UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA -...

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PADOVA Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova Dipartimento di Filosofia ___________________________________________________________________ SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN: FILOSOFIA INDIRIZZO: FILOSOFIA TEORETICA E PRATICA CICLO: XI MODI E ARTICOLAZIONI DEL PENSIERO NELL’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN COMPENDIO (1830) DI G.W.F. HEGEL Direttore della Scuola : Ch.mo Prof. Enrico BERTI Supervisore :Ch.mo Prof. Luca ILLETTERATI Dottorando : Sergio SORESI

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI

PADOVA

Sede Amministrativa: Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Filosofia

___________________________________________________________________

SCUOLA DI DOTTORATO DI RICERCA IN: FILOSOFIA

INDIRIZZO: FILOSOFIA TEORETICA E

PRATICA

CICLO: XI

MODI E ARTICOLAZIONI DEL PENSIERO

NELL’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE FILOSOFICHE IN

COMPENDIO (1830) DI G.W.F. HEGEL

Direttore della Scuola : Ch.mo Prof. Enrico BERTI

Supervisore :Ch.mo Prof. Luca ILLETTERATI

Dottorando : Sergio SORESI

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ABSTRACT

The dissertation concerns on the notion of thought in Hegelian philosophy, with particular reference to the Encyclopaedia of Philosophical Sciences in Outline (1830). More specifically, I have focused on the matter of the "objective thought". The theory of ‘objective thought’ can be characterized as an essential core of the Hegelian philosophy and, at the same time, as one of its most indigestible kernels. This theory, at the intersection of ontological and epistemological problems, on the one hand, is outlined as the particular way in which Hegel solves the problem of the relation between being and thought. On the other hand, it is the result of a powerful conceptual torsion carried out by Hegel on the notion of thought. This torsion consists, in a first approximation, in a strong enlargement of the extension of such a notion, articulated principally in two steps. In the first step, we have an enlargement within the finite subject, inside the mental, through which thought is declined in different ways. In the second step, we have the enlargement of thought to reality in all of its different spheres, natural and spiritual; here, thought, or its determinations, is conceived as its logic-rational structure. Following some recent readings of Hegelian philosophy, I have argued for a non-aprioristic interpretation of this structure, which intends it as essentially opened to transformation: as an immanent structure of the world opened to its transformations. In this perspective, I have underlined the importance of empiric sciences work for Hegelian philosophy. Philosophy would work on the material offered by the scientific disciplines a fit operation of change of categories to insert its results in a more comprehensive context, determined as an holistic system of conceptual determinations. I have held up that to admit a non-aprioristic rational structure of the world means to recognize that the transformation of the world can implicate the transformation of the determinations of its order, and therefore that it must implicate some transformations of the categories turned to its formulation. For this reason I have made reference to the importance of the auto-corrective element of sciences and of the reason in general. Beginning from this reading, I have argued that with the expression "objective thought", Hegel doesn't want to attribute the term “thought” to what is not spiritual, as, for instance, to point at a petrified intelligence in the nature, but to point at a rational form that constitutes the reality and which thought can reach. In other terms, the theory of the objective thought affirm the unity of thought and the objectivity through the form of the rational, form of the rational that the philosophical thought has the task to gather through its own justificatory process.

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ABSTRACT

La dissertazione verte sulla nozione di pensiero nella filosofia hegeliana, con particolare riferimento all’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio del 1830. In particolare, mi sono concentrato sulla questione del «pensiero oggettivo». La cosiddetta teoria del «pensiero oggettivo» è indicabile come un nucleo essenziale della filosofia hegeliana e, al contempo, come uno dei suoi noccioli più indigesti. Essa, infatti, all’incrocio di problemi di carattere ontologico e epistemologico, si profila da un lato come la particolare risposta della filosofia hegeliana alla questione del rapporto tra pensiero ed essere, e dall’altro come il risultato di una potente torsione concettuale attuata sulla nozione di pensiero. Tale torsione consiste, in prima approssimazione, in un deciso ampliamento dell’estensione di tale nozione che si scandisce essenzialmente in due passi. In primo luogo, abbiamo un ampliamento nel soggetto finito, all’interno del mentale, attraverso cui il pensiero viene declinato nei suoi differenti modi. In secondo luogo, abbiamo un’estensione del pensiero al reale, nelle sue differenti sfere, naturale e spirituale, secondo le loro modalità proprie, come loro trama logico-razionale. Appoggiandomi ad alcune letture recenti della filosofia hegeliana, ho sostenuto la possibilità di leggere tale struttura razionale come una struttura non-aprioristica, ma come essenzialmente aperta alla trasformazione: struttura immanente al mondo e dunque aperta alle sue trasformazioni. In questa prospettiva ho sottolineato l’importanza del lavoro delle scienze empiriche per la filosofia hegeliana. La filosofia compierebbe sul materiale offerto dalle discipline scientifiche particolari un’operazione di cambiamento di categorie atta a inserirne i risultati in un contesto più comprensivo, determinato come un sistema olistico di determinazioni concettuali. Ho sostenuto che ammettere una struttura razionale non-aprioristica del mondo significa riconoscere che la trasformazione del mondo può implicare la trasformazione delle determinazioni del suo stesso ordine, e dunque che deve implicare delle trasformazioni delle categorie volte alla sua formulazione. Per questo motivo ho fatto più volte riferimento all’importanza dell’elemento auto-correttivo delle scienze, alla rivedibilità delle teorie scientifiche, e della ragione in genere. A partire da questa lettura, ho cercato di sostenere che con l’espressione «pensiero oggettivo», Hegel non voglia attribuire il termine pensiero a quanto non è spirituale, come, p. e., indicare un’intelligenza pietrificata nella natura, ma indicare una forma razionale che costituisce il reale e a cui il pensiero può pervenire. In altri termini, la teoria del pensiero oggettivo affermerebbe l’unione del pensiero e dell’oggettivo attraverso la forma del razionale, forma del razionale che al pensiero filosofico spetta il compito di cogliere mediante il proprio processo giustificatorio.

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RINGRAZIAMENTI

Desidero portare un ringraziamento particolare alla mia dolce compagna, Antonella, - prima vittima delle mie assenze - la cui pazienza, durante la stesura di questo lavoro, è stata sottoposta ad un vero e proprio esercizio ascetico. Ringrazio inoltre gli amici, primo fra tutti il Prof. Luca Illetterati che, oltre ad essere stata una continua fonte di stimoli nel seguire la mia ricerca, mi ha sopportato con indulgenza e atteggiamento di stima forse immeritata. Alfonso Cariolato, il cui solo incontro bastava, nei momenti di debolezza nei confronti di questa strana cosa che è la filosofia, a rinvigorirmi, a darmi nuove forze per andare avanti. E indubbiamente i miei genitori e fratelli per la fiducia e il supporto sempre datimi.

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INDICE

Tavola delle abbreviazioni 10

INTRODUZIONE 11

PRIMO CAPITOLO

1. Introduzione 18

2. Delimitazione d’ambito 23

3. Distinzioni essenziali 25

4. Nachdenken 32

5. Nachdenken e scienze empiriche 34

6. Nachdenken filosofico 39

7. Conclusione 42

SECONDO CAPITOLO

1.Introduzione 44

1.1 Pensiero puro e rappresentazione 45

1.2 Pensiero puro e rappresentazioni non empiriche 46

1.3 Isolamento e connessione 48

1.4 Analogie del contatto empirico 50

2. La metafisica. Ovvero: il vecchio pregiudizio 52

3. La “vecchia metafisica” 59

4. La critica alla “vecchia metafisica” 60

TERZO CAPITOLO

1 L’empirismo e il grande principio dell’esperienza 65

2 Principio della libertà e scienze empiriche 68

3 La trasformazione (Umbildung) 70

3.1 La trasformazione in rappresentazioni e pensieri 71

3.2 Che cosa opera la trasformazione? 72

8

3.3 La trasformazione come cambiamento di forma 72

3.4 La trasformazione della riflessione 74

4 Considerazioni sul rapporto tra i differenti modi del pensiero e l’esperienza 76

A) Operazione della filosofia sul pensiero che pervade ogni esperienza umana 81

B) Operazione della filosofia sul pensiero che opera nelle discipline scientifiche

e che è da esse prodotto 84

4.1 Un esempio matematico 87

5 La critica all’empirismo 90

6. La filosofia critica 94

7 L’esame preliminare al conoscere 96

8 Il formalismo del pensiero 98

9 Un elemento intensionale nelle determinazioni del pensiero? 101

10 Critica al soggettivismo kantiano 106

QUINTO CAPITOLO

1. Il sapere immediato: il pensiero come attività del particolare 109

2 Sapere immediato della verità 115

3 Critica all’esclusività dell’immediatezza e giustificabilità fattuale 116

4 L’ancoraggio al fatto della coscienza 124

5. Piccola nota sulla giustificazione del sentimento e sul pregiudizio che

il pensiero annienterebbe l’elemento religioso 129

5.1 Il ricorso al sentimento e la sua giustificazione 132

5.2 Giustificazione storica del ricorso al sentimento 133

5.3 Giustificazione teorica del ricorso al sentimento 135

5.4 Critica al ricorso al sentimento come forma adeguata del rapporto religioso 137

SESTO CAPITOLO

1. Il pensiero come attività dell’universale 141

2 Pensiero sulla cosa e pensiero della cosa 151

3 L’universalità del pensiero come aspetto formale del pensiero oggettivo 152

4 Il pensiero della cosa come aspetto contenutistico del pensiero oggettivo 154

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SETTIMO CAPITOLO

1. Introduzione 160

2. Il naturalismo hegeliano: tra fisicalismo e dualismo 163

3. Critica alla psicologia empirica 166

4. Rapporto tra l’empirico e il filosofico nella spiegazione dello spirito finito 167

5. Discrepanza e continuità tra natura e spirito 169

6. L’io e il pensiero 172

7. La psicologia 179

8. Sensazione e intuizione 180

9. Dall’intuizione alla rappresentazione 183

10. Il pensiero 191

CONCLUSIONE 196

Breve excursus a mo’ d’ulteriore conclusione sull’uomo come ragione 218

Bibliografia 123

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TAVOLA DELLA ABBREVIAZIONI

(Enz.) Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830)

(PhG) Phänomenologie des Geistes

(RPh) Grundlinien der Philosophie des Rechts

(VGPh) Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie

(WL) Wissenschaft der Logik

(VPhR) Vorlesungen über die Philosophie der Religion

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INTRODUZIONE

La dissertazione verte sulla nozione di pensiero nella filosofia hegeliana, con

particolare riferimento all’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio del 1830.

Tale nozione, nella filosofia hegeliana, non è riducibile all’ambito d’indagine di una

teoria o filosofia della mente. Anche in quest’ultima, così com’essa è rintracciabile, per

esempio, nella sezione dedicata allo spirito finito della terza parte dell’Enciclopedia, i

diversi sensi e livelli in cui tale nozione è utilizzata, possono acquisire intelligibilità solo

a partire da problemi che travalicano lo sfera propria del mentale. Tale nozione sembra

presentarsi all’incrocio di problemi di carattere essenzialmente ontologico ed

epistemologico. Infatti, la torsione che la nozione di pensiero subisce sotto le mani di

Hegel consiste, in prima approssimazione, in un forte ampliamento della sua estensione.

Quest’operazione avviene principalmente in due momenti.

(A) In primo luogo, si ha un’operazione di ampliamento nel soggetto finito, all’interno

del mentale, compiuta in direzione di una posizione che non sia né intellettualistica né

anti-intellettualistica. Tale trasformazione è articolata secondo differenti modelli della

nozione di pensiero, a seconda del luogo sistematico in cui è situata: nell’introduzione;

nel Concetto preliminare, nella psicologia.

(B) Il secondo momento consiste nell’avanzamento di pretese di oggettività per il

pensiero, rispetto alle differenti sfere, naturale e spirituale, secondo le loro modalità

proprie, come loro trama logico-razionale. Con tale passo, reso possibile dalla

considerazione del pensiero nella sua razionalità, che, secondo la lettura qui proposta,

può essere concepita nei termini della capacita di auto-correzione del pensiero, e della

sua capacità di «approfondirsi nella Cosa», il pensiero “uscirebbe” dalla sfera mentale

solipsistica del soggetto empirico in cui la sua considerazione solo psicologica lo

rinchiuderebbe.

Un tale ampliamento, nella sua forma più radicale, corrisponde a quello che è stato

considerato uno dei noccioli più indigesti della filosofia hegeliana: la dottrina del

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«pensiero oggettivo». Tale indigeribilità traspare, nelle stesse parole di Hegel, dalla

«scomodità» con cui egli caratterizza l’espressione «pensiero oggettivo».

Hegel sembra infatti proporre un cambiamento radicale del modello con cui si è

pensato il pensiero, per lo meno nella filosofia moderna, da Descartes a Kant incluso.

Ossia, Hegel chiederebbe che non lo si consideri più solamente come una facoltà

accanto ad altre facoltà, quali, ad esempio, l’immaginazione, la sensibilità, la volontà, il

desiderio, e come il prodotto di tale facoltà. Attraverso tale ampliamento il termine

‘pensiero’, cioè, non designerebbe più solamente un particolare stato o attività mentale

di un soggetto finito, ma verrebbe ad estendersi alla realtà stessa come suo elemento

costitutivo. In questo senso, l’oggettività raggiunta dal pensiero attraverso la propria

razionalità, si riferirebbe anche al pensiero in quanto predicato al reale come la sua

razionalità. L’oggettività raggiunta dal pensiero del soggetto pensante che si “sprofonda

nella cosa”, da questa prospettiva sarebbe la stessa oggettività della cosa, cioè la sua

razionalità.

Al di là di quest’ultimo ampliamento semantico del termine “pensiero”, evidente

forzatura sia rispetto l’uso ordinario del termine che il suo uso nella tradizione

filosofica, largamente dipendente – in funzione polemica - dall’attribuzione della

razionalità al solo soggetto, piuttosto che un’estensione del pensiero alla realtà, si

vorrebbe sostenere che il pensiero, nella filosofia hegeliana, se è in grado di essere

oggettivo lo è in quanto capace di razionalità, razionalità che, per quanto sia implicita

nel reale e dunque nell’uomo stesso, dev’essere conquistata - il pensiero, così come

l’uomo, non è razionale di per sé, nella sua immediatezza. La forma del razionale è

conquistata dal pensiero solo con quella che Hegel indica come la sua più alta

determinazione.

Tuttavia, se la razionalità non è un dato, non è un qualcosa di immediato, ma un

prodotto, un qualcosa che si acquisisce attraverso pratiche e rapporti, cosa garantisce

che essa possa essere oggettiva, ossia che non vi siano più razionalità, determinate per

esempio dalla diversità delle culture, linguaggi, ecc.? E una volta ammesse più forme di

razionalità, come decidere tra due posizioni di razionalità differenti?

Che la razionalità non sia un dato, significa appunto che non c’è un qualcosa come una

razionalità determinata, ossia una razionalità concepibile come uno stato raggiunto o

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raggiungibile una volta per tutte. La razionalità non è che il farsi razionale tanto del

pensiero quanto delle strutture del reale, e dunque sia la presenza di più modi di pensare,

o come si direbbe oggi di più schemi concettuali, sia la possibilità della loro

comunicazione e trasformazione non può che avere come propria condizione la

razionalità così pensata1.

Una particolare declinazione del problema cui l’operazione hegeliana sulla nozione di

pensiero cerca di rispondere, negli ultimi decenni, è stata fornita da una parte della

letteratura hegeliana muovendo dall’ambito epistemologico: secondo quali condizioni è

possibile sostenere pretese di verità per un enunciato, senza dover aggiungervi un «per

me» o un «per noi»? Ovvero: come poter sottrarre la soggettività, ossia la caratteristica

della particolarità sia questa quella del soggetto finito, quella di una cultura, o ancora di

una forma di vita, come quella umana, ad un’esperienza in modo da poterne considerare

il contenuto in modo non relativo? L’operazione di Hegel in quest’ambito ha funzione

essenzialmente anti-rappresentazionalistica. Quest’operazione, a partire da una tale

declinazione, la si può rintracciare innanzitutto nel Concetto preliminare e nelle

Posizioni del pensiero rispetto all’oggettività. Per tal motivo, ben consapevole che si

potessero percorrere altre strade, si è scelto di concentrare il lavoro su queste sezioni,

arricchite poi, d’obbligo, nel capitolo finale, con l’analisi della sezione dedicata alla

psicologia.

Il paradigma moderno dell’epistemologia, che trova nel mentale un accesso

privilegiato alla verità rispetto alle cose del mondo esterno, grazie alla presunta

trasparenza alla coscienza dei propri stati mentali, che deriva dall’immediatezza del loro

darsi e dalla loro presenza alla coscienza, determina la verità come certezza soggettiva,

istituendo una divisione e separazione tra interno ed esterno che poi, attraverso elementi

mediani, come la rappresentazione, cerca di colmare. Tale separazione dividerebbe

l’ambito di ciò che è dato in modo immediato e di ciò che è vero, sulla base della

caratterizzazione della verità come certezza, dall’ambito di ciò che è dato in modo

1 Cfr. DAVIDSON D., On the Very Idea of a Conceptual Scheme, in DAVIDSON D., Inquiries

into Truth and Interpretation, op. cit., pp. 183-198; Sull'idea stessa di schema concettuale, in Verità e

interpretazione, op. cit., pp.263-282.

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mediato e che è soggetto a falsità. Secondo la separazione tra interno ed esterno, infatti,

mentre abbiamo accesso diretto alle nostre idee, rappresentazioni, ecc., non abbiamo

accesso diretto agli oggetti di tali idee e rappresentazioni2. Tuttavia, una volta che sia

posto il varco tra soggetto conoscente e cosa, con gli elementi a cui è assegnato il

compito di mediare tra il soggetto conoscente e le cose del mondo, non è più dato

oltrepassarlo: le idee, le rappresentazioni, le immagini sensibili non sono la cosa. La

rappresentazione, in quanto rappresentazione della cosa, non è che un rappresentante

della cosa, un suo sostituto soggettivo. E una volta introdotto un rappresentante della

cosa, sia esso di natura sensibile o mentale, al posto della cosa, si aprono le porte allo

scetticismo. Siamo coscienti, abbiamo un accesso diretto solo alle idee o

rappresentazioni delle cose e nulla garantisce che queste ultime siano come le idee o le

rappresentazioni le rappresentano. Il paradigma moderno dell’epistemologia, se da un

lato risponde al problema dell’accesso, dell’afferramento dei pensieri attraverso il

mentalismo, su cui esso si basa (situandoli all’interno del mentale), dall’altro lato non

risponde adeguatamente al problema del loro riferimento.

Tuttavia, se sia la filosofia moderna che il senso comune propongono esplicitamente

un modello di pensiero esclusivamente mentale, secondo Hegel, una tale concezione

esplicita del pensiero non corrisponderebbe al modo in cui viene intesa la relazione tra

pensiero ed essere nel nostro relazionarci a noi stessi, agli altri e al mondo, ossia al

modo in cui la viviamo. Quando parliamo di qualcosa, p.e. di questa o quella pianta,

parliamo sulla base della fede di riferirci non solo ad un prodotto o ad un costrutto

soggettivo - la nostra rappresentazione mentale separata dalla cosa -, ma di riferirci

proprio a questa o quella pianta. Così pure quando agiamo, non agiamo in un mondo

interno, chiuso in se stesso, rispetto ad un presunto mondo esterno, ma in un mondo che

ci circonda e di cui facciamo parte; agiamo, cioè, nella fede che le nostre azioni abbiano

presa sul reale e in virtù di tale fede. Secondo Hegel, infatti, sia al livello del senso

comune che a quello della filosofia pre-critica e delle scienze, l’uomo opera – vive,

parla, agisce – nella fede naturale «che il pensiero concordi con la cosa» (Enz., § 22 Z).

2 Cfr. HABERMAS J., From Kant to Hegel and back again. The move Towards Decentralization,

«European Journal of Philosophy», 7 (2), 1999, pp. 129-157; Percorsi della detrascendentalizzazione. Da

Kant a Hegel e ritorno, in HABERMAS J., Verità e giustificazione, op. cit., pp. 181-222.

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A tal proposito il compito della filosofia è secondo Hegel di «portare esplicitamente a

coscienza quello che rispetto al pensiero, da tempo inveterato, per l’uomo è sempre

invalso» (ibidem). Alla luce di questo, se, cioè, la conformità del pensiero con la cosa «è

già presupposto immediato di ciascuno» (ibidem), si dovrebbe dunque reinterrogare

l’indigeribilità con cui appare la dottrina del pensiero oggettivo.

Il tentativo di risposta di Kant a tali problemi si mostra agli occhi di Hegel del tutto

insufficiente. Esso non riesce a colmare il varco aperto tra il soggetto conoscente e la

cosa. La contingenza - il fatto bruto delle forme a priori della sensibilità - come pure il

ricavare le forme a priori dell’intelletto su basi di carattere storico-psicologico (Enz., §

41), consegnano l’esperienza, e ciò che su essa si fonda, alla soggettività e dunque al

relativismo. Se giustamente, secondo Hegel, per Kant l’oggettività è conforme al

pensiero, il mantenere il pensiero nella sfera del mentale riduce l’oggettività ad essere

«ciò che è soltanto pensato da noi» (Enz. § 41 Z). Così, a partire da tale prospettiva,

finché non è dimostrata la necessità, qualsiasi cosa ciò voglia dire, delle forme a priori -

sia di quelle della sensibilità sia di quelle del pensiero -, tra enunciati prodotti da

soggettività con forme a priori differenti, non ci sarebbe alcun modo di decidere della

verità degli uni e degli altri. E il fatto bruto delle forme della sensibilità e la contingenza

con cui è segnata la sistemazione delle categorie, lasciano sempre aperta questa

possibilità – la cui plausibilità, ad esempio, può essere facilmente rinvigorita attraverso

una storicizzazione del nostro apparato categoriale, o la sua considerazione quale

prodotto delle differenti pratiche sociali -, obbligando la proposta kantiana, al

relativismo sulla verità. Finché il pensiero non è radicato nelle cose stesse, finché non vi

è una conformità d’ordine tra pensiero e reale, secondo Hegel, il vero può essere solo

«distinto dalla cosa stessa» (Enz. § 41 Z), dunque relativo ad una qualche soggettività,

sia questa quella del particolare soggetto finito, di una particolare cultura, o di una

particolare forma di vita come l’uomo.

Quest’operazione svolge innanzitutto una funzione anti-rappresentazionalistica, cioè è

volta a rigettare la tesi secondo cui la relazione conoscitiva del soggetto con le cose del

mondo è mediata da rappresentazioni, o meglio è volta a rigettare la concezione del

conoscere per la quale questo assume come termine ultimo nella spiegazione delle

funzioni conoscitive il contenuto rappresentazionale. Un tale modello afferma, cioè, che

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la stessa realtà sarebbe strutturata attraverso determinazioni di pensiero, e perciò non

essendo eteromorfa rispetto al conoscere, sarebbe da questo afferrabile. L’anti-

mentalismo, cui corrisponde tale ampliamento, quindi, preserva il vantaggio del

mentalismo relativamente all’accessibilità dei pensieri, e a contempo non sembra dover

incorrere nelle difficoltà scettiche del riferimento. Esso sembra reggersi su un nuovo

paradigma della ragione concepita come una complessa struttura di determinazioni di

pensiero, non riducibili né a categorie ontologiche a priori come potrebbero essere

quelle di un razionalismo spinto, né a categorie a priori del soggetto conoscente, come

nel trascendentalismo di matrice kantiana. Tale struttura sarebbe è il prodotto congiunto

di un sistema e di un processo, e che in ultima istanza è da identificarsi con la realtà

stessa. In tal modo la realtà viene ad essere concepita come un’unità razionale in

divenire, il cui processo di realizzazione è essenzialmente autoriflessivo. In questo

contesto, appare particolarmente proficuo concentrare l’attenzione sulla coppia

concettuale a priori/a posteriori, in vista di una decisa complicazione dell’opposizione,

come mostrano alcuni recenti studi.

A partire da tale paradigma della razionalità, la stessa conoscenza viene a

caratterizzarsi essenzialmente in termini di riflessività. Considerare tanto il soggetto

quanto l’oggetto all’interno dello stesso medium concettuale, fa cadere la necessità di

superare l’originaria mancanza di connessione tra soggetto e mondo attraverso la

soppressione delle stesse premesse del mentalismo. Tale operazione richiede

inevitabilmente un impegno ontologico nei confronti del pensiero cui fa da contr’altare

una concezione ontologica dell’oggetto determinabile sulla base dell’elemento di

unificazione delle parti di una totalità. Quest’ultima si distingue tanto da una concezione

pluralista come quella empirista, quanto da una concezione ‘costruttivista’ come quella

kantiana. A tal proposito, Hegel sostiene una tesi per cui il complesso delle parti o degli

elementi dell’oggetto è unificato nella sua totalità da un universale che costituisce la

natura essenziale dell’individuo come totalità. Questa funzione unificante riconosciuta

all’universale e la sua priorità rispetto agli elementi dell’oggetto, caratterizzerebbe la

teoria hegeliana dell’oggetto come olistica. Nei termini di Findlay, ad un modello

ontologico del particolare, Hegel sostituisce un modello dell’universale secondo cui i

particolari istanziano e manifestano l’universale. Al realismo ontologico quindi si

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accompagna un realismo epistemologico3 in un modo da declinarsi, e in un senso da

specificarsi in particolare in contrasto con i diversi idealismi soggettivi, come idealismo

assoluto.

3 Cfr. WESTPHAL K., Hegel’s Epistemological Realism, Dordrecht 1989.

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CAPITOLO PRIMO

1. Introduzione

La teoria del pensiero oggettivo può essere indicata come uno dei nuclei essenziali

della filosofia hegeliana. Su di essa, infatti, si fonda la pretesa della Logica di essere

scienza del pensiero puro e, al contempo, metafisica, scienza delle cose4. In altre parole,

sulla sua possibilità si basa la risposta affermativa di Hegel alla questione kantiana circa

la possibilità o meno di una metafisica come scienza. Certo, secondo alcuni una tale

risposta condanna la filosofia hegeliana ad una posizione filosofica fondamentalmente

riconducibile alla metafisica pre-critica; tuttavia, tale giudizio spesso dimentica che la

dottrina del pensiero oggettivo più che essere un presupposto della filosofia hegeliana è

guadagnata attraverso un passo indietro rispetto a quella presupposizione presente in

gran parte della filosofia moderna che vincola il discorso al soggetto che lo pronuncia.

Sebbene dunque si possa affermare che Hegel cerchi di far rivivere l’essenziale del

progetto della metafisica pre-critica, ossia il progetto di conoscere le cose in se stesse,

questi condivide con Kant l’idea che esso così come perseguito in quella metafisica, non

riesca a conseguire la conoscenza che si è prefisso. Diversamente da Kant, tuttavia,

Hegel ritiene che la filosofia critica non abbia sbarrato tutte le strade per la sua

realizzazione. Se la metafisica pre-kantiana falliva il suo compito in quanto assumeva i

suoi oggetti e le categorie volte ad indagarli come dati, non bisognosi di ulteriore

giustificazione, Hegel si muove a partire dall’istanza della completa assenza di

presupposizioni, cioè radicalizza quel bisogno di giustificazione che caratterizza la

stessa filosofia moderna in direzione di una metafisica essenzialmente critica5.

4 Cfr. Enz. § 24. 5 Cfr. HOULGATE S., The opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, West Lafayette

2006, pp. 436-442. Relativamente al dibattito relativo al carattere metafisico o meno della filosofia

hegeliana, nella prospettiva di un superamento della sua impostazione si veda: KREINES J., Hegel’s

Metaphysics: Changing the Debate, «Philosophy Compass», 1/5, 2006, pp. 466-480. Sulla

radicalizzazione del criticismo KREINES J., Between the Bounds of Experience and Divine Intuition:

Kant’s Epistemic Limits and Hegel’s Ambitions, «Inquiry», 50 (3), 2007, pp. 306-334.

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La via che Hegel intraprende si determina affrontando la questione del rapporto tra

pensiero ed essere; e la teoria del pensiero oggettivo, in questo senso, si profila come la

risposta propria della filosofia hegeliana a tale questione. Una tale teoria, tuttavia,

appare anche come il nocciolo più indigesto di questa filosofia, e dunque, sulla base di

quanto detto, esso non può che espandere tale carattere al tutto della filosofia

hegeliana6.

Quest’indigeribilità non appartiene solo al nostro tempo, non si tratta cioè,

solamente di un imbarazzo derivante dal confronto con una sensibilità filosofica che si

presume più attenta e cauta circa gli impegni ontologici o metafisici rispetto al passato.

Hegel stesso rileva lo sconcerto suscitato dalle proposizioni relative alla razionalità del

reale7, come pure, quest’imbarazzo, traspare dalla «scomodità» con cui caratterizza

l’espressione «pensiero oggettivo» nell’apertura del Concetto preliminare

dell’Enciclopedia8. Tale scomodità, prima facie, deriva dalla stessa proposta hegeliana.

Essa richiede un cambiamento radicale del modo in cui di solito si è esplicitamente9

inteso il pensiero tanto nella filosofia moderna quanto nel senso comune. Tanto in

Descartes, in Kant quanto nell’uso ordinario del termine, il pensiero è per lo più

6 Cfr. JAESCHKE W., Objektives Denken. Philosophiehistorische Erwängungen zur

Konzeption und zur Actualität der spekulativen Logik, «The Indipendent Journal of Philosiphy», 1979 n.

3, pp. 23-37; Pensiero oggettivo. Considerazioni storico-filosofiche sulla concezione della logica

speculativa e della sua attualità, in NUZZO A., La logica e la metafisica di Hegel, op. cit., pp. 27-52. 7 Cfr. Enz. § 6 A. 8 Ivi, § 24 A. 9 Una tale concezione esplicita del pensiero non corrisponderebbe al modo in cui intendiamo la

relazione tra pensiero ed essere nel nostro relazionarci a noi stessi, agli altri e al mondo, ossia al modo in

cui la viviamo. Nell’opposizione tra pensiero ed essere, Hegel vede «la malattia della nostra epoca»: «è

sopratutto nei tempi recenti che si è cominciato a sollevare dei dubbi, e si è consolidata la distinzione tra

quello che sarebbe il prodotto del nostro pensiero e quello che sarebbero le cose in se stesse» (ivi, § 22 Z).

A tal proposito il compito della filosofia è secondo Hegel di «portare esplicitamente a coscienza quello

che rispetto al pensiero, da tempo inveterato, per l’uomo è sempre invalso» (ibidem). Alla luce di questo,

se, cioè, la conformità del pensiero con la cosa «è già presupposto immediato di ciascuno» (ibidem), si

dovrebbe dunque reinterrogare l’indigeribilità con cui appare la dottrina del pensiero oggettivo

individuando innanzitutto la misura della sua scomodità.

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concepito come un’attività o un prodotto appartenente al mentale, più o meno distinto

dalle altre forme del mentale come rappresentazione, immaginazione, percezione, ecc.10

La torsione che la nozione di pensiero subisce sotto le mani di Hegel è descrivibile

in prima approssimazione come un ampliamento della sua estensione che si scandisce

secondo due momenti principali. In primo luogo, abbiamo un ampliamento nel soggetto

finito, all’interno del mentale: il pensiero da facoltà o attività distinta dalle altre facoltà

viene a caratterizzarsi come un elemento attivo, operante in forma inconscia in tutto il

mentale e che, dunque, deve essere riconosciuto come posto su un livello diverso

rispetto alle molteplici facoltà. Un tale passo, naturalmente, richiede una ridefinizione

del pensiero come attività o facoltà tra le altre. Il secondo momento di quest’operazione

che Hegel compie sulla nozione di pensiero, consiste nell’estensione del pensiero al

reale, nelle sue differenti sfere, naturale e spirituale, secondo loro modalità proprie,

come loro trama logico-razionale. Con tale passo, reso possibile dalla considerazione

del pensiero nella sua logicità, il pensiero uscirebbe dalla sfera mentale in cui la sua

considerazione esclusivamente psicologica lo rinchiuderebbe.

A partire da quanto detto, per affrontare la questione del «pensiero oggettivo»

sembra utile fornire una prima caratterizzazione della concezione del pensiero quale

viene a profilarsi attraverso ciò che ho indicato come il primo passo nell’ampliamento

dell’estensione di tale nozione. In questo capitolo dunque si intende fornire una prima

caratterizzazione della concezione hegeliana del pensiero muovendo da alcuni paragrafi

introduttivi dell’Enciclopedia. Tali paragrafi infatti, sebbene in essi sia rintracciabile un

modello del mentale ancora inadeguato rispetto alle stesse istanze hegeliane

10 Si consideri, per esempio, relativamente a Descartes il § 9 dei Principi della filosofia: «Col nome

di pensiero intendo tutte le cose che avvengono in noi, essendone noi coscienti, in quanto vi è in noi

coscienza di esse. E così non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che

pensare» (DESCARTES R., I principi della filosofia, trad. it. P. Cristofolini, Torino 1992). Spinoza, nei

Principi della filosofia di Cartesio, rileva che quando Descartes intende con «penso» dubitare, intendere,

affermare, negare, volere, non volere, immaginare e sentire, questi vanno tutti concepiti sotto lo stesso

attributo, cioè non sono che modi di pensare (SPINOZA B., Opere complete, trad. it. a cura di F. Mignini,

Milano 2007, p. 249). Relativamente a Kant, le differenti forme del mentale vengono considerati quali

generi della rappresentazione, di esse Kant fornisce una «progressione scalare» nella Critica della ragion

pura B 377.

21

(presentazione delle facoltà o attività mentali come forme disposte orizzontalmente, su

uno stesso livello, l’una accanto all’altra), si rivelano particolarmente utili relativamente

alla questione che ci interessa, da un lato perché presentano un abbozzo di linee

contestuali essenziali per comprendere l’operazione che Hegel compie sulla nozione di

pensiero, dall’altro in quanto in essi i termini e le nozioni in gioco ricevono una loro

prima determinazione a partire dalla discussione di intuizioni, considerazioni, usi,

appartenenti sia alle filosofie con cui Hegel si trovava a confrontarsi sia al modo

ordinario di concepire il pensiero.

A richiamare l’attenzione sull’importanza di tali paragrafi, particolarmente del § 2,

è stata Angelica Nuzzo che ha visto nelle distinzioni lì poste in opera «l’origine della

separazione metodologica (e all’inizio ontologica) tra logica e Realphilosohie»11.

Attraverso una breve discussione critica dell’interpretazione della Nuzzo si vorrebbe

sostenere che l’importanza delle distinzioni del § 2 più che fornire le basi o l’origine per

tale separazione, consiste nel loro presentare quella prima trasformazione della nozione

di pensiero cui abbiamo accennato.

Nella prima parte del capitolo si intende criticare l’interpretazione delle distinzioni

presenti nel § 2 fornita dalla Nuzzo. Le distinzioni fondamentali del § 2, sono infatti

inserite in un preciso quadro problematico12 che è volto e a rifiutare la decisa

11 NUZZO A., “Begriff” und “Vorstellung” zwischen Logik und Realphilosophie bei Hegel,

«Hegel-Studien», 25, 1990, pp. 41-63, p. 44. 12 Tale quadro problematico viene sviluppato, in forma implicita, nell’annotazione allo stesso

paragrafo in riferimento alle filosofie con cui Hegel si confronta, in particolare le cosiddette «filosofie

della riflessione» e le cosiddette «teologie del sentimento». In esse, pur ponendosi l’una di contro

all’altra, Hegel riconosce uno stesso presupposto: la considerazione del pensiero solo come facoltà finita

tra le altre facoltà. In altre parole, entrambe queste posizioni si muoverebbero da una prospettiva che ha

«trascurato di conoscere e di considerare» le distinzioni interne al pensiero. Hegel, in questo come in altri

contesti, riconosce una giustificazione nella contrapposizione del sentimento al pensiero proprio nel fatto

che questo è stato ridotto ad un conoscere riflessivo che si frantuma nel procedimento da finito a finito,

condizionato a condizionato. In questo senso, con il sentimento, si riafferma contro tale conoscere

un’istanza di unità e totalità. Questo discorso, tuttavia, non è riducibile solamente ad una discussione con

le filosofie contemporanee a Hegel. Questa separazione tra pensiero e sentimento risponde anche

all’intuizione ordinaria per la quale una cosa è avere un sentimento, per esempio amare una persona,

un’altra cosa pensare tale sentimento, pensare l’amore che si prova. Come dice la Arendt, infatti, «ciò che

22

separazione ed opposizione tra pensiero e sentimento o pensiero e rappresentazione, e,

al contempo, a mantenere la distinzione tra il pensiero come facoltà e le altre facoltà.

Sulla base di tale quadro si intende quindi reinterpretarle in particolare soffermandosi

sul Denken. Nella seconda parte, si cercherà di fornire alcuni elementi della concezione

del Nachdenken e del Nachdenken speculativo o filosofico. Nella concezione relativa

alle diverse forme del Nachdenken, si vuole sostenere, è già individuabile un primo

senso secondo cui per Hegel è possibile attribuire «oggettività» al pensiero. Tale

oggettività, sebbene non lasci ancora vedere chiaramente il suo riferirsi tanto al pensiero

quanto all’essere, non è nemmeno più riducibile ad un’oggettività intesa come forma

universale di una soggettività finita, come poteva essere, per esempio in Kant, o ad una

forma di razionalità completamente determinata dalle nostre pratiche linguistiche e

sociali, quale presente, per esempio, negli autori della seconda scuola di Francoforte o

nel neo-pragmatismo americano13.

viene alla luce quando parliamo delle esperienze psichiche non è mai l’esperienza stessa, ma tutto ciò che

ne pensiamo allorché vi riflettiamo» (ARENDT H., The Life of the Mind, New York-London 1978; La

vita della mente, a cura di A. Dal Lago, 2009, p. 112). Il sentimento, inoltre, avrebbe, a differenza del

pensiero, un potere di unificazione tra chi lo prova e l’oggetto maggiore del pensiero, o meglio, nel

sentimento non si darebbe ancora la separazione tra il soggetto e l’oggetto. Il pensiero su qualcosa, a tal

proposito, richiederebbe di per sé una certa distanza tra il soggetto che pensa e ciò che è oggetto di questa

sua attività. La religione esigerebbe che si sia penetrati dal suo contenuto, richiederebbe un’«unità

comprensiva» del soggetto con il suo contenuto (G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Beweise von

Dasein Gottes, hrsg. v. G. Lasson, Hamburg 1966, p. 33; a cura di G. Borruso, Lezioni sulle prove della

esistenza di Dio, Roma-Bari 1984, p. 244 ). Per questi motivi, mi sembra si possa indicare le distinzioni

proposte nel § 2 come delle distinzioni fondamentali per la concezione hegeliana del pensiero. 13 A tal proposito si veda un articolo dello stesso HABERMAS J., From Kant to Hegel and Back

Again. The Move Towards Decentralization, «European Journal of Philosophy», 7 (2), 1999, pp. 129-157;

Percorsi della detrascendentalizzazione. Da Kant a Hegel e ritorno, in HABERMAS J., Verità e

giustificazione, trad. it. M. Carpitella, Bari 2001, pp. 181-222, in cui l’autore pur riconoscendo i vantaggi

di una lettura intersoggettivistica della nozione hegeliana di spirito, ne mostra le insufficienze proprio

rispetto alle istanze avanzate dal progetto hegeliano. Una tale lettura infatti, pur alleggerendo l’impegno

metafisico richiesto dalla filosofia hegeliana avvicinandola a prospettive contemporanee quali

l’ermeneutica, il pragmatismo, ecc., anche qualora si allargasse la nozione di spirito all’intera comunità

degli esseri umani, manterrebbe uno scarto tra il mondo che condividiamo in forma intersoggettiva e il

mondo oggettivo cui facciamo fronte. C. Taylor, commentando queste osservazioni di Habermas,

23

2. Delimitazione d’ambito

Come noto, nell’introduzione all’Enciclopedia, Hegel si dedica ad una preliminare

determinazione della nozione di filosofia. Questa determinazione si sviluppa in maniera

progressiva, attraverso un confronto con le differenti forme del sapere - senso comune,

religione, scienze - e con i differenti atteggiamenti conoscitivi che le contraddistinguono

– sentimento, rappresentazione, Nachdenken.

Il § 2, in particolare, si apre con quella che può essere considerata come la prima

determinazione positiva della filosofia: «la filosofia può anzitutto essere definita in

generale come considerazione pensante degli oggetti». A partire da questa

caratterizzazione della filosofia, il paragrafo presenta un procedimento definitorio che si

scandisce su più livelli e in più momenti. Tale definizione, infatti, è ancora del tutto

insufficiente; essa offre soltanto il primo elemento con cui viene determinato, sia pur

nella sua forma preliminare, il concetto di filosofia14. Se vi è distinzione tra filosofia,

senso comune, e altre forme di conoscenza, come le scienze o la religione, questa non

può poggiare sulla sola distinzione tra pensiero e non-pensiero.

L’insufficienza di questa definizione iniziale viene subito manifestata dallo stesso

Hegel, rilevando che il pensiero è ciò che distingue l’uomo dall’animale15. Con questa

riconosce in questo una minaccia di storicismo e relativismo che, se con essa alcuni oggi non si

troverebbero in grosso imbarazzo, di certo non soddisferebbe Hegel (cfr. TAYLOR C., Comment on

Jürgen Habermas “From Kant to Hegel and Back Again”, «European Journal of Philosophy», 7 (2),

1999, pp. 158-163). 14 Nel caso contrario, infatti, si dovrebbe negare alle diverse forme di conoscenza, religione,

scienze , senso comune, la caratteristica di essere, o di muoversi sulla base di, «considerazioni pensanti

degli oggetti». In questo senso, nel § 246 dell’Enciclopedia, introducendo la Filosofia della natura lo

stesso Hegel afferma esplicitamente: «quello che viene chiamato fisica, aveva una volta il nome di

filosofia della natura, ed è ugualmente considerazione della natura teoretica, e precisamente pensante». 15 Tale distinzione, più che riferirsi ad una determinazione dell’umano sulla base della

contrapposizione tra l’uomo e l’animale, pensiero e sentimento, deve essere considerata come inserita

all’interno del quadro contestuale cui si è fatto riferimento alla nota 8, in particolare alla polemica degli

anni berlinesi con la teologia del sentimento di Schleiermacher che poneva nel sentimento la

determinazione fondamentale dell’essenza dell’umano. Hegel non oppone umano ad animale, pensiero a

24

determinazione dunque non si ha che un’operazione di delimitazione dell’ambito al cui

interno è da definirsi la filosofia. L’ambito dell’umano, qui, è da Hegel definito

attraverso il pensiero: «tutto ciò che è umano, lo è in quanto – e solo in quanto, viene

effettuato [bewirkt] mediante il pensiero». Il pensiero, cioè, è ciò che foggia l’umanità

dell’umano, ciò che conferisce a parole, azioni, come a sentimenti, intuizioni, desideri,

la caratteristica di essere umani16. Ogni attività umana, in quanto umana, è «effettuata»

dal pensiero.

A partire da questa delimitazione d’ambito, Hegel procede al suo interno

all’individuazione del pensiero filosofico. Esso viene indicato come un modo particolare

del pensiero attraverso cui questo diviene conoscere concettuale. Un modo del pensiero,

dunque, che attua una trasformazione sul pensiero che opera in ogni attività umana, per

quanto, aggiunge Hegel, «sia identico con esso e in sé sia soltanto un solo pensiero».

Abbiamo dunque una differenziazione interna al pensiero, e questa viene da Hegel

collegata al fatto «che il contenuto umano della coscienza, fondato mediante il pensiero,

dapprima non appare in forma di pensiero, ma come sentimento, intuizione,

rappresentazione – forme che vanno distinte dal pensiero come forma»17. Il contenuto

umano della coscienza, quindi, che è fondato dal pensiero, appare innanzitutto come

sentimento, intuizione e rappresentazione; e questi – sentimento, intuizione e

rappresentazione – vengono determinati come forme rispetto alle quali il pensiero come

forma deve essere distinto.

A partire dal rilievo hegeliano secondo cui è il pensiero ad effettuare il contenuto

umano della coscienza, al fine di rintracciare alcuni elementi relativi alla questione in

gioco, ci si vorrebbe soffermare brevemente su alcune domande:

(1) Che cosa s’intende qui per contenuto umano della coscienza?

(2) Cosa significa che il pensiero effettua il contenuto umano della coscienza?

sentimento, ma il sentimento nell’uomo è un sentimento più o meno formato, comunque attraversato dal

pensiero. Riguardo al sentimento religioso, per esempio, esso è un «sentimento di un pensante, e la

determinazione di esso non è già la determinazione di un impulso naturale ecc., ma una determinazione

universale» [VGPh III, p. 325; (Vol. III T. 2, p. 280)]. 16 Cfr. Enz., § 411 Z. 17 Enz. § 2.

25

(3) In che senso è da intendere che esso appare innanzitutto come sentimento,

intuizione, rappresentazione, ecc.?

(4) E infine, in che relazione sta il pensiero che effettua il contenuto umano della

coscienza con le altre forme del pensiero, che, come vedremo, sono il Nachdenken e il

pensiero filosofico?

3. Distinzioni essenziali Per aprire un varco in direzione dell’operazione che Hegel compie sulla nozione di

pensiero si vorrebbe abbozzare una risposta a queste domande muovendo da una veloce

discussione di una tesi di Angelica Nuzzo. In diversi luoghi, sia nella sua

importantissima monografia su Hegel - Logica e sistema - sia in diversi articoli,

contributi e interventi18, in cui affronta la concezione del pensiero in Hegel, l’autrice

sottolinea l’importanza della distinzione che abbiamo rilevato nel secondo paragrafo.

Questa distinzione tra sentimento, intuizione, rappresentazione come forme del

contenuto della coscienza dal pensiero in quanto forma, viene interpretata dalla Nuzzo

come distinzione tra forme del pensiero e pensiero in quanto forma. Al genitivo

dell’espressione «forme del pensiero» dà valore oggettivo, in tal modo può intendere

sentimento, intuizione, ecc. come le forme in cui il pensiero appare (erscheint). In

questa distinzione, secondo la Nuzzo «raggiunta in modo immanente attraverso

un’analisi interna della struttura del Gedankens stesso», «sta l’origine della separazione

metodologica (e all’inizio ontologica) tra logica e Realphilosophie» (Begriff und

Vorstellung)19. L’idea dell’autrice sarebbe che le Formen des Gedankens (genitivo in

senso oggettivo), e cioè il sentimento, l’intuizione, la rappresentazione, ecc., sarebbero i

modi reali, in cui il Denken in quanto forma appare; esse sarebbero perciò le sue

concrete figure (Gestalten); mentre le Denkformen, o i Gendanken als Form, ossia i

18 Cfr. NUZZO A., Logica e Sistema. Sull’Idea Hegeliana di Filosofia, Genova 1992, p. 82 n. 58;

p. 392-3 n. 31; NUZZO A., “Begriff” und “Vorstellung”, cit., pp. 43-44; NUZZO A., La logica, in Guida

a Hegel, a cura di C. Cesa, Roma-Bari 2004, pp. 39-82, p. 41. 19 Relativamente a questa differenza metodologica tra Logica e Realphilosophie si veda: NUZZO

A., Logica e sistema, cit., pp. 463 sgg.

26

pensieri in quanto forma, sarebbero le determinazioni pure di pensiero, l’oggetto

tematico della Scienza della logica.

All’interno di questo discorso della Nuzzo cercherei di distinguere due tesi, in

modo da poter rinunciare ad una senza che questo obblighi rinunciare all’altra:

(1) La prima tesi sostiene che l’origine della separazione metodologia (e all’inizio

ontologica) tra logica e Realphilosophie sia da ricercarsi all’interno della concezione

hegeliana del pensiero. Questa tesi in questo capitolo non sarà presa in considerazione.

(2) La seconda tesi sostiene che tale origine si trovi nella distinzione tra le forme in

cui il pensiero appare e il pensiero in quanto forma proposta da Hegel nel § 2

dell’Enciclopedia.

Rinunciare alla seconda tesi evidentemente non implica rinunciare alla prima. Ciò

che mi prefiggo è discutere criticamente questa seconda tesi e, attraverso tale discussione

far emergere le caratteristiche principali della concezione hegeliana del pensiero così

com’essa appare secondo l’introduzione all’Enciclopedia.

Cito da Logica e sistema: «Questa distinzione del «Denken als Form» dalle diverse

«Formen» in cui il pensiero «erscheint» con la quale si apre l’Enciclopedia (Enz. § 2), è

di grandissima importanza e merita di essere analizzata approfonditamente. Qui si noti

soltanto come, assai chiaramente, il termine “Form” che compare nelle due espressioni

abbia nei due casi un significato completamente diverso. Non va poi trascurata la

rilevanza contenuta in quell’«erscheint», ed il fatto che il soggetto di tale apparire è il

pensiero posto in quanto forma»20.

Cercando di disambiguare il termine Form secondo la prospettiva della Nuzzo,

quando diciamo che il pensiero in quanto forma, ossia le forme del pensiero come

determinazioni della Logica, sono da distinguersi dalle forme in cui appare il pensiero,

usiamo due significati diversi per il termine Form: da un lato intendiamo per «forma del

pensiero» una determinazione pura di pensiero; dall’altro una concreta Gestalt, una

figura in cui il pensiero concretamente appare. Per riconoscere l’ambiguità del termine in

questione bisogna presupporre, come Nuzzo fa esplicitamente, che ciò che appare sia lo

stesso pensiero in quanto forma.

20 NUZZO A., Logica e sistema, cit., p. 82 n. 58.

27

Mi sembra dunque che questa tesi possa reggere solo a due condizioni: (a) che il

soggetto dell’apparire sia il pensiero in quanto forma; (b) che questo pensiero sia il

pensiero che è a oggetto nella logica. Tale tesi, si vorrebbe mostrare, si fonderebbe su

un’interpretazione erronea del § 2.

Partiamo dalla prima condizione, cercando di precisarla. Hegel dice: «il contenuto

umano della coscienza, fondato mediante il pensiero, dapprima non appare in forma di

pensiero, ma come sentimento, intuizione, rappresentazione – forme che vanno distinte

dal pensiero come forma». Il soggetto dell’apparire, dunque, è evidentemente il

contenuto umano della coscienza, ed il contenuto umano della coscienza è «effettuato»

dal pensiero che opera in ogni attività umana. Dunque, se si vuole affermare che il

soggetto di quest’apparire è il pensiero in quanto forma, allora si deve identificare il

contenuto umano della coscienza con il pensiero che effettua l’umanità dell’umano, sulla

base del fatto che questo fonda, effettua quello, e quest’ultimo a sua volta con il pensiero

in quanto forma.

Da qui la domanda: che cos’è il pensiero che effettua l’umanità dell’umano e che

cosa significa che esso effettua l’umanità dell’umano?

In numerosi passi della prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica,

sebbene con diverse finalità e sebbene queste siano prese in diverse strategie

argomentative, Hegel pone alcune delle questioni affrontate dal § 2 dell’Enciclopedia

quasi negli stessi termini.

In questa prefazione, il pensiero che opera in ogni attività umana è indicato con

diverse espressioni come: «logica naturale» e «logica inconscia»21. Tale logica è

un’attività inconscia che agisce attraverso determinazioni di pensiero, categorie o forme

del pensiero22. Essa agisce in tutto ciò che «l’uomo fa suo», «in tutto ciò che per l’uomo

21 WdL I, p. 15 (T. I, p. 15). 22 Queste espressioni: categorie, determinazioni di pensiero (Denkbestimmungen), forme del

pensiero, siano queste «Formen des Denkens» o «Denkformen», non sembrano presentare tra loro alcuna

distinzione rigorosa; anche se a volte, in singoli passi, sembra possibile stabilire una sorta di gerarchia per

cui tra le determinazioni di pensiero vi sarebbero le categorie - come le determinazioni di pensiero più

indeterminate o le determinazioni di pensiero dell’intelletto - e le Formen des Denkens o Denkformen -

come le determinazioni più complesse, gli oggetti per esempio principali della logica tradizionale e della

28

diventa un interno», «penetra in ogni rapporto o attività naturale dell’uomo»23:

sentimenti, intuizioni, brame, bisogni ed istinti sono penetrati da esso e da esso resi

umani.

Spesso per descrivere come operi questa logica naturale Hegel ricorre alla metafora

della rete24. Questa logica inconscia cioè viene presentata come un intreccio di fili che si

annodano formando una struttura a maglie, struttura mobile, non statica, che è immersa e

che penetra la materia delle forme della coscienza. Le forme del Denken, concepito in

questo senso, sono i fili e i nodi di questa rete. I nodi sono i punti in cui più fili si

raccolgono in unità25. Essi possono essere più o meno saldi.

Lo stesso termine che designa l’«operare» del Denken, «wirken», utilizzato tanto nel

§ 2 dell’Enciclopedia quanto nella Prefazione della Logica, oltre ad implicare

l’importantissima, in entrambi questi contesti, semantica della Wirklichkeit, è un temine

che coinvolge anche la semantica del «tessere». Tale riferimento al tessere compare

esplicitamente, sempre nella Prefazione, nella scelta dei traduttori italiani A. Moni-C.

Cesa di tradurre l’attività del Denken come un’attività «che intesse (durchwirkende) tutte

le rappresentazioni, gli scopi, gli interessi»26.

Le forme di pensiero di tale logica, dice Hegel, sono innanzitutto esposte e

consegnate al linguaggio umano, come sua struttura implicita. Nel linguaggio, nella sua

grammatica e nelle sue forme, tuttavia, le determinazioni di pensiero, sono depositate in

modo da rappresentare solo il grado più basso e indeterminato di tale struttura. Infatti,

come abbiamo accennato, tale rete è caratterizzata in quanto «mobile»27, i suoi nodi cioè

logica soggettiva, ossia giudizi e sillogismi -, la distinzione tuttavia e il suo uso non sono affatto rigorosi e

non vengono mantenuti. 23 Ivi, p. 10 (p. 10). 24 Hegel fa spesso uso di tale metafora, cfr. Enz. § 246; VGPh I, p. 77 (Vol. I, p. 70); VGPh II, p.

237 (Vol. II, p. 383). 25 Hegel, per esempio, caratterizzando il fiore come nodo, dice che in esso «il molteplice delle

foglie torna a raccogliersi in un solo punto» Enz. § 347 Z. 26 WdL, p. 15 (p. 15). Così alla voce “Durchwirken” del dizionario dei Grimm: «durchweben [...],

ein mit goldfäden durchwirktes zeug» J. und W. GRIMM, Deutsches Wörterbuch, B. 2, Munchen 1991, p.

1714. 27 Nelle lezioni su Aristotele essa è indicata come una «rete di infinita mobilità» [VGPh II., p. 237

(p. 383)].

29

sono più o meno saldi, ovvero, essa può presentare diversi gradi di articolazione e

strutturazione. I suoi nodi, infatti, essendo gli elementi che danno alla rete la sua

particolare configurazione, sono indicati come «i punti d’appoggio e d’orientamento»28

tanto della sua vita quanto della sua coscienza. Essi cioè conferiscono al nostro

comprendere e agire, o più in generale al nostro rapportarci a noi stessi e al mondo, una

certa saldezza e un certo orientamento. In questo senso tali nodi sono presentati come

dotati di una «fermezza»: i fili della rete, infatti, raccogliendosi nel nodo, si fissano e si

stabilizzano nella sua unità; tali nodi, inoltre, sono dotati di una certa «potenza»: a partire

da tale «fermezza» o solidità, essi danno alla rete i suoi «punti d’appoggio», ossia le

conferiscono il suo assetto. Tale «fermezza» e «potenza» derivano dal fatto che - dice

Hegel - : «portati dinnanzi alla coscienza, sono altrettanti concetti, in sé e per sé esistenti,

della sua essenzialità»29. Con ciò abbiamo un passaggio dall’analisi della modalità

operativa del Denken in forma inconscia, all’analisi del rapporto tra questo operare

inconscio e la sua coscienza. È in tale rapporto che la semantica della Wirklichkeit entra

potentemente in gioco.

Più esplicitamente, tali nodi, nell’intreccio dei loro fili, sarebbero l’anima

categoriale che costituisce lo spirito, la struttura categoriale con cui esso si relaziona

tanto al mondo quanto a se stesso. Cito il passo immediatamente successivo a quello

relativo alla «fermezza» e alla «potenza» dei nodi: «il punto di maggior rilievo, per la

natura dello spirito, è il rapporto non solo di ciò che lo spirito è in sé, verso quello che è

realmente [wirklich ist], ma di come lo spirito sa se stesso. Questo sapersi è perciò, in

quanto lo spirito è essenzialmente coscienza, la determinazione fondamentale della realtà

sua»30. Abbiamo qui una definizione del contenuto umano della coscienza, come natura

spirituale, declinato secondo un rapporto a tre termini: lo spirito in sé, lo spirito come è

realmente e lo spirito come si sa, e quest’ultimo termine, il sapersi dello spirito, viene

presentato come la determinazione fondamentale della realtà sua. Il wirken della rete che

costituisce la struttura categoriale del Denken, dunque, è ciò che effettua la Wirklichkeit

dello spirito, e la natura dello spirito è data da un rapporto a tre termini che sono: (a) ciò

28 WdL, p. 16 (p. 16). 29 Ivi, pp. 16-17 (p. 16). 30 Ibidem.

30

che esso è in sé, (b) ciò che esso è realmente e (c) come esso si sa. Ciò significa, per

esempio, che questi nodi o categorie che dapprima operano soltanto istintivamente come

«impulsi», portati alla coscienza come isolati, sono mutevoli e intralciantesi tra di loro, e

con ciò essi danno [gewähren] allo spirito «una realtà» che è «a sua volta incerta e

malsicura».

Riassumendo, le determinazioni di pensiero sono le nostre categorie fondamentali e

più generali che adoperiamo nel nostro relazionarci al mondo - come «essere»,

«qualcosa», «altro» - e sono costituite spontaneamente, cioè non attraverso processi

astrattivi a partire dall’esperienza, e, come la metafora della rete intende mostrare, con

una struttura logica interna per la quale ciascuna di esse si costituisce nella relazione che

intrattiene con le altre. Queste determinazioni di pensiero, per quanto siano in gioco in

ogni nostra attività e per quanto vengano usate in ogni nostro discorso, non sempre lo

sono secondo la loro struttura interna ed è questo ciò che conferisce allo spirito umano

una realtà che è «incerta e malsicura». In questo senso c’è una differenza essenziale tra

logica naturale e la logica delle determinazioni pure del pensiero che viene esposta nella

scienza della logica. La prima è un elemento attivo che opera nel mentale e che è il

prodotto di sedimentazioni che coinvolgono tanto il linguaggio quanto la pratica umana

in senso generale; la seconda è la struttura di tali determinazioni secondo la loro logica

interna; la prima, cioè, è ciò che rende il nostro vivere, agire, pensare, parlare più o meno

ragionevole31, o forse, si potrebbe dire, sensato, la seconda è l’esplicitazione della

razionalità delle sue determinazioni. Quest’ultima struttura logica delle determinazioni di

pensiero nella filosofia hegeliana è identica alla struttura logica delle determinazioni

fondamentali della realtà. Così, per esempio, la struttura logica del concetto «qualcosa» è

identica alla struttura logica di qualunque cosa sia qualcosa nella realtà32: così come il

qualcosa che è nel mondo è intrinsecamente connesso con ciò che è altro da esso, ed è ciò

che è solo nella relazione con esso, così anche il concetto di ‘qualcosa’ presenta una

31 Nuzzo fa giustamente riferimento a Kant: «Kant contrappone alla “logica naturale” in cui il

pensiero procede seguendo semplicemente la sua natura, senza avere coscienza né conoscenza alcuna del

proprio funzionamento, una “scienza della logica” in cui le regole del pensiero razionale vengono invece

come tali tematizzate, conosciute e compiutamente dimostrate» (NUZZO A., La logica, cit., p. 47). 32 Cfr.HOULGATE S., La logica di Hegel, in La realtà del pensiero, a cura di A. Ferrarin, Pisa

2007, pp. 65-91, pp. 73-4.

31

struttura logica per cui il concetto di ‘altro’ gli è intrinsecamente connesso. Quest’identità

di struttura corrisponde al secondo passo compiuto da Hegel relativamente a

quell’ampliamento dell’estensione della nozione di pensiero cui abbiamo accennato

nell’introduzione: l’unità di pensiero ed essere viene guadagnata a partire dalla logicità

dell’uno e dell’altro. Ossia: la non riducibilità della logicità del pensiero allo psicologico

viene ad essere la condizione necessaria, sebbene ancora non sufficiente, per

quest’operazione. In questo senso, seppur si sia ad un livello ancora molto generale, mi

sembra debbano essere intese quelle espressioni hegeliane tese ad indicare la razionalità

del reale e che identificano quest’ultimo con la «la ragione essente»33, con lo «spirito in

sé»: esse sarebbero innanzitutto volte a indicare quella regolarità nel mondo che ci

circonda che ci permette di parlare, agire e vivere in esso e che sottolineano la tesi di

un’uniformità d’ordine, data dal razionale, tra il mentale e il reale. Secondo questa

prospettiva, se la determinazione del contenuto della coscienza come spirito offerta nella

seconda prefazione alla Scienza della logica può sembrare sbilanciare la questione sul

versante del soggettivismo, essa può essere subito compensata con i rilievi, che

compaiono già nell’introduzione dell’Enciclopedia, che individuano tale contenuto nella

realtà stessa, come «ragione essente», di cui la forma più prossima di coscienza è

l’esperienza stessa.

Ritornando ora alla tesi della Nuzzo, a partire da queste considerazioni si può

dunque affermare che le determinazioni del pensiero che opera in ogni attività umana

sono forme del pensiero, infatti esso è caratterizzabile come una rete essenzialmente

formale di determinazioni di pensiero, e che venendo tematizzate si presentano nella

forma del pensiero. Tuttavia, come abbiamo cercato di mostrare, il contenuto umano

della coscienza, la sua natura spirituale è data attraverso un rapporto a tre termini: ciò che

lo spirito è in sé, ciò che è realmente, e il suo sapersi. Ciò che è spirito in sé, viene

effettuato, o realizzato come spirito, dal pensiero con il suo essere saputo. Il pensiero

formale, nel senso specificato - ossia le forme di pensiero con il genitivo in senso

soggettivo, quali possono essere oggetto della logica -, dunque, non può essere

identificato con il contenuto umano della coscienza. Per quanto esso effettui il contenuto

umano della coscienza ciò non significa che esso sia il contenuto umano della coscienza.

33 Enz. § 6.

32

Relativamente alla seconda condizione necessaria a sostenere la tesi della Nuzzo si può

affermare che, come abbiamo visto, il pensiero che opera in ogni attività umana è

pensiero formale e sono le forme di pensiero (senso soggettivo del genitivo) ad essere

poste a tema nella Logica, tuttavia non è qualcosa di affatto pacifico che il pensiero che

attraversa ogni attività umana, la logica naturale, e il logico tematizzato nella scienza

della logica nella sua purezza siano identificabili così immediatamente. La logica

inconscia, infatti, è il prodotto di sedimentazioni che coinvolgono elementi fisiologici,

storici, culturali, ecc., in quel sistema riflessivo che è l’uomo. La tesi della Nuzzo per cui

l’origine della distinzione tra Logica e Realphilosophie debba essere ricercata all’interno

della concezione hegeliana del pensiero, in particolare nella distinzione tra forme del

pensiero (senso soggettivo del genitivo) e le sue figure, è indubbiamente condivisibile, e

da sostenersi; tuttavia, essa non corrisponde affatto alla distinzione tra forme del pensiero

e pensiero in quanto forma come esposta nel § 2. La Nuzzo sembrerebbe forzare troppo i

termini in gioco attraverso distinzioni e operazioni definitorie introdotte un po’ troppo

arbitrariamente rispetto al testo. Come cercheremo di mostrare, se nel testo del § 2 può

essere intravista una distinzione tra forme del pensiero e pensiero in quanto forma, questa

dev’essere determinata innanzitutto distinguendo due livelli del pensiero, uno pre-

riflessivo e uno riflessivo; al livello pre-riflessivo abbiamo le forme di pensiero, come

determinazioni di pensiero che possono poi apparire nelle forme della sensibilità, della

rappresentazione o dello stesso pensiero. Ad un’ulteriore livello le determinazioni del

pensiero guadagnano la forma propria del pensiero attraverso la riflessività introdotta dal

Nachdenken. L’espressione «pensiero in quanto forma»34 più che riferirsi alle forme di

pensiero, si riferisce ad una delle forme in cui il contenuto umano della coscienza appare,

dunque al Nachdenken. Attraverso esso, i pensieri possono apparire nella loro propria

forma e divenire pensieri in quanto tali.

4. Nachdenken Tornando ora al § 2 dell’Enciclopedia si può cercare di chiarire, sulla scorta di

quanto detto, i modi principali del sapersi dello spirito, e dunque cercare di abbozzare

34 Quella del § 2 è l’unica occorrenza dell’espressione dell’opera di Hegel.

33

una prima risposta alle ultime 2 domande che ci eravamo posti all’inizio della relazione:

(3) che cosa significa che il contenuto umano della coscienza, effettuato mediante il

pensiero, appare innanzitutto come sentimento, intuizione, rappresentazione, ecc.; (4) e in

che relazione sta il pensiero che effettua il contenuto umano della coscienza con le altre

forme del pensiero, il Nachdenken e il pensiero filosofico.

In questi primi paragrafi dell’Enciclopedia, Hegel, come già accennato, cerca di

fornire una prima determinazione del concetto di filosofia e della sua propria modalità di

pensiero, attraverso il confronto con le differenti forme del sapere - senso comune,

religione, scienze - e con i differenti atteggiamenti conoscitivi, che le contraddistinguono.

