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Università degli Studi di Perugia Università degli Studi di Firenze Università degli Studi di Siena UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN BENI DEMOETNOANTROPOLOGICI Tesi di specializzazione: Musei etnografici in Valle Varaita. Processi di patrimonializzazione e creatività culturale nelle Alpi occidentali Specializzando Relatore Dott. Carlotta Colombatto Prof. Daniele Jalla anno accademico 2009 2010

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Università degli Studi di Perugia

Università degli Studi di Firenze Università degli Studi di Siena

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE IN BENI DEMOETNOANTROPOLOGICI

Tesi di specializzazione:

Musei etnografici in Valle Varaita.

Processi di patrimonializzazione e creatività culturale nelle Alpi occidentali

Specializzando Relatore

Dott. Carlotta Colombatto Prof. Daniele Jalla

anno accademico 2009 – 2010

1

INDICE

Indice 1

Introduzione 2

Capitolo 1 Raccogliere e conservare la memoria a mille metri di altitudine 8

1.1 San Peire 8

1.2 Il Museo Storico Etnografico di Sampeyre 23

1.3 Confini 34

Capitolo 2 Pratiche di patrimonio nella capitale della Castellata 44

2.1 Lu Ciasteldelfin 44

2.2 Il Museo Etnografico “Jer à la Vilo” 51

2.3 Politiche della memoria 56

Capitolo 3 Riflessioni sul pubblico dei musei a Bellino 64

3.1 Blins 64

3.2 Il Museo del Tempo e delle Meridiane 77

3.3 Comunità interpretative 83

Capitolo 4 Della cultura come artefatto 91

4.1 Punt e la Cianal 91

4.2 Il Museo del Mobile di Pontechianale 98

4.3 Il Museo del Costume e dell’Artigianato tessile 105

4.4 Contro la colonizzazione dell’immaginario 114

Conclusione 122

Bibliografia 132

2

INTRODUZIONE La mia tesi di laurea fa proprie le riflessioni che sono emerse dal progetto “Musei

etnografici e beni DEA in Provincia di Cuneo. Dall’identità alla creatività”. La

ricerca, che ha avuto luogo da agosto 2010 a febbraio 2011 grazie a un

finanziamento della Regione Piemonte, è stata il mio primo impiego in abito

antropologico. L’idea di intraprendere un progetto di questo tipo è nata a seguito di

un confronto tra Adriano Favole ed alcuni funzionari. Si sentiva l’esigenza, da

entrambe le parti, di incrementare le conoscenze esistenti su tale parte di arco

alpino, con particolare attenzione ai musei etnografici presenti. La montagna

cuneese (valli Monregalesi, Tanaro, Pesio, Vermenagna, Gesso, Stura, Grana,

Maira, Varaita, Po le principali) si caratterizza per la fitta presenza di realtà

etnografiche, tanto che nel 2010 se ne contavano trentanove. Alcuni studi condotti

negli anni Novanta (Favole e Bessone, 2003) hanno messo in luce la nascita

recente di quasi tutti i musei esistenti allora, i quali apparivano come dei centri

molto attivi di ricerca e animazione culturale in contesti di forte spopolamento. In

netto contrasto con il dinamismo espresso dalle attività realizzate, vi erano però

degli allestimenti datati che contribuivano a fornire una visione statica, immune al

cambiamento ed edulcorata della montagna. A dieci anni da tali ricerche, altri studi

hanno testimoniato un ulteriore incremento di musei etnografici nell’arco alpino

cuneese1. Questi creano un quadro variegato in quanto a gestione e cura delle

collezioni, modalità espositive e attività realizzate. La ricerca alla quale ho

partecipato si proponeva di riflettere sulle dinamiche che hanno portato alla

nascita di un così gran numero di musei, nel tentativo di comprendere l’eventuale

legame con la realtà economica, sociale, culturale e politica locale. Un altro

elemento di interesse era rappresentato dal contrasto tra la vivacità e la creatività

delle associazioni che gestiscono i musei e l’assenza dei musei stessi dalle

politiche comunali, provinciali e delle Comunità Montane. Ci proponevamo di

ragionare anche sul ruolo esercitato da queste strutture nella contemporaneità,

sulla loro capacità di essere elementi di dinamismo nel presente alpino e non

luoghi in cui rimpiangere un passato irrimediabilmente perduto. Infine non

potevamo non riflettere sul significato della dicitura “museo etnografico”, una

1 Sibilla P., Porcellana V. (a cura di), “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in

Piemonte e Valle d'Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009.

3

definizione, a nostro modo divedere, tutt’altro che scontata data anche la

dilatazione e contorsione che essa pare aver subito nella montagna cuneese.

L’equipe di lavoro era composta da tre ricercatori: Adriano Favole, Elisa Bellato ed

io. Per affrontare il campo abbiamo ritenuto opportuno che ognuno di noi si

concentrasse solo su alcune vallate invece che su tutto il territorio. Io ho lavorato

nelle valli Po, Varaita, Grana, e in parte di quelle Monregalesi.

La tesi di laurea si concentra unicamente sulla realtà museale ed etnografica della

val Varaita. Tale scelta è stata dettata da numerosi motivi, primo fra tutti la

discontinuità geografica del mio territorio di ricerca: in questa sede ho pensato che

non fosse produttivo tentare un’analisi di luoghi molto diversi e lontani tra di loro.

In secondo luogo ritengo che i musei varaitini siano un buon esempio di creatività

culturale: le progettualità dinamiche che propongono in un contesto caratterizzato

da difficoltà economiche e perdita di popolazione, a mio avviso, sono un fenomeno

molto interessante che attesta la loro capacità di porsi come soggetti attivi nella

contemporaneità del mondo alpino. Non nego che la decisione di soffermarmi

sulle realtà etnografiche della val Varaita sia stata dettata anche dal sentimento di

affezione che nutro nei confronti di questo territorio. Lì, più che altrove in Provincia

di Cuneo, mi sento in risonanza con le persone e i luoghi. Leonardo Piasere scrive

di tale sentimento in termini di “motto d’animo senza il quale non è possibile

nessuna comprensione”2, un “sentire-pensare” che permette di cogliere non tanto

e non solo quello che le persone dicono, ma anche il loro particolare essere ed

agire nel mondo3. Mi piace pensare che l’empatia e la risonanza che provo nei

confronti della val Varaita, oltre ad essere dei sentimenti positivi dal punto di vista

umano, siano produttivi anche professionalmente in quanto facenti parte del

metodo “perduttivo” teorizzato da Piasere. Secondo l’antropologo questa

metodologia etnografica “rimanda a un’acquisizione conscia o inconscia di schemi

cognitivo- esperienziali che entrano in risonanza con schemi precedentemente già

interiorizzati […], tramite un’interazione continuata, ossia tramite una co-

esperienza prolungata in cui i processi di attenzione fluttuante e di empatia, di

abduzione e mimesi svolgono un ruolo fondamentale”4.

2 Piasere L., (op. cit.), pp. 148.

3 Ivi.

4 Ibidem, pp. 56.

4

La mia tesi di laurea non pretende di essere un’analisi esaustiva dei musei

etnografici varaitini, essa si limita piuttosto a fornirne un’interpretazione. Il lavoro si

articola in quattro capitoli che presentano una struttura interna analoga. Essi si

compongono di alcuni paragrafi riguardanti ciascuno: il Comune che ospita la

realtà etnografica, il museo stesso ed infine uno dei quattro elementi che

compongono quello che il Professor Daniele Jalla definisce “il sistema di regole

proprio di un museo”. I paragrafi dedicati alle singole Municipalità vogliono essere

un tentativo di analisi del territorio, della sua storia, delle sue dinamiche sociali e

della gestione locale del patrimonio culturale. Si trattava di aspetti che mi

sembrava importante conoscere per comprendere meglio il contesto in cui sono

inseriti i musei etnografici. Questi ultimi sono “raccontati” in altri paragrafi, frutto

delle interviste condotte ai loro curatori. Le domande che ho posto, elaborate

insieme ad Adriano Favole ed Elisa Bellato nell’ambito del progetto comune, erano

volte a incrementare la mia conoscenza di questi musei e a metterne in luce le

caratteristiche più importanti. Le informazioni che ho cercato di reperire, per punti,

erano le seguenti:

• Informazioni di carattere generale

Nome

Data di fondazione

Accessibilità territoriale

Modalità di visita

• Gestione del museo

Fondatori

Proprietà

Gestione

Personale addetto

Risorse finanziarie

Sede

Visitatori

• Supporti scientifici

Supporti scientifici e didattici

Attività didattiche e culturali

Rapporti esterni e attività culturali

• La collezione

5

Tipologia delle raccolte

Origine della collezione

Inventario

Schedatura

Stato di conservazione

Allestimento

I paragrafi successivi, quelli che concludono ogni capitolo, contengono, a mio

avviso, le riflessioni teoriche più consistenti. Queste parti sono relative al “sistema

museo” e trattano rispettivamente della sede, delle collezioni, del pubblico e dei

protagonisti delle realtà etnografiche con le quali sono entrata in contatto.

Se “l’antropologia, come le società di cui si occupa, prende forma da una

molteplicità di incontri”5 allora i ringraziamenti non sono una semplice formalità.

Durante la ricerca di campo così come nel momento di scrittura della tesi sono

stati fondamentali i contributi dei gestori dei musei etnografici varaitini. Ringrazio

profondamente Celeste Ruà ed Enrica Paseri per le chiacchierate e per i momenti

di festa passati insieme. La loro compagnia mi ha portato più volte a riflettere sulla

dimensione ludica e aggregativa della valle. Dino Murazzano si è dimostrato una

persona-risorsa6 fondamentale, senza la quale non avrei formulato gran parte

delle riflessioni presenti all’interno della tesi. Rivolgo un pensiero affettuoso anche

a sua moglie Bea e a sua figlia Chiara che talvolta hanno partecipato alle nostre

chiacchierate. Il contributo di Ilaria Peyracchia al mio lavoro è stato indispensabile:

il confronto con lei nei pomeriggi passati insieme ha dato forma a numerose

considerazioni. Ringrazio sinceramente Fabrizio Dovo per tutto il tempo che mi ha

dedicato e per le risposte sempre esaustive alle mie numerose domande. Sono

molto grata a tutta la famiglia Ottonelli: a Olimpia, che spero di rivedere presto, e a

5 Favole A., “La palma del potere. I capi e la costruzione della società a Futuna (Polinesia

occidentale)”, il Seganalibro, Torino, 2000, pp. 4. 6 Nella tesi utilizzo l’espressione “persone-risorsa” per indicare i miei “informatori”, coloro che mi

hanno aiutato a comprendere il contesto culturale locale condividendo con me il loro sapere. Tale dicitura mi fa pensare al mio viaggio in Nuova Caledonia, realizzato per condurre la ricerca di campo necessaria a terminare il Corso di Laurea specialistico in Antropologia culturale. “Persone-risorsa”, infatti, è l’espressione con la quale ci si riferisce ai propri collaboratori all’interno del Centro culturale Tjibaou di Nouméa. Parlare degli informatori in termini di “risorse” permette di sottolineare non solo la dimensione relazione, amicale, di fiducia reciproca, che caratterizza il rapporto con questi individui, ma anche l’importanza del loro apporto al lavoro di ricerca. Mi piace pensare alle mie persone-risorsa come a dei co-autori del mio scritto, anche se tutti gli errori e le imprecisioni in esso contenuti sono solo opera mia.

6

Silvana, che durante i nostri incontri non ha mai risparmiato considerazioni

preziose. Ricordo con affetto e gratitudine il compianto Sergio Ottonelli, la valle ha

perso una persona e uno studioso straordinari e per me i suoi libri e il confronto

con lui hanno avuto un’importanza determinante.

Ho un debito di riconoscenza anche nei confronti di coloro che lavorano nei

Comuni nei quali si è svolta la ricerca. Le informazioni ricevute da Vittorio Fino,

Alfredo Campi, Giacomo Marc, Domenico Amorisco, Giovanna Barra, Matteodo

Barbara, Livio Fino, Laura Brun e Angela Sciapel sono servite a incrementare la

mia conoscenza del territorio. Mario Cordero, Fredo Valla, Giampiero Boschero,

Francesco Dematteis e Dominique Boschero, invece, si sono dimostrati delle

persone-risorsa indispensabili che hanno contribuito a vario titolo alla stesura di

questa tesi. Sono molto grata a Giovanni Bernard e Luigi Dematteis, i quali, con la

loro squisita ospitalità, mi hanno permesso di passare dei pomeriggi non solo

molto densi in quanto a informazioni ricevute, ma anche divertenti.

Ringrazio sinceramente il professor Daniele Jalla: il confronto con lui ha dato

forma e contenuti al mio lavoro ma soprattutto è stato uno stimolo importante che

mi ha permesso di incontrare persone nuove, leggere altri libri, affrontare

tematiche che non avevo considerato. Durante la stesura della tesi è stata

preziosa l’ospitalità e la cordialità di Erica Giacosa che, sempre gentile e

sorridente, mi ha aperto le porte di casa sua ogni volta che ne avevo bisogno.

Diego Mondo ha creduto da subito al progetto di ricerca “Musei etnografici e beni

DEA in Provincia di Cuneo”, e ad ogni chiacchierata si rivela una fonte inesauribile

di bibliografia e tematiche su cui riflettere. Rivolgo un pensiero pieno di affetto e

gratitudine al professor Adriano Favole che mi segue in modo attento e scrupoloso

nei miei lavori e che per me è un punto di riferimento in ambito personale e

professionale.

Sono oltremodo grata a Marco Prino per l’ospitalità, per le continue chiacchierate

sulla montagna, per avermi trasmesso il suo amore per il territorio e per avermi

insegnato che non si è mai abbastanza curiosi di ciò che ci circonda. I miei amici

di Torino, Casale e Perugia hanno allietato la scrittura della tesi con la loro

spensieratezza e mi hanno confortato con la loro compagnia. Un ringraziamento

speciale lo devo a tutta la mia famiglia e soprattutto a mia madre che

quotidianamente mi supporta e mi sopporta, e a mio cugino Antonio Lotito, il cui

7

contributo a livello informatico si è dimostrato determinante nel corso degli anni.

Con tutto l’affetto di una zia dedico il mio lavoro alla piccola Arianna.

8

CAPITOLO 1

RACCOGLIERE E CONSERVARE LA

MEMORIA A MILLE METRI DI ALTITUDINE

1.1 SAN PEIRE7

Prima dell’autunno 2009 non avevo mai visitato la valle Varaita. Decisi di partire

una mattina di novembre che, grigia e fredda, anticipava l’inverno che sarebbe

arrivato. La strada che ero intenzionata a percorrere scavalca la collina torinese e

si snoda tra i paesini della pianura saluzzese prima di salire a congiungersi con il

Colle dell’Agnello. Ancora oggi, nonostante l’abitudine al percorso, mi piace

osservare i mutamenti nel paesaggio, le diversità nella vegetazione e negli

insediamenti abitativi.

La prima tappa del mio viaggio in valle Varaita fu Sampeyre. Quel pomeriggio di

novembre avevo un

appuntamento per

visitare il locale

museo etnografico

ma il netto anticipo

con cui arrivai mi

permise di aggirarmi

un po’ per il paese. Il

cuore di Borgata

centrale, frazione che

ospita la realtà

etnografica, è

rappresentato

dall’ottocentesca Piazza della Vittoria. L’insediamento circostante, invece, è il

frutto dell’espansione di cinque piccoli nuclei abitativi medievali. Fin dal medioevo,

infatti, questa parte di Sampeyre è stata il centro della vita civile del paese perché

7 I titolo dei paragrafi che aprono i capitoli della tesi riportano i nomi dei paesi nella toponomastica

locale.

Sampeyre di Marco Bailone. Opera ottenuta per gentile

concessione dell’autore.

9

vi sorgeva la sede dell’autorità comunale, probabilmente collocata nell’attuale

casa Clary. Quest’ultima, datata 1455, come recita un’iscrizione tuttora visibile

sulla facciata, è il monumento più pregevole dell’architettura civile medievale del

luogo. La casa rappresenta un’interessante fusione tra lo stile costruttivo locale e

alcuni modelli di pianura. L’influenza delle tipologie architettoniche saluzzesi è

visibile nelle arcate presenti su tre lati al piano terra. Queste avevano lo scopo di

slanciare la figura dell’edificio e sono attualmente murate. Tuttavia, le componenti

di maggiore interesse della costruzione, che possiede una facciata sopraelevata

rispetto alle altre e un tetto proprio, sono rappresentate dalle bifore ornate sia da

decorazioni geometriche, sia da capitelli fregiati di teste umane8. Come accade

per l’influenza saracena in valle, del tutto sconfessata dagli storici, nelle têtes

coupes è individuato un retaggio della cultura celtica. I Celti erano un popolo di

origine indoeuropea che, nel periodo di massima espansione (VI- III sec. a.C.),

erano presenti su un territorio piuttosto vasto. Quest’ultimo comprendeva gran

parte delle odierne Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania, il nord-est della

Spagna e la pianura Padania in Italia. I Celti appendevano i crani dei nemici,

trofeo di guerra, fuori dalle abitazioni come simbolo della forza di chi vi abitava e

come monito contro i nemici. Per questo popolo la testa aveva così la funzione di

difendere la casa contro le forze del male ed è tale funzione apotropaica che viene

trasmessa nel corso dei secoli fino in epoca cristiana9.

La chiesa parrocchiale dedicata a San Pietro è collocata qualche metro più a valle

rispetto a Piazza della Vittoria. Attualmente il territorio di Sampeyre è diviso in tre

parrocchie mentre fino al secondo dopoguerra se ne potevano contare cinque. Si

tratta di una testimonianza dell’imponente decremento demografico subito dal

Comune nel corso del Novecento e in parte ancora in atto. La chiesa di San Pietro

è un edificio a impianto romanico, composto da una sola navata alla quale si

affiancano due cappelle, una delle quali può forse essere intesa come il nucleo

primitivo dell’edificio. Le tre componenti sono separate da snelli fasci di colonne in

pietra verde, sormontate da capitelli decorati con foglie stilizzate. All’interno della

chiesa, sulla parete perimetrale destra, è possibile osservare un’opera di grande

interesse realizzata dai pittori Tommaso e Matteo Biazaci. L’affresco, databile al

8 Ottonelli S., “Guida della Val Varaita. (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados

Usitanos, Bra, 1979. 9 D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti

archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000.

10

decennio 1460-70, narra alcuni episodi della vita di Gesù con numerosi dettagli

tratti dai Vangeli Apocrifi. La parrocchiale ospita anche un antico fonte battesimale

in marmo bianco risalente al 1482 e una cinquecentesca acquasantiera collocata

nel transetto a sinistra dei fedeli10. La facciata della chiesa di San Pietro presenta

uno dei più imponenti portali romanici del saluzzese. Realizzato in pietra verde,

esso si fregia di una decorazione nella quale elementi floreali accompagnano le

teste mozzate tipiche della valle11.

Il nucleo centrale di Sampeyre, compreso nell’area delineata da Piazza della

Vittoria e dalla parrocchiale dedicata a San Pietro, accrebbe la sua importanza nel

corso dei secoli perché in esso si svolgeva il mercato, istituito nel 1582 da Enrico

III. Fu proprio la presenza dell’area mercatale, punto di incontro e di scambio con

la popolazione dei paesi vicini, che portò ad una razionalizzazione della zona,

avvenuta nei primi dell’Ottocento. In questo periodo si spostò il cimitero da un sito

adiacente la chiesa al luogo attuale e si delimitò il lato meridionale della piazza

con una serie di costruzioni, andando così sempre più a incentivare e sottolineare

il carattere di luogo pubblico del centro12.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, in Piazza della Vittoria e nella

porzione di abitato osservabile dalla strada che conduce al Colle dell’Agnello fu

largamente impiegato uno stile costruttivo riconducibile a quello presente nelle

città di pianura. Gli edifici costruiti all’epoca “nascono dalla semplice iterazione sul

terreno di tipologie abitative urbane, ibridate prospetticamente tramite gli stilemi

del rustico internazionale”13. L’alternanza di condomini a più piani ha radicalmente

modificato e rovinato, a mio modo di vedere, l’assetto della borgata centrale.

Come sostiene Sergio Ottonelli “il dissesto edilizio di Sampeyre è ormai un luogo

comune. È qui che la speculazione edilizia ha fatto in valle le sue prime prove,

nella seconda metà degli anni Sessanta; è qui che si è collaudato quel modello di

edilizia speculativa che si è poi tentato di esportare nel resto della valle grazie alle

consuete complicità politico amministrative”14. Un censimento del 1971 indicava,

infatti, la presenza di 453 abitazioni inutilizzate per mancanza di infrastrutture; già

10

Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009. 11

Ottonelli S., (op. cit.). 12

Ibidem. 13

De Rossi A., “Architettura alpina moderna in Piemonte e Valle d’Aosta”, Umberto Allemandi & C., Torino, 2005, pp. 59. 14

Ottonelli S., (op. cit.), pp. 165.

11

all’epoca, poi, solo il 24% degli alloggi risultava essere occupato dai residenti,

mentre il 59% del patrimonio edilizio era destinato ad uso turistico15. La situazione

non è migliorata con il passare degli anni: nel 1981, a fronte di un totale di 3719

case, solo 653 di esse erano stabilmente abitate. Negli anni successivi, mentre

non crescono gli alloggi occupati quotidianamente, si moltiplicano quelli costruiti a

fini turistici: nel 1991 gli appartamenti sono 3971, nel 2001 raggiungono quota

425116. Lo sviluppo edilizio del paese, infatti, è in netto contrasto con la tendenza

demografica locale. Nonostante sia il Comune più popolato della media e dell’alta

valle17, Sampeyre si allinea con la generale perdita di popolazione che caratterizza

l’arco alpino occidentale e piemontese in particolare. Nel 1871 i residenti

nell’abitato erano 5503, nel 1961 scendevano a 2102 e nel 1978 erano 1628.

Come riporta l’Ufficio Anagrafe, attualmente i residenti in Sampeyre sono 109818.

Se si tratta di cifre veramente impressionanti, testimoni di un esodo senza ritorno,

il numero di abitanti tuttavia permette il mantenimento di alcuni servizi essenziali

come la posta, le rivendite alimentari e gli istituti scolastici. Sampeyre, infatti, è

l’ultimo paese prima del confine con la Francia ad ospitare una scuola elementare

e una scuola media. Sul territorio sono poi presenti alcune strutture di svago come

una discoteca ed un cinema, mentre nella piazza principale è possibile approfittare

di una rete wireless gratuita. Si tratta di una serie di elementi che non si trovano

altrove in valle Varaita, ad eccezione, forse, dei centri che si affacciano sul

saluzzese.

La ricchezza architettonica di Sampeyre, a mio avviso, è maggiormente

osservabile nelle piccole borgate, solo sfiorate dalla speculazione edilizia presente

altrove. Nelle frazioni, inoltre, più che nel centro del Comune, sono visibili elementi

riconducibili ai diversi periodi di fioritura architettonica che hanno caratterizzato

l’abitato.

Il periodo di relativo benessere che investe il territorio tra la seconda metà del

Quattrocento ed i primi anni del Cinquecento permette un imponente sviluppo

artistico. Lo stile architettonico locale può essere definito gotico, anche se la

15

Ibidem. 16

Tali dati statistici sono stati gentilmente forniti dall’Ufficio tecnico del Comune di Sampeyre. 17

In riferimento al numero di abitanti, cifre analoghe a quelle di Sampeyre si riscontrano solo nei paesi della bassa val Varaita: Brossasco, 1099 abitanti e 606 metri di altitudine; Venasca, 1484 abitanti e 549 metri di altitudine; Piasco, 2855 abitanti e 480 metri di altitudine; Costigliole 3349 abitanti e 460 metri di altitudine; Verzuolo 6507 abitanti e 420 metri di altitudine. 18

Tali dati statistici sono stati desunti grazie alla collaborazione dell’ufficio anagrafe del Comune di Sampeyre.

12

maggior parte delle case e delle borgate presenta elementi come le volte a botte, i

pilastri, i sistemi di passaggio coperti, normalmente considerati peculiari dell’arte

romanica. Oltre a tali caratteristiche “di importazione”, nell’architettura e nell’arte

locale è possibile osservare una componente locale molto forte. Quest’ultima si

esplica, ad esempio, negli architravi in legno o pietra a blocco unico, ma

soprattutto nelle figure antropomorfe e animalesche utilizzate come fregio

decorativo. Tali elementi architettonici e artistici tipici delle modalità costruttive

locali, sono visibili a borgata Martini. Questa si snoda lungo la strada che scende

al Varaita ed offre due esempi notevoli di portale ad architrave diritto, uno dei quali

è sorretto da capitelli ornati da teste mozzate19.

A partire dal Quattrocento gli abitanti della valle cominciarono a pensare alla casa

come ad un bene familiare e la modificarono al fine di incrementare l’entrata della

luce ed il ricambio dell’aria. Le antiche modalità costruttive, basate sulla

prevalenza di vani interrati e sulla promiscuità tra uomini e animali, furono

abbandonate in favore di tipologie architettoniche nelle quali i volumi si elevano da

terra. Il XV secolo, in particolare, fu caratterizzato dall’impiego di una raffinata

tecnica di lavorazione della pietra. Tipici di questo periodo sono le cornici segna

piano, le colonne monolitiche, gli stipiti e gli architravi ricavati da un unico blocco di

pietra, i muri perimetrali più spessi costruiti al fine di assorbire la spinta delle volte,

anch’esse elementi architettonici innovativi20.

Nel XVI secolo l’attività edilizia della valle subisce una battuta d’arresto a causa

delle guerre e delle epidemie che stravolsero il periodo. Il Settecento, invece, fu

pervaso da un grande rinnovamento architettonico caratterizzato da una

rivalutazione del legno. Questo materiale, rispetto alla pietra, consente la

realizzazione di forme più ariose e leggere. In quello che Luigi Dematteis definisce

“il secolo d’oro dell’edilizia alpina”21, compaiono portici e loggiati coperti, grandi

balconate lignee e la scala in legno come elemento tanto decorativo quanto

funzionale. Le sezioni verticali in pietra, invece, all’epoca acquisiscono slancio con

l’introduzione del pilastro a sezione tonda. Quest’ultimo presupponeva alte

capacità tecniche ed era quindi un manufatto di elevato valore economico

19

Ottonelli S., (op. cit.). 20

Dematteis L., “Case contadine nelle Valli Occitane in Italia”., Priuli & Verlucca, Torino, 1983. 21

Ibidem pp. 24.

13

finalizzato non solo ad alleggerire l’edificio cui era destinato, ma anche ad

impreziosirlo.

Risale al Settecento, inoltre, la notevolissima opera di alcuni pittori itineranti, tra i

quali spicca per importanza Giors Boneto. Una serie di affreschi del celebre artista

sono visibili a borgata Villaretto, sui muri di una casa che si affaccia su una piccola

piazzetta laterale. La frazione è un gioiello di architettura alpina situato a 1100

metri di altitudine. La particolarità della borgata consiste nell’essere organizzata “a

ricetto”, essa possiede cioè una struttura chiusa da una cortina esterna composta

dai muri continui delle case adiacenti. Secondo Dematteis, si tratta di una tipologia

di insediamento piuttosto inusuale in val Varaita22. La chiesa di Villaretto ospita

una croce in pietra verde scolpita nel 1503. La scultura medievale presenta dei

bracci bottonuti ornati con dei bassorilievi raffiguranti geometrie e fiori. La figura

del Cristo, il cui volto è purtroppo molto rovinato, si staglia rispetto alle altre. Ai

suoi piedi, la Madonna e san Giovanni sono raffigurati in un atteggiamento

rigidamente composto e con lo sguardo perso nel vuoto23.

Tra gli elementi architettonici di maggiore rilevanza presenti sul territorio

sampeyrese non si può non citare la chiesa di frazione Villar. La borgata, collocata

ai piedi di uno sperone roccioso, è stata quasi completamente ricostruita a partire

dalla seconda metà del Seicento dopo le gravi distruzioni della guerra del 1628 e

quelle causate da una frana nel 1655. L’edificio di culto ivi presente, a pianta

rettangolare, possiede un portale romanico le cui decorazioni, tuttavia, parrebbero

appartenere alla corrente successiva, il gotico. Il cortile davanti la chiesa si fregia

di una croce settecentesca in pietra verde, unica vestigia del cimitero che sorgeva

in loco24.

Anche a borgata Becetto è possibile osservare un edifico di culto di notevole

interesse. La chiesa della frazione, infatti, era un tempo uno dei più celebri

santuari mariani del Piemonte sud- occidentale. La parrocchiale è una costruzione

austera con una sola navata e una semplice facciata a capanna. Fondata nel

Duecento sul sito di una cappella risalente al 1028, la chiesa ha subito numerosi

cambiamenti che ne hanno stravolto la struttura originaria: il restauro

cinquecentesco ha distrutto quasi tutto l’edificio e ha costruito un primo campanile,

22

Ibidem. 23

Ottonelli S., (op. cit.). 24

Ibidem.

14

quest’ultimo venne restaurato e poi sostituito con quello attuale nel Settecento,

periodo nel quale venne eretto l’altare in marmo e il coro tutt’ora visibili; nel 1895,

infine, il pittore Netu Borgna di Martiniana Po ha affrescato l’abside. Guidato da

monaci benedettini, il santuario fu oggetto di venerazione nel corso dei secoli

anche a causa di una statua raffigurante una Madonna Nera, rubata nel corso del

Novecento25. Secondo Roberto D’Amico, la presenza di una statua di questo tipo

è da collegarsi all’eredità culturale celtica. I Celti veneravano Iside, simbolo della

terra madre, rappresentata nera come appunto la terra che nutre. La Madonna

Nera di Becetto, secondo l’autore, riproporrebbe in forma sincretica questo antico

culto26.

Il Comune di Sampeyre propone una serie cospicua di attività di valorizzazione del

proprio territorio, tanto durante l’estate, quanto nel periodo invernale27. La

metodologia di pianificazione prevede la sinergia di tutte le associazioni e le pro

loco presenti, con le quali lavorare alla stesura del programma di manifestazioni.

La Municipalità non ha una propria politica culturale specifica perché preferisce sia

il territorio a manifestare le sue necessità in tal senso. Lavorare in stretta

collaborazione con le associazioni e le pro loco ha proprio la finalità di potenziare il

legame tra la popolazione e il Comune. Quest’ultimo dedica al suo programma

culturale un budget che si aggira intorno ai 15.000- 18.000 euro l’anno, cifra

all’interno della quale è previsto anche un fondo per il museo etnografico. A

seconda delle attività proposte, il Comune assume un ruolo di semplice

cofinanziatore oppure anche di organizzatore e gestore.

Dal 2002, ogni anno, la Municipalità pubblica un depliant che indica tutte le

manifestazioni previste per il periodo estivo. Durante la bella stagione, infatti, una

serie di attività piuttosto fitte occupano i mesi di luglio e agosto. Tra gli eventi,

numerosi sono gli appuntamenti dedicati al teatro in dialetto piemontese e al ballo

liscio. Alcuni pomeriggi, invece, sono rivolti all’animazione e allo spettacolo per i

bambini oppure all’immancabile mercatino dell’antiquariato. Tra le diverse pro loco

presenti sul territorio, quella di Sampeyre si caratterizza per l’occhio di riguardo

alle “mode” del divertimento giovanile contemporaneo. Nel corso degli anni, infatti,

l’associazione ha gestito la visione di partite di calcio, spettacoli teatrali con artisti

25

Rossi D., (op. cit.). 26

D’Amico R., (op.cit.). 27

Le informazioni a riguardo sono state reperite da un depliant realizzato dal Comune di Sampeyre e da un’intervista all’ex assessore alla cultura, Vittorio Fino, da me condotta in data 19/02/2011.

15

di “Zelig”28, la festa della birra, esibizioni punk, reggae, ska, di musica latino-

americana. Questa pro loco, inoltre, sembra interessata alla pratica sportiva, come

si esplica nell’organizzazione pressoché annuale di tornei di calcetto, ping-pong,

tennis, beach volley e di bocce.

Osservando le manifestazioni estive proposte dal Comune di Sampeyre, alcune di

queste paiono essere finalizzate ad incrementare l’appeal turistico dell’area. A

partire dagli anni Sessanta, infatti, con la costruzione degli impianti di risalita, il

paese ha tentato di orientare le sue attività economiche in direzione di un

maggiore sfruttamento della risorsa rappresentata dal turismo. Tra le attività

estive, tuttavia, ve ne sono alcune sentite dalla popolazione locale come “proprie”,

come facenti parte del proprio specifico tessuto culturale. Queste manifestazioni,

data la loro importanza, sono frequentate anche da numerosi turisti, tuttavia a me

pare che esse siano realizzate per i sampeyresi e che siano orientate nelle loro

finalità a soddisfare taluni bisogni del territorio.

Tra gli appuntamenti più sentiti si distingue sicuramente “Lu ciantu viol”, una

giornata di festa che si svolge a fine luglio curata dalla pro loco di borgata Becetto.

L’evento comincia in mattinata con una passeggiata sugli antichi sentieri che

collegano Becetto a Dragoniere. Il percorso è accompagnato da musica

tradizionale, suonata dal vivo dai partecipanti alla festa. Giunti a Becetto, la

proloco della frazione organizza l’apertura dei bar e la “polentata” sui prati. Il resto

della pianificazione dell’appuntamento, l’incontro a Dragoniere così come la

presenza dei musicisti, risulta essere molto spontaneo. I suonatori, i ballerini, i

curiosi della valle e di quelle vicine, semplicemente, aspettano “Lu ciantu viol” per

trovarsi e festeggiare. Nonostante “la giovane età” della festa, che esiste solo dal

1984, questa sembra essere molto vissuta, mi è parso di riscontrare una sorta di

affezione all’evento. Non credo di trarre conclusioni errate nel sostenere come i

valligiani aspettino “Lu ciantu viol” non solo perché è indiscutibilmente un

momento divertente, di evasione, ma anche perché esso comincia ad assumere

un altro tipo di significato. Alcune persone risorsa sottolineano la forte portata

aggregativa di “Lu ciantu viol”, visto come un’occasione per condividere un

momento di convivialità “leggero” e per mangiare e bere in compagnia. Gli aspetti

indicati rimandano però ad alcuni significati simbolici che trascendono il valore

28

Zelig è un programma televisivo comico che prende il nome dall'omonimo locale milanese di cabaret.

16

nutritivo del cibo. Come sostiene Douglas “ogni pasto è un evento sociale

strutturato che ne struttura altri a propria immagine”29, quindi tutto quanto ruota

intorno al regime alimentare e alla sua condivisione può essere pensato come un

momento centrale nella società. Il convito, infatti, attraverso pratiche di inclusione

ed esclusione, assume un carattere di ritualità e contribuisce a delineare e definire

le relazioni sociali. Mangiare insieme può essere un modo efficace per

sperimentare una convivialità leggera, simmeliana, intesa come una tipologia di

aggregazione fine a se stessa che trascende contenuti particolari. Tale forma di

interazione è fondata sull’intrattenimento e offre spazi di reciprocità in cui allentare

il peso di maschere, tempi, vincoli, presenti in altri momenti della vita quotidiana30.

Se “solo quella socievole è una società a tutti gli effetti”31, “Lu ciantu viol” offre

terreno fertile per definire il senso di appartenenza alla comunità locale. Si tratta di

un fenomeno riscontrabile, a mio avviso, anche in talune pratiche di controllo

dell’alterità che vengono esercitate durante la festa. Alcune persone risorsa, infatti,

mi hanno confidato come i suonatori non tradizionali vengano biasimati perché

non rispettano quella che è la tipicità della manifestazione. In tale occasione non

mi è parso di riscontrare la pretesa di proporre un genere di musica immutato nel

tempo e nello spazio, privo di influenze esterne; a mio avviso, è invece presente il

desiderio di condividere una musicalità considerata locale. “Lu ciantu viol”, infatti,

si vuole articolato su moduli che, se non sono indicati come tradizionali vista la

giovane età della manifestazione, sono comunque sentiti come locali, come

ancorati al territorio. Alla luce di tali considerazioni, mi pare di poter affermare che

la festa in questione dia corpo a desideri di rapporti comunitari e di radicamento.

Se fornisce terreno fertile per tracciare i confini di società e per costruire il senso di

appartenenza ad essa, se contribuisce a scandire il tempo festivo della comunità,

“Lu ciantu viol” pare però operare “un gioco combinatorio con gli elementi di una

tradizione non più ad orizzonte unico”32

.

Tra gli eventi importanti, nei quali è possibile riscontrare la presenza di turisti ma

che i sampeyresi realizzano per sé stessi, non si può non citare la Baìo. Questa è

una festa molto amata dalla popolazione locale ed è considerata come tipica del

29

Douglas M., “Deciphering a Meal”, Routledge, London, 1997, pp. 44. 30

La Mendola S., Rettore V., “Indovina chi viene a cena? Accogliere o rifiutare l’alterità attraverso l’invito a cena”, in Neresini F., Rettore V., Cibo, cultura, identità, Carocci, Roma, 2008. 31

Simmel G., “Socievolezza”, Armando, Roma, 1997, pp. 43. 32

Bravo G., “Le feste tradizionali? Sono figlie della modernità”, in L’Alpe n. 3, dicembre 2000, pp. 43.

17

territorio. Tale termine occitano equivale all’italiano “Abbazia, Abbadia” con il quale

si intendono tanto la festa, quanto il gruppo di partecipanti. Quest’ultimo è

composto unicamente da uomini, anche nel caso in cui debbano interpretare

personaggi femminili. La Baìo di Sampeyre si svolge ogni cinque anni e si articola

in quattro cortei: quello di Piasso, il capoluogo, quello delle borgate di Rore

(Roure), Calchesio (lou Chouchèis) e Villar (lou Vilà). La cadenza quinquennale

della festa è un’usanza recente, che risale agli anni Trenta del Novecento. In

passato la Baìo si poteva svolgere per più anni di seguito, così come subire

intervalli maggiori: la periodicità dipendeva dallo stato di prosperità e tranquillità

del paese. La festa ha luogo nelle due domeniche di settuagesima e di

sessagesima33 e nel giovedì grasso, anche se la richiesta di poterla svolgere viene

posta dai giovani delle borgate il giorno dell’Epifania, dopo aver formato un corteo

improvvisato. Durante l’intervallo di tempo tra la richiesta e la celebrazione della

Baìo, le donne sampeyresi si dedicano al confezionamento dei costumi dei loro

figli, mariti o fratelli, costumi che andranno successivamente disfatti. L’opinione

corrente, ancora molto radicata tra coloro che partecipano all’evento, vuole che la

festa si configuri come la cacciata dei Saraceni dalla valle, avvenuta

presumibilmente intorno all’anno mille34. In realtà studi storici recenti

ridimensionano la portata di tale considerazione perché negano la presenza

stabile di arabi sul nostro territorio, annoverabile tutt’al più ad incursioni

sporadiche. Plausibile, invece, è il legame della Baìo con associazioni giovanili

come le Abbazie degli Stolti o le Badie, nate nel tardo medioevo. Si trattava di

gruppi di ragazzi che controllavano e organizzavano i principali momenti festivi

della comunità. Anche antiche cerimonie precristiane di propiziazione per i nuovi

raccolti, che non scomparvero del tutto con l’avvento del cristianesimo ma che

vennero, in qualche misura, inglobate nella dimensione carnevalesca, erano

regolate dalle Badie. Queste ultime mantennero sempre una forma di autonomia,

un carattere indipendente rispetto al potere ecclesiastico o politico, esponendosi a

ripetuti attacchi da parte delle autorità. Soprattutto nel periodo della

Restaurazione, queste associazioni giovanili erano viste come pericolosi focolai di

devianza e tanto la Chiesa, quanto i Savoia non lasciarono nulla di intentato per

33

Sono le domeniche che precedono la Pasqua di circa 70 e 60 giorni e che segnano l’inizio del periodo carnevalesco. 34

A.A. V.V., “Baìo! Baìo! Storia, tradizione e realtà della Baìo di San Peyre”, Ousitanio Vivo, Saluzzo, 1987.

18

sopprimerle. Quelle che sopravvissero furono costrette a ridimensionare i loro

ambiti di azione e a modificare le loro prerogative: le feste organizzate erano

sempre più qualificate come manifestazioni legate a ricorrenze religiose o come

rievocazioni storiche. È il caso della Baìo di Sampeyre, la cui marcata

storicizzazione le permise di evitare censure. Le modifiche interne alle Badie,

tuttavia, non furono dovute solo a fatti contingenti, ma anche al semplice passare

del tempo. Il corso dei secoli rese vecchie alcune prerogative e allentò il legame

tra i giovani che sempre meno si riconoscevano nelle associazioni di questo tipo.

