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Università degli Studi di Napoli “Federico II” Facoltà di Economia Tesi di Dottorato in Diritto previdenziale comparato e riforma dello Stato sociale Il trattamento di fine rapporto (dalla originaria finalità premiale alla trasformazione in “strumento” di previdenza complementare). Candidata Tutor Maddalena De Rosa Ch.mo Prof. Luigi Fiorillo Dottorato di ricerca in Diritto dell’Economia – XXI ciclo

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Università degli Studi di Napoli

“Federico II”

Facoltà di Economia

Tesi di Dottorato in Diritto previdenziale comparato

e riforma dello Stato sociale

Il trattamento di fine rapporto

(dalla originaria finalità premiale alla trasformazione

in “strumento” di previdenza complementare).

Candidata Tutor

Maddalena De Rosa Ch.mo Prof. Luigi Fiorillo

Dottorato di ricerca in Diritto dell’Economia – XXI ciclo

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Il trattamento di fine rapporto

INDICE SOMMARIO

Premessa…………………………………………………………..p. 7

CAPITOLO I

NATURA GIURIDICA E FUNZIONE

1. Puntualizzazione metodologica …………………................p. 11 2. Evoluzione storico-funzionale dell’istituto.

2.1. L’originario carattere premiale e previdenziale. ………p. 14 2.2. La nuova indennità di anzianità nella sistemazione codicistica:

la natura assistenziale e le prime ricostruzioni in termini di corrispettivo …………………………………………….….p. 22

2.3. La corresponsione dell’indennità di anzianità «in ogni caso di

cessazione del rapporto» e il rafforzamento del profilo retributivo …….……………………... ………………….…p. 32

2.4. L’indennità di anzianità «nell’emergenza»: la minaccia

referendaria ………………………………………………..p. 38

2.5. La riforma dell’’82: la storia interna ………………….......p. 41

2.6. Il nuovo criterio di computo e la piena affermazione del

carattere di retribuzione differita ………………………….p. 46

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2.7. La disciplina delle anticipazioni e la duttilità funzionale del t.f.r..

……………………………………………………………..p. 48

2.8. La devoluzione alla previdenza complementare: ritorno al

futuro?...................................................................................p. 56

3. La questione del momento di maturazione del diritto…...….p. 76

3.1. … all’indennità di anzianità… …......................................p. 77 3.2. … e al trattamento di fine rapporto. …………………..p. 83

3.3. Conclusioni. …........................................................p. 94

3.4. L’accertamento degli accantonamenti in corso di rapporto.

……………………………………………………………...p. 96

CAPITOLO II

RAPPORTI TRA LEGGE E AUTONOMIA PRIVATA NELLA VIGENTE

DISCIPLINA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO.

1. Spazi di derogabilità lasciati all’autonomia collettiva e all’autonomia individuale nella l. 297 del 1982 ………………………………………………………………....p. 101

1.1. Aree di inderogabilità bilaterale………...………………...p. 103

a) il divisore 13, 5 b) il divieto di inserimento di altri istituti aventi la medesima natura e funzione dell’indennità di anzianità.

1.2. La derogabilità in melius del regime delle anticipazioni….p. 114 1.3. La derogabilità “anomala” del dividendo……..………….p. 123

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CAPITOLO III

LA DISCIPLINA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO NELLA LEGGE N. 297 DEL 29 MAGGIO 1982

1. Il campo di applicazione oggettivo e soggettivo della legge n. 297 del 1982 ………………. …………....……………….p. 128

2. Il sistema di computo degli accantonamenti…………..p. 131

2.1. Il dividendo……………………………………………..p. 140 2.2. Il divisore (rinvio)…………………………………........p. 152

2.3. Le ipotesi di sospensione della prestazione………..……p. 154

2.4. La rivalutazione delle quote accantonate………..……..p. 158 3. Il regime delle anticipazioni ..…………………..……….p. 160 3.1. Criteri di priorità, condizioni di accesso e misura dell’anticipazione ………….…………………………................p. 163

4. Il Fondo di garanzia…………………………………………..p. 173

CAPITOLO IV

IL CONFERIMENTO DEL T.F.R. ALLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE NEL D. LGS. 252 DEL 5 DICEMBRE 2005

1. Premessa. ……………………..… ……………………………p. 177

2. La natura della previdenza complementare (cenni) ………p. 182

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3. La disciplina della previdenza complementare: dal d. lgs. n. 124

del 1993 alla più recente riforma del 2005…………………….p. 199

4. Le forme pensionistiche complementari: nozioni e

definizioni………………………………………………………….p. 204

4.1. Le forme pensionistiche complementari collettive o negoziali: i c.d.

fondi chiusi………………………………………………..…….p. 209

4.2. (segue) I c.d. fondi aperti…………………………………..p. 215

5. Il FONDINPS……………………………………………….....p. 220

6. Le forme pensionistiche complementari individuali. ……..p. 222

7. Le forme di previdenza complementare “preesistenti”…….p. 224

8. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari, in

particolare mediante conferimento del t.f.r. ………………….p. 228

a) Modalità esplicite ed implicite di conferimento del t.f.r.

b) La conservazione del t.f.r. presso il datore di lavoro.

c) Il conferimento del t.f.r. alle forme pensionistiche preesistenti.

9. La portabilità della posizione previdenziale (cenni) ………..p. 236

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10. Le prestazioni……….……………………….………………..p. 243

10.1. Il regime delle anticipazioni………………………………p. 246

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE …………………………………………..p. 250

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Premessa

Dopo un lungo periodo di (quasi) pacifica regolamentazione, il trattamento di

fine rapporto (t.f.r.) è stato negli ultimi anni riportato alla ribalta dalle

cronache legislative e di politica del welfare: l’attenzione del giurista,

dell’economista e, soprattutto, degli attori sociali è stata, infatti, di recente

richiamata da una ulteriore fase evolutiva dell’istituto, che ha ricondotto il

t.f.r. nell’alveo della previdenza complementare, ultima tappa di un ricco

percorso evolutivo che ha inciso anche e soprattutto sulla natura e sulla

funzione dell’emolumento concesso al lavoratore al momento della

cessazione del rapporto di lavoro.

La prima parte del presente lavoro mira, pertanto, a evidenziare la peculiare

disponibilità del t.f.r., ieri indennità di anzianità, a cambiar pelle e a

modificare la propria destinazione funzionale, in conseguenza di cangianti

opinioni di politica del lavoro susseguitesi nel tempo. Raramente, invero, è

dato riscontrare, tra gli istituti del diritto del lavoro, una simile “disponibilità”

funzionale, intesa sia come capacità di adeguarsi flessibilmente alle

evoluzioni normative, che ne hanno più volte modificato la struttura sin

dall’epoca in cui il diritto del lavoro era «faticosamente in incubazione»1, sia

come docilità alle contingenze politiche, economiche ed ordinamentali che ne

hanno scandito nel tempo le alterne vicende.

Basti qui ricordare, per accennare sinteticamente ad una sequenza che sarà in

seguito ampiamente illustrata, che l’istituto, nato come mera liberalità alla

fine dell’ ‘800, era originariamente privo di disciplina normativa e di matrice

contrattuale e veniva conferito solo agli impiegati come premio per la fedeltà

1 Così G. PERA, Trattamento di fine rapporto (voce), in Nov. Dig. It., p. 382.

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dimostrata al datore di lavoro, inserendosi a pieno titolo nella concezione

fiduciaria del contratto di lavoro all’epoca prevalente.

I primi interventi normativi volti ad istituzionalizzare l’ “indennità di

licenziamento”, facendola assurgere a vero e proprio diritto, ancorché molto

condizionato, attenuarono la finalità premiale ed accentuarono il carattere di

supporto di tipo previdenziale al momento della perdita del posto di lavoro e,

dunque, in connessione al venir meno della fonte primaria di sostentamento.

Quest’ultima finalità veniva ulteriormente sviluppata con l’avvento del codice

civile, la cui indennità di anzianità, disciplinata dall’art. 2120, presentava

profili di minimale sostegno al reddito in assenza di qualsiasi forma di tutela

nei confronti dei licenziamenti ingiusti. Al tempo stesso l’indennità, siccome

attribuita non più soltanto agli impiegati, ma anche agli operai, cominciava ad

acquisire altresì fattezze corrispettive, pur se continuava ad essere negata

nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa e di dimissioni.

Quando poi, nel 1966, il legislatore introdusse nell’ordinamento italiano il

principio della necessaria giustificatezza del licenziamento, l’indennità di

anzianità, dimostrando un’indubbia capacità ed elasticità etrogenetica,

rimodulò nuovamente i delicati equilibri funzionali, ridimensionando il

proprio profilo previdenziale, e soprattutto quello premiale, a vantaggio

«aspetto di corrispettivo patrimoniale di carattere retributivo»2, stante il

riconoscimento «in ogni caso di risoluzione del rapporto»3 e, dunque, a

prescindere da ogni valutazione di meritevolezza.

Nel 1982, nella nuova veste di trattamento di fine rapporto, l’istituto veniva

completamente riformato ed acquisiva, specie in ragione del nuovo

meccanismo di computo, natura più spiccatamente retributiva, pur

2 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, Cedam, Padova, 1984, p. 38. 3 Art. 9, l. 604 del 15 luglio 1966.

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continuando a perseguire finalità latamente previdenziali, sempre legate alle

presumibili difficoltà incontrate dal lavoratore alla perdita del posto di lavoro.

All’indomani dell’emanazione della legge n. 297, tuttavia, i commentatori

riconobbero subito al t.f.r. una peculiare “elasticità” intesa come capacità di

svolgere una «innegabile commistione di funzioni» ovvero come peculiare e

strutturale “disponibilità” dell’istituto alle più diverse finalizzazioni: ciò che

sconsigliava, all’interprete di turno, la fatica di ricercare «una qualificazione

univoca» o «categoriche definizioni»4.

Della longeva disciplina del t.f.r., che da oltre un ventennio disciplina

efficacemente la materia, approfondiremo, tra gli altri, i peculiari regimi di

derogabilità/inderogabilità, non soltanto allo scopo di evidenziare la pluralità

di modelli del rapporto legge-autonomia privata (collettiva e individuale)

disegnati dal legislatore, ma anche per la diretta influenza su natura e

funzione dell’istituto esercitata dalla fruizione di alcuni spazi di autonomia

lasciati alle parti collettive e individuali: l’utilizzo di tali spazi, ad esempio in

tema di anticipazioni, è in grado, infatti, di traslare tutto o parte del t.f.r. nella

retribuzione corrente, con evidente divaricazione rispetto alla più tradizionale

funzione dell’istituto.

La fine trama della legge n. 297 ha, poi, consentito, alla più recente riforma

della previdenza complementare, di convertire il t.f.r. in strumento di

finanziamento di fondi pensionistici privati, tipizzandone, così, una nuova

modalità di impiego che conferisce all’istituto una ulteriore e più spiccata

funzione previdenziale.

Quanto alla indicata docilità dell’istituto alle contingenze politiche,

economiche ed ordinamentali, pur rinviando a più analitiche considerazioni, è

possibile evidenziare sin d’ora la diretta influenza esercitata da tali

4 Tutti i virgolettati sono di G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, p. 17.

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contingenze sulle singole fasi evolutive dell’istituto: in epoca precorporativa,

la concezione paternalistica e fiduciaria del rapporto di lavoro indusse il

legislatore a rendere l’allora indennità di licenziamento oggetto di diritto per i

soli lavoratori appartenenti alla categoria degli impiegati; sotto l’influsso delle

prime istanze egualitariste, il codice civile introdusse la nuova indennità di

anzianità, estendendone l’attribuzione agli operai e, insieme, realizzando una

prima forma di tutela (di tipo risarcitorio) a fronte dei licenziamenti

completamente liberi; nel 1982 la crisi economica dettò la necessità di

arginare una “straripante” indennità di anzianità spingendo il legislatore a

ridimensionare l’istituto con un classico intervento di “emergenza”; da ultimo,

la riforma messa a punto nel 2005 reagisce alla crisi finanziaria del sistema

previdenziale pubblico e alla conseguente necessità di potenziare la

previdenza complementare, promuovendo l’elezione del t.f.r. a nuova fonte di

finanziamento dei fondi pensionistici complementari.

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Capitolo I

Natura giuridica e funzione.

1. Puntualizzazione metodologica.

L’approfondimento della mutevole e multiforme natura giuridica dell’istituto

e della sua cangiante funzione5 postula una preventiva premessa di metodo.

Naturalmente non è questa la sede per disquisizioni di teoria

dell’interpretazione, bensì soltanto per puntualizzare le coordinate concettuali

che presiederanno alla trattazione che segue.

Il più elementare insegnamento metodologico suggerisce che le caratteristiche

tecnico-funzionali di un istituto vadano desunte dall’analisi della disciplina

positiva che lo governa e dal suo divenire, senza coartare la lettura di 5 La dottrina si è profusamente interessata alla questione della natura giuridica degli istituti e della eventuale distinzione della stessa rispetto alla funzione che li connota. Anche la dottrina giuslavorista nell’analisi dell’istituto oggetto della presente ricerca, considerato nelle sue molteplici fasi evolutive, ha per lo più affrontato la questione, dando vita a vivaci querelles. L’indagine sulla natura giuridica del trattamento di fine rapporto si rivela infatti ben più che un mero esercizio dottrinale, in ragione delle notevoli ricadute, sul piano applicativo, delle differenti opzioni qualificatorie perseguibili. Tra gli altri, dedicano spazio a tale profilo ricostruttivo F. SANTORO PASSARELLI, Diritto del lavoro, cit. (che attribuisce all’indennità di anzianità natura retributiva e una funzione secondaria di tipo previdenziale); G. GIUGNI, Indennità di anzianità, in GCost, 1968, p. 1095, sul quale ci soffermeremo più diffusamente infra; C. SMURAGLIA, Riflessioni sull’indennità di anzianità,in RGL, 1977, I, p. 260 ss. (secondo cui la natura giuridica dell’indennità di fine rapporto deve essere tenuta «ben distinta dalla funzione che ad essa è assegnata»: mentre la prima deve evincersi, «secondo la ratio complessiva che si ricava dal sistema», dalla relativa disciplina normativa, come integrata dalla contrattazione collettiva, la seconda coincide con la ragione fondamentale di tale disciplina e «riguarda l’assetto di interessi che con esso si mira a realizzare». Due elementi che si influenzano profondamente a vicenda e che è necessario sintetizzare per poter «cogliere i fondamenti unitari dell’istituto»); E. GHERA, Prospettive di riforma dell’indennità di anzianità, in RTDPC, 1982, p. 519 ss.; G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, Cedam, Padova, 1984; G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, Giuffré, Milano, 1984, e successivamente, dedicandovi ulteriori spazi in Il trattamento di fine rapporto, Giappichelli, Torino, 1995; A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto di lavoro, F. Angeli, Milano, 1984.

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quest’ultima all’interno di preconcette valutazioni funzionali o aprioristiche

ricostruzioni interpretative, che, viceversa, devono seguire e non anticipare la

considerazione puntuale e analitica del dettato normativo. Ovviamente la

funzione così ricostruita in via deduttiva andrà poi monitorata nel tempo onde

rilevare l’eventuale eterogenesi di finalità successivamente attribuite in

ragione dell’evoluzione del panorama normativo circostante. Ciò che va, in

sostanza, evitato è di focalizzare una presunta “funzione” sulla base di singoli

elementi indiziari contenuti nel testo normativo, per poi sovrapporre tale

precostituita funzione alle restanti parti della disciplina positiva,

condizionandone in modo aprioristico la relativa interpretazione e

ricostruzione.

Talora, infatti, la suggestione degli elementi indiziari (in una con le difficoltà

di sistematizzare i vari elementi di una normativa frammentaria e magari

contraddittoria) porta, più o meno consapevolmente, a indulgere nell’errore

induttivo di estendere «a tutti gli elementi di una certa classe le proprietà

osservate in alcuni di essi»6.

Dando preminente rilievo ad un elemento soltanto o ad una parte soltanto

della disciplina normativa si finisce con il leggere le restanti norme alla luce

delle prime, schiacciandole in un rapporto di compatibilità rispetto ad esse;

con il risultato di dar corpo ad una sorta di gerarchia normativa interna alla

disciplina, del tutto avulsa dalla volontà del legislatore.

La breve digressione metodologica trova chiarimento esemplificativo e

giustificazione specifica in tema di t.f.r. (ieri indennità di anzianità) laddove

una lettura puntuale della normativa rischia di essere compromessa dal

condizionamento di ipostatizzate e precostituite funzioni: ad esempio, il

normale conferimento “alla fine del rapporto” e lo stesso nomen dell’istituto

6 Cfr. EDIGEO (a cura di), Dizionario enciclopedico, voce Induzione, Zanichelli, Bologna, 1995.

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rischiano di caratterizzarne fortemente la natura giuridica in direzione

“previdenziale”, ponendo (erroneamente) in secondo piano le “ aperture”

previste dal legislatore in favore di un possibile slittamento di parte o di tutto

l’accantonamento annuale in busta paga con il conseguente recupero della

natura retributiva.

Una lettura di tal fatta ha, in effetti, indotto una parte della dottrina a

valorizzare le norme che legano la percezione del t.f.r. alla fine del rapporto,

considerandole vincolanti e limitative rispetto ad altre parti della disciplina

che in alcun modo il legislatore ha relegato ad un piano inferiore. Viceversa,

come vedremo, l’analisi complessiva del dettato normativo si rivela

possibilista anche in altre direzioni, privando l’elemento del differimento “alla

cessazione del rapporto” di quel carattere vincolante che alcuni Autori hanno

voluto attribuirvi.

L’intento di questo lavoro sarà quello di osservare analiticamente

l’evoluzione normativa e la disciplina vigente, senza cedere alla

tranquillizzante tentazione di ipostatizzare la natura giuridica e la funzione del

trattamento di fine rapporto per poi leggere l’intera disciplina a tale stregua.

A sostegno della metodologia prescelta, sia consentito richiamare, allora,

l’insegnamento di un Maestro del diritto del lavoro che, proprio indagando il

procedimento seguito dalla Consulta della determinazione della natura

dell’allora indennità di anzianità7, concludeva sull’opportunità di valutare la

7 Si fa riferimento al breve commento di Gino GIUGNI alla nota sentenza n. 75 del 27 giugno 1968 (in GCost, 1968, p. 1095 ss.) che estendeva il campo di applicabilità dell’emolumento anche ai dimissionari e ai licenziati per colpa. Nella sintetica ricostruzione delle possibili alternative metodologiche aperte allo studioso che indaga la natura giuridica di un istituto, Giugni indicava tre possibili strade: a) attraverso la «descrizione sintetica delle caratteristiche normative» dell’istituto ovvero nella osservazione della disciplina astrattamente ad esso applicabile; b) mediante l’individuazione dello «indice di normalità» dell’istituto, ovvero del suo carattere prevalente in ragione della disciplina normativa; c) assumendo che «la definizione della natura giuridica altro non è che la trasposizione in chiave di linguaggio normativo di un

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funzione di un istituto «nella sua prospettiva dinamica», lasciando il sicuro

porto della definizione aprioristica per la più coraggiosa ed impegnativa via

dell’osservazione positiva.

2. Evoluzione storico-funzionale dell’istituto. 2.1. L’originario carattere premiale e previdenziale.

a) Tra la fine dell’’800 e gli inizi del ‘900 alcune fonti extra-legislative

prevedevano l’erogazione al lavoratore licenziato di una somma a titolo di

liberalità o più verosimilmente di gratificazione. Usi, consuetudini,

regolamenti di fabbrica, clausole formulate dalle camere di commercio,

decisioni dei probiviri (ciascuno “dedicato” ad una singola categoria di

lavoratori, quando non addirittura ai soli dipendenti di una determinata

azienda) si preoccupavano di attribuire al lavoratore, al momento della

cessazione del rapporto, un emolumento le cui funzioni e la cui natura

giuridica appaiono, anche a distanza di decenni, molteplici e non

perfettamente definite.

Il minimo comun denominatore che accomunava il regime introdotto da tali

fonti extra ordinem era costituito dalla rilevanza attribuita, ai fini del computo

della suddetta somma, ad una protratta anzianità di servizio del lavoratore,

nonché dalla condizione, al fine dell’attribuzione del diritto, che il dipendente

non fosse stato licenziato per colpa o non si fosse dimesso; il ché creava una

forte analogia tra la indennità attribuita al lavoratore in ragione della anzianità

di servizio e quella, aggiuntiva, dovutagli a titolo di mancato preavviso.

Tale “commistione” indusse, per esempio, i probiviri a ritenere che non tutti i

licenziamenti cagionassero un danno meritevole di essere compensato ma

complesso giudizio sulla funzione economico-sociale di un istituto, valutata nella sua prospettiva dinamica».

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soltanto quello che colpiva l’operaio con un lungo (e «onorato»8) rapporto

lavorativo alle spalle, utilizzando, in relazione a tale forma di “risarcimento”,

la denominazione di “indennità di licenziamento dopo lunga prestazione”.

Tant’è che, nelle relative decisioni, le giurie, specie alle origini, non sempre

distinguevano, nell’ambito della somma corrisposta al lavoratore licenziato,

quanto gli spettasse a titolo di mancato preavviso e quanto in base alla

anzianità di servizio maturata9. Divenne, dunque, piuttosto consueto

apprendere dalle suddette pronunce «la regola che l’industriale come

l’operaio hanno sempre la facoltà di far cessare la locazione d’opera e che tale

facoltà, in mancanza di patto contrario, è solo subordinata all’obbligo del

preventivo avviso di giorni 15. In mancanza di preavviso è dovuto un

indennizzo pari a 15 giornate di salario. Tale indennizzo, però, in via di equità

può e deve essere aumentato nel caso di licenziamento di un operaio che ha

prestato per lunghi anni lodevole servizio e non ha dato causa, per propria

colpa, al licenziamento»10.

La stessa giurisprudenza rinveniva la ratio di tale emolumento a favore del

licenziato nelle condizioni soggettive di bisogno del lavoratore11, ragion per

8 Il termine ritorna spesso nelle massime della giurisprudenza probivirale (per il reperimento della quale si vedano le note successive) di cui riportiamo qualche esempio: “L’operaio che dopo parecchi anni di servizio onorato venga licenziato per futili motivi ha diritto a una congrua indennità. Caso in cui questa gli venga liquidata in un mese e mezzo di salario.” “L’operaio, che appartenga da molti anni allo stabilimento del principale e che venga licenziato dopo un onorato servizio, ha diritto a una speciale indennità.” “Per consuetudine vigente nella piazza di Bologna e per le industrie tessili, l’imprenditore che dimetta l’operaio dopo lunghissimi anni di servizio prestato è tenuto a corrispondergli un compenso variabile in ragione della importanza e durata del lavoro.” 9 La rassegna di BUGNI, Massimario della giurisprudenza dei probiviri di Tribunali e di Corti in questioni di lavoro, Milano, 1907 riporta una serie di interessanti decisioni probivirali in materia. 10 Cfr. la raccolta di massime curata da REDENTI, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, Tipografia Nazionale Bertero, Roma, 1906, in part. n. 823. 11 Tuttavia si è giustamente rilevato che tale approccio funzionale prestava il fianco a facili critiche di sistema, considerando, per esempio, che non necessariamente l’obbligo di

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cui l’ammontare dell’indennità, quando non era predeterminato dalle

consuetudini della piazza di riferimento, veniva individuato in via equitativa

caso per caso.

Parallelamente, le camere di commercio cominciavano a formulare delle

clausole-tipo, «di pungolo e di indirizzo alle parti nel regolamento del

rapporto che stanno per contrarre»12, che, in caso di licenziamento

dell’impiegato, commisuravano la lunghezza del termine di disdetta o di

preavviso, nonché la relativa indennità sostitutiva, all’anzianità di servizio del

lavoratore. La formulazione di tali clausole - nonostante non fosse curata da

tutte le camere di commercio e sebbene variasse da zona a zona, ricevendo,

peraltro, da azienda ad azienda una diversa accoglienza13 - superava le

incertezze derivanti dal ricorso all’equità, solitamente operato dalla

giurisprudenza, consentendo al giudice di quantificare l’indennità in tante

mensilità di stipendio quanti erano i mesi della disdetta non osservata. Ma,

soprattutto, tali clausole per prime individuarono nell’anzianità lavorativa il

parametro di quantificazione delle indennità di fine rapporto: parametro che

sarà, poi, trasferito nella nuova denominazione di “indennità di

anzianità”introdotta dalla riforma codicistica.

Ben presto, comunque, gli escamotages giurisprudenziali e contrattuali

cominciarono ad apparire inadeguati, specie alla luce della evidente disparità

di trattamento esistente non soltanto tra diverse categorie di lavoratori ma

risarcimento presuppone la colpa dell’obbligato: sarebbe stato forse più agevole, in tale ottica, spiegare la corresponsione dell’indennità di licenziamento, come strutturata all’epoca, alla luce della teoria della responsabilità per atti leciti: in tal senso, cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, Giuffré, Milano, 1984, p. 7. 12 CARNELUTTI, Un surrogato della legge sul contratto di impiego, in Riv. dir. comm., 1905, p. 275 ss.. 13 F. CARINCI, L’anzianità nel rapporto di lavoro. Profili storico-critici, Litografia Due Torri, Bologna.

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altresì nell’ambito di una medesima categoria, alla luce delle differenze

territoriali e, come si accennava, addirittura aziendali, foriere di malcontenti.

Per questi motivi, già nei primi anni del ventesimo secolo, si auspicò un

intervento del legislatore, che istituzionalizzasse l’indennità tracciandone

normativamente i connotati; intervento concretizzatosi, dopo vani tentativi14,

solo nel febbraio 191915. La relativa proposta di legge, risalente al 1912 ed

avente ad oggetto il solo rapporto di impiego privato16, fu seguita dalle

relazioni di ORLANDO e TURATI, i quali si rivelarono entrambi contrari alla

predisposizione di una delega al governo (come indicato nell’originario

progetto di legge) che avrebbe prodotto un proliferare di regolamenti relativi

alle varie zone del paese e ai diversi settori commerciali e industriali,

duplicando normativamente la preesistente frammentazione del problema

senza offrirne una soluzione appagante. I due relatori (rispettivamente, il

primo in seno al Parlamento17 e il secondo presso il Consiglio superiore del

lavoro18) ritenevano, infatti, che l’intervento legislativo avrebbe dovuto

14 Invano, nel 1902, fu presentato un disegno di legge avente ad oggetto il contratto di lavoro degli operai agricoli e industriali, esteso in quanto compatibile agli impiegati di commercio: la proposta non ebbe fortuna; anzi, nel 1905, il Consiglio superiore del lavoro auspicò che la materia venisse trattata per categorie o gruppi di mestiere, eliminando i tentativi di omogeneizzazione dei trattamenti provenuti, solo qualche anno prima, dalla proposta del ministro Cocco-Ortu. 15 Nel frattempo, durante gli anni del primo conflitto mondiale, il legislatore provvide a tutelare gli impiegati delle aziende private richiamati alle armi con una serie di decreti in base ai quali si riconosceva a tali lavoratori una contingenza bellica. Con i decreti n. 490 del 10 maggio 1916, n. 349 del 10 marzo 1918 e n. 1773 del 24 novembre 1918 si stabilì, tra le altre cose, che all’impiegato doveva essere corrisposta una indennità commisurata all’anzianità di servizio per tutto il periodo di richiamo alle armi e che il licenziamento dovesse essere preceduto da un congruo termine di preavviso o da una corrispondente indennità proporzionata all’anzianità e al carattere dell’impiego. 16 Si veda l’illuminante affresco di U. ROMAGNOLI, Giolittismo, burocrazia e legge sull’impiego privato, in Lavoratori e sindacati tra vecchio e nuovo diritto, il Mulino, Bologna, 1974. 17 La celebre Relazione Orlando è reperibile in V. E. ORLANDO, Scritti vari di diritto pubblico e scienza politica, Giuffré, Milano, 1940. 18 La Relazione Turati al Consiglio superiore del lavoro è pubblicata in Ministero Agricoltura, Atti Consiglio superiore del lavoro, Roma, 1913.

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assolvere ad una funzione di uniformità e di omogeneizzazione,

canonizzando, in precisi criteri di attribuzione e computo, la linea politica

espressa dalle clausole contrattuali proposte dalle camere di commercio.

Sotto il profilo funzionale, la relazione ORLANDO forse per prima, riconobbe

all’istituto dell’indennità di licenziamento una funzione mista o complessa:

una funzione latamente retributiva (rectius di corrispettivo), a fronte della

complessiva prestazione lavorativa resa nel tempo dal lavoratore licenziato,

nonché una funzione previdenziale, poiché costituiva una sorta di

“paracadute” per i lavoratori più anziani in occasione del licenziamento,

sopperendo, così, alla mancata predisposizione governativa di strumenti

previdenziali ed assistenziali.

Con l’emanazione del d. lgt. n. 112 del 1919 l’istituto riceve una prima e

compiuta disciplina e viene introdotto nell’ordinamento italiano con la

denominazione di “indennità di licenziamento”, dovuta soltanto agli impiegati

(e non anche agli operai) non licenziati per colpa, né dimissionari e con alle

spalle una anzianità di servizio19 tale da aver fatto maturare, in capo al

lavoratore interessato, il diritto al massimo del preavviso. A queste

condizioni, l’impiegato acquisiva il diritto a percepire una somma pari a 15

giorni di stipendio per ogni ulteriore anno di servizio entro il limite di una

annualità di retribuzione20.

A dispetto di quanto emerso nei relativi lavori parlamentari, la novella

disciplina conferiva al nuovo istituto carattere prettamente premiale, essendo

finalizzato a fidelizzare il lavoratore attraverso la “promessa” di un

emolumento aggiuntivo corrispostogli alla fine del rapporto, non più a titolo 19 Tuttavia non erano computati nell’indennità di servizio ed erano espressamente detratti dall’ammontare della indennità di licenziamento, il periodo di richiamo alle armi (ex art. 8, d. lgt. 112/1919) e le sospensioni dovute ad infortunio, malattia, gravidanza o puerperio. 20 Cfr. art. 4, d. lgt. 112 del 1991.

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di mera liberalità, ma soltanto nel caso in cui il dipendente avesse tenuto un

buon comportamento e fosse rimasto per lungo tempo alle dipendenze

dell’azienda.

Non a caso, dunque, i giuslavoristi assimilarono la nuova indennità di

licenziamento, nata dagli usi contrattuali come buonuscita liberale, ad un

“premio di fedeltà”, conseguibile solo all’esito di una lunga ed onorata

carriera. Un istituto lontanamente assimilabile ai più moderni premi di

produzione, ma esponenzialmente più fruttuoso per il datore di lavoro che

poteva utilizzarlo quale importante strumento di fidelizzazione dei dipendenti.

Una sorta di spada di Damocle21 pendente sulla loro testa durante l’intero

corso del rapporto, capace di privarli dell’atteso riconoscimento magari a

causa di un incidente banale o di una parola irriguardosa al datore di lavoro.

Accanto al profilo premiale, però, come sottolineato dall’On. ORLANDO, il

nuovo istituto presentava anche una finalità previdenziale, evidenziata già

nella denominazione di “indennità di licenziamento” e soprattutto nel

momento di conferimento che, coincidendo con la perdita del posto di lavoro,

avrebbe consentito al lavoratore di sopperire alle immediate necessità proprie

e della propria famiglia.

b) Successivamente la legge sull’impiego privato22 (r.d.l. 13 novembre 1924,

n. 1825, poi convertito nella legge 18 marzo 1926, n. 526) introdusse una

21 L’espressione è presa a prestito da G. PERA, Le riforme da riformare nel diritto del lavoro, in Scritti di Giuseppe Pera, I, Diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 2007, p. 663, che la utilizzava, in realtà, per descrivere la codicistica indennità di anzianità. 22 Tra le altre cose, la legge sull’impiego privato conteneva una definizione di “impiegato” qualificato come colui che collabora con l’imprenditore e integra la sua opera personale attraverso lo svolgimento di funzioni sia di concetto che di ordine. Tale definizione favorì l’impressione di privilegio della legge per la classe impiegatizia (cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità…, cit., p. 22 ss.) ed accentuò la frattura tra ceto operaio e ceto impiegatizio, contribuendo ad attribuire alla legge un’impronta classista. Ciononostante, uomini di sinistra come Turati si schierarono decisamente a suo favore, consapevoli, per un verso della maggiore disorganizzazione della categoria impiegatizia e, per altro verso, dei

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disciplina più favorevole, che, superando i precedenti sbarramenti legati alla

longevità del rapporto di lavoro, riconobbe agli impiegati il diritto a percepire

«una indennità non inferiore alla metà dell’importo di tante mensilità per

quanti sono gli anni di servizio prestati», qualunque fosse la loro anzianità di

servizio23.

Il nuovo criterio di computo24, se per un verso contribuiva all’evoluzione

normativa dell’istituto, per altro verso alimentava, nella dottrina come nella

giurisprudenza, notevoli incertezze non solo in merito alla natura giuridica e

alla funzione dell’indennità in esame, ma anche sul piano esegetico.

Sotto il profilo qualificatorio, restava inalterata, sullo sfondo, la natura

sostanzialmente premiale dell’istituto, volto a fidelizzare il dipendente, e,

tuttavia, accanto a quel immutato profilo, la dottrina sondava le ulteriori

finalità perseguite dal legislatore. Un orientamento intravedeva nell’obbligo

di corrispondere un compenso anche in difetto dell’attualità della prestazione

e persino in relazione a periodi di ineffettivo svolgimento della stessa (si pensi

al computo nell’anzianità di servizio dei periodi di malattia o di gravidanza),

un vero e proprio corrispettivo dell’anzianità, ciò che spiegherebbe anche la

progressiva trasformazione terminologica dell’indennità di licenziamento in

indennità di anzianità25. Si inserivano in tale solco, anche sulla base della

tempi non maturi per rivendicazioni legate alla categoria impiegatizia come dimostrato dalla relazione COCCO-ORTU. 23 La novella eliminò la previsione di un’esenzione o riduzione dell’obbligo di corresponsione dell’indennità di licenziamento in relazione al numero dei dipendenti, cosicché la disciplina interessò, da quel momento in poi, tutte le aziende private; inoltre, essa fu estesa agli impiegati degli enti pubblici indicati nell’art. 2 del r.d.l. 1825/1924. 24 In base al quale l’ammontare veniva determinato prendendo a base l’ultimo stipendio corrisposto prima del licenziamento; inoltre venivano ricompresi nel periodo di computo dell’anzianità di servizio anche il tempo di richiamo alle armi, il periodo di sospensione per malattie, infortuni, gravidanze, puerperi, nonché il preavviso, le ferie e il periodo di prova. 25 Lo rileva G. SANTORO PASSARELLI, op. cit., ricordando, peraltro, che già nel 1936 L. BARASSI (Il diritto del lavoro, cit.) preferiva questa denominazione.

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spesso affermata26 equiparazione tra corrispettività e retributività, i primi

cenni ad una concezione “retributiva” dell’indennità di licenziamento,

considerata da taluno come un “supplemento di retribuzione”.

Secondo altri27, viceversa, l’allentato (ma persistente) legame tra il diritto al

percepimento dell’indennità di licenziamento e il preavviso28 - in quanto la

prima rimase subordinata alla condizione che il recesso datoriale non fosse

stato determinato da colpa del lavoratore –, nonché il fatto che l’anzianità

venisse ora computata anche in relazione a periodi di inesecuzione della

prestazione (v. nota n. 24), accreditava la tesi secondo cui tale indennità

avrebbe avuto una funzione sostanzialmente previdenziale29. Ad ulteriore

sostegno di tale tesi, si richiamava l’orientamento maggioritario sviluppatosi

intorno alla determinazione della mensilità da prendere a base di computo per

la quantificazione della indennità. Il legislatore del 1926, infatti, non aveva

esplicitato quale fosse la mensilità da moltiplicare «per quanti sono gli anni di

servizio prestati», consentendo alla dottrina e ai giudici di arrogarsi il compito

della relativa definizione in via interpretativa. Prevalse l’orientamento che

individuava la somma in questione nell’ultima retribuzione percepita dal

lavoratore prima del licenziamento.

26 Si veda in proposito, O. MAZZOTTA, Note sulla rilevanza delle questioni relative alla natura giuridica dell’indennità di anzianità, in RIPS., 1974, p. 221 ss.. 27 In tal senso cfr. G. SANTORO PASSARELLI, op. cit., p. 16. 28 Cfr. art. 10, r.d.l. 1825/1924. 29 In tal senso si espressero F. SANTORO PASSARELLI, Legislazione del lavoro, Cedam, Padova, 1934, p. 131; E. RANELLETTI, L’indennità di anzianità nel caso di dimissioni e licenziamento per giusta causa, in Rivista dell’impiego privato e del mandato commerciale, 1932; PERGOLESI, Il contratto di impiego privato nel diritto positivo italiano, Società editrice toscana, Sancasciano val di pesa, 1928; BALELLA, Legislazione del lavoro, U.S.I.L., Roma, 1927, p. 365. Contra, riconobbero una funziona risarcitoria all’indennità di anzianità, L. BARASSI, Il diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 1936; PETRACCONE, In tema di compensabilità delle indennità di preavviso e di anzianità, in GI, 1933, I, 1, p. 593. Un cenno a parte merita DELITALA (Il contratto di lavoro, Utet, Torino, 1931) il quale fu tra i primi a sostenere che l’istituto, oltre ad avere natura mista, di previdenza e di corrispettivo, sarebbe sottoposto, quanto a maturazione del diritto al pagamento, ad una condizione sospensiva.

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Tale scelta esegetica, se per un verso, come accennato, evidenziava la matrice

previdenziale dell’istituto, per altro verso appariva poco conciliabile con una

ricostruzione corrispettiva o latu sensu retributiva dell’indennità di anzianità

poiché, in tale ultima ottica, «la considerazione della gradualità del rapporto

continuativo e la adesione ideologica dell’indennità ai singoli periodi

dell’anno esigerebbe che l’indennità venisse proporzionata alla retribuzione

dei diversi stadi del rapporto che viene presa in considerazione per il calcolo

dell’anzianità. Segno che il fattore equitativo e di previdenza sociale, in una

con lo scopo di semplificazione contabile sono qui intervenuti a modificare a

vantaggio dell’impiegato i rigorosi criteri che avrebbero dovuto seguirsi per

conservare all’istituto un carattere fondamentalmente contrattuale»30. Il

rilievo, senz’altro condiviso, col senno del poi, in ragione delle soluzioni

normative successivamente adottate in materia, sarà, per l’appunto, ripreso (e

non a caso) dal legislatore del 1982 che, nell’ambito di una generale riforma

della disciplina, si è preoccupato, tra le altre cose, di rendere il nuovo

trattamento di fine rapporto fedele alle vicende del rapporto medesimo,

disponendo che annualmente il datore di lavoro dovesse effettuare un

“accantonamento” proporzionato alla retribuzione complessivamente

percepita dal lavoratore nel corso dell’anno lavorativo.

2.2. La nuova indennità di anzianità nella sistemazione codicistica: natura

assistenziale e le prime ricostruzioni in termini di corrispettivo.

a) Nel 1942, con la denominazione di “indennità di anzianità”, l’istituto

veniva ridisciplinato dal legislatore italiano che lo inseriva nel nuovo codice

30 Così, in termini, PERETTI-GRIVA, Il rapporto di impiego privato, Società editrice libraria, Milano, 1935.

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civile e, superando le pregresse distinzioni operaio/impiegato31, prevedeva un

unico generale criterio di computo basato, sostanzialmente, sull’anzianità di

servizio del (e quest’ultima commisurata al “servizio prestato” 32 dal)

lavoratore. Venivano lasciate, invece, alla determinazione dell’autonomia

collettiva sia l’individuazione del coefficiente tempo-salario (che costituiva il

reale perno della quantificazione della indennità), sia la possibilità di

prevedere che taluni periodi di inesecuzione della prestazione fossero espunti

dal computo del periodo di “servizio prestato”33.