In questo confronto ciò che è fondamentale sottolineare, relativamente alla nozione di

pensiero, è che tutte queste forme di conoscenza, siano esse attuate attraverso il

sentimento, la rappresentazione o attraverso il Nachdenken, hanno una comune radice nel

pensiero, pensiero che è ciò che effettua l’umanità dell’umano in ogni sua attività. Per

questo motivo, il Denken, o la logica naturale che opera in ogni attività umana, deve

potersi riferire tanto alla realtà instabile e malsicura del pensiero propria del senso

comune, a quella della religione, quanto a quella astratta dell’intelletto e delle scienze, e a

quella concreta della filosofia.

In questa prospettiva, quando Hegel ci dice che il contenuto umano della coscienza

appare innanzitutto nelle forme del sentimento, dell’intuizione, della rappresentazione,

ecc., l’espressione «appare innanzitutto» è indice che si sta concependo lo spirito e il

pensiero secondo una differenziazione graduale relativa, questa volta, alla sua

esplicitazione35. Riprendendo una terminologia aristotelica ampiamente utilizzata da

Hegel, ciò che è primo per noi non sono i pensieri in quanto tali, ma le emozioni, le

rappresentazioni, i desideri, ecc.36. Nelle situazioni con cui abbiamo a che fare nella vita

di ogni giorno, cioè, il contenuto umano della coscienza appare innanzitutto nelle forme

del sentimento, dell’intuizione, ecc., in quanto, in esse, per lo più, questa metafisica che

35 Questa differenziazione graduale può essere concepita secondo differenti prospettive. Mi sembra

se ne possano riscontrare almeno 3: (1) di carattere storico, rintracciabile nella trattazione hegeliana della

storia della filosofia; (2) di carattere “psicologico”, da rintracciare nella trattazione delle facoltà umane,

come processo finalizzato al conoscere, della Psicologia, nello filosofia dello spirito soggettivo; (3) di

carattere epistemico, come l’esempio riportato. 36 Cfr. FERRARIN A., Hegel and Aristotle, 2001 New York, p. 307.

34

opera in noi in maniera implicita, questa rete in cui «trasferiamo ogni materiale» e grazie

a cui «cominciamo a renderlo intelligibile»37, funziona ed è efficace. Nella vita di ogni

giorno, per lo più, non abbiamo bisogno di porre a tema quelle determinazioni di

pensiero, ed esse dunque ci appaiono sempre «mischiate»38 con il materiale empirico

delle forme del sentimento, della rappresentazione, ecc.

Tuttavia, le determinazioni del pensiero possono essere conosciute anche in quanto

tali, cioè, propriamente come determinazioni di pensiero nella forma del pensiero. Tale è

innanzitutto il ruolo proprio del Nachdenken. Infatti, grazie all’elemento di riflessività

che lo caratterizza e ne fa un «pensare su», un «pensare in proposito di», un pensare

dunque che ha qualcosa a proprio oggetto; e grazie alla sua attività di separazione e

astrazione - attraverso cui l’universale viene separato dal materiale empirico - esso, dice

Hegel nell’annotazione al § 2: «ha per proprio contenuto i pensieri come tali e li porta

alla coscienza».

Se Hegel in queste pagine insiste molto sull’attività del Nachdenken, è in quanto il

riflettere ha come proprio risultato «di trasformare i sentimenti, le rappresentazioni ecc.

in pensieri»39. La sua fondamentale importanza per il discorso che ci riguarda, risiede

dunque nel fatto che il contenuto umano della coscienza solo a partire dal Nachdenken

«viene conservato», cioè «viene posto nella sua luce particolare»40, e con ciò a partire dal

Nachdenken lo stesso pensiero che effettua l’umanità dell’umano può essere posto nella

forma stessa del pensiero.

5. Nachdenken e scienze empiriche

Nell’introduzione all’Enciclopedia, l’attività del Nachdenken è presa in

considerazione soprattutto come strumento privilegiato delle scienze empiriche, e dunque

in quanto attività di pensiero che ha come proprio oggetto gli enti della realtà nelle sue

37 Enz. § 246 Z. 38 Ivi, § 3. 39 Ivi, § 5. 40 Ibidem.

35

manifestazioni finite. Sebbene, come si vedrà, occorrerebbe distinguere tra più forme del

Nachdenken, con tale termine, spesso, quando non ulteriormente determinato, Hegel

indica l’operare dell’intelletto.

Nell’annotazione al § 20 è offerta un’utile differenziazione tra il sensibile, la

rappresentazione e l’intelletto. Tale differenziazione può essere schematizzata nel modo

seguente.

(1) La sensibilità è caratterizzata sulla base (a) dell’esteriorità dell’origine del

sensibile; e (b) della singolarità di ciò che è colto dagli organi di senso, la singolarità del

sensibile. Inoltre, a causa di questa singolarità, (c) la relazione che la sensibilità stabilisce

tra i sensibili è una relazione tra singolarità e quindi caratterizzata da una reciproca

esteriorità dei suoi termini. Esempi di questa relazione sono: la giustapposizione spaziale,

cioè l’esser l’uno accanto all’altro, e la successione temporale, cioè l’esser l’uno dopo

l’altro.

(2) La rappresentazione è caratterizzata sulla base del fatto che essa (a) può avere

come proprio contenuto un materiale sensibile come pure un «materiale derivante dal

pensiero autocosciente», e come forma l’universalità astratta. Le determinazioni della

rappresentazione, comunque, (b) condividono con la sensibilità la caratteristica

dell’isolamento. A partire da tale isolamento la rappresentazione non può far altro che

offrire una mera ripetizione della semplicità (x è x) o relare elementi che rimangono

isolati giustapponendoli con un semplice «anche»: «Dio è buono, è anche onnisciente, è

anche onnipotente».

(3) L’intelletto, invece, condivide con la rappresentazione la forma dell’universalità,

ma differisce da essa in quanto pone tra i suoi oggetti relazioni intrinseche. Queste

relazioni, per esempio, sono le relazioni di causa-effetto, universale-particolare, ecc.

Ponendo tali relazioni, esso trasforma le determinazioni che nella rappresentazione sono

isolate, in determinazioni di pensiero. I pensieri, cioè, implicano che tra le loro

determinazioni vi siano legami intrinseci, relazioni necessarie. Naturalmente, tale

necessità è graduale; ci sono, cioè, differenti gradi di cogenza.

L’intelletto dunque, è un grado o livello necessario in cui il pensiero accede alla sua

forma propria.

36

Delle scienze empiriche, per esempio, al § 7, Hegel dice che, tendendo alla

produzione e alla formulazione di leggi, principi universali, teorie, producono «i pensieri

di ciò che esiste».

Hegel, tuttavia, dopo questa valutazione positiva delle scienze empiriche, ne mostra

parimenti, nei §§ 8-9, le insufficienze. Nel § 8 viene mostrata un’insufficienza rispetto al

contenuto: esse trascurano completamente quegli oggetti che si presentano come infiniti

nel loro contenuto – esempi di questi oggetti sono: Dio, la libertà, lo spirito41. Nel § 9,

viene presa in considerazione l’insufficienza delle scienze empiriche rispetto alla forma.

Ossia, sebbene già con le scienze empiriche si abbiano pensieri in quanto tali, cioè in cui

sono poste relazioni di necessità, la ragione – dice Hegel - «richiede ulteriore

soddisfazione quanto alla forma, e questa forma è la necessità in generale».

Quest’insufficienza della scienza empirica quanto alla forma ha due motivi: (a) in

primo luogo – dice Hegel - «l’universale contenuto in essa, il genere, ecc., è come

indeterminato per sé, non collegato per sé con il particolare»; (b) in secondo luogo i suoi

inizi sono «immediatezze, sono qualcosa di trovato, sono presupposti» 42.

Oltre all’insufficienza delle scienze derivante dal fatto che esse presuppongono i

propri oggetti, ossia che esse si muovono a partire da qualcosa che è semplicemente

trovato e assunto come immediato, Hegel parla dell’indeterminatezza dell’universale

rispetto al particolare. L’universale prodotto dalle scienze sarebbe un universale slegato,

non collegato al particolare. Il rapporto tra quest’universale e il particolare sarebbe un

rapporto di esteriorità e di contingenza.

Per capire cosa si intenda qui per rapporto di esteriorità e contingenza è utile vedere

seppur per sommi capi come Hegel caratterizza in questi paragrafi l’operare del

Nachdenken. Il pensiero riflettente, secondo Hegel, è ciò attraverso cui impariamo a

conoscere anche il sensibile. Il sensibile, tuttavia, è qualcosa di singolare ed evanescente;

per conoscerlo il riflettere deve rintracciare ciò che in esso permane. Questo permanente

è appunto l’universale, esso è l’unità a cui il riflettere riconduce l’infinita varietà dei

fenomeni singolari che ci si presentano. Il riflettere cioè, stabilendo confronti e rapporti

nella molteplicità e varietà dei fenomeni singoli riconosce in essi una qualche unità.

41 Su queste due insufficienze rispetto al contenuto cfr. anche Enz. § 246 Z. 42 Enz § 9.

37

Esempio portato da Hegel, è quello del lampo e del tuono43. Il riflettere, nel suo operare,

raddoppia il fenomeno, lo frantuma in un interno ed in un esterno, «in forza ed

estrinsecazione della forza, in causa ed effetto». L’universale, in questo esempio, è

l’interno del fenomeno, cioè la forza, la causa, non questo o quel tuono o lampo, ma ciò

che rimane il medesimo in ciascun tuono o lampo. L’universale è dunque ciò che nella

molteplicità dei fenomeni permane come il medesimo. Così, le leggi della natura,

rintracciate dalle scienze empiriche, esprimono ciò che permane identico in ogni

fenomeno naturale, esse sono «un’unità interna necessaria di determinazioni

differenti»44; le leggi del movimento, per esempio, sono l’universale a partire dal quale è

determinabile ciascun mutamento di luogo.

Le scienze empiriche, tuttavia, per Hegel, partendo dall’esperienza, raggiungono

l’universale attraverso un’operazione di tipo induttivo. Tale procedimento è preso in

considerazione nella logica enciclopedica, nella Dottrina del concetto. L’induzione è un

procedimento argomentativo che, passando dall’esame di uno o più casi particolari ad

una conclusione di tipo universale, presenta alcune difficoltà logiche. Questo passaggio

infatti presupporrebbe la completezza dell’osservazione degli elementi di un certo campo

e visto che il suo esame si riferisce ad elementi singoli, esso sarebbe condannato ad un

progresso all’infinito, cosicché «se si dice: tutti i metalli, tutte le piante, ecc., questo

significa soltanto: tutti i metalli, tutte le piante che sinora sono stati conosciuti»45.

L’induzione, conclude Hegel, «è pertanto incompleta»46. Per far fronte a questo difetto è

chiamata in causa l’analogia. Essa consisterebbe nell’argomento per cui dato che gli

elementi appartenenti ad un certo genere godono di una proprietà allora anche altri

elementi dello stesso genere godono di tale proprietà. Presupposto dell’argomento per

analogia è dunque che la proprietà in questione, rintracciata attraverso l’osservazione dei

casi singoli, sia una proprietà relativa non solo ai singoli elementi ma sia intrinseca al

genere. Non è detto, però, che una tale condizione sia soddisfatta, ed è solo «l’istinto

43 Cfr. Ivi, § 21 Z. 44 Ivi, § 422 Z. 45 Ivi, § 190 Z. 46 Ibidem.

38

della ragione a far presumere che questa o quella determinazione scoperta empiricamente

sia fondata nella natura interna»47 di un oggetto.

In tal modo, muovendo induttivamente sulla base dell’analogia, cioè attraverso

un’operazione di tipo induttivo, le scienze empiriche forniscono un universale che è

astratto, separato dal particolare, cioè, che non è legato ad esso da relazioni intrinseche48.

Dal confronto con il suo operare in queste scienze, il Nachdenken appare dunque

caratterizzato secondo tre aspetti: (a) esso, innanzitutto, conferendo al proprio oggetto la

forma del pensiero, ha per proprio contenuto i pensieri in quanto tali; (b) in secondo

luogo, relativamente al contenuto, esso ha per oggetto determinazioni finite; (c) in terzo

luogo, relativamente alla forma, esso, pur ponendo relazioni intrinseche tra le

determinazioni, e in tal modo pur attingendo ad una prima forma di necessità del

pensiero, raggiunge una necessità che è ancora soltanto formale o astratta, in quanto

caratterizzata dalla separazione tra l’universale e il particolare.

Rispetto a queste tre caratteristiche del Nachdenken, le scienze empiriche, pur

producendo «leggi, principi universali, teorie» che sono «pensieri di ciò che esiste»49, e

pur accedendo ad un sapere che è già in qualche misura necessario, raggiungono solo una

necessità che è astratta o formale e che, in quanto tale, non può dirsi ancora la forma

autentica e reale della necessità; essa, inoltre, sembra basarsi solo sull’istinto della

ragione. Il pensiero volto a soddisfare pienamente tale forma, per la quale lo stesso

universale è legato intrinsecamente al particolare, ne è l’essenza stessa, è, per Hegel,

quello specifico modo del riflettere che è il pensiero speculativo o filosofico.

47 Ibidem. 48 Il riferimento dell’«analogia» coinvolge anche il procedere argomentativo newtoniano così

come esso è espresso nei Principia mathematica. Al riguardo cfr. ILLETTERATI L., Hegel’s Kritik der

Metaphysik der Naturwissenschaften, in Thomas S. Hoffmann (Ed.), Hegel als Schlüsseldenker der

modernen Welt. Beiträge zur Deutung der "Phänomenologie des Geistes", Hamburg 2008, in cui è presa

in considerazione la trattazione dell’induzione e dell’analogia nella sezione della beobachtende Vernunft

della Fenomenologia dello spirito. 49 Enz. § 7 A.

39

6. Nachdenken filosofico

Tali considerazioni possono essere ora declinate, seguendo la prefazione alla Logica

in riferimento al pensiero che opera in ogni attività umana, in modo da cercare di fare

emergere il rapporto tra queste forme del pensiero - il Nachdenken e il pensiero filosofico

- con il pensiero che opera in ogni attività umana.

Il Nachdenken, come abbiamo visto, grazie alla riflessività che gli è propria e grazie

alla sua attività di astrazione e separazione, può porre a tema le determinazioni di

pensiero che agiscono inconsciamente. Schematizzando, il Nachdenken, da un lato

dunque, presenta l’enorme guadagno di portare alla coscienza le determinazioni logiche

che agiscono al livello inconscio, e, dunque, di liberarle «dalla materia in cui si trovano

immerse nel conscio intuire, nel rappresentare, come anche nel bramare e volere»50, e di

tematizzarle per se stesse. Con ciò il Nachdenken è l’inizio della loro conoscenza.

Dall’altro lato però, il Nachdenken raggiunge solo una necessità astratta ovvero, in questo

contesto, esso porta alla coscienza le determinazioni di pensiero, ma le pensa in quanto

forme del pensiero nella loro astrazione rispetto al materiale di cui sono forme, cioè,

pensandole come forme rispetto ad un contenuto da cui sono separate. Prese in tale

formalità, le determinazioni di pensiero sono vuote - in quanto separate dal contenuto - e

finite - in quanto fisse e isolate tra di loro. Per tali caratteristiche, esse sono descritte

come le «forme morte» o come le «morte ossa di uno scheletro»51 che non raggiungono

la forma di «unità organica» che è propria dello spirito, la loro «concreta unità vivente».

In questo senso la critica hegeliana alla logica formale si basa sul modo in cui l’intelletto

tematizza le determinazioni del pensiero della logica naturale. L’intelletto cioè le

considera in quanto forme di un contenuto che è altro e che sta fuori dal pensiero e

rispetto al quale esse non possono che risultare come determinazioni astratte. In altre

parole, si potrebbe dire che l’intelletto si limita a considerare il loro statuto

50 WdL p. 12 (p. 12). 51 Ivi, p. 9 (p. 10).

40

epistemologico, l’ambito di validità della loro applicazione, e non la struttura logica a

loro interna52.

La riflessione filosofica viene indicata da Hegel come la forma di conoscenza che è

in grado di rispondere alle istanze che l’intelletto non soddisfa. Il pensiero filosofico, in

particolare, riuscirebbe a porre in luce - e a muoversi a partire da esso - il carattere

necessariamente contenutistico del pensiero53; ossia, a riconoscere che le determinazioni

di pensiero, anche nella loro formalità, come determinazioni formali, sono

necessariamente dotate di contenuto. Tale contenuto, l’intelletto lo cerca al di fuori,

facendo delle determinazioni del pensiero delle determinazioni vuote; il pensiero

filosofico, invece, secondo Hegel, lo riconosce nella stessa forma del pensiero54. La

materia della forma in questo caso è la stessa determinatezza della forma, ossia è la

determinatezza che si costituisce dalle sue relazioni con le altre determinazioni di

pensiero. In altre parole, al di là della terminologia di forma e contenuto, tale contenuto

non è che la struttura logica delle determinazioni di pensiero. Così, nel suo particolare

modo che è il pensiero filosofico, il pensiero che opera in ogni attività umana si sa

concretamente nella sua stessa forma. Questo sapersi è da Hegel caratterizzato come il

risultato o come l’operazione di una progressiva depurazione55 delle categorie che

operano istintivamente e che innanzitutto si presentano in un operare che «è spezzato in

una materia infinitamente molteplice»56. Questa depurazione è spesso indicata come un

processo di «educazione e disciplina della coscienza»57 che eleva il contenuto umano alla

52 A questo riguardo può essere fatto riferimento a Kant. Egli, secondo Hegel, pur avendo, di qui il

suo merito, attuato una nuova critica sulle categorie del pensiero – dopo che le categorie del pensiero

sono state esplicitate da Platone e Aristotele, secondo Hegel non ci sarebbe stato più un ulteriore e

radicale esame critico -, ha limitato tale critica all’applicabilità delle categorie e non alla loro struttura

interna. 53 «Dire che le categorie per sé sono vuote. è un’affermazione infondata, nella misura in cui,

comunque, essendo determinate, hanno un contenuto» Enz. § 43 Z. 54 Cfr. FERRARIN A., Hegel interprete di Aristotele, Pisa 1990, p. 195: «la forma, tolta

l’opposizione alla materia, diventa il contenuto, e il pensare è identico al conoscere, al conoscere il logico

come l’attività che intesse tutti i rapporti del nostro mondo». 55 Cfr. WdL p. 17 (p. 17). 56 Ivi, p. 16 (p. 16). 57 Ivi, p. 44 (p. 41).

41

realtà dello spirito libero. Infatti, questa presa di coscienza della rete delle forme del

pensiero, che agisce in noi in modo inconscio, che ha il suo inizio con la tematizzazione

dei suoi nodi operata dall’intelletto, implica una presa di distanza rispetto ad essa e,

parimenti, la possibilità della posizione di un nuovo livello dell’esercizio spirituale. Da

un lato, dunque, tale presa di distanza, apre la possibilità di sottrarsi al dominio della

metafisica che opera in noi in maniera implicita, e dall’altro apre la possibilità di un

esercizio spirituale che, procedendo sulla base della sola struttura interna delle

determinazioni del pensiero, si configura come un determinarsi del pensiero unicamente

da sé. In tale attività del pensiero, infatti, le sue determinazioni, essendo considerate in sé

e per sé, sono esse stesse tanto l’attività che le esamina quanto l’oggetto dell’esame; esse

stesse cioè «si sottopongono ad esame» ed esse stesse determinano i loro limiti e i loro

difetti58. Questa auto-determinazione del pensiero è la sua libertà; il suo esercizio è ciò

che conferisce alla realtà dello spirito la caratteristica di essere libero. Tale attività del

pensiero, però, piuttosto che rappresentare il nostro dominio sul pensiero, non si muove

che dal riconoscimento e il rispetto della razionalità che, nel sapersi del pensiero, ci

pervade. In questo senso, si può indicare nella modestia e nell’umiltà, consistenti nel

«non attribuire alla propria soggettività alcuna particolare proprietà o attività»59, le virtù

del pensiero60.

58 Enz. § 41 Z 1. 59 Ivi, § 23 A. 60 Hegel ad esse contrappone anche una cattiva modestia e umiltà del pensiero determinate come il

«tener fermo il punto di vista della finitezza come un punto di vista ultimo, e [considerare] il voler

procedere oltre come una temerarietà, anzi come una follia del pensiero. – Invece, è piuttosto la peggiore

delle virtù questa modestia del pensiero, che fa del finito qualcosa di assolutamente fisso, un assoluto. [...]

La modestia della quale si è fatto cenno consiste nel tener fermo questo vano, questo finito, contro il vero,

e proprio per questo è vanità» (ivi, § 386). La falsità di questa modestia ha il suo esempio paradigmatico

nella domanda di Pilato a Gesù: «Pilato domandò: che cos’è la verità? come uno che l’ha fatta

completamente finita con questo problema e per il quale niente ha più significato» (ivi, § 19 Z 1); in

questo senso, la modestia si risolverebbe nella vanità soggettiva.

42

7. Conclusione

Sulla base del percorso compiuto in questo capitolo mi sembra di poter affermare

che la concezione hegeliana del pensiero, come appare nei passi presi in considerazione,

cerchi di mantenere insieme, in una concezione monistica del pensiero, più modi

d’intendere il pensiero, come una concezione, cioè, che si presenta essenzialmente

differenziata al proprio interno:

1. da un lato, al livello non-conscio, il pensiero può essere inteso come l’elemento

logico o il sistema di determinazioni razionali che pervade e struttura tanto le nostre

attività quanto la realtà. Esso da un lato è oggettivo in quanto indipendente nella sua

validità dal soggetto finito, dalle sue attività mentali o linguistiche. Dall’altro, come

abbiamo più volte accennato, anche se senza renderlo argomento diretto dell’indagine,

esso è oggettivo in quanto la sua logicità coincide con la legalità stessa del reale. Come

tale le sue forme o determinazioni possono essere conosciute tanto nell’elemento del puro

pensiero (sfera della logica), quanto nell’elemento dell’esteriorità (sfera della natura),

quanto nell’elemento dello spirito. Al livello inconscio, inoltre, il pensiero viene ad

indicare, la logica naturale o logica inconscia come elemento attivo che attraversa e

struttura di determinazioni di pensiero - acquisite soprattutto attraverso differenti pratiche

sociali, tra le quali, di particolare importanza, il linguaggio - ogni attività umana; questa

logica inconscia non coincide con il sistema di determinazioni pure del pensiero.

2. dall’altro lato, ad un livello conscio, il pensiero può essere inteso come una nostra

attività o facoltà «accanto alle altre», quali la sensibilità, la rappresentazione e il volere, e

come tale la sua trattazione trova la sua collocazione sistematica all’interno della filosofia

dello spirito soggettivo, nella psicologia61. Affermare che il pensiero può essere inteso

come attività del soggetto finito non significa però affermare che questo sia qualcosa

d’altro rispetto al pensiero del punto (1), piuttosto, ricordando l’affermazione hegeliana

secondo cui non si dà che un solo pensiero, si dovrebbe affermare che il pensiero come

61 In essa il modello del pensiero come facoltà accanto alle altre, si mostrerà insufficiente e sarà

rielaborato in direzione dell’unità vivente dello spirito.

43

attività soggettiva non è che il modo in cui quest’unico pensiero si manifesta nella sfera

dello spirito62.

2.1 Nachdenken e spekulativ Denken (o philosophische Nachdenken) sono modi

differenti in cui il pensiero può cogliere la razionalità del reale nella forma che secondo

Hegel gli è propria, quella del pensiero. Essi sono «pensiero in quanto forma». In questo

senso, questi modi del pensiero, come attività del soggetto, riflettendo su qualcosa,

producono un universale che può contenere «il valore della cosa, l’essenziale, l’interno, il

vero»63; solo attraverso questo tipo di attività «la vera natura dell’oggetto»64 può

pervenire alla coscienza.

Nel primo caso, quello del Nachdenken, l’universale raggiunto è astratto e si basa

sull’istinto della ragione, nel secondo caso l’universale è indicato come un universale

concreto, non separato dal particolare che lo istanzia. Che quest’universale sia tanto la

vera natura dell’oggetto quanto un prodotto dell’attività del soggetto, non implica (a) una

riduzione dell’oggettività ad una visione di tipo rappresentazionalista, per la quale

l’oggettività è determinata in relazione all’universalità di una particolare forma di

soggettività; come pure non implica (b) una riduzione dell’operazione soggettiva ad una

sorta di realismo ingenuo, secondo il quale il conoscere interverrebbe su un materiale

oggettivo dato, estraneo e separato dal pensiero stesso. Le difficoltà che da questa

concezione, riassumibile con l’espressione «pensiero oggettivo», possono risultare, mi

sembra possano essere affrontate, senza ricadere in (a) o in (b), solo a partire dalla

considerazione che tanto il soggetto quanto l’oggetto sono attraversati dalla medesima

trama razionale, essenzialmente dinamica, che nel caso del soggetto può giungere a

coscienza. Tale comune radice logica, sembra essere la base per impostare, nella

prospettiva hegeliana, una risposta alle questioni fondamentali che qualsiasi filosofia che

si ponga il problema della natura dei pensieri deve affrontare, ed in particolare, tra le

altre, quella della loro accessibilità e quella del loro riferimento65.

62 Cfr. ILLETTERATI L., La decisione dell’idea. L’idea assoluta e il suo “passaggio” nella

natura in Hegel, «Verifiche», XXXIV (3-4), 2005, pp. 239-272, pp. 262 sgg. 63 Enz. § 21. 64 Ivi, § 22. 65 Particolare attenzione su queste questioni è stata posta da Frege soprattutto nel saggio Il

pensiero. Una ricerca logica, in Ricerche logiche, trad. it. R. Casati, a cura di M. Di Francesco, Guerini e

44

Associati, Milano 1988. Riguardo alla questione del riferimento, in direzione della prospettiva hegeliana,

si sono concentrati negli ultimi anni, i lavori di McDowell nella sua declinazione in rapporto

all’esperienza, come «direzionalità del pensiero verso lo stato di cose» (McDOWELL J., Mind and

World, Cambridge 1994; Mente e mondo, trad. it. C. Nizzo, Torino 1999, XII). Il suo lavoro, a tal

proposito, sembra muoversi a partire dalla domanda: com’è possibile il pensiero empirico? Secondo E.

Sacchi, inoltre, una risposta adeguata al problema della natura del pensiero, per essere tale, non deve

rendere problematiche le questioni dell’afferrabilità dei pensieri e del loro vertere sul mondo, essendo

questi «due tra i principali tratti caratterizzanti il pensiero» (SACCHI E., Pensieri e rappresentazioni.

Frege e il cognitivismo contemporaneo, Roma 2005, p. 156).

45

CAPITOLO SECONDO

In my opinion the greatest advantage to be

derived from the study of Hegel is a detailed

comprehension of what it means to try to “give

an account”, not of this or that, but of anything

whatsoever66

1. Introduzione

Le distinzioni interne al pensiero da Hegel proposte nell’introduzione

all’Enciclopedia, possono apparire come definizioni stipulative. In tal caso, per quanto

esse possano risultare di una certa utilità pratica, non presenterebbero necessariamente

una validità, o meglio vincoli di carattere teoretico. Esse cioè, per avanzare pretese di

validità su altri usi, devono portare ragioni a proprio sostegno, in altre parole devono

eliminare il carattere stipulativo con cui possono apparire; devono essere giustificate.

Qualora ciò non venga fatto, ogni altra posizione si presenta ugualmente possibile:

tanto quella dell’empirismo, per esempio, che, in linea generale, attribuisce

un’insopprimibile condizionatezza dall’esperienza, per la quale la validità di ogni idea o

relazione tra idee dipenderebbe esclusivamente dalla sua corrispondenza con lo stato di

cose del mondo; quanto la posizione del razionalismo che, altrettanto in generale, a

differenza dal primo, sostiene la possibilità di una conoscenza intuitiva e deduttiva per

alcuni oggetti di un determinato ambito, in modo che la validità di alcune idee e di alcune

relazioni tra idee dipenderebbe da questa sorta di intuizione interna e dalla correttezza

delle deduzioni che si costruiscono a partire da essa, attribuendo dunque ad alcune

operazioni mentali il carattere di necessità67.

66 ROSEN S., G. W. F. Hegel: An Introduction to the Science of Wisdom, New Haven and London

1974, p. 262. 67 Cfr. la prima parte di BURBIDGE J., On Hegel's Logic: Fragents of a Commentary,

Atlantics Highlands NJ 1981.

46

Secondo Hegel, diversamente dagli empiristi, le relazioni tra i pensieri, quali causa

ed effetto, non sono il prodotto di generalizzazioni attuate su relazioni di cui abbiamo

avuto esperienza nello spazio e nel tempo; e al contempo, diversamente dai razionalisti,

non sono nemmeno idee innate, ossia delle proprietà di carattere metafisico, cioè non

naturale, che caratterizzerebbero gli esseri umani68. Spesso Hegel indica come compito

della filosofia proprio quello di rendere esplicito le relazioni che sarebbero interne a ciò

che esperiamo. In altri termini, il pensiero puro non sarebbe un’entità, proprietà, astratta,

che esisterebbe in un presunto luogo ideale separato dall’esperienza ordinaria. Esso è

innanzitutto funzione di un’intelligenza che si è evoluta storicamente e culturalmente, e

che può rendere esplicite tanto le proprie operazioni, quanto le relazioni implicite al

mondo, ossia a ciò al cui interno si trova a vivere.

In quanto segue cercherò di fornire alcune giustificazioni per le distinzioni

proposte, spesso riarticolandole in forma differente a seconda del contesto, percorrendo la

discussione delle tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività come discussione

intorno alla natura del pensiero.

1.1 Pensiero puro e rappresentazione

Come più volte accennato nel primo capitolo, nell’introduzione dell’Enciclopedia

Hegel cerca di fornire una prima determinazione della filosofia in rapporto alle scienze,

al senso comune e soprattutto, avendo entrambe il medesimo oggetto, in rapporto alla

religione. A questo primo tentativo di differenziare l’una dalle altre corrisponde quello di

fornire una differenziazione del pensiero in se stesso. Questo tentativo si potrebbe

articolare nel tentativo di distinguere essenzialmente tra pensiero puro e pensiero non

puro. Il pensiero puro, come ho cercato di mostrare nel capitolo precedente, si articola al

suo interno in due forme principali: pensiero puro astratto e pensiero puro concreto. Tale

distinzione dovrebbe poter essere ulteriormente complicabile sulla base del suo ambito di

68 Cfr. RAND S., From A Priori Grounding to Conceptual Transformation: The Philosophy of

Nature in German Idealism, a Dissertation, Evaston, Illinois, 2006, pp. 246-8.

47

applicazione, prima distinzione fra tutte quella tra la logica come scienza del pensiero e le

scienze della natura.

La prima caratterizzazione distintiva del pensiero puro in rapporto al pensiero non

puro, considerandolo a partire dal rapporto tra un universale e gli individui che sono

sossunti sotto di esso, è quella che le sue istanziazioni – gli individui - non sono oggetto

di esperienza sensibile, se intendiamo per esperienza sensibile solo le percezioni in

quanto tali: ho esperienza sensibile solo di stati di cose, non, p.e., del rapporto di

causalità che intercorre tra loro. I pensieri che non sono puri, invece, sono pensieri in cui

riconosciamo un contenuto indipendente ed isolato: se penso che il carpino in giardino è

molto nodoso, penso qualcosa di determinato, un contenuto isolato che posso afferrare.

Questi pensieri non puri, tenendo conto naturalmente della molteplicità di sensi in cui

Hegel usa queste espressioni, sono ciò che Hegel chiama rappresentazioni. Esse, in linea

generale, possono essere: a) rappresentazioni empiriche; b) rappresentazioni non

empiriche.

a) Le rappresentazioni empiriche sono pensieri aventi come proprie istanziazioni

oggetti di esperienza sensibile: quando pensiamo una rosa rossa, per esempio, ciò che

pensiamo è una rappresentazione sensibile di essa. Questo tipo di pensiero ha un

contenuto che deriva dall’esperienza sensibile.

b) Le rappresentazioni non-empiriche sono pensieri aventi istanziazioni che non

sono oggetto dell’esperienza sensibile, ma sono prodotti dello spirito. Tali pensieri, per

esempio, sono per Hegel i pensieri della moralità, dell’eticità e della religione, ossia sono

pensieri aventi come istanziazioni dei prodotti spirituali, dei prodotti culturali.

1.2 Pensiero puro e rappresentazioni non empiriche

Il problema principale cui Hegel si trova di fronte con queste distinzioni è quello

di distinguere positivamente, non solo in via negationis, il pensiero puro dalle

rappresentazioni non empiriche. A ciò corrisponde la particolare insistenza69 sulla

69 Tale insistenza come si è già accennato è determinata anche da altri fattori, non da ultimo fattori

completamente contingenti quali la riforma prussiana della religione e l’acceso dibattito con

48

determinazione della filosofia in rapporto alla religione, e, all’interno di questo rapporto,

quella di porre dallo stesso lato della religione la morale, l’eticità, il diritto, ecc., ovvero

tutti quegli ambiti relativi ad un pensiero che non è puro ma che al contempo non è

neppure empirico.

La distinzione però non appare sempre netta. Tra pensiero puro e

rappresentazione, sia questa empirica o non empirica, essa sembra dover essere

soprattutto una distinzione riguardante il contenuto: sia la rappresentazione che i pensieri

infatti hanno la forma dell’universalità. Che cosa sia questa universalità, tuttavia, non è

affatto chiaro e facilmente determinabile. Su ciò si ritornerà in seguito.

Una via attraverso cui Hegel cerca di fornire questa distinzione è quella di indicare

come entrambe le forme di rappresentazione mantengano un contatto con l’esperienza

sensibile. La rappresentazione empirica ha come contenuto un oggetto di esperienza

sensibile, la rappresentazione non empirica, invece, ha un contenuto che, pur non essendo

empirico, presenta alcune caratteristiche dell’oggetto dell’esperienza sensibile. Queste

caratteristiche sono l’isolamento rispetto agli altri contenuti e la separatezza. Le

rappresentazioni non empiriche dunque, sarebbero legate all’esperienza sensibile in

quanto il loro contenuto si presenta come discreto e isolato in un modo parallelo ai

contenuti dell’esperienza sensibile; in altre parole nella rappresentazione allineiamo uno

accanto all’altro nello spazio mentale, nell’universalità, dei contenuti che rimangono in

relazioni di estrinsecità l’uno rispetto all’altro, così come nello spazio fisico gli oggetti di

esperienza sensibile si dispongono l’uno accanto all’altro (cfr. Enz. § 24).

1.3 Isolamento e connessione

E’ facile notare, tuttavia, come una tale distinzione sia ancora piuttosto

problematica se non ulteriormente articolata. E’ sufficiente introdurre una differenza fatta

valere spesso da Hegel tra due modalità di rapporto ai pensieri, l’intelletto e la ragione,

per sfumarla. Entrambe queste modalità di pensare infatti si possono rapportare al

Schleirmacher durante il periodo berlinese, cfr ROSENKRANZ K., Hegels Leben, Berlin 1844; Vita di

Hegel, trad. it. R. Bodei, Firenze 1966, pp. 357 sgg.

49

pensiero puro. La ragione si rapporta ai pensieri seguendo le loro interconnessioni

interne, mentre l’intelletto li tratta come distinti e sconnessi l’uno dall’altro. Gli stessi

pensieri puri, quindi, possono essere trattati come se fossero nettamente distinti e separati

l’uno dall’altro, allo stesso modo, secondo alcune indicazioni di Hegel relative ad alcune

concezioni religiose, le rappresentazioni, o per lo meno alcune di esse, e i loro oggetti,

possono essere trattate in maniera fluida, o speculativa. Se quest’ultimo aspetto può

essere spiegato per il fatto che i pensieri con le loro interconnessioni intrecciano anche le

rappresentazioni attraverso il loro «legame spirituale» (Enz. § 20 Z), siano queste

empiriche o non empiriche, rimane che le rappresentazioni possono essere trattate in

modo dinamico quanto in modo statico, e, dunque, che questa differenza sembra non

poter essere portata a supporto di una netta distinzione tra pensieri puri e rappresentazioni

non empiriche.

Se può sembrare che intelletto e rappresentazione siano la stessa cosa essendo

accomunati dall’isolamento delle proprie determinazioni, si può però notare nelle loro

operazioni una differente forma di isolamento70. Una via per portare maggior forza a

questa distinzione è quella di attuare una differenziazione tra i livelli in cui il carattere

dell’isolamento caratterizza la rappresentazione e i pensieri puri secondo l’operare

dell’intelletto, ovvero sostenere che l’isolamento che caratterizza la rappresentazione è

relativo a elementi differenti di quello che caratterizza la modalità di pensare i pensieri

puri dell’intelletto. Nella rappresentazione ciò che costituisce il suo oggetto si presenta

come isolato. Per esempio, le sue proprietà - che questo tavolo sia di legno, sia marrone,

rettangolare, ecc. - sono tenute insieme in maniera estrinseca, cioè non sono legate tra di

loro. L’intelletto invece, porrebbe in relazione gli elementi della rappresentazione e

dell’oggetto attraverso determinazioni di pensiero, pensieri puri, come la relazione

causale, la relazione di universale e particolare, ecc., e l’isolamento riguarderebbe non

quelle prime caratteristiche dell’oggetto poste ora in relazione dall’intelletto, ma ciò

attraverso cui l’intelletto mette quelle in relazione. L’isolamento, come caratteristica

delle operazioni dell’intelletto, cioè, sarebbe relativa alle determinazioni con cui esso

70 Cfr. l’Annotazione al § 20, in cui Hegel fornisce una distinzione tra intelletto e rappresentazione,

partendo dall’isolamento che le accomuna; rispetto a quest’ultimo afferma: «la rappresentazione concorda

in tal caso con l’intelletto».

50

mette in relazione gli elementi che nella rappresentazione erano isolati. Si tratta quindi di

un secondo livello: l’intelletto attraverso le determinazioni di pensiero mette in relazione

gli elementi isolati della rappresentazione; tuttavia, queste relazioni, quelle delle

determinazioni di pensiero, non sono colte dall’intelletto nelle loro relazioni reciproche,

sono colte solo nel loro isolamento, in maniera statica. Questa distinzione di livelli

potrebbe essere articolata in altri termini: ogni forma di un contenuto verrebbe ad essere

la materia di una superiore forma di considerazione71. Questo tuttavia, sembrerebbe

reggere abbastanza bene per quanto riguarda la rappresentazione empirica. La

rappresentazione non empirica, infatti, sembrerebbe porsi anch’essa a questo secondo

livello e caratterizzarsi per il coglimento delle relazioni tra elementi attraverso relazioni

che si presentano legate all’esperienza sensibile. La rappresentazione non empirica

presenterebbe comunque, e questo sembrerebbe porsi come base della sua distinzione dal

pensiero puro, un contatto con l’empirico.

1.4 Analogie del contatto con l’empirico

Nell’Introduzione della Scienza della logica, la logica, che altro non è che il

sistema dei pensieri puri, è paragonata alla grammatica72. In questo senso, Hegel

sembrerebbe proporre una distinzione attraverso l’analogia del rapporto del linguaggio

con la sua grammatica. Mentre una rappresentazione sarebbe come un enunciato, i

pensieri puri ne sarebbero la struttura formale, la grammatica.

Tale metafora si rivela altamente esplicativa esclusivamente per le

rappresentazioni empiriche. Infatti, queste, come gli enunciati, non sono interamente

esauribili dalle forme di pensiero che le strutturano: tanto l’enunciato “questa quercia ha

molte ghiande” quanto la sua rappresentazione, implicano pensieri come quello di essere,

di essere determinato, ecc., e con ogni probabilità implicano gli stessi pensieri

dell’enunciato e della rappresentazione “questo ciliegio ha molte ciliegie”, tuttavia la

differenza tra il primo enunciato o rappresentazione e il secondo enunciato o

71 FERRARIN A., Hegel and Aristotele, cit, p. 289. 72 Cfr WdL 38-9, e INWOOD M., Hegel, London 1983, pp. 24 sgg.

51

rappresentazione che esso esprime come non è colta dalla loro struttura grammaticale,

che è identica, altrettanto non lo è dalle strutture di pensiero da esse implicate. Essa è

data solo dai loro elementi empirici. Riportare una rappresentazione empirica o il suo

oggetto alla sua struttura di pensiero puro implicherebbe sempre un avanzo, costituito

dagli elementi di empiricità e contingenza che li costituiscono come differenti dalle altre

rappresentazioni e oggetti dello stesso tipo.

Diversamente sembra che Hegel ritenga accadere riguardo le rappresentazioni non

empiriche, quali quella di Dio, della morale, del diritto, ecc. Per esse infatti, Hegel

sembra sostenere che vi sia una completa traducibilità in termini di pensiero. Per il caso

delle rappresentazioni non-empiriche sembra, cioè, necessario usare un altra forma di

rapporto distintivo. Spesso Hegel usa quello sussistente tra la metafora e il letterale, a

partire da una concezione della metafora per cui essa è interamente riducibile al letterale

senza perdita di significato. La rappresentazione non empirica cioè sarebbe una metafora

del suo concetto, come pensiero puro (Enz. § 3 A). Anche in questo caso, l’elemento

distintivo risiederebbe quindi in un legame con l’esperienza empirica mantenuto dalla

rappresentazione non empirica. La rappresentazione non empirica di qualcosa, con i

rapporti di natura esperienziale che propone, non sarebbe che una metafora del pensiero

di quel qualcosa. Nella rappresentazione di Dio, per esempio, colgo le relazioni tra i suoi

momenti attraverso la relazione tra padre e figlio73.

Tuttavia, che significa che le relazioni, con la rappresentazione non empirica,

presentano un forte legame con l’empirico74? Questa formulazione, per la sua genericità è

73 La relazione tra la rappresentazione di Dio e il suo concetto dunque non è affatto una relazione

oppositiva. Il concetto non si oppone alle «semplici rappresentazioni della fede» (Enz. § 564 A). Tuttavia

non si può non riconoscere nella tesi completa traducibilità della metafora una subordinazione

all’elemento del sapere. Su questo punto, infatti, si soffermerà molta della teologia contemporanea, Karl

Barth in primis, accentuando nel mistero, l’elemento di irriducibilità di Dio e della religione al sapere (cfr.

BARTH K, Die protestantische Theologie im 19. Jahrhundert, ihre Vorgeschichte und ihre Geschichte,

Zollicon, Zürich 1952, Capitolo X, «Hegel», in particolare pp. 48-9). Anche J.-L. Marion, in Dieu sans

l’être, percorre questa strada determinando il segreto di Dio come un segreto che non riguarda l’intelletto

o il sapere (MARION J.-L., Dieu sans l’être, Paris 1991, p. 26; p. 275). 74 La rappresentazione potrebbe essere interpretata cioè come una sorta di pensiero figurativo, ossia

come un porre quelle relazioni tra le determinazioni in figure empiriche. In questo senso sembra andare P.

Ricouer quando afferma: «Il termine [Vorstellung] [...] assume senso nella coppia di opposti Vorstellung

52

ancora indubbiamente insufficiente. Cosa si intende inoltre, in maniera più dettagliata e al

di fuori del linguaggio hegeliano quando si parla di isolamento, tanto nella

rappresentazione quanto nella modalità operativa dell’intelletto? E cosa si intende inoltre

con interconnessione di quelle relazioni, o determinazioni di pensiero? Cosa questa

implica e cosa questa richiede? Perché, inoltre, tale interconnessione delle determinazioni

del pensiero puro è da caratterizzarsi come una visione fluida del pensiero, mentre il loro

isolamento ad opera dell’intelletto come concezione statica? Visto che una connessione

reciproca di determinazioni può essere attuata in un sistema statico di determinazioni,

come per esempio potrebbe essere in qualche sistema formale, cosa significa e implica

caratterizzarla come fluida? Uno dei compiti che ci si prefigge in quanto segue sarà di

tentare di dare una risposta o di chiarire ulteriormente questi problemi.

2. La metafisica, ovvero: il vecchio pregiudizio

La prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività viene denominata da Hegel

“metafisica”. Essa, cioè, caratterizzerebbe ogni atteggiamento del pensiero nei confronti

della realtà, da quello del senso comune a quello delle scienze naturali, in quanto

riconducibile ad un pensiero di tipo metafisico.

Cosa si intende per “pensiero di tipo metafisico”? Il termine “metafisica”, come

noto, presenta una storia talmente complessa, ricca di ambiguità, di svolte, che sembra

e Begriff». [...] Si dovrebbe tradurlo non con rappresentazione, ma con “pensiero figurativo”. Il termine

“rappresentazione” è accettabile solo in quanto esso sottolinea l’estensione della Vorstellung nel suo uso

hegeliano, che copre non solo i racconti e i simboli – le “immagini”, se si vuole, ma anche espressioni

talmente elaborate e in un certo senso concettualizzate quali quelle della Trinità, della Creazione, della

Caduta, dell’Incarnazione, della Salvezza, ecc.; in breve, non solo il discorso religioso ma anche quello

teologico. La tesi di Hegel è che, per quanto razionalizzato possa essere tale discorso, esso non è ancora

concettuale, nel senso forte del termine, ma è ancora figurativo» RICOEUR P., Lectures 3. Aux frontière

de la philosophie, pp. 41-62. Tuttavia, che il contatto con l’empirico presente nella rappresentazione non

possa essere chiarito intendendo questa solo come pensiero figurativo, può essere indicato osservando che

gli elementi dell’immaginario, del simbolico del mitico, per Hegel non sono che momenti tra i più

indeterminati e immediatamente naturali, della rappresentazione (cfr. MALABOU C., L’avenir de Hegel,

Plasticité, temporalité, dialectique, Paris 1996, p.157).

53

che ogni filosofo «intenda “metafisica” in modo differente»75. Basti pensare a come il

suo uso, indicante lo studio delle cose prime e ultime, ossia la filosofia prima, e

particolarmente l’ontologia, sia stato sottoposto, in particolare con la filosofia moderna e

kantiana, ad una trasformazione tale da legarlo strettamente con l’epistemologia. Nella

stessa filosofia del novecento, si possono notare le ambiguità o diversità nell’uso del

termine per esempio, accennando alle due maggiori critiche cui è stata sottoposta la

metafisica e alle reciproche incomprensioni dovute proprio a tali differenze. Basti cioè

pensare alla critica della metafisica attuata dal positivismo logico, e da Carnap in

particolare, e alla sua critica attuata dalla cosiddetta tradizione ermeneutica, da Heidegger

a Derrida. Per quanto riguarda Hegel, la questione si potrebbe semplificare affermando

che per pensiero metafisico, egli generalmente intende una posizione di pensiero che è

caratterizzata da un bisogno di fondazione in cui questa è concepita come esterna al

fondato. Un fondamento, cioè, una «salda base di appoggio», su cui e a partire da cui il

pensare avanzerebbe le proprie pretese. Come si vedrà, tale aspetto si presenta in tutte le

posizioni del pensiero rispetto all’oggettività, e per tale aspetto tutte queste presentano un

fondo metafisico. Per sfuggire ad esso, occorre per Hegel ripensare l’elemento

fondativo76. Un tale ripensamento conduce per Hegel a quella totale assenza di

presupposizioni che deve caratterizzare il pensiero libero77.

La prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività rappresenta quel pensare

ingenuo caratterizzato dalla fede per cui «si possa conoscere la verità mediante il

riflettere». Secondo questo vecchio pregiudizio, riflettendo, possiamo sapere «cosa c’è di

vero negli oggetti, negli avvenimenti e anche nei sentimenti, nelle intuizioni, nelle

rappresentazioni ecc.» (Enz. § 5).

Questo modo di pensare il rapporto tra pensiero e realtà, è un pensiero ingenuo o

spontaneo poiché non si rende conto che ciò che sappiamo attraverso il riflettere è un

«prodotto della sua attività» (Enz. § 21), ossia che il vero a cui si perviene tramite

75 ROCKMORE T., Hegel’s Metaphysics, or the Categorial Approach to Knowledge of

Experience, inHegel reconsidered. Beyond Metaphysics and the Authoritarian State, ed. by H. T.

Engelhardt Jr. and T. Pinkard, Boston 1994, pp. 43-57, p. 44. 76 Cfr. NUZZO A., Logica e Sistema, cit., pp. 55-98. 77 Cfr. HOULGATE S., Hegel, Nietzsche and the criticism of Metaphysics, Cambridge

2004, pp. 100-104; pp.123-140.

54

quest’attività è il prodotto di una trasformazione effettuata sulla sensazione,

sull’intuizione, sulla rappresentazione (Enz. § 22). Questo modo di pensare il rapporto tra

pensiero e realtà è dunque ingenuo o spontaneo perché non attua quella riflessione

seconda che, a partire dal riconoscimento dell’aspetto poietico del pensiero, pone a

proprio oggetto le operazioni che il pensiero compie nel suo rapporto alla realtà.

Per chiarire la natura di tale fede occorre innanzitutto rilevare che Hegel nota, in

riferimento alla posizione del sapere immediato, che il termine Glaube può indicare sia la

fede religiosa che la credenza, il belief inglese, e dunque tanto un atteggiamento

proposizionale avente un contenuto più o meno determinato, sia questo empirico o non

empirico: “credo che la foglia dell’olmo sia dentellata”, “credo che tu sia un uomo degno

di stima”, quanto un atteggiamento che sembra difficilmente riducibile ad una

convinzione esclusivamente teoretica. A scopo di chiarimento, per semplificare, non

seguo Locke nella distinzione tra credenza e fede sulla base della natura – naturale o

soprannaturale78 – dell’oggetto della credenza o della fede, ma a partire da una

concezione olistica della credenza, in cui vi sono credenze più fondamentali e credenze

periferiche che si relazionano in forma diversa le une alle altre, intendo il belief, o la

credenza teoretica, come un atteggiamento proposizionale che può essere vero o falso e

dotato di un’estensione e un campo d’azione molto limitato, mentre la credenza religiosa

per il suo possibile carattere di omnipervasività nei confronti del mondo della vita, la

intendo come una credenza fondamentale. Questa duplicità di aspetti è facilmente

rinvenibile nel caso della fede religiosa. Infatti, sebbene possa indicare un sistema più o

meno determinato di atteggiamenti proposizionali aventi a contenuto una particolare

dottrina – e dunque dei beliefs -, il termine «fede» in questo ambito viene ad indicare

anche, in senso molto generale, il rapporto dell’uomo con Dio, un atteggiamento dunque,

la credenza non esclusivamente teorico, che può coinvolgere e determinare lo stesso

mondo della vita. Questa, cioè, a differenza di un atteggiamento proposizionale teoretico

che può essere vero o falso, inteso come specificato, oltre che comprendere elementi

quali la fiducia, la speranza, l’obbedienza, può rivelare un’influenza sull’intero sistema di

credenze tale da poter dare orientamento ad una vita nella sua interezza.

78 Cfr. LOCKE J., An Essay Concerning Human Understanding; Saggio sull'intelletto umano, trad.

it. V. Cicero, M. G. D'Amico, Milano 2004, L. IV, Cap. XVI § 14.

55

Nel nostro caso, riguardo alla fede ingenua nell’unità di pensiero ed essere, la fede

non sembra riducibile né a qualcosa come la fede religiosa né a qualcosa come il belief

come atteggiamento proposizionale, ma sembra piuttosto prendere aspetti dell’una e

dell’altro. Essa presenta aspetti propri dell’atteggiamento proposizione in quanto

sembrerebbe possedere un contenuto determinato, seppur proprio per l’ingenuità che la

caratterizza, non si è coscienti di esso, e presenta, come la fede religiosa, un elemento che

pervade i differenti ambiti della vita e che, proprio in quanto si mostra capace di conferire

un orientamento tanto al teoretico quanto al pratico, sembra irriducibile al solo elemento

teoretico che caratterizza l’atteggiamento proposizionale della semplice credenza. Essa,

cioè, può essere considerata legittimamente come una di quelle credenze fondamentali

che, alla base di ogni sistema di credenze, ne conferiscono il senso, la direzione,

l’orientamento.

Su tale fede o pregiudizio può essere fatta una duplice considerazione, l’una

riguarda il contenuto, ciò a cui in essa ci si affida, l’altra la sua forma, il suo essere

appunto una fede. Da un lato, il procedere sulla sua base pone questo modo di pensare al

di sopra del criticismo: questo rimanendo irretito sull’aspetto produttivo del riflettere,

resterebbe intrappolato nella frattura tra soggetto conoscente ed oggetto, condannando il

pensiero ad essere meramente soggettivo ed il conoscere ad essere limitato ai termini

della condivisibilità - l’irretimento su tale aspetto, per l’omnipervasività di questa

credenza, conferirebbe secondo Hegel un carattere distintivo all’epoca stessa: essa

sarebbe malata di «disperazione» (Verzweiflung), disperazione di poter accedere al reale

(Enz. § 22 Z). Questa disperazione è determinata dalla riduzione della conoscenza a

qualcosa di soltanto soggettivo. Il soggettivo sarebbe l’ultimo (dieses Subjektive das

Letzte sei)79. Tale fede, invece, seppur ignorando l’aspetto poietico, si configurerebbe

79 Cfr. anche Enz., II prefazione p. 91; GPhD, prefazione p. 17; § 21 A. Per Hegel la disperazione è

dunque l’effetto di una patologia, tale patologia sarebbe il soggettivismo. Interessante notare come questo

sia anche indicato come l’origine del male: «Lo spirito deve essere libero e deve essere quello che è

mediante se stesso. Per l’uomo la natura è il punto di partenza che egli deve trasformare. [...] L’uscire

dell’uomo dal suo essere naturale è il suo distinguersi come essere auto-cosciente da un mondo esterno.

Questo punto di vista pertinente al concetto di spirito, il punto di vista della separazione, non è però

quello a cui l’uomo deve fermarsi, In questo punto di vista della scissione rientra l’intera finitezza del

pensare e del volere. In questo ambito l’uomo si pone da sé degli scopi, e prende da sé il materiale del suo

56

agire. In quanto porta agli estremi questi scopi, sa e vuole soltanto se stesso nella sua particolarità con

esclusione dell’universale, l’uomo è cattivo, e questa malvagità è la sua soggettività» § 24 Z 3. Questa

associazione tra la separazione dall’oggettivo e la malvagità, è presente anche nella teoria hegeliana della

verità in senso ontologico. Secondo tale teoria la verità consiste nell’identità dell’oggetto con il concetto.

Di tale concezione Hegel porta alcuni esempi di uso comune: a questa nozione facciamo appello quando

parliamo di un «vero stato», una «vera opera d’arte», ossia: diciamo che uno stato o un’opera d’arte è

vera in quanto tale oggetto corrisponde a ciò che deve essere, la sua realtà corrisponde al suo concetto. Il

non-vero è anche chiamato il cattivo [das Schlechte]. Un «uomo cattivo» è «un uomo che non si comporta

in modo conforme al suo concetto o alla sua destinazione». Il cattivo, tuttavia, non è privo di rapporto al

suo concetto, se lo fosse non sussisterebbe: «l’assolutamente cattivo o l’assolutamente opposto al

concetto è [...] qualcosa che si disgrega in se stesso», il disgregarsi del qualcosa avviene quando viene

meno il rapporto di questo qualcosa con il suo concetto (Enz. § 213 Z).

Nell’ambito dell’Enciclopedia, la disperazione compare a caratterizzare l’epoca moderna anche in

una nota al § 440 della Psicologia: «La moderna disperazione per la conoscibilità della verità è estranea

ad ogni filosofia speculativa come ad ogni religiosità autentica. Un poeta altrettanto religioso quanto

pensante, Dante, esprime la propria fede nella conoscibilità della verità in modo così pregnante, che noi ci

permettiamo di riprodurre qui le sue parole. Egli dice, nel quarto canto del Paradiso, versi 124-130: Io

veggio ben che già mai non si sazia/ nostro intelletto, se’l ver non lo illustra/ di fuor dal qual nessun vero

si spazia./ Posasi in esso come fera in lustra,/ tosto che giunto l’ha; e giunger pòllo:/ se non, ciascun disio

sarebbe frusta.» (Enz. § 444 Zc).

La disperazione come separazione tra il soggettivo e l’oggettivo in ambito religioso compare

come effetto dell’unilateralità con cui viene risolto il dissidio tra intellezione e religione, in un passo che

meriterebbe un lungo commento: «Se è sorto il dissidio tra l’intellezione e la religione e non viene

composto nella conoscenza, esso conduce alla disperazione, che subentra al posto della conciliazione.

Questa disperazione è la conciliazione attuata unilateralmente. Se si getta via un lato e si tiene fermo

soltanto l’altro, non si ottiene però una vera pace. A quel punto, o lo spirito, scisso in sé, respinge la

richiesta dell’intellezione e vuole ritornare al sentimento religioso ingenuo. Lo spirito lo può fare, però,

solo se fa violenza a se stesso; infatti, l’autonomia della coscienza esige appagamento, non permette che

la si respinga forzatamente, e lo spirito sano non è capace di voler rinunciare al pensiero autonomo. Il

sentimento religioso diventa nostalgia, ipocrisia e conserva il momento dell’insoddisfazione. L’altra

unilateralità è indifferenza verso la religione, per cui o la si lascia in sospeso disinteressandosene, oppure

alla fine la si combatte. Questa è la coerenza di anime superficiali» [VphR p. 25-26 (Vol. I, p. 86 n. 97)].

La disperazione compare anche come effetto di quest’unilateralità nella «scissione infelice delle anime

pure e sensibili», in cui l’unilateralità con cui è risolta l’opposizione «si perpetua in quanto io ho come

fine , innanzi ai miei occhi, questo io soggettivo, ho a che fare con me, mi preoccupo di questo me stesso.

Questa rigida riflessione impedisce che io possa essere riempito dal contenuto sostanziale, dalla cosa; in

57

proprio come la fede in un accesso del pensiero alla struttura ontologica del reale. Per

questo motivo tale fede «è di estrema importanza» (Enz. § 22 Z). Quando parliamo o

quando agiamo, non parliamo e agiamo in un mondo interno, chiuso in se stesso rispetto

ad un presunto fuori, ma in un mondo che ci circonda e di cui facciamo parte; parliamo e

agiamo, cioè, nella fede che le nostre parole, azioni abbiano presa sul reale e in virtù di

tale fede. Secondo Hegel, infatti, sia al livello del senso comune che a quello proprio

della filosofia pre-critica e delle scienze, l’uomo opera – vive, parla, agisce – nella fede

«che il pensiero concordi con la cosa» (Enz. § 22 Z). Essa è chiamata fede naturale in

quanto la ragione verrebbe al mondo con essa (Enz. § 224)80, ed è caratterizzata come

una fede antica e salda.

Come si è detto, questa fede è la fede che mediante il riflettere si possa cogliere

ciò che è vero nelle cose, tuttavia, cosa significa questo? Cos’è ciò che viene colto in

effetti io mi dimentico nella cosa; in quanto mi affondo in lei, scompare quella riflessione su me. Io sono

determinato come soggettivo, solo in opposizione alla cosa; io rimango per me attraverso la riflessione su

di me [...]. Io mi svuoto continuamente e mi mantengo in questo vuoto. Questo vuoto, in ciò che riguarda

il più alto fine dell’individuo, il devoto sforzo e la preoccupazione per la salvezza della propria anima, ha

dato luogo alle crudeli manifestazioni di una realtà impotente, dalla silenziosa afflizione di un’anima

piena d’amore, fino alle sofferenze dell’animo nella disperazione» (Lezioni sulle prove dell’esistenza di

Dio, cit., p. 56).

Oltre a quest’accezione del termine, nell’opera hegeliana ne compare anche un’altra,

profondamente segnata dallo scetticismo antico, che fa la sua apparizione con la «via della disperazione»

della Fenomenologia (PhG p. 56 (155)), che la coscienza deve percorrere per perdere le proprie verità, e

che si richiede nell’Enciclopedia come condizione del pensare libero: «chi soltanto dubita, ha ancora la

speranza che il suo dubbio possa venire risolto e che l’uno e l’altro termine determinato tra cui oscilla,

risulti essere qualcosa di saldo e di vero» (Enz. § 82 Z). In quest’accezione, dunque, la disperazione più

che essere rivolta alla verità, è rivolta alle verità, alle verità date, che la coscienza, soprattutto quella

ordinaria, si porta dietro di sé nel suo quotidiano operare. Interessante notare però, che l’occorrenza che

compariva in tale accezione a chiusura del Concetto preliminare dell’Enciclopedia del ’17, («L’esigenza

di un tale compiuto scetticismo coincide con quella che il dubitare di tutto, o piuttosto la disperazione di

tutto, cioè, la completa mancanza di presupposti su tutto debba precedere la scienza» Enz. §36 A) è stata

cassata nel paragrafo corrispondente alla versione del ’30 (Enz. § 78 A). 80 «La ragione viene al mondo con la fede assoluta di poter porre l’identità ed elevare la sua

certezza alla verità e con l’impulso di porre anche come nulla quell’opposizione che per essa è nulla in

sé» § 224.

58

questo modo? E cosa significa coglierlo? Non è forse fuorviante l’intera metaforica del

cogliere, dell’afferrare, nel caso del pensiero? Non lo pone, questa metaforica, nelle

braccia del rappresentazionalismo accentuandone l’elemento contenutistico –ciò che

viene colto?

Come si è visto nel capitolo precedente, riflettere non significa semplicemente

pensare: mentre il pensare, nella sua forma rappresentativa, si può fermare ad un qualcosa

che è dato immediatamente, il riflettere è quell’attività del pensiero attraverso cui si cerca

di conoscere le relazioni razionali in ciò che è dato immediatamente, ossia è quell’attività

che cerca di superare questa immediatezza, stabilendo delle relazioni dotate di necessità,

e dunque di trasformare un dato immediato in qualcosa dotato di ragione. Ciò che si

presentava come un dato immediato, in questo modo, viene sottratto all’irrazionalità della

sua immediatezza, e presentato nella sua razionalità81. Stabilendo queste relazioni

razionali, il riflettere può cogliere «il valore della Cosa [Sache], l’essenziale, l’interno, il

vero» (Enz. § 21).

In secondo luogo però, l’accesso al reale è attuato appunto solo sulla base di una

fede, di un pregiudizio. Quest’ultimo aspetto condanna il pensiero che procede sulla sua

base ad essere intrappolato nella condizione di poter fornire pretese di verità che si

fondano solo su un pregiudizio. Tali pretese, dunque, qualora si esiga un qualche

fondamento, sono destinate a cadere sotto i colpi dell’esame. Ogni pretesa di verità, e

ogni scienza che le avanzi, prodotta sulla base di un’ingenua unità di pensiero ed essere

troverà il proprio procedere riconducibile ad elementi di carattere metafisico, e poi

sottoponibile alla critica al procedimento empirico. Tuttavia, è bene ribadirlo, come si è

visto, tali pretese sono indubbiamente, sufficienti per il senso comune, ossia per il

«quotidiano operare della coscienza», non essendo necessario a questo avanzare, nel

proprio ambito, forti pretese di verità, e, in un certo senso, anche per la scientificità delle

discipline scientifiche particolari.

81 Cfr. HÖSLE V., Hegel e la fondazione dell'idealismo oggettivo, Milano 1991.

59

3. La “vecchia metafisica”

Questo modo di considerare il rapporto tra pensiero e realtà appartiene tanto al

senso comune quanto a ciò che Hegel chiama metafisica, sia alla metafisica antica – che,

rispetto al contenuto, Hegel indica comunque come un «filosofare speculativo autentico»

(Enz. § 27) – sia alla metafisica pre-kantiana, la «vecchia metafisica» (Enz. § 27). Come

paradigma della prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività, Hegel prende

quest’ultima82.

Come si è visto, questa posizione del pensiero rispetto all’oggettività è

caratterizzata dalla fede che si possa conoscere la verità mediante il riflettere; questo

significa che secondo la metafisica, come esempio paradigmatico di questa posizione, vi

è accesso alla struttura ontologica del reale, e, essendo un tale accesso fornito dal

riflettere, il quale produce le relazioni di necessità tra le determinazioni del dato

immediato, sia questo rappresentativo, intuitivo, ecc., quali quelle di universale e

particolare, causa ed effetto, ecc., e, essendo tali relazioni, determinazioni di pensiero,

tale posizione considera «le determinazioni del pensiero come determinazioni

fondamentali delle cose» (Enz. § 28). Per questo motivo la fede per cui mediante il

riflettere conosciamo la verità delle cose corrisponde alla fede nell’unità di pensiero ed

essere: ciò che è reale, è conosciuto in sé solo in quanto viene pensato. In altri termini, le

cose, nel loro darsi immediato non si presentano come ciò che esse sono veramente,

come ciò che sono in sé; per giungere alla loro verità è necessario il pensiero e che il

pensiero ponga quelle relazioni razionali che costituiscono la loro struttura ontologica.

Altra caratteristica della metafisica che Hegel intende far propria sottoponendola

alla torsione dello speculativo, riguarda il suo oggetto: Dio, anima e mondo.

La vecchia “metafisica” tratta i propri oggetti a partire dall’unità di pensiero ed

essere presa, però, come presupposta. A tale unità dovrebbe essere riconducibile il

modello ontologico con cui tratta i propri oggetti, ossia il modello del substrato.

82 Per una trattazione più dettagliata della prima posizione rispetto all’oggettività come posizione

filosofica integrata dal materiale offerto dalle Lezioni sulla storia della filosofia si veda CORTELLA L.,

Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Padova 2002.

60

L’immediatezza della relazione tra pensiero ed essere, infatti, implica che le relazioni tra

i due termini siano relazioni esteriori, in cui l’uno rimane in un rapporto di esteriorità con

l’altro. Con ciò, i due termini sono disposti l’uno indipendentemente dall’altro. L’essere,

per l’esteriorità della relazione, è assunto come ente nudo e neutro; il pensiero, come ciò

che lo determina, corrisponde ai suoi attributi o proprietà; secondo l’unità immediata tra i

due, è affermato un realismo delle proprietà, ma tra le proprietà e l’ente di cui sono

proprietà, l’unità è solo immediata, cioè esteriore83. Per quest’esteriorità delle relazioni

tra proprietà e ente, quest’ultimo non può che essere neutro rispetto ad esse. La

concezione della conoscenza che ne risulta, si caratterizza come l’attribuzione di

predicati ad un soggetto, in cui il soggetto è concepito come un ente indifferente e i

predicati sono immediatamente presi come attributi o proprietà dell’ente preso come

soggetto, e predicabili di esso84.

