D. Cass., n. 224183.

CAPITOLO PRIMO 38

d.l. 8 giugno 1992, n. 306, «la sospensione dei termini delle indagini

preliminari di cui al primo comma non opera nei procedimenti per

reati di criminalità organizzata».

Con riferimento alla regola dettata dal primo comma, le

Sezioni unite, con una pronuncia relativa alle impugnazioni in

materia di misure cautelari reali, ma chiaramente estensibile alle

impugnazioni disciplinate dagli artt. 309, 310 e 311 c.p.p., hanno

chiarito che anche nei procedimenti incidentali concernenti i

provvedimenti cautelari i termini processuali sono sospesi nel

periodo feriale (45

).

Questa conclusione — ribadita dalla successiva

giurisprudenza di legittimità (46

) — si ricava dall’ampiezza della

formulazione letterale del comma 1 dell’art. 240-bis, la quale

coinvolge tutti i termini procedurali in materia penale, compresa la

fase delle indagini preliminari, e, quindi, a ben guardare, anche i

procedimenti con detenuti, come si evince dal rilievo che a chi si

ritrovi in stato di custodia cautelare ed al suo difensore è attribuita la

facoltà di rendere inoperante la sospensione mediante rinunzia.

Del resto, partendo dalla ratio sottesa all’istituto — che è

quella di assicurare ai soggetti coinvolti nel procedimento un

congruo periodo di riposo scevro da preoccupazioni di

pregiudizievole decorso di termini, proteggendo anche il cittadino da

frettolose stesure di atti importanti —, appare plausibile ritenere che

il legislatore abbia inteso stabilire una regola generale di sospensione

operando, nel bilanciare i diversi e contrastanti interessi, una scelta a

favore di quelli sopra enunciati rispetto all’esigenza di celerità

fisiologica in tutti i procedimenti penali e facendo eccezione

condizionata (alla opzione di rinuncia) solo per il caso emergenziale

di procedimento con imputato o indagato che abbia perso la libertà

personale; in quest’ultimo caso, infatti, è stato considerato

preminente l’interesse del soggetto detenuto ad ottenere una

(

45) Sez. Un., 20 aprile - 24 giugno 1994, n. 5, Iorizzo, in C.E.D. Cass.,

n. 197702.

(46

) Cfr. Cass., Sez. II, 1° febbraio 2001, Perri, in C.E.D. Cass., n.

218206.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 39

pronuncia urgente, rispetto a quelli tutelati dalla disciplina della

sospensione dei termini durante il periodo feriale.

Se ne ricava che la sospensione feriale dei termini si applica

anche a tutti i termini che riguardano i procedimenti impugnatori de

libertate, salvo la possibilità, nel caso di custodia cautelare, per

l’interessato o per il suo difensore di rinunciare alla sospensione.

Maggiori problemi interpretativi si sono posti, invece, in

ordine all’applicabilità ai procedimenti di impugnazione de libertate

della disposizione di cui al comma 2 dell’art. 240-bis disp. a.c.t.

c.p.p. (47

).

Le Sezioni unite sono state investite della questione se si

applichi ai termini di impugnazione dei provvedimenti in materia di

misure cautelari personali anche il secondo comma dell’art. 240-bis

disp. a.c.t. c.p.p., il quale prescrive la non operatività della

sospensione dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti

per reati di criminalità organizzata.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, deve

ritenersi che il secondo comma dell’art. 240-bis, laddove prevede

testualmente la «sospensione dei termini delle indagini preliminari»,

si riferisca non già alla «sospensione dei termini [...] stabiliti per la

fase delle indagini preliminari», come recita il primo comma, ma

esclusivamente ai termini relativi all’attività di indagine del

magistrato del pubblico ministero, con esclusione quindi dei termini

attinenti al procedimento incidentale di riesame di natura

giurisdizionale. Con la norma in esame, il legislatore ha accolto

l’esigenza di non sottoporre a moratoria il potere di indagine

(

47) Sul tema, in dottrina, v. APRILE, Osservazioni circa l’applicabilità

al procedimento di impugnazione innanzi al tribunale del riesame della disciplina

della sospensione dei termini procedurali durante il periodo feriale, in Nuovo dir.,

1994, p. 980; BERETTA, Sospensione feriale dei termini e procedura di riesame, in

Cass. pen., 1994, p. 1575; LACCHI, La moratoria feriale nel riesame delle

ordinanze custodiali per i reati di criminalità organizzata, in Giur. it., 1997, II, c.

341; MELILLO, Appunti in tema di sospensione feriale dei termini relativi a

procedimenti per reati di criminalità organizzata, in Cass. pen., 2005, p. 2925;

VALENTINI REUTER, Il rispetto dei tempi delle decisioni de libertate, in Riv.it.dir. e

proc.pen., 1993, p. 1147; VANNI, Se e come si può differire il riesame dopo la

scadenza del periodo feriale, in Dir. pen. e proc., 1997, p. 980.

CAPITOLO PRIMO 40

dell’organo del pubblico ministero, cosicché non pare possibile

estendere la prevista deroga all’operatività della sospensione ai

procedimenti incidentali de libertate, ancorché relativi a

provvedimenti cautelari emessi nella fase delle indagini preliminari,

con la conseguenza che a tali procedimenti rimane applicabile la

disciplina generale, e cioè la sospensione dei termini nel periodo

feriale con la facoltà, in caso di imputati in custodia cautelare, di

rinuncia da parte degli imputati stessi o dei loro difensori (48

).

In senso contrario, si è sostenuto che l’interpretazione

limitativa della portata del secondo comma «urta proprio contro il

tenore letterale della norma», poiché la locuzione «sospensione dei

termini delle indagini preliminari» è destinata ad assumere un

significato globale in forza del rinvio in essa contenuto ai termini

procedurali del primo comma, il cui testo, appunto, recita

«sospensione dei termini [...] compresi quelli stabiliti per la fase delle

indagini preliminari»; del resto, le medesime ragioni «di particolare

urgenza per la estrema pericolosità sociale della criminalità

organizzata», che escludono la sospensione delle indagini preliminari

nel periodo feriale, valgono altresì ad escludere detta sospensione nei

procedimenti de libertate incidentali alla fase delle indagini

preliminari (49

).

Le Sezioni unite hanno fatto propria quest’ultima soluzione

ermeneutica, riconoscendo che «nei procedimenti per reati di

criminalità organizzata, la non operatività della sospensione,

durante il periodo feriale, dei termini delle indagini preliminari, si

estende anche ai termini di impugnazione dei provvedimenti in

materia di misure cautelari personali» (50

).

Ad avviso dei giudici del Supremo Collegio, se la ratio della

previsione di cui al comma 2 dell’art. 240-bis è quella di assicurare

alle indagini preliminari, che costituiscono la fase essenziale per la

(

48) Cass., Sez. II, 5 aprile 1994, Marafioti, in C.E.D. Cass., n. 201499;

Id., Sez. I, 8 marzo 1994, Scialpi, ivi, n. 196959.

(49

) Cass., Sez. I, 23 marzo 1994, Parisi ed altri, in C.E.D. Cass., n.

196857; Id., Sez. I, 23 marzo 1994, Lovreglio, ivi, n. 196863.

(50

) Sez. Un., 8 maggio - 26 giugno 1996, n. 12, Giammaria, in C.E.D.

Cass., n. 205039.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 41

formulazione dell’accusa, celerità, prontezza ed efficacia rispetto a

fenomeni di elevata pericolosità sociale, che esigono un tempestivo

ed indilazionabile intervento dell’autorità giudiziaria, allora non è

sostenibile giuridicamente, ma neppure logicamente, che la norma

sia indirizzata esclusivamente all’attività di indagine del magistrato

del pubblico ministero.

Ed infatti, eventuali stasi procedurali, dovute alla sospensione

dei termini nel periodo feriale, che incidano sui procedimenti aventi

ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti de libertate, non

possono che riflettersi con causalità necessaria sullo svolgimento e

sull’esito stesso dell’attività di indagine, e quindi sul procedimento

principale. Ne consegue che la preoccupazione di assicurare nei

procedimenti per reati di criminalità organizzata la massima rapidità,

rimuovendo la moratoria feriale, non può trovare un’efficace risposta

se non con riguardo all’intera fase delle indagini preliminari,

comprensiva, pertanto, dei procedimenti incidentali de libertate.

Ove, invece, si accogliesse l’opposta tesi, si avrebbe una

rimozione della moratoria feriale, in caso di procedimenti con

imputati in custodia cautelare, di carattere unidirezionale, dando

facoltà solo agli imputati ed ai loro difensori di rimettere in moto il

meccanismo procedurale, e non già al magistrato del pubblico

ministero, interessato, nei procedimenti per reati di criminalità

organizzata, a far rimuovere quei provvedimenti di diniego o revoca

della misura cautelare che potrebbero frustrare le esigenze di cautela

funzionali alle indagini in corso, con incidenza sull’esercizio stesso

dell’azione penale.

Ed è proprio questa l’argomentazione che rende sicuramente

preferibile, sia sul piano logico, che su quello strettamente giuridico-

sistematico, la soluzione esegetica sposata dalle Sezioni unite.

La tesi che nega l’applicabilità del secondo comma dell’art.

240-bis ai procedimenti incidentali de libertate si fonda su un

assunto non condivisibile, secondo cui la trattazione dei suddetti

procedimenti non può incidere sullo svolgimento e sulla

prosecuzione delle indagini preliminari.

Questo vizio d’origine finisce per far cadere la teoria in

discorso in autocontraddizione: per un verso, si afferma che lo scopo

CAPITOLO PRIMO 42

della norma è quello di agevolare l’organo del pubblico ministero

nello svolgimento delle indagini preliminari relative a reati di

difficile accertamento, quali quelli di criminalità organizzata; per

altro verso, non ci si avvede che la sospensione dei termini delle

impugnazioni de libertate può avere come diretta conseguenza

proprio quella di pregiudicare l’attività d’indagine dell’ufficio del

pubblico ministero.

Si pensi all’ipotesi in cui il giudice per le indagini preliminari

rigetti, il 30 luglio, la richiesta di applicazione di una misura

cautelare fondata sul pericolo di dispersione o inquinamento delle

fonti di prova; in questo caso, procrastinare l’appello del magistrato

del pubblico ministero fino alla scadenza del periodo feriale significa

realizzare quel pregiudizio all’attività di indagine che il comma 2

dell’art. 240-bis ha inteso scongiurare con riferimento ai

procedimenti per reati di criminalità organizzata.

Pertanto, l’interpretazione accolta dalle Sezioni unite

costituisce l’unica compatibile con la lettera e la ratio della

disposizione in esame.

Sempre le Sezioni unite, con la sentenza su ricorso Petrarca

del 2005, hanno fornito importanti chiarimenti in ordine

all’interpretazione del disposto di cui all’art. 240-bis, comma 2, disp.

a.c.t. c.p.p.

In primo luogo, confermando la soluzione esegetica sposata

dalla sentenza Giammaria, hanno ribadito che la non operatività della

sospensione, durante il periodo feriale, dei termini delle indagini

preliminari nei procedimenti per i reati di criminalità organizzata

deve intendersi estesa anche ai termini di impugnazione dei

provvedimenti in materia di misure cautelari personali.

In secondo luogo, hanno precisato che la disposizione di cui

al comma 2 dell’art. 240-bis non presuppone, per la relativa

operatività, l’esistenza di uno status custodiale, che, al contrario,

risulta richiesto soltanto nella previsione di cui al primo comma del

medesimo articolo.

In terzo luogo, hanno affrontato il delicato problema della

nozione di criminalità organizzata accolta dalla previsione in esame.

LA PROPOSIZIONE DELL’IMPUGNAZIONE 43

Il Supremo Collegio, sulla scia della prevalente

giurisprudenza di legittimità, ha inteso il concetto di «criminalità

organizzata» in senso criminologico o teleologico, riconoscendo che

tale concetto, nell’ambito del disposto di cui al citato comma 2

dell’art. 240-bis, si riferisce «non solo ai reati di criminalità mafiosa

ed assimilata ed ai delitti associativi previsti da norme incriminatrici

speciali, ma anche a qualsiasi tipo di associazione per delinquere, ex

art. 416 c.p., correlata alle attività criminose più diverse, con l’ovvia

esclusione del mero concorso di persone del reato, ove manca il

requisito dell’organizzazione» (51

).

Il legislatore, infatti, ha voluto garantire una trattazione

rapida per tutte le condotte criminali poste in essere da una pluralità

di soggetti che, al fine di commettere più reati, abbiano costituito un

apparato organizzativo il cui rilievo predomini rispetto all’apporto

causale del singolo partecipe: e ciò in considerazione del particolare

allarme sociale che qualsiasi struttura organizzativa criminale suscita

nell’opinione pubblica.

La riconduzione del disposto del comma 2 dell’art. 240-bis

alla fattispecie associativa generale impedisce, inoltre, la possibilità

di eterogenee interpretazioni casistiche, non rispettose del principio

di legalità, che impone un’esigenza di determinatezza tanto più

evidente quando di tratti di indicare categorie di reati.

Tale conclusione si presenta altresì coerente con la ratio

sottesa alla clausola di inoperatività della moratoria feriale dei

termini procedurali, che si identifica nell’interesse generale alla

massima speditezza della trattazione dei procedimenti relativi ai

delitti, ai quali, in diretta connessione all’operare di stabili

strutturazioni criminose, inerisce un particolarmente elevato allarme

sociale.

(

51) Sez. Un., 22 marzo - 11 maggio 2005, n. 17706, Petrarca ed altri, in

C.E.D. Cass., n. 230895.

Capitolo Secondo

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI

SOMMARIO: 1. L’avviso all’autorità giudiziaria procedente di trasmissione degli

atti. — 2. Il dies a quo di decorrenza del termine per la trasmissione degli

atti. — 3. Un problema in tema di decorrenza del termine per la

trasmissione degli atti. — 4. La necessità che gli atti pervengano al

tribunale del riesame nel termine di cinque giorni. — 5. La perdita di

efficacia della misura per omessa trasmissione al tribunale del riesame dei

decreti autorizzativi delle intercettazioni. — 6. Le conseguenze

dell’omessa trasmissione del verbale dell’interrogatorio di garanzia

dell’indagato. — 7. L’esclusione della perdita di efficacia della misura

coercitiva in caso di mancata o tardiva trasmissione della richiesta

cautelare.

1. L’avviso all’autorità giudiziaria procedente di

trasmissione degli atti. — Il comma 5 dell’art. 309 c.p.p. prescrive

che «il presidente cura che sia dato immediato avviso all’autorità

giudiziaria procedente la quale, entro il giorno successivo, e

comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al tribunale gli atti

presentati a norma dell’articolo 291, comma 1, nonché tutti gli

elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle

indagini».

La formulazione di questa disposizione si è rivelata poco

chiara ed ha legittimato plurime soluzioni esegetiche sotto molteplici

profili: l’individuazione della data di decorrenza del termine; il

significato da attribuire al verbo «trasmettere»; l’identificazione degli

atti che devono essere trasmessi pena la perenzione della misura (52

).

(

52) In generale, sul tema, v. APRILE, Letture sul riesame delle misure

cautelari, cit., p. 659; BARBIERI, Ancora incertezze sugli atti da trasmettere al

tribunale del riesame, in Giur. it., 2001, p. 1463; BASSI-EPIDEMIO, Guida alle

impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 105; BENENATI, Gli atti da

trasmettere al tribunale del riesame: un problema ancora irrisolto, in Giur. it.,

1999, p. 594; CONFALONIERI, Verso la tutela sostanziale della difesa nel riesame

delle misure cautelari, in Giur. it., 1995, II, c. 534; ID., I controlli sulle misure

cautelari, cit., p. 975; COPPETTA, Mancata trasmissione al giudice del riesame

degli atti a base del provvedimento restrittivo: un’ipotesi di annullamento senza

CAPITOLO SECONDO 46

Più volte le Sezioni unite sono dovute intervenire per

sciogliere i dubbi interpretativi suscitati dalla previsione in discorso.

Il primo intervento è stato occasionato dalla necessità di

risolvere una questione che non più attuale a seguito delle modifiche

introdotte dalla l. 8 agosto 1995, n. 332, ossia se il tribunale del

riesame, nel caso in cui non siano stati trasmessi tutti gli atti

presentati al giudice procedente a norma dell’art. 291, comma 1,

c.p.p., possa, con provvedimento interlocutorio, richiedere gli atti

mancanti e se la decorrenza del termine di cui all’art. 309, comma 9,

abbia o meno inizio dal momento della ricezione degli atti

richiesti (53

).

rinvio?, in Cass. pen., 1992, p. 3093; GIANNONE, Commento all’art. 16 della legge

1995 n. 332, in Leg. pen., 1995, p. 730; GREVI, Misure cautelari, in AA. VV.,

Compendio di procedura penale, a cura di CONSO e GREVI, Padova, 2006, p. 445;

ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e procedimento applicativo, in

Misure cautelari e diritto di difesa nella l. 8 agosto 1995 n. 332, a cura di GREVI,

Milano, 1996, p. 100; LOSAPIO, sub art. 309, cit., p. 999; NAPPI,

Sull’individuazione degli atti che il p.m. deve trasmettere al giudice per le

decisioni de libertate, in Gazz. giur., 1996, f. 44, p. 1; NUZZO, Considerazioni sugli

elementi a favore dell’imputato nel procedimento cautelare, in Cass. pen., 1998, p.

178; SANTALUCIA, Gli elementi a favore dell’indagato tra dovere di azione e

prerogative difensive a tutela della libertà personale, in Giust. pen., 1997, III, c. 1;

SPANGHER, Commento all’art. 16 della legge n. 332 del 1995, in AA. VV.,

Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti di difesa e riforma della

custodia cautelare, Padova, 1995, p. 287; ID., Pluralità di imputazioni e parziale

trasmissione degli atti al tribunale del riesame, in Cass. pen., 2003, p. 775;

TRIGGIANI, Sulla necessità di trasmettere al tribunale del riesame tutti gli atti già

presentati al g.i.p. con la richiesta di applicazione di una misura coercitiva, in

Cass. pen., 1998, p. 2067; VALENTINI, Incompleta trasmissione di atti al tribunale

del riesame: quali oneri per la difesa che eccepisce le eventuali omissioni?, in

Cass. pen., 2002, p. 3511.

(53

) Sulla questione in dottrina cfr. ADORNO, Termine per la decisione

del tribunale del riesame, trasmissione «frazionata» degli atti, richieste di riesame

proposte separatamente da più indagati o imputati nel medesimo procedimento, in

Cass. pen., 1995, p. 3430; ATZEI, Trasmissione frazionata degli atti e decorso del

termine per il riesame di provvedimenti sulla libertà personale, in Giur. it., 1994,

II, c. 552; DELLA MARRA, Scarcerazione per parziale ritardata trasmissione degli

atti al tribunale della libertà, in Giur. it., 1991, II, c. 323; GIANNONE, Misure

cautelari personali (impugnazioni), in Commento al nuovo codice di procedura

penale, coordinato da CHIAVARIO, Primo Agg., Torino, 1993, p. 249;

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 47

La formulazione originaria dell’art. 309 c.p.p. prevedeva

l’inefficacia sopravvenuta della misura cautelare per la sola ipotesi in

cui la decisione sulla richiesta di riesame non fosse assunta entro il

termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti da parte del tribunale.

Nessun termine perentorio era, invece, fissato per la

trasmissione degli atti e ciò aveva consentito alla giurisprudenza di

legittimità di dar vita ad un orientamento interpretativo volto ad

ammettere la c.d. trasmissione frazionata degli atti.

Questo meccanismo, tuttavia, finiva per eludere le strette

cadenze temporali per la decisione sulla richiesta di riesame.

Ed infatti, le Sezioni unite avevano, in un primo tempo,

precisato che il termine di dieci giorni per la decisione iniziasse a

decorrere dal momento in cui il tribunale riceveva tutti gli atti, e non

solo parte di essi, a suo tempo presentati dal magistrato del pubblico

ministero (54

).

Sulla scorta di questa pronuncia, il Supremo Collegio aveva,

poi, riconosciuto al tribunale del riesame, nell’ipotesi di trasmissione

soltanto parziale degli atti, il potere di disporre il rinvio della

decisione ai fini dell’acquisizione degli atti mancanti, con la

conseguenza di far decorrere il termine previsto dal comma 9

dell’art. 309 solo dal momento della ricezione degli ulteriori atti

richiesti.

Il principio di diritto, introdotto nel sistema, era, pertanto, il

seguente: «Poiché il tribunale del riesame può procedere al giudizio

solo con piena cognizione degli atti, nell’ipotesi di mancata

trasmissione di tutta la documentazione a suo tempo presentata dal

magistrato del pubblico ministero con la richiesta della misura

cautelare, è legittimo il rinvio della decisione ai fini

dell’acquisizione degli atti mancanti; tale provvedimento

interlocutorio, mirato alla completa cognizione della

documentazione, non si qualifica infatti come atto istruttorio, bensì

come provvedimento necessario, strumentale alla decisione, e

costituisce espressione di un dovere funzionale il cui esercizio è

indispensabile per la definizione del procedimento incidentale. In

(

54) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, infra, cap.

III, § 6.

CAPITOLO SECONDO 48

tale ipotesi il termine previsto dall’art. 309 comma 9 c.p.p. decorre

dal momento della ricezione degli ulteriori atti richiesti» (55

).

La sostanziale vanificazione, in tal modo realizzata, delle

esigenze di rapidità sottese alla previsione di un termine perentorio

per la decisione (56

) ha indotto, però, il legislatore, con l’art. 16 della

l. n. 332 del 1995, ad introdurre il termine di cinque giorni per la

trasmissione degli atti, sanzionandone il rispetto a pena di inefficacia

della misura cautelare.

Ne consegue che il principio di diritto enunciato dalla

pronuncia in esame non è più attuale, in quanto, come ha avuto modo

di precisare, in obiter dictum, una successiva sentenza delle Sezioni

unite (57

), per effetto della citata modifica legislativa è venuta meno

l’ipotesi di slittamento del dies a quo del termine per la decisione del

riesame, nel caso di ricezione frazionata degli atti, essendo prevista

la caducazione dell’ordinanza custodiale ove non vengano trasmessi,

nel termine di cinque giorni, tutti gli atti a suo tempo presentati al

giudice che ha emesso il provvedimento coercitivo.

2. Il dies a quo di decorrenza del termine per la

trasmissione degli atti. — Le Sezioni unite sono intervenute a

risolvere un contrasto interpretativo, manifestatosi nella

giurisprudenza di legittimità, in ordine alla decorrenza del termine di

cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale della libertà,

cui è collegata la sanzione dell’inefficacia della misura.

La nuova formulazione dell’art. 309, comma 5, c.p.p.,

risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 16 della l. 8 agosto

1995, n. 332, prevede che «il presidente cura che sia dato immediato

avviso all’autorità giudiziaria procedente la quale, entro il giorno

successivo, e comunque non oltre il quinto giorno, trasmette al

tribunale gli atti [...]».

(

55) Sez. Un., 5 - 21 luglio 1995, n. 25, Parlati, in C.E.D. Cass., n.

202016.

(56

) Per considerazioni di questo tipo v. LOZZI, Lezioni di procedura

penale, Torino, 2006, p. 325.

(57

) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.

Schillaci, infra § 4; nello stesso senso, Sez. Un., 27 marzo 1996 - 31 maggio 1996,

n. 3, p.m. in proc. Monteleone ed altro, infra § 5.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 49

La disposizione in discorso, fin dalla sua entrata in vigore, si

è presentata equivoca, soprattutto con riferimento all’individuazione

del dies a quo di decorrenza del termine (58

).

L’orientamento che, in un primo momento, ha preso corpo

nella giurisprudenza di legittimità e che è stato avallato anche dalle

Sezioni unite (59

) è stato quello di riconoscere all’espressione «dare

avviso» il significato di «portare a conoscenza del soggetto

destinatario l’atto trasmesso», con la conseguenza di far decorrere il

termine di cui al comma 5 dell’art. 309 dal giorno in cui l’avviso del

tribunale perviene all’autorità procedente e non già dal giorno di

trasmissione dell’avviso stesso.

A questa interpretazione ha, tuttavia, immediatamente reagito

la Corte costituzionale che, con la sentenza n. 232 del 1998 (60

), nel

dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.

309 commi 5 e 10 c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13 e 24

Cost., nella parte in cui non è prevista la perdita di efficacia

dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva in caso di non

immediato avviso della presentazione della richiesta di riesame

(

58) Per un approfondimento della questione v. APRILE, Anche per le

Sezioni unite della Cassazione il termine di cinque giorni per la trasmissione degli

atti decorre dalla presentazione della richiesta di riesame, in Nuovo dir., 1999, p.

163; BRICCHETTI, Ribaltato l’orientamento della Cassazione e il termine di

decorrenza diventa perentorio, in Guida dir., 1998, n. 26, p. 77; CERESA

GASTALDO, Una inedita interpretazione della Corte costituzionale circa la

decorrenza del termine ex art. 309 comma 5 c.p.p. nel procedimento di riesame de

libertate, in Cass. pen., 1998, p. 2855; FRIGO, Finalmente il valore della libertà

personale supera il muro degli adempimenti burocratici, in Guida dir., 1998, n. 26,

p. 77; ROMEO, Tempi del riesame e conti che non tornano, in Cass. pen., 1998, p.

2884; SANTORIELLO, Una nuova interpretazione del comma 5 dell’art. 309 c.p.p.;

tanti dubbi e nessuna certezza, in Giur. cost., 1998, p. 1799; ID., Il riesame delle

misure cautelari personali: analisi dei più recenti orientamenti giurisprudenziali,

in Giur. cost., 2000, I, 779; SPANGHER, La «ragionevole» prevalenza dei diritti

dell’imputato sulle difficoltà organizzative, in Dir. pen. e proc., 1998, p. 1100;

TIBERI, Ragionevolezza dei tempi del giudizio di riesame, in Giur. it., 1999, p.

1486; ZAPPALÀ, Le misure cautelari, in SIRACUSANO-GALATI-TRANCHINA-

ZAPPALÀ, Diritto processuale penale, vol. I, Milano, 2006, p. 471.

(59

) Sez. Un., 25 marzo - 30 giugno 1998, n. 10, Savino, in C.E.D. Cass.,

n. 210804.

(60

) Corte cost., 22 giugno 1998, n. 232, in Giur. cost., 1998, p. 1799.

CAPITOLO SECONDO 50

all’autorità giudiziaria procedente, ha interpretato il quinto comma

dell’art. 309 nel senso che il termine perentorio per la trasmissione

degli atti decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta

di riesame.

Ad una simile conclusione i giudici di Palazzo della Consulta

sono pervenuti individuando la ratio del nuovo termine perentorio

stabilito dal legislatore del 1995, per la trasmissione degli atti, in

quella di impedire che il termine per la decisione decorra da un dies a

quo lasciato alla determinazione degli organi giudiziari, non astretti

nei loro adempimenti a vincoli temporali assistiti da sanzione

processuale.

Tale ratio sarebbe certamente frustrata se si facesse decorrere

il termine per la trasmissione degli atti dalla ricezione, da parte

dell’autorità procedente, dell’avviso della presentazione della

richiesta di riesame, in quanto l’obbligo di «immediato avviso» non è

assistito, nel caso di inadempimento, da alcuna sanzione processuale.

Una situazione normativa così ricostruita non potrebbe

sottrarsi a censure di incostituzionalità, poiché verrebbe meno, in un

ambito particolarmente delicato com’è quello dei rimedi apprestati

dall’ordinamento a tutela della libertà personale, l’effettività del

diritto di difesa, di cui fa parte il diritto alla decisione «entro brevi

termini» o «senza indugio» sul ricorso al tribunale chiamato a

decidere se sussistano i presupposti legali per la misura coercitiva.

Tuttavia, ad avviso del giudice delle leggi, la lettura

sistematica dell’assetto normativo conduce a risultati diversi.

L’immediato avviso, di cui al comma 5 dell’art. 309, non

costituisce, invero, un adempimento dotato di una sua autonoma

funzione processuale, ma è solo la condizione materiale affinché

l’autorità procedente, che degli atti dispone, possa adempiere

all’obbligo di trasmetterli. E non vi è, per altro verso, nessun

ostacolo giuridico a che l’avviso venga di norma inoltrato nello

stesso contesto temporale in cui perviene la richiesta, facendo così

coincidere il momento dell’avviso con quello della presentazione

della richiesta stessa.

La prescrizione secondo cui l’avviso deve essere

«immediato» significa, appunto, che l’eventuale intervallo temporale

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 51

fra la presentazione della richiesta e l’avviso della avvenuta

presentazione non assume rilievo giuridico. Se così è, deve

ulteriormente concludersi che il termine perentorio per la

trasmissione degli atti, assistito dalla sanzione processuale della

decadenza della misura, non decorre da un evento, come la ricezione

dell’avviso da parte dell’autorità procedente, che non ha giuridica

autonomia, ma decorre dal giorno stesso della presentazione della

richiesta, inteso come spazio temporale definito e giuridicamente

rilevante entro il quale si collocano sia la presentazione stessa, sia

l’avviso relativo all’autorità procedente.

Dal punto di vista testuale, anche se il «giorno successivo»,

cui la disposizione continua a riferirsi, si intenda come quello

immediatamente seguente al giorno di ricezione dell’avviso da parte

dell’autorità procedente, nulla vieta, invece, di considerare che il

«quinto giorno», entro il quale devono «comunque» essere trasmessi

gli atti, a pena di decadenza della misura ai sensi del comma 10, sia il

quinto giorno successivo alla presentazione della richiesta alla

cancelleria del tribunale del riesame, potendosi ritenere implicito il

riferimento proprio a quell’atto (la richiesta) al quale invariabilmente

alludono i commi dell’art. 309 precedenti a quello in esame.

L’interpretazione propugnata dalla Corte costituzionale non è

stata, però, uniformemente seguita dalla successiva giurisprudenza di

legittimità; e, a fronte del persistere dell’indirizzo ermeneutico teso

ad identificare il dies a quo della decorrenza del termine di cinque

giorni nel momento in cui perviene all’autorità procedente il

prescritto avviso (61

), la questione è stata rimessa all’esame delle

Sezioni unite.

Il Supremo Collegio, partendo dalla considerazione che le

pronunce interpretative di rigetto della Corte costituzionale

costituiscono precedente autorevole al quale i giudici — salvo la

possibilità di sollevare nuovamente la questione di legittimità

costituzionale — sono tenuti ad uniformarsi, in mancanza di validi

motivi contrari, ha considerato l’interpretazione praticata dai giudici

(

61) Cfr. Cass., Sez. V, 1° luglio 1998, Catapano, in Cass. pen., 1998, p.

3035.

CAPITOLO SECONDO 52

costituzionali «assolutamente incontestabile e perfettamente in linea

con i principi costituzionali».

Essa ha il merito di eliminare ogni irragionevole disparità di

trattamento tra situazioni identiche, posto che la decorrenza del

termine viene fatta coincidere per tutti i ricorrenti dalla data in cui

l’istanza perviene nella cancelleria del tribunale del riesame, termine

definito e determinabile con certezza, e non è più affidata alle

mutevoli sollecitudini dell’autorità giudiziaria, con il che si realizza

anche la funzione primaria di garanzia posta a base dell’istituto.

La Corte è pervenuta, dunque, alla seguente affermazione di

principio: «In tema di procedimento di riesame, il termine di cinque

giorni entro il quale l’autorità giudiziaria procedente deve

trasmettere, a pena di inefficacia della misura, gli atti previsti dal

comma 5 dell’art. 309 c.p.p. al tribunale della libertà, decorre dal

giorno della presentazione della richiesta di riesame» (62

).

Questa conclusione merita di essere condivisa, anche se non

si può non rimarcare la scarsa chiarezza del dato legislativo, il quale

lascia certamente aperta la via a plurime opzioni ermeneutiche;

tuttavia, la considerazione della ratio della novella del 1995, ben

inquadrata dalla Corte costituzionale, e l’obbligo per l’interprete di

preferire, tra più letture di un testo normativo, quella che consenta di

evitare profili di illegittimità costituzionale della disposizione

rendono la soluzione adottata dal giudice delle leggi, prima, e dalle

Sezioni unite, poi, l’unica compatibile con il sistema (63

).

3. Un problema in tema di decorrenza del termine per la

trasmissione degli atti. — Le Sezioni unite, con due sentenze

(

62) Sez. Un., 16 dicembre 1998 - 18 gennaio 1999, n. 25, Alagni, in

C.E.D. Cass., n. 212073.

(63

) Di recente la Suprema Corte, nel ribadire il principio, ha precisato

che la decorrenza del termine di cinque giorni per la trasmissione degli atti al

tribunale inizia dalla ricezione della richiesta da parte della segreteria del tribunale

ordinario e non dalla concreta consegna dell'atto alla cancelleria della sezione

competente; il tribunale, invero, va considerato come unico ufficio giudiziario e

non hanno rilievo, ai fini dell'art. 309 comma 5 c.p.p., i tempi di smistamento degli

atti tra le varie ripartizioni interne. In tal senso, Cass., Sez. IV, 20 dicembre 2005,

n. 2909, in C.E.D. Cass., n. 232886.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 53

pronunciate all’esito della medesima camera di consiglio e depositate

lo stesso giorno, perfettamente coincidenti quanto all’iter

motivazionale seguito ed al principio di diritto espresso, sono state

chiamate a stabilire se, in caso di presentazione della richiesta di

riesame ai sensi dell’art. 582 comma 2 c.p.p., il termine perentorio di

cinque giorni per la ricezione degli atti debba decorrere dal giorno in

cui la richiesta stessa è stata presentata alla cancelleria del tribunale o

del giudice di pace del luogo in cui la parte ed il difensore si trovano,

ovvero dalla data in cui l’istanza è pervenuta alla cancelleria del

tribunale del riesame, alla quale — in attuazione della disposizione

del citato secondo comma dell’art. 582 — l’atto deve essere

immediatamente trasmesso (64

).

Sul tema, in giurisprudenza, a seguito della sentenza n. 232

del 1998 della Corte costituzionale (65

), si era manifestato un

contrasto interpretativo, avendo la Suprema Corte avallato diverse

letture del dictum del giudice delle leggi.

Ed è proprio dalla necessità di definire l’esatta portata della

sentenza n. 232 del 1998 che hanno preso le mosse le Sezioni unite,

al fine di risolvere la questione relativa alla decorrenza del termine di

cui al comma 5 dell’art. 309 nell’ipotesi di presentazione della

richiesta di riesame in luoghi diversi dalla cancelleria del tribunale

della libertà.

Invero, la stessa Corte costituzionale, con la citata pronuncia,

ha precisato «che — ferma la disciplina delle modalità e dei termini

per la proposizione della richiesta di riesame, di cui agli artt. 309,

commi 1 e 4, 582 e 583 c.p.p. — ai fini della decorrenza di detto

termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti vale,

come dies a quo, il giorno in cui la richiesta stessa perviene alla

cancelleria del tribunale del riesame».

(

64) Sul tema v. CIANI, osservazioni a Cass., Sez. un., 22 marzo 2000,

Audino, in Foro it., 2000, II, p. 393; NUZZO, Orientamenti giurisprudenziali sulla

decorrenza del termine per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame, in

Cass. pen., 2000, p. 3237; PALLA, osservazioni a Cass., Sez. un., 22 marzo 2000,

Audino, in Cass. pen., 2000, p. 2231; SCHETTINO, Favor libertatis e procedimento

di riesame delle ordinanze che dispongono misure coercitive, in Cass. pen., 2001,

p. 1144.

(65

) V., supra, § 2.

CAPITOLO SECONDO 54

Da questa affermazione traspare — secondo la Suprema

Corte — che la decorrenza del termine perentorio dal giorno stesso

della presentazione della richiesta è collocata su un piano diverso da

quello inerente alle modalità di tempo e di luogo di proposizione

dell’istanza di riesame e che il principio enunciato nella sentenza n.

232 del 1998 è riferito soltanto all’ipotesi esplicitamente prevista

dall’art. 309, comma 4, prima parte, c.p.p., in cui l’istanza è

direttamente presentata al tribunale competente a decidere

sull’impugnazione e non è operante, invece, nella diversa ipotesi di

cui all’art. 582, comma 2, c.p.p., nella quale la richiesta di riesame è

presentata alla cancelleria del tribunale o del giudice di pace del

luogo nel quale si trovano le parti, decorrendo il predetto termine

perentorio, in quest’ultima evenienza, dal giorno in cui la richiesta

stessa «perviene» alla cancelleria del tribunale del riesame.

Tale opzione interpretativa, del resto, è l’unica coerente con il

complesso della disciplina dettata dall’art. 309: solo nel momento in

cui la richiesta di riesame è ricevuta dal tribunale competente a

decidere può divenire operante l’obbligo dell’«immediato avviso»

all’autorità procedente ed è, dunque, possibile individuare un punto

di riferimento cronologico, certo e definito, idoneo a soddisfare

l’esigenza dell’osservanza di un termine perentorio, che regoli i

tempi per l’avvio e per la conclusione del procedimento di riesame,

condizionando il mantenimento della stessa efficacia della misura

coercitiva.

Né, avallando una simile soluzione ermeneutica, si

determinano ingiustificate disparità di trattamento. Difatti, la

previsione delle modalità di proposizione di cui agli artt. 582 e 583

c.p.p. costituisce specifica espressione del favor impugnationis, in

quanto mette a disposizione dell’interessato plurime forme

processuali che agevolano e rendono meno oneroso l’esercizio del

diritto di chiedere il sollecito controllo di legalità della misura

cautelare personale; in quest’ottica, risponde ad evidenti ragioni di

ordine logico e costituisce equilibrato contemperamento di interessi

costituzionalmente rilevanti la soluzione interpretativa per cui

l’ampliamento delle facoltà attribuite in ordine alle forme di

presentazione della richiesta di riesame risulta bilanciato da una

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 55

attenuazione (peraltro, di modesta entità) delle esigenze di massima

rapidità della procedura, facendo dipendere la decorrenza del termine

perentorio di cinque giorni dal giorno della presentazione della

richiesta nella cancelleria del tribunale del riesame ovvero dal giorno

della ricezione, in corrispondenza della diversa scelta compiuta

dall’interessato.

Ciò comporta, come ulteriore conseguenza, che il principio

della non coincidenza del decorso del termine perentorio con la data

di presentazione della richiesta ai sensi degli artt. 582 e 583 c.p.p.

non può essere esteso all’ipotesi in cui l’interessato non si trovi in

condizione di scegliere la forma processuale che garantisce la

massima rapidità, costituita dalla diretta presentazione presso la

cancelleria del tribunale del riesame, perché detenuto (art. 123,

comma 1, c.p.p.) o perché in stato di arresto o di detenzione

domiciliare ovvero perché custodito in un luogo di cura (art. 123,

comma 2, c.p.p.).

Con riferimento a queste ultime ipotesi, le Sezioni unite,

prendendo atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale ed

andando oltre il thema decidendum alle stesse devolute, hanno

ritenuto che non sia possibile scindere il momento della

presentazione da quello dell’immediato decorso del termine, non solo

per la ragione che all’interessato è preclusa la possibilità di attivare il

mezzo processuale più rapido col recarsi a presentare la richiesta

nella cancelleria del tribunale del riesame, ma anche perché lo stesso

art. 123 espressamente equipara la presentazione al direttore del

carcere alla ricezione da parte dell’autorità competente, attribuendo

immediata efficacia all’atto come se fosse direttamente ricevuto

dall’autorità giudiziaria destinataria.

Di qui, l’enunciazione dei seguenti principi di diritto:

«Qualora la richiesta di riesame sia presentata nella cancelleria del

tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano le parti o

davanti a un agente consolare all’estero, a norma dell’art. 582,

comma 2, c.p.p., ovvero sia proposta con telegramma o mediante

raccomandata, il termine perentorio di cinque giorni per la

trasmissione degli atti al tribunale del riesame, a norma dell’art. 309

comma 5, decorre dal giorno in cui la richiesta stessa perviene alla

CAPITOLO SECONDO 56

cancelleria del tribunale del riesame, e non già dal giorno della sua

presentazione o proposizione, non potendo ipotizzarsi, a carico del

presidente del tribunale, l’adempimento dell’obbligo di immediato

avviso prima della ricezione della richiesta.