In particolare, per la determinazione dell’ammontare dell’indennità, “in base

all’ultima retribuzione e in relazione alla categoria alla quale appartiene il

prestatore di lavoro”, l’art. 2120 c.c. rinviava ai contratti collettivi e, in

mancanza di questi, agli usi o all’equità, ribadendo «la preminenza della

regolamentazione sindacale per quello che viene tradizionalmente indicato

come contenuto economico del contratto collettivo»34. L’ultima retribuzione

percepita dal lavoratore, da considerarsi quale base di computo alla luce del

rapporto quantitativo individuato dalla contrattazione collettiva, andava

calcolata tenendo conto di “ogni compenso continuativo” (art. 2121 c.c.)35. La

lettera della norma è corredata da un’elencazione di carattere relativo che,

«confermando l’assenza, dal punto di vista giuridico, di un onnicomprensivo 31 Corredando questa estensione del campo di applicazione dell’indennità di anzianità, il codice prevede che la medesima riguardi altresì i rapporti di lavoro non inerenti all’esercizio dell’impresa (art. 2239 c.c.) nonché il lavoro domestico: per quest’ultimo, inoltre, la legge n. 339 del 1958 previde la corresponsione dell’indennità anche in caso di dimissioni. 32 Tracciando una linea di continuità rispetto al passato, il codice, allo stesso modo dell’art. 10 del r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, stabilisce che vadano espunte dal computo dell’anzianità di servizio solo i periodi non effettivamente lavorati previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva. 33 Vedi nota n. 23. 34 Così, in termini, L. RIVA SANSEVERINO, L’indennità di anzianità nella «emergenza», in Studi in onore di Cesare Grassetti, Giuffré, Milano, III, p. 1619, alla quale si rinvia per una completa ricognizione delle problematiche relative all’istituto dell’indennità di anzianità specie nel momento di crisi legato all’epoca dell’«emergenza». 35 Si veda in proposito L. SPAGNUOLO VIGORITA, Gli usi aziendali, Napoli, 1965.

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concetto di retribuzione … (ricomprende, n.d.r.) nel novero delle

controprestazioni rilevanti per il computo dell’indennità di anzianità quegli

accessori di carattere certo e continuativo aventi lo scopo di salvaguardare il

valore reale della retribuzione»36.

Caratteristica peculiare dell’istituto era la “infrazionabilità” dell’anzianità, la

cui maturazione era legata alla prestazione lavorativa ininterrottamente37 resa

dal lavoratore a favore di una determinata impresa. In proposito la dottrina38

e la giurisprudenza si sono interrogate circa l’opportunità di considerare

l’anzianità di servizio infrazionabile in senso soggettivo ovvero in senso

oggettivo: nella prima ipotesi, ponendo l’accento sul rapporto di lavoro e sul

soggetto-lavoratore, era possibile considerarla infrazionabile in senso

generico (ovvero come anzianità relativa al servizio complessivamente reso

alle dipendenze dell’impresa); nella seconda ipotesi, invece, l’attenzione

ricadeva maggiormente sul contratto di lavoro e sul suo oggetto, portando ad

un concetto di anzianità specifica (ovvero come anzianità complessivamente

maturata svolgendo mansioni riconducibili ad una determinata qualifica e

categoria). Non di rado, infatti, la problematica si è presentata all’attenzione

degli interpreti specie per la gestione dell’indennità in occasione di

un’evoluzione del rapporto: si pensi al passaggio dalla qualifica operaia a

36 Così L. RIVA SANSEVERINO, L’indennità di anzianità nella «emergenza», cit.. Di diverso avviso, C. SMURAGLIA (Riflessioni sull’indennità di anzianità, in RGL, 1977, I, p. 260 ss., specie p. 285) considera acquisiti non solo l’applicabilità all’indennità di anzianità del principio generale ex art. 36 Cost., ma anche «quello – ritenuto inderogabile – della omnicomprensività della retribuzione da prendere a base dei calcoli». 37 Fatte salve naturalmente le ipotesi di sospensione tutelate. 38 Si vedano, tra gli altri, M. PERSIANI, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, in Nuovo Trattato di Diritto del Lavoro, diretto da L. RIVA SANSEVERINO e G. MAZZONI, II, Cedam, Padova, 1975; L. RIVA SANSEVERINO, Diritto del lavoro, Padova, 1978; C. SMURAGLIA, Riflessioni sull’indennità di anzianità, cit.; P. TOSI, Considerazioni in tema di novazione oggettiva del rapporto di lavoro, in RTDPC, 1969, p. 191; P. TOSI, Inquadramento unico e indennità di anzianità, in RTDPC, 1973, p. 804; G. PERA, Passaggi di categoria del lavoratore e liquidazione (finale) dell’indennità di anzianità, in OGL, 1973, p. 631.

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quella impiegatizia ovvero da quest’ultima a quella dirigenziale. La dottrina e

la giurisprudenza erano orientate, in casi del genere, a qualificare tali vicende

come “modificazioni non estintive del rapporto” di lavoro, ovvero come fasi

evolutive dello stesso, che, pur trasformando il rapporto contrattuale tra le

parti, tuttavia non erano idonee ad interrompere l’anzianità del lavoratore39.

b) La sistemazione codicistica rinnovava, insieme all’istituto, anche le

relative istanze qualificatorie che, originariamente legate all’ingresso della

indennità di licenziamento nell’ordinamento italiano attraverso la legge

sull’impiego privato, ricevettero nuova linfa, suscitando le attenzioni (per

vero mai sopite) della dottrina più accorta (che proprio in quegli anni faceva

rinascere il diritto del lavoro40), nonché dei giudici, ben presto chiamati a

pronunciarsi in materia.

La rivisitazione della questione, peraltro, fu resa vieppiù attuale dall’entrata in

vigore della Carta costituzionale e dai fondamentali principi da essa affermati,

anche se deve riconoscersi che, malgrado l’arricchimento del dibattito, la

39 In tal senso si veda R. SCOGNAMIGLIO (Indennità di anzianità e assicurazione, in DL, 1977, I, p. 390) che, dando una lettura “soggettiva” al concetto di infrazionabilità dell’anzianità, ovvero traducendolo nella “infrazionabilità del rapporto di lavoro”, rileva come tale ultimo principio abbia travolto «financo le clausole dei contratti collettivi che per lungo tempo hanno sancito la novazione del rapporto di lavoro in relazione al passaggio da una categoria all’altra». Offre una diversa ricostruzione della questione L. RIVA SANSEVERINO (L’indennità di anzianità nella «emergenza», cit., che a sua volta rinvia a G. PERA, Lezioni di diritto del lavoro, Roma, 1977. Nell’op. cit. di RIVA SANSEVERINO è rinvenibile, inoltre, una ricognizione delle vicende relative al c.d. «sistema a scaglioni», per le quali si vedano specialmente p. 1616 ss.) secondo la quale doveva considerarsi in ogni caso rimasta in piedi la possibilità, specie a fronte di un’esplicita volontà delle parti, di procedere alla cessazione del rapporto preesistente e alla successiva costituzione di un nuovo rapporto mediante una (pur contestata) ipotesi di novazione oggettiva. 40 Impegnandosi a «liberare il diritto del lavoro dalle superfetazioni corporative del codice del 1942»: così F. CARINCI (Diritto privato e diritto del lavoro, in corso di pubblicazione), ricordandoci che all’indomani dell’emanazione del codice (e poi della Carta costituzionale) il diritto del lavoro, dopo i natali di inizio secolo dovuti a Ludovico BARASSI, risorgeva tra le fila dei civilisti con la attivazione della prima cattedra del lavoro assegnata a Roma, nel 1946, a Francesco SANTORO PASSARELLI.

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riforma codicistica non comportò un significativo mutamento nella natura e

nella funzione dell’istituto, mutamento per il quale bisognerà attendere oltre

un ventennio e un nuovo intervento del legislatore. Invero, il novello art. 2120

c.c., nella sua originaria formulazione, continuava a stabilire che i lavoratori

licenziati per colpa e coloro che rassegnavano dimissioni volontarie non

avessero diritto al trattamento, con ciò lasciando ancora presumere che

l’istituto fosse finalizzato a premiare la fedeltà del lavoratore41 e, al

contempo, a fornire un supporto di tipo previdenziale42 in concomitanza con

la (involontaria ed incolpevole) perdita del posto di lavoro. La disciplina

dell’art. 2120 c.c., in sostanza, escludeva la sussistenza di un nesso di

sinallagmaticità tra la prestazione lavorativa e il percepimento della indennità

di anzianità43, inducendo Giuseppe PERA ad osservare che «se nell’assetto dei

rapporti di lavoro c’è un trattamento che, per legge, non spetta

immancabilmente in ragione della prestazione lavorativa, il medesimo

41 Cfr. L. SPAGNUOLO VIGORITA, Gli usi aziendali, Morano, Napoli, 1965. 42 Accentuano il ruolo previdenziale o assistenziale dell’istituto F. SANTORO PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, cit.; L. BARASSI, Il diritto del lavoro, III, Milano, 1957; ARDAU, Manuale di diritto del lavoro, II, Milano, 1972; G. PERA, Indennità di anzianità, cit., p. 9 ss.. Merita menzione la ricostruzione di A. ZANINI che (in Appunti per il dibattito intorno all’istituto dell’indennità di anzianità, in MGL, 1964, p. 129 ss.), sottolineando l’incidenza dell’autonomia collettiva sulla disciplina dell’istituto, che per mano sua conosce molteplici forme, tra esse notevolmente differenziate, specie in funzioni delle diverse cause di risoluzione del rapporto, conclude che «la considerazione della complessa fattispecie costitutiva di tale diritto (e in particolare dell’elemento con cui si perfeziona la fattispecie, cioè della causa di estinzione del rapporto) non può non essere rilevante per stabilire la natura giuridica della indennità di anzianità (rectius, dei vari tipi di indennità di anzianità secondo le cause di estinzione del rapporto). Si tratta di due aspetti (quello per così dire strutturale avendo riguardo alla fattispecie e quello funzionale avendo riguardo alla funzione dell’indennità) di una medesima problematica, aspetti che si influenzano e si illuminano a vicenda e che debbono perciò essere insieme considerati e valutati». 43 Secondo U. ROMAGNOLI (La prestazione di lavoro nel contratto di società, Giuffré, Milano, 1967, I, p. 121) «l’indennità adempie la funzione di restituire – necessariamente per equivalente pecuniario – ovvero di rimborsare il valore delle utilità prodotte dalla prestazione di lavoro, proporzionalmente alla durata del rapporto, che non siano in diretta relazione sinallagmatico con la retribuzione».

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competendo su altri e specifici presupposti, è evidente che non può parlarsi di

retribuzione»44.

Né tantomeno ostava alla qualificazione in termini prevalentemente

previdenziali il carattere una tantum della indennità di anzianità. Difatti, in

un’accezione estremamente lata e generica di previdenza sociale, possono

ricondursi ad essa quegli interventi (pubblici o privati) posti in essere su base

solidaristica al fine di tutelare ciascun singolo consociato a fronte di situazioni

di bisogno socialmente rilevanti45, tra i quali è senz’altro annoverabile la

corresponsione di un’indennità in occasione della cessazione del rapporto di

lavoro, funzionale, tra le altre cose, al sostentamento del lavoratore e della

propria famiglia fino al reperimento di una nuova occupazione.

44 Così, G. PERA, Indennità di anzianità, in Diritto e economia, 1980, I, p. 9 ss.. 45 La definizione pecca di una notevole approssimazione dettata sia dall’impossibilità di dare spazio, in questa sede, ad un’adeguata disquisizione intorno alla nozione di previdenza sociale e alla relativa evoluzione, sia dalla «problematicità» e della «sostanziale ambiguità» della stessa nozione, generatrice, peraltro, si «una sorta di crisi d’identità della materia» (così, M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Giappichelli, Torino, 2007, p. 7). Sia consentito ricordare, in ogni caso, che in origine la previdenza sociale assolveva ad una funzione specifica di tutela dei lavoratori - in quanto espressione di una solidarietà imposta esclusivamente ai loro datori di lavoro – che si vengano a trovare in condizioni di bisogno che ne menomino la capacità lavorativa e/o di produzione della ricchezza (cfr. M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, Cedam, 2003, p. 25 ss., e R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova, Cedam, p. 3) . Difatti le prime forme di previdenza nacquero nelle fabbriche come strumenti mutualistici di protezione collettiva dei lavoratori. Accanto a queste, l’assistenza sociale assolveva, viceversa, ad una generica funzione di tutela degli indigenti. Con la nascita dello Stato sociale, il cui nucleo originario è costituito proprio dalla previdenza, prende forma una più globale idea di sicurezza sociale, basata sul «rilievo dato alla persona umana» e concretizzata nell’impegno dello Stato a realizzare interessi indivisibili della collettività mediante la tutela del singolo, ovvero attraverso la «erogazione di beni e servizi ai cittadini che si trovino in condizioni di bisogno» (cfr. M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 25). In Italia, l’avvento della Costituzione repubblicana segna il superamento della tradizionale distinzione tra previdenza e assistenza sociale. Sebbene infatti, l’art. 38 Cost. conservi la distinzione tra cittadini e lavoratori, deve ritenersi che essa possa ridursi «alla diversità dell’ambito e dell’intensità della tutela, giustificata non già da una diversità di fondamento, ma dal diverso modo in cui l’ordinamento ha valutato le esigenze dei cittadini rispetto a quelle dei lavoratori, e cioè le esigenze di quelli cittadini che hanno potuto contribuire con il loro lavoro al benessere della collettività» (cfr. M. PERSIANI, op. loc. cit., p. 27).

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Questo tratto funzionale, che ha poi rappresentato una costante nella

evoluzione dell’istituto, risultava ancor più pregnante, all’epoca, in vigenza di

un regime di libera recedibilità dal rapporto di lavoro, a fronte del quale

l’indennità di anzianità costituiva una embrionale forma di tutela in chiave di

sostegno al reddito dei lavoratori ingiustificatamente licenziati. In tal senso

potrebbe senz’altro riferirsi anche all’istituto codicistico la tesi che

considerava la originaria indennità di licenziamento, introdotta nel 1919,

come una sorta di risarcimento del danno derivante dal licenziamento e dalla

difficoltà di trovare una nuova occupazione46. Luisa RIVA SANSEVERINO, per

esempio, definiva l’indennità di licenziamento come una sorta di

«obbligazione posta a carico del datore di lavoro in conseguenza di un suo

comportamento legalmente lecito, ma presumibilmente tale da creare, per la

controparte, particolari situazioni di difficoltà»47: sotto tale profilo, la nuova

indennità di licenziamento avrebbe cambiato solo la denominazione, restando

46 In tal senso si leggano M. PERSIANI, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, cit., nonché U. ROMAGNOLI, Dimissioni del prestatore di lavoro e indennità di anzianità, in Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, Jovene, Napoli, 1972. È appena il caso di anticipare (v. infra) che la situazione cambiò drasticamente con l’avvento della prima legge che generalizzava la necessità di una giustificazione causale al provvedimento di licenziamento: con l’emanazione della l. 604 del 1966, la prospettazione dell’istituto in chiave risarcitoria dovette irrimediabilmente cedere davanti all’avanzata del giuslavorismo garantista. Sembrava inoltre che anche ragioni di sistema inducessero ad abbandonare l’opzione interpretativa descritta. Renato SCOGNAMIGLIO rilevava in tal senso che se davvero l’indennità di anzianità avesse avuto natura risarcitoria, non sarebbero risultate giustificabili le sue evoluzioni che ne hanno determinato l’applicazione anche ai casi di dimissione del lavoratore nonché al rapporto di lavoro a tempo determinato. Inoltre lo stesso criterio di computo dell’indennità in parola la renderebbe inconciliabile con una simile finalità poiché essa «non viene commisurata alla entità del danno che il lavoratore può subire per la perdita del posto»; piuttosto, il criterio di computo sembra inversamente proporzionale al danno potenzialmente subito dal lavoratore «basti considerare che il lavoratore da più lungo tempo assunto e maggiormente retribuito dovrebbe subire un minore pregiudizio dalla cessazione del rapporto nei confronti del lavoratore che, prestando la sua opera da minor tempo e/o ricevendo una retribuzione inferiore, viene colpito più gravemente dalla perdita del posto» (R. SCOGNAMIGLIO, Indennità di anzianità e assicurazione, op. cit.). 47 Cfr. L. RIVA SANSEVERINO, L’indennità di anzianità nella «emergenza», cit., p. 1619.

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«praticamente immutata la funzione»48. Se si considera, infatti, il criterio

selettivo di accesso all’indennità, collegato ai motivi di risoluzione del

rapporto, emerge in maniera netta «attraverso l’alternativa pena-premio, una

funzione di controllo gerarchico del datore di lavoro ed una funzione

risarcitoria del recesso discrezionale del datore di lavoro, nel senso appunto di

costituire un correttivo di natura patrimoniale al licenziamento ad nutum»49.

In linea con tali analisi dottrinali, i primi interventi giurisprudenziali

attribuivano all’indennità di anzianità “carattere essenzialmente

assistenziale”50, evidenziando al contempo che l’intimo collegamento con la

durata del servizio prestato, più che designare un corrispettivo ulteriore e

supplementare per l’opera via via concretamente prestata, si atteggiasse come

«un premio, attribuito ex post per l’attaccamento e la fedeltà al datore di

lavoro»51. L’orientamento, che dava conto della forte continuità, anche

funzionale, della nuova indennità rispetto al passato, fu coronato dalla

Consulta che ritenne non applicabile all’indennità in parola l’art. 36 della

Costituzione52, in considerazione proprio della natura non retributiva53 della

48 L’espressione è di G. SANTORO PASSARELLI, nella ricca ricostruzione delle vicende evolutive dell’istituto, in Dall’ indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto (Giuffré, Milano, 1984), oggi rilette ed aggiornate in Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare (Giappichelli, Torino, 2007). 49 Così, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto,Cedam, Padova, 1984, p. 19. 50 Così, in termini, Cass. n. 956 del 1963, in MGL, 1964, p. 46. 51 Così Cass. 1229 del 1963, massimata da MGL, 1964, p. 129, con nota di G. SUPPIEJ, L’art. 36 della Costituzione e l’indennità di anzianità. 52 Cfr. le sentenze della Corte di Cassazione nn. 3151 del 1951, in MGL, 1955, p. 174; 3306 del 1957, in MGL, 1957, p. 85; 336 del 1958, in MGL 1958, p. 78; n. 674 del 1963, in MGL, 1963, p. 155: in queste sentenze l’art. 36 Cost. era stato invocato per ottenere l’estensione ai non associati delle misure dell’indennità stabilite da un contratto collettivo e anche per ottenere la estensione dell’attribuzione del trattamento ai casi di dimissioni volontarie. Si vedano inoltre Cass. n. 971 del 1961, in MGL, 1961, p. 252 e Cass. n. 1229 del 1963, cit. 53 Si vedano, in tal senso, oltre alle pronunce citate nelle precedenti note, anche Cass. n. 3357 del 1957; Cass. n. 3383 del 1958, in MGL, 1958, p. 292; Cass. n. 956 del 1963, cit.; Cass. n. 1971 del 1963, in MGL, 1963, p. 333; Cass. 363 del 1964, in MGL, 1963, p. 70;

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stessa. Quanto al momento di perfezionamento del diritto al percepimento

dell’indennità di anzianità, esso veniva individuato nella estinzione del

rapporto “di tal che prima che questo evento si verifichi sussiste a favore del

lavoratore una mera aspettativa”54.

Vi era tuttavia un altro filone dottrinale, parallelo ma minoritario, che,

viceversa, propendeva per il riconoscimento, all’indennità di anzianità, di una

natura retributiva: facevano capo ad esso, tra gli altri, NATOLI, SUPPIEJ,

TORRENTE.

Quest’ultimo qualificava la indennità di anzianità come «retribuzione

complessiva globale che si giustappone a quella parziale, relativa alla singola

unità di tempo e di lavoro»55, il cui relativo diritto matura soltanto alla

cessazione del servizio. Si sarebbe trattato, secondo l’Autore, di una

fattispecie a formazione progressiva, che si perfezionava solo al momento

della cessazione del rapporto56.

Cass. n. 1182 del 1964 , in MGL, 1963, p. 173. Merita un cenno particolare Cass. n. 2686 del 1963, in MGL, 1963, p. 127, che, rilevando la discordanza di pareri esistenti in dottrina sulla indennità di anzianità, conclude che secondo “l’indirizzo interpretativo più recente di questa S. C., l’indennità in questione non è un istituto dai caratteri univoci e ben definiti e la sua natura non può essere individuata alla stregua di schemi astratti predeterminati, occorrendo piuttosto avere riguardo alle varie ipotesi e alla disciplina predisposta in relazione ad esse”. 54 Così, in termini, la già citata Cass. n. 1229 del 1963 che significativamente prosegue affermando: «posto adunque che l’indennità in discussione non sorge in costanza di rapporto di lavoro, la disposizione dell’art. 2120 c.c., per la quale il lavoratore non ha diritto all’indennità medesima in caso di licenziamento per di lui colpa o di dimissioni volontarie, non priva il lavoratore di un diritto acquisito anteriormente alla estinzione del rapporto». 55 Così, in termini, in RGL, 1961, I, p. 1, Sulla natura dell’indennità di anzianità, ove si dilunga nella dimostrazione della conciliabilità della sua tesi con tutte le disposizioni della disciplina legale. 56 E di conseguenza «è con riferimento a questo momento che si deve determinare la normativa legislativa o collettiva applicabile». Si era già pronunciata in tal senso, peraltro, la Corte di Cassazione con sentenza n. 3159 del 1958. È interessante evidenziare inoltre che, secondo TORRENTE (cfr. op. cit.), gli elementi rilevanti per la determinazione della ultima retribuzione, proprio perché la funzione retributiva dell’istituto è in correlazione con la prestazione globale di lavoro, debbono

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Sulla scia di tale orientamento, Ugo NATOLI sosteneva fermamente il carattere

retributivo della indennità di anzianità, non risparmiando critiche, anche

aspre, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione57. “L’evidente

collegamento dell’indennità nello schema causale del contratto, con la

prestazione di lavoro, porta necessariamente a concludere per l’affermazione

del suo carattere retributivo, cioè di compenso ulteriore della prestazione

differito al momento della cessazione del rapporto”58. In definitiva, si sarebbe

trattato di una forma di retribuzione differita il cui diritto di credito, già

esistente durante il rapporto di lavoro, «cresce via via con l’anzianità di

servizio e diventa esigibile quando il rapporto cessa», sicché, nelle ipotesi

escluse dal 2120 c.c., si realizzerebbe la «privazione di un diritto già acquisito

anteriormente alla estinzione del rapporto»59.

Viene classicamente inserito in questa corrente di pensiero anche Giuseppe

SUPPIEJ, il quale attribuiva “funzione retributiva” dell’indennità di anzianità,

poiché la «nozione di retribuzione è, in genere, intesa in senso

sufficientemente ampio da poter comprendere nel suo ambito anche

l’indennità di anzianità»60.

L’Autore, in realtà, si mostrava aperto ad una più verosimile coesistenza di

funzioni, retributiva e previdenziale, e, tuttavia, sul piano argomentativo ne

tracciava un’originale commistione. Riprendendo, infatti, il santoriano

concetto di retribuzione, intesa come «corrispettiva non soltanto dell’attività

di lavoro oggettivamente riguardata, ma anche soggettivamente dell’attività

presentare il carattere della Continuità da intendersi «in astratto, non essendo sufficiente la costanza né tanto meno la frequenza in linea di fatto dell’attribuzione». 57 Testimonia il tenore della breve nota a Cass. 15 maggio 1963, n. 1229 (in RGL, 1963, II, p. 506) la definizione che l’A. offre della sentenza annotata come «un ulteriore documento di una tendenza involutiva della nostra giurisprudenza». Si rinvia allo scritto citato per la ricognizione delle molteplici censure ivi contenute in relazione alla pronuncia de qua. 58 U. NATOLI, in Enciclopedia del diritto, II, 574, voce Anzianità (indennità di). 59 U. NATOLI nella nota a Cass. 1229/1963, cit.. 60 Così G. SUPPIEJ, L’art. 36 della Costituzione e l’indennità di anzianità, cit..

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del prestatore di lavoro secondo le necessità di vita personali e familiari del

medesimo»61, l’Autore affermava che «la funzione retributiva non comporti

affatto che l’indennità stessa non abbia anche funzione previdenziale, giacché

una funzione latu sensu previdenziale è inerente alla stessa corretta nozione di

retribuzione, in ogni sua parte, anche se per alcune componenti, quale

l’indennità di anzianità, assume un rilievo particolare». Non a caso,

interrogatosi sulla compatibilità dell’art. 36 Cost. con i caratteri dell’indennità

di anzianità, il SUPPIEJ conclude che «la stessa esistenza delle norme che

prevedono l’indennità di anzianità realizza un adeguamento della retribuzione

nel suo complesso ai requisiti stabiliti dalla Costituzione; giacché contribuisce

appunto ad assicurare al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa, secondo la

formula dell’art. 36, la previsione, in aggiunta alla retribuzione periodica, di

una speciale attribuzione destinata a sopperire alle immediate esigenze del

delicato momento, nel quale viene a cessare l’occupazione».

2.3. La corresponsione dell’indennità di anzianità «in ogni caso di

risoluzione del rapporto di lavoro» e il rafforzamento del profilo retributivo.

Mentre il dibattito si arricchiva di sempre nuovi contributi dottrinali e

giurisprudenziali, l’istituto continuava ad evolversi62, conoscendo una

progressiva estensione63 - pervero inaugurata dal codice civile64 -, anche ad

61 La definizione, richiamata per esteso dall’A., è di F. SANTORO-PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, 16ª ed., Napoli, 1964. 62 La legge 19 gennaio 1955 n. 25 riconobbe la commutabilità del periodo di apprendistato nell’anzianità di servizio del lavoratore in caso di continuazione del rapporto, mentre la legge 18 dicembre 1960 n. 1561 fissò inderogabilmente la misura minima dell’indennità di anzianità per gli impiegati in una mensilità per ogni anno di servizio. 63 Derogando al suo generale sfavore per i contratti di lavoro a tempo determinato, il legislatore stabilì, con legge 18 aprile 1962 n. 230, che alla scadenza del termine fosse incondizionatamente corrisposto al lavoratore un “premio di fine lavoro” proporzionato alla durata del rapporto stesso e in misura pari all’indennità di anzianità prevista dal contratto collettivo di categoria.

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opera della contrattazione collettiva che, ai sensi del secondo comma dell’art.

2120 c.c., poteva estendere l’attribuzione dell’indennità alle ipotesi di

dimissioni volontarie.

L’innovazione di maggior impatto, però, è senz’altro legata all’emanazione

della legge n. 604 che, nel 1966, generalizzava la corresponsione

dell’indennità di anzianità ad «ogni caso di risoluzione del rapporto di lavoro»

(art. 9) e, dunque, anche alle ipotesi di licenziamento per colpa e di dimissioni

volontarie, portando ad ideale completamento il processo di espansione

dell’ambito oggettivo di applicazione dell’indennità.

L’innesto normativo modificava completamente i caratteri fisionomici

dell’istituto e, con essi, le relative prospettive qualificatorie: l’eliminazione di

ogni facoltà dell’imprenditore di incidere sulla attribuzione dell’indennità

privò definitivamente la stessa del carattere premiale, valorizzando, piuttosto,

«un profilo di sinallagmaticità e di obbligatorietà della relativa erogazione»65.

«Svincolato nell’an da ogni considerazione circa la qualità del rapporto con il

datore»66, l’indennità di anzianità rafforzava il proprio profilo retributivo, in

piena sintonia, del resto, con le teorie sulla spersonalizzazione del contratto di

lavoro che si andavano affermando in quegli anni.

La portata evolutiva della novella risulterà, peraltro, ampiamente recepita

dalla Consulta che, modificando completamente il proprio orientamento sul

punto, muoveva ormai dalla premessa attribuzione all’indennità in parola

Per ciò che concerne invece il lavoro a domicilio, la l. 18 dicembre 1973, n. 877 dispose che sulla base delle tariffe di cottimo pieno fosse determinata fra le maggiorazioni retributive anche quella a titolo di indennità di anzianità. 64 Secondo il quale l’indennità di anzianità riguarda non solo i rapporti di lavoro subordinato ma altresì i rapporti di lavoro non inerenti l’esercizio dell’impresa (art. 2239 c.c.) e il lavoro domestico (art. 2245 c.c.). 65 Così G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 20. Cfr. altresì R. DE LUCA TAMAJO-E. SPARANO, Indennità di fine rapporto (impiego privato), in Digesto delle discipline privatistiche, sezione commerciale, Utet, Torino, 1991, p. 344 ss.. 66 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 38.

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della natura di “retribuzione differita”: su tale base, pronunciandosi con

riferimento alla situazione anteriore all’entrata in vigore della legge 604/1966,

la Corte dichiarava67 costituzionalmente illegittimo l’art. 2120 c.c., 1° comma,

nella parte in cui escludeva il diritto al percepimento dell’indennità nei casi di

licenziamento per colpa e di dimissioni volontarie. L’ulteriore supporto

offerto dalla successiva pronunzia n. 204 del 28 dicembre 197168, con cui la

Corte costituzionale riconobbe il diritto al percepimento dell’indennità anche

ai lavoratori con anzianità di servizio inferiore69 all’anno, delineava, ormai in

modo decisivo, la riqualificazione in senso “retributivo” dell’istituto.

D’altra parte, l’introduzione di un regime di stabilità del posto di lavoro, con

la legge 15 luglio 1966, n. 604, riduceva la funzione di sostentamento

assistenziale dell’indennità di anzianità (più accentuata in un regime di libero

recesso), nonché il collegamento della corresponsione con l’insorgenza dello

stato di bisogno, valorizzandone, per contro, la natura di corrispettivo reso a

fronte della prestazione complessivamente offerta dal lavoratore. Lo stretto

rapporto tra le due discipline veniva colto dalla più attenta dottrina rilevando

che le norme sull’indennità di anzianità hanno «sempre preceduto la

normativa in materia di tutela del posto di lavoro», mentre con il 1966 ha

67 Con sentenza n. 75 del 27 giugno 1978 (cit.). la pronuncia ebbe una rilevanza notevole (come si evidenzia anche oltre), completando la trasformazione dell’indennità di anzianità che «dopo la riforma … non costituisce più un costo del licenziamento (essendo trasformata in retribuzione differita , dovendo quindi essere pagata in ogni caso di cessazione del rapporto)» (cfr. P. ICHINO, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore ordinario in materia di licenziamenti. Note sulla sentenza 7 febbraio 2000, n. 36 e alcuni suoi precedenti, in R. Scognamiglio (a cura di), 2006, p. 134-135). Tuttavia, si è coerentemente rilevato che proprio la premessa attribuzione alla indennità in parola della natura retributiva risulta quanto meno forzata, non essendo «affatto evidente, nel regime precedente al 1966», sicché «la motivazione della sentenza cade in un vizio di isteron proteron, ovvero fonda l’affermazione su ciò che è – a ben vedere – un corollario dell’affermazione stessa» (così, P. ICHINO, op. loc. cit., p. 135) 68 In FI, 1972, I, p. 303. 69 In tal senso, la pronunzia dichiarò costituzionalmente illegittimo il 1° comma dell’art. 2120 c.c. nella sua formulazione originaria nella parte in cui, appunto, escludeva che l’indennità fosse dovuta al prestatore con un’indennità di servizio inferiore all’anno.

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avuto inizio «una inversione di tendenza che culminerà nel 1978 anteponendo

alle ragioni della anzianità, e quindi dell’indennità, quelle

dell’occupazione»70. Si tratta dunque di una relazione inversamente

proporzionale: man mano che si evolve la seconda, la prima perde lustro e

rilevanza poiché «in un regime di stabilità del posto di lavoro l’istituto

dell’indennità di anzianità viene a perdere in gran parte la sua funzione di

sostentamento, massima invece in un regime di libero recesso»71. A conferma

della ricostruzione prospettata, può ricordarsi che nell’arco temporale indicato

furono emanati una serie di provvedimenti normativi finalizzati a tutelare il

prestatore di lavoro a fronte sia di ingiusti licenziamenti individuali, sia dei

rischi di matrice previdenziale attraverso la predisposizione di efficienti

strumenti pensionistici (di invalidità e di vecchiaia) e di cassa integrazione.

Ne risultava un graduale affievolimento del coté previdenziale dell’indennità

di anzianità, sostituito dalla connotazione di strumento di “risparmio

forzato”72.

d) Intanto, l’orientamento della Consulta in senso “retributivo” attraeva

molteplici attenzioni non solo in ordine alle modalità di coordinamento con

l’art. 9 della legge 604/1966, ma anche in relazione alla rinnovata necessità di

stabilire quale significato attribuire al concetto (coniato, pervero, tempo

addietro dalla dottrina) di “retribuzione differita”.

Quanto al primo profilo, con sentenza n. 75 del 1968, la Consulta integrava

sensibilmente il campo di applicazione della legge 604/1966 estendendolo ai 70 Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, cit., p. 36 ss. 71 Così G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità…,op. cit., p. 36 e 37. 72 Sul punto E. GHERA, Prospettive di riforma…,op. cit., p. 528) sosteneva che la matrice previdenziale dell’istituto permanesse anche sotto le mentite spoglie del risparmio forzato, sebbene non più diretta a soddisfare un bisogno primario ma secondario. In tal senso si era espresso già F. SANTORO PASSARELLI, Funzione delle assicurazioni private e delle assicurazioni sociali, in Libertà e autorità nel diritto civile, Cedam, Padova, 1967, p. 149 ss..

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rapporti di lavoro cessati prima dell’entrata in vigore della legge citata73,

nonché a categorie di lavoratori che sembravano esserne escluse come quella

dei dirigenti74.

Sotto il profilo qualificatorio, poi, la definizione di retribuzione differita

generava «notevoli equivoci»75, poiché, assimilando implicitamente

l’indennità di anzianità alla retribuzione periodica, finiva per evocare «l’idea

di una quota retributiva accantonata alle singole scadenze temporali la cui

erogazione è differita al momento della estinzione del rapporto»76. Viceversa,

il meccanismo di computo dell’indennità di anzianità non consentiva

all’epoca di quantificare e isolare a priori e per ciascuna frazione di rapporto

una determinata porzione di retribuzione ad erogazione differita: se poteva

dirsi ab origine certo l’an della corresponsione, lo stesso non valeva certo per

il relativo quantum, dovendosi attendere necessariamente il momento della

73 Salvo, naturalmente, si fosse verificato un fatto estintivo del diritto all’indennità, come nell’ipotesi di decorrenza della prescrizione quinquennale. 74 È opportuno precisare che successivamente alla emanazione della sentenza n. 75 del 1968, la corte costituzionale è ripetutamente intervenuta per adeguare al nuovo principio di diritto enunciato la disciplina relativa a singoli settori. In particolare la Consulta è intervenuta: con sentenza n. 14 del 1970 (in MGL, 1970, 4, p. 141, con nota di L. RIVA SANSEVERINO), dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 10 della legge 604/1966 nella parte in cui escludeva dal suo campo di applicazione gli apprendisti con qualifica di operaio/impiegato; con sentenza n. 85 del 1972 (in FI, 1972, I, p. 1527), dichiarando costituzionalmente illegittima la legge 339 del 1958 nella parte in cui prevedeva, nell’ambito del rapporto di lavoro domestico, la mancata corresponsione dell’indennità in caso di licenziamento disciplinare, nonché con sentenza n. 72 del 1973 (in FI, 1973, I, p. 1661), con cui ha dichiarato costituzionalmente illegittima la stessa legge n. 339 nella parte in cui disponeva che l’indennità di anzianità fosse computata solo in base alla retribuzione in denaro, senza tener conto del valore del vitto e dell’alloggio eventualmente forniti dal datore di lavoro. 75 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 20; gli stessi Autori rilevano infatti che l’indennità di anzianità «non poteva essere qualificata come retribuzione differita perché sganciata dalla retribuzione corrente e determinata in base ad un parametro imprevedibile costituito dal ricalcalo complessivo sull’ultima retribuzione». evidenzia l’incerta portata e l’equivocità dell’espressione “retribuzione differita” anche P. G. ALLEVA, Automatismi e riassorbimenti salariali, in RGL, 1979, I, p. 121. 76 La puntuale valutazione è tratta da G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 20.

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cessazione del rapporto per conoscere l’ammontare del moltiplicatore. Tali

ultime considerazioni inducevano a ricondurre l’indennità di anzianità ad

un’inedita forma retributiva, coniata ad hoc per non privare l’istituto della

qualificazione attribuitagli dalla Consulta: prendeva forma, così, l’idea di un

emolumento retributivo che si giustappone alla retribuzione conferita al

lavoratore per la singola unità di tempo e di lavoro, una sorta di «corrispettivo

dell’apporto globalmente arrecato dal lavoratore in ragione della sua anzianità

di servizio»77.

Più realisticamente possiamo forse ritenere che l’indennità di anzianità, come

conosciuta dal nostro codice civile e modificata dai successivi interventi del

legislatore e della Corte costituzionale, non abbia portato a compimento la

trasformazione dell’originario “premio di fedeltà” in “nuovo elemento

retributivo”: «l’ancoraggio del computo all’ultima retribuzione percepita ha

mantenuto una stretta destinazione funzionale alla valorizzazione della

carriera»78. Sarà piuttosto la riforma dell’82 a rendere compiuta l’evoluzione

dell’istituto in senso retributivo, agganciandolo quantitativamente

all’erogazione retributiva periodica79.

All’analisi funzionalista, andava affiancata, poi, quella inerente il carattere

differito dell’emolumento, al fine di stabilire se esso riguardasse la sola

erogazione dell’indennità o anche la maturazione del diritto a percepirla.

Sotto tale profilo, se per un verso la natura retributiva attribuita all’indennità

di anzianità consentiva di includerla nello schema causale del contratto di

77 Ne ricostruiscono la genesi G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 21. Va ricordato, però, che, prima del révirement interpretativo dovuto all’avvento della l. 604/1966, già G. SUPPIEJ aveva considerato l’indennità di anzianità come uno strumento di «adeguamento della retribuzione nel suo complesso ai requisiti stabiliti dalla Costituzione» (L’art. 36 della Costituzione…, op. cit.: vedi in questo par. lett. b), pp. 21-22), riprendendo, a sua volta, una più risalente definizione di F. SANTORO PASSARELLI (cfr. nota n. 59). 78 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 34 ss. 79 Sul punto, si veda il paragrafo successivo.

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lavoro, al pari di ogni altro elemento retributivo, per altro verso, tale

qualificazione non sembrava risolutiva di ulteriori questioni di notevole

rilievo pratico, quali la determinazione del momento di maturazione del

diritto nonché, conseguentemente, la verifica delle garanzie riconosciute al

lavoratore prima della suddetta maturazione del diritto. I profili inerenti la

determinazione del momento di maturazione del diritto all’indennità di

anzianità saranno, tuttavia, trattati oltre in ragione della loro specifica

rilevanza (v. infra par. 3)

2.4. L’indennità di anzianità nell’«emergenza» e la minaccia referendaria.

Nella seconda metà degli anni ’70, in un clima di diffusa crisi economica, il

diritto del lavoro ha dovuto dare un celere riscontro alle imminenti necessità

prospettate dal mercato, ricorrendo a soluzioni talvolta impopolari ma,

proprio per questo, ricercando, ove possibile, consenso nei primi embrionali

esperimenti di concertazione sociale.

L’alta instabilità inflattiva dell’epoca creava non solo problemi di adeguamento

salariale al costo della vita, ma altresì un irrefrenabile aumento degli

automatismi retributivi accessori, il cui andamento era direttamente ricollegato

dalla legge al variare degli indici dei costi al consumo. Tra questi vi era

innanzitutto l’indennità di anzianità, che con la sua struttura speculare al

momento della cessazione del rapporto di lavoro, moltiplicava qualsiasi eccesso

inflattivo esistente in un determinato momento storico. Alla crisi, vissuta in un

clima di sentita “solidarietà nazionale”, il sindacato rispose con una scelta

responsabile, addivenendo prima alla sottoscrizione dell’accordo

interconfederale del 27 gennaio 1977 e, poi, all’approvazione, in sostanziale

conformità al predetto accordo, della legge n. 91 del 1977 che introduceva un

principio di deindicizzazione dell’indennità di anzianità, escludendo dall’ultima

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retribuzione presa a base del computo tutti gli scatti di contingenza maturati

dopo il 31 gennaio 1977.