Sulla base del modello ontologico dell’oggetto e della presupposta identità di

pensiero ed essere, il conoscere è ridotto all’attribuzione di predicati al soggetto e il suo

compito all’individuazione di quali predicati siano attribuibili al suo oggetto. L’elemento

che conduce questo modo di procedere direttamente nelle braccia della critica

all’empirismo, si palesa quando vengono sollevate domande quali: da dove i predicati?

Quale la forza vincolante di quest’attribuzione? Da dove essa prende la propria forza

vincolante? In altri termini: qual è la misura di legittimità con cui dei predicati, come

denotanti sue proprietà, sono attribuiti ad un oggetto?

4. La critica alla “vecchia metafisica”

Gli elementi a partire da cui Hegel muove la sua critica a ciò che chiama “vecchia

metafisica” sono principalmente due. (a) Il primo riguarda l’elemento formale con cui

83 Cfr. STERN R., Kant, Hegel and the Structur of Object, London 1991. 84 Un tale modello, secondo Hegel, si potrebbe sostenere in linea generale, nonostante nella

“vecchia metafisica” sia unito ad un realismo sugli attribuiti, conduce, come mostra la stessa successione

delle posizioni del pensiero rispetto all’oggettività, una volta riconosciuto come tale e assunto

coerentemente, inevitabilmente all’empirismo� e, radicalizzato, ad un nominalismo sugli attributi o

proprietà.

61

essa procede, ossia l’attribuzione delle proprietà all’oggetto da conoscere attraverso la

forma del giudizio, cioè come attribuzione di predicati ad un soggetto; (b) il secondo

riguarda il criterio legittimante le pretese di verità avanzate da essa in tale attribuzione.

(a) La critica alla forma proposizionale come forma inadeguata ad esprimere il

vero viene attuata da Hegel attraverso diversi argomenti, alcuni dei quali spesso risultano

oscuri o addirittura piuttosto deboli85. L’argomento principale che può essere individuato

nelle pagine dell’Enciclopedia dedicate a questa posizione del pensiero, può essere

articolato in questo modo: la forma proposizionale, per la quale ad un soggetto si

attribuisce un predicato denotante una proprietà dell’oggetto, non permette che i predicati

di un medesimo soggetto, essendo differenti per contenuto, siano connessi

reciprocamente se non in forma esteriore (Enz. § 28 Z; § 29)86. Ad esemplificare ciò si

può utilizzare un esempio da Hegel formulato nel contesto della seconda posizione del

pensiero, in cui, appunto, le determinazioni della cosa sono collegate dall’esterno, dal

soggetto conoscente. Quando diciamo che questo pezzo di zucchero è dolce, bianco,

solubile, ecc., non stabiliamo alcuna connessione tra questi predicati, e tra le proprietà

che essi denotano, se non quella di essere predicati di uno stesso soggetto. La loro unità è

data unicamente dal fatto che tali proprietà sono predicate di un soggetto da qualcuno. Se

questo può non creare grossi problemi per proprietà quali la dolcezza, o l’essere cubico,

per alcune di esse, quelle appartenenti alla struttura stessa dell’oggetto, ossia quelle che

esprimono le proprietà intrinseche dell’oggetto, può essere alquanto problematico. È

proprio questa struttura dell’oggetto, le interrelazioni delle proprietà espresse dai

predicati, ciò che la sola forma proposizionale non riuscirebbe ad esprimere, rivelandosi

così incapace di esprimere il vero. Essendo diverse le proprietà di un medesimo oggetto,

essendo alcune di esse essenziali ed altre no, ed essendo esse predicate nello stesso modo

del soggetto, questa modalità di procedere incentiverebbe la distinzione tra le proprietà e

l’oggetto di cui sono proprietà, secondo quel modello ontologico di oggetto cui abbiamo

già accennato. In altre parole, la forma proposizionale del giudizio “s è P” riflette la netta

85 Cfr. per esempio INWOOD M., Hegel, London 1983, p. 181 e sgg. 86 In contrasto con quest’esteriorità dovrebbe procedere «la conoscenza vera di un oggetto» essa,

secondo le parole hegeliane, «deve essere tale che l’oggetto si determina muovendo da se stesso e non

riceve i suoi predicati dall’esterno» (Enz. § 28 Z).

62

distinzione tra s e P, la separazione dell’ente dalle sue determinazioni, e dunque la sua

indifferenza e neutralità nei loro confronti.

A questa difficoltà è da aggiungerne un’altra. Relativamente ai concetti empirici,

sappiamo sulla base dell’esperienza quali proprietà siano da attribuire ad un oggetto

empirico, nel caso delle rappresentazioni non empiriche, invece, il predicato viene ad

essere ciò che determina il soggetto, ciò che gli conferisce senso. Solo attraverso i suoi

predicati, il soggetto assume un qualche senso. Il concetto del soggetto, in questo caso,

corrisponderebbe alla totalità dei predicati, totalità che è data dalle interrelazioni dei

predicati. E la forma proposizionale, come abbiamo visto, è incapace d’esprimere tali

interrelazioni87.

(b) Il secondo elemento nella critica hegeliana al procedere di questa prima

posizione del pensiero riguarda il criterio legittimante le pretese di verità avanzate da

essa.

L’oggetto di questa conoscenza, come accennato, è assunto come dato; i predicati

sono quindi ricercati in ciò che l’oggetto presenta nella sua immediatezza, ovvero nella

rappresentazione dell’oggetto. La rappresentazione dell’oggetto diviene così la misura

vincolante dell’individuazione e dell’attribuzione dei predicati. I predicati, in altri

termini, ricevono la loro legittimità dalla rappresentazione del soggetto, come se non

fossero, secondo Hegel, proprio le rappresentazioni «a dover ricevere dall’intervento del

pensiero una salda determinazione» (Enz. § 31).

Questo, per Hegel, produce in questa posizione una difficoltà a sostenere le

proprie pretese di verità. Il criterio del vero nell’operazione conoscitiva di questa

posizione è una rappresentazione. Il predicato viene individuato e attribuito a partire

dall’analisi della rappresentazione del soggetto e attraverso l’esclusione delle proprietà

opposte, mediante, cioè, il principio di non contraddizione. In altri termini, l’operazione

di individuazione delle proprietà dell’oggetto e delle sue relazioni ad altro dipenderebbe

dall’“idea” che ne abbiamo; le proprietà e le relazioni in contraddizione con essa

87 Relativamente alle difficoltà cui incorre la forma proposizionale nell’espressione di un sistema

olistico si veda BERTO F., Kant, Hegel, Frege e la priorità del proposizionale, «Il Pensiero», 46 (2007),

pp. 67-83.

63

verrebbero escluse, come se quest’idea data fosse assunta immediatamente come l’idea

adeguata dell’oggetto, o, in termini più hegeliani, il suo concetto.

Assumere come criterio di verità una rappresentazione non empirica - una

rappresentazione degli oggetti della metafisica, per esempio la rappresentazione di Dio,

dell’anima, del mondo – conduce, ancora una volta, inevitabilmente nelle braccia della

critica all’empirismo, e più in particolare allo psicologismo, in quanto una

rappresentazione non empirica ha come contenuto un prodotto spirituale che si presenta

come essenzialmente segnato dalla particolare storia, cultura, educazione, ossia dalle

innumerevoli variabili, di carattere soprattutto empirico, che determinano la vita

spirituale, o l’attività mentale in senso ampio, del soggetto che lo pensa. La

rappresentazione cioè si caratterizza come profondamente soggettiva, nel senso di essere

strettamente legata all’individuo particolare della cui attività mentale è un prodotto88.

Questa posizione del pensiero dunque avanzerebbe pretese conoscitive di oggettività

assumendo una presunta oggettività della rappresentazione dell’oggetto, assumendo come

criterio legittimante un modo soggettivo di rapporto all’oggetto, cioè un fenomeno

soggettivo della coscienza. Ciò sembrerebbe dovuto proprio alla indistinzione tra ciò è da

considerarsi pensiero, e tra la nostra presa sul pensiero e la presa del pensiero su di noi89.

Ponendo la rappresentazione dell’oggetto a criterio di verità, dunque, non solo è

posto come elemento di legittimazione di una presunta conoscenza un qualcosa che è

preso come dato, e che, come tale, non potrebbe porsi in funzione di ragione, ma esso si

rivela altresì intrinsecamente dipendente dall’attività mentale del soggetto particolare che

lo pensa. In questo modo, le pretese di verità avanzate sulla base di esso e le conoscenze

prodotte a partire da esso sono segnate da elementi irriducibili di contingenza. Per quanto

spesso non si possa che muovere a partire da rappresentazioni, assumere queste come

criterio di legittimazione non può che condurre ad una forma di legittimità che può

assurgere come forma più alta alla sola condivisibilità, condivisibilità segnata

88 Nell’ultimo capitolo si cercherà di chiarire meglio quest’elemento soggettivo della

rappresentazione. 89 Ossia, tra la nostra certezza –la nostra presa sul pensiero-, e la necessità di qualcosa, determinata

dagli elementi vincolanti del pensiero cfr. BRANDOM R., Articulating Reasons. An Introduction to

Inferentialism, Cambridge-London 2000; Articolare le ragioni. Un'introduzione all'inferenzialismo, trad.

it. C. Nizzo, Milano 2002, p. 83-4.

64

inevitabilmente dalla contingenza delle innumerevoli variabili di carattere storico,

educativo, linguistico, ecc., e dalla casualità dell’associazione mentale, che intervengono

nella formazione di una rappresentazione non empirica. Con ciò, certo, non è da

intendersi che il procedere di un sostenitore della metafisica razionalista non avanzi con

prove, argomenti, ecc., ma Hegel intende mostrare come ogni prova o argomentazione di

questa posizione si basi alla fine su premesse o presupposizioni di carattere

rappresentativo, assunte semplicemente come date, e fatte valere come autorità, dalla

tradizione, o, in altri termini, come essa non consista che in un tentativo di

“razionalizzare” intuizioni che ci appartengono, tanto nella vita di ogni giorno, quanto

nella nostra tradizione culturale, permanendo però su una base rappresentativa. A partire

da ciò, quanto può essere prodotto non sono che visioni del mondo, le cui differenze

possono risultare irriducibili l’una all’altra, a meno di un intervento, o “trasformazione”,

della stessa rappresentazione. Anche nel caso di una piena condivisione di un’unica

visione del mondo non si potrebbe avanzare per essa legittime pretese di verità,

rimarrebbe comunque impregnata di un irriducibile carattere di arbitrarietà, derivante dal

carattere psicologico e storico della sua formazione, che inficerebbe da subito la sua

possibile presa sul mondo.

65

TERZO CAPITOLO

1. L’empirismo e il grande principio dell’esperienza

La seconda posizione del pensiero rispetto all’oggettività è composta da due

sezioni: l’empirismo e la filosofia critica. Empirismo e filosofia critica sono dunque prese

come esempi paradigmatici per la caratterizzazione di questo secondo atteggiamento del

pensiero. Queste filosofie sono accomunate sotto un unico atteggiamento principalmente

secondo due aspetti: a) da un lato un bisogno di un «saldo punto d’appoggio» che viene

trovato nell’esperienza; b) dall’altro lato una forte accentuazione dell’elemento

soggettivo rispetto a quello oggettivo che porta direttamente ad un’accentuazione di un

modello conoscitivo a sua volta soggettivo, quello dell’analisi. Al livello ontologico, in

questa posizione viene approfondito e portato a maggior esplicitazione e coerenza il

modello ontologico del substrato che abbiamo già visto implicito nella prima posizione

rispetto all’oggettività90.

Con l’empirismo, e il principio insito in esso, vengono alla luce alcune delle

tensioni più profonde che caratterizzano il conoscere e il pensare. Queste tensioni

possono essere fatte emergere secondo le differenti modalità in cui viene esplicitato il

«grande principio» dell’esperienza (Enz. §38 A). Questo principio afferma che

«per accettare e ritener vero un contenuto, bisogna che l’uomo stesso vi sia

partecipe, più precisamente, che l’uomo trovi tale contenuto in accordo e unione con la

certezza di se stesso» (Enz. §7 A).

Esso, da un lato, sottolinea «che ciò che è vero, deve essere necessariamente nella

realtà effettiva» (Enz. §38 A), opponendosi dunque alla duplicazione dei mondi, ossia

all’istituzione di sensi che sovradeterminano la realtà a partire dal dover essere

dell’intelletto che, in quanto tale, dall’alto del suo sapere e nel disprezzo del reale,

90 Cfr. STERN R., Kant, Hegel and the Structur of Object, London 1991.

66

duplica il mondo prescrivendo come esso «debba essere ma non è» (Enz. § 6 A). Di

fronte alle vuote astrazioni dell’intelletto, l’empirismo muove l’appello - ripetuto nel

secolo scorso, dalla fenomenologia di Husserl -: «smettete di muovervi nelle vuote

astrazioni, guardate alle vostre mani, cogliete il qui dell’uomo e della natura, godete il

presente» (Enz. § 38 Z).

L’importanza di tale aspetto del grande principio dell’esperienza si riflette nella

stessa filosofia speculativa nel riconoscimento della necessità «del suo accordo con la

realtà e con l’esperienza» (Enz. § 6). Come si cercherà di mostrare, sarà la modalità in cui

questo accordo è ricercato uno dei principali elementi distintivi tra filosofia speculativa

ed empirismo. Anticipando: mentre quest’ultimo, cerca nell’accordo la giustificazione

della particolare filosofia, la filosofia speculativa non può appoggiarsi, e ciò a partire

dalle stesse istanze di libertà che animano l’empirismo, radicalizzate ulteriormente, su

tale forma di giustificazione. Questa deve essere interna, ossia razionale; per la filosofia

tale accordo è necessario solo in quanto fornisce un criterio esterno della verità della

filosofia in questione, assicurando che essa non sia solo uno dei possibili sistemi

concettuali, ma non può in alcun modo fornire la sua legittimazione, la razionalità del suo

sistema.

Tale principio, dall’altro lato, sottolineando la necessità per il soggetto conoscente

di essere «partecipe» di ciò che accetta e ritiene vero, mostra come implicato in sé il

principio della libertà. La questione della libertà, in Hegel, è un tema assai complesso e

ne attraversa l’intera opera sia temporalmente che spazialmente. Lungi dal voler esaurirlo

in poche battute, per ora basti qualche indicazione relativa alle questioni che ci

interessano.

La libertà hegeliana può essere definita o articolata per molti aspetti come

autonomia, ossia come la capacità di decidere qualcosa da se stessi, autonomamente,

piuttosto che sulla base di un senso o una risposta già data da altri. In ambito conoscitivo,

questa concezione della libertà si applica a ciò che ammettiamo come vero e a ciò che

rifiutiamo come falso. In altre parole, in questo ambito, siamo liberi quando ammettiamo

come vero o rifiutiamo come falso qualcosa sulla base di ragioni che abbiamo

riconosciuto come tali. L’attività libera, pure in ambito conoscitivo, come ammissione

del vero e rifiuto del falso, si può declinare, secondo la lezione kantiana, in due modi

67

strettamente interconnessi, uno negativo e uno positivo: come “libertà da” e come “libertà

di”. Come “libertà da” essa si configura come un’attività di liberazione del pensiero che

nega quanto è dato immediatamente istituendovi delle relazioni. Come “libertà di”, si

configura come un’attività del pensiero che, istituendo relazioni tra determinazioni del

pensiero, si autodetermina.

A partire da queste indicazioni si può già intravedere in quella tensione tra

principio dell’esperienza e principio della libertà, quel conflitto che Sellars ha indicato

come il conflitto tra l’immagine manifesta del mondo e dell’uomo e l’immagine

scientifica91 e la questione dell’individuazione del difficile ruolo che la filosofia deve

assumere di fronte ad esso.

Come si può già notare, nonostante le poche pagine dedicate da Hegel

all’empirismo in questa seconda posizione del pensiero rispetto all’oggettività, è molto

riduttivo trascurarne l’importanza. Dentro questo atteggiamento del pensiero, infatti,

Hegel discute tanto le scienze naturali quanto l’empirismo. A sostegno di ciò basti

confrontare le espressioni da Hegel usate per caratterizzare l’operare delle scienze

naturali, tanto in ambito introduttivo quanto nelle annotazioni, con quelle che ricorrono

nella sezione dedicata a questa posizione del pensiero. Ulteriore elemento che viene ad

aumentare la difficoltà con questa posizione è il trattare insieme da parte di Hegel in

modo spesso indistinto, oltre che le scienze naturali e le filosofie che in qualche modo su

di esse si basano, ciò che le scienze fanno e le asserzioni delle scienze su ciò che esse

fanno. Se quest’indistinzione dal punto di vista hegeliano ha una ragione nell’unità di ciò

che lo spirito è e del sapersi dello spirito, dal punto di vista delle scienze, tale

connessione si presenta perlomeno problematica. Il metalinguaggio che le scienze sono

costrette ad usare sul loro linguaggio spesso irrigimentato, si presenta spesso altamente

informale e intriso di elementi metafisici non sottoposti ad accurata analisi. Tuttavia, la

presenza di questi nel metalinguaggio con cui le scienze empiriche asseriscono o

commentano i propri risultati, non implica di per sé la loro presenza nel linguaggio

formalizzato con cui esse operano e dunque nella loro stessa attività.

91 Cfr. SELLARS W., Philosophy and the Scientific Image of Man; La filosofia e l'immagine

scientifica dell'uomo, trad. it. A. Gatti, Roma 2007.

68

2. Principio della libertà e scienze empiriche

Secondo Hegel l’attività delle scienze empiriche è guidata dal principio della

libertà. Esse, in contrapposizione con i principi d’autorità della chiesa e della scolastica,

sarebbero sorte mosse dal principio della libertà: al cuore della scienza moderna della

natura ci sarebbe il rifiuto di riconoscere autorità non naturali92. Per accettare qualcosa

per vero bisogna provarlo, e provarlo - a partire dall’istanza della concretezza del

contenuto, di fronte alle presunte vuote astrazioni tanto della scolastica quanto della

“vecchia metafisica”, e a partire dall’istanza di un “saldo punto d’appoggio”, che

conduce appunto al riconoscere come unica forma di ragione quella fornita dal riscontro

empirico - provarlo viene a significare provarlo sperimentalmente. Per spiegare i

fenomeni naturali non si deve ricorrere ad altra autorità che non sia essa stessa natura.

La forte enfatizzazione di Hegel su quest’aspetto, tuttavia, è tutt’altro che pacifica.

Infatti, se le scienze naturali, ma non solo, presentano un aspetto cumulativo del sapere,

ossia si presentano come un edificio che, per quanto possa subire mutamenti e

rivoluzioni, si edifica pietra su pietra e sulla base dell’operare di comunità scientifiche,

enfatizzare l’elemento soggettivo per cui una credenza per essere accettata come vera

deve essere provata in prima persona potrebbe dar luogo ad una insostenibile concezione

individualista della scienza. Per evitare tale rischio, gli autori che sottolineano che

secondo Hegel l’istituzione delle regole sulla cui base un individuo agisce in modo

libero, è un’istituzione di carattere sociale93: l’individuo non dà letteralmente a se stesso

ogni regola che segue, ma si considera come membro di una comunità di cui ciascun

membro prescrive regole per se stesso e per gli altri. In questo modo sarebbe possibile

considerare la comunità come avente sviluppato le sue norme senza essere costretti a

considerarle come date, ma sarebbero riconoscibili come razionali e vincolanti. La tesi

centrale di quest’interpretazione della nozione della libertà è che il suo raggiungimento

92 Cfr. RAND S., The Importance and Relevance of Hegel's Philosophy of Nature, cit., p. 391; cfr.

anche il § 7 e la sua annotazione in cui Hegel lega il sorgere della scienza alla riforma luterana. 93 Cfr. PINKARD T., Hegel's Phenomenology. The Sociality of Reason, Cambridge 1994; PIPPIN

R. B., Hegel's Idealism. The satisfaction of Self-Consciousness, Cambridge 1988.

69

coincide con l’eliminazione di ogni fonte di autorità normativa data. Dunque io sono un

agente autonomo se e solo se (1) tutte le mie ragioni per l’azione sono tali perché io le ho

stabilite o (2) perché posso considerare me stesso come parte di una comunità che le ha

collettivamente istituite94.

Una tale risposta, per quanto permetta di evitare il problema di una concezione

individualistica della scienza, produce, tuttavia, per la genericità che introduce, tutta

un’altra serie di problemi. Al livello generale, infatti, il problema si trova ad essere da un

lato spostato sulla nozione di comunità, nozione che oggi più che mai sembra risultare

altamente problematica. Di quale comunità si tratta? E’ possibile fornire dei criteri di

individuazione che permettano che una tale risposta non risulti completamente inefficace

per la sua genericità? Una risposta di questo tipo, oggi, vista la revisione cui è sottoposto

l’apparato concettuale politico, primo fra tutti il concetto di comunità, non mi sembra

possa avere ancora un qualche senso, se non attraverso forti restrizioni.

In questo senso, relativamente all’ambito scientifico, questo problema può essere

arginato grazie all’individuazione della comunità nella comunità scientifica, ora però è il

secondo elemento che caratterizzava la libertà dell’operare scientifico, cioè il riconoscere

come ragione per accettare una credenza solo una ragione naturale, a dover essere rivisto.

Con l’estensione dell’elemento legittimante alla comunità cade la contrapposizione tra

l’affidarsi ad una risposta o ad un senso dato da altri ed assumersi la responsabilità di

quanto viene affermato o ritenuto per vero. In altre parole, viene a cadere la netta

contrapposizione tra un procedere per una qualche autorità e il procedere attraverso il

riconoscimento di ragioni. Ci si affida a risposte altrui tanto per le credenze religiose

quanto per quelle di carattere scientifico. In entrambi i casi, inoltre, la credenza potrebbe

dipendere dall’osservazione altrui; è tutt’altro che assurdo ammettere infatti che la

credenza religiosa dipenda da esperienze ed osservazioni proprie ed altrui. La differenza

potrebbe piuttosto essere individuata, come un qualsiasi manuale di sperimentazione

insegna, nella ripetibilità dell’osservazione. In questo senso, affidarsi a risposte date dalla

comunità scientifica significa affidarsi a risposte che si basano su prove, osservazioni

ripetibili. L’elemento identificante, o per lo meno uno di essi, la comunità scientifica

94 Cfr. RAND S., The Importance and Relevance of Hegel's Philosophy of Nature, cit., p.390.

70

sarebbe dunque la ripetibilità dell’osservazione sulla cui base un qualcosa è accettato

come vero.

Se in questo modo vengono eliminati molti problemi causati dall’estensione della

sfera dell’autonomia oltre la sfera dell’individuo attraverso comunità ristrette, ciò

nondimeno resta il fatto che tale estensione da principio obbliga a porre in secondo piano

quanto della nozione di libertà Hegel invece enfatizza, cioè, che l’individuo debba

assumere ciò che assume sulla base di un riconoscimento delle ragioni per assumerlo

condotto da lui stesso. Hegel enfatizzerebbe troppo e troppo spesso l’elemento

soggettivo, di prima persona, di questa forma di libertà.

3. Trasformazione

L’empirismo nasce a fronte dell’astrattezza della modalità di concepire il pensiero

e i suoi oggetti da parte della “vecchia metafisica”, sulla base di un bisogno di

concretezza dei contenuti e di una «salda base d’appoggio», al fine di impedire il girare a

vuoto del pensiero. Esso cerca cioè di rispondere ad una doppia carenza: una

contenutistica, l’altra metodologica.

Nel trattare le posizioni del pensiero rispetto all’oggettività, come già ricordato,

Hegel mostra tanto i rispettivi punti di forza quanto le rispettive debolezze.

A partire dai due principi, quello dell’esperienza e quello della libertà, principale

punto di forza dell’atteggiamento del pensiero che Hegel denomina “empirismo” è che

questo, muovendo dall’esperienza, opera una “trasformazione” sui suoi contenuti,

conferendo ad essi, alle percezioni, sentimenti, intuizioni, la forma «di rappresentazioni,

proposizioni e leggi, ecc., universali» (Enz. § 38). Attraverso quest’operazione, un tale

atteggiamento, come ricorda più volte Hegel riguardo alle scienze empiriche, offre il

materiale per la filosofia. In altri termini, la filosofia, in questi casi, opererebbe sulla base

di un materiale derivante dall’esperienza ma “elevato” alla forma del “pensiero”. Una tale

operazione è tutt’altro che sottovalutabile e merita una più attenta analisi. Come ha

71

mostrato Sebastian Rand, grazie ad essa può ritrovare maggior vigore un’interpretazione

non-aprioristica della filosofia hegeliana, in particolare della filosofia della natura95.

Come ho cercato di evidenziare attraverso l’uso della virgolettatura, però, non è

affatto chiaro cosa si debba intendere con tale trasformazione. Cosa si intende per

“trasformazione”, “elevazione”, “pensiero”, in questi casi? Come viene attuata questa

“trasformazione”? Si modifica attraverso di essa, e se sì, come, il rapporto con

l’esperienza, e l’esperienza ordinaria del mondo, del linguaggio e dei concetti della

coscienza, visto che la filosofia esige un accordo, anche se solo esterno, con l’esperienza?

3.1 La trasformazione in rappresentazioni e pensieri

Quando Hegel afferma che l’atteggiamento di pensiero esposto con il nome di

“empirismo” ha il merito di trasformare le percezioni, le intuizioni, in sentimenti in

rappresentazioni, proposizioni, leggi, universali, sta caratterizzando un processo di

trasformazione attuato dal pensiero che parte dalle singole intuizioni per giungere alle

leggi e agli universali relativi al mondo empirico. Tale processo può essere distinto

principalmente in due fasi: la prima, che culmina con la rappresentazione, trova la propria

trattazione nella psicologia, e riguarda un primo processo di universalizzazione delle

impressioni attraverso la loro interiorizzazione; la seconda riguarda principalmente la

modalità con cui le scienze naturali muovendo dall’esperienza ricavano leggi e

universali.

La prima fase di questo processo di trasformazione consiste, in linea generale - mi

soffermerò più in dettaglio su di essa nel contesto dell’analisi dello spirito soggettivo -, in

un processo di appropriazione e interiorizzazione che produce una prima universalità

delle impressioni.

95 Cfr. Rand

S., The Importance and Relevance of Hegel's Philosophy of Nature, cit.; e pure From A Priori Grounding

to Conceptual Transformation: The Philosophy of Nature in German Idealism, cit..

72

3.2 Che cosa opera la trasformazione?

Cos’è ciò che opera tale processo di trasformazione? La risposta più immediata è

senza dubbio: il pensiero. Tuttavia, per chiarire tale processo e le sue modalità occorre

innanzitutto procedere attraverso una disambiguazione del termine “pensiero”.

Nella prima fase, il pensiero che opera l’interiorizzazione è il pensiero come

Denken, il pensiero inconscio che conferisce una struttura alle impressioni sensibili,

introiettandole attraverso quella rete categoriale che nel primo capitolo abbiamo visto

all’opera in tutto ciò che l’uomo fa suo.

Nella seconda fase di questo processo, il pensiero agisce al livello conscio ed è

pensiero riflessivo, pensiero come Nachdenken. Se il pensiero come Denken è

essenzialmente attività, il pensiero riflessivo, si distingue da questo in quanto si sdoppia

in pensiero e pensato, ossia in una elemento inerte, l’oggetto del pensiero, e in un

elemento attivo, l’attività del soggetto su quell’elemento96. Il pensiero riflessivo, inoltre,

a differenza del pensiero inconscio, presuppone come proprio oggetto ciò che viene

pensato, ossia le rappresentazioni, e le rappresentazioni presuppongono il pensiero come

pura attività; senza di quest’ultimo, infatti, le rappresentazioni non sarebbero nemmeno

incorporate nella struttura del soggetto, ovvero, rigorosamente, non si potrebbe nemmeno

parlare di rappresentazioni, non vi sarebbe che la «massa amorfa»97 dell’esteriorità.

3.2 La trasformazione come cambiamento di forma

La seconda fase di questo processo è descritta da Hegel come un cambiamento di

forma. Le rappresentazioni, o meglio, i loro contenuti, assumono la forma dei pensieri.

Una tale affermazione sembrerebbe implicare che, trattandosi di cambiamento di forma,

il contenuto rimanga inalterato, e, in questa direzione Hegel, afferma esplicitamente che

«sentimento, intuizione, immagine ecc.. sono [...] le forme di tale contenuto, che rimane

96 Cfr. FLEISCHMANN E., La science universelle ou la logique de Hegel, Paris 1968; La logica di

Hegel, trad. it. A.Solmi, Torino 1975, p. 4. 97 Ibidem.

73

sempre lo stesso, sia che venga sentito, intuito, o anche sentito, intuito, ecc., con la

mescolanza di pensieri, o pensato senza alcuna mescolanza» (Enz. § 3). In altri termini,

nel vedere una persona, nel desiderarla, nel pensarla in quanto persona, vedere, volere,

pensare non sono che forme differenti per uno stesso contenuto, la persona. Tuttavia,

come abbiamo già accennato relativamente alla analogia della rapporto tra grammatica e

linguaggio, la questione in Hegel non è del tutto pacifica.

Hegel nel § 3, subito dopo il passo citato, afferma: «il contenuto è oggetto della

coscienza in una di queste forme o nella mescolanza di parecchie di esse. In questa

oggettualità, però anche le determinatezze di queste forme passano nel contenuto in modo

che, secondo ciascuna di queste forme, sembra sorgere un oggetto particolare, e quello

che in sé è identico, può sembrare un contenuto diverso» (Enz. § 3). Il contenuto appare

come un oggetto differente, a seconda della forma attraverso cui viene intenzionato

poiché le determinatezze della forma “passano” nel contenuto: quando, assetato, desidero

dell’acqua, non desidero H2O, ma acqua, possibilmente fresca. In altri termini, pensare

qualcosa, piuttosto che desiderarlo, toccarlo o guardarlo, cambierebbe la nostra

concezione di quel qualcosa, esso assumerebbe sensi differenti.

Hegel però sostiene che il contenuto permane il medesimo, questa volta con

l’aggiunta dell’«in sé». Egli a tal proposito sostiene la tesi per cui questo «in sé» ha la sua

forma appropriata solo nel pensiero: «il vero contenuto della nostra coscienza viene

conservato, anzi soltanto allora viene posto nella sua luce peculiare, in quanto è trasferito

nella forma del pensiero e del concetto» (Enz. § 5). Questa priorità del pensiero o del

concetto sembra portare inevitabilmente ad una perdita di quelle differenze di senso

prima rilevate con il cambiamento di forma. Per evitare tale “deriva”, affermare che il

contenuto permane lo stesso nonostante la perdita di differenze, mi sembra necessario

restringere questa tesi, che Hegel pone a livello generale, all’oggetto “Dio”, attraverso la

sua contestualizzazione in particolare nel dibattito, già visto nel precedente capitolo, con

le filosofie o teologie del sentimento. Ossia a differenza dei casi sopra citati, in cui si ha a

che fare con singoli oggetti empirici per i quali mi sembra altamente problematica

l’introduzione di una possibile “forma adeguata”, quando questa è pensata in termini di

verità, visto che da principio, per il loro essere enti finiti, non sono e non possono essere

veri, nel caso di Dio, perlomeno così come lo concepisce Hegel, non essendo soggetto a

74

finitezza, è l’unico oggetto che può essere vero in senso pieno e dunque essere contenuto

di una forma adeguata rispetto al vero. Attraverso tale operazione di contestualizzazione,

il contenuto della nostra coscienza sarebbe identificato con Dio, del quale la forma di

coscienza appropriata sarebbe non il sentimento, l’intuizione, o la rappresentazione ma il

concetto. Tale tesi, se ristretta a questo contenuto, non escluderebbe comunque la tesi,

esplicita in Hegel, della completa traducibilità della rappresentazione di Dio del credente

nei termini del puro pensiero.

3.3 La trasformazione della riflessione

Perché tale operazione di trasformazione è importante per la filosofia?

Nel § 12 Hegel sostiene che la filosofia, e ciò la accomuna alle scienze empiriche,

ha come «punto di partenza l’esperienza». Infatti, nonostante nel § 1 o nell’Annotazione

al §78 si dica che la filosofia, a differenza delle altre scienze, si caratterizza per la

scomoda posizione della «completa assenza di presupposti» (Enz. § 78 A), si afferma

pure che essa «deve necessariamente presupporre una familiarità con i suoi oggetti»,

ossia debba presupporre delle rappresentazioni di essi. Tale priorità della

rappresentazione e tale necessità sono, naturalmente, di ordine cronologico: «lo spirito

pensante anzi giunge a conoscere e comprendere con il pensiero soltanto attraverso il

rappresentare e volgendosi ad esso» (Enz. § 1). In altri termini: qualcosa può essere

concettualizzato solo a partire da rappresentazioni date; questo sarebbe pure il senso del

prefisso nach, nel termine usato da Hegel per indicare il pensiero che opera sulle

rappresentazioni: Nachdenken. Esso viene dopo, su qualcosa di già dato.

Tuttavia, sebbene la filosofia abbia il proprio «inizio» nell’esperienza, la sua

giustificazione, come si nota in negativo nel passo già citato relativo al necessario

accordo esterno con l’esperienza, deve essere interna alla filosofia, ossia indipendente

dall’esperienza. L’esperienza, cioè, non può fungere da elemento giustificatore della

filosofia.

L’operazione di trasformazione cui vengono sottoposte le intuizioni, le percezioni,

le rappresentazioni, in breve l’osservazione empirica, si presenta della massima

75

importanza in quanto è l’operazione che permette l’indipendenza dall’esperienza, ovvero

è quell’operazione che libera il materiale della filosofia dalla sua dipendenza

dall’osservazione empirica. L’importanza di quest’operazione di trasformazione per la

filosofia risiede perciò nel suo essere condizione necessaria per la liberazione del

pensiero dalla sua dipendenza dall’esperienza. Essa è cioè, condizione necessaria

affinché si dia qualcosa come un pensiero libero. «Pensiero libero» non significa che

questo pensiero non sia sorto, non abbia la propria origine e non debba la propria

formazione all’esperienza. Piuttosto, l’espressione «pensiero libero» indica, un pensiero

che sorto dall’esperienza, si è liberato da essa, ovvero ha assunto una certa indipendenza.

Che cos’è questa indipendenza? Il pensiero rimane dipendente dall’esperienza, e questa

rimane la sua condizione, il suo presupposto, tuttavia, esso può giustificarsi da sé ed in

questo essere senza presupposti. A tal proposito, nell’Annotazione al § 246, Hegel

sembra fornire la distinzione tra il “di fatto” e il “di diritto” nei termini del genetico,

formativo e del concettuale: «una cosa è il percorso attraverso il quale sorge e i lavori che

la preparano, altra cosa è la scienza stessa; in essa quelli non possono più apparire come

fondamento che qui deve essere piuttosto la necessità del concetto» (Enz. § 246 A)98.

Come si è più volte accennato, le rappresentazioni in termini di contenuto e forma

sono caratterizzate dal fatto che i loro contenuti sono posti come isolati l’uno rispetto

all’altro. La riflessione opera sulle rappresentazioni date istituendo, o portando in forma

esplicita, relazioni tra le determinazioni dei loro contenuti. Le scienze empiriche, per

esempio, istituendo relazioni necessarie tra i fenomeni osservati ricavano i «pensieri di

ciò che esiste» (Enz. § 7 A). Con tale operazione di trasformazione le scienze empiriche

offrono un materiale pronto per la filosofia fungendo da suo presupposto necessario. Le

scienze cioè preparano un materiale, i pensieri che sono il risultato della seconda fase

della trasformazione, ad una nuova trasformazione, quella propriamente filosofica. La

filosofia, dunque, operando a sua volta una trasformazione su tale materiale, ponendolo al

livello concettuale, attinge ad un grado di necessità, quello del concetto, differente da

98 In altri termini se attraverso il processo di formazione delle rappresentazioni il pensiero umano si

mostra condizionato dalla realtà, nel senso che questa può agire causalmente sulle intuizioni che

forniscono il materiale che verrà interiorizzato, tale rapporto invece, non può essere adoperato per la

spiegazione della razionalità del pensiero, ossia non può essere invocato per spiegare la razionalità delle

connessioni concettuali.

76

quello delle scienze empiriche, fortemente dipendente dal riferimento all’empirico.

Dunque se «non solo la filosofia deve concordare con l’esperienza della natura, ma la

genesi e la formazione (Bildung) della scienza filosofica ha come presupposto e

condizione la fisica empirica», tale presupposto e condizione sono solo fattuali, di diritto

essa, istituendo la rete concettuale atta a giustificare i propri enunciati, se ne rende

indipendente. Indipendente di diritto: il livello del “di diritto” non è che, appunto, il

livello concettuale; in questo elemento, attraverso la rete concettuale che lo giustifica,

tale materiale acquisisce l’indipendenza dall’esperienza da cui pure deriva.

4. Considerazioni sul rapporto tra i differenti modi del pensiero e l’esperienza

Oltre alla trasformazione delle intuizioni, sentimenti, in rappresentazioni e pensieri

operata dall’intelletto, dunque, c’è anche una terza trasformazione, quella che trasforma i

risultati delle scienze empiriche in concetti, inserendoli all’interno di una rete categoriale

più ampia rispetto a quella del particolare ambito di ricerca delle singole discipline. Tale

trasformazione, è operata dal pensiero filosofico o Nachdenken speculativo.

Avendo continuamente sotto lo sguardo la tesi per cui la filosofia deve accordarsi

all’esperienza, ora si può porre la domanda di come si rapportano le modalità di pensiero

all’opera all’interno di questo processo di trasformazione con l’esperienza ordinaria che

caratterizza il nostro rapporto quotidiano con il mondo.

Come già accennato la prima fase di questo processo di trasformazione, viene

operata dal pensiero come Denken. Esso è essenzialmente caratterizzato come attività,

che opera in modo inconscio e che, intrecciando la materia delle varie forme di

coscienza, penetra tutto ciò che l’uomo fa suo, conferendo a quanto viene interiorizzato

una prima struttura concettuale. Tale rete concettuale, come si è visto, può presentare

diversi gradi di articolazione e strutturazione ed è il prodotto di sedimentazioni che

coinvolgono tanto il linguaggio quanto la pratica umana in senso generale. Essa, essendo

la struttura categoriale con cui lo spirito si rapporta tanto a se stesso quanto al mondo,

rappresenta la modalità attraverso cui l’uomo si orienta nel mondo99, o meglio, visto che

99 Cfr. WdL, p. 16 (p. 16).

77

le categorie che intrecciano i fili di tale rete operano al livello inconscio, e dunque non

sono in possesso dell’uomo, ma l’uomo è dominato da esse100, è essa a conferire

orientamento alla vita umana.

Il pensiero come Denken, come attività inconscia che accompagna tutto ciò che

dell’uomo è umano, non è un’attività a parte, un’attività che si aggiunge ad altre attività;

quando ho sete e vado a prendere un bicchiere d’acqua per dissetarmi, per esempio, non

c’è da un lato un comportamento e dall’altro un pensiero che lo pianifica in termini di

mezzi e fini. A tal proposito si potrebbe citare la famosa storiella secondo cui una rana

chiese al millepiedi come facesse a camminare con tutte quelle zampette, e il millepiedi,

confessando di non averci mai pensato, iniziò a rifletterci e si trovò così incapace di

camminare. Ossia, questo pensiero non ci offre o non riguarda un sapere qualche cosa

(sapere che disponiamo le nostre zampette secondo un certo preciso ordine), esso cioè

non è un mezzo, uno strumento di cui disponiamo, ma è esso che conferisce un

orientamento al nostro vivere nel mondo. In una battuta, non è un pensare su qualcosa,

ma un pensare che permette di fare qualcosa. Altrettanto, tuttavia, seppur si possa

distinguere questo pensiero irriflesso dal pensiero riflessivo, questi non sono due cose

differenti, ma due modalità dello stesso pensiero. Operazioni che in un certo momento

necessitano della modalità riflessiva possono ad un certo punto non necessitarne più. Non

si vuole dunque proporre una rigida opposizione tra pensare su qualcosa e un pensare che

permette di fare qualcosa. Il matematico, per esempio, o il logico, padroneggiando il

calcolo, prima di metterlo in opera per ricavare la dimostrazione può intuire, anche nel

caso di problemi molto complessi, la soluzione grazie ad una certa familiarità acquisita,

che può, cioè, aver avuto bisogno del momento riflessivo per essere appresa101. Il

Denken, in altri termini, sebbene sia inconscio non per questo non è un’attività guidata da

regole. Se nel caso del bambino che deve imparare la grammatica è dato il compito di

«collegare aggettivi e sostantivi [...] deve ricordarsi di una regola e ordinare il caso

particolare secondo quella regola» (Enz. § 21 Z), nel caso dell’adulto, o di un bambino

che parla correttamente la propria lingua, non è necessario né che questi ricordi la regola

né che sappia la regola, è sufficiente infatti che il modo in cui collega aggettivi e

100 Cfr. WdL, p. 14 (p. 14). 101 Cfr. Enz. § 66 A.

78

sostantivi sia guidato dalla regola. Nella maggior parte delle attività governate da regole

non abbiamo per nulla bisogno di essere consapevoli delle regole durante la loro

esecuzione, ovvero non abbiamo per nulla bisogno di sapere perché agiamo proprio nel

modo in cui agiamo. Anzi, come viene evidenziato dalla storiella della rana e del

millepiedi, pensare alla regola durante l’esecuzione può essere causa di una cattiva

esecuzione. Agire secondo delle regole non è dunque un’attività che si riferisce solo alla

modalità riflessiva del pensiero, ossia non è necessariamente, e per lo più non lo è,

un’attività sotto il nostro controllo.

Per tali motivi, la rete concettuale fornita dal Denken come attività inconscia si

presenta come la cornice concettuale rispetto alla quale ogni altra struttura e operazione

concettuale è immanente. In altri termini, essa rappresenta, idealmente, la cornice al cui

interno si formano e sono possibili tanto le operazioni e strutture concettuali

dell’individuo quanto quelle delle determinate comunità; un esempio ne è, per quanto si

possa poi discostare da essa, quella scientifica, la comunità politica, quella religiosa, ecc.

In tutti questi casi potrebbero essere individuate, infatti, trasformazioni categoriali

operate sulla cornice concettuale di partenza. Ciascuna struttura concettuale, sia questa

una teoria scientifica o, se qualcosa del genere può aver senso, una visione del mondo di

carattere individuale, non è che una struttura concettuale costruita all’interno di

quell’apparato concettuale che caratterizza l’esperienza del mondo così come lo viviamo.

Con ciò, naturalmente, non si intende sostenere una insuperabilità della sua forma,

ossia non si tratta di una forma data e fissata una volta per tutte. La sua mobilità è

sottolineata infatti da Hegel dalla possibilità tanto di differenti gradi di articolazione,

quanto dal suo non essere una struttura sistematicamente chiusa o organizzata; essa è

frammentata, le sue categorie s’intralciano vicendevolmente, ecc. Tuttavia, per quanto

frammentaria essa possa essere, un pensiero per essere tale può aver luogo solo

all’interno della cornice concettuale attraverso cui questo Denken opera o di una cornice

che si è articolata a partire da esso. In ogni caso, se un pensiero può aver luogo solo

all’interno di una struttura di pensiero, il suo abbandono, anche qualora tale rete risultasse

fornire un’immagine falsata del mondo non sembra possibile; si tratterà in ogni caso di

una sua trasformazione.

79

A questa esperienza irriflessiva del mondo e al pensiero che la caratterizza si

contrappone l’immagine del mondo che viene posta dal modo riflessivo del pensare.

All’immanenza categoriale cui prima si è accennato fa da contro altare la trascendenza di

un’immagine del mondo102. Essa è indicata dallo stesso termine “immagine”. Questo

infatti può indicare un qualcosa che è soltanto immaginato in cui ciò che è immaginato

può esistere come pure non esistere ed essere semplicemente irreale. E questa possibilità,

derivante dal fatto che sia qualcosa di proiettato, di posto, sottolinea la distanza tra

l’immagine e ciò di cui è immagine, tra il mondo e la visione del mondo posta da un atto

riflessivo del pensiero.

Si tratta dell’operazione propria del pensiero riflessivo che separa il soggetto

dall’oggetto. Attraverso tale operazione il pensiero può esercitarsi su un oggetto, può

avere a proprio contenuto un oggetto. A differenza del pensiero irriflessivo, quest’ultimo

è un’attività che si esercita su qualcosa, indipendentemente da questo qualcosa. Il

pensiero inconscio, come si è visto, può permeare tutte le altre forme di coscienza

attraverso le quali ci rapportiamo ordinariamente al mondo, dal sentimento alla

rappresentazione, non ponendosi però come altro da esse. Il pensiero riflessivo, invece, si

presenta come separato da queste, da esse distinto in quanto con esso, quell’attività che è

il pensiero assume una forma propria e può prendere un proprio contenuto ad oggetto.

A partire da questa possibilità di separazione e di distanziamento tra soggetto e

oggetto si apre la strada ad un pensiero che, come forma di un contenuto, può esprimersi

in forma tetica avanzando pretese di verità sulle proprie dichiarazioni su ciò che di volta

in volta pone a proprio oggetto. Il pensiero riflessivo dell’intelletto, dunque, è in grado di

fissare il dato isolandolo e astraendolo dalle relazioni in cui è preso, rendendolo in questo

modo oggetto di considerazione. Con ciò tuttavia, produce un’inevitabile sua

cristallizzazione che ne toglie gli elementi di dinamicità. Il risultato è un’immagine

astratta della realtà prodotta attraverso le categorie con cui il soggetto la rinserra, una

visione o immagine del mondo separata e antagonista rispetto all’esperienza di esso così

come vissuta quotidianamente.

102 Cfr. HEIDEGGER M., Die Zeit des Weltbildes, in HEIDEGGER M., Holzwege; L'epoca

dell'immagine del mondo, in HEIDEGGER M., Sentieri interrotti, trad. it. P. Chiodi, Firenze 1999, pp.

71-101.

80

Le discipline scientifiche, a tal proposito, sono spesso prese da Hegel come

paradigmi di questo modo di operare del pensiero. Esse produrrebbero un’immagine del

mondo astratta e separata dal vivere ordinario dell’uomo nel mondo, o per dirla usando la

terminologia di Husserl, dal mondo della vita.

Ci sono forti argomenti per ritenere che non ci sia un qualcosa come un’immagine

scientifica del mondo, primo fra tutti, la specializzazione di ciascuna disciplina su di un

particolare ambito di ricerca a partire, spesso, da propri concetti fondamentali e da propri

metodologie. Forse, si potrebbe dire, ci sono tante immagini quante sono le discipline

scientifiche. Piuttosto che di una immagine scientifica del mondo, se non come

idealizzazione – la cui stessa possibilità necessiterebbe di un lungo dibattito -, si tratta

dunque di molteplici immagini scientifiche del mondo che, a volte, come nel caso della

fisica e della biologia possono apparire persino irriducibili103. Il procedere analitico

proprio del riflettere, che isola e astrae, infatti sembra portare inevitabilmente ad una

frammentazione dell’esperienza di senso che invece accomuna e muove sia la religione

che la filosofia. Se queste ultime sono mosse da un’istanza di senso che coinvolge l’intera

realtà, le discipline scientifiche dividendo questa nei loro rispettivi ambiti si mostrano

incapaci o indifferenti rispetto ad una tale istanza, se non articolandola

intellettualisticamente nel progresso infinito delle conoscenze del proprio ambito, ossia in

quello che Hegel chiama cattivo infinito. Con ciò inevitabilmente la ricerca scientifica si

mostra separata da quella domanda di senso che caratterizza filosofia e religione.

L’intelletto con le scienze empiriche pone a proprio oggetto fenomeni appartenenti

allo stesso mondo della vita e per comprenderli li sdoppia ricercando ciò che in essi

permane, l’universale, ciò che in essi è vero. In questo modo crea doppi mondi costruiti

sulle astrazioni dell’intelletto, cioè sulla base di universali astratti e leggi.

Il contrasto tra queste immagini del mondo e il mondo della vita, tuttavia, non si

risolve nel solo elemento di astrazione delle immagini; queste immagini del mondo infatti

si pongono come rivali rispetto a quella del mondo della vita. Con il raddoppiamento del

fenomeno in un interno ed in un esterno, viene conferito valore, valore di verità, al primo

a scapito del secondo. Le immagini scientifiche, dunque, per quanto si costituiscano

103 Basti pensare a come a tutt’oggi sia ancora acceso il dibattito di una possibile riduzione della

biologia alla fisica.

81

all’interno della cornice categoriale del pensiero che caratterizza il mondo della vita, si

porrebbero come astratte e antagoniste rispetto all’immagine del mondo che caratterizza

la nostra esperienza quotidiana.

In questo quadro complessivo, la filosofia in Hegel sembra avere il ruolo di

produrre una sorta di conciliazione tra le immagini distinte, da un lato tra le immagini

delle varie discipline scientifiche, dall’altro tra queste e il mondo della vita. Si tratterebbe

dunque, principalmente di un compito volto a riportare concretezza all’immagine astratta

del sapere scientifico riancorandolo al mondo della vita. Tale operazione sarebbe resa

possibile dal fatto che seppur l’immagine scientifica sia antagonista rispetto a quella del

mondo della vita, il suo apparato categoriale è secondo Hegel immanente alla cornice

concettuale propria dell’esperienza ordinaria del mondo. Sarebbe dunque, questa cornice

categoriale ciò che fornirebbe le basi per un ripensamento della costruzione scientifica.

Ovvero solo in quanto il pensiero che attraversa il mondo della vita attraversa pure

l’immagine scientifica del mondo sarebbe possibile riagganciare l’uno all’altro.

Questa compito verrebbe perseguito dalla filosofia secondo due operazioni

distinte, una volta nei confronti della cornice concettuale del mondo della vita, l’altra su

quello delle scienze.

A) Operazione della filosofia sul pensiero che pervade ogni esperienza umana

Relativamente alla prima operazione, ovvero l’operazione della filosofia sulla

struttura concettuale che pervade il mondo della vita, Hegel è esplicito nell’Aggiunta al §

22:

Il compito della filosofia consiste soltanto nel portare esplicitamente a coscienza quello

che rispetto al pensiero, da tempo inveterato, per l’uomo è sempre invalso (Enz. § 22 Z).

In altri termini, la filosofia deve portare ad esplicitazione la rete categoriale del

Denken che opera nell’esperienza ordinaria del mondo. Ciò, tuttavia, non significa

accettare tale rete così come essa si presenta nell’esperienza ordinaria, cioè, non significa

accettare la datità di come tale struttura categoriale si presenta articolata. Come si è visto,

82

le determinazioni di pensiero che strutturano tale rete nell’esperienza ordinaria agiscono

in modo implicito a diversi gradi e secondo differenti articolazioni, spesso l’una contro

l’altra. Esse cioè non si presentano relate l’una all’altra secondo la propria struttura

interna.

Il pensiero, così come lo spirituale, e dunque l’umano, è caratterizzato infatti

dall’essere ciò che è sulla base dello specifico rapporto che esso intrattiene con se

stesso104. E, forse, quando si afferma che l’uomo, o ciò che è umano, si distingue dagli

animali per il pensiero, non si afferma altro che questo: l’uomo è uomo solo

incontrandosi105. In altri termini, l’uomo, o il pensiero, per la capacità di

autodeterminazione che gli è propria, diviene ciò che è solo rapportandosi a se stesso;

attraverso questo rapporto a sé che lo costituisce, non è mai riducibile ad un qualcosa di

dato. In questo senso l’esplicitazione delle categorie di pensiero che operano in maniera

inconscia nella vita ordinaria, in quanto operazione del pensiero su se stesso, non è

affatto un’operazione neutra, ossia non è un’operazione che portandole alla coscienza

lascia il pensiero così come esso è. Ciò che si vuole sostenere è che lo sforzo del pensiero

su se stesso non è solamente uno sforzo di tipo teoretico, ma pratico. Esso fa qualcosa;

per cogliere le categorie che attraversano implicitamente il mondo della vita, agisce su di

esse e su di sé. La loro esplicitazione implica una trasformazione delle modalità in cui

esse si danno. Il pensiero filosofico, in questo suo compito, coglie le categorie nelle

relazioni interne che le definiscono, o meglio, cogliendole nella loro concrettezza le

interconnette tra loro, riarticolandone così la struttura formale. In altri termini se,

indubbiamente, i concetti, per esempio, di alterità, di causalità, ecc., quali sono esposti

nella scienza della logica, come sistema delle determinazioni pure del pensiero

nell’elemento del pensiero, sono differenti da quelli che attraversano la nostra coscienza

ordinaria del mondo, lo sono in quanto essi hanno la loro determinazione, perlomeno

idealmente, all’interno di una struttura concettuale sistematicamente organizzata in cui le

104 A tal proposito già nel primo capitolo era stato sottolineato come momento fondamentale della

realtà dello spirito il sapersi dello spirito: «lo spirito è essenzialmente ciò che esso sa di se stesso» § 385

Z. 105 Si può citare ancora Sellars: «se l’uomo avesse avuto una concezione radicalmente diversa di se

stesso, sarebbe stato un genere d’uomo radicalmente diverso» (SELLARS W., Philosophy and the

Scientific Image of Man, cit., p. 37).

83

relazioni delle determinazioni di pensiero li definiscono. In questo modo, essi si

presentano come concetti differenti dei concetti che agiscono in tale coscienza, e non

riducibili quindi ad una esplicitazione meramente doxastica, o teorica, di quelli, così

come le inferenze logiche, o le operazioni aritmetiche definite all’interno di un sistema

formalizzato sono un’altra cosa dalle operazioni di inferenza e di aritmetica che

compiamo nella vita quotidiana, seppur possano avere una derivazione genetica da queste

ultime.

Al contempo però, secondo Hegel, quest’operazione della filosofia su tali

categorie è un’operazione di esplicitazione. Tuttavia, cosa può significare qui

“esplicitazione” se di fatto attraverso di essa ciò che viene esplicitato non rimane

immutato?

Per risolvere la questione sembra necessario introdurre una distinzione tra il modo

in cui tali determinazioni di pensiero e concetti, che operano al livello inconscio, si

formano e si articolano nella coscienza ordinaria – processo che come si è visto è

determinato da variabili non padroneggiabili di carattere geografico, storico, culturale,

linguistico, ecc. - e la possibile logicità, o razionalità, con cui tali relazioni si possono

determinare. Quest’ultima riguarda le determinazioni di pensiero come esse sono in sé ed

ha indubbiamente a che fare con la teoria hegeliana del pensiero oggettivo, ovvero con la

tesi della razionalità del reale. In altri termini l’esplicitazione operata dalla filosofia sulle

determinazioni del pensiero che agiscono nell’esperienza ordinaria del mondo, non è

un’esplicitazione di come queste agiscono in quella, ma è un’esplicitazione di ciò che in

esse vi è implicito, ossia la loro razionalità.

Con ciò si è voluto sostenere che (a) le determinazioni di pensiero come agiscono

nella vita ordinaria non sono di per se stesse, nella modalità in cui in essa operano,

esteriormente, razionali, ossia interconnesse tra loro; (b) per questo motivo la loro

espicitazione operata dalla filosofia attraverso la loro interconnessione concettuale ne è

una trasformazione; (c) esse si presentano, tuttavia, come elementi di possibile

collegamento concettuale, o razionale; (d) la loro esplicitazione non è dunque che

l’attuazione di questa possibilità, o potenza. Per questo motivo, dunque, come già prima

accennato, l’esplicitazione del pensiero sulle proprie categorie operata dalla filosofia, si

presenta più che come un’operazione di tipo meramente teoretico, come un’operazione

84

pratica. Un’operazione del pensiero sul pensiero attraverso la quale acquisisce

razionalità. Se dunque il pensiero oggettivo riguarda la razionalità del mondo e del

soggetto, esso è un qualcosa di conquistabile solo all’interno dello spazio concettuale

aperto dalla sua possibilità nelle determinazioni di pensiero all’opera nella coscienza

ordinaria del mondo. Nel pensiero, e a partire da quello che percorre inconsciamente tutto

ciò che vi è di umano nell’uomo, si può esprimere la razionalità. E, a partire da quanto

detto, sembra allora concepibile, solo come un da farsi106. E ciò può essere fatto solo

attraverso il rapporto del pensiero con il pensiero e il rapporto del pensiero con il mondo,

attraverso cioè la conoscenza razionale dell’uno e dell’altro. Sotto questa prospettiva, mi

sembra, si chiarisca il senso dell’affermazione, per molti aspetti scandalosa, per cui ciò

che prova la teoria del pensiero oggettivo non può essere alcun argomento determinato,

ma il sistema stesso, ossia la conoscenza razionale del pensiero e del mondo. In altri

termini il pensiero non è che l’elemento in cui la razionalità, dell’uomo e del mondo, può

comparire.

B) Operazione della filosofia sul pensiero che opera nelle discipline scientifiche e

che è da esse prodotto

La filosofia in Hegel, come abbiamo accennato, sembra avere il ruolo di produrre

una sorta di conciliazione tra le immagini distinte, da un lato tra le immagini delle varie

discipline scientifiche, dall’altro tra queste e il mondo della vita. Mentre la prima

operazione della filosofia è attuata attraverso un processo di esplicitazione che è, al

contempo, un processo di trasformazione della tessitura concettuale del pensiero che

attraversa la nostra esperienza ordinaria del mondo e dell’uomo, la seconda operazione si

presenta principalmente in quanto volta a riportare concretezza all’immagine astratta del

sapere scientifico riancorandolo al mondo della vita. Come accennato, tale operazione è

possibile in quanto la struttura categoriale di una teoria o di una disciplina scientifica, per

quanto essa possa porsi come antagonista nei confronti dell’esperienza quotidiana del

mondo e dell’uomo, non è completamente separata dalla struttura categoriale del pensiero

che pervade il mondo della vita.

106 Con ciò naturalmente, non si intende sostenere un idealismo costruttivista.

85

Questo secondo compito della filosofia, dunque, viene svolto sulle varie discipline

empiriche, o più precisamente, sui loro risultati come sui loro concetti fondamentali. (a)

Sui risultati in quanto l’universale – la legge o il genere - contenuto in essi, come dice

Hegel al § 9, è:

«come indeterminato per sé, non collegato per sé con il particolare, ma entrambi sono

esterni e contingenti, l’uno rispetto all’altro, proprio come i particolari collegati sono per sé

reciprocamente esterni e contingenti»

E (b) sui concetti fondamentali su cui le varie discipline si basano in quanto

questi:

«sono dovunque immediatezze, sono qualcosa di trovato, sono presupposti».

Riguardo al primo punto, dunque, la filosofia non mette mano sul contenuto dei

risultati cui pervengono le scienze empiriche. Non è questo che le spetta. Non sta cioè ad

essa, accettare o rifiutare quanto viene accettato o rifiutato dalla comunità scientifica107.

Ma essa opera solo un cambiamento di forma attraverso un cambiamento di categorie, o

meglio, riarticolando la forma dei loro risultati in forma concettuale.

In questa prospettiva si situa in modo molto convincente la lettura che S. Rand

propone della Filosofia della natura di Hegel e del suo rapporto con le scienze

empiriche108. Anche la filosofia della natura, all’interno di una visione più generale che

legge l’intera filosofia hegeliana come non aprioristica, sarebbe essenzialmente coerente

con la visione disincantata della natura quale prodotta dalle scienze empiriche, ossia con

la visione che considera la stessa natura come unica fonte di autorità normativa

relativamente alle spiegazioni scientifiche. L’importanza del principio della libertà, come

si è visto, sottolineata da Hegel per quanto riguarda le scienze empiriche, a partire dalla

loro stessa nascita, appare, cioè, nel rifiuto di qualsiasi altra autorità normativa data, sia

questa l’autorità della parola della chiesa o della tradizione scolastica. La visione della

107 Anche se si potrebbe portare qualche esempio dell’opposizione di Hegel nei confronti di qualche

risultato e di qualche presupposto particolare di una disciplina scientifica. 108 Cfr. Rand, The Importance and Relevance of Hegel's Philosophy of Nature, cit. pp. 391 e sgg.

86

natura che ne risulta è disincatata proprio perché è passata attraverso la negazione di

autorità date, non naturali. Essa rappresenta dunque un grosso passo in avanti

nell’acquisizione della libertà del pensiero. La filosofia della natura di Hegel, in questo,

sarebbe pienamente conforme a scopi e valori delle scienze moderne.

L’operazione che la filosofia compie sui risultati e sui concetti fondamentali delle

discipline scientifiche, dunque, non è un’operazione in contrasto con tali discipline. Che

essa sia conforme agli stessi valori non significa per Hegel che essa non sia solamente in

contraddizione con essi, ma che gli scopi e i valori della filosofia non sono che gli scopi e

i valori attraverso i quali Hegel comprende le discipline scientifiche. La filosofia, rispetto

a tali scopi e valori, non rappresenterebbe che una loro radicalizzazione volta al

conseguimento di un maggior grado di scientificità. Dunque, ancora, non è contestata la

scientificità delle scienze empiriche, ma è avanzato un ulteriore grado di scientificità per

la filosofia rispetto a quello da esse realizzato.

Tale grado di scientificità della filosofia viene conseguito attraverso le due

operazioni cui abbiamo fatto riferimento: (a) sui risultati e (b) sui concetti fondamentali.

Esso, per quanto detto, rappresenta una conquista della ragione nella sua autonomia.

Rispetto ad essa, sempre al § 9, Hegel in relazione agli elementi delle scienze empiriche

sui quali la filosofia deve operare, afferma che la ragione «richiede ulteriore

soddisfazione quanto alla forma, e questa forma è la necessità in generale», rimandando

poi al § 1, e dunque ai passi che differenziano la filosofia dalle discipline scientifiche per

la mancanza di presupposizioni circa i propri inizi, il proprio oggetto e il proprio metodo.

L’acquisizione di un nuovo livello dell’autonomia della ragione viene dunque indicato

come l’acquisizione di un nuovo grado di necessità. Il procedere delle scienze istituisce

un primo grado di necessità attraverso l’operazione dell’intelletto che analizza il proprio

oggetto connettendo le sue determinazioni secondo le sue relazioni interne e così facendo

può produrre leggi e universali e raggiungere sulla loro base, fornendo giustificazioni che

non poggiano su autorità date, un primo grado di autonomia della ragione. Con ciò stesso

le determinazioni così collegate, a causa del procedimento analitico dell’intelletto - sua

forza e sua debolezza - che separa il proprio oggetto dai nessi al cui interno è immerso,

astraendolo dalle relazioni in cui è preso, vengono lasciate nella loro astrattezza rispetto

al particolare e affette dagli elementi di contingenza che, come cercheremo di mostrare,

87

accompagnano quello che Hegel chiama il metodo analitico. La filosofia a tal riguardo

non avrebbe che il compito di eliminare tale astrazione e tali elementi di contingenza e

dunque raggiungere un maggior livello di concretezza e necessità. Da un lato, dunque,

per Hegel questo compito della filosofia si svolgerebbe riarticolando i risultati delle

scienze ad un livello più comprensivo, anche con l’ausilio dell’introduzione di nuove

categorie, capace di togliere la necessaria astrazione operata per il loro stesso

raggiungimento dall’intelletto; dall’altro, radicalizzando il principio di libertà che

governa il lavoro scientifico, la filosofia dovrebbe togliere da tali risultati gli elementi di

datità, e dunque di autorità esterna alla ragione stessa, che operano a livello del metodo e

dei presupposti. In questo senso il compito della filosofia secondo Hegel sarebbe

conforme al compito della scienza moderna: la libertà del pensiero. Libertà che si declina,

negativamente, come libertà da ogni autorità data e positivamente come capacità di

fornire o articolare giustificazioni. La libertà, come la scientificità (e per la stessa

ragione), della filosofia si presenta per Hegel come un grado ulteriore di libertà, o

scientificità, rispetto a quello delle varie discipline scientifiche in quanto la

giustificazione che essa persegue non ha altro fondamento che non sia la stessa

articolazione delle ragioni.

4.1 Un esempio matematico

Per chiarire che cosa significhi fornire una giustificazione interna al pensiero o

cercare o fare riferimento ad un «saldo punto d’appoggio» esterno ad esso, può essere

utile fare riferimento ad un esempio matematico, per quanto per alcuni aspetti possa

risultare fuorviante, proposto da M.J. Inwood109.

Si prenda un semplice sistema aritmetico composto dall’insieme dei numeri interi

positivi e dall’operazione di addizione. Se confinati in questo sistema, piuttosto che

“numeri interi positivi” dovremmo riferirci solo a numeri in quanto non abbiamo ancora

alcuna idea di cosa potrebbe essere un qualcosa come i numeri negativi o le frazioni.