Il principio enunciato nella sentenza n. 232 del 1998 della

Corte costituzionale, in virtù del quale il termine in questione

decorre dal giorno stesso della presentazione della richiesta, è

riferito solo al caso, esplicitamente previsto dall’art. 309, comma 4,

prima parte, c.p.p., di presentazione della richiesta direttamente al

tribunale competente a decidere su di essa, al quale va assimilata

l’ipotesi della presentazione, a norma dell’art. 123 stesso codice, da

parte di imputato detenuto, in stato di arresto o detenzione

domiciliare, ovvero custodito in luogo di cura» (66

).

Entrambi questi principi meritano di essere condivisi.

La facoltà, rimessa alla libera scelta delle parti, di utilizzare

forme alternative al deposito della richiesta presso la cancelleria del

tribunale del riesame giustifica una disciplina parzialmente diversa

quanto all’individuazione del dies a quo del termine per la

trasmissione degli atti, che ne procrastini la decorrenza alla ricezione

dell’atto di impugnazione da parte dell’organo competente a

decidere; diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione —

non accettabile — che il presidente del tribunale debba richiedere la

trasmissione degli atti senza essere a conoscenza dell’avvenuta

presentazione del ricorso e che il termine decorra prima ed a

prescindere dal fatto che questi sia stato posto nella condizione di

chiederne l’inoltro.

Per altro verso, qualora il deposito della richiesta in luogo

diverso dalla cancelleria del tribunale del riesame non costituisca

l’esercizio di una facoltà, allora non si può far ricadere

sull’interessato il rischio del ritardo di un atto compiuto in

conformità della legge, quand’anche nessun rimprovero di colposa

negligenza possa essergli rivolto; la soluzione adottata dalle Sezioni

unite, con riferimento all’ipotesi di presentazione della richiesta ai

(

66) Sez. Un., 22 marzo - 2 maggio 2000, n. 10, Solfrizzi, in C.E.D.

Cass., n. 215827 e Sez. Un., 22 marzo - 2 maggio 2000, n. 11, Audino, ivi, n.

215828.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 57

sensi dell’art. 123 c.p.p., rispecchia, quindi, la ratio della normativa

che, nell’equiparare l’efficacia della dichiarazione ricevuta nel luogo

di detenzione dagli organi competenti a quella effettuata all’autorità

giudiziaria, ha voluto colmare, o almeno ridurre al minimo, lo scarto

di tempo tra la situazione virtuale e quella reale e garantire la

maggior tutela alla persona detenuta dal pregiudizio di ritardi

imputabili ad altri.

4. La necessità che gli atti pervengano al tribunale del

riesame nel termine di cinque giorni. — A seguito della modifica

dei commi 5 e 10 dell’art. 309, ad opera dell’art. 16 l. 8 agosto 1995,

n. 332, si è manifestato, nella giurisprudenza di legittimità, un

contrasto interpretativo relativamente al se la perdita di efficacia

dell’ordinanza cautelare, per la trasmissione degli atti oltre i termini

allo scopo previsti dal comma 5, si riferisce al mero «invio» degli atti

da parte dell’autorità giudiziaria procedente oppure al «far pervenire»

gli atti stessi non oltre il quinto giorno al tribunale del riesame (67

).

Secondo un primo orientamento, sotto il profilo letterale il

verbo «trasmettere» significa propriamente «inoltrare», «inviare»,

«spedire», con la conseguenza che per evitare la perenzione è

sufficiente che gli atti siano stati inviati; e non potrebbe essere

altrimenti, apparendo evidente che, con la perenzione della misura

coercitiva personale, il legislatore ha voluto sanzionare l’inerzia

(

67) Sul tema v. BENENATI, Il rispetto dei tempi nel procedimento di

riesame: un’esigenza irrinunciabile, in Giur. it., 1998, p. 761; CESQUI, La misura

cautelare perde efficacia se entro cinque giorni dalla richiesta di riesame gli atti

non sono effettivamente pervenuti al tribunale del riesame, in Gazz. giur., 1998, f.

4, p. 7; GIULIANI, Caducazione della misura cautelare per ritardata

«trasmissione» degli atti al tribunale del riesame, in Dir. pen. e proc., 1998, p.

338; MERCORE, Il fascicolo del riesame tra esigenze contenutistiche, termini e

sanzioni processuali, in Cass. pen., 1998, p. 575; NUZZO, La «trasmissione degli

atti» al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. pen.,

1998, p. 1919; VERRINA, Diritto primario di libertà dell’indagato ed accezione

interpretativa dell’art. 309 c.p.p. alla stregua del «diritto vivente», in Giur. it.,

1998, 1212.

CAPITOLO SECONDO 58

dell’autorità procedente e non già l’inerzia del servizio postale o di

altro servizio usato per la trasmissione degli atti (68

).

Ad avviso dell’opposto indirizzo, invece, risulta assai arduo

ritenere che il legislatore si sia disinteressato del tempo intermedio

tra l’invio degli atti ed il momento in cui pervengono al tribunale,

sicché il significato del termine «trasmettere» non può non assumere,

nel contesto del comma 5 dell’art. 309, una connotazione diversa da

quella dei sinonimi «inviare», «mandare», proprio nel senso che esso

implica l’idea del collegamento tra i due soggetti ed i due luoghi che

resta fissata nel termine del «far pervenire» (69

).

Le Sezioni unite, chiamate a dirimere il contrasto, hanno dato

credito a quest’ultima soluzione interpretativa.

Invero, il canone ermeneutico dettato dall’art. 12 disp. prel

c.c. impone, fra due possibili alternative semantiche, l’una e l’altra

ugualmente plausibili sul piano lessicale, di accordare preferenza a

quella che, nella situazione descritta dalla norma, è la più aderente o

la sola corrispondente allo scopo della legge.

Tale è il caso della voce «trasmettere» che, stando al

vocabolario comune, non ha un significato univoco, potendo essere

intesa, nel singolo contesto, tanto nel senso di «inviare» o «mandare»

da parte del mittente, quanto nel senso di «far pervenire» al

destinatario.

Che quest’ultimo e non il primo sia il significato che la

locuzione «trasmette» assume nel contesto dell’art. 309 comma 5

c.p.p. non par dubbio, ove si consideri che l’interesse protetto dalla

norma non è quello del mittente (autorità giudiziaria procedente) a

compiere l’atto dell’invio entro un certo termine, ma è, invece,

l’interesse de libertate della persona sottoposta a misura coercitiva,

la cui richiesta di riesame si vuole sia, in ogni caso, definita entro

brevissimi termini, nel rispetto del principio costituzionale secondo

cui «la libertà personale è inviolabile».

(

68) Cfr. Cass., Sez. I, 29 maggio 1997, p.m. in proc. Romeo, in C.E.D.

Cass., n. 207855.

(69

) V. Cass., Sez. II, 14 giugno 1997, p.m. in proc. La Mantia, in C.E.D.

Cass., n. 208080.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 59

L’interpretazione in discorso, facendo perno sul dato

oggettivo, documentalmente verificabile, che gli atti devono

pervenire al tribunale entro e non oltre il termine di cinque giorni

dall’avviso, indipendentemente dalla data dell’invio e del mezzo

utilizzato, ha l’indubbio vantaggio di consentire al tribunale e

soprattutto allo stesso indagato o imputato di accertare

tempestivamente l’avvenuta scadenza al fine del ripristino della

libertà, senza attendere l’arrivo degli atti presso il tribunale, per

constatarne solo in via postuma la tardività.

Il Supermo Collegio ha, pertanto, enunciato il seguente

principio di diritto: «Ai fini della caducazione automatica

dell’ordinanza applicativa della misura cautelare prevista dall’art.

309, comma 10, c.p.p., in riferimento al precedente comma quinto, e

cioè allorché la trasmissione degli atti non avviene nel termine ivi

previsto, si ha inosservanza del termine quando gli atti non

pervengono nel termine medesimo al tribunale del riesame, a nulla

rilevando che il loro invio sia avvenuto nei cinque giorni

dall’avviso» (70

).

La conclusione così raggiunta risulta sorretta da convincenti

argomentazioni e merita di essere condivisa, apparendo conforme

allo spirito della miniriforma del 1995 e conferendo effettività al

diritto di difesa in tema di libertà personale.

5. La perdita di efficacia della misura per omessa

trasmissione al tribunale del riesame dei decreti autorizzativi

delle intercettazioni. — Le Sezioni unite, con due successive

sentenze — la sentenza Monteleone del 27 marzo 1996 e quella

Glicora del 20 novembre 1996 —, hanno affrontato la questione

relativa alle conseguenze dell’omessa trasmissione al tribunale del

riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni (71

).

(

70) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.

Schillaci, in C.E.D. Cass., n. 209034.

(71

) In dottrina v. APRILE, Le impugnazioni penali, cit., p. 331;

ASTARITA, Limiti all’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche

nelle decisioni de libertate, in Cass. pen., 2003, p. 2050; DI CHIARA, osservazioni a

Cass., Sez. un., 27 marzo 1996, Monteleone, in Foro it., 1996, II, c. 720; FUMU,

Inutilizzabilità delle intercettazioni illegittime nelle indagini preliminari:

CAPITOLO SECONDO 60

L’intervento delle Sezioni unite è stato reso necessario dal

manifestarsi, fin dai primi anni di applicazione del nuovo codice di

procedura penale, di un contrasto giurisprudenziale in ordine

all’applicabilità, nel procedimento cautelare, del disposto del primo

comma dell’art. 271 c.p.p., che vieta l’utilizzazione dei risultati delle

intercettazioni qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi

consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le

prescrizioni dettate dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, c.p.p.

Questa specifica problematica — la cui analisi, peraltro, esula

dalla presente sede — non è più attuale a seguito dell’entrata in

vigore della l. 1° marzo 2001, n. 63, il cui art. 11, inserendo il

comma 1-bis nell’art. 273 c.p.p., ha espressamente previsto che nella

valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applica il disposto

dell’art. 271, comma 1, c.p.p., confermando, così, il divieto di

utilizzazione, anche ai fini cautelari, delle intercettazioni le cui

operazioni siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o

in dispregio delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1

e 3, c.p.p.

Tuttavia, le sentenze in esame non hanno perso la loro

rilevanza, soprattutto in tema di trasmissione degli atti al tribunale

del riesame.

La questio iuris che si pone attiene al se il magistrato del

pubblico ministero, che abbia fondato la richiesta di applicazione

della misura cautelare sui risultati delle intercettazioni di

comunicazioni o di conversazioni, debba trasmettere al giudice per le

indagini preliminari, prima, ed al tribunale della libertà, poi, i decreti

finalmente effettivo controllo di legalità e sanzione penale, in Cass. pen., 1996, p.

2918; GIRONI, Inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni telefoniche in sede

cautelare ed ambito di applicabilità delle disposizioni generali sulle prove, in Foro

it., 1996, II, p. 710; GROSSO, Il controllo del tribunale del riesame

sull’adeguatezza degli adempimenti ex art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., in Cass. pen.,

2002, p. 1768; MALAVASI, Deposito dei provvedimenti autorizzativi delle

intercettazioni nel giudizio cautelare: il caso dell’autorizzazione in un diverso

procedimento, in Cass. pen., 2002, p. 290; PUGLIESE, Il regime di utilizzabilità

delle intercettazioni telefoniche nel procedimento cautelare, in Giur. it., 1997, II, c.

121; VESSICHELLI, Ancora sul controllo di legittimità delle intercettazioni

telefoniche da parte del tribunale del riesame, in Cass. pen., 1997, p. 2041.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 61

che hanno autorizzato le operazioni di intercettazioni e, nel caso in

cui questi ultimi non vengano trasmessi, quali conseguenze

giuridiche si producono.

La questione è stata trattata solo in obiter dictum dalla

sentenza Monteleone, con riferimento, peraltro, ad una fattispecie

anteriore alla novella introdotta dalla l. n. 332 del 1995.

Le Sezioni unite sono partite dalla considerazione che, in

tema di inutilizzabilità, la disciplina applicabile nella materia delle

intercettazioni è quella contenuta nell’art. 271 c.p.p., norma a

carattere speciale che prevale, perciò, su quella generale di cui all’art.

191 c.p.p.; tale inutilizzabilità colpisce non l’intercettazione in

quanto mezzo di ricerca della prova, bensì i suoi risultati, i quali, a

loro volta, possono rivestire sia la natura di «prova», tipica della fase

del giudizio, sia quella di «indizi», tipica della fase delle indagini

preliminari, cosicché la sanzione comminata dal primo comma

dell’art. 271 c.p.p., lungi dall’essere limitata alla sola fase del

giudizio, opera anche durante le indagini preliminari. La rilevabilità

di ufficio e l’eccepibilità in ogni stato e grado del procedimento della

sanzione in discorso comporta che il giudice per le indagini

preliminari e quello del riesame (o dell’appello) devono esercitare il

potere-dovere di verificare la legittimità delle intercettazioni al fine

di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Da queste argomentazioni il Supremo Collegio ha dedotto

che è onere del magistrato del pubblico ministero trasmettere al

giudice per le indagini preliminari e successivamente al tribunale del

riesame o dell’appello i decreti autorizzativi delle intercettazioni.

L’inosservanza di questo onere, ha rimarcato la Corte, se

nella vigenza della precedente disciplina comportava l’obbligo per il

tribunale, in sede di riesame, di procedere all’acquisizione dei decreti

mancanti, a seguito della novella del 1995 determina la caducazione

della misura, non essendo più consentita l’acquisizione degli atti

mancanti al di là del termine perentorio di cinque giorni prescritto

dall’art. 309, comma 5, c.p.p. (72

).

(

72) Sez. Un., 27 marzo 1996 - 31 maggio 1996, n. 3, p.m. in proc.

Monteleone ed altro, in C.E.D. Cass., n. 204811.

CAPITOLO SECONDO 62

Nell’avvalorare questa conclusione, le Sezioni unite non

hanno, tuttavia, precisato se la sanzione dell’inefficacia della misura

cautelare scaturisca in ogni caso di incompleta trasmissione degli atti

al tribunale del riesame, ovvero solo quando i detti atti, rimessi al

giudice per le indagini preliminari nella loro interezza, pervengano,

poi, al tribunale solo in parte.

La risposta a quest’ulteriore interrogativo è stata fornita dalla

successiva sentenza Glicora che, sul punto, ha colmato la lacuna

contenuta nella motivazione della sentenza su ricorso Monteleone.

Le Sezioni unite hanno avuto modo di evidenziare che il

comma 5 dell’art. 309 c.p.p., come novellato dalla citata l. n. 332 del

1995, prescrive, in caso di riesame, che l’autorità giudiziaria

procedente debba trasmettere al tribunale gli atti presentati a norma

dell’art. 291, comma 1, c.p.p. nonché tutti gli elementi sopravvenuti

a favore della persona sottoposta alle indagini.

Detta previsione va raccordata con quella dettata dall’ultimo

comma dell’art. 309, che dispone la perdita di efficacia della misura

nell’ipotesi in cui la trasmissione degli atti non sia avvenuta «nei

termini di cui al comma 5».

Il tenore letterale e logico delle due disposizioni risulta, ad

avviso della Corte, inequivoco: la perdita di efficacia del

provvedimento custodiale consegue solo al caso di mancato invio al

tribunale di «tutti gli atti» a suo tempo trasmessi al giudice

procedente.

Qualora, invece, anche quest’ultimo giudice abbia ricevuto

gli atti in maniera parziale, non opera una siffatta sanzione, sia in

quanto dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge che il

giudice è tenuto ad esaminare gli atti che ha ricevuto (e non gli altri

eventualmente in possesso del magistrato del pubblico ministero), sia

in quanto detto giudice non può farsi carico di un adempimento che

non dipende da lui.

In definitiva, il comportamento omissivo del magistrato del

pubblico ministero, circa il mancato inoltro di alcuni atti, assunti

prima della richiesta della misura cautelare, atti che, pertanto, il

giudice procedente non ha potuto valutare, ed il corrispondente

mancato esame degli stessi da parte del tribunale del riesame non

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 63

determinano la perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare, ma solo

la inutilizzabilità di quelli che li presuppongono.

Questo significa che, laddove i decreti autorizzativi delle

intercettazioni non rientrino tra gli atti già trasmessi con la richiesta

al giudice di prime cure, l’omessa trasmissione degli stessi al

tribunale del riesame non determina la perdita di efficacia della

misura, ma unicamente il dovere del tribunale di non utilizzare i

risultati delle intercettazioni e di verificare, quindi, se gli elementi

residui consentano o meno di sostenere l’applicazione della misura.

Dalla pronuncia in commento è possibile ricavare i seguenti

principi di diritto: «In tema di intercettazioni di conversazioni e

comunicazioni, l’inutilizzabilità — che è disciplinata dall’art. 271

c.p.p., siccome norma a carattere speciale, prevalente, come tale, su

quella del precedente art. 191 — colpisce non l’intercettazione in

quanto mezzo di ricerca della prova, bensì i suoi risultati, che

possono rivestire sia la natura di prova, tipica della fase del

giudizio, sia quella di indizi, tipica della fase delle indagini

preliminari. È, invero, irragionevole ricollegare la sanzione

dell’inutilizzabilità a questa o a quella fase del procedimento ovvero

a questo o a quel particolare tipo di violazione. E, poiché tale

inutilizzabilità è rilevabile d’ufficio o eccepibile ad istanza di parte

in ogni stato e grado del procedimento, ne consegue che, in sede

cautelare, il giudice per le indagini preliminari e quello del riesame

(o dell’appello) devono esercitare il potere-dovere di verificare la

legittimità delle intercettazioni al fine di valutarne l’utilizzabilità dei

risultati e, quindi, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Ne

discende che è onere del magistrato del pubblico ministero

trasmettere al giudice per le indagini preliminari e, successivamente,

al tribunale della libertà in sede di riesame o di appello i decreti

autorizzativi delle intercettazioni, al fine di consentire ad essi

l’esercizio delle funzioni di controllo loro demandate dalla legge.

In tema di riesame di misure cautelari personali, la perdita di

efficacia del provvedimento custodiale consegue solo al caso di

mancato invio al tribunale di tutti gli atti a suo tempo trasmessi al

giudice per le indagini preliminari in sede di richiesta della misura,

mentre una siffatta sanzione non opera, allorché quest’ultimo

CAPITOLO SECONDO 64

giudice aveva ricevuto gli atti in maniera parziale, sia perché dal

combinato disposto dei commi quinto e decimo dell’art. 309 c.p.p.

risulta che egli è tenuto ad esaminare gli atti ricevuti (e non altri,

eventualmente in possesso del magistrato del pubblico ministero), sia

perché non gli si può far carico di un adempimento che non dipende

da lui. Conseguentemente, il comportamento omissivo del magistrato

del pubblico ministero circa il mancato inoltro di alcuni atti, assunti

prima della richiesta della misura, atti che, pertanto, il giudice per le

indagini preliminari non ha potuto valutare, e il corrispondente

mancato esame degli stessi da parte del tribunale del riesame non

determina la perdita di efficacia dell’ordinanza cautelare, ma solo

l’inutilizzabilità di quelli che li presuppongono» (73

).

La sentenza Glicora, come appare evidente, ha

ridimensionato la conclusione cui erano pervenute le precedenti

Sezioni unite Monteleone, che, in verità, avevano fatto ricorso ad una

interpretazione estensiva dell’art. 309 comma 5 c.p.p.,

sostanzialmente intendendo che gli atti da trasmettere al tribunale del

riesame entro il quinto giorno non fossero soltanto quelli

«...presentati a norma dell’art. 291 comma 1 c.p.p.», ma anche quelli

che comunque avrebbero dovuto essere presentati e non lo sono stati.

È difficile negare che, sotto il profilo della tutela dei diritti

della persona sottoposta a misura cautelare, quest’ultima

interpretazione sia la più garantista, in quanto responsabilizza

l’organo del pubblico ministero, imponendogli di trasmettere in ogni

caso i decreti autorizzativi delle intercettazioni, così come quelli di

convalida e di proroga, indispensabili per verificare la legittimità

delle relative operazioni.

Per altro verso, tuttavia, non si può nascondere la difficoltà di

avvalorare una simile interpretazione estensiva, riferita ad una

disposizione che, irrogando la sanzione della caducazione della

misura, riveste certamente carattere eccezionale.

In questo quadro, appare condivisibile la presa di posizione

della sentenza Glicora, che, sicuramente aderente al disposto

normativo, ha realizzato il giusto compromesso tra le opposte

(

73) Sez. Un., 20 novembre 1996 - 5 marzo 1997, n. 21, Glicora ed altri,

in C.E.D. Cass., n. 206954-206955.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 65

soluzioni esegetiche, ricollegando, in ogni caso, la sanzione

dell’inutilizzabilità all’omessa trasmissione dei decreti autorizzativi

delle intercettazioni.

Nondimeno, essa si espone ad alcune incongruenze, onerando

la difesa ad effettuare il non agevole riscontro, ex post, circa la

corrispondenza tra gli atti presentati al giudice di prime cure e quelli

trasmessi al tribunale del riesame e finendo per «avvantaggiare» il

magistrato del pubblico ministero totalmente inadempiente, il quale

si troverebbe comunque al riparo dal pericolo di veder dichiarata

inefficace la misura impugnata, potendo poi addirittura avvalersi del

fatto che, una volta dichiarata l’inutilizzabilità delle intercettazioni,

la misura rimanga in essere alla luce di altri elementi indizianti in sé

gravi.

In ogni caso, occorre rilevare che i successivi orientamenti

giurisprudenziali non sempre hanno recepito integralmente

l’insegnamento delle Sezioni unite, anzi ne hanno spesso

ridimensionato la portata.

La prevalente giurisprudenza, in realtà, ha continuato ad

affermare, in linea con il dictum della sentenza Glicora, che

l’inefficacia della misura si produce solo nell’ipotesi in cui i decreti

autorizzativi delle intercettazioni, così come i decreti di convalida

delle intercettazioni disposte d’urgenza dal magistrato del pubblico

ministero, non trasmessi al tribunale del riesame, rientravano tra gli

atti allegati alla richiesta di applicazione della misura cautelare (74

).

Qualora, invece, il magistrato del pubblico ministero abbia

omesso di trasmettere al giudice procedente ed ometta, quindi, di

trasmettere al tribunale del riesame copia dei decreti di

autorizzazione all’effettuazione delle intercettazioni, detta omissione,

pur non determinando di per sé la perdita di efficacia della misura

cautelare, costituisce violazione di un obbligo finalizzato a far sì che

possa essere vagliata la legittimità e l’ammissibilità delle suddette

(

74) Cfr. Cass., Sez. IV, 24 novembre 2000, Sadra e altro, in C.E.D.

Cass., n. 218291.

CAPITOLO SECONDO 66

intercettazioni, con conseguente inutilizzabilità dei relativi

risultati (75

).

Tale inutilizzabilità, tuttavia, può essere evitata, secondo un

primo indirizzo esegetico, attraverso il deposito dei decreti nei giorni

antecedenti all’udienza camerale davanti al tribunale del riesame e,

quindi, in tempo utile per il rispetto del principio del

contraddittorio (76

); altro orientamento ritiene che l’acquisizione dei

decreti, a seguito di richiesta di parte, possa avvenire anche nel corso

dell’udienza camerale (77

), sempre che la difesa sia posta nelle

condizioni di controllare la legittimità delle intercettazioni

eseguite (78

).

Queste posizioni, invero, si presentano condivisibili nella

misura in cui si precisa che l’acquisizione dei decreti, decorso il

termine perentorio dei cinque giorni, in tanto è possibile, in quanto i

decreti non siano stati precedentemente trasmessi al giudice

procedente — altrimenti si verifica la caducazione della misura —, e

che tale acquisizione può consentire di utilizzare i risultati delle

intercettazioni solo se è effettuata nel rispetto del principio del

contraddittorio, riconoscendo alla difesa — se mai anche attraverso

la concessione di un breve termine — la possibilità di interloquire

sulla legittimità delle operazioni eseguite.

Altra giurisprudenza, invece, ha disatteso il principio di

diritto enunciato dalle Sezioni unite Glicora.

Si è affermato che, in tema di riesame della misura coercitiva,

i decreti che autorizzano l’intercettazione telefonica non rientrano fra

gli atti su cui il giudice procedente fonda il provvedimento cautelare

e, pertanto, la mancata trasmissione dei medesimi al tribunale non

comporta la perdita di efficacia della misura; qualora, poi, il tribunale

ritenga opportuno acquisire i decreti stessi, nessun vizio discende dal

(

75) Cass., Sez. I, 22 dicembre 2000, Caramazza, in C.E.D. Cass., n.

218189.

(76

) Cass., Sez. I, 8 ottobre 2003, Minichini, in C.E.D. Cass., n. 226547.

(77

) Cass., Sez. I, 15 febbraio 2005, Ferrini, in C.E.D. Cass., n. 231083;

Id., Sez. IV, 1° dicembre 2004, Kelolli e altro, ivi, n. 230685; Id., Sez. I, 29

settembre 2000, Morgante, ivi, n. 217615.

(78

) Cass., Sez. VI, 19 febbraio 2003, Georgiev, in C.E.D. Cass., n.

225736; Id., Sez. I, 25 giugno 1998, Selis, ivi, n. 211425.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 67

fatto che i documenti non siano messi a disposizione delle parti entro

i tre giorni dalla data di udienza, posto che il comma 8 dell’art. 309

c.p.p. stabilisce il termine a comparire, ma non fissa alcun termine

iniziale specifico per il deposito degli atti e dei documenti

acquisiti (79

).

Questa presa di posizione si inserisce in quel filone

giurisprudenziale, consacrato anche da una sentenza delle Sezioni

unite (80

), che tende a distinguere tra atti a contenuto sostanziale, la

cui mancata trasmissione determina in ogni caso la caducazione della

misura, ed atti che abbiano una mera funzione di impulso

procedimentale, i quali possono essere prodotti ed acquisiti

indipendentemente dall’osservanza del termine perentorio indicato

nel comma 5 dell’art. 309 c.p.p.

Di qui, la considerazione dei decreti autorizzativi delle

intercettazioni come atti aventi carattere processuale, in quanto privi

di contenuto probatorio, la cui omessa o tardiva trasmissione non

determina mai l’inefficacia della misura.

Appare evidente come questo orientamento introduca una

distinzione — atti a contenuto sostanziale ed atti aventi carattere

processuale — che non è contemplata dalla lettera dell’art. 309 c.p.p.

— che, invece, impone la trasmissione di tutti gli atti presentati a

norma dell’art. 291 c.p.p. — e che si pone, altresì, in contrasto con la

ratio garantistica della disposizione, volta ad assicurare che in tempi

brevi il giudice del riesame disponga dell’intero compendio

documentale presentato in sede di richiesta della misura cautelare, al

fine di una rapida e completa verifica della legittimità vincolo de

libertate.

Ancora meno condivisibile è un ulteriore indirizzo

interpretativo, che esclude che dalla mancata trasmissione al

tribunale del riesame dei decreti autorizzativi delle intercettazioni

possa derivare l’inutilizzabilità dei relativi risultati (81

). Se è vero,

(

79) Cfr. Cass., Sez. IV, 1 giugno 2001, Laribi, in C.E.D. Cass., n.

219685; Id., Sez. I, 30 giugno 1999, Santoro, ivi, n. 214019.

(80

) Sez. Un., 27 marzo - 22 maggio 2002, n. 19853, p.m. in proc.

Ashraf, infra § 7.

(81

) Cfr. Cass., Sez. II, 22 ottobre 1998, in C.E.D. Cass., n. 211651.

CAPITOLO SECONDO 68

infatti, che dall’omessa allegazione non può desumersi né

l’inesistenza, né l’invalidità dei decreti in questione, è anche vero

che, senza di essi, il tribunale del riesame non è posto nelle

condizioni di svolgere il necessario controllo sulla legittimità delle

operazioni di intercettazioni e, pertanto, non può utilizzare i relativi

risultati.

6. Le conseguenze dell’omessa trasmissione del verbale

dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato. — Sempre in tema

di individuazione degli atti che devono essere trasmessi, ai sensi del

comma 5 dell’art. 309 c.p.p., al tribunale del riesame, altra questione,

che ha dato vita ad un contrasto interpretativo, attiene

all’individuazione delle conseguenze derivanti dall’omessa

trasmissione al tribunale del riesame del verbale dell’interrogatorio

di garanzia dell’indagato (82

).

Tale atto, infatti, non rientra tra quelli presentati al giudice

procedente, ex art. 291 c.p.p., unitamente alla richiesta cautelare,

venendo posto in essere solo successivamente all’adozione della

misura. Il quesito che si è posto consiste, quindi, nello stabilire se

esso debba comunque essere trasmesso al giudice del riesame, ai

sensi del comma 5 dell’art. 309 c.p.p., quale elemento sopravvenuto

a favore della persona sottoposta alle indagini.

La questione ha dato vita a vari orientamenti interpretativi.

Secondo una prima presa di posizione, l’interrogatorio di

garanzia va sempre trasmesso al tribunale del riesame nel termine di

(

82) Cfr., in dottrina, DE AMICIS, Omessa trasmissione del verbale

dell’interrogatorio di «garanzia» e riesame del provvedimento cautelare, in Cass.

pen., 2001, p. 2656; GAZZANIGA, Sulle conseguenze dell’omessa trasmissione del

verbale di interrogatorio al tribunale del riesame entro il termine previsto dall’art.

309 comma 5 c.p.p., in Cass. pen., 2002, p. 698; MARANDOLA, Riesame del

provvedimento cautelare e trasmissione ex art. 309 comma 5 c.p.p.

dell’interrogatorio della persona in vinculis, in Cass. pen., 1996, p. 3736;

ORLANDI, Omesso invio dell’interrogatorio di garanzia al giudice del riesame:

causa di nullità del giudizio di impugnazione o motivo di inefficacia del

provvedimento impugnato?, in Cass. pen., 1997, p. 2778; VASSALLO,

L’interrogatorio di garanzia va trasmesso al tribunale del riesame solo se

favorevole all’indagato, in Cass. pen., 2001, p. 3346.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 69

legge, sotto comminatoria di inefficacia della misura. Esso, infatti,

rientra tra gli atti sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle

indagini, in quanto svolge la funzione di rendere edotto l’indagato

degli elementi di accusa esistenti a suo carico e di consentire allo

stesso una immediata difesa. Non prevedere che tale atto sia

conosciuto ed esaminato dal tribunale del riesame significa privare

l’organo giudicante di un elemento di valutazione importante, poiché

trattasi di uno degli atti difensivi di maggiore rilievo specialmente

nella fase delle indagini preliminari. Né è possibile subordinare la

trasmissione del verbale ad una preventiva valutazione del contenuto

dell’atto per verificare se esso oggettivamente contenga elementi

difensivi, in quanto una simile valutazione di merito compete

esclusivamente all’organo che deve decidere in ordine alla libertà e

non può essere riservata al magistrato del pubblico ministero (83

).

In senso opposto, si è affermato che l’interrogatorio di

garanzia rappresenta, di per sé, un atto neutro, non essendo stato

concepito come istituto diretto alla raccolta di elementi di prova,

bensì come mezzo predisposto a realizzare il contatto dell’indagato

con il suo giudice, affinché questi possa accertare, nel più breve

termine possibile, se permangano le condizioni di applicabilità della

misura. Quando l’art. 309, comma 5, c.p.p. indica gli elementi

sopravvenuti in favore dell’indagato, non si riferisce a mere

asserzioni difensive ma, al contrario, a circostanze fattuali, di natura

oggettiva, che risultino utili a discolparlo; le mere asserzioni

difensive, rese nell’interrogatorio, non rientrano, quindi, nell’ambito

di operatività della previsione in discorso (84

).

Un terzo indirizzo ha sostenuto che il legislatore, con la

locuzione «elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta

alle indagini», si sia voluto riferire a fatti oggettivi e non a semplici

posizioni difensive e che, pertanto, il verbale dell’interrogatorio di

(

83) Cfr. Cass., Sez. V, 13 dicembre 1999, Garofalo, in C.E.D. Cass., n.

215470; Id., Sez. V, 26 novembre 1996, Marmai, ivi, n. 206637; Id., Sez. V, 28

ottobre 1996, Minniello, ivi, n. 206552.

(84

) Cass., Sez. VI, 16 febbraio 2000, Procopio, in C.E.D. Cass., n.

215863; Id., Sez. I, 14 ottobre 1999, Pupillo, ivi, n. 214703; Id., Sez. II, 28 ottobre

1997, Brenvaldi, ivi, n. 209010.

CAPITOLO SECONDO 70

garanzia, in un siffatto contesto, non rientra nella previsione

normativa, a meno che elementi fattuali favorevoli all’indagato siano

contenuti in detto verbale, nel qual caso è onere della parte fornirne

specifica indicazione con la richiesta che il verbale stesso sia

trasmesso al giudice del riesame (85

).

Investite della questione, le Sezioni unite hanno, innanzitutto,

ritenuto di non poter condividere il primo orientamento sopra

esposto. L’interrogatorio di garanzia, infatti, non rappresenta sempre

ed in concreto «elemento favorevole all’indagato», potendo, al

contrario, risolversi in suo danno, come nel caso della confessione; in

queste ipotesi, imporre la trasmissione del relativo verbale al giudice,

equivale a riconoscere in capo al magistrato del pubblico ministero

l’obbligo di comunicargli tutti gli elementi sopravvenuti, di

qualsivoglia segno essi siano, il che rappresenta un palese

stravolgimento della norma, che pacificamente è stata dettata

nell’interesse dell’indagato e che finirebbe, invece, per ritorcersi

contro di lui.

Scopo dell’interrogatorio di garanzia è, di regola, quello di

consentire, in tempi ristretti, il contatto dell’indagato con il giudice,

perché questi possa valutare se permangano le condizioni di

applicabilità della misura e non anche quello della raccolta di

elementi di prova. Solo qualora, nella fattispecie concreta, si verifichi

siffatta eventualità, il magistrato del pubblico ministero deve

rimettere al giudice anche il relativo verbale.

Questa conclusione è confortata — ad avviso della Corte —

sia dal tenore letterale, che dalla ratio del disposto di cui al comma 5

dell’art. 309.

Sotto il primo profilo, tale disposizione esplicitamente

impone al magistrato del pubblico ministero di trasmettere al

tribunale del riesame gli «atti» posti a fondamento della misura

coercitiva e gli «elementi» sopravvenuti favorevoli all’indagato.

Orbene, la distinzione tra «atto» ed «elemento» è evidente e

corrisponde, in pratica, a quella tra contenente e contenuto, nel senso

(

85) Cfr. Cass., Sez. VI, 19 giugno 1999, Buccoliero, in C.E.D. Cass., n.

214514; Id., Sez. VI, 7 aprile 1999, Vernieri, ivi, n. 214768; Id., Sez. V, 25 gennaio

1996, Massaro, ivi, n. 203956.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 71

che nell’«atto» possono rinvenirsi «elementi» se del caso favorevoli

all’indagato. Le due locuzioni, in altri termini, non coincidono

affatto, nel senso che la prima è più ampia della seconda che, a sua

volta, si traduce non in mere asserzioni difensive, ma in specifici dati

fattuali, di natura oggettiva, che, se sopravvenuti e discolpanti,

determinano l’obbligo di invio di cui alla disposizione citata.

Anche la ratio della previsione induce ad avallare il

medesimo risultato esegetico; a parere dei giudici di legittimità,

infatti, la sanzione dell’inefficacia, collegata all’omessa trasmissione

degli elementi sopravvenuti favorevoli all’indagato, risponde al fine

di evitare eventuali poco commendevoli comportamenti dell’organo

del pubblico ministero, il quale, pur essendo venuto in possesso di

elementi favorevoli all’indagato, volutamente o colposamente ometta

di comunicarli al tribunale, che, in tal modo, non può avere

conoscenza completa di tutta la situazione probatoria. Un siffatto

pericolo, però, non può mai verificarsi in concreto qualora non sia

trasmesso l’interrogatorio di garanzia, dal momento che di esso è già

a perfetta conoscenza l’indagato medesimo ed il suo difensore, che

hanno, pertanto, tutti i mezzi per avvalersene ed adeguatamente

difendersi.

Di qui, il Supremo Collegio ha tratto la conclusione che «tra

gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle

indagini non rientra necessariamente il verbale dell’interrogatorio

di garanzia, che, pertanto, va trasmesso al tribunale del riesame, a

norma dell’art. 309 comma 5 c.p.p., solo se in concreto li

contenga» (86

).

Il percorso argomentativo utilizzato dalla Corte, tuttavia, non

convince appieno, soprattutto in relazione alla ricostruzione della

ratio della previsione dettata dal comma 5 dell’art. 309 c.p.p.

Scopo della norma non è semplicemente quello di assicurare

al tribunale la conoscenza completa di tutta la situazione probatoria,

ma anche quello di garantire che l’organo decidente venga a

conoscenza degli elementi favorevoli all’indagato nei termini

prescritti. La possibilità per la difesa di produrre successivamente il

(

86) Sez. Un., 26 settembre 2000 - 11 gennaio 2001, n. 25, Mennuni, in

C.E.D. Cass., n. 217443.

CAPITOLO SECONDO 72

verbale di interrogatorio non può, pertanto, considerarsi

perfettamente equivalente alla sua trasmissione ad opera dell’autorità

giudiziaria procedente, posto che il difensore potrebbe non accorgersi

tempestivamente dell’omesso invio dell’atto e portarlo a conoscenza

del tribunale — se mai depositandolo direttamente in udienza — in

tempi prossimi alla scadenza dei dieci giorni per la decisione, senza

che i giudici del riesame possano utilizzare tutto il tempo a loro

disposizione per sottoporlo ad adeguata valutazione.

In ogni caso, occorre considerare che la valutazione sul se il

contenuto dell’interrogatorio possa contenere elementi favorevoli per

l’indagato va effettuata caso per caso, alla luce degli atti e delle

situazioni processuali concretamente esistenti; non si può negare,

contrariamente a quanto sostenuto dalle Sezioni unite, che anche la

confessione resa in sede di interrogatorio di garanzia possa assumere

il valore di elemento sopravvenuto favorevole all’indagato, laddove,

ad esempio, la misura sia fondata esclusivamente sul pericolo di

inquinamento probatorio, potendo indurre il giudice del riesame a

revocare o sostituire la misura inizialmente applicata.

Ed allora, l’orientamento fatto proprio dalla sentenza

Mennuni, in tanto è condivisibile, in quanto si riconosca che il

tribunale del riesame, acquisito il verbale dell’interrogatorio di

garanzia — se mai su richiesta della difesa — dopo la scadenza dei

cinque giorni previsti dal comma 5 dell’art. 309, debba

necessariamente dichiarare la caducazione della misura, qualora

individui nel contenuto dell’interrogatorio quegli «elementi

sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini» che il

magistrato del pubblico ministero doveva obbligatoriamente

trasmettere nel termine previsto dalla legge.

7. L’esclusione della perdita di efficacia della misura

coercitiva in caso di mancata o tardiva trasmissione della

richiesta cautelare. — Le Sezioni unite sono state chiamate a

rispondere all’interrogativo se l’omessa o ritardata trasmissione della

richiesta di misura cautelare, presentata ai sensi dell’art. 291, comma

1, c.p.p. dal magistrato del pubblico ministero al giudice procedente,

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 73

determini o meno la perdita di efficacia della misura in forza del

disposto di cui al comma 10 dell’art. 309 c.p.p. (87

).

Una parte della giurisprudenza aveva ritenuto che la richiesta

del magistrato del pubblico ministero costituisce atto che deve essere

necessariamente trasmesso al giudice del riesame, essendo tale

richiesta il presupposto della misura cautelare ex art. 291 c.p.p., in

relazione alla quale la difesa è posta in grado di conoscere gli

elementi su cui si fonda, nonché tutti gli elementi eventualmente a

favore dell’indagato-imputato. Si era, addirittura, sottolineato che

non adempie a tale obbligo il magistrato del pubblico ministero che

trasmette la richiesta al tribunale della libertà solo a mezzo di

supporto informatico, e cioè registrata su «dischetto» inserito nel

fascicolo, ciò in quanto tale modalità di trasmissione non è

equiparabile all’atto trascritto, per le difficoltà oggettive di procedere

alla trascrizione e per i tempi tecnici che essa comporta, a fronte dei

termini strettissimi entro cui il giudizio davanti al tribunale del

riesame deve svolgersi (88

).