Lo scambio politico sotteso alla novella – e che alla stessa conferiva embrionali

fattezze concertative – realizzò, dunque, quale contropartita al mantenimento di

un regime particolarmente sensibile di scala mobile, la sterilizzazione del

computo dell’indennità di anzianità dagli scatti di contingenza che, in una con le

distorsioni prodotte dal processo inflattivo, avevano contribuito a determinare le

cosiddette liquidazioni d’oro. La c.d. svolta dell’Eur tentò, dunque, di preservare

il salario diretto e il suo potere d’acquisto, spostando i sacrifici su quello

“differito”, ma l’aumento vertiginoso del costo della vita finì, comunque, con

l’accentuare sensibilmente l’entità dei sacrifici richiesti ai lavoratori80, si da

indurre qualcuno a definire la legge n. 91/1977 «contraria ad una elementare

giustizia retributiva»81. Di tale pericolo aveva già manifestato sentore la Corte

costituzionale82 che, pur ritenendo legittima la deindicizzazione dell’indennità,

aveva denunciato il rischio che, senza computo della contingenza, l’indennità

diminuisse progressivamente, incidendo così sia sulla funzione retributiva

dell’istituto, in contrasto col principio dell’art. 36 Cost., sia sulla funzione

latamente previdenziale, con conseguente rischio di inosservanza dell’art. 38

Cost..

Al monito concettuale della Consulta, si affiancarono presto ricadute pratiche di

inattesa portata sul bilancio economico dei singoli lavoratori: se la sola

80 In effetti il sacrificio imposto dalla legge n. 91/1977 si proporzionalmente più elevato per i lavoratori di livello più basso specie a causa dell’unificazione del valore dell’indennità di contingenza, realizzata con l’accordo interconfederale 25 gennaio 1975. 81 Così G. ZANGARI, L’indennità di anzianità e le prospettive della sua riforma, in RDL, 1979, I, p. 125. 82 C. cost., 30 luglio 1980, n. 142 (in FI, 1980, I, 2641, con nota di MAZZOTTA, Le norme sulla riduzione del costo del lavoro davanti alla Corte costituzionale): la sentenza risolveva la questione in maniera “temporanea”, ricorrendo all’espediente della legittimità costituzionale provvisoria. Si veda inoltre M. DELL’OLIO, Emergenza e costituzionalità (la sentenza sulla scala mobile e il «dopo»), in DLRI, 1981, pp. 1 ss.

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deindicizzazione dell’indennità di anzianità si era rivelata già sufficiente a

«comprometterne la omogeneità qualitativa rispetto alla retribuzione»83,

l’impennata inflattiva degli anni successivi al 1977, del tutto imprevista al

momento della conclusione dell’accordo sull’esclusione della contingenza,

svalutò ulteriormente l’indennità di anzianità.

Ciò indusse Democrazia Proletaria a proporre un referendum abrogativo

legittimato dalla raccolta di 800.000 firme e dichiarato ammissibile dalla

Corte costituzionale con sentenza n. 26 del 10 febbraio 198284. Con il

referendum ci si proponeva di reintrodurre nella retribuzione base del

computo dell’indennità di anzianità la contingenza congelata, così da

incrementare in misura notevole l’ammontare dell’indennità medesima.

Apparve subito evidente che la “minaccia” referendaria avrebbe

imprudentemente inciso sugli squilibri che gravavano sulla moneta e sul

mercato del lavoro, poiché «nessuna seria manovra di politica economica,

nella linea congiunta di lotta all’inflazione e alla disoccupazione, sarebbe

(stata, ndr) possibile se il costo del lavoro fosse (stato, ndr) investito dalle

conseguenze sconvolgenti di un voto referendario»85., con esito pressoché

scontato, «e ciò perché sarebbe stata in sostanza rimessa la decisione

83 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 22. 84 In MGL, 1982, p. 8. 85 Su tale presupposto l’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Spadolini si fece carico della questione della riforma dell’indennità di anzianità. In tal senso, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (Il trattamento…, cit., p. 7 ss.) evidenziano che «il successo del referendum avrebbe nei fatti suggellato un principio di irreversibilità dei trattamenti economici e normativi del lavoro dipendente» poiché da quel momento in poi qualsiasi intervento legislativo diminutivo di diritti dei lavoratori sarebbe stato esposto al rischio di abrogazione attraverso lo strumento referendario cagionando un insostenibile immobilismo delle politiche del lavoro. Di diverso avviso, M. D’ANTONA (L’indennità di anzianità tra riforma e referendum, in Democrazia e diritto, 1982, 3, p. 153-159, che oggi leggo in ID., Opere, a cura di B. CARUSO e S. SCIARRA, vol. 3°, tomo III, Giuffré, 2000, p. 957 ss.) secondo cui «la verifica della volontà popolare su questa materia non solo era legittima – ed è positivo che la Corte costituzionale abbia ammesso il referendum - , ma era anche necessaria, se non fosse maturata una soluzione legislativa basata su un consenso significativamente ampio».

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sull’abrogazione di una legge economicamente penalizzante agli stessi

soggetti penalizzati, trasformandosi uno strumento di democrazia diretta in un

veicolo di irresponsabilità collettiva»86. Ciò che indusse il Governo a ricercare

un’alternativa soluzione “di emergenza”, cioè a dire un intervento legislativo

di riforma dell’istituto capace di “disinnescare” l’incombente referendum.

L’espressione “emergenza”, presa a prestito dalla pubblicistica giuslavorista

dell’epoca, designa l’ormai stereotipata modalità legislativa del Governo e del

Parlamento dell’epoca che, in materia di politica economica e del lavoro,

mostravano una «capacità riformista sollecitata soltanto da eventi straordinari

ed estrinseci»87.

Fu istituito un Comitato per la valutazione dei problemi inerenti l’indennità di

fine lavoro formato da un gruppo di esperti e tecnici rappresentativi delle

contrapposte organizzazione sindacali, presieduto dal prof. Gino GIUGNI.

All’esito dei lavori, la Commissione propose alla Presidenza del Consiglio un

ventaglio di soluzioni alternative considerate nei rispettivi risvolti giuridici ed

economici; un più ristretto gruppo interno alla Commissione (e composto da

Gino GIUGNI, Raffaele DE LUCA TAMAJO e Domenico VALCAVI) si occupò,

invece, di sondare la concreta praticabilità delle alternative prospettate

attraverso una serrata mediazione con le contrapposte rappresentanze

sindacali, individuando, infine, una soluzione che, seppur non unanimemente

condivisa, risultasse almeno non osteggiata dalle parti sociali.

2.5. La riforma dell’’82: la storia interna.

L’attività di “consultazione e mediazione”, condotta abilmente a buon fine, si

tradusse, in effetti, nella stesura di un disegno di legge restituito nella sostanza

86 In termini, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 8. 87 Cfr., in termini, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 9.

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inalterato dal vaglio del Consiglio dei Ministri. Più complesso si rivelò,

invece, il successivo iter parlamentare di conversione del disegno in legge; un

percorso segnato da tempi stringati e scontri politici, di natura demagogica e

non, con punte di ostruzionismo e continue minacce di scioglimento delle

Camere. Nella corsa contro il tempo per evitare lo svolgimento del previsto

referendum popolare, era necessario che il Parlamento convergesse

rapidamente sul testo della riforma da adottare: l’accorpamento dei 17 articoli

del disegno di legge in soli 5 articoli, a costo di «un grave sacrificio della

tecnica legislativa», accelerò l’approvazione del provvedimento (peraltro

sensibilmente modificato dalla Camera dei Deputati), che passò in Senato il

29 maggio 1982, lo stesso giorno in cui fu promulgato dal Presidente della

Repubblica.

L’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione ritenne il

provvedimento sostanzialmente innovativo rispetto alla disciplina oggetto

della prossima consultazione che, di conseguenza, non ha mai avuto luogo ai

sensi dell’art. 39 della legge 25 maggio 1970, n. 325.

Nell’imminenza della già approvata e programmata consultazione il governo

poteva utilizzare efficacemente il suo veto politico – com’era evidentemente

nelle intenzioni del Presidente Spadolini – solo evitando lo scontro frontale

con le parti sociali e, in definitiva, con la classe lavoratrice che aveva voluto il

referendum88. Difatti la parte sindacale, che pure temeva le conseguenze dello

scavalcamento politico di Democrazia Proletaria in un’area d’azione

tipicamente sindacale, si poneva naturalmente al fianco dei lavoratori, con la

conseguente impossibilità di concordare con il potere politico i termini di una

legge che sarebbe risultata inevitabilmente in perdita per i lavoratori. Lo 88 Sul punto è molto critico G. PERA secondo il quale un trattamento di fine rapporto non ha alcuna giustificazione ed è piuttosto figlio di «un modo facile, perché non elettoralmente pregiudizievole, ma alla lunga rovinoso» di risolvere i problemi (cfr. Le riforme da riformare…, cit., p. 662).

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stesso GIUGNI89 ricorda infatti che «dai vertici sindacali giungevano, sia pur

tra le righe, segnali auspicanti una soluzione proveniente dall’alto ed

eteronoma il più possibile, tale cioè da non corresponsabilizzare il sindacato

agli occhi dei lavoratori in ordine alle inevitabili soluzioni al ribasso rispetto a

quelle delineate dal referendum»90. In altre parole, piuttosto che concordare

una soluzione al ribasso, «era meglio subirla dal potere politico, magari

condizionandola il più possibile»91. D’altro canto la parte imprenditoriale, pur

temendo gli oneri derivanti dagli esiti referendari, si dichiarava pronta a

scaricarne il peso sul prossimo tavolo di contrattazione.

Le rispettive ragioni (o pseudo tali) di chiusura delle parti sociali ad una

cooperazione normativa suggerirono al governo la ricerca di una soluzione di

compromesso affidata ad un pool di tecnici altamente qualificati e capaci di

sintetizzare le attese politiche e le esigenze dell’economia insieme con gli

interessi imprenditoriali e le aspettative sindacali. La Commissione Giugni era

chiamata, infatti, ad elaborare un progetto di riforma dell’indennità di

anzianità che arginasse il problema delle liquidazioni d’oro, che fosse

sufficientemente innovativa da accantonare la prospettiva referendaria e che

realizzasse un sostanziale equilibrio tra gli interessi delle parti sociali: la

parola d’ordine fu “mediazione”.

Ed in effetti la disponibilità al confronto dimostrata dagli interlocutori si è

tradotta in una sorta di “concertazione mascherata” in cui gli attori sociali

hanno mantenuto, sino alle ultime battute, le proprie rigide posizioni,

strizzando però l’occhio al legislatore.

89 Nell’opera pluricitata redatta con RAFFAELE DE LUCA TAMAJO e GIUSEPPE FERRARO. 90 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 10. 91 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 10 ss..

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Già dalla stesura della bozza del disegno di legge si evinse l’ambizione della

Commissione di «rifondare tutto il sistema, ma per il futuro»92, non

limitandosi ad una mera operazione riparatoria delle storture create dalla

legge n. 91 del 1977.

Venne preferita e poi articolata, infatti, una soluzione di radicale

trasformazione che si basava su criteri di computo dell’indennità di fine

rapporto del tutto innovativi e molto più fedeli all’evoluzione professionale di

ciascun singolo lavoratore, eliminando il meccanismo moltiplicatorio fonte

del fenomeno delle superliquidazioni. Più equilibrato sul piano quantitativo,

l’istituto risultava anche qualitativamente migliorato, attraverso una

perequazione tra operai e impiegati insistitamente voluta dai sindacati.

I tratti riformistici della novella le consentirono di essere apprezzata anche dai

più scettici e financo dagli abolizionisti. Un’autorevole voce rilevava

l’inutilità dell’istituto, che anomalamente attribuisce al lavoratore italiano una

doppia retribuzione (una in costanza di rapporto e una alla fine), apprezzando,

d’altra parte, la prospettiva offerta dalla legge n. 297/1982 «della progressiva

erosione nel tempo dell’istituto, specialmente con l’intervento ulteriore della

contrattazione collettiva» che, «potendo operare il trasferimento in termini di

trattamento in costanza di rapporto», lasciava sperare che il t.f.r. sarebbe

andato, nel giro di qualche decennio, in «progressivo letargo»93.

Nasceva, così, il “trattamento di fine rapporto”, che sostituiva in maniera del

tutto innovativa la codicistica indennità di anzianità.

Tra le caratteristiche più salienti della novella vanno senz’altro annoverate la

predisposizione di un sistema di computo completamente trasformato rispetto

a quello che scandiva l’indennità di anzianità, nonché la possibilità di ottenere

92 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 13. 93 Tutto il virgolettato è di G. PERA, Le riforme da riformare…, cit., p. 662 ss.

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delle anticipazioni (sull’ammontare del trattamento sino a quel momento

maturato) in costanza di rapporto. Nella Relazione di accompagnamento ai 13

articoli del disegno di legge n. 1830 che il Presidente del Consiglio presentò

al Senato in data 17 marzo 1982, la Commissione Giugni chiariva proprio la

rilevanza di questi due elementi e la loro coerenza ad un ideale percorso

evoluzionistico tracciato per l’istituto. In particolare, l’attribuzione alla

contrattazione collettiva della possibilità di derogare, sia in melius che in

peius, al criterio di determinazione della retribuzione annua da utilizzare

come base di computo per gli accantonamenti annuali, restituiva

«all’autonomia collettiva la facoltà di determinare l’entità del trattamento e la

possibilità, in futuro, di ampliare o diminuire la formazione di questo tipo di

risparmio vincolato». L’ipotetica riduzione, anche drastica, della base di

computo avrebbe potuto essere utilizzata quale contropartita per ottenere un

migliore trattamento retributivo al tavolo di contrattazione: una diminuzione

della retribuzione differita in cambio di un immediato aumento in busta

paga94.

Quanto alle anticipazioni in costanza di rapporto, la prevista attribuzione alla

contrattazione collettiva e ai patti individuali della possibilità di ampliarne le

condizioni di accesso consentiva, anch’essa, «una eventuale evoluzione

dell’istituto in base al consenso delle parti sociali»95. Il suggerimento fu colto,

peraltro, in sede di lavori parlamentari. La relazione Romei al Senato del 21

94 Anticipiamo che la derogabilità di tale norme da parte della contrattazione collettiva è a senso unico in peius: «trattamenti più favorevoli sono, ovviamente, inimmaginabili» chiariva ROMEI relazionando al Senato della Repubblica (21 aprile 1982, cit.). Una rara eccezione sul piano della derogabilità collettiva motivata dalla necessità di porre al riparo dall’odioso fenomeno delle superliquidazioni. 95 Relazione al Disegno di legge n. 1830 concernente la «disciplina del trattamento di fine rapporto», presentato dal Presidente del Consiglio al Senato in data 17 marzo 1982, reperibile in G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, Allegati – Atti della Commissione Giugni, specialm. p. 316.

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aprile 1982 evidenziava la prospettiva di una «ulteriore evoluzione verso un

sistema di risparmio opzionale, obbligatorio oppure volontario».

2.6. Il nuovo criterio di computo e la piena affermazione del carattere di

retribuzione differita.

La legge n. 297/1982 stabilisce che il nuovo trattamento i fine rapporto si

calcola sommando, per ciascun anno di servizio, una somma pari alla

retribuzione annua divisa per il numero fisso 13,596. L’ammontare complessivo,

opportunamente rivalutato, con cadenza annuale, secondo il criterio di

indicizzazione introdotto dalla stessa legge n. 297, viene quindi conferito al

lavoratore alla cessazione del rapporto di lavoro.

Il nuovo meccanismo di computo, essendo stato “costruito” in maniera tale da

scongiurare il riproporsi del c.d. fenomeno delle superliquidazioni, è

modificabile da parte della autonomia collettiva nel rispetto, però, di alcuni

limiti invalicabili. In particolare, la dottrina ormai consolidata97 ritiene che il

divisore 13,5 non sia modificabile neppure in meglio da parte della

contrattazione, in un’ottica di forzosa ricerca di equilibrio legislativamente

scandita per far fronte alle note “emergenze” che interessavano, all’epoca, il

mercato del lavoro. Peraltro, la determinazione di «un tetto massimo alla

96 Art. 1, l. 297 del 29 maggio 1982 che ha novellato l’art. 2120 del codice civile. Per una più accurata descrizione del meccanismo di computo, si rinvia, sin d’ora, al successivo capitolo III. 97 Cfr. E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento…, cit., pp. 11-12; M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, in RTDPC, 1983, pp. 25-26; P.G. ALLEVA, Legislazione e contrattazione collettiva nel 1981-1982, in GDLRI, 1982, pp. 537-538.; R. DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, in GDLRI, 1982, p. 445; G. FERRARO, Commento dell’art. 4 della legge n. 297 del 1982, in NLCC, 1983, p. 296; A. GARILLI, Prime riflessioni sulla riforma dell’indennità di anzianità, in RGL, 1982, I, p. 358; A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto di lavoro, cit., p. 147.

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dinamica quantitativa dell’istituto con evidente finalità perequativa e

calmieratrice»98 e la risultante unificazione del c.d. coefficiente tempo-salario si

rivelerà in grado, non solo di colpire le c.d. liquidazioni d’oro, rendendo il

trattamento proporzionale ai guadagni percepiti dal lavoratore durante tutta la

durata del rapporto, ma altresì di eliminare le differenze dovute all’esercizio, da

parte dell’autonomia collettiva, della prerogativa di individuare coefficienti

intercategoriali o intracategoriali che divaricavano notevolmente, sotto il profilo

quantitativo, il trattamento effettivamente goduto dai singoli lavoratori.

La pregressa indennità di anzianità veniva computata, infatti, moltiplicando

l’ultima retribuzione percepita per il numero di anni di servizio del lavoratore

ovvero aumentandone l’ammontare in progressione geometrica. Un sistema,

questo, che “fotografando” la vita professionale del lavoratore «nel momento

terminale riflesso nell’ultima retribuzione»99, favoriva inevitabilmente fenomeni

sperequativi, sia attraverso promozioni mirate a gonfiare la c.d. liquidazione, sia,

al contrario, attraverso il ricorso a ripetute e fraudolente interruzioni del

rapporto.

Viceversa, il novello trattamento di fine rapporto “fotografa”, con cadenza

annuale, ciascuna singola fase del rapporto di lavoro poiché, maturando nella

proporzione appena descritta, riflette fedelmente la storia retributiva di ciascun

lavoratore, impedendo manovre o effetti sperequanti a vantaggio di chi presenta

dei picchi di carriera nella fase terminale del rapporto.

La giurisprudenza ha puntualizzato, in tal senso, specie nel periodo appena

successivo all’entrata in vigore della legge 297, che, diversamente dalla

precedente disciplina, l’anzianità di servizio non concorre più in maniera

diretta alla determinazione della somma spettante al lavoratore: il sistema di 98 Così G. GIUGNI, R. DE LUCA TAMAJO, G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 44. 99 Così G. GIUGNI, R. DE LUCA TAMAJO, G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 21

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computo del t.f.r. predilige quale parametro proporzionale del proprio

ammontare la retribuzione annua del lavoratore, a scapito dell’anzianità di

servizio, che, in sé considerata, è ridotta soltanto a dimensione temporale

della relazione lavorativa100.

Il nuovo criterio di computo completa, dunque, l’evoluzione dell’istituto in

senso retributivo.

2.7. La disciplina delle anticipazioni e la “duttilità funzionale” del t.f.r.

La novella dell’’82 attribuisce ai lavoratori la possibilità di ottenere una

anticipazione del t.f.r. maturato e accantonato in ragione di una ristretta

tipologia di causali giustificative, tassativamente indicate dal legislatore101. La

norma, tuttavia, accanto alla previsione delle condizioni di accesso

all’anticipazione e della relativa misura, consente all’autonomia privata, sia

collettiva che individuale, la stipulazione di clausole contenenti condizioni di

miglior favore.

L’autonomia privata anche individuale ha, in questo modo, la possibilità di

ampliare l’area delle anticipazioni, incidendo in melius sulle diverse

disposizioni che la governano, ovvero, se ritiene, rimettersi alla disciplina

legale lasciandola del tutto inalterata.

Ciò che maggiormente rileva, in ogni caso, sono le potenzialità evolutive di

tale capacità di deroga in ragione della relativa incidenza su un profilo

particolarmente qualificante del t.f.r., qual è il momento della corresponsione

dell’emolumento (e, secondo alcuni, anche della maturazione del relativo

diritto) alla cessazione del rapporto. Tale caratteristica del trattamento ha

100 Così Cass. 15 giugno 1988, n. 4073, in Rep. FI, 1988, voce Prescrizione e decadenza, n. 22; Cass. 5 febbraio 1988, n. 1229, ivi, voce cit., n. 24; Cass. S.U. 28 luglio 1986, n. 4812, in DL, 1987, II, p. 507. 101 Per una più ampia trattazione della materia delle anticipazioni si rinvia al capitolo II della tesi.

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sempre avuto, infatti, un notevole peso in sede di determinazione della sua

funzione; di conseguenza, quanto più si ritiene ampia la capacità di deroga

dell’autonomia privata, tanto più essa consentirà alla libera contrattazione di

incidere sui tratti funzionali dell’istituto in direzione della accentuazione della

natura esclusivamente retributiva.

Non sembra azzardato, allora, designare il regime delle anticipazioni come

una sorta di “valvola funzionale” del t.f.r. che, in ragione della sua maggiore o

minore apertura, è in grado di incidere sulla funzione attribuibile all’intero

istituto.

La dottrina si è profusamente interrogata su tale derogabilità, sulle relative

limitazioni nonché sulle conseguenze derivanti dalla sua spendita, offrendone

differenti letture per lo più sintetizzabili in due macro-orientamenti.

a) Una prima tesi attribuisce valore pregnante al titolo e all’incipit dell’art.

2120 c.c., che, caratterizzando l’istituto, consentono all’autonomia privata di

derogare al regime delle anticipazioni soltanto in ragione di specifiche causali

aventi riferimento a condizioni di bisogno dei lavoratori. Così, nella

ricostruzione offerta da Antonio VALLEBONA, «l’autonomia collettiva non può

spingersi fino ad escludere la necessità di qualsiasi giustificazione, poiché ciò

contrasterebbe con le finalità dell’istituto del trattamento di fine rapporto e

delle relative anticipazioni, consistenti … nella imposizione del risparmio di

una quota di retribuzione per fronteggiare esigenze di consumo essenziali di

carattere straordinario»102. Nello stesso senso PERSIANI aveva già evidenziato,

in uno dei primi interventi di commento alla novella del 1982103,

l’impossibilità di dilatare troppo i margini delle pattuizioni individuali e

102 Il trattamento di fine rapporto di lavoro, cit., p. 170. 103 Si fa riferimento alla Relazione svolta nell’ambito del seminario tenuto a Roma i 24-25 marzo 1983, del cui dattiloscritto rinvengo traccia nell’opera di G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (qui a p. 123 ss.).

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collettive, pena lo snaturamento della funzione previdenziale tipica assegnata

dal legislatore al t.f.r..

L’accoglimento di tale impostazione interpretativa comporta la

configurazione della natura dell’istituto come retribuzione differita con

funzione previdenziale.

b) Una seconda tesi ritiene che la “valvola” prevista dal comma 11° dell’art.

2120 c.c. in favore dell’autonomia collettiva consenta una totale

liberalizzazione dell’istituto, fino al punto che la maggior parte ovvero la

totalità delle somme accantonate possa essere erogata, a prescindere da ogni

causale giustificativa, anno per anno, in corso di rapporto104. Secondo i fautori

di tale orientamento, di conseguenza, la definizione di “retribuzione differita

con funzione previdenziale” appare quantomeno incompleta, risultando

esaustiva soltanto nell’ipotesi in cui l’autonomia privata non eserciti la facoltà

di deroga. Viceversa, nell’ipotesi in cui le parti, individualmente o

collettivamente, decidano di esercitare la propria prerogativa, si registrerebbe

una progressiva mutazione della funzione svolta dall’istituto, fino a

caratterizzarsi in senso puramente retributivo nell’ipotesi di conferimento

degli accantonamenti anno per anno in busta paga105, senza giustificazione

alcuna all’infuori della reciproca volontà delle parti di regolamentare i propri

rapporti in quel determinato modo. In tale ottica, «il t.f.r. conserva una natura

solo tendenzialmente e convenzionalmente previdenziale, potendo le

controparti del rapporto, anche a livello individuale, convenire per una

destinazione meramente retributiva delle quote accantonate e per una

sostanziale svalutazione dei profili previdenziali»106. Volendo coniare, per

104 V. R. DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, in DLRI, 1982, p. 451 105 Tale possibilità era preclusa nel previgente regime dell’indennità di anzianità a causa dell’inderogablità della relativa corresponsione: si vedano C. SMURAGLIA, Riflessioni …, cit., p. 308, e L RIVA SANSEVERINO, L’indennità di anzianità …, cit., p. 10 ss. 106 In termini, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 124.

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simmetria rispetto all’ipotesi sub a), una definizione, potremmo dire che

secondo questo orientamento il t.f.r. costituisce una forma di retribuzione

differita con funzione previdenziale ma con possibile mutazione in senso

puramente retributivo.

Accanto alla diversa configurazione della natura dell’istituto, le due tesi

prospettate sembrano differire altresì nell’approccio metodologico adottato: il

primo, di matrice induttiva, muove dalla denominazione data all’istituto per

trarne limitazioni, inespresse nel testo normativo; il secondo, di tipo

deduttivo, non rilevando l’esistenza di predeterminate limitazioni legislative

alla capacità di deroga della contrattazione privata, riconosce alla particolare

struttura del regime delle anticipazioni la capacità di modificare i tratti

funzionali dell’istituto.

In questa sede, anche alla luce dell’approccio metodologico dichiarato in

apertura, non può che accogliersi la tesi sub b.

Sembra, peraltro, che depongano significativamente in tal senso:

1. ragioni di carattere sistematico: se la legge consente di derogare al

quantum degli accantonamenti, ovvero all’autonomia collettiva di

pattuire una illimitata diminuzione della relativa base di computo, non

si vede perché, poi, dovrebbe limitare tale potere di deroga in relazione

al regime delle anticipazioni. Difatti, in sede di contrattazione collettiva

è possibile ridurre il t.f.r. fino a renderlo inconsistente attraverso

l’epurazione del dividendo da tutte le voci ultronee rispetto alla

retribuzione-base, barattando, ad esempio, tale riduzione con un

correlativo aumento in busta paga: non si comprende, allora, perché lo

stesso risultato (e lo stesso scambio) non possa essere realizzato

modificando la disciplina delle anticipazioni, magari attraverso la

pattuizione della annuale corresponsione degli accantonamenti. Da tale

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52

punto di vista la derogabilità del regime delle anticipazioni risulta del

tutto simmetrica rispetto alla derogabilità della base di computo;

2. le predette ragioni di carattere metodologico: la tesi sub a) sembra

imporre in modo aprioristico una determinata funzione all’istituto, a

prescindere dal tenore complessivo della concreta disciplina legislativa

che, viceversa, contemplando la derogabilità in favore dell’autonomia

privata, palesa una malleabilità intrinseca all’istituto e variamente

declinabile, come accennato, in senso retributivo.

S’impone, in tal senso, una replica al rilievo secondo cui «in una legge

caratterizzata da una assoluta inderogabilità generale, una apertura

settoriale (per le anticipazioni) all’autonomia collettiva non può essere

utilizzata per ottenere la pratica cancellazione dell’istituto legale

attraverso questa via indiretta»107. L’argomentazione non appare

convincente nella misura in cui, anche sotto tale specifico profilo,

vincola il potere derogatorio della autonomia collettiva in ragione della

presunta esistenza di una ratio complessiva ed inderogabile del t.f.r..

VALLEBONA presuppone, infatti, l’esistenza di un «principio generale di

inderogabilità assoluta» della legge n. 297/1982108 che sarebbe fonte di

intangibilità della natura e della ratio dell’istituto facendone derivare

vincoli alla derogabilità sul piano causale. Come già evidenziato, tale

approccio metodologico non sembra condivisibile.

Più correttamente, è possibile visualizzare la natura dell’istituto alla

stregua della sua concreta disciplina. L’analisi degli elementi normativi,

valutati sia singolarmente sia unitariamente, mostra la predisposizione

107 A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto… cit., p. 171. 108 L’AUTORE fonda tale principio sulla lettera del penultimo comma dell’art. 4 in cui la legge sancisce la nullità e sostituzione di diritto di tutte le clausole di contratti collettivi regolanti la materia del trattamento di fine rapporto (cfr. Il trattamento di fine rapporto di lavoro, cit. p. 137 ss.)

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di un’ampia sfera di derogabilità sul regime delle anticipazioni che,

nell’ambito del complessivo quadro disegnato dal legislatore, non può

essere ridotto ad “un’eccezione che conferma la regola” della generale

inderogabilità della legge. Se è vero, infatti, che il dettato normativo

consente all’autonomia privata di incidere sulle modalità di accesso e di

godimento delle anticipazioni109, modificando, di conseguenza, la

funzione svolta dall’istituto, deve concludersi che tale previsione, lungi

dal costituire una “apertura settoriale”, costituisce un elemento

fortemente caratterizzante l’istituto del t.f.r..

Ci sembra peraltro che lo stesso VALLEBONA offra un’inconsapevole

conferma a tale lettura quando, rilevando la capacità della

contrattazione collettiva di incidere anche sulla composizione della

base di computo, conclude che «ove volesse temporaneamente

comprimere o addirittura eliminare il trattamento di fine rapporto

potrebbe farlo in via diretta, salva sempre la riespansione della base di

calcolo e di rivitalizzazione dell’istituto mediante successivi

contratti»110. L’utilizzo di tali spazi da parte dell’autonomia privata non

inciderebbe, secondo l’Autore, sulla inderogabile funzione di

retribuzione differita con finalità previdenziali propria del trattamento

di fine rapporto. Viceversa, è sufficiente riflettere sugli effetti della

derogabilità della base di computo per mettere in dubbio la prospettata

ricostruzione: la contrattazione collettiva può modificare la definizione

legale fino a rendere sostanzialmente inconsistente l’istituto, magari in

ragione di uno scambio contrattuale con un aumento della retribuzione

diretta. Ma anche una deroga di tal fatta finirebbe per privare il t.f.r.

della funzione previdenziale che molti autori gli attribuiscono come

109 Nel rispetto dei limiti evidenziati. 110 A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 171.

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intangibile! Va da sé che una lettura sistematica delle due norme, svolta

alla luce della complessiva disciplina positiva dell’istituto, evidenzia

l’esistenza di una medesima logica di fondo: l’attribuzione alla

autonomia privata della possibilità di “modellare” l’istituto in base alla

libera111 volontà delle parti.

Tra gli altri, vi è poi un altro elemento normativo, inconciliabile con la

tesi della inderogabilità funzionale del t.f.r. coniata da Vallebona, che,

seppur indirettamente, offre un ulteriore conferma alla ricostruzione

dell’istituto sin qui prospettata. Un elemento che, peraltro, merita di

essere riportato anche in ragione della forte attenzione sollevata di

recente sul rapporto tra trattamento di fine rapporto e sistema

pensionistico.

C’è, infatti, nella legge n. 297/1982, una norma che introduce, all’art.

3, dei miglioramenti pensionistici112, alcuni dei quali finanziati, a cura

del datore di lavoro, mediante una contribuzione previdenziale

aggiuntiva (comma 16°) il cui importo è detraibile dalla quota di

trattamento di fine rapporto (ultimo comma). Tale contribuzione,

insomma, seppur materialmente a carico dei datori di lavoro, grava in

realtà sui singoli lavoratori, offrendo la possibilità di utilizzare le

aliquote contributive «come strumento di politica economica… anche

111 Con le dovute limitazioni per le quali si rinvia al successivo paragrafo dedicato agli spazi di derogabilità dell’autonomia privata. 112 Si tratta della trimestralizzazione della perequazione automatica (ai commi 1-7), della modifica del metodo di calcolo della pensione , individuata sulla base della media retributiva degli ultimi cinque anni rivalutata per intero (ai commi 8-12 e 14) e l’indicizzazione del limite massimo di retribuzione pensionabile (comma 13), per il merito dei quali si rinvia al commentario redatto da G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (Il trattamento…, cit., p. 147 ss.) che dedica un capitolo alle «Norme in materia pensionistica» a cura di M. INTORCIA; nonché, ID. Commento all’art. 3 della legge n. 297 del 1982, in NLCC, 1983, p. 283ss..

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se, ovviamente, manovre del genere andrebbero a scapito della funzione

dell’istituto … con conseguente ulteriore spinta verso la scomparsa del

trattamento»113. Ma la stessa esistenza di norme, interne all’impianto

normativo del t.f.r., che consentono potenzialmente di “piegare”

l’istituto al perseguimento di finalità diverse da quella canonicamente

attribuitegli dimostra che il legislatore non ha inteso costruire un

istituto dotato di un’unica ed inderogabile funzione. Altrimenti

dovrebbe concludersi che l’art. 3 costituisce l’ennesimo elemento di

incoerenza sistematica della legge con quella funzione,

ingiustificatamente ipostatizzata da Vallebona, di assistenza

previdenziale in relazione ad eventi straordinari di bisogno nella vita

del lavoratore (la perdita del posto di lavoro, in primis, e, quanto al

regime delle anticipazioni, le spese sanitarie e l’acquisto della prima

casa).

Viceversa - e in definitiva - sembra più opportuno concludere che la

legge n. 297/1982 contenga una pluralità di elementi coerentemente

volti a rendere il t.f.r. adattabile alle più diverse finalizzazioni. Ne

costituisce una significativa riprova il fatto che, per dar corso alla

odierna trasformazione del trattamento in strumento prettamente

previdenziale, il legislatore non ha dovuto modificare alcun aspetto

della disciplina vigente in tema di computo, accantonamento e

rivalutazione delle quote di t.f.r., potendo limitarsi a mutare la

destinazione dell’istituto e, con essa, la funzione svolta.

Infine, senza anticipare gli avvenimenti che hanno segnato la recente

evoluzione del trattamento di fine rapporto, sia consentito evidenziare

che proprio nella norma pensionistica poc’anzi citata è possibile

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rintracciare quella che costituisce forse la più risalente matrice della

riforma del 2005.

L’ ultimo comma dell’art. 3, l. n. 297/1982, prevede, infatti, la

possibilità che «il trattamento di fine rapporto sia erogato mediante

forme previdenziali», contemplando la possibilità di finanziare,

mediante il t.f.r., dei fondi aziendali, la cui prestazioni non potevano

superare, in quanto sostitutive del t.f.r., la misura massima

inderogabilmente stabilita dalla legge per il trattamento medesimo114. Si

tratta senz’altro di un significativo antecedente, ma, tuttavia, non può

ignorarsi la rilevanza della diversa qualificazione offerta alle forme

pensionistiche dette all’epoca integrative rispetto alla novella

previdenza complementare: mentre all’emanazione della legge n. 297 la

previdenza privata era sostanzialmente identificata con quella

sindacale-aziendale e il suo finanziamento qualificato a tutti gli effetti

come retributivo, sicchè la prevista esenzione da contribuzione per il

t.f.r. distingueva l’istituto rispetto alle suddette forme pensionistiche,

oggi, come rileveremo tra breve, sembra che tale distanza sia stata

decisamente accorciata.

2.8. La devoluzione alla previdenza complementare: ritorno al futuro?

Ripartiamo, allora, dal “fervore” interpretativo suscitato dall’emanazione

della legge n. 297/1982.

114 Così A. VALLEBONA, Il trattamento…., cit., p. 140. di diverso avviso, G. FERRARO, Commento…, cit., p. 288-289, secondo cui sarebbero vietati anche regimi sostitutivi, essendo consentiti solo atti di volontaria previdenza , sempre entro i limiti quantitativi fissati dalla nuova legge.

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Sebbene la dottrina avesse palesato, su suggerimento della stessa

Commissione Giugni115, il convincimento che il potere derogatorio

riconosciuto all’autonomia privata avrebbe lasciato «spazi in futuro ad

eventuali (e non difficilmente immaginabili) scelte di politica contrattuale tese

… a ridimensionare la portata dell’istituto a favore della retribuzione

diretta»116, sembra che la realtà abbia seguito un percorso differente. Nel

corso di oltre un ventennio, non si sono registrate, salvo sporadiche ipotesi a

livello individuale, delle brusche virate della contrattazione in senso

retributivo; segno che, nel tempo, le parti hanno ritenuto - pur avendone la

possibilità - di non intaccare il trattamento di fine rapporto, forse non solo per

consuetudine contrattuale, ma anche per avere complessivamente apprezzato

il funzionamento di un istituto capace anche di fungere da salvadanaio cui

attingere nelle particolari situazioni di bisogno tratteggiate nel regime legale

delle anticipazioni. Di conseguenza, alla luce del consueto metodo di

osservazione positiva, dobbiamo concludere che il t.f.r., come lo abbiamo

conosciuto tra le righe della l. 297/1982 che ancora oggi lo disciplina, abbia

sostanzialmente natura di retribuzione differita con funzione latamente

previdenziale.

All’inerzia dell’autonomia privata, tuttavia, si è avvicendato l’attivismo del

legislatore che nell’ultimo quindicennio ha coinvolto l’istituto, in maniera

gradualmente crescente, seppur senza mai modificare lo zoccolo duro della

relativa disciplina, nella riforma del sistema pensionistico italiano. Si è

trattato di una serie di operazioni dilazionate nel tempo ma che, tracciano, col

senno del poi, un ben definito progetto di “riqualificazione” dell’istituto in

chiave previdenziale. 115 Cfr. Relazione di accompagnamento al Disegno di legge n. 1830 concernente la «disciplina del trattamento di fine rapporto», presentato dal Presidente del Consiglio al Senato in data 17 marzo 1982, cit.. 116 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit..

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Sembra infatti, che all’affacciarsi dell’ennesima emergenza, questa volta del

sistema previdenziale, la politica italiana abbia pensato di arginarla ricorrendo

anche al t.f.r., all’uopo trasformato in possibile strumento di finanziamento

dei fondi pensionistici complementari. Sicché, pubblicizzata ai lavoratori

come “opportunità” di accesso ad un fondo pensionistico privato, l’ultima

riforma del t.f.r. si è immediatamente tradotta per i datori di lavoro in un

sostanziale esproprio dei relativi accantonamenti di cui erano da sempre

detentori (nonché buoni investitori) fino al momento della cessazione del

rapporto del singolo dipendente.

In realtà, la possibilità di spostare i fondi accantonati all’esterno delle imprese

presso apposite gestioni era già stata valutata dalla Commissione Giugni ed

esclusa in ragione degli «evidenti problemi di liquidità» che avrebbe

cagionato alle imprese. Altrettanto evidenti valutazioni difformi hanno,

invece, dettato le scelte dell’ultimo riformatore, il ché lascia presumere che il

sistema pensionistico del paese versasse in difficoltà tali da superare, in

ordine di rilevanza, la salvaguardia degli equilibri finanziari dell’industria

italiana.

In ogni caso, già da qualche tempo la dottrina aveva rivolto le proprie

attenzioni alla possibilità di far partecipare i lavoratori al capitale di rischio

delle imprese117, evocando tematiche note al dibattito giuslavorista di qualche

anno addietro: con il d. lgs. 17 agosto 1999, n. 299 (su delega dell’art. 71,

primo e secondo comma, della legge n. 144/1999) il legislatore consentiva,

soltanto per il 1999 e per i tre anni successivi, la c.d. “cartolarizzazione”118 del

117 Si vedano A. ALAIMO, La partecipazione azionaria dei lavoratori, Giuffré, Milano, p. 998; M. BIAGI, La partecipazione azionaria dei dipendenti tra intervento legislativo e autonomia collettiva, in RIDL, 1999, I, p. 283 ss.; E. GHERA, L’azionariato dei lavoratori dipendenti, in ADL, 1997, 6, p. 1 ss. 118 Cfr. DI TANNO, La titolarizzazione del T.F.R. per alimentare i fondi pensione, in GC, 1999, I, p. 451 ss.; CASALINO, Trasformazioni in titoli del trattamento di fine rapporto e

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t.f.r., consistente nella possibilità per il datore di lavoro di sostituire, previo

consenso scritto del lavoratore, il relativo accantonamento annuale con

l’emissione di strumenti finanziari in favore di fondi gestori di forme di

previdenza complementare. Tali strumenti potevano consistere in azioni,

ottenute mediante l’aumento del capitale sociale, obbligazioni convertibili in

azioni o altri titoli cum warrant. In tal modo, le somme annuali “dovute” al

lavoratore in via di accantonamento si sarebbero trasformate in finanziamento

di un fondo di previdenza. L’obiettivo perseguito dal legislatore era senz’altro

duplice: favorire lo sviluppo delle forme di previdenza complementare

garantendo, al contempo, alle imprese la conservazione di un capitale di

rischio attraverso un mero trasferimento del credito dal lavoratore al fondo

previdenziale.