Determinate caratteristiche invece si accentuarono: è il caso della connessione tra

i momenti di festa comunitaria e le Badie, tanto che tale denominazione passò

dall’indicare il gruppo di ragazzi, a riferirsi direttamente alla festa stessa. Secondo

alcuni la Baìo è “una pericolosa evoluzione verso un banale prodotto turistico”, a

mio avviso, visto l’orgoglio e l’impegno con cui viene organizzata e celebrata, non

può essere intesa in questo modo35. La Baìo, ma più in generale le feste di

montagna contemporanee, valorizzano il contesto culturale in cui si radicano.

Lungi dall’essere una degenerazione del patrimonio locale, esse al contrario

forniscono gli strumenti concettuali per agire nel presente, utilizzando pratiche e

saperi del passato. Le feste possono essere considerate come “figlie della

modernità” perché la loro vivacità non è connessa a territori isolati e protetti

dall’impatto dell’urbanizzazione, quanto piuttosto a zone coinvolte in processi di

scambio e comunicazione con aree più vaste. Anche i protagonisti, più che

persone chiuse ed immerse in un passato rurale, appaiono al contrario coinvolti e

attivi nelle strutture sociali contemporanee. Gian Luigi Bravo li definisce

“pendolari” proprio per indicare non tanto lo spostamento sul territorio, quanto il

movimento da un contesto socioculturale ad un altro36.

Le feste continuano a ritmare il tempo comunitario riformulando tuttavia funzioni,

messaggi e finalità. Si tratta di un quadro reso possibile dall’ibridazione con

elementi esterni ascrivibili al mondo moderno e globale. Le feste, mentre

forniscono un bene di cui è manifesta la richiesta, come la necessità di instaurare

rapporti comunitari e di ritrovare le proprie radici, promuovono i prodotti ed il

turismo locale. Mentre trovano sempre più spazio nei media moderni, come la

35

De Angelis A., “Baìo. Storia e fortuna di un carnevale alpino”, in L’Alpe n. 3, dicembre 2000. 36

Bravo G.L., “Festa contadina e società complessa”, Angeli, Milano, 1984.

19

televisione, continuano a fornire terreno per il senso di appartenenza e per la

costruzione di una memoria comune37.

In relazione alla programmazione estiva, oltre a “Lu Ciantu Viol”, anche il resto

delle manifestazioni proposte dalla pro loco di Becetto si distinguono per

l’attenzione al contesto culturale locale. L’associazione cura diverse feste di

carattere religioso e civile, tra le quali ricordo la “passeggiata gastronomica” tra i

mulini, restaurati e messi in funzione per l’occasione. La proloco è molto attenta

anche al ripristino e al mantenimento delle antiche mulattiere presenti sul suo

territorio, una politica sfociata nella realizzazione di due percorsi naturalistici. Il

primo, a sviluppo circolare, collega borgata Graziani a borgata Morelli e si snoda

lungo il vallone del torrente Crosa. Durante tutto il tragitto una serie di pannelli

forniscono informazioni sulla flora locale. Il secondo percorso naturalistico curato

dalla proloco è stato realizzato insieme all’associazione culturale “Lu Rure”38

perché il sentiero delineato tocca il territorio delle due frazioni. La passeggiata è

articolata in tre anelli, corrispondenti a tre differenti mulattiere, che collegano

Becetto, Rore e Ciaruntu, una borgata di Frassino, comune limitrofo di Sampeyre.

Anche in questo caso, lungo tutto il percorso è possibile osservare una serie di

pannelli che danno indicazioni sulla vegetazione circostante. La pro loco di

Becetto possiede un sito internet nel quale è possibile reperire informazioni in

merito alle attività proposte. Online, l’associazione ha pubblicato una cartina sia

dei sentieri che collegano la borgata con il centro di Sampeyre e con le altre

frazioni, sia dei piloni votivi presenti sul territorio. Sul sito, inoltre, sono presenti

informazioni sui forni e sui mulini di borgata, così come sulle principali opere

architettoniche e artistiche visibili a Becetto39.

L’associazione culturale “Lu Rure”, similmente alla pro loco di Becetto, propone

attività finalizzate alla valorizzazione del patrimonio culturale locale.

L’associazione nacque agli inizi degli anni Ottanta per volere del gruppo di giovani

della borgata, tra cui Francesco Dematteis, che avevano fondato la cooperativa

“Lu viol”. Questa era sorta per promuovere progetti in ambito culturale e turistico

ma, dal momento che è un ente economico, una società commerciale, i suoi soci

devono essere persone che all’interno di essa hanno un ruolo attivo, di tipo

37

Ibidem. 38

L’associazione culturale “Lu Rure” riprende il nome “a nosto modo”, ovvero nell’occitano parlato in loco, di borgata Rore. 39

www.prolocobecetto.it

20

lavorativo. La cooperativa, quindi, non poteva raccogliere le adesioni di quanti

frequentavano il territorio e partecipavano alle attività proposte dal gruppo pur

avendo un impiego diverso. Per ovviare a questa problematica si è creata

l’associazione “Lu Rure”, con la finalità di proporre attività unicamente in ambito

culturale. All’interno della cooperativa, invece, c’è stato «un rinnovamento

statutario, un mutamento nella compagine sociale e quel settore di attività turistica

non esiste più», è stato sostituito dal lavoro in ambito edilizio40.Tra le attività

realizzate, l’associazione “Lu Rure” ha creato un progetto di ripristino delle antiche

fontane, ha messo dei dispositivi antincendio su tutta la borgata, si occupa della

manutenzione e della segnalazione dei sentieri, ha condotto una ricerca sulla

toponomastica del luogo ed ha curato una pubblicazione sui “sarvanot”. Questi

ultimi sono i folletti che popolano le fiabe e le leggende locali, spiriti del bosco cui il

gruppo di volontari ha dedicato anche un percorso naturalistico. La piacevole

passeggiata “Tumpi la pisso. Il sentiero dei sarvanot”, è finalizzata a mostrare le

bellezze naturalistiche del luogo ma, tra le rocce e la vegetazione, è possibile

osservare anche alcuni pupazzi che rappresentano questi spiritelli leggendari. Tali

raffigurazioni sono state create da un giovane artista del luogo, Marco Bailone, la

cui opera è piuttosto conosciuta in valle. Bailone, infatti, ha collaborato con la

Comunità Montana Valle Varaita ad alcuni progetti di valorizzazione del contesto

culturale locale. La sua mano sensibile e ironica ha illustrato il depliant “Òc: terra e

lenga”, incentrato sulla lingua e sulla cultura occitana, e ha realizzato alcune

“cartine” dei paesi della valle. In queste opere, che indicano le caratteristiche

proprie di ogni località, la struttura viaria dei centri abitati si deforma per accogliere

i personaggi tipici dell’opera di Bailone. Tali particolarissime “mappe” sono

distribuite gratuitamente nei bar, nei ristoranti, negli alberghi, come “guida” per

visitare il territorio. Il percorso naturalistico dedicato ai sarvanot è stato realizzato

grazie alla collaborazione degli abitanti di borgata Rore i quali per due mesi, nei

fine settimana, si sono organizzati in rueido41 al fine di ripristinare il sentiero e

collocare i pannelli.

40

Elementi tratti da un’intervista a Francesco Dematteis condotta in data 27/04/2011 41

Le rueido sono forme associazionistiche molto comuni in passato, adesso quasi completamente scomparse, le quali prevedevano la collaborazione di tutte le braccia lavoratrici della borgata. I gruppi così creati si riunivano per svolgere attività di interesse collettivo. Di norma maschili, anche le donne prendevano parte alle rueido se gli uomini erano assenti.

21

Tra le manifestazioni di carattere culturale proposte dal Comune di Sampeyre,

cinque sono quelle che godono di “un occhio di riguardo”: i già citati “Lu Ciantu

Viol” e la Baìo, il concerto di S.Anna, la rassegna del cavallo di Merens, e la Fiera

di San Michele. In relazione agli ultimi tre eventi citati, il Comune ricopre un ruolo

tanto finanziatore, quanto organizzativo e gestionale. Per quanto riguarda “Lu

Ciantu Viol” la questione è un po’ diversa perché, come già detto, la

manifestazione è organizzata dalla proloco di Becetto. La Municipalità di

Sampeyre, però, dedica all’evento una serata in musica che, di norma, si svolge il

giorno prima della festa vera e propria. La Baìo, invece, è organizzata da coloro

che ricopriranno uno dei ruoli principali all’interno della manifestazione. Il Comune

collabora all’attuazione della festa chiudendo le strade e realizzando parte degli

allestimenti necessari al ballo che sancisce la fine dell’evento.

Il concerto di S. Anna ha luogo il primo agosto nel vallone omonimo, posto a

l’inverso42 del Comune. La manifestazione esiste solo da tre anni e ha ospitato, la

prima estate, la sezione di ottoni dell’Orchestra dell’Arena di Verona. L’edizione

successiva è stata dedicata al tango e ha visto l’esibizione del Quintettango,

mentre nel 2010 il concerto di S. Anna è stato tenuto dalla Banda Osiris.

Il cavallo Merens è originario del dipartimento dell'Ariège, nei Pirenei francesi, ed è

stato introdotto in val Varaita e in Italia da Francesco Dematteis nella seconda

metà degli anni Settanta. I Merens sono neri, di media taglia, hanno zampe

robuste e vengono utilizzati soprattutto per il lavoro nei campi in montagna dove le

peculiarità del terreno riducono la possibilità di usare macchinari. In Italia, il

riconoscimento ministeriale della razza è avvenuto solo nel 2010. Sampeyre

dedica ai Merens una fiera, articolata in tre giornate, dove vi sono concorsi per i

soggetti più prestanti e spettacoli vari. Si tratta anche di una vetrina importante per

gli allevatori della zona che hanno in questo modo l’occasione per pubblicizzare il

loro lavoro.

La Fiera di S. Michele si svolge il 25 settembre, data che tradizionalmente sanciva

il ritorno dagli alpeggi. Dal 2005, il giorno successivo la fiera, il Comune organizza

anche la sagra della raviole, piatto tipico della valle. Si tratta di particolari gnocchi

allungati preparati con patate e toma e conditi con burro fuso.

42

Termine che indica il versante della montagna con la minore esposizione al sole.

22

La fiera di S. Michele conclude quella che è la programmazione culturale estiva di

Sampeyre. In inverno, invece, i piccoli impianti di risalita che si snodano a l’inverso

rappresentano il fulcro di interesse comunale. “L’area sciabile di Sampeyre […] è

attrezzata con una sciovia e due moderne seggiovie biposto (Seggiovia S.Anna e

Seggiovia Varisella) che coprono un dislivello di circa 900m”43. Le risorse

economiche e progettuali del Comune sono, quindi, interamente spese in tal

senso. Il comprensorio sciistico è gestito da una società per azioni a capitale misto

di cui la Municipalità è il socio maggioritario. Le spese di gestione sono quindi

quasi totalmente a carico del Comune che fatica a reperire la cifra necessaria.

Questa si aggira intorno ai centomila euro annui ed è decisamente superiore

rispetto a quella stanziata per la valorizzazione e la tutela del patrimonio culturale

locale. Difficile, poi, riuscire a sancire l’effettivo beneficio economico apportato alla

comunità. Il turismo invernale sampeyrese, ad eccezione del periodo di Natale, è

caratterizzato da un approccio cosiddetto “mordi e fuggi”. I visitatori rimangono sul

territorio un giorno solo, normalmente la domenica, scarsi sono quindi gli introiti

degli hotel, limitati quelli dei bar44. Solo una parte dei cittadini, però, è critica in

merito agli impianti sciistici. Queste persone tendono ad interrogarsi, in parallelo,

in relazione a quelle che vengono percepite come mancanze di gestione da parte

del Comune. Ad esempio, secondo l’opinione di alcune persone risorsa, pare

addirittura che la gestione delle nevicate nel 2010 sia stata piuttosto carente. A

causa della penuria di fondi, l’appalto agli spartineve è stato diminuito e affidato ad

una compagnia che, se tiene pulita la strada provinciale, non passa nelle borgate.

Il confronto con le risorse spese per gli impianti sciistici è quindi fonte di

polemiche.

Una parte cospicua degli abitanti di Sampeyre, tuttavia, sembra essere contenta

della gestione del turismo invernale. Il comprensorio sciistico appare a queste

persone come l’unico modo economicamente proficuo di sfruttare la risorsa

rappresentata dai villeggianti. Mi chiedo, però, quanto tale concezione non sia

figlia degli anni Ottanta e del miraggio di benessere che gli impianti di risalita,

allora, portavano con sé. La crisi del settore, infatti, è ormai nota45 e anche il

Comune propone una politica di gestione del comprensorio diversa rispetto a

43

www.comune.sampeyre.cn.it 44

Informazioni reperite grazie all’intervista da me condotta a Vittorio Fino, ex assessore alla cultura del Comune di Sampeyre. 45

Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”,Bollati Boringhieri, Torino, 2005.

23

quella degli anni passati, non più solo basata sulle cosiddette “settimane bianche”,

ma che cerca di collegare la struttura al contesto culturale locale. In cima agli

impianti di risalita, infatti, è stata ristrutturata una grangia46 rispettando le modalità

architettoniche tradizionali. L’abitazione è adibita a rifugio e al suo interno sovente

si svolgono delle serate con musica tradizionale. Il comprensorio sciistico è

utilizzato dal Comune anche per proporre camminate con le racchette da neve in

luoghi un po’ insoliti e per realizzare delle serate con astronomi in cui si guardano

e studiano le stelle. Si tratta di una serie di manifestazioni che, a mio modo di

vedere, possono essere pensate come un timido tentativo di inserire gli impianti di

risalita all’interno di una politica generale di valorizzazione del patrimonio culturale

locale.

1.2 IL MUSEO STORICO ETNOGRAFICO DI SAMPEYRE Fabrizio Dovo ha un’aria cortese e gentile mentre gira nella toppa la chiave del

Museo Storico Etnografico di Sampeyre47. In quel freddo, primo pomeriggio di

novembre trovare la struttura non è stato complicato, situata com’è nel cuore del

paese, all’interno della parte più antica. Il museo è raggiungibile percorrendo

l’attuale via Roma, la quale collega Piazza della Vittoria, sede del municipio e

centro dell’abitato, al bivio da cui si diparte la strada per le borgate di Becetto e

Dragoniere. La sede dell’istituzione è un’antica casa signorile risalente al XVI

secolo, in passato dimora della famiglia Savio di Saluzzo. L’aspetto odierno della

costruzione si deve ad alcuni ampliamenti dell’edificio attuati nel Settecento. Si

tratta di una serie di modifiche che ne definirono tanto la facciata, dove è possibile

osservare un grande affresco dall’attribuzione incerta raffigurante l’ostensione

della Sindone, quanto le sale interne, alcune delle quali vantano antichi soffitti a

cassettoni. Nel corso degli anni l’edificio ha ricoperto funzioni diverse, in quanto è

stato, ad esempio, sede del Comune e di una scuola e, a partire dal 1981, anche

sede del museo etnografico. Quest’ultimo è aperti tutti i giorni durante le maggiori

festività e nei mesi di luglio e agosto. Nel novembre in cui ho visitato per la prima

volta il museo mi sono avvalsa della gentilezza di Fabrizio, ex vicepresidente

46

Termine locale che indica un’abitazione temporanea, utilizzata durante l’estate e collocata a quote più elevate rispetto alla casa di residenza. 47

Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte da due interviste condotte a Fabrizio Dovo in data 20/10/2009 e 29/07/2010, nonché dalla brochure di presentazione del museo e dal sito internet www.etnomuseosampeyre.it

24

dell’associazione che gestisce la struttura. Quest’ultima viene comunque aperta

durante la stagione fredda anche per scuole e gruppi.

L’idea di creare un museo etnografico a Sampeyre è nata a metà degli anni

Settanta in ambiente scolastico. Alcuni professori della scuola media locale

cominciarono a ragionare sull’esistenza di una serie di oggetti legati alla vita

contadina i quali stavano entrando rapidamente in disuso, con il rischio correlato di

venire gettati o di deteriorarsi irrimediabilmente. C’era, all’epoca, la sensazione di

stare smarrendo non soltanto dei manufatti, ma anche parte di quel mondo cui

erano intrinsecamente collegati. I docenti coinvolsero, quindi, i ragazzi in un

progetto di recupero e valorizzazione di ciò che era sentito come «una

testimonianza materiale, un qualcosa legato alla tradizione del lavoro che poteva

perdersi». La collezione nacque in modo spontaneo, «come provocazione», frutto

del desiderio di insegnanti e ragazzi di ragionare su tale tematica. Moltiplicatisi

forse in maniera inaspettata, gli oggetti furono acquisiti dal Comune ed esposti nei

locali dell’attuale museo.

Di proprietà comunale, quest’ultimo fu quindi gestito dall’assessorato alla cultura

fino al 2002. Nel corso dei vent’anni di amministrazione municipale, il museo ha

subito vicende alterne, in particolare, sembra che l’interesse nei suoi riguardi fosse

scemato nel corso degli anni Novanta quando «veniva aperto a volte, certi anni

non veniva aperto proprio, certi anni veniva aperto per qualche periodo se […]

c’erano delle scolaresche interessate». All’inizio del millennio il Comune si rese

protagonista di un rinnovato interesse per il museo locale e realizzò, con la

collaborazione di alcuni giovani, un progetto di riallestimento delle sale. Tale

cooperazione fece sorgere nei ragazzi l’interesse, la voglia, di continuare l’impresa

sviluppando nuove progettualità. Grazie ad una convenzione stabilita con il

Comune, a partire dal 2002 la gestione della struttura venne totalmente affidata a

questi giovani riunitosi, successivamente, nell’associazione “Mireio”. Questa,

creata nel 2006, è dotata di autonomia giuridica e amministrativa. La

denominazione dell’associazione è un omaggio all’opera dello scrittore provenzale

Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904. “Mireio” è il titolo della

sua opera più importante e riprende il nome della protagonista, una giovane

fanciulla a servizio presso la famiglia Mistral in Provenza. La ragazza affascina

l’immaginario del giovane poeta e ne diventa in qualche modo la “musa”. Mireio

era originaria di Sampeyre, frazione Rossi, e al secolo si chiamava Maddalena

25

Giovenale. Da quando gestisce il museo, l’associazione che porta il suo nome ha

incrementato tanto le sale espositive quanto le attività proposte. Uno dei fini

perseguiti era quello di trasformare la realtà museale «in un piccolo centro

culturale» inserendola in «un discorso più ampio», all’interno del quale

racchiudere anche conferenze, mostre, corsi e pubblicazioni. Il rapporto con il

Comune rimane molto intenso perché l’amministrazione collabora

economicamente al mantenimento della struttura.

L’ingresso al museo non prevede il pagamento di un biglietto ma è comunque

presente la possibilità di fare un’offerta. Nel periodo estivo la visita è libera, mentre

in inverno le aperture su prenotazione si avvalgono della presenza di una guida.

L’esposizione si snoda in dieci sale il cui criterio allestitivo è “ispirato alle attività e

ai cicli produttivi tradizionali”48.

La prima sala prevede un’introduzione di carattere storico al paese di Sampeyre.

Al suo interno è presente uno dei pezzi di maggiore importanza tra quelli che

compongono la collezione museale. Si tratta del fondo fotografico Pignatta-

Martino, che deve il nome a due fotografi vissuti nel paese a cavallo tra Ottocento

e Novecento. Le immagini sono circa duecento e documentano diversi aspetti

della vita contadina locale tra il 1890 e la fine della seconda guerra mondiale.

Come mi ha confidato Fabrizio, l’acquisizione di tale fondo è avvenuta in modo

«alquanto rocambolesco» perché, trovato in una casa da restaurare all’epoca

dell’«edilizia selvaggia di Sampeyre», è stato salvato dall’immondizia da un

passante di particolare sensibilità. Un altro oggetto di rilievo contenuto in questa

prima sala è un’antica macchina dell’anagrafe, uno strumento che veniva utilizzato

per creare i documenti d’identità. Completa l’allestimento una grande vetrina a

muro contenente capi d’abbigliamento usati soprattutto in contesti importanti come

i matrimoni.

La stanza attigua ospita alcuni oggetti utilizzati in passato durante il lavoro nei

campi: sul pavimento sono disposti trebbiatrici, aratri, ventilabri e slitte. Una serie

di foto documentano poi la trasformazione del latte in burro e formaggio.

48

www.etnomuseosampeyre.it

26

Dal lavoro nei campi a quello più

tipicamente femminile, la sala

successiva è dedicata alle attività

riservate alla donna come la

lavorazione della canapa e della

lana, della farina e del latte. Una

delle pareti della stanza ospita

alcune fotografie raffiguranti due

coppie di sposi, trovate

casualmente nel solaio del palazzo

che ospita il museo. Si tratta di

immagini con una storia particolare scoperta grazie all’interessamento di un

visitatore francese. Fabrizio mi raccontava della collaborazione sorta tra alcuni

membri del direttivo e questo ragazzo d’oltralpe originario di Sampeyre il quale

desiderava avere notizie della sua famiglia. Dopo una serie di ricerche

caratterizzate da coincidenze «al limite del soprannaturale», è emersa

praticamente l’intera storia di vita del nonno di questo visitatore, avo che si è

scoperto essere il figlio di una delle coppie di sposi le cui foto erano esposte sul

muro della stanza riservata al lavoro femminile. A mio avviso si tratta di un

interessante esempio del rapporto che il museo ha instaurato con una parte del

suo pubblico e degli abitanti di Sampeyre. Le collezioni esposte si compongono in

misura rilevante di oggetti donati o prestati, pochissimi sono i pezzi acquistati. Il

direttivo stabilisce quindi un rapporto privilegiato con le persone che offrono loro i

manufatti, con il desiderio di essere un «punto di riferimento», una «casa

comune». Si tratta di un sentire che si manifesta anche nell’allestimento, accusato

da alcuni di essere troppo caotico. In realtà «gran parte degli oggetti sono nelle

stanze anche per un motivo: perché la gente che li porta poi ha piacere di vederli

esposti». L’allestimento deve le sue caratteristiche al desiderio di «valorizzare

questo interesse delle persone» le quali offrono manufatti che «hanno un valore a

livello familiare» al fine di «ricordare i loro parenti o per evitare che alcune cose

vadano perdute». Mi sembra di poter affermare che se “l’obbiettivo primario” del

museo “è la conservazione e la trasmissione della memoria storica ed

Una sala del Museo Storico-Etnografico di

Sampeyre. Foto dell’autrice.

27

etnografica”49 di Sampeyre, un’attenzione particolare è rivolta al “ritorno” nei

confronti di coloro che hanno collaborato con le loro donazioni alla crescita della

collezione.

Continuando il percorso espositivo, all’interno della sala che si incontra

successivamente è possibile osservare la ricostruzione di un’aula di scuola

elementare di inizio Novecento. In effetti i banchi in legno con lo sgabello fisso ivi

presenti sono stati trovati all’interno dei locali stessi del museo, il quale, in

passato, ha ospitato una sede scolastica. A riguardo, è forte il contrasto con la

situazione attuale: a fine Ottocento le scuole elementari di Sampeyre, borgate

comprese, erano 14, adesso invece se ne conta una sola.

La quinta stanza del museo espone una serie di oggetti utilizzati dal carradore e

dall’arrotino, due figure lavorative quasi completamente scomparse, cancellate dal

progresso tecnologico. Quello dell'arrotino, in particolare, era anche uno dei

mestieri caratteristici dell'emigrazione montanara stagionale e temporanea.

Quest’ultima può essere considerata come un’“importante e quasi universale

strategia di espansione delle risorse locali”50. A causa delle asperità del clima e

della scarsità di terreno, sembrerebbe ovvio pensare che le comunità alpine

dovessero avvicinarsi maggiormente ad un’economia di sussistenza. In realtà

proprio le difficoltà del territorio limitarono la possibilità di questi popoli di

raggiungere l’autosufficienza ed incentivarono l’apertura delle economie locali.

L’emigrazione alpina però non si configura come “una disordinata fuga dalla

miseria”51 e gli uomini che scendevano dalle montagne per lavorare in pianura non

erano solo mendicanti o vagabondi. L’emigrante alpino, al contrario, si

caratterizzava per essere un piccolo commerciante o un artigiano in grado di

svolgere anche lavori di alta specializzazione. Inoltre, il fatto innegabile che la

povertà della terra abbia spinto molti uomini alla migrazione non deve indurre a

trarre conclusioni sulla loro situazione economica. Numerosi studi attestano che il

fenomeno migratorio era diffuso in tutti gli strati sociali e che tendeva anzi ad

essere più frequente tra la popolazione maggiormente benestante. L’esodo

stagionale e temporaneo non può essere considerato come “una semplice

49

Ibidem 50

Viazzo P.P., “Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi”, il Mulino, Bologna, 1990, pp. 189. 51

Viazzo P.P., “Il paradosso alpino”, in L’Alpe n.1, inverno 1999- 2000.

28

strategia di sopravvivenza imposta dall’ambiente alpino”52, in quanto era invece un

“fattore di mobilità nella gerarchia economica e sociale del villaggio”53. Alcuni dei

protagonisti di questa che potremmo definire “migrazione di qualità”, ricavavano

dai loro spostamenti una certa prosperità e a volte anche ricchezza54.

Alla lavorazione della canapa, un'altra attività in passato largamente diffusa sul

territorio, è dedicata la zona espositiva successiva. Qui l’intenzione del direttivo

era quella di spiegare la manipolazione della fibra tessile al fine di ottenere due

filati: uno più sottile utilizzato per vestiti e coperte, ed uno più grezzo e spesso con

cui venivano realizzate le corde.

Il museo etnografico di Sampeyre possiede un piccolo cortile interno sul quale si

affacciano due stanze, anch’esse utilizzate a fini espositivi. In questo caso il

direttivo ha tentato di ricreare due botteghe artigiane, anche per quanto riguarda il

loro aspetto esterno. Uno degli esercizi ricostruiti è quello di un calzolaio,

corredato di macchina da cucire, forme di legno, chiodi di diversa entità e

scarponi. La bottega è completa perché ripresa nella sua interezza da quella di un

prozio di Fabrizio, il quale appunto svolgeva tale mestiere. Anche per il

vicepresidente dell’associazione Mireio, la pratica espositiva si mescola con il

desiderio di non dimenticare il proprio passato familiare ma, al contrario di

valorizzarlo. L’altra saletta che si affaccia sul cortile interno può essere

considerata come “un tributo a muli e cavalli, fedeli, generosi e instancabili

compagni di fatica dei lavoratori d'un tempo”55. Insieme a basti, collane e selle, in

loco una serie di foto illustrano l’impiego degli animali per il lavoro dei campi ed il

trasporto dei materiali.

La stanza attigua alla sala conferenze è dedicata alla «festa più sentita, più amata

di Sampeyre»: la Baìo. Appena entrati sulla sinistra un’imponente vetrina contiene

la collezione Luigi Carlino, si tratta di riproduzioni in scala, alte all’incirca venti

centimetri, raffiguranti i personaggi del corteo festivo. Carlino era un sarto

sampeyrese che, impossibilitato a lavorare, negli ultimi anni della sua vita, si

dedicò alla realizzazione dei pupi esposti, un omaggio al museo del suo paese.

Agli angoli della sala, fanno bella mostra di sé le bandiere dei cortei del

capoluogo, e delle borgate di Rore, Calchesio e Villar. Attualmente le Baìe del

52

Viazzo P.P., (op. cit.), pp. 201. 53

Ivi. 54

Viazzo P.P., (op. cit.). 55

www.etnomuseosampeyre.it

29

Comune di Sampeyre sono quattro, in passato invece erano più numerose, ma

alcune, come quelle di Becetto e Sant’Anna, sono ormai definitivamente

scomparse. Un recente lavoro di analisi ha permesso di datare le quattro bandiere

esposte, che si è scoperto risalire al XVIII secolo. Alcune parti del drappo del

capoluogo sono invece più antiche, attribuibili al XVII secolo. Si tratta di quattro

pezzi di notevole importanza storica e documentale che, tuttavia, hanno fatto

nascere qualche piccolo contenzioso in seno al paese. Come mi rivelava lo stesso

Fabrizio «è una cosa su cui qualcuno storce il naso il fatto che noi teniamo

esposte le bandiere, perché, teoricamente, non potrebbero essere viste se non nei

tre giorni della festa». Al centro della sala, dispiegata su una serie di strutture

autoportanti, è possibile osservare una documentazione fotografica della Baìo

sampeyrese, immagini che aiutano a comprendere meglio alcuni aspetti della

manifestazione ed a calarla nel contesto locale.

Il percorso espositivo del museo culmina con una sala dedicata alla lavorazione

del legno. Qui l’associazione ha voluto rappresentare l’intero processo di

manipolazione del materiale: dalla pianta all’oggetto finito. È quindi possibile

osservare le varie tipologie di legno utilizzate localmente, tagliate a sezioni per

meglio coglierne le specificità. Sono presenti anche una serie di seghe di diverso

tipo e materiale che, a seconda delle loro caratteristiche, permettevano di tagliare

la pianta in maniere differenti. Parte di questi oggetti provengono dalla bottega di

un falegname locale e sono stati donati dal figlio di costui. Si tratta di beni in ottimo

stato di conservazione anche perché utilizzati fino ad epoche recenti. Appena

entrati sulla sinistra della sala si estende il tipico banco di lavoro dell’ebanista,

corredato da tutti i principali strumenti di lavorazione del legno. Un imponente

armadio d’epoca rende, infine, l’idea di cosa doveva essere il prodotto finito di

questi artigiani56. Trovo molto interessante l’accennato collegamento con la

produzione mobiliera contemporanea che si ricava da alcuni pannelli a muro i

quali illustrano le differenze tra i mobili tradizionalmente realizzati in valle e quelli

di nuovo design proposti dall’Agenzia del Legno. Si tratta di un progetto avviato

nel 1999 dall’allora Comunità Montana Valle Varaita, con la collaborazione

dell’Agenzia dei Servizi Formativi della Provincia di Cuneo e grazie al sostegno di

finanziamenti europei. L’Agenzia del Legno aveva come finalità la messa in rete

56

In valle Varaita, a Pontechianale, è presente un museo etnografico interamente dedicato alla produzione mobiliera locale.

30

delle oltre cento realtà aziendali di Valle impegnate nella produzione di mobili,

giocattoli, feretri e strumenti musicali. Un altro degli scopi perseguiti era appunto

quello di “rilanciare” la produzione, lo stile tradizionale degli arredi realizzati in loco

attraverso un nuovo design degli stessi. Tale rilettura venne condotta con la

consulenza del Politecnico di Torino a seguito di una documentazione sulla storia

artigianale locale57.

L’intero percorso espositivo del Museo Storico Etnografico di Sampeyre si avvale

di una serie di pannelli espositivi che facilitano la comprensione delle sale. La

collezione in mostra si compone di oltre 750 pezzi, quasi tutti in buono stato di

conservazione salvo la presenza, in alcuni casi, di tarli. Il museo fa riferimento ad

un antiquario di fiducia per il restauro dei manufatti «più gravi», laddove invece

non sussistono particolari perplessità sulla manutenzione dei beni questa «si basa

sulla buona volontà di tutti». Ogni oggetto esposto è correlato da un cartellino

esplicativo con il nome del bene in italiano e “a nosto modo”58. Questa “etichetta”

ricalca, anche se in formato ridotto, l’inventario dei manufatti del museo. Alcune

ragazze del direttivo avevano inoltre realizzato la catalogazione BDM dei beni

relativi alla filiera del legno, al lavoro femminile e di parte di quelli inerenti la

lavorazione della canapa. Per un ulteriore approfondimento delle tematiche cui fa

riferimento l’esposizione, è possibile consultare la piccola biblioteca interna del

museo. Il fondo si compone di oltre 300 volumi, quasi tutti di carattere etnografico,

antropologico e storico. La biblioteca contiene anche una serie di riviste di difficile

reperimento come “La Beidana”, “Valados Ousitanos” e “Lou Temp Nouvel”,

periodico culturale a cura della Associazione Soulestrelh, che analizza la vita sulle

Alpi grazie all’apporto di studiosi di diversa formazione.

Decisamente numerose sono le attività didattiche e culturali proposte dai ragazzi

del direttivo durante i mesi di apertura del museo. L’estate 2010 l’associazione

Mireio ha curato l’allestimento di due mostre: la prima “Biodiversità e bellezze

naturali del territorio cuneese”, un’esposizione fotografica realizzata in

collaborazione con l’Associazione Pro Natura di Cuneo, ha avuto luogo a partire

dal mese di luglio fino a metà di quello successivo. Dal 15 di agosto a metà

settembre la sala conferenze ha invece ospitato “De bères e d’escufie”, una

mostra di cuffie, merletti e fuselli delle valli Varaita e Maira realizzata da Giampiero

57

www.agenform.it 58

Tale dicitura indica, in valle Varaita, il particolare tipo di dialetto parlato localmente.

31

Boschero, un avvocato originario di Frassino con la passione per la cultura locale

ed in particolar modo per la lingua e per i merletti al tombolo, dei quali è anche un

artigiano. Infine, a settembre inoltrato, il museo ha dedicato un paio di giorni alla

rassegna sull’architettura d’alpeggio curata dalle architette Enrica Paseri e

Barbara Martino.

Per l’estate passata il direttivo aveva organizzato anche due corsi: uno di intaglio

su pietra, realizzato grazie al supporto di Adriano Martino, ed uno di balli

tradizionali curato dal gruppo Trigomigo.

Piuttosto fitto poi, il calendario di conferenze cui era possibile assistere al museo.

Gli argomenti trattati spaziavano in ambiti molto vasti: alcune sere erano

incentrate sul contesto naturale, storico, etnografico di valle, altre su

problematiche di carattere matematico, altre ancora presentavano libri

recentemente editi.

3 luglio “Tracce del passato e del presente nelle nostre valli”.

Proiezione e incontro con l’associazione Passi in Libertà.

17 luglio “Echi di silenzio: ricordi di salite tra emozioni e sensazioni”.

Presentazione del libro e incontro con l’autore Gianni Abbà.

24 luglio “Cinquecento anni di cartografia in Valle Varaita”. Incontro

con il Dottor A. De Angelis, ricercatore di storia locale.

30 luglio “Tra circo e cinema: i volti sconosciuti di un viso noto”.

Colloquio con Luciano Sforzi, intervista di Nanni Gianaria,

musiche di Euphoria Quartet.

5 agosto “Giochiamo con la matematica”. Incontro per ragazzi con il

prof. Peiretti, giornalista, scrittore e studioso di scienze

matematiche.

“Riformati e Cappuccini in Alta Valle Varaita nel Seicento”.

Incontro con J.L. Bernard, ricercatore di storia locale.

8 agosto Mercatino equo-solidale

9 agosto “Croazia, un tuffo nel mondo perduto”. Incontro con il

Domenico Sanino, presidente dell’associazione Pro Natura di

Cuneo.

11 agosto “Storia di un filo d’erba: passeggiando alla scoperta delle erbe

32

di Sampeyre”. Incontro per bambini e genitori con Nadia,

accompagnatrice naturalistica.

12 agosto “Giochi di numeri”. Incontro con il prof. Peiretti.

16 agosto Presentazione della mostra “De bères e d’escufie” e incontro

con A. De Angelis e G.P. Boschero, studiosi di storia locale.

18 agosto “Mangiar per erbe: piccoli segreti di cucina sulle erbe”.

Incontro per bambini e genitori con Nadia, accompagnatrice

naturalistica.

21 agosto “Valle Po: da Revello al Colle delle Traversette seguendo la

Via del Sale”. Incontro con il prof. Oscar Casanova,

rappresentante del CAI nella Commissione Protezione della

Montagna.

24 settembre “Campi, prati, boschi e pascoli: il paesaggio agro-silvo-

pastorale del Comune di Sampeyre nel Catasto del 1739”.

Incontro di presentazione della tesi di laurea di Chiara

Graffione.

Anche negli anni passati le attività del museo erano così consistenti. Oltre alle

variazioni annuali, alcuni appuntamenti possono essere considerati quasi “fissi”. È

il caso dei corsi di intaglio su pietra e su legno realizzati da Adriano Martino, il

quale ha collaborato con l’associazione Mireio anche in fase di allestimento del

museo perché ha ricreato, su modello originale, uno dei tomboli esposti. Un

discorso analogo può essere fatto tanto per le lezioni di danza tradizionale tenute

dal gruppo Trigomigo, tanto per la presenza di alcuni relatori. Il museo collabora

da qualche anno con Giovanni Bernard, studioso di storia locale, e con il professor

Peiretti, insegnante, giornalista e scrittore: entrambi propongono quasi ogni estate

conferenze su tematiche diverse.

D’inverno l’attività del museo si assottiglia ma non si spegne del tutto. In dicembre

e gennaio sono state organizzate ancora due serate: la prima, dal titolo “Arte del

Quattrocento nella Parrocchiale SS. Pietro e Paolo di Sampeyre”, presentava lo

studio storico-artistico realizzato da Simona Garzino; nella seconda, invece, è

stato mostrato il film “Sonn d’uvern de i Sarvanot” del regista Bruno Sabbatini. Per

tutto il mese di dicembre fino al 9 gennaio, poi, lungo via Roma e via Vittorio

33

Emanuele, sono state proiettate una serie di foto d’epoca tratte dall’archivio del

museo.

Le attività fin qui delineate, così come le aperture del museo, sono gestite dal

direttivo dall’associazione Mireio con l’occasionale collaborazione di qualche

stagista. Quando sono necessari dei contributi esterni per tenere aperto il museo,

l’associazione ha previsto un rimborso spese perché, secondo l’opinione di

Fabrizio, «ci sembrava giusto come gratificazione per dei ragazzi che stanno

facendo un lavoro».

L’istituzione museale con sede in Sampeyre ha un buon riscontro di pubblico in

quanto riesce ad avere una media di tremila visitatori ogni anno. Tra questi, una

buona componente è sicuramente rappresentata dai turisti ma non è soltanto

grazie ad essi che il museo riesce a proporre e incrementare le sue attività. Come

mi ha rivelato Fabrizio: «l’aspetto turistico per noi ha un’importanza, anche

banalmente come gratificazione. Effettivamente quando tu riesci a far funzionare

tutta una serie di attività, di cose, hai un certo riscontro, sicuramente fa piacere, è

una soddisfazione che ti dà anche quella voglia di.. purtroppo noi questo riscontro

ce l’abbiamo di più dalla gente che viene da fuori che non dal paese. Qui mi

succede ancora di vedere gente del paese che entra “Ma è carino qua, non ero

mai venuto”, gente che è una vita che ce l’ha sotto il naso». Il rapporto con i

sampeyresi appare, per certi versi, controverso perché se una parte di essi non

sembra essere interessato al museo, la stessa cosa non si può sostenere per i

restanti. Come detto più sopra, alcuni compaesani di Fabrizio donano o prestano

oggetti che hanno un valore personale e familiare, «si fanno prendere» dal gioco

espositivo e «portano i nipoti a vedere». Il museo è riuscito a delineare un

rapporto quasi di “fidelizzazione” con parte del suo uditorio il quale tende a seguire

la programmazione proposta. «Abbiamo creato un’utenza di affezionati, se

vogliamo, che seguono le mostre e vengono alle conferenze», un rapporto

particolare che sembra gratificare il direttivo anche perché «noi abbiamo sempre

visto il museo come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una

casa comune del paese».

34

1.3 CONFINI La sede del Museo Storico Etnografico di Sampeyre è una suggestiva dimora

seicentesca situata nel cuore della municipalità. Il caso sampeyrese, tuttavia, non

presenta caratteristiche inedite, al contrario è piuttosto comune che i musei

dell’arco alpino cuneese siano ospitati in edifici storici. In contesto vallivo tale

fenomeno è piuttosto evidente: il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino

così come il Museo del Mobile di Pontechianale hanno la loro sede in due case

risalenti al Settecento, secolo al quale è datata anche la Missione cappuccina che

accoglie il Museo del Costume. Si tratta di edifici diversi tra loro sia per l’uso che

ne veniva fatto in passato, sia per le peculiarità che li caratterizzano, ma che

tuttavia sono accomunati da un incontestabile valore storico e artistico.

Le sedi dei musei etnografici della val Varaita hanno in comune un’altra

caratteristica: sono ubicate in montagna. Tentare di dare una definizione di tale

territorio è un atto tutt’altro che scontato perché, nonostante la catena alpina si

imponga alla vista nella materialità tangibile dei suoi paesaggi, queste immagini

non bastano a rendere univoche le idee che le associamo.

A partire dalla fine dell’Ottocento, quando nacque il turismo, le Alpi cominciarono

ad essere oggetto degli stereotipi più diversi. Senza soluzione di continuità si

passava dall’orofilia all’orofobia, dal considerare il territorio come un luogo

incontaminato, vero, puro, dove le persone vivevano con genuina semplicità; al

ritenerlo, viceversa, una zona impervia, quasi demoniaca, abitata da gente rozza,

descolarizzata, sottosviluppata mentalmente e che prestava scarsa attenzione

all’ambiente naturale. Il processo di attribuzione di significati alla montagna è

presente anche nella contemporaneità, quando i diversi attori che si muovono in

contesto alpino, ovvero i politici, le associazioni, le Ong, propongono la loro

peculiare visione delle Alpi.