In senso opposto, altra corrente giurisprudenziale aveva

ritenuto irrilevante l’omessa trasmissione della richiesta cautelare, in

quanto, a seguito della modifica dell’art. 293 comma 3 c.p.p., la

difesa può svolgere un rapido ed effettivo controllo del

(

87) Sulla questione v. BRICCHETTI, Le Sezioni Unite abbandonano la

concezione formale ed aderiscono all’orientamento sostanziale, in Guida dir.,

2002, n. 25, p. 66; DELL’AGLI, La intempestiva trasmissione della richiesta di

misura cautelare al tribunale del riesame non determina l’automatica caducazione

dell’ordinanza applicativa del provvedimento de libertate: un revirement delle

sezioni unite, in Arch.nuova proc.pen., 2002, p. 553; DI BITONTO, Effetti

dell’omessa o tardiva trasmissione al tribunale della libertà della richiesta di

misura cautelare personale, in Cass. pen., 2002, p. 2643; LEO, Gli atti da

trasmettere al tribunale del riesame a pena di inefficacia della misura cautelare:

un nuovo e fondamentale approdo delle Sezioni unite, in Cass. pen., 2002, p. 2647;

NUZZO, Sulla necessità di trasmettere al tribunale del riesame la richiesta di

applicazione della misura cautelare, in Cass. pen., 2000, p. 3091; SAVINO, Potere

di accusa e diritto di difesa: rimeditazione sulle garanzie del procedimento de

libertate, in Cass. pen., 2001, p. 932.

(88

) Cfr. Cass., Sez. I, 30 marzo 2001, Hu Shondeng, in C.E.D. Cass., n.

218583; Id., Sez. I, 19 novembre 1998, Vulluet, ivi, n. 212194; Id., Sez. VI, 30

ottobre 1998, Girotto, ivi, n. 212212.

CAPITOLO SECONDO 74

provvedimento cautelare, con il deposito dello stesso nella

cancelleria del giudice che ha adottato la misura; per altro verso, fra

gli atti che l’autorità procedente deve trasmettere al tribunale del

riesame non rientra la richiesta di applicazione della misura

cautelare, atteso che tale richiesta rappresenta un semplice atto di

impulso processuale, la cui funzione si esaurisce con l’adozione del

provvedimento applicativo della misura e, trattandosi di atto di parte,

non è comunque possibile trarre da essa elementi a favore o contro

gli indagati (89

).

Il Supremo Collegio ha fatto proprio quest’ultimo

orientamento, manifestando la convinzione che al giudice del

riesame non debba garantirsi in via generale ed astratta qualsiasi

controllo sulla legittimità del provvedimento impugnato. La funzione

del tribunale del riesame, infatti, si compendia e si esaurisce nel

controllo del ragionamento adottato dal giudice della cautela, con la

concreta previsione dell’esame degli atti presentati dal magistrato del

pubblico ministero al giudice ed effettivamente utilizzati

nell’economia del provvedimento impositivo, restando esclusa la

necessità della presenza di un atto non decisivo, ritenuto dalla difesa

interessante per il giudizio di impugnazione e conosciuto dalla stessa,

il cui ruolo attivo di propulsione, ai fini dell’acquisizione o della

produzione diretta, attenua il ricorso al meccanismo sanzionatorio

dell’art. 309 c.p.p.

Apertis verbis, ogni ulteriore verifica sulla legittimità del

provvedimento impositivo, che richieda l’esame di atti processuali

diversi da quelli utilizzati e ritenuti decisivi dal giudice di prima

istanza, è rimessa essenzialmente all’iniziativa della difesa,

attraverso la produzione e la successiva acquisizione, sganciata da

termini perentori, di tali atti.

Alla base di una simile conclusione vi è stata la

constatazione, da parte della Corte, che la novella introdotta dalla l.

n. 332 del 1995 e la successiva evoluzione interpretativa siano

espressione di un tendenziale atteggiamento a responsabilizzare la

difesa, la quale è posta nelle condizioni di ottenere tempestivamente

(

89) V. Cass., Sez. V, 15 febbraio 2000, Terracciano, in Cass. pen.,

2001, p. 932; Id., Sez. II, 1° febbraio 2000, Carloni, ivi, n. 215406.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 75

la conoscenza degli elementi sostanziali su cui la cautela si fonda e di

produrre, fino all’udienza camerale e nel corso della stessa, tutto il

materiale utile per la decisione in sede di riesame, in vista di

specifiche prospettazioni.

Il corollario di questa evoluzione — hanno evidenziato i

giudici di legittimità — è stata la delimitazione delle conseguenze

caducatorie dell’omessa trasmissione di atti alla denuncia di

specifiche omissioni di dati sostanziali decisivi, presi in

considerazione dal giudice cautelare e sui quali deve svolgersi il

controllo in sede di riesame.

Da mezzo di difesa per «costringere» l’ufficio del pubblico

ministero a scoprire la sua strategia accusatoria, il riesame si è

connotato, secondo l’evoluzione giurisprudenziale, di una logica di

tipo sostanziale, con la polarizzazione del controllo del tribunale

sulla valutazione degli indizi, operata dal giudice cautelare,

attraverso la trasmissione dei dati dai quali possano desumersi gli

elementi di colpevolezza, le esigenze cautelari e l’adeguatezza della

misura prescelta, definitivamente superando l’originaria

finalizzazione dell’istituto stesso a costituire garanzia dell’accesso

difensivo agli atti.

In un tale contesto, è venuta ad accentuarsi la concezione

sostanziale della trasmissione degli atti considerati funzionali al

compito del giudice del riesame, la cui mancanza comporta la

sanzione di cui al decimo comma dell’art. 309 c.p.p.

L’approdo, dunque, è in direzione di una concezione

sostanzialistica dell’atto, da cui deriva la superfluità della

trasmissione della richiesta cautelare, che non ha rilievo ai fini del

merito della questione cautelare, nulla aggiungendo al quadro

indiziario già emergente dagli atti allegati, che si limita solo a

richiamare; dalla richiesta cautelare, infatti, non è possibile trarre

elementi a favore o contro l’indagato, avendo l’atto mera funzione

processuale che si esaurisce nell’impulso al procedimento cautelare.

Del resto, va posto in luce che il primo comma dell’art. 291

c.p.p. pone esplicita distinzione tra «richiesta» del magistrato del

pubblico ministero ed «elementi» sui quali si fonda; la lettera della

legge opera, quindi, una divaricazione, esaltando la funzione di atto

CAPITOLO SECONDO 76

propulsivo della prima, il cui contenuto è solo una riflessa

elencazione degli elementi a sostegno della richiesta cautelare,

mentre accentua il momento contenutistico dei secondi, delineando

una separazione tra atto formale ed atti sostanziali allegati a

sostegno.

La conclusione cui è pervenuto il Supremo Collegio è la

seguente: «L’omessa o tardiva trasmissione al tribunale del riesame

della richiesta di misura cautelare personale non determina la

perdita di efficacia del provvedimento coercitivo a norma dell’art.

309, commi 5 e 10, c.p.p., in quanto si riferisce ad un atto di natura

meramente processuale, funzionale all’attivazione del procedimento

cautelare, che nulla aggiunge al quadro indiziario risultante dagli

elementi presentati a sostegno di essa» (90

).

Appare evidente come la soluzione esegetica accolta dalle

Sezioni unite si allontani da una mera interpretazione letterale del

disposto normativo.

Non si può negare, a dispetto di quanto affermato dalla Corte,

che la locuzione «atti presentati a norma dell’art. 291 comma 1

c.p.p.», contenuta nell’art. 309 comma 5 c.p.p., ricomprenda

chiaramente anche la richiesta cautelare, la cui presentazione

costituisce il necessario antecedente dell’allegazione degli elementi

di prova destinati a supportarla. Il sostantivo «atti» — impiegato per

individuare l’oggetto della trasmissione — non si riferisce solo ai

risultati investigativi necessari a dimostrare sul piano probatorio la

sussistenza dei presupposti del provvedimento restrittivo richiesto dal

magistrato pubblico ministero e, nella sua genericità, non consente di

escludere dalla trasmissione quelli che per loro natura risultino

insuscettibili di utilizzazione probatoria, come la richiesta di

applicazione della misura avanzata dall’organo dell’accusa.

D’altra parte, come rilevato anche in dottrina (91

),

quest’ultima interpretazione del dato normativo appare la più

(

90) Sez. Un., 27 marzo - 22 maggio 2002, n. 19853, p.m. in proc.

Ashraf, in C.E.D. Cass., n. 221393.

(91

) V., in proposito, DI BITONTO, Effetti dell’omessa o tardiva

trasmissione al tribunale della libertà della richiesta di misura cautelare

personale, cit., p. 2646.

LA TRASMISSIONE DEGLI ATTI 77

coerente con la ragion d’essere del giudizio davanti al tribunale del

riesame, che è quella di assicurare in tempi brevi il pieno controllo

sulla sostanziale giustizia e sulla formale correttezza della misura

coercitiva. In questa prospettiva, il giudice del riesame è tenuto a

verificare, tra l’altro, l’avvenuta osservanza del cosiddetto principio

della domanda in materia cautelare, in forza del quale è preclusa

l’imposizione di misure restrittive in mancanza della relativa

richiesta del magistrato del pubblico ministero.

L’esegesi avallata dal Supremo Collegio, quindi, non solo

introduce una distinzione — atti a contenuto sostanziale ed atti aventi

carattere processuale — che non è contemplata dalla lettera dell’art.

309 c.p.p. (92

) — che, invece, impone la trasmissione di tutti gli atti

presentati a norma dell’art. 291 c.p.p. —, ma si pone, altresì, in

contrasto con la ratio garantistica della disposizione, volta ad

assicurare che in tempi brevi il giudice del riesame disponga

dell’intero compendio documentale presentato in sede di richiesta

della misura cautelare, al fine di una rapida e completa verifica sul

vincolo de libertate (93

).

All’ampiezza della cognizione del tribunale in sede di

riesame deve necessariamente corrispondere la completezza degli atti

da portare a sua conoscenza, che sono tutti quelli esibiti dall’organo

pubblico ministero al fine di ottenere il provvedimento applicativo di

una misura cautelare.

(

92) Cfr. anche PIERRO, Il giudicato cautelare, cit., p. 143, secondo cui la

distinzione tra atti di rilevanza sostanziale ed atti a valenza meramente processuale

non appare condivisibile «perché prefigura un modulo interpretativo riduttivo,

improntato al puro decisionismo potestativo del giudicante, e rispecchia una

concezione strumentale, soggettivistica e non verificabile del giudizio

giurisdizionale, sicuramente oggi non più sostenibile».

(93

) Secondo una diversa interpretazione, invece, la sanzione della

perdita di efficacia della misura dovrebbe essere circoscritta alla sola ipotesi in cui

non abbia avuto luogo alcuna tempestiva trasmissione di atti al tribunale del

riesame, fermo restando il dovere di quest’ultimo di decidere comunque, entro il

termine di legge, sulla base degli atti che siano stati trasmessi, con ovvie ricadute

sull’onere del magistrato del pubblico ministero e dell’imputato di produrre in

udienza ex art. 309 comma 9 gli altri elementi in loro possesso. In questo senso, v.

GREVI, Misure cautelari, cit., p. 449.

CAPITOLO SECONDO 78

Contrariamente a quanto asserito dalla sentenza in esame, il

compito del tribunale del riesame non si esaurisce e non può esaurirsi

nel controllo del ragionamento adottato dal giudice della cautela,

subordinando una più generale verifica sulla legittimità del

provvedimento impugnato solo alla tempestiva iniziativa della difesa,

in quanto il sistema delineato dall’art. 309 induce fondatamente ad

affermare che il giudice del riesame può talmente prescindere dal

ragionamento del primo giudice da confermare il provvedimento

coercitivo anche sulla base di ragioni diverse da quelle indicate

originariamente e che il giudizio instaurato con la richiesta di

riesame è così tanto svincolato dalle ragioni di doglianza difensive

che queste possono anche non essere mai presentate.

Ed allora, la linea ermeneutica prevalsa con la decisione in

commento sembra rispondere unicamente all’esigenza di far fronte

alle innegabili impellenze di carattere pratico, che sovente non

consentono di realizzare in tutta compiutezza la trasmissione degli

atti imposta dall’art. 309 comma 5 c.p.p.

Capitolo Terzo

L’UDIENZA CAMERALE

SOMMARIO: 1. Il problema della notificazione dell’avviso della data dell’udienza

camerale al codifensore che non abbia sottoscritto la richiesta di

riesame. — 2. La rinnovazione dell’avviso nell’ipotesi di inosservanza del

termine dilatorio di tre giorni. — 3. Il diritto dell’interessato ad estrarre

copia degli atti. — 4. La traduzione del detenuto per la partecipazione

all’udienza camerale. — 5. L’omessa indicazione nell’avviso di udienza

del diritto del detenuto alla traduzione davanti al magistrato di

sorveglianza o al giudice del riesame. — 6. La decorrenza del termine di

dieci giorni per la decisione. — 7. Il deposito del dispositivo nel decimo

giorno dalla ricezione degli atti per evitare la perenzione della misura. —

8. L’individuazione del dies ad quem nella ventiquattresima ora del

decimo giorno dalla ricezione degli atti. — 9. Le conseguenze

dell’invalidità della decisione adottata tempestivamente. — 10.

L’inapplicabilità al giudizio di rinvio del termine perentorio di dieci giorni

per la decisione. — 11. La sospensione per la risoluzione di una

pregiudiziale costituzionale.

1. Il problema della notificazione dell’avviso della data

dell’udienza camerale al codifensore che non abbia sottoscritto la

richiesta di riesame. — In tema di notifica dell’avviso della data

dell’udienza di riesame, la cui disciplina è contenuta nel comma 8

dell’art. 309 c.p.p. (94

), le Sezioni unite sono intervenute a risolvere

due questioni, oggetto di altrettanti contrasti giurisprudenziali,

relative, l’una, all’ipotesi in cui l’interessato sia assistito da due

difensori, di cui solo uno abbia sottoscritto l’istanza di riesame, e,

l’altra, alle conseguenze derivanti dall’inosservanza del termine

dilatorio di tre giorni.

(

94) Per un’analisi della tematica v., tra gli altri, APRILE, Le

impugnazioni delle ordinanze sulla libertà personale, Milano, 1996, p. 48; BASSI-

EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 191;

IASEVOLI, Sul computo del termine per la notifica della data di udienza di riesame:

un «passo indietro» della Cassazione, in Cass. pen., 2000, p. 990; LOSAPIO, sub

art. 309, cit., p. 1065; POLVANI, Le impugnazioni de libertate, cit., p. 285.

CAPITOLO TERZO 80

Con riguardo alla prima questione, l’interrogativo che si è

posto attiene al se, nel caso in cui l’indagato o l’imputato sia assistito

da due difensori, l’avviso della data dell’udienza fissata per la

discussione della richiesta di riesame debba essere dato ad entrambi,

anche quando la richiesta sia stata proposta soltanto da uno di

essi (95

).

In giurisprudenza è pacifico che l’avviso della data

dell’udienza camerale ex art. 309 c.p.p. debba essere notificato ad

entrambi i difensori di fiducia allorquando costoro abbiano

sottoscritto la richiesta che ha dato luogo al procedimento incidentale

di riesame ovvero qualora tale richiesta sia stata sottoscritta dal solo

indagato o imputato. Ed è ugualmente pacifico che, in queste ipotesi,

il mancato avviso ad uno dei difensori dà luogo ad una nullità a

regime intermedio, che si sana ove non sia stata tempestivamente

eccepita (96

).

Un contrasto interpretativo si è manifestato, invece, con

riferimento al caso in cui la richiesta di riesame sia stata presentata

soltanto da uno dei difensori ritualmente nominati.

Secondo un primo indirizzo, che ha preso corpo fin

dall’entrata in vigore del nuovo codice di rito, qualora l’avviso della

data di udienza sia notificato al solo difensore che ha presentato

l’istanza di riesame, non ricorre la violazione dell’art. 309, comma 8,

c.p.p., poiché la norma citata dispone che l’avviso sia notificato

«all’imputato o indagato ed al suo difensore», sicché tale difensore

deve essere individuato unicamente in quello che ha proposto

l’istanza (97

). Questa soluzione normativa è coerente sia con la

diversità del procedimento incidentale rispetto a quello principale, sia

(

95) Cfr., in dottrina, CARCANO, Pluralità dei difensori e relativi avvisi,

in Cass. pen., 2002, p. 72; DELLA MARRA, Sull’omesso avviso della data fissata

per l’udienza di riesame ad uno dei due difensori dell’imputato, in Giur. it., 1992,

II, c. 255; ZAPPULLA, In tema di omesso avviso della fissazione dell’udienza al

difensore che non ha sottoscritto la richiesta di riesame, in Cass. pen., 2002, p.

297.

(96

) Cfr. Cass., Sez. I, 10 novembre 1995, Delli Carri, in C.E.D. Cass., n.

203435; Id., Sez. I, 3 novembre 1992, Locorotondo, ivi, n. 192488.

(97

) Cass., Sez. VI, 25 ottobre 1990, Galatolo, in C.E.D. Cass., n.

186318.

L’UDIENZA CAMERALE 81

con la necessità di assicurare la compatibilità dell’esercizio del diritto

di difesa con l’esigenza di rapido svolgimento della procedura

camerale di riesame (98

).

In senso contrario, altro orientamento giurisprudenziale ha

sostenuto che il mancato avviso della data dell’udienza camerale di

riesame ad uno dei difensori nominati dall’imputato che non abbia

sottoscritto la richiesta è causa di nullità a regime intermedio e

determina la nullità degli atti posti in essere in assenza del difensore

non avvertito. Il difensore, al quale l’ottavo comma dell’art. 309 fa

riferimento, è, infatti, il difensore che l’imputato ha indicato

avvalendosi delle facoltà attribuite dalla legge, con la conseguenza

che deve considerarsi tale anche il difensore che, regolarmente

nominato, non abbia, per qualsiasi ragione, sottoscritto l’istanza di

riesame (99

).

Una questione analoga, riferita all’ipotesi del mancato avviso

della richiesta di proroga dei termini di custodia cautelare ad uno dei

due difensori nominati dall’indagato, era già stata affrontata dalle

Sezioni unite, le quali avevano risposto al quesito affermando che

«l’omessa notifica ad uno dei due difensori dell’indagato della data

di deliberazione in camera di consiglio sulla richiesta del pubblico

ministero di proroga della custodia cautelare dà luogo alla nullità del

procedimento camerale dinanzi al giudice per le indagini preliminari

e, conseguentemente, del provvedimento di proroga, nullità che è a

così detto regime intermedio, sia che si proceda con il rito di cui

(

98) Cass., Sez. I, 10 giugno 1999, Randazzo, in C.E.D. Cass., n.

214009; Id., Sez. III, 20 gennaio 1999, Maliqi, ivi, n. 213167; Id., Sez. I, 12

novembre 1997, Vitiello, ivi, n. 209180; Id., Sez. V, 26 febbraio 1997, De Rosa,

ivi, n. 207475; Id., Sez. VI, 22 febbraio 1996, Imperato, ivi, n. 205027; Id., Sez. I,

24 marzo 1995, Severa, ivi, n. 201180; Id., Sez. VI, 26 gennaio 1993, Ferlin, ivi, n.

192965.

(99

) Cass., Sez. III, 14 giugno 2000, Biba, in C.E.D. Cass., n. 216818;

Cass., Sez. II, 20 ottobre 1997, Bellomo, ivi, n. 210593; Cass., Sez. III, 1°

dicembre 1999, Russo, ivi, n. 215354; Cass., Sez. V, 16 luglio 1996, Ezuriche, ivi,

n. 205091.

CAPITOLO TERZO 82

all’articolo 127 c.p.p., sia che si proceda con la massima libertà di

forme» (100

).

Questo autorevole precedente giurisprudenziale ha costituito

il punto di partenza per la risoluzione del contrasto delineatosi in

materia di mancato avviso della data dell’udienza di riesame al

difensore che non abbia sottoscritto l’istanza. Il Supremo Collegio,

infatti, con la sentenza in esame, ne ha recepito integralmente le

argomentazioni, le quali, pur riferite al distinto istituto della proroga

dei termini di custodia cautelare, trovano il loro fondamento nella

normativa generale sul diritto di difesa e sulla nomina del difensore

di fiducia.

Nell’affermare la necessità dell’avviso ad entrambi i difensori

anche quando la richiesta di riesame sia stata proposta da uno solo di

essi, le Sezioni unite, sulla scia della citata sentenza Gattellaro,

hanno evidenziato che la duplicità del difensore recepisce

l’aspirazione dell’imputato (o indagato) ad assicurarsi una difesa

articolata e diversificata in modo che ognuno dei due officiati possa

espletare nel migliore dei modi il proprio compito nell’ambito della

rispettiva specializzazione; alla duplice nomina è, pertanto,

immanente la presunzione, superabile solo per disposto di legge, che

l’imputato o indagato intende utilizzare l’opera di due difensori in

modo articolato e con reciproca integrazione, sicché risulta arbitrario

inferire a priori, da determinati comportamenti (ad esempio, dal fatto

che uno solo abbia proposto impugnazione), l’intenzione

dell’interessato di utilizzare un solo difensore.

Né in senso opposto a questa conclusione vale richiamare le

peculiarità del procedimento di riesame e le esigenze di celerità ad

esso sottese, in quanto non si vede, dovendo i due avvisi ai difensori

marciare in parallelo e non consecutivamente, quale intralcio possa

portare lo spedirne contemporaneamente due invece di uno.

A sostegno della tesi accolta, la Corte ha, inoltre, invocato il

disposto dell’allora vigente art. 486, comma 5, c.p.p., ora trasposto

nel comma 5 dell’art. 420-ter c.p.p.; tale disposizione, nel prevedere

che il giudice debba sospendere o rinviare anche di ufficio il

(

100) Sez. Un., 25 giugno - 16 luglio 1997, n. 16, Gattellaro, in C.E.D.

Cass., n. 208163.

L’UDIENZA CAMERALE 83

dibattimento nel caso di assenza del difensore quando la stessa sia

dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo

impedimento purché prontamente comunicato, precisa che tale

norma non si applica se l’imputato è assistito da due difensori e

l’impedimento riguarda uno dei medesimi, ovvero quando il

difensore impedito ha designato un sostituto o quando l’imputato

chiede che si proceda in assenza del difensore impedito. Ebbene, ad

avviso dei giudici di legittimità, appare di tutta evidenza che la

regola da ultimo enunciata rappresenta una eccezione al sistema

secondo cui l’imputato o l’indagato hanno diritto ad essere

effettivamente assistiti da due difensori di fiducia ed il fatto che, per

giustificare tale deroga, il legislatore abbia dovuto emanare una

specifica norma dimostra inequivocabilmente che in ogni caso

diverso debba essere integralmente rispettato il diritto del prevenuto

ad essere difeso da entrambi i difensori nominati.

Alla stregua di questi argomenti, il Supremo Collegio ha

risolto il contrasto giurisprudenziale sottoposto alla sua attenzione

nel senso che, «in caso di assistenza dell’indagato da parte di due

difensori, l’avviso della data di udienza fissata per la discussione

dell’istanza di riesame va dato ad entrambi, anche quando l’istanza

sia stata presentata da uno solo di essi; l’omissione di siffatto

adempimento determina una nullità a regime intermedio» (101

).

(

101) Sez. Un., 27 giugno - 11 settembre 2001, n. 33540, Di Sarno, in

C.E.D. Cass., n. 219229. Sulle modalità per rilevare la nullità, la giurisprudenza

più recente ha chiarito che quando l’indagato è assistito da due difensori,

l’omissione dell’avviso della data dell'udienza camerale ad uno dei due difensori

dà luogo ad una nullità di ordine generale, a regime intermedio, sanabile quando

l’indagato o l’altro difensore siano presenti all’udienza ed omettano di dedurre la

relativa eccezione entro i termini fissati dall’art. 182 comma 2 c.p.p., e ciò anche se

il difensore non sia a conoscenza della situazione di co-difesa, in quanto l’indagato

presente è in ogni momento in condizione di comunicare la circostanza della

nomina di un secondo difensore al proprio difensore di fiducia, mettendolo in

grado di sollevare nei termini l'eccezione di nullità. Così Cass., Sez. VI, 10

novembre 2005, n. 42799, in C.E.D. Cass., n. 232757.

CAPITOLO TERZO 84

La Corte ha, inoltre, precisato, sulla scia di precedenti

decisioni rese nella medesima composizione (102

), che

l’annullamento dell’ordinanza in sede di legittimità, per mancato

avviso della data dell’udienza da uno dei difensori, non comporta la

caducazione della misura cautelare, sempre che la decisione,

ancorché nulla, sia stata resa nei dieci giorni prescritti dal comma 9

dell’art. 309 c.p.p.

La soluzione ermeneutica sposata dalle Sezioni unite in

merito alla necessità che l’avviso dell’udienza sia sempre notificato

ad entrambi i difensori — soluzione seguita in maniera costante dalla

successiva giurisprudenza di legittimità (103

) — è stata sottoposta a

critica da una parte della dottrina (104

), che ha evidenziato come essa

comporta, da un lato, un maggior dispendio di tempo e di energie

dell’ufficio, in contrasto con la necessità di celerità del rito, e,

dall’altro, non appare indispensabile al fine di assicurare piena

assistenza e difesa all’interessato, atteso che il secondo difensore

dovrebbe essere informato dal codifensore della pendenza della

procedura di gravame e ha piena facoltà di partecipare all’udienza

camerale.

Tuttavia, queste considerazioni sembrano, in ogni caso,

fondarsi su una interpretazione eccessivamente restrittiva della lettera

del comma 8 dell’art. 309 c.p.p., laddove questa disposizione non fa

alcun riferimento, neppure implicito, al difensore che ha proposto

l’istanza di gravame, ma, prescrivendo che l’avviso debba essere

notificato all’imputato ed al «suo» difensore, mira chiaramente ad

assicurare che l’interessato sia assistito nell’udienza di riesame dal

difensore o dai difensori che, in forza dell’art. 96 c.p.p., abbia

regolarmente nominato.

(

102) Sez. Un., 12 febbraio - 6 maggio 1993, n. 2, Piccioni, infra § 9; Id.,

22 novembre 1995 - 7 marzo 1996, n. 40, Carlutti, infra § 4; Id., 17 aprile - 3 luglio

1996, n. 6, Pagnozzi, infra § 9.

(103

) Cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI, 10 novembre 2005, Kartelov, in

C.E.D. Cass., n. 232757.

(104

) Cfr. BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al

Tribunale del riesame, cit., p. 216.

L’UDIENZA CAMERALE 85

2. La rinnovazione dell’avviso nell’ipotesi di inosservanza

del termine dilatorio di tre giorni. — La seconda problematica di

cui sono state investite le Sezioni unite è inerente all’individuazione

della disciplina da applicarsi nel caso in cui, a fronte della

inosservanza del termine di tre giorni liberi e consecutivi — che

secondo il dettato degli artt. 309, comma 8, e 324, comma 6, c.p.p.

deve intercorrere tra la data dell’udienza per il riesame e la

comunicazione o la notifica del relativo avviso —, la parte compaia e

dichiari di essere intervenuta al solo fine di eccepire l’irritualità della

notificazione o della comunicazione (105

).

La Corte, inquadrata la violazione del termine dilatorio di tre

giorni tra le nullità di ordine generale a regime intermedio ai sensi

degli artt. 178 lett. c) e 180 c.p.p., soggetta come tale alle preclusioni

ed alle sanatorie contemplate dal codice, ha focalizzato la sua

attenzione sulla controversa questione relativa al se la mancata

osservanza dell’intervallo postulato dagli artt. 309, comma 8, e 324,

comma 6, c.p.p. possa o meno essere sanata accordando alla parte,

comparsa al fine di eccepirla, un termine a difesa che, sommato al

precedente, renda lo spazio temporale complessivo conforme a

quello minimo di tre giorni richiesto dalla legge.

Una parte della giurisprudenza aveva dato risposta positiva a

questo interrogativo, evidenziando che la regola stabilita dall’art. 184

comma 2 c.p.p., che garantisce quantomeno cinque giorni, deve

essere adattata alla procedura del riesame, la quale è caratterizzata da

termini brevissimi sia per la notifica dell’avviso, sia per la decisione

ad opera del tribunale, altrimenti il risultato sarebbe quello di

frustrare — nell’impossibilità, che quasi sempre si verificherebbe,

per il giudice di merito, di emanare una decisione tempestiva —

proprio la finalità cui è indirizzata la sanatoria (106

). Si era, altresì,

(

105) Per un approfondimento della questione v. BASSI-EPIDEMIO, Guida

alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 236; RICCI, Sulla nullità

della notifica al difensore dell’avviso dell’udienza di riesame, in Giur. it., 1997, II,

c. 586.

(106

) Cfr. Cass., Sez. VI, 5 giugno 2000, Bonalumi, in C.E.D. Cass., n.

217537; Id., Sez. II, 24 ottobre 1996, Comberiati, ivi, n. 206420; Id., Sez. I, 24

ottobre 1996, Iamonte, ivi, n. 206189; Id., Sez. I, 23 settembre 1996, Di Martino,

ivi, n. 205752.

CAPITOLO TERZO 86

sostenuto che la comparizione del difensore sana il vizio inerente al

mancato rispetto dei tre giorni richiesti dall’art. 309, comma 8, c.p.p.,

dovendo essere concesso alla parte interessata un termine che il

giudice determina di volta in volta, contestualmente valutando le

esigenze difensive e quelle processuali (107

).

Altro orientamento, invece, pur riconoscendo la necessità di

adeguare la previsione dell’art. 184, comma 2, c.p.p. alle peculiarità

del procedimento del riesame, aveva affermato che il termine a difesa

non può essere inferiore ai tre giorni, trattandosi di termine autonomo

e non essendo utilizzabile quello contenuto in un atto nullo (108

).

Le Sezioni unite hanno disatteso entrambi questi indirizzi

interpretativi, considerando inapplicabile, al procedimento di

riesame, il disposto di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 184.

Anzitutto, ad avviso dei giudici del Supremo Collegio, la

prima soluzione proposta risulta priva di qualsiasi aggancio

normativo ed introduce un criterio, quello dell’integrazione del

termine, in contrasto con l’intento legislativo; infatti, l’art. 184,

comma 2, c.p.p., fissando autonomamente il termine di cinque giorni,

non si preoccupa che esso, unito ai giorni già decorsi, possa essere

superiore od inferiore a quello originario; a sua volta, il comma 3 del

medesimo articolo, nel rimandare al termine inizialmente disposto,

evidenzia la volontà di non considerare, in tema di sanatoria, i giorni

irritualmente concessi.

Neppure potrebbe farsi riferimento, nell’ottica del secondo

orientamento minoritario, al metodo di determinazione del termine

cui si ispira il citato terzo comma dell’art. 184 c.p.p. che, in realtà,

riguarda un’ipotesi ben precisa e diversa, cioè la citazione per il

dibattimento, alla quale non può certamente assimilarsi l’avviso per

l’udienza camerale.

Invero, l’argomentazione fondamentale, dalla quale ha preso

avvio la disamina della questione ad opera delle Sezione unite, è

quella di considerare la sanatoria di una nullità, in presenza e

(

107) Cass., Sez. I, 3 febbraio 1993, Di Marco, in C.E.D. Cass., n.

193393; Id., Sez. I, 13 ottobre 1992, Marlogio, ivi, n. 195098.

(108

) Cass., Sez. VI, 26 maggio 1992, Quency, in C.E.D. Cass., n.

192328; Id., Sez. I, 30 aprile 1992, Cuomo, ivi, n. 190391.

L’UDIENZA CAMERALE 87

nonostante tempestiva eccezione, come una deroga al principio

generale, ricavabile dal nostro sistema in tema di invalidità, del

diritto della parte ad ottenere la ripetizione dell’atto con modalità

immuni dal vizio denunciato; pertanto, le regole particolari, che

prevedono forme specifiche di sanatoria, non possono essere estese

in forma generalizzata, al di là della specifica previsione normativa.

Per tale via, rilevando l’incompatibilità del termine di cui

all’art. 184, comma 2, c.p.p. con il procedimento del riesame, in

quanto sarebbe irragionevole la concessione di un lasso di tempo

superiore a quello originario di giorni tre, il Supremo Collegio ha

escluso che la disciplina dei commi 2 e 3 dell’art. 184 c.p.p. possa

riguardare il procedimento per il riesame, con la conseguenza che,

nell’ambito di quest’ultimo, la nullità della notifica dell’avviso per

l’udienza camerale, se determinata dal mancato rispetto del termine

di cui agli artt. 309, comma 8, e 324, comma 6, c.p.p. e se

validamente eccepita, non è suscettibile di sanatoria; in questo caso,

il giudice non può far altro che provvedere, ex art. 185 c.p.p., alla

rinnovazione dell’atto nullo, così garantendo sempre il rispetto del

termine dei tre giorni liberi e consecutivi.

Né vale obiettare, ad avviso dei giudici di legittimità, che una

simile conclusione potrebbe compromettere la tempestiva emissione

della decisone sul riesame nel termine previsto dal comma 9 dell’art.

309, con la conseguente caducazione della misura ai sensi del comma

10 del medesimo articolo; l’eventuale inefficacia della misura,

infatti, è posta a tutela del soggetto da essa colpito e non può essere,

pertanto, impedita interpretando a scapito del medesimo la normativa

che assicura non solo la sua comparizione all’udienza del riesame,

ma anche, e soprattutto, la possibilità concreta dell’esercizio al diritto

di difesa.

La Corte ha, pertanto, enunciato il seguente principio di

diritto: «Escluso che la disciplina dei commi 2 e 3 dell’art. 184 c.p.p.

possa riguardare il procedimento per il riesame, deve ritenersi che

nell’ambito di quest’ultimo la nullità della notifica dell’avviso per

l’udienza camerale, se determinata dal mancato rispetto del termine

di cui agli art. 324, comma 8, e 309, comma 6, c.p.p. e se

validamente eccepita, non sia suscettibile di sanatoria:

CAPITOLO TERZO 88

conseguentemente il giudice è tenuto a provvedere, ex art. 185 c.p.p.,

alla rinnovazione dell'atto nullo, così garantendo sempre il rispetto

del termine dei tre giorni liberi e consecutivi» (109

).

Questa soluzione ermeneutica — che si presenta

sistematicamente corretta — è stata seguita dalla successiva,

prevalente giurisprudenza (110

), anche se non sono mancate prese di

posizioni difformi, tese a riconoscere che, qualora l’avviso sia stato

rinnovato per mancato rispetto del termine dilatorio di tre giorni,

debbano essere considerati, ai fini del computo del nuovo termine,

anche i giorni che separano la data dell’udienza e l’avviso originario,

in quanto corrisponde all’assetto dei termini del procedimento del

riesame, caratterizzati da una estrema brevità, valorizzare l’effetto

sostanziale che tale avviso ha avuto sulla preparazione del ricorrente

a sostenere le sue ragioni davanti al giudice del riesame (111

).

3. Il diritto dell’interessato ad estrarre copia degli atti. —

Nella formulazione originaria, l’art. 309, comma 8, ultima parte,

c.p.p. prevedeva che gli atti trasmessi restassero depositati fino al

giorno dell’udienza.

Se non vi erano dubbi sulla facoltà dell’istante e del suo

difensore di esaminare la documentazione trasmessa dall’autorità

procedente, era, invece, discusso se ad essi spettasse anche il diritto

ad ottenere il rilascio di copia degli atti (112

).

Le Sezioni unite avevano risolto il contrasto giurisprudenziale

manifestatosi sul punto, affermando che «nelle procedure ex artt.

(109

) Sez. Un., 30 gennaio - 7 marzo 2002, n. 8881, Munerato, in C.E.D.

Cass., n. 220841.

(110

) Cass., Sez. II, 10 dicembre 2003, Giovino, in C.E.D. Cass., n.

227801; Id., Sez. II, 12 novembre 2003, Bertolini, ivi, n. 226982; Id., Sez. II, 3

luglio 2003, Improta, ivi, n. 226447.

(111

) Così Cass., Sez. VI, 28 marzo 2003, Giordano, in C.E.D. Cass., n.

225915.

(112

) In dottrina, DINACCI, Incostituzionale l’orientamento riduttivo delle

sezioni unite sul diritto alla copia degli atti nei controlli de libertate, in Giur. it.,

1995, II, c. 600; FABBRI, Il diritto al rilascio di copia degli atti depositati nel

giudizio di riesame fra la giurisprudenza delle sezioni unite e le modifiche

normative, in Cass. pen., 1995, p. 2488.

L’UDIENZA CAMERALE 89

309 e 310 c.p.p. non sussiste un diritto della parte interessata ad

ottenere de plano copia degli atti di indagine» (113

).

Secondo i giudici del Supremo Collegio, i diritti della difesa

risultano, comunque, tutelati adeguatamente dalla possibilità di

esaminare gli atti depositati in cancelleria e, quindi, di estrarne copia

informale, mentre il riconoscimento di un diritto in senso tecnico ad

ottenere copia degli atti del procedimento, oltre ad essere escluso

dalla lettera della legge, urterebbe contro lo stesso interesse

dell’indagato ad una rapida decisione in ordine al suo status

libertatis.

Questa decisione era stata criticata da una parte della dottrina,

che aveva evidenziato come essa finisse per ledere la parità tra le

parti del procedimento, quanto a contenuto ed estensione del diritto

alla conoscenza degli atti, e a fortiori il diritto di difesa

dell’interessato.

L’art. 16 della l. 8 agosto 1995, n. 332, ha, però, capovolto la

soluzione esegetica accolta dalla prevalente giurisprudenza,

prevedendo espressamente, al comma 8 dell’art. 309, la facoltà per il

difensore di esaminare gli atti depositati in cancelleria e di estrarne

copia.

La Corte di cassazione ha, tuttavia, chiarito che la facoltà del

difensore di esaminare gli atti depositati in cancelleria e di estrarne

copia deve necessariamente coniugarsi con le esigenze di rapidità e

snellezza della procedura, derivanti dalla brevità del termine (fissato

in tre giorni) previsto per la notifica degli avvisi e dalla natura

perentoria di quello (fissato in dieci giorni) stabilito per la decisione,

termine, peraltro, insuscettibile di sospensione o di interruzione; ne

consegue che, quando le operazioni di formazione e rilascio delle

copie possono determinare ritardo, comportando il probabile

mancato rispetto dei termini predetti, il difensore non può pretendere,

né l’autorità giudiziaria può concedere, dilazioni, qualora risulti

impossibile procedere per tempo alla copia di tutti gli atti

richiesti (114

).

(

113) Sez. Un., 3 febbraio - 14 aprile 1995, n. 4, Sciancalepore, in C.E.D.

Cass., n. 200711.

(114

) Cass., Sez. V, 20 marzo 2001, Mion, in C.E.D. Cass., n. 218787.

CAPITOLO TERZO 90

4. La traduzione del detenuto all’udienza camerale. — Ai

sensi del comma 8 dell’art. 309 c.p.p., il procedimento davanti al

tribunale del riesame si svolge in camera di consiglio nelle forme

previste dall’art. 127 c.p.p. Il comma 3 di quest’ultima disposizione

riconosce all’interessato il diritto ad essere sentito se compare e, nel

caso in cui sia detenuto o internato in luogo posto fuori della

circoscrizione del giudice e ne faccia richiesta, il diritto ad essere

sentito personalmente, prima del giorno dell’udienza, dal magistrato

di sorveglianza del luogo.

Tale previsione, applicata al giudizio di riesame, ha dato

luogo a non poche difficoltà interpretative, principalmente con

riferimento alla portata ed alle conseguenze della violazione del

diritto del detenuto ad essere tradotto all’udienza camerale.

La questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite attiene,

più precisamente, alla problematica delle conseguenze derivanti dalla

mancata partecipazione all’udienza camerale di riesame dell’indagato

o imputato che ne abbia fatto espressa richiesta ai sensi dell’art. 127,

comma 3, c.p.p.; in particolare, in giurisprudenza si è manifestato un

contrasto interpretativo sulla qualificazione della invalidità derivante

dalla mancata traduzione del detenuto quale nullità assoluta,

rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ovvero

quale nullità a regime intermedio, assoggettata alla disciplina di cui

agli artt. 180 e 182 c.p.p. (115

).