Nel frattempo, però, il collegamento tra t.f.r. e previdenza complementare

veniva suggellato dal d. lgs. 124 del 1993119, che disciplinava i fondi

pensionistici complementari e canonizzava il principio di volontarietà

dell’adesione agli stessi. La successiva c.d. Riforma Maroni (L. d. 23 agosto

2004, n. 243) prima e, poi, il d. lgs. 252 del 2005 hanno rinsaldato il suddetto

collegamento attraverso la predisposizione di una più completa disciplina

delle forme pensionistiche complementari che prevede, al suo interno, il

conferimento dei futuri accantonamenti annuali di t.f.r. alle forme

pensionistiche complementari «salva diversa esplicita volontà delle parti»120

ovvero la trasformazione dell’istituto di nostro interesse in libero strumento di

finanziamento della previdenza complementare.

devoluzione ai fondi pensione, in G. FERRARO ( a cura di), La previdenza complementare nella riforma del Welfare, I, Milano, 2000, p. 67 ss. 119 Abrogato dall’art. 21, ultimo comma, del d. lgs. 252 del 2005. 120 Così in termini l’art. 1, comma 2, lett. e), n. 1, l. 243/2004, nonché il successivo art. 8, comma 7, d. lgs. 252/2005.

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Si intende così anticipare, in maniera molto semplicistica e riassuntiva, la più

rilevante ricaduta sull’istituto di nostro interesse di una riforma - i cui tratti

salienti saranno tracciati nelle pagine a seguire – complessa e forse ambigua

come l’intero sistema previdenziale italiano. In questa sede è sufficiente

accennare che oggi i lavoratori possono scegliere liberamente di far confluire

le quote di t.f.r. in un fondo di previdenza che gli consentirà, in futuro, di

godere di una pensione complementare rispetto a quella pubblica (c.d.

obbligatoria), oppure continuare ad avvalersi, al momento della cessazione

dei singoli rapporti di lavoro, di una somma in capitale calcolata secondo il

criterio contenuto nell’art. 2120 c.c..

In tale ultima ipotesi, tuttavia, ovvero qualora il lavoratore voglia conservare

il diritto a percepire il tradizionale emolumento di fine rapporto, le quote di

t.f.r. accantonate restano nella disponibilità soltanto delle imprese di piccole

dimensioni (fino a 50 dipendenti), gravando, viceversa, su sul datore di lavoro

che abbia alle proprie dipendenze più di 50 addetti l’obbligo di versare i

suddetti accantonamenti al “Fondo per la gestione del t.f.r.”, di recente

istituito presso l’INPS121, che provvederà, alla cessazione dei singoli rapporti

di lavoro, a liquidare il trattamento ai rispettivi aventi diritto122.

Avendo tratteggiato, in tal modo, le tre possibili “destinazioni” che il

lavoratore può dare al proprio trattamento di fine rapporto, resta da stabilire a

quale funzione esse rispettivamente rispondano, si da completare il quadro

evolutivo della natura e funzione dell’istituto.

121 Si fa riferimento al Fondo istituito dall’art. 1, comma 755, l. n. 296 del 2006 e disciplinato dal d. m. 30 gennaio 2007 122 «Limitatamente alla quota corrispondente ai versamenti effettuati al Fondo medesimo» (art. 1, comma 756, l. 27 dicembre 2006, n. 296) poiché questi ultimi (ovvero gli accantonamenti di t.f.r., al netto del contributo di cui all’art. 3, ultimo comma, della l. 297/1982) affluiscono nel Fondo medesimo solo a far data dal 1° gennaio 2007 (art. 1, comma 765, cit.), mentre la restante parte, relativa alle somme ordinariamente accantonate dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 2120 c.c. fino alla data del 1° gennaio 2007, resta a carico del datore di lavoro. Si rinvia, in ogni caso, alla parte seconda della ricerca.

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1) In ordine di semplicità, possiamo subito dire che per i lavoratori dipendenti

da imprese con un numero di addetti inferiore a 50 e che intendano conservare

il proprio t.f.r. presso il datore di lavoro, non si pone alcuna ulteriore

questione interpretativa: il trattamento di fine rapporto di questi lavoratori

continuerà ad essere disciplinato dall’art. 2120 c.c. e a svolgere, dunque, la

tradizionale funzione retributivo-previdenziale, salvo che – secondo

l’impostazione qui accolta – l’autonomia privata non scelga di inciderla in

senso retributivo. Resta ancora attiva, dunque, la “valvola” del regime delle

anticipazioni nonché quella della modificabilità della base di computo

dell’istituto.

2) Vi è da chiedersi, poi, quale sia il regime del t.f.r. obbligatoriamente

devoluto dai datori di lavoro con più di 50 dipendenti al Fondo costituito

presso l’INPS. La disciplina del suddetto Fondo, istituito da comma n. 755

della legge n. 296 del 2006, è stringatamente contenuta nel successivo comma

n. 756, nonché nel d. m. 30 gennaio 2007, emanato in attuazione del comma

757 che rinviava all’emanazione di un successivo intervento ministeriale per

la regolamentazione dell’organismo. Eccezion fatta per alcuni profili fiscali e

per una serie di disposizioni che curano il regime transitorio per i lavoratori

aventi un rapporto di lavoro in corso a cavallo del 1gennaio 2007, data di

entrata in vigore della riforma, la novella lascia invariato il regime normativo

e di computo contenuto nella legge n. 297 dell’’82.

La novità più rilevante per la parte datoriale risiede senza dubbio nella

perdita di disponibilità delle quote di t.f.r., obbligatoriamente devolute al

Fondo INPS per il t.f.r. con cadenza mensile (salvo conguaglio alla fine

dell’anno).

A ben vedere, però, una ben più interessante innovazione riguarda i lavoratori,

che, in ragione della creazione del suddetto Fondo, sembrano acquistare (forse

inconsapevolmente, forse disinteressatamente) un nuovo potere contrattuale.

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Difatti, restando invariati gli spazi di derogabilità attribuiti all’autonomia

privata, in relazione sia alla base di computo del trattamento (e, quindi, alla

sua consistenza come oggetto di scambio in sede di contrattazione), sia al

regime delle anticipazioni (e, quindi, alla possibilità di modificarlo sino al

punto di darvi una cadenza periodica e attribuire al trattamento carattere

puramente retributivo), l’istituzione del Fondo INPS per il t.f.r. comporterà,

presumibilmente e prospetticamente, una alterazione dell’equilibrio

contrattuale disegnato dalla legge n. 297.

Il datore di lavoro, infatti, privato della disponibilità delle quote accantonande

di t.f.r., perché costretto a versarle al suddetto Fondo, non ha più alcun

interesse su quelle somme che ormai costituiscono per lui esclusivamente un

costo, peraltro necessariamente reale ed immediato e non figurativo e/o

differito.

In altre parole, perdendo il beneficio della reinvestibilità di quel capitale

all’interno dell’azienda, tanto varrà utilizzarlo come strumento contrattuale,

ad esempio riducendone l’ammontare mediante una deroga peggiorativa al

criterio di computo della retribuzione base annua. Certo: non è detto che i

lavoratori abbiano interesse a rinunciare al trattamento di fine rapporto per

ottenere in cambio un immediato aumento in busta paga. È anche vero, però,

che la forte crisi economica in cui versa il nostro paese non rende tanto

remota tale ipotesi.

Allo stesso modo, in materia di anticipazioni, il legislatore e il successivo

intervento ministeriale si limitano a disciplinare il regime transitorio della

competenza nell’erogazione delle relative somme a carico del datore di lavoro

e del Fondo INPS: l’ammontare dell’anticipazione si calcola infatti su tutto il

t.f.r. maturato sino al momento della richiesta e grava sul datore di lavoro per

quanto accantonato al 31 dicembre 2006, sul Fondo INPS per quanto

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accantonato a far data dal 1 gennaio 2007 e nei limiti di quanto versato al

suddetto Fondo.

Quanto al regime delle medesime anticipazioni, nel silenzio del legislatore,

che lasciava la piena vigenza della normativa contenuta nella l. 297/1982 e,

quindi, anche del potere derogatorio attribuito alla autonomia collettiva, l’Inps

ha risolto i dubbi avanzati in merito concludendo che «la materia delle

anticipazioni sul t.f.r. è disciplinata dall’art. 2120 c.c., coerentemente con

quanto previsto dalle disposizioni di cui all’art. 1, commi 755 e seguenti della

legge 27 dicembre 2006, n. 296»123. Stando così le cose, bisogna concludere

che le parti possono ancora oggi liberamente raggiungere un accordo che

modifichi il regime legale delle anticipazioni, fino a trasferirne la relativa

erogazione periodicamente in busta paga.

Questo implicito rinvio alla disciplina vigente solleva, però, non poche

perplessità, innanzitutto in merito alla ratio della istituzione di tale Fondo

presso l’INPS. La più immediata ragione, di tipo economico, può essere

ricercata senz’altro nello spostamento di una fonte di finanziamento dalle

casse delle imprese a quelle del sistema previdenziale pubblico. Ma le

perplessità aumentano se si considera che il Fondo dovrebbe essere in grado

di liquidare, insieme alle erogazioni di fine rapporto, altresì le somme dovute

a titolo di anticipazione: conservando immutata la derogabilità del regime

delle anticipazioni, resta, infatti, la possibilità che il nuovo Fondo debba

soddisfare le richieste non secondo il dettato normativo, bensì nei diversi

termini pattuiti in sede di contrattazione individuale o collettiva, conservando

la disponibilità in cassa di buona parte delle somme versate dai datori di

lavoro. Ne conseguirebbe, in altre parole, l’immobilizzazione di quelle quote

e l’impossibilità per l’Istituto previdenziale di investirle o darvi una diversa

destinazione. È anche vero, però, che nell’arco di oltre un ventennio 123 Cfr. Circolare Inps n. 70/2007.

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l’autonomia privata non ha prodotto (quasi) nulla di così eclatante, sicché il

legislatore, puntando forse sulla continuità delle dinamiche contrattuali, ha

proceduto alla (nemmeno tanto azzardata) costituzione di un Fondo che,

permanendo l’attuale stato delle cose, potrà gestire ingenti somme di denaro,

dovendo realisticamente fronteggiare le sole richieste rientranti in quel 10%

degli aventi titolo e, comunque, del 4% per cento del numero totale dei

dipendenti124.

Accanto all’introito economico, un ulteriore motivo per la costituzione di un

Fondo di tal fatta può essere individuato forse nell’intento di promuovere

l’adesione dei lavoratori alla previdenza complementare: se non fosse stato

istituito tale fondo, i datori di lavoro (interessati a conservare nelle casse

aziendali gli accantonamenti di t.f.r.) avrebbero probabilmente indotto i propri

dipendenti a conservare il vecchio regime al comprensibile scopo di poter

continuare ad usufruire di quella preziosa fonte di autofinanziamento,

evitandone il conferimento a bacini di raccolta, con finalità pensionistiche,

esterni all’impresa.

3) Considerando, infine, la posizione di coloro che manifestano la volontà di

aderire alla previdenza complementare, lo scenario cambia completamente.

Per questi lavoratori le quote accantonate a titolo di t.f.r. secondo le modalità

di computo previste dall’art. 2120 c.c. divengono una fonte di finanziamento

per i fondi, da essi prescelti, di previdenza complementare. Si rende

opportuno chiarire, quindi, se e in che modo la nuova destinazione di tali

somme incida sulla originaria natura, retributiva con funzione previdenziale,

attribuita ormai unanimemente al t.f.r. e ai relativi accantonamenti.

Parte della dottrina ha, per lungo tempo, distinto i suddetti accantonamenti

dalle risorse destinate ai regimi di previdenza complementare proprio in 124 Ex art. 1, comma 7, l. 297/1982.

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ragione del fatto che queste ultime avrebbero natura previdenziale in senso

stretto, alla stessa stregua delle prestazioni erogate dai rispettivi fondi in

funzione di determinati eventi relativi alla persona del lavoratore125. Tale

orientamento si fondava sulla attribuzione alla previdenza complementare di

una funzione analoga ed integrativa rispetto a quella svolta dalla previdenza

pubblica126, in quanto finalizzata anch’essa al soddisfacimento di bisogni

collettivi simili a quelli il cui perseguimento la Costituzione affida allo Stato

nonché ai suoi organi ed istituti (cfr. comma 4° dell’art. 38 Cost.). Dunque, il

«carattere, …già identificabile nel disegno costituzionale, della rilevanza

sociale»127 dei bisogni al cui soddisfacimento tende la previdenza

complementare, conferirebbe ai fondi pensionistici complementari la

medesima funzione svolta dalla previdenza pubblica, e ai relativi mezzi di

finanziamento la medesima natura dei contributi c.d. obbligatori. Sicché

anche le quote di t.f.r., da quando concorrono al finanziamento della

previdenza complementare, avrebbero acquisito la medesima natura di

contributi previdenziali c.d. obbligatori.

L’orientamento, però, appare viziato alla radice da quella premessa

riconduzione della previdenza complementare nell’alveo della previdenza

pubblica poco coerente128 col disegno del Costituente, che, all’art. 38 della

125 Cfr, in tal senso, G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento di fine rapporto, 1995, cit.. 126 La questione della riconducibilità della previdenza complementare alla previdenza pubblica (art. 38 Cost, comma 2°) ovvero alla previdenza privata (art. 38 Cost., comma 5°) è di tutt’altro che pacifica risoluzione, tant’è che, in una con la qualificazione dei relativi strumenti di finanziamento, costituisce oggetto di confronto dottrinale e giurisprudenziale da oltre un cinquantennio. Rinviando alla parte terza per un breve excursus delle principali tappe normative ed interpretative che hanno segnato l’evoluzione di tale dibattito, sia consentito riportare, in questa sede, pochi elementi utili per trarre qualche seppur sommaria conclusione in merito alla questione sollevata. 127 Cfr. R. PESSI, La nozione di previdenza integrativa, in QDLRI, 1988, 3, p. 70. 128 Nel tempo molti Autori hanno rilevato l’incoerenza della classica interpretazione che riconduce la previdenza complementare al 2° comma dell’art. 38 Cost. Si vedano, tra gli altri, G. SANTORO PASSARELLI, nel suo Trattamento di fine rapporto del 1995 (cit., specie p. 68) o il più recente saggio di G. ZAMPINI su La previdenza complementare nella

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Carta, sembra scindere perfettamente le funzioni e prerogative della

previdenza pubblica (prima parte) rispetto a quelle lasciate alla libera

determinazione dei privati (ultimo comma).

Senz’altro più fedele a tale disegno risulta l’autorevole (ma, in verità,

minoritaria) tesi secondo cui i finanziamenti delle forme di previdenza

complementare avrebbero natura retributiva e funzione previdenziale, proprio

alla stessa stregua delle quote accantonante a titolo di trattamento di fine

rapporto129: di conseguenza, le suddette quote conserverebbero immutate la

loro natura e la loro funzione anche se devolute e a fondi pensionistici

complementari. Si sostiene, in particolare, che, «poiché l’intero onere del

finanziamento dei regimi integrativi o complementari (o comunque la

maggior parte di esso) è a carico dei datori di lavoro, le prestazioni di quei

regimi devono essere considerate come retribuzione differita in funzione

previdenziale»130.Sicché, non solo i finanziamenti risulterebbero del tutto

simili agli accantonamenti di t.f.r., ma anche le prestazioni erogate dai fondi

pensionistici complementari andrebbero assimilate all’emolumento di fine

rapporto, poiché, similmente ad esso, presentano natura retributiva e funzione

previdenziale. Tale funzione avrebbe matrice sostanzialmente privatistica

perché costituita dal soddisfacimento di bisogni non fronteggiati dalla

previdenza pubblica e, dunque, riconducibili nell’alveo «di quella previdenza

privata della quale l’ultimo comma dell’art. 38 Cost. garantisce la libertà»131.

Ne discende che la complementarietà di tali regimi previdenziali rispetto a

giurisprudenza. Una rassegna critica tra vecchie e nuove riforme (in ADL, 1, 2006, specialm. p. 317). 129 Cfr. i saggi di Mattia PERSIANI di cui si compone la raccolta La previdenza complementare, cit. Per ulteriori riferimenti in merito alla questione sia consentito rinviare alla parte seconda, cap. II, della presente ricerca. 130 Cfr. M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Cedam, Padova, 2007, p. 343 ss., ma che leggo in La previdenza complementare, Cedam, Padova, 2008, p. 31. 131 Cfr. M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Cedam, Padova, 2003, p. 40.

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quelli pubblici inerisce «le prestazioni e non le funzioni»132, come, viceversa,

la dottrina maggioritaria da sempre sostiene.

Anche tale orientamento, tuttavia, sebbene sia più fedele al progetto

previdenziale voluto dal Costituente, solleva comunque qualche perplessità:

se è vero, infatti, che gli accantonamenti di t.f.r. destinati alla previdenza

complementare sono a carico dei datori di lavoro, è altrettanto vero che tale

circostanza, in sé considerata, non appare sufficiente a conferirgli natura

retributiva; tra gli altri, almeno per due ordini di ragioni.

Innanzitutto perché non tutto quanto è versato dal datore di lavoro in ragione

del rapporto di lavoro può definirsi retribuzione. La stessa contribuzione

obbligatoria costituisce senz’altro un costo del lavoro e , tuttavia, il solo fatto

che sia dovuta in dipendenza del rapporto di lavoro non consente di

qualificarla come emolumento retributivo. Non a caso l’art. 12 della legge

153 del 1969 definiva come retribuzione imponibile ai fini della contribuzione

previdenziale, «tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro

o in natura in dipendenza del rapporto di lavoro», individuando, così,

l’elemento discriminante nel percepimento diretto a favore del dipendente

versus le erogazioni effettuate in favore di organismi di gestione della

previdenza integrativa133.

In secondo luogo viene in rilievo il tipo di gestione finanziaria di tali

accantonamenti: l’accumulazione individuale di quote di retribuzione affidate,

per esempio, ad una gestione assicurativa con finalità di mero risparmio si

fonda sulla necessaria corrispettività tra gli accantonamenti versati e le

prestazione successivamente percepite dall’assicurato. Viceversa, i fondi che

realizzano forme di solidarietà collettiva, quali sono quelle di previdenza

132 M. PERSIANI, La previdenza complementare, cit., p. 32. 133 Cfr. R. PESSI, La nozione di previdenza integrativa, cit., p. 77 ss., nonché M. PERSIANI, Retribuzione e previdenza secondo legge e contratto, in GI, 1984, IV, c. 88 ss.

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complementare, interrompono tale nesso di corrispettività, presentando una

struttura finanziaria a gestione mutualistica che, peraltro, consente al singolo

iscritto, almeno in via ipotetica, di accedere ad investimenti più redditizi di

quelli ai quali potrebbe far ricorso singolarmente134.

La questione, in realtà, è ancora aperta e sarà ripresa, per una più ricca

contestualizzazione storica, nel capitolo 4° della ricerca. In ogni caso, la

dottrina maggioritaria, in una con l’orientamento espresso dalla Corte

costituzionale, sembra propendere per una qualificazione privatistica della

previdenza complementare pur considerandola, tuttavia, “funzionalizzata” al

perseguimento di interessi pubblici generali ovvero funzionalmente

concorrente rispetto al sistema di previdenza obbligatoria.

Si delinea, in questo modo, una sorta di posizione intermedia rispetto a quelle

più nette sin qui illustrate e tradizionalmente contrapposte; intermedia quanto

ambigua, proprio come l’apparato normativo che disciplina il sistema

pensionistico italiano: sufficientemente «coerente», per un verso, al progetto

previdenziale costituzionale, nelle garanzie di libertà e volontarietà

dell’adesione alla previdenza complementare privata, per altro verso alle

esigenze del sistema previdenziale pubblico, che avrà sempre più la necessità

di essere privatamente integrato per garantire un livello pensionistico

sufficiente alla liberazione dei cittadini dagli stati di bisogno.

Seguendo questa “terza via”, Giuseppe SANTORO PASSARELLI offre una

condivisibile ricostruzione della evoluzione subita dagli accantonamenti di

t.f.r. a seguito della loro devoluzione alle forme pensionistiche

complementari.

Tali somme proprio alla stregua di qualsiasi altro strumento di finanziamento

della previdenza privata acquisterebbero la natura di atto previdenziale in

senso stretto, in ragione della illustrata vocazione solidaristica dei fondi, che, 134 Cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento …, 2007, cit. p. 115.

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diversamente da quanto accade in qualsiasi altra forma di risparmio

individuale, interrompe «il nesso di corrispettività tra accantonamento e

prestazione di lavoro»135, privando i relativi finanziamenti della matrice

retributiva in favore di uno spiccato titolo previdenziale. Gli accantonamenti

di t.f.r., pertanto, «una volta che siano versati al fondo di previdenza

complementare, perdono la loro natura retributiva e acquistano natura

previdenziale in senso ontologico», di tal ché «diventa erroneo continuare a

riconoscere loro natura retributiva e funzione previdenziale»136. Ciò non ne

comporta, tuttavia, un’assimilazione in toto ai contributi cc.dd. obbligatori dal

momento che le quote di t.f.r. confluite nella previdenza complementare

conservano la propria natura privatistica (pur dovendosi opportunamente

distinguere tra le suddette forme pensionistiche a vocazione solidaristica e

altri strumenti di previdenza che, pur svolgendo una funzione analoga,

presentano una matrice prettamente individualistica, come le assicurazioni o

altre forme i risparmio).

Quanto al trattamento erogato dal fondo di previdenza complementare

finanziato con le quote di t.f.r., non si tratterà più di un emolumento conferito

una tantum alla cessazione del rapporto, bensì di una prestazione

pensionistica periodica. L’istituto acquista, così, una funzione prettamente

previdenziale (o pensionistico-previdenziale), molto diversa da quella

funzione latamente previdenziale svolta dal trattamento conferito al momento

dell’estinzione del rapporto. Quest’ultima, infatti, è legata al transeunte stato

di bisogno in cui versa il lavoratore in ragione della cessazione del singolo

rapporto di lavoro ovvero, quanto al regime delle anticipazioni, in ragione di

altra esigenza di carattere straordinario prevista dalla legge o dalla libera

contrattazione e viene assolta da un’unica erogazione, che tutt’al più se

135 G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento…, cit., 2007, p. 114. 136 G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento…, cit., 2007, p. 114-115.

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integrante un’anticipazione, viene affiancata dal conferimento della somma

residuale al momento della cessazione del rapporto. Viceversa, la confluenza

del trattamento nella previdenza complementare soddisfa un diverso bisogno

di natura esclusivamente pensionistica ed attribuisce al lavoratore il diritto a

percepire un emolumento periodico che affianca i trattamenti pensionistici

pubblici: ciò che attribuisce al t.f.r. «natura previdenziale in senso stretto»137.

Dal punto di vista evolutivo-funzionale, la possibilità di utilizzare il t.f.r. per

finalità spiccatamente previdenziali sembra confermare appieno la rilevata

duttilità conferita all’istituto dalla legge del 1982. Con la più recente riforma

della previdenza complementare, in effetti, il legislatore consente al

lavoratore di optare per il finanziamento, mediante devoluzione dei propri

accantonamenti di t.f.r., di un fondo pensionistico: id est, di trasformare la

natura del proprio trattamento di fine rapporto da retributiva (con funzione

latamente previdenziale) a prettamente previdenziale, attraverso un atto di

manifestazione di volontà (espresso o tacito). Se, dunque, fino a ieri la

principale valvola di trasformazione del t.f.r. era costituita dal regime delle

anticipazioni e, segnatamente, dalla libertà di derogarvi, accentuando il

profilo retributivo ovvero conservando quello latamente previdenziale che

qualificano l’istituto, oggi il legislatore ha “tipizzato” una nuova modalità di

utilizzo del t.f.r. in funzione previdenziale.

Preservando la libertà del singolo lavoratore, il cui t.f.r. può confluire in un

regime pensionistico complementare solo in ragione di una scelta esercitata “a

monte”, il legislatore ha incentivato l’adesione a forme di previdenza

complementare deputate ad offrire, in futuro, un forte sostegno al sistema

previdenziale obbligatorio138.

137 G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento …, cit., 2007, p. 113. 138 Per qualche più ampia considerazione in merito, sia consentito rinviare alla parte terza della ricerca.

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Intanto, anche la riforma del 2005 si è preoccupata di introdurre,

simmetricamente rispetto alla disciplina del 1982, una serie di possibili

causali legittimanti l’erogazione di anticipazioni da parte del fondo

pensionistico complementare139.

Tali ipotesi, restituiscono nuovamente alle quote di t.f.r. devolute al fondo

pensionistico l’originario carattere di conferimento una tantum con natura

previdenziale “momentanea”140; tuttavia, la possibilità di accedere a delle

anticipazioni, nell’ambito di un fondo di previdenza complementare,

dovrebbe avere carattere eccezionale, anche perché il legislatore stabilisce che

le prestazioni erogabili dai fondi pensione disciplinati dal d. lgs. 252/2005

consistono esclusivamente in «trattamenti pensionistici complementari» (art.

1, comma 1). Per analoghe ragioni, ovvero per evitare che venga

compromessa la finalità pensionistica del fondo, il regime delle suddette

anticipazioni dovrebbe presumibilmente risultare inderogabile da parte

dell’autonomia privata, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di

vista causale: diversamente opinando, dovrebbe concludersi che anche gli

aderenti ai fondi pensione complementari, modificando il regime delle

anticipazioni, potrebbero restituire alle somme versate al fondo ed ottenute a

titolo di anticipazione una natura sostanzialmente retributiva.

139 G. SANTORO PASSARELLI (Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, Giappichelli, Torino, 2007, p. 194) evidenzia opportunamente che il legislatore avrebbe predisposto una serie di ipotesi legittimanti un’anticipazione da parte del fondo pensionistico complementare al precipuo scopo di rendere la previdenza complementare «appetibile» quanto se non più del canonico trattamento di fine rapporto 140 Ed immediata: nel senso di soddisfare un bisogno del lavoratore specifico, delimitato nel tempo e nella sostanza e di immediato soddisfacimento, diversamente dalle esigenze, generiche e differite, al cui soddisfacimento è canonicamente finalizzato l’istituto. Una risalente pronuncia, emanata dal Tribunale di Firenze poco dopo l’entrata in vigore della l. 297/1982 (sentenza del 30 settembre 1983, in GC, 1983, I, p. 3401), rilevava, in tal senso, che al verificarsi di una delle causa du anticipazione, «la funzione previdenziale degli accantonamenti retributivi sembra al legislatore immediatamente realizzabile».

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Un’opportunità di tal fatta, peraltro, consentirebbe probabilmente un ottimale

perseguimento degli interessi individuali, a scapito, però, di quella solidarietà

di matrice collettiva che caratterizza le forme pensionistiche complementari

(collettive).

La norma che disciplina le anticipazioni erogate dalle forme pensionistiche

complementari, tuttavia, non appare di tenore sufficientemente univoco e si

presta, viceversa, a diverse interpretazioni.

L’art. 11, comma 7, del d. lgs. 252/2005 contempla, infatti, la possibilità per i

fondi pensione di attribuire, a titolo di anticipazione:

- fino al 75% della posizione previdenziale maturata a) per spese sanitarie e

terapie di rilevanza certificata dalle strutture pubbliche, per sé o per il coniuge

e/o per i figli141, e b) per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per

i propri figli142;

- fino al 30 % delle somme versate al fondo143 c) «per ulteriori esigenze degli

aderenti».

a-b) Quanto alle prime due causali, previste alle lettere a) e b) dell’art. 11,

comma 7°, rinviando al capitolo IV della ricerca per le valutazioni inerenti

ciascuna singola causale, nonché il confronto delle stesse con le causali

contemplate dall’art. 1, comma 8°, della l. 297/1982, sia sufficiente, in questa

sede, considerarne la eventuale incidenza sul profilo funzionale dell’istituto.

A tal proposito, sembra potersi affermare che il regime delle suddette ipotesi

di anticipazione sia inderogabile da parte della autonomia privata posto che

nessuna norma contempla la possibilità di modifica di tale regime ad opera

della contrattazione individuale e collettiva (diversamente da quanto accade 141 La necessità di sostenere spese sanitarie di tal fatta può essere utilizzata dall’aderente in qualsiasi momento al fine di ottenere un’anticipazione sulla posizione maturata, non essendo previsto un periodo di iscrizione minimo per l’accesso a tale beneficio. 142 Tale causale è spendibile solo da parte degli aderenti iscritti al fondo da almeno otto anni. 143 Soltanto qualora siano decorsi almeno otto anni dall’iscrizione al fondo.

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per le causali legittimanti le anticipazioni del t.f.r., esplicitamente passibili

della predisposizione da parte dell’autonomia privata, individuale e collettiva,

di condizioni di miglior favore).

In linea, dunque, con le finalità solidaristico-pensionistiche, poc’anzi

evidenziate, dei fondi di previdenza complementari, le previsioni di cui alle

lettere a) e b) dell’art. 11, comma 7°, sembrano avere carattere eccezionale e

inderogabile.

c) Considerazioni altrettanto pacifiche non possono svolgersi in relazione alla

previsione contenuta nella lettera c) dell’art. 11, comma 7°, il cui tenore

generico si presta almeno a due interpretazioni di contrapposto tenore.

c.1) Secondo una prima interpretazione, il riferimento ad «ulteriori esigenze

degli aderenti» si tradurrebbe in «una sorta di “acausalità” delle anticipazioni

medesime»144, sulla base di una presunta intenzione del legislatore di lasciare

ampio spazio alla discrezionalità del singolo interessato. La norma, in altre

parole, darebbe rilevanza ad ulteriori esigenze, anche soggettivamente

valutate, dell’aderente, liberalizzando ulteriormente quell’ampia possibilità di

percezione anticipata che nella legge n. 297 era subordinata alla previa

pattuizione tra datore di lavoro e lavoratore.

Giova subito evidenziare, tuttavia, che tale interpretazione, sebbene

suggestiva e legata ad un chiaro dato letterale, si pone in forte conflitto con

una serie di altri elementi interni alla disciplina.

In primis, l’art. 11 comma 1°, attribuisce esclusivamente alle forme

pensionistiche complementari (e non anche ai singoli aderenti o alla

contrattazione) il compito di «definire i requisiti e le modalità di accesso alle

prestazioni».

In secondo luogo, un’apertura indiscriminata alle anticipazioni si porrebbe

forse in contrasto con quelle finalità pensionistiche e con quel carattere 144 Cfr. R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, cit., p. 575.

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solidaristico dei fondi di previdenza complementare ai quali si accennato in

apertura del discorso: l’eventuale possibilità per tutti gli aderenti di recuperare

in maniera sostanzialmente acausale il 30% delle somme versate – in una con

le anticipazioni erogate per le causali sub a) e b), art. 11, comma 7°, fino al

75% del maturato, nonché con la possibilità di riscatto dell’intera posizione

previdenziale, anche essa riconosciuta agli aderenti nei modi e termini di

legge – potrebbe senz’altro danneggiare l’economia del fondo e, dunque, gli

interessi della collettività ad esso aderente.

Ciononostante, per quel che qui interessa, va rilevato che, quand’anche

dovessero superarsi tali rilievi critici, in ogni caso il tetto quantitativo

massimo previsto per questa tipologia di anticipazione, fissato al 30%, non

consentirebbe al singolo aderente di incidere sulla posizione previdenziale

maturata in maniera così significativa da considerarne compromessa la

funzione previdenziale individualmente perseguita. In altre parole, pur

accogliendo la più estensiva interpretazione della norma in esame, la richiesta

di anticipazione motivata da esigenze «ulteriori» rispetto a quella tipizzate dal

legislatore non consentirebbe comunque all’aderente di recuperare una parte

consistete delle quote di t.f.r. versate al fondo pensione né, dunque, di

restituire loro la originaria natura retributiva.

c.2) Sembra più condivisibile, in ogni caso, l’interpretazione che condiziona il

richiamo alle «ulteriori esigenze degli aderenti» alla loro previa

individuazione e specificazione all’interno degli statuti delle forma

pensionistiche complementari. In tal modo potrebbero acquisire rilevanza solo

le esigenze ulteriori canonizzate nello statuto del Fondo, a garanzia proprio di

quelle finalità pensionistiche e solidaristiche cui si è più volte accennato, nel

rispetto, peraltro, del 1° comma dell’art. 11 che, come accennato, rimette alle

sole forme pensionistiche complementari la determinazione dei requisiti e

delle modalità di accesso alle prestazioni dalle stesse erogate.

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Accogliendo tale ultima lettura è possibile affermare che la disciplina delle

causali di accesso alle anticipazioni erogate dai fondi pensione è soggetta ad

un regime di inderogabilità assoluta da parte della contrattazione individuale e

collettiva; la lettera c) dell’art. 11, comma 7°, tuttavia, rinvierebbe agli statuti

dei singoli fondi per la determinazione di ipotesi diverse ed ulteriori rispetto a

quelle legislativamente previste alle lettere a) e b).

A ben vedere, però, la (presunta) inderogabilità del regime delle anticipazioni

che assiste la previdenza complementare si rivela di scarso rilievo pratico in

queste sede poiché non priva il lavoratore della libertà di gestire il t.f.r.: ne

sposta semplicemente all’indietro il momento di esercizio, ponendo in capo al

lavoratore l’onere di manifestare la propria volontà, di conservare il t.f.r.

ovvero di aderire alla previdenza complementare, nei tempi e nei modi

stabiliti dalla legge.

Optando per la prima delle due ipotesi, egli continuerebbe a percepire il

tradizionale emolumento alla cessazione del rapporto, secondo la inalterata

disciplina legale contenuta nelle l. n. 297/1982, ovvero in maniera anticipata,

nei termini della diversa disciplina pattuita, collettivamente o intuitu

personae, con il datore di lavoro. Viceversa, manifestando “a monte” la

volontà di destinare le proprie quote di t.f.r. alla previdenza complementare, il

lavoratore ne muta definitivamente ed irreversibilmente la destinazione,

rinunciando alla possibilità di gestire contrattualmente gli accantonamenti

che, una volta confluiti nel fondo pensionistico prescelto, perdono

completamente la propria connotazione retributiva per trasformarsi in atti

previdenziali in senso stretto.

Le osservazioni formulate, in ogni caso, non intendono tradursi in una

sbrigativa condivisione delle tipizzate modalità di devoluzione del t.f.r. alla

previdenza complementare: una valutazione di tal fatta presupporrebbe

l’analisi, tra le altre, di ampie tematiche relative, in primis, al diritto

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all’informazione dei lavoratori coinvolti - specie alla luce dell’accolto sistema

del “silenzio-assenso all’adesione” -; ma anche l’articolazione di più

complesse riflessioni di matrice economico-finanziaria sui rischi derivanti

dall’adesione alla previdenza complementare e sulla necessaria

predisposizione di correlate garanzie che, al momento sembrano, ai più,

insufficienti145.

Si tratta, piuttosto, della presa d’atto che una evoluzione di tal fatta del

trattamento di fine rapporto è stata senz’altro resa possibile dalla

accentuazione, nella disciplina del 1982, della grande duttilità dell’istituto. E

in effetti, accanto alla predisposizione di un sistema di derogabilità che

connota il t.f.r. proprio per la docilità alle più diverse finalizzazioni, il

legislatore ha altresì dotato l’istituto di una regolamentazione che gli

consentisse di assecondare tali possibili evoluzioni. Ciò vale in particolar

modo per il criterio di computo adottato, la cui base annuale e la conseguente

certezza delle somme da accantonare, consente alle suddette quote di

raggiungere agevolmente le più diverse destinazioni; ciò che non sarebbe

stato possibile in vigenza della pregressa indennità di anzianità, il cui

ammontare risultava vincolato alla determinazione (nell’impossibilità di una

certa determinabilità) dell’ultima retribuzione percepita dal lavoratore.

3. La questione della maturazione del diritto…

Profilo rilevante e discusso al fine di ricostruire la identità dell’istituto è

costituito dal momento di maturazione del diritto. Quale che ne sia la natura,

resta da stabilire, infatti, se la maturazione del diritto coincida con la sua

concreta esigibilità – coincidente con la cessazione del rapporto o con la

145 L. CAMPAGNA-G. C. PEREGO, Previdenza integrativa. A confronto i rendimenti delle pensioni future, in Il Mondo, 29 agosto 2008, p. 34-36.

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fruizione dell’anticipazione – o, viceversa, si realizzi in una fase antecedente

(anno per anno).

La querelle nacque, in effetti, con l’indennità di anzianità poiché sin da allora

la determinazione del momento di maturazione del relativo diritto presentava

risvolti tali da conferirle particolare rilevanza nella complessiva economia

dell’analisi dell’istituto. La successiva riforma dell’82, poi, lungi dal dissipare

i dubbi sollevati dalla disciplina codicistica, ne aggiunse di nuovi e più

rilevanti. Tratteggiare, dunque, le soluzioni dottrinali offerte, sin dall’epoca in

cui l’istituto portava le vesti dell’indennità di anzianità può rivelarsi utile sia

per ricostruire gli innegabili tratti di continuità che legano la vecchia alla

nuova disciplina, sia per la presenza, nella legge vigente, di elementi

ambivalenti la cui interpretazione risulta probabilmente semplificata da un

approccio storico comparativo che tenga conto del dibattito già sviluppatosi

intorno all’indennità di anzianità.

3.1. … all’indennità di anzianità…

Riprendiamo il discorso, allora, dall’affermata natura dell’indennità di

anzianità, per bocca della Consulta, di «retribuzione differita». La definizione

imponeva al giurista la determinazione dei termini di tale differimento, specie

per stabilire se esso fosse riferito alla erogazione dell’indennità ovvero alla

maturazione del relativo diritto a percepirla.

Si delinearono tre orientamenti di massima ai quali, per comodità espositiva,

tenteremo di attribuire una denominazione classificatoria ispirandoci alle

definizioni elaborate dai rispettivi sostenitori:

a) retribuzione a maturazione progressiva ed esigibilità differita: secondo

questa prima ricostruzione il diritto di credito del lavoratore, relativo

all’indennità di anzianità, sarebbe sorto con la costituzione stessa del

rapporto, maturato in sua pendenza e divenuto esigibile solo al

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momento della cessazione dello stesso 146. In particolare si è affermato

che «il trattamento retributivo nel suo complesso è tutto presente ed

esistente, anche sul piano giuridico nella costituzione e nella fase di

svolgimento del rapporto, con questa sola particolarità che in alcuni

casi (come è quello dell’indennità di anzianità), l’esigibilità non ha

modo di realizzarsi se non al verificarsi di quell’evento (cessazione del

rapporto) che il legislatore ha considerato, a questo fine, come

decisivo», diversamente opinando si incontrerebbero «difficoltà

insormontabili a spiegare perché un elemento della retribuzione

divenga esistente solo al momento della cessazione del rapporto pur

dovendo poi essere commisurato alle vicende precedenti del rapporto

stesso»147. Dunque, in questo caso, il differimento avrebbe ad oggetto il

solo momento del pagamento della somma;

b) retribuzione differita a maturazione progressiva (ma non

progressivamente dereminabile): si tratta di una variante della prima

tesi che pure da questa si discosta di molto laddove si fonda sull’idea

che oltre all’esigibilità sia differito anche il momento di determinazione

del credito relativo all’indennità di anzianità148. Tale qualificazione è

stata apostrofata da autorevole dottrina come «almeno in parte

inadeguata» perché foriera di «notevoli equivoci nel momento in cui

finisce per assimilare implicitamente l’indennità di anzianità alla

retribuzione periodica ed evoca l’idea di una quota retributiva

146 In tal senso si vedano NOVARA, Il recesso volontario dal rapporto di lavoro, Giuffré, Milano, 1961; C. SMURAGLIA, Riflessioni sull’indennità di anzianità, cit.; G. ZANGARI, L’indennità di anzianità e le prospettive della sua riforma, cit., p. 125 ss.. In giurisprudenza si vedano Cass. 28 luglio 1969, n. 2855, in GI, 1969, I, 1, p. 1170; Cass. 26 febbraio 1969, n. 634, in FI, 1969, I, p. 1468; Cass. 10 marzo 1977, n. 987, in MGL, 1977, p. 515; Cass. 17 agosto 1977, n. 3796, in GI, 1977, I,1, p. 1818. 147 Così, in termini, ZANGARI, L’indennità di anzianità e le prospettive della sua riforma, cit.. 148 Così P.G. ALLEVA, Automatismi e riassorbimenti salariali, in RGL, 1979, I, p. 136 ss.