Il geografo tedesco Werner Bätzing sottolinea la possibilità di definire tale catena

montuosa in sei modi diversi i quali variano a seconda del punto di vista utilizzato.

Le scienze naturali considerano territorio alpino la porzione di suolo presente

intorno ai 2000 metri, la sola a distinguersi, per processi e condizioni specifiche,

dalle zone a media e bassa quota. Le Alpi, così delimitate in modo molto ristretto,

non sono abitate e, dal punto di vista cartografico, assumono le sembianze di un

arcipelago di isole.

35

Le vie di comunicazione, le città e le zone industriali vengono di solito escluse

dalla definizione di catena alpina data dai turisti. Questi ultimi, normalmente,

intendono la montagna come la porzione di territorio presente sopra i mille metri di

altitudine, un’area in cui vivono appena 0,8 milioni di abitanti.

Dal punto di vista agricolo vengono escluse dalle politiche di sostegno alle zone

montane tutte le aree favorevoli, e cioè i terreni pianeggianti di fondovalle. La

partizione territoriale così delimitata è abitata da 5-6 milioni di persone.

La geografia, invece, definisce le Alpi come “un complesso montuoso compatto,

geologicamente separato dagli Appennini, dai massicci ercinici (Esterel, Maures

ecc.) e dalle Dinaridi”59. Tale descrizione non si basa su considerazioni di tipo

economico quanto piuttosto su criteri che tengono conto della continuità del rilievo.

La Convenzione delle Alpi60 fa riferimento ad un territorio più vasto, che si estende

per 190.000 kmq e che nel 2000 contava 14,3 milioni di abitanti. La partizione in

questione combina indicatori di carattere naturale ed economico e coincide con

l’immagine corrente delle Alpi, le quali comincerebbero laddove il pendio si fa più

acclive. Questa visione è condivisa anche da quegli Stati europei dotati di una

politica volta allo sviluppo integrato dell’area alpina, ovvero di leggi in materia di

montagna che perseguono un equilibrio tra economia e ambiente.

L’Unione Europea, fin dal 1974, considera le Alpi unicamente come componenti

delle unità amministrative regionali nelle quali sono ubicate. Tale considerazione è

volta a non frammentare le partizioni territoriali e a creare uno spazio politico più

esteso in Europa. L’area così delimitata raggiunge una popolazione di 70 milioni di

abitanti e una superficie di 400.000 kmq61.

Attraverso tale partizione Bätzing dimostra come una definizione oggettiva delle

Alpi, libera da giudizi di valore, non sia possibile. Le idee associate alla catena

alpina dimostrano come uno spazio naturale o un paesaggio vengano sempre

percepiti in una prospettiva umana, culturalmente determinata. La materialità

59

Bätzing W., “Le Alpi : una regione unica al centro dell'Europa”, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 60

Si tratta di una risoluzione in 89 punti che voleva essere un trattato internazionale sulla salvaguardia del territorio alpino. La Convenzione è stata redatta alla prima Conferenza delle Alpi (Berchtesgaden 1989), ma fu solo in occasione della seconda Conferenza (Salisburgo 1991) che il testo fu sottoscritto da Austria, Francia, Italia, Liechtenstein, Svizzera, Germania e Comunità europea. La Slovenia si aggiunse appena venne riconosciuta la nuova repubblica nel 1993. La Convenzione della Alpi è entrata in vigore nel 1995 e in quattro anni è stata ratificata da tutti gli Stati alpini, ultima l’Italia, nel 1999. 61

Bätzing W., (op. cit.).

36

tangibile della montagna non irrigidisce i confini che la definiscono, né contribuisce

a rendere oggettive le concezioni che possediamo di essa.

Nonostante le difficoltà di definizione, le Alpi, sembrano interagire in modo

particolare con le istituzioni museali presenti non soltanto in val Varaita, ma anche,

più in generale, in Provincia di Cuneo e in Piemonte. Una stima condotta nel 2007

da Piercarlo Grimaldi rivela la presenza sul territorio piemontese di 328 musei

etnografici62. Se si osserva l’ubicazione di tali istituzioni secondo un’ottica che ne

tenga in considerazione l’altitudine, è possibile individuare 200 musei nei Comuni

compresi tra 0 e 500 metri, una cifra pari al 61% del totale. Tra 500 e 800 metri

hanno istituito la loro sede 70 musei, corrispondenti al 21%; oltre gli 800 metri

sono presenti 58 musei, ovvero il 18% del totale. Analizzando la disposizione dei

Comuni piemontesi per altitudine si osserva l’ubicazione di 107 Municipalità oltre

gli 800 metri sul livello del mare. Le cifre dimostrano quindi come, in montagna, un

Comune su due si avvalga della presenza, sul proprio territorio, di un museo

etnografico63. Tale tendenza è dimostrata anche da uno studio successivo

condotto nel 2009 da Paolo Sibilla e Valentina Porcellana. I due antropologi

riscontravano la presenza di 103 musei etnografici nell’arco alpino piemontese, 39

dei quali ubicati in Provincia di Cuneo64. In relazione a questi ultimi, se si

considera la loro disposizione geografica, è possibile osservare come essi siano

situati, salvo rare eccezioni, sopra i 700 metri di altitudine. All’interno di questa

fascia altimetrica, in Provincia di Cuneo, sono presenti 58 Comuni, il 67% dei quali

possiede, quindi, un museo etnografico sul proprio territorio.

Le stime fin qui delineate parrebbero dimostrare come, in Piemonte, tale tipo di

istituzione museale sia maggiormente frequente in territorio alpino che altrove. Se,

come detto precedentemente, i concetti associati alla montagna sono molteplici e

variabili, quando sono partita per il campo avevo anch’io delle “idee” riguardo il

mio territorio di ricerca. Nella “cassetta degli attrezzi” da antropologa avevo letture,

come Nuto Revelli65 e Werner Bätzing, che illustrano la drammatica perdita di

popolazione e le problematiche di tipo economico presenti nell’arco alpino

62

Porporato D., Grimaldi P., “Feste e musei : patrimoni, tecnologie, archivi etnoantropologici”, Omega, Torino, 2007. 63

Osservazione posta in essere da Davide Porporato in occasione del convegno “Buone pratiche di comunità. I musei etnografici: presidi di sostenibilità locale”, tenutosi all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in data 14/12/2010. 64

Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena. Le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009. 65

Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.

37

cuneese. Queste difficoltà mi spingevano a pensare che il territorio fosse anche

privo di creatività culturale ma la ricerca di campo ha smentito questa conclusione

affrettata.

Nel suo libro “Le Alpi”, Bätzing traccia un quadro storico dei mutamenti intercorsi

in ambito economico e demografico non solo nella montagna cuneese, ma anche

in tutto l’arco alpino. Fattori importanti in tal senso cominciarono a manifestarsi

nella seconda metà dell’Ottocento con l’avvento della rivoluzione industriale. La

costruzione delle reti ferroviarie, a partire dal 1854, e la creazione di insediamenti

industriali, dal 1890, ad esempio, causarono cambiamenti consistenti. In breve

tempo alcuni settori economici di tipo tradizionale, come l’artigianato, l’attività

estrattiva e il commercio con animali da soma entrarono in crisi, mentre

contemporaneamente si indebolì anche l’agricoltura. Tale processo fu

accompagnato da una forte migrazione che, a differenza di quella stagionale

endemica e proficua per l’economia locale, assunse carattere definitivo e causò

spopolamento.

Tra il 1870 e il 1950, infatti, circa il 60% dei Comuni alpini subirono un forte crollo

demografico. Il restante 40%, al contrario, crebbe grazie ai profitti resi

dall’industrializzazione. Le città alpine poste sulle nuove direttrici ferroviarie, infatti,

erano ben collegate ai centri industriali europei e il loro tessuto economico ne fu

avvantaggiato.

Il periodo compreso tra il 1950 e il 1980 investì nuovamente la Alpi provocando

mutamenti notevoli. In molti Comuni nacque il turismo di massa mentre

l’industrializzazione venne decentrata in numerose vallate di bassa quota e ben

accessibili, soprattutto ai margini della catena alpina. Le città montane poste lungo

le direttrici di transito vennero ulteriormente rivalutate dal punto di vista economico

e la loro accessibilità migliorò grazie all’ampliamento della rete viaria.

Quelle regioni alpine che non vennero rivalutate né dal turismo né dal

decentramento industriale subirono un’ulteriore perdita demografica. Tra esse

spiccano le Alpi italiane liguri, piemontesi e carniche, le Alpi meridionali francesi e

gran parte del Ticino e dei Grigioni.

A partire dal 1980 in tutta Europa si è assistito ad una terzializzazione del sistema

economico, si tratta di un fenomeno che ha investito anche le Alpi mutandone

ulteriormente l’assetto. Gli insediamenti industriali montani sono entrati in forte

crisi e sono costretti a chiudere o a licenziare un gran numero di personale.

38

Parallelamente anche il turismo ha perso la sua dinamica, i centri medio- piccoli si

trovano in difficoltà economica mentre le stazioni più grandi riescono a imporsi sul

mercato. L’attività turistica non è più un fenomeno ramificato ma ha assunto un

carattere nastriforme o puntiforme. Le città alpine poste lungo le direttrici di

transito sono diventate ancora più accessibili grazie alle autostrade ed è

aumentata la loro interdipendenza con i centri economici europei.

Contemporaneamente si è assiste ad un fenomeno nuovo: l’hinterland delle città

europee più grandi è aumentato in modo talmente notevole da comprendere al

suo interno anche alcune zone di montagna. È quanto avviene nei dintorni di

Vienna, Salisburgo, Monaco, Nizza, Ginevra, Zurigo, Torino e Milano. Le Alpi

meridionali francesi, che per oltre un secolo furono caratterizzate da un forte

spopolamento perdono questo loro primato proprio a causa di un’urbanizzazione

della Costa Azzurra che si estende fino in territorio alpino. Attualmente le aree

maggiormente interessate da fenomeni di perdita di popolazione sono le Alpi

Cozie meridionali (Valli Varaita, Maira, Grana e Stura) e le Alpi liguri66.

La val Varaita è quindi un chiaro esempio di questa tendenza: tutti i Comuni

ubicati sopra i 500 metri di altitudine si sono resi protagonisti di una perdita di

popolazione di portata drammatica. Dal 1861 al 2009 Frassino, Pontechianale,

Bellino e Melle hanno avuto un decremento demografico pari al 85%,

Casteldelfino all’88%, Valmala e Isasca al 91%, Brossasco e Venasca al 67%. Le

Municipalità elencate continuano ad essere investite dalla diminuzione di cittadini

con l’eccezione di Valmala e Venasca che dal 2001 al 2009 sono cresciute

rispettivamente del 26,8% e dello 0,8%. Nonostante la decrescita, i Comuni

presenti sotto i 650 metri hanno comunque più di mille abitanti, ovvero possiedono

il numero minimo di residenti che permette il mantenimento dei servizi essenziali.

Dal 1861 al 2001 le Municipalità della val Varaita ubicate sotto i 500 metri di

altitudine, escluso Rossana, hanno visto un incremento demografico importante:

Piasco del 57%, Costigliole del 24% e Verzuolo del 34%67.

Un’altra lettura che aveva influenzato l’“idea” dell’arco alpino cuneese che mi ero

costruita è stata la pubblicazione che attesta i risultati del progetto DIAMONT.

Quest’ultimo ha avuto luogo dal 2005 al 2008 ed è stato lanciato nell’ambito del

programma europeo “Spazio Alpino”. Il progetto, finanziato dall’Unione Europea

66

Bätzing W., “Le Alpi tra urbanizzazione e spopolamento”, in L’Alpe n.1, inverno 1999-2000. 67

Dati statistici ripresi da www.istat.it

39

ma coordinato e amministrato nel suo complesso dall’Istituto di Geografia

dell’Università di Innsbruck, era teso a rafforzare la coesione economica e sociale

all’interno dell’Unione stessa.

I geografi austriaci tracciano un quadro del bilancio demografico alpino dal quale

emerge come la catena montuosa presenti caratteristiche diverse a seconda delle

aree prese in considerazione. Ad esempio, alcune regioni beneficiano del

fenomeno migratorio mentre altre ne sono influenzate negativamente. Le Alpi

bavaresi settentrionali e le relative colline pedemontane, così come l’intera regione

alpina francese, ad eccezione dell’alta Savoia, si contraddistinguono per la

presenza di Comuni che registrano saldi migratori positivi. Al contrario, la

maggioranza delle Municipalità ubicate nelle Alpi svizzere, slovene e austriache

registra saldi negativi.

La parte meridionale della regione alpina, inoltre, rileva tassi molto bassi di

dipendenza giovanile, cui fanno da contraltare valori elevati di dipendenza senile.

Si tratta di dati che esprimono la vitalità socio economica futura: meno bambini e

adolescenti oggi significano meno popolazione attiva, meno contribuenti e meno

genitori domani. L’area alpina così delimitata si caratterizza per essere quella

economicamente maggiormente svantaggiata. Si può quindi affermare che la

parte meridionale delle Alpi soffra di un circolo vizioso articolato nei seguenti

elementi: meno adolescenti, meno popolazione attiva e consumatori, attrattiva

ridotta e infine esodo aziendale e chiusura dei negozi, perdita dei posti di lavoro

ed emigrazione dei giovani.

L’arco alpino piemontese presenta un saldo migratorio composito, variegato e

variabile a seconda del territorio. Altrettanto non si può dire per quanto riguarda il

tasso di dipendenza giovanile e senile. In relazione al primo rapporto, i Comuni

ubicati nella montagna cuneese si attestano quasi tutti su quote inferiori al 19,6%.

Solo intorno al capoluogo si registra qualche eccezione che raggiunge quote

comprese tra il 19,6% e il 27,4%. Un fenomeno analogo si registra in riferimento al

tasso di dipendenza senile: nelle Municipalità indicate, escluse quelle a fondovalle

o vicine a Cuneo, i valori sono quasi ovunque superiori al 35%, laddove variano

non scendono mai oltre al 20%68.

68

Tappeiner U., Borsdorf A., Tasser E. (a cura di), “Atlante delle Alpi”, Spektrum akademischer Verlag, Heidelberg, 2008.

40

In relazione al bilancio demografico, la val Varaita presenta un quadro composito

ma in linea con le tendenze della Provincia. Se si osservano i dati dal 2002 al

2009, è possibile riscontrare come la crescita naturale sia ovunque negativa ad

eccezione dei Comuni di fondovalle: Rossana e Costigliole hanno un andamento

altalenante mentre Verzuolo è in crescita costante. Il medesimo trend è rilevabile

in relazione al saldo migratorio: nelle Municipalità dell’alta valle è negativo,

positivo invece nella zona che si affaccia sulla pianura. Nella fascia altimetrica

intermedia, il quadro è maggiormente complesso: Frassino, Melle, Brossasco e

Venasca tendono ad oscillare, Isasca presenta valori negativi, cifre positive invece

a Valmala. Il trend di crescita totale non presenta sorprese in quanto ricalca

l’andamento rilevato per il saldo migratorio. L’indice di vecchiaia è molto alto in

tutta la val Varaita anche se decresce sensibilmente al diminuire dell’altitudine69.

Secondo il progetto DIAMONT, la catena alpina facente parte della Provincia di

Cuneo rientrerebbe, in misura preponderante, nelle “zone rurali dimenticate”,

descritte dai geografi austriaci come un territorio caratterizzato da un evidente

invecchiamento della popolazione e da un declino particolarmente marcato

dell’agricoltura. Le ragioni di questa tendenza vanno ricercate nella scarsa rete di

infrastrutture di trasporto presenti nell’area. Si tratta di veri e propri territori inattivi

e a rischio di spopolamento70.

Prima di partire per il campo avevo immaginato che le difficoltà di natura

economica e demografica riscontrabili nella montagna cuneese avessero prodotto

una parallela perdita di creatività culturale. Come già detto, la ricerca ha smentito

quella che era una conclusione affrettata: ho potuto constatare, invece, l’esistenza

di numerose associazioni e lo sviluppo di consistenti progettualità. A partire dagli

anni Sessanta al presente, infatti, i gruppi associazionistici che operano sul

territorio hanno ripristinato antichi sentieri; ristrutturato piloni votivi, chiese e

meridiane; riproposto la lavorazione del merletto al tombolo; curato pubblicazioni,

dvd e giornali. Anche le feste e la musica godono di particolare attenzione: nel

corso degli anni le associazioni hanno ridato vita a eventi che non venivano più

realizzati, ne hanno proposti di nuovi e hanno incentivato quelli già presenti sul

territorio. In questo senso è celebre il caso delle Baìo: recentemente, infatti, sono

state riproposte quelle di Frassino, Bellino e della borgata Villar di Sampeyre.

69

Dati statistici ripresi da www.istat.it 70

Tappeiner U., Borsdorf A., Tasser E. (op. cit.).

41

Molto interessante, a mio modo di vedere, è anche il caso di “Lu ciantu viol”, una

festa che, nonostante la sua giovane età, viene percepita come “propria”, come

ancorata al territorio. La musica occitana e popolare è proposta da numerosi

suonatori e da alcuni gruppi, tra cui gli Ubac e i Charé Moulâ. In val Varaita le

danze legate a questo tipo di musica sono molto diffuse anche tra i ragazzi ed è

quindi piuttosto frequente che l’animazione di serate proposte dalle associazioni o

dai Comuni si concretizzi in un “ballo”. I giovani, in particolare, sembrano essere

attenti alla cultura locale, come si evince dalla loro presenza in alcuni gruppi

associazionistici attivi sul territorio.

Nell’arco temporale preso in considerazione, tuttavia, è possibile riscontrare delle

differenze nelle tematiche affrontate. Gli anni Sessanta e Settanta, infatti, si fecero

portatori del movimento di scoperta, tutela e valorizzazione della lingua occitana.

Quest’ultima, chiamata anche lingua d’oc, deve il suo nome alla particella

affermativa oc, che deriva dal latino hoc est. Tale criterio di individuazione

dell’idioma deriva da Dante Alighieri il quale distingueva in questo modo la parlata

occitana da quella d’oil, dalla quale deriva il francese moderno, e dall’italiano.

L’occitano, detto “a nosto modo” in val Varaita, è quindi una lingua neolatina

diffusa su un territorio piuttosto vasto. Questo comprende la Francia meridionale,

in particolare la porzione di Stato racchiusa da una linea che congiunge Bordeaux

a Briançon e passa sensibilmente sopra Limoges, Clermont-Ferrand e Valence,

nonché la val d’Aran in Spagna e le valli Chisone, Germanasca, Pellice, Po,

Bronda, Infernotto, Varaita, Maira, Grana, Stura, Gesso, Vermenagna, Corsaglia,

le valli della Bisalta e l’alta valle di Susa in Italia.

In territorio italiano, la questione della lingua e della cultura occitana ricoprì un

ruolo importante a partire dagli anni Sessanta71. Nel 1961 Gustavo Buratti fondò

l’Escolo du Po, un’associazione nata proprio con lo scopo di valorizzare l’idioma

locale. Tra i ragazzi del gruppo vi erano persone di spicco per il panorama

culturale locale, come Giampiero Boschero, Sergio Ottonelli, Giuliano Gasca-

Queirazza, Corrado Grassi, Arturo Genre, Antonio Bodrero e Sergio Arneodo.

Quest’ultimo fondò un giornale dal titolo “Coumboscuro. Periodico della minoranza

provenzale in Italia” che diffuse le idee maturate dall’Escolo du Po. Il clima del ’68

71

Gli elementi contenuti in questa parte del paragrafo sono stati dedotti da alcune interviste condotte a Giampiero Boschero in data 15/06/2011, a Fredo Valla il 9/06/2011 e a Silvana Ottonelli in data 19/04/2011.

42

influenzò anche le valli occitane italiane e i giovani facenti parte di questo gruppo

associativo decisero di estendere la loro sfera di interessi ai problemi sociali,

economici e politici presenti in tale territorio. In val Varaita alcuni dei componenti

dell’Escolo du Po fondarono il giornale “Lou Soulestrelh” insieme a Gustavo Malan

e Osvaldo Coisson, i quali nel 1943 avevano partecipato alla stesura della Carta di

Chivasso72. Per poter realizzare la pubblicazione, il gruppo di giovani crea

un’associazione omonima la cui unica funzione era quella di mantenere la

proprietà editoriale della rivista.

All’inizio degli anni Settanta François Fontan, fondatore e ideologo del partito

nazionalista occitano, si rifugiò in val Varaita come esule politico. Le sue idee si

diffusero rapidamente e in loco sorse il Movimento Autonomista Occitano, volto a

fare dell’Occitania uno Stato indipendente. Il pensiero di Fontan creò tensioni

all’interno dell’Escolo du Po, in quanto non tutti i componenti aderirono alla

corrente politica proposta dal francese. Riunitasi nel 1972 a Coumboscuro,

l’associazione istituì due commissioni: la prima per stabilire una norma grafica con

cui scrivere la lingua, l’altra incarica di revisionare lo statuto interno. La prima

commissione, a seguito di un lavoro imponente, creò la cosiddetta grafia

concordata: di tipo fonematico, essa tiene conto dei suoni aventi carattere

distintivo e si basa su un sistema di segni in grado di trascrivere tutte le parlate

occitane. Diversa è invece la grafia classica o alibertina, creata nel 1935 da Louis

Alibert. Questa norma propone l’unità grafica della lingua basandosi sull’etimologia

latina. La seconda commissione istituita dall’Escolo du Po fu invece boicottata dai

membri dell’associazione contrari al mutamento. Questi problemi interni portarono

ad uno scioglimento del gruppo che, di fatto, non esiste più.

Le idee di Fontan crearono dei dissidi anche all’interno dell’associazione che

gestiva il giornale “Lou Soulestrelh” tanto che alcuni suoi membri, i quali aderivano

al MAO, realizzarono un’altra pubblicazione dal titolo “Ousitanio Vivo”, edita

ancora adesso. Questi disaccordi causarono la fine del periodico “Lou

Soulestrelh”, l’associazione omonima invece si strutturò effettivamente come tale

ed è tuttora attiva sul territorio. Tra i progetti realizzati da questo gruppo emerge

“Lou temp nouvel”, un periodico edito dal 1975. Anche il gruppo di giovani facenti

72 La Carta di Chivasso è una dichiarazione dei diritti delle popolazioni alpine che postulava la

realizzazione di un sistema politico federale e repubblicano su base regionale e cantonale.

43

parte del MAO si organizzarono in associazioni culturali e pubblicarono alcune

riviste. Oltre al già citato “Ousitanio Vivo”, anche il giornale “Valados Usitanos”

emerge da questo contesto, il quadrimestrale, infatti, è stato creato da Sergio

Ottonelli e Giampaolo Giordana nel 1978. Nello stesso periodo Ines Cavalcanti ha

formato la “Chambra d’òc”, un’associazione nella quale l’attenzione alle dinamiche

economiche delle valli è sempre stata importante. Il suo obiettivo generale è infatti

quello di “elaborare e realizzare progetti trasversali alle Valli, con una visione

complessiva di questo territorio in modo da coniugare la necessità di

riappropriazione linguistica-culturale e l'internazionalità del popolo occitano alla

sua rinascita economica”73.

Le associazioni e le pubblicazioni citate sono tuttora presenti nonostante la fine

del Movimento Autonomista Occitano. Questa corrente politica perse la sua

dinamicità e, di fatto, scomparve negli anni Novanta, periodo in cui anche la tutela

e valorizzazione del patrimonio culturale locale seguì forme e direzioni diverse. La

breve panoramica che ho tracciato non pretende di essere un quadro esaustivo

delle dinamiche culturali che si sono sviluppate nella seconda metà del

Novecento, era mia intenzione, invece, sottolineare la creatività e la dinamicità del

territorio. Nell’arco temporale considerato, l’interesse dei locali nei confronti del

proprio patrimonio è sempre stato considerevole anche se mi pare che sia stato

indirizzato su fenomeni diversi. Se negli anni Sessanta-Settanta la lingua occitana

era il fulcro delle politiche culturali del territorio, nel presente esse sembrano

comprendere al loro interno anche altri fenomeni, tra cui la costruzione dei musei

etnografici.

73

www.chambradoc.it

44

CAPITOLO 2

PRATICHE DI PATRIMONIO NELLA

CAPITALE DELLA CASTELLATA

2.1 LU CIASTELDELFIN Quella mattina di agosto il paese era inondato di sole e del vociare allegro dei

partecipanti alla Sagra del miele e delle erbe curative. La via centrale del paese,

l’antica strada che conduceva al Colle dell’Agnello, era piena di bancarelle che

vendevano prodotti alimentari e artigianato locale.

“Il capoluogo di Casteldelfino giace alle falde del versante esposto a mezzodì sulla

sponda sinistra ed in prospetto dell’angolo di unione di due torrentelli, che

scendendo dalle vallette superiori di Pontechianale e di Bellino costituiscono il

Varaita che dà il nome alla Vallea. La sua altezza dal livello del mare è di metri

1310”74. La vilo de Ciasteldelfin, ovvero la borgata centrale, il capoluogo, di

Casteldelfino, ha una

struttura allungata e

monoassiale che

appunto si sviluppa

seguendo lo Chemin

Royal, la strada che

conduceva al valico di

confine prima che

venisse costruita la

circonvallazione,

realizzata tra la fine

degli anni Cinquanta e

gli anni Settanta75. Come riporta Claudio Allais, tale particolare conformazione era

già presente nell’Ottocento76 ed è rimasta inalterata fino ai giorni nostri.

74

Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica, Savigliano, 1985, pp. 3. 75

Dematteis L., “Case contadine nelle Valli Occitane in Italia”, Priuli & Verlucca, Torino, 2006. 76

Allais C., (op. cit.).

Casteldelfino di Marco Bailone. Opera concessa dall’artista.

45

Casteldelfino si caratterizza per un modello di organizzazione territoriale che

accentrava nel capoluogo funzioni e servizi. Anche il sistema di comunicazione è

coerente con questo assetto perché rivela la preoccupazione di connettere le

borgate alla Vilo a scapito dei collegamenti tra le singole frazioni, meno curati77.

Il cuore del paese è rappresentato dallo slargo dove lo Chemin Royal si divide in

due tronconi, uno dei quali conduceva a Bellino, l’altro al confine. Il giorno della

Sagra del miele, la “Truei”, una fontana dove l’acqua sgorga da tre bocche

ricavate da un masso a forma di animale, forse un rospo, era nascosta alla vista

dal continuo passaggio di curiosi. La fontana è il vero fulcro della piccola piazza

anche perché il rilievo marmoreo che la sovrasta, raffigurante una Madonna

affiancata dalle armi di Francia e del Delfinato, è datato 150478.

Poco oltre la “Truei”, sulla strada che si snoda verso la montagna, si trova casa

Ronchail. Si tratta di un piacevole esempio di architettura signorile cinquecentesca: molto

bella è la loggia ad arcate pensili che arricchisce la facciata a valle, orientata nel senso

della migliore esposizione solare. Le tre colonne in pietra del loggiato sono sovrastate da

capitelli nei quali ritornano le têtes coupées tipiche della valle79

.

Nel 2005 è stato ristrutturato il seicentesco convento dei Cappuccini, anch’esso

situato nel cuore della Vilo, per ospitare un centro di documentazione sul bosco

dell’Alevé. Con i suoi 800 ettari di estensione, si tratta della foresta di pini cembri

più estesa d’Europa e si snoda sul territorio di Casteldelfino, Sampeyre e

Pontechianale. Conosciuto anche ai romani, il bosco dell’Alevé fu soggetto a

protezione già a partire dal XIV secolo, il che spiega la presenza di alcuni

esemplari che hanno più di quattrocento anni di età. Dal 1949 la cembreta è

iscritta nel registro nazionale dei boschi da seme, un atto che permette

all’Amministrazione Forestale di utilizzare i pinoli raccolti per ricreare realtà simili

in altri parti d’Italia. La significativa biodiversità che caratterizza il suo habitat è

stata riconosciuta a livello europeo e il bosco dell’Alevé, nel 2000, è stato

dichiarato Sito di Interesse Comunitario80. Il centro di documentazione, realizzato

a Casteldelfino e gestito dal Parco del Po, offre ai visitatori una piccola

77

Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979. 78

Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009. 79

Ottonelli S., (op. cit.). 80

www.ghironda.com

46

ricostruzione dell’ecosistema della cembreta, un breve percorso dove è possibile

osservare alcuni animali impagliati e la riproduzione di talune specie vegetali.

Funzionale alla particolare struttura monoassiale di Casteldelfino è la presenza di

un’unica parrocchia, caratteristica che fa del paese un caso unico tra i Comuni

dell’alta valle Varaita81. In occasione della Sagra del miele e delle erbe curative ho

avuto modo di prendere parte alla visita della parrocchiale condotta da Dino

Murazzano. Dino, persona risorsa importante e membro dell’associazione “Jer à la

Vilo” che gestisce il museo etnografico di Casteldelfino, illustrava le caratteristiche

artistiche e architettoniche della chiesa dedicata a Santa Margherita nell’ambito

del progetto Mistà. Quest’ultimo dura normalmente da metà luglio alla fine di

agosto ed è organizzato dalla Comunità Montana Valli del Monviso e dai Comuni

di Saluzzo, Barge, Busca, Costigliole, Sampeyre, Sanfront e Verzuolo. Nell’ambito

del Festival Mistà è possibile assistere a concerti di musica jazz, classica e world

music che normalmente vengono tenuti all’aperto di fronte ad edifici di particolare

rilevanza storica ed architettonica. Il progetto, che è giunto alla sua decima

edizione, è finalizzato anche alla valorizzazione degli edifici di culto e della

gastronomia del territorio interessato82.

Come ci ha illustrato Dino, la parrocchiale di Casteldelfino presenta un grande

campanile seicentesco disegnato dall’architetto torinese Gian Giacomo Plantery83

e caratterizzato da particolari doccioni angolari in pietra verde ornati di figure

zoomorfe. Data la sua posizione a ridosso della strada provinciale, la torre

campanaria si impone allo sguardo di quanti risalgono la valle e domina il paese.

La pietra ollare presente nel campanile ritorna in facciata accompagnata dal

marmo bianco, entrambi i materiali, infatti, sono stati utilizzati per realizzare il

portale romanico. Quest’ultimo è attorniato da una serie di piccole colonne i cui

capitelli sono decorati con le figure antropomorfe tipiche della valle accompagnate

da motivi geometrici e zoomorfi. La chiesa si articola in quattro cappelle laterali e

in un’unica navata centrale sormontata da una volta a botte. Anche i capitelli

presenti all’interno dell’edificio di culto riprendono le decorazioni che ornano il

portale. L’interno della chiesa si fregia di un ciclo di affreschi a opera del pittore

81

Ottonelli S., (op. cit.). 82

www.festivalmista.it 83

Attivo, tra barocco e neoclassicismo, Gian Giacomo Plantery fu uno dei protagonisti del rinnovamento urbanistico ed edilizio di Torino. L’architetto divenne celebre per gli interni scenografici e le volte particolari (dette planteriane) che realizzò in alcuni palazzi aristocratici. Notevoli anche le chiese, tra cui quelle dell’Assunta e della Pietà a Savigliano.

47

buschese Tommaso Biasacci, i quali illustrano la vita di San Giovanni Battista.

Nella seconda cappella di sinistra si trova un fronte battesimale risalente al

Quattrocento ornato con i motivi araldici della Francia e del Delfinato a

testimonianza del legame politico dell’alta valle84.

Casteldelfino, infatti, fu capitale della Castellata, un’area politico-amministrativa di

cui facevano parte anche i Comuni di Bellino e Pontechianale. Questa zona,

insieme alla val Chisone, al Queyras, a Oulx e Briançon, componeva gli

Escartons, una confederazione alpina autonoma. Le comunità presenti in questa

zona avevano comprato la loro indipendenza al Delfino Umberto II, una particolare

situazione giuridica sancita con la Carta delle Libertà del 1343, nota anche come

Grande Charte Briançonnaise. Si tratta di una sorta di costituzione che decretava

l’affrancamento dalle servitù feudali, il diritto alla libertà individuale, alla proprietà

privata e all’autogestione del territorio. Il termine Escartons, che deriva dal verbo

escartonner, ovvero “dividere”, “ripartire” e indica nella sua radice le modalità di

gestione della Federazione. Oneri e doveri di ogni genere erano spartiti, appunto,

tra le singole comunità, le quali organizzavano anche un reciproco sostegno in

caso di difficoltà. La gestione delle terre comunali e il mantenimento dell’ordine

pubblico erano affidati ad alcune persone elette dal popolo sulla base delle loro

riconosciute virtù morali. La Repubblica degli Escartons cessò di esistere con il

trattato di Utrecht del 1713, la cui stipula pose fine alla Guerra di Successione

Spagnola. Con la firma della pace, i Savoia acquisirono il diritto di governo su

quella parte del territorio della Federazione che adesso fa parte dell’Italia85.

Il Parco del Po, grazie a un finanziamento della Regione Piemonte, ha realizzato

nel 2007 un centro di documentazione relativo a questa particolare realtà politica

del passato. L’“Espaci Escartons” è situato vicino alla parrocchiale e al suo interno

è possibile visionare libri e video sulla lingua, la cultura, la natura, l’architettura e la

storia della Castellata. Il centro è collegato telematicamente con altre realtà

analoghe presenti a Oulx, Pragelato, Chateaux Queyras e Briançon, ovvero gli

altri centri principali che componevano gli Escartons.

Al Delfino Umberto II si deve anche la costruzione del castello presente sul

territorio comunale. Di questa fortificazione non rimangono ormai che pochi ruderi

recentemente messi in sicurezza per renderli visitabili. In passato la rocca era un

84

Rossi D., (op. cit.). 85

Allais C., (op. cit.).

48

imponente edificio a tre piani, alto ventitré metri e circondato da un cortile

quadrato recintato. Su uno sperone roccioso adiacente sorgeva la torre di vedetta

collegata al castello mediante un ponte levatoio86.

Come riporta Claudio Allais, a questa fortificazione si deve probabilmente la

denominazione attuale di Casteldelfino. L’agglomerato urbano era già noto nel X

secolo con il Nome di Villa Sant’Eusebio ed era situato leggermente più a valle

rispetto alla posizione attuale. Il paese fu interamente distrutto da un’alluvione del

1391 che risparmiò solo la chiesa omonima87. L’edificio di culto dedicato a

Sant’Eusebio è attualmente visitabile e, come sostiene Sergio Ottonelli, si tratta

dell’“unica architettura anteriore al XV secolo che la valle abbia integralmente

conservato”88. La chiesa ha un alto campanile a vela triforato e un portale situato

sul fianco sud-est in direzione dell’antico paese scomparso. Il portale, con arco a

tutto sesto, è in tufo ed è sormontato da un architrave megalitico89. All’interno della

Chiesa l’associazione “Jer à la Vilo” ha allestito una mostra dal titolo “I Santi del

Popolo” con il fine di illustrare l’iconografia dei santi diffusa in valle. A seguito

dell’alluvione che distrusse Villa Sant’Eusebio, il paese prese il nome di Castrum

Delphini ad indicare la fortificazione voluta da Umberto II.

La presenza sul territorio di forza idraulica fu ben presto utilizzata dai

casteldelfinesi per incrementare il tessuto economico dell’abitato. Come ricorda

Ottonelli, già nel Settecento in loco era presente una struttura preindustriale

all’interno della quale trovavano spazio tanto la lavorazione del legno e del ferro,

quanto la produzione e commercializzazione dei panni di lana. A queste attività si

accompagnava la gestione amministrativa del territorio90, una “vocazione” di

Casteldelfino che non si esaurisce con la fine della Repubblica degli Escartons ma

continua anche nell’Ottocento. Il canonico Allais sottolinea la presenza nel

capoluogo di “una sala comunale, d’un ufficio postale e telegrafico, d’una stazione

dei R.R. carabinieri e d’una brigata di guardie forestali. […] La posta vi giunge una

volta al giorno per mezzo di una vettura pubblica che presta il servizio da

86

Ottonelli S., (op. cit.). 87

Allais C., (op. cit.) 88

Ottonelli S., (op. cit.), pp. 142. 89

Ibidem. 90

Ibidem.

49

Casteldelfino a Sampeyre, in corrispondenza di un’altra che da questo luogo lo

estende al tramvia di Venasca”91.

Il tessuto economico del paese si è radicalmente modificato nel corso del tempo:

sul territorio oggi vi sono soprattutto impiegati, operai, agricoltori e molti

pensionati92. Anche la peculiare gestione amministrativa del territorio è venuta

meno: Casteldelfino adesso svolge funzioni analoghe a qualsiasi altro Comune. Il

paese, inoltre, si inserisce nell’andamento demografico negativo caratteristico

delle Alpi occidentali. Dall’Ottocento a oggi Casteldelfino ha perso l’88% della

popolazione e nel 2010 contava solo 180 abitanti. In anni più recenti la situazione

non è certo migliorata: dal 2002 al 2009 il tasso di crescita totale ha registrato

valori compresi tra lo zero e il meno 12%93.

Lo spopolamento drammatico che ha caratterizzato il paese diventa tangibile in

inverno, quando gli scuri delle case sono chiusi e nelle stradine deserte non si

incontra nessuno. D’estate, soprattutto in occasione di feste come la Sagra del

miele, il volto malinconico di Casteldelfino lascia il posto alle allegre risate dei

bambini e al vociare divertito dei villeggianti.

Il paese, tuttavia, sembra non avere una forte vocazione turistica. La

programmazione estiva si articola in cinque manifestazioni soltanto:

“Casteldelfinando in fiore” a giugno, la festa patronale di Santa Margherita

preceduta da una “notte bianca”, il concerto di Ferragosto e la già citata Sagra del

miele e delle erbe curative. In occasione del Natale, invece, i casteldelfinesi si

impegnano nella realizzazione di un presepe vivente. Limitato anche l’interesse

dimostrato nei confronti degli sport invernali: sul territorio esiste una sola pista da

fondo composta da due anelli di 5 e 12 km94. Indipendente dalla vocazione

turistica del territorio, il Comune ha comunque realizzato numerose attività per la

salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio locale, come si deduce

dall’attenzione riservata, ad esempio, al bosco dell’Alevé, al museo etnografico e

all’architettura locale. L’amministrazione precedente, il cui mandato era durato

quasi trent’anni nonostante le interruzioni previste per legge, aveva affidato la

gestione della programmazione culturale all’associazione “Jer à la Vilo”. Questa,

91

Allais C., (op. cit.), pp. 6. 92

Dato desunto grazie alla collaborazione di Angela Sciapel, dipendente del Comune di Casteldelfino. 93

www.istat.it 94

www.comune.casteldelfino.cn.it

50

grazie ad un budget annuale di cinquemila euro fornito dal Comune, si occupava

delle feste, dell’inaugurazione della pista da fondo e realizzava una serie di

progetti. All’associazione “Jer à la Vilo” si deve, ad esempio, la messa in sicurezza

dei ruderi del castello e la realizzazione di una serie di pannelli che ne illustrano la

storia e le caratteristiche; il restauro del lavatoio comunale e della Chiesa di

Sant’Eusebio, quest’ultimo realizzato nel 2004 grazie a fondi europei; la

promozione di alcuni concerti estivi, la messa in opera e la valorizzazione della

“via dei forni”95. Come tutti i paesi della valle, Casteldelfino ha almeno un forno per

ogni sua borgata. Si tratta di strutture costruite in pietra locale con una portata

media di circa 50 pani di due kg ciascuno. In passato i forni erano utilizzati una

sola volta all’anno nei mesi di novembre e di dicembre, quando le famiglie della

frazione provvedevano alla panificazione necessaria a soddisfare il fabbisogno

annuale96. Il Comune aveva predisposto il recupero architettonico di queste

strutture e nel 2007, in occasione della festa “Casteldelfinando in fiore”, il forno

della borgata centrale è stato acceso per la prima volta dopo cento anni. Nel 2007

l’associazione “Jer à la Vilo” ha realizzato le visite guidate ai forni del paese i quali,

per l’occasione, erano stati dotati anche di un piccolo rinfresco con prodotti locali.

Questo gruppo di casteldelfinesi è stato anche “l’inventore” della Sagra del miele e

delle erbe curative. Come mi ha detto Dino, la festa è stata creata «da noi

trent’anni fa per cercare di fermare la gente un weekend in più»97 sul territorio e

per arginare l’esodo che si verificava dopo ferragosto.

L’amministrazione attuale, invece, ha una modalità di valorizzazione e tutela del

patrimonio differente: essa ha estromesso l’associazione “Jer à la Vilo” dalla

programmazione culturale e, in un primo tempo, anche dalla gestione del museo98.