(

115) In dottrina v. BORDIERI, La garanzia del diritto dell’imputato alla

partecipazione all’udienza di riesame anche mediante videoconferenza, in Cass.

pen., 2003, p. 3131; DELLA MARRA, Sulla partecipazione dell’imputato detenuto

all’udienza di riesame, in Giur. it., 1992, II, c. 724; DI CHIARA, Procedimento di

riesame e autodifese dell’interessato in vinculis: note a margine di un indirizzo

innovativo, in Gazz. giur., 1997, p. 22; MAMBRUCCHI, Rispetto del diritto di difesa

e alchimie interpretative sull’efficacia della decisione invalida, in Riv. it. dir. e

proc. pen., 1996, p. 1183; PAZIENZA, osservazioni a Cass., Sez. un., 22 novembre

1995, Carlutti, in Cass. pen., 1996, p. 2129; RUGGIERO, La videoconferenza

nell’udienza camerale di riesame, in Cass. pen., 2003, p. 3140; TRIGGIANI, Sul

diritto dell’imputato detenuto (o internato) a partecipare all’udienza di riesame, in

Cass. pen., 1994, p. 3053.

L’UDIENZA CAMERALE 91

Mentre, infatti, alcune pronunce hanno affermato il carattere

assoluto ed insanabile, ai sensi dell’art. 179 c.p.p., della nullità della

procedura camerale ex art. 309 c.p.p., svoltasi in assenza

dell’indagato che aveva chiesto di essere sentito (116

), altre hanno

optato per l’inquadramento di detta nullità tra quelle di tipo

intermedio, disciplinate dagli artt. 178 lett. c), 180 e 182 c.p.p. (117

).

La tematica si pone negli stessi termini sia se l’interessato è

detenuto nell’ambito della circoscrizione del tribunale del riesame,

sia se è detenuto al di fuori. Ed infatti, nonostante il comma 3

dell’art. 127 c.p.p., applicabile in forza del rinvio effettuato dal

comma 8 dell’art. 309, stabilisca che il detenuto o internato al di

fuori della circoscrizione del tribunale debba essere sentito il giorno

prima dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, la Corte

costituzionale ha interpretato questa disposizione nel senso che essa

non esclude la comparizione personale dell’interessato se questi ne

abbia fatto richiesta oppure se il giudice lo ritenga ex officio

opportuno (118

). La relativa omissione viene a porsi, pertanto, sotto il

profilo della patologia processuale, sullo stesso piano di quella che si

verifica in caso di omessa traduzione del detenuto ristretto

nell’ambito territoriale del tribunale.

La mancata traduzione all’udienza del detenuto che ne abbia

fatto richiesta è espressamente sanzionata con una nullità dal quinto

comma dell’art. 127 c.p.p. Si tratta, tuttavia, di stabilire se questa

nullità sia inquadrabile come nullità assoluta o debba essere

considerata una nullità a regime intermedio.

Le Sezioni unite hanno sposato la prima tesi, affermando che

«la mancata traduzione, perché non disposta o non eseguita,

dell’imputato, indagato o condannato che ne abbia fatto richiesta,

all’udienza di riesame determina la nullità assoluta e insanabile, a

norma dell’art. 179 c.p.p., dell’udienza camerale e della successiva

(

116) Cass., Sez. VI, 1° giugno 1993, Rossi, in C.E.D. Cass., n. 194939;

Id., Sez. VI, 6 maggio 1993, Portaro, ivi, n. 194930; Id., Sez. VI, 30 aprile 1992,

Caterino ed altri, ivi, n. 192306; Id., Sez. V, 5 settembre 1991, Cusimano, ivi, n.

188350.

(117

) Cass., Sez. V, 16 marzo 1994, Piras, in C.E.D. Cass., n. 198001;

Id., Sez. I, 12 maggio, Di Giacomo, ivi, n. 195417.

(118

) Corte cost., 31 gennaio 1991, n. 45, in Cass. pen., 1991, II, p. 417.

CAPITOLO TERZO 92

pronuncia del tribunale sull’istanza di riesame. Infatti, la citazione

dell’imputato, dell’indagato o del condannato — detenuto

nell’ambito o al di fuori della circoscrizione del tribunale — realizza

un’unica fattispecie complessa, costituita dall’avviso, dalla

dichiarazione di volontà dell’interessato detenuto di comparire e

dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi, per il

rapporto di stretta consequenzialità che li caratterizza, in una

visione unitaria dello scopo loro proprio, la vocatio in iudicium per

la valida instaurazione del contraddittorio» (119

).

La Corte, nell’argomentare questa conclusione, ha rilevato

che, nell’ipotesi di imputato, indagato o condannato detenuto, la cui

partecipazione all’udienza camerale è subordinata ad una sua

positiva manifestazione di volontà in tal senso — esprimibile anche

nel caso di detenzione fuori della circoscrizione del giudice —,

l’ordine di traduzione e la sua esecuzione costituiscono, insieme con

l’avviso dell’udienza camerale e la sua notificazione, atti indefettibili

della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio.

Senza di essi, infatti, l’avviso non può svolgere in concreto l’unica

funzione che gli è propria, quella della vocatio in iudicium, che può

definirsi tale solo in quanto rivolta a chi ad essa sia in grado di

rispondere.

Così ricostruita, la citazione dell’imputato, dell’indagato o del

condannato realizza un’unica fattispecie complessa, costituita

dall’avviso, dalla dichiarazione di volontà dell’interessato detenuto

di comparire e dalla sua successiva traduzione, atti tutti da guardarsi,

per il rapporto di stretta consequenzialità che li caratterizza, in una

visione unitaria in funzione dello scopo loro proprio, la vocatio in

iudicium per la valida instaurazione del contraddittorio.

La traduzione del detenuto, dunque, si pone quale elemento

cardine di una fattispecie composita costituente la vocatio in

iudicium dell’indagato o imputato, rappresentando un momento

fondamentale ai fini dell’esercizio, da parte dell’interessato, del

diritto di difesa.

(

119) Sez. Un., 22 novembre 1995 - 7 marzo 1996, n. 40, Carlutti, in

C.E.D. Cass., n. 203771.

L’UDIENZA CAMERALE 93

Occorre, peraltro, evidenziare come la particolare struttura

del giudizio di riesame, con la deroga al principio devolutivo proprio

delle impugnazioni, connoti di spiccato rilievo la presenza

all’udienza camerale dell’indagato. La richiesta di riesame, sia essa

dell’indagato o del difensore, può essere immotivata ed i motivi

possono essere formulati dall’interessato direttamente in udienza,

anche quando la richiesta sia del difensore.

L’indagato, inoltre, quando ha proposto istanza motivata, può

prospettare motivi nuovi all’udienza dinanzi al tribunale; da parte

sua, il tribunale può annullare il provvedimento impugnato o

riformarlo in senso favorevole all’interessato anche per motivi

diversi da quelli enunciati.

Attraverso queste considerazioni, il Supremo Collegio,

ponendo l’accento sia sulla natura di fattispecie complessa da

attribuire alla citazione dell’imputato o dell’indagato nella procedura

di riesame, sia sul carattere essenziale della sua presenza all’udienza,

è pervenuto alla conclusione che, nel giudizio di riesame, la mancata

traduzione, perché non disposta o non eseguita, determina la nullità

assoluta ed insanabile ex art. 179 c.p.p. dell’udienza camerale e della

successiva pronuncia del tribunale sull’istanza di riesame.

Così facendo, le Sezioni unite hanno ritenuto che il momento

della traduzione del detenuto all’udienza camerale attenga non

semplicemente all’intervento in udienza dell’indagato o imputato,

quanto piuttosto alla sua citazione, con la conseguenza che l’omessa

traduzione integra la nullità assoluta prevista dall’art. 179 c.p.p.

La soluzione fatta propria dalla sentenza in commento si

presenta come l’unica in grado di salvaguardare appieno le istanze

garantistiche sottese all’istituto del riesame (120

).

(

120) V., più di recente, Cass., Sez. V, 27 settembre 2006, Sciascia, in

C.E.D. Cass., n. 235284, in cui si afferma che nel procedimento camerale di

riesame il tribunale è tenuto ad assicurare la presenza dinanzi a sé dell'imputato o

indagato che ne abbia fatto richiesta, anche se questi sia detenuto fuori della

circoscrizione del tribunale stesso, in ragione della peculiare struttura del giudizio

di riesame che consente la proposizione dei motivi di impugnazione anche per la

prima volta in udienza o comunque la presentazione di motivi nuovi. La mancata

traduzione dà luogo a nullità assoluta e insanabile, ex art. 179 c.p.p., della udienza

CAPITOLO TERZO 94

Appare di estremo rilievo, innanzitutto, la valorizzazione, da

parte delle Sezioni unite, delle citate affermazioni della Corte

costituzionale con riguardo alla sussistenza — per l’indagato

detenuto fuori dalla circoscrizione del tribunale — di un vero e

proprio diritto soggettivo ad essere ascoltato dal giudice investito

della decisione sull’istanza di riesame. In effetti, se soltanto il

contatto diretto ed orale con l’organo giudicante sprigiona

impressioni e fattori di convincimento non sostituibili, è evidente il

pregiudizio che subisce chi viene ascoltato da un giudice non

naturale, prima ed al di fuori dell’udienza camerale, senza avere la

possibilità di instaurare un contatto immediato con l’organo chiamato

a decidere.

La più recente giurisprudenza di legittimità tende a

riconoscere che il tribunale del riesame è tenuto ad assicurare —

eventualmente anche attraverso le modalità della videoconferenza —

la presenza dinanzi a sé dell’imputato o indagato che ne abbia fatto

richiesta, anche se questi sia detenuto fuori della circoscrizione del

tribunale stesso, in ragione della peculiare struttura del giudizio di

riesame che consente la proposizione dei motivi di impugnazione

anche per la prima volta in udienza o, comunque, la presentazione di

motivi nuovi (121

).

Meritevole di consenso è anche la configurazione come

assoluta della nullità derivante dall’omessa traduzione del detenuto.

Per un verso, la Corte non è caduta nell’equivoco di esasperare

l’aspetto nominalistico del dettato dell’art. 179 c.p.p., considerando

operante la nullità per «omessa citazione dell’imputato» anche nei

procedimenti camerali, nella consapevolezza che il medesimo rigore

sanzionatorio debba presidiare tutte quelle sedi in cui l’indefettibilità

del contraddittorio necessita di una concreta protezione. Per altro

verso, ha correttamente inquadrato il momento della traduzione

camerale e della successiva pronuncia del tribunale, senza tuttavia che perda

efficacia la misura coercitiva disposta.

(121

) Cass., Sez. Fer., 30 agosto 2005, Gentile, in C.E.D. Cass., n.

232224; Id., Sez. V, 11 maggio 2004, Barbaro, ivi, n. 229653; Id., Sez. I, 16 aprile

2004, Assinnata, ivi, n. 228909; Id., Sez. II, 6 novembre 2002, Bello, ivi, n.

223357; Id., Sez. I, 14 novembre 2001, Schiavone, ivi, n. 220338.

L’UDIENZA CAMERALE 95

nell’ambito della fattispecie complessa «citazione»: non si può

immaginare di citare un soggetto ed invitarlo ad invocare il proprio

intervento, per poi frustrarne la legittima volontà di partecipazione

attraverso la preclusione alla materiale possibilità di accesso.

5. L’omessa indicazione nell’avviso di udienza del diritto

del detenuto alla traduzione davanti al magistrato di

sorveglianza o al giudice del riesame. — Le Sezioni unite,

intervenendo a dirimere un contrasto giurisprudenziale in materia di

utilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboranti non documentate

integralmente con mezzi di riproduzione fonografica e/o audiovisiva,

hanno avuto modo di chiarire che, fermo il diritto del detenuto alla

traduzione, su sua esplicita richiesta, per essere sentito davanti al

giudice di sorveglianza o a quello del riesame, «l’indicazione di tale

diritto nell’avviso di udienza non è prevista da nessuna norma, né la

sua omissione può integrare una nullità stante il principio di

tassatività delle stesse che devono, peraltro, concernere

l’inosservanza di disposizioni espressamente stabilite per gli atti del

procedimento ex art. 177 c.p.p.» (122

).

Il Supremo Collegio ha, inoltre, considerato manifestamente

infondata l’eccezione di incostituzionalità del comma 8 dell’art. 309

c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non

prevede come obbligatoria, a pena di nullità, la comunicazione o

informazione all’indagato detenuto che egli, ricevuto l’avviso della

data fissata per l’udienza camerale, sia tenuto ad avanzare espressa

richiesta, qualora lo reputi opportuno, per essere tradotto davanti al

giudice del riesame o di sorveglianza per esporre le sue difese, per la

disparità di trattamento che la norma porrebbe in essere tra

«ignoranti e non ignoranti» della disposizione medesima.

I giudici di legittimità hanno precisato, al riguardo, che una

norma emanata nei modi di legge è applicabile a tutti coloro che ne

sono destinatari, prescindendosi dall’informazione del singolo

sull’esistenza ed il tenore di essa. Ciò che assume rilevanza è la

possibilità, offerta a chiunque, di avere la conoscenza precisa della

(

122) Sez. Un., 25 marzo - 30 giugno 1998, n. 9, D’Abramo, in C.E.D.

Cass., n. 210799-210800.

CAPITOLO TERZO 96

norma, assicurata la quale ogni errore derivante da violazione degli

obblighi di informazione giuridica che sono alla base di ogni

convivenza civile risulta inescusabile.

E poiché, di fronte alla norma, tutti i consociati si trovano

nella medesima condizione, lo stato di ignoranza o di conoscenza da

parte del singolo non è differenza di cui l’ordinamento debba farsi

carico con l’onere di suppletive indicazioni.

In tal modo, la Suprema Corte ha applicato correttamente sia

il principio codicistico di tassatività delle cause di nullità, sia il

principio, coessenziale ad ogni società civile, dell’irrilevanza per

l’ordinamento giuridico dell’errore inescusabile di diritto.

6. La decorrenza del termine di dieci giorni per la

decisione. — La decisione del tribunale del riesame deve intervenire

entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, pena la

perdita di efficacia dell’ordinanza impositiva della misura

coercitiva (123

).

Le Sezioni unite sono state chiamate in più occasioni a

dirimere i contrasti interpretativi cui la disciplina dettata sul punto

dall’art. 309, commi 9 e 10, c.p.p. ha dato luogo.

Il primo intervento del Supremo Collegio ha interessato una

questione che non è più attuale a seguito delle modifiche apportate al

comma 5 ed al comma 10 dell’art. 309 c.p.p. dall’art. 16 l. 8 agosto

1995, n. 332.

Nell’ipotesi di invio frazionato degli atti presentati a norma

dell’art. 291, comma 1, c.p.p., si era posto il problema

dell’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la

decisione, questione risolta, dal Supremo Collegio, nel senso che tale

termine «inizia a decorrere dal momento in cui si perfeziona l’arrivo

in tribunale di tutti gli atti — e non solo di parte di essi — a suo

tempo presentati dal magistrato del pubblico ministero al giudice per

le indagini preliminari a sostegno della misura cautelare a norma

(

123) Si veda, per le problematiche sottese al tema, VALENTINI REUTER,

Il rispetto dei termini delle decisioni de libertate, cit., loc. cit.

L’UDIENZA CAMERALE 97

dell’art. 291 comma 1 c.p.p., nonché degli altri atti in connessione

essenziale con quelli» (124

).

Da questa conclusione, altra pronuncia delle Sezioni unite

aveva successivamente tratto un’ulteriore conseguenza, nel senso che

il tribunale del riesame, nel caso in cui non gli siano stati trasmessi

tutti gli atti presentati dal giudice per le indagini preliminari a norma

dell’art. 291 c.p.p., può richiedere, con provvedimento interlocutorio,

gli atti mancanti ed in tale ipotesi il termine previsto dall’art. 309

comma 9 c.p.p. decorre dal momento della ricezione degli ulteriori

atti richiesti (125

).

È chiaro che, con l’introduzione, ad opera della novella del

1995, del termine perentorio di cinque giorni, per la trasmissione

degli atti, un potere del tribunale del riesame di integrare la

documentazione mancante non è più ipotizzabile, in quanto, qualora

nel termine non vengano trasmessi tutti gli atti indicati nel comma 5

dell’art. 309 c.p.p., si determina la perenzione della misura ai sensi

del comma 10 della medesima disposizione.

Ne consegue — come ha avuto modo di precisare, in obiter

dictum, una successiva sentenza delle Sezioni unite (126

) — che, per

effetto della citata modifica legislativa, è venuta meno l’ipotesi di

slittamento del dies a quo del termine per la decisione del riesame,

nel caso di ricezione frazionata degli atti, essendo prevista la

caducazione dell’ordinanza custodiale ove non vengano trasmessi,

nel termine di cinque giorni, tutti gli atti a suo tempo presentati al

giudice che ha emesso il provvedimento coercitivo.

È, per altro verso, conclusione pacifica in giurisprudenza

quella in virtù della quale il termine di dieci giorni, previsto dall’art.

309 comma 9 c.p.p., decorre dalla data di ricezione degli atti e non da

(

124) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, in C.E.D.

Cass., n. 194309.

(125

) Sez. Un., 5 - 21 luglio 1995, n. 25, Parlati, supra, cap. II, § 1.

(126

) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.

Schillaci, supra, cap. II, § 4; nello stesso senso, Sez. Un., 27 marzo 1996 - 31

maggio 1996, n. 3, p.m. in proc. Monteleone ed altro, supra, cap. II, § 5.

CAPITOLO TERZO 98

altri atti, come l’emissione del decreto che fissa l’udienza in camera

di consiglio per la trattazione dell’istanza di riesame (127

).

Continua ad essere attuale, invece, il principio, enunciato

dalla sentenza in esame, relativo all’individuazione del dies a quo

con riferimento all’ipotesi di ricorsi attivati separatamente da più

coindagati nello stesso procedimento principale: «Nel caso in cui più

coindagati raggiunti da provvedimenti applicativi di misure

coercitive abbiano avanzato richieste di riesame in tempi diversi,

l’arrivo in tribunale degli atti relativi ai primi richiedenti, ancorché

comprensivi pure di quelli concernenti gli altri, non vale a far

decorrere anche nei riguardi di questi ultimi il termine fissato

dall’art. 309 comma 9 c.p.p. per la decisione del tribunale, essendo

necessario a tal fine che il tribunale riceva o gli atti specificamente

riguardanti costoro o notizia che tutti gli atti indispensabili al

riesame anche nei loro confronti siano già in suo possesso» (128

).

La regola, secondo cui, in tale eventualità, il termine per la

decisione non decorre dalla data di ricezione degli atti relativi alla

prima richiesta di riesame, bensì dalla data di ricezione da parte del

tribunale della nota del requirente nella quale si attesti che gli atti

sono stati già trasmessi al tribunale in occasione della prima richiesta

di riesame, ovvero dalla data in cui il tribunale riceva gli atti

specificamente inerenti alle posizioni dei richiedenti il riesame dopo

la prima istanza, qualora siano diversi o ulteriori, è confermata dalla

più recente giurisprudenza di legittimità (129

).

7. Il deposito del dispositivo nel decimo giorno dalla

ricezione degli atti per evitare la perenzione della misura. — Le

Sezioni unite, con due sentenze — la sentenza Moni del 1996 e la

sentenza Manno del 1998 —, sono state chiamate a pronunciarsi

sulla questione se sia necessario, perché la misura cautelare

confermata dal tribunale della libertà non perda efficacia, depositare,

(

127) Così, in obiter dictum, Sez. un., 26 settembre - 9 ottobre 2000, n.

26, Scarci e altri, in C.E.D. Cass., n. 216769.

(128

) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, cit.

(129

) Cfr. Cass., Sez. VI, 6 dicembre 2002, Papa, in C.E.D. Cass., n.

223558.

L’UDIENZA CAMERALE 99

entro il termine di dieci giorni dalla ricezione degli atti, l’ordinanza

di conferma nella sua interezza o se il termine possa dirsi rispettato

quando, prima della sua scadenza, sia comunque intervenuta la

decisione e sia stato depositato il solo dispositivo (130

).

Sul tema si sono contrastate in giurisprudenza due

contrapposte linee interpretative che hanno attribuito rilevanza, ai

fini del rispetto del termine di dieci giorni, l’una, al deposito

dell’intero provvedimento, ritenendosi che soltanto con il deposito di

tutta l’ordinanza la decisione emessa in camera di consiglio acquista

rilevanza esterna (131

), e l’altra al deposito del solo dispositivo (132

).

Il Supremo Collegio, investito della questione, ha ritenuto,

con la sentenza su ricorso Moni, di dover far proprio quest’ultimo

orientamento, fondando la sua posizione sul combinato disposto

degli artt. 128 e 309, comma 10, c.p.p.

L’art. 128 c.p.p., occupandosi del deposito dei provvedimenti

del giudice emessi a seguito di procedimento in camera di consiglio,

enuncia la regola generale del distacco temporale tra la deliberazione

o la decisione ed il deposito del provvedimento, regola, peraltro, che

rappresenta una costante per le sentenze.

Il sostantivo «deliberazione» — secondo la Corte — è

sinonimo, nello stesso linguaggio del codice, di «decisione», sicché

prevedere, come fa l’art. 128 c.p.p., che i provvedimenti emessi in

(

130) In dottrina, per un’analisi della questione, v. BACCARI, Incertezze

interpretative circa il momento in cui “interviene” la decisione del tribunale del

riesame, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, p. 1396; BOIDO, Deposito frazionato

dell’ordinanza di riesame e rispetto del termine ex art. 309 comma 10 c.p.p., in

Giur. it., 1997, II, c. 185; BRICCHETTI, Ma i ritardi nella presentazione dei motivi

non cancellano la misura coercitiva, in Guida dir., 1998, n. 28, p. 71;

CONFALONIERI, Sul deposito differito della motivazione delle decisioni de libertate,

in Giur. it., 1997, II, c. 275; DIDDI, Decisione in camera di consiglio ed

integrazione della relativa fattispecie, in Giust. pen., 1996, III, c. 207; PEREGO,

Misure cautelari: deposito frazionato dell’ordinanza di riesame, motivazione per

relationem e condanna alle spese, in Foro ambr., 2000, p. 504; SPANGHER, Ritardo

nel deposito della motivazione da parte del tribunale del riesame: termini e

contenuto del ricorso, in Cass. pen., 1998, p. 1174.

(131

) Cass., Sez. II, 28 luglio 1994, Susi, in C.E.D. Cass., n. 199033.

(132

) Cfr. Cass., Sez. II, 25 maggio 1993, Guarneri, in C.E.D. Cass., n.

195384.

CAPITOLO TERZO 100

camera di consiglio debbono essere depositati entro i cinque giorni

dalla deliberazione equivale a dire che essi debbono essere depositati

entro cinque giorni dalla decisione.

Per altro verso, se è vero che «deliberazione» e «decisone»

sono sinonimi — indicando sia tutto l’iter di riflessione e di

discussione richiesto dai problemi di diritto processuale e sostanziale

propri della fattispecie all’esame del giudice, sia la conclusione di

questo iter —, è, altresì, innegabile che, nel linguaggio del codice, la

deliberazione è, ontologicamente, cosa diversa rispetto sia al

dispositivo, sia alla motivazione, che costituiscono la

materializzazione della decisione, assolutamente indispensabile per

proiettarla all’esterno.

La distinzione è presente proprio nella norma dell’art. 128

c.p.p., il quale parla di deliberazione e di deposito e, espressamente,

di dispositivo, prescrivendo che con l’avviso di deposito è notificato

anche quest’ultimo.

Da ciò discende non solo che la decisone è cosa diversa dal

dispositivo e dalla motivazione, ma che il dispositivo, sia nelle

sentenze, sia nelle ordinanze, previste dall’art. 128 c.p.p., costituisce

una realtà a sé stante, diversa e dalla decisione e dalla motivazione;

emerge, in altri termini, che il dispositivo esiste e ha la sua

autonomia anche in quelle ordinanze.

Questa ricostruzione, secondo la Suprema Corte, consente di

interpretare correttamente il disposto del comma 10 dell’art. 309

c.p.p., dal quale si desume inequivocabilmente che, entro il termine

di dieci giorni, deve, perentoriamente, deliberarsi, decidersi, il che

altro non può voler dire se non che la decisone deve essere, in quel

termine, immodificabile.

Anche se, per una qualsiasi ragione, il termine di dieci giorni

può rivelarsi insufficiente, il tribunale, entro questo termine, deve,

comunque, fare intervenire la decisione, farla apparire, pena la

perdita di efficacia della ordinanza che ha disposto la misura

coercitiva.

Consegue da ciò che l’espressione «se la decisione non

interviene nel termine prescritto», che si legge nell’articolo 309,

comma 10, c.p.p., sta a significare che il tribunale, se, ovviamente,

L’UDIENZA CAMERALE 101

può fare intervenire e rendere visibile, entro quel termine, la

decisione in entrambe le parti, del tutto autonome — dispositivo e

motivazione —, nelle quali la stessa si materializza, può anche

avvalersi della regola che gli permette di redigere la motivazione

entro cinque giorni, provvedendo, peraltro, entro il termine

perentorio di dieci giorni, alla decisione, cioè a decidere e, inoltre, a

rendere visibile il decisum con il deposito del dispositivo, che della

decisione è la sintesi.

Il primo effetto del deposito del solo dispositivo è rendere

certo agli interessati che, entro quel termine, la decisione è

intervenuta e che è intervenuta con un determinato, irreversibile

contenuto. Il secondo effetto è rendere possibili i provvedimenti

occorrenti, che, in tema di libertà, sono, per le ordinanze del

tribunale, la restituzione dell’indagato alla libertà o la sottoposizione

dello stesso ad una misura meno restrittiva, quale la misura degli

arresti domiciliari o quella del divieto di espatrio o del divieto e

obbligo di dimora.

Questa conclusione, ad avviso delle Sezioni unite, non

contrasta con l’esigenza, sottesa al disposto del comma 10 dell’art.

309, di ottenere in tempi brevi la decisione, in quanto quest’ultima è

resa visibile attraverso il deposito del dispositivo. Ove il giudice, poi,

non sia in grado di depositare immediatamente anche la motivazione

del provvedimento, deve, entro cinque giorni dalla decisione,

provvedere a quel deposito, essendo tenuto a ciò in forza dell’art. 128

c.p.p. e del dovere di rispettare tutte le norme processuali, anche

quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione

processuale, prescritto dall’art. 124 c.p.p.

Il principio di diritto, enunciato con la sentenza in esame, è il

seguente: «La disposizione di cui al comma 10 dell’art. 309 c.p.p.,

secondo la quale l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde

immediatamente efficacia se la decisione sulla richiesta di riesame

non interviene entro il termine prescritto, deve essere intesa nel

senso che è necessario e sufficiente, perché non si produca

l’automatico effetto caducatorio, che entro il decimo giorno dalla

ricezione degli atti il tribunale abbia deliberato in merito alla

richiesta medesima ed abbia, inoltre, provveduto al deposito del

CAPITOLO TERZO 102

dispositivo; mediante tale deposito, infatti, si rende certo, per gli

interessati, che la decisione — con quel determinato, irreversibile

contenuto — è intervenuta nel termine e si rende altresì possibile

l’adozione degli eventuali conseguenti provvedimenti; la motivazione

dell’ordinanza di riesame, viceversa, in applicazione della norma

generale sul procedimento camerale di cui all’art. 128 c.p.p., può

essere depositata, senza influenza alcuna sull’efficacia della misura,

nel termine ordinatorio — la cui osservanza è tuttavia doverosa per

il giudice ai sensi dell’art. 124 c.p.p. — dei cinque giorni successivi

alla deliberazione predetta» (133

).

La soluzione individuata dalla Sezioni unite è stata criticata

dalla prevalente dottrina (134

), la quale ha evidenziato,

principalmente, come l’escludere dal termine di dieci giorni il

deposito della motivazione significhi comprimere le garanzie

dell’imputato, sacrificando, in particolare, il tempestivo esercizio del

diritto ad impugnare la decisione del riesame e la garanzia

costituzionale che pretende, per ogni forma di restrizione della libertà

personale, l’esistenza di un atto motivato dell’autorità

giurisdizionale.

I dubbi e le perplessità suscitati dalla sentenza Moni hanno

indotto a rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni

unite, in una prospettazione, però, più ampia, incentrata non soltanto

sul diritto di libertà, ma sulla correlazione dei diritti di libertà e di

difesa. Difatti, il distacco temporale tra decisione e deposito del

provvedimento incide sì sulla conoscibilità dei motivi dell’ordinanza

e, quindi, sulla garanzia de libertate da essa rappresentata (art. 13,

comma 2, Cost.), ma, allontanando nel tempo la verifica di

(

133) Sez. Un., 3 luglio 1996 - 14 aprile 1996, n. 7, Moni, in C.E.D.

Cass., n. 205255.

(134

) Cfr., in chiave critica, BENENATI, Il rispetto dei tempi nel

procedimento di riesame: un’esigenza irrinunciabile, cit., loc. cit.; BOIDO,

Deposito frazionato dell’ordinanza di riesame e rispetto del termine ex art. 309

comma 10 c.p.p., cit., loc. cit.; CONFALONIERI, Sul deposito differito della

motivazione delle decisioni de libertate, cit., loc. cit.; SPANGHER, Ritardo nel

deposito della motivazione da parte del tribunale del riesame: termini e contenuto

del ricorso, cit., loc. cit. V., anche, LOZZI, Lezioni di procedura penale, cit., p. 326,

che parla di «discutibile orientamento della Corte di cassazione».

L’UDIENZA CAMERALE 103

legittimità da parte della Corte di cassazione, va a prolungare la

sequenza procedimentale, compromettendo ad un tempo libertà

personale ed esercizio del diritto di difesa.

Le Sezioni unite Manno del 25 marzo 1998 hanno, tuttavia,

pienamente confermato il decisum della pronuncia Moni, affermando

che «ai fini della perdita di efficacia del provvedimento che dispone

la misura coercitiva personale per omessa decisione del tribunale

sulla richiesta di riesame entro il decimo giorno dalla ricezione degli

atti, deve farsi riferimento alla data di deliberazione, il cui

documento sia stato depositato in cancelleria, e non alla data di

deposito dell’ordinanza, completa di tutti i suoi elementi, e quindi

anche della motivazione, che deve essere depositata entro cinque

giorni dalla deliberazione, a norma dell’art. 128 c.p.p. L’eventuale

inosservanza di tale ultimo termine, quantunque sfornita di sanzione

processuale, espone i magistrati a responsabilità civile e

disciplinare, oltre che, all’occorrenza, penale» (135

).

Hanno, peraltro, dichiarato manifestamente infondata, in

relazione agli artt. 3, 13 comma 2 e 24 Cost., la questione di

legittimità costituzionale dell’art. 309 comma 10 c.p.p., interpretato

nel senso che è sufficiente ad evitare l’effetto caducatorio ivi previsto

il deposito tempestivo del solo dispositivo dell’ordinanza di riesame.

Sul punto, hanno osservato che, in relazione al principio di

eguaglianza, la norma citata non è caratterizzata da incertezza alcuna

circa il termine di deposito dell’ordinanza (la cui eventuale elusione

rappresenta una patologia giudiziaria sanzionabile civilmente,

disciplinarmente e, all’occorrenza, anche penalmente), sicché non è

ravvisabile in essa alcuna ingiustificata disparità di trattamento;

quanto al diritto alla libertà personale, non si rinviene alcuna

violazione di esso, in quanto il legislatore, con una scelta

discrezionale incensurabile, ha optato, nel procedimento di riesame,

per una garanzia sostanziale del diritto di libertà, da ritenersi

realizzata mediante il controllo giurisdizionale nel contraddittorio

delle parti, da eseguire in un termine caducatorio, correlato alla

decisione del tribunale conclusiva del procedimento, con carattere di

(

135) Sez. Un., 25 marzo 1998 - 2 giugno 1998, n. 12, Manno, in C.E.D.

Cass., n. 210607.

CAPITOLO TERZO 104

assoluta certezza, così com’è certo anche il termine legale di deposito

del provvedimento; con riferimento, infine, al diritto di difesa, non

solo non risulta dalla norma in discussione incertezza alcuna sul

termine di deposito, fissato in cinque giorni, ma risulta anche

ragionevolmente garantito il tempestivo esercizio del diritto di

impugnazione dell’ordinanza del tribunale del riesame, con il

predetto dies ad quem.

8. L’individuazione del dies ad quem nella

ventiquattresima ora del decimo giorno dalla ricezione degli atti. — Le Sezioni unite sono intervenute a risolvere il contrasto, insorto

nella giurisprudenza di legittimità, sul se il termine previsto dall’art.

172, comma 6, c.p.p. valga anche per il giudice e, in particolare, per

il deposito della decisione ai sensi dell’art. 309, commi 9 e 10,

c.p.p. (136

).

A fronte del consolidato orientamento teso ad escludere una

simile conclusione, un’isolata sentenza aveva sostenuto che il

disposto dell’art. 172, comma 6, c.p.p., essendo inserito tra le regole

generali sui termini processuali (a differenza di quanto avveniva con

l’art. 181 c.p.p. 1930), non può riferirsi solo alle attività delle parti,

specialmente quando, dalla decorrenza di un termine di decadenza,

discendono conseguenze così rilevanti in tema di libertà personale,

come la perdita di efficacia di una misura coercitiva, a meno di non

voler interpretarlo nel senso più sfavorevole per l’indagato,

interpretazione che non appare condivisibile (137

).

Le Sezioni unite hanno, tuttavia, sconfessato questo

orientamento, evidenziando come la diversa collocazione

sistematica, rispetto al codice previgente, non ha stravolto il

significato della disposizione e come il deposito dei provvedimenti

del giudice non abbia nulla a che vedere con il fare dichiarazioni, il

(

136) Cfr., sul tema, AMODIO, Orario degli uffici giudiziari e garanzie

costituzionali, in Cass. pen., 1996, p. 1103; BARGIS, Deposito di provvedimenti

giudiziari dopo la chiusura dell’ufficio, in Dir. pen. proc., 1996, p. 607; GREVI,

Scadenza del termine per la decisione da parte del tribunale del riesame ed orario

di chiusura degli uffici giudiziari, in Cass. pen., 1995, p. 2612.

(137

) Cass., Sez. V, 11 aprile 1995, Mendella, in C.E.D. Cass., n.

201315.

L’UDIENZA CAMERALE 105

depositare documenti ed il compiere altri atti in un ufficio

giudiziario, di cui parla il sesto comma dell’art. 172 c.p.p.

La conclusione cui sono pervenute — e che si presenta

sistematicamente corretta — è che il termine speciale, di cui all’art.

172 comma 6 c.p.p., non è termine che può valere anche per il

deposito dei provvedimenti del giudice, conclusione che, indiscussa

nella vigenza del codice abrogato, non può essere posta in forse dalla

dimostrata irrilevanza della diversa sistemazione data dal vigente

codice alla norma e che è avvalorata dalla perfetta corrispondenza

letterale della norma abrogata e di quella oggi in vigore, la quale non

consente di includere il deposito della decisione in una delle attività

descritte, con gli stessi termini, dalle due norme. Ne consegue che «il

termine per il deposito della ordinanza scade, perentoriamente, non

nel momento in cui gli uffici vengono chiusi al pubblico, ma

nell’ultima ora — nella ventiquattresima ora — dell’ultimo

giorno» (138

).

In dottrina sono state mosse alcune critiche alla decisione in

commento. Si è, in particolare, evidenziato che non solo il significato

dell’art. 172 comma 6 c.p.p. alla luce della sua nuova fisionomia di

norma generale, ma anche il ruolo attribuito al deposito nell’iter del

procedimento camerale, fanno ritenere non consentita la

pubblicazione dell’ordinanza al di fuori della scadenza dell’orario

stabilito dai regolamenti per l’apertura delle cancellerie al pubblico.

Dopo che il contenuto normativo del vecchio art. 181 c.p.p. 1930 è

stato elevato a norma generale nell’art. 172 comma 6 del codice

vigente, diventa ineludibile recepire e dare rilievo all’interesse

protetto dalla norma processuale, ovvero l’interesse dell’indagato

impugnante che nessuna condotta discrezionale proroghi, anche solo

di poche ore, il momento in cui è per legge prevista la perdita di

effetti della misura restrittiva ovvero la conoscenza della pronuncia

di rigetto del gravame.

Si è rimarcato che il deposito dell’ordinanza fuori dell’orario

di apertura della cancelleria, oltre ad integrare una inammissibile

proroga della privazione della libertà personale, costituisce un atto

(

138) Sez. Un., 27 settembre 1995 - 14 dicembre 1995, n. 30, Mannino,

in C.E.D. Cass., n. 202901.

CAPITOLO TERZO 106

che impedisce al difensore dell’indagato di prendere conoscenza

immediata del provvedimento per sottoporlo a controllo ai fini del

ricorso per cassazione, prima ed indipendentemente dall’avviso

previsto dall’art. 128 c.p.p. Il deposito è, infatti, il modo di

comunicazione dell’ordinanza assunta nel procedimento camerale e

svolge la stessa funzione di pubblicità rivestita dalla lettura del

dispositivo ovvero della sentenza intera nella udienza dibattimentale.

Un deposito fatto fuori orario, quando il difensore non è in grado di

sapere cosa è stato deciso all’ultimo momento dal giudice, è, quindi,

come una sentenza dibattimentale pronunciata a porte chiuse.

La successiva giurisprudenza si è, comunque, conformata al

dictum della sentenza in esame, precisando che, ai sensi dell’art. 172

comma 6 c.p.p., deve distinguersi tra l’orario di servizio, che

riguarda il personale degli uffici giudiziari, la cui durata è regolata

contrattualmente e che non ha rilevanza esterna, dall’orario in cui

l’ufficio è aperto al pubblico per «fare dichiarazioni, depositare

documenti o compiere altri atti», che è stabilito dai relativi

regolamenti e dalla cui inosservanza possono derivare effetti

pregiudizievoli per gli interessati. Il termine «pubblico» sta ad

indicare, nell’accezione di cui alla citata norma, tutte le persone

estranee all’ufficio giudiziario nel quale l’atto deve essere compiuto

ed in particolare le parti che sono le dirette interessate al compimento

delle attività suindicate; e non vi è dubbio che tra le parti debba

essere annoverato anche il magistrato del pubblico ministero (139

).

9. Le conseguenze dell’invalidità della decisione adottata

tempestivamente. — Le Sezioni unite sono state chiamate per due

volte, a distanza di tre anni, a pronunciarsi sulla medesima questione,

ovvero se l’invalidità dell’ordinanza pronunciata dal tribunale del

riesame determini l’inefficacia della misura ai sensi del comma 10

dell’art. 309 c.p.p. e, in entrambi i casi, hanno affermato il seguente

principio di diritto: «In tema di riesame delle ordinanze che

dispongono una misura coercitiva, la perdita di efficacia

dell’ordinanza cautelare, a norma dell’art. 309, comma 10, c.p.p., si

(

139) Cass., Sez. I, 17 dicembre 1997, Tarantino, in C.E.D. Cass., n.

210194.

L’UDIENZA CAMERALE 107

verifica nel solo caso in cui il tribunale non provveda nel termine

stabilito, con esclusione, quindi, dell’ipotesi in cui il provvedimento

del tribunale, emesso tempestivamente, sia per qualche ragione

annullabile» (140

).

La fattispecie concreta, sottoposta all’attenzione del Supremo

Collegio, riguardava, in ambedue le occasioni, l’inosservanza del

termine dilatorio di tre giorni, prescritto dal comma 8 dell’art. 309

c.p.p., per la notifica dell’avviso dell’udienza all’imputato ed al

difensore, inosservanza che, per orientamento costante della

giurisprudenza di legittimità, integra una nullità di ordine generale a

norma dell’art. 178 lett. c) c.p.p., che si propaga, ex art. 185 c.p.p.,

all’ordinanza pronunciata dal tribunale.