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accantonata alle singole scadenze temporali la cui erogazione è differita

al momento della estinzione del rapporto»149.

c) retribuzione a maturazione ed esigibilità differita: l’indennità di

anzianità come oggetto di un diritto di credito che, maturando tutto in

una volta alla fine del rapporto, e non gradualmente durante lo

svolgimento dello stesso, si perfezionava, divenendo liquido ed

esigibile, solo al momento della cessazione del rapporto. In tal senso, si

sarebbe trattato di una forma di «retribuzione complessiva globale che

si giustappone(va) a quella parziale relativa alla singola unità di tempo

e di lavoro»150, che non fondava il proprio titolo sul diritto alla

retribuzione, ma ne possedeva uno autonomo e distinto, ovvero di un

emolumento avente «un valore ed una funzione compensativa

dell’intero vincolo obbligatorio: più che essere corrispettiva delle

singole specifiche prestazioni lavorative, compensava il valore globale

149 In tal senso G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 20 ss.. 150 Così, in termini, TORRENTE,Commentario del codice civile («del lavoro»), Torino, 1962, p. 264. E’ grossomodo riconducibile a tale filone dottrinale anche la ricostruzione offerta da R. SCOGNAMIGLIO (Indennità di anzianità e assicurazione, cit., p. 392 ss.) - per la quale si veda infra - che definisce la indennità di anzianità come «quella forma peculiare di retribuzione che spetta soltanto al termine del rapporto di lavoro rispetto al suo intero svolgimento». Individua nella implicazione della persona del lavoratore nello svolgimento dell’attività lavorativa la causa della attrazione, nell’ambito della retribuzione, di erogazioni patrimoniali non strettamente corrispondenti alla esecuzione dell’attività lavorativa, M. PERSIANI, La tutela dell’interesse alla conservazione del posto, cit.). Accentua questo processo di «valorizzazione della posizione soggettiva del lavoratore» C. SMURAGLIA (Riflessioni sull’indennità di anzianità, cit. specie p. 290 ss.) che a tale posizione riconduce non solo quelle «esigenze fondamentali cui sembra destinata a sovvenire la normativa dell’art. 36 Cost.», ma altresì «quel complesso di elementi personali che contrassegnano la posizione soggettiva del prestatore e sono costituiti, a tacer d’altro, dalla sua professionalità».

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dell’apporto del singolo lavoratore allo sviluppo aziendale»151 e, per

tale motivo, era commisurato all’ultima retribuzione152.

c.1) Un cenno a parte merita la ricostruzione offerta da Renato

SCOGNAMIGLIO, il quale pur accettando alcune delle considerazioni

riconducibili all’orientamento sub c) ne trae rigorose conseguenze

logiche, mettendo a punto una tesi di notevole interesse.

Dopo aver demolito le varie concezioni elaborate dalla dottrina circa la

natura e la funzione dell’indennità in parola, l’Autore matura il

convincimento che l’indennità di anzianità costituisca, si, una forma di

retribuzione, ma non «nella sua accezione rigorosa e pregnante che si

riferisce a quanto viene periodicamente erogato al lavoratore come

corrispettivo della sua prestazione»; piuttosto si tratterebbe di una

retribuzione di tipo peculiare «che si distingue da quella ordinaria

proprio in quanto si matura al momento finale del rapporto di lavoro

…(e il cui) dato qualificante consiste nella sua correlazione all’intera

durata del rapporto»153. Ciò in quanto il rapporto di lavoro subordinato

«possiede una intrinseca onerosità» che non viene esaurita dalla

retribuzione periodica o retribuzione in senso stretto e che «anzi lascia

aperto uno spazio, e anzi insoddisfatta una esigenza, alla attribuzione di

una ulteriore e diversa retribuzione, riferita questa volta al rapporto di

lavoro nella sua interezza»154. Conclude quindi che «la indennità di

anzianità costituisce quest’altra forma di retribuzione, che, se non deve

151 Così G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 22 ss.. 152 U. ROMAGNOLI, Dimissioni del prestatore di lavoro, in RDL, 1968, I, p. 278; R. SCOGNAMIGLIO, Indennità di aznzianità, in DL, 1977, I, p. 394. 153 Difatti, specifica R. SCOGNAMIGLIO (Indennità di anzianità e assicurazione, cit.), se davvero si trattasse di una forma di retribuzione differita, i lavoratori dovrebbero diventare man mano proprietari della relative somme o accantonamenti e, soprattutto, ad essi dovrebbe competere un corrispondente diritto di partecipazione agli utili su tali somme. 154 R. SCOGNAMIGLIO, op. ult. cit..

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considerarsi come una componente ineliminabile dell’onerosità del

rapporto di lavoro, rappresenta tuttavia un elemento tipico e

qualificante del trattamento retributivo»155. Del resto, la dottrina più

accorta non solo aveva già ricondotto nell’alveo della retribuzione una

serie di prestazioni patrimoniali che in passato ne erano state escluse

anche attribuendo al sinallagma del contratto di lavoro «connotati tipici

e in qualche modo devianti rispetto allo schema tradizionale»156, ma ,

ben presto, avrebbe speso una radicale critica nei confronti del pure

teorizzato concetto onnicomprensivo di retribuzione perché priva di

fondamento normativo e, comunque, incapace di assumere un valore

assoluto al di fuori delle fattispecie nelle quali risulta recepito157.

In realtà le ricostruzioni sub a) e sub b) appaiono fermamente smentite dallo

stesso sistema di computo introdotto dall’art. 2120 c.c., in base al quale

l’indennità non risulta determinabile nel suo ammontare in pendenza del

rapporto: com’è noto, infatti, il credito per esistere deve essere determinato,

viceversa l’importo dell’indennità dipendeva dalla durata del contratto e

dall’ammontare della ultima retribuzione percepita dal lavoratore, «eventi non

esistenti e non rilevabili neppure potenzialmente in epoca anteriore alla

cessazione del rapporto»158. Per questo motivo «non può dirsi che in relazione

ad ogni singola frazione del rapporto e ad ogni singola scadenza retributiva

155 R. SCOGNAMIGLIO, op. ult. cit.. 156 Così C. SMURAGLIA, Riflessioni sull’indennità di anzianità, cit., citando a sua volta T. TREU, Onerosità e corrispettività della prestazione, cit., nonché L. RIVA SANSEVERINO, Diritto del lavoro, 1971, cit.. 157 Si vedano in tal senso, ex pluribus, L. SPAGNUOLO VIGORITA, Forme di retribuzione, in MGL, 1983, p. 187 ss.; C. ZOLI, Il principio dell’onnicomprensività della retribuzione tra legge e contratto, in RTDPC, 1983, p. 326 ss.; F. BIANCHI D’URSO, Onnicomprensività e struttura della retribuzione, ESI, Camerino, 1984. 158 Così in termini G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, Giuffré, Milano, 1984, riprendendo, a sua volta, S. MAGRINI, Liquidazione a scaglioni dell’indennità di anzianità e regime giuridico della somma versata al passaggio in categoria superiore, in GC, 1981, I, p. 2768.

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sia maturato un ben determinato quantum di retribuzione “differito” nella

erogazione alla cessazione del rapporto e corrisposto sotto forma di indennità

di anzianità»159. Le valutazioni sin qui riportato spinsero la dottrina

maggioritaria a concludere nel senso che l’indennità di anzianità costituisse

una forma di retribuzione il cui momento di costituzione del diritto fosse

differito alla cessazione del rapporto di lavoro insieme con l’obbligo del

datore di lavoro di corrispondere la suddetta somma.

Tale ricostruzione, tuttavia, offriva il fianco ad una ulteriore incertezza

relativa, questa volta, alla posizione attribuita al lavoratore durante lo

svolgimento del rapporto in relazione al credito che sarebbe maturato: si

discuteva, in particolare, se il prestatore di lavoro si trovasse in una situazione

di aspettativa di diritto ovvero di mero fatto. È noto che queste due figure non

trovano esplicito riconoscimento nell’ambito del nostro ordinamento, come

nota è la bipartizione della dottrina tra coloro che considerano l’aspettativa di

diritto come una posizione di attesa, che il diritto ritiene rilevante e capace di

trasformarsi in diritto soggettivo160, e coloro secondo cui l’aspettativa di

diritto non può costituire oggetto di alcuna forma di tutela da parte

dell’ordinamento161. In ogni caso, quand’anche volesse riconoscersi al

lavoratore una posizione di aspettativa di diritto in relazione alla maturanda

indennità di anzianità, quest’ultima, pur presentandosi come una fattispecie a

159 Così in termini G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit.,p. 20 ss. Avevano già mosso tali rilievi G. GIUGNI, Indennità di anzianità,cit.; R. SCOGNAMIGLIO, Indennità di anzianità e assicurazione, in DL, 1977, I, p. 393; ZANGARI, L’indennità di anzianità e le prospettive della sua riforma, cit., p. 125. 160 Cfr. il saggio di F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 1969, p. 75 ss.. Può considerarsi affine la definizione di MESSINEO (Manuale di diritto civile, I, Giuffré, Milano, IX ed., p. 132, secondo cui «si distingue tra aspettativa mera, o di fatto, dove c’è semplice possibilità astratta di acquisto di un diritto, ed aspettativa di diritto (o spes iuris) dove si ha una situazione che potrebbe chiamarsi giuridicamente immatura nel senso che manca un qualche elemento secondario perché si abbia un diritto soggettivo perfetto». 161 Cfr. R. SCOGNAMIGLIO, Aspettativa di diritto, in ED, III, Giuffré, Milano, 1958.

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formazione successiva, perfezionabile solo con la cessazione del rapporto di

lavoro, legittimerebbe, però, il lavoratore a compiere atti conservativi162

nonché ad «agire per l’accertamento dei diritti e degli obblighi aventi

carattere preliminare o strumentale rispetto alla produzione dell’effetto

giuridico definitivo»163. Le alterne posizioni, variamente articolate ed

argomentate dalla dottrina dell’epoca, si arricchirono di nuova linfa con la

riforma del 1982, quando la questione della maturazione giuridica si ripropose

all’avvento del nuovo trattamento di fine rapporto.

3.2. (segue) … e al “nuovo” trattamento di fine rapporto.

La dottrina ripropose, quindi, i principali orientamenti ricostruttivi già

elaborati in relazione alla vecchia indennità di anzianità ma riveduti alla luce

della nuova disciplina normativa. Le teorie offerte, pur corredate da

definizioni diversificate e argomentazioni connotate da una certa varietà di

sfumature e approcci interpretativi, possono ricondursi a due macro aree

interpretative164: da un lato i fautori della progressiva maturazione del diritto

162 Si vedano G. SUPPIEJ, L’art. 36 della Costituzione e l’indennità di anzianità, cit.; M. GRANDI, Questioni e proposte in tema di garanzie dell’indennità di anzianità, in Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, Giuffré, Milano, 1974, p. 2531. 163 Così G. SANTORO PASSARELLI, p. 36. 164 La schematizzazione degli orientamenti espressi in due macro aree di pensiero è mutuata dal saggio di G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (Il trattamento di fine rapporto, cit.), sebbene si siano apprezzate anche impostazioni ulteriori. Ne Il trattamento di fine rapporto di lavoro (cit.), A. VALLEBONA dedica un paragrafo proprio alla questione del momento di maturazione del diritto prospettando, diversamente da questa sede, tre tesi: a) il diritto al trattamento matura solo alla fine del rapporto, costituendo tale evento un elemento della fattispecie costitutiva e trovandosi in precedenza il lavoratore in una situazione di aspettativa di mero fatto; b) il diritto matura alla fine del rapporto ma durante il suo corso il lavoratore ha la possibilità di esperire azioni di accertamento o conservative; c) il diritto matura anno dopo anno, in corso di rapporto, ma le singolo quote sono sottratte all’esigibilità da parte del lavoratore per l’esistenza di un termine di adempimento scadente alla fine del rapporto (cfr. pp. 31-32). E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI (Il nuovo trattamento di fine lavoro, cit.) ritengono invece che l’estinzione del rapporto costituisca una condicio iuris cui è sottoposta l’acquisto del diritto.

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al t.f.r. in corso di rapporto, pur essendone differita l’erogazione alla

cessazione dello stesso165; dall’altro i sostenitori del perfezionamento (e

quindi della maturazione) del diritto contestualmente al momento della sua

esigibilità, ovvero alla fine del rapporto. Almeno tendenzialmente i fautori

della prima tesi tendono a valorizzare gli aspetti di novità della disciplina del

1982, mentre i sostenitori della maturazione del diritto alla cessazione del

rapporto propendono per una sostanziale continuità tra la pregressa e la

vigente disciplina166.

A) Maturazione del diritto in corso di rapporto.

Tra i più significativi elementi di innovazione della disciplina del t.f.r. va

annoverata senz’altro la centralità conferita al dato temporale dell’anno. Tale

elemento, che di per sé appare solo indiziario della possibile maturazione del

diritto in corso di rapporto, comporta in realtà una serie di conseguenze sia

immediate, e per lo più esplicitate nel testo normativo, sia potenziali, poiché

contiene «le premesse tecniche per una trasformazione dell’istituto e del suo

modo di operare»167. Difatti, l’annualità degli accantonamenti, in una con la

possibilità dell’autonomia privata di incidere sulla retribuzione base annua e

di incidere sulla disciplina delle anticipazioni (già evidenziata nel par. 2.4.),

165 Sostiene che il credito del lavoratore già esista in costanza di rapporto essendone solo differita l’esigibilità, L. MENGONI, L’indennità in caso di morte del prestatore di lavoro dopo la legge 29 maggio 1982, n. 297, in MGL, 1983, p. 80 ss.. Nello stesso senso si veda G. PERA, Il trattamento…, cit., p. 36. Per M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto: configurazione dell’istituto e problemi applicativi, in Contrattazione, 1982, n. 5, p. 22 ss., il t.f.r. è «funzionalmente equivalente» alla indennità di anzianità e, tuttavia, la nascita del relativo diritto, connessa all’instaurazione del rapporto di lavoro, è dissociata rispetto alla sua esigibilità. 166 Lo rilevano G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit.,p. 24. 167 G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit.,p. 35.

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possono spingersi sino a determinare una maturazione ed una attribuzione

dell’indennità del singolo lavoratore anno per anno.

In favore della teoria della maturazione del diritto al t.f.r. in costanza di

rapporto depongono, in poi, una serie di corollari al carattere annuale della

somma accantonata a titolo di t.f.r. che possono essere così sintetizzati:

A.a) il meccanismo di computo degli accantonamenti, introdotto dalla legge

n. 297/1982, rende il t.f.r. proporzionale alla retribuzione annua percepita ed

accentua i profili di corrispettività dell’istituto rispetto alla prestazione

lavorativa;

A.b) anche l’esclusione dalla base di computo dei periodi di sospensione della

prestazione lavorativa (salvo nelle ipotesi tassativamente previste)

affievolisce il legame del t.f.r. con il complessivo vincolo obbligatorio

derivante dal contratto di lavoro, rafforzandone, viceversa, il carattere di

corrispettivo dell’attività effettivamente resa;

A.c) il meccanismo di rivalutazione degli accantonamenti lascia pensare ad

una somma idealmente già conferita al lavoratore seppure mantenuta nella

disponibilità del datore di lavoro168;

A.d) gli elementi di garanzia del credito (cfr. art. 2, l. 297/1982), gli obblighi

di informazione e comunicazione agli enti previdenziali e ai singoli lavoratori

relativi all’ammontare delle somme accantonate, nonché la possibilità, offerta

al lavoratore dal nuovo meccanismo di computo, di determinare in ogni

momento il quantum delle medesime somme appaiono tutti sintomatici di una

maturazione anno per anno del diritto al trattamento di fine rapporto. 168 Depone in tal senso anche l’idea emersa nel corso dei lavori parlamentari e già suggerita dalla Relazione conclusiva redatta dalla Commissione Giugni, che gli accantonamenti annuali costituissero una sorta di risparmio forzoso di quote di t.f.r. già maturate dal singolo lavoratore. Contra, si veda il rilievo di G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit.,p. 25, in nota, nonché G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento di fine lavoro, Milano, 1982, p. 20; M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 21 che considera l’idea del risparmio forzoso smentita dall’assetto normativo della legge 297/1982.

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A.e) la possibilità di ottenere delle anticipazioni fa propendere per la tesi della

progressiva maturazione del diritto in corso di rapporto. In particolare la legge

stabilisce che l’anticipazione è detratta «a tutti gli effetti» dal t.f.r., non

specificando se tale detrazione debba essere compiuta immediatamente o alla

cessazione del rapporto. Tuttavia, l’espressione «a tutti gli effetti» viene

interpretata nel senso di escludere la successiva indicizzazione di somme

anticipate ovvero nel senso di effettuare immediatamente la relativa

detrazione. Proprio questa detraibilità rivelerebbe la preesistenza

dell’obbligazione del lavoratore rispetto al momento di cessazione del

rapporto di lavoro. Si è già richiamata, inoltre, la possibilità per la autonomia

privata di derogare al regime delle anticipazioni e che sembra attingere ad una

immediata disponibilità del diritto in capo ai contraenti;

A.f) la detraibilità delle somme di t.f.r. anticipate dalla indennità per causa di

morte (di cui all’art. 2122 c.c.) caratterizza l’istituto in senso retributivo

poiché ne valorizza la natura successoria.

B) Maturazione del diritto alla cessazione del rapporto..

Il tenore della legge del 1982 consente di rinvenire nella disciplina del nuovo

t.f.r., accanto ad elementi di notevoli innovazione, come quelli appena

tratteggiati sub A), anche elementi di forte continuità con la pregressa

disciplina dell’indennità di anzianità. Questi ultimi inducono per lo più a

considerare che il diritto al t.f.r. maturi contestualmente all’esigibilità dello

stesso ovvero al momento della cessazione del rapporto. Depongono in tal

senso:

B.a) i lavori preparatori della legge: gli atti della Commissione Giugni e i

lavori parlamentari contengono diversi segnali di continuità rispetto alla

previdente disciplina sia per quanto concerne il momento di maturazione del

diritto sia la titolarità dei fondi accantonati;

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B.b) alcuni argomenti letterali: nel 6° comma dell’art. 2120 c.c. il legislatore,

pur di non riferirsi al trattamento “maturato”, preferisce una lunga frase

ipotetica («70 per cento del trattamento cui avrebbe diritto nel caso di

cessazione del rapporto alla data della richiesta») che evidenzia la necessità

della cessazione del rapporto affinché si configuri il relativo diritto in capo al

lavoratore. Più in generale, le scelte lessicali effettuate dal legislatore

appaiono particolarmente caute nell’utilizzo di formule che lascino pensare ad

un processo di progressiva acquisizione del diritto169.

B.c) il carattere non necessariamente reale degli accantonamenti: che possono

conservare natura puramente contabile-amministrativa il ché priva i lavoratori

di qualsiasi tipo di controllo sull’impiego delle medesime somme. Del resto,

non avrebbe avuto senso la predisposizione di un Fondo di garanzia se gli

accantonamenti di t.f.r. fossero stati reali e vincolati.

B.d) il carattere pur sempre indeterminato ed indeterminabile dell’ammontare

del trattamento prima della cessazione del rapporto: sebbene il nuovo

meccanismo di computo evochi l’idea di una serie di accantonamenti e lo

stesso sistema di indicizzazione delle quote sembri deporre per la loro

giuridica esistenza anche prima della fine del rapporto, soltanto al momento

della cessazione del rapporto è possibile stabilire l’ammontare esatto del

trattamento e di ogni suo singolo componente, compresa la rivalutazione170. È

169 G. GIUGNI- UGNIE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit.,p. 27 evidenziano che 1) in materia di anticipazione, il legislatore parla di «trattamento cui avrebbe diritto il lavoratore»; 2) in relazione al regime transitorio, il legislatore fa riferimento all’indennità di anzianità che sarebbe spettata ai lavoratori in caso di cessazione del rapporto all’entrata in vigore della legge; 3) infine nella descrizione del meccanismo di computo si parla genericamente di «quota» e non si usano espressioni più esplicite come accantonamento et similia. VALLEBONA (Il trattamento…, cit., p. 32 ss.) rileva inoltre, a contrario, che quando il legislatore ha fatto riferimento al momento di effettiva cessazione del rapporto non ha avuto remore ad utilizzare l’espressione «trattamento di fine rapporto maturato». 170 Sul punto v. altresì G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento di fine rapporto, Giappichelli, Torino, 1995, pp. 30-31, che evidenzia l’ambivalenza di tale elemento,

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inoltre significativo che il meccanismo di rivalutazione periodica degli

accantonamenti è fondato su indici di rivalutazione compositi e del tutto

convenzionali che non necessariamente garantiscono una conservazione

effettiva ed integrale del potere di acquisto degli accantonamenti, come

invece sarebbe stato se si fosse realmente trattato di retribuzione accantonata

e maturata a tutti gli effetti.

B.e) una serie di elementi disciplinanti l’indennità in caso di morte

(l’attribuzione dell’indennità ai vari congiunti senza un ordine di ripartizione,

l’inclusione tra i beneficiari degli “affini”, la ripartizione dell’indennità, in

mancanza di accordo tra gli aventi diritto, secondo il bisogno di ciascuno,

ecc…), poiché suggeriscono l’attribuzione iure proprio ai superstiti e, di

conseguenza, l’individuazione della cessazione del rapporto come momento

di maturazione del diritto al t.f.r..

B.f) La predisposizione di un Fondo di garanzia e le modifiche apportate al

regime dei privilegi sugli immobili, poiché «si giustificano sull’implicita

premessa che il lavoratore nel corso del rapporto è titolare di una semplice

aspettativa che non gli consente di attivare azioni per la conservazione della

garanzia patrimoniale»171.

Accanto ad argomentazioni svolte a sostegno delle diverse ipotesi

ricostruttive del momento di maturazione del diritto al trattamento di fine

rapporto, la dottrina non ha mancato di evidenziare l’ambivalenza di alcune di

esse, conferendo loro un peso sostanzialmente neutrale e, dunque, irrilevante

nell’economia della risoluzione del problema.

compatibili con entrambe le tesi illustrate circa il momento di maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto. 171G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 30. Nello stesso senso v. R. PESSI, Trattamento di fine rapporto: la maturazione del diritto, in DLRI, 1983; A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 36.

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Così, in relazione alla possibilità di ottenere delle anticipazioni, che di per sé

deporrebbe, come evidenziato sub A.e), nel senso di una progressiva

maturazione del diritto al trattamento di fine rapporto, si è rilevato come, da

altro punto di vista, la medesima possibilità appare sostanzialmente

indifferente sotto tale profilo. L’anticipazione, infatti, costituisce oggetto di

«un diritto autonomo»172 che pur presentando un innegabile collegamento con

il diritto al trattamento di fine rapporto, proprio per il suo carattere autonomo

non è in grado di incidere sulla determinazione del momento di maturazione

del t.f.r. e, anzi, risulta compatibile con entrambe le ricostruzioni prospettate.

«Sicché», rileva VALLEBONA, «non può servire come argomento su cui

fondare una scelta tra dette ipotesi, ma , piuttosto, una volta che la scelta sia

fatta ne subisce le conseguenze»173.

Così come lo stesso Autore rileva che non vi è alcuna ragione per ritenere che

l’istituzione del Fondo di garanzia (come evidenziato sub B.f)) dimostri

l’esistenza di un credito del lavoratore in corso di rapporto poiché nulla osta

al fatto che la garanzia indicata riguardi un credito che nasce solo alla fine del

rapporto174.

Del pari la detrazione di quanto corrisposto al lavoratore a titolo di

anticipazione dall’ammontare dell’indennità in caso di morte non ha un peso

determinante nella individuazione del momento di maturazione del diritto al

t.f.r. poiché potrebbe intendersi «da un lato come meramente confermativa

della preesistenza del credito del lavoratore e della conseguente natura

successoria di tale indennità, e dall’altro lato, … come esclusione espressa di

un effetto della inesistenza del credito del lavoratore durante il rapporto, che 172 A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit. p. 35. 173 In termini A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit. p. 35-36. 174 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit. p. 36. Secondo R. PESSI (Trattamento …, cit., p. 335), invece, l’esistenza di specifiche forme di garanzia costituirebbe addirittura un argomento in favore dell’inesistenza del credito e della inesperibilità di azioni conservative durante il rapporto.

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dovrebbe comportare l’attribuzione jure proprio ai superstiti dell’indennità in

caso di morte senza alcuna detrazione»175.

Quanto all’indennità di morte, è appena il caso di fare una brevissima

divagazione. Com’è noto, l’art. 2122 c.c. stabilisce che in caso di morte del

lavoratore hanno diritto al t.f.r. residuo il coniuge176, i figli, nonché i parenti

entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado. La norma è stata a lungo

al centro di un ampio dibattito circa la qualificazione giuridica del diritto di

superstiti. In passato, l’opinione prevalente riteneva che tale diritto sorgesse iure

proprio: di conseguenza, l’indennità in caso di morte costituirebbe oggetto di un

diritto sorto ex lege in capo ai beneficiari e mai entrato nel patrimonio del

lavoratore premorto177, sicché quest’ultimo non avrebbe potuto disporne

diversamente in via testamentaria178.

175 A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit. p. 36. 176 Anche il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio gode di tale diritto ex art 12 bis, l. n. 898/1970, come modificata dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74. 177 Cfr. L. BARASSI, Il diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 1949, III, p. 309 ss; V. SIMI, L’estinzione del rapporto di lavoro, Giuffré , Milano, 1948, p. 108 ss.; ANDREOLI, Natura giuridica dell’indennità ai superstiti ex art. 2122 c.c., in MGL, 1942, p. 147 ss.; NAPOLETANO, Diritti jure proprio e jure successionis conseguenti alla morte del lavoratore – Impugnabilità ed efficacia delle rinunzie e transazioni dallo stesso effettuate su tali diritti, in MGL, 1955, p. 35 ss.; L. RIVA SANSEVERINO, Indennità in caso di morte (sub art. 2122 c.c.), in Commentario del codice civile, a cura di SCIALOJA-BRANCA, 1977, p. 666; CAPOZZI, Successioni e donazioni, I, Giuffré, Milano, 1983, p. 366 ss.. Va ricordata, poi, l’autorevole tesi di F. SANTORO PASSARELLI (Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1980) secondo il quale l’art. 2122 c.c. conterrebbe una duplice attribuzione (al comma 1° un’attribuzione jure proprio e al comma 3° un’attribuzione jure succesionis), tesi di cui offre un’efficace sintesi A. PRETEROTI, L’indennità in caso di morte, in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto…, 2007, cit., p. 90. 178 A tal riguardo, è opportuno ricordare, tuttavia, che l’art. 2122 c.c. è stato dichiarato parzialmente incostituzionale proprio nella parte in cui escludeva che il lavoratore subordinato, in mancanza di tali soggetti, potesse disporre per testamento dell’indennità in caso di morte: così C. cost. 19 gennaio 1972, n. 8, in MGL, 1972, p. 3. Da ultimo, si veda Trib. Torino 29 giugno 2002, in GP, 2003, p.254, secondo cui “in caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate negli artt. 2118 e 2120 c.c. costituiscono oggetto di un diritto spettante iure proprio ai soggetti indicati nel primo comma dell’art. 2122 c.c.”

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Un diverso - e recentemente più accreditato - orientamento ritiene che diritto dei

superstiti sorga iure successionis: secondo alcuni in ragione della possibilità,

accordata alla contrattazione individuale e collettiva di dilatare i margini di

fruibilità delle anticipazioni179, secondo altri in considerazione sia della natura

retributiva del t.f.r., sia del fatto che esso matura nel corso del rapporto di lavoro

e, di conseguenza, sarebbe già entrato a far parte del patrimonio del lavoratore180

Mentre la tesi dell’acquisto iure proprio da parte dei superstiti appariva coerente

alla originaria formulazione codicistica dell’indennità di fine lavoro, la stessa

valutazione non può ripetersi a seguito dell’avvento del trattamento di fine

rapporto e della relativa disciplina normativa introdotta dalla legge n. 297del

1982 Quell’orientamento si sposava bene, in effetti, con l’istituto dell’indennità

di anzianità, considerata per lungo tempo funzionale al perseguimento di finalità

previdenziali: ciò che rendeva più condivisibile la qualificazione dell’indennità

di morte in termini di diritto acquisito dai superstiti iure proprio. Viceversa, il

carattere spiccatamente retributivo del novello t.f.r. induce più facilmente,

specie coloro che accolgono la tesi della maturazione del diritto in corso di

rapporto, a ritenere che le somme annualmente accantonate ai sensi dell’art.

2120 c.c. siano già entrate a far parte del patrimonio del lavoratore e che, in caso

di sua premorienza, spettino ai soggetti indicati dall’art. 2122 c.c. jure ereditario.

Si è sostenuto, pertanto, che la norma dell’art. 2122 c.c. configurerebbe, dopo

l’entrata in vigore della legge n. 297 del 1982, una successione «anomala»181 su

bene separato ovvero su un bene che resta estraneo alla massa ereditaria in base

179 Subordinando, così, il diritto dei superstiti alla volontà del lavoratore: cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 121. 180 FUCCILLO, Sulla qualificazione giuridica della indennità di fine rapporto ex art. 2122 c.c. in ADL, 1998, p. 169. 181 L’espressione è utilizzata, in chiave ricostruttiva, da A. PRETEROTI, L’indennità in caso di morte, in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto…, 2007, cit., p. 95, il quale ricorda inoltre che tale forma di successione anomala separata va comunque distinta dalle cc.dd. successioni speciali poiché queste ultime, pur avendo anch’esse una connotazione anomala, hanno a oggetto un bene non separato dalla massa ereditaria.

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ad una precisa disposizione di legge che, in tal modo, lo distrae dalle eventuali

aggressioni dei creditori ereditari182.

Questa ricostruzione trova riscontro, peraltro, nella più recente giurisprudenza

della Corte costituzionale che, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 9, comma 3°

del d. lgs. c.p.s. 4 aprile 1947, n. 207 (nella parte in cui non prevede che

l’indennità di fine rapporto spettante al dipendente non di ruolo defunto, in

difetto dei soggetti ivi indicati, si devolva secondo le norme che disciplinano la

successione mortis causa), muove dalla riconosciuta natura di retribuzione

differita dell’indennità di fine rapporto e ne fa discendere la conseguenza che

essa deve ritenersi già entrata nel patrimonio del dipendente al momento della

sua morte: pertanto l’indennità spetterebbe agli eredi non iure proprio ma iure

ereditario183.

Sulla scia anche della citata pronuncia della Corte costituzionale, che pone la

natura e il regime del t.f.r. a fondamento del principio enunciato, sembra

senz’altro condivisibile la tesi di chi evidenzia che l’indennità in caso di morte

«non è qualitativamente diversa da quella costituita dagli artt. 2118 e 2120 c.c.,

bensì quantitativamente, essendo la somma delle due indennità»184; e poiché le

suddette indennità, legate alla cessazione del rapporto di lavoro, spettano di

diritto al lavoratore185, «non si comprende la ragione per cui le somme di cui agli

artt. 2118 e 2120 c.c. non dovrebbero spettare al lavoratore»186.

Muovendo da questa premessa, non può che confermarsi il carattere neutrale

dell’indennità in caso di morte rispetto alla questione della maturazione del

182 L. MENGONI, L’indennità in caso di morte del prestatore di lavoro dopo la l. 29 maggio 1982, n. 297, in MGL, 1983, p. 79. 183 Si veda R. DE LUCA TAMAJO, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in Lavoro. La giurisprudenza costituzionale 1989-2005, CNEL-Corte costituzionale-Alto Patronato del Presidente della Repubblica, Roma, 2006, p. 78. 184 Così A. PRETEROTI, L’indennità …, cit., p. 95, che richiama a sua volta GIORGIANNI, Note sull’art. 2122 c.c., in RGL, 1952, I, p. 293. 185 Cfr. R. SCOGNAMIGLIO, Manuale di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 2003, p. 269. 186 Così A. PRETEROTI, op. cit., p. 96.

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diritto al t.f.r.; e ciò non tanto perché, come autorevolmente sostenuto, i caratteri

della suddetta indennità appaiono ambivalenti e dunque capaci di fondare, per

un verso la tesi dell’acquisto jure proprio e per altro verso la tesi dell’acquisto

jure successionis. Il carattere neutrale dell’indennità in parola è dovuto piuttosto

al suo essere “conseguente” rispetto alle indennità che la compongono: sicché la

disciplina dell’indennità in caso di morte deve leggersi alla luce

dell’interpretazione accolta della natura del t.f.r. (e dell’indennità di mancato

preavviso), e non viceversa.

Ritornando sui nostri passi, è, infine, opportuno evidenziare che, quanto al

momento di maturazione del diritto al t.f.r., la propensione per l’una o l’altra

delle prospettazioni offerte comporta una serie di immediate conseguenze sul

piano applicativo.

Innanzitutto è facilmente immaginabile la ricaduta della determinazione del

momento di maturazione del diritto sul regime prescrizionale del trattamento.

L’opzione per la maturazione del diritto alla cessazione del rapporto

comporta, infatti, la decorrenza del termine prescrizionale di 5 anni dalla

medesima data che costituisce il momento «in cui il diritto può essere fatto

valere» ai sensi dell’art. 2935 c.c.. Del pari risulta inconfigurabile qualsiasi

prescrizione presuntiva per carenza del requisito indispensabile della

periodicità della corresponsione, posto che l’accantonamento di t.f.r. non

equivale a corresponsione delle somme medesime187. Quanto alle somme

erogate anticipatamente, la relativa prescrizione decorre dal momento della

187 Cfr. in tal senso A. MARESCA, La prescrizione del cosiddetto diritto alla maggiore anzianità (e brevi cenni sulla estinzione per inerzia del nuovo trattamento di fine rapporto), in RGL, 1982, II, p. 380. Si veda altresì A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto…, cit. p. 40-41, il quale rileva che pur abbracciando la diversa teoria della maturazione del diritto al t.f.r. in corso di rapporto egualmente la prescrizione decorrerebbe dal momento della cessazione del medesimo rapporto poiché in precedenza il lavoratore non potrebbe «esigere la prestazione» ai sensi dell’art. 1185 c.c..

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relativa corresponsione, ferma restando la possibilità nei 5anni successivi alla

cessazione del rapporto di rivendicare l’intero t.f.r., comprensivo delle somme

erroneamente non computate in sede di anticipazione.

Allo stesso modo, in caso di trasferimento d’azienda, il lavoratore non può

pretendere il pagamento del t.f.r. maturato sino al momento del trasferimento

stesso; dovrà, viceversa, attendere l’estinzione del rapporto e far valere il

proprio diritto nei confronti del cessionario188.

3.3. Conclusioni.

Alla luce degli elementi si qui tratteggiati e restando fedeli ai propositi

metodologici illustrati in apertura, riteniamo di accogliere una

qualificazione “evoluzionistica” del trattamento di fine rapporto. Si fa

riferimento alla tesi di chi189, nella precisa ottica di non trascurare alcuno

degli elementi empiricamente osservati nella descrizione della nuova

disciplina, conclude per una ricostruzione audacemente elastica

dell’istituto, osservando che esso «contiene almeno due modelli», tra loro

coesistenti, conciliabili, appunto, in chiave evolutiva.

Il t.f.r. costituirebbe «una sorta di retribuzione aggiuntiva annuale che si

giustappone a quella parziale e periodica … (e di cui quest’ultima

costituisce) … solo parametro di identificazione quantitativa»190, di tal ché

è possibile affermare che il nuovo t.f.r. segna un tappa ulteriore del

processo di confluenza dell’istituto nella retribuzione corrente. Tale

somma aggiuntiva, provvista di una propria autonomia rispetto alla

retribuzione tout court, costituisce un corrispettivo della attività lavorativa

188 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 37. 189 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 30 ss. 190 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 30 ss.

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prestata alla quale è commisurata proporzionalmente. Ciò che tuttavia, la

distingue in maniera sostanziale dalla retribuzione corrente è il dato

temporale: la pregnanza qualificatoria di tale elemento, che si è già avuto

modo di evidenziare in precedenza, caratterizza il t.f.r. quale corrispettivo

globale della prestazione resa nell’arco annuale, non solo in ragione del

nuovo meccanismo di computo, basato proprio sulla retribuzione annuale,

ma altresì per la cadenza annuale con la quale si determina la «consistenza

giuridica e quantitativa» del trattamento.

La natura retributiva dell’istituto e l’annualità del criterio di computo che

ne determina l’ammontare non impediscono, tuttavia, all’istituto di

conservare una forte continuità strutturale e funzionale rispetto alla

pregressa indennità di anzianità. Così, sebbene le novità normative

illustrate abbiano maggiormente qualificato il t.f.r. quale corrispettivo

annuale dell’attività lavorativa prestata, deve pur sempre evidenziarsi che

l’annualità del sistema contabile non presenta un immediato riflesso sul

diverso profilo del momento di maturazione del diritto al trattamento

medesimo, non essendo in grado di incidere sul completamento della

fattispecie costitutiva. Di conseguenza, in linea di continuità con il

precedente sistema e alla luce altresì degli svariati elementi normativi che

depongono in tal senso, bisogna concludere che il diritto al trattamento di

fine rapporto sia sospensivamente condizionato e che, dunque, maturi

progressivamente in corso di rapporto ma «si perfeziona»191 soltanto al

momento della cessazione dello stesso rapporto192, restando sino ad allora

191 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 34. 192 Conclude in tal senso anche A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., osservando che la fattispecie costitutiva del diritto al trattamento di fine rapporto comprende, «come elemento essenziale» l’estinzione del rapporto. Nello stesso senso si vedano E. GHERA –G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento di fine lavoro, Milano, 1982; G. ZANGARI, Problemi e prospettive della legge 29 maggio 1982, n. 297, sulla disciplina della nuova

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nella disponibilità del datore di lavoro. Tale lettura risolverebbe peraltro,

gli eventuali problemi legati alla prescrizione del diritto. Come accennato,

la tesi della piena maturazione in corso di rapporto incontra un

significativo ostacolo sistematico nel regime della prescrizione:

quest’ultima avrebbe impedito al lavoratore di avanzare delle pur giuste

pretese relative all’insufficiente accantonamento per annualità antecedenti

l’ultimo quinquennio. Se, viceversa, si accoglie la tesi secondo cui il tfr

matura pienamente alla cessazione del rapporto, e, dunque, il relativo

diritto può essere “esercitato” solo a tale data, potrà concludersi che solo a

partire da essa comincerà a decorrere il termine prescrizionale.

La ricostruzione dell’istituto nei suddetti termini restituisce l’immagine di

una «complessa mediazione» che, se per un verso accentua il carattere di

corrispettivo dell’istituto accostandolo maggiormente alla retribuzione

corrente, per altro verso non ha voluto alterarne completamente l’assetto,

conservando la possibilità per il lavoratore di rivendicarlo (eccezion fatta

per lo speciale regime delle anticipazioni) soltanto nella fase terminale del

rapporto.

3.4. L’accertamento degli accantonamenti in corso di rapporto.

Il presupposto perfezionamento del diritto al t.f.r. solo al momento della

cessazione del rapporto comporta l’impossibilità per il lavoratore di

vantare alcun diritto sul patrimonio accantonato; patrimonio che resta nella

disponibilità e nella titolarità del datore di lavoro fino all’estinzione del

rapporto ovvero finché non si realizzino i presupposti che, legittimando

un’anticipazione, producano la nascita di un diritto di credito in capo al

lavoratore. Del resto, come già accennato, la stessa eccezionalità delle

“indennità di anzianità”, in LPO, 1983; R. PESSI, Trattamento di fine rapporto: la maturazione del diritto, cit., p. 327.

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anticipazioni conferma l’esistenza di un generale principio di

indisponibilità dei fondi accantonati in pendenza di rapporto193.

La disciplina dell’’82, tuttavia, compone l’istituto di quote annualmente

accantonate di cui è possibile verificare l’esatto ammontare in ogni

momento di svolgimento del rapporto, con la sola avvertenza che la

rivalutazione, come stabilito dalla legge, non viene calcolata sulla quota

maturata nell’anno. Sebbene, dunque, l’ammontare finale del t.f.r. non sia

determinabile in costanza di rapporto, viceversa l’importo del t.f.r.