La conduzione comunale ha portato ad alcuni cambiamenti: sono state introdotte

sia la notte bianca che precede la festa patronale, sia il presepe vivente, il quale

però non è realizzato con persone di Casteldelfino. È stata riproposta la festa

incentrata sulla fioritura primaverile che, come le altre che si svolgono in estate, è

animata da una banda musicale anch’essa non locale. Il Comune ha realizzato un

progetto di ripristino di alcune mulattiere, antiche vie di comunicazione che

univano borgate e paesi. Queste sono state denominate “viol d’i reire”, i “sentieri

95

Elemento tratto da un’intervista a Dino Murazzano condotta in data 27/04/2011. 96

Elemento tratto da un’intervista a Luigi Dematteis del 27/04/2011. 97

Frase ripresa da un’intervista a Dino Murazzano condotta in data 27/04/2011 98

Riflessione tratta da un’intervista a Dino Murazzano del 27/04/2011.

51

degli antenati”, e sono al centro dell’attività escursionistica proposta dalla

Municipalità. I percorsi individuati sono sei: la via medievale che raggiunge Elva, la

via del bosco, la via delle borgate alte, la via che conduce all’antica miniera del

ferro di Torrette, e la già citata via dei forni. Un altro progetto imponente che il

Comune sta realizzando riguarda la costruzione della Piazza dei Santi del popolo.

Questa è stata ricavata dallo spazio determinato dal primo tornante della

circonvallazione ed è collegata al paese attraverso una strada che prenderà la

medesima denominazione dello spiazzo. La Piazza dei Santi del popolo si

compone di una serie di gradini di cemento, disposti a semicerchio come quelli di

un teatro romano, che guardano un loggiato in legno sotto il quale saranno

disposte una serie di statue bronzee di alcuni santi, tra i quali Padre Pio. Il

progetto in questione è stato realizzato grazie a un finanziamento di sessantamila

euro erogato dalla Regione Piemonte e finalizzato alla valorizzazione del

patrimonio culturale locale.

2.2 IL MUSEO ETNOGRAFICO “JER À LA VILO” Il museo etnografico “Jer à la Vilo” si trova in località Casermette, una frazione

separata dal borgo centrale di Casteldelfino dalla recente circonvallazione. Il

museo, di proprietà del Comune, è ospitato all’interno di una caserma militare

risalente al 194599. Non tutti gli spazi dell’edificio sono occupati dalle collezioni

etnografiche, anzi una buona parte di esso è inutilizzata durante l’anno. Solo in

occasione della Sagra del miele e delle erbe curative, la caserma, a forma di ferro

di cavallo, viene interamente occupata. Quando ho avuto l’occasione di

parteciparvi, si entrava a una delle estremità dell’edificio e, tra bancarelle di miele,

dolci e formaggi, si accedeva direttamente al museo. Era un pomeriggio assolato

e caldo e la manifestazione ebbe, a mio avviso, un ottimo successo di pubblico. Le

strade del paese così come l’interno della caserma erano gremite di gente e

anche il museo fu visitato da un numero consistente di persone.

All’interno della struttura le collezioni etnografiche sono suddivise in quattro sale

comunicanti, ognuna delle quali tratta un argomento diverso. Nel primo ambiente,

davanti ad una riproduzione della facciata della chiesa di Santa Margherita, sono

99

Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state ricavate da alcune interviste condotte a Dino Murazzano in data 12/10/2009, 20/08/2010, 14/12/2010, 27/04/2011 e dal sito www.comune.casteldelfino.cn.it/11vie/vietradizioni.html

52

La seconda sala del Museo “Jer à la Vilo”.

Foto dell’autrice.

esposti alcuni abiti tradizionali, cuffie ornate di pizzo realizzato con il tombolo e i

nastri utilizzati in contesto festivo. Questa sala ospita anche alcuni animali

impagliati donati da un cacciatore del luogo. L’associazione “Jer à la Vilo” ha

accettato questa donazione anche se non è strettamente inerente alle tematiche

trattate perché il museo «è delle famiglie di Casteldelfino». Le collezioni

etnografiche sono state realizzate grazie al contributo dei casteldelfinesi che

hanno prestato i manufatti esposti. «Ci sono 18 persone che hanno prestato degli

oggetti. Naturalmente il museo ha anche degli oggetti suoi, che sono stati donati,

gli altri invece sono delle famiglie che in qualsiasi momento desiderino riaverli noi

glieli restituiamo». La genesi del museo si riflette nell’allestimento, dove

l’associazione ha cercato di esporre tutti i manufatti che sono stati messi a

disposizione per incentivare il legame della popolazione locale con il museo.

La seconda sala ricalca la precedente nello stile espositivo: in questo spazio è

stata ricreata in scala la facciata di una grangia e, davanti ad essa, vi sono gli

oggetti necessari al lavoro della terra,

del legno e del miele. La grangia era

un’abitazione temporanea, utilizzata

durante l’estate e collocata a quote più

elevate rispetto alla casa di residenza.

In relazione a quest’ultima le grange

sono di norma più piccole e rudimentali,

dotate, tuttavia, di muri in pietra e di

possibilità di alloggio per uomini e

animali in locali separati. Questo tipo di

dimore si possono trovare sul territorio

sia in insediamenti singoli, sia a gruppi e

sono solitamente circondate da terreni

di proprietà adibiti a prati, pascoli o

seminativi100. Gli oggetti esposti nel

museo, a eccezione di pochissimi

elementi, non sono contenuti all’interno delle vetrine. Tale caratteristica è una

scelta allestitiva consapevole che lascia trasparire il carattere “artigianale” con cui

100

Dematteis L., (op. cit.).

53

è stata realizzata l’esposizione. Secondo Dino, il museo curato dall’associazione

di cui è membro è «fatto col cuore, un museo non come se ne vedono molti in giro

dove gli oggetti sono sistemati in teche, molto più sistemati». In fase di

realizzazione dell’allestimento l’attenzione sembra essere stata maggiormente

rivolta al pubblico: «le famiglie di Casteldelfino, quando vengono a visitarlo,

specialmente nel periodo di festa, ricordano i loro antenati e questo a noi fa

piacere».

Il desiderio di trasmettere una memoria comune emerge forse soprattutto

dall’esposizione realizzata nella sala successiva. Qui, sul pavimento, sono messi

in mostra diversi manufatti utilizzati nella lavorazione della segale, mentre alle

pareti sono appese una serie di foto antiche che ritraggono la popolazione di

Casteldelfino. Alcune immagini raffigurano uomini e donne nell’atto di lavorare la

terra, mentre si dedicano ad attività artigianali o in occasioni festive; altre ne fanno

invece il ritratto, come quello lasciato dai migranti quando partivano.

Il lavoro di raccolta di foto significative per la memoria storica di Casteldelfino è

stata la prima attività svolta dall’associazione “Jer à la Vilo” nell’ambito della

progettazione dell’omonimo museo. Questo nacque nel 1995, mentre

l’associazione si cosituì concretamente come tale il 12 novembre 1994 anche se il

gruppo di cinque amici che la compongono era attivo nella valorizzazione del

patrimonio culturale locale già dal 1993. Il loro interesse si è concretizzato nella

realizzazione di alcuni progetti importanti. Insieme al Comune e alla Parrocchia,

l’associazione “Jer à la Vilo” ha curato il restauro della cappella di S. Bernardo, di

una meridiana del XIX secolo, della facciata della Confraternita dei Benedettini,

dell’antico lavatoio comunale e della chiesa di S. Eusebio. Parallelamente il

gruppo di casteldelfinesi ha creato le collezioni etnografiche del museo e ne ha

realizzato gli allestimenti. In passato come oggi è l’associazione “Jer à la Vilo” che

gestisce la struttura e ne cura le esposizioni. Nel 1999 il museo di Casteldelfino ha

realizzato una mostra fotografica sulle meridiane presenti sul territorio comunale

mentre l’anno successivo l’esposizione temporanea ha interessato i costumi

femminili tipici dell’alta valle Varaita. Nel 2001 le sale del museo etnografico hanno

ospitato una rassegna di lavori al tombolo e una mostra fotografica sui piloni votivi.

Sullo stesso tema verte anche il cortometraggio dal titolo “L’oratori retroubà”

curato dall’associazione “Jer à la Vilo” e realizzato da Bruno Sabbatini nel 2009. Il

video narra la storia di un giovane originario di Casteldelfino cui un’anziana

54

parente lascia una cospicua eredità a condizione che restauri il pilone di famiglia. I

lavori di ristrutturazione saranno l’occasione per il ragazzo di riscoprire le proprie

radici e la propria storia.

I piloni sono una “testimonianza di devozione” molto diffusa in val Varaita. A

Casteldelfino, Bellino e Pontechianale queste strutture sono numerose ma non

raggiungono la frequenza osservabile, ad esempio, a Sampeyre e Melle. Si tratta

di un fenomeno che può essere spiegato considerando le vicende religiose della

Castellata, caratterizzata, fino ai primi del Settecento, da una forte presenza del

culto riformato. La struttura del pilone è piuttosto semplice e si è mantenuta

costante nel corso del tempo: di altezza variabile esso possiede un tettuccio in

lose a due spioventi che protegge dalle intemperie la piccola costruzione in pietra,

sovente livellata con dello stucco. Sul lato che guarda verso la strada è ricavata la

nicchia che ospita le immagini del Santo cui è dedicato il pilone e che in molti casi

è stata affrescata da pittori itineranti101. Queste strutture possono essere suddivise

in cinque categorie: il pilone votivo, realizzato per mantenere un voto fatto o in

segno di ringraziamento; il pilone rogazionale, eretto allo scopo di propiziare il

buon esito della semina e del raccolto; il pilone processionale, tappa di una

processione; il pilone crocevia, situato nel punto di intersezione delle strade; infine

il pilone funebre, costruito sul percorso del corteo che trasportava la salma dalla

chiesa al Campo Santo102.

L’associazione “Jer à la Vilo” ha proiettato il film “L’oratori retroubà” nelle frazioni

di Casteldelfino ma anche a Piasco e in valla Maira. Al gruppo di amici, infatti,

piace lavorare in sinergia con le altre realtà presenti sul territorio: «con il progetto

Mistà siamo degli operatori culturali. Poi collaboriamo anche con il Parco del Po

all’apertura del diorama allestito al centro del paese».

L’attenzione espressa dall’associazione nei confronti della religiosità popolare

emerge anche da un’altra iniziativa condotta dal gruppo di amici. Nel 2006 essi

hanno curato un’indagine sui santi che erano oggetto di devozione nel territorio

della Castellata. La ricerca si è concentrata in particolare sui reperti storico-

artistici, ovvero sull’iconografia espressa dai piloni e dagli affreschi. L’analisi

condotta ha avuto come esito sia una pubblicazione, curata da Isabel Ottonelli con

101

Ottonelli I. (a cura di), “I Santi. Testimonianze di devozione in alta valle Varaita”, Associazione culturale Ier a la Vilo, Casteldelfino, 2008. 102

Da “L’oratori retroubà” di Bruno Sabbatini.

55

la collaborazione di Sergio Ottonelli e Giovanni Bernard, sia una mostra. Questa è

stata allestita nei locali della piccola Chiesa di S. Eusebio, sottoposta a restauro

nel 2004. L’edificio di culto ha ospitato anche una conferenza di due giorni sempre

sul tema dei Santi oggetto di venerazione in valle, un evento volto ad approfondire

le ricerche condotte fino a quel momento. Nel 2006 l’associazione “Jer à la Vilo”

ha realizzato anche un’esposizione sugli animali evocati in contesti rituali, di festa,

come ad esempio l’orso di segale. La mostra era stata arricchita da un piccolo

convegno di esperti su questa tematica, al quale era stato invitato anche Piercarlo

Grimaldi.

Nelle esposizioni del museo etnografico sono presenti dei pannelli che illustrano la

storia della Castellata e degli Escartons, un argomento che è stato trattato anche

nell’altra pubblicazione e nell’altro video realizzati dell’associazione. Il libro, dal

titolo “Il castello ritrovato”, narra la storia della costruzione di questa fortezza ed è

stato curato anch’esso da Isabel Ottonelli. “Escartons. Terra di libertà”, creato da

Bruno Sabbatini nel 2004, si concentra, invece, sulle vicende che portarono alla

formazione di questa confederazione di territori.

La quarta sala del museo ospita una serie di mobili antichi, corredati con diversi

attrezzi da cucina. Sul pavimento, inoltre, è possibile osservare il quadrante,

ancora funzionante, dell’orologio della chiesa di Bertines, frazione di Casteldelfino.

Gli oggetti del museo sono stati tutti inventariati e fotografati con una duplice

metodologia. L’associazione “Jer à la Vilo”, infatti, possiede sia un semplice

quaderno, sul quale sono stati annotati i manufatti e il nome dei loro proprietari, sia

un archivio informatizzato, dove all’elenco dei beni si accompagna anche una loro

foto.

In occasione della Sagra del miele e delle erbe curative il museo era veramente

affollato. Gruppi di turisti, sacchetti di acquisti alla mano, si soffermavano a

guardare gli oggetti e le fotografie esposte scambiandosi considerazioni sul modo

di vivere “di una volta”. Secondo l’opinione di Dino, nel resto dell’estate e

dell’anno, «potranno transitare duecento persone», una cifra attendibile ma che

non è confrontabile con dei registri. Il museo, infatti, è molto frequentato da scuole

e gruppi: nell’inverno 2010-2011, ad esempio, è stato visitato da tre scolaresche e

da altrettante comitive, quest’ultime provenienti da Nizza, Roma e dalla Germania.

I giorni di apertura, invece, sembrano essersi ridotti nel corso del tempo. Come

segnalato dal sito internet del Comune di Casteldelfino, dove la struttura ha un

56

pagina dedicata, il museo dovrebbe essere visitabile tutti i giorni ad agosto, su

prenotazione nel resto dell’estate e nella stagione fredda. In realtà «durante l’anno

prevalentemente siamo aperti su richiesta e poi nel mese di agosto, se riusciamo,

un paio di volte alla settimana, nel fine settimana». Se, come è evidente dai

numerosi progetti realizzati, non manca la buona volontà dell’associazione, i

problemi si creano in relazione al reperimento di fondi per gestire la struttura. Il

museo si basa unicamente sul volontariato del gruppo mentre sono scarsi i

contributi ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Decisamente risicata è anche la

partecipazione del Comune che talvolta sembra avere un atteggiamento quasi

conflittuale nei confronti dell’associazione “Jer à la Vilo”, come si esplica dal

tentativo di estrometterla dalla gestione del museo.

La realtà etnografica sembra attraversare un periodo di “stasi” causato anche dal

recente progetto di spostamento delle collezioni. La caserma nel quale è

attualmente ubicata si trasformerà in un polo sportivo, come da progetto dell’ultima

Amministrazione comunale. Questa però si impegna e sistemare le collezioni in

«un’altra struttura al centro del paese, vicino alla parrocchiale, che come logistica

forse è meglio ma come sistemazione noi dovremmo stravolgere tutto il nostro

sistema che abbiamo creato in questi anni con il museo. I locali non saranno più

come questi, molti oggetti non ci saranno più, bisognerà poi prendere decisioni in

merito a sistemare diversamente gli oggetti». La preoccupazione dell’associazione

sembra essere quella di preservare l’antico allestimento perché in esso era

possibile osservare tutti i manufatti prestati dai casteldelfinesi. Questa metodologia

di esposizione è percepita come un fattore importante per creare, incrementare e

mantenere il legame del paese con la struttura. Solo accettando e mettendo in

mostra tutti gli oggetti donati dalla popolazione il museo può considerarsi integrato

nel territorio ed essere «delle famiglie di Casteldelfino».

2.3 POLITICHE DELLA MEMORIA Gli oggetti esposti nel museo etnografico “Jer à la Vilo” di Casteldelfino forniscono

uno spaccato della vita contadina locale. Il tempo storico documentato è quello

della “tradizione” e come tale non è precisamente collocato da un punto di vista

cronologico. Se la tradizione può essere intesa come una rappresentazione

selettiva del passato, orientata verso il futuro e che risponde alle esigenze del

57

presente103, le modalità con cui avviene tale rappresentazione rimangono celate.

Nel museo di Casteldelfino non c’è quindi l’intento di documentare un’epoca

storica precisa, anche se una datazione dei manufatti in mostra permette di

collocarli quasi tutti tra la seconda metà dell’Ottocento e la fine della Seconda

Guerra Mondiale. A questo gruppo più nutrito di oggetti si aggiunge qualche

eccezione risalente al Settecento.

Finalità analoghe si riscontrano anche nelle altre realtà etnografiche presenti in

valle Varaita. Se alcuni musei si concentrano su una sola tematica, la temporalità

cui si riferiscono è sempre quella della tradizione, del tempo degli antenati.

L’obiettivo delle esposizioni sembra essere quello di veicolare la memoria del

paese, di trasmettere il ricordo di un modo di vivere il territorio che era proprio

degli avi. Come mi diceva Fabrizio Dovo in relazione al Museo etnografico di

Sampeyre: «noi l’abbiamo sempre visto come un momento per raccogliere e

conservare la memoria, una casa comune del paese. È comunque un posto dove

c’è un pezzo di memoria condivisa anche per chi ha avuto esperienze

migratorie»104. Interessante il pensiero di Enrica Paseri: «Forse la gente quando

viene su di qua cerca un po’ le origini, non so, forse perché si vedono ancora

molte cose antiche, […] si sente ancora questa sensazione di culla delle origini e

di senso delle radici. Penso che nei posti dove si legge di più la storia forse la vai

a cercare di più»105.

Nonostante le differenze riscontrate in relazione agli argomenti trattati, le collezioni

etnografiche sono state assemblate in modo simile. Ad eccezione del Museo del

Costume di Chianale, che ha comprato la grande maggioranza degli oggetti

all’incanto e che solo di recente comincia ad avere delle donazioni, tutti gli altri

hanno coinvolto la popolazione locale. Ad esempio Celeste ed Enrica, i curatori

del Museo del Mobile di Pontechianale, allestiscono ogni nuova mostra chiedendo

in prestito ad amici e conoscenti gli oggetti necessari. Similmente, i manufatti che

compongono le esposizioni delle realtà etnografiche di Sampeyre, Casteldelfino e

Bellino sono stati donati dalla popolazione dei rispettivi paesi106.

103

Bellagamba A., Paini A. (a cura di), “Costruire il passato. Il dibattito sulle tradizioni in Africa e Oceania”, Paravia, Torino, 1999, pp.144. 104

Considerazione tratta da un’intervista da me condotta a Fabrizio Dovo in data 20/10/2009. 105

Frase tratta da un’intervista ad Enrica Paseri condotta il 11/10/2009. 106

Considerazioni derivate dalle interviste condotte ai curatori dei musei etnografici elencati.

58

Le modalità con cui sono state realizzate le collezioni si rispecchiano anche

nell’allestimento. Il desiderio dei curatori sembra essere ovunque quello di esporre

tutti gli oggetti che le persone del paese hanno donato o prestato. Come nel caso

di Casteldelfino, questa prassi allestitiva trova la sua ragion d’essere nel tentativo

di coinvolgere la popolazione locale e di sviluppare un senso di affezione nei

confronti del museo. Durante i nostri incontri, infatti, Dino ha sovente sottolineato

gli sforzi fatti dall’associazione “Jer à la Vilo” affinché la struttura da loro creata

fosse percepita come propria dalle famiglie del paese107. Un fenomeno analogo è

presente anche a Sampeyre dove: «gran parte degli oggetti sono nelle stanze

anche per un motivo, perché la gente che li porta poi ha piacere di vederli esposti.

[..] Allora noi finché possiamo cerchiamo di far stare le cose»108.

Si tratta di una prassi che fa da contraltare alla litigiosità e al campanilismo diffusi

nella valle. Questo fenomeno è stato rilevato anche da altri studiosi del mondo

alpino come Camanni, che parla espressamente di “pregiudizi e convinzioni

ataviche”109, e Werner Bätzing110. A mio avviso, un esempio palese di questa

situazione è dato dall’assenza, in tutti i musei ad eccezione di quello presente a

Bellino, di materiali illustrativi che rimandino alle altre realtà etnografiche del

territorio. Tale mancanza permane anche quando vengono realizzate esposizioni

temporanee che trattano argomenti sviluppati in un altro museo etnografico locale.

Le singole strutture, invece, instaurano collaborazioni importanti con note

personalità di valle che lavorano nell’ambito della cultura. È il caso, ad esempio,

della mostra realizzata a Sampeyre e curata da Giampiero Boschero, del lavoro

congiunto dei curatori del Museo del Mobile e Paolo Infossi, della già citata

pubblicazione cha ha coinvolto l’associazione “Jer à la Vilo” e Sergio e Isabel

Ottonelli. Questi studiosi possono forse essere pensati come i passeurs culturels

di cui parlano Adriano Favole e Matteo Aria a proposito dell’Oceania, persone a

cavallo tra “universi semantici differenti” che si sono fatti portatori di fenomeni di

riscoperta e rivalutazione del contesto culturale di origine111.

107

Considerazioni tratte dalle interviste condotte a Dino Murazzano in data 12/10/2009, 20/08/2010 e 14/12/2010. 108

Frase tratta da un’intervista a Dovo Fabrizio condotta il 29/07/2010. 109

Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp. 91. 110

Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”,Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 111

Aria M., Favole A., “Passeurs culturels, patrimonializzazione condivisa, creatività culturale nell’Oceania francofona. L’articolo è di prossima pubblicazione.

59

Quello che manca sul territorio sono invece i punti di contatto tra i singoli musei.

Una situazione che, a mio avviso, compromette la valorizzazione del patrimonio

etnografico di valle il quale risulta essere penalizzato nella sua fruizione. Chi è

interessato a conoscere le singole strutture oppure ad approfondire una tematica

deve fare da solo un lavoro di connessione o cercare l’aiuto di un ufficio turistico

che però non è presente in tutti i paesi. La quasi totale assenza di contatti tra i

musei rivela il loro essere “luoghi di conflitto”. Lungi dall’essere uno spazio neutro,

queste realtà si identificano con le persone che le gestiscono, un gruppo esiguo

con il quale si può o meno aver legato. Il museo non è quindi un’entità astratta ma

è il prodotto del lavoro di alcuni soggetti e solo in tal senso viene percepito e

giudicato112.

Le collezioni museali sono il fulcro dei progetti espositivi di tutte le realtà

etnografiche presenti in valle Varaita. Il ricorso alla moderna tecnologia negli

allestimenti è pressoché nullo, in parte sicuramente perché il costo di queste

strutture è esoso e le risorse sono scarse. Fabrizio Dovo a riguardo mi diceva: «ci

sono dei musei della zona che, avendo ampie disponibilità finanziarie, possono

fare ricostruzioni multimediali, possono fare effetti speciali. Noi non avendo questo

tipo di disponibilità puntiamo più sulle cose concrete»113. Inoltre, in tutti i comitati

scientifici, quando sono stati istituiti, non era presente un museologo di

professione che potesse suggerire strategie espositive maggiormente

all’avanguardia.

La mancata attenzione nei confronti del patrimonio immateriale che caratterizza

l’allestimento di questi musei, secondo me è dovuta soprattutto alla centralità che

l’oggetto, in quanto tale, continua ad avere per i curatori. In alcuni casi, come detto

in precedenza, le modalità espositive sono influenzate dal desiderio di compiacere

coloro che hanno donato i manufatti. In altre situazioni, quando i curatori del

museo sono anche i fautori della collezione, essi assumono le caratteristiche del

collezionista vero e proprio. Questi ultimi instaurano un rapporto privilegiato con gli

oggetti, incomprensibile ai profani, fatto di rimandi ad altre storie e ad altre realtà.

Anche se il manufatto è ricercato per essere successivamente esposto nel museo,

esso finisce col perdere le sue “relazioni funzionali” per essere, invece, desiderato

112

Riflessione tratta da una chiacchierata con Ilaria Peyracchia che si è svolta in data 12/12/2010. 113

Considerazione tratta da un’intervista da me condotta a Fabrizio Dovo in data 18/12/2010.

60

e contemplato in quanto tale114. Gli ambiti di utilizzo, ma anche gli universi

simbolici e rituali degli oggetti, concorrono a formare nella mente del collezionista

una sorta di “enciclopedia magica” con la quale egli non solo ordina i beni raccolti,

ma si crea una visione del mondo115. Infatti, il metodo di classificazione con il

quale i manufatti vengono immagazzinati e/o esposti rimanda alle specifiche storie

non solo di produzione dell’oggetto, ma anche di appropriazione dello stesso.

Indipendentemente dalla relazione stabilita con il bene materiale, scegliere di

mettere in mostra un oggetto in un museo presuppone tanto una valutazione

dell’oggetto stesso, quanto l’instaurazione di un particolare tipo di rapporto con la

cultura da cui proviene116. Nell’esporre manufatti originari di un determinato

contesto sociale e culturale, qualora l’intento sia quello di rappresentarlo, il

curatore di un museo “non può non porsi l’obbiettivo di avvalorare una teoria,

segnatamente una teoria della cultura”117.

La fioritura di musei etnografici in val Varaita è strettamente connessa alla

“colonizzazione” da parte della “civiltà urbana” avvenuta soprattutto nella seconda

metà del Novecento. Sono gli anni del rapido spopolamento della montagna

causato, in parte, dalla crescita di industrie in pianura che attirarono mano

d’opera. Parallelamente, il fenomeno dello sci e del turismo di massa “è destinato

a sferrare l’ultimo colpo di grazia all’indipendenza economica e culturale della

montagna”118. Come sostiene Batzing “con la grande trasformazione strutturale

crolla non solo il sistema economico e di sfruttamento tradizionale, ma anche il

sistema culturale, che viene messo in discussione dai moderni valori «urbani»,

caratterizzati da un’impronta industriale e terziaria”119. Si tratta di un fenomeno che

causa un duplice contrasto: da una parte la modernità non si concilia bene con le

esperienze di vita quotidiana presenti in montagna, dall’altra parte essa

rappresenta la fine della povertà e l’esaltazione della libertà personale, un

“progresso che non si può e non si vuole arrestare”120

. Sono gli anni di cui Nuto

Revelli traccia un affresco disincantato ne “Il mondo dei vinti”121, un periodo in cui

114

Benjamin W., “Parigi capitale del XIX secolo: i passages di Parigi”, Einaudi, Torino, 1986. 115

Ibidem. 116

Baxandall M., “Intento espositivo”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995. 117

Ibidem pp. 20. 118

Camanni E., (op. cit.), pp. 50. 119

Bätzing W., (op. cit.), pp. 330. 120

Ibidem pp. 331. 121

Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.

61

era frequente l’emulazione di modelli culturali e di consumo urbani, così come era

diffuso un sentimento di vergogna nei confronti delle origini valligiane. I primi

musei etnografici nascono come reazione a tale complesso di marginalità e

propongono una visione diversa della cultura di appartenenza. Il rinnovato orgoglio

con cui si guarda al passato, a mio avviso, è presente anche nei musei più recenti.

In valle Varaita non sembra più essere presente questa sensazione di disagio nei

confronti delle proprie origini. Al contrario, se la componente materiale gode di

così tanta considerazione all’interno dei musei etnografici è anche perché gli

oggetti collezionati sembrano ristabilire connessioni tra la storia individuale e

quella collettiva. Salvarli dall’insignificanza appare quindi come un tentativo per

meglio comprendere la storia locale122. Se i curatori di un museo etnografico non

possono non avvalorare una teoria della cultura, quella che emerge dalle realtà

varaitine si fa portatrice di un rinnovato orgoglio nei confronti del proprio passato.

Gli oggetti esposti possono essere interpretati come dei semiofori, essi cioè non

hanno più utilità di tipo strumentale, ma sono dotati di un significato particolare in

quanto sono i rappresentanti dell’invisibile. Secondo Pomian, quest’ultimo può

essere declinato in modi diversi ma, a mio avviso, l’invisibile cui si riferiscono gli

oggetti esposti nei musei etnografici della valle è ciò che è molto lontano nel

tempo. Solo un bene facente parte di una collezione può diventare semioforo e

trasformarsi in portatore di significati. La trasformazione degli oggetti in simboli

presuppone la capacità di risvegliare memorie, raccontare storie e ricreare

ambienti123. La centralità di cui godono i manufatti nelle esposizioni dei musei

etnografici della val Varaita può forse essere intesa come un metodo per creare

una “politica della memoria” che rivaluti il contesto culturale degli avi così a lungo

denigrato. I curatori delle realtà presenti mi pare considerino gli oggetti come lo

strumento principe per veicolare questo messaggio. Attraverso la loro

connessione con l’invisibile, i beni collezionati sono in grado di praticare tanto una

nostalgia “chiusa”, caratterizzata dal rimpianto di ciò che è irrimediabilmente

perduto, tanto una nostalgia “aperta”, che fa dell’elaborazione del lutto un seme su

cui costruire un futuro nuovo. La nostalgia aperta non guarda al passato per

riproporlo nel presente, essa piuttosto lo considera come una fonte di valori e di

122

Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009 123

Pomian K., “Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI- XVII secolo”, Il Saggiatore, Milano, 1997.

62

strumenti per agire nella contemporaneità124. A mio avviso, gli oggetti esposti nei

musei della valle rimandano a quest’ultimo tipo di nostalgia proposto da Bodei

perché si collocano all’interno di realtà dinamiche che realizzano progettualità

concrete per il territorio. I beni esposti veicolano una visione diversa del passato

grazie alla quale è possibile operare nel presente con modalità diverse. La

realizzazione di dvd, pubblicazioni, mostre, conferenze, incontri, se possono

apparire eventi quasi scontati in una grande metropoli non lo sono affatto in

piccole realtà spopolate e dal complicato tessuto economico. La rivalutazione del

passato, grazie all’esposizione degli oggetti che ne facevano parte, è l’assunto di

partenza per la realizzazione di pratiche che appaiono di grande dinamismo e che

animano il tessuto culturale locale. L’attenzione al presente è sentita anche dalle

mie persone risorsa. Molto chiara in tal senso è la riflessione di Ilaria Peyracchia la

quale sostiene che la missione dei musei contemporanei non deve essere quella

di rimpiangere il passato, ma di rendersi protagonisti della realtà valligiana

attuale125. Anche Dino Murazzano ha espresso una considerazione analoga: «I

musei etnografici… indietro di trent’anni non ce n’erano perché i musei erano la

gente che viveva il territorio. Adesso son venuti per ricordarti cosa faceva quella

gente lì, ma per ricordare cosa? Un attrezzo che non lavora più? È brutto»126.

Ricordare il passato non basta più, è necessario agire nella contemporaneità,

rivivere la montagna, anche attraverso lo sviluppo di progettualità all’interno delle

realtà etnografiche.

La grande fioritura di questo tipo di musei in val Varaita e la trasformazione dei

beni componenti le loro collezioni in simboli di un passato scelto, selezionato e

rivalutato mi fa pensare alle pratiche di patrimonializzazione e alle politiche della

memoria presenti in taluni Paesi decolonizzati. Alcuni di questi hanno fatto proprio,

plasmato ed adattato il concetto occidentale di patrimonio come forma di

legittimazione dello Stato-nazione. Non solo la maggior parte dei Paesi africani e

del Medio Oriente, ma anche alcuni gruppi minoritari europei e americani,

adottarono una politica culturale che valorizza e tutela i loro beni culturali.

L’importanza del patrimonio è tale perché contribuisce a definire la nazione

124

Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009. 125

Riflessione tratta da un’intervista da me condotta ad Ilaria Peyracchia in data 19/02/2011. 126

Tratto da un’intervista a Dino Murazzano svolta in data 14/12/2010.

63

stessa, il contenuto culturale diventa l’essenza dello Stato127. La relazione tra beni,

cultura e società può essere definita dall’individualismo possessivo teorizzato da

Macpherson tale per cui esiste un legame tra l’agente e le cose su cui agisce

perché se da un lato queste diventano di sua proprietà, dall’altro l’individuo viene

ad essere definito dalle cose oggetto della propria azione128. Come sostiene Irene

Maffi, il patrimonio, “selezionato, valorizzato e rivendicato”, è considerato come la

reificazione della storia e dell’identità di un gruppo ed “è diventato la posta in gioco

di relazioni politiche più o meno asimmetriche”. Si tratta di una serie di

considerazioni che possono essere estese anche alla pratica museologica. Nel

periodo post coloniale popoli, gruppi di persone, minoranze etniche ma anche

nazioni e città hanno fatto propria la concezione occidentale tale per cui essere

rappresentati in un museo significa essere riconosciuti come presenza culturale129.

Queste realtà diventano quindi luoghi di negoziazione politica tra gli attori implicati.

Forse l’attenzione rivolta alle collezioni museali in val Varaita può essere pensata

come il tentativo di delineare una serie di beni culturali che, come Macpherson ha

teorizzato, contribuiscano a definire l’essere “montanaro” nella contemporaneità.

Gli oggetti esposti sono quindi dei semiofori perché raccontano storie e risvegliano

memorie che danno corpo ai gruppi sociali di valle. Forse il proliferare di musei

etnografici può essere interpretato come un tentativo di reazione alla marginalità

non solo economica, ma anche culturale che caratterizza questa parte di Alpi

piemontesi. Così delineato il museo si caratterizza per essere una componente

importante nella battaglia contro “la crisi della presenza”130 riscontrabile in

contesto vallivo.

127

Maffi I. (a cura di), “Introduzione”, in Antropologia anno 6 n.7, Meltemi, Roma, 2006. 128

Handler R., “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in Stocking jr. G. W. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Ei Editore, Roma, 2000. 129

Alpers S., “Il museo come modo di vedere”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995. 130

De Martino E., “La fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, Torino, 1977.

64

CAPITOLO 3

RIFLESSIONI SUL PUBBLICO DEI MUSEI A

BELLINO

3.1 BLINS Si accede al comune di Bellino percorrendo la strada che si snoda a l’ubac di

Casteldelfino. Questa costeggia il ripido versante della montagna, stretta nella

gola orientata Est-Ovest che da quota 1370 metri ospita il paese. Per la precisione

“i limiti altimetrici del territorio comunale vanno dai 3340 m del Mongioia ai 1370 m

tra Varaita e lou Coumbàl la Coumbo, al confine con Casteldelfino; mentre gli

insediamenti permanenti attuali (les ruà) sono compresi nella fascia tra i 1390 m

della Rubieréto ed i 1710 m de lou Ciazàl”131.

Il toponimo Bellino ha origini incerte ed è a tutt’oggi di difficile spiegazione.

Secondo Giovanni Bernard tre

sono le possibili

interpretazioni di questo

nome: potrebbe derivare da

un cognome ancora diffuso

nella Provincia di Cuneo,

oppure potrebbe ricordare

Belenus, la divinità celtica del

sole paragonabile all’Apollo

dei Romani132. La terza

spiegazione, invece, si rifà

all’antico francese “belins” che significa “pecore”, in questo caso il nome del paese

sarebbe stato influenzato dall’economia locale nella quale l’allevamento ovino

131

Dematteis L., “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”, Priuli & Verlucca, Torino, 1993, pp. 8. 132

Maggiori informazioni sulla figura di Belenus si possono trovare in D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000 e in Jorio P., “Il magico, il divino, il favoloso nella religiosità alpina”, Priuli e Verlucca, Torino, 2006.

Bellino di Marco Bailone. Opera concessa gentilmente

dall’autore.

65

giocava un ruolo importante133. Roberto D’Amico, invece, fornisce

un’interpretazione diversa del toponimo, che in parte unisce e mescola le

precedenti. Secondo l’autore l’origine del nome Bellino non si deve solo ai Celti e

al loro culto del sole ma, più nello specifico, all’osservazione che essi facevano di

questa stella. L’equinozio di primavera, infatti, cadeva in un periodo in cui di notte

era possibile osservare la costellazione dell’ariete che in gallico si dice appunto

Belin134.

La gola nella quale si trova il paese è dominata dalla strana Rocca Senghi, una

roccia che la tradizione vuole protagonista di una leggenda. Il luogo dove sorge

questo macigno, infatti, sarebbe stato teatro di uno scontro avvenuto tra Dio e il

diavolo. Quest’ultimo avrebbe sfidato il Signore a staccare un masso dal Pelvo

della Chiabrera che, con i suoi 3.152 metri, è una delle vette più alte della valle, e

a posarlo nel luogo della sfida. Il risultato della provocazione è stato Rocca Senghi

che, tra l’altro, è composta dallo stesso materiale litico del Pelvo. Si narra che il

diavolo, colpito dall’esito dell’impresa di Dio, avesse tentato di emularlo senza

avere altrettanta fortuna: il masso da lui staccato si frantumò nei mille pezzi che

compongono la pietraia del Prefiol. Si tratta di un curioso agglomerato di rocce di

notevoli dimensioni e con forme squadrate che si trova poco oltre borgata

Chiazale, verso l’altopiano di Sant’Anna135. Il Delfino di Vienna (l’odierna Vienne

sul Rodano) nel 1228 pose mano alla costruzione o al rafforzamento di un’opera

difensiva, nota come Castrum Dalphinale Pontis Bellini, che si trovava proprio in

cima a Rocca Senghi. La fortezza, di cui nulla è rimasto, doveva controllare una

postazione di guardia situata nei pressi di frazione Ribiera che, all’epoca

dell’edificazione del maniero, segnava la frontiera tra i possedimenti del Delfino e

quelli del Marchesato di Saluzzo136.

Chiazale, Celle e Prafauchier sono le tre borgate che compongono il “quartiere

alto” di Bellino. Tradizionalmente, infatti, si ritiene che il paese sia composto da

due zone, una partizione che affonda le sue radici nel tempo e non è legata solo

alla presenza di due parrocchiali o alla vicinanza più o meno marcata delle

frazioni. Tra i due quartieri di Bellino, infatti, esisteva una vera e propria rivalità che

133

Rossi D., “Val Varaita. Guida a una valle sorprendente per le tradizioni, affascinante per i paesaggi”, L’Artistica, Savigliano, 2009. 134

D’Amico R., “L’anima segreta della Val Varaita. Viaggio insolito alle radici della storia tra reperti archeologici, simboli, miti e leggende”, Priuli e Verlucca, Torino, 2000. 135

Rossi D., (op. cit.). 136

Dematteis L., (op. cit.).

66

sfociava talvolta anche in liti o in risse. Il conflitto era particolarmente evidente in

occasione dei matrimoni, per consuetudine celebrati tra appartenenti alla stessa

area. Nei casi in cui la ragazza provenisse dal quartiere “rivale”, invece, il futuro

marito doveva pagare i giovani del rione della moglie, quasi una sorta di

“risarcimento” per aver limitato le loro possibilità matrimoniali. Al fine di sancire

definitivamente l’unione, gli sposi camminavano sotto un arco fiorito situato in

prossimità di entrambi i quartieri137.

Queste usanze relative al matrimonio si sono mantenute fino agli anni Settanta del

Novecento, ma altre tracce della rivalità tra le due aree sono ancora presenti.

Parlando con Giovanni Bernard in relazione alla rassegna “travai e üzonses d’en

bot” è emerso come, in quell’occasione, avessero partecipato gli abitanti di

entrambe le aree di Bellino perché un quartiere non era più in grado di animare da

solo la manifestazione: «la prima volta che lo abbiamo fatto quelli di su non

venivano, per carità. […] Nel 2000 han cominciato a venir giù quelli di Celle perché

non bastava più la gente»138. Anche Bellino, infatti, non si è sottratto al marcato

spopolamento che ha caratterizzato la valle dal secondo dopoguerra ad oggi. Dal

1951 al 2009 il paese, che attualmente conta 144 residenti, ha perso il 76% della

popolazione139.

Come sostiene Giacomo Marc, assessore alla cultura ed ex sindaco di Bellino:

«Le feste sono appannaggio dei comitati locali. Il Comune interviene dando un

contributo ma l’organizzazione, il coinvolgimento, la regia sono dei due comitati».

Questi ultimi sono: il Comitato di San Jacou, un gruppo di ragazzi molto giovani

che animano sia la festa patronale del “quartiere basso”, sia la rassegna dei

mestieri di un tempo, e il Comitato di Santo Spirito, che gestisce la festa patronale

dell’altro rione e la Beò. Ai due Comitati si aggiunge l’associazione “Pasteur de

Blins” che organizza la Fiera del 10 ottobre, una mostra-mercato del bestiame e

del formaggio locale140

.

La manifestazione “travai e üzonses d’en bot” è una rievocazione dei mestieri

presenti in passato sul territorio. La rassegna si svolge a borgata Chiesa che per

l’occasione si anima di pastori, contadini, falegnami, mentre passeggiando tra le

suggestive stradine una visita guidata gratuita illustra le metodologie utilizzate per

137

Rossi D., (op. cit.). 138

Tratto da un’intervista da me condotta a Giovanni Bernard in data 02/05/2011. 139

www.istat.it 140

Tratto da un’intervista condotta a Giacomo Marc in data 02/05/2011.

67

fare il fieno, il pane, il formaggio, per filare e per tagliare la legna da costruzione.