Sul tema si era manifestato un contrasto giurisprudenziale, in

quanto alcune decisioni della Suprema Corte avevano ritenuto che, a

norma dell’art. 309 comma 10 c.p.p., l’invalidità dell’ordinanza del

tribunale del riesame determinasse la caducazione della misura

cautelare (141

); secondo altre, invece, per evitare la perdita di

efficacia, doveva considerarsi sufficiente che, nel termine stabilito, il

tribunale avesse deciso sulla richiesta di riesame, indipendentemente

dalla validità della decisione (142

).

Le Sezioni unite, investite della questione, con la sentenza

Piccioni del 1993 hanno fatto proprio quest’ultimo orientamento.

Ad avviso del Supremo Collegio, l’art. 309 comma 10 c.p.p.,

con le parole «se la decisione [...] non interviene entro il termine

prescritto», fa riferimento alla mancanza del provvedimento e non

(

140) Sez. Un., 12 febbraio - 6 maggio 1993, n. 2, Piccioni, in C.E.D.

Cass., n. 193414; Id., 17 aprile - 3 luglio 1996, n. 6, Pagnozzi, ivi, n. 205254. In

dottrina, cfr. ARRIGO, Inesistenza materiale e giuridica del provvedimento che

decide sulla richiesta di riesame, in Giur. it., 1998, c. 553; GIULIANI,

Annullamento dell’ordinanza di riesame e caducazione del provvedimento

cautelare ex art. 309 comma 10 c.p.p., in Cass. pen., 1993, p. 2799; SMERIGLIO,

Invalidità dell’ordinanza di riesame e caducazione della misura cautelare tra

riforme mancate e conferme giurisprudenziali, in Giur. it., 1997, II, c. 538;

VIGGIANO, Validità dell’ordinanza di riesame ed efficacia della misura coercitiva,

in Giur. it., 1994, II, c. 323.

(141

) Cfr. Cass., Sez. II, 4 luglio 1990, in C.E.D. Cass., n. 184989.

(142

) V., tra le altre, Cass., Sez. Fer., 5 settembre 1991, Cusimano, in

C.E.D. Cass., n. 188351.

CAPITOLO TERZO 108

anche alla sua invalidità, e non è vero che l’annullamento di un

provvedimento invalido determina una situazione processuale uguale

a quella che si verifica nel caso in cui non sia stata emessa alcuna

decisione.

I concetti di inesistenza e di invalidità, infatti, sono diversi:

mentre l’inesistenza è di per sé irrimediabile, l’invalidità processuale,

che si risolve nell’annullabilità, può all’opposto risultare priva di

conseguenze se non viene rilevata nelle forme stabilite. Così, mentre

la mancanza della decisione sulla richiesta di riesame può essere

riconosciuta senza limiti di tempo, lo stesso non può dirsi per

l’invalidità della decisione, che diventa non più rilevabile se non è

fatta valere mediante il ricorso per cassazione, nel termine stabilito

dall’art. 311, comma 1, c.p.p.

In altre parole, la lettera della legge — hanno concluso le

Sezioni unite — fa ritenere che la perdita di efficacia del

provvedimento coercitivo si verifichi nel solo caso in cui il giudice

non provveda nel termine stabilito e non anche nel caso in cui il suo

provvedimento sia per qualche ragione annullato. La norma ha la

funzione di garantire, nel breve termine stabilito, un controllo di

merito sul provvedimento coercitivo, ma non anche quello di

sanzionare l’eventuale invalidità di questo provvedimento con uno

strumento diverso da quelli generalmente previsti.

Nonostante la successiva giurisprudenza, anche nella

medesima composizione (143

), si sia conformata al dictum delle

Sezioni unite, con ordinanza del 24 gennaio 1996 la prima Sezione

della Corte di cassazione — a conferma della delicatezza della

tematica in esame — ha rimesso nuovamente la risoluzione della

questione al Supremo Collegio, evidenziando che la regola espressa

dalla sentenza Piccioni non può considerarsi valida nei casi in cui il

provvedimento, ancorché annullabile, non sia stato assunto a seguito

di regolare giudizio, ovvero quando non sia stato possibile realizzare

il contraddittorio; in tale ipotesi, infatti, non si ha un «giudizio» nel

senso voluto dall’ordinamento, ma un procedimento abnorme, non

consentito dalla legge, sicché la decisione assunta non è soltanto

(

143) Cfr. Sez. Un., 22 novembre 1995 - 7 marzo 1996, n. 40, Carlutti,

supra § 4.

L’UDIENZA CAMERALE 109

invalida, ma, per la mancanza delle condizioni in cui va emessa,

addirittura inesistente.

Le Sezioni unite, tuttavia, con la sentenza Pagnozzi del 1996,

hanno ritenuto di dover ribadire quanto già affermato tre anni prima,

e cioè che l’inosservanza del termine di cui all’articolo 309 comma 8

c.p.p. non fa perdere efficacia al provvedimento cautelare, ai sensi

del comma 10 dello stesso articolo. Il vizio di forma, consistente

nella violazione del termine dilatorio di tre giorni, non determina,

infatti, l’inesistenza, ma soltanto la nullità del procedimento e,

conseguentemente, della ordinanza del tribunale, sicché il relativo

procedimento — il giudizio — non è, come sostenuto dell’ordinanza

di rimessione, un procedimento «abnorme», «non consentito dalla

legge», «inesistente», «giuridicamente irrilevante».

Si tratta, invece, di un procedimento soltanto nullo e che, in

quanto tale, è sfociato in un provvedimento soltanto nullo, in un

provvedimento che l’ordinamento giuridico riconosce come proprio

anche se viziato e, quindi, in un provvedimento giuridicamente

rilevante, tanto rilevante che, per il principio del giudicato cautelare,

se non fosse stato impugnato, avrebbe prodotto l’effetto di rendere

non ulteriormente discutibile, quanto ai profili dedotti esplicitamente

o implicitamente.

Le pronunce in esame — confermate anche dalla successiva

giurisprudenza a Sezioni unite della Suprema Corte (144

) — sono

state variamente criticate in dottrina, soprattutto sotto il profilo della

distinzione tra inesistenza e nullità dell’ordinanza del riesame,

sostenendosi che ogni ipotesi di nullità dell’atto dovrebbe ritenersi

idonea, con l’annullamento, a provocare la perdita di efficacia della

misura coercitiva.

Tuttavia, a prescindere da quest’ultima argomentazione,

comunque discutibile, ciò che lascia perplessi delle sentenze in

commento — anche in una prospettiva de iure condendo — sono i

possibili abusi che il principio di diritto enunciato è in grado di

legittimare, abusi tali da trasformare il controllo del riesame in un

controllo meramente formale.

(

144) Cfr. Sez. Un., 27 giugno 2001 - 11 settembre, Di Sarno, supra § 1.

CAPITOLO TERZO 110

Si pensi all’ipotesi in cui il tribunale del riesame, a causa di

inefficienze organizzative, non sia in grado di rispettare il termine di

tre giorni, prescritto dal comma 8 dell’art. 309, senza che ciò

impedisca di rendere la decisione nei dieci giorni di cui al comma 9

del medesimo articolo; in questo caso, l’inosservanza del termine

dilatorio potrebbe costituire il non ortodosso escamotage per ovviare

alla non altrimenti evitabile caducazione della misura.

E si pensi anche all’analoga ipotesi in cui il tribunale, per

evitare la rinnovazione della notifica, resa a meno di tre giorni dalla

data dell’udienza, rinnovazione che determinerebbe la scadenza dei

dieci giorni, pronunci la decisione, in violazione del diritto al

contraddittorio, al solo fine di impedire la perenzione.

Si tratta di casi limite, che, tuttavia, ben possono verificarsi

nella prassi, nonostante il dovere di lealtà sancito dall’art. 124 c.p.p.;

la portata della violazione del diritto al contraddittorio che si realizza

in tali evenienze risulta evidente se si pone mente alla circostanza

che l’istanza di riesame potrebbe anche non essere motivata,

cosicché il non perfezionarsi di un regolare contraddittorio e la

decisione resa inaudita altera parte (o, comunque, a seguito del

rigetto dell’eccezione di nullità formulata dalla difesa) finiscono per

privare l’imputato del diritto di produrre nuovi motivi in udienza e

per eludere il diritto ad ottenere un controllo sostanziale, entro il

termine di dieci giorni, sulla legittimità del provvedimento

impugnato e sulla sussistenza dei presupposti e delle condizioni per

l’esercizio del potere cautelare.

Una simile decisione, infatti, non è espressione di quel

contraddittorio recuperato, cui mira l’imputato colpito dall’ordinanza

impositiva di una misura cautelare.

In quest’ottica, una lettura sistematica della disposizione,

orientata dalla ratio legis ad essa sottesa, imporrebbe di intendere il

termine «decisione», contenuto nel comma 10 dell’art. 309 c.p.p.,

come «decisione resa nel rispetto delle regole poste a garanzia del

contraddittorio», con la conseguente caducazione della misura

nell’ipotesi in cui la decisione, pur resa nel termine di dieci giorni,

sia nulla per l’omesso o non tempestivo avviso dell’udienza

all’imputato o al difensore.

L’UDIENZA CAMERALE 111

Né vale obiettare, come hanno fatto le Sezioni unite, che tale

nullità non significa giuridica irrilevanza della decisione, dato che

essa si sana qualora non venga proposto ricorso per cassazione

avverso l’ordinanza del riesame. Ed infatti, un simile argomento non

ha pregio, in quanto anche la caducazione della misura, per essere

stata l’ordinanza pronunciata dopo la scadenza dei dieci giorni, non

può essere fatta più valere se non eccepita tempestivamente con il

ricorso per cassazione, formandosi sul punto il giudicato

cautelare (145

).

10. L’inapplicabilità al giudizio di rinvio del termine

perentorio di dieci giorni per la decisione. — Le Sezioni unite

sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione relativa

all’applicabilità del disposto dell’art. 309, comma 10, c.p.p. anche

nel giudizio di rinvio, questione che, risolta in senso negativo dalla

pressoché costante giurisprudenza di legittimità, è stata sottoposta

all’attenzione del Supremo Collegio sulla base di due considerazioni:

l’ingiustificata disparità di trattamento che, alla luce

dell’interpretazione prevalente, si realizza in situazioni analoghe,

relativamente a fasi consecutive ad uno stesso procedimento iniziato

con la presentazione della richiesta di riesame; la regressione del

procedimento, conseguente all’annullamento con rinvio, che impone

al giudice di rinnovare tutti gli adempimenti previsti dalla legge,

rispettando, quindi, la medesima disciplina anche per ciò che

concerne i termini della decisione (146

).

Questi argomenti non sono stati, però, ritenuti decisivi dalle

Sezioni unite, che hanno confermato l’orientamento tendente ad

escludere l’applicabilità dell’art. 309, comma 10, c.p.p. al giudizio di

rinvio: «Nel giudizio di rinvio conseguente all’annullamento di un

provvedimento del tribunale del riesame da parte della Corte di

(

145) In tal senso, v. infra, cap. IV, § 3.

(146

) In dottrina, su questi temi, v. SPANGHER, “Recidiva specifica

intraquinquennale”: nessun termine nel giudizio di rinvio per il riesame, in Dir.

pen. e proc., 1996, p. 991; TREVISSON LUPACCHINI, Il problema dei termini in caso

di “regressione” al tribunale del riesame dopo l’annullamento da parte della

Corte di cassazione, in Giur. it., 1996, II, c. 631.

CAPITOLO TERZO 112

cassazione, non è applicabile la disposizione di cui all’art. 309

comma 10 c.p.p., secondo la quale l’ordinanza che dispone la misura

coercitiva perde immediatamente efficacia se la decisione sulla

richiesta non interviene entro il termine di dieci giorni dalla

ricezione degli atti» (147

).

In particolare, hanno osservato che il dato testuale della

disposizione ancora la decorrenza del termine alla ricezione degli atti

da parte del tribunale del riesame, situazione questa che non può

essere assimilata alla trasmissione degli atti effettuata dalla Corte di

cassazione dopo la sentenza di annullamento. Inoltre, apparirebbe

quanto meno incongrua l’esigenza della ripetuta osservanza del

termine perentorio dopo la fase di legittimità, nel corso della quale

non si è mai contestato che i termini ivi previsti siano ordinatori.

Questa conclusione, se per un verso appare aderente al dato

testuale della disposizione, dall’altro, tuttavia, lasciando il tribunale

del riesame svincolato da termini per la decisione, rischia di arrecare

un serio pregiudizio al diritto del imputato (o indagato) ad ottenere

un rapido controllo sulla legittimità del provvedimento coercitivo e

sulla sussistenza dei presupposti e delle condizioni previste dalla

legge, diritto che si pone negli stessi termini — ed esige eguale tutela

— sia al momento della presentazione della richiesta di riesame, sia a

seguito dell’annullamento con rinvio da parte della Cassazione,

indice, quest’ultimo, che il precedente controllo era viziato nel

merito o nella procedura.

11. La sospensione per la risoluzione di una pregiudiziale

costituzionale. — Le Sezioni unite sono state chiamate a risolvere la

questione sul se il termine perentorio entro il quale, a norma dell’art.

309 comma 9 c.p.p., deve intervenire, a pena di inefficacia della

misura coercitiva personale, la decisione sulla richiesta di riesame,

resti sospeso per effetto della sospensione del procedimento disposta

(

147) Sez. Un., 17 aprile - 8 maggio 1996, n. 5, D’Avino, in C.E.D.

Cass., n. 204463.

L’UDIENZA CAMERALE 113

per la risoluzione di una questione pregiudiziale di legittimità

costituzionale (148

).

Tuttavia, il Supremo Collegio non ha affrontato lo spinoso

problema, in quanto ha rilevato che la soluzione del quesito sul se la

predetta sospensione processuale, disposta nel procedimento di

riesame, possa produrre effetti riflessi e possa coinvolgere, a causa

del naturale decorso del tempo, il termine di cui al citato comma 9 e,

per ciò stesso, anche l’efficacia dell’ordinanza applicativa della

misura, non compete al giudice del riesame impedito dalla

temporanea paralisi processuale e neppure potrebbe essere riservata

allo stesso giudice, procrastinandone l’intervento all’esito della

decisione sulla questione costituzionale, dato che quest’ultima

opzione si risolverebbe in una illegittima e non consentita

compressione del diritto di agire in giudizio costituzionalmente

garantito al soggetto sottoposto alla misura.

La Corte ha, quindi, concluso stabilendo che, «in pendenza di

un giudizio di legittimità costituzionale derivante da una questione

sollevata dal giudice del riesame, l’interessato ha la sola possibilità

di promuovere una pronuncia di accertamento finalizzata alla

declaratoria della sopravvenuta caducazione della misura ed

all’ottenimento dell’ordinanza di immediata liberazione o di

cessazione della misura estinta, azione esperibile davanti a uno dei

giudici individuabili in base ai criteri indicati dall’art. 279 c.p.p., cui

spetta di provvedere a mezzo dell’ordinanza prevista dall’art. 306

c.p.p., appellabile ai sensi dell’art. 310 dello stesso codice» (149

).

Non si può non evidenziare, però, che, con una successiva

pronuncia, le Sezioni unite hanno contraddetto il principio secondo

cui la caducazione della misura possa essere fatta valere dinanzi al

giudice del procedimento principale ex art. 306 c.p.p. (150

).

(

148) In dottrina, sulla delicata questione, v. DEAN, Sulla sospensione del

procedimento di riesame a seguito di incidente di legittimità costituzionale, in

Giur. it., 1997, II, c. 350.

(149

) Sez. Un., 17 aprile - 3 luglio 1996, n. 8, Vernengo, in C.E.D. Cass.,

n. 205258.

(150

) Si tratta di Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo,

infra, cap. IV, § 3.

CAPITOLO TERZO 114

Cosicché resta ancora aperta, non solo la questione sul se la

sospensione del processo di riesame in pendenza dell’incidenza di

costituzionalità abbia riflessi sul termine di cui al comma 9 dell’art.

309, ma anche quella connessa relativa all’individuazione del giudice

competente a dichiarare l’eventuale perenzione della misura.

Capitolo Quarto

LA PERENZIONE DELLA MISURA

SOMMARIO: 1. I termini della questione e le prime prese di posizione della

giurisprudenza. — 2. L’intervento delle Sezioni unite per la risoluzione di

un contrasto giurisprudenziale. — 3. Un secondo intervento delle Sezioni

unite.

1. I termini della questione e le prime prese di posizione

della giurisprudenza. — Una delle questioni interpretative che ha

maggiormente impegnato la giurisprudenza di legittimità, in materia

di riesame, è quella relativa alle modalità attraverso le quali può

essere rilevata o dedotta la perdita di efficacia della misura

coercitiva, prevista dal comma 10 dell’art. 309 c.p.p. (151

).

Su questa tematica si è sviluppata una complessa vicenda

giurisprudenziale, che ha visto il succedersi di più interventi delle

Sezioni unite, tesi ad individuare i meccanismi processuali attraverso

i quali poter far valere la sopravvenuta inefficacia della misura

coercitiva ex art. 309 comma 10 c.p.p., per l’inosservanza dei termini

perentori fissati dal comma 5 e dal comma 9 della medesima

disposizione. E, la soluzione che ha finito per prevalere, con la

sentenza Piscopo del 2000, ha rappresentato un punto di rottura

rispetto alle conclusioni raggiunte dalla precedente giurisprudenza

(

151) In dottrina v. ADORNO, Sui limiti alla deducibilità

dell’inosservanza del termine di cui all’art. 309 comma 9 c.p.p., in Cass. pen.,

1996, p. 1503; APRILE, Letture sul riesame delle misure cautelari, cit., p. 693;

BARBIERI, Caducazione della misura e sua rilevabilità, in Giur. it., 2001, p. 562;

BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p.

358; CERESA GASTALDO, Le Sezioni unite disorientate tra inefficacia

dell’ordinanza coercitiva e validità della pronuncia di riesame «fuori termine», in

Cass. pen., 1999, p. 3089; INZERILLO, La continua verifica della ritualità della

custodia cautelare, in Giur. it., 2000, p. 131; MAGGIO, Perdita d’efficacia della

custodia cautelare e sua rilevabilità d’ufficio, in Dir. pen. e proc., 1999, p. 1012;

SANTORIELLO, Vizi formali del provvedimento coercitivo e giudizio cautelare, in

Giur. it., 2000, c. 142; TASSI, Brevi note sui recenti interventi delle Sezioni unite in

tema di competenza a dichiarare la perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva a

norma dell’art. 309 c.p.p., in Arch.nuova proc.pen., 1999, p. 131.

CAPITOLO QUARTO 116

delle Sezioni unite, avendo capovolto gli orientamenti manifestatisi

sul tema.

I termini della questione possono essere così riassunti: se

l’inefficacia della misura ex art. 309 comma 10 possa essere

dichiarata dal giudice del procedimento principale ai sensi dell’art.

306 c.p.p.; se possa essere fatta valere con il ricorso per cassazione

avverso l’ordinanza del giudice del riesame; se possa essere rilevata

d’ufficio dalla Corte di cassazione anche oltre i limiti del devoluto.

La giurisprudenza di legittimità è concorde nell’affermare

che, essendo il riesame preordinato a verificare soltanto i presupposti

legittimanti l’avvenuta adozione della misura cautelare e non anche

quelli incidenti sulla sua persistenza, non è consentito dedurre, nel

corso di detto procedimento, la successiva perdita di efficacia della

misura, derivata dalla mancanza o dalla invalidità di successivi

provvedimenti. In questa prospettiva, si è ritenuto che esulano

dall’ambito del riesame le questioni relative alla mancanza, alla

tardività e comunque all’invalidità dell’interrogatorio previsto

dall’art. 294 c.p.p., le quali, inerendo a vicende del tutto avulse

dall’ordinanza cautelare oggetto di gravame, si risolvono in vizi

processuali, che non ne intaccano l’intrinseca legittimità, ma, agendo

sul diverso piano della persistenza della misura, ne importano

l’estinzione automatica, che deve essere disposta, nell’ambito di un

distinto procedimento, con l’ordinanza specificamente prevista

dall’art. 306 c.p.p., suscettibile di appello a mente dell’art. 310 (152

).

Questo principio è stato successivamente applicato dalle

Sezioni unite Moni del 1996, chiamate a risolvere un contrasto

inerente l’interpretazione del comma 9 dell’art. 309 c.p.p. (153

), anche

alla causa di inefficacia prevista dal comma 10 della medesima

disposizione; in quella sede, tuttavia, il Supremo Collegio ha anche

precisato che, allorché la questione di inefficacia venga proposta,

insieme ad altre concernenti l’originaria legittimità del

provvedimento, con il ricorso per cassazione, deve ritenersi attratta

da questo e può, quindi, essere direttamente esaminata dal giudice di

legittimità, affinché non sia ritardata la decisione de libertate che si

(

152) Cfr. Sez. Un., 5 - 20 luglio 1995, n. 26, Galletto, infra, cap. V, § 7.

(153

) V. supra, cap. III, § 7.

LA PERENZIONE DELLA MISURA 117

sarebbe dovuta richiedere in altra sede. Per converso, non vi sarebbe

spazio per il dispiegarsi della descritta vis attrattiva del ricorso

proposto nel procedimento di impugnazione della misura ove, con

esso, si denunciasse esclusivamente la sopravvenuta inefficacia del

provvedimento coercitivo.

Secondo questa prima soluzione, ribadita anche dalle Sezioni

unite Alagni del 1998 (154

), l’inefficacia della misura ex art. 309

comma 10 deve, di regola, essere fatta valere dinanzi al giudice del

procedimento principale, ai sensi dell’art. 306 c.p.p., potendo,

comunque, essere dedotta con il ricorso per cassazione quando, oltre

che l’inefficacia, vengano prospettate questioni relative alla

legittimità del provvedimento del riesame.

2. L’intervento delle Sezioni unite per la risoluzione di un

contrasto giurisprudenziale. — Un più compiuto inquadramento

della tematica si deve a due coeve sentenze del 1999 (155

), che hanno

in parte sconfessato il principio di diritto enunciato dalle Sezioni

unite Moni e Alagni.

Con la prima sentenza (la n. 1 del 1999, su ricorso Caridi ed

altri), la Suprema Corte è stata chiamata a stabilire se l’inosservanza

dei termini previsti dall’art. 309 comma 5 c.p.p. e la conseguente

perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva possano, nel giudizio di

cassazione instaurato avverso la decisione del riesame, essere rilevate

anche d’ufficio ai sensi dell’art. 609 comma 2 c.p.p., ovvero dedotte

quali motivi nuovi in forza del combinato disposto degli artt. 311

comma 3 e 585 comma 4 c.p.p.

Alla sostanziale risposta negativa data alla questione dalle

precedenti Sezioni unite Moni e Alagni, si erano contrapposte alcune

pronunce a Sezioni semplici, le quali avevano, invece, affermato che

legittimato alla declaratoria d’inefficacia ex art. 309 comma 10 è

soltanto il giudice dell’impugnazione de libertate, essendo la perdita

(

154) V. supra, cap. II, § 2.

(155

) Sez. Un., 15 gennaio - 23 marzo 1999, n. 1, Caridi e altri, in C.E.D.

Cass., n. 212744 e n. 212745; Id., 15 gennaio - 31 marzo 1999, n. 2, Liddi e altri,

ivi, n. 212807.

CAPITOLO QUARTO 118

d’efficacia della misura ricollegata ad invalidità proprie del

medesimo procedimento incidentale (156

).

Il Supremo Collegio, a fronte di questo contrasto

giurisprudenziale, ha adottato una posizione intermedia, facendo leva

sulla ratio garantistica, a tutela della libertà personale, che sta a

fondamento della previsione di termini perentori per lo svolgimento

dei necessari controlli sulle misure cautelari coercitive.

Ferma la facoltà di chiedere, in ogni tempo e salvo il limite

del giudicato cautelare, al giudice del procedimento principale la

dichiarazione di sopravvenuta caducazione della misura, deve,

tuttavia, essere riconosciuta, anche nel corso del giudizio incidentale

di riesame, la possibilità di far valere l’automatica caducazione

dell’ordinanza di custodia cautelare per l’inosservanza dei termini

della medesima procedura richiamati dall’art. 309, comma 10, c.p.p.

L’imputato (o l’indagato), quindi, non è obbligato a devolvere la

cognizione al giudice del procedimento principale, corrispondendo

alla logica complessiva del sistema processuale il riconoscimento che

il giudice della procedura incidentale d’impugnazione è giudice della

propria competenza, della regolare instaurazione del contraddittorio e

della validità di ogni suo atto. A maggior ragione, egli è giudice del

rispetto dei termini della procedura, dalla cui inosservanza può

derivare la perdita di efficacia dell’ordinanza coercitiva, logicamente

pregiudiziale rispetto ad ogni altra questione di legittimità o di

merito.

Se, però, nel giudizio di riesame l’inefficacia del

provvedimento coercitivo non sia stata dedotta o rilevata d’ufficio,

essa può essere conosciuta nell’eventuale successivo giudizio di

cassazione, in cui la questione può, dunque, essere sollevata dal

ricorrente indipendentemente da altri motivi attinenti alla legittimità

originaria della misura, o rilevata d’ufficio anche oltre i limiti del

devoluto; la perdita di efficacia del provvedimento impugnato,

infatti, incide sul thema decidendum, devoluto alla Corte di

cassazione con motivi di ricorso riferiti alla legittimità originaria

(

156) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. V, 12 ottobre 1998, Cesario, in Arch.

nuova proc. pen., 1998, p. 819.

LA PERENZIONE DELLA MISURA 119

della misura, essendo la permanenza della forza cogente del titolo

pregiudiziale ai fini della decisione.

Questa conclusione è stata ripresa dalla seconda sentenza (la

n. 2 del 1999, su ricorso Liddi e altri), con cui le Sezioni unite sono

state sollecitate a risolvere il contrasto interpretativo manifestatosi in

ordine al se la perdita d’efficacia della misura cautelare, ai sensi

dell’art. 309 comma 10, possa essere dichiarata dal giudice del

procedimento principale in applicazione dell’art. 306 c.p.p.

Richiamando, oltre alla sentenza Caridi, anche altra

pronuncia delle Sezioni unite che, in un obiter dictum, aveva dato

soluzione positiva al problema (157

), il Supremo Collegio ha

affermato il principio secondo cui l’immediata liberazione della

persona sottoposta alla misura coercitiva, quale effetto automatico

dell’inosservanza dei termini previsti ai commi 5 e 9 dell’art. 309

c.p.p., può essere chiesta anche al giudice del procedimento

principale a norma dell’art. 306 c.p.p., salvo che la relativa richiesta

non sia già stata respinta nel procedimento incidentale di

impugnazione, dal momento che, in tal caso, si determina la

preclusione endoprocessuale derivante dalla formazione del

cosiddetto giudicato cautelare.

Dal complesso delle due pronunce risulta enunciata una

precisa regola iuris: sia il giudice del procedimento incidentale sia

quello del procedimento principale — salvo il limite del giudicato

cautelare — sono legittimati a rilevare, anche d’ufficio, la

caducazione ex art. 309 comma 10 c.p.p. della misura cautelare

coercitiva impugnata con richiesta di riesame.

Questa regola è stata, tuttavia, da subito smentita da un

diverso orientamento interpretativo, che ha escluso, per un verso, la

possibilità di far valere la suddetta causa di inefficacia dinanzi al

giudice del procedimento principale (158

) e, per l’altro, la sua

rilevabilità d’ufficio qualora non sia stata dichiarata nel

(

157) Sez. Un., 17 aprile - 3 luglio 1996, Vernengo, supra, cap. III, § 11.

(158

) Cass., Sez. VI, 2 febbraio 2000, Diana, in C.E.D. Cass., n. 217140.

CAPITOLO QUARTO 120

procedimento del riesame, potendo essere dedotta dalla parte

unicamente con il ricorso per cassazione (159

).

3. Un secondo intervento delle Sezioni unite. — Il

riemergere del contrasto giurisprudenziale ha reso necessario un

nuovo intervento delle Sezioni unite, le quali, come anticipato, hanno

sconfessato l’orientamento maggioritario. In altri termini, il Supremo

Collegio, investito della risoluzione di un contrasto giurisprudenziale

tra l’indirizzo interpretativo fatto proprio da precedenti pronunce a

Sezioni unite e quello, di segno contrario, accolto da alcune decisioni

a Sezioni semplici, ha finito per accordare consenso a quest’ultimo.

Il principio di diritto che ne è scaturito è il seguente:

«L’omissione, da parte del giudice del riesame, della pronuncia,

anche d’ufficio, della sopravvenuta perdita di efficacia della misura

cautelare ai sensi dell’art. 309 comma 10 c.p.p., costituisce un vizio

della decisione che, come tale, può essere fatto valere

esclusivamente con il ricorso per cassazione nell’ambito del

procedimento de libertate e non anche con la richiesta di

declaratoria dell’inefficacia della misura rivolta al giudice del

procedimento principale.

Nel giudizio di riesame la doverosa verifica, anche di ufficio,

della tempestività del procedimento, ai fini dell’eventuale

caducazione ex art. 309, comma 10, c.p.p., si configura come un

tema ulteriore della decisione, che si aggiunge a quello della verifica

della validità del provvedimento applicativo impugnato e dei

presupposti della misura cautelare applicata, con la conseguenza

che il giudice del riesame che accerti la caducazione della misura ex

art. 309, comma 10, c.p.p. è tenuto a compiere egualmente il giudizio

sulla validità del provvedimento applicativo e sui presupposti della

misura cautelare.

L’omessa pronuncia della caducazione della misura

cautelare personale da parte del giudice del riesame non può essere

dedotta né rilevata nel successivo giudizio di cassazione se non sia

stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso; la Corte di

(

159) Cass., Sez. VI, 22 aprile 1999, Scognamiglio, in C.E.D. Cass., n.

214206.

LA PERENZIONE DELLA MISURA 121

cassazione, nel caso di accoglimento del motivo, anche unico, con il

quale sia stata denunciata l’omessa pronuncia della caducazione,

dovrà annullare senza rinvio la decisione impugnata limitatamente a

tale omissione, dichiarando la cessazione di efficacia della

misura» (160

).

Secondo la Corte, alla luce della natura ibrida del giudizio di

riesame — il quale si presenta, per un verso, come una fase eventuale

del procedimento applicativo della misura, in quanto è destinato a

consentire a posteriori, ma entro termini stringenti, quel

contraddittorio che, di regola, non precede l’iniziale decisione del

giudice, e, per altro verso, come un’impugnazione totalmente

devolutiva, intesa a verificare sia la validità del provvedimento

applicativo, sia i presupposti della misura cautelare — deve ritenersi

che la doverosa verifica, anche d’ufficio, della tempestività del

procedimento, ai fini dell’eventuale caducazione ex art. 309 comma

10 c.p.p., si configuri come oggetto aggiuntivo, piuttosto che

sostitutivo, rispetto alla verifica della validità del provvedimento

applicativo impugnato e dei presupposti della misura cautelare

applicata. Il giudice del riesame, che accerti l’inefficacia della misura

ai sensi dell’art. 309 comma 10 c.p.p., è, pertanto, tenuto a compiere

egualmente il giudizio sulla validità del provvedimento applicativo e

sui presupposti della misura cautelare. Dalle conclusioni di questo

accertamento dipenderà, infatti, sia la possibilità di un’immediata

reiterazione della misura, sia l’esperibilità di un’azione di riparazione

per ingiusta detenzione.

Ed è evidente, inoltre, che è inficiata per omessa pronuncia su

un punto della decisione l’ordinanza di riesame che, nel confermare

la misura cautelare impugnata, ometta di dichiararne l’inefficacia, ex

art. 309 comma 10, eventualmente verificatasi.

Da questa ricostruzione derivano due conseguenze rilevanti.

Innanzitutto, deve ritenersi che l’omessa pronuncia della

caducazione da parte del giudice del riesame non possa essere né

dedotta, né rilevata nel successivo giudizio di cassazione, se non sia

stata oggetto di uno specifico motivo di ricorso. La natura ibrida del

(

160) Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo, in C.E.D.

Cass., n. 216261.

CAPITOLO QUARTO 122

procedimento di riesame, infatti, non si estende al giudizio di

cassazione, che rimane limitato ad un controllo di legittimità sulla

decisione impugnata, ed è certamente da escludersi che tale omessa

pronuncia integri un’invalidità rilevabile d’ufficio dalla Corte oltre i

limiti del devolutum, posto che nessuna norma prevede un simile

regime di rilevabilità. Ne consegue che la Corte di cassazione, nel

caso di accoglimento del motivo, anche unico, con il quale sia stata

denunciata l’omessa pronuncia della caducazione, deve annullare

senza rinvio la decisione impugnata limitatamente a tale omissione,

dichiarando la cessazione di efficacia della misura.

In secondo luogo, l’omessa pronuncia della caducazione,

configurata come un vizio della decisione di riesame, è destinata

necessariamente a rimanere sanata ove non dedotta nel giudizio di

cassazione, realizzandosi una preclusione analoga a quella che

impedisce al giudice del procedimento principale di rilevare le

invalidità del provvedimento applicativo della misura, previste

dall’art. 292 c.p.p., non dedotte tempestivamente con una delle

impugnazioni proponibili ai sensi degli artt. 309 e 311 c.p.p.

Né è possibile configurare — ad avviso delle Sezioni unite —

una doppia competenza, del giudice del procedimento principale e

del giudice del procedimento di riesame, a dichiarare la caducazione

prevista dall’art. 309 comma 10 c.p.p. Dovrebbe ammettersi, infatti,

che la richiesta di dichiarare l’inefficacia della misura sia proponibile

al giudice del procedimento principale anche in pendenza del

procedimento incidentale di riesame, con il rischio di una

contraddittorietà delle pronunce difficilmente superabile; così come

dovrebbe ammettersi che anche a distanza di mesi il giudice del

procedimento principale venga richiesto di accertare, ad esempio, se

al giudice del riesame erano stati trasmessi tempestivamente tutti gli

atti effettivamente rilevanti ai fini della decisione. Sicché l’art. 306

c.p.p. deve essere interpretato nel senso che competente a dichiarare

la caducazione di una misura cautelare sia esclusivamente il giudice

del procedimento (principale o incidentale) nell’ambito del quale si è

verificato l’evento che l’ha determinata.

E, nel caso della caducazione prevista dall’art. 309 comma 10

c.p.p., deve, perciò, attribuirsi al solo giudice del riesame il dovere di

LA PERENZIONE DELLA MISURA 123

dichiarala anche d’ufficio, potendo la Corte di cassazione rilevare la

sopravvenuta perenzione della misura solo in conseguenza

dell’accertamento dell’omessa sua dichiarazione da parte del giudice

del riesame, ove una tale omissione sia stata denunciata con uno

specifico motivo d’impugnazione.

La sentenza in commento ha avuto sicuramente il merito di

chiarire che la verifica sull’osservanza delle norme interne del

procedimento costituisce un oggetto aggiuntivo, e non sostitutivo, del

giudizio di riesame, il che implica l’obbligo del giudice di decidere

sulla legittimità del provvedimento coercitivo e sui presupposti che

lo sorreggono anche qualora accerti la perdita di efficacia della

misura ex art. 309, comma 10, c.p.p. La caducazione della misura

non può mai mettere in ombra il necessario controllo sulla legittimità

della privazione (o limitazione) della libertà personale di cui il

giudice viene investito e non può sottrarlo dall’obbligo di rendere

una decisione di merito, con i vantaggi, in tema di reiterazione della

misura, che possono derivarne per l’imputato. Apertis verbis, il

diritto dell’imputato ad ottenere un controllo tempestivo sulla

sussistenza dei presupposti e delle condizioni che legittimano

l’esercizio del potere cautelare non può venir meno a causa del

mancato rispetto dei termini da parte dell’organo decidente.

È bene evidenziare che questa conclusione si è posta in netto

contrasto con la prevalente giurisprudenza di legittimità, avendo in

precedenza le stesse Sezioni unite ritenuto che la perdita di efficacia

del provvedimento custodiale, ai sensi del comma 10 dell’art. 309,

determina una situazione incompatibile con l’esercizio della potestà

di decisione sull’impugnazione, a cagione del venir meno della

misura coercitiva, che si traduce giuridicamente in una causa di

preclusione per il tribunale e ciò perché è ormai trascorso il termine

riservato alla verifica giurisdizionale del titolo custodiale (161

).

Sistematicamente corretta si presenta la distinzione, in

materia di sopravvenuta inefficacia di una misura coercitiva, tra le

cause di inefficacia che trovano origine nel procedimento incidentale,

le quali possono e debbono essere rilevate o dedotte nell’ambito del

(

161) Sez. Un., 29 ottobre - 17 dicembre 1997, n. 13, p.m. in proc.

Schillaci, supra, cap. II, § 4.

CAPITOLO QUARTO 124

procedimento stesso e sino al giudizio di cassazione, e quelle che

derivano da accadimenti esterni (come il mancato tempestivo

interrogatorio di garanzia), che seguono la via dell’art. 306 c.p.p.

Tuttavia, non si può non evidenziare come la soluzione

esegetica che ha finito per prevalere non sia immune da

inconvenienti, nella misura in cui priva il sistema di un rimedio

tempestivo ed efficace, cui l’interessato possa ricorrere, per vedersi

dichiarare la perenzione dell’ordinanza coercitiva.

Imporre all’interessato, privato ante iudicium della libertà

personale, che, se mai, non abbia potuto eccepire, dinanzi al tribunale

del riesame, la sopravvenuta caducazione della misura — si pensi

all’ipotesi in cui il dispositivo dell’ordinanza venga depositato oltre i

dieci giorni dalla ricezione degli atti —, di attendere l’esito del

ricorso per cassazione, significa prolungare, di molti mesi, uno status

detentionis illegittimo, frustrando, in fin dei conti, proprio l’esigenza

alla cui soddisfazione è preposta la regola dettata dal comma 10

dell’art. 309, che è quella di evitare che la misura venga mantenuta

oltre il tempo concesso per la doverosa verifica sulla correttezza

dell’esercizio del potere cautelare.

Capitolo Quinto

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI DEL TRIBUNALE

DEL RIESAME

SOMMARIO: 1. La declaratoria di incompetenza del giudice che ha adottato la

misura cautelare. — 2. La valutabilità dei gravi indizi di colpevolezza

anche dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. — 3. Il potere di dare una

diversa qualificazione giuridica al fatto. — 4. L’inapplicabilità del

principio del tantum devolutum quantum appellatum. — 5. I limiti di

applicabilità dell’effetto estensivo. — 6. I limiti di ammissibilità della

motivazione per relationem. — 7. La condanna del soccombente al

pagamento delle spese del procedimento di riesame.

1. La declaratoria di incompetenza del giudice che ha

adottato la misura cautelare. — Una questione molto dibattuta in

giurisprudenza è quella relativa alla possibilità di dedurre, in sede di

riesame, l’incompetenza del giudice che ha pronunciato il

provvedimento cautelare (162

).

La materia è alquanto complessa e si inserisce in un quadro

normativo non del tutto chiaro; per un verso, vengono in rilievo le

disposizioni dettate, in generale, in tema di incompetenza del

giudice, che distinguono il regime di rilevabilità e deducibilità a

seconda che si tratti di incompetenza per materia, per territorio o per

connessione (art. 21 c.p.p.) e diversificano le conseguenze della

declaratoria di incompetenza a seconda che questa intervenga nel

corso delle indagini preliminari, nel dibattimento di primo grado, in

appello o in sede di ricorso per cassazione (artt. 22-25 c.p.p.); per

altro verso, assume rilevanza la speciale disciplina dettata per il

(

162) In dottrina, sul punto, v. CIAPPI, Sulla possibilità che il tribunale

della libertà verifichi, in sede di riesame, la competenza territoriale del giudice per

le indagini preliminari che abbia disposto il provvedimento cautelare oggetto di

gravame, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 1502; GRIFANTINI, Misure cautelari e

incompetenza del giudice nella fase delle indagini preliminari: quali rimedi dopo

la sentenza delle Sezioni Unite?, in Cass. pen., 1994, p. 2945; TERRANOVA,

Incompetenza del giudice che abbia provveduto in materia cautelare e sua

deducibilità in sede di impugnazione, in Giur. it., 1996, II, c. 352.