“accantonato”, comprensivo della relativa indicizzazione, può essere

determinato in ogni momento194. Così come può essere determinata in ogni

momento anche l’importo, non immediatamente rivalutabile, della quota

relativa all’ultimo anno.

La determinabilità dei singoli accantonamenti annuali va considerata, poi,

alla luce del penultimo comma dell’art. 2, l. 297/1982, che pone a carico

del datore di lavoro un obbligo informativo nei confronti non solo degli

Enti previdenziali che gestiscono il fondo di garanzia, ma altresì, in

ragione del rinvio espresso all’art. 4, comma 4, della legge n. 467/1978,

nei confronti del singolo lavoratore: in relazione ad essa, infatti, «acquista

ben altra credibilità la tesi favorevole a riconoscere l’ammissibilità di

193 In tal senso, peraltro, la Commissione Giugni, durante i lavori preparatori della legge, registrò una ferma posizione della parte imprenditoriale intesa a preservare la conformazione dell’istituto dell’indennità di anzianità quanto al momento di maturazione del diritto e alla titolarità dei fondi accantonati; istanza recepita sia nella disciplina restrittiva delle anticipazioni, sia nella cautela mostrata dal legislatore nell’utilizzo di formule lessicali che lasciassero intendere una progressiva maturazione del diritto al trattamento in capo al lavoratore nel corso del rapporto. 194 Cfr., ex plurimis, G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento di fine rapporto, Giappichelli, Torino, 1995, p. 30; A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit.; G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit.

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azioni di accertamento e cautelari a tutela del trattamento di fine

rapporto»195.

L’esperibilità delle suddette azioni presupporrebbe, però, l’esistenza di un

diritto all’accantonamento, anche solo contabile, delle quote annuali di

retribuzione, distinto dal diritto al t.f.r. È ovvio quindi che le azioni di

accertamento siano ammesse da quella parte della dottrina che sostiene

l’esistenza di un diritto del lavoratore sulle quote196.

La possibilità di agire in costanza di rapporto per l’accertamento degli

accantonamenti di t.f.r. maturati viene riconosciuta, tuttavia, anche dalla

dottrina (invero maggioritaria) più scettica in merito all’esistenza di un

diritto all’accantonamento197. Muovendo dall’accreditata dottrina

processualcivilistica secondo cui la tutela di mero accertamento non

presuppone necessariamente la violazione di un diritto esistente198,

Giuseppe SANTORO PASSARELLI conclude per l’esperibilità della relativa

azione in ragione dell’esistenza di uno specifico interesse del lavoratore ad

195 In termini, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, cit., p. 146. Contra G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento…, 1995, cit., p 32 ss.. Si veda inoltre R. PESSI (Trattamento di fine rapporto, cit.) che utilizza proprio la norma che impone al datore di lavoro l’informativa al lavoratore in merito all’ammontare degli accantonamenti annuali per sostenere l’inesistenza di un diritto all’accantonamento. 196 In tal senso si vedano M. NAPOLI, Il trattamento…, cit., p. 22; E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento…, cit., p. 18; D’AVOSSA, Il trattamento …, cit. p. 18. 197 v. R. DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, in DLRI, 1982, cit., p. 450; A. MARESCA, La prescrizione …, cit., p. 382 ss.. Tra le varie argomentazioni addotte a sostegno dell’inesistenza di un diritto all’accantonamento - distinto dal diritto al t.f.r. - particolarmente significative sono le eventuali conseguenze sul relativo regime della prescrizione. Considerando l’obbligo informativo di cui al co. 9, art. 2, l. 297/1982 come momento costitutivo del diritto all’accantonamento, il relativo termine prescrizionale decorrerebbe in costanza di rapporto dall’adempimento del medesimo obbligo, impedendo così al lavoratore di pretendere accantonamenti non effettuati dal datore di lavoro per esempio dieci anni prima: in tal senso v. G. Santoro Passarelli, Il trattamento…, 1995, p. 32. 198 Si pronunziano in tal senso BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Utet, Torino, 1950, p. 527; PROTO-PISANI, Appunti sulla tutela di mero accertamento, in RTDPC, 1979, p. 641; LANFRANCHI, Contributo allo studio dell’azione di mero accertamento, I, Giuffré, Milano, 1969, p. 281, tutti richiamati da G. SANTORO PASSARELLI (v. nt. successiva).

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agire in tal senso. Sebbene ritenga che l’obbligo di informazione contenuto

nel comma 9° dell’art. 2 non sia sufficiente a fondare l’esistenza di un

autonomo diritto all’accantonamento, l’Autore ritiene che il lavoratore

abbia comunque uno specifico interesse all’accertamento innanzitutto in

ragione proprio dell’obbligo di informazione contenuto nell’art. 2, co. 9, l.

297/1982, e, in secondo luogo, perché l’azione di accertamento

«eliminando l’incertezza sulla determinazione delle quote annuali

accantonate, e cioè … su un presupposto per il calcolo del t.f.r. o su una

parte di credito dello stesso t.f.r. maturato, è pur sempre riferibile al diritto

del lavoratore al t.f.r., risultando irrilevante che lo stesso diritto sia

considerato esistente o futuro»199.

Altri200 ha rilevato, inoltre, che nel senso dell’esperibilità di un’azione di

accertamento da parte del lavoratore che ritenga erroneo per difetto

l’importo dell’accantonamento comunicatogli depongono «anche

elementari esigenze di certezza dei rapporti giuridici … dovendosi

altrimenti differire necessariamente le relative controversie al momento

della cessazione del rapporto, allorché è sicuramente più difficile, per il

tempo trascorso, l’accertamento dei fatti rilevanti per la decisione».

La giurisprudenza, chiamata ben presto a pronunziarsi sulle richieste di

accertamento delle somme accantonate avanzate da lavoratori in costanza

di rapporto, ha inizialmente oscillato sulla ammissibilità dell’azione in

parola, suscitando, infine, una pronuncia delle Sezioni Unite che ha sciolto

positivamente la riserva201, chiudendo la questione in maniera pressoché

definitiva202.

199 In termini G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento…, 1995, cit., p. 33. 200 A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 40. 201 Si fa riferimento a Cass. S. U. n. 11945 del 15 dicembre 1990. Tra le pronunce che segnarono il contrasto, portato poi all’attenzione delle Sezioni Unite, si vedano, ex plurimis, Cass. 19 maggio 1990, n. 4556, in FI, 1990, I, 1879, con nota di Amoroso, che

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Una sorte differente attende, invece, l’ammissibilità di azioni conservative

sulle quote accantonate che risulterebbe subordinata all’esistenza, in

costanza di rapporto, di un diritto di credito del lavoratore. Tuttavia,

avendo accolto in questa sede la tesi della maturazione del diritto al t.f.r.

soltanto alla cessazione del rapporto di lavoro, risulta inconfigurabile,

prima di tale momento, un diritto di credito in capo al lavoratore,

costituendo l’estinzione del rapporto un elemento costitutivo della

fattispecie stessa203.

ammetteva l’esperibilità dell’azione di accertamento e, in senso contrario, Cass. 11 gennaio 1990, n. 55, in MGL, 1990, p. 56. Più di recente e circa il rapporto tra accertamento e prescrizione, v. Cass. 7 aprile 2006, n. 8191, in Infoutet, 2008, secondo cui «La prescrizione del diritto ad ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro e tale diritto non va confuso col diritto, maturante anche nel corso del rapporto, all'accertamento della quota temporaneamente maturata: l'uno ha per oggetto una condanna mentre l'altro ha per oggetto un mero accertamento. La diversità di contenuto e maturazione temporale dei due diritti soggettivi comporta il diverso regime della prescrizione, senza che la diversità stessa possa essere esclusa dalla loro connessione, data dalla parziale comunanza di elementi costitutivi». 202 La giurisprudenza successiva alla pronuncia delle Sezioni Unite è pressoché univocamente conforme alla suddetta pronuncia: v. Cass. 16 maggio 2002, n. 7136, in DG, 2002, p. 64. 203 Si veda, ex plurimis, in tal senso A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 40. Viceversa ammettono l’esperibilità delle azioni conservative in corso di rapporto lavorativo E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento …, cit., p. 18, che qualificano l’estinzione come una condicio iuris al perfezionamento del diritto, nonché D’AVOSSA, Il trattamento …, cit., secondo cui, invece, l’estinzione del rapporto costituisce esclusivamente un termine di adempimento.

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CAPITOLO II

RAPPORTI TRA LEGGE E AUTONOMIA PRIVATA NELLA VIGENTE DISCIPLINA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO.

1. Spazi di derogabilità lasciati all’autonomia collettiva e all’autonomia

individuale nella vigente disciplina del trattamento di fine rapporto.

La legge n. 297 del 1982, nel disciplinare il nuovo trattamento di fine

rapporto, sperimenta un innovativo disegno dei rapporti tra legge e

contrattazione collettiva204, rapporti che, nella riforma in parola, assumono

un’articolazione del tutto inedita rispetto alla soluzioni adottate in

precedenza205.

L’impianto della legge si caratterizza, infatti, per il ricorso ad una pluralità

di tecniche normative, alcune delle quali sono tratte dal classico repertorio

giuslavoristico (il ricorso all’inderogabilità unilaterale, il rinvio alla

contrattazione in funzione integrativa e di completamento), altre, più

sperimentali (inderogabilità bilaterale), si ispirano a quella legislazione di

“emergenza”, inaugurata nel 1977, di cui la legge in esame fu considerata

una delle massime espressioni206.

204 L’espressione è rubata a G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., Premessa, p. 2. 205 Lo evidenzia A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 137. 206 Lo rilevava la dottrina, per lo più concorde, eccezion fatta per qualche caso isolato tra cui G. SANTORO PASSARELLI, secondo il quale la legge n. 297 non sarebbe annoverabile tra gli interventi normativi di emergenza perché realizza una completa ristrutturazione dell’istituto, non limitandosi, in ragione della crisi, ad una semplice paralisi dei meccanismi preesistenti; ciò che viceversa aveva fatto, per esempio, la legge n. 91 del 1971 bloccando la contingenza.

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Al di là, però, della pluralità di strumenti di cui si è avvalso il legislatore,

la peculiarità della legge va ricercata, piuttosto, nell’insieme, ovvero nella

ingegnosa combinazione delle suddette tecniche, variamente declinate per

conferire malleabilità applicativa ed evolutiva all’istituto, e nel sapiente

dosaggio di ciascuna di esse.

Proprio queste caratteristiche, e segnatamente la rilevanza delle aree di

modificabilità della disciplina legale, rendono poco condivisibile la tesi

della generale inderogabilità assoluta della legge n. 297207, inducendo

decisamente ad un diverso avviso208.

Le “aperture” all’esercizio della libera volontà contrattuale, lungi dal

rivelare «delle “crepe” nell’impalcatura della inderogabilità»,

costituiscono, piuttosto, «un aspetto fisiologico o meglio programmatico

della stessa legge»209 che consente alle parti sociali di incidere sulla portata

dell’istituto nonché sulla sua stessa funzione: sono il frutto della «laboriosa

207 Tale è il presupposto da cui muove l’analisi di A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 137, che richiama, a sostegno, alcune delle prime pronunce sulla materia ( Pret. Milano 10 marzo 1983 e Pret. Roma 18 maggio 1983), nonché al medesimo orientamento espresso da alcuni commentatori (E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento di fine lavoro, cit.; M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto: configurazione dell’istituto e problemi applicativi, in Contrattazione, 1982, 5, p. 25 ss.; R. DE LUCA TAMAJO-G. GIUGNI, Commento dell’art. 1 della legge n. 297 del 1982, in NLCC, 1983, p. 261 ss.; G. ZANGARI, Trattamento di fine rapporto e cenni sulla riforma pensionistica, in LPO, 1982, p. 1808 ss.; G. FERRARO, Commento dell’art. 4 della legge n. 297 del 1982, in NLCC, 1983, p. 296 ss.). L’Autore, in particolare, afferma che la lettera della legge è chiarissima nel senso dell’inderogabilità assoluta della legge, specie nei commi 4, 5 e 11 dell’art. 4, «specie se confrontati con l’opposta tradizionale previsione espressa della salvezza delle condizioni di miglior favore»; ulteriore conferma di tale inderogabilità deriverebbe poi dal tenore del 1° comma dell’art. 2120 c.c. che impone un tetto massimo inderogabile all’ammontare del trattamento. 208 Più condivisibile è la rilevazione di «un elevato grado di inderogabilità, forse più netto nell’intenzione del legislatore di quanto poi non sia consentito dall’interpretazione delle norme» (G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento…, cit., 1995, p. 92). Una simile valutazione può leggersi, del resto, anche nella più recente giurisprudenza: si veda Cass. 28 maggio 2003, n. 8480, in MGL, 2003, p. 769. 209 Il virgolettato è di G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento di fine rapporto, 1995, cit., ripreso dallo stesso AUTORE nel più recente e già citato Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare.

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ricerca di tecniche e procedure in grado di coniugare efficacemente il

momento di eteronomia con la valorizzazione di istanze partecipative delle

forze sociali»210 e financo di opzioni individuali. Il rilievo di tali

“aperture” rivela, in altre parole, che la struttura normativa della legge n.

297 è volutamente flessibile, modellabile ad immagine e somiglianza delle

contingenti dinamiche intersindacali (e talora financo delle preferenze

individuali), nel rispetto di soli limiti espressamente sanciti con finalità

perequative e calmieratici.

Il legislatore, dunque, abbandona la classica funzione protettiva,

«attraverso il dominio dell’eteronomia sull’autonomia»211 per battere «la

strada della riregolazione»212, sostituendo, almeno in parte, i vincoli diretti

alla libertà contrattuale con vincoli indiretti e preventivi.

1.1. Aree di inderogabilità bilaterale.

a) Il divisore 13, 5.

Come anticipato, la novella del 1982 riproponeva «quasi tutti i modelli

dialettici tra legge e contratto collettivo» che si erano andati delineando

durante la fase di legislazione della crisi, modelli ispirati ad «una stretta

interazione tra le due fonti , sia pure all’interno di un quadro legale che

definisce i connotati essenziali ed imprescindibili dell’istituto, in coerenza

ai principi costituzionali di equità di trattamento e di adeguamento

210 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, in DLRI, 1982, p. 430. 211 Così M. D’ANTONA, L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in DLRI, 1991, 3, p. 455 ss. 212 M. D’ANTONA, op. cit., p. 456. Lo stesso AUTORE rinvia, per una disamina della dialettica tra deregolazione e riregolazione a G. GIUGNI, Giuridificazione e deregolazione del diritto del lavoro italiano, in DLRI, 1986, p. 325; S. SIMITIS, La giuridificazione nei rapporti di lavoro, in Digesto, vol. IV, Utet, Torino, 1989, p. 490 ss.; U. ROMAGNOLI, La déréglementation ete les sources du droit du travail, in Rev. Int. Dr. Comp., 1990, p. 18.

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proporzionale delle liquidazioni ai redditi conseguiti durante il rapporto di

lavoro»213.

Proprio quella fase legislativa aveva inaugurato, appena qualche anno

prima dell’emanazione della legge n. 297, un nuovo regime di concorrenza

tra legge e autonomia privata che precludeva a quest’ultima, sia nella sua

forma individuale che collettiva, non soltanto modifiche peggiorative –

secondo lo schema classico dell’inderogabilità unilaterale – ma anche

modifiche migliorative dei trattamenti legali214. Si trattava della c.d.

inderogabilità bilaterale, subito accolta dalla dottrina con preoccupazione

come un «evento del tutto anomalo e sconvolgente per il diritto del

lavoro»215 ovvero di «inversione del suo corso storico»216, artefice di una

«profonda alterazione della normale dialettica intercorrente tra legge e

contrattazione collettiva»217.

Le norme lavoristiche, difatti, si erano preoccupate sino a quel momento,

di garantire ai lavoratori una soglia di tutela minimale, assistita da un

regime di inderogabilità unilaterale che consentiva all’autonomia

individuale e collettiva di incidervi con qualsiasi modifica migliorativa.

Ciò che, peraltro, aveva indotto la teorizzazione di un c.d. principio di

favore, ovvero di prevalenza del regime di miglior favore in tutte le ipotesi 213 Il virgolettato è di G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 210. Più in generale sugli “strumenti” della legislazione della crisi si vedano, G. GIUGNI, Il diritto del lavoro negli anni ’80, in DLRI, specialm. p. 405 ss.; R. DE LUCA TAMAJO, Garantismo legislativo e mediazione politico-sindacale: prospettive per gli anni ’80, in CESSARI- IE LUCA TAMAJO, Dal garantismo al controllo, Milano, 1982, p. 1 ss.; nonché, ID, Leggi sul costo del lavoro e limiti all’autonomia collettiva (spunti per una valutazione di costituzionalità), DE LUCA TAMAJO-VENTURA (a cura di), Il diritto del lavoro nell’emergenza, Jovene, Napoli, 1979, p. 151 ss.. 214 Si pensi, per tutti, al combinato disposto dagli artt. 1 e 4 della legge 91/1977 che, nell’escludere gli incrementi della contingenza dalla base di calcolo dell’indennità di anzianità, vietava alla autonomia privata di introdurre trattamenti migliorativi. 215 Cfr. S. MAZZAMUTO-P. TOSI, Il costo del lavoro tra legge e contratto, in RGL, 1977, I, p. 219 ss. 216 G. GIUGNI, Parlamento e sindacati, in Pol. dir., 1978, p. 365. 217 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Leggi sul costo del lavoro …, cit., p. 151.

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di concorrenza tra la disciplina legale e quella negoziale. Negli anni della

crisi, tuttavia, l’originaria finalità protettiva, che pure aveva a lungo

ispirato la legislazione del lavoro, veniva affiancata da finalità perequative

e/o di contenimento del costo del lavoro che indussero il legislatore a

superare le consuete frontiere, non più mosso dalla (sola) preoccupazione

di garantire dei livelli di tutela “minima”, ma altresì di fissare dei “tetti

massimi” invalicabili.

Ne costituisce un’efficace esemplificazione il sistema di computo

introdotto dall’art. 1, co. 1, della legge n. 297 secondo cui il nuovo

trattamento di fine rapporto «si calcola sommando per ciascun anno una

somma pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione

dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5 (…)». Il divisore 13,5, che riflette

mediamente la struttura retributiva italiana divisa in 13 e, talvolta, anche

14 o più mensilità, applicato alla retribuzione annua, consente al singolo

lavoratore di accantonare annualmente una quota di t.f.r. proporzionale alla

propria retribuzione media. La necessità di arginare il fenomeno delle c.d.

liquidazioni d’oro, introducendo un criterio che assolvesse, al contempo,

una funzione egualitaria e calmieratrice, ha indotto il legislatore ad

introdurre un coefficiente percentuale inderogabile, un «tetto massimo»

che le parti collettive o individuali non sono autorizzate a modificare:

l’eventuale determinazione di un dividendo inferiore determinerebbe,

infatti, un incremento dell’accantonamento annuo in palese contrasto con il

dettato normativo218.

Questa nuova declinazione dell’inderogabilità, operante nei confronti sia

dell’autonomia individuale sia di quella collettiva, e alla quale il

legislatore della crisi ha fatto ricorso in più occasioni, apriva nuovi varchi 218 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, in DLRI, cit., p. 445.

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alla politica del lavoro; solo per il versante collettivo, poi, si affacciarono

più stringenti dubbi di costituzionalità fondate su risalenti dispute

dottrinali relative alla portata della libertà sindacale costituzionalmente

sancita e alla sua compatibilità con le stringenti limitazioni derivanti dal

ricorso alla tecnica in parola.

Sul primo versante, era innegabile l’incidenza dell’inderogabilità assoluta

sui «ruoli e sulle competenze degli agenti del sistema di relazioni

industriali, (comportando, ndr) un rafforzamento del potere pubblico nel

controllo di taluni processi economici e sociali e, nel contempo, una sia

pur circoscritta delimitazione del potere sindacale … ricondotto in un

quadro di compatibilità con gli obiettivi di politica economica assunti dallo

Stato»219.

Tali valutazioni, espresse con toni timorosi all’indomani degli interventi

sulla scala mobile, dinnanzi alla «evidente potenzialità diffusiva della

tecnica in questione», non sembra abbiano trovato riscontro, però, tra le

righe della legge 297/1982 che, pur ricorrendo talora alla tecnica della

inderogabilità bilaterale, realizza una complessiva valorizzazione

dell’autonomia contrattuale privata. Difatti, accanto alle limitazioni

normativamente imposte, che blindano la disciplina legislativa in relazione

a significativi profili dell’istituto, il legislatore del 1982 ha fatto largo uso

di altri strumenti normativi che non solo compensano appieno le prime, ma

consentono altresì un’ipotetica e progressiva riespansione dell’autonomia

collettiva, attribuendole la possibilità di incidere sulla funzione dell’istituto

e financo sulla sua stessa esistenza (attraverso la periodizazzione delle

anticipazioni ovvero la progressiva riduzione delle voci retributive

computabili nella base annua di calcolo). Ciò che ha consentito una più

generosa valutazione degli interventi normativi ablatori, «più agevolmente 219 Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, Leggi sul costo del lavoro …, cit., p. 153.

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giustificabili», sul piano politico come su quello tecnico giuridico, in

ragione della ricuperabilità, in altre direzioni, dei benefici perduti

dall’autonomia contrattuale220.

Il ricorso alla tecnica dell’inderogabilità bilaterale riapriva, però, anche un

interessante dibattito sulla compatibilità delle limitazioni normative alla

libera contrattazione con il principio sancito dal primo comma dell’art. 39

cost..

Nell’impossibilità, in questa sede, di ricostruire i prodromi delle questioni

interpretative sorte intorno alla più vasta tematica della libertà

dell’organizzazione sindacale costituzionalmente sancita, ci limiteremo a

dare brevemente conto, seguendo il percorso tracciato dalla più attenta

dottrina221, del delicato rapporto trilaterale instaurato tra legge, contratto e

precetto costituzionale.

Muovendo dal significato attribuito dalla Consulta al primo comma

dell’art. 39 Cost., inteso come garanzia della libertà di organizzazione e di

azione sindacale, quest’ultima intesa soprattutto come piena libertà di

contrattazione, occorre ricordare in via sintetica i limiti cui soggiacciono le

suddette libertà:

- con riguardo alla Costituzionale formale, l’art. 39 afferma in maniera

«perentoria e incondizionata»222 la libertà di organizzazione-azione

sindacale; l’affermazione trova riscontro nel confronto della norma

medesima con altre previsioni costituzionali di portata analoga (si

pensi, ad esempio, alla libertà di iniziativa economica, art. 41 Cost.) ma

esplicitamente condizionate dal Costituente al rispetto di determinati

limiti (l’utilità sociale, art. 41, 2° co., Cost.). La libertà sindacale in 220 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 212 ss.. 221 Si fa riferimento, in particolare, a R. DE LUCA TAMAJO, Leggi sul costo del lavoro e limiti all’autonomia collettiva …, cit., p. 151 ss.. 222 Si rinvia alla ricostruzione offerta da R. DE LUCA TAMAJO, Leggi …, cit., 151 ss..

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parola, viceversa, non è vincolata ad alcuna funziona sociale, né è

sottoposta ad alcun controllo o coordinamento pubblico, essendo

completamente affidata all’autocomposizione del conflitto industriale;

- con riguardo, poi, alla Costituzione materiale, l’incoercibilità

dell’azione sindacale è confermata dall’istituzionalizzazione della

dinamica libero-contrattuale e dal rifiuto (oggi ultracinquantennale) di

qualsiasi forma di regolamentazione della rappresentanza contrattuale.

Sembrava, alla luce di tali valutazioni, che non vi fosse modo di

legittimare la completa paralisi dell’autonomia privata collettiva nella

disciplina di alcuni istituti lavoristici. E tuttavia i commentatori della

“emergenza”, consapevoli della crisi che l’aveva resa necessaria, ne

proposero il riscatto mediante la stessa Carta costituzionale. Si sostenne, in

particolare, che il principio contenuto nell’art. 39 Cost., pur essendo

incomprimibile da parte di valori ad esso pariordinati all’interno della

Costituzione, resterebbe comunque «condizionato da taluni precetti

fondamentali dell’ordinamento giuridico e, in particolare, dal principio

cardine sancito nell’art. 3 Cost. in tema di parità formale e sostanziale dei

cittadini»223. Risultavano, così, legittime le limitazioni imposte

all’autonomia privata per finalità di perequazione tra le varie categorie di

lavoratori. Un’argomentazione del tutto analoga veniva ripresa anche a

fronte degli eventuali dubbi di legittimità costituzionale224 della l.

297/1982 suscitabili dai profili di inderogabilità bilaterale ivi previsti.

Altri, invece, approdavano allo stesso risultato appellandosi alla presunta

funzione previdenziale dell’istituto e, dunque, richiamando l’art. 38 Cost.: 223 R. DE LUCA TAMAJO, Leggi e …, cit., p. 161. Si ricordi che la l. n. 91/1971 fu sottoposta al vaglio della Consulta che concluse (cfr. sent. n. 142 del 30 luglio 1980, cit.) per la legittimità (temporanea) della stessa pur eludendo, nella sostanza, le problematiche di compatibilità col disposto dell’art. 39 Cost. (cfr. cap. I). 224 Ne avanzò, in dottrina, D’AVOSSA, Il trattamento di fine rapporto, in Lavoro ’80, 1983, p. 15 ss.

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in tale ottica, l’inderogabilità assoluta del divisore, ad esempio, si

giustificava in quanto non relativa ad un istituto retributivo, bensì

finalizzata ad impedire che «l’istituto venisse ridisciplinato in una logica

differenziata ingiustificabile con la sua funzione»225.

Ma la legittimità della l. n. 297 sarebbe forse sostenibile anche

abbracciando la teoria di Gino GIUGNI226 secondo il quale la compatibilità

costituzionale delle leggi che pongono un “tetto” all’autonomia collettiva è

subordinata alla condizione che esse recepiscano un preventivo accordo

sindacale. Le leggi che istituiscono un regime di inderogabilità in melius

resterebbero, dunque, esonerate da dubbi di costituzionalità solo se ed in

quanto recettive di un accordo che, appunto, legittimi il legislatore a

introdurre misure calmieratici o perequative sindacalmente condivise. Ora:

non può dirsi che l’emanazione della legge n. 297 sia stata preceduta dalla

formalizzazione di un accordo in merito alle limitazioni da imporre alla

contrattazione collettiva; e tuttavia la stessa legge reca senz’altro i segni di

quella che abbiamo già ricordato227 come una delle prime forme

concertative seppur “mascherate” dall’intento della classe sindacale di

preservare, agli occhi degli iscritti, un immagine non troppo

accondiscendente rispetto alle scelte governative.

b) Il divieto di inserimento di altri istituti aventi la medesima natura e

funzione dell’indennità di anzianità (art. 4, commi 4 e 5).

I commi 4 e 5 (insieme ai successivi da 9 a 12) dell’art. 4 tracciano il

campo di applicazione oggettivo della legge n. 297 e, al contempo,

pongono un altro limite invalicabile alla libera contrattazione. Il comma 4° 225 Cfr. M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, in RTDPC, 1983, p. 91 ss. 226 Illustrata, ex plurimis, nel Diritto sindacale, Cacucci, Bari, 1991. 227 Cfr. pp. 30-32 del presente lavoro.

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sancisce, infatti, l’applicabilità del art. 2120 c.c. «a tutti i rapporti di lavoro

subordinato per i quali siano previste forme di indennità di anzianità, di

fine lavoro, di buonuscita, comunque denominate e da qualsiasi fonte

disciplinate». La norma impone quindi la sostituzione di tutte le indennità

rientranti nel novero di cui al comma 4° con il nuovo trattamento di fine

rapporto, mentre il successivo comma 5° fa salve le sole indennità che, pur

essendo corrisposte alla cessazione del rapporto, hanno tuttavia «natura e

funzione diverse da quelle delle indennità di cui al comma precedente».

Il combinato disposto delle due norme citate appare del tutto coerente alle

finalità perequative e di livellamento dei trattamenti di fine rapporto

perseguite dal legislatore: alla predisposizione di limitazioni quantitative

all’ammontare dell’emolumento (v. la derogabilità anomala del divisore e

l’inderogabilità assoluta del dividendo), si affianca l’estensione del campo

si applicazione del nuovo istituto chiamato a sostituire le preesistenti

indennità di fine lavoro in tutti i rapporti di lavoro subordinato. Il divieto

di introdurre emolumenti di fine rapporto diversi dal t.f.r. o che potessero

costituire un mero duplicato di quest’ultimo costituisce, in effetti, un

passaggio obbligato onde evitare che i contrastati fenomeni di

superliquidazione, usciti dalla porta, potessero “rientrare dalla finestra”,

assumendo le più svariate forme indennitarie di matrice contrattuale,

individuale o collettiva: in definitiva, «l’ammissibilità di un sistema

diverso di trattamento di fine lavoro, seppure equivalente a quello legale,

sarebbe incompatibile con l’obiettivo di generalizzazione di un modello

unitario»228. Sicché, qualsiasi eventuale trasgressione al divieto in parola

228 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 191.

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«andrebbe considerata in frode alla legge, essendo diretta ad aggirare la

norma imperativa»229.

Nonostante il fermo impegno del legislatore, deve darsi atto, in ogni caso,

della difficile giustiziabilità di un imperativo di tal fatta e, più in generale,

delle fattispecie normative inderogabili in melius. La predisposizione di

indennità aggiuntive al t.f.r., aventi natura e funzioni analoghe all’istituto

medesimo (rectius: all’indennità di anzianità) e che costituirebbero un

miglioramento delle condizioni contrattuali del lavoratore, difficilmente

potrebbero essere poste nel nulla in vigenza della volontà contrattuale che

le ha prodotte. La loro compiuta applicazione, infatti, dipende

esclusivamente dalla permanenza del consenso raggiunto tra le parti. Solo

la sottoposizione al giudice, in ragione di un’eventuale ma difficilmente

ipotizzabile controversia, consentirebbe a quest’ultimo di rilevare il

contrasto con l’art. 4, comma 5°, della legge 297 del 1982 e porre nel nulla

la relativa previsione contrattuale.

Resta, in ogni caso, da stabilire quali siano i confini del divieto contenuto

nel comma 5° ovvero quali tipologie di indennità possa considerarsi

esterne al campo di applicazione della norma. Anche sotto tale profilo, è

ancora la dottrina a offrire interessanti spunti di riflessione230.

In primis sarebbero salve le indennità, comunque denominate, non

corrisposte al momento della cessazione del rapporto; in secondo luogo,

l’individuazione del termine di comparazione nelle «indennità di

anzianità» e non nel nuovo t.f.r. esprime la specifica rilevanza attribuita

all’evoluzione dell’istituto, restando legittime le indennità che hanno

229 Cfr., in tal senso, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 187, ma v., più in generale, pp. 185-194 dove gli Autori individuano i vari “effetti” (perequativo, abrogativo, correttivo, integrativo) prodotti dall’art. 4, l. 297/1982. 230 Si rinvia all’analisi condotta da G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, ne Il trattamento…, cit..

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conosciuto un diverso percorso evolutivo; inoltre, l’ampiezza della

formula utilizzata (indennità di anzianità, di buonuscita e di fine lavoro

comunque denominate e da qualsiasi fonte disciplinate) lascia intendere

che le indennità da preservare «rientrino in una categoria eccezionale e del

tutto residuale»231; infine, il riferimento congiunto alla natura e alla

funzione dei suddetti emolumenti fa salve solo le indennità che presentano

caratteri sia funzionali che strutturali differenti rispetto ai primi. Proprio in

relazione a tale ultimo tassello, però, è necessario stabilire quali siano la

natura e la funzione delle indennità di cui al comma 4°, art. 4, l. 297/1982.

A tal fine, e visto il carattere per nulla unanime dell’interpretazione

relativa alla natura e funzione dell’indennità di anzianità, conviene

affidarsi, in via di buona approssimazione, alla tesi abbracciata dalla

giurisprudenza, specie della Corte costituzionale, secondo la quale

l’indennità di anzianità riveste carattere retributivo, costituendo parte del

compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene

differita al momento della cessazione del rapporto per agevolare il

lavoratore nel superamento delle difficoltà economiche derivanti dalla

perdita del salario232. In questo modo possono considerarsi salve, a titolo

esemplificativo, le indennità la cui corresponsione sia prevista: alla

cessazione del rapporto, a seguito della stipula di una polizza assicurativa

volta a garantire eventi particolari (invalidità, premorienza rispetto all’età

pensionabile); alla risoluzione anticipata del rapporto di lavoro (si pensi

alle varie forme di incentivo all’esodo)233; per la maturazione di un elevata

231 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 195 232 Così Corte cost. n. 75 del 1968, cit. 233 Cfr. Cass. 6 dicembre 2002, n. 17418, in GC, 2002, p. 12. Una risalente giurisprudenza ne estende, peraltro, il discorso alle ipotesi di indennità per anticipato collocamento a riposo in caso di malattia, infortunio o inabilità (cfr. Pret. Milano, 28 febbraio 1987, in DPL, 1987, p. 2246; in senso contrario si veda Pret. Milano 11 luglio 1986, in DPL, 1986, p. 2813).

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anzianità di servizio (c.d. premio di fedeltà o di anzianità); al fine di

evitare la disaffezione al lavoro nell’ultimo anno di servizio234; in ragione

della particolare qualificazione professionale dei prestatori di lavoro235

ovvero per la coperture di un rischio professionale specifico.

La ricostruzione sin qui offerta non può tuttavia considerarsi esaustiva:

ciascuna singola ipotesi andrà, piuttosto, valutata singolarmente,

indagando, di volta in volta, la funzione perseguita e i bisogni tipicamente

tutelati dall’indennità da sottoporre al vaglio dell’art. 4, comma 5° della

legge n. 297/1982.

Andranno esaminati con particolare attenzione, ad esempio, gli istituti

collegati, alle ragioni della cessazione del rapporto. Si pensi ad

un’indennità contrattualmente esclusa nei casi di dimissioni o di giusta

causa: il carattere apparentemente difforme, retributivo nell’indennità di

anzianità e premiale nell’esempio appena coniato, non lascia quest’ultimo

esente da più accurate censure mosse dalla consapevolezza che l’indennità

di anzianità svolgeva, tra le altre, anche una funzione premiale o di

controllo del personale.

Sempre sul piano funzionale, peraltro, si è ritenuto che sia conservabile

solo l’indennità finalizzata ad un evento particolare o connessa alla

condizione professionale del soggetto interessato236. Né tantomeno, nella

lettura offerta dalla dottrina, è possibile ritenere certamente legittimo un

istituto in ragione del relativo carattere «promiscuo, composito o

234 Si pensi alla c.d. indennità di lealtà attribuita in base ad alcuni accordi sindacali. In giurisprudenza, si veda: Cass. 25 marzo 1996, n. 2627, in RIDL, 1997, II, p. 487, con nota di CAVAGGIONI. 235 Si veda, per i giornalisti, il CCNL 11 aprile 2001. Ed inoltre, tra le pronunce dei giudici Cass. 3 novembre 1998, n. 11002, in MGL, 1999, n. 1-2, p. 160; Cass. 29 novembre 1996, n. 10681, in NGL, 1997, p. 418. 236 G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, Giappichelli, Torino, 2007, p. 17.

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misto»237: in tal caso, si renderebbe necessaria l’individuazione della

funzione prevalente o maggiormente caratterizzante l’istituto, legittimo

soltanto laddove tale funzione, così individuata, presenti dei profili di

specialità rispetto a quella propria dell’indennità di anzianità.

Dando coerente seguito, poi, alla rilevata enfatizzazione, nel testo dell’art.

4, comma 5°, delle trasformazioni che hanno interessato l’indennità di

anzianità, sarà la ricostruzione in chiave evolutiva delle singole indennità

contrattuali ad offrirne il più concreto indice di legittimità.

1.2. La derogabilità in melius del regime delle anticipazioni.

I commi da 6 a 11 dell’art. 2120 c.c. disciplinano la possibilità, per il

lavoratore, di ottenere una anticipazione, in costanza di rapporto, sulle

somme accantonate a titolo di trattamento di fine rapporto. La norma

indica le condizioni e le tassative ipotesi giustificative in presenza delle

quali è possibile ottenere l’anticipazione, attribuendo, però, «alla

contrattazione collettiva e ai patti individuali» la possibilità di predisporre

condizioni di miglior favore. Si tratta di una classica ipotesi di vigenza del

principio di favore che, come accennato, permea il diritto del lavoro sin

dall’epoca della sua evoluzione garantista.

Sulla portata della possibilità di deroga attribuita all’autonomia privata e

sulle disposizioni oggetto della medesima, come già osservato ai fini della

rilevazione dell’evoluzione funzionale dell’istituto, la dottrina si è subito

divisa.

Mattia PERSIANI, che, peraltro, considerava tale modificabilità riferita

all’intero testo del novellato art. 2120 c.c., riteneva tuttavia che il regime

delle anticipazioni fosse limitatamente derogabile da parte dell’autonomia

privata, paventando che un’apertura illimitata avrebbe finito per snaturare 237 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 198.

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la funzione previdenziale tipica attribuita dal legislatore all’istituto,

funzione riscontrabile, del resto, nelle causali c.d. titolate di

anticipazione238.

Con un analogo percorso argomentativo, Antonio VALLEBONA delimitava

la modificabilità in meglio del regime delle anticipazioni a tutela delle

finalità proprie dell’istituto e della stessa possibilità di ottenere delle

anticipazioni; finalità «consistenti nella imposizione del risparmio di una

quota di retribuzione per fronteggiare esigenze di consumo essenziali di

carattere straordinario»239: la legge n. 297 sarebbe assistita, infatti, da un

generale principio di inderogabilità assoluta, la cui eccezione, in relazione

al regime delle anticipazioni, va delimitata per evitare che venga utilizzata

«per stravolgere il significato dell’intera legge»240.

Dalla premessa abbracciata, VALLEBONA traeva una serie di limiti al potere

derogatorio dell’autonomia privata: alcuni oggettivamente deducibili dalla

logica espressa nel dettato normativo; altri, più opinabili, ricostruiti

238 Cfr. Relazione, cit., p. 16 del dattiloscritto che leggo in G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento …, 1995, cit., p. 102. Lo stesso PERSIANI, come accennato, sosteneva che la legge n. 297 sarebbe permeata da una generale derogabilità sancita proprio dal comma 11 dell’art. 2120 c.c.; derogabilità che riguarderebbe, peraltro, anche il divisore 13,5, comunemente classificato dalla dottrina maggioritaria come assolutamente inderogabile. In effetti, la posizione del comma 11, a chiusura dell’art. 2120 c.c., potrebbe, a prima lettura, trarre in inganno, potendo essere sistematicamente riferito all’intero corpo della norma. E tuttavia, è sufficiente ricordare le vicende di emanazione della legge n. 297/1982 per correggere immediatamente il tiro. Nell’originario disegno di legge, infatti, la norma sulle condizioni di miglior favore chiudeva l’articolo dedicato esclusiva,ente alle anticipazioni; tuttavia, la difficile fase di approvazione parlamentare procedette ad un maldestro accorpamento di tutte le previsioni normative nell’unico art. 2120 c.c. novellato, ciò che generò la falsa ipotesi di una derogabilità in melius riferibile a tutto il corpo della norma in parola. 239 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 170. 240 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento… , cit., p. 166-167; in senso del tutto analogo, quanto all’inconfigurabilità di clausole patrizie che ledano la situazioni soggettive di singoli dipendenti v. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 124.

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116

proprio alla luce di una presunta funzione tipica, aprioristicamente

attribuita all’istituto in via interpretativa.

Quanto ai primi, appare giustificata l’interdizione di previsioni contrattuali

che ledano la par condicio tra gli interessati241: l’abbassamento

dell’anzianità di servizio minima per ottenere l’anticipazione, la possibilità

di ottenere l’anticipo per più di una volta ovvero l’ampliamento delle

cause di giustificazione legali non possono essere considerate condizioni

migliorative poiché rischierebbero di escludere (almeno alcuni) dei

soggetti aventi titolo per legge. I criteri legali, infatti, delimitano i possibili

concorrenti all’anticipazione: un ampliamento di tale bacino privo di un

corrispondente aumento della percentuale di prestazioni anticipabili, non

tutelerebbe l’interesse della generalità dei lavoratori, bensì quello di alcuni

o di una categoria soltanto di essi, provocando una contestuale lesione

degli interessi dei dipendenti legislativamente titolati.