Questo semplice sistema, composto solo da un insieme di elementi e da una regola di

109 INWOOD M., Hegel, cit., pp.19 sgg.

88

derivazione, può già illustrare molto bene alcune delle caratteristiche del modo in cui la

filosofia secondo Hegel opera con i pensieri. Come abbiamo visto, Hegel spesso fa

riferimento al grande dibattito che vedeva impegnati già i filosofi pre-kantiani,

empirismo e razionalismo, circa l’origine e la giustificazione delle nostre idee110; nel

primo paragrafo dell’Enciclopedia è affermata tanto la necessità per la filosofia di essere

senza presupposti quanto la necessità di avere una certa familiarità con il proprio oggetto,

ossia la necessità di presupporre rappresentazioni di esso. In questo esempio, dunque le

operazioni di pensiero che compiamo all’interno di questo sistema aritmetico

presuppongono che noi, nella vita ordinaria, si compia operazioni di calcolo quali contare

mele, pecore o altro. Inoltre, ci introduciamo in tale sistema, impariamo a muoverci in

esso, per il fatto che eseguiamo tali operazioni nella vita ordinaria e riflettendo su cosa

facciamo mentre le eseguiamo. È in questo senso che il pensiero con cui la filosofia opera

presuppone le rappresentazioni, e le operazioni di pensiero presenti nelle attività pratiche

di ogni giorno. Tuttavia fare un’operazione di calcolo nella vita ordinaria e fare

un’operazione di calcolo in un sistema irrigimentato non è la stessa cosa. Nell’operazione

pratica con cui a 4 pere aggiungo 5 pere, qualora mi venisse il dubbio di aver contato

male, verificherei il risultato facendo attraverso un’operazione di riferimento, cioè

guardando e ricontando le pere; nell’operazione che svolgo invece sommando il numero

4 al numero 5 e ottenendo 9, la verifica, o giustificazione del risultato, è data dalla stessa

derivazione di esso. In altri termini, il risultato è determinato necessariamente dagli

elementi interni del sistema aritmetico, ossia solo dal puro pensiero, senza riferimento ad

un qualcosa ad esso esterno. Con l’istituzione di questo sistema aritmetico, quindi,

abbiamo elevato al puro pensiero alcune operazioni pratiche. In questo senso la filosofia

nasce, ha come punto di partenza l’esperienza (Enz. § 12).

Supponiamo ora che il nostro matematico voglia estendere il suo sistema

aritmetico attraverso l’introduzione dei numeri negativi. Tre sarebbero i modi per

procedere a tale estensione. A questi tre modi corrispondono tre differenti modalità di

produrre giustificazioni. (1) Un primo modo, potrebbe essere che il matematico si decide

semplicemente, o tramite la lettura di libri di matematica, che ci dovrebbero essere i

numeri negativi, e dunque li introduce nel suo sistema. (2) Il matematico, invece, questo

110 Cfr. BRANDOM R., Articulating Reasons, cit., p. 53.

89

il secondo modo, potrebbe procedere altrimenti e riflettere sulle operazioni di calcolo che

quotidianamente compiamo, riconoscendo che oltre che guadagni ci sono perdite, oltre

che movimenti in avanti, ci sono movimenti indietro. In questo modo, attraverso

un’operazione di riflessione sull’esperienza il matematico sarebbe portato a inserire nel

proprio sistema dei numeri negativi oltre che quelli positivi. (3) Il terzo modo per

introdurre il sistema dei numeri negativi, invece, non fa riferimento a qualcosa che sia

esterno al sistema stesso. Ossia l’inserimento di tali numeri dipenderebbe dal sistema

stesso e non dal riferimento ad un qualche fenomeno empirico sia questo un nostro atto

decisionale o di apprendimento, o un’operazione pratica. Infatti, nel caso in cui il sistema

aritmetico fosse composto solo dall’insieme dei numeri positivi e dall’operazione di

addizione e si introducesse l’operazione di sottrazione per opposizione concettuale

all’altra, ci si troverebbe nella bizzarra situazione per cui mentre tutte le operazioni di

addizioni presentano una soluzione, ci sarebbero alcune operazioni di sottrazione che la

presentano, altre no, come per esempio 4-5. I numeri negativi, in questo modo,

verrebbero introdotti come i risultati di quelle operazioni che non avrebbero risultato.

Sebbene questo esempio non riproduca tutto ciò che Hegel intende con il modo in

cui la filosofia opera con il pensiero, e più in particolare può apparire fuorviante per il

rapporto che secondo Hegel la filosofia ha con le discipline scientifiche, esso può essere

utile come esempio per le differenti modalità con cui ci si appella ad una giustificazione

ed in particolare quella che richiede che la giustificazione non sia esterna al pensiero

stesso. (1) Il primo modo corrisponde alla modalità del pensiero che Hegel chiama

“vecchia metafisica”, in particolare con l’introduzione di definizioni ingiustificate o

attraverso l’appello ad autorità date. (2) Il secondo modo corrisponde alla modalità con

cui operano le scienze della natura, che partendo dall’osservazione di un fenomeno

empirico ne ricavano leggi. (3) Il terzo modo corrisponde alla modalità in cui dovrebbe

operare la filosofia in cui si richiede che la giustificazione non può essere esterna al

processo che articola le ragioni.

Come si è cercato di porre in luce con le domande che muovevano questa parte del

lavoro - cosa si intende per “trasformazione”, “elevazione”, “pensiero”, in questi casi?

Come viene attuata questa “trasformazione”? Si modifica attraverso di essa, e se sì,

come, il rapporto con l’esperienza, e l’esperienza ordinaria del mondo, del linguaggio e

90

dei concetti della coscienza, visto che la filosofia esige un accordo, anche se solo esterno,

con l’esperienza? - ci si potrebbe chiedere ora, relativamente all’esempio, se i concetti

introdotti nel sistema aritmetico secondo i tre diversi modi siano o non siano lo stesso

concetto. Il concetto introdotto nel terzo modo presenta indubbiamente legami concettuali

interni al sistema che ne fanno un concetto differente, tuttavia, come si è cercato di

chiarire relativamente alla nozione di “esplicitazione”, tale differenza non risiede che nel

fatto che essa traccia maggiormente la razionalità.

5. La critica all’empirismo

L’empirismo, a differenza della prima posizione del pensiero rispetto

all’oggettività nella quale il rapporto tra pensiero ed essere era completamente sbilanciato

sul secondo termine, si presenta caratterizzato - come del resto lo è l’intera modalità di

pensiero della seconda posizione, quindi lo stesso criticismo - come paradossalmente

sbilanciato sul lato soggettivo. Paradossalmente, in quanto è proprio tramite il riferimento

all’empiria che tale atteggiamento di pensiero pretende di giustificare le proprie

asserzioni. In altri termini, se l’empirismo ricerca per il proprio discorso un «saldo punto

d’appoggio» nell’esperienza, perché, la sua modalità di conoscere non dovrebbe essere,

come nel caso della metafisica, sbilanciata sull’oggetto?

Come si è visto, l’empirismo contiene il grande principio della libertà per il quale

«l’uomo deve vedere egli stesso ciò di cui deve ammettere il valore nel suo sapere, deve

sapervisi presente egli stesso» (Enz. § 38 A). Ora, dopo aver posto in luce l’importanza

di tale principio, Hegel attraverso la critica a questo aspetto dell’empirismo mostra

l’insufficienza con cui tale principio è contenuto e realizzato dall’empirismo. Che la

conoscenza empirica sia sbilanciata sul lato del soggetto significa per Hegel che,

nonostante il costante riferimento all’empirico, l’elemento legittimante risiede

unicamente nel lato soggettivo della conoscenza, ossia la presenza immediata alla

coscienza, la certezza. Per dirla usando una formula di Brandom, l’atteggiamento di

pensiero che è proprio dell’empirismo, relativamente alla procedura giustificatoria è

ancora tutto interno all’«era della filosofia» cui aveva dato origine Descartes attraverso la

91

sua riformulazione di quanto era concepito come avente status ontologico differente, il

fisico e il mentale, in termini epistemologici di accessibilità alla cognizione, ossia in

termini di certezza. L’empirismo, cioè non sarebbe ancora dentro alla nuova epoca della

filosofia inaugurata con lo spostamento kantiano dalla certezza alla necessità. Mentre

dunque l’attenzione alla certezza porterebbe con sé, come elemento legittimante, la nostra

presa sui concetti (questa idea è adeguata, è vera, perché ce l’ho presente in maniera

chiara e distinta), l’attenzione alla necessità implica invece come elemento legittimante la

presa dei concetti su di noi, ovvero porrebbe in gioco nel processo giustificatorio il

vincolo della razionalità (questa regola ci vincola?, in questo caso, questa regola è

applicabile?)111. Tale aspetto vincolante dei concetti è ciò che Brandom chiama

normatività, esso riguarda il loro valore regolativo, la loro autorità, forza vincolante o

validità.

A questa “disattenzione” all’elemento normativo dei concetti relativamente alla

legittimità delle connessioni tra idee, nell’empirismo si accompagna la ricerca sulla

giustificazione delle connessioni delle idee a partire dalla loro origine. In altri termini il

fatto è volto a fornire ragioni per le connessioni concettuali. Anche secondo questo

aspetto, l’empirismo, come atteggiamento di pensiero, sarebbe ancora legato al

rappresentazionalismo cartesiano secondo il quale è il concetto di rappresentazione, o

contenuto cognitivo, l’elemento fondamentale per spiegare l’attività di pensiero. Le

connessioni di pensiero cioè sarebbero spiegate a partire dal possesso di un contenuto, e

non questo dal suo venir preso all’interno di relazioni di pensiero. In altri termini, le

relazioni di pensiero possono acquisire validità solo a partire da un contenuto

esperienziale, e non gli stati e gli atti mentali acquisire un contenuto, un senso, un

riferimento e validità, quando sono coinvolti in connessioni di pensiero (comprendere un

determinato concetto o un determinato contenuto di pensiero significherebbe

padroneggiare le relazioni concettuali in cui è coinvolto)112.

111 Cfr. BRANDOM R., Articulating Reasons, cit., pp. 83-84, pp. 163. 112 R. Brandom, a tal proposito, propone di suddividere i filosofi pre-kantiani, piuttosto che tra

empiristi e razionalisti, tra rappresentazionalisti ed inferenzialisti. Tale coppia concettuale, pur essendo

coestensiva della coppia empirismo/razionalismo, sarebbe secondo il filosofo statunitense più fedele ai

principi ultimi di questi pensatori (cfr. ivi, pp. 53-55).

92

In questo senso Hegel, nel ribadire l’elemento di forza dell’empirismo –

l’elevazione dell’intuizione, del sentimento, della rappresentazione a pensiero -, esplicita

l’elemento legittimante di questo atteggiamento del pensiero nel § 28:

la singola percezione è distinta dall’esperienza, e l’empirismo eleva il contenuto proprio

della percezione, del sentimento e dell’intuizione, alla forma di rappresentazioni, proposizioni e

leggi, ecc., universali. Ma questo avviene soltanto nel senso che queste determinazioni universali

(per es. la forza) non devono avere per sé alcun altro significato ed alcun altra validità, salvo

quella derivante dalla percezione e non deve essere giustificato un nesso, salvo quello che può

essere verificato nel fenomeno (Enz. § 38).

Ciò significa che un collegamento di pensiero non riceve il suo significato e la sua

validità se non da ciò che si dà nell’esperienza e più in particolare nella percezione.

L’elemento legittimante una connessione di pensiero, in quest’atteggiamento del

pensiero, non è dunque che la sua verifica nella percezione. Nella percezione, tuttavia, le

cose si danno solo secondo una moltitudine di percezioni secondo mutamenti successivi e

oggetti giustapposti, e dunque l’empirismo se sviluppato coerentemente non può che

sfociare nello scetticismo. La percezione, cioè, non può essere in grado di raggiungere né

la necessità, che è radicalmente differente dalla successione e dalla giustapposizione, né

l’universalità, che a sua volta è radicalmente differente dalla moltitudine.

L’empirismo si trova dunque preso in un doppio vincolo: da un lato mantiene la

percezione come l’elemento che deve legittimare le connessioni di pensiero, ma dall’altro

si trova a dover ammettere che la percezione non può svolgere alcun ruolo legittimante

per le connessioni di pensiero. Se ciò che può svolgere adeguatamente un determinato

ruolo deve avere i titoli per svolgerlo, la percezione, così concepita, non può svolgere

alcun ruolo legittimante per le connessioni di pensiero proprio perché, in quanto separata,

astratta, dal pensiero, non può essere presa all’interno di un procedimento che è un

procedimento di pensiero, quello di articolare ragioni113. Una ragione, cioè, per essere

113 Alcuni studiosi, fra cui C. Halbig, partendo dal libro Mente e mondo di McDowell, hanno

rintracciato la critica al mito del dato, lì potentemente espressa, nella filosofia hegeliana soprattutto

rifacendosi alla terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività. Si ritiene, invece, che il luogo

sistematico in cui Hegel affronti i problemi connessi a tale mito, siano da ricercare nella sezione della

93

tale, deve svolgere un ruolo all’interno di relazioni razionali, e le relazioni razionali

possono essere supportate solo da una struttura di pensiero o concettuale. Qualcosa,

dunque, per poter fungere da ragione, e dunque per poter essere suscettibile di relazioni

razionali, deve essere strutturata concettualmente. La percezione, così, come concepita

nella sua astrazione del pensiero, ossia come meri input non concettuali sul soggetto, non

può svolgere alcuna funzione all’interno di relazioni di carattere concettuale e dunque

non può nemmeno divenire una ragione, un qualcosa di legittimante.

Hume, dunque, era nel giusto sostenendo che la percezione sensibile, nella sua

astrazione dal pensiero, non può giustificare le nostre credenze circa la causalità tra due

eventi (Enz. § 39), ossia non può giustificare una connessione di idee, un pensiero.

Tuttavia, sostenere che la percezione sensibile non possa assurgere a questa autorità, non

significa ancora inficiare i giudizi causali o che questi non possano avere ragioni.

L’empirismo ricerca tali ragioni spostando l’attenzione dalla questione della validità dei

concetti alla loro origine; o, piuttosto, cerca di fondare la loro validità nella loro origine,

ed in questo, ponendosi su un piano che è quello dello psicologismo, è condannato da

principio a mancare la questione della loro validità. In altri termini, non si tratta di negare

che le credenziali per la conoscenza empirica siano offerte soprattutto dall’esperienza,

fare ciò significherebbe cogliere sì l’elemento concettuale delle relazioni razionali

necessarie alla giustificazione, ossia l’aspetto inferenziale del pensiero, ma sarebbe

parimenti un dimenticare il suo aspetto referenziale, ossia il suo vertere su qualcosa, il

suo riguardare il mondo. Dimenticare quest’aspetto sembrerebbe portare inevitabilmente

ad una concezione o visione del mondo di tipo astratto e intelletualistico in cui la verità è

definita esclusivamente in termini della coerenza interna del sistema, ossia dal rapporto

inferenziale tra i pensieri o credenze.

seconda posizione dedicata all’empirismo. Nella terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività,

infatti, l’oggetto del sapere immediato nel corpo dei paragrafi è solo ed esclusivamente Dio. Gli oggetti

empirici e il sapere immediato come credenza (belief) riguardo agli oggetti empirci compaiono solo

all’interno delle annotazioni, in cui, chiaramente, tanto la caratterizzazione hegeliana quanto quella

jacobiana, rimandano per tale aspetti all’atteggiamento di pensiero dell’empirismo (cfr. HALBIG C., The

Philosopher as Polyphemus? Philosophy and Common sense in Hegel and Jacobi, «International

Jahrbuch des Deutschen Idealismus», 2005 n. 3, s. 261-265; e HALBIG C., Objektives Denken:

Erkenntnistheorie und Philosophy of Mind in Hegels System, Stuttgart-Bad Cannstatt, 2002).

94

6. La filosofia critica

La seconda e ultima parte che tratta l’atteggiamento di pensiero della seconda

posizione rispetto all’oggettività è dedicata all’analisi della filosofia critica. La filosofia

critica, come l’empirismo, è utilizzata come paradigma di questo atteggiamento del

pensiero per lo squilibrio presente nel rapporto conoscitivo a favore del soggetto

conoscente. Dell’empirismo questa filosofia condivide molti aspetti, e da esso per alcuni

altri si differenzia. (a) Come nell’empirismo, è l’esperienza ciò che viene considerato

come l’«unico terreno delle conoscenze», sebbene qui l’ambito esperienziale non sia fatto

coincidere con l’ambito della verità, ma con quello del fenomenico. Solo nell’ambito

dell’esperienza abbiamo conoscenza, ma in esso la verità appare solamente, è una verità

solo fenomenica. (b) Come l’empirismo la filosofia critica distingue due aspetti

nell’esperienza, uno materiale e uno formale. L’aspetto materiale è il contenuto sensibile,

sempre singolare, che è offerto alle relazioni universali appartenenti al pensiero del

soggetto conoscente, alle quali spetta dar forma a tale materiale. Queste relazioni

universali, tuttavia, a differenza di come venivano considerate nell’empirismo, non

derivano dall’empirico, ma sono il prodotto della spontaneità del pensiero. (c) Come

nell’empirismo, è riconosciuto al pensiero, cioè alla forma dell’esperienza, l’elemento di

universalità e necessità, la cui presenza all’interno dell’esperienza è riconosciuta tanto

dall’empirismo quanto dalla filosofia critica come un fatto; ma mentre nell’empirismo,

che universalità e necessità appartenessero solo al pensiero e non fossero riscontrabili nel

dato percettivo, ossia che fossero mere costruzioni concettuali imposte tramite abitudine

ad un materiale sensibile che ne era intrinsecamente alieno, ne inficiava la validità, nella

filosofia critica, vengono mantenuti come ciò che costituisce l’oggettività della

conoscenza di esperienza (Enz. § 40). Il problema centrale diviene così come questi

elementi a priori, che appartengono alla nostra mente, possano essere congiunti nel

giudizio con qualcosa che ci viene da un mondo esterno al pensiero.

Nella distinzione tra conoscenza fenomenica e verità si apre la strada per quel

passaggio, cui precedentemente si è fatto riferimento, dall’era cartesiana della certezza, a

95

quella kantiana della necessità. Se è solo nell’esperienza che ci può essere conoscenza,

altrettanto nell’esperienza la verità solo appare, e dunque l’esperienza, la presenza alla

coscienza, non può fungere da criterio del vero. Abbiamo solo conoscenze dell’ambito

fenomenico, dunque una conoscenza fenomenica. La certezza, come presenza alla

coscienza, in quanto è determinata dall’evidenza, dalla distinzione, dall’immediatezza,

con cui un qualcosa appare alla coscienza, è essa stessa tutta interna al fenomeno, e

perciò non può ergersi a garante del vero. Chi o cosa garantisce che ciò di cui sono certo

è anche vero? La certezza, infatti, è un nostro stato cognitivo, ed essa, essendo come stato

cognitivo in parte determinata dal nostro apparato cognitivo, non ha i titoli per essere

presentata come criterio del vero. La rappresentazione che mi formo dell’oggetto è il

prodotto congiunto dell’oggetto e dell’apparato cognitivo che adopero nel rapportarmi ad

esso. Una volta separato essere e pensiero, una volta posto in dubbio che le

determinazioni del pensiero corrispondano alle determinazioni ontologiche delle cose,

l’esperienza di qualcosa, il solo provarlo, sperimentarlo da me stesso non può più fungere

da criterio di legittimazione per ciò che posso ammettere o rifiutare.

Le determinazioni del pensiero che sole sono in grado di fornire l’universalità e la

necessità richieste dalla conoscenza, secondo l’eredità assunta dall’empirismo, non sono

più anche determinazioni delle cose, come avveniva per l’atteggiamento di pensiero della

prima posizione. Le categorie del pensiero sono ora categorie della comprensione e non

dell’oggetto che tramite esse viene compreso. Le determinazioni di pensiero sono dunque

solo forme soggettive del conoscere. Esse, piuttosto che essere le determinazioni

dell’oggetto di conoscenza, sono qualcosa che viene proiettato e imposto dal soggetto

conoscente, facendo, dunque, dell’oggetto così conosciuto, un fenomeno di una realtà

soggiacente che per definizione deve essere postulata come inconoscibile. In altri termini,

il pensiero viene considerato come un mezzo atto a collegare due termini, il soggetto e

l’oggetto, e in quanto tale dovrebbe essere considerato quale un terzo tra i due. Esso

tuttavia, come attività del soggetto è concepito esclusivamente come un medio che

appartiene a questi e a cui l’oggetto si trova ridotto. Come uno schema del soggetto e che

il soggetto proietta sulla realtà, il pensiero si dimostra incapace ad operare il

collegamento tra soggetto e realtà. In questo modo la separazione posta tra soggetto e

oggetto, che il pensiero è chiamato a colmare, si ripresenta sempre nuovamente tra

96

l’oggetto pensato dal soggetto e l’oggetto, ovvero come separazione tra la certezza e la

verità.

7. L’esame preliminare al conoscere

Di fronte a tali difficoltà, una modalità di procedere sarebbe quella di sospendere i

propri giudizi per approntare un esame sull’apparato cognitivo per verificare quali oggetti

questo è in grado di conoscere e a quali questioni è in grado di rispondere. E così, il

pensiero richiederebbe di essere esaminato da se stesso. La filosofia kantiana è per Hegel

il modello di questo modo di procedere. L’analisi dei concetti nel tentativo di

comprenderne la natura, il valore, la validità, in questa prospettiva, appare costituire – per

usare un’espressione di Brandom - «l’autentico cuore dell’impresa filosofica

kantiana»114.

In tale procedere si possono riconoscere due istanze: a) l’istanza di esaminare i

concetti; b) l’istanza che questa operazione sia preliminare all’operazione propriamente

conoscitiva.

Hegel fa propria la prima istanza e rigetta la seconda.

La critica a (b) è attuata scalzando l’analogia con lo strumento conoscitivo

utilizzata da Kant (Enz. § 10 A): lo scienziato prima di produrre un’osservazione o prima

di utilizzarli per ciò a cui sono destinati, deve testare i propri strumenti. L’analogia è

fuorviante: per testare un microscopio, per esempio, per analizzarne il funzionamento e la

struttura, non devo usare il microscopio; esso cioè è solo oggetto dell’esame. Nel caso

delle facoltà conoscitive l’esame non può che avvenire differentemente: le facoltà

conoscitive non sono solo oggetto dell’esame ma anche il soggetto che compie l’esame.

In altri termini ancora, dicendola con Hegel:

«le forme di pensiero devono essere considerate in sé e per sé; esse sono l’oggetto

e l’attività dell’oggetto stesso; esse stesse si sottopongono ad esame, devono

114 BRANDOM R., Articulating Reasons, cit., p. 164.

97

necessariamente determinare esse stesse in se stesse i loro limiti e indicare i loro difetti»

(Enz. § 41 Z. 1)

Così, la posizione per cui l’analisi degli strumenti del conoscere come preliminare

al conoscere si rivela incoerente: esaminare le capacità conoscitive implica acquisire

delle conoscenze a loro proposito, non si può acquisire delle conoscenze prima di

conoscere. Tuttavia, sembra che tale contro argomento possa essere abbastanza

facilmente neutralizzato qualora si restringa lo scopo dell’esame, e dunque riducendo

l’istanza di un esame preliminare al conoscere, al conoscere un particolare ambito di

oggetti o al rispondere ad un particolare tipo di questioni. Per esempio, se l’istanza di un

esame preliminare al conoscere fosse preliminare non al conoscere tout court, ma alla

questione se sia possibile o meno conoscere Dio, l’anima, il mondo, allora non si

produrrebbe l’incoerenza di cui sopra. Su questo sembra basarsi l’intuizione che

abbiamo, e per cui il procedimento kantiano è apparso convincente, secondo cui non è

insensato chiedersi prima di tentare di rispondere ad una questione o ad un problema se

siamo in grado di rispondere a tale questione o problema, o prima di indagare un

determinato ambito di oggetti se siamo in grado di acquisire conoscenze di essi. Tuttavia

ciò che sembra contare, nella prospettiva di Hegel, è in primo luogo il rifiuto

dell’analogia con lo strumento. Il pensiero non può essere trattato come uno strumento, a

disposizione di qualcuno, e che come tale possa essere analizzato e testato. Uno

strumento può essere testato, può essere oggetto di esame, ma con ciò non è esso stesso

ad esaminarsi e testarsi, abbisogna sempre di qualcosa di esterno ad esso su cui possa

essere testato. Inoltre, secondo Hegel, relativamente all’argomento ristretto si potrebbe

rispondere che non c’è alcun modo di rispondere negativamente in maniera giustificata

alla questione se siamo in grado di conoscere o meno un determinato ambito di oggetti.

Una tale prova, infatti, dovrebbe essere condotta esclusivamente mostrando che alcune

caratteristiche interne del pensiero stesso non permettono alle nostre facoltà un rapporto

conoscitivo con il tipo di oggetto di quell’ambito particolare. E secondo Hegel nessuna

caratteristica interna del pensiero può mostrare che alcuni ambiti del mondo gli sono

preclusi. Per Kant, invece, sono le antinomie cui incorre il pensiero a mostrare che vi

sono alcuni ambiti preclusi al pensiero. Kant non pensa che vi sia una risposta corretta a

98

questioni come quella della finitezza o infinitezza del mondo, ma solo che a tale

domanda, da parte nostra, non si possa rispondere.

8. Il formalismo del pensiero

Secondo Kant, il pensiero si avvolge in contraddizioni quando pretende di

conoscere oggetti che trascendono l’ambito dell’esperienza. Le entità trascendenti

l’ambito dell’esperienza, come Dio o l’anima, non forniscono alcun «saldo punto

d’appoggio» sensibile per l’applicazione delle nostre determinazioni di pensiero, ed in

alcuni casi da questa assenza di fondamento emergono antinomie, ossia la possibilità di

attribuire ad una tale entità tanto un predicato quanto quello contrario.

Nonostante il grande merito che Hegel attribuisce a Kant di aver fatto valere

l’istanza di attuare un esame delle determinazioni di pensiero nella convinzione, che solo

nel pensiero sia comunque reperibile una qualche forma di oggettività, tale esame è

attuato secondo Hegel solo in relazione all’opposizione tra soggetto ed oggetto115. In altri

termini, le determinazioni di pensiero non sono analizzate in sé e per sé, ma in quanto

categorie di un soggetto conoscente che si applicano ad un oggetto. Dunque, come

categorie astratte. Secondo la ricostruzione hegeliana della filosofia kantiana, le categorie

non hanno senso o non possono in alcun modo fornire conoscenze a meno che non siano

supportate da dati empirici:

«questi concetti, come unità semplicemente della coscienza soggettiva, sono condizionati

dal materiale dato, sono per sé vuoti, trovano applicazione ed uso soltanto nell’esperienza» (Enz.

§ 43).

L’accusa che Hegel muove a Kant, a tal proposito, è di formalismo, di concepire i

pensieri in maniera puramente formale. Ciò, secondo Hegel, è dovuto al fatto che Kant

115 Cfr. GUYER P., Thought and Being. Hegel’s Critique of Kant’s Theoretical Philosophy, in

Beiser, The Cambridge Companion to Hegel, op.cit., pp. 171-210.

99

tratta le categorie del pensiero a partire dall’opposizione di soggetto ed oggetto, ovvero

dalla questione se esse siano soggettive o oggettive (Enz. § 41)116. A partire da tale

opposizione, il riferimento ai dati empirici viene ad essere un elemento determinante la

stessa natura del pensiero: i pensieri sono vuoti di per sé, la loro natura richiede, per usare

una terminologia di Husserl, un riempimento. Solo attraverso un tale riempimento esse

acquisiscono senso, cioè un contenuto. Concepire le determinazioni del pensiero in

questo modo, secondo Hegel, significa concepirle come le forme esterne del contenuto

che conferisce loro senso. Il loro esame, dunque, non può che essere un esame di

categorie astratte, dove, in tale astrazione viene mantenuto un necessario riferimento al

contenuto ad esse esterno.

Hegel, come abbiamo visto, non rifiuta la necessità dell’esame delle

determinazioni del pensiero, ma rifiuta il presupposto a partire dal quale esso si

muoverebbe nella prospettiva kantiana: tale presupposto produce un’immagine distorta

del pensiero. Il pensiero, per Hegel, non è una forma che riceve senso da un contenuto ad

esso esterno. Il pensiero, cioè, anche se separato dal suo contenuto mantiene sempre un

carattere intesionale, in se stesso, senza riferimento ad altro da sé. In tale aspetto risiede

l’anti-rappresentazionalismo di Hegel relativamente al pensiero117. Il pensiero, cioè, non

si definisce nei termini del suo contenuto esterno; piuttosto, è il contenuto a definirsi in

termini di pensiero. Questo significa che:

(1) non è il pensiero ad avere senso a partire da un contenuto esterno ad esso – le

categorie, così come le concepisce Kant sono vuote in se stesse -, ma ha senso in se

stesso, cioè, nelle relazioni che la determinazione di pensiero intrattiene con le altre

determinazioni di pensiero;

116 PRIEST S., Subjectivity and Objectivity in Kant and Hegel, in Priest S. (Hrsg.), Hegel’s Critique

of Kant, op. cit., pp. 105-118. 117 Assumo il termine “rappresentazionalismo” da Brandom. Tale termine, come già

precedentemente accennato, indica la concezione per cui un contenuto cognitivo è analizzato a partire dal

concetto fondamentale di rappresentazione e derivare dunque le relazioni di pensiero dai contenuti delle

rappresentazioni. Un caso esemplare può essere considerato quello degli empiristi: si assume come un

dato il contenuto delle proprie rappresentazioni e a partire da esso si indaga come questo dato possa

assicurare la correttezza o legittimità delle relazioni di pensiero, quelle induttive per esempio (cfr. ivi, pp.

53-55).

100

(2) un contenuto esterno acquisisce senso solo a partire dalle relazioni che

intercorrono tra le determinazioni di pensiero che lo attraversano – è in questo modo che

un possibile contenuto diventa un contenuto umano: un qualcosa diviene umano quando è

coinvolto in relazioni di pensiero.

Le categorie, dunque, per Hegel, non sono vuote in se stesse. In tanto che sono

determinate, oltre al contenuto sensibile a cui possono applicarsi, esse hanno comunque

un contenuto. Ciò secondo Hegel è testimoniato dalla stessa coscienza comune quando

«si dice di un libro o di un discorso che è ricco di contenuto» (Enz. § 43 Z). Tale

ricchezza infatti non sta ad indicare la quantità di fatti o situazioni isolate presenti in esso,

ma i pensieri che attraversano e collegano i singoli eventi: «il contenuto è qualcosa di più

del materiale sensibile; questo più sono poi i pensieri, e, in questo caso, le categorie»

(Enz. § 43 Z). In realtà, l’esempio non sembra calzare molto, in quanto mostra solamente

che la coscienza ordinaria riconosce che un qualcosa è ricco di contenuto in proporzione

alle determinazioni di pensiero che esso contiene, e non già che le determinazioni di

pensiero o le categorie hanno contenuto di per sé, indipendentemente da un possibile

materiale empirico. L’esempio, cioè, mostra solo che la coscienza ordinaria concepisce il

contenuto non solo come ciò a cui le categorie si applicano.

Ma perché Hegel sostiene che le determinazioni di pensiero hanno un contenuto di

per sé, indipendentemente da ciò a cui si applicano? Per rispondere a tale domanda M.

Inwood porta il paragone tra il pensiero formale, cioè il pensiero che di per sé è vuoto, in

attesa di un riempimento per significare, e una forma proposizionale. Una forma

proposizionale, rappresentata per esempio dalla formula “Fx”, è formale in quanto

abbisogna di essere interpretata, ossia di un contenuto, per diventare una proposizione.

Tuttavia ciò non significa che noi non possiamo pensare a ciò che la stessa forma “Fx”

esprime, indipendentemente dal contenuto che la rende una proposizione dotata di

significato. Questo, infatti, è ciò che viene cercato di fare nei buoni libri di logica. Ma il

pensiero con cui mettiamo a tema tale forma proposizionale, deve esso stesso essere puro

pensiero. Un pensiero puramente formale, però, non può essere impiegato per riflettere su

se stesso. In altri termini, il pensiero attraverso cui i logici pensano è differente dalle

forme logiche che pongono ad oggetto. Ciò deriva secondo Hegel dalla stessa finitezza

che intacca il pensiero formale, questo non è riflessivo: il pensiero formale che è oggetto

101

del pensiero del logico non è che un frammento del pensiero con cui il logico pensa e con

cui il logico pensa lo stesso pensiero formale118. Hegel a tal proposito, afferma che le

determinazioni del pensiero sono finite in quanto prese nel loro isolamento, cioè astratte

dalle relazioni reciproche che le definiscono. A ciò contrappone la propria concezione del

pensiero: «il pensiero per sua essenza è in sé infinito» (Enz. § 28 Z). Il pensiero formale è

finito in quanto ha una fine, e «smette di essere là dove è connesso con il suo altro e,

quindi, ne viene limitato». È un modo di pensare che rende il pensiero finito; esso è finito

solo in quanto il pensiero si ferma su limitazioni fisse. Nella sua purezza, secondo Hegel,

il pensiero, potendo porre le proprie determinazioni a proprio oggetto, in forma riflessiva,

cioè pensando se stesso, non ha limitazioni di sorta ed è perciò infinito. Come già detto

nel paragrafo precedente le forme del pensiero pongono se stesse ad oggetto, sono

l’oggetto dell’esame e l’attività che esamina, ciò è quanto rende il pensiero infinito.

9. Un elemento intensionale delle determinazioni di pensiero?

Le categorie kantiane, secondo Hegel, sono determinazioni di pensiero astratte e

formali in quanto sono considerate unicamente in relazione alle loro applicazioni.

Ovvero, esse vengono concepite come forme di un contenuto, che è a loro esterno: senza

quest’ultimo esse sono senza senso. Esse, in altre parole, non sono concepite di per se

stesse, ma rispetto al contenuto che può riempirle di significato. Le determinazioni di

pensiero, invece, secondo Hegel, sembrerebbero avere un contenuto in se stesse,

indipendentemente dalla loro applicazione. Ma cosa significa che le determinazioni di

pensiero hanno un contenuto in se stesse? Significa forse che esse hanno qualcosa come

un significato in se stesse e dunque che esse debbano essere intese in base al loro

significato o come è da intendere questo elemento intensionale?

Nell’annotazione al § 3, trattando della presunta inintelligibilità della filosofia,

Hegel sembra rifiutare l’ipotesi che le determinazioni di pensiero abbiano un significato

in se stesse e sembra suggerire che è un errore chiedere quale sia il significato delle

determinazioni di pensiero:

118 Cfr. Inwood, Hegel, cit. p. 267.

102

«accade di sentir dire: non si sa cosa pensare di un concetto che si è appreso; ora,

a proposito di un concetto, non si deve pensare nient’altro che il concetto stesso.

Quell’espressione ha però il senso di una nostalgia per una rappresentazione già ben

nota, usuale; è come se alla coscienza fosse tolto il terreno sotto ai piedi, in quanto le si

sottrae la forma della rappresentazione, un terreno su cui di solito ha la sua salda

collocazione e dimora. Quando si viene trasportati nel mondo dei concetti non si sa in

quale mondo si è» (Enz. § 3 A).

Dire che le determinazioni pure di pensiero hanno un significato sembrerebbe

dunque implicare il rischio che esse debbano essere comprese in termini

rappresentazionali, ossia sulla base di un significato. Certo, esse possono essere

comprese a partire da rappresentazioni, ossia da significati di cui padroneggiamo l’uso.

Questo, come si è visto, può essere uno dei modi per introdursi in un sistema formale: per

poter entrare nel sistema aritmetico cui si è fatto cenno, ossia per poter capire i termini

che mette in gioco e le operazioni che permette, partiamo dalle nozioni aritmetiche e

dalle operazioni di calcolo che adoperiamo nella vita ordinaria. Tale introduzione però,

come si è sottolineato, è meramente fattuale, una volta introdotti nel sistema ci si muove

esclusivamente attraverso i termini e le relazioni che lo definiscono. L’esperienza di

calcolo ordinaria, cioè, viene lasciata alle proprie spalle o, in termini hegeliani, viene

superata. Da quanto qui Hegel dice, sembrerebbe dunque insensato parlare di un

significato delle determinazioni di pensiero; ma allora: in che senso esse hanno un

elemento intensionale al di là del loro possibile contenuto?

Ciò che qui Hegel ha in mente sembra essere il già citato rapporto tra il letterale e

il metaforico. I concetti sono il significato letterale di quelle metafore che sono le

rappresentazioni e così cercare il significato dei concetti, sarebbe cercare il significato del

significato letterale; in altri termini, se il significato è dato dal contenuto della

rappresentazione: spiegare il significato letterale con la metafora. Se possiamo spiegare il

significato di una parola con un’altra parola, perché tra i due vi è una relazione

simmetrica, nel caso del rapporto tra concetto e rappresentazione la relazione è invece

asimmetrica. Il ricorso alle rappresentazioni, ai significati usuali per spiegare un concetto,

103

viene fatto, come si è visto, esclusivamente come una concessione, un aiuto per la poca

familiarità a pensare puramente, cioè in funzione didattico-introduttiva, e non quando si

opera all’interno del sistema formale; cioè: che una determinata rappresentazione

significhi un concetto, non implica che quel concetto sia riducibile a quella

rappresentazione.

Per comprendere come il pensiero possa essere fatto oggetto di una considerazione

che non faccia riferimento ad un contenuto ad esso estraneo, penso si debba spostare i

termini del problema riconoscendo che la questione se le determinazioni di pensiero

hanno un contenuto in sé è una questione ancora mal posta.

Quando qualcuno chiede che gli venga spiegato il significato di un concetto, o, per

esempio, di un passo della Scienza della logica, non sta chiedendo a) che venga spiegato

il significato del significato letterale di alcune metafore, né b) assumendo che i concetti o

le determinazioni di pensiero abbiano un significato, può, con la sua richiesta, chiedere

una spiegazione in termini dei contenuti a lui familiari, cioè in termini di contenuti

rappresentazionali: la spiegazione del significato letterale con la metafora. Quando

chiede che gli venga spiegato un concetto sta solo chiedendo che gli venga spiegato il

termine, la parola, la proposizione, che esprime quel concetto; così come quando chiede

il significato di un passo della Scienza della logica, non chiede tanto cosa vogliano dire i

concetti lì espressi, ma chiede cosa vogliano dire le proposizioni che li esprimono. Ciò

che la Scienza della logica immediatamente ci presenta, infatti, non sono determinazioni

di pensiero, ma parole e proposizioni che, perlomeno nelle intenzioni di Hegel,

esprimono determinazioni di pensiero. E tali parole hanno un significato.

Cosa e come significano tali parole?

Le parole che Hegel usa per esprimere le determinazioni del pensiero sono parole

del linguaggio ordinario; tuttavia come si è visto nel caso del sistema aritmetico, il

passaggio dall’uso ordinario ad un uso formalizzato, implica una trasformazione

derivante dal fatto che nel sistema formale non ci si può appellare ad elementi esterni ad

esso: così, si è visto, le operazioni di calcolo con cui facciamo i conti di fine mese, sono

differenti dalle operazioni definite dal sistema. Si è anche visto, tuttavia, che le

operazioni del sistema sorgono dalle operazioni ordinarie; la filosofia emerge

dall’esperienza. In questo senso, le parole che esprimono le determinazioni di pensiero

104

della Scienza della logica ci sono intelligibili proprio in quanto con esse, come pure con

le stesse determinazioni di pensiero, il sistema delle determinazioni di pensiero mantiene

un legame, per quanto debole, con le parole e le determinazioni di pensiero che

adoperiamo ordinariamente. Le determinazioni di pensiero che la filosofia esprime, come

si è visto, sono le determinazioni di pensiero che operano nella coscienza ordinaria in

modo irriflesso, sebbene trasformate attraverso la loro esplicitazione. Ed è proprio

questo, il fatto che queste determinazioni di pensiero sono già presenti nel pensiero

irriflesso, ciò che ci rende in grado di capire le parole che esprimono le determinazioni di

pensiero.

Ma, ora che si è spostato l’accento dal contenuto in sé delle determinazioni di

pensiero al contenuto delle parole che le esprimono, come si determina il significato di

tali parole?

Come si è detto, per Hegel le determinazioni di pensiero della Scienza della logica

sono le stesse determinazioni di pensiero che sono implicate in ogni nostro discorso ed

esperienza (Enz. § 3); la determinazione di pensiero espressa dal termine “essere” al suo

inizio, è la stessa determinazione che opera nella proposizione “la neve è bianca”, e

questo è ciò che ci garantisce l’accesso all’intelligibilità della prima categoria della

Scienza della logica. Tuttavia, le parole della Scienza della logica, come in un sistema

formalizzato, una volta che si sia entrati in essa, non possono esprimere il loro significato

attraverso il riferimento a ciò che con esse esprimo nei discorsi del linguaggio ordinario.

In un sistema formalizzato i simboli sono definiti da altri simboli e delle loro relazioni, e

il loro contenuto è dato attraverso un’operazione di interpretazione. Nel caso del sistema

delle determinazioni di pensiero, il pensiero che conferisce significato ai termini che

esprimono le determinazioni di pensiero e le loro relazioni, come si è visto, dev’essere

esso stesso compreso dal sistema. Nell’esame delle determinazioni di pensiero, queste

sono tanto l’oggetto quanto l’attività dell’esame. Una volta entrati nel sistema, dunque, il

significato dei suoi termini dovrebbe poter essere rintracciato indipendentemente dal loro

uso nel linguaggio ordinario. Tuttavia, diversamente da un sistema formalizzato - i cui

termini sono tutti simboli definiti da altri simboli, ma che devono ricevere un significato,

pur sulla base delle relazioni interne al sistema, da un pensiero esterno al sistema - la

riflessività richiesta per le determinazioni di pensiero nel sistema delle determinazioni

105

pure del pensiero, sembra obbligare all’uso, dentro il sistema, di parole che non

esprimono determinazioni di pensiero del sistema; di parole che esprimono

determinazioni di pensiero ad un livello del sistema in cui non sono ancora giustificate. In

generale tuttavia, la determinazione del significato delle parole che esprimono pensieri

puri è data dal luogo o funzione che esse svolgono nel sistema stesso. In altri termini: il

significato di una parola o proposizione che esprime un pensiero puro è determinato (a)

dal rapporto ai termini che esprimono le categorie che la precedono, e da cui è derivata;

(b) dal rapporto con le parole che esprimono le categorie che da essa sono derivate. Il

significato di una parola che esprime una determinazione di pensiero è dunque

determinato dai rapporti concettuali che essa intrattiene con le altre parole che esprimono

determinazioni di pensiero. Nel linguaggio hegeliano, il significato di una di tali parole o

proposizioni è determinato dal dispiegarsi del concetto. In questo, il sistema hegeliano ci

sembra caratterizzabile come un olismo concettuale119.

In questo modo, se si afferma un elemento intensionale per le determinazioni pure

del pensiero, non si deve affermare che esse abbiano un contenuto a loro esterno in base

al quale vanno comprese. Le determinazioni di pensiero, non vanno comprese con altro

se non con determinazioni di pensiero: comprendere un concetto non è che pensare quel

concetto. E pensare un concetto significa allora pensare le relazioni di pensiero che lo

definiscono. Le relazioni inferenziali che definiscono un concetto sono quanto determina

il significato della parola o proposizione che lo esprime. Comprendiamo una parola o una

proposizione che esprime un concetto, quando comprendiamo le relazioni razionali che

quel concetto intrattiene con altri concetti. Dire che le determinazioni di pensiero hanno

un contenuto in se stesse è quindi un’espressione inadeguata, poiché le determinazioni

pure di pensiero non hanno un contenuto, un significato, ma sono le parole che le

esprimono ad averlo. Le determinazioni di pensiero piuttosto che avere un contenuto in

se stesse, sono ciò che determina il significato di un qualcosa. Comprendere un qualcosa,

conferirgli o riconoscergli un contenuto significa comprendere le relazioni razionali che

lo attraversano e definiscono. Se dicessi, per esempio, in una situazione di vita ordinaria

119 Cfr. BERTO, Kant, Hegel, Frege e la priorità del proposizionale, «Il Pensiero», 46 (2007), cit. e

la sua monografia BERTO F., Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo,

Padova 2005.

106

che “il ghiaccio è caldo”, il mio interlocutore avrebbe tutte le ragioni per dubitare della

mia comprensione del significato del termine “ghiaccio” o “caldo”, o in generale della

mia competenza linguistica. Comprendere un significato, o far significare qualcosa,

significa comprendere, almeno in parte, il ruolo che quel qualcosa svolge all’interno di

alcune relazioni razionali.

Tornando dunque al rapporto che Hegel intrattiene con la filosofia critica, si

comprende sotto questa luce la preferenza hegeliana nei confronti della Dialettica

trascendentale rispetto all’Analitica. Tale preferenza è determinata dal fatto che in essa,

Hegel riconosce il tentativo kantiano di esaminare le determinazioni di pensiero di per sé,

indipendentemente, cioè, dal loro rapporto al soggetto e all’oggetto, dunque non come

vuote astrazioni che aspettano di ricevere significato dal possibile contenuto

esperienziale.

10. Critica al soggettivismo kantiano

La seconda critica principale di tipo contenutistico che Hegel muove alla filosofia

kantiana in questa posizione del pensiero riguarda il soggettivismo kantiano. Anche in

questo caso si tratta della critica ad un dualismo; la prima riguardava l’opposizione

astratta tra forma e contenuto del pensiero, questa invece tra il fenomeno e la realtà.

L’idealismo soggettivo che Hegel critica potrebbe essere riassunto sotto tre tesi:

(a) la conoscenza che abbiamo del mondo è il prodotto congiunto delle nostre

attività di pensiero e degli input non concettuali della sensibilità;

(b) le forme di pensiero attraverso cui il soggetto conoscente organizza i dati

sensibili sono forme appartenenti alla mente umana e relative alla sola spontaneità del

pensiero;

(c) c’è una realtà oggettiva soggiacente al mondo che l’uomo esperisce e conosce.

Tale realtà è inaccessibile all’uomo.

Riguardo a queste tre tesi si potrebbe dire che, più che fornirne una confutazione,

la critica hegeliana consiste nel mostrare che l’una non è derivabile dall’altra. Hegel può

concedere la tesi (a), senza dover ammettere (b) o (c). In altri termini Hegel accetta la tesi

107

che le categorie con le quali esperiamo il mondo non sono contenute nella sensazione

immediata – questa l’eredità assunta dall’empirismo; quando percepiamo in modo

immediato due eventi isolati che si succedono nel tempo, che l’uno sia la causa e l’altro

l’effetto non può essere percepito, cioè la relazione causale che intercorre tra loro è data

solo per il pensiero. Tuttavia, che le determinazioni di pensiero non siano nella

percezione immediata, non implica che esse siano solo nella mente del soggetto

conoscente, cioè che esse siano solamente soggettive e non appartengano anche alla

realtà dell’oggetto. Ciò significa che l’idealismo soggettivo, affermando che le forme del

pensiero sono solo forme soggettive, non può giustificare tale asserzione sulla base della

separazione tra i dati non concettuali della sensibilità e il pensiero. Allo stesso tempo, tale

separazione non può nemmeno giustificare (c): che vi sia una realtà soggiacente al mondo

così come l’uomo lo esperisce è una tesi non giustificata sulla separazione tra dati

sensibili non concettuali e pensiero. Che le determinazioni del pensiero possano essere

anche determinazioni delle cose, e dunque che vi sia accesso alla realtà così come essa è,

è una possibilità che non è di per sé negata da tale separazione.

L’operazione critica che Hegel compie, dunque, non si mostra come una

confutazione delle tesi dell’idealismo soggettivo, quanto come un passo indietro rispetto

ad esse, un passo indietro necessitato dall’istanza di assenza di presupposizioni120. Tali

tesi si mostrerebbero infondate, in quanto non possono negare la possibilità che le

determinazioni del pensiero siano anche determinazioni delle cose, ma semplicemente

assumono che non lo siano a partire dalla concezione del pensiero che presuppongono.

Le tesi di quello che secondo Hegel è l’idealismo soggettivo kantiano, si basano su

un’assunzione ingiustificata che riguarda la concezione del pensiero: tale concezione, in

generale, secondo Hegel, tende a ridurre il pensiero alla rappresentazione, ossia non

distingue il concetto dalla rappresentazione e comprende il pensiero, dunque, secondo la

contrapposizione tra soggetto e oggetto. A partire da tale assunzione, emergono da un

lato l’astrazione della realtà da ogni elemento soggettivo, la cosa in sé, dall’altro

l’astrazione del soggetto da ogni elemento oggettivo, l’astrazione formale dell’Io

penso121.

120 Cfr. HOULGATE S., The opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, cit. 121 Cfr. CORTELLA L., Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Padova 2002, pp. 78-89.

108

Per contro, facendo valere l’istanza di un esame delle categorie del pensiero, la

filosofia critica rappresenta per Hegel un grande passo in avanti in direzione della libertà

del pensiero, in quanto viene a rappresentare la messa in discussione della fede ingenua

su cui la metafisica basa la convinzione del proprio accesso diretto al reale. Riguardo allo

sbilanciamento del rapporto tra pensiero e realtà, a favore di quest’ultima, presente nella

prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività, sbilanciamento per cui l’oggettivo è

la realtà che è esterna al soggetto conoscente, secondo Hegel, Kant riconosce,

giustamente, che il carattere di oggettività è tale da spettare al pensiero: solo il pensiero

può cogliere l’oggettività del reale. Tuttavia, Hegel vede nella filosofia critica all’opera,

come presupposto ingiustificato, una concezione del pensiero che ne segna

irriducibilmente i limiti. A causa di tale presupposto, ovvero a causa della non distinzione

tra la rappresentazione e il concetto, il pensiero è compreso a partire dalla separazione e

contrapposizione tra soggetto e oggetto e considerato esclusivamente come facoltà

soggettiva. Concependo il pensiero esclusivamente come facoltà soggettiva, l’oggettività

cui il pensiero può accedere non può dunque che essere soggettiva e il reale che il

soggetto esperisce e conosce non può a sua volta che essere un reale che è da principio,

sulla base delle determinazioni di pensiero con cui lo comprende, relativizzato al

soggetto. Hegel dunque, nella sua critica, non attua una confutazione delle tesi principali

dell’idealismo soggettivo, ma ne individua il presupposto nella concezione

rappresentativa del pensiero, concezione che manca la distinzione tra rappresentazione e

concetto.

109

QUINTO CAPITOLO

1. Il pensiero come attività del particolare

Particolarmente interessante per il nostro argomento è la prima tesi del sapere immediato:

il pensiero è attività del particolare. Essa segue la posizione della filosofia critica, per la

quale il pensiero è inteso come a) soggettivo e come b) avente a sua determinazione

ultima l’universalità astratta, l’identità formale. Introducendo questa terza posizione

Hegel, afferma che essa, relativamente al pensiero; rappresenta il punto di vista opposto

alla sua più alta determinazione, ovvero il pensiero come «universalità in sé concreta».

La discussione della terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività, per questa

opposizione, si mostra particolarmente proficua per far luce su questa «più alta

determinazione» del pensiero. Dunque ci si dovrà chiedere: che cos’è questo universale?

Che cosa significa determinarlo come concreto?

L’espressione «pensiero come attività del particolare», nell’opera hegeliana, non presenta

alcuna ricorrenza al di fuori di questa sezione dell’Enciclopedia. È la sua opposta a

ricorrere innumerevoli volte: «pensiero come attività dell’universale». Che cosa significa

quest’espressione?

In primo luogo occorre sottolineare la profonda ambiguità del genitivo. In essa può essere

riconosciuta una ricca plurivocità di sensi organizzati gerarchicamente che condensano la

concezione del pensiero del sapere immediato: (A) il genitivo come complemento di

modo: che determina il modo in cui opera l’attività del pensiero; (B) genitivo oggettivo:

che determina l’ambito di applicazione dell’attività del pensiero; (C) genitivo soggettivo:

che determina il soggetto dell’attività del pensiero.

(A) Nel primo senso, quello principale di quest’espressione, il genitivo è da intendersi

come complemento di modo. «Pensiero come attività del particolare», cioè, non si

riferisce direttamente, ma solo in maniera derivata all’ambito delle cose particolari, i

minerali, le piante, gli animali, le leggi, ecc., ossia alle cose particolari, finite su cui si

applicherebbe; come pure non si riferisce direttamente, al soggetto particolare, l’uomo,

110

per esempio, come specie particolare rispetto ad altre, di cui il pensiero è l’attività. Non si

tratta dunque, in primo luogo, di un genitivo oggettivo o di un genitivo soggettivo; esso

determina innanzitutto il modo in cui quest’attività che è il pensiero opera: esso opera nel

modo del particolare. Che cosa significa ciò?

Nel paragrafo precedente (Enz. § 61), introducendo la nuova posizione, Hegel ribadiva

che la determinazione ultima del pensiero nella posizione del criticismo era l’universalità

astratta. L’aggettivo “astratto”, come abbiamo visto esaminando la parte dedicata alla

filosofia critica nella seconda posizione del pensiero, determina l’universalità del

pensiero come forma rispetto ad un contenuto; l’universale è, p.e., l’universale che,

separato da questi, sussume sotto di sé i differenti elementi di una classe; l’ultima

determinazione del pensiero della filosofia critica è una determinazione relativa alla sua

relazione con un contenuto. Nel criticismo il pensiero opera come l’attività

dell’universale astratto. Attraverso la formula «pensiero come attività del particolare»

non si intende dunque dire che il pensiero non abbia la forma dell’universale, che non

operi attraverso universali e che non produca universali. Tanto le leggi di natura, quanto

le proprietà delle cose - e la concezione del pensiero di questa posizione non intende

rinunciare a ciò - sono universali. Piuttosto, tanto la «determinazione ultima» (Enz. § 61)

con cui viene inteso il pensiero nel criticismo, quanto quella con cui viene inteso dal

sapere immediato esprimono il modo in cui l’attività del pensiero opera: secondo il

criticismo come universalità astratta, secondo il sapere immediato come particolare.

L’espressione «pensiero come attività del particolare» esprime dunque l’avanzamento

della concezione del pensiero di questa posizione rispetto al criticismo; questo determina

il modo in cui il pensiero opera attraverso il contenuto: il pensiero è un universale astratto

rispetto al particolare che è il contenuto; il sapere immediato, invece, determina il

pensiero sulla base della forma, in se stessa: il pensiero è attività del particolare rispetto

alla particolarità della sua stessa forma. Determinandolo in questo modo fa emergere

l’istanza di una visione completamente diversa della logica, ossia di una logica che non

sia più logica di determinazioni del pensiero astratte rispetto ad un contenuto

indipendente da esso, ma basata sulla forma di queste determinazioni, in se stessa..

Questo aspetto formale dell’universale considerato in se stesso è ciò che abbiamo

discusso nel paragrafo relativo all’aspetto intensionale delle determinazioni del pensiero.

111

Tuttavia, questa forma, nel sapere immediato, viene considerata soltanto nella sua

“particolarità”.

Il pensiero come attività del particolare così «ha come suo prodotto e contenuto soltanto

le categorie» (Enz. § 62), forme di pensiero, che per la particolarità del suo procedere,

sono considerate solo come «determinazioni limitate». Il pensiero come attività del

particolare, dunque, opera con categorie, cioè, universali che sono forme particolari:

universalità aventi una particolare forma. Concepire un qualcosa quindi, non significa

altro che coglierlo secondo tali forme, e dunque, per il modo in cui è tenuta fissa la

limitatezza di tali categorie, coglierlo come limitato, ossia finito. Finito è ciò che non ha

in se stesso la condizione della propria esistenza, cioè, è un condizionato. La conoscenza,

come risulta da questa concezione del pensiero, rivolgendosi a ciò che è mediante

categorie o concetti, gli elementi mediativi del pensiero, come i rapporti di causa ed

effetto, di ragione (Grund) e conseguenza, di forza e sua espressione, coglie le relazioni

di ciò che è in una necessità che collega il condizionato alla sua condizione. Tuttavia,

essendo ogni contenuto, per la limitatezza della forma, finito, la stessa condizione è a sua

volta un condizionato, e dunque richiedente un’ulteriore condizione: una condizione

dell’esistenza del figlio è stata l’esistenza di un padre, ma una condizione dell’esistenza

del padre è stata l’esistenza di suo padre, e così via. Il conoscere, così, si presenta come

un «procedere del pensiero attraverso serie che vanno da condizionato a condizionato e

dove ciascun elemento che costituisce una condizione a sua volta è soltanto un

condizionato, e, quindi un procedere attraverso condizioni condizionate» (Enz. § 62 A).

Esso non può raggiungere una condizione che non sia a sua volta condizionata, una

condizione che si sottragga alla serie dei condizionati, ossia, in altre parole, un

incondizionato. Con ciò è minata alla base la possibilità di una conoscenza completa di

un qualcosa. Secondo il primo significato dell’espressione «il pensiero come attività del

particolare», il pensiero è dunque concepito come un’attività che opera attraverso forme

aventi una propria e fissa determinatezza, forme finite.

(B) La forma del pensiero così concepita, quindi, individua ciò che è come cose

particolari. Nell’espressione «pensiero come attività del particolare» si può allora vedere

il senso del genitivo come oggettivo: questo pensiero ha come proprio ambito di

applicazione l’ambito del particolare. Se questa conclusione in una certa misura coincide

112

con quella kantiana per cui l’ambito della conoscenza è l’ambito delle cose di cui

abbiamo esperienza, dall’altro ne differisce perché non abbisogna del riferimento

contenutisco all’empirico: essa è ricavata, infatti, solo sulla base della determinatezza

formale delle categorie, ossia, come si è già detto, dal riconoscimento che la categoria, o

determinazione del pensiero, in quanto tale è finita122.

Inoltre, sempre in rapporto alla posizione kantiana, se la conoscenza derivante da questo

pensiero può essere considerata in certa misura soddisfacente per la cosa particolare,

finita, in quanto considera le relazioni di necessità tra elementi prossimi, come per

esempio la causa prossima del lampo, le cause prossime di una legge dello stato o della

rivoluzione francese, relativamente agli oggetti che non sono finiti, che sono cioè

incondizionati, non può che fallire, in quanto per il suo stesso modo di operare non può

che coglierli come finiti, condizionati; può considerare, sì, l’incondizionato come una

condizione, ma non può considerarlo come a sua volta non condizionato.

(C) Ulteriore senso dell’espressione «pensiero come attività del particolare» può essere

individuato nell’interpretare il genitivo in senso soggettivo, e dunque nell’intendere “il

particolare” come il soggetto dell’attività del pensiero. Anche se sono solo i primi due

sensi, e tra di essi soprattutto il primo, ad essere esplicitati da Hegel, il senso soggettivo

del genitivo presenta una certa importanza in quanto affetta della particolarità del

soggetto questo procedere del pensiero. L’importanza di intendere l’espressione anche

secondo il senso soggettivo del genitivo, inoltre, può emergere in controluce dalla

concezione del pensiero propria di Hegel123.

Kenneth R. Westphal, nella sua analisi alla critica di Hegel a Jacobi contenuta in questi

paragrafi dell’Enciclopedia, porta a sostegno di ciò - che il genitivo valga anche in senso

122 In questo senso ho affermato una gerarchia tra i sensi del genitivo dell’espressione «pensiero del

particolare»: il genitivo oggettivo deve essere messo in luce in quanto dipendente dal genitivo come

complemento di modo. 123 Westphal nota come, nella logica enciclopedica, ma la considerazione è estendibile per lo meno

altri scritti berlinesi (si vedano per esempio le Lezioni di filosofia della religione, a cura di R. Garaventa e

S. Achella, Napoli 2008.), l’espressione «pensiero come attività del...» sia utilizzata da Hegel «nel

caratterizzare considerazioni sul soggetto pensante in contrasto con considerazioni sugli oggetti di

pensiero» K.R. Westphal, Hegel’s attitude toward Jacobi in the “Third attitude of thought toward

objectivity”, «The Southern Journal Philosophy», Vol. XXVII, 1989, n. 1, p. 137.

113

soggettivo – un argomento che si rifà direttamente a Jacobi: «secondo Jacobi, il pensiero

non è l’attività di un logos, ma solo “un mezzo di sopravvivenza degli esseri umani”, un

essere che sta tra gli animali che non hanno ragione e Dio, che non abbisogna della

ragione. Così il pensiero è l’attività degli uomini come una particolare specie di esseri

viventi»124. Quindi, secondo Westphal l’espressione «pensiero come attività del

particolare» nel senso soggettivo del genitivo indica l’attività del pensiero come attività

di un soggetto particolare in quanto appartenente ad una particolare specie di esseri

viventi. Questa strategia interpretativo-argomentativa mi sembra inadeguata per due

motivi: (1) presenta una certa debolezza in quanto fa ricorso ad un testo non hegeliano,

ma di Jacobi, per determinare un’espressione hegeliana, e non di Jacobi; (2) sembra

basarsi su una falsa premessa, o, perlomeno, alquanto discutibile.

I passi di Jacobi citati da Westphal nel suo argomento fanno parte della lunga

Introduzione all’edizione completa degli scritti filosofici di Jacobi del 1812-1825, in cui

il filosofo di Düsseldorf cerca di distinguere la ragione dall’intelletto per ovviare alle

incomprensioni, agli «infelici errori», alle «difficoltà inestricabili»125 in cui si trovava

inviluppato nei suoi scritti precedenti a causa di tale indistinzione. A causa di essa,

aggiunge Jacobi, l’autore (Jacobi parla in terza persona) non «poté dare un sostegno

propriamente filosofico alla sua dottrina fondamentale, secondo la quale la forza della

fede si eleva al di sopra della facoltà della scienza dimostrativa»126. Whestphal trascura

completamente questa distinzione, la quale, invece, è proposta proprio in quei passi

dell’Introduzione a cui Westphal fa riferimento per la sua ipotesi interpretativa. Con

quest’ipotesi, però, essendo in Jacobi la ragione ciò che distingue l’uomo dall’animale127,

Westphal per poter concludere che il particolare si riferisce alla specie umana, deve

ammettere di attuare un’identificazione del pensiero come attività del particolare con la

ragione; però, l’espressione «il pensiero come attività del particolare», indicando

l’attività mediativa che procede da condizionato a condizionato, designa ciò che, proprio

in questi passi dell’Introduzione, è identificato con l’intelletto, il quale, per altro, a

124 Ibidem. 125 F.H. Jacobi, Prefazione e, insieme, Introduzione all’edizione completa degli scritti filosofici

dell’autore, in Idealismo e Realismo, a cura di N. Bobbio, Torino 1948, p. 10. 126 Ivi, p. 8. 127 Ivi, p. 9.

114

discapito della “particolarità” dell’umano, è presente, in gradi diversi, anche negli

animali. Certo, ciò che distingue l’uomo dagli animali è la ragione, questa è «l’organo per

l’apprendimento del soprasensibile»128; ad essa, negli scritti precedenti, Jacobi

«attribuiva il nome di “fede”»129, ma far passare questa ragione come attività del

particolare significa invertire i termini in gioco. Il «pensiero come attività del

particolare», secondo Hegel, è proprio ciò che nel sapere immediato è opposto alla fede, e

dunque, dalla prospettiva di Jacobi, anche alla ragione, ossia il procedere dell’intelletto.

L’argomento perciò si basa sulla falsa premessa per cui la ragione è il pensiero come

attività del particolare.

Con questa critica all’ipotesi interpretativa di Westphal, non si vuole negare l’importanza

di intendere l’attività del pensiero in quanto riferita ad un soggetto particolare; si tratta,

piuttosto, da un lato di darle un sostegno differente e dall’altro di non intendere la

particolarità del soggetto pensante come riferita alla particolarità della specie umana

rispetto alle altre specie viventi. La tesi che il “particolare” dell’espressione «pensiero

come attività del particolare» possa riferirsi anche al soggetto dell’attività,

caratterizzandolo come un soggetto particolare, finito, e dunque la sua attività di pensiero

come segnata da questa soggettività, mi sembra possa essere sostenuta a tergo, sulla base

di una corrispondenza stretta con la concezione hegeliana del pensiero, in particolare in

rapporto alla differenza tra il pensiero come pensiero sulla cosa e il pensiero come

pensiero della cosa, laddove quest’ultimo si caratterizza come attività dell’universale, nel

doppio senso del genitivo130. Ma su ciò ritorneremo.

Riassumendo: la posizione del sapere immediato concepisce il pensiero come un’attività

che opera attraverso elementi mediativi, i concetti o le categorie, che sono particolari in

se stessi, cioè, aventi una forma finita. L’ambito di questa attività dello spirito è l’ambito

delle cose finite – è la sua stessa modalità operativa a fare di ciò che è, l’ambito delle

cose finite. Il pensiero, essendo solo capace di comprendere i particolari, è dunque

incapace di cogliere l’incondizionato in quanto tale; se lo coglie non può che coglierlo

128 Ibidem. 129 Ivi, p. 10. 130 1) Nel senso oggettivo in quanto ha ad oggetto e produce l’universale; 2) nel senso soggettivo in

quanto il soggetto pensante deve farsi universale, eliminando la propria particolarità – il pensiero diviene

il soggetto di un’attività il cui portatore è il soggetto finito.

115

che come condizionato. Nell’ambito delle cose finite, tale attività riceve legittimità dai

suoi stessi successi, grazie alla riconduzione del fenomeno indagato alle sue condizioni

più o meno prossime. Tale riconduzione, tuttavia, in quanto mai esaustiva, essendo ogni

condizione a sua volta un condizionato, è segnata dalla particolarità degli interessi, degli

scopi, ecc., del soggetto che la compie. In questo modo, l’attività del pensiero si presenta

segnata essenzialmente dalla particolarità del soggetto di cui è attività. Nell’Annotazione

al § 62, Hegel accenna, in relazione a Jacobi, come egli abbia tenuto presente, per la sua

concezione del pensiero, soprattutto il modo di procedere delle scienze della natura. Nel

capitolo dedicato alla proposta hegeliana del pensiero contenuta nel Concetto preliminare

cercheremo di appurare come nella critica a questo modo di concepire il pensiero, Hegel,

e sarebbe d’aggiungere, anche se da una prospettiva diversa, anche Jacobi, abbia di mira

fra l’altro il paradigma costruttivista della conoscenza131.