CAPITOLO QUINTO 126

procedimento incidentale de libertate, ove si prevede che anche il

giudice che riconosca la propria incompetenza per qualsiasi causa

possa, con lo stesso provvedimento declinatorio della competenza,

disporre la misura cautelare, qualora ne sussistano i presupposti e

ricorra l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari

contemplate dall’art. 274 c.p.p. (art. 291, comma 2, c.p.p.), fermo

restando che l’ordinanza così pronunciata cessa di avere effetto se,

entro venti giorni dalla trasmissione degli atti, il giudice competente

non provvede ai sensi dell’art. 292 c.p.p. (art. 27 c.p.p.).

Non si può trascurare, inoltre, il disposto di cui all’art. 279

c.p.p. che, in materia cautelare, attribuisce la competenza secondo un

criterio funzionale, identificando l’organo giurisdizionale legittimato

nel «giudice che procede» e, prima dell’esercizio dell’azione penale,

nel «giudice per le indagini preliminari».

Fin dalle prime applicazioni del codice di procedura penale,

si è delineato in giurisprudenza un contrasto interpretativo.

Secondo un primo orientamento, è consentito sia all’indagato

che al giudice eccepire o rilevare, nel corso del procedimento

incidentale, l’incompetenza per materia o per territorio dell’organo

cautelare (163

).

Su posizioni opposte si è collocato, invece, l’indirizzo

maggioritario, che ha escluso l’impugnabilità, per ragioni di

competenza, delle ordinanze cautelari pronunciate dal giudice

incompetente.

A sostegno di tale posizione, si è affermata, innanzitutto, la

mancanza del potere dell’indagato di eccepire l’incompetenza nel

corso delle indagini preliminari, poiché l’art. 21 comma 2 c.p.p.

prevede la possibilità di far valere il difetto di competenza territoriale

davanti al giudice dell’udienza preliminare, mentre l’art. 22 c.p.p.,

che riguarda sia la competenza per materia che quella per territorio,

attribuisce solo al giudice per le indagini preliminari la possibilità di

rilevare la propria incompetenza (164

).

(

163) Così Cass., Sez. VI, 20 agosto 1992, Panigritti, in C.E.D. Cass., n.

192238.

(164

) V., per tutte, Cass., Sez. I, 3 febbraio 1994, Varasano, in Mass. pen.

cass., 1994, f. 5, p. 99.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 127

In secondo luogo, si è sostenuto sia il difetto di legittimazione

del giudice dell’impugnazione a verificare la competenza cautelare,

atteso che questa funzione non rientra fra quelle assegnate al

tribunale del riesame o alla Corte di cassazione, sia la carenza

dell’interesse dell’indagato a proporre tale eccezione, dal momento

che l’incompetenza, anche se accertata, non può determinare la

nullità del provvedimento impugnato, in quanto l’art. 27 c.p.p. ne fa

derivare soltanto l’inefficacia, nel caso in cui l’organo competente

non provveda entro venti giorni dall’ordinanza di trasmissione degli

atti (165

).

In quest’ottica, si è, altresì, precisato che, al fine di applicare

l’art. 27 c.p.p., è necessario che la dichiarazione di incompetenza sia

emessa dallo stesso giudice che ha disposto la misura e non da un

giudice diverso, com’è quello dell’impugnazione (166

).

Ora, occorre premettere come la questione in esame si pone

solo con riferimento alla fase delle indagini preliminari, in quanto,

una volta esercitata l’azione penale, ogni controversia in ordine alla

competenza va risolta nell’ambito del procedimento principale (167

).

Appare indiscutibile, inoltre, come un problema di

incompetenza può essere sollevato durante l’intero arco del

procedimento penale; ed infatti, affinché si esplichi la funzione

giurisdizionale non si deve attendere necessariamente che il

magistrato del pubblico ministero, esaurita la fase delle indagini,

investa il giudice di una richiesta di archiviazione o di una pronuncia

sull’azione penale, in quanto, anche durante le indagini preliminari, il

giudice preposto a questa fase può essere sollecitato ad adottare i

(

165) Cfr., in tal senso, Cass., Sez. I, 7 luglio 1994, Ardino, in Cass. pen.,

1996, p. 228.

(166

) Cfr. Cass., Sez. I, 28 gennaio 1994, Rodriguez, in Cass. pen., 1995,

p. 2612.

(167

) In giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. II, 4 giugno 1998, Maddaloni e

altro, in Giust. pen., 1999, III, c. 441, secondo cui la sindacabilità, da parte del

tribunale del riesame, della competenza territoriale del giudice che ha emesso una

misura cautelare si esaurisce nella fase delle indagini preliminari, sicché, una volta

chiusa tale fase, ogni questione concernente detta competenza resta preclusa dal

sopravvenuto radicarsi della competenza del giudice che procede.

CAPITOLO QUINTO 128

provvedimenti che la legge gli riserva come espressione della sua

competenza funzionale (168

).

Nel corso delle indagini, assume rilievo principalmente il

criterio di competenza per territorio. Con riguardo, invece, al criterio

della materia, la competenza unitaria del giudice per le indagini

preliminari per tutte le materie di competenza della giurisdizione

ordinaria non minorile fa sì che la questione di competenza per

materia sia prospettabile solo con riferimento ai reati riservati al

giudice minorile (169

).

È stata, inoltre, qualificata come incompetenza funzionale —

il cui regime è assimilabile a quello dell’incompetenza per materia

per difetto — l’ipotesi in cui il giudice per le indagini preliminari

venga investito di funzioni — comprese quelle cautelari — che

dovrebbero essere esercitate dal collegio per i reati ministeriali. Il

collegio per i reati ministeriali, infatti, previsto dall’art. 7 della l.

cost. 16 gennaio 1989 n. 1, non è un giudice speciale né un organo

della giustizia penale-costituzionale, ma è soltanto un organo

specializzato della giurisdizione ordinaria, il quale, dotato di

specifica competenza funzionale in relazione alla particolare

qualificazione dei reati dei quali deve occuparsi, esercita, con

riguardo a questi ultimi, oltre alle funzioni proprie del pubblico

ministero, anche quelle del giudice per le indagini preliminari.

Conseguentemente, ove tali ultime funzioni vengano esercitate da un

normale giudice per le indagini preliminari, il provvedimento da

questi adottato non può dirsi viziato da carenza di giurisdizione, ma

soltanto da incompetenza funzionale (170

).

Ed è proprio con riferimento a quest’ultima situazione che le

Sezioni unite si sono occupate per la prima volta della questione

della sindacabilità, in sede di riesame, della competenza del giudice

che ha disposto la misura.

(

168) Così DALIA-FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, cit.,

p. 89.

(169

) In tal senso, BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni dinanzi al

Tribunale del riesame, cit., p. 412, nota 154.

(170

) Così Sez. Un., 20 luglio 1994 - 1 agosto 1994, n. 14, De Lorenzo,

in C.E.D. Cass., n. 198218.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 129

Il Supremo Collegio ha, in primo luogo, rilevato che in tema

di incompetenza per materia e di incompetenza funzionale il nuovo

codice ha sostituito il termine «giudizio» con il termine «processo»,

riaffermando la regola della rilevabilità, anche d’ufficio, in qualsiasi

«stato e grado» del processo (art. 21, comma 1, c.p.p.).

Già la sola sostituzione del termine è indicativa della

deducibilità dell’incompetenza nella fase precedente al giudizio.

Né a diversa conclusione può pervenirsi sulla base della

diversa disciplina prevista dall’art. 22. L’apparente diversità è

indicativa, soltanto, dell’esistenza di diversi presupposti per

l’applicabilità delle due norme. L’art. 21 risolve il problema in

relazione alle singole ipotesi di incompetenza, stabilendo quando e

come possano essere rilevate od eccepite, tant’è che affida ai

successivi articoli la disciplina dei conseguenziali provvedimenti del

giudice. Invece l’art. 22 regola i diversi provvedimenti che il giudice,

a seconda delle fasi procedimentali in cui opera, deve adottare in

relazione ad un accertato difetto di competenza.

Lo stesso contenuto dell’art. 22, comma 1, c.p.p. non solo

attribuisce al giudice per le indagini preliminari il potere di

riconoscere la propria incompetenza, ma si armonizza

compiutamente con la struttura e le finalità della fase processuale

nella quale si inserisce la pronuncia sulla competenza.

Quella norma comprende, quindi, sia l’ipotesi in cui il

giudice, una volta acquisiti gli atti, sia in grado di riconoscere la

propria incompetenza, che quelle ipotesi nelle quali, delineatosi il

contraddittorio tra le parti, l’incompetenza può da queste essere

eccepita.

Ma, sicuramente di portata assorbente è l’affermazione

secondo cui ciascun giudice, nell’assumere un provvedimento, è

sempre obbligato al rispetto della propria competenza ed è, perciò,

abilitato a verificarne l’esistenza sulla base delle risultanze di cui

dispone. E su tale sua valutazione, positiva o negativa, giammai potrà

essere precluso il sindacato del giudice della impugnazione, una

volta che sia legittimamente investito dell’esame del problema, quali

che possano essere gli effetti che scaturiscono dal riconoscimento

CAPITOLO QUINTO 130

dell’incompetenza del giudice che ha emesso il provvedimento

impugnato.

Tale possibilità a maggior ragione dev’essere consentita

allorquando l’incompetenza denunciata si traduca in un difetto di

attribuzione del giudice in relazione alla funzione esercitata, giacché

tale difetto lo priva della specifica idoneità all’adozione del

provvedimento.

La stessa provvisoria ultrattività delle misure cautelari

disposta dal giudice dichiaratosi incompetente dimostra la maggiore

rilevanza attribuita al difetto di competenza del giudice per le

indagini preliminari dal nuovo codice, rispetto alla disciplina

precedente, e, soprattutto, dà un connotato di evidente concretezza

all’interesse dell’indagato, nei cui confronti è stata disposta la misura

cautelare, al riconoscimento dell’incompetenza del giudice; da tale

riconoscimento, infatti, consegue una limitazione temporale

dell’efficacia della misura e, soprattutto, la necessità di una rinnovata

ed autonoma valutazione che il giudice competente dovrà effettuare

sulle condizioni di applicabilità delle misure cautelari e sulle

esigenze meritevoli di tutela.

Non contrasta, inoltre, con tali conclusioni la previsione

normativa contenuta nell’art. 291, comma 2, c.p.p.; quest’ultima

disposizione, proprio perché rappresenta una deroga al principio

generale secondo il quale al giudice incompetente è preclusa

l’adozione di qualsiasi provvedimento diverso dal riconoscimento

della propria incompetenza e dalla trasmissione degli atti al giudice

competente, impone al giudice un obbligo ulteriore, e cioè quello di

verificare, in concreto, se sussiste l’urgenza di dover soddisfare

taluna delle esigenze cautelari.

Pertanto, l’eccezionale legittimazione all’emissione del

provvedimento cautelare da parte del giudice incompetente,

giustificata soltanto dalla necessità di scongiurare i pericoli connessi

al prevedibile ritardo con il quale il giudice competente avrebbe

potuto provvedere, non esonera il giudice dal doveroso rispetto della

competenza, né tanto meno disperde gli effetti che conseguono

all’accertamento della violazione di quell’obbligo, specie quando il

difetto di competenza equivale ad un difetto di attribuzioni.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 131

Le Sezioni unite, attraverso queste argomentazioni, sono

pervenute alla conclusione che nessuna preclusione sussiste, in sede

di impugnazione, al riconoscimento della incompetenza funzionale

del giudice per le indagini preliminari che ha pronunciato l’ordinanza

cautelare (171

).

L’esame della questione è stato approfondito da un

successivo intervento delle Sezioni unite, che se ne occupato sotto il

profilo dell’incompetenza per territorio.

Nell’avvalorare la medesima conclusione, la Corte ha rilevato

come la competenza, quale limite della giurisdizione, sia un

presupposto processuale indissociabile dalla funzionale attività del

giudice. Il nuovo codice, in questa prospettiva, lungi dal precludere il

sindacato giurisdizionale sulla competenza del giudice, lo ha

armonizzato con le peculiari caratteristiche del procedimento

incidentale che si sviluppa e si esaurisce nella fase delle preliminari

indagini. Ne fanno fede i ripetuti richiami alla competenza del

giudice negli artt. 279 e 291 c.p.p.

E, se tali sono i principi ai quali si è ispirato il nuovo

ordinamento processuale e tale è il quadro normativo di riferimento,

sarebbe difficile sostenere l’irrilevanza della competenza del giudice

in relazione all’adozione di un provvedimento cautelare, perché ciò

equivarrebbe a negare il sindacato giurisdizionale sulla competenza

in una materia nella quale sono in gioco fondamentali ed

irrinunciabili diritti del cittadino.

Ad avviso del Supremo Collegio, la previsione normativa che

elimina ogni dubbio in materia è quella dettata dal comma 2 dell’art.

291 c.p.p., il quale, nel prevedere, come deroga eccezionale al

principio enunciato nel comma 1, la possibilità, per il giudice

incompetente, di disporre una misura cautelare, ne subordina

l’esercizio all’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari

previste dall’art. 274. Dall’esame di tale norma discendono due

incontestabili conseguenze:

a) il potere di disporre una misura cautelare da parte del

giudice incompetente, per qualsiasi causa, è del tutto eccezionale,

(

171) Sez. Un., 20 luglio 1994 - 1 agosto 1994, n. 14, De Lorenzo, cit.

CAPITOLO QUINTO 132

perché legittimo soltanto se sussiste l’improrogabile necessità di

salvaguardare le esigenze cautelari;

b) il sindacato sul corretto esercizio di quel potere

eccezionale non può che essere comprensivo della valutazione dei

presupposti che lo hanno attivato, e cioè sia l’incompetenza del

giudice che l’urgenza del provvedimento assunto.

Ed allora, se in relazione all’applicazione dell’art. 291

comma 2 c.p.p., sia il giudice del riesame che la Corte di cassazione

possono essere legittimamente investiti, nei limiti delle rispettive

facoltà, della verifica dei presupposti richiesti da questa norma,

sarebbe, a dir poco, contraddittorio sostenere una diversa conclusione

sol perché un giudice, pur essendo incompetente, non lo abbia

riconosciuto.

L’irrazionale disparità di trattamento finirebbe per rimettere

ad una scelta insindacabile del giudice il sindacato giurisdizionale

sulla sua competenza, ma tale conseguenza è sotto molteplici aspetti

inaccettabile.

Inoltre, la Corte ha ricordato come esista una regola

fondamentale e costante del nostro ordinamento processuale, inserita

nel quadro complessivo delle garanzie giurisdizionali ed espressione,

essa stessa, di un’illuminata tradizione, cioè quella che riconosce al

giudice dell’impugnazione il potere di sostituire, a tutti gli effetti, la

propria decisione a quella impugnata: tale potere sostitutivo è

conseguente al necessario riconoscimento al giudice

dell’impugnazione degli stessi potenziali poteri dispositivi

esercitabili dal giudice che ha emesso il provvedimento.

Questa regola, con riferimento al riesame, è espressamente

codificata nel comma 9 dell’art. 309 c.p.p., secondo cui il tribunale, a

prescindere dai motivi dedotti, ed addirittura indipendentemente dal

fatto che dei motivi siano stati prospettati a sostegno della richiesta di

riesame, ha la stessa cognizione del giudice che ha disposto la misura

cautelare, tant’è che può persino provvedere alla sua sostituzione,

rivalutando autonomamente tutte le risultanze di cui dispone, sia ai

fini della verifica degli indizi di colpevolezza, che in relazione alle

esigenze cautelari ed alla necessità della loro adeguata tutela.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 133

Le Sezioni unite, per tale via, sono pervenute ad affermare il

seguente principio di diritto: «L’incompetenza per territorio del

giudice che ha disposto una misura cautelare è sindacabile in sede di

impugnazione. Ed infatti, il potere di disporre una misura cautelare

da parte del giudice incompetente, per qualsiasi causa, è del tutto

eccezionale, in quanto legittimo solo se sussiste l’improrogabile

necessità di salvaguardare le esigenze cautelari; ne consegue che il

sindacato sul corretto esercizio di tale eccezionale potere non può

che essere comprensivo della valutazione dei presupposti che lo

hanno attivato, e cioè sia dell’incompetenza del giudice, sia

dell’urgenza del provvedimento assunto» (172

).

Ora, non si può disconoscere la perfetta aderenza al sistema

della conclusione propugnata dal Supremo Collegio. Se, infatti, non

fosse consentito sindacare, in sede di impugnazione de libertate, la

competenza del giudice che ha emesso un provvedimento cautelare,

si violerebbe sia il principio del giudice naturale che quello della

precostituzione, previsti dall’art. 25 comma 1 Cost. e valevoli per

tutte le forme di competenza, compresa quella cautelare.

L’impossibilità di eccepire l’incompetenza in sede di

impugnazione de libertate lascerebbe senza controllo la decisione del

giudice per le indagini preliminari, sotto il profilo che ci interessa. E

ciò andrebbe a discapito del diritto dell’indagato o l’imputato ad

ottenere una rinnovata ed autonoma valutazione di tutti i presupposti

dell’ordinanza cautelare da parte del suo giudice naturale.

La successiva giurisprudenza si è prevalentemente uniformata

al dictum delle Sezioni unite, anche se non sono mancate posizioni di

dissenso (173

).

(

172) Sez. Un., 25 ottobre - 12 dicembre 1994, n. 19, De Lorenzo, in

C.E.D. Cass., n. 199393.

(173

) Cass., Sez. V, 29 maggio 1998, Lasi, in Cass. pen., 1999, p. 3192,

secondo cui, nel corso delle indagini preliminari, in sede di riesame non sono

proponibili questioni in ordine alla competenza del giudice che ha emesso

l’ordinanza impugnata, non potendo trovare applicazione, per difetto dei relativi

presupposti, le disposizioni generali dettate, in materia di incompetenza per

territorio, dagli artt. 21 comma 2 e 24 c.p.p. e non rientrando, d’altra parte, nei

poteri del tribunale del riesame pronunciare l’annullamento della suddetta

ordinanza per violazione delle regole sulla competenza territoriale, attesa l’assenza

CAPITOLO QUINTO 134

Problemi esegetici ha posto anche la questione relativa alle

conseguenze della declaratoria di incompetenza del giudice,

pronunciata in sede di riesame.

Se, in un primo momento, le Sezioni unite avevano chiamato

in causa la categoria della nullità (174

), successivamente hanno

chiarito che la pronuncia di incompetenza da parte del giudice

dell’impugnazione avverso provvedimenti cautelari determina, al

pari della declaratoria di incompetenza del giudice che aveva

disposto la misura cautelare, l’inefficacia differita, ex art. 27 c.p.p.,

della misura cautelare stessa (175

).

La circostanza che la formulazione letterale dell’art. 27 c.p.p.,

in tema di misure cautelari disposte da giudice incompetente, postuli

l’identità tra giudice che dispone la misura e giudice che dichiara,

contestualmente o successivamente, la propria incompetenza, non

esclude che la disciplina della caducazione automatica della misura

cautelare contenuta in detto articolo si estenda anche alle ipotesi di

diversità tra giudice che dispone la misura e giudice che dichiari

l’incompetenza, in quanto il carattere provvisorio della efficacia della

misura disposta da giudice incompetente è espressione di un potere

eccezionale e, pertanto, non può essere limitato ai casi di identità tra

giudice disponente la misura e giudice che dichiara l’incompetenza.

Tuttavia, il tribunale del riesame dovrà annullare l’ordinanza

impugnata qualora, nel rilevare l’incompetenza del giudice che ha

adottato il provvedimento, escluda la ricorrenza del requisito

dell’urgenza richiesto dal comma 2 dell’art. 291 c.p.p. (176

).

di norme, generali o specifiche, che prevedano siffatta violazione come causa di

nullità. Nello stesso senso, Cass., Sez. I, 20 maggio 1996, Graviano, in Cass. pen.,

1997, p. 2156.

(174

) Cfr. Sez. Un., 20 luglio 1994 - 1 agosto 1994, n. 14, De Lorenzo,

cit.

(175

) V. Sez. Un., 24 gennaio - 12 aprile 1996, n. 1, Fazio, in C.E.D.

Cass., n. 204164; negli stessi termini già si erano espresse Sez. Un., 25 ottobre - 12

dicembre 1994, n. 19, De Lorenzo, cit.

(176

) V., da ultimo, in tal senso Cass., Sez. IV, 21 giugno 2005, T., in

C.E.D. Cass., n. 232027, in cui si afferma quanto segue: «l’incompetenza del

giudice che ha adottato una misura cautelare può essere dedotta con le

impugnazioni de libertate e, conseguentemente, riconosciuta dal giudice del

riesame o da quello di legittimità, i quali dovranno apprezzare non solo la

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 135

2. La valutabilità dei gravi indizi di colpevolezza anche

dopo il rinvio a giudizio dell’imputato. — La vicenda che si passa

ad esaminare si è innestata su un contrasto giurisprudenziale

manifestatosi fin dalle prime applicazioni del nuovo codice di rito ed

ha registrato l’intervento di due pronunce, di segno opposto, delle

Sezioni unite, intervallate da una dichiarazione di illegittimità

costituzionale degli artt. 309 e 310 c.p.p. (177

).

questione di competenza, ma anche, in caso di ritenuta incompetenza, la

sussistenza del presupposto dell’urgenza che, ai sensi dell’art. 291 comma 2 c.p.p.,

legittima, nel caso, il giudice richiesto della misura ad adottarla, pur essendo

incompetente. Ne consegue che l’incompetenza eventualmente dichiarata dal

giudice dell’impugnazione renderà provvisoria l’efficacia del provvedimento

cautelare, legittimamente adottato in caso di urgenza, secondo il disposto dell’art.

27 c.p.p.; mentre, nel caso in cui il giudice dell’impugnazione apprezzi

l’insussistenza dell’urgenza, con la declaratoria di incompetenza, dovrà annullare

la misura. Tale apprezzamento deve essere effettuato con riferimento ai dati

processuali, ove si tratti di impugnazione di merito, ovvero con esclusivo

riferimento a quanto implicitamente desumibile dalla motivazione del

provvedimento impugnato, ove si tratti di impugnazione di legittimità, non essendo

consentito alla Corte di cassazione di procedere alla disamina degli atti». Occorre

rilevare, tuttavia, come questo indirizzo non sia completamente pacifico. Anche di

recente si è sostenuto che una volta riconosciuta in sede di riesame l’incompetenza

del giudice che ha adottato una misura cautelare, il tribunale non può pronunciare

annullamento né riforma del provvedimento impugnato, ma, dopo averlo

confermato, deve provvedere ai sensi dell’art. 27 c.p.p. È, pertanto, abnorme il

provvedimento con cui il giudice del riesame, avendo escluso la sussistenza del

presupposto dell’urgenza richiesto dall’art. 291 comma 2 c.p.p., annulli la misura

cautelare personale, trasmettendo gli atti al giudice territorialmente competente.

Così Cass., Sez. VI, 16 maggio 2005, F. e altro, in C.E.D. Cass., n. 232237.

(177

) In dottrina, per un esame della questione, v. BASSI, I rapporti fra il

giudizio di gravità indiziaria in materia cautelare e il decreto che dispone il

giudizio all’indomani della riforma del giudice unico, in Cass. pen., 2002, p. 3721;

DI BITONTO, Gravi indizi di colpevolezza ex art. 273 comma 1 c.p.p. e decreto che

dispone il giudizio; torna in auge la giurisprudenza meno garantista, in Cass. pen.,

2001, p. 3485; DIOTALLEVI, La possibilità di rivalutare i gravi indizi di

colpevolezza per il reato per cui è stata applicata una misura cautelare dopo

l’emissione del decreto di rinvio a giudizio: le Sezioni unite ricompongono il

quadro giurisprudenziale tra pronunce della Corte costituzionale e arrets di

legittimità, in Cass. pen., 2003, p. 396; GIACCA, In tema di rivalutazione dei gravi

indizi di colpevolezza dopo il rinvio a giudizio, in Cass. pen., 1994, p. 2747;

CAPITOLO QUINTO 136

Già le Sezioni unite Santucci del 1990 si erano poste il

quesito se, in ordine ai provvedimenti de libertate adottati negli atti

preliminari, nel dibattimento, nella sentenza o successivamente a

quest’ultima, fosse consentito al tribunale di verificare, nel merito,

oltre la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. e

l’adeguatezza e proporzionalità delle misure ex art. 275, anche la

sussistenza e la persistenza dei gravi indizi di responsabilità; tuttavia,

in quella sede la questione non venne affrontata, esulando dal thema

decidendum demandato alla Suprema Corte (178

).

Il sopravvenire di un contrasto giurisprudenziale sul tema ha

reso necessario l’intervento delle Sezioni unite che, con la sentenza

Liotta del 1995, hanno condiviso l’orientamento tendente a

ricollegare alla pronuncia del decreto che dispone il giudizio una

preclusione a valutare, in assenza di fatti nuovi sopravvenuti, i gravi

indizi di colpevolezza ex art. 273 c.p.p., enunciando il seguente

principio di diritto: «Il rinvio a giudizio dell’imputato disposto a

conclusione dell’udienza preliminare, implicando un accertamento

positivo della sussistenza di elementi tali da integrare quella

qualificata probabilità di affermazione della responsabilità che è

richiesta perché si possa configurare il requisito dei “gravi indizi di

colpevolezza” di cui all’art. 273 c.p.p., preclude, in assenza di fatti

nuovi sopravvenuti — la cui idoneità a fondare la revoca della

misura cautelare rimane affidata al giudice del dibattimento —, la

possibilità di rimettere in discussione il requisito medesimo» (179

).

Ed infatti, secondo i giudici del Supremo Collegio, il rinvio a

giudizio dell’imputato, disposto a conclusione dell’udienza

preliminare, implica — soprattutto a seguito della modifica dell’art.

425 c.p.p., operata dalla l. n. 105 del 1993, con la soppressione

PRESTIPINO, Sui «limiti» del riesame dopo il rinvio a giudizio, in Giur. it., 1995, II,

c. 478; SANNA, Decreto di rinvio a giudizio e controllo sugli indizi di reità, in Dir.

pen. e proc., 1996, p. 1216; SCOMPARIN, La rivalutazione dei gravi indizi di

colpevolezza dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio: una sentenza

additiva che riscopre alcuni capisaldi del rito penale, in Giur. cost., 1996, p. 687.

(178

) Sez. Un., 23 novembre 1990 - 2 gennaio 1991, n. 11, Santucci,

supra, cap. I, § 2.

(179

) Sez. Un., 25 ottobre - 27 novembre 1995, n. 38, Liotta, in C.E.D.

Cass., n. 202858.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 137

dell’aggettivo «evidente» — un accertamento positivo della

sussistenza di elementi tali da integrare quella qualificata probabilità

di affermazione della responsabilità che è richiesta perché si possa

configurare il requisito della gravità indiziaria di cui all’art. 273

c.p.p. Esso, quindi, va a pieno titolo annoverato tra quelle statuizioni

adottate da organi giurisdizionali nell’ambito dello stesso processo, a

fondamento delle quali è posta, in modo esplicito od implicito, la

sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, le quali, in mancanza di

fatti nuovi sopravvenuti, ne precludono la rivalutazione.

Questa presa di posizione ha fatto sorgere un problema di

compatibilità costituzionale degli artt. 309 e 310 c.p.p., così come

interpretati dalle Sezioni unite.

La Corte costituzionale, investita della questione, mutando

radicalmente la prospettiva del quadro normativo di riferimento, ha

dichiarato costituzionalmente illegittime le citate disposizioni, per

violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono la

possibilità di valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza

quando sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio (180

).

Alla base della soluzione fatta propria dai giudici di Palazzo

della Consulta, vi è la considerazione che solo «ove intervenga una

decisione che in ogni caso contenga in sé una valutazione del merito

di tale incisività da assorbire l’apprezzamento dei gravi indizi di

colpevolezza, potrà dirsi ragionevolmente precluso il riesame di tale

punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi in sede di

impugnative proposte avverso i provvedimenti de libertate».

Partendo da tale premessa, la Corte è pervenuta a risultati

completamente opposti rispetto a quelli conseguiti dalle Sezioni

unite, escludendo che l’atto di rinvio a giudizio possa presentarsi

«come decisione fondata su una valutazione del merito

necessariamente sovrapponibile a quella che inerisce alla verifica del

presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, che legittima

l’applicazione ed il mantenimento delle misure cautelari personali,

con la conseguenza di non poter ritenere assorbita quest’ultima

delibazione nella prima e, dunque, coerentemente precluso il relativo

controllo nella incidentale sede del gravame cautelare».

(

180) Corte cost., 15 marzo 1996, n. 71, in Giur. cost., 1996, p. 669.

CAPITOLO QUINTO 138

Ad avviso del giudice delle leggi, decisiva in tal senso è la

valutazione comparata degli artt. 425 e 530 c.p.p., i quali, se possono

ritenersi fra loro assimilabili in relazione alle ipotesi di prova

positiva dell’innocenza ed a quella speculare di totale assenza di

prova della colpevolezza, di talché la medesima situazione di fatto è

idonea a determinare, su di un piano di sostanziale simmetria, la

sentenza di assoluzione in dibattimento e quella di non luogo a

procedere nell’udienza preliminare, non altrettanto è a dirsi con

riferimento alle ipotesi in cui la prova risulti insufficiente o

contraddittoria. In questo caso, infatti, alla sentenza di assoluzione

imposta dall’art. 530, comma 2, c.p.p. non corrisponde un omologo

per la sentenza di non luogo a procedere, ma una più articolata regola

di giudizio che deve necessariamente tener conto della diversa natura

e funzione che quella pronuncia è destinata a svolgere nel sistema,

ovvero quella di paralizzare la domanda di giudizio formulata dal

magistrato del pubblico ministero.

Da ciò consegue che, ove la prova risulti insufficiente o

contraddittoria, l’adozione della sentenza di non luogo a procedere

può dirsi imposta soltanto nei casi in cui si appalesi la superfluità del

giudizio, vale a dire nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che

l’eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti

per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria.

Ove ciò non accada risulta, invece, scontato il provvedimento di

rinvio a giudizio che, in una simile eventualità, lungi dal rinvenire il

proprio fondamento in una previsione di probabile condanna, si

radica null’altro che sulla ritenuta necessità di consentire, nella

dialettica del dibattimento, lo sviluppo di elementi ancora non

chiariti.

La conclusione cui è pervenuta la Corte costituzionale è che,

in siffatte ipotesi, il decreto che dispone il giudizio non può ritenersi

in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di

colpevolezza ex art. 273 c.p.p., sicché precluderne l’esame nelle

impugnazioni de libertate equivale ad introdurre nel sistema un

limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio ed al tempo

stesso gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 139

nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto quale

è quello della libertà personale.

A seguito della parziale declaratoria d’incostituzionalità degli

artt. 309 e 310 c.p.p., anche la giurisprudenza di legittimità si è

costantemente espressa nel senso che non vi è preclusione alcuna al

riesame dell’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza dopo il rinvio

a giudizio disposto all’esito dell’udienza preliminare.

Nel contesto delle significative novità normative apportate

all’udienza preliminare dalla l. 17 dicembre 1999, n. 479, e di

plurimi interventi del giudice delle leggi (181

), che hanno imposto

un’opportuna rimeditazione dei temi concernenti la funzione

dell’udienza preliminare e lo standard probatorio per il rinvio a

giudizio, si è, però, riproposto nella giurisprudenza di legittimità il

contrasto interpretativo sulla possibilità di valutazione, dopo il rinvio

a giudizio, della gravità degli indizi di colpevolezza richiesti per

l’adozione di una misura cautelare personale.

A fronte dell’indirizzo prevalente, secondo il quale rimane

fermo per il giudice del riesame, anche dopo il decreto di rinvio a

giudizio, il potere-dovere di valutare l’adeguatezza del quadro

indiziario posto a base del provvedimento impugnato (182

), altro

orientamento ha ritenuto, invece, che il decreto che dispone il

giudizio sia suscettibile di assorbire l’apprezzamento dei gravi indizi

di colpevolezza e, in assenza di nuovi elementi, di precludere il

riesame sul punto, poiché esso, nella riformulazione normativa,

costituisce ormai il risultato di un apprezzamento di merito

prognostico di responsabilità, assimilabile e sovrapponibile a quello

di qualificata probabilità di colpevolezza richiesto dall’art. 273

c.p.p. (183

).

Si è, pertanto, reso necessario un nuovo intervento delle

Sezioni unite, le quali, con la sentenza Vottari del 2002, hanno

(

181) Cfr. Corte cost., 12 luglio 2002, n. 335, in Cass. pen., 2003, p.

3357; Id., 6 luglio 2001, n. 224, ivi, 2001, p. 3304; Id., 8 giugno 2001, n. 185, ivi,

2001, p. 2976.

(182

) Cass., Sez. V, 1° luglio 2002, D’Emanuele, in C.E.D. Cass., n.

222989; Id., Sez. I, 27 febbraio 2002, Ndreca Fan, ivi, n. 221551.

(183

) Cass., Sez. II, 15 marzo 2001, Tavanxhiu, in Cass. pen., 2001, p.

3485.

CAPITOLO QUINTO 140

ritenuto che, a seguito delle novità normative introdotte dalla legge n.

479 del 1999, non sia venuta meno la forza cogente del nucleo

centrale e del dictum della pronuncia costituzionale n. 71 del 1996.

Ed invero, secondo il Supremo Collegio, pur essendo

innegabile che, all’interno di un disegno frammentario del

legislatore, gli strappi acceleratori verso un vero e proprio giudizio di

merito, rispetto all’originario carattere di momento di impulso

meramente processuale, hanno influito sulla struttura dell’udienza

preliminare, la regola di diritto per il rinvio a giudizio è rimasta

identica.

Apertis verbis, il radicale incremento dei poteri di cognizione

e di decisione del giudice dell’udienza preliminare, pur legittimando

quest’ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della

probabilità di colpevolezza dell’imputato, non lo ha, tuttavia,

disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione

prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di

successo della prospettazione accusatoria ed all’effettiva utilità della

fase dibattimentale, di cui il legislatore della riforma ha perseguito,

espressamente, una significativa deflazione.

Per altro verso, il combinato disposto degli artt. 273, commi 1

e 1-bis, e 292, comma 2 lett. c-bis) e comma 2-ter, nell’accentuare

l’obbligo della motivazione e la pregnanza delle valutazioni circa la

forte valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, postula

una rigorosa selezione dei casi di esercizio del potere coercitivo,

mediante il riferimento a situazioni indiziarie obiettivamente

consolidate ed idonee a sorreggere il giudizio prognostico di

responsabilità a carico della persona, richiedendosi per le decisioni di

tipo cautelare un approfondito ed incisivo apprezzamento

probabilistico di segno positivo in ordine alla colpevolezza, ancorché

condotto allo stato degli atti e basato non su prove ma su indizi, tale

da superare la tradizionale divaricazione tra le sommarie delibazioni

di tipo indiziario, rilevanti in sede di cautele, ed il giudizio sul merito

dell’accusa riservato alla sede dibattimentale.

Rimane, invece, estranea a quest’ottica ogni valutazione di

strumentale sufficienza dell’atto processuale ad uno scopo, come

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 141

l’utilità del dibattimento per la translatio iudicii disposta mediante il

decreto di rinvio a giudizio.

Non esiste, pertanto, una convergenza biunivoca della

funzione e del giudizio prognostico sottesi al decreto che dispone il

giudizio rispetto alla funzione ed alla prognosi pertinenti al diverso

profilo della gravità indiziaria, ai fini della legittima restrizione della

libertà personale, sembrando evidente, nella logica complessiva del

sistema processuale, che la valutazione contenutistica degli indizi di

colpevolezza ex art. 273 c.p.p. abbia ben altra consistenza qualitativa

e quantitativa rispetto alla regula iuris propria del rinvio a giudizio.

Inoltre, l’assenza di motivazione e la caratteristica di

inoppugnabilità fanno del decreto che dispone il giudizio una

decisione assolutamente inidonea a riverberare la sua efficacia

nell’ambito cautelare, sì da legittimare la restrizione della libertà

personale dell’imputato.

All’esito di questa analisi, le Sezioni unite sono pervenute

alla conclusione — pienamente condivisibile dal punto di vista

logico-giuridico, nonché sistematicamente corretta — secondo cui «il

tribunale del riesame, anche dopo il decreto di rinvio a giudizio per

il reato relativo alla misura cautelare personale, ha il potere-dovere

di valutare l’adeguatezza del quadro indiziario posto a base del

provvedimento impugnato» (184

).

3. Il potere di dare una diversa qualificazione giuridica al

fatto. — Le Sezioni unite si sono pronunciate sul contrasto, insorto

nella giurisprudenza di legittimità, sul se, nell’ambito delle misure

cautelari personali, il tribunale, in sede di riesame o di appello, possa

diversamente qualificare il fatto contestato (185

).

Sulla questione, infatti, la Corte di cassazione, mentre in

alcune pronunce aveva affermato il principio secondo il quale, nel

(

184) Sez. Un., 30 ottobre - 26 novembre 2002, n. 39915, Vottari, in

C.E.D. Cass., n. 222602.

(185

) Sulla questione, DIDDI, In tema di modificabilità dell’accusa in

sede di riesame di provvedimenti custodiali, in Giust. pen., 1994, III, c. 444;

MAINA, Le sezioni unite superano il contrasto con un’estensione analogica del

codice di rito, in Guida dir., 1997, n. 6, p. 63.

CAPITOLO QUINTO 142

corso delle indagini preliminari — e, quindi, sia dinanzi al giudice

per le indagini preliminari, sia dinanzi al tribunale, in sede di riesame

o di appello, ex artt. 309 e 310 c.p.p. —, non è possibile che si dia al

fatto una qualificazione giuridica diversa da quella attribuitagli dal

magistrato del pubblico ministero nella richiesta della misura, in altre

aveva, invece, sostenuto che anche in sede di indagini preliminari è

consentito al giudice di dare al fatto una diversa definizione o

qualificazione giuridica.

Il Supremo Collegio ha ritenuto di far proprio questo secondo

indirizzo interpretativo, ancorando la soluzione del quesito

sottoposto alla sua attenzione al disposto di cui al primo comma

dell’art. 521 c.p.p., il quale, riconoscendo al giudice il potere di dare

al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata

nell’imputazione, esprime un principio di portata generale.

Apertis verbis, la norma in discorso è espressione

dell’indefettibile funzione della giurisdizione di accertare se la

fattispecie concreta sia sussumibile nella fattispecie astratta

ipotizzata, in quanto costituisce intimo corollario dello ius dicere

verificare che fatto e schema legale coincidano e, dunque,

modificare, se occorre, la qualificazione giuridica del fatto

prospettata dal magistrato del pubblico ministero, riconducendo,

così, la fattispecie concreta, anche se a determinati e limitati fini,

nello schema legale che le è proprio.

Argomento contrario a questa conclusione non può trarsi

dalla circostanza che analogo potere non è attribuito al giudice

dell’udienza preliminare dall’art. 423 c.p.p., perché quest’ultima

disposizione si interessa del «fatto», intendendo per «fatto un dato

empirico, fenomenico, un dato della realtà, un accadimento, un

episodio della vita umana, cioè la fattispecie concreta e non la

fattispecie astratta e non, se si vuole, lo schema legale nel quale

collocare quell’episodio della vita umana».

Affermare che il giudice dell’udienza preliminare non possa

dare al fatto una diversa qualificazione giuridica sul presupposto che

la norma in questione attribuisce soltanto all’organo dell’accusa

questo potere, significa affermare cosa non rispondente al vero; la

norma, infatti, conferisce al magistrato del pubblico ministero, e

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 143

soltanto a lui, il potere di modificare il fatto, sicché il magistrato è

l’esclusivo dominus del fatto come fattispecie concreta, ma non

anche l’esclusivo dominus del fatto come fattispecie astratta.

Ed è sotto quest’ultimo profilo che assume decisiva rilevanza

il primo comma dell’art. 521, il quale consente di cogliere con

esattezza che la qualificazione giuridica del fatto è cosa ben diversa

dal fatto, dalla fattispecie concreta. In altri termini, modificare la

definizione giuridica del fatto non solo non significa modificare il

fatto, ma non significa neppure modificare l’imputazione, se è vero

che la correlazione tra l’imputazione e la sentenza resta in tutta la sua

pienezza anche se viene data al fatto una diversa qualificazione

giuridica.