Meno condivisibili risultano, invece, i vincoli fondati su una presunta

preordinazione funzionale del t.f.r.: secondo VALLEBONA, l’eventuale

deroga migliorativa potrebbe consistere nell’introduzione di nuove causali

solo se «collegate alla soddisfazione di bisogni fondamentali». Viceversa,

l’autonomia collettiva non potrebbe arrivare al punto di «escludere la

necessità di qualsiasi giustificazione, poiché ciò contrasterebbe con le

finalità dell’istituto del trattamento di fine rapporto e delle relative

anticipazioni consistenti nella imposizione del risparmio di una quota di

retribuzione per fronteggiare esigenze di consumo essenziali di carattere

straordinario»242. Si è già rilevato, tuttavia, come l’opzione metodologica

accolta nella conduzione della presente ricerca e basata sull’analisi della

241 Ne danno conto altresì G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 123-124. 242 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 170.

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disciplina positiva dell’istituto mostri l’attitudine della prevista ampia sfera

di derogabilità, attribuita all’autonomia privata, ad incidere e modificare la

natura e la funzione del trattamento. Va da sé che una regolamentazione

normativa di tal fatta rende l’istituto strutturalmente incompatibile con una

funzione rigidamente predeterminata ed intangibile.

Allo stesso modo l’AUTORE considerava nulla l’eventuale clausola che

prevedesse una periodica reiterazione acausale dell’anticipo, con il

conseguente sostanziale trasferimento delle somme accantonate in busta

paga: l’apertura alla deroga da parte dell’autonomia privata di un singolo

settore della disciplina non potrebbe essere utilizzata, infatti, per «ottenere

la pratica cancellazione dell’istituto legale attraverso questa via

indiretta»243. Costituirebbe conferma di tale interpretazione la attribuzione

all’autonomia collettiva della modificabilità della base di calcolo, «per cui

ove volesse temporaneamente comprimere o addirittura eliminare il

trattamento di fine rapporto potrebbe farlo in via diretta»244.

Alla ricostruzione, offerta nella nota monografia dedicata al trattamento di

fine rapporto, sia consentito, tuttavia, obiettare che:

- in primis, come si è evidenziato in precedenza, il regime delle

anticipazioni non può definirsi settoriale: se il legislatore lo ha

243 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit. p. 170. Si pronunciano in tal senso anche L. MENGONI, L’indennità in caso di morte del prestatore di lavoro dopo la legge 29 maggio 1982, n. 297, in MGL, 1983, p. 80 ss.; M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto: configurazione…, cit., p. 30; A. GARILLI, Prime riflessioni …, cit., p. 356; G. ZANGARI, Problemi e prospettive …, cit., p. 2001; nonché G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento… cit., 1995, p. 102, secondo cui l’anticipazione presupporrebbe «ontologicamente l’unicità della prestazione» mentre clausole di periodica anticipazione derogherebbero alla modalità temporale di esercizio del diritto, inderogabilmente fissata dall’art. 2120 c.c. al momento della cessazione del rapporto. Inoltre uno slittamento in busta paga dell’accantonamento maturato annualmente che prescindesse dalla richiesta effettuata di volta in volta dal lavoratore finirebbe per abolire lo stesso accantonamento (ma in tal senso si era già pronunciato anche MENGONI, op. ult. cit.) impedirebbe la stessa maturazione del diritto al t.f.r.. 244 A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit. p. 170.

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disciplinato a quel modo vuol dire che intendeva attribuirvi ben altra

rilevanza nell’economia complessiva della disciplina dell’istituto;

- in secondo luogo, proprio la predisposizione legislativa di una ulteriore

strumento di trasformazione e/o compressione dell’istituto (la

derogabilità della base di calcolo) conferma la generale volontà del

legislatore di “costruire” un istituto flessibile e (almeno

potenzialmente) polivalente.

Del resto, depone in senso contrario all’esistenza di una funzione

ontologicamente preordinata del t.f.r. la notevole evoluzione funzionale

subita dall’istituto: accanto al coté retributivo, più accentuato nella veste di

trattamento di fine rapporto, l’istituto continuava a conservare una

vocazione previdenziale, propria dell’originaria indennità di anzianità, e

tipizzata, dalla nuova disciplina, in specifiche ipotesi di “bisogno” del

lavoratore in ragione delle quali è possibile ottenere delle anticipazioni

sulle somme accantonate; ipotesi modificabili (come altri profili del

relativo regime) sino a declinare nuovamente l’istituto, con varia intensità,

in senso retributivo.

Quanto dedotto dall’analisi giuspositiva trova puntuale riscontro, peraltro,

nei lavori parlamentari245 e negli atti della Commissione Giugni246, a

riprova del fatto che la flessibilizzazione dell’istituto risponde ad una

precisa voluntas del legislatore e non è solo il frutto dell’interpretazione

offerta da una certa dottrina.

245 Si veda la Relazione Romei al Senato della repubblica del 21 aprile 1982 in Appendice a Il trattamento…, cit., di G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO. 246 «Viene infine previsto che i contratti collettivi e i patti individuali possano prevedere limiti più ampi nella corresponsione delle anticipazioni. Tale norma tende in primo luogo a consentire un eventuale evoluzione dell’istituto in base al consenso delle parti sociali…», Relazione al Disegno di legge n. 1830 concernente la «disciplina del trattamento di fine rapporto», presentato dal Presidente del Consiglio al Senato in data 17 marzo 1982, reperibile in G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, Allegati – Atti della Commissione Giugni, specialm. p. 316.

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L’osservazione degli elementi normativi positivi, insieme ad alcuni

suggerimenti dottrinali, induce a trarre conclusioni difformi rispetto alle

tesi prospettate. Sembra, infatti, che la lettera dell’art. 2120 c.c. contenga

una norma di più ampio respiro che consente all’autonomia privata, sia

collettiva che individuale, di incidere in maniera pressoché illimitata sul

regime normativo delle anticipazioni. Sembra, in altre parole, che la

contrattazione possa dilatare le ipotesi di anticipazione «in direzione di una

più ampia soddisfazione degli interessi dei lavoratori»247 sino al punto di

determinare uno slittamento in busta paga di tutte o buona parte delle

quote accantonate a titolo di t.f.r.; e che possa configurare anticipazioni

che, superando la misura massima legislativamente fissata nel 70% del

trattamento maturato, «integrino un vero e proprio prestito del datore di

lavoro garantito sul t.f.r.»248. Vero è che abbiamo scelto esempi piuttosto

lontani ( a quanto consta) dalla realtà; ma, del resto, si tratta di ipotesi,

seppure di confine, la cui mera configurabilità completa il complesso

quadro normativo della l. 297 restituendo un istituto vincolato nell’an e

(nella sua misura massima) nel quantum, ma «del tutto flessibile nel

quando»249.

La “capacità” di deroga riconosciuta alla contrattazione individuale e la

conseguente possibilità che le parti si accordino per un cadenzato

godimento del trattamento in pendenza di rapporto, lascia dedurre, poi, che

l’istituto non risponda «ad un interesse generale o collettivo, bensì

possieda una rilevanza meramente individuale, potendo ciascun lavoratore

concorrere a disegnare una propria storia personale quanto al godimento

247 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 123. 248 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, p. 123. 249 Ibidem.

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del t.f.r. e alle sue modalità temporali»250. Se l’inderogabilità della

precedente disciplina conferiva all’indennità di anzianità una finalità

sostanzialmente previdenziale e, dunque, generale, l’apertura della

disciplina del t.f.r. all’autonomia contrattuale rivela l’attribuzione, al

nuovo istituto, di una maggiore sensibilità ad opzioni individuali. Anche

attraverso il regime delle anticipazioni, infatti, il legislatore sembra tendere

ad abbandonare la classica posizione paternalistica e garantista nei

confronti dei lavoratori ed a favorire, per converso, una progressiva

riespansione dell’autonomia privata (specie collettiva, ma, in questa sede,

anche individuale).

Il lavoratore può, dunque, scegliere di conservare l’istituto, così come

disegnato nei suoi tratti essenziali dal legislatore, abdicando al proprio

potere di deroga e sfruttandone i risvolti di natura previdenziale, ovvero di

“autogestire” contrattualmente (almeno in parte) il proprio t.f.r., in ipotesi

sviluppandone la matrice retributiva. La più recente riforma della

previdenza complementare, peraltro, sembra confermare (come accennato

ante) tale capacità di sviluppo bidirezionale dell’istituto introducendo una

nuova modalità di utilizzo del t.f.r. con finalità squisitamente

previdenziali.

Con l’emanazione della riforma della previdenza complementare, tuttavia,

la possibilità, offerta dalla derogabilità del regime delle anticipazioni, di

incidere sulla funzione svolta dall’istituto, pur conservata intatta insieme

all’intero impianto normativo del 1982, viene subordinata all’esercizio “a

monte” di una scelta da parte del lavoratore. Solo conservando il diritto al

tradizionale emolumento di fine rapporto potrà attivarsi la “valvola”

funzionale disciplinata dall’art. 4 della l. n. 297/1982. Viceversa, aderendo

alla previdenza complementare, il lavoratore rinuncerà per sempre alla 250 Ibidem.

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possibilità di gestire contrattualmente le quote accantonande di t.f.r.,

accettando il nuovo regime introdotto dal d. lgs. 252 del 2005.

Quest’ultimo ha introdotto, peraltro, la possibilità di ottenere altresì delle

prestazioni anticipate dai fondi di previdenza complementare.

Si è già sommariamente illustrato, al par. 2.5 di questo capitolo, quali

siano le condizioni di accesso a tale beneficio; alla luce, inoltre, della

valenza funzionale della disciplina delle anticipazioni nell’ambito delle

legge n. 297/1982, nella stessa sede si è indagato il regime delle

anticipazioni erogate dai Fondi pensione per valutare se anche

quest’ultimo avesse delle ricadute funzionali sul t.f.r. ormai devoluto alla

previdenza complementare. Rinviando a quella sede per lo svolgimento di

più ampie valutazioni, sia consentito soltanto ricordare che dalla ratio

complessiva del decreto legislativo n. 252 nonché dalla lettura combinata

dell’art. 11, commi 1° e 7°, del medesimo decreto, sembra si possa

concludere per il carattere inderogabile, da parte della contrattazione

collettiva ed individuale, del regime delle anticipazioni erogate dai fondi

pensione. Trattandosi, infatti, di ipotesi in cui eccezionalmente il fondo

eroga prestazioni una tantum, restituendo al t.f.r., che ne costituisce fonte

di finanziamento, una sua vecchia prerogativa, il legislatore sembra non

consentirne la deroga da parte della autonomia privata. In tal senso, si

rivela anzitutto come, diversamente dalla legge del 1982, che contempla

esplicitamente la possibilità di deroga da parte della autonomia privata

(individuale e collettiva), la riforma del 2005 non contiene alcuna norma di

tenore analogo. Coerentemente, l’art 11, comma 1° che disciplina le

prestazioni erogate dalle forme pensionistiche complementari e, tra queste,

anche le anticipazioni, afferma esplicitamente al che soltanto le suddette

forme possono definire «i requisiti e le modalità di accesso alle

prestazioni».

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Un regime diversificato è destinato, invece, alle imprese con più di 50

dipendenti per i casi in cui siano tenute a versare le quote di t.f.r. maturate

dai dipendenti che abbiano optato per la conservazione del trattamento al

nuovo Fondo per l’erogazione del t.f.r.251 istituito presso l’INPS. Si è già

illustrato in precedenza che la suddetta istituzione non ha comportato

altresì una modifica della disciplina relativa al t.f.r., che resta

sostanzialmente quella contenuta nella l. 297/1982, anche quanto al regime

delle anticipazioni. Ciò vuol dire che i lavoratori hanno ancora la

possibilità di modificare, in via contrattuale, il suddetto regime con una

piccola particolarità: le erogazioni relative ad accantonamenti successivi

alla data di entrata in vigore della riforma resterebbero a carico del Fondo

medesimo. In altre parole, datore di lavoro e lavoratore possono accordarsi

circa le modalità di erogazione anticipata dell’emolumento retributivo il

cui onere economico grava, tuttavia, su un soggetto terzo rispetto ai

contraenti, ovvero sul Fondo in cui confluiscono mensilmente gli

accantonamenti di t.f.r..

È immaginabile che questo anomalo rapporto trilatero possa generare

svariati ordini di problemi e controversie, se solo si pensa, tra le altre cose,

alla cennata perdita di qualsiasi interesse da parte datoriale in relazione

alle quote di t.f.r. da versare al fondo e alla conseguente trasformazione

delle medesime in un’ottima posta di scambio a livello contrattuale.

La ricostruzione sin qui offerta suggerisce, in definitiva, che la derogabilità

in melius da parte della autonomia privata individuale e collettiva sia

sostanzialmente illimitata, con la possibilità di integrare ed ampliare le

condizioni di accesso e di godimento delle anticipazioni purché

251 Si veda la sintetica descrizione di cui al capitolo IV della presente ricerca.

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nell’interesse di tutto il personale e col solo limite del rispetto della

posizione dei lavoratori legislativamente titolati.

1.3. La derogabilità “anomala” del dividendo.

Nell’ambito di un’ideale classificazione delle tipologie di derogabilità

“concesse” dal legislatore dell’ ‘82 all’autonomia privata particolarmente

complessa è la definizione del regime riservato alla contrattazione

collettiva nella definizione del dividendo, ovvero delle voci di retribuzione

annua ricadenti nella base di computo del trattamento. L’art. 1, co. 2, l.

297/1982 consente, infatti, l’applicazione di deroghe “collettive” sia

migliorative che peggiorative alla nozione di retribuzione legislativamente

offerta. Depone in tal senso innanzitutto l’ampiezza della formula

normativa adottata, che si limita a fare salve le «diverse previsioni dei

contratti collettivi», mentre laddove il legislatore ha voluto consentire solo

deleghe in melius lo ha chiarito in maniera espressa, come nel regime delle

anticipazioni modificabile solo a fronte di «condizioni di miglior favore».

Dunque, tale “salvezza”- che secondo alcuni avrebbe ad oggetto una mera

«libertà»252 di intervento da parte dell’autonomia collettiva, mentre

secondo altri costituirebbe un rinvio che lascia alla definizione legale

«carattere meramente suppletivo»253 - si estende in due diverse direzioni:

per un verso consente ai contratti collettivi di derogare illimitatamente in

peius alla nozione onnicomprensiva di retribuzione accolta al legislatore;

per altro verso ed entro il tetto massimo costituito dalla retribuzione base

annua, permette alla contrattazione di incidervi in melius, fino ad estendere

252 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 60. 253 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit. p. 147 ss.

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la base di calcolo del t.f.r. ad ogni voce retributiva corrente, comprese

quelle occasionali254.

Sul piano modellistica siamo in presenza di una norma “semimperativa”,

cioè derogabile solo dalla autonomia collettiva e non da quella individuale,

norma cui l’ordinamento ricorre allorquando intende rendere flessibile il

precetto legale, mediante delega alla dialettica intersindacale, ma non

lasciarlo alla mercé di pericolose dinamiche dell’autonomia individuale,

implicanti il rischio di “sopraffazioni” contrattuali del datore di lavoro. La

peculiarità, nel caso di specie, è però data dal riconoscimento

all’autonomia collettiva di un potere di deroga bidirezionale, mentre in

genere le norme semimperative contemplano soltanto il potere di

intervento migliorativo dell’autonomia collettiva.

a) La ratio dell’attribuzione all’autonomia collettiva della possibilità di

derogare in peius la disciplina legale della base di computo del t.f.r. va

rinvenuta nelle finalità perseguite dalla novella: contrastare gli effetti

nefasti derivanti dagli automatismi retributivi e, al contempo, restituire al

confronto collettivo la più ampia gestione delle dinamiche retributive.

Sul punto avevano convenuto anche le parti sociali che, nelle occasioni di

confronto con la Commissione Giugni255, manifestavano l’ambizione di

riconquistare potere contrattuale in materia salariale, conservando la

nozione onnicomprensiva di retribuzione, cara alla giurisprudenza

dell’epoca256, ma smobilitando «il mito della sua intangibilità»257.

254 Sulla derogabilità sia in melius che in peius della retribuzione presa a base di computo si vedano le recenti Cass. 8 giugno 2005, n. 11960, in GD, 2005, n. 28, p. 76; Cass. 5 settembre 2003, n. 13010, in Rep. FI, 2003, voce Lavoro (rapporto), n. 1854. 255 I cui Atti leggo oggi in appendice al commentario di G. GIUGNI-R.DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit.. 256 Il contrasto sull’esistenza nel nostro ordinamento di un principio generale di onnicomprensività fu portato all’attenzione della S.C. che a Sezioni Unite lo risolse in senso critico (sentenza n. 5887 del 7 novembre 1981, in FI, 1982, I, p. 2183 con nota di DE LUCA e in MGL, 1982, I, p. 42 con nota di PERSIANI). La successiva Cass. 13 febbraio

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Un’ambizione che, peraltro, si sposava bene con un altro intento del

legislatore: quello di introdurre un sistema che consentisse la risoluzione in

via convenzionale delle eventuali questioni inerenti la composizione della

base di calcolo258, in modo tale da evitare vertiginosi incrementi di

contenzioso e, al contempo, dare «un’implicita risposta negativa»259 alla

presunta esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio generale e

inderogabile di onnicomprensività della retribuzione. Ne è derivata la

sicura possibilità per la contrattazione collettiva di espungere, dalla

1982, n. 914, in SGL, 1982, II, p. 18 e 50, tuttavia, sembrò subito disattendere l’orientamento; in seguito recuperato (si vedano la nota Cass. S.U. 13 febbraio 1984, n. 1069, LPO, 1984, p. 818, nonché la rassegna giurisprudenziale di V. DI NUNCIO, Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti in tema di retribuzione: onnicomprensività, parità, indennità di contingenza, in QDL, 1988, n. 4, p. 139), può dirsi oggi consolidato: Cass. 23 maggio 1990, n. 4635, in RFI, 1990, voce Lavoro (rapporto), n. 1244; Cass. 2 dicembre 1991, n. 12913, in RIDL, 1992, II, p. 883 con nota di GRAGNOLI; Cass. 13 febbraio 1992, n. 1786, in OGL, 1992, p. 315; Cass. 1 aprile 1993, n. 3888; Cass. 25 ottobre 1993, n. 10586, in RFI, 1993, voce Lavoro (rapporto), n. 1023; Cass. 5 novembre 1998, n. 11137, ivi, 1998, voce cit., n. 1188. Più di recente, v. Cass. 5 marzo 1999, n. 1883; Cass. 9 dicembre 1999, n. 13780. In dottrina sulla questione dell’onnicomprensività della retribuzione si vedano M. PERSIANI, I nuovi problemi della retribuzione, Padova, 1982, T. TREU, Problemi giuridici della retribuzione, in DLRI, 1980p. 24 ss.; M. DELL’OLIO, La retribuzione tra legge, contrattazione collettiva e giurisprudenza, in Ind. e sind., 1980, n. 38; F. BIANCHI D’URSO, Omnicomprensività e struttura della retribuzione, Napoli, 1984; M. D’ANTONA, Le nozioni giuridiche della retribuzione, in DLRI, 1984, p. 269 ss.; M. ROCCELLA, I salari, Bologna, 1986; PERONE, voce Retribuzione, in Enc. Dir., XL, 1989, p. 76. 257 Lo ricordano G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il Trattamento…, cit., p. 60. In tema di trattamento di fine rapporto, la giurisprudenza continua a riconoscere che l’art. 2120 c.c., nel testo novellato dalla legge 297 del 1982, accoglie, benché derogabile, un principio di onnicomprensività della retribuzione: così Cass. 5 novembre 2003, n. 16618, in RFI, voce Lavoro (rapporto), 2003, nonché Cass. 5 settembre 2003, n. 13010, ivi. 258 In tale ottica la Commissione lavoro della Camera introdusse la nuova definizione della base di calcolo, nell’intento, appunto, «di evitare ogni contenzioso» (cfr. Relazione Cristofori alla Camera dei deputati, del 12 maggio 1982 che leggo in Appendice a Il trattamento …, cit., di G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, p. 335 ss.). 259 Cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento …, 2007, cit., p. 64, che rileva parallelamente che la scelta fatta dal legislatore, oltre a restituire alla contrattazione collettiva la funzione di governare la retribuzione in generale, ha altresì ridimensionato il potere di intervento del giudice nella determinazione della retribuzione utile al calcolo del t.f.r..

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retribuzione annualmente presa a base di computo, una molteplicità di

indennità o voci retributive e stabilire, di volta in volta, se privilegiare la

retribuzione diretta ovvero gli istituti indiretti, adeguando la “portata”

dell’istituto alle contingenti condizioni di politica economica e sindacale.

Trattandosi, poi, di una derogabilità sostanzialmente illimitata, essa

consente, in via ipotetica, alla contrattazione collettiva di spingersi sino ad

un sostanziale svuotamento dell’istituto260, con una notevole incidenza,

come accennato, sul profilo funzionale del trattamento stesso.

b) Nella stessa ottica della restituzione all’autonomia collettiva della

questione retributiva, la legge ammette altresì la modificabilità in melius

della base di computo261, per esempio facendovi confluire anche le somme

corrisposte a titolo occasionale. In questa seconda direzione, tuttavia, la

possibilità di deroga incontra un vincolo forte nel primo comma dell’art. 2

(legge n. 297) che, imponendo che gli accantonamenti siano «pari e

comunque non superiori alla retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa

per 13,5», vieta di inserire nella base di computo compensi fittizi o

260 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 148. 261 Sembrerebbero andare di diverso avviso G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO che, nella ben nota opera di commento alla legge n. 297/1982, affermano che «dividendo e divisore .. sono assistiti da un regime di inderogabilità assoluta». In realtà l’affermazione, che, come si accennerà tra breve, non è passata inosservata, è seguita da un inciso di pari rilievo che fa «salvo quanto previsto nel comma secondo in ordine alla nozione di retribuzione annua». La contraddizione si ripete nuovamente nelle medesime pagine e, successivamente, nel commento alle norme del citato comma 2°, dove si analizza, tra le altre cose, «La derogabilità da parte dei contratti collettivi» (cfr. cap. 3°, par. 2°, p. 58 ss.). La particolare vicinanza degli Autori alla redazione stessa della legge e, al contempo, la probabile diversità dei rispettivi approcci interpretativi, suggerisce che la contraddizione in parola testimoni la dialettica scientifica che ha accompagnato la stesura del commentario. Vi da risalto, in maniera critica, G. SANTORO PASSARELLI, che anche nella più recente edizione della sua opera dedicata al Trattamento di fine rapporto (cit.), ritiene che i tra Autori siano caduti in un «equivoco piuttosto diffuso» (cfr. p. 61).

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figurativi262 e, in definitiva, di incrementare il trattamento di fine rapporto

oltre un certo limite, determinato in proporzione fissa (1: 13,5) rispetto al

salario corrente. L’imposizione di tale “tetto massimo” invalicabile, in

luogo delle consuete soglie minime di tutela garantite in materia di lavoro,

evidenzia la volontà del legislatore di vietare la crescita, oltre certi limiti,

del salario differito. Volontà che rispecchia appieno le finalità calmieratici

perseguite dal legislatore, il quale, come più volte accennato, fu chiamato a

riformare l’allora indennità di anzianità proprio allo scopo di arginare il

fenomeno delle superliquidazioni che contribuiva ad aggravare la crisi

economica attraversata dal paese263.

c) La previsione di un “tetto massimo” alla facoltà di deroga collettiva

completa ulteriormente la collocazione della fattispecie normativa in

esame all’interno dei classici modelli concernenti i rapporti tra legge e

autonomia privata La possibilità, infatti, di apportare deroghe

limitatamente peggiorative e limitatamente migliorative, attribuita peraltro

alla sola contrattazione collettiva, delinea un regime “anomalo”, anch’esso

frutto delle sperimentazioni mediatorie del legislatore, spinto, dall’onda

dell’emergenza, a forzare gli originari strumenti del diritto del lavoro. A

voler inquadrare la tipologia in esame, potremmo dire che si tratta di una

semimperatività bilaterale dove così la facoltà di miglioramento come

quella di peggioramento trovano specifiche limitazioni nella impossibilità

di gonfiare fittiziamente la complessiva retribuzione annua (base di

computo), alla quale non possono aggiungersi voci figurative ad esse

estranee e, per converso, nell’impossibilità di azzerare del tutto la 262 Tale conclusione è confermata del resto dalla previsione del terzo comma dello stesso articolo 1 che indica tassativamente i casi di inserimento di retribuzioni figurative nella base di calcolo. 263 Questa stessa volontà, tuttavia, costituisce secondo Vallebona, una conferma della inderogabilità generale della legge, le cui limitate eccezioni – tra le quali annovera anche la derogabilità del dividendo – costituiscono un’ulteriore conferma.

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retribuzione base sino a cancellare l’istituto così nelle sue declinazioni

previdenziali che in quelle retributive.

CAPITOLO III

LA DISCIPLINA DEL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO NELLA LEGGE N. 297 DEL 29 MAGGIO 1982

1. Il campo di applicazione oggettivo e soggettivo della legge n. 297 del 1982.

La legge 29 maggio 1982, n. 297, ha riformato completamente l’istituto

trasformandone, per l’ennesima volta, sia la denominazione che la disciplina e

restituendo al lavoratore italiano un novello “trattamento di fine rapporto” che

sostituisce in toto la vecchia indennità di anzianità.

Difatti, l’art. 1, comma 1, della legge citata, modificando il testo dell’art. 2120

c.c., ha confermato e generalizzato il principio della attribuzione dell’indennità

«in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro»264, a prescindere dalla causa

264 L’estensione oggettiva del campo di applicazione del trattamento – sottoforma di indennità di anzianità – a tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro era già stata operata dalla legge n. 604 del 1966, nonché dall’intervento della Corte costituzionale (per il quale si rinvia al capitolo I): sotto tale profilo la riforma appare «meramente confermativa», come ben rilevano G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (Il trattamento di fine rapporto, Cedam, Padova, 1984), evidenziando tuttavia, con altrettanta pregnanza, il rilievo sul piano della politica legislativa laddove il collegamento del trattamento di fine rapporto con l’anzianità di servizio maturata dal lavoratore presso il singolo datore di lavoro «contraddice subito le proposte di far riferimento alla complessiva anzianità di lavoro (e non di azienda) del dipendente, con eventuali processi di mutualizzazione dell’istituto e di allocazione dei fondi fuori dell’azienda». La questione appare oggi di rinnovato interesse, all’indomani dell’entrata in vigore di una riforma che, superando antiche reticenze, ha infranto il tentativo di gelosa conservazione della gestione dell’istituto in ambito endoaziendale, privando così le aziende di un importante canale di investimento e di auto-finanziamento.

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estintiva, dalla durata e dal tipo di rapporto (purché subordinato) – ivi compresi

quelli speciali, quali il lavoro a domicilio, quello sportivo265, a termine266 e

alcuni settori particolari come gli esattoriali e gli autoferrotranviari – ne ha

esteso la portata mediante l’introduzione di un unico criterio di computo

dell’indennità applicato indistintamente a tutti i lavoratori.

In particolare, il legislatore, con evidenti finalità perequative, ha disposto la

fruizione del t.f.r. da parte di «tutte le categorie di lavoratori» (art. 5, co. 5°), ivi

compreso il personale navigante con la qualifica di sottufficiale comune (art. 5,

co. 6°). Lo stesso articolo di legge (art. 5) individua, inoltre, un termine finale

entro il quale la suddetta equiparazione avrebbe dovuto ricevere attuazione,

lasciando intendere che tale attuazione fosse rimessa alla contrattazione

collettiva. La scelta di indicare una data ad hoc, differente rispetto a quella di

entrata in vigore della legge, è stata dettata da quel diffuso spirito di

compromesso sul quale si fondo l’intera disciplina: difatti ai timori espressi

dagli ambienti imprenditoriali, relativi ai costi dell’operazione di perequazione,

si opponeva la comprensibile aspettativa sindacale di un’immediata

generalizzazione del nuovo sistema. La soluzione adottata dal legislatore

intendeva, dunque, andare incontro alle legittime aspettative di entrambe le

parti.

La citata norma di cui all’art 5, comma 5°, va poi coordinata con l’art 4, comma

4° che sancisce l’applicazione della disciplina del t.f.r. a «a tutti i rapporti di

lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennità di anzianità, di

fine lavoro, di buonuscita, comunque denominate e da qualsiasi fonte

disciplinate»: entrambe rispondono alla medesima finalità «di razionalizzazione

265 Cfr. D’AVOSSA, Il T.F.R., Milano, 1988, p. 166 ss.. 266 Cfr. Cass. 11 gennaio 1988, n. 72, in NGL, 1988, p. 232; Cass. 17 novembre 1987, n. 8420, in OGL, 1988, p. 827.

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e di perequazione del trattamento di fine lavoro»267, ma mentre la prima norma

realizza tali obiettivi a livello intercategoriale, la seconda agisce in ambito

intersettoriale. In tal modo, la riforma sembra completare quel processo di

progressiva espansione dell’indennità di fine lavoro, a cui il legislatore aveva

precedentemente provveduto mediante interventi legislativi mirati268,

attribuendole un campo di applicazione soggettivo senza dubbio più ampio

rispetto al previgente disposto dell’art. 2120 c.c..

Quanto al profilo “oggettivo” di tale applicazione, è il caso di sottolineare che, a

fronte della generalizzata estensione dell’istituto, l’art. 4, al successivo comma

5°, fa salve le indennità erogate alla cessazione del rapporto di lavoro che

abbiano natura e funzione differenti rispetto alle indennità di anzianità, di fine

lavoro e di buonuscita comunque denominate. Per identificare le indennità

conservabili è necessario, dunque, quanto alla natura, che non sia retributiva, e

quanto alla funzione, che l’indennità sia finalizzata ad un evento particolare o

connessa alla condizione professionale del soggetto interessato269. La

giurisprudenza ha chiarito che il lavoratore conserva il diritto a percepire,

accanto al t.f.r. e senza alcuna decurtazione, le somme aventi un titolo diverso

ed autonomo rispetto al suddetto trattamento270. In tal senso, sono fatte salve le

indennità la cui corresponsione sia prevista dalla contrattazione collettiva, ad

esempio, nelle ipotesi di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro: si pensi

267 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 245. 268 Vedi capitolo I. 269 G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, Giappichelli, Torino, 2007, p. 17. 270 Cfr. Cass. 17 maggio 2002, n. 7210, in NGL, 2002, p. 821; Cass. 1 agosto 1998, n. 7456, in NGL, 1998, p. 604; Cass. 25 marzo 1996, n. 2627, in RIDL, 1997, II, p. 487; Cass. 1 febbraio 1994, n. 988, in DPL, 1994, p. 1174; Cass. 2 aprile 1992, n. 4038, in DL, 1992, II, p. 450, per la nullità delle clausole dei contratti collettivi che dispongano prestazioni integrative o duplicative del t.f.r.; Trib. Torino, 11 luglio 2000, in GL, 2000, n. 45, p. 36; Trib. Milano 4 marzo 1989, in OGL, 1989, p. 1088.

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alle varie forme di incentivo all’esodo271 oppure al collocamento a riposo in caso

di malattia, infortunio o inabilità, specie a seguito della stipula di una polizza

assicurativa volta a garantire il lavoratore di fronte a eventi di questo tipo. Ma

anche alla eventuale risoluzione per la maturazione di un elevata anzianità di

servizio (c.d. premio di fedeltà o di anzianità) o per evitare la disaffezione al

lavoro nell’ultimo anno di servizio272. Restano, infine, legittime le indennità

erogate in ragione della particolare qualificazione professionale dei prestatori di

lavoro273 ovvero per la coperture di un rischio professionale specifico.

Viceversa, in relazione ai trattamenti integrativi gli interpreti hanno prospettato

differenti soluzioni: l’obbligo di corresponsione immediata274, ovvero di

restituzione ai lavoratori dei contributi versati rivalutati275 oppure la necessità di

accantonare i suddetti contributi al 31 maggio 1982, insieme all’anzianità già

maturata276.

2. Il sistema di computo degli accantonamenti.

Il trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio «una quota pari

e comunque non superiore all’importo della retribuzione annua divisa per il

coefficiente 13.5»: l’ammontare determinato dalla somma di tali quote annuali

(opportunamente rivalutato alla luce dei criteri normativi che andremo ad 271 Cfr. Cass. 6 dicembre 2002, n. 17418, GCmass., 2002, p. 12. Il discorso è esteso, peraltro, alle ipotesi di indennità per anticipato collocamento a riposo per malattia, infortunio o inabilità: cfr. Pret. Milano, 28 febbraio 1987, in DPL, 1987, p. 2246; in senso contrario si veda Pret. Milano 11 luglio 1986, in DPL, 1986, p. 2813. 272 Si pensi alla c.d. indennità di lealtà attribuita in base ad alcuni accordi sindacali. In giurisprudenza, vedi: Cass. 25 marzo 1996, n. 2627, in RIDL, 1997, II, p. 487, con nota di CAVAGGIONI. 273 Si veda, per i giornalisti, il CCNL 11 aprile 2001. Cass. 3 novembre 1998, n. 11002, in MGL, 1999, n. 1-2, p. 160: Cass. 29 novembre 1996, n. 10681, in NGL, 1997, p. 418. 274 Si veda la pur risalente Pret. Roma, 16 maggio 1983, in GI, 1984, I, 2, p. 349. 275 In tal senso, cf. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit. p. 202. 276 Cass. 6 maggio 1987, n. 4213, in Rep. FI, 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 2831; Pret. Milano, 10 marzo 1983, in GI, 1984, I, 2, p. 349, e in dottrina D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p. 169; A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto di lavoro, Milano, F. Angeli, 1984, p. 142.

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illustrare) costituisce la somma dovuta dal datore di lavoro al dipendente al

momento della cessazione del rapporto di lavoro. La locuzione «per ciascun

anno di servizio» fa riferimento all’anno solare (e non all’anno di anzianità in

senso stretto), con ciò intendendosi che per il lavoratore assunto il 20 giugno

l’accantonamento a titolo di dovrà essere calcolata in misura proporzionale

all’anzianità di servizio maturata al 31 dicembre dello stesso anno. Il principio,

non esplicitato dal legislatore, è tuttavia agevolmente deducibile dal successivo

comma 4° dello stesso art. 1, secondo cui «il trattamento di cui al comma 1°,

con esclusione della quota maturata nell’anno, è incrementato, su base

composta, al 31 dicembre di ogni anno …»: diversamente opinando risulterebbe

del tutto insensato calcolare l’accantonamento in basa all’anno di anzianità e

applicare poi la rivalutazione al termine di ciascun anno solare277.

Gli elementi di computo individuati dal 1° comma dell’art. 2120 c.c., come

riscritto dalla legge 297 del 1982, potrebbero apparire, di primo acchito,

entrambi retti da un regime di inderogabilità assoluta laddove la norma stabilisce

che la quota da accantonarsi annualmente debba essere quantificata in misura

«pari e comunque non superiore» alla retribuzione annua divisa per 13,5. Tale

principio, tuttavia, viene ammorbidito in maniera parziale ma significativa nel

successivo 2° comma che restituisce alla autonomia collettiva la sua propria

funzione contrattuale attraverso la possibilità di ridisegnare, almeno in parte, la

struttura qualitativa del parametro retributivo278.

La retribuzione annua presa a base di calcolo (dividendo) dalla lettera dell’art.

2120 c.c. è quella “dovuta” per ciascun anno di servizio, dovendosi considerare 277 Del resto, non si comprenderebbe altrimenti in che modo il datore di lavoro potrebbe adempiere all’obbligo di comunicare entro il 31 marzo di ogni anno agli Istituti previdenziali «i dati relativi all’accantonamento effettuato nell’anno precedente» (cfr. art. 2, l. 297/1982). 278 Cfrr. G. GIUGNI –R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 59. Sul regime che assiste le diverse componenti del criterio di computo introdotto dalla legge n. 297 del 1982, sia consentito rinviare al cap. II della presente ricerca.

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“dovute” non soltanto le somme di fatto percepite dal lavoratore a titolo di

retribuzione, ma anche quelle divenute liquide ed esigibili durante l’anno anche

se non corrispostegli materialmente dal datore di lavoro inadempiente. Il

legislatore, in altre parole, si è discostato dal criterio di cassa (premiale rispetto

ai possibili inadempimenti datoriali), preferendo adottare un criterio di

competenza, volto a computare il t.f.r. su tutto quanto è entrato a far parte del

patrimonio del lavoratore a prescindere dall’effettiva corresponsione del datore

di lavoro. Di conseguenza, a titolo esemplificativo, le eventuali pronunce

giudiziali che riconoscano retroattivamente al lavoratore il diritto a percepire

determinate spettanze retributive comportano l’imputazione delle medesime

somme all’anno in cui sarebbero originariamente spettate (al netto di interessi e

rivalutazione disposti dal giudice)o, più precisamente, al momento in cui la

relativa obbligazione retributiva si è perfezionata. Ciò vuol dire che occorre

verificare il momento in cui il credito del lavoratore è divenuto liquido ed

esigibile: l’emolumento sarà riconducibile al relativo anno, dovendosi prendere

in considerazione il momento del perfezionamento dell’obbligazione retributiva

in capo al datore di lavoro. solitamente tale momento coincide con quello di

esecuzione della prestazione medesima e tuttavia in molte ipotesi tale principio

viene derogato: un premio di produzione proporzionale alla produttività annua

del lavoratore sarà quantificabile solo dopo il 31 dicembre e dunque diventerà

liquido ed esigibile solo nell’anno successivo, anche se formalmente e

casualmente imputato all’anno lavorativo in corso279.

I caratteri di certezza e liquidità non sono sufficienti, com’è ovvio, a mettere in

discussione il momento di esigibilità del trattamento, che, come accennato al

cap. I, par. 3.3., coincide con la cessazione del rapporto e non è anticipabile (se 279 Lo stesso criterio è ripetibile per le provvigioni, le partecipazioni agli utili, le mensilità aggiuntive. Per queste ultime in particolare è opportuno precisare che, in ragione della loro maturazione di mese in mese, nel caso di cessazione del rapporto nel corso dell’anno solare esse sono attribuite in dodicesimi.

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non nelle ipotesi e con le modalità normativamente previste) e tuttavia la

giurisprudenza ha ammesso l’esercizio di azioni accertamento del credito

durante il rapporto di lavoro280.

Quanto al divisore 13,5, si tratta di un numero scelto per rispecchiare nel modo

più fedele possibile la struttura retributiva italiana, ripartita generalmente in 13

mensilità, ma talora anche per 14 o più (sotto forma di premio o gratifica), tal

che la divisione della retribuzione annua per questo numero dovrebbe indicare

una somma pari all’incirca ad una mensilità media annua.

Il legislatore hai provveduto a “blindare” il sistema di computo rendendo il

divisore inderogabile da parte sia della autonomia collettiva sia di quella

individuale; un’inderogabilità che, quanto al relativo “segno”, deve intendersi

decisamente bi-direzionale, essendo immodificabile sia in melius che in pejus.

Non sembrava possibile, invece, estendere l’inderogabilità assoluta al tasso di

rivalutazione delle quote che, secondo accorta dottrina, sarebbe rimasto alla

mercé delle migliorie convenzionali281.

L’effetto perequativo del nuovo trattamento di fine rapporto, cui si accennava in

apertura, non rappresenta, peraltro, l’unica conseguenza vantaggiosa della

riforma. Il nuovo criterio di computo, in particolare, incide positivamente su

alcuni profili patologici del rapporto di lavoro prodotti, viceversa, dal precedente

assetto dell’indennità di fine lavoro. Si fa riferimento al frequente ricorso ad

interruzioni fittizie del rapporto, finalizzate a frodare la disciplina dell’indennità

di anzianità frazionando la durata del servizio e impedendo, di fatto, che

280 Cfr. Cass. 9 aprile 1992, n. 4329, in OGL, 1992, p. 734; Cass. S.U. 15 dicembre 1990, n. 11945, id., 1991, p. 957; Cass. 6 febbraio 1990, n. 825, in DPL, 1990, p. 1568; Cass. 17 novembre 1989, n. 4933, cit.; Pret. Ancona, 2 novembre 1990, in RIDL, 1991, II, p. 806. Viceversa non è stata ammessa l’azione di accertamento in costanza di rapporto circa la computabilità di una specifica voce retributiva ai fini del T.F.R.: cfr. Cass. 11 gennaio 1990, n. 46, in FI, 1990, 1, p. 1229 e in DPL, 1990, p. 1231. 281 Così G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 47.