“Travai e üzonses d’en bot” è una manifestazione che si svolge ogni tre anni e che

coinvolge unicamente gli abitanti di Bellino. Nel 2010 l’evento è durato tre giorni,

ognuno dei quali era animato da un’attività diversa: la prima sera sono stati

proiettati dei filmati con le edizioni precedenti della rassegna, il pomeriggio

successivo invece i curatori di alcuni musei varaitini, della vicina val Maira e del

Queyras sono intervenuti a un convegno sul lavoro alpino tradizionale. La piccola

conferenza, in realtà, è stata un’interessante occasione di confronto sulle

metodologie e sulle problematiche della museologia locale. La seconda giornata si

è conclusa con una cena a base di polenta e salsiccia e con una serata in musica.

La rassegna vera e propria ha avuto luogo l’ultimo giorno, concluso con la

degustazione del pane realizzato durante la manifestazione e con una serata di

balli occitani.

La Beò è “una specie di sfilata carnevalesca con regole convenzionali di antica

tradizione”141. Questa festa popolare si svolgeva ogni anno il martedì grasso a

conclusione del carnevale e ha avuto luogo fino al 1958, salvo un’interruzione di

cinque anni, dal 1940 al 1945, causata dalla guerra. Nel 2000 il Comitato di Santo

Spirito ha ricominciato ad organizzare la Beò, la quale però ha subito una serie di

modifiche rispetto alla manifestazione tradizionale. La festa contemporanea,

infatti, si svolge con cadenza triennale e a essa prendono parte anche le donne e

alcuni abitanti del “quartiere basso”, a causa del citato problema di perdita di

popolazione. È rimasto invariato lo svolgimento della Beò, che è sostanzialmente

una sfilata di persone che indossano un costume e che hanno un ruolo fisso. Lo

sviluppo della festa segue un rituale consacrato dalla tradizione anche se lascia

molto spazio all’estro sia del pubblico sia degli attori. Il gruppo, che poteva arrivare

anche a quaranta persone, ha sempre e solo sfilato nel territorio della parrocchia

di Santo Spirito: la manifestazione partiva da Celle, andava a Chiazale, ritornava a

Celle, si recava a Prafauchier per poi chiudere l’evento nuovamente a Celle142.

Le numerose ipotesi fatte dagli studiosi non sono riuscite né a rintracciare

chiaramente le origini di questa festa, né a spiegarne in modo univoco le sue

caratteristiche. L’interpretazione locale è simile a quella proposta a Sampeyre,

dove si fanno risalire le origini della Baìo alla cacciata dei Saraceni dalla valle. È

141

Deferre M., “Il carnevale a Blins”, Nouvel Temp, n.7, maggio 1978, pp. 6. 142

Deferre M., (op. cit.).

68

probabile, tuttavia, che la festa sia nata in un periodo più antico e che sia

anch’essa collegata con le Abbadie degli Stolti, le Badie, gruppi di giovani che a

partire dal tardo medioevo organizzarono le feste della comunità143. Jean-Luc

Bernard, invece, sostiene che ci sia un’affinità tra la Beò e i misteri medievali, i

quali ripetevano nel periodo precedente la quaresima la scena della fuga degli

Ebrei dall’Egitto. Secondo questa ipotesi la figura de Lou Viéi acquisterebbe un

significato particolare perché non farebbe più solo le veci del patriarca all’interno

della famiglia, ma ricorderebbe Mosè che guida il suo popolo nel deserto144.

Ho trovato molto interessante l’ipotesi di Maria Deferre che tenta di spiegare la

mancata partecipazione del quartiere basso di Bellino alla Beò. Secondo la

studiosa, questa parte del paese sarebbe stata più ligia alla religione cattolica,

come si esplica dalla pratica, viva fino alla seconda guerra mondiale, di realizzare

la Crouzà, una specie di Passione della Settimana Santa. Il quartiere basso

avrebbe quindi “lasciato” all’altra parrocchia, più laica e spregiudicata, la tradizione

profana che era rappresentata dalla Beò per dedicarsi a una manifestazione

squisitamente religiosa. La Deferre nota, infine, che questa parte di Bellino adesso

è sede del Municipio, come se l’amministrazione centrale si sentisse

maggiormente autorizzata a esercitare il suo potere nel quartiere più tranquillo e

pio del paese145.

Le borgate bellinesi, nonostante siano divise in “quartieri”, hanno un assetto

territoriale ed un carattere aggregativo comune. Ogni frazione di Bellino è

circondata da terreni coltivabili proporzionati alla sua grandezza che, in passato,

erano in grado di assicurare il fabbisogno cerealicolo dell’insediamento. Un altro

principio importante e ovunque rispettato, era di costruire non solo al riparo da

alluvioni, frane e valanghe, ma anche in modo tale da non sottrarre terreno fertile

alle colture. Le case presentano il frontespizio orientato in direzione del massimo

soleggiamento che, come riporta Luigi Dematteis, molto spesso non corrisponde

al mezzogiorno ma all’orientamento a Sud-Est che permette di ricevere meglio i

raggi che attraversano la valle146.

143

Ibidem. 144

Bernard J.L., “Nosto modo. Testimonianza di civiltà provenzale alpina a Blins”, Coumboscuro centre prouvençal, Busca, 1992. 145

Deferre M., (op. cit.). 146

Dematteis L., (op. cit.).

69

Borgata Celle, nel “quartiere alto” di Bellino, ospita la parrocchiale settecentesca

dedicata a S. Spirito. La chiesa venne costruita per evitare che gli abitanti delle tre

borgate in quota dovessero percorrere diversi chilometri per partecipare alle

funzioni religiose che si svolgevano nella zona del paese situata più a valle. Tale

percorso era particolarmente difficoltoso soprattutto nei mesi freddi quando una

spessa coltre di neve ricopre l’intero territorio. Nel 1777 il vescovo di Torino venne

personalmente in visita a Bellino per rendersi conto del disagio che vivevano i

fedeli del “quartiere alto” e diede così il benestare per la costruzione del nuovo

luogo di culto. La chiesa di Santo Spirito è orientata verso sud e, secondo una

leggenda, furono le donne le maggiori promotrici dei lavori. Queste trasportarono

instancabilmente nei loro grembiuli la sabbia necessaria alla costruzione. L’altare

barocco, dorato e ornato da una corona retta da due angeli, è stato realizzato da

Jean Baptiste Allais di Bertines147 che Sergio Ottonelli definisce “uno dei più validi

artigiani del legno che la valle abbia mai avuto”148. La cupola sovrastante il coro è

decorata con un ciclo di affreschi che rappresentano i quattro evangelisti149.

Sui muri di una casa privata di Chiazale, un’altra delle frazioni che compongono il

“quartiere alto” di Bellino, si legge ancora la scritta “Guardie doganali”. La

costruzione ospitava l’antico corpo militare istituito perché sorvegliasse sul

pagamento dei dazi previsti nel commercio di alcuni beni, come ad esempio il

sale. La vigilanza delle autorità sabaude sui valichi di confine e le facilitazioni di

accesso ai mercati della bassa valle causarono una contrazione negli scambi con

la Francia. I commerci con l’altro versante della montagna, invece, erano molto

attivi quando la Castellata faceva parte degli Escartons, la citata confederazione

autonoma che univa territori adesso francesi e italiani. Il 1713 pose fine a questa

entità politica particolare e decretò la nascita del contrabbando. Il rifornimento di

sale, cioccolato, zucchero e tabacco sui mercati dell’Ubaye e del Queyras, infatti,

è stato consueto fino alla seconda guerra mondiale. Il baratto era la forma più

praticata di acquisizione di questi beni che venivano scambiati soprattutto con il

riso. Il contrabbando era molto frequente soprattutto d’estate, quando le famiglie

salivano alle grange, e si intensificò dopo lo sbarco degli Alleati nell’Italia

meridionale a causa della quasi totale assenza di sale dal territorio. Come

147

Bertines è una borgata di Casteldelfino. 148

Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979, pp. 129. 149

Ibidem.

70

testimonia la presenza di un corpo di guardie doganali, questa forma di commercio

era piuttosto praticata a Bellino, che dista dal confine solo due chilometri e che è

ben collegato alla Francia tramite una serie di sentieri. È facile immaginare che il

contrabbando non fosse realizzato con l’intenzione di delinquere o con la volontà

di arricchirsi, quanto piuttosto per sopravvivere in un momento storico difficile e in

un territorio nel quale la percezione della frontiera doveva essere ancora piuttosto

labile150.

La parrocchiale di S. Giacomo riunisce le borgate di Balz, Chiesa, Fontanile,

Masdelbernard, Pleyne e Ribiera, le frazioni che compongono il “quartiere basso”

di Bellino. La chiesa sorge probabilmente sulle rovine di un antico edificio di culto

ed è il risultato di successive ristrutturazioni. Dell’antica struttura medievale è

ancora possibile osservare solo il campanile a due piani con bifore e un’alta

cuspide monolitica, un elemento della costruzione che Ottonelli definisce “forse il

più antico monumento romanico-lombardo della valle”151. La chiesa è stata

trasformata in tempio riformato nel 1578 per essere riconsacrata nel 1603, periodo

in cui ne venne modificato anche l’orientamento tramite l’apertura dell’attuale

ingresso a Ovest e la costruzione dell’abside a Est. Osservando i muri esterni

della parrocchiale è possibile notare alcune tracce delle ristrutturazioni di cui è

stata oggetto. Per costruire le pareti, infatti, sono stati impiegati alcune pietre

scolpite che probabilmente facevano parte di un altro edificio. Di questi frammenti

murati all’esterno fanno parte un animale che potrebbe essere un bue, un volto

barbuto, un busto decorato con bottoni, e una testa con i capelli disposti a

raggiera. Questa particolare capigliatura reca tracce di pittura rossa e ha portato

ad interpretare il rilievo come un’iconografia di Belenus. L’interno della chiesa di S.

Giacomo ha una sola navata in stile barocco sormontata da una volta a botte. Sul

lato destro, ovvero nella parte rivolta a sud della parrocchiale, si trova una

cappella dedicata a S. Antonio che conserva un fonte battesimale in stile gotico

risalente al Quattrocento. Di fianco al portone d’ingresso è murata acquasantiera

che rappresenta un leone coronato di spine152. Secondo Luigi Dematteis, la dedica

a San Giacomo di questa chiesa confermerebbe l’ipotesi che vuole Bellino uno dei

punti di sosta nel pellegrinaggio verso Santiago di Compostela. “Analoga

150

Bernard G., “Lou saber. Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins”, Ousitanio Vivo, Venasca, 1996. 151

Ibidem, pp. 123. 152

Rossi D., (op. cit.).

71

conferma può venire da un capitello del primitivo edificio romanico, oggi utilizzato

quale basamento della croce cimiteriale, con figurazioni molto simili alle famose

«Vergini Nere» che si ritrovano sul «Camino» per Santiago”153.

Passeggiando per le vie delle borgate che compongono il comune di Bellino, si

possono notare numerosi esempi delle modalità costruttive tradizionali. Come

sostiene Sergio Ottonelli “In nessun altro posto della valle l’architettura rustica ha

raggiunto una così alta perfezione e complessità di forme. […] Con gli spioventi

dei tetti ampi e dispiegati come ali, così che di lontano certe case isolate danno

l’idea di uccelli in atto di spiccare il volo, ornate di colonne, di fregi, di affreschi a

soggetto sacro o profano e di meridiane, le case di Blins sono veri tesori d’arte”154.

Il pregio del paese è anche quello di essere stato risparmiato dalla speculazione

edilizia che in valle Varaita ha rovinato il volto di altri Comuni.

Le abitazioni di Bellino sono di tipo multifunzionale, ovvero sono state concepite

per ospitare sia la famiglia, sia i locali destinati agli animali e ai prodotti della terra.

Un altro criterio di uniformità consiste nelle modalità di costruzione, anch’esse

piuttosto simili su tutto il territorio comunale. Il tetto a due falde è dotato di grandi

sporti frontali e laterali, mentre come manto di copertura sono utilizzate le lose. I

muri non sono realizzati “a secco” ma dotati di pietre passanti di legatura e di un

sigillante che negli edifici più antichi era un impasto di argilla, mentre in quelli più

moderni è stata utilizzata la malta di calce155. Le case bellinesi tradizionali hanno

tre piani: il primo era occupato dalla stalla alla quale sovente si affiancavano altri

due locali, uno per le pecore e l’altro per la cantina. D’inverno la stalla ospitava

anche la famiglia, una strategia fondamentale per difendersi dal freddo. Il primo

piano, invece, era destinato all’abitazione umana e vi si trovavano la cucina e le

stanze da letto. L’ultimo locale della casa era il fienile, situato sotto il tetto perché

serviva ad isolare contro il freddo. Le componenti funzionali della casa bellinese si

accompagnano a elementi decorativi di pregio. Ad esempio le porte, realizzate in

modo da essere estremamente solide e resistenti, si ornano a fine Ottocento di

decorazioni geometriche e floreali. I balconi erano costruiti per rispondere alle

esigenze della vita contadina e non a scopo civile, tuttavia molti di essi vantano

delle belle balaustre tornite. Come nota Ottonelli, anche l’impiego stesso dell’arco

153

Dematteis L., (op. cit.). 154

Ottonelli S., (op. cit.), pp. 121. 155

Dematteis L., (op. cit.).

72

manifesta una cura che va oltre la sua funzione portante. Un elemento molto

ricorrente a Bellino sono i portali megalitici realizzati con le pietre provenienti dal

Prefiol. Espressione di solidità formale, questi monoblocchi litici sono così

frequenti nelle borgate da diventare quasi un tratto caratteristico156.

L’intento decorativo unito a quello strettamente funzionale ricorre anche nel caso

delle fontane. Risalenti quasi tutte al XIX secolo, esse sono composte da due

grossi blocchi di pietra: uno verticale ornato con la testa di un leone da cui

fuoriesce l’acqua, l’altro orizzontale e scavato in modo tale da formare la vasca157.

Le fontane, realizzate con il materiale estratto dalla pietraia del Prefiol, sono un

elemento interessante e molto diffuso a Bellino tanto che il Comune ha deciso di

istituire intorno ad esse un progetto di recupero e valorizzazione. Come sosteneva

Giacomo Marc, il restauro di dieci delle diciannove fontane presenti a Bellino è

stato il primo passo nell’istituzione di un “percorso dell’acqua” che tocchi tutte le

borgate. Il turista sarebbe così invogliato a visitare le frazioni per osservare le

fontane, il lavatoio comunale, un antico sistema di irrigazione e due moderne

centraline per la produzione di energia idroelettrica. Queste sono state costruite a

ridosso del Varaita ma mantengono le tipologie architettoniche tradizionali in modo

da apparire simili alle altre case. Il canale di irrigazione, attivo fino al Settecento,

portava l’acqua dalla parte alta, ovvero da Celle e Chiazale, fino alla parte bassa,

a Fontanile e a Chiesa. Questo correva sulla destra orografica ed era interrato, nei

punti dove attraversava le pietraie, invece, una serie di tronchi scavati facevano da

canaline. Il “percorso dell’acqua” è un progetto in fase di realizzazione per il quale

è ancora necessario restaurare tanto l’antico lavatoio, quanto il suddetto canale di

irrigazione158.

Le mura delle abitazioni di Bellino sono ornate anche da numerosi affreschi a

carattere profano o sacro. Tra questi ultimi, in particolare, sono presenti dei

soggetti che si discostano dalla ortodossia cattolica. È il caso, ad esempio, della

crocifissione dipinta in borgata Celle nei pressi della parrocchiale. Nell’opera le tre

Marie sono viste frontalmente mentre il Cristo è rappresentato di spalle, coperto

dalla croce. L’affresco è molto particolare perché sembra quasi che il tema

centrale dell’opera non sia la Crocifissione, della quale si vede ben poco, ma le tre

156

Ibidem. 157

Rossi D., (op. cit.). 158

Tratto da un’intervista a Giacomo Marc condotta in data 02/05/2011.

73

fedeli. La spiegazione ufficiale di questa particolare scelta pittorica chiamerebbe in

causa una questione di orientamento: dipinto in questo modo il Cristo guarderebbe

a Gerusalemme159. Esiste però un’altra possibile interpretazione che attribuisce la

paternità dell’opera ai catari rifugiatesi nelle valli alpine per scappare alle

persecuzioni indette contro di loro. Nel credo cataro, infatti, non vengono

riconosciute la simbologia del Cristo in croce, il commercio delle reliquie e

l’autorità del Pontefice. Questa serie di elementi furono sufficienti a inimicarsi

Papa Innocenzo III che dichiarò la sua crociata contro i catari il 24 giugno 1209. Le

persecuzioni durarono 35 anni e furono perpetrate soprattutto dalle truppe

comandate da Simone de Monfort. È stato accertato che a seguito della

repressione quattromila fedeli si sparsero per l’Europa e soprattutto nell’Italia

settentrionale, presentandosi come mercanti, viaggiatori, trovatori e fabbricatori di

carta. Roberto D’Amico sottolinea che anche per ragioni politiche la quasi totalità

della nobiltà occitana appoggiò e protesse i catari160.

Tra gli affreschi a carattere profano non si possono non citare le numerose

meridiane che abbelliscono i muri delle case di Bellino. Il paese è un caso raro ed

interessante perché su un territorio così piccolo si contano ben 35 quadranti solari

e alcune abitazioni ne possiedono più d’uno. Si tratta di cifre piuttosto elevate se si

considera che in tutta Italia ci sono circa 15.000 meridiane, 5.000 di queste sono

in Piemonte e 2.000 in Provincia di Cuneo161. Secondo la trattazione di Ivanna

Casasola, gli orologi solari bellinesi sono stati realizzati tra la fine dell’Ottocento e

la prima metà del Novecento da gente del luogo. Questi “montanari sapienti”

probabilmente avevano avuto a loro disposizione dei trattati che spiegavano come

realizzare una meridiana, secondo una “tradizione” di consultazione di testi che

pare non essere estranea alla Bellino ottocentesca. L’arte gnomonica però

metteva a frutto anche la capacità di questi artigiani di valutare il passare del

tempo guardando la posizione del sole o delle stelle, un’attitudine molto diffusa in

passato. Le meridiane bellinesi, che sono quasi tutte collocate nel “quartiere alto”

del paese, sono state realizzate con il sistema ad ore francesi, segno del legame

ancora presente tra territori che un tempo facevano parte degli Escartons e che

invece all’epoca erano già divisi da un confine di Stato. Questo sistema di

159

Rossi D., (op. cit.). 160

D’Amico R., (op. cit.). 161

Rossi D., (op. cit.).

74

realizzazione di un orologio solare fraziona la giornata in ventiquattro ore e separa

quelle mattutine da quelle pomeridiane attraverso una linea verticale che indica il

mezzogiorno vero locale. Ivanna Casasola propone un’interpretazione della nutrita

presenza di meridiane a Bellino: secondo la giovane studiosa i quadranti solari

rappresentano un tentativo di “riappacificazione” con l’inesorabile avvicinarsi della

morte. Ciò che induce la Casasola a considerarli in questo modo è, in primo luogo,

la presenza di frasi, di motti, che ornano le meridiane e che fanno riferimento

quasi sempre ai temi della caducità e della fine. Se gli orologi solari sono “portatori

di significato” è anche a causa delle forti connotazioni simboliche intrinsecamente

legate alla loro natura. Tra questi elementi, che, a mio modo di vedere, sono stati

legati a interpretazioni dal gusto eccessivamente “esotico”, primeggia l’utilizzo

dell’ombra che da sempre, nei miti e nelle leggende, è stata associata al mondo

degli spiriti e dell’aldilà. Secondo Ivanna Casasola non è un particolare irrilevante

anche la presenza di decorazioni pittoriche che raffigurano galli o altri uccelli. “Tale

soluzione stilistica può essere vista in stretta connessione con l’alone di animismo

che circonda l’ombra e che ritroviamo nelle trasposizioni allegoriche dello spirito

sotto forma di animale”162. Le meridiane possiedono un’altra caratteristica

rilevante: esse contengono al loro interno un paradosso. Nei quadranti solari,

infatti, l’area del cielo è in basso e quella della terra in alto; le ora mattutine si

leggono guardano la porzione di orologio a destra, quella cioè orientata verso

ovest, dove il sole tramonta; l’esatto opposto avviene in relazione alle ore

pomeridiane. Secondo la Casasola l’inserimento del paradosso rimanda a una

realtà asimmetrica e indivisibile che trascende in questo modo il concetto stesso di

tempo, il quale, per sua natura, divide ed è strutturato in parti. Ciò che non è

divisibile e non è soggetto allo scorrere del tempo non può morire, in questo modo

le meridiane superano la nozione di morte e propongono una riappacificazione

con essa. Questa interpretazione è possibile facendo riferimento ad un contesto,

com’era quello bellinese a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel quale il bisogno

di domesticare la morte era molto più sentito di quanto non lo sia nella

contemporaneità. Le ritualità funebri, progressivamente abbandonate a partire dal

1930, riflettevano la pregnanza anche collettiva dell’evento. Queste avevano come

fine la regolamentazione del comportamento dei vivi, un atto che può essere

162

Casasola I., “Ombra fugace. L’esperienza del tempo sui muri della comunità alpina di Bellino”, Alzani, Pinerolo, 2007, pp. 236.

75

pensato come una sorta di controllo esercitato su un evento estraneo e misterioso.

La fine delle ritualità funebri è strettamente collegata alla modifica dell’idea stessa

di morte, la quale ha perso il suo alone di sacralità per essere negata e al

contempo allontanata dal contesto sociale163.

Il Comune ha istituito un programma di recupero e valorizzazione del patrimonio

gnomonico di Bellino164. Dal 1999 al 2002 sono state restaurate tutte le meridiane

del territorio grazie alla collaborazione di Solaria Opere, una ditta di Saluzzo. Il

progetto di recupero dei quadranti solari è stato realizzato grazie a un

finanziamento di novanta milioni di Lire erogato dal GAL “Valli di Viso”165 che

gestiva i fondi previsti nel programma Leader II dell’Unione Europea166.

Per valorizzare le meridiane sono stati creati dei segnavia dislocati in tutte le

borgate e un piccolo depliant volto a presentare il patrimonio gnomonico bellinese

nella sua totalità. I pannelli situati nelle frazioni compongono un percorso che,

come mi ha detto Giacomo Marc: «è composto da tre livelli e quattro aree. I tre

livelli sono: il livello quello della persona che con la macchina scende e guarda la

meridiana che ha a pochi metri dalla macchina; il secondo livello è già un po’ più

lungo e un po’ più complesso ed è quello che prevede di entrare all’interno delle

borgate; il terzo livello, invece, è quello fuori dalle borgate, ci sono 6 quadranti che

sono sugli alpeggi. Quindi abbiamo fatto i tre livelli e poi diviso in quattro zone: la

zona di Chiesa e Rivera dove ci sono una parte di quadranti, la zona di Celle, la

zona di Chiazale e la zona degli alpeggi». I pannelli presenti lungo il percorso dei

quadranti solari sono stati illustrati con dei disegni ripresi da quelli realizzati da

Luigi Dematteis nel suo libro “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”.

Questi segnavia riproducono le borgate e segnalano le case decorate con i

quadranti solari.

163

Ibidem. 164

Le informazioni contenute in quest’ultima parte del paragrafo sono state dedotte da un’intervista condotta a Giacomo Marc in data 02/05/2011. 165

I Gruppi di Azione Locale (GAL), sono dei partenariati locali, regolarmente costituiti, che possono essere composti da strutture pubbliche, agenzie semi-pubbliche e privati. Nella composizione della partnership locale, a livello decisionale, gli enti pubblici non possono superare il 50% del partenariato locale. I GAL hanno il compito di elaborare la strategia di sviluppo del territorio in cui operano e a tal fine gestiscono i fondi che derivano dai programmi comunitari Leader. 166

Il programma di iniziativa comunitaria LEADER, acronimo dal francese “Liaison entre actions de développement de l'économie rurale” sostiene progetti di sviluppo rurale ideati a livello locale al fine di rivitalizzare il territorio e di creare occupazione.

76

Oltre al depliant, il Comune ha realizzato una guida di questo percorso dove:

«sono state inserite le immagini fotografiche delle meridiane ante e post

ristrutturazione e dove sono state indicate le caratteristiche tecniche della

meridiana». La ditta Solaria, invece, ha curato l’edizione del volume “Le ore

serene di Bellino”, una piccola guida fotografica alle bellezze naturali e

architettoniche del paese con particolare riferimento ai quadranti solari. Il Comune

ha supportato l’iniziativa acquistando una serie di copie e finanziando in questo

modo la pubblicazione del libro. La Municipalità è stata maggiormente propositiva

in relazione al testo della Casasola, edito grazie all’interessamento e al contributo

economico del Comune stesso.

Di provenienza regionale, invece, erano i fondi utilizzati nella realizzazione

dell’osservatorio astronomico. Si tratta di una piccola casetta in pietra costruita

con il materiale proveniente dal crollo di un forno settecentesco. La struttura ha un

tetto in finte lose che, grazie ad un sistema motorizzato, si apre a metà scorrendo

su delle guide. Per il manto di copertura non è stato possibile utilizzare delle pietre

vere perché il loro peso avrebbe reso impossibile il movimento. Il tetto, inoltre, è

dotato di un sistema di serpentine che si riscaldano per sciogliere la neve e il

ghiaccio invernali, permettendo così l’utilizzo della struttura anche durante la

stagione fredda. Il Comune, inoltre, ha intenzione di dotare il telescopio di una

telecamera e di collegarlo al Museo del Tempo, in modo da rendere possibile la

visione del cielo all’interno della realtà etnografica.

La costruzione dell’osservatorio astronomico ha lo scopo di incentivare i

villeggianti a pernottare sul territorio. Più in generale, lo sviluppo di progetti di

carattere culturale è volto a creare una forma di turismo lento e attento al territorio

che possa incrementare le risorse economiche dei bellinesi. Giacomo Marc

sostiene che: «noi abbiamo fatto una scelta, in qualche modo obbligata […]: la

valutazione era che il turismo di Bellino non può essere quello di Pontechianale

perché il turismo di Pontechianale è basato sul turismo invernale, sulle seconde

case, sugli impianti sciistici. A Bellino non ci sono queste cose, è impossibile

crearle perché ci vorrebbero dei fondi enormi e poi bisognerebbe stravolgere tutta

quella che è la parte naturale, paesaggistica del paese e quindi abbiamo deciso di

puntare su un altro tipo di turismo. L’altro tipo di turismo deve essere un turismo

non di massa, tranquillo, che viene, visita ecc…». A Bellino, lo sviluppo di

progettualità culturali ha coinvolto diversi studiosi che hanno collaborato al fine di

77

valorizzare le caratteristiche di ogni borgata. Alcune delle attività realizzate, come

il percorso dell’acqua e delle meridiane, denotano un interesse a tematiche di

carattere storico e antropologico che, a mio avviso, è una caratteristica importante.

La volontà di approfondire, valorizzare e tutelare elementi culturali che

caratterizzano il territorio non è un fenomeno così diffuso nelle altre

Amministrazioni comunali con le quali sono entrata in contatto. Se lo sfruttamento

della risorsa turistica conduce all’elaborazione di progettualità simili a quelle

realizzate a Bellino, a mio modo di vedere, può essere pensato come una

strategia economica da perseguire anche altrove.

3.2 IL MUSEO DEL TEMPO E DELLE MERIDIANE La visita al Museo del tempo e delle meridiane di Bellino vuole essere la

conclusione ideale di una passeggiata tra le borgate del paese167. A seguito del

restauro dei quadranti solari terminato nel 2002, l’Amministrazione comunale di

allora ha sentito la necessità di creare un luogo in cui approfondire la conoscenza

del patrimonio gnomonico locale. Il museo, infatti, offre nozioni in merito alla

costruzione di una meridiana, alla vita dello gnomonista e fornisce indicazioni

anche sulle tipicità di Bellino.

Nata nel 2005 per volontà del Comune, la piccola realtà etnografica è stata

realizzata grazie a un finanziamento europeo di centocinquantamila euro. I fondi

sono stati utilizzati per ristrutturare la struttura, allestire le sale, lastricare la

stradina che porta al museo, la quale si snoda all’interno di borgata Celle, e per

restaurare alcuni antichi affreschi che si trovano sia sull’edificio che ospita la sede

museale, sia su una casa adiacente.

In fase di progettazione e realizzazione, la realtà etnografica bellinese si è avvalsa

dell’appoggio di un comitato scientifico. Quest’ultimo era composto da alcuni

membri dell’Amministrazione, da Solaria Opere e da due architetti tra i quali

Roberta Allasia, già nota nelle valli per la sua collaborazione ad altri progetti di

167

Le informazioni contenute in questo paragrafo sono state tratte da un’intervista a Giacomo Marc del 02/05/2011, da tre interviste a Ilaria Peyracchia condotte in data 31/07/2010, 12/12/2010 e 19/02/2011, così come da http://www.comune.bellino.cn.it/archivio/pagine/Museo_del_Tempo.html

78

questo tipo168. Gli aspetti culturali soggiacenti la costruzione di una meridiana,

invece, sono stati curati dallo studioso locale Giovanni Bernard.

Il Museo del Tempo è situato nel cuore di borgata Celle, all’interno di un edificio

interessante dal punto di vista architettonico perché frutto delle tipologie edili

tradizionali. In passato la costruzione era stata la sede della scuola della borgata,

testimonianza di un periodo in cui i bambini erano ancora numerosi in paese. Nel

2010, infatti, i bellinesi di età inferiore ai 14 anni erano il 6,6% della popolazione,

per un totale di sole 10 persone169.

I locali dell’attuale museo hanno ospitato anche l’abitazione delle suore di Bellino.

Si tratta della Comunità delle Figlie del Cuore Immacolato di Maria creata nel 1945

da Don Ruffa, un prete che ancora oggi è considerato come una figura di grande

coraggio. Bartolomeo Ruffa nasce a Pontechianale nel 1913 da una famiglia

povera, il padre faceva l’arrotino ed è morto nella Prima Guerra Mondiale

lasciando i suoi cari nella miseria. Il giovane studia undici anni a Torino, nel 1936

viene ordinato sacerdote e nominato parroco di Bellino, un paese che lascerà per

ordini superiori solo nel 1972. Figura di grande carisma, il frate francescano ed

esorcista era molto amato dai bellinesi a causa del suo costante impegno al

servizio della comunità170. Giovanni Bernard racconta un episodio risalente alla

Seconda Guerra Mondiale nel quale Don Ruffa difese i suoi fedeli dai tedeschi e

riuscì ad evitare che venissero loro confiscate le mucche, scongiurando così che

si aggravassero le difficoltà già presenti. A conflitto finito, invece, il frate fu

condannato a tre mesi di reclusione per avere distribuito gratuitamente delle

medicine. Si tratta di due soli momenti della vita molto intensa di Don Ruffa,

rappresentativi però della dedizione dimostrata nei confronti di Bellino e della sua

gente171. La Comunità di religiose da lui istituita aveva salvato molte giovani dalla

miseria perché proponeva un destino diverso da quello matrimoniale, reso poco

probabile dagli anni di guerra. Le Figlie del Cuore Immacolato di Maria avevano

offerto un futuro a quelle ragazze che non trovavano da sposarsi perché troppi dei

loro coetanei erano morti sul campo di battaglia172. Questa Comunità di suore è

168

L’architetto Roberta Allasia è il curatore scientifico del Museo Seles, il Museo dei mestieri itineranti di Marmora. 169

www.istat.it 170

www.ghironda.com 171

“Coumboscuro. Periodico della minoranza provenzale in Italia”, novembre/ dicembre 1998. 172

Dematteis L., “Blins. L’abitare di una comunità delle Alpi Occitane”, Priuli & Verlucca, Torino, 1993.

79

sopravvissuta fino ai giorni nostri, le ultime religiose sono attualmente in convento

a Piasco.

Il museo bellinese è composto da due sale: nella prima alcune teche espongono

antichi strumenti di misurazione del tempo, come le clessidre e le meridiane

trasportabili. Tra queste spicca per interesse la “meridiana del pastore” che

segnalava l’ora giornaliera se collocata in cima ad un bastone. La prima sala

ospita anche alcuni trattati scientifici settecenteschi che riguardano la misurazione

del tempo, così come due proiezioni, una delle quali verte sulla Béo di Bellino.

L’altro filmato che si può vedere all’interno del museo etnografico è stato

realizzato da Fredo Valla e ha come tema lo scorrere delle stagioni e delle ore

giornaliere. Nel video dodici persone del posto recitano altrettanti proverbi relativi

ai vari mesi dell’anno ed hanno sullo sfondo il bel paesaggio rappresentato dalla

gola di Bellino. I protagonisti hanno età diverse: lo scorrere del tempo è così

rappresentato anche dall’alternarsi di generazioni differenti, sempre più anziane. A

ogni mese dell’anno corrisponde un proverbio ma anche un paesaggio e un ora

del giorno particolari, elementi che si percepiscono grazie al variare dello sfondo. Il

filmato è quindi composto da diverse sezioni: si parte da gennaio, il crepuscolo,

rappresentato da un bambino, per terminare a dicembre, al tramonto, con una

persona anziana, passando per giugno, mezzogiorno, con il proverbio recitato da

un giovane di mezza età. La realizzazione del video di Fredo Valla è stata un

metodo efficace sia per sensibilizzare i bellinesi alla costruzione della realtà

etnografica, sia per renderli partecipi dei lavori. Come mi ha raccontato Ilaria

Peyracchia, che ha gestito il museo nel 2010, gli abitanti del paese hanno reagito

molto bene alla proposta del regista «tant’è che mia nonna era offesa perché non

l’avevano selezionata all’interno del filmato. Quello in qualche modo fa capire che

ci tenevano se no non avrebbero assolutamente partecipato».

L’interesse dei locali nei confronti del museo emerge anche dalle donazioni degli

oggetti esposti nella seconda sala. Questa è stata realizzata grazie al contributo

teorico di Ivanna Casasola, la cui pubblicazione sulle meridiane di Bellino è l’unica

che tratta l’argomento in modo specifico ed esaustivo. Nella seconda stanza del

museo vi sono alcune teche che contengono gli strumenti utilizzati dagli

gnomonisti, sormontate da pannelli che spiegano l’impiego di questi manufatti. La

Casasola, infatti, dimostra come gli artigiani bellinesi riuscissero a realizzare un

orologio solare con attrezzi molto semplici grazie all’osservazione del movimento

80

delle stelle. Come sostiene Ilaria «gli strumenti che ci sono sono stati concessi

dalle famiglie degli gnomonisti di Bellino e dintorni. Lì c’è stata la partecipazione

del territorio: erano propensi a far conoscere l’arte dei loro antenati e hanno

concesso molto favorevolmente i pezzi». Gli oggetti presenti nel museo, che sono

in buono stato di conservazione e che sono stati inventariati dal comitato

scientifico, non sono, se non in minima parte, di proprietà del Comune. La

maggioranza dei beni in vetrina, infatti, è in prestito temporaneo.

La parte centrale della seconda sala ospita una serie di pannelli che espongono la

documentazione relativa ai personaggi di Bellino che hanno costruito i quadranti

solari. Ivanna Casasola è riuscita a determinare l’identità di sei artigiani locali:

Luca Roux, nato nel 1885 a Celle e autore di tre quadranti; Bernard Richard, forse

il maestro di Roux, visto che era più anziano e anch’egli di Celle; Giovanni Levet,

attivo a Chiazale agli

inizi del Novecento;

infine Richard Matteo,

autore di una sola

meridiana. I pannelli

raccontano quel poco

di biografia di questi

bellinesi che si è

riuscita a rintracciare e

li mettono in relazione

con i quadranti solari

da loro realizzati.

L’allestimento della

seconda sala del Museo del tempo descrive anche la vita che si svolge a Bellino, il

suo ambiente, la sua storia e le sue attività economiche. Trovo molto interessante

questa attenzione nei confronti del presente perché denota una sensibilità inedita,

assente nelle esposizioni degli altri musei etnografici di valle. A riguardo considero

significativo il pensiero di Ilaria: «secondo me la potenzialità dei musei oggi è

proprio quella: non soltanto un sospirare a quel tempo in cui tutto era bello e c’era

tanta gente, ma rendersi conto di come è attualmente e cercare di fare qualcosa

per lo stato attuale delle cose».

La seconda sala del Museo del Tempo e delle Meridiane. Foto

dell’autrice.

81

Il Museo del Tempo e delle Meridiane di Bellino è aperto i fine settimana di luglio,

le prime tre settimane e l’ultimo week-end di agosto nonché le domeniche di

settembre sempre in orario pomeridiano, dalle 15,30 alle 18,30. L’ingresso costa

tre euro, i gruppi oltre le dieci persone pagano due euro a testa, è gratuito, invece,

per i bambini sotto i sei anni. La visita normalmente è libera anche se il personale

all’interno è sempre disponibile per ulteriori chiarimenti. Come già detto, nel 2010

la gestione del museo era affidata alla Peyracchia: era lei che ne assicurava le

aperture, che gestiva le attività con le scuole e i gruppi, che curava le visite

guidate. In questo periodo all’interno della struttura era possibile reperire i depliant

realizzati dalla Comunità Montana inerenti le strutture ricettive e i musei di valle

«in modo tale che Bellino, attraverso il museo, avesse un pochettino il suo ufficio

turistico». Anche questa caratteristica non si riscontra nelle altre realtà

etnografiche varaitine ed è frutto della riflessione di Ilaria, la quale sostiene: «io

non sono propensa a proporti solo il mio museo, ti offro la possibilità, anzi punto

sul fatto che tu visiti anche gli altri, o che se hai bisogno di trovare un posto letto a

Sampeyre, io ho il depliant con l’elenco delle strutture ricettive. Secondo me

questo significa far conoscere la valle nel suo insieme, non solo le specificità di

Bellino. Io sono fermamente convinta che si debba proporre la valle, non una

specificità, non Bellino. Si deve lavorare insieme». Questa visione, questa volontà

di cooperare non solo nella valorizzazione del patrimonio locale, ma anche per

incrementare la risorsa turistica, mi sembra piuttosto inedita in contesto vallivo,

caratterizzato da un dilagante campanilismo per stessa ammissione di alcune mie

persone risorsa173.

L’anno precedente all’incarico di Ilaria Peyracchia il museo etnografico è stato

gestito dalla Liberlab di Savigliano la quale curava anche tutte le attività culturali

estive del Comune di Bellino. Tra queste emerge “Les Montagnart”, un programma

di manifestazioni legate al territorio che si distingue per le tematiche trattate e per

le collaborazioni instaurate. Tra le attività proposte nell’ambito del progetto vi

erano incontri, conferenze, laboratori per i bambini, un concorso fotografico, delle

mostre e delle proiezioni cinematografiche. La manifestazione trattava ogni anno

un tema diverso che verteva però sulle tipicità del territorio, sugli elementi

economici, sociali e culturali che caratterizzano questa parte di arco alpino. Hanno

173

Tratto dalle interviste a Giacomo Marc del 02/05/2011, a Dino Murazzano del 27/04/2011 e a Silvana Ottonelli del 19/04/2011.

82

collaborato con “Les Montagnart” alcune personalità importanti tra cui Ugo Giletta,

Giampiero Boschero, Sandro Gastinelli, Bruno Sabbatini e Fredo Valla. Tutte e tre

le edizioni del programma sono state realizzate grazie ad alcuni finanziamenti

regionali, il Comune, invece, ha contribuito attraverso la proposta dei temi da

affrontare. Giacomo Marc mi ha anticipato che “Les Montagnart” non verrà

realizzato nell’estate del 2011: «perché ogni tanto bisogna cambiare e poi perché

[la manifestazione] non è stata tanto sentita dai bellinesi: era vista come una cosa

calata dall’alto».

Dal 2005, anno della sua inaugurazione, al 2008, il Museo del Tempo e delle

Meridiane era gestito dal gruppo di guide turistiche “La Grisaille”, prima come

società, poi solo nella persona di Tiziana Gallian che attualmente lavora in

Comunità Montana.

La piccola realtà etnografica bellinese è visitata, in media, da 300 persone ogni

anno, una stima confermata anche da alcuni registri appositamente realizzati. Nel

corso del primo periodo di apertura questa cifra era più alta perché il museo ha

attratto i proprietari delle seconde case, numerose in paese. Secondo Ilaria queste

persone non ritornano molto sovente a visitare il museo perché la collezione è

fissa, non ci sono variazioni stagionali, quindi dopo una prima visita l’interesse si

attenua e non è rinnovato. Si tratta di una problematica che è stata rilevata anche

dall’Amministrazione comunale, la quale prevede di arginare il fenomeno con la

realizzazione di mostre temporanee. Queste dovrebbero essere allestite all’interno

di un laboratorio che la Municipalità ha intenzione di costruire grazie a dei fondi

provenienti dal Piano Integrato Transfrontaliero “Monviso”. I finanziamenti previsti

da questo progetto europeo servirebbero per restaurare l’antico fienile presente

nell’ultimo piano dell’edificio che ospita il museo. Lo spazio così ricavato sarebbe

utilizzato per creare un laboratorio destinato a mostre o a eventi di carattere

didattico. Giacomo Marc sosteneva che: «quello che verrà fatto sarà legato molto

alle scuole e ai gruppi di studio che vogliono venire a capire come funzionano le

meridiane in generale e come sono fatte quelle di Bellino in particolare».