2. Sapere immediato della verità

Se il primo avanzamento di questa posizione rispetto al criticismo consiste nel

considerare il pensiero nella sua stessa forma, il secondo avanzamento consiste nella tesi

per cui, seppur non si possa pensare e conoscere l’incondizionato, si ha comunque una

qualche forma di sapere dell’incondizionato. Questo, l’incondizionato - in termini

religiosi: Dio -, che è identificato con la verità, in quanto incondizionato, deve essere

oggetto di un sapere che non sia mediativo, pena la sua riconduzione al condizionato. Il

sapere dell’incondizionato deve essere dunque un sapere immediato; questo è chiamato

anche fede (Glauben). La posizione del sapere immediato apporterebbe dunque, secondo

Hegel, un ulteriore progresso nella «giusta direzione metafisica»132 riconoscendo che

l’incondizionato è per lo spirito in una relazione di sapere.

131 La critica a tale paradigma è presente in Hegel fin dagli anni di Jena: cfr. GAIARSA A., Nota sul

concetto di costruzione, in HEGEL G. W. F., Logica e metafisica di Jena (1804-1805), a cura di F.

Chiereghin, Trento 1982, pp. 429-443. Ma in riferimento alla conoscenza, pensata a partire da tale

paradigma, come opposta al sapere di Dio, si vedano le VphR pp. 310-311 (pp. 352-353). 132 Cfr. K.R. Westphal, Hegel’s attitude toward Jacobi, cit.

116

Riguardo al contenuto di questo sapere, esso sa che il suo oggetto è, - che

l’incondizionato, Dio, è. In altre parole: il sapere immediato dell’incondizionato,

avendolo ad oggetto, coglie la connessione tra l’incondizionato e il suo essere. Riguardo

alla forma, questo sapere sa che la rappresentazione dell’incondizionato è connessa

all’essere in maniera immediata, ossia: nel sapere immediato la rappresentazione

dell’incondizionato è «immediatamente e inseparabilmente collegata» con la certezza del

suo essere. La connessione tra questa rappresentazione e l’essere, in quanto saputa, è

colta come qualcosa di immediatamente certo.

Tuttavia, la posizione del sapere immediato non si limita a questo, ma la sua caratteristica

principale consiste in un’ulteriore tesi, questa volta non più di primo, ma di secondo

ordine, consistente nell’affermare «che il sapere immediato ha come contenuto la verità

soltanto [...] escludendo la mediazione». Questa tesi è saputa dal sostenitore del sapere

immediato come un fatto, ossia: il sostenitore del sapere immediato sa in modo

immediato che la rappresentazione dell’incondizionato è connessa al suo essere in modo

esclusivamente immediato. Questo, per il sostenitore del sapere immediato è un fatto,

poiché se in questo sapere intervenisse il pensiero mediativo, il suo oggetto,

l’incondizionato, verrebbe ridotto a condizionato. Con ciò, viene affermato non solo che

il sapere che può avere come contenuto la verità deve cogliere immediatamente la

connessione tra la rappresentazione dell’incondizionato e il suo essere, ma anche che

l’unico sapere che può avere a contenuto la verità deve escludere la mediazione - esso

può cogliere la verità se e solo se il suo atto cognitivo è un atto non strutturato da ulteriori

elementi inferenziali.

3. Critica all’esclusività dell’immediatezza e alla giustificabilità fattuale

Le quattro obiezioni principali (Enz. §§ 66-70) che Hegel presenta alla posizione del

sapere immediato, sono obiezioni alle due sue ultime tesi di secondo ordine: a)

l’esclusività dell’immediatezza del sapere, ossia alla tesi che afferma che questo «ha per

contenuto la verità soltanto preso isolatamente, escludendo la mediazione» (Enz. § 65);

b) la giustificabilità di tale tesi sulla base fattuale, ossia che venga portato un fatto, un

117

qualcosa di saputo come un fatto, come criterio di legittimazione della tesi

dell’esclusività dell’immediatezza.

Relativamente alle altre tesi del sapere immediato – che il pensiero operi attraverso

categorie finite; che l’incondizionato sia per lo spirito; che lo spirito sappia

l’incondizionato attraverso un sapere immediato; che ciò che questo sapere sa è che la

rappresentazione dell’incondizionato è immediatamente connessa al suo essere – sono

tutte tesi che, secondo Hegel, hanno un loro posto nella filosofia. Ciò non significa che

non siano criticabili, ma, per Hegel, fanno tutte parte del progresso, o dello sviluppo della

filosofia. A tal proposito Hegel è molto chiaro: «alla filosofia non può minimamente

venir in mente di contraddire queste proposizioni del sapere immediato; la filosofia

avrebbe piuttosto motivo di rallegrarsi che queste sue antiche proposizioni, che perfino ne

esprimono il contenuto universale, in una certa misura e sia pur in un modo così poco

filosofico, siano tuttavia diventate principi generali dell’epoca».

Hegel nella critica a queste due tesi, istituisce un gioco di specchi attraverso il quale

all’affermazione di una tesi è contrapposta, sullo stesso livello, la sua negazione. Ciò che

viene colto e affermato dalle obiezioni è dallo stesso autore indicato come “banale” (Enz.

§ 66 A). Tale banalità, però, non caratterizza le obiezioni - la loro forza non è diminuita

da essa -, ma il loro contenuto; cioè, con tale operazione è mostrata la banalità stessa del

livello da cui le tesi sono affermate. La banalità delle obiezioni, cioè, dipende dal terreno

a partire da cui devono sollevarsi se vogliono presentarsi come obiezioni interne alla

posizione che discutono. Esse, infatti, secondo Hegel, non devono muoversi a partire

dalla considerazione della «natura della cosa», cioè dell’«aspetto logico dell’opposizione

tra immediatezza e mediazione», in quanto una tale considerazione obbligherebbe o a una

messa in discussione della tesi per cui il pensiero è un’attività esclusivamente mediativa o

a una sua riaffermazione; in ogni caso si risolverebbero ad obiezioni esterne alla

posizione. Il terreno a partire dal quale devono essere mosse è il fatto - fatto che Hegel

caratterizza attraverso elementi appartenenti all’esperienza, al terreno del fenomeno

psicologico -, in quanto è da questo terreno che le tesi sono affermate.

Le prime due obiezioni dunque portano all’assurdo l’esclusività dell’immediatezza del

sapere mantenendo l’assunto che il criterio di verità sia il fatto del sapere, l’esperienza

118

che io so, o che ciò che so è risaputo. Esse hanno dunque il fine di creare una prima

complicazione del rapporto tra immediatezza e mediazione133.

(1) La prima obiezione (Enz. § 66) consiste semplicemente nell’affermazione, come di un

fatto saputo, della contraddittoria dell’asserzione riguardante l’esclusività

dell’immediatezza del sapere: è un fatto, si sa per esperienza, che verità risultanti da

considerazioni complesse si presentano immediatamente alla coscienza. Per cui alla tesi

del sostenitore del sapere immediato per cui nel sapere immediato ciò che è saputo lo è in

maniera esclusivamente immediata, è contrapposta la tesi per cui nel sapere immediato

ciò che è saputo non lo è in maniera esclusivamente immediata. Vengono portati gli

esempi del matematico a cui le soluzioni si danno immediatamente, ma che sono il

risultato di analisi molto complesse; dell’uomo colto cui sono presenti immediatamente

«un gran numero di prospettive e di principi generali» che derivano da un reiterato

riflettere e dalla sua esperienza, o altrove, porta l’esempio del pianista: «un difficile brano

per pianoforte può essere eseguito facilmente dopo che lo si è ripetuto molte volte, dopo

che lo si è ripassato pezzo per pezzo; viene eseguito in modo immediato. Ma questa

esecuzione immediata è il risultato di molte azioni singole medianti»134. Per raggiungere

una certa familiarità con i diversi ambiti dello spirito, sapere, arte, tecnica, ecc., è

133 In questa critica non si tratta per Hegel di affermare che ogni immediatezza implica di per sé la

mediazione. Spostare la critica dal livello di secondo ordine a quello di primo ordine – cioè, riguardando

ciò che sa il sapere immediato – implica una netta diminuzione della forza degli argomenti hegeliani. Nel

caso dell’esempio dei genitori o del seme, p.e., ovvero di elementi che sono il risultato o il prodotto di un

processo, Inwood mostra come passare indebitamente dal livello ontologico a quello epistemologico (per

riconoscere un qualcosa che è il risultato o il prodotto di un processo come quel qualcosa di determinato,

non abbiamo bisogno di conoscere anche il processo, e dunque le mediazioni, che l’ha prodotto:

«possiamo, per esempio, facilmente sapere che Hegel è a Berlino senza sapere come ci è arrivato») renda

l’argomento di Hegel «chiaramente invalido» (Inwood, Hegel, cit., p. 206). Hegel, in questi casi, non

parla del sapere della mediazione implicata nel processo di determinazione dell’ente in questione come

condizione necessaria per il riconoscimento di quell’ente in quanto determinato, ma solo

dell’implicazione a livello ontologico della mediazione in casi del genere; suo fine, cioè, in questi casi,

non è sottolineare la presunta necessità della mediazione al livello epistemologico, ma la sua necessaria

implicazione, per la stessa determinatezza dell’ente in questione, a quello ontologico. 134 VphR p. 209 (p. 256).

119

necessario che ci si coltivi in essi. L’immediatezza di questa familiarità è il risultato di

una serie di attività mediative.

Come si può notare dagli esempi portati, Hegel contrappone alla tesi dell’esclusività

dell’immediatezza nel sapere immediato, il fatto saputo che gli elementi mediativi non

operano esclusivamente al livello coscienziale. L’immediatezza riguarda ciò che appare

alla coscienza, ciò che si manifesta alla coscienza; la mediazione, fatta qui intervenire da

Hegel, invece, è una mediazione che lavora alle spalle della coscienza e di cui

l’immediatezza può essere il prodotto. Essa dunque, in tal modo, non contraddice

l’immediatezza, ma la sua presunta esclusività. Il sapere immediato ha come proprio

oggetto soltanto la manifestazione di un’attività, come essa si presenta alla coscienza. Ma

la manifestazione di un’attività non coincide necessariamente con la sua natura. Il sapere

immediato, dunque, non è il sapere in cui sappiamo l’esclusività dell’immediatezza, ma il

sapere nel quale non abbiamo coscienza della mediazione.

(2) La seconda obiezione (Enz. § 67) si muove, come si è accennato, sullo stesso terreno

della prima, cioè, consiste di un’asserzione affermata come un qualcosa di saputo, un

qualcosa di cui abbiamo esperienza. A differenza della prima che riguarda la presunta

esclusività dell’immediatezza al livello del sapere, questa seconda obiezione contraddice

la presunta esclusività dell’immediatezza al livello del contenuto del sapere immediato,

ossia contraddice la connessione esclusivamente immediata «di certe determinazioni

universali con l’anima» (Enz. § 67). Essa consiste dunque nell’affermazione che è saputo

che l’oggetto del sapere immediato per diventare contenuto di tale sapere necessita di uno

sviluppo da parte del soggetto. È risaputo che il sapere immediato della religione, la fede

in Dio, dell’eticità, implicano una certa educazione, una certa dottrina, una certa

formazione. Nell’Annotazione, Hegel osserva che quest’obiezione si riduce all’obiezione

rivolta ad una certa interpretazione dell’innatismo delle idee. Qualora quest’innatismo

venga considerato come una connessione essenziale esclusivamente immediata

dell’anima con queste idee, allora tutti gli uomini dovrebbero averne cognizione.

Tuttavia, se per Hegel questa obiezione all’innatismo non coglie nel segno in quanto

rivolta ad una sua interpretazione inadeguata, che considera la presenza di tali idee alla

120

coscienza solo nella forma «di idee, di rappresentazioni di ciò che si sa» (Enz. § 67 A)135,

si può presentare come «del tutto pertinente rispetto al sapere immediato» (Enz. § 67 A).

La necessità del sapere immediato riguardo alla religione è da considerarsi un «principio

importante» secondo Hegel poiché sottolinea che questa, la religione, non può essere il

prodotto meccanico di influenze esterne, siano queste socio-culturali, dottrinali o altro.

Tuttavia, quanto Hegel, con la sua obiezione, intende sottolineare è la necessità di un

sentimento, di una fede che siano formati e, attraverso questa formazione, riconoscere,

nel sentimento stesso, operanti elementi noetici di carattere rappresentativo e concettuale.

Questa co-presenza di elementi di livelli spirituali differenti – sentimento,

rappresentazione, pensiero -, è un tratto caratterizzante della concezione dello spirito

finito di Hegel. Lo spirito umano, secondo Hegel, non può, come vedremo, essere

pensato come semplice un aggregato di facoltà, forze o attività, ciascuna operante

isolatamente e collegata alle altre solo esteriormente, ossia come un qualcosa di

organizzato a scomparti. Anche il livello più basso dello spirito può essere pervaso da

elementi appartenenti ai livelli superiori. La sensazione, per esempio, «si nutre e si dà

continuità tramite la rappresentazione; si rinnova e si riavvia grazie ad essa»: un

sentimento come l’odio, l’ira, ect., si attiva attraverso la rappresentazione di ciò che l’ha

suscitata, come l’ingiustizia subita, e tramite questa riceve continuità. La

rappresentazione in questo modo alimenta e vivifica il sentimento, tanto che il venir

meno di essa, può causare il venir meno del sentimento. Hegel nelle Lezioni sulla

filosofia della religione, a tal proposito, fa riferimento esplicito sia al detto comune per

cui basta non pensare a ciò che ha suscitato il sentimento per determinare la sua

scomparsa, che alla strategia indicata da tanta moralistica per l’indebolimento di una

passione, consistente nella distrazione dello spirito attraverso la presentazione di

rappresentazioni di differenti situazioni. Anche prendendo come caso del sapere

immediato quello in cui la sua forma è il sentimento, esso, perciò, di per sé, non esclude

135 Con ciò si intende che potrebbe, nella concezione hegeliana, esserci spazio per una certa

interpretazione dell’innatismo, in cui quelle idee o pensieri presenti nella coscienza in forma implicita nel

suo operare necessitano per presentarsi ad essa nella forma di idee o pensieri in quanto tali, necessitano di

un processo formativo-educativo.

121

la mediazione, ossia non esclude nel suo stesso operare – nel sentire - l’attività dei livelli

superiori dello spirito.

(3) Il gruppo di paragrafi 68-70 si concentra sulla connessione di ciò che il sapere

immediato sa, ossia, sulla connessione della rappresentazione di Dio con l’essere. I due

paragrafi 68-69 presentano le due modalità in cui solitamente viene colta questa

connessione. In altri termini, essi rispondono a questioni come: come posso avere un’idea

o una rappresentazione di Dio a partire dall’essere delle cose che mi circondano? come

posso affermare che Dio non è solo una rappresentazione, ma anche è?

Hegel, nei primi due paragrafi di questo gruppo, presenta come obiezione alla tesi del

sapere immediato secondo la quale la determinazione dell’essere è immediatamente e

originariamente connessa con la rappresentazione di Dio, due diversi percorsi attraverso i

quali è riconosciuta questa connessione. Ovvero, solitamente, secondo Hegel, due sono i

modi per collegare l’idea o la rappresentazione di Dio e la determinazione dell’essere;

questi due modi sono caratterizzati da Hegel rispettivamente con le espressioni «nesso

empirico esterno» e «senza alcun riferimento alle connessioni che appaiono

empiricamente». Il primo modo consiste nel collegare la determinazione dell’essere con

la rappresentazione di Dio, e dunque nel mostrare l’essere come l’essere di Dio. Il

secondo modo consiste nel procedimento inverso, ossia, nel collegare la rappresentazione

di Dio all’essere, e dunque di mostrare Dio come essente. Il primo modo pone questa

relazione secondo «il nesso empirico esterno», ossia parte dalla determinazione

dell’essere secondo la sua connessione empirica, cioè parte dall’esistenza mondana,

dall’essere finito delle cose del mondo. Il secondo modo partendo dalla rappresentazione

di Dio, la collega alla determinazione dell’essere in maniera aprioristica.

Il primo percorso, è secondo Hegel descritto “universalmente” come un’elevazione.

Quest’elevazione è un movimento che ha un punto di partenza e un punto di arrivo, ossia

è un passaggio da un contenuto ad un altro; tuttavia, esso non si configura come un

movimento da un elemento ad un altro all’interno di una stessa serie. Esso, piuttosto, è il

passaggio che da uno o più elementi di una serie passa ad altro, «rompendo la serie»

(Enz. § 50 A); è il movimento di un salto che da un ambito passa ad altro, da un

contenuto sensibile – l’ente finito - al contenuto soprasensibile – l’ente infinito -,

passaggio dal finito all’infinito. Questo passaggio, in quanto tale, non elimina la

122

possibilità dell’immediatezza; la stessa terminologia usata da Hegel, «rottura», «salto», lo

suggerisce. Nelle Lezioni di filosofia della religione del 1827, l’immediatezza del

collegamento tra lo spirito e il suo oggetto è indicata con il termine «semplicità»136. In

tale contesto la connessione della determinazione dell’essere con la rappresentazione di

Dio descritta come elevazione offre il vantaggio di presentare la “semplicità” di questa

relazione come una semplicità concreta, non astratta, ossia, nella terminologia della

posizione del sapere immediato, come un’immediatezza concreta. L’affermazione di un

passaggio dal contenuto finito a quello infinito, per Hegel, dunque, non negherebbe la

semplicità o immediatezza del passaggio: che il sapere che si ha in questa relazione sia

immediato, semplice, non negherebbe, cioè, che esso possa presupporre un «cammino di

mediazione» (Enz. § 68). Il salto è immediato, deve esserlo in quanto salto; tuttavia, per

esser tale, esso deve pure presupporre il terreno da cui ci si stacca, come la rottura

presuppone la continuità con cui rompe.

Questa descrizione “universalmente condivisa”, ha il vantaggio di presentare il passaggio

di colui che sa, anche in modo immediato, la connessione dell’essere con la

rappresentazione di Dio come un passaggio concreto; passaggio, cioè, in cui è espresso il

termine medio come negazione del finito. La negazione del finito o del sensibile – non di

questo o quel finito per un altro finito, ma del finito –, dunque, è ciò che collega, media,

il soggetto conoscente a Dio, come suo oggetto.

Il secondo percorso, descritto nel § 69, avvenendo «senza alcun riferimento alle

connessioni che appaiono empiricamente», può essere indicato, a differenza del primo,

come un passaggio astratto137. In questo contesto, relativamente a tale passaggio, Hegel si

sofferma piuttosto poco: sottolinea solamente come la mediazione mostrata «in sé» in

questa connessione non si presenta come una mediazione «con e mediante qualcosa di

esterno» (Enz. § 69), ossia come una mediazione che connette elementi tra loro esteriori

come è pensata dal sapere immediato relativamente alle relazioni tra condizionato a

condizionato. In questo passo è dunque da intravedersi l’introduzione di un’ulteriore

forma di mediazione rispetto a quella trattata in questa sezione. Precedentemente, la

mediazione pur legando un termine ad un altro termine istituendo relazioni di dipendenza

136 VphR p. 308 (p. 349). 137 Cfr. VphR p. 308 (p. 350).

123

o altro, si dava sulla base dell’esteriorità dei due, ossia istituiva una relazione di

condizionamento esterno: un termine era condizione dell’altro termine, ma come

condizione esterna. L’identità di un termine rispetto a quella dell’altro, seppur il primo, in

quanto condizionato, venga riferito ad altro, permaneva così in una certa indipendenza

rispetto a quella dell’altro. Nel movimento di riferimento di questa seconda mediazione

non è presente quest’esteriorità dei termini: questa è «concludentesi in se stessa» (Enz. §

69). Il passaggio di un termine all’altro, attraverso questo tipo di mediazione non è un

passaggio da un termine ad un termine ad esso esterno138.

A partire dall’introduzione di quest’ulteriore forma di mediazione, nel Enz. § 70 questi

due percorsi vengono rivisitati nell’orizzonte del problema di come sia possibile che

l’essere sia l’essere dell’idea, o rappresentazione, di Dio, e non solamente l’essere

dell’essere finito e sensibile; e di come sia possibile passare dalla rappresentazione di Dio

al suo essere, in modo che questa non si riduca ad essere qualcosa di solamente

soggettivo. All’interno di questa prospettiva problematica, l’immediatezza esclusiva della

connessione tra le due determinazioni, è affrontata in relazione con la pretesa di verità

avanzata dal sostenitore del sapere immediato.

Per il sostenitore del sapere immediato questa forma di sapere, cogliendo

immediatamente la connessione tra la rappresentazione di Dio e l’essere, accede alla

verità. L’operazione di Hegel consiste nel mostrare che qualora si avanzi tale pretesa di

verità interviene, di fatto, la mediazione. L’unità di contenuto a cui perviene il sapere

immediato non è un’universalità astratta, l’essere immediato o la rappresentazione

astratta di Dio, ma è un’unità concreta, cioè un’unità di molteplici determinazioni: l’unità

dell’essere e dell’idea. Il vero, cioè, non è né la sola rappresentazione di Dio – questa

rimarrebbe un che di meramente soggettivo -, né l’essere di per sé, cioè l’essere separato

da questa idea, che rimarrebbe l’essere meramente sensibile e finito del mondo. In quanto

unità concreta, cioè di determinazioni distinte, non è un’unità immediata: ciascuna delle

due determinazioni è vera solo se mediata dall’altra, l’essere è vero solo se mediato

dall’idea di Dio e l’idea di Dio è vera solo se mediata dall’essere. Come si vede, Hegel fa

intervenire un terzo termine, la verità, come elemento medio tra le due determinazioni.

138 Relativamente alla presenza in questa critica all’immediatezza di due forme di mediazione, una

finita e una infinita, si veda NIEL H., De la médiation dans la philosophie de Hegel, Paris 1945, p. 71.

124

Tale terzo termine, tuttavia, sulla base della mediazione introdotta nel § 69, non è un

elemento esterno alle due determinazioni, ma ciò che rende una rappresentazione di Dio

la rappresentazione di Dio e l’essere, l’essere di Dio. In altre parole, questo terzo

elemento è la mediazione stessa139; certo, non la mediazione che rinvia ad altro, ad un

altro elemento, condizionato a sua volta, esterno e che funge da condizione del primo, ma

la mediazione che si conclude in sé, ossia che conclude i termini in un’unità. Si hanno

dunque due termini differenti che mediante un terzo si congiungono in unità; il terzo non

è altro dai due, ma è ciò che in essi, come nesso tra i due, li pone in unità. Questa, per

Hegel, è precisamente la forma del sillogismo. Perciò, se il sapere immediato accede alla

verità, e se accede alla verità tramite la connessione immediata che pone l’unità tra

l’essere e la rappresentazione di Dio, allora la mediazione è contenuta anche nella

connessione immediata saputa da questo sapere, qualora questa sia vera. Questo, che la

mediazione sia già contenuta nell’immediatezza - essendo una determinazione vera solo

mediante l’altra - , secondo Hegel, è un fatto rispetto a cui il sostenitore del sapere

immediato non potrebbe obiettare nulla.

4. L’ancoraggio al fatto della coscienza

Funzione del paragrafo che conclude le obiezioni alla presunta esclusività

dell’immediatezza del sapere in questione è dunque quella di mostrare come, a partire

dalla pretesa di verità circa il proprio contenuto, all’interno del sapere immediato operi la

mediazione, cioè come essa operi alle spalle dell’immediatezza con cui è saputa la

connessione tra l’idea di Dio e l’essere. Con ciò sono rifiutati in primo luogo la tesi per la

quale gli elementi mediativi sarebbero esclusi nel sapere immediato e, in secondo luogo,

la stessa modalità in cui è concepita la mediazione da questa forma di sapere, mostrando

al contempo la necessità di una sua diversa considerazione, allargata, per così dire, ad un

livello, quello inconscio, anteriore a quello in cui è relegata dal sapere immediato. In

questo senso, la prospettiva del sostenitore del sapere immediato si presenta quindi come

139 Hegel nell'Enz § 69 notava come la connessione delle due determinazioni mostrasse «in sé» la

mediazione.

125

una prospettiva caratterizzata profondamente dalla rigidità con cui concepisce le due

determinazioni dell’immediatezza e della mediazione, e dunque, essendo la mediazione

considerata come il proprio del pensiero, dalla rigidità con cui è concepito lo stesso

pensiero, ossia solo come un’attività in grado di operare in modo riflessivo e mediato.

Come si cercherà di mostrare la posizione di Hegel al riguardo è duplice: con le obiezioni

avanzate alle tesi del sapere immediato sono state mostrate le insufficienze del modo in

cui questo considera tanto il pensiero quanto l’elemento mediativo, cosa dunque che

richiede una loro considerazione capace di far fronte a tale insufficienze. Queste

insufficienze, come detto, riguardano la considerazione dell’attività del pensiero in forma

esclusivamente riflessa (coscienziale) e mediativa, quindi, si tratta di fornire una

considerazione del pensiero che, principalmente, renda conto di una mediazione, e di un

pensiero, che lavori a livello inconscio e di un pensiero che oltre al livello inconscio

possa presentarsi come intuizione immediata.

Come si è visto, le tesi del sapere immediato sono state avanzate sulla base fattuale, e a

partire da tale base sono poi state da Hegel sollevate le obiezioni corrispondenti. Da

questa terza parte della sezione dedicata alla terza posizione del pensiero rispetto

all’oggettività si può ricavare le particolari difficoltà cui secondo Hegel va incontro il suo

sostenitore.

Innanzitutto abbiamo una difficoltà di carattere epistemologico: la difficoltà del

sostenitore del sapere immediato a fondare le proprie tesi. Infatti, come più volte

accennato, tanto la mediazione quanto l’immediatezza sono in questa posizione concepiti

come le modalità in cui qualcosa è presente alla coscienza. Entrambe, cioè, sono

considerate esclusivamente al livello coscienziale: l’immediatezza, secondo questa

posizione, ci dice che qualcosa è presente alla coscienza immediatamente, con un legame

diretto; la mediazione, che qualcosa è presente alla coscienza mediante qualcosa d’altro

che appartiene allo stesso ambito, l’ambito di ciò che è soggetto a condizione. A partire

da ciò, cioè, dall’impossibilità di andare al di dietro della coscienza, ossia di considerare

il contenuto della coscienza secondo la sua natura e non solo come appare ad essa,

criterio di verità diviene il fatto della coscienza. In altre parole, il sostenitore del sapere

immediato cerca l’ancoraggio per ciò che sa non in ciò che sa, ma nel fatto che ciò che sa

lo sa, cioè nel fatto che ciò che sa è per la coscienza. Le conseguenze per Hegel sono

126

disastrose: la legittimazione di ciò che è saputo alla fine deve ridursi all’«asserzione che

io nella mia coscienza trovo un certo contenuto» (Enz. § 71). La sottolineatura

dell’aggettivo possessivo ha una precisa funzione critica. Infatti, l’aggettivo possessivo

della prima persona singolare, secondo un usuale gioco linguistico in Hegel, rimanda al

valore opinativo di un’asserzione che, non sorretta da argomentazione, è tutta intrisa della

sola particolarità del soggetto conoscente.

«Asserzione», qui, traduce Versicherung. «Jeden etwas versichern» è assicurare qualcuno

di qualcosa; «jeden versichern, dass...» significa assicurare a qualcuno che... A differenza

della semplice asserzione, l’assicurazione implica, oltre all’elemento dichiarativo, un

presunto atto di controllo, testimonianza, un atto in cui si accerta qualcosa, si verifica

qualcosa, cioè, implica un riferimento ad una garanzia in base a cui si dichiara ciò che si

asserisce. La semplice asserzione in quanto tale può avere pretesa di verità, ma nulla è

portato a suo sostegno. L’assicurazione ha qualcosa di più, oltre alla pretesa di verità

presenta implicitamente o vuole farlo una ragione per tale pretesa. Quando dico “ti

assicuro che è andata in questo modo”, non dico solo che è andata in questo modo, ma

avanzo anche una garanzia che sia andata così. Questa garanzia, in questo caso, può

risiedere nel mio esser nella condizione di dire com’è andata la cosa, in quanto ho vissuto

la cosa in prima persona: “ti assicuro che è andata così, io ero presente”. La garanzia cui

fa implicito riferimento l’asserzione si basa sul fatto presunto che chi assicura ha

compiuto un atto di verifica, di prova al proposito. Ciò di cui si assicura è

presumibilmente provato in prima persona. Il riferimento alla prima persona sembra

essere essenziale all’assicurazione. Chi assicura qualcuno di qualcosa vuole render certa

e sicura quella persona di qualcosa mediante la sola ragione, vera o presunta, che egli è

nella condizione di dire come sta quella cosa. Trattandosi di un voler render certo e

sicuro qualcuno che si basa sull’appello ad una prova condotta in prima persona da chi

assicura, l’assicurazione fa appello alla fede. La garanzia cui implicitamente si riferisce

l’assicurazione, il fatto che chi assicura avrebbe provato, appurato, vissuto in prima

persona, la cosa di cui assicura, cioè, per essere riconosciuta come garanzia, chiede la

fiducia nei confronti di chi assicura: “ti assicuro che è andata così, io c’ero; devi

credermi”. Che io sappia ciò che so può fungere da garanzia per ciò che so solo in quanto

io sono colui che si trova o si è trovato nella condizione di aver provato in prima persona

127

ciò che è saputo. Ma questo, che io sia o sia stato in quella condizione, ancora non basta;

per funzionare come garanzia, è necessario che il mio sapere, in quella condizione, sia

universalizzabile: tutti saprebbero ciò che io so se fossero stati nella condizione per cui io

so.

Nel caso di rappresentazioni non aventi un contenuto sensibile, come Dio, la moralità, il

diritto, ecc., questa posizione del sapere immediato sembra dunque far leva su un

argomento piuttosto debole: «ciò che io trovo nella mia coscienza viene elevato al rango

di cosa che deve trovarsi nella coscienza di tutti e viene fatto passare per natura della

coscienza stessa» (Enz. § 71 A). L’elevare ciò che io trovo nella mia coscienza al rango

di ciò che si trova nella coscienza di tutti consiste in una prima universalizzazione del

saputo. Una tale universalità, tuttavia, non soddisferebbe ancora l’istanza di

legittimazione che Hegel pretende per la scienza. Essa potrebbe raggiungere solo il

consensus gentium. Sulla sua base, cioè, potrebbe poi essere applicato l’argomento, che

Hegel attribuisce a Cicerone, dell’ex consensu gentium. In questo caso, dunque, anche

non facendo riferimento al secondo passo (anche questo problematico) della ricostruzione

hegeliana dell’argomento140, la legittimazione del saputo si caratterizzerebbe come una

condivisibilità di un fatto, condivisibilità di un apparire immediato alla coscienza. In altre

parole si sosterrebbe che un certo enunciato è vero in quanto tutti condividono che quel

certo enunciato è vero.

La legittimazione qui in gioco dunque si caratterizzerebbe secondo questi elementi a) ciò

che è saputo è qualcosa che è stato appurato in prima persona: un fatto che è o è stato

presente alla mia coscienza; b) questo fatto può essere presente alla coscienza di tutti; c)

lo è per la stessa natura della coscienza. La verità di questo fatto per essere condivisa fa

appello alla fede; infatti, essendo essa determinata come presenza alla coscienza, non è

comunicabile. In altri termini, poiché la legittimazione di un contenuto, presentato come

vero, risiede nel suo rapporto alla coscienza che lo dichiara, tale legittimazione non può

essere comunicata. Posso comunicare che il 15 novembre 2008 ho pranzato con un

amico, e posso assicurare che è andata così. La verità di ciò che ho comunicato e

140 L’argomento, come posto da Hegel nel testo del § 71, è composto di questi passaggi: 1) ho fede

(sapere immediato) Dio; 2) tutti hanno fede (sapere immediato) in Dio; 3) la fede (sapere immediato) in

Dio è una caratteristica essenziale della coscienza; quindi: 4) Dio esiste.

128

assicurato dipende dal fatto che sia andata così o no; la mia assicurazione che sia andata

così, fa appello alla fede dell’altro nei miei confronti; egli, se non ha ragioni per

dubitarne, dovrebbe credermi in quanto io sono nella posizione di dire se il 15 novembre

ho pranzato o meno con un amico. Anche nel caso del contenuto empirico dunque, la

legittimazione che può essere portata a sostegno di una pretesa di verità del genere non è

intrinseca alla «natura del contenuto» di ciò che è comunicato, ma le è esterna. Se,

invece, un matematico afferma di aver trovato la soluzione di un problema e la esprime,

affinché la sua pretesa di verità venga riconosciuta non può fare appello alla fede della

comunità scientifica nei suoi confronti, ossia non può semplicemente assicurare che

quella formula è la soluzione di quel problema, ma deve anche derivarla. Solo se derivata

o sulla base della derivazione, vengono avanzate legittimamente pretese di verità. In

questo caso la legittimità della verità per il contenuto espresso è anch’essa comunicabile.

Questi due esempi, costruiti sulla base della critica hegeliana all’assunzione da parte del

sostenitore del sapere immediato del «fatto di coscienza» come criterio di verità, hanno la

funzione di portare alla luce ciò che a Hegel interessa in questa critica. In essa, Hegel non

vuole perdere l’elemento di oggettività, ossia la possibilità dell’esposizione della

legittimazione, appartenente al procedere dimostrativo dell’intelletto cui il sostenitore del

sapere immediato si è opposto. La legittimazione deve anch’essa essere oggettivizzabile.

Non è sufficiente, cioè, che sia oggettivizzabile solo il contenuto del sapere, e che la sua

legittimazione sia un fatto soggettivo.

Una tale istanza, tuttavia, è condivisibile solo alla luce di un’altra definizione e di un altro

criterio di verità, o prendendo la posizione del sapere immediato come posizione

filosofica già a partire da una, più o meno determinata, idea di filosofia. In questo caso la

critica si risolverebbe alla critica della filosofia ad una posizione di pensiero che,

implicitamente o esplicitamente, avrebbe la colpa o l’ingenuità di farsi passare per

filosofia.

129

5. Piccola nota sulla giustificazione del sentimento e sul pregiudizio che il pensiero

annienterebbe l’elemento religioso

Le distinzioni fondamentali proposte dal § 2, come già accennato all’inizio del secondo

capitolo, possono apparire come mere distinzioni e definizioni stipulative. Per non essere

ridotte a definizioni stipulative, esse devono essere inserite all’interno del quadro

problematico da cui emergono e da cui solo possono ricevere ragioni a loro sostegno.

Tale quadro, cui fa riferimento esplicito l’Annotazione allo stesso paragrafo, nelle sue

linee più generali, vede coinvolta una questione che ha impegnato Hegel lungo l’intero

arco della sua riflessione, fin dagli scritti giovanili; la questione del rapporto tra filosofia

e religione. Obiettivo critico di Hegel, nella particolare declinazione che tale questione

qui assume, è quello che egli indica come un pregiudizio della propria epoca, ossia il

pregiudizio che «separa in tal modo il sentimento dal pensiero da renderli tra loro

opposti, perfino così ostili che il sentimento, specialmente il sentimento religioso

verrebbe inquinato, stravolto, anzi addirittura annientato dal pensiero, e la religione e la

religiosità per la loro essenza non avrebbero nel pensiero la loro radice e il loro posto»

(Enz. § 2)141.

In questa prospettiva, sembra innanzitutto necessario chiedersi perché, fin dal paragrafo

iniziale dell’Enciclopedia, è principalmente la religione ciò in relazione a cui è attuata la

prima determinazione del concetto di filosofia, ovvero perché sembra necessario ad un tal

fine il chiarimento del rapporto tra la filosofia e la religione e con la sua propria facoltà

conoscitiva. Nell’affrontare questa domanda tuttavia, occorre tenere presente che tale

determinazione avviene principalmente in rapporto alla religione; bisogna ricordare, cioè,

come si è mostrato precedentemente, che scienze e senso comune o ciò che, in termini

141 Più in particolare, la critica alla concezione della religione quale solamente sapere immediato,

negli anni berlinesi è rivolta contro Schleiermacher. Hegel tenne per la prima volta le Lezioni sulla

filosofia della religione nel 1821, lo stesso anno in cui Schleiermacher pubblicava «la sua opera

maggiore, La dottrina della fede, con la chiara intenzione di stabilire l’autonomia della religione nei

confronti della filosofia» (cosi F. Chiereghin annota nel volume da lui curato degli scritti di filosofia della

religione di Hegel, Scritti di filosofia della religione, cit, p. 116 n. 32).

130

più generali, può essere indicato attraverso l’espressione «sapere finito»142, con le

rispettive modalità conoscitive, sono parimenti chiamate in causa nella delineazione di

questo quadro. In termini più espliciti: è l’individuazione della modalità conoscitiva del

sapere finito a porre la questione se essa sia o meno adeguata alla filosofia e al suo

oggetto. Qualora tale modalità sia riconosciuta come l’unica modalità possibile del

pensiero143, l’aspirazione dello spirito umano all’incondizionato potrà essere perseguita

solo attraverso modalità che non siano il pensiero; e, di conseguenza, la religione, qualora

la si consideri come l’unica forma di sapere che potrà pretendere di rispondere a tale

bisogno umano, non potrà non essere inquinata e stravolta dal pensiero, e dovrà dunque

rivolgersi a modalità che con il pensiero non abbiano nulla a che fare144.

142 Per «sapere finito» si intende un sapere le cui determinazioni sono finite. Questa finitezza delle

determinazioni , secondo l’Annotazione del § 25, è da intendersi in un duplice modo: 1) sono finite in

quanto soltanto soggettive; 2) sono finite in quanto sono determinazioni di un contenuto limitato. 143 In ciò consiste l’abbandono dello spirito alla riflessione finita cfr. § 573 A (426). 144 La possibilità che il pensiero stravolga la religione e ciò cui essa si rivolge, è presente fin dagli

scritti giovanili. In Religione popolare e cristianesimo, p. e., si dice: «come la religione in generale è cosa

del cuore, così potremmo noi domandarci fino a che punto vi si può mischiare il ragionamento perché

rimanga religione» (in Scritti teologici giovanili, cit., p. 43). Da notare che qui, non si fa distinzione

ancora tra diverse modalità di pensiero, ma si parla solo di intelletto, ragionamento. Perché l’intelletto o il

pensiero dovrebbe stravolgere la religione? In questo contesto l’opera dell’intelletto si configura come

estraniante rispetto al contenuto religioso e dunque come nociva all’istanza totalizzante della religione.

Tale azione viene descritta attraverso la contrapposizione tra il grande palazzo, prodotto di generazioni ed

in continua crescita, con la piccola «casetta avita» (p. 46) del padre di famiglia. Mentre il padrone del

palazzo conosce appena le sue stanze, il padre di famiglia «sa dare risposta e sa parlare di ogni chiodo»

(p. 46), conosce concretamente, sapendone l’uso e la storia, concretamente, ogni aspetto di essa. In

questo, è il padre di famiglia a sentirsi a casa propria, essa gli appartiene. Il grande palazzo è estraneo al

suo padrone. Fuor di metafora, ci si chiede se l’opera dell’intelletto sia volta alla produzione di un

edificio dottrinale che nessuno ormai può più padroneggiare, con ciò esso minerebbe proprio quella

possibilità di conferimento di senso ultimo, capace di penetrare in ogni aspetto della vita umana, che è la

religione. Non si tratta, naturalmente, di sentirsi «a casa propria» - nel senso di sentirsi a proprio agio -

nella religione, ma di poter rispondere di ogni aspetto, del più grande come del più piccolo, della propria

vita a partire dal suo conferimento di senso. L’opzione di una modalità conoscitiva al di fuori del pensiero

era stata perseguita da Hegel negli scritti giovanili attraverso l’amore. Una tale strada gli si era rivelata

sbarrata a causa del problema della sua oggettivazione.

131

Le distinzioni del § 2, dunque, si stagliano su un quadro teorico piuttosto preciso, volto a

definire la particolare modalità conoscitiva, o di pensiero, della filosofia. Tale

determinazione procede dunque a partire dall’individuazione di una presunta opposizione

sussistente tra due forme di sapere e le corrispettive sotto determinazioni: un sapere finito

o mediato e un sapere immediato, in grado di cogliere o relazionarsi in forma adeguata

all’incondizionato, ma definito per lo più negativamente, in opposizione al primo. Queste

classi vengono articolate attraverso differenti termini: mediato, immediato, condizionato,

incondizionato, finito, infinito, astratto, concreto, molteplicità, unità, parte, totalità, ecc. Il

tentativo di Hegel, consiste nel percorrere queste presunte opposizioni mostrando

l’inadeguatezza dei concetti coinvolti nel loro costituirsi secondo tali opposizioni145, e, al

contempo, individuando la base su cui esse sorgono, tale tentativo si prefigge di fornire

quelle distinzioni – che per questo si presentano come fondamentali per la concezione del

pensiero, e più in generale della filosofia - che da un lato permettono un approfondimento

dei termini oppositivi riconoscendone un qualche valore, dall’altro lato permettono di

uscire dalle ristrettezze oppositive in cui sono costretti e di offrire una loro ridefinizione

concettuale. La questione che sta sullo sfondo di questo quadro problematico è la

questione dell’individuazione dell’estensione dell’attività del pensiero, il suo campo

d’azione. Più in particolare, la sua discussione, deve decidere se questo sia da limitarsi

alla sfera del condizionato, e dunque se il pensiero non debba essere considerato solo

come un’attività in grado di procedere solo da condizione a condizionato, dove la

condizione non può che essere, a sua volta, essa stessa un condizionato. Nel caso in cui

l’oggetto del pensiero sia riconosciuto solamente in quanto situato all’interno di una serie

di condizioni, la loro totalità, come pure la loro origine – la condizione che è a sua volta

non è un condizionato, cioè: l’incondizionato -, sia questa considerata come mondo,

natura, Dio, ecc., travalicherebbe l’ambito del pensiero e richiederebbe dunque una

differente modalità di rapporto146.

145 Cfr. la prima parte della Prefazione alla filosofia della religione di Hinrichs, (in Scritti della

filosofia della religione, Trento 1975, pp. 41-71, pp.41-53). 146 Questa non è affatto una strada estranea al percorso filosofico hegeliano. Si tratta, infatti, di una

via che lo stesso Hegel ha percorso negli scritti teologici giovanili attraverso i concetti della vita e

dell’amore. Tale via, tuttavia, gli si è mostrata sbarrata proprio di fronte la questione dell’oggettività,

questione che, differentemente articolata, è alla base delle stesse critiche volte contro le varie forme del

132

5.1 Il ricorso al sentimento e la sua giustificazione

La presunta opposizione tra sapere mediato e sapere immediato è istituita non solo

orizzontalmente, ma anche verticalmente. Si tratta, cioè, di un’opposizione valoriale, in

cui le determinazioni del secondo termine della relazione si pongono come reazione alle

manchevolezze di quelle del primo termine. L’opposizione è istituita dunque, come una

reazione ad una situazione data. Questa situazione data è la limitazione dell’attività del

pensiero all’ambito del finito. Ciò che Hegel condivide con la posizione del sapere

immediato è la reazione a questa situazione, tale reazione in Hegel si configura non in

forma oppositiva, ossia a partire dall’accettazione implicita di quella situazione - cioè

dell’enunciato: il pensiero è limitato all’ambito del condizionato –, ma come una reazione

che coinvolge nella sua critica questa stessa situazione. In altri termini, Hegel condivide

l’istanza del sapere immediato di non fermarsi al condizionato, ma la critica del

presupposto implicito del sapere immediato gli permette di oltrepassare le limitazioni in

sapere immediato. La stessa questione del rapporto tra intelletto e religione trova formulazione esplicita in

questi scritti, in particolare in Religione popolare e cristianesimo. Questa questione è formulata

esplicitamente utilizzando la metafora della casa: «come la religione in generale è la casa del cuore, così

potremmo noi domandarci fino a che punto vi si può mischiare il ragionamento perché rimanga religione»

(Hegels theologischeJugendschriften, hrsgg. von H. Nohl, Tübingen 1970; Scritti teologici giovanili, trad.

it. N. Vaccaro e E. Mirri, Napoli 1972, p 43); e ancora: «se la religione deve aiutare l’uomo a costruire la

sua piccola casa, che solo allora egli può chiamare propria, sino a che punti [l’intelletto] può aiutarlo?».

In questo contesto l’opera dell’intelletto si configura come un’opera di estraneazione nei confronti del

contenuto religioso ed in ciò si mostra nociva nei confronti della capacità di conferimento di senso della

religione a ciò che lo circonda. Tale azione viene descritta attraverso la contrapposizione del «grande

palazzo», prodotto da più generazioni ed in continua crescita, con la piccola «casetta avita» (ivi, p. 46) del

padre di famiglia. A differenza del padrone del palazzo che conosce a malapena le sue stanze, il padrone

della «casetta avita» «sa dare risposta e sa parlare di ogni chiodo» (ibidem), ossia conosce concretamente,

sapendone indicare l’uso, la storia, la ragione, ogni aspetto di essa. Per tal motivo è il padre di famiglia a

sentirsi a casa propria, essa gli appartiene, mentre il padrone è un estraneo nel suo stesso palazzo.

L’attività dell’intelletto, come attività estraneante, minerebbe l’attività di conferimento di senso attraverso

cui l’uomo si approprierebbe del suo vivere.

133

cui questo si trova ad essere coinvolto proprio a causa della sua accettazione e del suo

porsi in forma negativa rispetto ad essa. Hegel cioè, da un lato accettazione e, anzi, elogia

la critica mossa al pensiero intellettuale attuata da una tale posizione, dall’altro però ne

critica il presupposto che identifica il pensiero tout court con esso147.

Hegel nell’Annotazione del § 2 fa riferimento soprattutto alla declinazione che il sapere

immediato, di derivazione essenzialmente jacobiana, riceve dalla filosofia della religione

di Schleiermacher e che ne riconosce il principio essenzialmente nel sentimento, come

sentimento religioso. In più luoghi, soprattutto a partire dalla Prefazione alla filosofia

della religione di Henrichs e nelle Lezioni sulla filosofia della religione, Hegel rintraccia

una giustificazione sia storica che teorica al ricorso del sentimento.

5.2 Giustificazione storica del ricorso al sentimento

La giustificazione storica del ricorso al sentimento la si può rintracciare sommariamente

in quelli che Hegel indica come i «presupposti assoluti nella cultura del nostro tempo»148.

147 Tale critica spesso appare viziata da un’ambiguità di fondo derivante dalle ambiguità insite

nell’utilizzo del termine «pensiero» tanto in Hegel quanto in coloro che da Hegel vengono criticati. Nel

sentimento religioso di Schleiermacher, che per lo più Hegel tende, troppo facilmente, a ricondurre ad un

sentimento tra altri – mentre questi, anche se è su ciò più chiaro nella seconda edizione dell’opera Der

christlische Glaube §§ 4-5 (1830-1831), che nella prima edizione (1821-1822) alla quale Hegel fa

riferimento (a tal proposito, secondo Hodgson, Hegel si confronterebbe non con Schleiermacher ma con

una sua caricatura; la polemica tra i due sarebbe contaminata da profonde incomprensioni (cfr.

HODGSON P.C, Hegel and Christian Theology, Oxford-New York 2005, p. 110)), come pure nella fede

o ragione di Jacobi è facilmente riconoscibile qualcosa come un’intuizione di carattere intellettuale, e

dunque ancora qualcosa che apparterrebbe all’attività del pensiero. Per quel che riguarda Hegel, invece,

spesso è l’uso ambiguo del termine pensiero a creare delle difficoltà tanto interpretative quanto

argomentative. A volte esso è utilizzato per indicare il pensiero in generale e dunque il pensiero in una

qualsiasi sua modalità dal pensiero come attività inconscia, alla sua modalità rappresentativa, al pensiero

intellettuale, al pensiero speculativo o razionale. Questa ambiguità se fa buon gioco all’argomentare di

Hegel, ne mette anche in discussione l’operazione. 148 Prefazione alla filosofia della religione di Hinrichs, cit., p. 56.

134

Il primo presupposto afferma: «l’uomo non sa nulla della verità». Esso sarebbe

provocato, ma non saputo, dall’intelletto illuminista che, secondo il principio della

dignità dell’uomo per cui le «verità sono per lui»149, si rivolge contro ciò che Hegel

chiama l’intelletto farisaico, in modo da «far posto alla verità». Con l’espressione

«intelletto farisaico», Hegel intende l’intelletto che individua e fissa le determinazioni

finite in ambito religioso e che le propone – per questo lo chiama anche “intelletto

proponente” - ad un altro intelletto – che chiama “intelletto ricevente” -, quello della

persona pia che nella religiosità assume il rapporto di obbedienza, di fede senza riserva.

Si tratta dunque di una sapienza finita sulle cose finite, volta principalmente ai suoi

aspetti storici, filologici ed esteriori, cioè di un’erudizione che da un lato prende il posto

della fede; dall’altro colma il mistero della realtà divina con una più o meno inutile

«quantità di notizie storiche esteriori»150. In questo modo tale intelletto lavora «contro la

verità divina»151.

Di fronte questa situazione - contro la sottomissione dell’intelletto da parte di un altro

intelletto e contro le determinazioni esteriori della religiosità – l’illuminismo avrebbe

riaffermato la libertà dello spirito. Tuttavia la critica rivolta dall’illuminismo a questa

situazione sarebbe stata compiuta utilizzando, a sua volta, esclusivamente il pensiero

finito. Ossia, tale critica, attaccando l’errore e la superstizione, ma non sapendo compiere

alcuna «distinzione tra determinazioni di un contenuto soltanto finito e determinazioni

della verità stessa»152, avrebbe negato ogni determinatezza della religione, svuotando

così la verità di ogni contenuto. La filosofia kantiana avrebbe dato all’intelletto

illuminista la «giusta coscienza di sé»153. Questa, cioè, ponendo la distinzione tra

determinazioni finite154 e determinazioni della verità, e riconoscendo l’operare

149 Ibidem. 150 Ibidem; cfr. CHIEREGHIN F., Introduzione, in HEGEL G.W.F., Scritti di filosofia della

religione, cit., p. 21. 151 Prefazione alla filosofia della religione di Hinrichs, cit., p. 51 152 Ibidem. 153 Ivi, p. 57 154 Come si è mostrato secondo Hegel questa distinzione si compierà solo con Jacobi. In Kant

infatti, la finitezza delle determinazioni riguarda solo il loro contenuto, il loro ambito di applicazioni.

135

dell’intelletto come un’operare finito, cioè riconoscendolo come legittimato a rivolgersi

solamente all’ambito fenomenico, avrebbe ristretto la scienza a scienza mondana o finita

e, così facendo, sarebbe giunta alla proposizione che l’uomo non può sapere nulla di Dio.

Il secondo pregiudizio, derivante dal primo, è che per l’aspirazione dell’uomo

all’incondizionato, non potendo questa essere perseguita dal pensiero essendo la sua sfera

d’azione ridotta al fenomenico, non resti che la «regione del sentimento»155. Secondo

Hegel vi sarebbe dunque una derivazione diretta della religione del sentimento dalle

posizioni della filosofia e religione dell’intelletto. Attraverso l’interiorità e l’intensità del

sentimento, cioè, l’anima cercherebbe di supplire alla perdita del contenuto causata

dall’intelletto.

Il terzo pregiudizio viene indicato da Hegel nell’opinione per cui «il sentimento è la vera

e, addirittura, unica forma in cui la religiosità conserva la sua autenticità»156.

5.3 Giustificazione teorica del ricorso al sentimento

La giustificazione teorica del ricorso al sentimento riguarda le ragioni concettuali a

sostegno dell’individuazione della forma del sentimento come forma adeguata di sapere

per la sfera religiosa.

Riguardo alla religione – Hegel estende la cosa anche all’etica e al diritto – (ma come

abbiamo visto la cosa è traducibile, anzi è tradotta, anche per la totalità del mondo o della

natura o in termini “metafisici” per l’incondizionato), è richiesto che l’oggetto, il

contenuto, compenetri il soggetto: per essere uomini religiosi non basta sapere di

religione o avere qualche concezione di Dio. La religione, infatti, si presenta come una

risposta al bisogno umano di riconoscere nella propria esistenza un senso. Essa è, cioè,

una modalità di conferimento di senso capace di investire l’esistenza in ogni suo aspetto,

Jacobi riconosce come tale finitezza sia relativa alla stessa forma delle determinazioni e così come non

relativa solo al loro livello contenutistico. 155 Ivi, p. 59 156 Ivi, p. 60

136

ossia nella sua totalità157. La fede religiosa, dice Hegel, è un «confidare nel rapporto

dell’uomo a Dio»158 che «espande il suo soffio» sulla totalità della sua esistenza, «su tutti

i suoi sentimenti e le sue azioni»; in questo affidarsi a Dio, cioè, l’uomo rapporterebbe a

lui tutti i fini ed oggetti come loro fonte; ogni sentimento e azione attingerebbe senso da

tale fonte. Per questa sua caratteristica essa esige un’«identificazione» tra il soggetto e il

contenuto della religione. La forma adeguata del rapporto religioso, dunque, deve

soddisfare una tale condizione.

Nel sentimento in generale, soggetto senziente ed oggetto sentito confluiscono in uno.

Questo confluire in uno è costituito dalla comunanza di ciò che è sentito dal senziente e

di ciò che è sentito nell’oggetto sentito. Nel caso del «sentimento esteriormente

sensibile»159 per esempio, se allungo la mano sul tavolo e ne sento la durezza, la durezza

- che è la determinazione di questo sentimento - è comune sia a me che al tavolo. Non ci

sono, nel sentimento due esseri distinti, io e il tavolo, c’è solo l’affezione della durezza.

Quest’affezione di durezza è il contenuto di questo sentimento, ed in essa io e il tavolo

siamo uno. Nell’espressione «sento qualcosa di duro», invece, non si tratta più solo del

sentimento, si è già ad un livello più complesso implicante la rappresentazione. In essa,

cioè, non c’è già più l’identità di soggetto e oggetto, ma si è prodotto un raddoppiamento

attraverso il quale attribuiamo il contenuto del sentimento ad un presupposto oggetto

esterno.

Lo stesso avviene per il sentimento che ha un contenuto spirituale come il sentimento di

Dio, dell’eticità e del diritto. In esso il soggetto senziente si è appropriato e si è lasciato

appropriare dal contenuto. In quanto quest’unità o identificazione di soggetto e contenuto

costituisce l’aspetto formale del sentimento, questo è in grado di soddisfare la condizione

richiesta dalla caratteristica “totalizzante” del rapporto religioso.

Se pur il sentimento soddisfa la condizione richiesta da quest’aspetto della religiosità, ciò

ancora non significa che esso sia la forma adeguata per essa. Secondo Hegel, infatti, la

157 In questo senso, è stata descritta come una «figura della totalità», Cfr. CHIEREGHIN F.,

Introduzione, cit., p. 7. 158 Scritti di filosofia della religione, cit., p. 80. 159 VPhR p. 287 (p. 329).

137

fede religiosa deve essere determinata anche secondo un particolare contenuto, e il

sentimento rappresenta solo la forma soggettiva di un possibile contenuto.

5.4 Critica al ricorso al sentimento come forma adeguata del rapporto religioso

La critica hegeliana a questo ricorso al sentimento si rivolge alla posizione secondo la

quale il sentimento, in quanto in esso il contenuto si identifica con il soggetto, sarebbe «la

fonte della fede, del sapere di Dio, del diritto e dell’eticità»160, ossia alla concezione che

pone il sentimento come principio, fondamento di questi, contrapposto al pensare. Tale

critica si sviluppa secondo due argomenti: (1) il primo, di carattere generale, è rivolto

contro il sapere immediato – in esso Hegel cerca di mostrare come il sapere immediato,

oltre che condividere la concezione intellettuale del sapere e del pensiero per la quale

questo è conoscenza, e pensiero, astratta e finita, alla fine si riveli essere esso stesso il

sapere più astratto161 - tale argomento è stato preso in considerazione trattando la terza

posizione del pensiero rispetto all’oggettività, in riferimento a Jacobi -; (2) Il secondo

argomento è l’argomento dell’indeterminatezza del sentimento e riguarda la

legittimazione del suo contenuto.

(2) Argomento dell’indeterminatezza del sentimento: il sentimento in quanto tale è

indeterminato, la sua natura è data dalla sua determinatezza. La determinatezza del

160 VphR p. 288 ( 329). 161 Il sapere immediato non solo presuppone che il pensiero sia solo pensiero intellettuale,

intellettuale-astratto, ma di fatto non può che giungere allo stesso risultato del pensiero astratto: la

coscienza immediata di qualcosa, proprio in quanto immediata, sa l’oggetto solo secondo le sue

determinazioni più povere. Da un lato, dunque, il sapere immediato non sta «al di fuori della regione del

pensiero», dall’altro si rivela essere, contro le sue stesse pretese, il pensiero più astratto dell’oggetto di cui

è sapere – che non si possa sapere nulla di Dio è il punto di vista dell’illuminismo, e questo coincide con

il sapere immediato. Riguardo alle cose mondane si ha la stessa astrazione: se ho coscienza immediata di

un muro, di esso dico: “il muro esiste, è una cosa”; «una cosa», in quanto predicato di un soggetto, è un

universale. Questo sapere del muro, che abbiamo nella coscienza immediata, se prendiamo il termine

«cosa» come sinonimo del termine «ens» - in realtà sarebbe una determinazione più complessa – coincide

con il sapere immediato di Dio, cioè con il sapere che Dio è. Il sapere immediato è ridotto alla

connessione di una rappresentazione con l’essere.

138

sentimento è il suo contenuto. Se sono puro sentire, puro udire, gustare, ecc., non sento,

odo, gusto, nulla; per sentire devo sentire qualcosa. Il sentimento di paura, per esempio, è

determinato dalla paura, questa ne è il contenuto. Questo contenuto, tuttavia, non è dato

dalla forma del sentimento, il sentimento in quanto tale può assumere i più diversi e

opposti contenuti: può essere sentimento di gioia e tristezza, di benessere e dolore, come

essere la forma di passioni determinate moralmente e religiosamente e quindi la forma

tanto delle passioni buone quanto di quelle cattive, di quelle pie e di quelle non pie. Per

questa sua stessa indeterminatezza il sentimento non può assurgere a ruolo di principio

fondatore, in quanto non è in grado di legittimare il contenuto, per esempio, la distinzione

tra bene e male, o giusto e ingiusto; entrambi, bene e male, «hanno posto» nel

sentimento. Non può, per esempio legittimare un determinato comportamento: che io

senta che un certo comportamento è il giusto comportamento per una situazione data, non

solo non legittima a dire che tale comportamento è il comportamento giusto per quella

situazione, ma neppure la giustizia che nel sentimento riconosco a tale comportamento

deriva dal sentimento stesso. La legittimità del contenuto, cioè, non deriva dalla forma

del sentimento. Che il sentimento religioso sia il sentimento della vera religione, non è

cosa che possa essere decisa dal solo sentimento. Dato che il sentimento è indifferente al

contenuto, e dato che la legittimazione è relativa al contenuto, questa deve riguardare un

livello di complessità spirituale maggiore di quella del solo sentimento.

Relativamente al sentimento avente come contenuto determinazioni spirituali – il

sentimento religioso, etico del diritto –, e riguardo alla soddisfazione della condizione

posta dal carattere “totalizzante” della religione, Hegel sottolinea l’inadeguatezza del

termine «sentimento»162. Il sentimento infatti, in quanto evento, è caratterizzato dalla

fugacità, da una durata minima, e dalla sua singolarità: come questa gioia, questo dolore,

162 Hodgson sottolinea che il termine Empfindung è usato normalmente nel manoscritto delle lezioni

del 1821 per descrivere la soggettività della fede. Il termine Gefhül rimpiazza il primo termine nelle

lezioni del 1824 2 1827, spiegando il cambiamento in questi termini: « questo scambio riflette

indubbiamente l’impatto di Der Christliche Glaube di Friedrich Schleiermacher, pubblicato nel 1821-22,

che introdusse il termine Gefhül come una categoria teleologica maggiore e ne fece il tema di

controversia. Mentre Empfindung e Gefhül sono strettamente legati, c’è una sottile distinzione tra di essi,

come Hegel stesso riconosce (Enz §§ 402-3)» (HODGSON P.C., Hegel and Christian Theology, Oxford-

New York 2005, p. 109).

139

questo sentimento di pietà163. Il sentimento religioso, invece, se con esso si intende

qualcosa che deve poter caratterizzare la vita umana in tutte le sue faccende – istanza

richiesta dalla sua determinatezza di religiosità -, deve configurarsi come qualcosa di più

duraturo e che ha a che fare con ciò che usualmente chiamiamo carattere. Per esempio,

diciamo che una persona è una persona gioiosa non in quanto sta provando gioia, ma in

quanto per lo più si comporta in modo gioioso; così l’uomo pio non è colui che è mosso

da o a pietà, ma colui che per lo più si rapporta in modo pio con se stesso, gli altri e il

mondo; colui, cioè, che ha la disposizione o la tendenza a comportarsi in modo pio. Non

si tratta dunque del sentimento come avvenimento, ma del sentimento come tendenza o

disposizione. Rispetto al termine «sentimento», Hegel propone il termine «cuore» o

«animo»164 in quanto questo indica maggiormente un’«unità comprensiva»165. Esso cioè,

indicherebbe ciò che resta e che comprende i diversi sentimenti sia nella loro diversità

che nella loro durata. Il cuore, come il sentimento, soddisfa l’istanza che le

determinazioni del contenuto siano ad esso immanenti, che in esso il sentito sia identico

al senziente, e dunque in questo supplisce all’esteriorità del rapporto proprio

dell’intelletto astratto, e, a differenza del sentimento singolare, che non soddisfa

pienamente l’istanza totalizzante, è in grado di mantenere in unità i diversi sentimenti

particolari, in modo da poter estendere tale identificazione all’intera esistenza del

soggetto166. In questo modo, Hegel condivide con la religione del sentimento la necessità

del sentimento – declinato come cuore – per la fede religiosa, ma ancora, ne riconosce

l’insufficienza. Tale condizione è condizione necessaria, ma non sufficiente. Rimane cioè

il problema della legittimità del contenuto. Avere una religione nel cuore non determina

163 cfr. § 472 Z. 164 «Un uomo di cuore (gemütlich) si dice [...] chi lascia spazio alla sua sia pur limitata individualità

di sentimento, fino a calarsi interamente nelle particolarità di questa, ed a lasciarsene riempire

interamente» § 405 A. 165 Lezioni sulle prove della esistenza di Dio, cit., p. 244 – 52. 166 «Se [...] dico: “ho Dio nel cuore, ho il diritto nel cuore”, il sentimento di questo contenuto è

espresso qui come modo continuativo e saldo della mia esistenza. Il cuore è ciò che io sono, non

semplicemente ciò che io sono al momento [...]. La forma del sentimento come un che di universale,

significa allora principi o abitudini del mio essere, fermezza del mio modo d’agire» Vphr p. 179 (pp.

227-8).

140

la verità o meno di quella religione. Per dire che qualcosa è giusto o vero «dobbiamo

andare alla ricerca di motivi determinanti diversi dal sentimento»167. Una tale questione

riguarda l’ambito delle ragioni, «e queste si trovano essenzialmente solo nel pensiero»168.

Quindi, fintanto che il pensiero è escluso aprioristicamente dal contenuto, non è possibile

giungere ad una sua legittimazione.

La legittimazione, come si è detto, deve riguardare il contenuto del sentimento. Con ciò

già si rifiuta che il sentimento in quanto tale sia da considerarsi la fonte o il fondamento

della fede religiosa. Il sentimento non è che il lato soggettivo della fede - e come tale

Hegel ne riconosce l’importanza - il lato oggettivo riguarda il suo contenuto, esso è

inizialmente dato nella forma della rappresentazione, e non può essere legittimato che dal

pensiero.

167 VphR p. 290 ( p. 332). 168 VPhR p.298 (p. 340).

141

SESTO CAPITOLO

1. Il pensiero come attività dell’universale

Trattando della terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività, Hegel ha

caratterizzato il pensiero, così come concepito da tale atteggiamento, come l’«attività del

particolare». Nel capitolo precedente abbiamo cercato di mostrare come una tale

considerazione del pensiero si dimostrasse unilaterale e determinata dall’appiattimento

del pensiero sul procedere intellettuale. Si è più volte mostrato come a partire da tale

appiattimento, che riduce il pensiero ad un mero calcolo astratto procedente da

condizionato a condizione, Hegel riconosca una giustificazione del ricorso al sentimento

in un’istanza di interezza che il pensiero come intelletto non può soddisfare.

Si è mostrato come l’espressione «pensiero come attività del particolare»

emergesse in contrapposizione con quella che è stata da Hegel indicata come la

determinazione ultima del pensiero del criticismo «pensiero come universalità astratta».

Sulla base di questo parallelo è stato possibile individuare un primo senso

dell’espressione nel complemento di modo: le espressioni «pensiero come universalità

astratta» e «pensiero come attività del particolare» indicano il modo in cui il pensiero

opera. Nella filosofia critica, questo era concepito come una forma astratta rispetto al

contenuto - ciò che di volta in volta è particolare - e bisognoso di questo per ricevere

senso; la posizione del sapere immediato, invece, riconosceva al pensiero uno spessore

formale di per sé, indipendentemente dal suo contenuto, ed in questo riconosceva il

pensiero come particolare in riguardo alla sua stessa forma.

Un altro modo per intendere l’espressione, come si è visto, è di intendere il

genitivo in senso oggettivo, e dunque l’espressione sarebbe volta ad indicare l’ambito

degli oggetti del pensiero come ambito degli oggetti particolari.

Un terzo senso, inoltre, è riscontrabile nell’intendere il genitivo in senso

soggettivo, e dunque nell’intendere il pensiero come un’attività di un particolare

soggetto. Contestando l’ipotesi interpretativa di Westphal, per cui «particolare»

142

indicherebbe una particolare specie, quella umana, si è sostenuto che nell’espressione

«pensiero come attività del particolare» il genitivo potesse essere inteso in senso

soggettivo solo rapportandola in controluce alla concezione hegeliana del pensiero: il

pensiero come universale concreto, o come attività dell’universale.