Se, dunque, dare una diversa qualificazione giuridica del fatto

vuol dire, in ultima analisi, applicare esattamente la legge, non può

non riconoscersi che nell’udienza preliminare debba farsi luogo

all’applicazione analogica della norma dell’art. 521 c.p.p., in quanto

norma che esprime un valore che non può non essere di portata

generale.

La stessa soluzione — come ritenuto dal Supremo Collegio

— si impone anche per i procedimenti de libertate e, a maggior

ragione, per quelli — che, tra gli stessi, sono i più numerosi — che si

svolgono nella fase delle indagini preliminari, in cui, peraltro, non vi

è ancora un’imputazione formulata dal magistrato del pubblico

ministero, ma una richiesta contenente, spesso, addebiti provvisori ed

anche sommari.

Il problema della possibilità di dare al fatto una diversa

qualificazione o definizione giuridica si pone, comunque, anche per i

procedimenti sulle misure che si svolgono in fasi procedimentali

diverse dalle indagini preliminari. L’autonomia del giudice del

procedimento che ha ad oggetto le misure cautelari, procedimento

che, oltre tutto, vede investito del riesame o dell’appello un giudice

che nel processo non ha avuto e non ha alcun ruolo, non può non

essere «autonomia completa» che gli consenta, senza che egli tocchi

minimamente il fatto, di definirlo, di qualificarlo, a quei fini, in modo

diverso da come gli è stato prospettato nella richiesta, anche se con

CAPITOLO QUINTO 144

l’accortezza di chi deve prendere atto che del fatto è stato già

vagliato anche lo schema legale.

In ogni caso, la correzione della qualificazione giuridica non

va oltre il procedimento incidentale de libertate.

Di qui, l’enunciazione del seguente principio di diritto: «Nel

pronunciare sull’istanza di riesame o sull’appello in materia di

misure cautelari personali, il tribunale può dare al fatto una

qualificazione giuridica diversa da quella indicata dal magistrato

del pubblico ministero nella richiesta di applicazione della misura,

con effetti circoscritti all’ambito del procedimento incidentale de

libertate» (186

).

La conclusione cui sono prevenute le Sezioni unite e le

argomentazioni addotte a sostegno della stessa sono pienamente

condivisibili; la tutela della libertà personale abbisogna di una

giurisdizione che si esplichi in tutte le sue prerogative e di un giudice

che eserciti, nella pienezza dei suoi poteri, il ruolo di garante della

libertà dell’indagato o dell’imputato. Sotto questo profilo, non gli

può essere in alcun modo preclusa la possibilità, coessenziale alla

stessa funzione giurisdizionale, di controllare la correttezza della

qualificazione giuridica data al fatto dal magistrato del pubblico

ministero.

Successivamente alla sentenza in esame, la prevalente

giurisprudenza si è conformata al dictum delle Sezioni unite (187

);

tuttavia, non sono mancate pronunce che hanno continuato ad

escludere che il giudice, in sede di riesame o appello de libertate,

possa procedere alla modificazione della qualificazione giuridica del

fatto, a meno che l’esigenza di tale modifica possa essere soddisfatta

senza bisogno di ulteriori indagini (188

).

(

186) Sez. Un., 19 giugno - 22 ottobre 1996, n. 16, Di Francesco, in

C.E.D. Cass., n. 205617.

(187

) Cfr. Cass., Sez. VI, 11 marzo 2003, Ceglia, in C.E.D. Cass., n.

225216; Id., Sez. II, 20 ottobre 1999, Schettino, ivi, n. 216348.

(188

) Così Cass., Sez. V, 15 luglio 1999, Conti, in C.E.D. Cass., n.

214481.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 145

4. L’inapplicabilità del principio del tantum devolutum

quantum appellatum. — Le Sezioni unite, chiamate a pronunciarsi

su un contrasto giurisprudenziale in materia di concorso eventuale

nel reato associativo, hanno avuto modo di precisare, alla luce del

chiaro tenore letterale del sesto comma dell’art. 309 c.p.p., che, «in

tema di riesame di misure cautelari, non è applicabile la particolare

disposizione dell’art. 581 lett. c) c.p.p., che impone, a pena di

inammissibilità, l’indicazione dei motivi di impugnazione

contestualmente alla presentazione del gravame» (189

).

Al riesame non si applica, dunque, il principio del tantum

devolutum quantum appellatum, stante la facoltatività, prevista dal

citato sesto comma dell’art. 309 c.p.p., della indicazione dei motivi a

sostegno dell’impugnazione proposta (190

).

Secondo una parte della dottrina, l’inapplicabilità del

principio devolutivo renderebbe il riesame un vero e proprio novum

iudicium, giacché l’estensione automatica ed integrale ad ogni profilo

della fattispecie cautelare trarrebbe solo occasione dalla attivazione

della procedura, ma non sarebbe ancorata ai temi di trattazione

delimitati dalla domanda introduttiva. Il riesame, in altri termini,

rappresenterebbe il paradigma esemplare del «gravame puro», di

quella categoria di impugnazioni, cioè, caratterizzata dal

trasferimento integrale della cognitio causae, affinché sia ridecisa ex

novo (191

).

(

189) Sez. Un., 5 ottobre - 28 dicembre 1994, n. 16, Demitry, in C.E.D.

Cass., n. 199388.

(190

) Cfr., sul punto, tra gli altri, BASSI-EPIDEMIO, Guida alle

impugnazioni dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 825; CORDERO, Procedura

penale, cit., p. 543; CORSO, Le misure cautelari, in AA. VV., Manuale di procedura

penale, Bologna, 2006, p. 313; FERRAIOLI, Il riesame dei provvedimenti sulla

libertà personale, Milano, 1989, p. 588; GREVI, Misure cautelari, cit., loc. cit.;

TONINI, Manuale di procedura penale, Milano, 2006, p. 373; ZAPPALÀ, Le misure

cautelari, cit., p. 472.

(191

) In tal senso, v. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 541, il quale

osserva che con il termine «gravame» i vecchi proceduristi denominavano l’atto

che devolve al secondo giudice l’intera res iudicanda, con la conseguenza che la

decisione anteriore scade a precedente storico, dissolta dall’impugnante, e il caso

va deciso ex novo. Secondo l’A. nel nostro sistema sono qualificabili «gravami»

l’opposizione a decreto penale di condanna ed il riesame, mentre l’appello è un

CAPITOLO QUINTO 146

Questa impostazione, tuttavia, non è stata ritenuta pienamente

condivisibile.

La mera facoltatività di presentazione dei motivi non è,

infatti, peculiarità sufficiente per configurare l’istituto quale giudizio

ex novo sulla domanda cautelare; non basta l’ampiezza e la portata

degli spazi cognitivi oltre i limiti segnati dagli errori allegati alla

domanda per riportare l’organo decidente nella stessa posizione del

giudice che ha emesso l’ordinanza coercitiva.

La riprova dell’assunto sta nella constatazione che tra i poteri

decisori del tribunale del riesame non rientra quello di modificare, in

senso più sfavorevole all’imputato, il provvedimento cautelare

sottoposto al suo sindacato. Tale limite cognitivo impedisce di

concepire il riesame quale novum iudicium, consentendo di

ricondurlo più correttamente nella categoria dei controlli incidentali

sui provvedimenti de libertate.

Quindi, se è vero che il collegio giudicante abbia il compito

di sottoporre al suo vaglio critico l’intero percorso logico-giuridico

che ha condotto all’applicazione della misura, riesaminando i

presupposti, le condizioni ed i criteri di scelta della misura, è anche

vero che ciò avviene esclusivamente nell’interesse del ricorrente,

cosicché il tratto distintivo dell’istituto non sta tanto nella

inoperatività del tantum devolutum quantum appellatum, quanto

piuttosto nello scopo di assicurare la salvaguardia dei diritti primari

della persona (192

).

5. I limiti all’applicabilità dell’effetto estensivo. — Le

Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla questione

relativa all’applicabilità alle impugnazioni proponibili contro i

provvedimenti de libertate dell’effetto estensivo previsto dall’art.

587 c.p.p.

istituto ibrido: «mira a giudizi sul merito e la nuova decisione sostituisce

l’appellata, sciogliendo l’alternativa conferma-riforma, ma occorrono dei motivi»

che misurano l’effetto devolutivo.

(192

) Per ulteriori considerazioni in tal senso si rinvia a PIERRO, Il

giudicato cautelare, cit., p. 157.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 147

Sul tema, la giurisprudenza della Corte di cassazione si era

ripartita in tre indirizzi.

Un primo orientamento aveva risolto positivamente la

questione, ritenendo che, se viene proposto un mezzo di

impugnazione avverso un provvedimento che incide sulla libertà

personale di più coindagati e tale gravame sia presentato solo da

alcuni di questi, l’eventuale accoglimento dell’impugnazione, con il

conseguente annullamento del titolo della custodia cautelare, spiega

effetto anche nei confronti del non impugnante, purché il motivo

posto a base dell’annullamento non sia riferibile alla posizione del

singolo indagato (193

).

Altro indirizzo, invece, aveva negato ogni effetto estensivo

automatico, ammettendo, talvolta, che la nuova situazione, scaturente

dall’accoglimento dell’impugnazione del soggetto diligente, potesse

integrare un elemento idoneo a fondare un provvedimento di revoca

della misura cautelare (194

).

In senso intermedio, si era ammesso l’effetto estensivo della

decisione solo qualora il procedimento incidentale, di riesame o di

appello, fosse sorto cumulativamente e fosse stato proseguito dal

solo soggetto diligente.

Le Sezioni unite hanno mostrato di condividere quest’ultimo

orientamento.

Posta la distinzione tra «effetto estensivo dell’impugnazione»

— che consente, ove possibile, anche al soggetto non impugnante di

partecipare al giudizio di impugnazione — ed «effetto estensivo della

decisione» — che rende operanti, sussistendone le condizioni, anche

per il soggetto non impugnante, gli effetti favorevoli della decisione

stessa, nonostante sia rimasto estraneo al giudizio di impugnazione

—, il Supremo Collegio ha, innanzitutto, escluso che, in materia de

libertate, possa operare il primo, sostenendo che la disciplina

delineata dagli artt. 309, 310 e 311, per la peculiarità di strutture e

per la rapidità delle relative decisioni, risulta incompatibile con

(

193) Cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 26 giugno 1995, Scirocco, in C.E.D.

Cass., n. 202798.

(194

) Cass., Sez. I, 29 settembre 1995, Raffa, in C.E.D. Cass., n. 202743.

CAPITOLO QUINTO 148

l’estensione dell’impugnazione proposta dal coindagato diligente ai

coindagati estranei al procedimento.

Tuttavia, nell’ipotesi di procedimento incidentale che sorga e

si svolga in modo unitario e cumulativo è sempre possibile, «sulla

base dei principi propri dell’ordinamento processuale, estendere,

ove ne ricorrano i presupposti, gli effetti favorevoli della decisione,

purché non fondata su motivi personali di uno degli impugnanti, ad

altro coindagato nello stesso procedimento» (195

).

Questo principio di diritto è stato seguito dalla prevalente

giurisprudenza di legittimità, che ha ritenuto che il presupposto per

l’operatività dell’effetto estensivo della decisione sia costituito dalla

circostanza che il procedimento incidentale si svolga in modo

unitario e cumulativo, in quanto l’estensione riguarda la posizione di

coloro che non abbiano preso parte al procedimento per non aver

neppure proposto l’impugnazione o perché il loro gravame sia stato

dichiarato inammissibile (196

).

Non sono mancate, però, pronunce nel senso che la

frammentazione del procedimento, derivante dalla diversità dei

mezzi di impugnazione proposti, non preclude l’estensione degli

effetti favorevoli della decisione, allorché il vizio del provvedimento

cautelare sia così radicale da essere necessariamente comune a tutti i

coindagati (197

).

Sul punto, in dottrina (198

), si è sostenuto che nessun elemento

autorizza un’impostazione per la quale la condizione di operatività

dell’art. 587 c.p.p., in relazione all’effetto estensivo delle decisioni in

bonam partem in materia di provvedimenti de liberate, sarebbe

condizionata dalla presenza d’un procedimento cumulativo,

risultando esclusa nelle altre ipotesi; fermo restando quanto disposto

(

195) Sez. Un., 22 novembre 1995 - 15 febbraio 1996, n. 41, Ventura ed

altro, in C.E.D. Cass., n. 203635.

(196

) Cfr. Cass., Sez. II, 14 dicembre 1999, Bonforte, in C.E.D. Cass., n.

216353.

(197

) Cass., Sez. V, 24 marzo 2004, Monteforte, in C.E.D. Cass., n.

229193.

(198

) SPANGHER, Prime riflessioni su di un tema complesso: l’effetto

estensivo dell’impugnazione e l’effetto estensivo della decisione dei gravami de

libertate, in Cass. pen., 1996, p. 3389.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 149

dalle Sezioni unite nel caso di procedimento avviatosi e sviluppatosi

cumulativamente, nel qual caso l’eventuale carente applicazione

dell’art. 587 c.p.p. resta inserita nella vicenda processuale, così da

poter essere fatta valere anche con il gravame, nelle altre ipotesi

l’effetto estensivo della pronuncia può essere riconosciuto dal

giudice con la sua decisione nel procedimento di gravame ovvero

essere sollecitato dal coimputato non impugnante in via autonoma.

6. I limiti di ammissibilità della motivazione per

relationem. — Le Sezioni unite, chiamate a risolvere un contrasto

giurisprudenziale in ordine all’interpretazione del disposto di cui al

comma 3 dell’art. 268 c.p.p., hanno avuto modo di chiarire i limiti

entro i quali risulta legittimo motivare per relationem il

provvedimento conclusivo del giudizio di riesame (199

).

L’ammissibilità del ricorso alla motivazione per relationem,

in materia di impugnazioni de libertate, è stata riconosciuta dalle

Sezioni unite Moni del 1996 (200

), le quali hanno affermato che

l’ordinanza applicativa della misura e quella che decide sulla

richiesta di riesame sono tra loro strettamente collegate e

complementari, sicché la motivazione del tribunale del riesame

integra e completa l’eventuale carenza di motivazione del

(

199) In generale, sul tema della motivazione dell’ordinanza di riesame,

v. AMATO, sub art. 309, cit., p. 202; CERESA GASTALDO, Il riesame delle misure

coercitive nel processo penale, cit., p. 183; ID., Il riesame sulla legittimità

dell’ordinanza cautelare: cade il teorema della «motivazione integratrice», in

Cass. pen., 1995, p. 1917; CONFALONIERI, Requisiti essenziali della motivazione

della decisione del tribunale della libertà, in Giur. it., 1994, II, c. 92; GIOSTRA,

Commento all’art. 9 della legge n. 332 del 1995, in AA. VV., Modifiche al codice

di procedura penale, cit., p. 133; ILLUMINATI, Presupposti delle misure cautelari e

procedimento applicativo, cit., p. 105; NAPPI, Vizio di motivazione dell’ordinanza

coercitiva e ricorso immediato per Cassazione, in Cass. pen., 1998, p. 882;

ORLANDI, Riesame del provvedimento cautelare privo di motivazione, in Cass.

pen., 1996, p. 1521; TURCO, La motivazione dell’ordinanza di riesame: limiti al

potere di integrazione, in Cass. pen., 2001, p. 3096; VERRINA, La motivazione

nelle decisioni del tribunale della libertà, in Cass. pen., 1995, p. 1570;

VESSICHELLI, nota a Cass., Sez. V, 22 aprile 1997, Pallesca, in Cass. pen., 1998, p.

565.

(200

) V. supra, cap. III, § 7.

CAPITOLO QUINTO 150

provvedimento del primo giudice e, viceversa, la motivazione

insufficiente del giudice del riesame può ritenersi integrata da quella

del provvedimento impugnato, allorché, in quest’ultimo, siano state

indicate le ragioni logico-giuridiche che, ai sensi degli artt. 273, 274

e 275 c.p.p., ne hanno determinato l’emissione.

Si tratta di un orientamento ben radicato nella giurisprudenza

di legittimità, teso a consentire al giudice del riesame di motivare il

suo provvedimento facendo riferimento all’ordinanza impositiva che

ha dato luogo all’impugnazione, atto, quest’ultimo, certamente

conosciuto dalle parti (201

).

Un indirizzo più rigoroso, pur senza negare la legittimità

della motivazione per relationem, ha, tuttavia, precisato che, se

l’ordinanza del tribunale della libertà può fare riferimento a quanto

indicato in altri provvedimenti al fine di evitare la ripetizione di

elementi già conosciuti dalle parti, il mero appiattimento del giudice

su valutazioni emergenti da altro provvedimento, senza alcun apporto

critico e senza la presa in considerazione delle specifiche doglianze

rivolte dagli interessati al provvedimento oggetto dell’impugnazione,

concreta il vizio di mancanza della motivazione di cui all’art. 606

lett. e) c.p.p.; e ciò perché, in materia cautelare, vige il principio

secondo cui l’obbligo di esporre i motivi per i quali non sono stati

ritenuti rilevanti gli elementi addotti dalla difesa, previsto dall’art.

292, comma 2, lett. c-bis) c.p.p., è imposto sia al giudice che

pronuncia l’ordinanza applicativa della misura cautelare, sia al

tribunale del riesame, quando in tal sede detti elementi siano stati

prospettati (202

).

È questa la prospettiva che ha sposato di recente il Supremo

Collegio, considerando «illegittimo il provvedimento conclusivo del

giudizio di impugnazione cautelare che sia genericamente motivato

con un rinvio al provvedimento impugnato; la motivazione per

relationem, ad avviso dei giudici di legittimità, può svolgere

esclusivamente una funzione integrativa, inserendosi in un contesto

(

201) Cfr., ex multis, Cass., Sez. V, 7 novembre 1996, Perrone, in C.E.D.

Cass., n. 206570; Id., Sez. I, 7 febbraio 1995, Magliocco, ivi, n. 200930.

(202

) Così Cass., Sez. II, 28 novembre 1997, Costanzo, in C.E.D. Cass.,

n. 209601.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 151

che disattende i motivi di gravame con un richiamo ad accertamenti

e ad argomenti contenuti nel provvedimento impugnato, ma non può

costituire una sostanziale vanificazione del mezzo di impugnazione

attraverso un generale e generico rinvio a quel provvedimento» (203

).

In tale senso risulta orientata anche la più recente

giurisprudenza, che ha fatto propria la soluzione adottata dalle

Sezioni unite, soluzione che si presenta come l’unica in grado di

assicurare appieno la garanzia della motivazione e, attraverso di essa,

la garanzia della giurisdizione.

Non si può non convenire sull’affermazione secondo cui

l’obbligo di motivazione risulta inadempiuto allorquando la

motivazione dell’ordinanza si risolva nel mero richiamo alle

argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, omettendo la

valutazione delle doglianze contenute nella richiesta di riesame; un

simile apparato motivazionale, infatti, finisce per vanificare la

garanzia del doppio grado di giurisdizione, facendo venir meno lo

stesso oggetto del procedimento di riesame, costituito dalla revisione

critica della precedente statuizione, alla luce dei rilievi svolti dal

ricorrente (204

).

7. La condanna del soccombente al pagamento delle spese

del procedimento di riesame. — Si è molto discusso se il principio

generale fissato dall’art. 592, comma 1, c.p.p., secondo cui «con il

provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l’impugnazione,

la parte privata che l’ha proposta è condannata alle spese del

(

203) Sez. Un., 26 novembre 2003 - 19 gennaio 2004, n. 23, Gatto, in

C.E.D. Cass., n. 226488. In senso analogo già si era espressa Sez. Un., 22 marzo -

2 maggio 2000, n. 11, Audino, supra, cap. II, § 3.

(204

) Cass., Sez. I, 1° ottobre 2004, in C.E.D. Cass., n. 231022. Cfr.

anche Cass., Sez. IV, 16 febbraio 2005, n. 19338, B. e altro, ivi, n. 231554, in cui si

afferma che in tema di motivazione dei provvedimenti cautelari, il giudice del

riesame, in particolare nei procedimenti complessi nei quali è necessario

individuare le relazioni intercorrenti tra molti soggetti e confrontare risultati

probatori di diverso genere (intercettazioni, sequestri, pedinamenti, etc.), non può

limitarsi ad una mera elencazione, sia pure di tipo ricostruttivo, degli elementi di

prova acquisiti, ma deve valutare il compendio fattuale al fine di poter affermare la

gravità indiziaria che costituisce il presupposto dell’applicazione della misura.

CAPITOLO QUINTO 152

procedimento», trovi applicazione anche con riguardo alle

impugnazioni de libertate (205

).

Una parte della giurisprudenza di legittimità ha seguito un

orientamento negativo, affermando che «posto che l’art. 592 c.p.p.

prevede e disciplina la condanna alle spese nei ―giudizi‖ di

impugnazione, nel presupposto, quindi, di una soccombenza rispetto

all’azione penale esercitata dalla pubblica accusa, mentre la

decisione adottata dal tribunale del riesame, difettando il suddetto

presupposto, non è qualificabile come vero e proprio ―giudizio‖, ma

come semplice accertamento limitato alla misura cautelare

considerata, che si colloca all’esito di un procedimento meramente

incidentale, ne deriva che è illegittima la condanna dell’imputato al

pagamento delle spese processuali nel caso di conferma, da parte del

tribunale, dell’ordinanza oggetto della richiesta di riesame» (206

).

Secondo l’opposto orientamento, «in materia di condanna alle

spese ed eventualmente alla sanzione pecuniaria nella fase di

legittimità, poiché è indubbia la natura di mezzi di impugnazione sia

dell’istanza di riesame, sia dell’appello, sia del ricorso per cassazione

proposti avverso i provvedimenti cautelari o probatori, proprio la

mancanza di una normativa specifica rende applicabili i principi

generali stabiliti al riguardo per le impugnazioni in genere e per il

ricorso di cassazione in particolare» (207

).

Le Sezioni unite, investite del contrasto giurisprudenziale,

hanno sposato quest’ultimo indirizzo, prendendo le mosse dal rilievo

che il legislatore, inserendo il riesame, al pari dell’appello e del

ricorso per cassazione avverso le ordinanze in tema di misure

cautelari, nel capo VI del libro IV del nuovo codice di rito, intitolato

«Delle impugnazioni», gli ha espressamente conferito la natura di

mezzo d’impugnazione, ancorché la disciplina di tale rimedio

(

205) Sul tema v. PEREGO, Nel procedimento di riesame, con l’ordinanza

che conferma il provvedimento cautelare l’impugnante è condannato al pagamento

delle spese processuali, in Foro ambr., 2000, p. 504.

(206

) Cass., Sez. I, 13 luglio 1994, Ietro, in C.E.D. Cass., n. 199357; Id.,

Sez. I, 17 giugno 1993, Perrone, ivi, n. 194744.

(207

) Cass., Sez. III, 13 gennaio 1995, Madonna, in C.E.D. Cass., n.

202381; Id., Sez. VI, 3 giugno 1994, Metrangolo, ivi, n. 199537; Id., Sez. VI, 22

dicembre 1993, Chianese, ivi, n. 197374.

I POTERI COGNITIVI E DELIBERATIVI 153

presenti indubbi profili di atipicità per quanto concerne la brevità dei

termini, la semplificazione del procedimento, la non necessaria

formulazione dei motivi, la deroga al principio devolutivo ed infine

la perdita di efficacia della misura se la pronunzia non intervenga in

un termine perentorio.

Da siffatto inquadramento consegue che, per quanto non

espressamente regolato e nei limiti della compatibilità con gli

specifici caratteri del riesame, a quest’ultimo si estendono le

disposizioni generali sulle impugnazioni.

Occorre allora indagare se, anche alla luce del principio della

compatibilità, sia estensibile al rimedio in discorso il disposto di cui

all’art. 592 c.p.p.

Il Supremo Collegio ha risposto positivamente al quesito

sulla base dei seguenti argomenti: 1) l’art. 592, comma 1, c.p.p.

collega la condanna alle spese a qualsiasi «provvedimento» con il

quale l’impugnazione venga respinta o dichiarata inammissibile, con

un’espressione certamente ampia, comprensiva sia delle sentenze che

delle ordinanze; 2) il riferimento al «giudizio di impugnazione»,

contenuto nei commi secondo e terzo dell’articolo in esame, è, di per

sé solo, inidoneo a delimitare l’ampia portata del primo comma,

riferendosi le dette norme ad ipotesi particolari, quale la riforma della

sentenza di assoluzione di primo grado, ovvero l’intervento dei

coimputati non impugnanti nel caso di un possibile effetto estensivo

dell’impugnazione proposta; 3) la formulazione letterale del comma

1 dell’art. 592 è identica a quella dell’art. 616, prima parte, c.p.p., il

quale enuncia una regola, la cui estensibilità anche ai ricorsi avverso

i provvedimenti de libertate costituisce un dato pacifico.

Inoltre, le Sezioni unite, in ordine alla compatibilità del

disposto di cui al primo comma dell’art. 592 c.p.p. con la particolare

natura di impugnazione atipica propria del procedimento di riesame,

hanno osservato che, ai sensi di questa norma, interpretata anche alla

stregua dell’art. 616 c.p.p., la condanna alle spese processuali poggia

su due presupposti, rispettivamente integrati dal dover essere tale

statuizione contenuta in un provvedimento definitivo, per tale

intendendosi quello che concluda il procedimento dinanzi al giudice

che ne è stato investito, e dalla soccombenza, costituito dal mancato

CAPITOLO QUINTO 154

accoglimento dell’impugnazione proposta. Ebbene, entrambi tali

presupposti ricorrono rispetto all’ordinanza di rigetto o di

inammissibilità pronunziata dal tribunale in esito del giudizio di

riesame; anche tale ordinanza, infatti, esaurisce in via definitiva il

procedimento incidentale, il quale, pur inserendosi in quello

principale, presenta un’indubbia autonomia quanto all’oggetto ed alle

finalità; lo stesso provvedimento, peraltro, attraverso la declaratoria

di rigetto o di inammissibilità della richiesta di riesame, determina la

soccombenza dell’istante.

La Corte ha concluso, quindi, affermando che, «poiché il

riesame ha natura di mezzo di impugnazione, deve trovare

applicazione, anche con riguardo ad esso, il principio generale

fissato in materia di spese dall’art. 592, primo comma, c.p.p.;

pertanto, atteso che l’ordinanza di rigetto o di inammissibilità del

gravame, pronunziata dal tribunale, esaurisce in via definitiva il

procedimento incidentale e determina la soccombenza dell’istante,

legittimamente viene disposta, in tale provvedimento, la condanna al

pagamento delle spese processuali» (208

).

Questa soluzione esegetica si presenta sistematicamente

ineccepibile, per la piena compatibilità della statuizione sulle spese

con i provvedimenti di rigetto o di inammissibilità pronunciati

all’esito della procedura di riesame.

(

208) Sez. Un., 5 - 20 luglio 1995, n. 26, Galletto, in C.E.D. Cass., n.

202014.

Capitolo Sesto

IL GIUDICATO CAUTELARE

SOMMARIO: 1. L’operatività del principio del ne bis in idem rispetto al

provvedimento impositivo a seguito di riesame nel merito. — 2. L’effetto

preclusivo dei provvedimenti de libertate. — 3. L’individuazione dei

caratteri del giudicato cautelare. — 4. Gli effetti preclusivi della decisione

sull’appello del magistrato del pubblico ministero avverso l’ordinanza di

rigetto della richiesta di misura cautelare personale. — 5. Considerazioni

conclusive sul giudicato cautelare.

1. L’operatività del principio del ne bis in idem rispetto al

provvedimento impositivo a seguito di riesame nel merito. — La

nozione di giudicato cautelare rappresenta una delle più evidenti

espressioni di giurisprudenza creativa, trattandosi di un fenomeno

elaborato dalla giurisprudenza di legittimità nella sua opera esegetica

della disciplina delle impugnazioni de libertate, a fronte di

un’evidente lacuna normativa (209

). Sono state, in particolare, le

(

209) In dottrina, sul concetto di giudicato cautelare, v. APRILE, Recenti

orientamenti interpretativi della Corte di cassazione in tema di «tribunale di

libertà», in Nuovo dir., 1994, II, p. 973; ARRIGO, Il giudicato allo stato degli atti

nelle misure cautelari, in Giur. it., 1996, II, c. 669; BARGIS, Procedimento de

libertate e giudicato cautelare, in AA. VV., Presunzione di non colpevolezza e

disciplina delle impugnazioni, Atti del Convegno dell’Associazione tra gli studiosi

del processo penale tenutosi a Mattinata 25-27 settembre 1998, Milano, 2000, p.

183; ID., Procedimento de libertate e giudicato cautelare, in Gazz. Giur., 1998, f.

42, p. 1; BONSIGNORE, Operatività del ne bis in idem in tema di revoca o

sostituzione di misure cautelari personali e reiterabilità delle relative istanze, in

Arch. nuova proc. pen., 1993, p. 444; CERESA GASTALDO, Sulla persistenza

dell’interesse all’impugnazione dei provvedimenti cautelari revocati, cit., loc. cit.;

CONFALONIERI, Ne bis in idem in materia di misure cautelari, in Giur. it., 1993, II,

c. 215; GAZZANIGA, Sopravvenienza di elementi a carico dell’imputato prosciolto

in primo grado e applicabilità delle misure cautelari alla luce del principio ne bis

in idem, in Cass. pen., 1996, p. 2666; GIRONI, Revoca o sostituzione di misure

cautelari e reiterabilità delle relative istanze secondo il nuovo codice di rito

penale, in Foro it., 1991, II, c. 147; GRADILONE, Aspetti problematici del rapporto

fra richiesta di revoca e richiesta di riesame delle misure cautelari personali, in

Giust. pen., 1994, III, c. 258; LACCHI, Il ne bis in idem cautelare nei reati

CAPITOLO SESTO 156

Sezioni unite, con una serie di pronunce aventi ad oggetto la

risoluzione di questioni interpretative poste dalla disciplina dettata

dall’art. 309 c.p.p., a definire i caratteri e delineare i limiti del c.d.

giudicato cautelare.

L’elaborazione giurisprudenziale del concetto di giudicato

cautelare, ovvero della preclusione da bis in idem derivante dai

provvedimenti cautelari, rinviene il suo primo tassello in una

sentenza con cui le Sezioni unite hanno dato il via ad una riflessione

giurisprudenziale, destinata ad essere sottoposta a successive

precisazioni e ripensamenti, sempre ad opera del massimo consesso

giurisdizionale.

Il contrasto giurisprudenziale, del quale è stato investito il

Supremo Collegio, attiene alla reiterabilità o meno, in assenza di

apprezzabili mutamenti dei presupposti di fatto, dei provvedimenti

cautelari relativamente ai quali si sia verificata la condizione che ne

determina la perdita di efficacia ai sensi dell’art. 309, comma 10,

c.p.p., in conseguenza dell’inosservanza del termine di cui al

precedente comma 9.

Nel caso affrontato dalla Corte, a seguito della declaratoria di

inefficacia della misura della custodia cautelare in carcere ex art. 309

comma 10 c.p.p., il giudice per le indagini preliminari, ritenendo che

non sussistesse alcuna preclusione in tal senso, disponeva

associativi, in Giur. it., 2000, p. 2142; LAVARINI, Revoca e riesame delle misure

coercitive, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, p. 534; LORUSSO, Una impropria

utilizzazione del concetto di giudicato penale: il cd. ne bis in idem cautelare, in

Cass. pen., 1994, p. 648; MONACO, Il cd. giudicato cautelare. Caratteri in breve,

in Cass. pen., 1996, p. 870; PIERRO, Il giudicato cautelare, cit., p. 232; POTETTI,

Riesame, appello e revoca in tema di misure cautelari: una convivenza difficile, in

Cass. pen., 1994, p. 2934; PRESTIPINO, Sulla reiterabilità di una misura cautelare

già revocata, in Giur. it., 1992, II, c. 680; RIVELLO, Il giudicato cautelare e le

interconnessioni tra processo penale comune e processo penale militare, in Cass.

pen., 1996, p. 2677; SPAGNOLO, I poteri cognitivi e decisori del tribunale della

libertà investito dell’appello de libertate del pubblico ministero: i confini tra

devolutum e decisum, in Cass. pen., 2004, p. 2756; SPANGHER, Le Sezioni Unite

sui rapporti tra riesame e richiesta di revoca dei provvedimenti cautelari, in Dir.

pen. proc., 1995, p. 69; VESSICHELLI, osservazioni a Cass., Sez. un., 12 ottobre

1993, Durante, cit., loc. cit.; ID., osservazioni a Cass., Sez. un., 1° luglio 1992,

Grazioso, in Cass. pen., 1992, p. 2998.

IL GIUDICATO CAUTELARE 157

nuovamente la misura custodiale caducata, «osservando che i gravi

indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari già posti a fondamento

del primo provvedimento coercitivo non solo persistevano immutati

ma avevano trovato conferma nelle indagini successivamente

espletate».

Veniva, conseguentemente, denunciata dai ricorrenti

l’illegittimità della reiterazione del provvedimento restrittivo

riconosciuto inefficace per violazione dell’art. 309, comma 9, c.p.p.,

perché non consentita dall’ordinamento giuridico processuale, che

non la contempla tra le ipotesi in cui è ammessa la riadozione di un

provvedimento cautelare perento.

Ed invero, la questione aveva già costituto oggetto di opposte

soluzioni adottate dalle Sezioni semplici della Suprema Corte.

In un primo senso, si era negata la reiterabilità, salvo che per

la sopravvenienza di fatti nuovi, della misura cautelare caducata per

effetto della inosservanza del termine stabilito per l’espletamento

della procedura di riesame, invocando il «principio di tassatività dei

casi in cui la legge prevede che possano essere emesse misure

cautelari personali», enunciato dall’art. 272 c.p.p.; se ne era dedotto

che il ripristino di una misura cautelare estinta per inosservanza o

scadenza di un termine può essere consentito solo in presenza di una

esplicita previsione normativa, come stabilito dagli artt. 302, 305

comma 2 e 307 comma 1 c.p.p., altrimenti verrebbe ad essere del

tutto frustrato lo scopo garantistico perseguito dal legislatore con la

previsione dell’effetto caducatorio collegato alla inosservanza del

termine, in quanto la caducazione resterebbe vanificata mediante

l’emanazione di un nuovo provvedimento identico al precedente e

basato sui medesimi presupposti (210

).

Di diverso avviso, altro orientamento giurisprudenziale aveva

evidenziato l’inesistenza di qualsivoglia disposizione che, nella

fattispecie in esame, vieti, ancorché in modo implicito, la

reiterazione, come invece si verifica, ad esempio, nel caso della

intervenuta decorrenza dei termini di custodia cautelare, al di fuori

delle ipotesi di reiterabilità contemplate dal comma 2 lett. a) e b)

(

210) Cass., Sez. I, 3 ottobre 1991, Amoruso, in C.E.D. Cass., n. 188477.

CAPITOLO SESTO 158

dell’art. 307 c.p.p. (211

). Si era, in quest’ottica, proceduto alla

distinzione tra l’ipotesi di pronuncia giurisdizionale che abbia

escluso la sussistenza dei presupposti e delle condizioni di cui agli

artt. 273 e 274 c.p.p., pronuncia che esclude, alla luce del principio

del ne bis in idem, la reitarabilità della misura, e quella del tutto

diversa in cui la misura coercitiva sia rimasta caducata per ragioni

puramente formali, non implicanti un giudizio sulla sussistenza delle

condizioni normativamente richieste per l’emissione dei

provvedimenti cautelari, nel qual caso la reiterabilità della misura

trova fondamento normativo nell’art. 302 c.p.p., che esprime un

principio di portata generale e, pertanto, applicabile a tutte le forme

di perdita di efficacia del provvedimento per ragioni formali (212

).

Le Sezioni unite hanno accolto quest’ultimo indirizzo,

compiendo una disamina a tutto campo della questione di diritto

rimessa al loro esame.

Riconosciuto che il decorso del termine fissato dal comma 9

dell’art. 309 c.p.p. non costituisce di per sé causa di preclusione per

la emanazione di un successivo provvedimento di identico contenuto,

non creando alcuna situazione di incompatibilità tra l’atto caducato

nei suoi effetti e quello emanando, l’analisi della Corte è divenuta

più generale ed il nodo della questione si è spostato

sull’individuazione dei limiti di operatività del principio del ne bis in

idem in materia cautelare.

Secondo il Supremo Collegio, l’effetto preclusivo da bis in

idem va, senz’altro, riconosciuto allorquando il provvedimento sia

rimasto caducato in conseguenza di riesame del merito effettuato con

decisione giurisdizionale non più soggetta a gravame, in cui sia stata

esclusa la ricorrenza delle condizioni generali di legittimità,

«determinandosi in tal caso quella situazione di inconciliabilità tra i

due provvedimenti, quello caducato e quello riemesso, che non

possono, pertanto, coesistere».

(

211) Cass., Sez. I, 3 marzo 1992, Trapanese, in C.E.D. Cass., n. 189232;

Id., Sez. I, 8 novembre 1991, Pezzella, ivi, n. 188847.

(212

) Cass., Sez. II, 25 marzo 1992, Del Monte, in C.E.D. Cass., n.

189942.

IL GIUDICATO CAUTELARE 159

Il principio del ne bis in idem, previsto dall’art. 649 c.p.p.,

opera, quindi, anche in materia cautelare quando il giudice deve

prendere in esame quegli stessi presupposti che siano già stati

sottoposti a valutazione in sede di gravame e ritenuti insussistenti,

insufficienti o invalidi; al contrario, quando l’inefficacia

dell’originario provvedimento sia derivata da sopravvenute

condizioni estrinseche, come da irregolarità della procedura di

riesame, nessuna preclusione può considerarsi esistente.

Che la reiterazione della misura coercitiva della custodia

cautelare in carcere debba ammettersi quando il precedente

provvedimento sia rimasto caducato per ragioni puramente formali è

desumibile dagli stessi principi generali enunciati nelle disposizioni

raccolte nel titolo primo del quarto libro del codice di procedura

penale, che regolano tutta la materia cautelare e valgono in ogni fase

e grado del processo; più in particolare, è nel disposto dell’art. 302

c.p.p. che si coglie, al di là della disciplina dettata per la specifica

ipotesi in essa prevista, il riconoscimento normativo della

reiterabilità, in generale, delle misure di rigore caducate per ragioni

puramente formali, e, quindi, dell’assenza di alcun effetto preclusivo

della inefficacia stessa, in qualunque caso del genere essa si sia

verificata, dovendo escludersi in linea di principio che l’inefficacia

dell’atto possa determinare conseguenze disomogenee a seconda

della formalità inosservata.

Per cui, ha concluso la Corte, «ferme restando le condizioni e

le esigenze previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p., la cui sussistenza è

richiesta per l’adozione di una qualsiasi misura cautelare, la

reiterazione del provvedimento caducato risulta razionalmente

subordinata nella specie all’adempimento da parte del giudice

dell’incombente in precedenza omesso (appunto l’interrogatorio), in

quanto atto di per sé ripetibile e necessario ai fini della valutazione

richiesta dai citati artt. 273 e 274 c.p.p.».

Il principio di diritto adottato dalle Sezioni unite può essere

espresso nei seguenti termini: «Deve ritenersi ammissibile la

reiterazione, anche in mancanza di apprezzabili mutamenti della

situazione di fatto, dell’ordinanza con la quale è stata applicata una

misura cautelare coercitiva, quando ne sia stata dichiarata

CAPITOLO SESTO 160

l’inefficacia per inosservanza del termine perentorio stabilito, ai fini

del riesame del provvedimento stesso, dall’art. 309 c.p.p., nonché in

ogni altro caso in cui il precedente provvedimento sia rimasto

caducato per ragioni puramente formali. La reiterazione del

provvedimento impositivo deve, invece, ritenersi preclusa,

allorquando il provvedimento sia rimasto caducato in conseguenza

del riesame del merito effettuato con decisione giurisdizionale non

più soggetta a gravame, con la quale sia stata esclusa la ricorrenza

delle condizioni generali di legittimità, attesa l’inconciliabilità che si

determinerebbe tra i due provvedimenti e la preclusione processuale

derivante dall’applicazione del disposto dell’art. 649 c.p.p., nel

quale è accolto il principio del ne bis in idem, operativo anche in

materia cautelare» (213

).