La frase di Giacomo rivela l’interesse nutrito dal Museo del tempo nei confronti

della didattica, ambito nel quale è molto attivo. Ogni anno circa tre o quattro

scolaresche di tutte le età si recano in gita alla struttura, attratte dalle progettualità

mirate che vengono proposte. Per i bambini delle elementari, ad esempio, sono

state organizzate delle giornate che prevedevano una passeggiata per le vie delle

83

borgate ad osservare i quadranti solari, la visita del museo, il pranzo al rifugio

Melezé e nel pomeriggio un gioco riguardante le meridiane, per mettere a frutto

quanto appreso in mattinata. Grazie anche all’intervento del PIT Monviso, nella

primavera 2011 il museo ha in previsione due laboratori: uno con una scuola

elementare di Venasca, l’altro con un istituto superiore di Cuneo. Quest’ultimo

progetto è realizzato grazie alla collaborazione dell’“Associazione astrofili Bisalta”,

un gruppo di appassionati che spiegherà ai ragazzi come costruire una meridiana.

Rientra nelle attività previste dal PIT Monviso anche il contributo di uno

gnomonista francese il quale si recherà a Bellino nell’estate 2011 per spiegare le

tecniche d’oltralpe utilizzate nella costruzione di una meridiana. Il progetto, che è

connesso al museo e al patrimonio di quadranti solari presente in paese, è aperto

a tutti coloro che vorranno parteciparvi.

3.3 COMUNITÀ INTERPRETATIVE Secondo le stime di Ilaria Peyracchia, il Museo del Tempo e delle Meridiane di

Bellino è visitato da circa 300 persone nel corso di tutto il periodo di apertura.

Come già detto, questa cifra è confermata da alcuni registri appositamente

compilati e basati sul numero di biglietti emessi. La medesima metodologia di

valutazione del numero di visitatori viene applicata nel Museo del Costume di

Chianale. Qui la famiglia Ottonelli tiene un quaderno sul quale annota

giornalmente il numero di biglietti che sono stati comprati. Negli altri musei

etnografici di valle non è presente un metodo altrettanto analitico di stima delle

visite: il calcolo, anche laddove segnato su appositi registri, è fatto semplicemente

contando le persone che entrano nella struttura.

Entrambi i modi di valutazione riportano il numero delle visite e non il numero dei

visitatori, in altre parole dalle cifre in questione non è possibile capire se ci sono

persone che si recano al museo più di una volta. La presenza dei “visitatori di

affezione” è invece attestata da alcuni informatori, come ad esempio Olimpia

Ottonelli che ricordava: «ci sono delle persone qui, francesi, figli di immigrati, che

hanno la casa qui, che vengono tutti i giorni»174. Anche Fabrizio Dovo, in relazione

174

Frase tratta da un’intervista da me condotta a Olimpia e Silvana Ottonelli in data 30/07/2010.

84

al Museo Storico-Etnografico di Sampeyre, sosteneva che: «noi abbiamo

sicuramente un’utenza di affezionati che tendono a tornare»175.

Le cifre che attestano il numero di visitatori delle realtà etnografiche varaitine,

inoltre, non tengono conto degli amici o di coloro che abitano nel paese che ospita

il museo. Si tratta di persone alle quali normalmente non viene richiesto l’acquisto

del biglietto d’ingresso e che quindi non rientrano nelle stime fatte dai gestori. È il

caso, ad esempio, del Museo del Mobile di Pontechianale nel quale coloro «che

hanno prestato gli oggetti chiaramente possono entrare gratis»176. Anche Olimpia

Ottonelli in relazione al Museo del Costume sosteneva che «la gente del luogo qui

entra, è casa sua. Vogliamo che sia così»177.

Esiste quindi un margine di errore nella stima del numero di visitatori dei musei

etnografici di valle. Questa considerazione si applica soprattutto a quelle realtà

che contano il numero degli ingressi senza avere nessun altro tipo di riscontro,

come ad esempio quello che potrebbe derivare dal calcolare la quantità di biglietti

emessi. Le difficoltà di questo metodo sono numerose: anche lo staff più affidabile

potrebbe non trovarsi sempre sul posto o prestare un’attenzione non uniforme,

inoltre nei momenti di maggiore affluenza, come durante le sagre o le feste, risulta

davvero difficile fare un conteggio preciso178.

Nonostante lo scarto constatato nella stima dei visitatori, questi ultimi sono

comunque piuttosto numerosi soprattutto se li si mette in relazione con il numero

di presenze sul territorio, ovvero con il numero dei residenti sommato a quello dei

turisti e degli abitanti le seconde case. Si tratta di un calcolo piuttosto difficile da

effettuare perché i dati reperibili sui flussi turistici non tengono in considerazione le

presenze sul territorio di una sola giornata, non valutano cioè la consistenza degli

escursionisti, di coloro che effettuano una semplice gita in valle. Inoltre, in

relazione alle seconde case, i dati desunti dai Comuni stimano solo il numero delle

abitazioni e non anche di coloro che le abitano. Nonostante le difficoltà, mi

sembrava importante tentare di fornire un quadro approssimativo delle presenze

estive nei paesi che ospitano i musei etnografici per creare una “cornice” di

riferimento all’interno della quale situare i dati relativi al numero di visitatori. Questi

175

Elemento tratto da un’intervista a Fabrizio Dovo realizzata in data 18/12/2010. 176

Tratto da un’intervista a Enrica Paseri e Celeste Ruà realizzata in data 11/10/2009. 177

Frase tratta da un’intervista da me condotta a Olimpia e Silvana Ottonelli in data 30/07/2010. 178

Kotler N., Kotler P., “Marketing dei musei. Obiettivi, traguardi, risorse”, Edizioni di Comunità, Torino, 1999.

85

ultimi, infatti, non possono essere compresi se non sono collocati all’interno di un

contesto specifico che irrimediabilmente ne influenza la dimensione perché “la

taille du public potentiel d’un musée dépend de son mode d’insertion dans la

société”179.

Come già detto, i Comuni nei quali si trovano i musei etnografici di valle non

hanno molti abitanti: Bellino ne conta appena 144180. In questo paese durante tutto

il 2010 sono stati riscontrati 294 turisti di provenienza diversa che in media si

fermano sul territorio 1,64 giorni. Il numero delle seconde case, invece, si attesta

intorno alle 200 abitazioni181. In questa prospettiva, i trecento visitatori del Museo

del Tempo e delle Meridiane acquistano una certa rilevanza: la realtà etnografica,

infatti, sembra essere in grado di attrarre tanto i residenti quanto i villeggianti,

nonostante il loro breve periodo di permanenza.

È possibile attuare una riflessione analoga anche in relazione al numero di

visitatori del Museo del Costume di Chianale. La piccola borgata fa parte del

Comune di Pontechianale che conta 187 residenti e che nel 2010 è stato visitato

da 11.440 persone. Secondo il sindaco Alfredo Campi, le seconde case sono circa

un migliaio su tutto il territorio comunale, più difficile è invece determinare il

numero effettivo di presenze182. Anche se i dati regionali non indicano le differenze

che intercorrono tra le frazioni, è facile immaginare che Chianale attiri una

percentuale piuttosto alta dei turisti presenti nel Comune perché possiede alcuni

impianti di risalita e perché fa parte del circuito “Borghi più belli d’Italia”. In

quest’ottica i 3.000 visitatori del Museo del Costume sembrano essere una cifra

sicuramente elevata, ma che comunque si colloca in un contesto molto vivo. La

piccola realtà etnografica sembra rispondere bene all’interesse dei villeggianti

vista anche la breve permanenza di questi sul territorio, che risulta essere di soli

2,34 giorni. Ritengo, invece, più difficile tentare di valutare l’interesse suscitato

dalle esposizioni del Museo del Mobile di borgata Castello. I suoi 600 ingressi

estivi sono di molto inferiori rispetto a quelli registrati al Museo del Costume che

però si trova in una posizione decisamente più favorevole. Per le motivazioni

179

Teboul R., Champarnaud L., “Le public des musées. Analyse socio- économique de la demande muséale", l’Harmattan, Parigi, 1999. 180

Le informazioni contenute nei paragrafi successivi sono state dedotte da www.istat.it e da www.regione.piemonte.it Faccio riferimento in particolare al Rapporto dati statistici 2010, elaborato dall'Osservatorio Turistico Regionale, operante in Sviluppo Piemonte Turismo, in collaborazione con la Direzione Turismo. 181

Dato desunto grazie alla collaborazione di Laura Brun, di pendente del Comune di Bellino. 182

Riflessione tratta da un’intervista condotta a Campi Alfredo in data 10/03/2011.

86

indicate prima, Chianale è molto più frequentata di borgata Castello, quindi se un

turista può decidere di visitare il Museo del Costume perché lo nota passeggiando

per la frazione, questo è meno possibile per il Museo del Mobile. Castello infatti,

pur essendo molto bella, non ha un vero e proprio centro e non è comoda per

parcheggiare la macchina, elemento non da poco in un luogo che è difficile

raggiungere diversamente.

Casteldelfino, la “capitale” della Castellata, conta 180 abitanti, 770 seconde case e

nel corso del 2010 è stato visitato solo da 128 persone che si sono fermate sul

territorio una media di 3,66 giorni. Il paese non ha sviluppato un programma di

eventi che possa attirare turisti anche nel periodo invernale: tutte le manifestazioni

più importanti, infatti, si svolgono durante l’estate e sul territorio comunale non

sono presenti impianti di risalita. Mi pare quindi di poter supporre che la grande

maggioranza dei visitatori del 2010 si sia recata in paese nella bella stagione,

periodo in cui è aperto anche il Museo etnografico “Jer à la Vilo”. Quest’ultimo, con

i suoi duecento visitatori annui, ha quindi un’affluenza modesta che rispecchia la

discreta frequentazione del territorio.

Diversa, invece, la situazione di Sampeyre che, con i suoi 1090 abitanti, è il paese

più popolato dell’alta valla Varaita183. Grazie ai suoi impianti di risalita e al

programma di manifestazioni estive, Sampeyre è abbastanza frequentato durante

tutto l’anno, un dato riscontrato anche dalla Regione Piemonte che nel 2010 ha

contato sul territorio 24.113 presenza straniere. Il numero di turisti estivi, quelli che

possono essere andati in visita al museo etnografico, è comunque inferiore.

Secondo Vittorio Fino, assessore alla cultura del Comune, gli abitanti delle

seconde case sono all’incirca 6.000184. La media di tremila ingressi nella realtà

museale locale testimonia, quindi, una buona frequentazione della struttura.

Oltre alle difficoltà riscontrate nel contare il numero di visitatori dei musei

etnografici di valle, un altro problema consiste nel tentare di definire la loro

identità. Con l’eccezione della realtà etnografica bellinese, che prende nota non

solo del numero di visitatori, ma anche della loro provenienza, nessuno dei musei

da me visitati ha condotto delle ricerche per comprendere meglio le caratteristiche

183

In riferimento al numero di abitanti, cifre analoghe a quelle di Sampeyre si riscontrano solo nei paesi della bassa val Varaita: Brossasco, 1099 abitanti e 606 metri di altitudine; Venasca, 1484 abitanti e 549 metri di altitudine; Piasco, 2855 abitanti e 480 metri di altitudine; Costigliole 3349 abitanti e 460 metri di altitudine; Verzuolo 6507 abitanti e 420 metri di altitudine. 184

Tratto da un’intervista a Vittorio Fino del 18/02/2011.

87

del suo pubblico. Del resto, anche a livello nazionale, questo tipo di indagini sono

piuttosto rare e sono state realizzate solo da grandi strutture185.

I primi studi sul pubblico dei musei sono stati condotti nel mondo anglosassone

agli inizi del XX secolo, quando si pose attenzione al modo con cui il visitatore si

rapportava alla collezione per verificare se l’esperienza di fruizione innescasse un

processo di apprendimento. Un altro degli aspetti indagati in questo periodo era la

fatica e lo sforzo che il pubblico poteva provare nell’esaminare gli oggetti e le

opere esposte186. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento si diffusero due

filoni di analisi: uno di essi era centrato sull’individuazione del profilo socio-

demografico del visitatore, anche al fine di verificare se un museo era in grado di

attrarre un pubblico ampio e variegato. Il secondo aspetto indagato era l’efficacia

delle esposizioni: gli studi del periodo volevano capire se e quanto un museo

potesse contribuire all’incremento delle conoscenze della comunità. A partire dagli

anni Ottanta del Novecento, aumenta la tendenza a sviluppare ricerche sui

185

Penso, ad esempio, alle indagini condotte dal Sistema Musei della Provincia di Modena nel 2007. In Piemonte la situazione dovrebbe modificarsi grazie all’applicazione degli standard museali. A partire dal 2003, infatti, la Regione Piemonte ha avviato un piano di lavoro per la definizione a livello regionale di questi standard, in applicazione dell' "Atto d’indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei" approvato nel 2001 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Gli ambiti di applicazione sono: 1 - Status giuridico 2 - Assetto Finanziario 3 - Strutture / Ambito 5 - Sicurezza 4 - Personale 6 - Gestione e cura delle collezioni 7 - Rapporti con il pubblico 8 - Rapporti con il territorio L'ambito n. 7 definisce le attività che ogni museo dovrebbe svolgere per offrire un servizio sufficientemente efficace al proprio pubblico. Le aree indagate, in relazione alle quali sono stati definiti i requisiti minimi e sono state prodotte le relative liste di controllo, di valutazione e di autovalutazione per il museo, sono le seguenti: • apertura al pubblico • accesso • accoglienza • sussidi alla visita • servizi educativi e didattici • attività • comunicazione e promozione • servizi accessori • analisi del pubblico In relazione all’ultimo punto, ovvero l’analisi del pubblico, cito dalla pubblicazione “Materiali per i musei” edita dalla Regione Piemonte: “il requisito minimo riguarda la registrazione e l’analisi con cadenza annuale dei dati sull’affluenza del pubblico. I livelli di qualità invece prevedono un’analisi maggiormente sistematica sul gradimento del pubblico, sulle motivazioni e aspettative legate alla visita, sul pubblico potenziale, sull’allestimento, sulla comunicazione interna ed esterna al museo e sui servizi offerti”. 186

Solima L., “Il pubblico dei musei. Indagine sulla comunicazione nei musei statali italiani”, Gangemi, Roma, 2000.

88

visitatori dei musei in ambiti di analisi molto specifici, come i comportamenti di

fruizione del pubblico e le modalità di realizzazione di un’esposizione. Gli studi

realizzati nel decennio successivo, invece, si caratterizzano per la maggiore

attenzione dedicata all’esperienza di visita e alle motivazioni che portano alla

scelta di recarsi in un museo. In quegli anni comincia a determinarsi uno

slittamento dell’attenzione dei curatori, prima concentrati sulle esposizioni,

successivamente attenti a soddisfare le esigenze del pubblico anche attraverso lo

sviluppo di un approccio di marketing. Contemporaneamente si fa strada l’idea

che un museo possa contribuire allo sviluppo locale attraverso la realizzazione di

progetti strettamente legati al territorio. Le ricerche più recenti, invece, fanno

riferimento anche alla domanda potenziale dei musei, ovvero tentano di indagare il

profilo dei non- visitatori al fine di trovare delle leve per arginare i motivi di

resistenza alla visita. Gli ultimi decenni del secolo scorso e i primi anni di quello

attuale, registrano la nascita di un nuovo filone di ricerca il cui focus verte sugli

utenti del museo, coloro, cioè, che usufruiscono dei servizi museali attraverso i

libri, le riviste, le televisione e internet187.

Come detto, risulta difficile tentare di comprendere la natura del pubblico dei

musei etnografici della val Varaita. Come sostiene Daniele Jalla “ci siamo ormai

abituati a preferire il plurale. La nozione di pubblico (letteralmente: un numero

indeterminato di persone considerato nel loro complesso e aventi spesso interessi

comuni, in quanto abitano o frequentano uno stesso luogo, assistono a un

medesimo spettacolo ecc.) si è irreversibilmente frammentata – “segmentata” per

la precisione – transitando definitivamente (o quasi) dal singolare al plurale”188.

Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono possibile raggruppare il pubblico dei musei

almeno in grandi “comunità interpretative”189, che possono essere pensate come

“accomunate al loro interno dai medesimi bisogni, competenze, conoscenze e

attese”190

.

Seguendo questo filone interpretativo, se si cerca cioè di trovare un minimo

comune denominatore ai visitatori dei musei etnografici varaitini, mi pare di poter

187

Solima L., “Visitatore, cliente, utilizzatore: nuovi profili di domanda museale e nuove traiettorie di ricerca”, in Bollo A., I pubblici dei musei. Conoscenze e politiche, Franco Angeli, Milano, 2008. 188

Jalla D., “Considerazioni sul pubblico dei musei”, articolo contenuto negli appunti del corso di Museologia tenuto alla Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici. 189

Eilean Hooper Greenhill, “Nuovi valori, nuove voci, nuove narrative: l’evoluzione dei modelli comunicativi nei musei d’arte”, in Bodo S. (a cura di), Il museo relazionale. I musei d’arte europei e il loro pubblico, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 2000. 190

Jalla D., (op. cit.).

89

affermare che una parte piuttosto cospicua di essi sia rappresentato da turisti. Mi

sembra un dato piuttosto evidente dall’analisi dei dati sopra riportati: le cifre

elevate non possono essere state raggiunte solo dai residenti o dagli abitanti le

seconde case, nonostante la ripetizione degli ingressi che, sebbene constatata,

non è stata registrata.

Potrebbe sembrare scontato, anche tautologico, riscontrare la presenza di turisti

nei musei, a mio modo di vedere, tuttavia, era un dato importante da sottolineare

visto che il rapporto con questa parte di pubblico sembra essere piuttosto

controverso. Nessuna delle mie persone risorsa, ad eccezione di Fabrizio Dovo,

mi ha mai parlato dei turisti che visitano il museo, mentre invece sono emerse a

più riprese le dinamiche instaurate con il pubblico locale o con gli emigrati che

tornano d’estate. I miei informatori mi hanno descritto più volte e con piacere le

reazioni che l’allestimento provoca talvolta in questo altro tipo di visitatori: la

sorpresa di ritrovare fotografie di posti o persone appartenuti a un’infanzia lontana,

il piacere di vedere un oggetto dimenticato trasformato, ammantato di quella

componente di magia che è propria dei beni da collezione191.

In qualche caso sembra quasi un’offesa notare la presenza di turisti nei musei. Ho

sviluppato questa riflessione soprattutto a seguito dell’intervento di Beatris

Ottonelli al convegno “Mestieri di una volta. Il lavoro di una comunità alpina

raccontato dal territorio e dalla sua gente” che si è svolto a Bellino il 31 luglio

2010. In quell’occasione Beatris ha sottolineato come il Museo del costume di

Chianale, allestito e gestito dai suoi genitori, non sia stato creato a fini turistici.

Questa dimensione, ovvero la possibilità di attrarre dei turisti e di essere una

risorsa in tal senso, è estranea, talvolta anche in contrasto, con la missione dei

musei di valle. È emblematica in tal senso una frase di Fabrizio Dovo, che pure ha

una visione diversa da quella della giovane Ottonelli: «l’aspetto turistico comunque

per noi ha un’importanza, anche banalmente come gratificazione. Effettivamente

quando tu riesci a far funzionare tutta una serie di attività, di cose, hai un certo

riscontro, sicuramente fa piacere, è una soddisfazione. Purtroppo noi questo

riscontro ce l’abbiamo di più dalla gente che viene da fuori che non dal paese. Qui

mi succede ancora di vedere gente del paese che entra “Ma è carino qua, non ero

mai venuto”, gente che è una vita che ce l’ha sotto il naso. Quindi sicuramente c’è

191

Silverstone R., “Il medium è il museo”, in Durant J., Scienza in pubblico. Musei e divulgazione del sapere, Clueb, Bologna, 1999.

90

una gratificazione anche da quel punto di vista, però è una parte. Noi l’abbiamo

sempre visto come un momento per raccogliere e conservare la memoria, una

casa comune del paese. Qui c’è tanta gente che ha dei pezzi di memoria, che ha

vissuto.. è comunque un posto dove c’è un pezzo di memoria condivisa anche per

chi ha avuto esperienze migratorie. Sicuramente è un po’ una casa comune. Per

noi è importante questo aspetto»192. I musei etnografici varaitini non sono stati

realizzati in chiave turistica, per intrattenere i villeggianti estivi. Anche se talvolta

questa dimensione può essere presente e importante, essa non deve comunque

soverchiare quella che è la missione di tali realtà. Come già detto, i musei di valle

sembrano avere la finalità di conservare la memoria ma per pensare e progettare

il territorio nel presente come nel futuro.

192

Frase tratta da un’intervista condotta a Fabrizio Dovo in data 18/12/2010.

91

CAPITOLO 4

DELLA CULTURA COME ARTEFATTO

4.1 PUNT E LA CIANAL Percorrendo la strada provinciale che conduce al Colle dell’Agnello, raggiunti i

1614 metri di altitudine, la presenza di un grosso lago artificiale segnala l’ingresso

nel territorio di Pontechianale. Lo sbarramento delle acque del Varaita finalizzato a

produrre energia elettrica è chiaramente visibile dai tornanti, un grosso muro in

cemento che stride con il fervido paesaggio montano circostante. La vista del lago,

una distesa d’acqua di due kilometri per uno, è sicuramente affascinante:

completamente bianco e ghiacciato in inverno, ricco di sfumature d’azzurro

durante l’estate. In passato, se durante la bella stagione si guardava sotto la

superficie dell’acqua, era ancora possibile osservare i resti delle case, della

parrocchiale e del cimitero che un tempo sorgevano proprio in quella porzione di

avvallamento fluviale.

La storia di borgata Chiesa “è il racconto di una sconfitta, di vecchie ferite, di molti

ricordi e di tanta

nostalgia”193. La frazione di

Pontechianale fu sommersa

completamente nel 1942 dal

bacino artificiale creato

dall’occlusione del Varaita

nella vicina Castello. Gli

operai cominciarono i lavori

di costruzione della diga nel

1936, dando così inizio,

contemporaneamente, al

processo di espropriazione delle terre e delle case degli abitanti. L’Enel si assunse

l’onere di ricollocare il centinaio di residenti, di ricostruire la chiesa parrocchiale, il

193

Infossi P., “La vallata sommersa. Testimonianze ed immagini della frazione Chiesa di Pontechianale”, Museo del Mobile dell’Alta Valle Varaita, Savigliano, 2010, pp. 8.

Pontechianale di Marco Bailone. Opera concessa

dall’artista.

92

cimitero, gli edifici civili e di ridistribuire campi, prati e orti. Nell’ipotesi di progetto

veniva affermata la necessità di tutelare i diritti dei cittadini ricostruendo loro la

casa, mentre per coloro che non erano presenti sul territorio era previsto un

indennizzo in denaro. Tale pianificazione non teneva in considerazione i risvolti

sociali che avrebbe avuto, l’impatto destabilizzante su persone costrette ad

abbandonare la casa dove erano nate e cresciute. L’esito stesso del progetto,

inoltre, appare criticabile, portato avanti tra numerose empasse gestionali di fatto

mai risolte. Ad esempio, la frammentazione delle proprietà e l’assenza degli

emigranti creò numerose difficoltà nelle trattative per eseguire le cessioni.

Nonostante le complicazioni, le vendite furono accelerate dal provvedimento

adottato nel 1939 dal Ministero dei lavori pubblici, con il quale si sanciva

l’indifferibilità del progetto. Quest’ultimo assumeva così il carattere di priorità: i

cittadini che non volevano o non potevano vendere, vennero sgomberati e le loro

abitazioni occupate. L’entrata in guerra dell’Italia portò ad un rapido

peggioramento della situazione: molti emigranti in Francia non poterono più

varcare il confine, alcuni rientrarono solo a conflitto finito, indefinibili, poi, le perdite

umane. Per quanto riguarda borgata Chiesa, le operazioni belliche preclusero a

molte persone non solo di approfittare dell’offerta dell’Enel, ma anche, più

semplicemente, di riprendere possesso dei propri beni mobili. Questi ultimi, come

mi hanno rivelato Celeste ed Enrica, i gestori del Museo del Mobile che ha sede in

Pontechianale, non vennero abbandonati al proprio destino: “Si dice che all’epoca

gli antiquari facessero anche due o tre giri al giorno con il camion. L’importante era

prendere. Poi la gente era in Francia. Praticamente hanno preso tutto, tanto

veniva tutto sepolto”194.

Come attestano numerosi documenti dell’epoca, la separazione dalle proprie case

fu vissuta come un evento drammatico. Se possibile, tuttavia, fu il distacco dal

vecchio cimitero a segnare il capitolo più doloroso della vicenda. Il trasporto delle

salme rappresentava una circostanza dolente e delicata, non solo per i risvolti

pratici intrinseci, ma anche per il carattere morale che assunse. La ditta

costruttrice, infatti, aveva predisposto solo il trasporto dei corpi deceduti da dieci

anni, gli altri erano destinati all’ossario o, chissà, ad essere sommersi con l’antico

cimitero. Coloro che si opponevano potevano riesumare in modo autonomo i loro

194

Testimonianza contenuta in un’intervista a Celeste Ruà ed Enrica Paseri, da me condotta in data 11/10/2009.

93

parenti, oppure, se l’evento era troppo doloroso, avevano facoltà di chiedere la

collaborazione degli operai che lavoravano alla diga195.

Accanto al cimitero sorgeva la Chiesa parrocchiale di S. Pietro in Vincoli, risalente

al XV secolo. Questa presentava le stesse caratteristiche di molti luoghi di culto

presenti nella valle: si affacciava su un modesto slargo con l’abside rivolta verso

est e la facciata orientata ad ovest. Durante il periodo di costruzione della diga, la

punta del campanile e il protiro vennero abbattuti al fine di recuperare le campane

ed il portale. Questi ultimi sono attualmente visibili nella chiesa di S. Pietro

costruita in borgata Maddalena. L’ingresso dell’antica parrocchiale, realizzato in

marmo bianco con inserti in pietra verde, presenta una ghiera profondamente

svasata con capitelli raffiguranti visi umani o teste di animale. All’interno della

ghiera, nella lunetta che si affaccia sopra il portale, era collocato un pannello

divisibile in due metà, raffigurante i Santi Pietro e Paolo. Il dipinto è stato

successivamente sostituito da un’opera attribuibile al Gilardi, di manifattura più

recente, che rappresenta il Buon Pastore196. È interessante notare, in relazione

alla Chiesa di S. Pietro in Vincoli, come la Regia Soprintendenza ai Monumenti del

Piemonte avesse chiesto alla società costruttrice la diga di inviare la

documentazione fotografica relativa al monumento. Questa risultava necessaria al

fine di procedere nei lavori di smantellamento e ricostruzione della parrocchiale,

per i quali era dovuta l’approvazione del Ministero dell’Educazione Nazionale.

Nelle due occasioni in cui la Soprintendenza espresse tale richiesta,

rispettivamente il 1936 ed il 1942, si sentì rispondere dalla società costruttrice che

quest’ultima non era in grado di interpretare i criteri fotografici richiesti. Si tratta

forse di una manifestazione di come, intorno alla creazione della centrale,

gravitassero interessi rilevanti, tali da soverchiare le politiche dell’allora Ministero

dell’Educazione.

Oggi il lago è ormai indissolubilmente legato a Pontechianale. Oltre a essere fonte

di attrazione per il turismo locale, non si possono dimenticare i benefici economici

apportati ai Comuni interessati. Questi, riunitisi in consorzio per incassare i canoni

di sfruttamento delle acque, ridistribuirono i proventi per realizzare opere

pubbliche oppure interventi di interesse collettivo. Tra questi, non ultima, la

195

Infossi P., (op. cit.). 196

Ottonelli S., “Guida della Val Varaita (La Val Varacio)”, Centro Studi e Iniziative Valados Usitanos, Bra, 1979.

94

costruzione della strada provinciale che raggiunge il Colle dell’Agnello e la

Francia197.

La demolizione di borgata Chiesa ha accresciuto l’interdipendenza tra le due

frazioni inferiori del Comune di Pontechianale: Villaretto e Castello. Quest’ultima,

in particolare, è molto interessante sotto il profilo storico e urbanistico. La sua

posizione peculiare, di fatto appoggiata alla dorsale presente in loco, la rendeva

un luogo strategico nel sistema difensivo pre-delfinale. All’epoca, infatti, era sentita

soprattutto la necessità di operare un controllo dei traffici che si svolgevano

attraverso il Colle. Tale funzione fu incrementata nel 1236 dalla costruzione di un

forte alto 11 metri, con un perimetro di base di circa 22 metri. L’edificio era dotato

di una, o forse di due, torri: i documenti medievali non permettono di fare luce in

modo preciso su tale questione. Le servitù militari, la presenza della strada che

conduce al Colle dell’Agnello e la necessità di avere accesso ai pascoli, hanno

contribuito a delineare l’assetto urbanistico di borgata Castello. Quest’ultima,

infatti, possiede una struttura radiale, centrata sullo spiazzo antistante la chiesa,

dove si innestano le tre suddette vie di comunicazione.

L’asseto urbanistico di frazione Castello è comune anche alle altre borgate

presenti sul territorio di Pontechianale, le quali, in misura preponderante, ruotano

attorno alla strada principale che porta al Colle dell’Agnello e ai piccoli

collegamenti viari trasversali volti a rispondere alle esigenze del nucleo primitivo.

In particolare, due sono le finalità attribuibili a tali sentieri: congiungevano la strada

principale con i campi coltivati oppure si snodavano dentro le borgate. In questo

secondo caso le vie erano sovente dotate di un ampio portale che teneva lontano

visitatori indesiderati e che proteggeva dai rigori del clima. Quest’ultima tesi trova

conferma nel fatto che molti di questi sentieri erano interamente coperti, proprio al

fine di non esporre al freddo coloro che li percorrevano.

Ai margini della strada principale che conduce al valico di confine ci sono le

borgate Foresto e Maddalena, quest’ultima sede del Comune. La crescita di

infrastrutture promossa a partire dagli anni Sessanta ha causato l’accorpamento di

queste realtà alla vicina Rueite, rendendole paragonabili a piccoli quartieri di un

nucleo urbano. In passato le tre borgate, di fatto equidistanti, erano caratterizzate

da uno sviluppo modesto e controllato198. Il ruolo di capoluogo di frazione

197

Infossi P., (op. cit.). 198

Ottonelli S., (op. cit.).

95

Maddalena è stato confermato anche dal recente sviluppo turistico, al quale si

deve la costruzione degli impianti di risalita presenti in loco. Questi ultimi sono stati

ripristinati e valorizzati dall’ultima amministrazione comunale, la quale ha

promosso la ricostruzione della seggiovia. Discutendo con Alfredo Campi, sindaco

di Pontechianale, è emerso come il comprensorio sciistico sia considerato una

risorsa importante in termini occupazionali soprattutto per i giovani del luogo. Gli

impianti di risalita danno lavoro a 16 persone, permettono di mantenere degli

esercizi commerciali importanti come la panetteria e il supermercato, consentono

ad alcuni maestri di sci di restare dove sono nati e cresciuti. Lo sfruttamento della

risorsa turistica parrebbe quindi fornire la speranza di continuare ad abitare il

territorio199. Si tratta di riflessioni che assumono caratteristiche particolari se

inquadrate nel contesto sociale di Pontechianale. Il Comune, come gli altri della

valle, ha subito un drammatico crollo demografico: dal 1861 al 2009 ha perso

l’85% della popolazione residente. Il canonico Allais nel 1891 scrive di

Pontechianale: “la popolazione dell’intiero Comune consta di 308 famiglie, ed è

rappresentata dalla cifra nominale di 1566 persone”200. Sergio Ottonelli, meno di

un secolo dopo, nel 1979, conta 299 anime201: lo scarto è talmente alto da

assumere le caratteristiche di un’ecatombe. Il Comune, tuttavia, rispetto alle altre

Municipalità della valle, presenta un andamento demografico anomalo. L'Istituto

nazionale di statistica parrebbe confermare il decremento demografico ma, se si

osservano i dati degli ultimi 20 anni, non sono presenti grosse variazioni: la

popolazione di Pontechianale sembrerebbe quindi essersi assestata sulle 200

anime circa202. In questo contesto è comunque evidente come il dato

occupazionale rivesta un’importanza notevole, la necessità di incrementarne la

stima non può non collocarsi tra le prime preoccupazioni di un’amministrazione. La

ricostruzione della seggiovia è un’opera recente, databile al 2010. È quindi ancora

presto per valutarne l’effettiva portata sul tessuto economico locale.

Se il turismo continua ad essere percepito come un potenziale economico

importante, diverso rispetto al passato è il rapporto con l’ambiente naturale.

Difficile, infatti, non notare come l’espansione edilizia incentivata negli anni

Sessanta-Settanta abbia creato un forte senso di rottura con le strutture già

199

Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011. 200

Allais C., “La Castellata. Storia dell’alta valle di Varaita”, l’Artistica Savigliano, 1985, pp. 11. 201

Ottonelli S., (op. cit.). 202

www.istat.it

96

esistenti, annoverabili alla tradizione costruttiva locale. Percorrendo la provinciale

che conduce al Colle dell’Agnello le architetture urbane dei condomini fagocitano

lo spazio un tempo occupato dalle abitazioni rurali, esempio di “organicità tra

natura e cultura, tra valori formali e funzionali, determinata non solo dalle

condizioni ambientali e climatiche estreme, ma anche dalla necessità di

economizzare la fatica, di riutilizzare qualunque cosa”203. Il contrasto è evidente e

palesa “la speculazione edilizia di tipo parassitario”204 innestata sul tentativo di

valorizzazione turistica. Tale fenomeno è piuttosto lampante se si considera lo

scarto presente tra le 101 famiglie residenti sul territorio e le 1213 abitazioni

presenti205. Nella contemporaneità il Comune di Pontechianale si è dotato di un

piano regolatore che limita gli stili architettonici utilizzabili sul territorio al fine di

valorizzare e riproporre le modalità costruttive locali. Il sindaco, poi, ha sottolineato

come la scelta di ristrutturare la seggiovia possa risultare vincente anche perché è

stata effettuata su un territorio molto ricco dal punto di vista culturale. Secondo

l’attuale amministrazione, “la cultura è la base di tutto”, è uno degli strumenti

essenziali per la promozione del territorio. La riproposta di un turismo invernale

necessita quindi di integrarsi con il tessuto culturale locale proprio al fine di

mantenere se stessa nel tempo. “Se c’è cultura, se c’è storia, se c’è un paese che

vive io penso che il turismo non muoia, potrà avere dei periodi di crisi ma andrà

avanti”206.

Il comune di Pontechianale presenta un’anomalia strutturale interessante. Esso è

infatti dotato di due parrocchie, una delle quali comprende solo la borgata più a

nord, Chianale, mentre la seconda riunisce le altre undici. L’isolamento di

Chianale, situata a 1800 metri di altitudine, in realtà è stato causato

dall’abbandono di altre tre borgate: Sellette, Chiabrand e Prachiaus, un fenomeno

accaduto nel secolo scorso. Frazione Sellette, così chiamata perché sorge su una

rupe caratterizzata da due dossi che conferiscono all’altura il profilo di una sella, è

stata recentemente oggetto di un restauro. L’opera di ripristino ha fatto proprie le

tecniche costruttive locali ed ha permesso che il paesino tornasse ad essere

abitato, almeno d’estate.

203

De Rossi A., Ferrero G., “Il secolo breve dell’architettura alpina”, in L’Alpe n.1, inverno 1999-2000. 204

Ottonelli S., (op. cit.), pp. 108. 205

www.istat.it 206

Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011.

97

Borgata Chianale “è un caso unico in quanto a complessità urbanistica e ricchezza

di spunti architettonici”207. Si tratta di una serie di caratteristiche che hanno

permesso alla frazione di rientrare nel sistema “Borghi più belli d’Italia”. Situato a

cavallo del Varaita, il cuore dell’antico borgo è rappresentato dal ponte in pietra

che separa la chiesa di S. Lorenzo dalla cappella di S. Antonio e dall’antico tempio

del culto riformato. San Lorenzo è una parrocchiale barocca che conserva un

altare ligneo datato 1726. Questo termina con un arco a timpano spezzato

coronato da due angioletti e si appoggia su quattro colonne tortili, realizzate in

pino cembro ed ornate con tralci di vite. La chiesa di S. Antonio è stata la

parrocchia di Chianale dal 1459 fino alla fine del Seicento. Il portale esterno, a

triplice ghiera centinata, è ornato da capitelli che presentano visi umani e profili

animaleschi, un tratto caratteristico della valle che adombra l’attribuzione alla

tradizione tardo romanica. Poco distante dalla chiesa di S. Antonio è possibile

osservare, benché integrato tra le case circostanti, le vestigia di un antico tempio

calvinista. Come ci ricorda Sergio Ottonelli, Chianale “fu infatti, per buona parte

del ‘600, l’unico centro della valle in cui fosse riconosciuto il libero esercizio del

culto riformato e questa situazione privilegiata si protrasse fino alla vigilia della

Revocazione dell’Editto di Nantes”208. Gli edifici religiosi fanno da corollario ad un

profilo urbanistico di grande seduzione. Percorrendo le strette stradine di

Chianale, infatti, è possibile osservare una serie consistente di abitazioni che

riutilizzano elementi medievali.

Durante la stagione invernale, le risorse economiche e progettuali del Comune di

Pontechianale sono interamente assorbite dal comprensorio sciistico. In estate,

invece, le borgate si animano grazie ad una serie di attività piuttosto fitta. Tra

queste numerosi sono i concerti di musica tradizionale, gli aperitivi e le cene a

tema, le animazioni per i bambini e per i ragazzi. Non possono mancare, inoltre, i

tornei di calcetto, pallavolo e tennis, istituiti grazie alla collaborazione dell’Enel.

Tale programmazione è organizzata e realizzata dai commercianti di

Pontechianale con il sostegno della proloco locale. Per stessa ammissione del

sindaco, le attività promosse nel periodo estivo sono orientate soprattutto

all’intrattenimento dei turisti piuttosto che alla valorizzazione del contesto culturale.

Di profilo forse differente sono le diverse feste patronali che si declinano sul

207

Ottonelli S., (op. cit.), pp. 94. 208

Ibidem, pp. 105.

98

territorio comunale: in estate è possibile assistere a S. Deliberata a Villaretto, S.

Assunta a Castello, S. Rocco a Genzana e S. Lorenzo a Chianale209. Quest’ultima

prevede che la popolazione locale indossi il costume tradizionale e nel 2010 si è

articolata in una messa con incanto e concerto vocale, mentre le stradine del

borgo sono state animate da un mercatino di prodotti tipici.

Nell’ambito della programmazione estiva, il Comune assume il ruolo di ente

finanziatore anche se si può sostenere che la sua compartecipazione in tal senso

vari a seconda della manifestazione pianificata. L’intervento dell’amministrazione

si fa maggiormente concreto, in termini sia economici, sia organizzativi, in

relazione a “I sapori dell’Alevé” e a “Il ritorno dall’Alpe”. La prima manifestazione è

dedicata alla cembreta presente sul territorio che con i suoi 825 ettari si

caratterizza per essere il bosco di pini cembri più esteso d’Europa. La giornata di

festa, grazie alla serie di mercatini che si snodano tra le strade della borgata

centrale, vuole valorizzare i prodotti artigianali e alimentari locali. “Il ritorno

dall’Alpe” si svolge a settembre e celebra la discesa delle greggi dagli alpeggi. La

manifestazione ripropone in chiave moderna quello che, soprattutto in passato,

era un momento di aggregazione importante. “Il ritorno dall’Alpe” si caratterizza

anche per essere una vetrina considerevole per gli allevatori della zona i quali

possono esporre i loro animali sul territorio comunale.

Le pendici alpine circostanti Pontechianale sono solcate da una fitta rete di sentieri

che lo collegano alla Francia e al Monviso. Questi però non sono stati curati dal

Comune, in misura predominante essi sono stati creati e gestiti dal comparto

forestale della Regione Piemonte. Tra i sentieri maggiormente suggestivi non si

può non ricordare la passeggiata che si snoda nel vallone di borgata Torrette,

dalla quale è possibile osservare una serie di incisioni rupestri presenti sulle rocce.

La scelta comunale è stata quella di non valorizzare tale ricchezza a causa di una

serie di episodi di vandalismo che si sono verificati210

.

4.2 IL MUSEO DEL MOBILE DI PONTECHIANALE Il Museo del Mobile di Pontechianale è situato nel cuore di borgata Castello. La

struttura è facilmente visibile e identificabile perché situata vicino alla strada

209

www.ghironda.it 210

Informazioni tratte da un’intervista da me condotta ad Alfredo Campi in data 11/03/2011.