Ora si cercherà di chiarire meglio il punto affrontando i primi paragrafi del

Concetto preliminare.

La Logica secondo Hegel è la scienza dell’idea nell’elemento del pensiero. Tale

scienza solitamente è concepita in termini puramente formali: la logica è scienza di una

forma in attesa di contenuto, di modo che la correttezza di una derivazione non può porsi

se non come correttezza formale e dunque non essere ancora indice di verità. Come si è

visto, Hegel contesta questo modo di considerare la logica, riconoscendo nel pensiero un

elemento intensionale coincidente con la sua forma stessa, o meglio con la

determinazione della sua forma. La logica non è priva di contenuto, ma, nel senso in cui

precedentemente si è chiarito, ha a contenuto la forma delle determinazioni di pensiero.

La Scienza della logica dell’Enciclopedia è introdotta dal Concetto preliminare; in

esso Hegel espone il concetto preliminare di questa scienza. Questi paragrafi si

presentano, per il tema che ci riguarda, di particolare interesse soprattutto in quanto,

essendo la logica la scienza dell’idea nell’elemento astratto del pensiero, muovono alla

determinazione della logica a partire dal modo in cui concepiamo usualmente il pensiero.

Per determinare il concetto preliminare della logica, cioè, Hegel muove sotto il segno di

ciò che ci è vicino, prossimo [nächsten; zunächst]; preso in questa prossimità il pensiero

appare nel suo significato usuale, comune, cioè nel modo in cui ce lo rappresentiamo

quotidianamente, ordinariamente.

Nel modo quotidiano di rappresentare il pensiero, il pensiero appare secondo tre

aspetti: esso appare come (a) attività o facoltà tra altre; (b) prodotto di tale facoltà o

attività; (c) pensiero in quanto soggetto. Questo è il significato usuale del pensiero, il suo

significato soggettivo, il pensiero così come è rappresentato abitualmente.

A partire da questa rappresentazione del pensiero, lo sforzo compiuto da Hegel si

presenta da subito nel pensare insieme questi differenti aspetti del pensiero, nel cogliere

cioè il termine “pensiero” non come denotante tre cose differenti, ma come denotante lo

stesso secondo tre diversi aspetti. Tale operazione si giustifica per la riflessività, qui non

143

esplicitata, interna al pensiero: che il pensiero operi significa anzitutto che il pensiero

opera su di sé. In questo modo, pur partendo da quella, già viene posto uno scarto rispetto

alla rappresentazione ordinaria del pensiero; nella nostra concezione ordinaria del

pensiero infatti teniamo distinti prodotto, attività e soggetto pensante.

Dopo aver affermato questi due primi aspetti, il pensiero come attività e il

pensiero come prodotto, Hegel si concentra dunque a relarli tra loro: il prodotto,

l’universale, è «la determinatezza o forma del pensiero». Dunque: il pensiero è un’attività

dello spirito, quest’attività è produttrice, ha cioè un prodotto che è esso stesso pensiero; il

pensiero come prodotto dell’attività è la «determinatezza o forma» del pensiero, ossia: è

una determinatezza o una forma, e queste sono del pensiero; ossia: il pensiero come

attività produce una determinatezza o forma che è una determinatezza o forma del

pensiero. Un pensiero, come prodotto del pensare, non è che la determinatezza del

pensare, dell’attività del pensare. Il prodotto, o il pensiero, è dunque una determinatezza

o forma dell’attività del pensiero.

Cosa significa qui determinatezza, forma?

Innanzitutto, indica il fissarsi di qualcosa. L’attività del pensiero assume (produce)

delle determinatezze, ossia si forma. Queste determinatezze o queste forme dell’attività

del pensiero sono i pensieri, gli universali, che in questa prospettiva ancora non sono

distinti dall’attività di pensiero come attività soggettiva.

L’espressione «universale attivo» dice dunque il pensiero in entrambi questi due

aspetti. Relando così questi due aspetti del pensiero, Hegel si scosta dal paradigma che

concepisce il pensiero come attività separata o separabile dai suoi prodotti e i pensieri

come enti a sé stanti in un qualche spazio interiore o altro cui l’attività di pensiero di un

soggetto si relaziona. Il prodotto dell’attività del pensiero non è un qualcosa di esterno

all’attività che lo produce, cioè non è qualcosa di esterno dal pensiero, ma è una

determinatezza del pensiero stesso, una determinatezza dell’attività; è una determinatezza

dell’attività e dunque esso stesso attivo. Parimenti, se i pensieri sono le determinazioni

dell’attività di pensiero, non c’è un pensiero come attività al di là dei pensieri come

prodotti; il tutto del pensiero non è che in questi prodotti qualora siano questi considerati

come attivi; essi non sono che la forma, più o meno determinata, attraverso cui l’attività

si realizza. La produzione di una determinatezza da parte del pensiero non è che il

144

determinarsi immanente di questa stessa attività. In questo, il pensiero è soggetto:

essendo attivo, il pensiero dà a se stesso forma, determinazione; agisce su di sé; e questa

determinazione è il prodotto del pensiero169.

Il pensiero come soggetto è pensante e – dice Hegel - «l’espressione semplice del

soggetto esistente come pensante è: Io».

Ordinariamente ci rappresentiamo l’io come il luogo o il proprietario di un certo

numero di facoltà o capacità distinte. Un io può desiderare, rappresentare, immaginare,

ricordare, ecc. Tutte queste attività appartengono o sono svolte da ciò che chiamiamo io,

e il pensiero, non è rappresentato che come una attività o facoltà tra queste, come

un’attività o facoltà dell’io tra altre. Hegel rifiuta questo modo di concepire tanto l’io

169 La traduzione italiana presenta un po’ di difficoltà di comprensione delle proposizioni che

seguono la determinazione del pensiero come universale attivo, proposizioni volte a determinare un

ulteriore rapporto tra il pensiero come attività e il pensiero come prodotto. In esse Hegel commentando la

determinazione del pensiero come universale attivo dice nella traduzione di Verra: «l’universale che si

attesta con i fatti, in quanto il fatto, il prodotto, è proprio l’universale». In tedesco l’universale attivo è das

tätige Allgemeine, il fatto è die Tat; il fatto è il portato fuori, il risultato, il prodotto. Se il fatto è il

prodotto, allora il fatto dell’attività del pensiero è la determinatezza del pensiero, ossia la determinatezza

di quell’attività. Per «fatto» (Tat), dunque, non bisogna intendere nient’altro che la determinatezza

dell’attività (Tätigkeit) (nella Annotazione quando parla di «fatti» nel senso usuale, usa il termine latino

Facta), così come in italiano «fatto» al livello più astratto non è che il prodotto o la determinatezza del

«fare». In questo modo il fatto, in quanto determinatezza dell’universale attivo, è ciò che “testimonia”

dell’universale attivo. Il pensiero «si testimonia con i fatti», anche qui la traduzione sembra fuorviante:

sich betätigende, sembra meglio renderlo con si aziona, si mette in azione, è attivo, svolge un’attività.

Cosa significa e implica ciò? Il pensiero non si presenta se non nelle sue determinazioni. Per quanto

corretto possa essere, mi sembra che si allontani un po’ troppo dal testo. Più vicino mi sembra Croce: «e

propriamente quello che fa se stesso, giacché il fatto, il prodotto, è appunto l’universale». Questa

traduzione presenta il vantaggio di rendere sich betätigende con «fa se stesso» e di rendere in modo più

immediato la relazione con il fatto come determinatezza dell’attività. Mi sembra da ritradurre, in tedesco

è: « Das Denken als die Tätigkeit ist somit das tätige Allgemeine, und zwar das sich betätigende, indem

die Tat, das Hervorgebrachte, eben das Allgemeine ist » e potrebbe essere reso: «Il pensiero come attività

è quindi l’universale attivo, e precisamente, quello (l’universale) che si aziona (si mette in azione, è

attivo), mentre il fatto, il risultato (ciò che risulta), è proprio l’universale». Rendendo indem con

l’avversativo mentre, al posto del quanto del Verra o del giacché del Croce, si mostra che si sta trattando

il pensiero ancora sotto i due differenti aspetti dell’attività (facoltà) e dell’universalità (prodotto).

145

quanto il pensiero. Il pensiero, secondo Hegel, non può essere semplicemente un’attività

tra le altre, ma deve occupare un posto speciale per la costituzione del sé. Hegel non si

stanca di ripetere che il pensiero è ciò che distingue l’uomo dall’animale ed che esso è

implicato in ogni stato o attività dell’uomo.

Tuttavia non è molto chiaro come ciò si debba intendere. In primo luogo, che il

pensiero penetra ogni attività umana significa che il pensiero non è un’attività posta, per

un qualche privilegio accordato all’uomo, in aggiunta ad un apparato di proprietà e

attività che rimane quel che è. Ossia, non è da considerarsi come un qualcosa di calato

dall’alto su un organismo per il resto già formato. Questo suo non essere in aggiunta

indica che sulla sua base si istituisce un altro sé rispetto a quello animale. Che le

differenti facoltà o attività siano penetrate da esso, significa che queste ricevono una

diversa strutturazione a partire dal pensiero. Tuttavia su come ciò accada e in quale

misura, Hegel non è affatto chiaro. A volte sembra che il pensiero attraversi ogni

sensazione, ogni sentimento, ecc. dell’uomo, altre - tesi meno forte e più condivisibile -

che il pensiero può attraversare le sensazioni, i sentimenti, ecc., e attraversandoli li rende

umani. I sentimenti della morale, del diritto o i sentimenti religiosi, su cui Hegel si

concentra, e con i quali esemplifica questa tesi, indubbiamente non esauriscono l’intero

campo degli stati mentali dell’essere umano. Per sostenere una tale tesi, perlomeno nella

sua versione forte, Hegel avrebbe dovuto mostrare come il pensiero permei anche stati

più primitivi quali la paura, lo spavento, il panico nella loro immediatezza; stati che per

quanto possano essere permeati dal pensiero, una volta che intervengano in essi elementi

mediativi, non è certo evidente che lo siano nella loro immediatezza. Non è affatto

balzana l’idea che tali stati, nella loro immediatezza, l’uomo li condivida con gli animali.

Nonostante questa ambiguità a Hegel non sembra servire sostenere la tesi forte. Ciò che

gli interessa è sostenere che gli stati, siano questi di sentimento, intuizione, ecc., che

riconosciamo come stati umani, sono umani proprio in quanto permeati di pensiero. Il

pensiero è ciò che rende umano l’umano. Stati come la paura, lo spavento, il panico, per

quanto nella loro immediatezza possono essere stati che condividiamo con gli animali,

nell’uomo possono divenire fonte di altro, possono cioè essere mediati dal pensiero,

soprattutto attraverso pratiche di attenzione e di tipo ripetitivo, e possono essere inseriti

in strutture cognitive che le rendono significanti.

146

Come accennato, Hegel fornisce anche un’interpretazione forte della tesi in

questione: nell’uomo tutti gli stati, anche quelli più primitivi, anche quelli che saremo

propensi a considerare condivisi con gli animali, sono permeati dal pensiero.

Tale tesi è sostenuta, questa volta, a partire dal pensiero come soggetto pensante:

l’Io è il pensiero come soggetto, e in quanto Io sono al tempo stesso in tutte le mie

sensazioni, rappresentazioni, in tutti i miei stati ecc., il pensiero è presente dappertutto e pervade

tutte queste determinazioni come categoria (Enz. § 21 A).

Questa seconda interpretazione della tesi della pervasività del pensiero rispetto

agli altri stati mentali si basa sulla considerazione che tali stati, sensazioni, intuizioni,

ecc., sono tutti stati di un singolo io. È un singolo io che ha ed è cosciente di tutti questi

stati. Dunque ciò che a Hegel serve è dimostrare che l’io è intimamente legato al

pensiero, in modo da poter affermare che se l’io pervade tutti gli stati in quanto ad esso

attribuibili, essi sono pervasi con ciò dallo stesso pensiero.

Il termine “io” è anzitutto considerato da Hegel come un universale. Esso si

applica ad ogni io e non distingue l’uno dall’altro. A differenza degli altri termini

universali, è un termine che viene considerato esprimere un universale al modo di altri

deittici quali “questo”, “quello”, “qui”, “ora”. Termini, cioè, incapaci di per sé ad

individuare i loro denotati in quanto esprimono «tutti quei singolari e ciascuno di essi»

(Enz. § 20 A). Con il termine “io” «intendo me come questo che esclude ogni altro; ma

quello che dico, ossia io, lo è pure ciascuno, un io che esclude tutti gli altri da sé» (Enz. §

20 A). L’io è dunque un universale, ma Hegel distingue pure la sua universalità dalla

mera universalità astratta. Quest’ultima viene resa anche con il termine “comunanza”.

L’universalità astratta o comunanza è innanzitutto caratterizzata per il fatto di essere

un’universalità estrinseca rispetto a ciò che la esemplifica. Essa è il prodotto di una

riflessione soggettiva esterna su un gruppo di individui, tale operazione consiste nella

focalizzazione di un aspetto che accomuna differenti singoli scartando o astraendo dagli

elementi per cui essi si distinguono. In questo modo, sulla base di un elemento comune

viene creata una classe di elementi; differenti elementi sono raggruppati attraverso un

legame. Tale legame è astratto o estrinseco in quanto scelto solo attraverso l’eliminazione

delle differenze. Spesso, per esemplificare la differenza tra l’universalità esteriore e

147

l’universalità concreta – l’universalità che presenta un legame interno con ciò che

l’esemplifica -, Hegel porta l’esempio dell’uomo. Se consideriamo diversi individui,

Caio, Tizio, Sempronio, ecc., il loro essere uomini non è soltanto un qualcosa che è loro

comune, ma è il loro universale, il loro genere. Questi individui non sarebbero affatto

uomini senza questo loro genere. Nel caso dell’universalità astratta, che Hegel chiama

anche superficiale, le cose stanno diversamente: essa è solo ciò che spetta a differenti

singolari e ne è l’elemento comune. Per questo l’universalità astratta è chiamata anche

comunanza. Gli uomini, per esempio, a differenza degli altri animali sono accomunati dal

fatto di avere i lobi dell’orecchio; tuttavia, se un uomo non avesse i lobi dell’orecchio,

non sarebbe, dice Hegel, «intaccato quello che è altrimenti il suo essere, il suo carattere,

le sue capacità, ecc.; non avrebbe alcun senso dire che Caio potrebbe anche non essere

uomo, e tuttavia essere valoroso, colto, ecc.» (Enz. § 175 Z). Ciò che il singolo individuo

è nella sua particolarità, lo è solo in quanto è innanzitutto uomo in universale. Questo

elemento universale non è qualcosa di esterno ed ulteriore rispetto ad altre proprietà

astratte che possono competere all’individuo – il suo essere valoroso, colto, p.e. -, ma è il

carattere che «compenetra ed include in sé ogni particolare» (Enz. § 175 Z)

dell’individuo di cui è l’universale.

L’esteriorità dell’universale astratto, dunque, caratterizza il rapporto tra

l’universale e ciò che lo esemplifica. Che tale rapporto sia esteriore significa che è posto

dall’esterno, ossia da un soggetto che riflette su di esso. La proprietà così attribuita

all’individuo particolare, dunque, non è che una determinazione della riflessione.

Un’universalità attribuita a qualcosa da un soggetto.

Diversamente starebbero le cose relativamente all’universalità concreta; essa

presenterebbe un legame intrinseco con la struttura ontologica di ciò che la esemplifica.

In altri termini, tale universale svolgerebbe una funzione costitutiva tanto ontologica

quanto epistemologica nell’individuazione e riconoscimento dell’ente che lo esemplifica.

Gli stati e le attività mentali, inoltre, differiscono dalle proprietà delle cose sotto

diversi rispetti; essi non sono innanzitutto solo stati ma stati di coscienza di oggetti –

utilizzando il termine “oggetto” nel senso più ampio possibile -: immaginiamo qualcosa,

percepiamo qualcosa, intuiamo qualcosa, ecc. L’io, a partire da questa prospettiva è

caratterizzato da Hegel come il «vuoto, il ricettacolo per tutto e per ogni cosa, per il quale

148

tutto è e che conserva tutto in sé». In questo modo, più che essere un aspetto che

accomuna elementi differenti è l’universalità che contiene elementi differenti, siano

questi gli oggetti di coscienza che gli stessi stati mentali.

Certamente dunque l’io può essere considerato un universale astratto: tutti gli

uomini «hanno in comune con me il fatto di essere degli “io”, come è comune a tutte le

mie sensazioni, rappresentazioni ecc., di essere mie»; tuttavia, questa concezione dell’io

come universalità astratta – che Hegel come abbiamo visto, indica come l’ultima

determinazione del pensiero della filosofia critica -, secondo Hegel non coglie

l’universalità propria dell’io come «puro essere per sé in cui viene negato e superato ogni

particolare» (Enz. § 24 Z 1). Hegel indica l’io non solo come un termine meramente

negativo: l’io astratto dal particolare, ossia dal particolare rappresentare, sentire, intuire -

astrazione grazie alla quale ci è possibile, nella concezione ordinaria di noi stessi,

rappresentarci come gli stessi individui nel tempo -, ma come la pura relazione a se stesso

per la quale il pensiero è presente in modo del tutto puro (Enz. § 24 Z 1)170. Rispetto

all’universalità astratta dalle differenti attività o stati mentali, l’io è ciò che permane

come lo stesso nei differenti stati e attività: io sono io, se penso, se sento, se intuisco, ecc.

e in ogni mio pensare, sentire, intuire, sono io. Tuttavia, esso non è il substrato di questi

differenti stati o attività come potrebbe essere un oggetto il substrato delle sue differenti

proprietà. La relazione a sé è essenziale all’io, esso si costituisce in quanto relazione a sé,

in quanto coscienza di sé. L’operazione di astrazione con cui il pensiero si stacca da tutti i

particolari per rapportarsi a sé puramente non può dunque essere considerata solo

un’operazione vuota e formale, ma si tratta di un esercizio cognitivo, o per meglio dire

spirituale, che costituisce tanto l’io quanto il pensiero puro. Hegel regolarmente associa

tale operazione con la libertà. Ordinariamente, quando pensiamo, non pensiamo in

termini di puro pensiero, ma ci rappresentiamo un pensato avente contenuto empirico.

Nella logica, invece, il pensiero non pensa altro contenuto se non quello appartenente al

pensiero stesso e prodotto da esso. Avendo a che fare solo con pensieri puri «lo spirito è

puramente presso di sé, e quindi è libero, giacché la libertà è proprio questo, cioè essere

nel suo altro presso di sé, dipendere da sé, essere il determinante di se stesso». A

differenza degli impulsi, delle volizioni, in cui sono dipendente e determinato da

170 Su questi aspetti dell’io si tornerà più dettagliatamente nel prossimo capitolo.

149

un’esteriorità in quanto mosso da essa, nel pensiero, dice Hegel, «supero la mia

particolarità soggettiva, mi immergo nella cosa, faccio agire il pensiero per sé, è un

cattivo modo di pensare se aggiungo qualcosa di mio» (Enz. § 24 Z.2)

Secondo queste considerazioni, non solo il termine “io” è applicabile a ciascun

soggetto, ma ciascun soggetto in quanto puro io, ossia «puro essere per sé in cui viene

negato e superato ogni particolare» (Enz. § 24 Z.1), non si distingue qualitativamente

dagli altri soggetti. Hegel pone in contrasto l’agire libero del pensiero puro, o dell’io, con

quello degli altri stati o attività cognitive, quali la rappresentazione, il desiderio, la

volizione. Ciò che differenzia un io dall’altro io sono solo i suoi particolari stati o

attività171.

(a) Gli stati o le attività mentali non sono identici all’io, ma sono stati o attività

dell’io. Essi sono contingenti, cioè sono un qualcosa che capita ad un io, un qualcosa che

può essere come può non essere, mentre il pensiero puro non è un attività che io posso

esercitare o subire, i pensieri puri non sono qualcosa che ho, ma, secondo Hegel sono

identici o ciò che forma l’io puro.

(b) Gli stati o le attività mentali sono intenzionalmente indirizzate su qualcosa

d’altro dall’io. Quando desidero, o mi rappresento qualcosa, o sono interessato a

qualcosa, desidero, mi rappresento, sono interessato a qualcosa di distinto dall’io. Il

pensiero puro, non essendo che pensiero che si relaziona a sé, io, non è pensiero d’altro

da se stesso; il pensiero puro è cioè pensiero di pensiero, dove il pensiero pensato è esso

stesso un pensiero non empirico. Anche gli stati o attività mentali possono essere attività

di secondo ordine. Posso desiderare, per esempio, di avere o non avere desiderio di

mangiare; tuttavia lo stato o attività di prim’ordine, in questi casi, è sempre intenzionato a

qualcosa di determinato: non desiderio di desiderio simpliciter, ma desiderio del

desiderio di qualcosa di determinato.

(c) Gli stati o attività mentali che sono intenzionalmente indirizzati sono suscitati,

stimolati da qualcosa di esterno all’io. Con ciò Hegel, naturalmente non intende sostenere

171 «Codeste determinazioni dell’animo nostro e del nostro spirito [i nostri sentimenti, istinti,

passioni, interessi] ci si mostrano subito quali altrettanti particolari di fronte a quell’universalità che noi

abbiamo la coscienza di essere, nella quale è riposta la nostra libertà; tanto che noi riteniamo di esser fuor

del nostro potere, in coteste particolarità, di essere cioè dominate da quelle» WdL 14.

150

che ogni azione che non sia di puro pensiero è determinata dalle circostanze che

stimolano uno stato o un’attività mentale in una certa direzione. L’uomo diversamente

dagli animali può astrarsi da ogni stato dato172. Ciò che Hegel intende evidenziare è che

l’azione compiuta attraverso la sottomissione ad uno stimolo esterno, è comunque

un’azione non completamente autonoma, proprio in quanto si tratta di una sottomissione

all’autorità di circostanze esterne.

(d) Gli uomini differiscono l’uno dall’altro non in quanto io puri, e dunque non in

quanto pensano puramente, ma secondo il rispetto dei loro stati o attività mentali, che

come abbiamo visto nei punti precedenti sono largamente dipendenti dalle circostanze

esterne e dunque dalle loro variabili.

Come si può evincere da questi punti la libertà è paradossalmente associata da

Hegel non alla particolarità dei singoli, ma alla loro conformità, cioè alla loro forma

universale.

Ora possiamo chiarire l’espressione «pensiero come attività del particolare», con

la quale Hegel caratterizzava il modo di concepire il pensiero della terza posizione

rispetto all’oggettività nel senso soggettivo del genitivo caratterizzando la particolarità

del soggetto del pensiero, non come la particolarità di una specie animale – secondo

l’ipotesi interpretativa di Westphal -, ma come la particolarità o idiosincrasia di un io

assorbito dai suoi stati o attività mentali, e di cui il pensiero non è che un’attività

particolare tra altre.

Inoltre, ora, possiamo pure fornire qualche considerazione conclusiva

relativamente alla tesi per cui ogni nostro stato o attività è permeato di pensiero. Essa

sembra debba essere interpretata secondo due sensi differenti, da un lato il pensiero

sarebbe implicato in ogni nostro stato o attività mentali in quanto questi sono stati o

attività di coscienza dell’io, in cui il pensiero è presente nella relazione a sé. Tuttavia non

è affatto ovvio come ciò possa corrispondere alla tesi per cui ogni stato o attività mentale

sia permeata di pensiero. Un secondo senso della tesi riguarda la strutturazione che viene

operata dal pensiero sugli stati e sulle attività mentali. Tale seconda interpretazione, però,

se spiega cosa significa che tali stati o attività possano essere permeati dal pensiero, non

172 «L’uomo inteso come ciò che è affatto indeterminato, sta al di sopra degli stimoli e li può

determinare e porre come suoi» RPh § 11 Z.

151

rende conto dell’asserzione per la quale tutti gli stati o attività mentali sono permeati dal

pensiero. Su ciò mi sembra, Hegel presenti un’ambiguità di fondo non decidibile sulla

sola base testuale.

2. Pensiero sulla cosa e pensiero della cosa

La differenza tra il pensiero come attività del particolare e pensiero come attività

dell’universale viene ulteriormente declinata da Hegel come differenza tra il pensiero

sulla cosa e pensiero della cosa, articolandola dunque rispetto alla spinosa questione della

soggettività o oggettività del pensiero.

Nei paragrafi che compongono il Concetto preliminare della scienza della logica,

Hegel in pochissime battute concentra la problematicità delle questioni relative al

pensiero oggettivo. Questa può essere riassunta in pochi punti:

a) riflettere significa operare una trasformazione nel modo in cui il contenuto della

coscienza è nella sensazione, intuizione, rappresentazione;

b) attraverso tale trasformazione «viene alla luce la vera natura della Cosa»;

c) ma poiché tale trasformazione è una mia attività, la vera natura della Cosa «è

pure un prodotto del mio spirito».

Si pone dunque il problema di come la vera natura della Cosa possa essere tale ed

essere al contempo un prodotto del mio spirito; in altre parole come essa possa venire alla

luce, se questo venir alla luce è un prodotto.

Hegel, nei passi a cui faccio riferimento, è laconico. La vera natura della Cosa «è

pure un prodotto del mio spirito, e, precisamente, del mio spirito come soggetto pensante,

di me nella mia universalità semplice, come Io essente assolutamente presso di sé – o

della mia libertà» (Enz. § 23)

Secondo Hegel, di fronte alla maggiore o minore caoticità dell’esperienza pre-

scientifica del mondo, le scienze empiriche presentano un materiale ulteriormente

organizzato relativo al mondo e lo presentano all’opera di strutturazione logico-

concettuale della filosofia. Il problema diviene come attuare una tale operazione senza far

ricorso - questa la scomodità della filosofia rispetto alle altre scienze - a vincoli di

152

carattere empirico. In altri termini, dato che la molteplicità che si presenta nel mondo può

essere organizzata in differenti modi, come garantire che ciò che l’ordine prodotto mostri

il mondo piuttosto che solo immaginarlo o riprodurlo? Ciò che è richiesto, cioè, è

l’oggettività, ossia che l’ordine attraverso il quale il mondo viene organizzato si riferisca

proprio al mondo. In altri termini ancora, cosa garantisce che la visione del mondo così

prodotta non sia solo una visione sul mondo, ma una visione del mondo, ossia che le

nostre credenze sul mondo corrispondano alla realtà oggettiva?

La corrispondenza delle nostre credenze sul mondo con la realtà richiede

oggettività. Tale oggettività, nei passi che stiamo esaminando, viene spiegata nei termini

dell’universalità del pensiero, dell’universalità su cui nel paragrafo precedente ci siamo

soffermati relativamente all’espressione «pensiero come attività dell’universale» e

all’universalità dell’io. Tale universalità è da Hegel articolata secondo la forma e secondo

il contenuto del pensiero. Secondo la forma del pensiero essa corrisponde ad una sua

sorta di desoggettivazione, riconducibile per differenti aspetti all’oggettività come

intersoggettività. Secondo il contenuto riguarda l’essere immerso del pensiero nella Cosa

e nelle sue determinazioni.

3. L’universalità del pensiero come aspetto formale del pensiero oggettivo

Secondo l’aspetto formale dell’oggettività così intesa il soggetto empirico

particolare non può aspirare ad essere il soggetto di un sapere che sia oggettivo. Il suo

sapere è sempre un sapere affetto dall’accidentalità delle variabili che ne definiscono la

particolarità, ossia è sempre un sapere tra altri: una visione o concezione della cosa tra

altre visioni o concezioni della cosa. Il soggetto empirico particolare deve compiere

un’operazione di desoggettivazione, operazione che si manifesta nel «voler pensare

puramente», consistente nell’eliminazione degli elementi di accidentalità che intaccano la

sua esperienza conoscitiva. In questo senso di oggettività richiesta al pensiero, non si ha

dunque un’uscita del pensiero dalla sfera soggettiva per un presunto al di là: il pensiero è

sempre pensiero di un soggetto. Il pensiero del soggetto può cogliere il vero della cosa, e

questo vero della cosa è l’oggettivo, ma ciò che coglie il pensiero come oggettivo può

153

essere solo a sua volta pensiero, un prodotto dell’attività del pensiero. Ciò che della cosa

può essere oggettivo, la sua verità, è solo per il pensiero e lo può essere, nella forma

dell’oggettività, solo se universale173.

L’oggettività del pensiero in questo primo senso non si riferisce alla presenza di

pensieri e di un’attività del pensiero al di fuori della sfera del mentale, come potrebbe

essere nella vulgata platonica delle idee, presenza che l’uomo, e soprattutto il filosofo

dovrebbe fare a sé. Il pensiero è oggettivo, formalmente, quando il soggetto che pensa si

comporta come un io astratto, ovvero come un io che è uguale a tutti gli io. I singoli

soggetti pensanti, cioè, non differiscono, secondo Hegel, in rispetto al loro essere

pensanti, ma, come si è visto, in rispetto alle loro percezioni, ai loro desideri, alle loro

opinioni, ossia in rispetto alle forme determinate di coscienza di un contenuto differenti

dal pensiero. In queste forme di coscienza che sono i differenti stati o attività mentali del

soggetto il rapporto conoscitivo è un rapporto segnato dalla parzialità determinata dalla

particolarità e accidentalità che le affetta. Il soggetto come puro io o puro pensiero non è

determinato da questa o quella particolarità, ossia non agisce sulla base dei pregiudizi, dei

presupposti, che determinano la particolarità del suo essere soggetto empirico. Questi

pregiudizi e presupposti, che ne definiscono la particolarità, sono sospesi, trattati come

pregiudizi e presupposti tra altri: ad una particolarità è sempre opponibile un’altra

particolarità. L’accesso ad un pensiero puro da parte del soggetto finito con la necessaria

sospensione dell’affezione della particolarità dei suoi stati o attività, non è affatto cosa

ovvia. Tuttavia, se l’universalità pura del pensiero o del sé può non essere accettata se

concepita come uno stato cui si potrebbe conseguire, essa può apparire accettabile come

processo di autocorrezione del pensiero, che si manifesta già al livello delle scienze

empiriche. A ciò corrisponde l’esigenza del compiuto scetticismo o completa assenza di

presupposizioni, che si compie «nella decisione di voler pensare in modo puro» (Enz. §

78 A).

173 «Quando un uomo si appella, a proposito di qualcosa, non alla natura e al concetto della Cosa, o

almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al proprio sentimento, non v’è nient’altro da fare che

lasciarlo stare; in questo modo egli infatti si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, chiudendosi

nella propria isolata soggettività, nella sua particolarità» Enz. § 447 A.

154

4. Il “pensiero della cosa” come aspetto contenutistico del pensiero oggettivo

Come accennato nei paragrafi dedicati alla trattazione della terza posizione del

pensiero rispetto all’oggettività, la particolare importanza che Hegel attribuisce a Jacobi

rispetto alla filosofia risiede tanto nell’individuazione delle insufficienze di un metodo

quanto nella posizione di un compito. Con il contrasto tra “pensiero sulla cosa” e

“pensiero della cosa”, Hegel, riprendendo la critica di Jacobi, ha di mira un particolare

modo di procedere nell’ambito conoscitivo, il modo di procedere che Jacobi aveva

individuato a partire dall’operare delle scienze della natura, e che Hegel in generale

estende all’intero atteggiamento di pensiero della seconda posizione rispetto

all’oggettività174. Ossia, il paradigma, più meno consapevolmente assunto, della

conoscenza come costruzione175. Con paradigma costruzionista della conoscenza intendo,

generalmente, e il concepire la conoscenza come un’attività di costruzione operata dal

soggetto sulla base di materiali ad esso esterni e la pratica conoscitiva che opera, anche se

inconsapevolmente, in tale modo. Conosco qualcosa solo quando sono in grado di

ricostruirlo mentalmente176. Ciò che sono in grado di ricostruire mentalmente sono in

grado di farlo, secondo il paradigma criticato da Jacobi e Hegel, solo attraverso rapporti

dimostrabili e relazioni concettuali di tipo intellettualistico, ossia finiti e procedenti da

condizionato a condizionato. In altri termini comprendiamo qualcosa quando la possiamo

174 Lo stesso Jacobi sottopone anche Kant a questa critica, cfr. per esempio Cose divine: «il nocciolo

della filosofia kantiana sta nella seguente verità elevata alla più completa evidenza dal suo proprio

fondatore: noi concepiamo un oggetto soltanto in quanto siamo in grado di trasformarlo in un contenuto

di pensiero, di produrlo nell’intelletto» (JACOBI F.H., Le cose divine e la loro rivelazione, in JACOBI

F.H., Idealismo e realismo, trad. it. Bobbio,Torino 1948, pp. 229-284, pp. 237-38). 175 Per il concetto di costruzione in Hegel cfr. GAIARSA A., Nota sul concetto di costruzione, in

Hegel, Logica e metafisica di Jena (1804-1805), a cura di CHIEREGHIN F., pp. 429-443, Trento 1982. 176 Per la presenza di questa critica in Jacobi e per come essa si basi su una critica al modello

meccanicistico cfr. VERRA V., F.H. Jacobi. Dall’illuminismo all’idealismo, Torino 1963, pp. 243-6.

Sulla conoscenza come costruzione si veda per esempio JACOBI F.H., Über die Lehre des Spinoza in

Briefen an Herrn Moses Mendelssohn, in JACOBI F.H., Werke, vol. IV.1, a cura di G. Fleisher, Leipzig,

1812-1825, p. 211.) in cui si afferma: «quando la ragione genera oggetti, si tratta di fantasmi»; cfr. anche

VERRA V., F.H. Jacobi. Dall'illuminismo all'idealismo, op. cit., p. 165.

155

derivare dalle sue cause prossime, ossia dalle sue condizioni immediate. Questo

riferimento alle cause prossime è ciò per cui il paradigma costruttivista si mostra basato

sul modello meccanicistico del conoscere: la costruzione mentale dell’oggetto che

comprendo avviene attraverso il reperimento di connessioni di tipo meccanico (cause

prossime). Lo stesso Jacobi fa risalire tale modello a Pascal e Vico, di quest’ultimo in

particolare cita: «noi dimostriamo la geometria perché la facciamo; se potessimo

dimostrare la fisica, la faremmo»177. Poiché per comprendere l’oggetto devo poter

produrlo, l’oggetto è ridotto ad artefatto. Tanto la critica di Jacobi quanto quella di Hegel

al modo di procedere dell’intelletto astratto e a questo paradigma costruttivista muovono

dalle difficoltà che questo modo di procedere riscontra nei casi di “enti” non riducibili a

oggetti artefattuali, primi fra tutti lo spirito e gli organismi viventi. In una battuta: il

conoscere nel paradigma costruttivista, che si muove sulla base del modello dell’oggetto

come artefatto, attraverso connessioni di tipo meccanico, cause e condizioni prossime, si

trova di fronte all’ostacolo della connessione delle parti nella totalità dell’oggetto che,

essendo una connessione meccanica, può presentarsi solo come una connessione esterna,

ricevuta dall’esterno. Mentre nell’artefatto l’unità viene conferita dal soggetto sulla base

della funzione per la quale esso è prodotto, l’ente di natura richiede un’unità determinata

da connessioni reciproche ed interne all’ente stesso. Comprendere l’ente di natura

secondo questa concezione costruttivista del conoscere implicherebbe di per sé mancarlo

in quanto ente di natura, riducendolo al modello artefattuale.

A partire da quanto detto mi sembra si possa comprendere la distinzione tra

“pensiero sulla cosa” e “pensiero della cosa”. Per distinguere il pensiero della cosa dal

pensiero sulla cosa, Hegel afferma che il suo contenuto è «soltanto nella Cosa e nelle sue

determinazioni», che il pensiero si è «approfondito nella Cosa» (Enz. § 23 A). Ma cosa

significa che il pensiero “si approfondisce” nella Cosa? E in che senso questo si distingue

da un pensiero che pensa sulla Cosa?

Per rispondere a tali domande mi sembra utile far riferimento ad un esempio tratto

dalle Lezioni di filosofia della religione del 1827178. Secondo quanto qui si dice,

dimostrare è, in generale, mostrare una connessione. Ci sono differenti tipi di

177 Cfr. VERRA V., F.H. Jacobi. Dall'illuminismo all'idealismo, op. cit. p. 244. 178 VPhR pp. 310-311 (p. 352).

156

connessioni. Una distinzione usuale in Hegel è quella di connessioni esterne e

connessioni interne agli elementi connessi. Le connessioni meccaniche sono connessioni

esteriori. Hegel per le connessioni esteriori propone l’esempio della casa. Scopo della

casa è innanzitutto quello di fungere da riparo. Dunque, oltre alle pareti, deve avere un

tetto. La funzione della casa, quella di fungere da riparo, è ciò che connette le pareti al

tetto. Questa connessione è una connessione esteriore in quanto non riguarda né l’essere

delle pareti né l’essere del tetto. Al contempo, se tavole e travi costituiscono il materiale

delle pareti della nostra casetta di legno, che essi costituiscano tali pareti è ancora una

connessione affatto esteriore, non riguardante, cioè, il loro essere di per sé. Queste

connessioni sono connessioni imposte a ciò che viene connesso dall’esterno, da un

soggetto ad esso esterno che concepisce legno, travi, tavole, ecc. in funzione di un riparo.

Riguardo alle connessioni interiori Hegel propone un esempio geometrico. La

somma dei tre angoli di un triangolo dà due angoli retti. Questo per Hegel è «una

necessità della cosa stessa» (352). La connessione tra gli elementi, cioè, non è esteriore

rispetto ad essi, poiché quando è posto uno di essi, è al contempo posto anche l’altro.

Come si è più volte sottolineato, le scienze – in questo caso la geometria – possono

raggiungere i «pensieri delle cose», ovvero possono fornire la struttura della cosa

pensata, concettualizzata, tuttavia tanto la modalità con cui pervengono alla connessione

degli elementi quanto quella con cui giustificano i propri risultati, ossia la modalità di

produzione delle prove, risultano per Hegel insufficienti per una completa realizzazione

della libertà del pensiero.

Anche nelle Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, la geometria è presa come

l’esempio perfetto di questo modo di procedere. Sebbene i risultati a cui tale scienza

perviene, i rapporti di grandezza, convengano all’oggetto stesso, ossia le determinazioni

con cui pensiamo la cosa sono determinazioni della cosa stessa, il procedimento

attraverso cui essa vi perviene, ossia attraverso cui tale scienza guadagna i rapporti dei

suoi oggetti, le connessioni dei loro elementi, avviene nel modo in cui noi lo compiamo,

e dunque nel procedimento costruttivo i rapporti compaiono come noi li produciamo

nella nostra mente, e non come si danno nella cosa179. E al contempo, la giustificazione

179 Così per esempio nella Fenomenologia dello spirito: «il movimento della dimostrazione

matematica non appartiene all’oggetto, ma è un operare esteriore alla cosa. Ad esempio, la natura del

157

del risultato così raggiunto, la dimostrazione, ossia il procedimento che fa emergere la

necessità per le connessioni interne alla Cosa, si mostra anch’essa distinta dalla struttura

oggettiva della Cosa in quanto segnata dai presupposti dai quali muove e dalla

particolarità degli scopi e degli interessi di chi la conduce.

Cosa significa, tuttavia, che il procedimento tramite cui perveniamo alle

connessioni degli elementi dell’oggetto è un procedimento che non avviene secondo le

connessioni stesse degli elementi della Cosa ma secondo i rapporti che istituiamo nelle

nostre operazioni mentali?

Senza entrare nei dettagli, è possibile fornire una risposta a tale questione

prendendo in considerazione il metodo analitico, metodo con il quale Hegel caratterizza

l’atteggiamento dell’intera seconda posizione e soprattutto delle scienze empiriche (Enz.

§ 38 Z).

Secondo Hegel l’uso dell’analisi condotto dall’empirismo conduce ad

un’ontologia atomista in cui le cose sono riducibili ad una molteplicità di proprietà. Tale

ontologia si basa sul metodo analitico per la scomposizione degli individui in una

pluralità di universali, le loro proprietà, che ne costituirebbero la struttura atomica. Gli

esempi di Hegel sono famosi: dal chimico che mette un pezzo di carne nell’alambicco e

che in diversi modi lo “tortura”, fino a scoprire che è costituito di azoto, carbonio,

idrogeno, ecc. (Enz. § 227 Z), alla scomposizione di un oggetto paragonato ad una cipolla

cui si tolgano le tuniche (Enz. § 38 Z.) L’analisi è volta a ricavare dall’oggetto concreto

degli elementi universali. Per far ciò disgiunge le determinazioni dell’oggetto, le astrae le

une dalle altre conferendo ad esse la forma dell’universalità. Attraverso l’analisi, dunque,

non si lasciano gli oggetti e le loro determinazioni quali sono, ma si trasforma il concreto

in astratto, e l’astratto è tenuto nel suo isolamento rispetto alle altre determinazioni e

dunque come indifferente rispetto ad esse.

triangolo rettangolo non si dispone essa stessa così, come si rappresenta nella costruzione necessaria a

dimostrare quel teorema, esprimente il rapporto del triangolo medesimo» (PhdG p. 32 (97)), e più oltre:

«[la costruzione] non scaturisce dal concetto di teorema, anzi viene imposta; e si deve ciecamente

ubbidire alla prescrizione di tirare certe linee, mentre se ne potrebbero tirare infinite altre: tutto questo con

una ignoranza pari soltanto alla fede che ciò andrà a buon fine per la condotta della dimostrazione» (ivi,

p. 33 (99)).

158

Se rispetto alla natura inorganica Hegel riconosce una qualche legittimità a questo

modo di procedere – posso scomporre il sale da cucina nei suoi elementi, ed affermare

che è composto da acido cloridrico e sodio180 -, altrettanto non vale per la natura

organica. È il vivente che viene assunto da Hegel come paradigma avanzare la critica a

questo modo di procedere e alla sua ontologica. Il vivente infatti, una volta scomposto

nelle sue determinazioni viene perso in quanto vivente, di esso non restano che

determinazioni morte. Il problema principale cui il metodo dell’analisi si trova a far

fronte dunque è quello di come ricomporre in unità le determinazioni astratte ricavate per

scomposizione. L’unica unità che è in grado di raggiungere è l’unità astratta

dell’aggregato, in cui le proprietà, o determinazioni della cosa, sono poste l’una accanto

all’altra. Unità, dunque, incapace di essere quell’unità delle differenze che per Hegel

costituisce la struttura formale dell’oggetto. Spesso, facendo riferimento a Goethe, Hegel

parla di tale legame come di un «legame spirituale»181. Le analisi hegeliane della logica

soggettiva della Scienza della logica, propongono un modo alternativo di concepire

l’universale, per il quale questo costituisce la natura essenziale dell’individuo come un

tutto, unità che non può essere ridotta ad una collezione di parti. Oltre al problema

dell’unità delle determinazioni distinte - problema non facilmente aggirabile vista

l’ontologia atomista che è presupposta, ossia visto che il problema dell’individuazione

dell’unità può essere riproposto ad ogni livello dell’analisi - la soggettività del procedere

analitico si riscontra fin nella selezione delle determinazioni da astrarre. Selezione che è

dipendente dagli scopi della ricerca in cui essa è condotta e dagli interessi del ricercatore

che la conduce e dunque dai presupposti a partire da cui la ricerca si muove.

Quando all’espressione “pensiero sulla cosa” Hegel oppone l’espressione

“pensiero della cosa”, dunque, si può concludere che Hegel intende proporre un pensiero

oggettivo non tanto come un pensiero che sia al di là della sfera mentale del soggetto e

che sia nel mondo, ma, in contrapposizione a quello atomistico-analitico, un modello

ontologico per intendere la struttura costitutiva delle cose quanto il modello

epistemologico ad esso appropriato. Essi si baserebbero su una concezione

dell’universale essenzialistica e realistica, nei termini hegeliani: l’universale concreto.

180 Cfr. Enz § 126 Z. 181 Cfr. Enz § 38 Z.

159

In altri termini l’espressione “pensiero oggettivo” non designa un pensiero al di là

del soggetto pensante, essa, come lo stesso Hegel nota, è un’espressione ossimorica e

deve essere presa innanzitutto in senso polemico tanto rispetto a posizioni di idealismo

soggettivo, ossia posizioni per le quali l’attività del conoscere è considerata quale un

unilaterale porre determinazioni di pensiero al di là del quale la cosa in sé rimane

nascosta, quanto rispetto a posizioni di realismo ingenuo, ossia posizioni per le quali il

pensiero soggettivo non è che una vuota identità che riceve dal di fuori le proprie

determinazioni (che potrebbero essere figurato con l’immagine della tabula rasa).

Indicando innanzitutto il determinarsi del pensiero in conformità all’universale concreto

che è l’essenza della Cosa, l’espressione «pensiero oggettivo» potrebbe designare quello

stesso universale concreto in virtù della corrispondenza di forma con il pensiero. Il

pensiero oggettivo dunque non è che lo stesso pensiero del soggetto in quanto si articola

secondo quanto costituisce l’oggetto stesso, e dunque in primo luogo in quanto pensa

affrancato dalle particolarità delle altre attività o stati mentali e si approfondisce nella

Cosa, ossia si libera dai propri presupposti: pensiero libero.

160

SETTIMO CAPITOLO

1. Introduzione

In questo capitolo si affronterà la teoria hegeliana del pensiero in senso soggettivo, ossia

la teoria della mente così com’è rintracciabile nel contesto della filosofia dello spirito

soggettivo dell’Enciclopedia del ’30, ponendo particolare attenzione a quello che più

volte, precedentemente, è stato indicato come il tentativo hegeliano di uscire dal corno tra

il paradigma rappresentazionalista e quello del realismo razionalista. In altri termini, si

cercherà di mostrare come Hegel operi una radicale messa in discussione della tesi

secondo cui la relazione conoscitiva del soggetto nei confronti del mondo sia

esclusivamente condotta da strumenti rappresentativi che trovano fondamento solo nel

soggetto conoscente e che fanno, dell’organizzazione razionale del mondo,

semplicemente il prodotto di requisiti categoriali ad esso imposti dal di fuori. Senza con

ciò, tuttavia, cadere in un realismo ingenuo delle relazioni razionali che determinano il

pensiero, che ne farebbe la struttura costitutiva statica e a priori del mondo. Detto

diversamente ancora, Hegel ammetterebbe tanto l’essenziale funzione conoscitiva svolta

dagli elementi rappresentativi della mente, riconoscendo con ciò un’imprescindibile

attività della mente nella relazione conoscitiva, e dunque le insufficienze del realismo

ingenuo, quanto l’insufficienza del paradigma rappresentazionalista per un’adeguata

teoria della conoscenza. Secondo Hegel, cioè, se da un lato è da riconoscere il ruolo

positivo svolto dalle attività rappresentative e dunque il ruolo attivo svolto dalla mente

nella relazione conoscitiva, dall’altro è da riconoscere pure che ogni conoscenza, mediata

esclusivamente da elementi rappresentativi, non potrebbe di diritto assurgere allo statuto

di scientificità richiesto tanto dalle discipline scientifiche particolari quanto dalla

filosofia.

Parlando in termini generali, nei capitoli precedenti è stato sostenuto che al

rappresentazionalismo, che può proporre sia una concezione del mondo per la quale non

c’è alcun ordine in natura - e quello che si riscontra in essa è imposto dal soggetto

161

conoscente attraverso le sue categorie conoscitive sotto forma di possibili teorie

esplicative sul mondo che rimangono però rispetto ad esso astratte e soggette al dubbio

scettico -, sia una posizione per la quale c’è un ordine in natura ma esso è essenzialmente

inaccessibile al soggetto conoscente, si può opporre un razionalismo spinto per il quale

esiste un ordine a priori nella natura per cui tutto, compresi gli enti particolari – la famosa

penna del Signor Krug -, può essere adeguatamente dedotto a priori da esso. Al

rappresentazionalismo, però, come pure al razionalismo spinto, si può opporre anche una

posizione più complessa per la quale esiste un ordine che trova nella natura una non

completa o imperfetta realizzazione e che nel mondo, inteso come distinto dalla mera

natura e comprendente oltre ad essa le relazioni di carattere socio-culturale, si mostra

essenzialmente aperto alla trasformazione, per lo meno nelle sue determinazioni meno

generali; un ordine cioè che sia del mondo e aperto alle trasformazioni del mondo. Ossia,

al livello epistemologico, la teoria volta alla sua formulazione deve essere essenzialmente

rivedibile sulla base delle istanze di correzione delle categorie esplicative che gli stessi

elementi di novità del mondo recano con sé. Di qui si è sostenuto l’importanza

dell’elemento auto-correttivo delle scienze e della ragione in genere. Riconoscere al

mondo un ordine, in termini hegeliani una razionalità, che non sia a priori, significa

riconoscere che la trasformazione del mondo può implicare la trasformazione delle

determinazioni del suo stesso ordine, e dunque che deve implicare delle trasformazioni

delle categorie volte alla sua formulazione.

La teoria hegeliana dell’identità di pensiero ed essere, ossia la teoria del pensiero

oggettivo, quando predica il pensiero al reale, sia questo quello della natura o quello

socio-culturale, non fa che operare un ampliamento semantico del termine “pensiero”

sulla base della possibile razionalità del pensiero, ovvero sulla base della possibilità da

parte del pensiero di giustificarsi. Come si è cercato di mostrare attraverso la

chiarificazione dei differenti modi del pensiero, questo – il pensiero - non è di per sé

razionale, ossia non lo è immediatamente. Il pensiero opera a differenti livelli e la

razionalità è, nella teoria hegeliana del pensiero, un qualcosa che deve essere da esso

raggiunto, conquistato. Le diverse forme del mentale, come abbiamo visto, recano con sé

il pensiero che, per lo più, opera in forma inconscia, come una rete categoriale i cui fili e

nodi, le sue determinazioni, si intralciano tra loro.

162

Certo, è possibile identificare la razionalità con la determinazione essenziale del pensiero,

ossia con ciò senza cui il pensiero non è, però, attraverso una tale operazione si

compierebbe solo un primo passo per l’attribuzione del pensiero alla realtà. Infatti, ciò

permetterebbe solo di affermare che tanto la realtà quanto il pensiero sono razionali,

ovvero si riconoscerebbe sia alla realtà che al pensiero una struttura di carattere razionale

– cosa che, tutto sommato, può essere riconosciuta - come lo stesso Hegel ha fatto -

implicita nello stesso lavoro delle scienze particolari. Ma da qui, ancora, perché attribuire

al termine “pensiero”, cioè ad un termine utilizzato, tanto dal linguaggio comune quanto

da quello filosofico tradizionale, esclusivamente per l’ambito mentale, ad un ambito che

mentale non è? O ancora, se la conoscenza è data dall’unità del soggetto conoscente e

dell’oggetto conosciuto, cioè del pensiero e dell’essere, ossia di universali soggettivi e di

universali oggettivi, perché chiamare questi ultimi ancora “pensiero”, ossia comprenderli

a partire da una determinazione appartenente innanzitutto al primo elemento di tale unità,

e fare così di entrambi i momenti due lati del pensiero? Anche per la semplice

comprensione, prima che per la valutazione, di una teoria del pensiero oggettivo che

voglia attribuire il pensiero tanto alla sfera mentale quanto a quella non mentale, oltre che

sostenere tra loro un’omogeneità d’ordine, la loro razionalità – intendendo in senso

generale con razionalità l’elemento strutturale d’ordine -, ossia fare della sfera mentale e

di quella non mentale due aspetti distinti di una medesima realtà, è necessario rispondere

anche alla domanda del perché chiamare questa medesima realtà “pensiero”.

Si cercherà di rispondere a questa domanda sostenendo che Hegel elabora una teoria

complessa e, per alcuni aspetti piuttosto problematica, soprattutto per la sensibilità della

filosofia contemporanea, di ciò che è una determinazione essenziale. Tale problematicità

risiede principalmente nella teleologicità con cui è concepita; teleologicità che non

sembra essere esente da elementi di carattere valoriale – si pensi, per esempio, alla tesi

dell’impotenza o dell’imperfezione della natura rispetto alla realizzazione della struttura

razionale del reale, o della priorità del pensiero e del conoscere a partire dalla quale è

organizzata la stessa filosofia dello spirito soggettivo.

163

2. Il naturalismo hegeliano: tra fisicalismo e dualismo

La prospettiva al cui interno si inserisce l’approccio qui proposto alla filosofia dello

spirito soggettivo hegeliana, cerca di sostenere che la filosofia hegeliana non presenta

alcuna rottura tra lo spirito e la natura. Secondo tale prospettiva, la filosofia hegeliana

propone una concezione dell’uomo per la quale, sebbene ciò che lo distingue dagli

animali sia il pensiero, l’uomo è compreso a partire dal contesto naturale. L’uomo, e

dunque il pensiero, sorge all’interno della natura e dalla natura182.

Con il rifiuto del dualismo tra natura e spirito, o mente e corpo, Hegel tuttavia non

sosterrebbe nemmeno la riducibilità del pensiero alle spiegazioni di tipo causale. Molto

del pensiero, come di gran parte dell’attività spirituale o dei concetti che ad essa si

riferiscono, come quelli di intenzione, di scopo, inferenza logica, ecc., non sembrano

essere riducibili, senza una grossa perdita informativa, in termini causali. In altre parole,

Hegel, secondo la prospettiva interpretativa cui mi appoggio, presenta un moderato

naturalismo che rifiuta tanto il dualismo quanto il fisicalismo183.

Per sostenere una tale posizione sembra sia necessario compiere una doppia operazione:

a) sulla natura, o meglio sulla spiegazione del naturale, e b) sullo spirito, o meglio sulla

spiegazione dello spirituale. Infatti, se si vuole evitare il dualismo, il pensiero deve essere

compreso all’interno del contesto naturale come qualcosa che sorge dalla natura, e

sembra dover essere spiegabile in termini naturalistici, ovvero nei termini delle scienze

della natura. Tuttavia, spiegare il pensiero in termini “naturalistici”, sembra implicare lo

spiegare il pensiero nei termini delle scienze della natura ossia in termini causali, con la

conseguente ricaduta nel fisicalismo.

182 PIPPIN R. B., Naturalness and Mindedness: Hegel’s compatibilism, «European Journal of

Philosophy», Volume 7, Issue 2, 1999, pp. 194-212. 183 Si veda per esempio, sul rapporto anima-corpo in questa prospettiva TESTA I., Anima e corpo

nell’Enciclopedia o il naturalismo di Hegel, in GINASI M.-GUADALUPE MASI F. (a cura di), Il

problema mente-corpo. Genealogia, modelli, prospettive di ricerca, Milano 2008, pp. 139-158. Al livello

più generale, per il problema del rapporto anima-corpo, cfr. anche WOLFF M., Das Körper-Seele-

Problem. Kommentar zu Hegel, Enzyklopädie (1830), § 389, Frankfurt a. M. 1992.

164

Il corno al cui interno si è presi, tuttavia, dipende da un presupposto di base: l’assunto per

cui spiegare qualcosa a partire dal suo contesto naturale significa spiegarlo in termini di

relazioni di causa-effetto, ossia inserirlo all’interno di un ordine causale, la cui completa

descrizione può fornire la completa spiegazione di quel qualcosa. La messa in

discussione di un tale presupposto è la condizione necessaria per assumere un

naturalismo non fisicalista.

La prima operazione che Hegel compie, dunque, riguarda la natura, e può essere indicata,

usando l’espressione di McDowell, come un «re-incantamento della natura». La seconda

operazione, invece, indicata come una naturalizzazione dello spirito, è tendente a

ricercare gli elementi naturali da cui nasce lo spirito, con l’individuazione di questi

nell’abitudine, in quanto in grado essa di far sorgere una seconda natura, e con

l’individuazione della costante presenza di elementi naturali nello spirito (le influenze

geografiche, del clima, i meccanismi dello spirito, memoria, ecc.).

Se la visione della natura prodotta dalle scienze moderne è nata come una visione

disincantata a partire dal rifiuto di considerare, nelle proprie spiegazioni, elementi

sovrannaturali e la causalità finale, questo re-incantamento della natura attua un

allargamento della spiegazione naturale ad elementi di tipo teleologico senza implicare la

reintroduzione di elementi sovrannaturali.

La questione, compare fin dall’inizio della Filosofia della natura attraverso il rilievo

dell’unilateralità e astrattezza delle due modalità con cui ci rapportiamo alla natura.

Rapporto pratico e rapporto teoretico, le nostre modalità di rapporto alla natura, non sono

che due astrazioni su una relazione fondamentale che ordinariamente abbiamo con essa.

Con l’introduzione di elementi teleologici nella spiegazione della natura, Hegel non

intende negare ciò che reputa l’effettivo passo in avanti compiuto dalle scienze moderne,

ma piuttosto produrre un suo potenziamento ampliando l’ambito d’oggetto cui le

spiegazioni naturali possono riguardare, sia nel caso di alcune spiegazioni delle scienze

naturali, come quelle relative all’organismo, sia facendo della spiegazione “naturale”

qualcosa di più ampio rispetto alla spiegazione delle scienze naturali184.

184 Cfr. ČAPEK M., Hegel and the Organic View of Nature, in R. S. Cohen, M. W.

Wartofsky (eds), Hegel and the Science, «Boston Studies in the Phiplosophy of Science», 1984 n. 64, pp.

109-121.

165

Non si tratta cioè, per Hegel, di negare l’effettivo valore esplicativo delle spiegazioni

causali nel loro ambito scientifico, quanto di riconoscere la parzialità dell’approccio

meccanicistico su cui tali spiegazioni si basano. E tanto meno restringere l’uso di tali

categorie al solo ambito fisico-meccanico, sebbene, al di fuori di esso, queste debbano,

però, assumere un ruolo ausiliario, ruolo e importanza determinati dalla loro posizione

all’interno di un ordine esplicativo più comprensivo – si pensi per esempio agli elementi

meccanici dello spirito, e alla loro importanza, quali la memoria o l’abitudine. Ciascuno

stadio, sia questo quello descritto dalla meccanica, dalla chimica, o altro, porta, anche per

i livelli più alti di spiegazione, un contributo alla comprensione complessiva del mondo.

Si tratta, dunque, di una rivalutazione della relazione causale nel senso di una messa in

discussione del suo valore prioritario nella spiegazione scientifica, per essere ricompresa

quale elemento, necessario, di un approccio di portata più vasta, principalmente

teleologico (Enz. §195).

Naturalmente, con una tale reintroduzione dei fini nella natura, Hegel non intende

reintrodurre nella spiegazione scientifica empirica quelle causalità finali la cui espulsione

dal regno della natura ha contribuito a portare alla nascita delle scienze moderne185. Per

una tale operazione però il concetto di fine ha dovuto subire una forte revisione.

Il fine introdotto in natura, per Hegel, non è un fine pensato sul modello

dell’intenzionalità o dell’artefatto, ossia un fine posto da un soggetto ad un qualcosa che

rimane sostanzialmente estraneo ad esso; esso piuttosto, al livello naturale, è il paradigma

di un tipo, genere naturale cui gli individui di quel genere tendono e in base al quale i

diversi elementi o parti che li compongono ricevono unità e si codeterminano. Questo

universale, il fine, è ciò che permette di pensare ad un qualcosa di naturale non solamente

come un aggregato di parti, una mera somma, ma come un’unità. Questo è l’universale

che Hegel chiama «universale concreto», un universale attivo all’interno di ciò di cui è

l’universale (celebre esempio: la quercia nella ghianda), ed è contrapposto all’universale

astratto che sussume sotto di sé differenti individui sulla base di una nota comune, che

indica dunque una comunanza (le cose ruvide non hanno un’essenza attiva e interna che

185 Sulla finalità intesa in senso “naturalistico”, ovvero come categoria atta a spiegare il vivente cfr.

ILLETTERATI L., MICHELINI F. (eds.), Purposiveness. Teleology between Nature and Mind, Frankfurt

2008.

166

le accomuna). Quest’universale corrisponde ad un principio di unità, che non è

ovviamente racchiuso al solo ambito naturale, che Hegel chiama anche, sulla scia di

Goethe (Enz. § 38 Z), «legame spirituale». Per cui al livello più generale, il fine è

l’elemento teleologico a partire dal quale è pensata l’unità del mondo, a partire dal quale,

cioè, si organizza in unità sistematica la comprensione filosofica del mondo.

Quest’istanza di unità cui il concetto di universale concreto risponde, all’interno dello

spirito soggettivo compare innanzitutto nella critica alla psicologica empirica.

3. Critica alla psicologia empirica

La critica alla psicologia empirica si muove interamente all’interno della critica svolta al

metodo dell’analisi, e più in particolare all’approccio meccanicista (Enz. §195ss), a cui,

già precedentemente, si è fatto accenno. Sia relativamente al rapporto corpo e anima, sia

nello spirituale relativamente ai suoi rapporti interni. Corpo e anima, in questo approccio,

vengono concepiti come cose separate e indipendenti, collegati l’uno all’altro solo da

rapporti estrinseci. Paradigmatico dell’istanza di unità avanzata da Hegel è il vivente; in

esso parti e membra non devono essere considerate solo come parti, poiché esse, le

membra, gli organi, sono ciò che sono solo nell’unità dell’organismo e il loro rapporto

alle altre membra o organi non è affatto un rapporto di indifferenza, di esteriorità. Lo

spirito, parimenti, nella psicologia empirica è analizzato nei suoi differenti fenomeni

mentali che vengono poi attribuiti a differenti facoltà o attività. Allo spirito così

analizzato manca un principio di unità intrinseco e rimane un aggregato di fenomeni e

facoltà/attività individuate e ipostatizzate in modo arbitrario. Tali facoltà o attività

vengono enumerate e descritte isolatamente, concepite come sussistenti l’una accanto

all’altra in modo indipendente. In altri termini, all’atomismo ontologico che considera le

cose come elementi indipendenti e auto-sussistenti corrisponde, al livello naturale, l’idea

anatomista dell’organismo come insieme di parti indipendenti; al livello spirituale,

l’ipostatizzazione delle facoltà, l’una posta accanto alle altre; così come l’intelletto

analizzante scompone il proprio oggetto in diversi elementi atomici perdendone in tal

modo l’unità (sopratutto per il vivente), così perde l’unità vivente dello spirito nella

167

confusione dell’agire delle diverse facoltà. L’analisi intellettuale si trova prima ad

ipostatizzare e separare le facoltà per poi essere costretta ad inciampare sulla difficoltà di

doverne spiegare il funzionamento congiunto. Sebbene è difficile che si parli delle facoltà

o attività dello spirito come di parti o di enti a sé stanti, è in tal modo, finché non si

supera il loro isolamento, che risultano trattate.

La critica principale mossa da Hegel alla psicologia empirica riguarda

quest’ipostatizzazione e separazione delle facoltà che, oltre a porle le une accanto alle

altre senza spiegarne le connessioni e il legame spirituale, pone il pensiero allo stesso

livello delle altre attività spirituali, riducendolo a mero pensiero astratto. L’empirista in

psicologia, secondo Hegel, colleziona e cerca di ordinare i differenti fenomeni mentali

attraverso delle classificazioni. In questo modo attribuisce i differenti fenomeni a

differenti facoltà, ma, secondo Hegel, la determinazione e divisione delle facoltà così

compiuta non è attuata secondo alcun principio186. Per una giustificazione della

determinazione e divisione delle facoltà è necessaria innanzitutto una teoria della mente

nel suo complesso, ovvero una teoria della loro unità187. In altri termini, Hegel

affermerebbe che le facoltà, così individuate e utilizzate, non essendo delle entità

osservabili, sono entità teoriche che per essere postulate lo devono essere all’interno di

una teoria la cui accettabilità ne giustifichi la postulazione.

4. Rapporto tra l’empirico e il filosofico nella spiegazione dello spirito

Come si è cercato più volte di sottolineare, Hegel non rifiuta o abbandona il lavoro svolto

dalle discipline scientifiche particolari. Ma, eccezion fatta per alcune critiche particolari,

ne riconosce la legittimità, e cerca piuttosto di inserirne i concetti fondamentali, i risultati

e il procedere, in un contesto sistematico più ampio che non sembra affatto volto a dar

186 Cfr. § 378 Z: «la psicologia empirica prende anche le particolari facoltà in cui essa lo divide

come date nella rappresentazione, senza produrre, mediante deduzione di tali particolarità dal concetto di

spirito, la prova della necessità che nello spirito ci siano proprio queste e non altre facoltà». 187 Cfr. § 378 Z: «per quanto questa psicologia [la psicologia empirica] avanzi anche l’esigenza di

realizzare una connessione armonica tra le diverse forze dello spirito [...], con ciò non si esprime l’unità

originaria dello spirito, ma il dover essere dell’unità».

168

loro una fondazione metafisica. Le scienze empiriche, cioè, sembrerebbe che per Hegel

non abbiano bisogno di una tale fondazione, perlomeno se si prende sul serio quanto si

afferma nel paragrafo che apre l’intera Enciclopedia: le diverse scienze possono

presupporre tanto i propri oggetti quanto il proprio metodo. La presenza di

presupposizioni, di per sé, non inficia affatto il carattere di scientificità a loro proprio.

Infatti la scienza particolare, in quanto tale, è positiva e lo è in quanto ha presupposizioni,

se si affermasse che là dove vi sono presupposti non si dà scienza, si negherebbe

l’esistenza delle scienze particolari. Alla sola filosofia tale privilegio non è concesso. Si

tratta di livelli di scientificità differenti; e alle diverse discipline scientifiche per esser tali,

per essere scientifiche, non è necessario il livello richiesto alla filosofia. Il contesto

sistematico, in cui i risultati delle scienze particolari vengono inseriti, non è volto alla

loro fondazione, ma alla produzione di una concezione unitaria e scientifica del mondo.

In questa prospettiva, il compito della filosofia dello spirito soggettivo può essere

suddiviso in tre gradi: a) deve individuare le teorie delle discipline psicologiche; b) deve

fornire una metateoria filosofica sui loro principi attraverso una loro discussione; c) deve

inserire tale metateoria all’interno di un contesto legittimante più ampio, che non fa

appello a elementi empirici per la propria giustificazione (prima nell’intera filosofia dello

spirito, poi nel sistema nel suo complesso)188.