La pronuncia in esame rappresenta, come anticipato, il primo

tentativo di descrivere il fenomeno del giudicato cautelare, fenomeno

che, tuttavia, è stato solamente abbozzato, attraverso il mero

riconoscimento dell’esistenza di una preclusione — di cui, peraltro,

non viene chiarita la portata — derivante dall’ordinanza, non più

soggetta ad impugnazione, che abbia escluso la sussistenza dei

presupposti e delle condizioni di cui agli artt. 273 e 274 c.p.p.

Appare sicuramente condivisibile la risoluzione data alla

questione oggetto di contrasto, ovvero la riconosciuta reiterabilità

dell’ordinanza cautelare caducata ai sensi dell’art. 309, comma 10,

c.p.p. e, più in generale, venuta meno per ragioni puramente formali.

Tuttavia, questo non significa, come sembrerebbe leggersi tra

le righe della sentenza, che, in tale ipotesi, non sia ipotizzabile alcun

effetto preclusivo. In verità, la preclusione deve essere collegata

all’oggetto della decisione, la quale rappresenta il limite di

operatività della cosa giudicata.

Apertis verbis, l’ordinanza, non più impugnabile, che abbia

dichiarato la perenzione della misura, se per un verso non impedisce

— salvi espressi divieti di legge — la reiterazione della stessa,

preclude, comunque, che la questione dell’inefficacia possa costituire

oggetto di una nuova decisione da parte di un altro giudice.

(

213) Sez. Un., 1° luglio - 10 settembre 1992, n. 11, Grazioso ed altri, in

C.E.D. Cass., n. 191183.

IL GIUDICATO CAUTELARE 161

Si tratta di una conclusione che è stata meglio precisata dalla

giurisprudenza successiva, che, proprio con riferimento

all’inefficacia comminata dal comma 10 dell’art. 309 c.p.p., è giunta

a riconoscere alla pronuncia resa su di essa — così come all’omessa

pronuncia sulla stessa — da parte della Corte di cassazione il valore

di cosa giudicata, a cui si collega la preclusione a sollevare la

quaestio dell’inefficacia sia nel procedimento principale, che in altro

eventuale attivato da richiesta di revoca o altrimenti (214

).

Appare, per tale ragione, inconferente e fonte di confusione il

principio per cui il giudicato cautelare si riferisce solo alle questioni

di merito e non già alle questioni di carattere processuale.

2. L’effetto preclusivo dei provvedimenti de libertate. —

Come detto, le Sezioni unite Grazioso del 1992 si sono limitate a

riconoscere l’operatività di un effetto di ne bis in idem anche in

materia cautelare, collegandolo alle pronunce non più impugnabili

che abbiano escluso, nel merito, la sussistenza dei presupposti e delle

condizioni previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p. A questa affermazione

di principio non è seguito, però, un approfondimento della tematica e

sono rimaste estranee all’analisi della Suprema Corte le

problematiche fondamentali poste dal concetto di giudicato cautelare:

in primo luogo, l’individuazione delle pronunce cautelari in grado di

produrre una preclusione da bis in idem e, in secondo luogo, la

precisazione della portata e del contenuto di una simile preclusione.

La questione che, in altri termini, è rimasta sullo sfondo della

sentenza e che rappresenta il punto nevralgico della tematica in

esame è quella attinente alla possibilità di concepire, e fino a che

punto, un effetto tipico del giudicato, quale il ne bis in idem,

derivante da un provvedimento, quello reso in materia cautelare, che

è per sua natura sempre revocabile.

Il primo tentativo di dare un più compiuto inquadramento alla

materia si deve ad una successiva sentenza, con la quale le Sezioni

unite, chiamate a risolvere un contrasto attinente altro tema, ovvero

l’individuazione del dies a quo del termine di dieci giorni previsto

(

214) Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo, supra, cap.

IV, § 3.

CAPITOLO SESTO 162

dal comma 9 dell’art. 309, hanno colto l’occasione per enunciare un

obiter dictum che, sia pure schematicamente, descrive i rapporti tra

richiesta di riesame ed istanza di revoca.

Secondo il Supremo Collegio, riesame e revoca non sono

meccanismi processuali sovrapponibili, in quanto unicamente

attraverso il primo risulta possibile contestare la sussistenza

originaria dei presupposti e delle condizioni legittimanti l’esercizio

del potere cautelare, mentre la revoca può avere luogo solo in

conseguenza di quanto acquisito successivamente alla definitività del

titolo custodiale e sostanzialmente o processualmente inficiante le

condizioni in base alle quali era stato emesso quel determinato

provvedimento (215

).

Questa presa di posizione, tuttavia, anziché rendere più

limpido il quadro normativo in cui si inserisce la questione del

giudicato cautelare, ha prestato il fianco al determinarsi, in seno alla

giurisprudenza di legittimità, di un contrasto relativo

all’ammissibilità del riesame proposto successivamente alla richiesta

di revoca della misura cautelare, contrasto che è stato risolto ad un

anno di distanza, sulla base di un’impostazione affatto diversa della

tematica, dalle Sezioni unite Buffa (216

).

Ma, prima ancora di questo problema, è stato sottoposto

all’attenzione delle Sezioni unite altro contrasto interpretativo,

relativo sempre ai rapporti tra riesame e revoca, e più precisamente

inerente la permanenza o meno dell’interesse ad impugnare quando,

nelle more del giudizio di riesame, di appello o di cassazione,

l’ordinanza impositiva della custodia cautelare in carcere sia stata

revocata, con conseguente remissione in libertà dell’indagato o

dell’imputato.

Rinviando ad altro paragrafo l’analisi della soluzione data a

tale questione dalle tre sentenze intervenute sul tema e deliberate

(

215) Sez. Un., 18 giugno - 21 luglio 1993, n. 14, Dell’Omo, supra, cap.

III, § 6.

(216

) V., infra, § 3.

IL GIUDICATO CAUTELARE 163

nella stessa camera di consiglio (217

), in questa sede appare

necessario esaminare la parte motiva della prima pronuncia — a cui

le altre due risultano perfettamente conformi —, in cui il Supremo

Collegio, nel risolvere il quesito posto, ha esaminato il problema

interpretativo relativo alla nozione di «decisione irrevocabile», fatta

propria dal comma 2 dell’art. 314 c.p.p.

Attraverso un’attenta disamina delle diverse significazioni

che il concetto di «decisione irrevocabile» potrebbe assumere nel

contesto della disciplina della riparazione per l’ingiusta detenzione,

le Sezioni unite sono giunte ad affermare che la «decisione

irrevocabile», integrante ex art. 314 comma 2 c.p.p. il titolo del

diritto alla riparazione, deve essere individuata nell’ordinanza, non

impugnata, adottata dal tribunale ex artt. 309 e 310 in sede di riesame

o di appello avverso il provvedimento de libertate, ovvero nella

pronunzia emessa dalla Corte di cassazione a seguito di ricorso

contro tale ordinanza, o in sede di ricorso per saltum contro lo stesso

provvedimento applicativo della misura.

L’esigenza di evitare un’illimitata reiterazione di

provvedimenti o di richieste di revoca, incompatibile con l’economia

processuale, impone di riconoscere anche alle pronunce in esame una

sia pur limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale,

fondata sul principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.

La Corte ha, quindi, affermato che «anche alle ordinanze,

non impugnate, adottate dal tribunale ex artt. 309 e 310 c.p.p. in

sede di riesame o di appello avverso provvedimenti de libertate,

nonché alle pronunzie emesse dalla cassazione a seguito di ricorso

contro tali ordinanze, o in sede di ricorso per saltum contro il

provvedimento applicativo della misura, va riconosciuta una sia pur

limitata efficacia preclusiva di natura endoprocessuale, fondata sul

principio del ne bis in idem, di cui all’art. 649 c.p.p.».

In forza di tale principio, «soltanto un successivo,

apprezzabile mutamento del fatto consente sia la reiterazione di

un’ordinanza applicativa di misure cautelari, annullata dal tribunale

(

217) Sez. Un., 12 ottobre - 8 novembre 1993, n. 20, Durante; Id., 12

ottobre - 12 dicembre, Stablum e Capitali; Id., 12 ottobre - 20 dicembre 1993, n. 22

Corso, su cui v. supra, cap. I, § 3.

CAPITOLO SESTO 164

del riesame per ragioni di merito, con pronunzia non più soggetta a

gravame, sia la revoca, per inidoneità degli indizi, della medesima

ordinanza, la quale sia stata, invece, confermata in sede di gravame

o sia, comunque, divenuta definitiva, sia, infine, la reiterazione di

una richiesta di revoca, qualora un’ordinanza di rigetto di una

precedente istanza sia stata confermata in sede di

impugnazione» (218

).

Ed anche ove si ritenga — conclude la Corte — che il

giudicato formatosi nel procedimento de libertate copra soltanto le

circostanze dedotte e valutate dal giudice, ma non anche il

deducibile, resta pur sempre che le pronunzie adottate in tale

procedimento posseggono, nei limiti derivanti dalla loro funzione, il

carattere dell’irrevocabilità, che ne permette l’inserimento nello

schema di cui all’art. 314, comma 2, c.p.p.

La pronunzia in esame ha confermato e specificato le

conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite Grazioso e Dell’Omo,

riconoscendo l’idoneità a produrre un effetto preclusivo analogo a

quello — ben più intenso — disciplinato dall’art. 649 c.p.p.

unicamente ai provvedimenti de libertate resi all’esito dei

procedimenti incidentali di impugnazione.

La Corte, tuttavia, non si è interrogata a fondo sui rapporti

che intercorrono tra il carattere di «irrevocabilità» che i

provvedimenti in discorso sono suscettibili di acquisire e l’istituto

della revoca disciplinato dall’art. 299 c.p.p., se non per subordinare il

venir meno dell’effetto preclusivo ad «un successivo, apprezzabile

mutamento del fatto», con una soluzione che, come si avrà modo di

precisare, è stata ridimensionata dalla successiva giurisprudenza

delle Sezioni unite.

Inoltre, appare solo accennata l’ulteriore problematica

attinente alle circostanze coperte dal giudicato cautelare, che sono

quelle dedotte e valutate dal giudice e non anche quelle deducibili.

3. L’individuazione dei caratteri del giudicato cautelare. — Sullo sfondo della tematica del giudicato cautelare e dei dubbi

che in tale concetto si annidano, soprattutto con riferimento ai limiti

(

218) Sez. Un., 12 ottobre - 8 novembre 1993, n. 20, Durante, cit.

IL GIUDICATO CAUTELARE 165

ed alla portata dell’effetto preclusivo da bis in idem che i

provvedimenti de libertate sono suscettibili di produrre, si staglia

l’annosa questione relativa ai rapporti tra riesame e revoca, che, nei

primi anni di applicazione del codice vigente, ha dato luogo a disagi

giurisprudenziali e ad incertezze applicative.

È chiaro che una definizione più compiuta del fenomeno del

giudicato cautelare passa necessariamente per un chiarimento in

merito alle relazioni giuridiche intercorrenti tra questi due rimedi

processuali. E non è un caso che la sentenza destinata a rappresentare

il principale punto di riferimento nell’elaborazione giurisprudenziale

del concetto di ne bis in idem cautelare sia intervenuta proprio a

dirimere il contrasto interpretativo sorto in ordine alle interrelazioni

tra giudizio di riesame e procedura di revoca.

Eliminati i dubbi sulla persistenza dell’interesse ad agire nel

caso di revoca della misura coercitiva nelle more del giudizio di

riesame (219

), rimaneva da sottoporre ad una più attenta riflessione il

dilemma concernente l’ammissibilità o meno della richiesta di

riesame presentata dopo l’istanza di revoca.

Nella fattispecie concreta, che ha determinato l’intervento

delle Sezioni unite, il ricorrente, sottoposto alla misura degli arresti

domiciliari, aveva proposto, all’esito dell’interrogatorio di garanzia,

istanza di revoca e, a seguito del rigetto della stessa, aveva presentato

tempestiva richiesta di riesame; quest’ultima era stata dichiarata

inammissibile, in quanto preclusa dalla precedente istanza di revoca.

Il ricorso, assegnato alla Sezione sesta della Corte di

cassazione, è stato rimesso alle Sezioni unite, per dirimere il

contrasto giurisprudenziale manifestatosi sul tema.

Il prevalente orientamento risolveva la questione sulla base di

due argomentazioni; per un verso, si affermava che nel procedimento

incidentale de libertate opera la regola generale secondo cui, qualora

siano previsti più mezzi di impugnazione, la scelta di uno di essi

consuma il potere di esperire l’altro o gli altri; per altro verso, si

evidenziava che l’istanza di revoca, per essere fondata sulla

sopravvenienza di una nuova situazione incompatibile con il

permanere della misura cautelare, ne sconta la legittimità originaria,

(

219) V., supra, § 2 e cap. I, § 3.

CAPITOLO SESTO 166

nel senso, cioè, che la proposizione dell’istanza di revoca implica

l’acquiescenza del proponete sulla legittimità originaria

dell’ordinanza cautelare e, quindi, la formazione sul punto di un

giudicato, o meglio di una preclusione allo stato degli atti (220

).

In senso diverso, si rilevava, da un lato, che il principio della

consunzione del potere di impugnazione derivante dall’esercizio di

uno dei rimedi consentiti fosse erroneamente invocato, non avendo

l’istanza di revoca natura di mezzo di impugnazione, e, dall’altro,

che nell’ordinamento processuale penale manca una norma

corrispondente all’art. 329 c.p.c., che qualifica, in termini generali,

l’acquiescenza espressa o tacita quale presupposto

dell’improponibilità dell’impugnazione e, quindi, della formazione

del giudicato (221

).

Le Sezioni unite, con la sentenza su ricorso Buffa del 1994,

hanno accolto quest’ultimo orientamento, sulla base delle seguenti

argomentazioni: a) riesame e revoca non hanno la stessa natura

giuridica, in quanto, se il primo è espressamente annoverato tra i

mezzi di impugnazione de libertate, eguale natura non può essere

riconosciuta alla seconda, sulla base del decisivo rilievo che essa può

essere disposta anche di ufficio nelle ipotesi previste dall’art. 299,

comma 3, c.p.p.; b) riesame e revoca si distinguono anche per

funzioni: al tribunale del riesame, per un verso, è attribuito in via

esclusiva il controllo sulla validità dell’ordinanza cautelare, con

riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292 c.p.p., per l’altro,

è affidata la verifica, alla stregua degli artt. 273, 274, 275 e 280

c.p.p., della legittimità dell’adozione della misura cautelare, sia con

riguardo alla situazione processuale coeva al provvedimento

impugnato, sia valutando gli elementi sopravvenuti dedotti in

udienza; diversamente, l’ordinanza in tema di revoca della misura

mira a verificare la sussistenza attuale delle condizioni di

(

220) Cass., Sez. I, 17 maggio 1994, Polenghi, in C.E.D. Cass., n.

198149; Id., Sez. I , 3 febbraio 1994, Palladino, ivi, n. 196970; Id., Sez. Fer., 10

settembre 1992, Glazner, ivi, n. 191902; Id., Sez. Fer., 18 agosto 1992, De Salvo,

ivi, n. 191962.

(221

) Cass., Sez. VI, 8 aprile 1994, Fontana, in Arch.nuova proc.pen.,

1994, p. 524.

IL GIUDICATO CAUTELARE 167

applicabilità della misura, prescritte dagli artt. 273 e 274 c.p.p., o di

quelle relative alle singole misure, avendo riguardo sia ai fatti

sopravvenuti, sia a quelli originari e coevi all’ordinanza impositiva,

facendoli oggetto di una valutazione eventualmente diversa da quella

prescelta dal giudice che ha applicato la misura.

Ne discende che il giudice competente a pronunziarsi sulla

revoca della misura non incontra alcuna preclusione, quanto

all’accertamento della carenza originaria (oltre che persistente) di

indizi o di esigenze cautelari, nella mancata impugnazione

dell’ordinanza cautelare nei termini previsti dagli artt. 309 e 311

c.p.p.

Ed invero, una preclusione processuale è suscettibile di

formarsi solo a seguito delle pronunzie emesse, all’esito del

procedimento incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema,

ovvero dal tribunale, in sede di riesame o di appello, avverso le

ordinanze in tema di misure cautelari personali. Si tratta di un effetto

connaturato allo stesso sistema delle impugnazioni, che, per sua

natura, è diretto in modo specifico ad ottenere, da un giudice

collegiale sopraordinato, un controllo sulle condizioni di legittimità

della disposta misura; per cui, qualora tale controllo sia stato

effettuato, le relative pronunzie non possono non spiegare

un’efficacia preclusiva allo stato degli atti, in ordine alle questioni

trattate, per evidenti ragioni di economia processuale, che

giustificano l’estensione analogica al settore in discorso del principio

del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.

Peraltro, l’effetto preclusivo in discorso non copre anche le

questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte nei

procedimenti di impugnazione avverso ordinanze in materia di

misure cautelari personali, in forma sia esplicita che implicita,

intendendosi queste ultime come le questioni che, quantunque non

enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di

quelle espressamente dedotte.

La conclusione è che le pronunce in esame, «se non

impugnabili o, a loro volta, non impugnate, spiegano un’efficacia

preclusiva sulle suindicate questioni, con la conseguenza che, così

come non è consentita l’adozione di una nuova ordinanza cautelare

CAPITOLO SESTO 168

sulla base degli stessi elementi ritenuti insussistenti o irrilevanti in

sede di gravame, allo stesso modo, più in generale, le questioni in

discorso restano precluse in sede di adozione di ogni successivo

provvedimento relativo alla stessa misura ed allo stesso

soggetto» (222

).

Come appare evidente, con questa sentenza l’istituto del

giudicato cautelare risulta compiutamente delineato nei suoi caratteri

fondamentali: esso è suscettibile di formarsi solo a seguito delle

pronunce emesse all’esito dei procedimenti incidentali di

impugnazione; è allo stato degli atti; copre solo le questioni dedotte,

esplicitamente o implicitamente, con le impugnazioni de libertate e

non anche quelle deducibili.

Ciò implica, con riferimento ai rapporti tra riesame e revoca,

per un verso, che la richiesta di riesame, proposta successivamente

all’istanza di revoca, è sempre ammissibile, per l’altro, che il giudice,

in sede di revoca, può legittimamente rivalutare il quadro cautelare

anche sulla base dei soli fatti originariamente allegati a sostegno

della domanda cautelare, salvo la preclusione che impedisce di

sottoporre a diverso apprezzamento, in mancanza di mutamenti della

situazione originaria, le circostanze dedotte, esplicitamente o

implicitamente, con le impugnazioni de libertate (223

).

In ogni caso, per quanto detto, il giudice investito dell’istanza

di revoca non può conoscere dei vizi di validità dell’ordinanza

impositiva, con riguardo ai requisiti formali enumerati nell’art. 292

c.p.p.; le violazioni dell’art. 292 c.p.p. possono, infatti, essere

dichiarate solo dal giudice del riesame o dalla Corte di cassazione,

perché la scadenza dei termini previsti per le impugnazioni de

libertate sana le nullità del provvedimento applicativo derivanti dalla

mancanza di questi requisiti di validità, quando non si tratti di vizi

rendono il provvedimento inesistente e ineseguibile a norma

(

222) Sez. Un., 8 luglio - 28 luglio 1994, n. 11, Buffa, in C.E.D. Cass., n.

198213.

(223

) Questa conclusione è stata, di recente, confermata da Sez. Un., 24

maggio - 9 luglio 2004, n. 29952, Romagnoli, in C.E.D. Cass., n. 228117, che ha

risolto, con riferimento alle misure cautelari reali, il medesimo contrasto

interpretativo, affrontato dalla sentenza Buffa.

IL GIUDICATO CAUTELARE 169

dell’articolo 292 comma 3. In questi casi, pertanto, dalla mancata

proposizione dell’impugnazione o dalla conclusione del relativo

procedimento incidentale deriva, comunque, la preclusione a dedurre

l’invalidità del provvedimento applicativo per violazione dell’art.

292 c.p.p., anche se la questione non sia stata oggetto di specifica

deduzione. E viceversa, l’annullamento del provvedimento

applicativo per difetto dei requisiti di validità non preclude

l’applicazione della medesima misura con un nuovo provvedimento,

in quanto non contiene alcun accertamento in ordine al presupposti

della misura.

È bene evidenziare come la prevalente giurisprudenza di

legittimità si sia sostanzialmente conformata al dictum delle Sezioni

unite e come lo stesso si presenti razionalmente motivato e coerente

con il sistema delle impugnazioni de libertate.

Esso, tuttavia, per essere pienamente condivisibile, merita di

essere sottoposto ad un’ulteriore precisazione: l’intervento del

giudicato cautelare non esonera il giudice, investito della richiesta di

revoca, dalla doverosa verifica in ordine all’esistenza di ragioni che

rivelino l’insussistenza dei presupposti e delle condizioni della

misura, e ciò anche sulla base dei medesimi elementi già valutati con

l’esperimento dei mezzi di impugnazione, purché la valutazione a

suo tempo resa appaia superabile attraverso ragioni non

precedentemente prospettate e sempre che la nuova decisione non si

ponga in contraddizione con quella già resa.

Questa ulteriore precisazione è stata effettuata da una

successiva sentenza delle Sezioni unite che, chiamata a dirimere il

contrasto giurisprudenziale relativo alla rilevabilità dell’inefficacia

prevista dall’art. 309 comma 10 c.p.p., ha affrontato, in un obiter

dictum, la tematica del giudicato cautelare, anche alla luce del nuovo

comma 3-ter dell’art. 299 c.p.p., inserito dall’art. 13 l. 8 agosto 1995,

n. 332, che implicitamente consente di prospettare a sostegno di una

richiesta di revoca anche fatti già valutati.

In realtà, secondo il Supremo Collegio, la preclusione che

deriva dal cosiddetto giudicato cautelare attiene alle singole questioni

e non al procedimento previsto dall’art. 299 c.p.p., che può essere

sempre attivato dall’interessato con la richiesta di revoca ed

CAPITOLO SESTO 170

eventualmente con le successive impugnazioni. Sicché, il giudice

adito, quando rileva che vengono riproposte questioni già discusse e

valutate nel corso di precedenti incidenti de libertate, può limitarsi a

richiamare le decisioni conclusive di quei procedimenti incidentali,

ma non può dichiarare inammissibili in nome del giudicato cautelare

né la richiesta di revoca, né le impugnazioni. Il giudice della revoca,

infatti, è sempre tenuto ad accertare d’ufficio se vi siano ragioni,

anche diverse da quelle prospettategli dall’interessato, che

dimostrino l’insussistenza dei presupposti della misura; e, quindi, la

decisione che disattende la richiesta di revoca è sempre di rigetto,

non d’inammissibilità.

Ciò nondimeno, il giudice della revoca può ritenere superate,

in ragione di un diverso contesto valutativo, le decisioni già assunte a

seguito delle impugnazioni de libertate, ma non può contraddirle,

perché quelle decisioni hanno un’efficacia preclusiva che vincola il

giudice e le parti ad assumere per definitive le questioni

effettivamente esaminate.

Ma v’é di più.

Il giudicato cautelare non esclude neppure che il giudice

possa rivalutare i medesimi fatti e pervenire ad una diversa decisione

sulla base di nuove ragioni in precedenza non prospettate, come si

desume sia dall’art. 299, comma 1, c.p.p., che consente di revocare la

misura anche per vizi originari, sia dall’art. 299, comma 3-ter, c.p.p.,

il quale, come anticipato, implicitamente riconosce all’interessato il

diritto di richiedere la revoca anche sulla base di fatti già valutati.

Alla luce della ratio di queste disposizioni, che è

evidentemente quella di consentire una permanente e costante

verifica dei presupposti della custodia cautelare, la teoria del

cosiddetto giudicato cautelare — afferma la Corte — «si giustifica

perché tende a consentire un più agevole ricorso alla motivazione per

relationem al fine di disattendere richieste ripetitive e defatiganti»;

non si giustificherebbe, invece, «se venisse utilizzata per eludere i

doveri che dall’art. 299 c.p.p. derivano al giudice del merito» (224

).

(

224) Sez. Un., 31 maggio - 23 giugno 2000, n. 14, Piscopo, supra, cap.

IV, § 3. In termini similari v., più di recente, Cass., Sez. V, 19 ottobre 2005, n.

40281, in C.E.D. Cass., n. 232798, secondo cui in tema di revoca di misure

IL GIUDICATO CAUTELARE 171

Il carattere di novità necessario per superare il giudicato

cautelare può consistere, sulla scorta di quanto finora detto, sia

nell’allegazione di un fatto in precedenza non esaminato, sia nella

formulazione di un nuovo argomento, ovvero di un argomento

retorico appartenente ad una tipologia diversa da quelli in precedenza

utilizzati.

4. Gli effetti preclusivi della decisione emessa sull’appello

del magistrato del pubblico ministero contro l’ordinanza di

rigetto della richiesta di misura cautelare personale. — Le

Sezioni unite, di recente, hanno avuto modo di tornare sulla

questione del giudicato cautelare, esaminandola, questa volta, non

più sotto il profilo dei rapporti tra richiesta di riesame ed istanza di

revoca, ma affrontando il complesso tema dei rapporti tra

proposizione dell’appello de libertate e nuova richiesta cautelare.

Il contrasto giurisprudenziale che ha originato l’intervento del

Supremo Collegio — ossia se, nel procedimento di appello contro le

ordinanze in materia di misure cautelari personali, sia consentita

l’acquisizione e l’utilizzazione di elementi probatori sopravvenuti

all’adozione del provvedimento impugnato e addotti dalle parti —

attiene alla disciplina dell’appello ex art. 310 c.p.p.

Tuttavia, questa sentenza merita di essere analizzata nella

presente sede nella misura in cui la Corte, alla luce della soluzione

data all’interrogativo postole, considerando ammissibile, entro certi

limiti ed a precise condizioni, l’introduzione del novum in appello, si

è trovata ad affrontare una questione del tutto nuova, che coinvolge

direttamente la tematica del giudicato cautelare, ossia quella della

cautelari personali, la preclusione derivante dal cosiddetto giudicato cautelare

attiene alle singole questioni e non al procedimento previsto dall’art. 299 c.p.p.,

che può essere sempre attivato dall’interessato. Conseguentemente il giudice adito

con la richiesta di revoca o con la successiva impugnazione di una decisione di

diniego della revoca può limitarsi a richiamare le decisioni conclusive di

precedenti procedure de libertate, qualora rilevi la riproposizione di questioni già

valutate in precedenza, ma non può dichiarare inammissibili, in forza del giudicato

cautelare, né le richieste di revoca né le impugnazioni, essendo sempre tenuto ad

accertare d’ufficio la sussistenza di ragioni, pur diverse da quelle prospettate

dall’interessato, indicative dell’insussistenza dei presupposti della misura.

CAPITOLO SESTO 172

contemporanea pendenza di un procedimento di appello avverso

l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale e di

una rinnovata la domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo

stesso fatto.

Le Sezioni unite, poste di fronte alla necessità di regolare

questo fenomeno, hanno fatto ricorso alla categoria della preclusione

endoprocedimentale, configurando i rapporti tra proposizione

dell’appello de libertate e nuova richiesta cautelare non in termini di

concorrenza, bensì di alternatività. Hanno, in altre parole, affermato

il principio per cui, qualora il magistrato del pubblico ministero si

determini a coltivare contemporaneamente entrambe le vie (da un

lato, rinnovando al giudice per le indagini preliminari la richiesta di

misura cautelare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso

fatto, mediante l’allegazione di elementi nuovi, e, dall’altro,

insistendo nell’appello avverso il provvedimento reiettivo), al

giudice del procedimento principale sia preclusa, in pendenza

dell’appello avverso la sua prima decisione, la potestà di statuire

ancora in ordine alla medesima domanda devoluta in sede di

gravame al vaglio del tribunale della libertà: «non può invero

consentirsi all’organo dell’accusa, nell’investire della decisione sulla

stessa azione cautelare diversi giudici, di perseguire l’abnorme

risultato di un duplice, identico titolo, l’uno ―a sorpresa‖ e

immediatamente esecutivo, l’altro disposto all’esito di

contraddittorio camerale e del quale resta sospesa l’esecutività fino

alla decisione definitiva».

Questa conclusione si è resa necessaria proprio alla luce del

principio del ne bis in idem cautelare e degli effetti preclusivi che la

decisione definitiva sull’appello del magistrato del pubblico

ministero contro l’ordinanza di rigetto della richiesta di una misura

cautelare è in grado di produrre; ed infatti, le Sezioni unite,

rifacendosi al principio espresso dalla sentenza Buffa, hanno

affermato che con il sopraggiungere di questa decisione si realizza

una situazione di relativa stabilità del decisum, nel senso che esso

spiega una limitata efficacia preclusiva endoprocedimentale, allo

stato degli atti, in ordine alle questioni in fatto e in diritto

esplicitamente o implicitamente dedotte — ma non anche a quelle

IL GIUDICATO CAUTELARE 173

deducibili — in quel giudizio; di talché, le medesime questioni, nella

carenza di deduzione da parte del magistrato del pubblico ministero

di nuove e significative acquisizioni che implichino un mutamento

della situazione di riferimento, sulla quale la decisione di appello era

fondata, restano precluse in sede di adozione da parte del giudice di

un successivo provvedimento cautelare nei confronti dello stesso

soggetto e per lo stesso fatto.

La Corte ha, pertanto, formulato le seguenti affermazioni di

principio: « Qualora il magistrato del pubblico ministero, nelle more

della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva

della richiesta di misura cautelare personale, rinnovi la domanda

nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando

elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, è precluso

al giudice, in pendenza del procedimento di appello, decidere in

merito alla medesima domanda cautelare.

La decisione emessa sull’appello instaurato dal magistrato

del pubblico ministero contro l’ordinanza di rigetto della richiesta di

misura cautelare personale, una volta divenuta definitiva, ha

efficacia preclusiva, rebus sic stantibus, in ordine alle questioni in

fatto o in diritto esplicitamente o implicitamente dedotte, non anche

a quelle deducibili, in quel giudizio; pertanto le questioni dedotte, in

difetto di nuove acquisizioni probatorie che implichino un

mutamento della situazione di fatto sulla quale la decisione era

fondata, restano precluse nel procedimento cautelare eventualmente

attivato dal magistrato del pubblico ministero mediante nuova

richiesta nei confronti dello stesso soggetto e per lo stesso

fatto» (225

).

La soluzione adottata dalla sentenza in esame si presenta

sicuramente condivisibile sotto il profilo della riconosciuta

alternatività tra appello de libertate del magistrato del pubblico

ministero e nuova richiesta cautelare. L’esigenza di evitare la

litispendenza di procedimenti sullo stesso oggetto e nei confronti del

medesimo soggetto, suscettibili di pervenire a statuizioni

contraddittorie sulla base della valutazione dei medesimi elementi,

(

225) Sez. Un., 31 marzo - 20 aprile 2004, n. 18339, Donelli ed altro, in

C.E.D. Cass., n. 227358 e n. 227359.

CAPITOLO SESTO 174

rende plausibile e sistematicamente accettabile la soluzione di

anticipare la preclusione da bis in idem alla scelta dell’organo

dell’accusa di far valere le proprie doglianze attraverso

l’impugnazione dell’ordinanza di rigetto.

Più complesso è il discorso relativo al perfezionarsi del

giudicato cautelare nell’ipotesi di ordinanza di rigetto della richiesta

cautelare. Le Sezioni unite, richiamando la sentenza Buffa e

collegando l’effetto preclusivo alla decisione definitiva sull’appello

del magistrato del pubblico ministero, sembrano aver escluso che un

simile effetto possa derivare anche dalla mancata impugnazione

dell’ordinanza di rigetto.

Ebbene, questa conclusione presta il fianco ad alcune

osservazioni. Il principio espresso dalla sentenza Buffa — secondo

cui l’effetto di ne bis in idem deriva solo dalle ordinanze pronunciate

all’esito dei procedimenti incidentali di impugnazione — attiene ai

rapporti tra richiesta di riesame ed istanza di revoca e si presenta

pienamente condivisibile se riferito al provvedimento impositivo

della misura coercitiva.

L’operazione di estenderlo anche all’ordinanza di rigetto non

appare, invece, accettabile. Ed infatti, altro è il controllo

sull’esistenza e sulla persistenza dei presupposti e delle condizioni

legittimanti l’esercizio del potere cautelare, che deve sempre essere

assicurato a seguito dell’applicazione di una misura cautelare, altro è

il controllo che può sollecitare il magistrato del pubblico ministero

avverso il provvedimento che abbia rigettato la sua richiesta, non

condividendo le deduzioni in essa contenute; quest’ultimo controllo

può essere ottenuto solo attraverso l’appello ex art. 310 c.p.p., la cui

omessa proposizione non può che generare una preclusione da bis in

idem sulle circostanze dedotte e valutate. Questo significa che il

giudice del procedimento principale non può applicare la misura,

prima negata, sulla base di una semplice diversa valutazione dei

medesimi elementi.

Del resto, nella giurisprudenza di legittimità può essere

rinvenuto un orientamento teso ad evidenziare che nell’ipotesi in cui

il magistrato del pubblico ministero non abbia impugnato

un’ordinanza di rigetto della richiesta di applicazione di una misura

IL GIUDICATO CAUTELARE 175

cautelare personale, si forma il giudicato cautelare, per cui sussiste

una preclusione alla reiterazione, negli stessi termini, della istanza

respinta, mentre non vi è preclusione qualora la nuova richiesta

contenga una diversità di allegazioni e deduzioni (226

); invero, per i

provvedimenti in materia cautelare, diversi da quelli genetici e

soggetti come tali ad appello ex art. 310 c.p.p., la preclusione del

giudicato cautelare vale, relativamente alle censure che ne potevano

formare oggetto, anche in caso di mancata proposizione o di

declaratoria di inammissibilità del gravame; e ciò in forza del

carattere devolutivo del mezzo, che, altrimenti, ne risulterebbe

vanificato (227

).

Questa distinzione, ai fini del formarsi del giudicato

cautelare, tra provvedimenti impositivi della misura, impugnabili con

il riesame, ed altri provvedimenti cautelari, impugnabili con

l’appello, si spiega anche sulla base di un’ulteriore osservazione: in

sede di adozione del provvedimento coercitivo originario manca, di

regola, un atto difensivo di parte, che consenta di delimitare con

chiarezza i punti sui quali il giudice è chiamato a decidere, così da

determinare sugli stessi la preclusione processuale da ne bis in idem,

volta a prevenire la proposizione delle medesime questioni.

Apertis verbis, non si può ritenere operante, ai danni

dell’indagato o imputato, una preclusione da bis in idem,

collegandola ad un provvedimento sul quale l’interessato non ha

avuto modo di interloquire e non ha, pertanto, potuto prospettare

questioni idonee ad essere coperte dal giudicato.

Al contrario, nell’ipotesi di rigetto della richiesta cautelare

del magistrato del pubblico ministero, così come di rigetto

dell’istanza di revoca o sostituzione dell’interessato, il

provvedimento reiettivo, anche se non impugnato, è in grado di

acquisire la forza del giudicato cautelare sulle specifiche questioni

dedotte dall’organo dell’accusa o dall’indagato o imputato e

specificamente valutate dal giudice procedente.

(

226) Cass., Sez. VI, 25 ottobre 2002, Ricceri, in C.E.D. Cass., n.

223654.

(227

) Cass., Sez. VI, 11 febbraio 1999, Romeo, in C.E.D. Cass., n.

214052; Id., Sez. VI, 12 gennaio 1998, Internicola, ivi, n. 210589.

CAPITOLO SESTO 176

5. Considerazioni conclusive sul giudicato cautelare. —

Sulla scorta degli interventi giurisprudenziali sopra esaminati è

possibile ricostruire il sistema del ne bis in idem cautelare.

Con riferimento alle ordinanze impositive della misura, la

preclusione processuale da bis in idem è suscettibile di formarsi solo

a seguito delle pronunce emesse, all’esito del procedimento

incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal

tribunale in sede di riesame o di appello, se non impugnabili o non

impugnate.

Se l’ordinanza genetica della misura cautelare non viene

impugnata e, comunque, finché il novero dei rimedi impugnatori non

sia stato esaurito, alcun effetto di ne bis in idem si produce ed il

giudice competente a pronunciarsi sulla revoca della misura cautelare

non incontra alcuna preclusione quanto all’accertamento della

carenza originaria, oltre che persistente, di indizi o di esigenze

cautelari.

Per altro verso, se nella pendenza del procedimento

sull’impugnazione de libertate interviene la revoca della misura

cautelare, l’interesse dell’indagato ad ottenere una pronuncia, in sede

di riesame, di appello o di ricorso per cassazione, sulla legittimità

dell’ordinanza che ha applicato o mantenuto la custodia cautelare

permane, in quanto l’ordinanza inoppugnabile di annullamento della

misura suddetta, adottata nel procedimento incidentale de libertate

costituisce «decisione irrevocabile», idonea, nei casi di

proscioglimento o di condanna di cui all’art. 314 comma 2 c.p.p., a

fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per l’ingiusta

detenzione.

Dalla mancata impugnazione dell’ordinanza impositiva della

misura deriva unicamente la preclusione a valutare la validità

formale del provvedimento impositivo. Da un lato, infatti, il giudice

investito dell’istanza di revoca non può conoscere dei vizi di validità

dell’ordinanza dispositiva della misura, con riguardo ai requisiti

formali enumerati nell’art. 292 c.p.p. Dall’altro, le violazioni dell’art.

292 c.p.p. possono essere dichiarate solo dal giudice del riesame o

dalla Corte di cassazione, perché la scadenza dei termini previsti per

IL GIUDICATO CAUTELARE 177

le impugnazioni de libertate sana le nullità del provvedimento

applicativo derivanti dalla mancanza di questi requisiti di validità,

quando non si tratti di vizi che rendono il provvedimento inesistente

ed ineseguibile a norma dell’articolo 292 comma 3.

Le medesime conclusioni non valgono per le ordinanze

diverse da quelle impositive, ovvero per le ordinanze di rigetto della

richiesta cautelare presentata dal magistrato del pubblico ministero e

per le ordinanze con le quali il giudice procedente decide sull’istanza

di revoca o di sostituzione presentata dall’interessato.

Per tali provvedimenti deve ritenersi, sulla scorta di quanto

osservato nel precedente paragrafo, che la preclusione del giudicato

cautelare vale, relativamente alle censure che ne potevano formare

oggetto, anche in caso di mancata proposizione o di declaratoria di

inammissibilità del gravame; e ciò in forza del carattere devolutivo

del mezzo dell’appello, che, altrimenti, ne risulterebbe vanificato.

Inoltre, qualora il magistrato del pubblico ministero, nelle

more della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza

reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, rinnovi la

domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto,

allegando elementi probatori «nuovi», preesistenti o sopravvenuti, è

precluso al giudice, in pendenza del procedimento di appello,

decidere in merito alla medesima domanda cautelare.

Il giudicato cautelare ha una portata più modesta rispetto a

quella determinata dalla cosa giudicata (228

), sia perché è limitata allo

stato degli atti, sia perché non copre anche le questioni deducibili, ma

soltanto le questioni dedotte implicitamente o esplicitamente,

intendendosi queste ultime come le questioni che, quantunque non

enunciate in modo specifico, integrano il presupposto logico di

quelle espressamente dedotte.

Questo significa, tenuto conto degli enunciati normativi di cui

ai commi 1 e 3-ter dell’art. 299 c.p.p., che il carattere di novità

necessario per superare il giudicato cautelare e comportare la

necessità di nuove valutazioni può consistere nell’allegazione sia di

(

228) Sull’effetto preclusivo del giudicato ex art. 649 c.p.p., sia

consentito il rinvio a TROISI, La nozione giurisprudenziale di litispendenza penale,

in Dir. pen. e proc., 2006, p. 719.

CAPITOLO SESTO 178

un fatto in precedenza non esaminato, sia di un nuovo argomento,

inteso come indicazione e interpretazione di norme giuridiche di

riferimento in precedenza non esaminate o formulazione di

argomenti retorici appartenenti ad un tipo diverso da quelli in

precedenza utilizzati (229

).

(

229) In tal senso v. anche BASSI-EPIDEMIO, Guida alle impugnazioni

dinanzi al Tribunale del riesame, cit., p. 881.

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