99

provinciale e perché segnalata con un grosso cartello. Il museo è visitabile

unicamente nel periodo estivo, da luglio a settembre, con orari che variano

annualmente. Durante l’estate 2010, dall’ultima settimana di luglio fino a fine

agosto, è stato aperto tutti i giorni nel pomeriggio, mentre a settembre era fruibile

solo di sabato e di domenica. La visita costa 2,50 euro ed è normalmente libera

anche se il personale all’interno della struttura è sempre disponibile per

chiarimenti ed informazioni.

Il museo nasce nel 2005 su iniziativa di Celeste Ruà, Enrica Paseri e Paolo

Infossi, tre privati cittadini interessati a coltivare quegli aspetti del patrimonio

culturale locale percepito come tradizionale211. Celeste, falegname di professione,

appassionato di mobili e legno antico, può forse essere indicato come il principale

promotore del museo. Insieme a Enrica, i due possiedono una casa a borgata

Chianale nella quale risiedono soprattutto durante l’estate. La coppia è conosciuta

sul territorio anche per la passione per la musica e per le serate che animano

sovente nei locali della zona.

L’idea di creare il museo nacque a seguito della realizzazione di un ambiente dal

titolo “Vivere nel Settecento”, situato negli stessi locali dell’attuale museo. Il lavoro

venne curato da Celeste «perché mi è sempre piaciuta la storia dei mobili» e in un

anno fu visitato da 2500 persone. Il successo della mostra fu d’impulso alla

creazione di un museo interamente dedicato alla storia della produzione mobiliera

dell’alta valle Varaita anche se, come mi hanno rivelato i curatori, era loro

desiderio che tale realtà avesse caratteristiche peculiari.

La presenza di un museo del mobile a Pontechianale rientra all’interno di un

panorama culturale particolare. In loco, infatti, vista anche l’importante presenza di

materia prima di qualità, la lavorazione del legno per produrre manufatti era molto

diffusa ed è considerata un’attività tradizionale. Tra gli elementi che caratterizzano

la produzione mobiliera locale si possono annoverare le funzioni, legate all’uso di

questi manufatti in case di montagna; la diffusa abilità manuale, che permetteva

agli uomini di costruire quasi tutto ciò di cui avevano necessità; l’utilizzo del legno

di conifere e di decorazioni ricorrenti212. Il risultato era il frutto di una “serie

innumerevole di esperimenti di sintesi all’interno di un’antica e radicata cultura del

211

Le informazioni contenute in questo paragrafo sono riprese da alcune interviste condotte a Celeste Ruà ed Enrica Paseri in data 11/10/2009, 22/07/2010 e 6/12/2010. 212

Dematteis P., “Uno stile del mobile tradizionale detto «val Varaita»” in AA. VV., I mobili tradizionali della val Varaita. Guida ragionata e catalogo fotografico, Fusta, Saluzzo, 2006.

100

legno” basata sull’“utilizzo parsimonioso dei materiali a disposizione” e sul “rispetto

verso forme e tipologie d’arredo locali”213. La produzione mobiliera seguiva il ciclo

della vita degli uomini scandendone le tappe: una culla, una cassa dotale, una

credenza raccontavano il percorso di un individuo, le sue fatiche e le sue

ritualità214.

Nel corso degli anni, si è diffusa l’espressione “stile val Varaita”, che indica la

presenza di caratteristiche costruttive e ornamentali particolari nei manufatti lignei

prodotti in passato sul territorio. Piero Dematteis, tuttavia, prende le distanze da

tale dicitura perché preferisce sottolineare le influenze reciproche e le connessioni

che, soprattutto in passato, univano i versanti. Gli elementi stilistici che

accumunavano i mobili varaitini, infatti, erano diffusi anche in altre parti dell’arco

alpino, “ovunque l’uomo si sia insediato adattando esigenze e modi di vita

all’ambiente delle alte valli”215. La produzione mobiliera si basava su una

trasmissione di conoscenze che se avveniva all’interno della famiglia, si arricchiva

anche dell’esperienza maturata durante la transumanza o la migrazione

stagionale. Questa fitta rete di rapporti, di contatti, sfuma i confini culturali della

valle mettendola in relazione con un contesto più ampio216.

Nella seconda metà del Novecento, il progressivo esaurirsi della realizzazione di

mobili si accompagna alla crescita del mercato dell’antiquariato e del mobile

d’arte. Gli esemplari più numerosi e più apprezzati sono stati quasi tutti realizzati

dal XII al XX secolo e provengono soprattutto dall’alta valle, in particolare dal

territorio dei Comuni di Pontechianale, Bellino, Casteldelfino e da una parte di

quello di Sampeyre. È in questo modo che “lo «stile Val Varaita» diventa un logo,

un marchio d’origine, esteso a tutti i mobili tradizionali delle alte valli”217.

Dematteis, inoltre, fa notare il rilancio della produzione mobiliera di tipo

tradizionale che si è avuta tra gli anni Sessanta e Ottanta. “Un’operazione

condotta all’inizio con grande sensibilità e rispetto, che ben presto, sulla spinta di

una domanda sempre crescente e sempre meno culturalmente motivata,

degenererà in una produzione di largo consumo ad opera di disinvolti imitatori”218.

213

Paseri E., “A misura d’uomo”, in AA. VV., I mobili tradizionali della val Varaita. Guida ragionata e catalogo fotografico, Fusta, Saluzzo, 2006, pp. 115-117. 214

Ibidem. 215

Dematteis P., (op. cit.), pp. 18. 216

Ibidem. 217

Ibidem pp. 20. 218

Ivi.

101

La realtà lavorativa nell’ambito della lavorazione del legno però è molto articolata:

non si può negare l’esistenza di una rete di piccole imprese, di falegnami capaci

che propongono nel presente la loro arte attingendo allo stile e alle modalità

costruttive del passato, senza tuttavia imitarle banalmente. All’interno di un

contesto economico difficile come quello della val Varaita, questi artigiani

sembrano invece aver trovato una collocazione proficua.

Il Museo del Mobile è quindi un’istituzione privata, totalmente gestita e

amministrata da Enrica, Celeste e Paolo con l’ausilio delle sole loro risorse.

L’apertura di tale realtà è stata possibile grazie anche al contributo “Valades”,

erogato dall’allora Comunità Montana Valle Varaita, che ha finanziato al 50% la

ristrutturazione del tetto dello stabile. Il museo, che dopo la sua istituzione non si è

più avvalso di alcun tipo di sovvenzione, è situato nei locali di un antico fienile, i

quali sono stati totalmente ristrutturati secondo i canoni architettonici locali. La

struttura, di proprietà di Paolo e Celeste, è piuttosto piccola ma estremamente

piacevole: il pavimento, così come il soppalco e la scala per raggiungerlo, sono

totalmente in legno; i muri mostrano le pietre utilizzate per costruirli; le semplici

teche espositive, realizzate da Celeste, sono cubi in vetro poggiati sopra i mobili in

mostra o su strutture lignee appositamente create. L’effetto complessivo è di

accogliente linearità.

Gli oggetti presenti nel Museo del Mobile possono essere divisi in due sezioni: la

collezione fissa e le esposizioni temporanee. Queste variano ogni estate e trattano

argomenti diversi, la cui sola costante è quella di essere legati al territorio. La

prima mostra realizzata ha esposto maschere lignee utilizzate in contesti

carnevaleschi e provenienti soprattutto dal territorio del comune di Bellino.

Nell’inverno 2005-2006 il museo ha eccezionalmente tenuto aperto con una

collezione di mobili antichi, tipici del luogo, particolarmente interessanti per le

decorazioni intagliate sulle superfici. L’estate dello stesso anno Celeste ha

realizzato una mostra con la sua collezione privata di organetti, mentre l’anno

dopo l’esposizione temporanea ha fornito uno spaccato dell’emigrazione dai

territori dell’alta valle Varaita a partire dai primi del Novecento. Molto interessante,

poi, è stata la tematica trattata nelle estati del 2008 e del 2009, quando il museo

ha proposto una serie di foto e di oggetti provenienti da borgata Chiesa, la

frazione di Pontechianale sommersa dalla diga costruita dall’Enel.

102

La collezione stabile presenta al piano terra del museo un ricco cassone nuziale,

interamente decorato, proveniente dall’alta Valle, probabilmente da Caldane.

Questo genere di mobili, così finemente intarsiati, erano solitamente dei doni fatti

da un ragazzo alla sua promessa sposa. Come per i fuselli del tombolo, la finezza

della decorazione era un modo per valutare le abilità tecniche dei giovani, sulle

quali eventualmente basare la propria scelta matrimoniale. Sempre al piano terra

del museo, è possibile osservare una credenza, un armadio e delle sedie, tutti

realizzati in pino cembro. Le sedie

presenti sono molto particolari perché

decorate con le iniziali sia del

capofamiglia cui erano state offerte, sia

dell’artigiano che le aveva prodotte.

Al piano superiore del museo è possibile

osservare un cassettone in pino cembro,

all’interno del quale veniva riposto l’abito

tradizionalmente usato sul territorio.

Quest’oggetto, realizzato da un signore di

Pontechianale, presenta un particolare

intarsio in noce, pianta non utilizzata in

loco, a forma di cuore e di fiore. Accanto

a questo cassettone è possibile

osservare un altro armadio in pino

cembro intarsiato, così come un tombolo

fornito di ben 39 fuselli finemente decorati. Sempre nel piano soppalcato del

museo, Celeste ha esposto la riproduzione, da lui stesso realizzata, della cassetta

di un venditore ambulante di bottoni, manufatto che solitamente era portato a

spalle.

Gli oggetti in mostra, che non sono né schedati né inventariati, si presentano in

buono stato di conservazione. Il restauro dei mobili è stato curato da Celeste,

ebanista di professione nonché proprietario di parte dei manufatti presenti nel

museo. La stragrande maggioranza di questi ultimi, tuttavia, risulta essere in

prestito temporaneo. «Nel momento in cui si mette in piedi una mostra si decide

quale sarà il tema dell’anno successivo e da lì si parte e si va a raccogliere proprio

in giro per le case». Gli allestimenti sono quindi realizzati grazie alla

Interno del Museo del Mobile. Foto

dell’autrice.

103

collaborazione della gente di vallata che, secondo la sensibilità dei curatori del

museo, risulta essere interessata a quegli aspetti della cultura locale percepiti

come tradizionali. Enrica e Celeste sottolineavano come si fosse creato un

rapporto particolare con coloro che hanno prestato gli oggetti. Dopo l’iniziale

reticenza, è prevalso un meccanismo che Enrica sostiene essere volto alla

valorizzazione dei manufatti stessi. Oggetti vissuti, oggetti della quotidianità,

magari presenti da generazioni in casa, ai quali non si dava, per questo,

particolare rilevanza, hanno acquisito una valenza differente dopo essere stati

esposti nel museo. Avere fatto parte di un allestimento museale, in altre parole, ha

aumentato l’importanza di tali beni agli occhi dei proprietari. Questo in un contesto

di più generale interesse per quella che viene definita e pensata come “tradizione”.

Secondo Enrica, sul territorio si è recentemente generata una voglia di tornare alle

proprie radici, di scoprire il proprio passato familiare. Tale processo ha interessato

aspetti culturali diversi, non solo i saperi connessi alla quotidianità, ma anche la

ritualità, le feste, la musica, come ricorda Celeste. Un fenomeno di difficile

interpretazione, secondo i curatori del museo, una cui possibile spiegazione è

forse riscontrabile nell’«opposizione alla globalizzazione». È opinione di Enrica

che quando «tutti possono avere tutto […], le cose che sono davvero uniche

cominciano ad avere un valore diverso, a maggior ragione se è un qualcosa che

delinea una storia tua, personale». E tale storia personale, nella sensibilità dei

curatori, emerge con forza maggiore in un territorio come quello della valle che

visivamente ha conservato numerosi aspetti del proprio passato. «Penso che nei

posti dove si legge di più la storia, forse la vai a cercare di più».

L’interesse per quegli aspetti della cultura percepiti come tradizionali influisce sul

numero di visitatori del Museo del Mobile. Non è possibile indicare l’entità precisa

di quest’ultimi perché i curatori non ne tengono un elenco aggiornato e il numero

dei biglietti emessi è solo indicativo dal momento che alcune persone, come ad

esempio gli amici o coloro che prestano gli oggetti, entrano gratuitamente.

L’affluenza poi varia molto a seconda della mostra proposta: quest’anno i visitatori

sono stati all’incirca 300, quasi la metà di quelli registrati in occasione

dell’esposizione incentrata su borgata Chiesa. Altalenante è anche l’afflusso

giornaliero, un fenomeno sottolineato da Celeste il quale sostiene che «qui tante

volte entrano venti persone al giorno, tante volte una». I curatori si mostrano

contenti dei visitatori che attraggono non tanto in termini di quantità, quanto

104

piuttosto, se così si può dire, di qualità. Enrica e Celeste hanno riscontrato la

presenza di un’utenza fissa, interessata ogni anno all’esposizione proposta. «Sta

diventando bello perché in linea di massima le persone che entrano, entrano

perché sono interessate e quello è l’obbiettivo». La passione espressa nel museo

si è estesa a quella parte dei visitatori che ogni estate ritornano incuriositi dal

nuovo progetto, «una bellissima soddisfazione» secondo Celeste. Visto l’afflusso

turistico estivo che caratterizza Pontechianale, è innegabile che gran parte

dell’utenza dell’istituzione museale non sia del posto. Tuttavia, tra gli “affezionati”, i

valligiani sono numerosi, a mio avviso complice non solo l’interesse per le

tematiche affrontate, ma anche l’amicizia che li lega a Celeste ed Enrica,

conosciuti parimenti per la musica.

Il Museo del Mobile ha curato la pubblicazione del catalogo della prima mostra

realizzata. “Maschere rituali in legno dell’arco alpino occidentale”, edito con il

patrocinio della Comunità Montana Valle Varaita e del Comune di Pontechianale,

si apre con una presentazione di Almerino de Angelis ed è stato curato da Paolo

Infossi. Quest’ultimo è l’autore anche de “La vallata sommersa. Testimonianze ed

immagini della frazione Chiesa di Pontechianale”, pubblicazione edita sempre dal

museo. L’impossibilità di realizzare altri volumi è indicata dai curatori nell’assoluta

mancanza di fondi destinati a strutture private. «Noi siamo sempre in perdita.

Quest’anno è andata bene, siamo andati in pari».

Le difficoltà di gestione sono sopperite dalla grande passione che Enrica e Celeste

sentono per la loro creazione, un interesse rinnovato ogni anno grazie anche alla

realizzazione di mostre diverse. Questi progetti nascono dal desiderio dei curatori

di documentarsi, estate dopo estate, su tematiche nuove. Nell’allestimento delle

esposizioni temporanee, Enrica e Celeste vedono un’occasione, anche personale,

per accrescere la conoscenza del patrimonio culturale locale. Il museo si presenta

in modo diverso ogni anno, differenziandosi in questo modo, secondo la sensibilità

dei gestori, dalle altre realtà etnografiche presenti sul territorio. Nonostante

condividano con esse l’intento di «far conoscere, mantenere, conservare e

preservare», Celeste ed Enrica ritengono che la loro struttura sia maggiormente

orientata alla sensibilizzazione. Tale caratteristica si esplica proprio nell’affrontare

con cadenza periodica tematiche diverse ma contemporaneamente legate al

territorio. Si tratta di una strategia tramite la quale viene rinnovato l’interesse dei

visitatori e la loro disponibilità ad apprendere.

105

4.3 IL MUSEO DEL COSTUME E DELL’ARTIGIANATO TESSILE Il Museo del Costume e dell’Artigianato tessile sorge nel cuore di Chianale, in

un’antica Missione Cappuccina219. La struttura, segnalata con un grosso pannello

alle porte del paese, è facilmente raggiungibile seguendo la stradina principale

che si snoda tra le case in muratura, così belle e suggestive. Anche l’edificio che

ospita il museo è di indiscutibile fascino: arroccata in posizione dominante, la

missione assume il suo profilo attuale a metà del Settecento. Gran parte

dell’edificio, tuttavia, così come l’inizio in loco delle attività dei cappuccini, sono

antecedenti: i frati si radicano sul territorio già nel 1659 al fine di combattere il

culto riformato. La missione chiude i battenti nel 1794 per timore di un’invasione

da parte delle truppe francesi rivoluzionarie, attacco che avvenne nello stesso

anno e che causò un durissimo saccheggio di Pontechianale e delle sue borgate.

Dopo qualche decennio di totale abbandono, intorno al 1820 l’edificio torna ad

essere casa parrocchiale e tale rimarrà fino al secondo dopoguerra. A partire dal

1960 la missione perde nuovamente qualsiasi tipo di funzionalità, lo stato di

incuria in cui era precipitata fu interrotto solo dalla ristrutturazione volta a

trasformarla in sede del Museo del Costume.

Quest’ultimo fu inaugurato il 13 settembre del 2008, un’occasione particolare nella

quale la struttura rimase aperta tre giorni. Dal 2009, invece, il museo è aperto in

maniera costante nei mesi di luglio e agosto, l’ultimo fine settimana di giugno e il

primo di settembre, sempre in orario pomeridiano. La visita, che costa 2,50 euro,

normalmente non è guidata ma il personale all’interno è sempre disponibile per

eventuali precisazioni.

La prima volta che ho visitato il museo sono stata piacevolmente accolta da

Sergio, Silvana e Olimpia Ottonelli, i promotori e gestori della struttura. Sergio

Ottonelli, in particolare, era una persona di grande erudizione conosciuta sul

territorio anche per le sue pubblicazioni sulla storia e la cultura della val Varaita.

L’intero gruppo familiare è attivo nella promozione e valorizzazione del tessuto

culturale locale da più di vent’anni. In passato gli Ottonelli facevano parte di un

gruppo, il Comitato per S. Lorenzo, costituitosi per organizzare la festa patronale

estiva di Chianale. Quest’ultima, come riportato da Silvana, non era un semplice

momento di convivialità, ma dava spazio a manifestazioni culturali di più ampio

219

Le informazioni presenti in questo paragrafo sono tratte da una serie di interviste realizzate a Olimpia, Silvana e Sergio Ottonelli, in data 30/07/2010, 23/11/2010 e 2/02/2011.

106

respiro. A San Lorenzo, il comitato organizzatore di cui gli Ottonelli erano membri

curava la realizzazione di mostre fotografiche con tematiche incentrate sul

territorio, spesso realizzate grazie all’ausilio di immagini prestate da persone del

paese. Numerose, poi, le pubblicazioni edite dall’associazione, tra cui “Ben minjà

ben begü. Alimentazione e cucina tradizionale a Chianale” e due ricerche sul

costume femminile dell’alta valle Varaita, datate 1982 e 1995. Il Comitato per San

Lorenzo, più in generale, era interessato alla valorizzazione della cultura locale,

passione espressa anche nell’organizzazione del ballo della festa patronale. In

quest’occasione, in modo pionieristico rispetto al resto della valle, venivano invitati

a suonare gruppi di musica occitana.

Anche quando la costituzione del museo era ancora un’idea astratta,

l’associazione acquistava già materiale facente parte del costume tradizionale.

Con questo termine normalmente si indica il vestito utilizzato dalle donne della

Castellata, sul territorio di Bellino, Casteldelfino e Pontechianale, che, più di quello

maschile, si distingueva per la sua peculiarità.

Diverso da quello portato nei territori attigui, l’abito femminile era caratterizzato da

una serie precisa e particolare di indumenti e da un modo specifico di indossare il

grembiule. La chamizo, quasi sempre di tela di canapa, è una camicia con

maniche lunghe che copriva il corpo fino a metà polpaccio. Normalmente non

aveva decorazioni, salvo le iniziali ricamate con un filo rosso e un colletto di

tessuto più fine, a volte di merletto lavorato al tombolo. Quando il colletto non era

presente, si rimediava indossandone uno cucito su una pettorina aperta sui lati.

Sopra la chamizo le donne vestivano lu gunelot, una sottana di lana e canapa,

senza maniche, con scollo “a V”. Questa, in genere chiara, era foderata in basso

con una fascia colorata seguita da una fettuccia. Similmente, anche la scollatura

veniva bordata con un tessuto a colori vivaci, qualche volta delimitato da ricami.

Scura era invece la chamizòlo, il pesante abito di panno normalmente esposto alla

vista. A tronco di cono, esso si distingue per i tre particolari costoloni posteriori e

per i nastri che coprivano l’attaccatura delle maniche. Sopra la chamizòlo veniva

indossato lu muchèt, uno scialle quadrato piegato in modo da formare un triangolo

sulla schiena. L’allacciatura anteriore di tale fazzoletto era coperta dalla pettorina

che si accompagnava al grembiule. Quest’ultimo, lu fuydil, era annodato sotto le

ascelle, appena sopra la curva del seno. Molto particolare è poi la cuffia della

Castellata, sostituita però in tempi recenti con un fazzoletto. Il copricapo si

107

compone di una calotta in organza o in tela fine, di una parte posteriore fittamente

pieghettata e di un tesa che incornicia il viso, lavorata con il tombolo per i giorni

festivi. Completa l’abito tradizionale lu kulét, una monile da allacciare dietro il collo

realizzato con una fettuccia ricoperta da perline di vetro. Da questo primo

elemento si diparte un nastro cui sono fissati in alto un cuore e in basso una

croce, normalmente dorate. Il vestito, così sommariamente descritto, fu indossato

dalle donne della Castellata grosso modo dal Settecento fino agli anni Cinquanta

del secolo scorso. Il passare del tempo ha apportato delle modifiche all’abito,

come già si è detto in relazione alla cuffia. Il vestito utilizzato nella quotidianità,

inoltre, era diverso da quello indossato in occasioni festive, più sfarzoso e

realizzato con materiali pregiati. I termini usati nella descrizione sono quelli diffusi

sul territorio di Chianale, negli altri comuni interessati le singole parti del vestito

potevano avere denominazioni diverse220.

Le fonti iconografiche, non solo la ritrattistica ma anche le fotografie d’epoca,

forniscono una documentazione sul sistema vestimentario che appare

caratterizzata in termini di genere. L’abbigliamento degli uomini, già a partire dal

secondo Settecento, riflette l’adeguamento alla moda borghese e cittadina,

raccontando così gli effetti della mobilità, della connessione tra montagna e

pianura, dell’emigrazione stagionale, temporanea e maschile. Gli abiti femminili,

per contro, sono quelli tradizionalmente tramandati e rivelano le tipologie locali, le

differenze di vallata o di villaggio, la tenace resistenza dei capi, dei modelli e dei

colori settecenteschi221.

L’esodo stagionale degli uomini ha avuto delle ripercussioni non solo sulle

modalità di abbigliarsi, ma anche sul ruolo della donna all’interno del contesto

sociale. Nelle realtà spopolate per alcuni mesi all’anno dalla controparte maschile,

avveniva una sorta di “femminilizzazione” della vita economica, sociale e

lavorativa. Soprattutto nei territori in cui la migrazione aveva luogo durante

l’estate, le donne si facevano carico sia dei lavori agricoli, sia di quelli relativi

all’alpeggio. A causa di tale fenomeno, la laboriosità femminile è divenuta una

specie di topos della letteratura alpina scientifica e di viaggio. Tuttavia, nonostante

la gravosità del carico di lavoro lasciato dagli emigranti sulle spalle delle donne, i

220

AA. VV., “Froli e sanchet. Il costume femminile in alta valle Varaita”, edizioni del Comitato per S. Lorenzo (Chianale), Torino, 1995. 221

Gri G.P., “Tessere tela, tessere simboli. Antropologia e storia dell’abbigliamento in area alpina”, Forum, Udine, 2000.

108

lavori svolti da quest’ultime erano caratterizzati da uno scarso valore economico e

da una bassa considerazione sociale, aspetti per i quali le Alpi non differivano

dalle altre società rurali italiane. Elementi importanti di distinzione si hanno,

invece, per quanto riguarda gli ambiti decisionali di cui godeva la controparte

femminile in assenza di padri, mariti e fratelli. Sulle montagne piemontesi, gli atti

notarili del Settecento e dell’Ottocento documentano la diffusa pratica di delegare

alle donne di famiglia la gestione tanto dei patrimoni fondiari, quanto dei proventi

finanziari della migrazione. Tale ricorso alle autorità amministrative e giudiziarie

implicava per le madri e le mogli la necessità di acquisire una certa dimestichezza

con la scrittura ed il calcolo matematico. Si tratta di una tendenza dimostrata

anche dall’analisi della distribuzione e dello sviluppo dell’alfabetismo femminile, in

rapida crescita sulle montagne a partire dai primi dell’Ottocento.

La maggiore autonomia di cui godevano le donne a causa della migrazione dei

loro padri e mariti non era relativa solo alla gestione della casa, della terra e del

denaro familiare, ma investiva anche altri ambiti di natura tanto privata quanto

pubblica. L’analisi dei testamenti in alcune comunità montane del versante

francese ha permesso di osservare come le donne avessero diritto alla proprietà

della terra e come tali possedimenti facessero parte della loro dote. I mariti, poi,

non potevano sottrarre alle loro mogli né la terra né i beni componenti la dote

stessa. Nelle realtà alpine caratterizzate da una forte emigrazione maschile pare,

inoltre, che ci fosse una minore insistenza sui valori della verginità, della

sottomissione, dell’onore e un giudizio meno rigido sulla maternità delle nubili222.

Gli inconsueti margini di autonomia delle donne di montagna, non devono indurre

a considerare la condizione femminile paritaria in rapporto a quella maschile. È

necessario, inoltre, sottolineare le profonde disuguaglianze presenti nei paesi e tra

i versanti. Per esempio, è facile immaginare che le donne sposate godessero di

una considerazione differente rispetto a quelle nubili, così come “si può presumere

che la condizione della donna fosse diversa nelle Alpi francesi, dove prevalevano

costumi di divisibilità ereditaria, rispetto alle Alpi austriache dove la proprietà

veniva trasmessa ad un solo erede maschio”223. Tuttavia, le mogli, le sorelle, le

madri che popolavano l’arco alpino occupavano un posto centrale nelle società in

222

Audenino P., Corti P., “Il mondo diviso. Uomini che partono, donne che restano”, in L’Alpe n.4, giugno 2001. 223

Viazzo P.P., “Alpi: terra di donne?”, in L’Alpe n.4, giugno 2001, pp. 11.

109

cui vivevano ed ebbero la possibilità di sperimentare una forma di gestione della

famiglia, della terra e del denaro del tutto precoce ed estranea al resto della

società preindustriale224.

L’abbigliamento di una comunità è il suo specchio, il suo doppio. Trasmette

informazioni sui valori, sui confini, sulla storia, sulla conformazione interna di una

società. Si tratta di un fenomeno riscontrabile anche nelle Alpi, dove, appunto, le

dissomiglianze di genere relative al modo di abbigliarsi riflettevano i diversi

percorsi di vita di uomini e donne. Queste ultime, in particolare, sembrano essere

legate al costume locale perché meno condizionate da elementi esterni rispetto ai

loro compagni che migravano. È, quindi, dall’abbigliamento femminile che si

distinguono i paesi, le valli, le epoche, è attraverso i vestiti della donne che si

delimitano i confini di una comunità. L’abbigliamento femminile si carica così di

significati profondi: esso diventa una risorsa simbolica che veicola e rivela il senso

di appartenenza al territorio. Il rigido sistema vestimentario tradizionale

contribuisce, pertanto, a creare, tutelare, preservare ed esibire il sentimento di

adesione a una comunità. La ricerca antropologica ha modificato la propria

“cassetta degli attrezzi” in relazione ai significati ed alle funzioni del senso di

appartenenza, inteso non più come un fenomeno di struttura, una realtà oggettiva,

ma come un flusso, una costruzione in continua rielaborazione225. “I Noi-

nonostante tutti i loro tentativi di reificazione e solidificazione- sono strutture

inevitabilmente aperte, sensibili a ciò che proviene dall’alterità”226. Per costruire le

proprie Forme di Umanità, i soggetti sociali si alimentano delle diversità riscontrate

nel presente di altre società o nel proprio stesso passato227. Si tratta di un

meccanismo palesato anche dal sistema vestimentario: mentre gli abiti erano

esibiti e sentiti come locali, come caratterizzanti un territorio perché ereditati dagli

antenati, i dettagli, gli ori, i nastri di seta, i bottoni, rimandano a botteghe lontane e

ai collegamenti operati dagli ambulanti228

.

Studi antropologici recenti hanno dimostrato l’esistenza di atteggiamenti femminili

diversi in relazione ai costumi tradizionali: se in certe zone l’aver avuto la forza di

cambiare era mostrata con orgoglio, altrove era il vestito tradizionale a essere

224

Ibidem. 225

Gri G.P., (op. cit.). 226

Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A., Costruire il passato. Il dibattito sulle tradizioni in Africa e in Oceania, Paravia, Torino, 1999, pp. XII. 227

Ivi. 228

Gri G.P., (op. cit.).

110

indossato con fierezza. Questo è forse il caso delle donne Ottonelli, una famiglia

che, in generale, mi sembra legata anche affettivamente all’abito tipico dell’alta

valle. Il fatto stesso che il sistema vestimentario fosse stato condiviso dai loro avi,

mi pare abbia orientato l’atteggiamento degli Ottonelli nel presente: come mi ha

confidato Olimpia «Io mi sono sposata in costume, nel vestito da sposa di mia

nonna». Oltre a tale legame di carattere personale, la passione di questa famiglia

per l’abito tradizionale ha altre ragioni. Durante la festa di S. Lorenzo «era

diventata un’abitudine» vestirlo, come mi hanno rivelato Silvana e Olimpia, ma tale

pratica non può essere considerata una manifestazione di tipo folklorico. Chianale

e i suoi abitanti mantengono una relazione particolare con il costume femminile

perché in loco è stato portato quotidianamente da alcune donne fino agli inizi degli

anni Settanta. La piccola borgata al confine con la Francia è stato quindi l’ultimo

paese della valle ad abbandonare tale modalità di abbigliarsi. Questa passione

della famiglia Ottonelli, alimentata in modi diversi, ha quindi dato origine alle

collezioni presenti nel museo, create grazie all’acquisto di capi da privati e

antiquari ma soprattutto all’incanto229.

L’attività di ricerca sull’abbigliamento tradizionale è stata accresciuta negli ultimi

dieci anni quando l’organizzazione della festa di S. Lorenzo è passata alle proloco

e l’obiettivo primo del Comitato è diventato la realizzazione della struttura

museale. Attualmente la collezione è composta da 700 manufatti selezionati e in

buono stato di conservazione, il cui cuore è costituito da abiti femminili. Tutti i beni

sono inseriti in un inventario informatizzato che comprende, per la maggior parte

dei manufatti, anche una fotografia. Silvana difende inoltre l’importanza di un altro

inventario, in formato cartaceo, un vero e proprio quaderno all’interno del quale

vengono annotati gli acquisti, il loro prezzo e la data, le donazioni e il nome di chi

le ha offerte.

L’inventario, così come tutti gli altri aspetti gestionali e organizzativi del museo,

sono curati dalla famiglia Ottonelli, mentre con il resto del Comitato di S. Lorenzo

si realizzano solo sporadiche collaborazioni.

Anche l’allestimento è stato interamente progettato, e in parte realizzato, dagli

Ottonelli. Silvana e Olimpia mi hanno raccontato dell’entusiasmo maturato per

229

Espressione utilizzata per indicare le aste che solitamente seguono le messe proferite in occasioni particolari. Il ricavato degli acquisti così realizzati viene devoluto alle piccole chiese o cappelle.

111

l’attività di disposizione degli oggetti e di creazione delle vetrine. «È stata una cosa

molto artigianale e molto appassionante. Ci ha appassionato anche proprio

l’esecuzione materiale. Veder nascere da pezzi di stoffa messi così e vederli

prendere vita… è stata una cosa magnifica». L’esito del lavoro di allestimento ha

interessato una sala articolata su due piani. Quello inferiore si apre con due

strutture autoportanti finalizzate all’esposizione di fotografie. Su una, in particolare,

sono presentate le tavole fotografiche realizzate dal parroco don Luigi Gianotti

all’inizio del Novecento. Si tratta di un fondo molto importante perché il Padre era

l’unico fotografo residente in Chianale ed ha così avuto modo di raccogliere

numerose testimonianze di vita locale. La seconda struttura autoportante espone

fotografie di diversa provenienza attestanti l’infanzia vissuta tra il 1850 e la fine del

secondo conflitto mondiale.

Proprio di fronte all’ingresso della sala una pedana ospita alcuni manichini in legno

ognuno dei quali presenta un capo facente parte dell’abito tradizionale femminile.

In mezzo ad essi un altro manichino totalmente abbigliato documenta il risultato

finale della vestizione. Alle spalle della struttura, dal sottoscala che troneggia al

centro dell’ambiente sono state ricavate alcune vetrine che espongono i vestiti da

sposa più preziosi. Le teche

presenti sul muro perimetrale

contengono sottane di

Sampeyre o dell’alta valle

Varaita, cuffie da bambino con

il pizzo in crine di cavallo e

alcuni monili discretamente

preziosi. Importante per

dimensioni e forma è la vetrina

che segue la curva absidale

ricalcandone la linea. Al suo

interno è possibile osservare una serie interessante di cuffie da donna utilizzate

quotidianamente o nei giorni festivi, fazzoletti da spalla o da testa provenienti da

Sampeyre o dai comuni della Castellata ed infine pettorine di diverso tessuto che

venivano cucite o attaccate al grembiule. Altri tre espositori in legno sono poi

situati lungo il percorso di visita al fine di mostrare, rispettivamente, una serie

La vetrina che segue la curva absidale all’interno del

Museo del Costume.

112

cospicua di nastri, alcuni indumenti da bambino e gli oggetti necessari per la

lavorazione al tombolo. Tanto la parte inferiore di queste teche, realizzata in legno

locale, quanto tutte le vetrine del piano superiore sono state create

artigianalmente da Sergio Ottonelli. Come da espresso desiderio dei curatori, le

strutture espositive sono di lineare semplicità al fine di non creare contrasto con la

pregevole architettura degli ambienti. Tra di essi, piccolo ma decisamente

suggestivo, coperto con una volta a ombrello, è il vano dell’antica sacrestia,

accessibile dal piano inferiore. Quest’area vuole essere una sala multimediale

all’interno della quale proiettare foto o video.

Parte dell’esposizione presente nel locale al piano superiore documenta la

produzione e l’uso del drap, un particolare tipo di tessuto ottenuto facendo

infeltrire “a freddo” la lana. Vetrine a parte sono poi dedicate tanto alle sottane in

“mezzalana”, una tela realizzata intrecciando lana e canapa, tanto alle calzature di

panno, utilizzate fino ad anni recenti nella stagione fredda. Al piano superiore sono

poi esposte alcune coperte fyasà, tipiche della locale tessitura e realizzate con

l’ausilio di telai molto grossi e appositamente designati.

L’allestimento del Museo del Costume è stato realizzato dalla famiglia Ottonelli

anche grazie ad alcuni finanziamenti: il primo erogato dall’Interreg IIIA Alcotra

Sittalp (€ 12.500), l’altro stanziato dalla Regione Piemonte grazie alla legge

58/1978 (€ 6.000). La restaurazione della Missione Cappuccina, di proprietà della

parrocchia ma in comodato d’uso al Comitato per S. Lorenzo, ha comportato un

impiego importante di mezzi finanziari ed è stato possibile grazie al progetto

museale presente. Il gruppo di fondi maggiormente consistente, infatti, è stato

erogato dall’Unione Europea sulla base di un’iniziativa che destinava fondi per la

ristrutturazione di edifici sede di musei (circa € 380.000 su progetto Interreg IIIA

Alcotra Sittalp). Il primo contributo (£ 3.000.000), invece, è stato stanziato nel

2001 dalla Cassa di Risparmio di Saluzzo per mettere in sicurezza il tetto in lose

della missione. Successivamente, un più ampio intervento realizzato dalla

Comunità Montana Valle Varaita (circa € 32.000), ha permesso il recupero della

loggia situata a sud dell’edificio, la quale si stava progressivamente staccando dal

corpo principale. I contributi regionali ed europei presentano tutti una quota di

cofinanziamento dall’importo variabile.

È sempre l’Unione Europea che ha aiutato il Museo del Costume a realizzare la

sua prima attività didattica. Nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero

113

Marittime Mercantour, il museo ha ricevuto un fondo da utilizzare per collaborare

con le scuole. Il finanziamento copriva il viaggio, il pranzo ed il pernottamento

degli studenti, l’entrata al museo, il riscaldamento dello stesso e l’impegno dei

gestori. I progetti proposti sono stati accettati da due classi della scuola

elementare di Piasco e da una dell’Istituto d’Arte Bodoni di Saluzzo. Con i ragazzi

più grandi l’attività si è incentrata sull’arte del ricamo realizzato seguendo le

modalità tradizionalmente presenti sul territorio. «Invece per i bambini delle

elementari […] abbiamo preparato delle sagome in cartoncino che dovevano

vestire con tutti i capi d’abbigliamento». Nonostante qualche iniziale

preoccupazione Silvana e Olimpia hanno riscontrato l’esito positivo del progetto

«Avevamo molti timori e invece è andata benissimo. […] È stata una cosa

riuscita».

Durante il suo primo anno di apertura, nel corso dei mesi estivi in cui era

accessibile, il Museo del Costume è stato visitato da circa 3.000 persone. Duemila

settecento, invece, gli ingressi registrati l’estate successiva. Si tratta di cifre

consistenti e accertate dal numero di biglietti emessi, regolarmente segnato su un

quaderno interno. A questi visitatori devono però aggiungersi i residenti in

Chianale o coloro i quali, originari del paese, vi ritornano in vacanza. Queste

persone non pagano il prezzo d’ingresso e, quindi, non è possibile stabilirne

l’entità precisa. Si tratta di un gruppo particolare di visitatori con i quali i gestori

sembrano intrattenere un rapporto speciale «La gente del luogo qui entra, è casa

sua. Vogliamo che sia così. Ci sono delle persone, francesi, figli di immigrati, che

hanno la casa qui, che vengono tutti i giorni. Fanno il loro giro, si siedono un

momento, è una cosa che a loro piace da matti. È una cosa magnifica».

Nonostante il successo ottenuto nei primi due anni di apertura gli Ottonelli

continuano ad avere progetti per potenziare la struttura museale. «Volevamo fare

un dvd di presentazione di attività artigianali legate al museo tipo la fabbricazione

dei bottoni, il telaio, la vestizione di una donna, qualche leggenda che riguarda il

filo, la filatura». È sentita la necessità di aumentare la componente multimediale

per meglio sfruttare il vano dell’antica sacrestia e la postazione computer

recentemente acquistata. Altri progetti riguardano, invece, la gestione e

l’esposizione degli oggetti. Gli Ottonelli pensano tanto alla compilazione di una

schedatura dei manufatti, contenente informazioni maggiormente approfondite

rispetto a quelle presenti nell’inventario, quanto alla realizzazione di una nuova

114

vetrina che esponga materiale prezioso di nuova acquisizione. Sergio, in

particolare, riscontrava come le donazioni fossero aumentate dopo l’apertura del

museo: «è stata un’estate magnifica dal punto di vista delle acquisizioni, un colpo

di fortuna dopo l’altro, abbiamo avuto delle donazioni straordinarie, eccezionali,

cose che non avremmo mai pensato». In particolare, proprio il numero delle

donazioni sembra essersi incrementato a causa della visibilità del Museo:

«abbiamo avuto delle donazioni di grande valore perché cominciano a vedere un

punto di riferimento».

4.4 CONTRO LA COLONIZZAZIONE DELL’IMMAGINARIO A fini esplicativi, vorrei tentare di pensare ai prodotti e alle manifestazioni della

cultura alpina in termini di beni culturali. Questa espressione è entrata di recente a

fare parte del lessico specialistico e viene usata per indicare i componenti

materiali ed immateriali del patrimonio. Introdotta per la prima volta nel 1954 dalla

Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di guerra, la

dicitura in questione è stata ripresa in Italia un decennio dopo dalla Commissione

Franceschini. Quest’ultima era stata incaricata di formulare proposte per la

salvaguardia del patrimonio storico e artistico, la cui tutela era diventata un

compito della Repubblica previsto anche dalla Costituzione. Rispetto alla

precedente Legge Bottai (1939), il cambiamento intercorso fu notevole: venne

superata una visione dei beni culturali fondata sul concetto del bello, del raro, del

prezioso, per considerarli invece “testimoni di civiltà”. Non soltanto “monumenti”

quindi, ma anche “documenti” in grado di rappresentare i valori di una cultura

indipendentemente dal loro carattere estetico230.

Secondo Daniele Jalla è possibile riconoscere tre tipologie di beni culturali in area

alpina: i beni tradizionali, le cui caratteristiche non sono fondamentalmente

cambiate da quelle che possedevano in passato; i beni innovati, che hanno invece

subito un processo di mutamento; infine i beni contemporanei, la cui introduzione

è recente e risponde alle esigenze della contemporaneità. Per quanto riguarda i

beni tradizionali, con tale denominazione non vengono indicati quei prodotti o

quelle manifestazioni culturali del tutto esenti da modifiche, in quanto,

230

Jalla D., “La tradizione siamo noi”, in L’Alpe n.9, dicembre 2003.