Riguardo a questi tre livelli i concetti che li caratterizzano sono differentemente sensibili

a elementi di carattere empirico, e lo sono in forma graduale. In altri termini, nuove

scoperte scientifiche possono portare facilmente alla rielaborazione di concetti e teorie

della psicologia empirica (a), meno facilmente dei principi d’ordine di tali teorie (b), e

più difficilmente alla rielaborazione o abbandono dei concetti più sovradeterminanti che

tracciano le relazioni sistematiche dei livelli più alti (p.e. quelli delle relative scienze

(antropologia, fenomenologia, psicologia), o ancor più sovradeterminanti come quelli di

spirito soggettivo, spirito oggettivo e assoluto, o ancora di natura e spirito) (c).

Il reale, nel suo complesso, viene dunque concepito come consistente di una molteplicità

di gradi e livelli ordinati gerarchicamente, in cui i livelli superiori seguono quelli

inferiori, sulla base dell’auto-realizzazione dell’assoluto. Ciascun livello presenta un

insieme di concetti attraverso cui gli oggetti di quel livello possono essere descritti e

188 Cfr, DEVRIES, Hegel’s Theory of Mental Activity, Itaca/Londra 1998 , pp. 29-30.

169

spiegati. Il fisicalismo, ossia la posizione che si muove verso una scienza unitaria basata

sulle relazioni causali, quindi, non sembra trovare alcuna presa nella filosofia hegeliana. I

concetti messi in gioco a ciascun livello, cioè, sono irriducibili ai concetti in gioco ai

livelli che li precedono, così come, dunque, le discipline che sovradeterminano quei

concetti. La filosofia del reale ha il compito di indagare la natura dei concetti utilizzati

dalle differenti scienze empiriche e le loro interrelazioni, come la logica ha il compito di

indagare la natura dei concetti in generale; e, terzo, tali indagini sono condotte in

relazione all’autorealizzazione dell’assoluto, dunque secondo il principio d’ordine

dell’autodeterminazione. Come più volte notato, sebbene le indagini della filosofia siano

dipendenti dai risultati delle scienze empiriche, in quanto queste presentano il materiale

alla filosofia, il loro processo di giustificazione non può essere a sua volta empirico.

5. Discrepanza e continuità tra natura e spirito

Il principio d’ordine di ciò che è stato indicato come il terzo livello dell’operazione della

ricerca filosofica è l’autodeterminazione o autorealizzazione, e come abbiamo visto

l’autodeterminazione corrisponde, secondo Hegel, alla libertà. In questo senso, si

chiarisce il passo dell’Annotazione al §12 in cui Hegel afferma che per quanto la filosofia

sia «debitrice del proprio sviluppo alle scienze empiriche, dà al loro contenuto la figura

essenziale della libertà del pensiero (dell’a priori)189 e l’inveramento della necessità». La

differenza essenziale tra natura e spirito consiste dunque nella modalità in cui un

qualcosa della natura e dello spirito viene a determinarsi. Trattandosi di un ordine

gerarchico a differenti livelli, questa modalità di determinazione è graduale. La coppia

concettuale con cui Hegel solitamente distingue i fenomeni naturali da quelli spirituali è

la coppia esterno/interno. Natura e spirito si differenziano in quanto l’una si determina

189 Relativamente all’uso dell’a priori in questa sede, non è da intendersi come se le strutture

razionali rintracciate dalla filosofia a giustificazione il contenuto delle scienze empiriche sia a priori.

Abbraccio, piuttosto, la tesi di Rand per cui qui, l’espressione “a priori” ha funzione esclusivamente

didattica (compare come una glossa di una glossa). A tal proposito rimando alla sua discussione in

RAND S., The Importance and Relevance of Hegel's Philosophy of Nature, op. cit., pp. 386-388.

170

esteriormente (l’oggetto è determinato da altro)190, l’altro interiormente (l’attività

spirituale si determina da sé). Lo spirito, cioè, si auto-determina. Il fenomeno spirituale è

la manifestazione di un’attività che si auto-produce. Il modello con cui è pensata

quest’attività è il modello teleologico dell’organismo in cui il fine non è esterno

all’attività di determinazione. La differenza graduale della determinazione implica che vi

siano nella natura livelli di minore determinazione esteriore e la presenza di gradi di

determinazione interiore, come nel caso dell’organismo (sistema di auto-mantenimento).

Il concetto di soggettività, indicante appunto una capacità di autodeterminazione, fa

infatti la sua comparsa al livello dell’organismo animale191. Lo spirito dunque si

distingue dalla natura per il livello di autodeterminazione. Ma a quale livello

l’autodeterminazione distingue spirito e natura?

L’antropologia presenta la teoria hegeliana dell’anima consistente, in linea generale, nel

sistema d’ordine organico che governa le iterazioni con il mondo. La differenza di livello

che segna lo scarto tra l’autodeterminazione naturale e quella spirituale è rintracciabile

nell’anima senziente: l’anima che sviluppa l’abitudine. Attraverso l’abitudine si passa

dall’anima, che per quanto sia il livello più basso dello spirito, è propriamente il medio

tra spirito e corporeità e ciò che li lega, allo spirito vero e proprio. Infatti, anche l’animale

come l’uomo ha bisogni, impulsi e sensazioni, ovvero è anch’esso soggettività, in quanto

è determinato dall’interno e non solo esteriormente. Tuttavia, mentre la sensazione

occupa interamente l’intera anima animale, tenendola così legata a ciò che

immediatamente le è dato, l’anima umana grazie all’abitudine non è più imprigionata da

esso192. Quando ci abituiamo a qualcosa, il grado di attenzione che prestiamo nei suoi

190 Queste le espressioni con cui Hegel caratterizza il concetto di natura all’apertura della Filosofia

della natura: «l’idea nella forma dell’alterità», «in tal modo l’idea è il negativo di se stessa o esterna a

sé»; «l’esteriorità costituisce la determinazione in cui essa è come natura» Enz. § 247. 191 Su questo aspetto si sta concentrando negli ultimi anni il lavoro di L. Illetterati. A tale

ricerca sono ampiamente debitore. Se ne vede già la presenza nella sua monografia sulla ilosofia della

natura, cfr. ILLETTERATI L., Natura e ragione. Sullo sviluppo dell'idea di natura in Hegel, Padova

1995. 192 Enz § 381 Z: «L’animale [...] non presenta che la dialettica senza spirito del passaggio da una

sensazione singola che riempie tutta la sua anima, ad un’altra singola sensazione che in lui ha un dominio

altrettanto assoluto; l’uomo soltanto si eleva al di sopra della singolarità della sensazione all’universalità

171

confronti cala notevolmente. Così, l’abitudine permette una prima liberazione dello

spirito in quanto l’anima cessa di rispondere immediatamente allo stimolo ad essa

presente, e può occuparsi d’altro. L’abitudine implica la riduzione della forza con cui uno

stimolo è sentito, ossia, nel linguaggio hegeliano, non è che la negazione della sensazione

immediata, e la liberazione da essa. L’abitudine è il concetto che funge da ponte tra la

natura e lo spirito e ciò che permette di considerare lo sviluppo dell’attività spirituale

come uno sviluppo naturale. Secondo le parole di McDowell, «la Bildung, [...] è un

elemento del normale giungere a maturazione del tipo di animali che noi siamo»193; essa

viene infatti chiamata anche seconda natura: «natura, perché è un immediato essere

dell’anima; seconda perché è un’immediatezza posta dall’anima, un dar forma alla

corporeità penetrandola»194 (Enz. § 410 A).

del pensiero, al sapere di sé, a cogliere la propria soggettività, il proprio Io. In una parola: l’uomo soltanto

è lo spirito pensante e per questo fatto – anzi solo per questo fatto – essenzialmente diverso dalla natura».

Solo lo spirito si stacca dalla natura, solo con esso si ha il superamento dell’esteriorità: l’iedalità. Tutte le

attività dello spirito non sono che modi diversi di ricondurre l’esteriorità all’interiorità che è lo spirito

stesso, e solo mediante questa riconduzione, questa idealizzazione o assimilazione dell’esteriorità, esso

diviene ed è spirito: lo spirito nega l’esteriorità della natura, l’assimila a sé e in tal modo la idealizza. Il

passaggio dalla necessità alla libertà non è semplice, ma è un procedere per gradi, attraverso numerosi

momenti, la esposizione dei quali costituisce la filosofia della natura. Dal processo di formazione della

soggettività, soggettività già presente nell’animale, fino alla soggettività che ha per oggetto se stessa che è

l’uomo. La libertà nei confronti della natura consiste nel fatto che posso rapportarmi a me stesso al di là

della sensazione che ho. Ossia, posso astrarre dalla sensazione; essa non pervade la mia anima

interamente. L’essere-pensante dell’uomo lo pone al di là della sensazione che chiude l’animale nel

circolo stimolo-risposta e che lo rende incapace di spingersi oltre la sua immediatezza biologica ed

ambientale. Cfr. anche CHIEREGHIN F., L’eredità greca nell’antropologia hegeliana, «Verifiche»,

XVIII, 3, 1989, p. 259. 193 Forse vale la pena di citare l’intero passo di McDowell: «la nostra Bildung realizza alcune ddelle

potenzialità con cui siamo nati; non dobbiamo supporre che introduca una componente non animale nella

nostra costituzione. E anche se la struttura dello spazio delle ragioni non può essere ricostruita a partire

dai fatti sul nostro coinvolgimento nel regno della legge, può essere l’ambito in cui il significato diviene

visibile solo perché i nostri occhi possono essere aperti dalla Bildung, che è un elemento della normale

maturazione del nostro genere animale» (McDOWELL J., Mind and World, Cambridge 1994; Mente e

mondo, trad. it. C. Nizzo, Torino 1999, p. 94). 194 QUANTE M., Die Natur: Setzung und Voraussetzung des Geistes. Eine Analyse des § 381

172

6. L’io e il pensiero

Attraverso l’abitudine l’anima si determina come universalità astratta in quanto non è più

dipendente dall’immediatezza degli stimoli sensoriali; con ciò perde il proprio essere

immediato. A partire da questa identità non immediata dell’anima può emergere ciò che

Hegel chiama “io”. In termini negativi, esso è un’universalità astratta dalle particolari

sensazioni che occupavano in toto l’anima nella sua immediatezza; in termini positivi,

come io, è pura relazione a sé, o identità ideale con sé (cfr. § 413).

Anche l’io, come l’anima, è innanzitutto determinato come “universalità astratta”, ma

cosa distingue l’universalità dell’io dall’universalità dell’anima formata dall’abitudine?

Si tratta di universalità che si applicano su differenti livelli d’ordine. L’anima con

l’abitudine conferisce un ordine all’esperienza sensoriale; l’io invece emerge ad un

ulteriore livello, come possibilità di dare ordine alle molteplici organizzazioni delle

esperienze sensoriali. Con l’abitudine l’anima conferisce una forma, un ordine, alla

molteplicità degli input sensoriali; l’io può emergere solo a partire dalla presenza di

funzioni di second’ordine che permettano un’organizzazione unitaria delle esperienze

sensoriali ordinate ad un primo ordine dall’abitudine. Ciò che distingue l’uomo

dall’animale, non è dunque la presenza nell’uomo dell’abitudine; anche gli animali

sviluppano delle abitudini con le quali organizzano le loro esperienze sensoriali, tuttavia

gli animali non sarebbero in grado di sviluppare livelli di organizzazione maggiore. Ciò

che distinguerebbe l’uomo dall’animale, dunque, a questo livello, sarebbe la capacità di

sviluppare funzioni d’organizzazione di second’ordine che costituiscono le condizioni di

possibilità per assurgere quell’autodeterminazione della propria soggettività, ossia un

modo di regolarsi sulla base di se stesso, che caratterizza l’uomo e che agli animali

sarebbe preclusa.

der Enzyklopädie, in B. Merker et al. (Hrsg.), Subjektivität und Anerkennung, Paderborn 2004, S.

81-101. Cfr. anche TESTA I., Conoscere è riconoscere. L’epistemologia hegeliana del riconoscimento e

il passaggio dalla prima alla seconda natura, «Giornale di Metafisica», XXV, 2003, pp. 121-144.

173

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, Hegel rintraccia nel modo quotidiano di

rappresentare il pensiero, tre aspetti: esso appare come (a) attività o facoltà tra altre; (b)

prodotto di tale facoltà o attività; (c) pensiero in quanto soggetto. Da questi tre aspetti

ricava, sulla base di un’istanza di unità tra di essi, la concezione del pensiero come

universale attivo che si esprime in quanto soggetto con il termine “io”. Tanto il pensiero

come facoltà di pensare quanto il pensiero come prodotto di tale facoltà, non sono che

determinazioni che si dà l’universale attivo che chiamiamo “io”.

Ordinariamente, come già accennato, ci rappresentiamo l’io come il luogo o il

proprietario di un certo numero di facoltà o capacità distinte tra loro e distinte dall’io

stesso. Un io può desiderare, rappresentare, immaginare, ricordare, ecc. Tutte queste

attività appartengono o sono svolte da ciò che chiamiamo io; e il pensiero, non è

rappresentato che come un’attività o facoltà tra queste, come un’attività o facoltà dell’io

tra altre. Il pensiero, l’intelletto, la ragione, non sarebbero che articolazioni della facoltà

posseduta dall’io di relazionarsi con quegli enti dotati di uno statuto tutto particolare che

sono i pensieri o le idee. Certo, in questa sua attività, al pensiero può essere riconosciuto

un aspetto che lo rende speciale rispetto alle altre attività, derivante dal tipo speciale di

oggetti con cui ha a che fare. Il pensiero, in questo modello generale, non sarebbe

un’attività come il desiderare, il sentire, ecc. la cui intenzionalità sarebbe sempre diretta

ad un particolare, ma sarebbe un’attività in grado di direzionarsi a degli universali.

L’oggetto dell’intenzione del desiderio di una mela, non è lo stesso oggetto dell’attività

di pensiero che si chiede che cos’è l’essere mela della mela; altrettanto c’è differenza

nell’oggetto intenzionato dal sapere che Socrate è buono e nell’oggetto intenzionato dal

sapere che cos’è la bontà. Il pensiero, in questo modello, sarebbe concepito come un aver

a che fare con tali oggetti, chiamati universali, pensieri, idee astratte e con le loro

relazioni, e questo al di là dello statuto ontologico ad essi attribuito, al di là cioè che si

abbracci un realismo o un nominalismo degli universali195. Questa capacità di aver a che

fare con universali e con le loro relazioni sarebbe ciò che distingue l’uomo

dall’animale196. Sebbene Hegel spesso utilizzi una terminologia confacente a questo

195 Cfr. PRICE H.H., Pensiero ed esperienza, a cura di D. Pesce, Milano 1964, pp. 334-446. Questo

modello viene indicato da Price come il modello classico del pensiero. 196 Cfr. RORTY R., La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986, pp. 36-40.

174

modello - si pensi per esempio a quando afferma che l’uomo è pensante in quanto

l’universale è per lui, mentre l’animale si rapporta solo al singolare197, e che questa

relazione è ciò che lo distingue dall’animale -, mi sembra si possa sostenere, egli rifiuta

questo modo di concepire tanto l’io quanto il pensiero: da un lato (a) non c’è un io

separato dalle attività e, a loro volta, (b) queste non sono attività isolate, ma momenti e

determinazioni graduali di un’unica attività; dall’altro lato (c) il pensiero, secondo Hegel,

non può essere semplicemente un’attività, per quanto del tutto particolare, tra le altre, ma

deve occupare un posto speciale nella costituzione del sé; e, inoltre, (d) i pensieri non

sono entità separate dal pensiero che li pensa, cioè non sono delle entità dotate di un

qualche statuto speciale con cui un qualche soggetto infra-mentale potrebbe avere a che

fare attraverso quell’attività che è il pensiero.

Riprendendo le caratteristiche appena evidenziate, l’io è innanzitutto caratterizzato come

universalità astratta. Nell’Annotazione al § 20 tale caratterizzazione compare in

riferimento a Kant e come abbiamo visto all’apertura della terza posizione del pensiero

rispetto all’oggettività, la determinazione ultima offerta dal criticismo al pensiero era

appunto l’«universalità astratta». Precedentemente avevamo cercato di intendere

l’«universalità astratta» in quanto attribuita al pensiero sulla base della coppia concettuale

197 Cfr. § 381 Z: «l’anima animale non è ancora libera, perché appare sempre facente tutt’uno con la

determinatezza della sensazione e dell’eccitazione, come legata ad una determinatezza; per l’animale il

genere non si dà che nella forma della singolarità [riproduzione] [...] nell’animale l’anima non è ancora

per l’anima, l’universale come tale per l’universale». § 24 Z 1: «In primo luogo diciamo: l’uomo è

pensante – ma al tempo stesso anche che intuisce, vuole, ecc L’uomo è pensante, ed è universale, ma è

pensante solo in quanto l’universale è per lui. Anche l’animale in sé è universale, ma l’universale come

tale non è per l’animale; per l’animale è sempre soltanto il singolo. L’animale vede una cosa singola, per

es. il suo cibo, un uomo ecc., ma tutto questo per l’animale è soltanto una cosa singola. [...] La natura non

porta a coscienza il nous, ma soltanto l’uomo si sdoppia in modo da essere l’universale per l’universale».

Nell’uomo anche la sensazione sensibile ha a che fare soltanto con il singolo, ma quando questa viene

pensata ed enunciata come “questo sapore”, “questo colore”, “questo dolore”, il pensiero fissa il

singolare astraendolo dalle sue relazioni e facendone un universale. Così, le espressioni “questo sapore”,

“questo colore”, “questo dolore” pur facendo riferimento ad un che di singolare, sono esse stesse nella

loro forma universali: di ogni sapore, di ogni colore, di ogni dolore, posso dire “questo sapore”, “questo

colore”, “questo dolore”. Sebbene il contenuto, il riferimento, possa rimanere singolare, la forma

appartiene al pensiero ed è universale ed hanno contenuto semantico universale.

175

forma e contenuto e risultava che il pensiero riceveva dal criticismo la determinazione

ultima di «universalità astratta» poiché concepiva il pensiero sempre come forma astratta

di un contenuto, dunque sempre in relazione ad un contenuto diverso da sé; per questo

costante riferimento ad un contenuto diverso da sé, l’universalità del pensiero si

caratterizzava come astratta. Che l’io sia un’universalità astratta significa che esso si

distingue dai particolari stati o attività in cui si trova o che svolge, come dalla sua stessa

esperienza, ossia da tutti i suoi stati mentali (eccetto il pensiero) e fisici: in esso «si astrae

dal rappresentare, dal sentire, da ogni stato come da ogni particolarità della natura, del

talento, dell’esperienza ecc.» (Enz. § 20 A). Ma secondo tale caratteristica l’io non è che

un indeterminato e potrebbe benissimo essere identificato con un termine vuoto, o

perlomeno non si distingue ancora in nulla dal deittico “questo”, essendo quest’ultimo il

termine che usiamo per riferirci ad un qualcosa quando astraiamo da ogni sua proprietà.

Si potrebbe infatti anche sostenere che una stessa cosa, uno stesso animale, permane lo

stesso attraverso i vari cambiamenti che subisce nel tempo; tuttavia ciò non ne fa ancora

un io. Per quanto spesso Hegel parli dell’“io” trattando anche degli altri deittici come

“questo”, “qui”, “ora”, il termine “io” si distingue da questi in quanto oltre ad indicare

un’universalità astratta dai particolari, designa una relazione pura a sé. L’io è «la

relazione pura a sé» in cui si astrae dalle particolarità. Come sottolinea Inwood, io posso

parlare di me stesso come di un io, mentre nessuna cosa o animale può riferirsi o pensare

a se stesso in questa forma astratta198. Ciò non significa che l’animale pur non potendo

parlare di sé come di un io, potrebbe essere dotato di un io senza esserne cosciente. La

coscienza di sé, il rapporto a sé, è essenziale a ciò che è un io: se qualcosa è un io, esso

può parlare o pensare di sé come di un io, solo allora è un io. L’io costituisce se stesso

tramite la coscienza che ha di sé; non è cioè una sorta di substrato che sorregge o che

porta le varie proprietà o stati, ma è pura relazione a sé, puro essere per sé.

Come sostenere la tesi che l’io è questa relazione a sé in cui si astrae dai vari particolari?

E ancor prima, cosa significa che astrae dai particolari?

Innanzitutto si possono distinguere due tesi una più debole e una più forte: (1) l’io è la

relazione a sé in cui si astrae da ogni particolare rappresentare, desiderare, sentire, ecc.,

ossia da ogni particolare contenuto di queste forme; (2) l’io è la relazione a sé in cui si

198 Cfr. INWOOD M., Hegel, op. cit, p. 32.

176

astrae da ogni particolare, e dunque oltre che da ogni contenuto delle forme con cui ci

relazioniamo a qualcosa anche dalle stesse forme, in quanto particolari forme di rapporto

ad un qualcosa, e perciò anche dallo stesso rappresentare, desiderare, intuire, ecc. In (1) si

sostiene solamente che l’io si astrae da questo particolare rappresentare - il

rappresentarmi, per esempio, in montagna mentre mangio un panino con la mortadella -,

da questo particolare desiderare - il desiderio che ho di essere in montagna a mangiare un

panino con la mortadella -, e non richiede invece l’astrazione dal rappresentare in

generale, dal desiderare in generale, dal sentire in generale, ecc., ossia da queste forme

come attività particolari dell’io, che è la condizione richiesta invece da (2).

La prima tesi è indubbiamente più debole, e può essere sostenuta a differenti livelli di

astrazione dell’io, a partire da quello di cui abbiamo visto una prima emergenza con

l’abitudine relativamente alle sensazioni. Una tale tesi sembra sostenuta da Hegel quando

in espressioni colorite caratterizza l’io come «ricettacolo» o «notte» come in questo caso:

«l’io è questo vuoto, il ricettacolo per tutto e per ogni cosa, per il quale tutto è e che

conserva tutto in sé. Ogni uomo è un intero mondo di rappresentazioni che sono sepolte

nella notte dell’io» (Enz. § 24 Z). In questo senso questa tesi sembra vicina alla tesi

kantiana per cui l’io accompagna tutte le mie rappresentazioni. Ciò che è sostenuto in una

tale tesi sembra permettere fenomeni quali, per esempio, l’immedesimazione finzionale

nei personaggi dei romanzi, dei film, ecc. Posso, cioè, ipotizzare, al livello di astrazione

più alto, che la mia storia personale, le mie esperienze, i miei stati mentali e fisici, siano

stati completamente differenti da quelli che sono e, tuttavia, nella relazione a me che

costituisce l’io, rimanere io. E ciò proprio perché l’io in questione si presenta altamente

astratto, ossia non affetto dalle particolarità di ciò che chiamiamo “io empirico”, seppur

non sia altro da esso. L’argomento attraverso cui questa prima tesi può essere sostenuta

sembra dunque basarsi sull’evidenza del controfattuale.

(2) Riguardo alla seconda tesi, che cioè nella pura relazione a sé si astrae dalla

particolarità delle forme di coscienza in quanto tali, le cose sembrano un po’ più

problematiche. Infatti non sembra molto sensato ricorrere anche per questa tesi al

controfattuale, in quanto ciò che produrrebbe non sarebbe affatto oggetto di evidenza,

non vi sarebbe cioè un’evidenza del controfattuale. Cioè, sostenendo che si può

ipotizzare di avere forme di rapporto ad altro completamente differenti dal nostro

177

rappresentare, sentire, ecc., per esempio immedesimandosi con un alieno dotato di chissà

quale apparato sensoriale, o con il famoso pipistrello e il suo biosonar per la

ecolocalizzazione, si perde l’evidenza del controfattuale che veniva garantita dal

permanere identico delle forme del rapporto a qualcosa. Cioè mentre con il principe

Myškin di L’Idiota posso identificarmi abbastanza facilmente grazie alla condivisione di

un apparato cognitivo e corporeo e alla possibilità di una ricostruzione piuttosto facile di

un contesto semantico comune, queste possibilità non sono garantite nel caso dell’alieno

o dell’animale – per dirla con Wittgenstein, «se un leone potesse parlare, non lo

capiremmo comunque». In questo caso dunque, ricorrere al controfattuale non serve in

quanto vengono meno gli elementi che, garantendo una condivisione delle “forme di

vita”, ne sorreggono l’evidenza.

Un’altra via che è possibile percorrere è quella dell’identificazione dell’io con il pensiero.

Come si è visto nell’elenco delle forme di rapporto ad altro della coscienza, da cui la

relazione a sé che è l’io si astrae, non compare mai il pensiero. Ciò semplicemente per il

fatto che Hegel identifica l’io, come pura relazione a sé, con il pensiero. Come abbiamo

già visto l’io non è che la relazione pura a sé, e questa non è un sostrato di differenti

proprietà o facoltà, ma un’auto-relazione che è solo nella misura in cui si attua, solo nella

misura in cui si relaziona a sé. La riflessività, come si è visto, elemento essenziale del

pensiero e i differenti livelli di astrazione (ossia di purezza) dell’io come relazione a sé

che abbiamo visto, possono essere raggiunti sulla base del controfattuale. E il

controfattuale può essere prodotto solo dal pensiero. Tuttavia, i controfattuali si applicano

con evidenza solo rispetto ai particolari contenuti delle forme di coscienza, non alla

particolarità della forma in se stessa. Per sostenere dunque la seconda tesi, è sufficiente

appellarsi al fatto che per Hegel il pensiero puro non è solo un’universalità astratta, cioè

sempre e solo forma di un contenuto dato, e dunque facente sempre riferimento ad esso,

ma in quanto riflessivo può porre a contenuto la particolarità della propria forma, e

dunque essere contenuto a se stesso. In questa prospettiva, se è possibile l’io come

relazione pura a sé in cui si astrae dalla particolarità delle forme di coscienza che sono il

rappresentare, l’intuire, il sentire, ecc., lo è non tanto attraverso la dissociazione da esse

per mezzo di controfattuali ma solo in quanto si identifica con il pensiero puro. In questo

178

senso mi sembra si possa sostenere non solo che Hegel abbracci la tesi (1) nei suoi

differenti livelli, ma anche la tesi (2)199.

A questo punto, però, la questione potrebbe essere rilanciata ancora una volta, ad un

livello di astrazione maggiore: il particolare da cui nella relazione pura a sé che è l’io, il

pensiero astrae, può riferirsi anche alle proprie particolari determinazioni, o il pensiero ha

sempre bisogno di queste per potersi relazionare a sé? In altri termini, può il pensiero

relazionarsi a sé senza relazionarsi a proprie particolari determinazioni? È possibile una

riflessività che sia completamente indeterminata? A volte, Hegel sembra propendere per

questa tesi sostenendo cioè una relazione immediata del pensiero con il pensiero. La

questione è molto dibattuta e complessa; su di essa però non mi sembra il caso di

soffermarsi in questa sede. Basti affermare che per Hegel il pensiero relativo allo spirito

finito soggettivo, non essendo l’io come pura relazione a sé altro dall’io empirico, ossia

essendo l’io empirico ciò a partire da cui si può costituire una relazione pura a sé, e

dunque dovendo quest’ultima sempre essere incarnata, il pensiero deve essere sempre

realizzato in qualche particolare e non può porsi nell’auto-relazione come completamente

indeterminato.

199 Questo aspetto non mi sembra presente nei testi presi in considerazione per questa parte del

lavoro, soprattutto INWOOD M., Hegel, cit., pp. 30 e sgg.; né DEVRIES W., Hegel’s Theory of Mental

Activity, cit., pp. 90 e sgg. Anche Inwood distingue due tesi, una più forte e una più debole: (1) posso

dissociarmi da tutti i miei desideri, da tutte le mie rappresentazioni, dalla mia esperienza intesa come un

tutto; (2) posso dissociarmi da ogni particolare desiderio, da ogni particolare rappresentazione, ecc. A

partire dal percorso compiuto durante la trattazione dei paragrafi delle tre posizioni del pensiero rispetto

all’oggettività, attraverso le due tesi individuate ho raggruppato le due tesi di Inwood all’interno della

prima, preferendo parlare di una gradualità di astrazione dell’io rispetto ai contenuti delle varie forme di

coscienza, riferendosi entrambe alla particolarità dei contenuti delle forme della coscienza, mentre ho

evidenziato la seconda tesi in quanto relativa alla particolarità delle stesse forme; dunque distinguendo le

due tesi sulla base della coppia concettuale contenuto/forma.

179

7. La psicologia

La psicologia rappresenta il terzo momento e l’elemento culminante della sezione

dedicata allo spirito finito soggettivo, posta dopo l’antropologia, che analizza le strutture

d’ordine che regolano le interrelazioni tra il corpo e l’ambiente, e la fenomenologia che

analizza lo spirito in quanto ha a che fare con l’oggettività come contrapposta alla

coscienza.

Nell’espressione «spirito finito», l’attributo “finito” indica una qualche forma di

discrepanza tra il concetto e la realtà cui si riferisce il sostantivo a cui esso è attribuito

(Enz. § 386). Lo spirito finito, cioè, non corrisponde pienamente al concetto di spirito,

quindi non è pienamente ideale, libero e manifesto200. In quanto comunque spirito, ossia

in quanto comunque si determina da sé, lo spirito finito soggettivo per progredire nella

realizzazione del proprio concetto deve lottare per liberarsi e autodeterminarsi.

Lo spirito finito si differenzia in spirito finito soggettivo e spirito finito oggettivo: lo

spirito finito soggettivo si rivela in un materiale dato, mentre lo spirito oggettivo si rivela

in un materiale che ha esso stesso prodotto, ossia determina da sé la propria rivelazione,

informando di sé il mondo attraverso la società e lo stato civile. Lo spirito soggettivo si

caratterizza così per una sorta di passività, in quanto deve ricevere un materiale dato,

dall’esterno per farlo proprio, e riguarda lo spirito in quanto “io” individuale; mentre lo

spirito oggettivo riguarda lo spirito come intersoggettività. Principio ontologico e

principio epistemologico dello spirito, ossia ciò che individua e spiega lo spirituale, è,

secondo Hegel, la libertà, cioè l’autodeterminazione. Lo spirito è essenzialmente attività

in grado di auto-determinarsi. I fenomeni spirituali sono e devono essere spiegati quali

manifestazioni o prodotti di un’attività che si auto-determina201. È a partire da questo

principio che Hegel tratta e ordina nelle loro relazioni reciproche i fenomeni e le attività

200 Il concetto di spirito è determinato attraverso tre aspetti: 1) idealità; 2) libertà; 3) esistenza come

auto-manifestazione (Enz. § 381) cfr. DEVRIES , Hegel’s Theory of Mental Activity , op. cit., pp. 49-52. 201 Relativamente alla nozione di spirito si veda SOLOMON R. C., Hegel's Concept of ״Geist״,

«Review of Metaphysics», 1969-70 n. 23, pp. 642-61; WILLIAMS R., Hegel’s Concept of Geist, in

Stillman P.G. (Hrsg.), Hegel’s Philosophy of Spirit, op.cit., pp. 1-20.

180

spirituali. La disposizione delle varie parti della Psicologia dunque non rappresenta né

uno sviluppo temporale, né uno sviluppo trascendentale, ma il movimento di progressiva

liberazione dello spirito, dall’elemento di maggior immediatezza a quello di maggior

libertà202.

La psicologia si divide in spirito teoretico e spirito pratico. La parte della psicologia

intitolata spirito teoretico indaga i concetti attraverso i quali lo spirito soggettivo

comprende le proprie attività conoscitive; il suo sviluppo rappresenta il movimento di

progressiva liberazione dello spirito finito soggettivo attraverso le forme in cui la mente

conosce ciò che gli è dato appropriandosene: intuizione, rappresentazione, pensiero203.

8. Sensazione e intuizione

Se tradizionalmente le attività mentali venivano bipartite in attività percettive e in attività

di pensiero, Hegel introduce una tripartizione in attività intuitive, rappresentative e di

pensiero. I differenti livelli dello spirito essendo ordinati secondo il principio

epistemologico e ontologico della libertà, sono analizzati a partire dalla distinzione

passivo/attivo. Ossia, nello spirito teoretico Hegel espone le modalità con cui lo spirito

soggettivo trasforma un contenuto conoscitivo dato in contenuto razionale. Il livello più

basso di ciascun momento dello spirito finito soggettivo presenterà sempre un livello di

passività maggiore rispetto ai livelli sucessivi. Così, l’intuizione, che è il primo momento

dello spirito teoretico, ed è indicata anche come sensibilità razionale o percezione,

rappresenta il livello in cui lo spirito teoretico ha maggiormente a che fare con la datità.

Oggetto dell’intuizione è l’individuale, l’oggetto spazio-temporalmente determinato,

ossia l’oggetto dell’esperienza percettiva con cui solitamente abbiamo a che fare204: “una

202 Cfr. FERRARIN A., Hegel and Aristotele, op. cit., p. 286. 203 Cfr. AIRKANESINEN T., Hegel’s Psycology of Knowledge, in Annalen der

internationalen Gesellschaft für dialektische Philosophie Societas Hegeliana IV, op. cit., p. 36-42.

HENRICH D. (Hrgs.), Hegel philosophische Psycologie, Bonn 1979. 204 Infatti è solo con l’attenzione dell’intuizione che l’esperienza riceve una forma spazio-

temporalmente determinata; il che significa ovviamente che gli oggetti con cui abbiamo a che fare

181

pienezza interrelata di determinazioni”, cioè una totalità. Esso è un dato immediato, ma si

differenzia essenzialmente dall’oggetto della sensazione dell’anima, ovvero dal mero

input sensoriale. L’intuizione è infatti una sensibilità razionale, non è un’affezione

semplice come la sensazione. Come la sensazione, l’intuizione è uno stato mentale avente

contenuto sensoriale diretto su singolarità, l’intuizione cioè è una forma di conoscenza

materiale diretta su singolarità. Le intuizioni, a differenza delle sensazioni, sono già

altamente strutturate; esse non sono le semplici controparti mentali delle affezioni

corporee degli organi sensoriali, ma implicano processi di formazione normativi,

governati da regole. Distinguendo in questo modo la sensazione dalla intuizione Hegel

sembra voler mantenere nella sensazione un punto di partenza per ogni conoscenza non

strutturato concettualmente e caratterizzato essenzialmente dalla sua passività. Con ciò, la

sensazione non può ancora dirsi un’attività cognitiva della mente, se un’attività cognitiva,

per esser tale, deve perlomeno poter rispondere a standard di correttezza205. In questo

senso una sensazione non può essere vere o falsa in quanto non presenta una struttura tale

che può sostenere vincoli oggettivi206. La sensazione in quanto tale, come affezione

meramente passiva dell’animale, è interamente singolare e, sebbene mentale, contingente,

non è di per sé cognitiva. Essa diviene cognitiva solo quando è inserita in una struttura

cognitiva. Ma quando è inserita in una struttura cognitiva non è più quell’immediatezza

interamente passiva, ma è diventata qualcosa d’altro. Attraverso la sensazione, dunque,

Hegel vuole mantenere un dato non-concettuale che l’anima trova in sé. In questo, essa è

il materiale immediato dell’attività mentale. Tuttavia, essa non può fungere in alcun

modo da vincolo oggettivo, ossia non può farsi valere come un dato epistemologico.

Sebbene l’intera esperienza, e la conoscenza, si radichi nella sensazione e da essa il

pensiero si elevi (nihil est in in intellectu, quod non fuerit in sensu §8 A), tale dipendenza

è solo una dipendenza genetica. Spetta infatti solo alle capacità concettuali di giustificare

il dato dell’esperienza (nihil est in sensu, quaod non fuerit in intellectu Ib.). La

nell’esperienza quotidiana, in quanto spazio-temporalmente determinati non sono gli oggetti della

fenomenologia, per lo meno al livello sistematico. 205 Cfr. DEVRIES W., Hegel’s Theory of Mental Activity , op. cit., p. 67. 206 Al contempo, secondo la lezione aristotelica, facendo intervenire un altro concetto di verità,

potrebbe essere anche detta sempre vera; cfr. CHIEREGHIN F., Essere e verità. Note a Logik. Die Frage

nach der Wahrheit di Martin Heidegger, Trento 1984.

182

conoscenza ha le sue radici nell’impatto sensoriale tra uomo e mondo, tuttavia tale dato

immediato viene superato nel processo di giustificazione del pensiero. Tanto nell’anima,

quanto nella coscienza, quanto nello spirito, ci sono dunque diverse modalità in cui un

dato viene trovato: nell’anima come un singolare indeterminato; nella coscienza come un

dato esterno e indipendente dall’io; nell’intuizione viene trovato come un dato in un

mondo strutturato spazio-temporalmente.

Nell’intuizione ciò che struttura il dato in modo spazio-temporale è l’attenzione. Ponendo

attenzione a qualcosa infatti viene interrotto il flusso sensoriale, e l’oggetto intenzionato

può assumere una determinazione indipendente dal soggetto (Enz. § 448 e Z). Che la

forma spazio-temporale sia data dall’attenzione tuttavia per Hegel non significa

necessariamente che essa sia una forma esclusiva del soggetto conoscente, ossia solo una

forma con cui la mente del soggetto struttura i dati cognitivi. Ma se la forma spazio-

temporale con cui si dà l’esperienza è una forma che il soggetto conoscente conferisce ai

dati, come può Hegel sottrarsi alla stessa critica di soggettivismo e relativismo che

indirizzava a Kant? In altri termini, il mondo come ci può apparire nella nostra

esperienza, in quanto presenta un ordine spazio-temporale, non diviene solo un riflesso

delle forme della nostra sensibilità? E dunque: l’oggettività cui si potrebbe aspirare non si

riduce ad un’“oggettività” confinata ad essere solo relativa agli oggetti in quanto dati ai

nostri sensi? O ancora: se le forme di spazio e tempo sono forme che appartengono alle

strutture conoscitive del soggetto, cosa garantisce che siano le uniche possibili forme di

organizzazione del dato sensibile?

Il fatto delle forme di spazio e tempo come forme della sensibilità, ossia la contingenza

della particolarità di queste forme - e dunque il loro poter essere altrimenti -, sembra non

poter non consegnare l’esperienza e la conoscenza che su di esse si fondano al

relativismo e allo scetticismo epistemologico, provocando una frattura tra ciò che del

mondo conosciamo e ciò che il mondo è di per se stesso207. Kant non può fornire ragioni

sul perché proprio spazio e tempo siano le forme della sensibilità. A differenza

207 A tal proposito cfr. McDOWELL J., L'idealismo di Hegel come radicalizzazione di Kant, in

RUGGIU L., TESTA I. (a cura di), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto

con la tradizione europea, op. cit., pp. 451-477; e McDOWELL J., Self-Determining Subjectivity and

External Constraint, «International Yearbook of German Idealism», vol. 3, 2005, pp. 21-37.

183

dell’impostazione trascendentale kantiana, ciò che permette a Hegel di aggirare l’ostacolo

e dunque di non considerare le forme di spazio e tempo come forme appartenenti

esclusivamente all’apparato cognitivo soggettivo, come invece potrebbe sembrare dalla

tesi per la quale esse sono introdotte nella nostra attenzione, ma di considerarle oltre che

forme costitutive della nostra esperienza anche come forme costitutive degli oggetti è il

fatto di concepirle come dipendenti dalla stessa struttura del mondo. Spazio e tempo,

cioè, non sono spiegate sulla base della soggettività e del suo rapporto all’oggetto, ma di

per se stesse, come forme dell’esteriorità in generale, sia questa poi soggettiva che

oggettiva. In quanto forme costitutive dell’esteriorità esse sono forme della nostra

intuizione perché sono le forme in cui gli oggetti dell’esteriorità si costituiscono come

tali.

9. Dall’intuizione alla rappresentazione

Nell’intuizione è predominante l’elemento oggettivo del contenuto, e dunque l’elemento

attivo dello spirito in essa è principalmente implicito. Il passaggio al livello

rappresentativo avviene con il riconoscimento di questo implicito, ossia quando viene

riconosciuto che è il soggetto conoscente ad avere l’intuizione. A partire da ciò lo spirito

pone l’intuizione come propria facendola un qualcosa di interno (cfr. §§ 449-50 e Z). Con

la rappresentazione diviene dunque esplicito l’elemento soggettivo del contenuto

mentale, dove per esplicito non si intende che venga a coscienza del soggetto che si

rappresenta, ma rispetto ad un punto di vista oggettivo implicante una riflessione sulla

rappresentazione. Cosa significa però che mentre nell’intuizione predomina l’elemento

oggettivo del contenuto, nella rappresentazione diviene esplicito quello soggettivo?

Sulla scorta di DeVries si può sostenere che un buon modo per rispondere sta

nell’individuazione della differenza tra gli elementi rilevati per una spiegazione di

un’intuizione e quelli per la spiegazione di una rappresentazione. Nella spiegazione di

una intuizione devono essere considerati principalmente tre fattori: (a) l’ambiente; (b)

l’apparato percettivo del soggetto; (c) l’apparato mentale del soggetto responsabile

dell’attività costruttiva sui dati sensoriali. Nei casi normali di intuizione, dato che

184

l’apparato percettivo e quello mentale sono uniformi, il peso poggia principalmente

sull’elemento oggettivo dell’intuizione, ossia sul contesto ambientale. Nel caso della

rappresentazione, invece di essere in gioco mere relazioni di carattere causale, tra

l’ambiente e l’apparato percettivo, tra questo e l’apparato mentale, entrano in gioco

elementi semantici degli stati mentali che sbilanciano la spiegazione sull’attività mentale

soggettiva.

Sebbene l’oggetto dell’intuizione sia razionale, cioè una pienezza di determinazioni, esso

è ancora una singolarità. Per essere dotato di universalità esso dev’essere interiorizzato e

posto nella memoria attraverso la capacità rappresentativa. Con l’Erinnerung l’esteriorità

del dato intuito viene negata e dunque l’oggetto viene posto nello spazio e tempo

interiore come immagine. In questo modo, posto come immagine, l’oggetto è rimosso dal

suo contesto spazio-temporale, il che significa che l’immagine presenta una struttura

interna astratta dallo spazio e dal tempo e che dunque si determina come l’immagine di

un oggetto che non ha un particolare spazio e che non ha un particolare tempo. Sulla base

di tale astrazione o generalità, l’immagine ritenuta acquisisce un potere normativo

rispetto alle successive intuizioni degli stessi oggetti208. Tale passo è essenziale per

qualsiasi altra attività cognitiva superiore in quanto permette di oltrepassare il contesto

immediato in cui qualcosa è dato alla mente rapportandolo al passato ritenuto in

memoria.

L’oggetto come immagine, infatti, è conservato nell’inconscio trasformato in una sua

potenzialità. Di per sé, infatti, l’immagine è fuggevole, essa viene conservata

dall’intelligenza in modo inconscio. Questa memoria è caratterizzata da Hegel come «un

pozzo notturno nel quale è custodito un mondo d’infinite immagini e rappresentazioni»

(Enz. § 453 A)209. Che l’immagine sia una potenzialità significa che essa non esiste

attualmente. L’intelligenza, cioè, sebbene Hegel spesso utilizzi metafore spazio-

temporali, non è uno schedario interno in cui vengono depositate le schede-immagini, i

suoi casellari del mondo, cui la mente può accedere a proprio piacimento. Le immagini

non sono che delle potenzialità che possono essere riattualizzate dalla mente. Per esistere

208 Cfr. FERRARIN A., Hegel and Aristotele, cit., p. 294 209 Su questa metafora del «pozzo notturno», come noto, si è soffermato DERRIDA J., Il pozzo e la

piramide. Introduzione alla semiologia di Hegel, in Margini della filosofia, Torino 1997, pp. 105-152.

185

un’immagine dev’essere supportata da un’intuizione presente che la attualizza (Enz. §

454); con tale riattualizzazione la mente non ha più a che fare con intuizioni isolate o con

mere potenzialità. La mente ritrova l’immediata intuizione nell’immagine potenziale che

ha ritenuto, e con ciò quella potenzialità è attualizzata nel ricordo. Quest’operazione

permette il riconoscimento di un’intuizione presente attraverso la sua sussunzione in un

universale. E al contempo, attraverso l’attualizzazione dell’immagine, quest’operazione

permette il possesso dell’immagine da parte dell’intelligenza e dunque questa acquisisce

una sua indipendenza rispetto alla presenza dell’intuizione.

Cosa significa che le immagini sono delle potenzialità conservate nella notte dell’io, e

che vengono riattualizzate mediante l’intuizione presente?

Come già accennato, mi sembra fuorviante concepire l’intelligenza, il suo “pozzo”, in

termini spaziali, come fosse un contenitore in cui degli enti mentali sarebbero depositati.

Spesso su queste metafore si basa un altro modello del pensare proprio del senso comune,

e da alcuni filosofi in specie della tradizione empirista (Hume; Locke): concepire il

pensare come un operare con immagini mentali e con le loro relazioni210.

Che le immagini siano concepite come delle potenzialità che abbisognano di essere

riattualizzate, piuttosto che degli enti mentali discreti celati allo sguardo del presunto

occhio mentale, significa concepirle come delle capacità, delle abilità di costruzione di

immagini. Con il ricordo non vengono collegati due enti, l’intuizione e l’immagine

mentale inconscia, ma viene prodotta una rappresentazione attraverso l’attualizzazione di

una potenzialità. Quest’abilità nata dall’astrazione del contesto spazio-temporale non

risulta legata alla singolarità dell’oggetto intuito e può dunque ripetersi su oggetti che

presentano le stesse caratteristiche. In questo senso si ha una sorta di sussunzione

dell’intuizione sotto un’immagine generale; sussunzione che non è altro che una prima

forma di riconoscimento.

Ma qual è la differenza nel concepire l’immagine o la rappresentazione generale come un

ente mentale sotto cui possono essere sussunti differenti particolari o concepirla invece

come l’abilità di costruire un’immagine o rappresentazione?

Nel primo caso la relazione tra rappresentazione e intuizione è una relazione di

sussunzione tra due enti distinti, l’immagine generale e l’intuizione come sua istanza

210 Cfr. PRICE H.H., Pensiero ed esperienza, cit., pp. 269-298.

186

particolare; nel secondo caso invece si tratta dell’attualizzazione di una abilità generale a

costruire un’immagine in un’istanza particolare: nell’istanza particolare - l’intuizione

presente - si attua, si realizza l’abilità generale di costruire tale immagine: l’abilità di

costruire un’immagine è, come si è visto, sulla base della sua astrattezza spazio-

temporale, generale – e funge da regola generale per ogni attuazione -, ma si realizza

sempre e ogni volta in un prodotto particolare. Immagine e intuizione in questo modo non

sono più l’una distinta dall’altra.

Questa sorta di prima forma di riconoscimento, non può essere ancora considerata tale a

tutti gli effetti, in quanto tale riconoscimento è ancora pre-linguistico e pre-concettuale.

Esso riguarda piuttosto un processo di familiarizzazione rispetto le cose e l’ambiente,

dipendente dall’occorrenza ripetuta di determinate intuizioni. Con ciò non si intende

sostenere che l’universalità che l’immagine raggiunge sia secondo Hegel prodotta dalla

ripetizione delle intuizioni, come nel caso di un modello cumulativo dell’universalità211,

ma è la familiarità dell’operazione a dipendere dalla ripetizione. Che ci sia

riconoscimento, non significa che vi sia una coscienza riflessiva sull’operazione

compiuta, ma ciò nondimeno non significa che non vi sia un certo livello di riflessività.

La familiarizzazione si incrementa con la progressiva facilità con cui un’abilità viene

eseguita, e tale facilità dipende direttamente dalla sua ripetizione. Si tratta dunque di una

forma di conoscenza che non riguarda il «sapere che», ma il «sapere come»212; non è una

conoscenza teoretica ma pratica: l’abilità da parte dello spirito di produrre le proprie

rappresentazioni attraverso un processo di progressiva familiarizzazione con cui questo

acquisisce una sempre maggiore padronanza su di esse.

211 Cfr FERRARIN A., Hegel and Aristotele, op. cit., p. 293. § 456 Z «è un errore privo di spirito

l’ammettere che le rappresentazioni universali sorgano – senza la partecipazione dello spirito – dal

sovrapporsi di molte rappresentazioni simili; che ad esempio il colore rosso vada a scovare il rosso di

altre immagini che si trovano nella mia testa, fornendo così a me – semplice spettatore – la

rappresentazione universale del rosso. Certamente, il particolare appartenente all’immagine è qualcosa di

dato; ma la scomposizione della concreta singolarità dell’immagine, e la forma dell’universalità che ne

risulta, provengono, come si è notato, da me». 212 Riprendo questa distinzione da SELLARS W., Philosophy and the Scientific Image of

Man; La filosofia e l'immagine scientifica dell'uomo, trad. it. A. Gatti, Roma 2007.

187

Attraverso questa maggiore padronanza nella costruzione di immagini, acquisita

mediante la ripetizione, lo spirito diviene in grado di esercitare tale abilità in assenza

dell’intuizione, e diviene così ciò che Hegel chiama “immaginazione riproduttiva” (Enz.

§ 455). Se nello stadio precedente, l’intuizione immediata in quanto necessaria

all’attualizzazione dell’immagine poneva ancora dei vincoli di carattere oggettivo sulla

produzione dell’immagine, ora che la presenza dell’oggetto all’intuizione non è più

richiesta, la costruzione dell’immagine, la connessione di determinazioni che la

costituiscono, non segue più la costituzione dello stesso oggetto. Rispondendo alla

domanda posta precedentemente – che cosa significa che nella rappresentazione viene a

dominare l’elemento soggettivo quando nell’intuizione predominava quello oggettivo? –

dunque: la connessione delle determinazioni che va a costituire l’immagine è demandata

interamente all’attività della mente, in particolare alla sua attività associativa. È la

rappresentazione ritenuta dalla mente a fungere da regola associativa.

Nell’Annotazione al § 455, Hegel si concentra sulla critica delle cosiddette «leggi

dell’associazione delle idee». La critica si concentra su due punti: (a) ciò che viene

associato non sono idee ma immagini o rappresentazioni; (b) l’associazione non avviene

attraverso leggi213. Riguardo ad (a) la critica non è altro che una critica terminologica

esterna in quanto in essa Hegel oppone alla nozione di idea degli associazionisti, la

propria nozione di idea. Riguardo a (b), Hegel afferma:

questi modi di relazione non sono per nulla leggi, già proprio per questo, che vi sono tante leggi

sulla stessa Cosa; è accidentale infatti, se il legame associativo sia un’immagine od una categoria

dell’intelletto, l’eguaglianza o l’ineguaglianza, principio e conseguenza ecc.

Hegel nega che le relazioni tra immagini o rappresentazioni, relazioni che vengono

chiamate leggi, siano tali. L’associazione non è sottoposta a leggi in quanto la relazione

con cui si può realizzare può essere una relazione di tipo differente, può essere

213 La teoria dell’associazionismo svolge un ruolo fondamentale nell’epistemologia contemporanea

ad Hegel. La tradizione humeana e lockeana si diffonde e sviluppa nella cultura tedesca dei primi del

1800 da un lato in opposizione alla deriva fichtiana del trascendentalismo kantiano, dall’altro come

tentativo di giustificazione e depurazione della filosofia kantiana. Cfr.anche HALBIG C., Objektives

Denken: Erkenntnistheorie und Philosophy of Mind in Hegels System, cit.

188

d’uguaglianza o di disuguaglianza, di principio e conseguenza ecc. La molteplicità del

tipo di relazione che può associare diverse determinazioni è per Hegel ragione sufficiente

per inficiarne il carattere di legge, ossia per rendere la relazione soggetta all’accidentalità.

Che una relazione si realizzi secondo il principio di somiglianza, quello di causazione o

di contiguità, è cosa decidibile solamente una volta che la relazione abbia avuto luogo. In

altri termini, le presunte leggi di associazione non permettono la prevedibilità; che un

fenomeno abbia luogo secondo l’una e secondo l’altra può essere deciso solo a post hoc.

Nella stessa Annotazione Hegel accenna anche al concetto di astrazione utilizzato dai

rappresentanti dell’associazionismo, e si scaglia contro un modello d’intendere lo spirito

in generale sulla base del meccanicismo: gli associazionisti intenderebbero le

rappresentazioni mentali a partire dal modo in cui intendiamo ogni altro ente fisico e le

loro relazioni come le relazioni tra gli enti fisici. Ossia sulla base dell’atomismo: gli enti

sarebbero atomi o riducibili ad atomi isolati e collegabili tra loro da relazioni estrinseche

– non costituenti. Secondo Hegel ogni tentativo di fornire una costruzione della mente su

base meccanica è destinato al fallimento in quanto manca da principio la struttura propria

dello spirito, che è essenzialmente olistica. Se la precedente critica alle leggi

dell’associazionismo era rivolta a mostrare che esse non sono affatto leggi, con

quest’ulteriore critica rivolta al modello in base al quale il mentale è concepito viene

posta in gioco la stessa applicabilità di leggi al mentale. O meglio ancora: è criticata la

stessa nozione di legge. Non sono leggi a poter spiegare le relazioni di un sistema

olistico214. In altri termini le relazioni tra le rappresentazioni come le stesse

214 Cfr. ILLETTERATI L., Hegel’s Kritik der Metaphysik der Naturwissenschaften, in T. S.

HOFFMANN (Ed.), Hegel als Schlüsseldenker der modernen Welt. Beiträge zur Deutung der

"Phänomenologie des Geistes", Hamburg 2008, in cui la critica alla nozione di legge è analizzata in

funzione della sua inadeguatezza all’organico: «La legge è infatti per Hegel, in linea generale, una forma

di rapporto in cui i relati che in essa vengono unificati rimangono comunque esteriori l’uno rispetto

all’altro, in una maniera tale per cui l’unificazione alla quale la legge (Gesetz) giunge è una unificazione

solo posta (gesetzt) e non realmente raggiunta�. La legge, cioè, per quanto rappresenti il tentativo di

istituire un rapporto necessario fra elementi eterogenei, continua ad essere, secondo Hegel, solo la

manifestazione dell’esigenza del toglimento dell’esteriorità di ciò che in essa viene connesso, ma non la

forma adeguata di questo toglimento. Ciò che essa mette in relazione, come legge, rimane infatti

comunque caratterizzato nella sua propria struttura dalla reciproca estraneità». Cfr. anche

HOFFMEISTER J., Hegel's Criticism of Law, «Hegel-Studien», 27 (1992): 27-52.

189

rappresentazioni si determinano e devono essere spiegate sulla base della loro posizione,

che ne individua pure il ruolo, all’interno di un sistema olistico. Degli atti mentali

secondo Hegel bisogna dar conto, per la loro stessa natura, attraverso spiegazioni di tipo

olistico.

Con l’immaginazione riproduttiva, la mente, acquisendo l’arbitrio di richiamare mediante

associazione le immagini custodite inconsciamente, si è liberata del bisogno della

presenza del dato immediato, ma non ancora della sua presenza interiorizzata,

l’immagine; da questa si libererà solo con il linguaggio215.

Con l’immaginazione produttiva, dopo il processo di interiorizzazione o idealizzazione,

inizia il secondo processo dello spirito: la propria manifestazione o esteriorizzazione.

In questa parte della psicologia Hegel analizza come l’intelligenza conferisce alle proprie

rappresentazioni universali un’esistenza empirica particolare nei segni e nel linguaggio.

Quest’esistenza empirica particolare diviene l’oggettività in cui l’intelligenza intuisce se

stessa. Il particolare esistente posto dall’intelligenza, in quanto posto da essa, non si

esaurisce in se stesso, ma rimanda ai contenuti della medesima: è il simbolo, il segno, il

linguaggio. Simbolo, segno e linguaggio ancora una volta, secondo i principi d’ordine

dello spirito, scandiscono un movimento di progressiva liberazione dello spirito sulla

base del legame presente tra il particolare e l’universale cui questo rimanda. La

liberazione dello spirito in queste forme di rimandi è proporzionale all’arbitrarità del

legame tra il particolare e l’universale. Il segno linguistico, così, si mostra essere

l’elemento che è al culmine di questo processo in quanto il legame tra segno e significato

è divenuto completamente arbitrario, cioè non più dipendente dalle caratteristiche del

particolare oggetto d’intuizione. Nel simbolo, infatti, il legame tra il simbolo e il

simbolizzato non è ancora completamente arbitrario in quanto condividono proprietà

comuni. Se attraverso un’immagine del leone si simbolizza la forza, il legame tra il leone

e la forza è simbolico in quanto al leone attribuiamo questa proprietà. In questo, il

simbolo presenta ancora una dipendenza rispetto a ciò che è l’oggetto dell’intuizione.

Tuttavia, al leone spettano anche altre proprietà. Solo la scelta della proprietà

simbolizzata è oggetto di arbitrio. Che il segno presenti una relazione di rimando

215 Cfr. BODAMMER T., Hegel's Deutung der Sprache, Cambridge 1969; CAMPOGIANI M..,

Hegel e il linguaggio: dialogo, lingua, proposizioni, Napoli 2001.

190

completamente arbitraria significa dunque che il significato cui il significante rimanda

non deve appartenere necessariamente alle proprietà di ciò che funge da segno. Con la

fantasia produttrice di segni si compie un decisivo passo in avanti per la liberazione dello

spirito grazie al forte incremento della sua capacità di aver a che fare con contenuti

universali, maneggiando relazioni segniche relativamente semplici oltre a rendere per la

prima volta esplicita l’auto-comprensione dello spirito.

Con il passaggio al linguaggio si procede ad una maggior comprensione della natura

dello spirito. Rispetto ad una concezione atomistica dei simboli e dei segni, infatti, il

linguaggio richiede una struttura d’ordine più sistematica in cui gli elementi si

definiscono secondo le relazioni che intercorrono tra di essi. Così alla rappresentazione

statica di un linguaggio concepito come esclusivamente composto da parole significanti

rappresentazioni o immagini mentali, il cui ruolo è principalmente quello comunicativo,

ovvero concepito essenzialmente sulla base della trasmissibilità grazie alle parole di

contenuti già formati (immagini mentali), Hegel sottolinea l’importanza dell’elemento

formale del linguaggio e dunque di operatori come la congiunzione, l’esclusione, ecc.;

termini che di fatto non significano alcuna immagine mentale. Tali operatori logici nel

linguaggio testimoniano per Hegel della presenza di ciò che chiama “istinto logico” del

linguaggio216. Esso non è altro che l’opera dell’intelletto che, nell’elemento formale del

linguaggio, plasma le proprie categorie (Enz. § 459 A). In questo senso, tali operatori,

come determinazioni del pensiero che operano nel linguaggio, non rappresentano che la

capacità di fornire una struttura logica alle rappresentazioni e immagini mentali da un

lato, e la capacità di produrre un’articolazione razionale dell’esperienza dall’altro. La

determinazione di pensiero che opera nell’operatore logico della congiunzione «e»

permette tanto di congiungere attraverso il linguaggio rappresentazioni e immagini

mentali distinte, quanto di congiungere eventi o enti particolari dell’esperienza217. Inoltre,

le determinazioni di pensiero presenti nel linguaggio permettono non solo di significare

216 Sull’istinto logico del linguaggio cfr. GADAMER H.G., L'idea della logica hegeliana, in

GADAMER H. G., La dialettica hegeliana, trad. it. R. Dottori, Genova 1996, pp. 80-107; D. Sacchi,

L'istinto logico del linguaggio. Le radici hegeliane dell'ontologia ermeneutica, Genova 1991. 217 Cfr. DEVRIES W., Hegel’s Theory of Mental Activity, cit., p. 151.

191

le nostre rappresentazioni o immagini mentali, ma anche e soprattutto di pensare a queste

e di riflettere sulle loro relazioni e strutture.

Attraverso il linguaggio complesse operazioni mentali vengono significate dai “nomi”. Il

“nome” come rappresentante dell’operazione mentale rende possibile allo spirito di avere

a che fare con le proprie operazioni senza essere costretto ogni volta alla loro esecuzione.

Quando Hegel contrappone alla tesi per cui pensiamo in immagini, la tesi per cui

pensiamo nei nomi, sembra intendere, non tanto che non ci sia un “pensiero” per

immagini, o che per lo più, ordinariamente, non si pensi con immagini, ma che il nome

offre la possibilità di pensare senza che la mente debba istanziare mentalmente ciò che da

esso è significato: il nome «leone» per essere compreso non abbisogna più di evocare né

l’intuizione né l’immagine mentale del leone per essere compreso218. Invece di pensare a

qualcosa attraverso l’esecuzione dell’abilità di intuirla, immaginarla o riconoscerla, mi è

sufficiente pensare ad essa attraverso l’uso del nome che la designa. Con ciò, la mente si

è dunque liberata oltre che del riferimento alla presenza immediata dell’intuizione, anche

del riferimento ad essa data dall’immagine e si è aperta a ciò che Hegel chiama

propriamente il pensiero.

10. Il pensiero

Il linguaggio, al livello del contenuto, permette di fare a meno del riferimento sia

all’intuizione che all’immagine mentale nell’uso dei nomi, e, al livello formale,

attraverso gli operatori – le determinazioni di pensiero implicite nel linguaggio -,

costituisce l’elemento e la base formale attraverso cui la mente pensa. Attraverso questi

aspetti il linguaggio permette alla mente non solo di designare le proprie rappresentazioni

e abilità attraverso cui si forma le rappresentazioni, ma pure di pensarle e di pensare le

loro relazioni e strutture interne. Con ciò, naturalmente, non si intende sostenere che i

“nomi” “vengano prima” del pensiero, ma che l’attività soggettiva del pensiero si articola

all’interno della dimensione discorsiva.

218 Cfr. FERRARIN A., Hegel and Aristotele, cit., p. 300.

192

Come ad ogni livello anche al livello del pensiero si ripropone un processo che va da una

maggiore ad una minore immediatezza o datità. In primo luogo dunque il pensiero si

presenta come astratto e dato. È un astratto in quanto è un universale separato dagli altri

pensieri ed è affetto da immediatezza in quanto il suo contenuto è ancora una

rappresentazione. Questo primo livello del pensiero dà luogo ad un conoscere formale in

quanto il suo contenuto non è articolato razionalmente, perciò, dice Hegel nell’aggiunta,

«il pensiero sa l’unità di soggettività e oggettività come un’unità completamente astratta,

indeterminata, soltanto certa, non riempita, non verificata». In altri termini, il contenuto

del pensiero non è ancora compreso nelle sue relazioni interne, ma solo in forma astratta.

Questo, più precisamente, è l’operare dell’intelletto che si limita all’indagine e

applicazione delle proprie categorie astratte: il suo conoscere è un conoscere attraverso di

esse, spiega il singolare attraverso le sue categorie astratte.

Questo primo momento immediato del pensare viene articolato nel paragrafo successivo

come l’operare dell’intelletto che elabora le rappresentazioni, in generi, specie, forze

(Enz. § 467). Attraverso il pensiero, cioè, la capacità della mente di associare le immagini

assume determinate strutture d’ordine divenendo normativa, ossia le relazioni attraverso

cui differenti immagini o rappresentazioni venivano collegate tramite un gioco di

associazione, ora si trasformano in regole di connessione determinanti strutture d’ordine.

Così un genere o una specie non è che la struttura d’ordine a cui le determinazioni che la

costituiscono riportano le immagini e rappresentazioni degli enti di quel genere o specie.

Al contempo, una legge non è che l’unità strutturale a cui una differente molteplicità è

riportata. Nonostante il livello formale proprio dell’intelletto, già al suo livello si

manifesta l’essenziale attività del pensiero, quella di produrre relazioni tra concetti. I

concetti, attraverso il pensiero che li pensa, si determinano secondo le relazioni che li

costituiscono l’uno rispetto all’altro.

Il giudizio rappresenta l’esplicita interconnesione dei concetti. Il giudizio per Hegel non è

un semplice enunciato. Mentre l’enunciato limita il suo contenuto alla predicazione di

qualcosa di individuale e accidentale circa un particolare soggetto (Vito nacque nell’anno

1974), il giudizio, secondo Hegel, richiede che il predicato sia relato al soggetto come

una determinazione concettuale lo è ad un’altra determinazione concettuale, e perciò

come un universale verso un particolare. Nel giudizio, il rapporto tra predicato e soggetto

193

deve stare in un rapporto di universalità (Enz. § 167 A). Il paradigma con cui Hegel

sembra pensare il giudizio è l’attribuzione d’essenza, la predicazione ad un soggetto della

sua natura. Ciò non significa che tutti i giudizi si presentino come predicazioni d’essenza,

ma il paradigma dei giudizi, secondo Hegel, è questo. In questo senso, nel giudizio sono

uniti due concetti. Come in Kant, ciò che attua o permette la relazione tra due concetti nel

giudizio è da ricercarsi in un terzo che ne pone l’unità. Ma mentre in Kant, questo terzo è

da ricercarsi nell’unità dell’appercezione del soggetto pensante, in Hegel esso è il

concetto della cosa, cioè il suo universale concreto. La correttezza o meno del giudizio

deriva direttamente dalla sua adeguatezza al concetto della cosa. Due concetti sono legati

in un giudizio quando essi sono momenti di un terzo concetto che corrisponde a gradi

diversi all’universale concreto della cosa, alla sua essenza. Così, viene a cadere per Hegel

la necessità della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici, con la conseguente

sottovalutazione dei giudizi analitici. Nei giudizi analitici ciò che è indicato come un

predicato contenuto nel soggetto, non essendo i due concetti immediatamente identici, il

predicato indica un concetto che deve essere mediato con il concetto del soggetto. I

differenti gradi del giudizio del concetto – assertorio, problematico, apodittico -non fanno

altro che porre la connessione mediativa tra i concetti.

L’intelligenza, come pensiero puro, ha dunque a proprio materiale i concetti e la sua

attività consiste nel legarli e relazionarli insieme. Il materiale di quest’operazione, i

concetti, sono identificati astrattamente, ossia facendo astrazione dalle concrete relazioni

in cui sono implicati nelle rappresentazioni ed immagini mentali, sono astratti in quanto

non contingenti cioè ideali, non più dotati di riferimento empirico; sono prodotti

dell’attività di pensiero. Essendo tali i materiali di questo pensiero, l’attività del pensiero

ha a che fare solo con le relazioni che sono intrinsecamente implicate nei concetti,

relazioni che, come abbiamo visto con la metafora della rete e dei suoi nodi nel primo

capitolo del lavoro, sono costitutive dei concetti, e non con quelle contingenti ed

arbitrarie presenti nella capacità rappresentativa.

Nel giudizio, tuttavia, le relazioni concettuali, essendo ciascun termine dotato di una

propria indipendenza rispetto all’altro, sono poste ancora in forma rigida. Questa forma è

superata nel sillogismo. Questo pone esplicitamente l’interrelazione concettuale che già

operava al livello implicito nel giudizio. La forma sillogistica, in altri termini, espone un

194

concetto come un sistema, secondo la metafora della rete un nodo, di relazioni concettuali

esponendone la natura: sono individuali, particolari, universali219. I concetti sono

individuali, e dunque differiscono l’un l’altro; sono particolari, in quanto determinazioni

di un universale più astratto; sono universali, in quanto aventi determinazioni di specie o

individui al di sotto di sé. Il sillogismo non è dunque che l’unità concettuale articolata da

differenti concetti, il nodo in cui più fili si uniscono, la stessa forma del razionale (Enz. §

181 A).

Tanto i generi, le specie, le leggi quanto i giudizi e i sillogismi, per Hegel, non sono

solamente forme del pensare ma parimenti sono le strutture razionali di ciò che è. Esse

infatti sono le forme in cui si articolano i momenti di ciò che Hegel chiama “universale

concreto”.

Come abbiamo più volte osservato Hegel distingue l’universale astratto dall’universale

concreto. L’universale astratto è l’universale che sussume sotto di sé differenti individui

sulla base di una nota comune, che indica dunque una comunanza - le cose ruvide non

hanno un’essenza attiva e interna che le accomuna -, e che viene acquisito già al livello

rappresentativo del pensiero. Esso è astratto in quanto la relazione che intrattiene con i

propri elementi è una relazione di esteriorità, non è una relazione essenziale con ciò che

viene sotto di esso sussunto. Ossia: la distinzione tra universale e concreto vuole

rispondere all’istanza di porre una distinzione tra l’universale che appartiene all’essenza

di qualcosa e l’universale che non vi appartiene, ossia tra la proprietà senza la quale quel

qualcosa non permane e non può essere conosciuto come ciò che esso è e la proprietà

senza la quale quel qualcosa può permanere ed essere conosciuto come ciò che esso è. Si

tratterebbe, cioè, dell’istanza di distinguere le relazioni differenti in gioco per esempio

nell’essere ruvido di un muro rispetto all’esser pianta di una quercia. L’universale astratto

in quanto tale, non dice nulla su ciò che rende una cosa quella particolare cosa; è astratto

e attribuito alla cosa solo da un soggetto conoscente. L’universale concreto è ciò che

secondo Hegel può rendere conto della sua unità, del suo non essere un mero aggregato

di proprietà.

219 Cfr. FUSELLI S., Forme del sillogismo e modelli di razionalità in Hegel. Preliminari allo studio

della concezione hegeliana della mediazione giudiziale, Trento 2000

195

L’universale concreto non è che il concetto stesso della cosa. Esso sembra essere pensato

attraverso l’unione o mescolanza di due modelli. Nel concetto hegeliano appare il

modello kantiano per il quale un concetto è sempre «qualcosa di universale che serve da

regola» (KrV A 106), e il concetto aristotelico di forma o essenza di una cosa. Unendo

queste due caratteristiche il concetto hegeliano si presenta come corrispondente

all’essenza universale di una cosa immanente e attiva in essa, come dotata di una forma

normativa su di essa e come non semplice, ma la cui esistenza e conoscenza risulta

dipendente dalle relazioni che la cosa intrattiene con le altre cose e che il suo concetto

mentale intrattiene con gli altri concetti. In questo modo, un concetto non è che l’ideale

normativo di un qualcosa; tale concetto è compreso all’interno di un sistema di altri

concetti la cui normatività ha il mondo stesso a proprio oggetto; una normatività che è

immanente al mondo. Il sistema dunque, come unità di questi ideali normativi, non è che

l’universale concreto del mondo attraverso il quale, o meglio a partire e in direzione del

quale questo si realizza e viene compreso.

196

CONCLUSIONE

La questione principale da cui sono partito, per quanto riguardasse il pensiero in generale,

per l’orizzonte epistemologico ed ontologico in cui la nozione di pensiero è presa nella

filosofia hegeliana, si è vista concentrarsi, durante lo svolgimento del lavoro, sul pensiero

oggettivo. Il percorso svolto, ora, ci fornisce alcuni elementi sulla cui base si può tentare

di articolare qualche risposta.

Muovendo dal pensiero in generale, nel primo capitolo, mi sono concentrato a fornire una

mappatura della nozione del pensiero attraverso le distinzioni fondamentali rintracciabili

nell’Introduzione dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Tali distinzioni, si è

sostenuto, emergono in contrasto con le cosiddette «filosofie della riflessione» e del

sentimento, entrambe accomunate da uno stesso modo di considerare il pensiero.

Entrambe intendono il pensiero come un’attività capace di procedere solo da

condizionato a condizionato, come un’attività che separa e analizza il suo oggetto in parti

che rimangono tra loro astratte e che, dunque, si mostra incapace di coglierne

l’interrelazione e unità. Le filosofie della riflessione accentuano e procedono tramite

l’elemento astratto del pensiero. Le filosofie del sentimento, invece, pur muovendo dallo

stesso presupposto, il pensiero inteso solo come pensiero intellettuale, affermano contro il

suo procedere, soprattutto in ambito religioso, un’istanza di unità e totalità. E, sulla base

di questo modo d’intendere il pensiero e di quest’istanza di unità, queste ultime filosofie

hanno mosso ad esso e alla filosofia in genere, l’accusa di sconvolgere, inquinare e

annientare il sentimento religioso.

Le distinzioni dei modi di pensiero che si sono sottolineate emergono all’interno di

questo quadro problematico. Esse si fanno carico dell’istanza di unità avanzata dalle

filosofie del sentimento, e giungono ad eliminare la mera contrapposizione tra il pensiero

e le altre forme della coscienza, quali il sentimento, l’intuizione, la rappresentazione.

Tanto le filosofie del sentimento, quanto le filosofie della riflessione, secondo Hegel,

identificando il pensiero con un operare meramente intellettualistico, si sarebbero

mostrate incapaci di vedere la diversità dei modi in cui esso opera, e la sua non

197

riducibilità al solo pensiero astratto-intellettualistico. In questo modo, condividendo

l’istanza di unità e totalità avanzata dalle filosofie del sentimento, la denuncia hegeliana

dell’intellettualismo non si risolve in una fuga dal pensiero, ma comporta

l’individuazione e una delimitazione del ruolo della modalità di pensiero propriamente

intellettuale.

Secondo queste distinzioni interne al pensiero, questo è (a) pensiero come «logica

naturale» che attraversa ogni attività umana, le cui determinazioni sono acquisite

innanzitutto attraverso differenti pratiche sociali, tra le quali, di particolare importanza, il

linguaggio; (b) pensiero riflessivo (Nachdenken), nelle sue diverse forme: intellettuale o

speculativo; (c) pensiero come le determinazioni di pensiero che intessono tanto (a) che

(b), e che si presentano in forma implicita in (a), e in forma sempre più esplicita in (b).

(a) La prima modalità del pensiero è il pensiero come elemento attivo operante in

modo inconscio in tutto il mentale – che Hegel, spesso, chiama anche «logica naturale»

o «logica inconscia». Tale attività attraversa ogni altra facoltà o attività mentale: i

sentimenti, i desideri, le intuizioni, sono attraversate e formate da tale attività e dalle sue

determinazioni logiche. Il contenuto di coscienza che è attraversato dal pensiero è da

esso inserito in una struttura cognitiva che lo rende significante, e con ciò è reso umano.

Questo pensiero non è un’attività a parte, un’attività che si aggiunge ad altre attività.

Non si aggiunge, per esempio, ad un comportamento pianificandone i mezzi e i fini, ma

attraversa dall’interno ogni comportamento e attività umana. Esso, inoltre, non coincide

con ciò che la scienza della logica - la scienza che pone ad oggetto le determinazioni del

pensiero nell’elemento del pensiero - espone. Quest’attività del pensiero, come si è visto

con la metafora della rete può presentare differenti livelli di strutturazione e la sua

struttura è essenzialmente mobile, i suoi nodi si possono intralciare, ecc. Certo, le

determinazioni di pensiero che operano nella logica naturale non sono altre rispetto alle

determinazioni di pensiero della scienza della logica; tuttavia, sussiste tra di esse una

differenza essenziale, le ultime sono costituite dalle relazioni intrinseche con le altre

determinazioni, mentre quelle della logica naturale lo sono solo implicitamente. Tale

questione è stata affrontata, nel terzo capitolo, relativamente all’operazione della

filosofia sulla struttura concettuale che pervade la nostra esperienza ordinaria del

mondo, sottolineando che essa compie un’esplicitazione sulle categorie o

198

determinazioni di pensiero che operano in modo inconscio; operazione che, portando in

forma esplicita ciò che è già contenuto in quelle determinazioni di pensiero e

costituendole solo a partire da ciò, ne è, al contempo, una trasformazione. Per

sottolineare tale differenza si è fatto ricorso alla differenza tra il significato di un

termine o di un’espressione preso all’interno del discorso ordinario e il suo significato

preso all’interno di un sistema formalizzato, laddove questo non è determinato da altro

se non dalle relazioni interne al sistema. Tale pensiero, dunque, è presentato come una

struttura a maglie mobili che conferisce orientamento alle attività umane. In altre parole,

come si è più volte ripetuto nel corso del lavoro, non riguarda un “sapere che”, ma un

“sapere come”, riguarda le abilità di fare qualcosa, il saper fare. A tal proposito, per

evidenziare la differenza rispetto ad un’attività tra il suo operare e l’operare del pensiero

riflessivo, il pensiero che riflette su qualcosa riguarda il “sapere che”, e per mostrare

come l’uno si incrementi e ristrutturi anche attraverso l’altro, nel contesto della

questione del rapporto tra immediatezza e mediazione del pensiero, abbiamo visto come

Hegel porti diversi esempi, tra i quali quello del pianista: «un difficile brano per

pianoforte può essere eseguito facilmente dopo che lo si è ripetuto molte volte, dopo che

lo si è ripassato pezzo per pezzo; viene eseguito in modo immediato. Ma questa

esecuzione immediata è il risultato di molte azioni singole medianti»220.

(b) Altro modo del pensiero è il pensiero come forma della coscienza, ovvero come

attività che conferisce ordine all’esperienza, come attività distinguibile dalle altre

facoltà o attività: il Nachdenken. Esso è caratterizzato (1) da un elemento di riflessività

che ne fa un «pensare su», «pensare a proposito di»; (2) dall’essere un’attività che

separa e astrae; (3) dal porre tra le determinazioni relazioni necessarie, ossia relazioni

intrinseche alle determinazioni.

Grazie a queste caratteristiche il Nachdenken, per Hegel, svolge l’importantissimo ruolo di

portare a coscienza i pensieri, ossia, grazie alla riflessività che gli è propria, il soggetto può

pensare, può porre ad oggetto del pensiero, le determinazioni di pensiero che operano al

livello inconscio. Il pensiero come Nachdenken, dunque, si mostra come la condizione

necessaria per poter esplicitare le relazioni di pensiero che nel pensiero inconscio operano

ancora in maniera frammentata. Quest’operazione di esplicitazione, svolta al livello

220 VPhR, p. 256.

199

filosofico, è concepita da Hegel come essenzialmente legata alla questione della sua

legittimazione, e dovendo la filosofia caratterizzarsi per la completa assenza di

presupposizioni, alla questione della libertà del pensiero come processo giustificatorio del

pensiero. Se il Nachdenken intellettuale pone relazioni di necessità tra le determinazioni

della riflessione, portandole in questo modo a coscienza, lo fa in maniera ancora astratta,

lega determinazioni di un primo ordine, principalmente quello della rappresentazione,

attraverso relazioni che sono determinazioni di pensiero, lasciando però ciascuna

determinazione di pensiero, nel secondo ordine, nel suo isolamento. L’operazione di

esplicitazione delle relazioni intrinseche alle determinazioni di pensiero è compiuta dal

Nachdenken speculativo in quanto, operando ad un ulteriore livello rispetto alla riflessione

intellettuale, può farle emergere attraverso un processo giustificatorio.

In questo senso sono state lette nei rispettivi capitoli le tre posizioni del pensiero

rispetto all’oggettività che precedono l’inizio della Logica enciclopedica, e in cui la

nozione del pensiero nei suoi differenti modi trova una prima articolazione. Tali

posizioni sono state approcciate, certamente come referenti di modi storicamente

determinati attraverso cui la riflessione filosofica si è mossa nel determinare il rapporto

fra pensiero e realtà, ma soprattutto in quanto modi di considerare il pensiero che

rimandano ad atteggiamenti generali di rapporto del pensiero nei confronti del reale.

Atteggiamenti di pensiero nei confronti della realtà con le corrispettive modalità di

legittimazione, o si potrebbe dire, con le corrispettive modalità di articolare ragioni.

Atteggiamenti di pensiero che presentano punti di forza e punti di debolezza.

La prima posizione del pensiero rispetto all’oggettività corrisponde ad ogni

atteggiamento del pensiero nei confronti della realtà, da quello del senso comune a quello

delle scienze naturali, in quanto riconducibile ad un pensiero di tipo metafisico. Come si

è cercato di mostrare, il pensiero metafisico è generalmente inteso come un pensiero che

è caratterizzato da un bisogno di fondazione in cui questa è concepita esterna al fondato.

Un fondamento, cioè, una «salda base di appoggio», esterno al pensiero e su cui e a

partire da cui il pensare avanzerebbe le proprie pretese. Ogni modalità di pensiero, sia

questo quello delle scienze empiriche, delle scienze astratte, o di particolari filosofie che

avanzi una tale pretesa, è, secondo Hegel, riconducibile a tale atteggiamento di pensiero.

Lo stesso empirismo, che è trattato nella seconda posizione del pensiero rispetto

200

all’oggettività, presenta elementi di carattere metafisico. Punto di forza, ma al contempo

anche di debolezza di questa posizione, è la fede che riflettendo possiamo sapere cosa c’è

di vero negli oggetti, negli avvenimenti e anche nei sentimenti, nelle intuizioni, nelle

rappresentazioni ecc. Questa fede, che caratterizza anche il senso comune, è un punto di

forza in quanto afferma, al livello del contenuto, la conformità tra il pensiero e il reale; è

un punto di debolezza in quanto è solo una fede, e, dunque, un presupposto.

Il riflettere pone delle relazioni di necessità tra le determinazioni del dato

immediato, sia questo rappresentativo, intuitivo, ecc., quali quelle di universale e

particolare, causa ed effetto, ecc., e considera, sulla base della fede dell’identità di

pensiero ed essere, tali determinazioni del pensiero come determinazioni fondamentali

delle cose. Tuttavia, l’immediatezza in cui è posta la relazione di pensiero ed essere,

implica che i due relati stiano tra loro in relazione di esteriorità e che dunque siano posti

l’uno indipendentemente dall’altro. In questo modo, l’essere è implicitamente assunto

come un ente nudo e neutro, e il pensiero come le proprietà indifferenti rispetto

all’essere. La concezione della conoscenza che ne risulta, si caratterizza come

l’attribuzione di predicati ad un soggetto, in cui il soggetto è concepito come un ente

indifferente e i predicati sono più o meno immediatamente presi come attributi o

proprietà dell’ente preso come soggetto, e predicabili di esso. Sulla base del modello

ontologico dell’oggetto che emerge a partire da quest’atteggiamento del pensiero nei

confronti del reale, il conoscere è ridotto all’attribuzione di predicati al soggetto; e il suo

compito all’individuazione di quali predicati siano attribuibili al suo oggetto.

Si è visto come l’elemento vincolante l’individuazione e l’attribuzione dei

predicati sia la rappresentazione dell’oggetto. Il predicato viene individuato e attribuito a

partire dall’analisi della rappresentazione del soggetto e attraverso l’esclusione delle

proprietà opposte. In altri termini, l’operazione di individuazione delle proprietà

dell’oggetto e delle sue relazioni ad altro dipenderebbe dall’“idea” che ne abbiamo; le

proprietà e le relazioni in contraddizione con essa verrebbero escluse, come se quest’idea

data fosse assunta, più o meno immediatamente, come l’idea adeguata dell’oggetto.

Ponendo come criterio del vero la rappresentazione, l’atteggiamento metafisico oltre che

affidarsi ad un dato, prende per oggettivo ciò che è fortemente soggettivo, essendo la

rappresentazione un prodotto essenzialmente segnato dalla particolare storia, cultura,

201

educazione, ossia dalle innumerevoli variabili, di carattere soprattutto empirico, che

determinano la vita spirituale, o l’attività mentale in senso ampio, del soggetto che la

pensa. In questo, essendo il criterio legittimante le pretese di verità di tale atteggiamento

del pensiero intrinsecamente dipendente dall’attività mentale del soggetto o dei soggetti

particolari e dunque intriso di variabili contingenti e non padroneggiabili, il pensiero

metafisico si mostra incapace di giustificare le proprie posizioni, e la sua modalità di

produrre giustificazioni soggetta alla critica all’empirismo.

A partire da ciò, si è sostenuto, che un tale atteggiamento di pensiero non possa che

produrre differenti visioni del mondo, più o meno irriducibili tra loro, fortemente

dipendenti dalle differenze storico-culturali dei loro soggetti.

La seconda posizione del pensiero rispetto all’oggettività, presa in considerazione nel

terzo capitolo, è divisa in due parti – empirismo e filosofia critica – e accomuna ogni

atteggiamento del pensiero nei confronti della realtà - quello delle scienze naturali,

quello delle filosofie che su di esse si basano, e quello della filosofia critica - attraverso

due aspetti: a) da un lato per il bisogno di un «saldo punto d’appoggio» che viene

trovato nell’esperienza; b) dall’altro lato per una forte accentuazione dell’elemento

soggettivo rispetto a quello oggettivo che porta direttamente ad un’accentuazione di un

modello conoscitivo soggettivo, quello dell’analisi. Al livello ontologico, in questa

posizione viene approfondito e portato a maggior esplicitazione e coerenza il modello

ontologico del substrato.

Nonostante le poche pagine dedicate da Hegel alla sezione intitolata empirismo, nel

lavoro mi sono particolarmente soffermato su di essa. Ciò principalmente per il motivo

che, a partire dal fatto che in essa Hegel tratta sia dell’atteggiamento di pensiero alla

base delle scienze empiriche che delle filosofie dell’empirismo, in esso Hegel vede

l’emergere di quello che chiama il «grande principio dell’esperienza», principio che si

oppone alla duplicazione dei mondi, ossia all’istituzione di sensi che sovradeterminano

la realtà a partire da un suo presunto dover essere, che caratterizza le immagini o visioni

del mondo. Come si è cercato di mostrare, l’importanza di tale aspetto del principio

dell’esperienza è pienamente fatto proprio dalla stessa filosofia speculativa nel

riconoscimento della necessità «del suo accordo con la realtà e con l’esperienza» (Enz. §

6). Si è mostrato come uno dei principali elementi distintivi tra la filosofia speculativa e

202

l’empirismo sia la modalità in cui questo accordo è ricercato. Mentre l’atteggiamento di

tipo empirista cerca la giustificazione della teoria scientifica o della particolare filosofia

nell’accordo con la realtà e l’esperienza, la filosofia speculativa non può appoggiarsi su

tale forma di giustificazione, e ciò a partire da una radicalizzazione proprio delle stesse

istanze di libertà che animano le scienze moderne e l’empirismo.

In tale principio, inoltre, Hegel vede implicato il principio della libertà, ed in questo

tanto la filosofia quanto il pensiero secondo la sua più alta determinazione, secondo

Hegel, risultano essere conformi a questi due principi dell’empirismo.

Al cuore dell’atteggiamento di pensiero che anima le scienze moderne, nascendo

queste in contrapposizione ai dogmi dell’autorità ecclesiale e della scolastica, ci sarebbe

il rifiuto di riconoscere autorità non naturali. Questo rifiuto di autorità date non è che il

principio della libertà che anima la stessa filosofia e che in essa assume la forma del

pensare puramente. I principi che animano le scienze moderne sono conformi ai principi

che animano il pensiero filosofico, quelli di quest’ultimo non ne sono che una

radicalizzazione. Infatti, se le scienze empiriche possono procedere sperimentalmente e

fare appello per le proprie ragioni ai dati della natura, alla filosofia, seppur il suo

risultato debba concordare con essa, non è permesso fare appello a questi dati per

giustificare le proprie operazioni, non perché faccia ricorso ad entità o principi sovra-

extranaturali, ma solo in quanto questi dati sarebbero ancora appunto autorità date. La

giustificazione che la filosofia richiede per assurgere allo statuto di scienza si pone su un

livello ulteriore.

A partire da quest’uniformità di principi con le scienze moderne, si è cercato di

mostrare l’importanza di queste, e del Nachdenken - come modo di pensiero proprio

delle scienze particolari -, per la filosofia. In questa prospettiva ci si è soffermati

sull’opera di trasformazione attuata dal Nachdenken sulle intuizioni, percezioni,

rappresentazioni, che conferisce ai loro contenuti la forma di leggi, universali, pensieri

di ciò che esiste. Attraverso una tale operazione, le scienze offrono il materiale alla

filosofia permettendole di operare su un materiale derivato dall’esperienza ma elevato

alla forma del pensiero. L’esteriorità a partire dalla quale Hegel pensa il rapporto tra la

costituzione ontologica della natura e lo sviluppo concettuale, obbliga a reperire

l’universale, con cui la filosofia ha a che fare nella sfera della natura, a partire dalla

203

stessa natura221. Questo reperimento è effettuato dalle scienze empiriche. Sottolineare

una tale operazione e soffermarsi sull’operazione operata dalla filosofia sulle scienze è

alla base per una lettura non-aprioristica della filosofia hegeliana. Come ricordato

nell’introduzione all’ultimo capitolo, questa lettura permette di considerare la posizione

hegeliana come una posizione per la quale nel mondo è rintracciabile un ordine che

trova nella natura una non completa o imperfetta realizzazione, e che si mostra

essenzialmente aperto alla trasformazione, per lo meno nelle sue determinazioni meno

generali; un ordine cioè che sia del mondo e aperto alle trasformazioni del mondo.

Ossia, al livello epistemologico, la teoria volta alla sua formulazione deve essere

essenzialmente rivedibile sulla base delle istanze di correzione delle categorie

esplicative che gli stessi elementi di novità del mondo recano con sé. Di qui si è

sostenuto l’importanza dell’elemento auto-correttivo delle scienze e della ragione in

genere. Riconoscere al mondo un ordine, in termini hegeliani una razionalità, che non

sia a priori, significa riconoscere che la trasformazione del mondo può implicare la

trasformazione delle determinazioni del suo stesso ordine, e dunque che deve implicare

delle trasformazioni delle categorie volte alla sua formulazione.

La critica all’empirismo si basa sul fatto che, per Hegel, questo si presenta, nonostante

ricerchi il «saldo punto d’appoggio» nell’esperienza, sbilanciato sul lato soggettivo del

conoscere. L’elemento legittimante la connessione delle idee, infatti, è ricercato,

secondo la modalità propria dell’empirismo di declinare il principio dell’esperienza,

nella presenza del dato alla coscienza, ossia nella presa della coscienza sul concetto: la

certezza. Porre come elemento legittimante la nostra presa sui concetti, e non la presa

dei concetti su di noi, induce a ricercare la giustificabilità delle connessioni tra idee nel

fatto empirico mancando da principio di porre una distinzione tra origine e validità di

queste connessioni. In altri termini, nell’indistinzione tra il fatto e il diritto, la

leggitimazione delle connessione spetta al fenomeno, al contenuto esperienziale. Con

ciò, l’empirismo, perlomeno quello che Hegel indica come empirismo ingenuo o

metafisico, sarebbe tutto interno ad una prospettiva rappresentazionalista del pensiero.

Ossia: la prospettiva per cui è il contenuto cognitivo l’elemento fondamentale per

spiegare l’attività di pensiero: le connessioni di pensiero, gli stati e gli atti mentali,

221 Cfr. NUZZO A., Logica e sistema, cit., p. 473.

204

acquisirebbero senso, un riferimento e una validità, solo a partire dal contenuto, e non

dalle connessioni di pensiero in cui sono coinvolti. Contro la prospettiva

rappresentazionalista, Hegel propone un olismo concettuale per il quale comprendere un

determinato concetto o rappresentazione implica il saper padroneggiare le relazioni

concettuali in cui è coinvolto, e questo senza disconoscere l’importanza dell’elemento

propriamente rappresentativo.

A differenza dell’empirismo ingenuo, quello che Hegel chiama empirismo coerente è

destinato allo scetticismo. Infatti esso, più che giustificare i nessi concettuali nel

contenuto empirico, riconosce che i dati delle percezioni non si presentano che nella

successione, nella giustapposizione e nella moltitudine, essenzialmente differenti tanto

dalla necessità quanto dall’universalità. Come si è affermato, l’empirismo si trova così

preso in un doppio vincolo: da un lato mantiene la percezione come l’elemento che deve

legittimare le connessioni di pensiero, ma dall’altro si trova a dover ammettere che la

percezione non può svolgere alcun ruolo legittimante per le connessioni di pensiero. Se

ciò che può svolgere adeguatamente un determinato ruolo deve avere i titoli per

svolgerlo, la percezione, così concepita, non può svolgere alcun ruolo legittimante per le

connessioni di pensiero proprio perché, in quanto separata, astratta, dal pensiero, non

può essere presa all’interno di un procedimento che è un procedimento di pensiero,

quello di articolare ragioni.

Nella seconda parte della seconda posizione del pensiero rispetto all’oggettività, si è

analizzata la critica alla filosofia critica sulla base della sua determinazione del pensiero

come «universalità astratta».

Nonostante il grande merito che Hegel attribuisce a Kant di aver avanzato l’istanza di

attuare un esame delle determinazioni di pensiero nella convinzione, a differenza

dell’empirismo coerente, che solo nel pensiero sia comunque reperibile una qualche

forma di oggettività, tale esame è attuato, secondo Hegel, solo in relazione

all’opposizione tra soggetto ed oggetto, o perlomeno a partire da essa. In altri termini, le

determinazioni di pensiero non sono analizzate in sé e per sé, ma in quanto categorie di

un soggetto conoscente che si applicano ad un oggetto. Dunque, come categorie astratte

rispetto ad un contenuto. Secondo la ricostruzione hegeliana della filosofia kantiana, le

205

categorie non hanno senso o non possono in alcun modo fornire conoscenze a meno che

non siano supportate da dati empirici.

L’accusa di formalismo che Hegel muove al modo di concepire il pensiero che è tipico

della filosofia kantiana, si radica nel fatto che Kant tratta le categorie del pensiero a

partire dalla questione se esse siano soggettive o oggettive. A partire da tale

opposizione, il riferimento ai dati empirici viene ad essere un elemento determinante la

stessa natura del pensiero: i pensieri sono vuoti di per sé, la loro natura richiede, per

usare una terminologia di Husserl, un riempimento. Con ciò, l’esame delle

determinazioni di pensiero è condotto sulla base del loro possibile contenuto, od ambito

d’applicazione, non in sé e per sé.

L’opposizione tra soggetto ed oggetto a partire da cui la filosofia critica si

muoverebbe, la condannerebbe, quindi, secondo la ricostruzione hegeliana, ad

un’immagine distorta del pensiero. Secondo la prospettiva anti-rappresentazionalista

abbracciata da Hegel, le determinazioni di pensiero non si definiscono nei termini del

loro contenuto esterno; piuttosto, è il contenuto a definirsi in termini di pensiero. Le

categorie, dunque, per Hegel, non sono vuote in se stesse. In tanto che sono determinate,

oltre al contenuto sensibile a cui possono applicarsi, esse hanno comunque un

“contenuto”. Attribuendo un carattere intensionale alle determinazioni di pensiero prese

in sé e per sé, si è sostenuto anche che tale attribuzione può essere altamente fuorviante

in quanto tendente a spiegare in termini rappresentativi ciò che definisce le

determinazioni di pensiero, e che non è altro dalle stesse relazioni concettuali che

intercorrono tra le varie determinazioni. In questo senso è da interpretare l’asserto

hegeliano per cui «a proposito di un concetto, non si deve pensare che il concetto

stesso» (Enz. § 3 A).

Questo elemento “intensionale” delle determinazioni di pensiero viene in luce con la

terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività. Esso si caratterizza dal considerare

il pensiero «come attività del particolare». Esso, come si è visto, riconosce che al di là

del contenuto rappresentativo, le determinazioni di pensiero presentano una particolarità

formale, ossia sono forme aventi particolari determinazioni indipendentemente dal

contenuto. Tuttavia, riducendo il pensiero al Nachdenken intellettuale, considera la

particolarità delle determinazioni del pensiero solo in quanto finita, limitata. In questo

206

modo, il conoscere, come risulta da questa concezione del pensiero, rivolgendosi ai

propri oggetti mediante categorie o concetti finiti - come i rapporti di causa ed effetto, di

ragione e conseguenza, di forza e sua espressione - coglie le loro relazioni secondo la

necessità che lega il condizionato alla sua condizione. Tuttavia, essendo ogni contenuto,

per la limitatezza della forma, finito, la stessa condizione è a sua volta un condizionato,

e dunque richiedente un’ulteriore condizione.

Oltre alla particolarità relativa alla forma, dunque, si è sottolineato che la particolarità

attribuita al pensiero nell’espressione «pensiero come attività del particolare», vada ad

indicare lo stesso ambito di applicazione di tale pensiero, quello degli enti particolari.

Ulteriore senso di quest’espressione è poi stato individuato, in contrapposizione a

quella che Hegel propone come la più alta determinazione del pensiero - «attività

dell’universale concreto», e a partire dal modo di procedere del pensiero così concepito

– si è visto come nel procedere analitico la ricerca, come ricerca su qualcosa, sia

essenzialmente guidata dagli scopi e dagli interessi del ricercatore -, come la

particolarità del soggetto pensante, non tanto come la particolarità di una specie

animale, ma come la particolarità o idiosincrasia di un io assorbito dai suoi stati o

attività mentali, e di cui il pensiero non è che un’attività particolare tra altre.

Nel penultimo capitolo si è mostrato come rispetto alle determinazioni del pensiero

come universalità astratta o attività del particolare, Hegel contrapponga “la più alta

determinazione” del pensiero come universalità in sé concreta. Si è mostrato, inoltre,

facendo di riferimento alla differenza tra il pensiero sulla cosa e il pensiero della cosa,

come questa determinazione del pensiero emerga propriamente solo con il Nachdenken

speculativo.

In questo capitolo è emerso come Hegel contrapponga ad un modello che concepisce

il pensiero come un’attività separata o separabile dai suoi prodotti (i pensieri, le idee), e

che concepisce i pensieri come enti a sé stanti in un qualche spazio interiore cui

l’attività di pensiero di un soggetto si relaziona, un modello per il quale il prodotto

dell’attività del pensiero non è un qualcosa di esterno all’attività che lo produce, ma una

determinatezza dell’attività, cioè una determinatezza del pensiero. Il pensiero come

prodotto dell’attività del pensare è una determinatezza dell’attività e dunque esso stesso

attivo. Parimenti, se i pensieri sono le determinazioni dell’attività di pensiero, non c’è

207

un pensiero come attività al di là dei pensieri come prodotti. Il tutto del pensiero non è

che in questi prodotti; essi non sono che la forma, più o meno determinata, attraverso

cui l’attività si realizza. La produzione di una determinatezza da parte del pensiero non è

dunque che il determinarsi immanente di questa stessa attività. Questo è quanto

determina il pensiero come soggetto: essendo attivo, il pensiero dà a se stesso forma,

determinazione; agisce su di sé; e tale azione lo determina e lo fa essere ciò che è. In

questo senso, il pensiero non è una mera universalità astratta, ossia non è un universale

sempre in istanza di riempimento, ma è un’universalità in sé concreta in quanto ricco

delle determinazioni che lo costituiscono. Mentre l’universalità astratta è un’universalità

esteriore in quanto, essendo la nota comune ad un gruppo di individui, determinata

astraendo dagli elementi che li distinguono, e, dunque, legando individui differenti

scartando le differenze, non può che presentare un legame esteriore tra gli individui,

l’universalità concreta è l’universalità che presenta un legame interno con ciò che la

esemplifica.

Attraverso la differenza tra pensiero sulla cosa e pensiero della cosa, si è articolata

nuovamente la differenza tra il pensiero come universale astratto e il pensiero come

universale in sé concreto in rapporto alla questione della soggettività o oggettività del

pensiero. Tale differenza è stata evidenziata ponendo il problema di come «la vera

natura della Cosa» possa emergere a partire da una trasformazione che viene attuata dal

Nachdenken sul contenuto della coscienza, essendo questa trasformazione, e dunque

quella «vera natura», un prodotto dell’attività mentale del soggetto pensante. In altri

termini: rispetto alla maggiore o minore caoticità dell’esperienza pre-scientifica del

mondo, e alla sua relativa strutturazione settoriale operata dalle particolari discipline

scientifiche, si presenta il problema di come attuare una loro strutturazione logico-

concettuale in una concezione del mondo che non sia una concezione tra altre, ossia che

non sia un’ulteriore visione o immagine del mondo, ma che corrisponda effettivamente

all’ordine del mondo. In che senso dunque il pensiero può assumere oggettività?

Si è distinto un elemento formale ed un aspetto contenutistico dell’oggettività

attribuibile al pensiero nei passi del testo hegeliano cui si è fatto riferimento.

Innanzitutto, come si è visto, il pensiero del soggetto empirico particolare, in quanto

attività di un soggetto particolare, può produrre solo un sapere affetto dall’accidentalità

208

delle variabili che ne definiscono la particolarità. In questo, può solo produrre visioni,

immagini, concezioni della cosa o del mondo tra altre. Solo attraverso un’operazione di

desoggettivazione, operazione che si manifesta nel voler pensare puramente, e

consistente nell’eliminazione degli elementi di accidentalità, tra cui tutti i propri

pregiudizi e presupposti, che intaccano l’esperienza conoscitiva del soggetto

conoscente, il suo pensiero può assurgere alla forma dell’oggettività. Questo pensiero

non è altro dal pensiero del soggetto particolare, se non che il pensiero diviene soggetto,

è esso il soggetto della propria attività, mentre il soggetto particolare non ne è che il

portatore. L’oggettività del pensiero in senso formale, dunque, non implica di per sé la

presenza di pensieri o di un’attività di pensiero al di fuori della sfera mentale, ma indica

il determinarsi del pensiero unicamente sulla base di se stesso. Sulla base di questa

libertà del pensiero, libertà dai presupposti e dalle particolarità in genere dell’attività

mentale del soggetto finito, il pensiero può determinarsi in conformità alla struttura

razionale del mondo.

Ulteriore condizione posta da Hegel affinché il pensiero sia pensiero oggettivo, infatti,

è che questo sia pensiero della Cosa, che esso si approfondisca nella Cosa. Questa

modalità del pensiero è stata chiarita in contrapposizione con il Nachdenken intellettuale

che si caratterizza per un procedere sulla cosa attraverso il metodo analitico. Secondo

quanto mostrato, l’analisi è volta a ricavare nell’oggetto concreto elementi universali. A

tal fine scompone gli individui in una pluralità di universali, disgiungendo le

determinazioni dell’oggetto, astraendole le une dalle altre e conferendo loro la forma

dell’universalità. Tale modo di operare, però, conduce ad un’ontologia atomista in cui

l’oggetto è ridotto ad una molteplicità di proprietà tra loro irrelate. Il problema

principale cui si trova a far fronte l’analisi è appunto quello di ridare unità alle

determinazioni astratte ricavate per scomposizione. L’unica unità che è in grado di

raggiungere è l’unità astratta dell’aggregato, in cui le proprietà permangono in una

relazione esteriore l’una rispetto all’altra. Quest’unità, cioè, è posta solo dal soggetto

pensante attraverso la sua riflessione sulla cosa, e rimane perciò un’unità esteriore e

astratta. A quest’universalità astratta Hegel contrappone l’universalità concreta come

unità di determinazioni distinte immanente alla cosa. Quest’universalità concreta,

principio di unità della cosa, sarebbe il vero della cosa, o in altri termini la sua essenza.

209

Hegel dunque, propone in alternativa ad un’ontologia atomista e al modello

epistemologico dell’analisi, un modello ontologico e un modello epistemologico ad esso

appropriato che si basano su una concezione dell’universale essenzialista e realista. In

questo senso, si è sostenuto che il pensiero acquisisce oggettività nel proprio

determinarsi in conformità alla struttura dell’universale concreto della cosa; e dunque

che il pensiero oggettivo non è che lo stesso pensiero del soggetto, affrancato dalle sue

particolarità, in quanto si articola secondo la struttura d’ordine dell’oggetto stesso, e del

mondo nel suo complesso.

Nell’ultimo capitolo si è percorsa la teoria della mente hegeliana, così com’è

rintracciabile all’interno della sezione della spirito teoretico della psicologia nella

filosofia dello spirito soggettivo dell’Enciclopedia, cercando di mostrare come Hegel

operi una radicale messa in discussione della tesi per cui la relazione conoscitiva del

soggetto sia condotta esclusivamente attraverso strumenti rappresentativi che, trovando

il proprio fondamento solo nel soggetto conoscente, fanno dell’organizzazione razionale

dell’esperienza il semplice prodotto di requisiti categoriali imposti ad essa dal di fuori.

Senza con ciò dover necessariamente cadere all’interno di un razionalismo, più o meno

spinto, che ammetta la presenza di una struttura a priori del mondo.

Approcciando la filosofia dello spirito soggettivo hegeliana mi sono appoggiato alla

prospettiva che cerca di sostenere che nella filosofia hegeliana non ci sia alcuna frattura

tra spirito e natura, e dunque nessun dualismo, senza tuttavia dover sostenere la tesi del

naturalismo spinto, ossia che l’attività spirituale sia riducibile, senza una grossa perdita

informativa, in termini causali. In altre parole, secondo questa prospettiva, Hegel

presenta un moderato naturalismo che cerca di sfuggire tanto al dualismo quanto al

fisicalismo.

Muovendo con l’analisi della critica alla psicologia empirica, ho sottolineato come

questa fosse riconducibile in toto, all’interno della critica effettuata al metodo

dell’analisi. Lo spirito, nella psicologia empirica è analizzato nei suoi differenti

fenomeni mentali attraverso la loro attribuzione a differenti facoltà o attività. Tali

facoltà vengono enumerate e descritte isolatamente, concepite come sussistenti l’una

accanto all’altra in modo indipendente. All’atomismo ontologico così, corrisponde, al

livello spirituale, l’ipostatizzazione di differenti facoltà l’una posta accanto alle altre.

210

Così come l’analisi scompone l’oggetto nei suoi diversi elementi perdendone l’unità,

così la psicologia empirica perde l’unità vivente dello spirito nella confusione dell’agire

delle diverse facoltà. Attraverso tale critica emerge l’istanza di unità all’interno dello

spirito, unità atta a spiegare le connessioni delle differenti facoltà.

Principio d’ordine dello spirito, sia ontologico che epistemologico, ossia ciò che

individua e ciò che spiega lo spirituale, è secondo Hegel la libertà, ossia

l’autodeterminazione dello spirito. In altri termini, lo spirito è essenzialmente attività in

grado di autodeterminarsi, e i fenomeni spirituali devono essere spiegati quali

manifestazioni o prodotti di un’attività che si autodetermina. A partire da questo

principio Hegel tratta e ordina nelle loro relazioni reciproche i fenomeni e le attività

spirituali. Lo sviluppo dello spirito teoretico, dunque, non è stato considerato né come

uno sviluppo temporale delle facoltà dello spirito, né come il loro sviluppo

trascendentale, ma come il movimento di progressiva liberazione attraverso le forme in

cui la mente conosce ciò che gli è dato appropriandosene. Secondo quanto emerso in

relazione al principio della libertà, dunque, nello spirito teoretico Hegel espone le

modalità con cui lo spirito soggettivo trasforma un contenuto conoscitivo dato in un

contenuto razionale.

Partendo, dunque, dall’elemento in cui maggiore è la passività nello spirito teoretico, si è

mostrato attraverso il parallelo istituito tra l’intuizione – primo momento della psicologia

– e la sensazione – primo momento dell’antropologia -, come attraverso quest’ultima

Hegel volesse mantenere un dato non-concettuale che lo spirito trova in sé. E dunque,

mantenere un punto di partenza per ogni conoscenza che non fosse strutturato

concettualmente. Esso, come materiale immediato dell’attività mentale, non può, però,

fungere in alcun modo da vincolo oggettivo, e dunque valere come dato epistemologico.

Come affezione meramente passiva, il dato immediato, infatti, può svolgere una funzione

cognitiva solo se inserito in una struttura cognitiva. Ma inserito in una struttura cognitiva,

esso non è più quel dato interamente passivo dell’anima. Con ciò si è voluto sottolineare

che sebbene la conoscenza abbia le sue radici nell’impatto sensoriale tra uomo e mondo,

tale dato immediato viene superato nel processo di giustificazione messo in opera dal

pensiero. In quest’ottica, si è sostenuto che Hegel cerchi di mantenere una presa con

l’esperienza - di qui, ad un ulteriore livello, l’importanza del lavoro attuato dalle scienze

211

empiriche per la filosofia - per la quale la conoscenza si mostra dipendente dalle nostre

interazioni con il mondo, ma tale dipendenza dev’essere superata attraverso il processo di

legittimazione operato dal pensiero che rende la conoscenza giustificata. La dipendenza

della conoscenza dall’interazione con il mondo non è che una dipendenza genetica, non

epistemica.

Con l’intuizione, a differenza che con la sensazione, si ha a che fare non più con meri

input sensoriali, ma con una «pienezza interrelata di determinazioni», corrispondente

all’oggetto spazio-temporalmente determinato con cui abbiamo usualmente a che fare.

Per questo motivo, se la sensazione era solo uno stato mentale con contenuto sensoriale

diretto su una singolarità, l’intuizione invece è una forma di conoscenza materiale diretta

su una singolarità. Sebbene l’oggetto dell’intuizione sia razionale, esso è ancora una

singolarità. Per essere dotato di universalità esso dev’essere interiorizzato e posto nella

memoria attraverso la capacità rappresentativa. Con l’Erinnerung l’esteriorità del dato

intuito viene negata e dunque l’oggetto viene posto nello spazio e tempo interiore come

immagine. Posto come immagine l’oggetto è astratto dal suo contesto spazio-temporale,

così l’immagine presenta una struttura interna astratta dallo spazio e dal tempo

determinati e si definisce come l’immagine di un oggetto che non ha un particolare

spazio e che non ha un particolare tempo. Sulla base di tale astrazione o generalità,

l’immagine ritenuta acquisisce un potere normativo rispetto alle successive intuizioni

degli stessi oggetti. Di per sé l’immagine è fuggevole e momentanea; l’oggetto come

immagine, è conservato nell’inconscio trasformato in una sua potenzialità.

Si è sostenuto che concepire le immagini come delle potenzialità che abbisognano di

essere riattualizzate dalle intuizioni presenti, piuttosto che degli enti mentali discreti

celati allo sguardo di un presunto occhio mentale, significa concepirle come delle

capacità, delle abilità di costruzione di immagini. Con il ricordo, cioè, non vengono

collegati due enti, l’intuizione e l’immagine mentale inconscia, ma viene prodotta una

rappresentazione attraverso l’attualizzazione di una potenzialità. Quest’abilità, nata

dall’astrazione del contesto spazio-temporale, non risulta legata alla singolarità

dell’oggetto intuito e può dunque ripetersi su oggetti che presentano le stesse

caratteristiche. In questo senso si ha una sorta di sussunzione dell’intuizione sotto

un’immagine generale; sussunzione che non è altro che una prima forma di

212

riconoscimento. Questa sorta di prima forma di riconoscimento è ancora un

riconoscimento pre-linguistico e pre-concettuale. Esso riguarda, piuttosto che un

riconoscimento in senso pieno, un processo di familiarizzazione rispetto alle cose e

all’ambiente, dipendente dall’occorrenza ripetuta di determinate intuizioni. In altri

termini, che ci sia riconoscimento, non implica che vi sia una coscienza riflessiva

sull’operazione compiuta, ma ciò nondimeno non significa che non vi sia un certo livello

di riflessività. La familiarizzazione si incrementa con la progressiva facilità con cui

un’abilità viene eseguita, e tale facilità dipende direttamente dalla sua ripetizione. Si

tratta dunque di una forma di conoscenza che non riguarda il «sapere che», ma il «sapere

come»; non è una conoscenza teoretica, ma pratica: o meglio, si tratta della capacità di

produrre le proprie rappresentazioni attraverso un processo di progressiva

familiarizzazione attraverso cui lo spirito acquisisce una sempre maggiore padronanza su

di esse.

Attraverso la critica del modello proposto dall’associazionismo delle idee, Hegel propone

il proprio modello olistico del mentale. Non ci sono leggi attraverso cui le

rappresentazioni vengono collegate alle intuizioni immediate e attraverso cui sono

collegate le une alle altre. Come si è visto, da un lato, quelle che gli associazionisti

chiamano leggi non sono leggi, in quanto non presentano i titoli per essere considerate

tali; dall’altro lato, in ogni caso, il mentale, secondo Hegel, non può essere spiegato

attraverso leggi: le leggi, secondo Hegel, relano sempre due termini che permangono

indipendenti l’uno rispetto all’altro. Degli atti mentali secondo Hegel bisogna dar conto,

per la loro stessa natura, attraverso spiegazioni di tipo olistico. Così, tanto le relazioni tra

le rappresentazioni quanto le stesse rappresentazioni devono essere spiegate sulla base

della loro posizione, che ne individua il ruolo, all’interno di un sistema olistico.

Prima attraverso l’immaginazione riproduttiva poi attraverso l’immaginazione produttiva,

la mente si libera della necessità dell’intuizione presente per attualizzare l’immagine e

poi attraverso il linguaggio si libera della stessa immagine dell’oggetto. Dopo il processo

di interiorizzazione e idealizzazione, inizia il secondo processo dello spirito: la propria

manifestazione o esteriorizzazione. In questa parte della psicologia Hegel analizza come

l’intelligenza conferisce alle proprie rappresentazioni universali un’esistenza empirica

particolare nei segni e nel linguaggio. Quest’esistenza empirica particolare diviene

213

l’oggettività in cui l’intelligenza intuisce se stessa. Attraverso il linguaggio complesse

operazioni mentali vengono significate dai “nomi”. Il “nome” come rappresentante

dell’operazione mentale rende possibile allo spirito di avere a che fare con le proprie

operazioni senza essere costretto ogni volta alla loro esecuzione. Quando Hegel

contrappone alla tesi per cui pensiamo in immagini, la tesi per cui pensiamo nei nomi,

sembra intendere, non tanto che non ci sia un “pensiero” per immagini, o che per lo più,

ordinariamente, non si pensi con immagini, ma che il nome offre la possibilità di pensare

senza che la mente debba istanziare mentalmente ciò che da esso è significato. Al livello

formale, inoltre, il linguaggio, attraverso gli operatori – le determinazioni di pensiero

implicite nel linguaggio, ciò che Hegel chiama l’istinto logico del linguaggio -,

costituisce l’elemento e la base formale attraverso cui la mente pensa. Attraverso questi

aspetti del linguaggio, dunque, la mente può designare le proprie operazioni come pure

relazionarle e pensarle secondo le loro relazioni interne. Si è sostenuto che con ciò non si

intende affermare che i “nomi” vengano prima del pensiero, ma che l’attività soggettiva

del pensiero si articola all’interno della dimensione discorsiva.

L’attività dell’intelligenza propria nel momento del pensiero consiste essenzialmente nel

produrre relazioni tra concetti, determinandoli attraverso le relazioni che li costituiscono

l’uno rispetto all’altro. Il primo momento del pensiero è l’operare dell’intelletto che

elabora le rappresentazioni, in generi, specie, forze. Attraverso il pensiero, cioè, la

capacità della mente di associare le immagini assume determinate strutture d’ordine

divenendo normativa, ossia le relazioni attraverso cui differenti immagini o

rappresentazioni venivano collegate tramite un gioco di associazione, ora si trasformano

in regole di connessione determinanti strutture d’ordine. Così un genere o una specie non

è che la struttura d’ordine a cui le determinazioni che la costituiscono riportano le

immagini e rappresentazioni degli enti di quel genere o specie. Con il giudizio, quale

secondo momento del pensiero, emerge chiaramente la sua attività come attività di

interconnesione dei concetti. Il paradigma con cui Hegel pensa il giudizio è l’attribuzione

d’essenza. In questo senso, nel giudizio al soggetto è predicata la sua essenza e dunque

sono uniti due concetti. Ciò che permette la relazione tra i due concetti nel giudizio in

Kant era identificato nell’unità dell’appercezione del soggetto pensante; in Hegel è

anch’esso un terzo, ma un terzo che non è altro dai termini in gioco, esso è il concetto

214

della cosa, cioè il suo universale concreto. Due concetti sono legati in un giudizio quando

essi sono momenti di un terzo concetto che corrisponde, a gradi diversi, all’universale

concreto della cosa, alla sua essenza.

La forma rigida in cui i termini del giudizio sono presi, viene superata nel sillogismo. Nel

sillogismo viene esplicitamente posta l’interrelazione concettuale che già operava al

livello implicito nel giudizio. La forma sillogistica, cioè, espone un concetto come un

sistema di relazioni concettuali esplicitandone la natura: sono individuali, particolari,

universali. I concetti sono individuali, e dunque differiscono l’un l’altro; sono particolari,

in quanto determinazioni di un universale più astratto; sono universali, in quanto aventi

determinazioni di specie o individui al di sotto di sé. Il sillogismo non è dunque che

l’unità concettuale articolata da differenti concetti, il nodo in cui più fili si uniscono. In

esso si può riconoscere quella che è stata indicata come determinazione più alta del

pensiero, il suo universale concreto. Con l’unità concreta del sillogismo, il pensiero è

conforme alla stessa struttura della Cosa, al suo universale concreto, ossia è il pensiero

della Cosa che ne coglie la verità. Con il sillogismo, cioè, il pensiero può cogliere

adeguatamente le strutture complesse del mondo. Il sillogismo, infatti, si mostra come la

stessa «forma del razionale»: «“tutto è sillogismo”. Tutto è concetto, e il suo essere

determinato è la distinzione dei suoi momenti, per cui la sua natura universale si dà realtà

esterna mediante la particolarità e, come riflessione-in-sé negativa, si trasforma in

singolare. – O, viceversa, l’effettivamente reale è un singolare che si innalza al piano

dell’universalità mediante la particolarità e si fa identico a sé. – L’effettivamente reale è

uno [...], ma è anche il separarsi dei momenti del concetto, e il sillogismo è il processo

circolare della mediazione dei suoi momenti, mediante il quale processo si pone come

uno» (Enz. § 181 A). Il sillogismo, dunque, essendo legate in esso le differenti

determinazioni della Cosa nella loro unità, è la forma del razionale, come tale esso è la

forma dell’oggettivo cui la stessa attività pensante del soggetto può pervenire.

Ritornando dunque alla teoria del «pensiero oggettivo», con il mio lavoro ho cercato di

sostenere una lettura della filosofia hegeliana per la quale essa si presenta essenzialmente

volta a fornire una concezione unitaria del mondo nella sua totalità attraverso la

formulazione della sua struttura d’ordine. Appoggiandomi anche ad alcune letture recenti

della filosofia hegeliana, ho evidenziato la possibilità, e spero che ne sia emersa

215

l’importanza, di leggere tale struttura come una struttura non aprioristica, ma come

essenzialmente aperta alla trasformazione: struttura immanente al mondo e dunque aperta

alle sue trasformazioni.

Relativamente all’immanenza di tale struttura d’ordine, ho sottolineato l’importanza del

lavoro delle scienze empiriche per la filosofia hegeliana. Ciò che permette alla filosofia

di non produrre un’altra immagine astratta del mondo, imposta ad esso dal di fuori, e

dunque di rimanere ancorata ad esso, sarebbe proprio il suo operare a partire dal lavoro

delle scienze empiriche. La filosofia compierebbe sul materiale offerto dalle discipline

scientifiche particolari un’operazione di cambiamento di categorie atta a inserirne i

risultati in un contesto più comprensivo volto alla produzione di un’unica concezione del

mondo. Quest’operazione della filosofia, secondo Hegel, è interamente conforme agli

scopi e ai valori delle scienze moderne in quanto guidata dalla radicalizzazione del

principio di libertà che ne ha segnato la nascita: la liberazione dall’autorità data. Se al

livello delle scienze sperimentali, tuttavia, la scientificità richiesta ammette come unica

autorità il dato empirico, al livello della filosofia, livello ulteriore rispetto quello delle

scienze particolari, la giustificazione può essere data solo dal pensiero e l’accordo con il

reale non diviene che un criterio esterno della sua verità. Di qui la necessità che il

contesto più ampio al cui interno sia compreso il lavoro delle scienze sia di carattere

sistematico, ossia, sia strutturato come un insieme olistico di determinazioni concettuali.

Relativamente alla trasformazione della struttura d’ordine del mondo, ho sostenuto che

ammettere una tale apertura significa riconoscere che la trasformazione del mondo può

implicare la trasformazione delle determinazioni del suo stesso ordine, e dunque che deve

implicare delle trasformazioni delle categorie volte alla sua formulazione. Per questo

motivo ho fatto più volte riferimento all’importanza dell’elemento auto-correttivo delle

scienze, alla rivedibilità delle teorie scientifiche, e della ragione in genere.

A partire da questa lettura, mi sembra si possa affermare che con l’espressione

«pensiero oggettivo», Hegel non voglia attribuire il termine pensiero a quanto non è

spirituale, come, p. e., l’intelligenza pietrificata nella natura di Shelling (cfr. Enz. § 24

Z.1), ma indicare piuttosto una forma razionale che costituisce il reale e a cui il pensiero

può pervenire. In altri termini, la teoria del pensiero oggettivo affermerebbe l’unione del

pensiero e dell’oggettivo attraverso la forma del razionale, forma del razionale che al

216

pensiero filosofico spetta il compito di cogliere mediante il proprio processo

giustificatorio.

Secondo la lettura qui proposta quindi, con la teoria del pensiero oggettivo, muovendo

dall’istanza di un’uniformità d’ordine tra il pensiero e il reale, di un ordine che non sia

dato a priori, ma sottoposto alla costante revisione per opera dell’auto-correzione della

ragione, Hegel tocca un nodo problematico indubbiamente condiviso da molta

letteratura filosofica contemporanea. In questo nodo, per esempio, si concentrano

questioni quali quella della comunicabilità o incomunicabilità di schemi concettuali

differenti, e dunque, più, in generale del rapporto inter-culturale, della presa del pensiero

sulla realtà, e di come tale presa, o contatto con l’empirico, possa divenire significante e

giustificabile.

Indubbiamente, però, oggi, la risposta hegeliana a tali problemi non può essere

semplicemente riproposta e assunta come tale. Oltre a presentare elementi ostici per la

sensibilità contemporanea, quale, p.e., relativamente alla teoria del pensiero oggettivo,

l’attribuzione del termine pensiero alla struttura d’ordine del reale, molti dei termini del

quadro di riferimento al cui interno si alimenta il dibattito filosofico attuale sono

cambiati, e primo fra tutti, si potrebbe sostenere, il forte sviluppo che ha avuto la ricerca

filosofica nell’ambito logico a partire dall’inizio del secolo scorso. La logica con cui

Hegel aveva a che fare è completamente differente dalla logica cui il dibattito filosofico

contemporaneo ha a che fare. Certo, Hegel ha imposto alle categorie logiche una

torsione tale da sottrarle alla particolare logica del suo tempo, ciononostante le categorie

prese e torchiate sotto le sue mani, sono categorie prese da essa. Concetto, giudizio,

sillogismo, per esempio, non hanno più, nella logica contemporanea, la funzione

fondamentale che avevano allora.

Con questo – sottolineando l’impossibilità, o forse l’inutilità di riproporre la filosofia

hegeliana come risposta ad alcuni problemi in cui la filosofia contemporanea si dibatte -,

tuttavia, non si intende nemmeno dire che la filosofia di Hegel sia da consegnare e

relegare al lavoro, stimabile, dei soli storiografi della filosofia. Lo sforzo che si compie

di fronte ad ogni grande filosofia permette sempre di attuare una presa migliore sulle

proprie assunzioni e sui propri presupposti, di esplicitarli e in caso di criticarli. E questo

vale soprattutto per la filosofia di Hegel, per la stessa modalità in cui egli la concepisce,

217

ossia per l’istanza di muoversi in assenza di presupposizioni. In altri termini, se fatto a

viso aperto, è sempre un modo efficace per comprendere e discutere liberamente

l’orizzonte concettuale del proprio tempo, di metterlo in discussione senza tuttavia

presumere di sottrarsi ad esso, e così di reimpostare, laddove necessario, i termini con

cui una questione nel proprio tempo si pone.

218

BREVE EXCURSUS A MO’ D’ULTERIORE CONCLUSIONE SULL’UOMO COME RAGIONE

Nel corso del lavoro si è più volte sostenuto che il riconoscimento di una struttura

razionale implicita al reale, permetta di considerare il pensiero, o la ragione non come

delle proprietà data di cui quell’ente che è l’uomo sarebbe dotato, per un qualche

privilegio metafisico, in aggiunta ad altre proprietà condivise con altri enti. Pensare il

pensiero o la ragione in questo modo, non semplicemente come una proprietà dell’uomo,

permette di riarticolare la definizione circa la razionalità dell’umano. In questa sede mi

permetto dunque di fare qualche ulteriore considerazione sulla tesi per cui il pensiero

“effettua” l’umanità dell’umano. A tal proposito mi è utile far riferimento alle pagine

iniziali della Logica della filosofia di Eric Weil in cui il filosofo francese cerca di chiarire

il senso della definizione dell’uomo come ragione.

Il passo in questione muove dalla constatazione della molteplicità delle definizioni

per quell’ente che è l’uomo. Tra queste, nota il filosofo francese, ce n’è una che

paradossalmente spicca sulle altre; essa riscontra un maggior successo rispetto alle altre

da parte del senso comune, della tradizione religiosa e filosofica e «forma, storicamente,

il fondo della nostra civiltà, del nostro pensiero, perfino dei nostri sentimenti»222. È la

definizione dell’uomo «come animale dotato di ragione e di linguaggio, più esattamente

di linguaggio ragionevole»223. La paradossalità, apparente o meno, di questo successo, o

la sorpresa che si può provare di fronte ad esso, riguarda le difficoltà che la

caratterizzazione dell’uomo come “ragionevole” mette in gioco; essa dà indubbiamente

l’impressione di non essere che una definizione di un obscurum per obscurius.

Definizioni di carattere più scientifico dell’uomo, in altri termini, presenterebbero segni

distintivi, quali la presenza di estremità anteriori «formate in modo che un dito si

contrappone agli altri», di essere quello, fra gli esseri superiori, in cui «il senso del tatto è

222 WEIL E., Logique de la philosophie, Paris 1985; Logica della filosofia, trad. it. L. Sichirollo,

Bologna 1997, p. 9. 223 Ibidem.

219

sviluppato in maniera predominante»224, che permettono un immediato riconoscimento

dell’oggetto per mezzo della loro distinzione specifica. Tali distinzioni specifiche

sarebbero facilmente constatabili e non presenterebbero confusioni di sorta. Perché allora

conferire tanta fiducia al “pensiero” o alla “ragione”, come segno distintivo? È in questa

luce dunque, che Weil pone la domanda circa il senso dell’uomo come ragione e di

questa definizione.

Quanto suggerisce il filosofo francese è che una tale definizione non serva al

riconoscimento dell’ente da essa definito. Infatti basterebbe rilanciare la domanda per

trovarsi invischiati in un groviglio di problemi: l’uomo è ragionevole, gli uomini lo sono?

Da qui, occorre constatare che gli uomini non sono ipso facto ragionevoli. Oltre ai

differenti gradi in cui la ragione può essere posseduta – gradi che non possono essere

misurati -, ci si può imbattere «in animali che hanno tutto dell’uomo nel senso delle

definizioni scientifiche, anche il linguaggio, e non posseggono l’essenziale nel senso del

filosofo: folli, cretini, homines minime sapientes»225, ossia animali in cui

riconosceremmo difficilmente la presenza della ragione, ma che, ciò nondimeno, anche

senza appello alle definizioni scientifiche, siamo inclini a riconoscere come uomini.

Come rivelano questi casi, la differenza specifica conviene e non conviene all’ente

definito e perciò si rivela incapace a svolgere adeguatamente il compito del

riconoscimento. A tale scopo, abbiamo visto, le differenze specifiche delle definizioni

offerte dalle scienze sono molto più efficaci.

Il successo della definizione dell’uomo come ragione, come si è accennato,

riguarda principalmente il senso comune, la religione, la filosofia, e ha svolto un ruolo

fondamentale nella formazione della nostra civiltà e cultura. Per l’uomo che si rapporta al

mondo e a se stesso attraverso queste modalità è inammissibile considerare umano un

essere solo per la presenza dei lobi dell’orecchio, o del pollice che si può contrapporre

alle altre dita. Non sono, cioè, queste caratteristiche a rendere umano un animale. Il

successo di tale definizione dipende proprio dal non avere ciò che fa della definizione

scientifica una definizione così efficace nel riconoscimento. L’essere umano dell’uomo,

nel senso della ragione, cioè, non è una proprietà, una qualità di una cosa in cui l’uomo si

224 Ibidem. 225 Ivi, p. 11.

220

imbatte nel mondo, come ci imbattiamo in enti vertebrati o invertebrati, in alberi con

foglie aghiformi o ovali. Piuttosto, “l’uomo è un animale dotato di ragione” significa che

«gli uomini di solito non dispongono della ragione e del linguaggio ragionevole, ma

devono disporne per essere del tutto uomini. L’uomo naturale è un animale; l’uomo come

vuole essere, come vuole che sia l’altro perché egli stesso lo riconosca come suo eguale,

deve essere ragionevole». La definizione umana dell’uomo come ragione, non è data

dunque perché si possa riconoscere, individuare, l’ente che si chiama uomo, ma affinché

lo si possa realizzare226.

Ciò che la definizione dell’uomo come ragione mette in evidenza, e che le

definizioni di carattere scientifico, loro forza e debolezza, non possono pretendere di fare,

è che l’uomo pur avendo una natura data e che è passibile di descrizione scientifica come

qualsiasi altra natura, non si riduce alla natura che esso è. L’uomo non dispone solo di

una natura, ma dispone anche di una storia. Non è ciò che è una volta per tutte; non è,

cioè, un ente dato, o meglio, è un ente dato, ma non è riducibile solo ad esso. Ha pensieri,

desideri, bisogni che non sono nella sua natura data, ma che si è lui stesso formato; non si

accontenta, per esempio, di possedere sessualmente un membro della sua specie dell’altro

sesso, ma vuole amare e ama un’altra persona, e vuole essere amato, e ciò persino

indipendentemente dal sesso dell’altra persona227. Dispone di una storia, quindi, al cui

interno si definisce, si cerca e realizza. Ossia: l’uomo, e ciò che rende umano l’uomo, è

soggetto attivo del proprio divenire. Il pensiero, o la ragione, cioè, non sono proprietà

date e descrivibili, aggiunte ad un ente indipendentemente da questo per un qualche

privilegio metafisico, ma sono il prodotto in divenire di interazioni sociali e ambientali, e

226 A tal proposito può essere indubbiamente citato il passo kantiano cui qui Weil si sta

implicitamente riferendo: «per poter, dunque, attribuire all’uomo il suo posto nel sistema della natura

vivente, e così caratterizzarlo, non rimane altro che dire che ha quel carattere che egli stesso si procura, in

quanto sa perfezionarsi secondo fini liberamente assunti; onde egli come animale fornito di capacità di

ragionare (animal rationabile) può farsi da sé un animale ragionevole (animal rationale)» (KANT I.,

Anthropologie in pragmatischer Hinsicht abgefasst, in Gesammelte Schriften, Bd. 7, Berlin 1917, B 313-

314; Antropologia pragmatica, trad. it. G. Vidari, riveduta da A. Guerra, Roma-Bari 2007, p. 216). 227 Oppure, per dirla con la Arendt: «senza l’impulso sessuale che scaturisce dai nostri organi

riproduttivi, l’amore non sarebbe possibile; ma mentre l’impulso è sempre lo stesso, quanta varietà nei

modi reali di apparire dell’amore!» (ARENDT A., The Life of Mind, cit., p. 117).

221

in quanto tali non sono oggetto di descrizione delle scienze naturali228. È un prodotto che

ha una natura e ha una storia, ossia è soggetto.

In questo senso l’uomo, come pure il pensiero, è certamente un essere dato, ma

pure è un essere che si incontra: che incontra se stesso negli altri uomini, nella propria e

altrui tradizione, nelle proprie e altrui pratiche linguistiche e sociali, ecc. In questo

incontro è sempre chiamato a rispondere al nuovo, e di volta in volta, in ciascuna sua

risposta e nelle differenti modalità di risposta, l’uomo diviene uomo, e il pensiero diviene

pensiero.

228 Cfr. BRANDOM R., Articulating Reasons, cit., p. 35.

222

223

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