115

semplicemente, ciò non è possibile. “I centri, le regioni ed i territori precisamente

delimitati non esistono prima dei contatti”231. Con la denominazione in questione,

invece, vengono indicati quei beni la cui qualità e specificità si fonda su un insieme

di ingredienti solo marginalmente modificati dal mutato contesto sociale ed

economico.

Affinché un bene culturale sia identificato come tale è necessario che la sua

qualità e il suo valore siano socialmente riconosciuti. Tale considerazione è figlia

dell’idea di cultura propria di una società e del tempo in cui si muove; si tratta, in

altri termini, di un valore storicamente determinato. Quando un bene è considerato

culturale, esso viene sottoposto a una speciale protezione fisica e giuridica che

varia in relazione al valore assegnato al bene stesso. Quest’ultimo è quindi

sottoposto a un regime di tutela, le cui forme e modalità possono essere

diverse232.

Al fine di tutelare i beni culturali in area alpina è necessario che questa funzione

non si ponga soltanto in termini passivi come “esercizio delle attività dirette ad

individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e

la conservazione”233. Una tutela efficace deve prevedere anche forme di sostegno

e di incentivazione che assicurino vitalità e futuro alle manifestazioni e ai prodotti

culturali presenti sul territorio. È quindi necessario che la tutela si avvicini al

concetto di valorizzazione intesa come “ esercizio delle attività dirette a

promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori

condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”234. Per

tutelare-valorizzare il patrimonio culturale alpino è necessario agire anche in

termini economici prendendo in considerazione non soltanto l’offerta ma anche la

domanda. Si tratta di una strategia volta a creare un rapporto nuovo tra collettività

e patrimonio, un rapporto più consapevole del valore della cultura e del suo

impatto sulla vita quotidiana. La sopravvivenza e vitalità del patrimonio culturale

alpino sono legate al fatto di essere o divenire parte di una cultura diffusa e

radicata che risponde ai bisogni, desideri e necessità della contemporaneità235.

231

Clifford J., “Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. 232

Jalla D., (op. cit.). 233

Art. 3 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. 234

Art. 6 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. 235

Jalla D., (op. cit.).

116

A mio avviso, le funzioni di tutela e valorizzazione dei beni DEA delineate dal

Codice dei Beni Culturali sono svolte all’interno di alcuni musei etnografici presenti

nell’arco alpino.

La prima istituzione di questo tipo, nella montagna piemontese, nasce a

Coumboscuro, in Valle Grana, nel 1961. L’opera di Sergio Arneodo rientra in una

corrente di museografia spontanea che si sviluppa nell’Italia del centro-nord negli

anni Sessanta-Settanta del Novecento. Si tratta del periodo del cosiddetto boom

economico, la fase di grande sviluppo delle industrie che attirano manodopera

dalle campagne. Mentre queste rapidamente si spopolano, viene abbandonato e

ripudiato lo stile di vita contadino, considerato foriero di miserie in contrasto con la

dimensione del benessere che l’industrializzazione portava con sé. Sono anni

all’insegna della dimenticanza, è forte il desiderio di “perdere ciò che ci portiamo

dietro”, “l’odore di vacca e di stalla”. In quel periodo mondi sicuramente di

sofferenza, povertà e miseria, ma anche di competenze e di saperi vengono

cancellati, si vogliono dimenticare236. La museografia spontanea nasce come

risposta a tale tendenza all’oblio, come “coscienza del prezzo pagato per il

passaggio ad una vita migliore”237. Creati in stretto rapporto con i rigattieri e le

discariche di colpo piene di oggetti del mondo contadino, i primi musei etnografici

cercano di “trovare l’ordine smarrito delle cose”238. La raccolta di manufatti diventa

importante per fissare la memoria in un’immagine meno turbinosa del passato e in

situazioni, come quella dell’arco alpino occidentale, caratterizzate da una forte

diaspora, essi contribuiscono a mantenere nel luogo di origine un centro

simbolico.

Alcuni musei della montagna cuneese corrispondono a questo modello di genesi.

Si tratta, a mio avviso, delle istituzioni più antiche presenti sul territorio o di quelle

gestite e create da persone ancorate a una visione nostalgica del passato. Come

sottolineato in precedenza, numerose pubblicazioni239

mostrano la crescita

esponenziale di musei etnografici in Piemonte e in area montana. Nonostante le

caratteristiche che accomunano queste realtà e che sono chiaramente percepibili

236

Clemente P., “La poubelle agréée : oggetti, memoria e musei del mondo contadino” in Parole Chiave 9. La memoria e le cose, Donzelli, Roma, 1996. 237

Cirese A. M., “Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine”, Einaudi, Torino, 1977. 238

Clemente P., (op. cit.). 239

Cito due esempi: Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009 e Bravo G.L., “Feste, masche, contadini: racconto storico- etnografico sul basso Piemonte”, Carocci, Roma, 2005.

117

anche dopo una prima visita, altrettante sono le differenze rilevabili. I musei

etnografici presentano delle diversità nel modo in cui sono gestite, studiate,

analizzate le collezioni; nell’allestimento stesso e nel rapporto con le moderne

tecniche espositive; nei programmi rivolti ai visitatori così come nel coinvolgimento

delle comunità locali. La definizione stessa di museo etnografico sembra aver

subito una dilatazione, una contorsione fino a comprendere al suo interno

fenomeni molto diversi accomunati solo da “somiglianze di famiglia”240.

In tale mosaico di complessità e di varietà mi è parso di cogliere una tendenza

recente ascrivibile ad alcune aree montane di particolare fervore creativo. Tra

queste zone alpine attente al contesto culturale locale mi sentirei di includere

anche la val Varaita. Se spostiamo l’attenzione dalle collezioni ai protagonisti,

dagli oggetti e tecniche espositive a coloro che hanno fondato i musei, emergono

dinamiche interessanti.

I curatori delle realtà etnografiche varaitine fanno parte di categorie professionali

diverse, tra di loro vi sono studenti, insegnanti, artigiani, architetti, commercianti e

anche qualche pensionato. Il lavoro svolto dai miei informatori e le loro esperienze

di vita li ha messi in contatto con le strutture sociali contemporanee, ambiti in cui

essi appaiono attivi e dinamici. I gestori delle realtà etnografiche con le quali sono

entrata in contatto non sono persone chiuse, immerse in un passato rurale. Essi

sembrano interagire in modo particolare con tale dimensione temporale: in valle gli

anni de “Il mondo dei vinti”241 sono lontani, il passato non è più fonte di imbarazzo

o di vergogna, né si guarda ad esso con nostalgia. I musei non nascono più come

contraltare di una generale tendenza all’oblio ma sembrano ancorarsi in un

contesto in cui pare sorpassato il “complesso di subalternità nei confronti della

civiltà urbana” così ben teorizzato da Camanni242.

Con il passato, infatti, è necessario avere un rapporto organico in quanto al suo

interno si trovano le fonti del sentimento di appartenenza, i fondamenti di ciò che

riteniamo dovere essere. Il passato deve essere individuato, selezionato e

riconfermato, perderlo è un rischio perché mina le basi della rivendicazione

identitaria. Quest’ultima tuttavia può essere preclusa da un eccessivo

avvicinamento a tale dimensione temporale, dalla quale è quindi necessario,

240

Wittgenstein L., “Ricerche filosofiche”,Einaudi, Torino, 1983. 241

Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002. 242

Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.

118

contemporaneamente, allontanarsi. Il passato, tuttavia, non è una dimensione

oggettivamente data e definita, il colonialismo ha dimostrato come, per quei popoli

che l’hanno subito, si sia creata la necessità non solo di ripristinare un rapporto

con il passato, ma anche di sceglierne uno. Proprio l’esperienza delle devastazioni

coloniali ha dato prova dell’esistenza di una pluralità di passati i quali attendono di

essere rintracciati e immaginati per porsi come ispiratori e fautori del senso di

appartenenza a un contesto culturale e sociale. Tuttavia non esistono dei passati

preconfezionati, al contrario questi sono oggetto non soltanto di scelta, ma anche

di costruzione. Tutte queste caratteristiche, la discontinuità, la molteplicità, la

capacità di essere oggetto di selezione, rappresentazione, costruzione ed anche

di reificazione, spostano l’attenzione dal passato al presente. È a partire da un

presente, da un Noi in un presente che un certo passato prende corpo e si

costruisce una storia. Le due dimensioni così indicate hanno quindi un rapporto

bidirezionale: le caratteristiche, le necessità del presente costruiscono il passato;

quest’ultimo, così delineato, ispira il presente nella sua inevitabile progettualità di

futuro243.

Attraverso le loro esposizioni e attività, a mio modo di vedere, i musei etnografici

varaitini sviluppano un tipo di rapporto organico con il passato. Come è chiaro, i

modelli socio culturali degli avi non vengono più riproposti nel presente, tuttavia da

essi si attinge per agire nella contemporaneità. La rivalutazione di un passato

scelto e selezionato è l’assunto di partenza per vivere nell’oggi, per affermarsi

come presenza culturale. Il rapporto così definito con tale dimensione temporale si

accompagna alla risemantizzazione del contesto culturale in cui sorgono i musei.

Le realtà etnografiche, infatti, si fanno portatrici di un processo di individuazione e

definizione dei beni DEA presenti sul territorio, in un’ottica di tutela e

valorizzazione del patrimonio culturale così delineato.

Attraverso i processi di rivalutazione del passato e di ridefinizione della

dimensione culturale locale, i musei di valle e i loro curatori si fanno portatori di

una nuova visione della Forma di Umanità244 abitante lo spazio alpino. Questo

243

Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999. 244

Espressione utilizzata dal Professor Remotti in Remotti F., “Prefazione”, in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999.

119

fenomeno, al quale mi piace pensare in termini di antropopoiesi245, è anche una

scelta ideologica che, a mio avviso si articola in due componenti. In val Varaita,

come è chiaro, non è presente una totale adesione né ai modelli considerati

tradizionali, derivati dal passato, né a quelli urbani. Secondo Valentina Porcallana

è possibile parlare di colonizzazione dello spazio alpino da parte della città. Le

popolazioni di montagna subirono la presenza massiccia di un altro gruppo

umano, sperimentarono l’imposizione di una diversa dimensione della temporalità

e della spazialità, cui fece da contraltare la frantumazione culturale, la perdita del

senso di sé e del proprio ruolo sociale246. Un fenomeno analogo è stato riscontrato

anche da Camanni. Il complesso di subalternità nei confronti della civiltà urbana

teorizzato dall’autore presuppone una “colonizzazione dell’immaginario”247

finalizzata a uniformare il contesto culturale ed economico alpino a modelli

cittadini. Attualmente però sul territorio mi è parso di cogliere se non un rifiuto

dello stile di vita e dei modelli di consumo urbani, sicuramente la necessità di

adattarli al territorio. A più voci, inoltre, viene criticata quella modernità paventata

dai modelli urbani, la quale non si è dimostrata foriera del benessere che pareva

promettere. La modernità, per essere tale, prende le distanze da qualsiasi tipo di

cultura e tradizione. Essa ha la pretesa di essere non una Forma di Umanità tra le

tante, ma l’unica possibile e corretta. Tale concezione si radica nell’idea propria

della modernità di basarsi sulla conoscenza della natura, una conoscenza che le

245

Secondo Francesco Remotti, l’essere umano modella costantemente società e cultura perché tramite tale fenomeno egli plasma se stesso ed ottiene il completamento di cui ha bisogno. In antropologia culturale, Clifford Geerz riprende il tema dell’uomo come animale “difettoso”, “incompiuto”, incapace di sopravvivere facendo affidamento sulle sole caratteristiche biologiche. La cultura interviene a colmare le lacune intrinseche la specie umana e diviene quindi strumento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Come sostiene Herder, l’apparato culturale è una seconda genesi dell’uomo che dura tutta la vita. La cultura ha quindi un compito antropogenetico irrinunciabile ma anche continuo, incessante ed inevitabilmente arbitrario e contingente. La prospettiva antropogenetica, tuttavia, rifiuta qualsiasi forma di determinismo culturale perché non reifica società e cultura. Queste non sono entità indipendenti rispetto alle persone, al contrario esse sono delle creazioni dell’uomo, attraverso le quali egli plasma se stesso. L’antropogenesi assume quindi le caratteristiche anche di antropopoiesi. Secondo tale prospettiva, l’essere umano è dotato di un certo grado di libertà nel momento in cui costruisce se stesso. Tale forma di autodeterminazione si traduce anche in una mancanza di modelli fissi, di forme di umanità cui attingere. Il processo di antropopoiesi è quindi assolutamente arbitrario ma ammettere questa caratteristica significherebbe indebolirne l’efficacia. Al fine di evitare tale delegittimazione si dotano i modelli di umanità di indipendenza e autonomia, rinnegando la libertà di scelta e considerandoli un’imposizione di “altri”, come gli antenati o gli spiriti. 246

Porcellana V., “Il paese dove le galline beccano le stelle. Riflessioni antropologiche sul mondo alpino contemporaneo”, in Giordano E., Delfino L., Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità, Priuli & Verlucca, Torino, 2009. 247

Gruzinski S., “La colonizzazione dell’immaginario. Società indigene e occidentalizzazione nel Messico spagnolo”, Einaudi, Torino, 1994.

120

permetterebbe di svelare e far conoscere al mondo le strutture naturali

dell’umanità. Espandendosi la modernità ha distrutto le peculiarità locali che

incontrava sul suo cammino senza poter realizzare strategie differenti in quanto la

Forma di Umanità che propone non permette diversità248.

A mio modo di vedere, le politiche di patrimonializzazione condotte dai curatori

dei musei etnografici varaitini si fanno portatrici di questo particolare rapporto sia

con la modernità, sia con quegli aspetti della propria cultura percepiti come

tradizionali. Il contatto con l’alterità, intesa tanto in senso spaziale e sincronico,

tanto in senso temporale e diacronico, fornisce piuttosto una serie di elementi che

vengono reinterpretati, deviati in circoli interpretativi impregnati di località, fino a

considerarli facenti parte del proprio essere Umanità nel presente249.

I curatori delle realtà etnografiche di valle possono essere descritti come dei

montanari “per scelta”250, mi pare che essi sviluppino “un’alpinità progettata”251,

fatta di amore per il territorio e di attività concrete per rendere dinamico e creativo

il contesto culturale locale. Una parte di queste persone, come Fabrizio Dovo,

Ilaria Peyracchia e il compianto Sergio Ottonelli, similmente ai passeurs culturels

d’oltreoceano descritti da Adriano Favole e Matteo Aria252, si sono formati in

contesti diversi da quelli di origine. Il loro ritorno sulle montagne si è concretizzato

in un processo di “rivalorizzazione di luoghi, memorie e tradizioni”253 anche

attraverso saperi imparati in contesti diversi. Alcuni fondatori delle realtà

etnografiche alpine, tra cui mi pare di poter annoverare parte dell’associazione

“Jer à la Vilo”, la famiglia Ottonelli e di nuovo Ilaria Peyracchia, ha invece scelto di

abitare la montagna. Tale decisione non appare sempre indolore perché sono

ancora numerose le difficoltà connesse alla mancanza dei servizi essenziali, agli

spostamenti non agevoli, e alla penuria di lavoro. Queste persone cominciano a

parlare della loro scelta come “eticamente”, “politicamente”, “ecologicamente”

corretta, oppure, più semplicemente ma in modo altrettanto esplicativo, come una

scelta di affezione, nonostante le difficoltà dell’isolamento e della solitudine. Sul

campo parrebbe essere percepibile non più una dinamica di spopolamento, ma di

248

Remotti F., “Prima lezione di antropologia”, Laterza, Bari, 2000. 249

Remotti F., (op. cit.), 1999. 250

Camanni E., (op. cit.). 251

Espressione ripresa dall’intervento di Giuseppe Dematteis al Primo Forum sul Patrimonio culturale nell’ambito del Piano Integrato Transfrontaliero PNM/PNAM. 252

Aria M., Favole A., “Passeurs culturels. Patrimonializzazione condivisa, creatività culturale nell’Oceania francofona”, articolo di prossima pubblicazione. 253

Ibidem.

121

sottopopolamento, tale per cui coloro che vivono l’arco alpino non guardano con

nostalgia al passato o con invidia all’area urbana, ma ragionano in termini concreti

per creare le possibilità di continuare a vivere il territorio.

122

CONCLUSIONE

I paragrafi che chiudono i capitoli della tesi trattano di quello che Daniele Jalla

definisce “il sistema di regole proprio di un museo”. Ognuno di essi, quindi,

affronta rispettivamente la sede, le collezioni, il pubblico e i protagonisti delle

realtà etnografiche varaitine. Rispetto ai paragrafi precedenti, che si caratterizzano

per essere incentrati su un museo specifico e sul suo territorio, quelli conclusivi

tentano un’analisi comparativa delle strutture e sviluppano riflessioni di carattere

generale. In conclusione vorrei riprendere quanto detto in queste sezioni per

fornire un quadro d’insieme del mio lavoro.

In relazione alla sede dei musei etnografici varaitini, quasi tutte le realtà con le

quali sono entrata in contatto sono ubicate in edifici di grande pregio

architettonico. Il Museo Storico-Etnografico di Sampeyre si trova in un’antica casa

nobiliare mentre risalgono al Settecento il fienile che ospita il Museo del Mobile,

l’abitazione che accoglie il Museo del Tempo e delle Meridiane, il convento

cappuccino che è sede del Museo del Costume di Chianale. Oltre all’intrinseco

valore storico-artistico di queste strutture, ciò che a mio avviso è veramente

interessante è il fatto che esse siano in montagna. Dare una definizione di tale

territorio è un atto tutt’altro che scontato, nonostante esso si imponga allo sguardo

nella sua materialità tangibile fatta di roccia, neve, boschi, prati, strade e

insediamenti. Nel suo libro “Le Alpi”, Bätzing dimostra chiaramente come sia

possibile dare una definizione diversa dello spazio alpino a seconda del soggetto

interpellato: le scienze naturali, i turisti, gli agricoltori, i geografi, la Convenzione

delle Alpi e l’Unione Europea forniscono tutti una loro interpretazione diversa della

montagna254. La materialità così tangibile delle Alpi, quindi, non rende affatto

univoche le idee che associamo loro.

Quando sono partita per il campo avevo anch’io la mia “idea” di montagna. Quello

che mi aspettavo di trovare era una valle completamente spopolata, con gravi

difficoltà economiche e, di conseguenza, anche priva di creatività culturale.

Questa interpretazione era dettata da una serie di letture come Nuto Revelli255 e lo

stesso Bätzing. In effetti la val Varaita, come sostengono gli autori ma anche

254

Bätzing W., “Le Alpi. Una regione unica al centro dell’Europa”, Bollati Boringhieri, Torino, 2005. 255

Revelli N., “Il mondo dei vinti”, Einaudi, Torino, 2002.

123

alcune mie persone risorsa, è caratterizzata da una grave decrescita demografica

e da una serie di problematiche nel tessuto economico. La conclusione a cui ero

giunta, ovvero la mancanza di progettualità, di dinamicità in ambito culturale, era,

invece, errata.

Le Alpi cuneesi, salvo qualche eccezione256, non sono state fortemente

condizionate dal decentramento industriale e dal turismo di massa che ha

interessato altri territori montani. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento al

presente, arco temporale preso in considerazione da Bätzing, esse sono state

caratterizzate da una perdita di popolazione dai toni drammatici. I settori

economici tradizionali, infatti, sono andati in crisi e non sono stati efficacemente

sostituiti con attività diverse257. Coloro che abitavano la montagna cuneese hanno

cominciato a cercare fortuna altrove: in Francia, seguendo percorsi già tracciati

dalla migrazione temporanea dei loro avi, o in pianura, dove nella seconda metà

del Novecento fabbriche come la Michelin di Cuneo e la Fiat di Torino, hanno

cominciato ad attirare mano d’opera. La val Varaita rientra in questa casistica: nel

periodo indicato, tutti i Comuni sopra i cinquecento metri hanno subito una

decrescita demografica sconcertante, con valori compresi tra il -91% di Valmala e

Isasca e il -80% di Sampeyre258. Anche in questa porzione di arco alpino, lo

spopolamento e le problematiche nel tessuto economico si manifestavano in

parallelo, influenzandosi a vicenda.

Nonostante lo spopolamento e le difficoltà economiche, la valorizzazione del

patrimonio culturale locale è sempre stata molto attiva. Si tratta di un fenomeno

osservabile, a mio avviso, in un arco di tempo più vicino ai giorni nostri: quello che

va dagli anni Settanta al presente. In questo periodo, in val Varaita, sono state

realizzate numerose pubblicazioni, alcuni filmati, diversi restauri di elementi

architettonici di pregio e di interesse antropologico, sono state proposte feste

nuove e si sono mantenute quelle tradizionali, viene coltivata la musica occitana e

sono editi due periodici che trattano temi strettamente legati al territorio. Gli attori

di queste proposte hanno età differenti e non mancano ragazzi anche molto

giovani. L’arco temporale preso in considerazione, tuttavia, non è stato omogeneo

in quanto a progettualità realizzate. Negli anni Sessanta e Settanta, infatti,

256

Mi riferisco alla valle Vermenagna e a Limone Piemonte, meta sciistica piuttosto nota. 257

Bätzing W., (op. cit.). 258

www.istat.it

124

l’attenzione alla lingua e alla cultura occitana era più marcata, come dimostra la

nascita di numerose associazioni, anche a carattere politico, create all’epoca per

tutelare questa particolare specificità culturale della valle. Con il tempo mi pare

che tale interesse sia in parte scemato a favore di altre progettualità come, ad

esempio, la riproposta di alcune feste e la realizzazione di musei etnografici. Si

tratta di realtà che sembrano dialogare in modo privilegiato con l’arco alpino

cuneese se si pensa che sul territorio il 67% dei Comuni sopra i 700 metri di

altitudine possiede un museo di questo tipo. La percentuale sale a quote molto

vicine al 100% intorno ai mille metri sopra il livello del mare.

I primi musei etnografici delle valli cuneesi sono stati istituiti negli anni Settanta del

Novecento. Si tratta di realtà che mi pare possano rientrare in quella corrente di

museografia spontanea che nasce all’incirca nello stesso periodo nell’Italia

centrosettentrionale. All’epoca, lo sviluppo industriale e i posti di lavoro che esso

offriva assorbirono mano d’opera dalle campagne. Il boom economico, la

“modernità”, prometteva il benessere e proponeva uno stile di vita in netto

contrasto con quello contadino. Mentre la campagna si spopolava, mentre si

abbandonava un mondo di sofferenze e miserie, si perdevano anche i saperi e le

competenze che comportava l’abitare in quei territori. Il passato contadino

diventava fonte di vergogna ed era forte il desiderio di dimenticarlo, di cancellarlo.

Gli oggetti che facevano parte di questa realtà venivano gettati via, ed è proprio

dall’immondizia, dai rigattieri che i primi musei etnografici attinsero per formare le

loro collezioni259. Essi nascevano in contrasto con questa tendenza all’oblio, per

costruire la memoria di un mondo che stava scomparendo. La raccolta di oggetti

diventava lo strumento principe per mantenere vivo il ricordo, per raccontare la

storia di un territorio260. Mi pare che i primi musei etnografici di montagna nascano

con delle finalità e in un contesto molto simili. I modelli culturali urbani, con i quali i

montanari entrarono in contatto a seguito della colonizzazione dello spazio alpino

e della migrazione, generarono un sentimento di inadeguatezza e di vergogna per

le proprie origini261. Anche in montagna, quindi, le prime realtà etnografiche

facevano da contraltare al desiderio di dimenticare il passato e anzi sono state

costruite proprio per alimentarne il ricordo.

259

Rappresentativo, in tal senso, è il lavoro svolto da Ettore Guatelli a Ozzano Taro (PR) 260

Clemente P., “La poubelle agrée: oggetti, memoria e musei del mondo contadino”, in Parole Chiave n. 9 La memoria e le cose, Donzelli, Roma, 1996. 261

Camanni E., “La nuova vita delle Alpi”, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.

125

Tuttavia, solo una parte limitata dei musei etnografici alpini nascono negli anni

Settanta e possono corrispondere al modello di genesi indicato. In val Varaita, ad

esempio, soltanto la realtà sampeyrese affonda le sue radici in quel periodo,

anche se si costituisce concretamente come tale un decennio dopo. Numerosi

studi, infatti, testimoniano la crescita esponenziale di musei etnografici che si è

avuta in Piemonte e nell’arco alpino regionale negli ultimi trent’anni262. Il caso della

val Varaita testimonia questa tendenza in quanto tre dei suoi cinque musei sono

stati istituiti a partire dal 2000. Le realtà varaitine più recenti si ancorano in un

contesto molto diverso, che guarda con orgoglio alle proprie origini e che tutela e

valorizza in modo consapevole il proprio patrimonio culturale.

Rispetto ai musei etnografici nati negli anni Settanta, quelli più recenti presentano

delle differenze anche nelle modalità con cui si sono formate le collezioni. Ad

eccezione di Sampeyre, infatti, che ha salvato dall’immondizia alcuni dei suoi

oggetti, tutte le altre realtà etnografiche varaitine hanno comprato o preso in

prestito i beni che espongono. Anzi, mi pare di poter affermare che la

maggioranza delle collezioni locali si siano formate proprio grazie alla donazione o

al prestito dei manufatti. Con il passare del tempo e l’aumentare dei musei, il

rapporto privilegiato con i rigattieri è stato sostituito dalla stretta relazione con gli

abitanti del paese. Le scelte espositive locali, in molti casi, sono il frutto di questo

rapporto particolare. I curatori dei musei con i quali sono entrata in contatto, infatti,

hanno più volte sottolineato la volontà di esporre tutto quello che veniva loro

donato. Questa modalità allestitiva è finalizzata a coinvolgere la popolazione

locale e a sviluppare un sentimento di affezione nei confronti della struttura, ma

viene vista anche come una sorta di “ritorno” del contributo dato alla costruzione

della collezione e quindi del museo.

Visitando le realtà etnografiche di valle risulta subito evidente come gli oggetti

siano il fulcro delle esposizioni locali. La mancata attenzione al patrimonio

immateriale può essere spiegata facendo riferimento al rapporto particolare

instaurato con coloro che hanno donato i manufatti ma, a mio avviso, si tratta di un

fenomeno causato anche da altre motivazioni. In alcuni casi, infatti, quando i

curatori dei musei sono anche i fautori della collezione, essi assumono le

262

Cito due esempi: Sibilla P., Porcellana V., “Alpi in scena: le minoranze linguistiche e i loro musei in Piemonte e Valle d’Aosta”, Daniela Piazza, Torino, 2009 e Bravo G.L., “Feste, masche, contadini: racconto storico- etnografico sul basso Piemonte”, Carocci, Roma, 2005.

126

caratteristiche proprie del collezionista. Questi vedono negli oggetti “qualcosa di

più e di altro” rispetto ai semplici proprietari, i manufatti sono svuotati delle loro

relazioni funzionali per essere considerati portatori di significati diversi. Questa

sorta di fascinazione che i collezionisti subiscono nei confronti degli oggetti, li

spinge a desiderarli e contemplarli in quanto tali, indipendentemente dal fatto che

essi siano stati ricercati per far parte di un museo263.

Se i beni materiali godono di così tanta considerazione all’interno delle realtà

etnografiche della val Varaita è anche perché essi fanno parte di una politica della

memoria volta a rivalutare il passato. Gli oggetti sono visti come lo strumento

privilegiato per trasmettere il rinnovato orgoglio con cui si guarda al contesto

culturale degli avi. I manufatti sono dei semiofori, dei portatori di significato264

perché raccontano la storia di un territorio in cui le origini montanare non sono più

fonte di vergogna, in cui il complesso di subalternità nei confronti della società

urbana265 è ormai sorpassato. I beni esposti, a mio avviso, praticano una nostalgia

aperta266 che non guarda con rimpianto ad un passato perduto, ma che da esso

attinge per interpretare il presente e per agire nella contemporaneità. Le realtà

museali, infatti, oltre alle modalità espositive indicate prima, propongono una serie

di attività sul territorio davvero consistenti. La realizzazione di dvd, pubblicazioni,

mostre, conferenze, restauri, solo per citare qualche esempio, non sono eventi

scontati in un contesto caratterizzato da problematiche di tipo demografico ed

economico. La rivalutazione del passato, anche grazie agli oggetti che ne

facevano parte, è l’assunto di partenza per presentare progetti che animano il

tessuto culturale locale. Queste attività fanno dei musei etnografici dei luoghi di

dinamicità e di creatività, dei centri di risorse per il territorio.

L’importanza di veicolare la memoria del paese determina anche il rapporto

instaurato con i visitatori delle realtà etnografiche varaitine. Incrociando le stime

relative al numero di residenti, delle seconde case e dei villeggianti estivi267

,

emerge come questi musei siano piuttosto frequentati durante il loro periodo di

apertura. Tuttavia, sarebbe poco corretto non sottolineare come gran parte dei

263

Benjamin W., “Parigi capitale del XIX secolo: i passages di Parigi”, Einaudi, Torino, 1986. 264

Pomian K., “Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi- Venezia XVI- XVII secolo”, Il Saggiatore, Milano, 1997. 265

Camanni E., (op. cit.). 266

Bodei R., “La vita delle cose”, Laterza, Roma, 2009. 267

Dati desunti grazie alla collaborazione dei Comuni con i quali sono entrata in contatto e dal sito www.regione.piemonte.it

127

visitatori siano i turisti che si recano sul territorio nella bella stagione. Le cifre

molto elevate presenti in qualche caso non possono essere state raggiunte solo

con i residenti o con gli abitanti delle seconde case, anche nel caso in cui

avessero ripetuto l’ingresso. Il numero di abitanti, del resto, è talmente esiguo da

non permettere di tenere aperte le strutture durante l’inverno. Lo sfruttamento

della risorsa turistica, inteso non solo in termini di intrattenimento dei villeggianti,

ma anche come proposta di un turismo lento e attento alle caratteristiche del

territorio, non sembra rientrare nella missione dei musei varaitini. I curatori,

sebbene compiaciuti dall’interesse sollevato in persone che non popolano la valle,

hanno come fine la conservazione della memoria del paese. Essi sembrano quindi

più attenti al riscontro con il contesto locale e con coloro che hanno donato gli

oggetti piuttosto che con i turisti estivi.

Anche dal rapporto con il pubblico emerge, quindi, il legame con il territorio e il

desiderio di rivalutarne e ricordarne il passato. Queste caratteristiche, come già

detto, sono però proiettate nella contemporaneità. Le politiche della memoria

condotte dai musei con i quali sono entrata in contatto si fanno portatrici di un

processo di individuazione dei beni culturali presenti sul territorio. Sono i curatori,

le associazioni che gestiscono le realtà etnografiche, che sottolineano e

rivendicano la rilevanza culturale dei mobili, dei vestiti tradizionali, delle meridiane,

dei piloni votivi. Con le loro attività e le loro scelte espositive, i musei etnografici di

valle costruiscono di fatto il patrimonio locale. Queste pratiche di

patrimonializzazione rappresentano un’ulteriore modalità di azione nel presente

alpino, un altro modo per agire nella contemporaneità.

La selezione e rivendicazione del patrimonio può essere considerata come il

tentativo di dare forma ai gruppi sociali. “Avere” una cultura, possedere e

valorizzare i beni culturali del territorio, contribuisce a reificare la storia e l’identità

di un popolo268

. Se esiste un legame tra un soggetto e le cose che possiede

perché queste contribuiscono a definire l’individuo, allora il patrimonio diventa

l’essenza stessa di un Noi, contribuisce a determinare le Forme di Umanità.

Tuttavia, non è sufficiente avere una cultura e una storia, le affermazioni di

268

Maffi I. (a cura di), “Introduzione”, in Antropologia anno 6 n.7, Meltemi, Roma, 2006.

128

proprietà da parte di una collettività devono essere riconosciute da altri269. Le

strategie atte a definire i beni culturali, quindi, possono avere delle implicazioni di

carattere politico ed essere la posta in gioco in relazioni di potere più o meno

asimmetriche270. La pratica museologica si inscrive in queste dinamiche in quanto

essere rappresentati in un museo, avere la possibilità di mostrare il proprio

patrimonio culturale in una di queste strutture, significa essere riconosciuti come

presenza culturale271.

L’attenzione che gli oggetti godono nelle scelte espositive dei musei etnografici

varaitini, può forse essere pensata come il tentativo di delineare dei beni culturali

che contribuiscano a definire l’essere “montanaro” nel presente. Il patrimonio così

selezionato dà forma ai gruppi sociali locali in un tentativo di resistere alla “crisi

della presenza”272 riscontrabile in valle. Se le realtà etnografiche varaitine possono

essere considerate dei centri di risorse per il territorio, dei luoghi in cui si vive il

presente della montagna, è anche perché, attraverso le loro pratiche di

patrimonializzazione, sono un tentativo di reazione alla marginalità non solo

economica, ma anche culturale che caratterizza questa parte di Alpi piemontesi273.

Se spostiamo l’attenzione dalle collezioni ai protagonisti, dalle modalità con cui

sono esposti gli oggetti a coloro che hanno creato e animano i musei etnografici di

valle, emerge un altro fenomeno interessante. Queste persone fanno parte di

categorie professionali diverse: vi sono insegnanti, impiegati, artigiani, studenti,

commercianti e anche alcuni pensionati. Ciò che accomuna i curatori è l’interesse

per il patrimonio culturale locale e lo sviluppo di progettualità atte a valorizzarlo

anche all’esterno dell’ambito museale. Le associazioni che gestiscono le realtà

etnografiche, infatti, spesso sono attive anche in eventi e manifestazioni che non

riguardano direttamente il museo. Un caso emblematico è quello di Casteldelfino:

il gruppo “Jer à la Vilo” ha realizzato due dvd, altrettante pubblicazioni, un paio di

mostre e alcuni restauri, per citare solo qualche esempio, senza coinvolgere

direttamente la struttura che gestisce. Anche una recente esposizione temporanea

269

Handler R., “Avere una cultura. Nazionalismo e preservazione del patrimoine del Quebec”, in Stocking jr. G. W. Gli oggetti e gli altri. Saggi sui musei e sulla cultura materiale, Ei Editore, Roma, 2000. 270

Maffi I., (op. cit.). 271

Alpers S., “Il museo come modo di vedere”, in Karp I., Lavine S. D. (a cura di), Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995. 272

De Martino E., “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, Torino, 1977. 273

Camanni E., (op. cit.).

129

è stata allestita altrove: all’interno della chiesa di Sant’Eusebio che era stata

ristrutturata grazie all’interessamento dell’associazione. Il Museo del Mobile di

Pontechianale fornisce un altro esempio interessante del coinvolgimento dei

gestori in attività culturali che esulano da quelle realizzate con la realtà

etnografica. Celeste Ruà ed Enrica Paseri, infatti, animano le feste locali

proponendo brani di musica popolare che lui suona e lei canta.

La volontà di partecipare a eventi culturali differenti è un fenomeno molto

interessante. Le attività realizzate dai musei e, in parallelo, quelle portate avanti in

occasioni diverse dai loro gestori, fanno pensare a una montagna creativa, che

cerca di vivere la contemporaneità senza farsi vincere dalle difficoltà che essa

porta con sé. I musei etnografici varaitini possono essere considerati dei centri di

risorse per il territorio anche a causa della dinamicità delle persone che li

gestiscono. Queste ultime, a mio avviso, si fanno portatrici di una diversa visione

del Noi abitante lo spazio alpino.

Il delinearsi di una nuova Forma di Umanità, un fenomeno al quale mi piace

pensare in termini di antropopoiesi, si manifesta attraverso l’opera di queste

persone sul territorio. I musei etnografici varaitini, come già detto, attraverso le

loro scelte allestitive e le loro progettualità, definiscono il patrimonio culturale

locale. Questo processo di patrimonializzazione mi sembra che emerga anche

dalle attività realizzate in altri contesti dai loro curatori. L’identificazione del

patrimonio locale può essere pensata come un tentativo di costruzione del proprio

universo culturale e sociale. La scelta di animare il territorio con mostre,

conferenze, pubblicazioni, dvd, restauri ma anche con la musica e le feste, tutte

attività nelle quali i musei o i loro gestori sono coinvolti a vario titolo, è dettata e

risponde ad esigenze locali. Le attività realizzate non sono state proposte nel

tentativo di incrementare l’appeal turistico dell’area e anche laddove questa

dimensione sia presa in considerazione e apprezzata, essa non nega il carattere

principale di queste manifestazioni: incrementare la vivibilità locale, lottare contro

la “crisi della presenza”274.

La creazione della dimensione culturale implica un processo di allontanamento e

contemporaneamente di avvicinamento al passato. Questo deve essere

selezionato e riconfermato perché attraverso di esso si gettano le basi per la

274

De Martino E., “La fine del mondo: contributo all’analisi delle apocalissi culturali”, Einaudi, Torino, 1977.

130

rivendicazione identitaria e si formula il senso di appartenenza a un luogo e a una

cultura. Tuttavia il passato non è una dimensione oggettivamente data, al contrario

esso è discontinuo, molteplice, può essere oggetto di selezione, rappresentazione,

costruzione e reificazione. Si tratta di una serie di caratteristiche che spostano

l’attenzione alla dimensione contemporanea: è a partire da un Noi in un presente

che un passato si delinea come tale. Se le necessità del presente costruiscono il

passato, quest’ultimo, così creato, ispira il presente nella sua progettualità di

futuro275. Tale particolare rapporto con questa dimensione temporale è visibile non

solo, come detto precedentemente, nella gestione delle collezioni museali, ma

anche nelle attività svolte parallelamente dai gestori delle realtà etnografiche. I

musei varaitini guardano con orgoglio al proprio passato, in esso vi trovano i

fondamenti delle loro particolarità culturali, ma questa riflessione non conduce al

rimpianto di una dimensione perduta, è piuttosto la base per agire nel presente.

La rivalutazione di un passato scelto, selezionato e delineato per ispirare il

presente, a mio avviso, è l’assunto di partenza anche per criticare la “modernità”.

La costruzione di una Forma di Umanità è un processo ideologico che si articola in

due componenti. In val Varaita mi è parso di cogliere la necessità di adattare al

territorio i modelli culturali urbani importati a seguito di quella che Valentina

Porcellana definisce la colonizzazione dello spazio alpino276. Anche la modernità

da essi paventata, che distrugge le peculiarità locali e prende le distanze da

qualsiasi tipo di cultura e tradizione277, è bersaglio di critiche. Tuttavia, se non è

presente una totale adesione ai modelli culturali urbani, si può cogliere un

allontanamento anche dalla tradizione e dal passato. L’Alterità, intesa sia in senso

spaziale e sincronico, sia in senso temporale e diacronico278, fornisce piuttosto

una serie di elementi che vengono fatti propri, adattati e risemantizzati per agire

nel presente.

I musei etnografici della val Varaita sono, quindi, un racconto279

. Narrano la storia

di un territorio che nonostante lo spopolamento, la speculazione edilizia e le colate

275

Remotti F., “Prefazione” in Bellagamba A., Paini A. (a cura di), Costruire il passato. Il dibattito sulle collezioni in Africa e Oceania, Paravia, Torino, 1999. 276

Porcellana V., “Il paese dove le galline beccano le stelle. Riflessioni antropologiche sul mondo alpino contemporaneo”, in Giordano E., Delfino D., Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità, Priuli & Verlucca, Torino, 2009. 277

Remotti F., “Prima lezione di antropologia”, Laterza, Bari, 2000. 278

Remotti F., (op. cit.), 1999. 279

Riflessione desunta dalla mostra “Quante storie. Il museo è un racconto”, ospitata nel centro di documentazione Valle Stura a Sambuco.

131

di cemento, la marginalizzazione economica e culturale, lotta per affermarsi

nell’oggi, per essere riconosciuto come una delle tante forme di contemporaneità. I

musei etnografici appaiono come uno dei luoghi in cui contrastare la crisi della

presenza, in cui ricostruire il tessuto culturale locale. Il racconto fatto dai musei è

in movimento, non si lascia rinchiudere all’interno degli edifici, delle sale

espositive, delle teche. La narrazione si espande per descrivere la capacità di un

popolo di rigenerarsi e ricostruirsi anche a partire dalle connessioni con l’esterno. I

musei etnografici sono dei centri di risorse e di creatività perché riflettono sulla

spiccata capacità delle culture umane di “riarticolare post modernità e

tradizione”280, di costruire Forme di Umanità. Essi presentano la valle non come

un “grumo di identità”, ma come una “sintesi creativa”281, in perenne divenire, una

riformulazione permanente282 che, nonostante le difficoltà, guarda al futuro.

280

Favole A., “Oceania. Isole di creatività culturale”, Laterza, Roma- Bari, 2010, pp. 101. 281

Ibidem pp. 34. 282

Tjibaou J.M., “La presence kanak”, Odile Jacob, Parigi, 1996.

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