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l’ammontare dell’emolumento potesse aumentare con quella progressione

geometrica propria del criterio di computo previsto dall’originario art. 2120

c.c.282. Dal punto di vista dei lavoratori, poi, l’istituto dell’indennità di anzianità

favoriva un attaccamento alle anzianità di mestiere senza dubbio ostativa della

mobilità esterna della forza lavoro che avrebbe inevitabilmente penalizzato i

lavoratori283.

Anche la mobilità interna verticale trae giovamento dalla riforma dell’indennità

di anzianità poiché nel nuovo assetto la progressione di carriera non si traduce in

una immediata moltiplicazione della futura indennità di fine rapporto del

lavoratore, producendo effetti solo sugli accantonamenti a venire e non anche su

quelli relativi al pregresso periodo lavorativo. Ciò si traduce peraltro in una

maggiore prevedibilità complessiva dei costi per le imprese284, poiché la

commutabilità del trattamento anno per anno elimina le incertezze legate alla

verifica dell’ultima retribuzione percepita dal lavoratore quale base di computo

per l’indennità.

D’altra parte, accanto alle ricadute positive del nuovo sistema di computo,

occorre dar conto anche di alcuni degli svantaggi prodotti dal nuovo regime. In

merito al divisore 13,5, per esempio, si rilevava285 un peggioramento per gli

282 Ne rende conto, tra gli altri, P. TOSI, Inquadramento unico e indennità di anzianità, in RTDPC, 1973, p. 804. Ci si aspettava, peraltro, che tale argine al fenomeno delle interruzioni fittizie di rapporto avrebbe deflazionato il contenzioso in materia di determinazione dell’emolumento di fine rapporto e, tuttavia, come previsto dalla dottrina, molti nuovi profili problematici avrebbero ben presto sostituito degnamente il problema. Tra i lungimiranti, A. CESSARI, Ascesa e declino di un istituto, in RIDL, 1982, I, p. 427; P.G. ALLEVA, Legislazione e contrattazione collettiva nel 1981-1982, in GDLRI, 1982, p. 532; G. PERA, Il trattamento di fine rapporto, in DL, 1983, I, p. 9. 283 Cfr., ex plurimis, R. DE LUCA TAMAJO, Il trattamento di fine rapporto, in GDLRI, 1982, pp. 440-441; A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 29; G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 50; 284 Così R. DE LUCA TAMAJO-G. GIUGNI, Commento all’art. 1 della legge 297del 1982, in NLCC, 1983, p. 262, e successivamente G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 51. 285 Cfr. P.G. ALLEVA, Legislazione…, cit., p. 534; R. DE LUCA TAMAJO-G. GIUGNI, Commento…, cit., p. 261; D’AVOSSA, Il trattamento…, cit., p. 15.

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interessi dei lavoratori rispetto al coefficiente 12 adottato per la vecchia

indennità di anzianità. Sul punto, però, Antonio VALLEBONA replicava

condivisibilmente che non è «proponibile un confronto tra i due istituti limitato

ad un solo elemento, dovendosi all’uopo tener conto di tutti i vantaggi e gli

svantaggi derivanti al lavoratore dal nuovo sistema rispetto al precedente»286. Un

più diretto svantaggio sembra interessare, invece, i lavoratori più virtuosi, con

una rapida crescita professionale, che risultano senz’altro danneggiati

dall’abolizione del moltiplicatore dell’ultima retribuzione percepita.

In piena coerenza con il descritto sistema di computo, fedele al monte

retribuzione percepito, l’ultima parte del comma 1°, art. 2120 c.c. specifica che

“la quota annuale è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno”. La

precisazione sarebbe stata forse deducibile anche in via interpretativa dal tenore

complessivo della norma, ragion per cui alcuni non hanno esitato a definire la

previsione in parola “superflua” alla luce del fatto che il proporzionamento

introannuale del trattamento deriverebbe, in ogni caso, «dalla sua stessa

struttura, fondata su di un meccanismo di calcolo che ne consente l’automatico

adeguamento a qualsiasi periodo di lavoro, anche minimo, prestato

nell’anno»287. Altri, di diverso avviso, hanno attribuito alla norma una

sostanziale coerenza sistematica riconoscendole di aver eliminato in nuce

l’insorgenza di eventuali dubbi sia in ordine alla rilevanza della sola retribuzione

relativa ai mesi di effettivo svolgimento del rapporto, e non anche di quella

astrattamente dovuta per l’intero anno288, sia in merito alla spettanza del t.f.r.

286 Così A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 30. 287 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 74. 288 Sul punto si veda A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto per i lavoratori, in GC, 1982, X, p. 376. Lo stesso autore (v. Il trattamento di fine rapporto di lavoro, cit. p. 74) considera “inaccettabile” l’attribuzione di tale funzione alla previsione normativa in esame, anche perché renderebbe inutile la successiva disposizione sulle frazioni di mese. In giurisprudenza si veda la pur risalente Cass. 18 febbraio 1987, n. 1778.

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anche in caso di cessazione di rapporti di durata inferiore all’anno. Tale

principio289, tutt’altro che pacifico prima dell’entrata in vigore della legge 604

del 1966, venne cristallizzato quanto all’indennità di anzianità solo dall’art. 9

della predetta legge che ne attribuiva il relativo diritto “in ogni caso di

risoluzione del rapporto di lavoro”. con la successiva modifica dell’art. 2120 c.c.

ad opera della legge 297/1982, il principio si ritenuto automaticamente

estensibile al nuovo trattamento di fine rapporto.

L’ultima parte dell’art. 1, l. 297/1982, detta, infine, le modalità di

arrotondamento delle frazioni di mese stabilendo che, quando i giorni lavorati

sono pari o superiori a 15, la frazione deve computarsi come mese intero. È

evidente che per il tempo non effettivamente lavorato la norma impone di

riconoscere egualmente una retribuzione figurativa come se il dipendente avesse

prestato attività per l’intero mese. Non sembra godere di altrettanta evidenza la

deduzione, formulata a contrario rispetto al criterio di arrotondamento enunciato

dalla norma, che considera irrilevanti, ai fini del computo del t.f.r., le frazioni di

mese inferiori a 15 giorni.

Affidandosi, infatti, al classico brocardo latino ubi lex voluit, dixit , si potrebbe

agevolmente concludere che, se la norma si è limitata a disciplinare

l’arrotondamento a mese di un numero di giorni lavorati uguale o superiore a 15,

nulla di più intendeva stabilire neppure per quanto attiene alle frazioni di mese

inferiori a 15 giorni. Se è vero infatti che tale norma introduce «un’eccezione

rispetto alla regola generale del computo nella base di calcolo delle sole somme

effettivamente corrisposte», poiché dispone a favore del lavoratore,

l’inserimento in tale base anche della retribuzione figurativa relativa a giorni del

mese non lavorati, allora trattandosi di norma speciale «occorre limitarne la

portata … a quanto espressamente previsto dal legislatore, mentre per quanto

non è detto deve continuare ad operare il principio generale»; di tal ché «per le 289 Come si è avuto modo di accennare al capitolo I.

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frazioni di mese inferiori a quindici giorni, non espressamente disciplinate,

occorre applicare la regola generale che impone il computo di “tutte le somme

corrisposte in dipendenza del rapporto”»290. Tale approccio interpretativo, è

stato di recente “recuperato” dalla Corte di Cassazione291 che, ribaltando la

posizione assunta, ben quindici anni prima, con sentenza del 27 aprile 1987, n.

4057292, ha sostenuto, la rilevanza e conseguente computabilità dei periodi di

lavoro inferiori a quindici giorni con gli stessi criteri di proporzionalità che

permeano l’interop meccanismo di computo introdotto dalla legge 297/1982.

Con la citata pronuncia n. 4057/1987 la Suprema Corte negava il diritto del

lavoratore al t.f.r. per frazioni di rapporto di lavoro ovvero per rapporti di lavoro

di durata inferiore ai quindici giorni ritenendo in particolare che gli unici

elementi “temporali” presi in considerazione dal legislatore nell’art. 1 della l.

297/1982 fossero «solo gli anni e i mesi»293, identificando l’arco temporale

minimo, affinché possa maturare il diritto al t.f.r., inderogabilmente nel mese

intero, al quale, in modo altrettanto espresso vengono equiparate le frazioni di

mese eguali o superiori a quindici giorni294.

In dottrina, anche i sostenitori di tale orientamento manifestarono apertamente le

proprie perplessità sull’argomento notando che, nella scelta perseguita, il

legislatore sembrava «non essersi liberato fino in fondo dell’idea della

retribuzione differita», collegata al computo dell’indennità di anzianità e alla

specifica rilevanza, al suo interno, del fattore temporale. Viceversa, il nuovo 290 Il virgolettato è tratto da A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 75. 291 Si fa riferimento alla sentenza n. 13934 del 25 settembre 2002 leggibile in RIDL, II, 2003, p. 320 con nota di ROSSI, e in OGL, 2002, p. 871 con nota di BOSSONO. 292 OGL, 1988, p. 246. 293 Così Cass. n. 4057 del 1987, cit. 294 Cfr. E. M. ROSSI, Rapporti di durata inferiore a quindici giorni e t.f.r., nota a Cass. 13934/2002, cit., il quale ricorda che accanto a tale ordine di ragioni, la Corte ritenne, nel 1987, di sposare tale orientamento anche sulla base di argomentazioni letterali, ovvero enfatizzando il tenore letterale dell’ultima proposizione dell’art. 1, l. 297/1982 che espressamente riferimento alle frazioni di mese pari o superiori a quindici giorni, nulla dicendo in merito alle frazioni inferiori.

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meccanismo di computo introdotto dalla l. 297/1982 rende del tutto irrilevante la

durata del rapporto di lavoro poiché parametra (e proporziona) il trattamento

spettante al lavoratore direttamente alla retribuzione percepita, privando il

fattore temporale di qualsiasi capacità moltiplicatoria. Del resto, i commentatori

che rinvengono nel dettato normativo un principio di irrilevanza dei periodi

lavorati inferiori a 15 giorni hanno dovuto fare i conti con le conseguenze,

logiche quanto problematiche, di una simile chiave di lettura. Affermare infatti

la non commutabilità dei periodi lavorative di durata inferiore a 15 giorni induce

a concludere che i rapporti di lavoro che hanno una pari durata complessiva non

attribuiscono affatto al prestatore di lavoro il diritto al trattamento di fine

rapporto. Questa conclusione, però, non solo configgerebbe con il primo comma

dello stesso art. 1, l. 297/1982, che afferma la spettanza del t.f.r. «in ogni caso di

cessazione del rapporto» e, dunque, qualunque ne sia la durata, ma solleverebbe

anche inevitabili dubbi di costituzionalità295. L’unico modo per uscire da

quest’empasse era, dunque, ridurre la portata della norma disciplinante

l’arrotondamento dei periodi di lavoro superiori a 15 giorni a mera modalità di

computo del trattamento di fine rapporto. Dopo aver deliberatamente privato la

norma di qualsivoglia portata sostanziale, si impedivano, di fatto, le

conseguenze problematiche derivante dall’opzione interpretativa prescelta: a tale

approccio autoreferenziale, allora, sembra preferibile concludere che la norma,

in maniera più lineare e coerente con l’intero meccanismo di calcolo adottato

dalla legge 297/1982, affermi implicitamente la commutabilità in proporzione

anche dei periodi di lavoro inferiori a 15 giorni.

Sembra pacifica, invece, la impossibilità di arrotondare l’eventuale periodo di

lavoro inferiore a quindici giorni, sia nell’ambito di un più ampio rapporto di 295 Si ricordi, peraltro, che in relazione all’indennità di anzianità la Corte costituzionale si era già pronunziata sul punto, con sentenza n. 204 del 1971, cit., dichiarando l’illegittimità dell’art. 2120 c.c. nella parte in cui escludeva che l’indennità fosse dovuta al prestatore con un’indennità di servizio inferiore all’anno (cfr. cap. I, nt. 59).

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lavoro (per coloro che ritengono tali frazioni di mese computabili nel

trattamento di fine rapporto), sia nell’ipotesi in cui il periodo in questione copra

per intero il rapporto296; né tantomeno è prefigurabile una cumulabilità della

eventuale frazione di mese lavorate nel mese di assunzione con quella lavorare

nel mese di cessazione del rapporto: i due periodi vanno valutati singolarmente

alla luce della norma sugli arrotondamenti cui si è accennato poc’anzi.

2.1. Il dividendo.

Il comma 2° dell’art. 2120 c.c. detta i criteri di individuazione della retribuzione

annua che costituisce la base di computo per la determinazione della quota

annuale da accantonare a titolo di T.F.R.. Condivisibilmente, all’indomani della

riforma, la dottrina evidenziò che se da un lato la nuova struttura del t.f.r.

presentava un forte potenziale di «litigiosità interpretativa»297, poiché potrebbe

proporsi un autonomo contraddittorio in relazione alle voci computabili in

ciascun singolo accantonamento annuale, per altro verso, la medesima struttura

appariva in grado di «sdrammatizzare»298 tale potenziale litigioso in ragione del

fatto che gli esiti di un’eventuale controversia si sarebbero in ogni caso

riverberati solo sul computo della singola quota annuale e non più moltiplicati a

ritroso, come accadeva per l’indennità di anzianità, sull’intera durata del

rapporto. Ciononostante, il timore che si sviluppasse un ricco contenzioso in

ordine alle voci computabili nel dividendo si sono poi rivelate fondate,

diversamente da quella attesa “sdrammatizzazione”, derivante dall’indipendenza

del computo relativo a ciascuna singola annualità, che ha mostrato ben scarsa

efficacia. Piuttosto può rilevarsi l’effetto parzialmente deflativo del contenzioso

296 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 55. 297 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento di fine rapporto,cit…, p. 58. 298 Ut supra.

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prodotto dal carattere, inevitabilmente seriale, di alcune controversie: ciò che ha

influito, alternativamente, sul comportamento aziendale, in modo da prevenire

futuri giudizi, nonché sulle scelte dei lavoratori, demotivati ad intraprendere

un’azione legale in presenza di un consolidato orientamento contrario al

riconoscimento delle loro pretese299.

Prima di entrare nel merito del criterio di computo individuato dall’art. 1,

comma 2, della legge n. 297, va rilevato che la più importante novità introdotta

in merito dalla novella del 1982 consiste senz’altro nella derogabilità del

medesimo criterio ad opera dell’autonomia collettiva: una derogabilità che

presenta plurimi risvolti di notevole rilevanza sia sulla funzionalità dell’istituto,

in relazione alla quale si rinvia alla parte prima della ricerca, sia sulla nozione di

retribuzione accolta ai sensi del suddetto art. 1, comma 2.

In effetti, all’epoca della stesura della l. 297, all’esigenza di liberare il mercato

del lavoro dagli automatismi retributivi, restituendo alla contrattazione collettiva

quella capacità plenipotenziaria nel tempo sommersa da meccanismi involontari

di lievitazione delle voci salariali, faceva eco una parte ancora significativa della

giurisprudenza sostenendo l’esistenza nel nostro ordinamento di una intangibile

nozione onnicomprensiva di retribuzione, contenuta, si asseriva, nell’art. 2121

c.c. 300. Tant’è che neanche le Sezioni Unite della Cassazione erano riuscite a

“scardinare” tale convincimento: la sentenza n. 5887 del 7 novembre 1981301 era

stata subito disattesa302 e solo nel 1984 una ulteriore pronuncia delle Sezioni

Unite riuscirà a consolidare il principio dell’inesistenza, nell’ordinamento

299 Vedi giurisprudenza riportata nelle successive note. 300 In dottrina si veda A. TURSI, Problemi giuridici della retribuzione, in DLRI, 1980, p. 28 ss.; P. TOSI, La retribuzione …, cit., p. 522, M. PERSIANI, Problemi in tema di retribuzione, Cedam, Padova, 1982; A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 31 ss.; G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto, Milano, 1984, p. 65 ss. 301 In MGL, 1982, p. 42 con nota di M. PERSIANI. 302 Si veda la successiva sentenza n. 914 del 13 febbraio 1982 con cui la cassazione, a sezione semplice, ripiegava sul concetto di onnicomprensività della retribuzione.

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italiano, di una generale nozione onnicomprensiva di retribuzione303. Nelle

more, intanto, era stata emanata la riforma dell’indennità di anzianità, la cui

nozione di retribuzione accolta costituisce l’ennesima forma di compromesso

rinvenibile tra le righe del provvedimento.

Se è vero infatti che, nella individuazione della base annuale di computo del

t.f.r., il legislatore resta ancorato ad una nozione sostanzialmente

“onnicomprensiva” di retribuzione, è altrettanto vero che la nuova formula

incide sulla intangibilità di tale nozione ad opera della contrattazione collettiva,

autorizzando quest’ultima a ridisegnare la struttura qualitativa del parametro

legislativo, derogandovi sia in melius che in pejus304.

Attraverso la possibilità di derogare al criterio di computo della base di calcolo

degli accantonamenti, il legislatore affida, dunque, la “gestione” annua del

monte t.f.r. al tavolo delle trattative, consentendo la esclusione di una singola

voce o indennità mediante consapevole accordo tra le parti305. Le deroghe

possono essere stabilite, però, solo da contratti collettivi successivi all’entrata in

303 Cass. S.U. 13 febbraio 1984, n. 1069, in LPO, 1984, p. 818. 304 La previsione si fonda sul presupposto che la legge “consente alle parti collettive di concordare anche una delimitazione della retribuzione computabile, in eventuale - ma non necessaria - contropartita di altri patti vantaggiosi per il prestatore d’opera”: così Cass. 19 dicembre 1986, n. 7755, in MGL, 1987, p. 246, e successivamente, ex plurimis, Cass. 3 novembre1998, n. 11002, in MGL, 1999, p. 160; Cass. 5 settembre 2003, n. 13010, in Rep. FI, 2003, voce Lavoro (rapporto), n. 1854; Cass. 8 giugno 2005, n. 11960, in GD, 2005, n. 28, p. 76. La libertà di apprestare un regime differenziato delle varie componenti retributive e di concordare nuovi compensi o indennità, senza che questi producano effetti automatici sul T.F.R., restituisce all’autonomia collettiva ampi margini di manovra in materia salariale, consentendole, di volta in volta, di ridimensionare il T.F.R. in favore della retribuzione corrente o, viceversa, di incrementare la quota di retribuzione differita penalizzando quella diretta. La stessa clausola di salvezza, peraltro, riflette il duplice intento del legislatore di rinviare alla sede più congeniale la soluzione dei conflitti di carattere salariale e di favorire una struttura salariale elastica e meno appesantita da automatismi: cfr. parte I. 305 Evidenziano la necessità che la deroga risulti in modo chiaro ed univoco, Cass. 5 novembre 2003, n. 16618, in AC, 2004, p. 1094; Cass. 23 marzo 2001, n. 4251, in Rep. FI, 2001, voce Lavoro (rapporto), n. 1610; App. Bologna 27 ottobre 2000, in GL, 2001, n. 15, p. 45.

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vigore della riforma306, anche perché l’art. 4, penultimo comma, della l.

297/1982 sancisce espressamente la nullità e la sostituzione di diritto di tutte le

clausole dei contratti collettivi anteriormente regolanti, in qualunque modo, la

materia del T.F.R.307.

Se, dunque, può affermarsi che il motivo ispiratore della possibilità di deroga

attribuita alla contrattazione collettiva è stato quello di consentire alle

controparti sinadacali una delimitazione della retribuzione-base rispetto alla

definizione legalmente sancita (ad es. il rinnovo del CCNL metalmeccanici del

1997 escludeva dal computo la tredicesima mensilità), nulla esclude in via di

ipotesi che i contratti collettivi possano anche dilatare i criteri di computo della

retribuzione308, pur sempre nel rispetto dei limiti costituiti da quanto

effettivamente percepito o dovuto in dipendenza del rapporto di lavoro e dalla

non occasionalità delle relative somme.

Si ritiene che la dizione “somme corrisposte in dipendenza del rapporto”, oltre a

testimoniare il citato ancoraggio alla nozione onnicomprensiva di retribuzione,

comprenda ogni erogazione legata al rapporto di lavoro da un vincolo di

causalità309, con esclusione dei fattori meramente «eventuali, imprevedibili e

fortuiti»310 rispetto alla normale vicenda lavorativa, ovvero - utilizzando

l’aggettivazione propria del legislatore - occasionali. La stessa nozione sembra

abbracciare, dunque, non soltanto le voci retributive in senso stretto, ma anche la

zona grigia che si colloca tra queste ultime e i rimborsi spese (espressamente

306 Cass. 5 settembre 2003, n. 13010, cit.; Cass. 4 maggio 1994, n. 4301, in DPL, 1994, p. 2642. 307 In giurisprudenza si vedano Cass. 17 maggio 2002, n. 7210, cit.; Cass. 16 giugno 1994, n. 5841, in DPL, 1994, p. 3205; Cass. 1 febbraio 1994, n. 993, id., p. 1251. 308 Una deroga migliorativa, in senso più lato, si registrò in merito alla perequazione impiegati-operai disposta dall’art. 5, c. 4, legge n. 297/1982, che doveva essere attuata entro il 31. dicembre 1989 ma fu anticipata da taluni contratti, come ad esempio dal CCNL 11 maggio 1987 per l’industria dell’abbigliamento (di cui si veda l’art. 67) 309 In tal senso si veda D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p. 56. 310 La definizione è di G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità …, cit., p. 92.

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espunti dal computo) e nella quale si rinvengono corresponsioni a carattere

risarcitorio o indennitario (come le somme percepite in seguito a conciliazione o

pronuncia giudiziale, ovvero in conseguenza di una declaratoria di illegittimità

del licenziamento ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav., anche a titolo di

risarcimento311), nonché tutte le voci di risarcimento attribuite giudizialmente

per violazione di norme giuslavoristiche312, che, se erogate in dipendenza

esclusiva del rapporto di lavoro, divengono elementi del computo. Vanno quindi

computate tutte le somme che rinvengono esclusivamente nel rapporto di lavoro

l’elemento causale dell’erogazione: si fa riferimento, ad esempio, all’indennità

sostitutiva del preavviso, in ragione della sua «inerenza (quasi istituzionale) alla

normale vicenda del rapporto di lavoro»313, ovvero alla c.d. indennità i cuffia

che, nonostante l’eventuale discontinuità della corresponsione dovuta alle

assenze del lavoratore, costituisce in ogni caso una variabile tipica della

prestazione lavorativa, omogenea al normale svolgimento del rapporto314.

Viceversa, non vanno ricomprese nella retribuzione base annuale le

corresponsioni che hanno matrici estrinseche o estranee alla vicenda

lavorativa315 o alla condizione professionale del dipendente ovvero trovano

311 In tal senso cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento… cit., p. 64; G. PERA, Trattamento di fine rapporto, in FI, V, 1986, p. 211. 312 A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 57. 313 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 73. 314 Al contrario, l’ipotetica corresponsione di indennità corrisposte in ragione dell’attività lavorativa prestata, ma in circostanze del tutto occasionali ed atipiche rispetto alla normale prestazione di lavoro del dipendente, dovuta ad esempio alla adibizione a mansioni superiori per un mese soltanto, deve essere considerata eccezionale ed occasionale (cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 70. In particolare, con riferimento alle mansioni ordinariamente svolte, quale criterio di ricognizione della occasionalità del titolo, gli Autori che il concetto di non occasionalità possa essere identificato con quelli di “certezza” e “prevedibilità” della relativa corresponsione.) 315 Giurisprudenza recente ha considerato non computabili i versamenti effettuati dal datore di lavoro, in osservanza di un obbligo derivante da contratto collettivo, per la costituzione di un fondo pensionistico integrativo (Cass. 14 ottobre 2002, n. 14591, in OGL, 2002, p. 895; contra, Trib. Trieste 4 gennaio 2001, in LG, 2001, p. 670) sulla base della considerazione che

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origine in un titolo autonomo ed ulteriore rispetto al rapporto di lavoro316. Si fa

riferimento, ad esempio, alle agevolazioni riconosciute con riguardo ai beni o

servizi prodotti dall’azienda (si pensi allo sconto offerto al lavoratore

sull’acquisto dell’automobile prodotta dall’azienda per cui lavora): in tal caso

l’elemento causale dell’erogazione va rinvenuto in una circostanza esterna al

rapporto, eventuale e comunque lasciata all’iniziativa del lavoratore.

L’ulteriore requisito selettivo individuato dal legislatore ai fini della

computabilità nella base di computo del T.F.R. è costituito dal carattere non

occasionale delle somme prese in considerazione. Per “prestazione occasionale”,

secondo la recente interpretazione della Corte di Cassazione, deve intendersi

«solo quella collegata a ragioni aziendali del tutto eventuali, imprevedibili e

fortuite, mentre, all’opposto, la prestazione espletata con frequenza, ma non

necessariamente con periodicità assoluta, e che sia connessa alla particolare

organizzazione del lavoro, rileva ai fini del calcolo suddetto»317. L’approccio

interpretativo era stato adottato già dai primi commentatori della riforma,

evidenziando che il richiesto carattere non occasionale della prestazione

computabile «evoca il profilo causale dell’attribuzione, il motivo o la ragione

che hanno determinata»318 e può intendersi, indipendentemente dalla frequenza

della corresponsione, riconnesso ad una modalità non eccezionale bensì normale

tali emolumenti abbiano funzione previdenziale e non retributiva (nel senso proprio di corrispettivo della prestazione lavorativa resa). 316 In senso contrario, si veda G. PERA, Retribuzione e trattamento di fine rapporto, Relazione al Convegno svoltosi a Siena il 22 aprile 1983 su “Retribuzione, indennità speciali e rimborso spese”, a cui rinviano G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 64. 317 Cass. 19 giugno 2004, n. 11448, in LG, 2004, p. 1301; Cass. 22 agosto 2002, n. 12411, in FI, 2002, I, p. 3313; Cass. 28 maggio 2002, n. 12441, in GI, 2003, I, p. 1593 con nota di VITALETTI, Una conferma della Corte di Cassazione sul significato della nozione di “non occasionalità”. In dottrina, aveva già sostanziato la nozione di prestazione occasionale con gli emolumenti “eventuali, imprevedibili e fortuiti”, G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità …, cit., p. 92: cfr. nota 52. 318 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 67.

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o almeno stabilizzata della posizione professionale del dipendente319. In tal

senso, il requisito risulta certamente meno rigoroso di quello del «carattere

continuativo» previsto dall’art. 2121 c. c., poiché una erogazione può essere non

occasionale pur senza raggiungere la continuità320.

Entro i confini di tale accezione, rientrano nel computo anche indennità

corrisposte una tantum, se trovano causa nel vincolo sinallagmatico del rapporto

di lavoro, in ragione del fatto che nel trattamento di fine rapporto la base

retributiva rispecchia quanto effettivamente corrisposto e/o spettante al

lavoratore nell’arco di ogni singolo anno ed attinente «in modo non occasionale

al trattamento retributivo, in modo non atipico alla prestazione lavorativa»321.

Andranno, invece, espunte dal computo le somme o indennità «legate a cause o

prestazioni del tutto eventuali, atipiche, casuali o addirittura fortuite rispetto alla

normale vicenda lavorativa»322, ovvero a tutto ciò che, «non essendo

riconducibile ad una volontà preordinata – in quanto frutto di eventi esteriori e

contingenti più o meno prevedibili – esula dagli scopi e dal disegno che l’agente

si è originariamente prefisso di perseguire ed ottenere»323.

Quanto alla opportunità del requisito selettivo scelto dal riformatore324, che si

distaccava dal più immediato requisito della “continuità” utilizzato per

determinare l’ammontare della indennità di anzianità, all’indomani

dell’emanazione della legge si ritenne che «sarebbe stato più saggio fare

riferimento a tutto il percepito nell’anno, con la sola esclusione dei rimborsi

319 E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento di fine lavoro, Milano, 1982, p. 26. 320Per tutte Cass. n. 809 del 1988; Cass. 7 marzo 1990, n. 1796. 321 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 68. 322 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 67. 323 Così M. PERSIANI, Trattamento …, cit., p. 9. 324 Si ricordi che il requisito della “non occasionalità” fu introdotto dalla Camera dei deputati, nella seduta del 15 maggio 1982, apportando una modifica al testo del disegno di legge governativo già approvato in prima istanza dal Senato.

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spese in senso rigorosamente tecnico»325. L’osservazione, che evidenziava

l’innegabile incremento di difficoltà applicative legate all’adozione del nuovo

criterio selettivo, non teneva però conto delle differenze strutturali tra la

pregressa indennità di anzianità e il nuovo trattamento di fine rapporto.

Quest’ultimo, nel disegno del legislatore, è chiamato a rispecchiare, con la

maggiore fedeltà possibile, quanto corrisposto al lavoratore in ciascun anno di

lavoro ovvero quanto “di competenza” del lavoratore in ragione dell’attività

lavorativa prestata: sicché appare coerente che vengano esclusi da tale computo

solo i compensi che «per l’eccezionalità del titolo non appaiono rappresentativi

della vicenda retributiva, bensì si pongono rispetto a questa in un ambito di

casualità ed occasionalità»326.

Quanto alla verifica del carattere occasionale o meno di un determinato

emolumento, essa va svolta con riguardo a ciascun singolo dipendente e in

relazione a ciascun anno lavorativo (sebbene la Cassazione abbia affermato

altresì la possibilità «che la corresponsione di una somma ritenuta occasionale in

un singolo anno possa invece rivelarsi non occasionale, se riferita ad un arco

temporale maggiore»327), anche perché prestazioni originariamente accidentali

possono venire successivamente attratte con aspetti di ordinarietà nell’oggetto o

nelle modalità dell’impegno contrattuale, modificando l’esito della suddetta

valutazione. In effetti, la genericità del requisito della “non occasionalità” non

consente una aprioristica elencazione delle voci che lo soddisfano e lascia ampi

margini di intervento al lavoro dell’interprete.

In linea di massima, tuttavia, possono considerarsi ricomprese nella retribuzione

annuale tutte le voci o indennità legate a caratteristiche e variabili topografiche,

325 Così G. PERA, Il trattamento di fine rapporto di lavoro, saggio destinato agli scritti per Dante Gaeta, che rinvengo nel commentario di G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO . 326 Giustificano, in tal modo, l’accoglimento di una nozione “dilatata” di retribuzione base, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 68. 327 Così Cass. 5 giugno 2000, n. 7488, in NGL, 2001, p. 121.

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modali (come l’indennità per lavoro straordinario non occasionale, ovvero

richiesto continuativamente328, nonché, ad esempio, l’indennità di turno) ed

ambientali della ordinaria prestazione del dipendente (indennità di rischio, di

disagiata sede di maneggio denaro, ecc..). Sono analogamente computabili le

indennità di missione o di trasferta o estero329 (naturalmente nella parte in cui

non costituiscono un rimborso spese): in tali ipotesi occorre accertare se

nell’economia del singolo rapporto l’invio in missione o all’estero rappresenti

una modalità eccezionale ed accidentale o, viceversa rientrino tra le eventualità

possibili ed ordinarie, dovendosi considerare il relativo titolo, in quest’ultimo

caso, non occasionale.

Deve ritenersi computabile nel retribuzione annua anche il premio di

produttività stabilmente inserito nella gestione del rapporto, sì da poterlo

considerare ordinariamente connesso al rapporto di lavoro, anche

indipendentemente dal carattere continuo della relativa corresponsione al

singolo dipendente. Insomma - possiamo sintetizzare - purché si tratti di una

modalità premiale o indennitaria ordinariamente adottata nell’ambito dl rapporto

di lavoro330. Va computata altresì l’indennità sostitutiva del preavviso331: la sua

328 In giurisprudenza si veda, per la commutabilità del lavoro straordinario continuativo Cass. 5 agosto 1996, n. 7177 e Cass. 21 novembre 1998, n. 11815. 329 La c.d. indennità estero acquista natura retribuiva sia quando esplica «una funzione compensativa della maggiore gravosità e del disagio morale ed ambientale della prestazione all’estero» (cfr. M. N. BETTINI, Commento agli artt. 2120-2122 c.c., in G. AMOROSO-V. DI CERBO-A. MARESCA, Il diritto del lavoro, I, Costituzione, codice civile e leggi speciali, Giuffré, Milano, 2007, p. 938-939), sia laddove la stessa sia correlata «all’insieme di qualità e condizioni personali che concorrono a formare la professionalità eventualmente indispensabile per prestare lavoro fuori dei confini nazionali» (così, Cass. 19 febbraio 2004, n. 3278, in AC, 2004, p. 1466; Cass. 22 ottobre 2003, n. 15841, in Rep. FI, 2003, voce Lavoro (rapporto), n. 1851; Cass. 12 dicembre 2001, n. 15656, in NGL, 2002, p. 376; Cass. 24 febbraio 1993, n. 2255, in DL, 1993, II, p. 504, con nota di PILEGGI, Indennità estero in dollari, trattamento di fine rapporto e principio nominalistico) svolgendo altresì una “funzione incentivante” (in tal senso si veda Cass. 3 novembre 2000, n. 14388, in GL, 2001, n. 11, p. 82). 330 Sul punto si è pronunciata favorevolmente giurisprudenza piuttosto risalente nel tempo (cfr. Cass. 21 agosto 1987, n. 6986, in MGI, 1987) relativa altresì al premio di rendimento e di

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inerenza alla normale vicenda del rapporto lavorativo e del suo regime giuridico

la rende annoverabili tra le voci concorrenti a formare la base di computo del

t.f.r., specie alla luce del cennato principio per cui la eventuale natura risarcitoria

non ne preclude l’inclusione (v. supra).

Vi sono, infine, alcune indennità che risultano neutre rispetto alla occasionalità

e, viceversa, «si colorano e si qualificano rispetto a tale dicotomia solo per

effetto della frequenza temporale della relativa corresponsione»332. Ad esempio

il lavoro avvicendato o straordinario333 o notturno può integrare sia una modalità

produzione, anche se variabili (Cass. 21 agosto 1987, n. 6986, cit.) e anche se non corrisposti tutti gli anni (P. Milano 19 dicembre 1986, in DPL, 1987, p. 2019). 331 Cfr. per tutti Cass. 12 ottobre 1993, n. 10086, in MGI, 1993; Cass. 22 febbraio 1993, n. 2114, in MGL, 1993, p. 244, con nota di SBROCCA; Cass. 21 marzo 1990, n. 2328, in OGL, 1990, p. 235; Trib. Torino 10 febbraio 2005, in GD, 2005, n. 15, p. 90; Pret. Milano 5 ottobre 1993, in OGL, 1993, p. 973. 332 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 74. 333 Sulla computabilità nella retribuzione base annua dei compensi percepiti per lavoro straordinario, svolto non occasionalmente, si vedano, ex plurimis: Cass. 14 agosto 2004, n. 15889, in Rep. FI, 2004, voce Lavoro (rapporto), n. 1823; Cass. 26 maggio 2004, n. 10172, id., n. 1830; Cass. 3.9.2003, n. 12851, in Rep. FI, 2004, voce Lavoro (rapporto); Cass. 8 gennaio 2003, n. 96, in GL, 2003, n. 11, p. 24; Cass. 25 agosto 1997, n. 7966, in FI Rep. 1997, n. 1900; Cass. 5 agosto 1996, n. 7177, in FI Rep., 1997, voce Lavoro (rapporto), n. 103; nonché Trib. Napoli 5 gennaio 2005, a quanto consta ined.; Trib. Milano 23 dicembre 2004, in LG, 2005, p. 491; Trib. Napoli 22 gennaio 2001, in GL, 2001, p. 27; Trib. Parma 12 gennaio 2000, in RCDL, 2000, p. 431. Un più risalente orientamento aveva concluso, viceversa, che “il carattere fisso e continuativo della prestazione di lavoro straordinario non fa venir meno il carattere straordinario di essa e non trasforma il relativo compenso in retribuzione ordinaria e normale computabile nel T.F.R., ove manchi una precisa volontà anche tacita delle parti volta ad includere detto prolunga mento della prestazione lavorativa nell’orario normale” (Pret. Milano 16 ottobre 1990, in OGL, 1990, p. 200). In particolare vengono in considerazione l’abitualità ovvero la rispondenza ad esigenze aziendali sistematiche (Cass. 16 ottobre 1987, n. 7676, in Rep. FI , voce Lavoro (rapporto), n. 2681) nonché il carattere non saltuario delle prestazioni rese oltre il normale orario di lavoro (Cass. 28 settembre 1988, n. 5261, in Rep. FI, 1988, voce Lavoro (rapporto), n. 2306). Il ché significa che le stesse non devono essere svolte per soddisfare esigenze aziendali eventuali, imprevedibili e fortuite (Cass. 5 febbraio 1994, n. 1202, in Rep. FI, 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1644). Anche in tal caso, dunque, si valorizza nuovamente la cadenza temporale, sotto forma di frequenza e prevedibilità, quale elemento determinante per valutare la occasionalità (Cass. 1 settembre 2003, n. 12851, Rep. FI, 2003, voce Lavoro (rapporto), n. 1855; Cass. 29 gennaio 2001, n. 1211, in DPL, 2001, p. 1850). Sebbene di recente la Cassazione (con sentenza n. 16618 del 5 novembre 2003, in Rep. FI:, 2004, voce Lavoro (rapporto)) abbia confermato che «il principio di onnicomprensività della retribuzione accolto

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tipica ed ordinaria del rapporto di lavoro, sia rispondere ad un esigenza

episodica ed eccezionale dell’azienda. Di conseguenza, il relativo corrispettivo

potrà computarsi nella retribuzione base annua solo nell’ipotesi in cui la

frequenza e la prevedibilità lo rendano “non occasionale”: si tratta di una tipica

ipotesi in cui la cadenza temporale (e quindi la continuità) dell’emolumento

acquista nuovamente rilievo, sia pure in via sintomatica, per determinare la

occasionalità o meno del titolo334.

Resta escluso dal novero delle voci retributive computabili nella base di calcolo

per il t.f.r. il rimborso spese, inteso come restituzione di somme anticipate dal

lavoratore per effettuare spese nell’interesse del datore di lavoro, mentre le

erogazioni corrisposte per soddisfare una esigenza del prestatore di lavoro hanno

natura retributiva. La qualificazione, necessaria a determinare la computabilità o

meno di una determinata voce nella base di computo del t.f.r., va effettuata

valutando la struttura e la funzione della medesima e non appellandosi al nomen

iuris attribuitogli. Sono fatte salve, tuttavia, le voci qualificate dal contratto

collettivo come “rimborso spese”, dovendosi ritenere che in tal modo le parti

collettive abbiano voluto espungerle dal computo degli accantonamenti di t.f.r.,

utilizzando il potere di deroga loro attribuito dal dettato normativo335 Alcune

dal 2 comma dell'art. 2120 c.c., nel testo novellato dalla legge 297 del 1982, benché derogabile, comporta che se la prestazione di lavoro non è occasionale, la relativa retribuzione debba essere compresa nel trattamento di fine rapporto», salvo, naturalmente che «la contrattazione collettiva apporti una eccezione a tale regola in modo chiaro e univoco», va rilevato che in seguito alla negazione, anche giurisprudenziale, dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio di onnicomprensività della retribuzione, molti contratti collettivi hanno effettivamente sottratto il compenso per straordinario dalla base di calcolo del T.F.R. (v. il CCNL metalmeccanici del 1994, art. 20 ed il c.c. telecomunicazioni del 2000, art. 51). 334 Cfr. Cass. 25 settembre 2004, n. 19303, in MGL, 2005, p. 60 ma anche la ben più datata Cass. S.U. 24 febbraio 1986, n. 1102., nonché, in sede di merito, Trib. Napoli 22 gennaio 2001, in GL, 2001, n. 26, p. 27; Pret. Monza, 15 ottobre 1996, in RCDL, 1997, p. 375; esplicitano il requisito della regolare periodicità del lavoro notturno Cass. 1 settembre 2003, n. 12760,in MGL, 2004, 6, p. 33; Cass. 2 dicembre 1999, n. 13440, in MGI, 1999. 335 Lo evidenziano, in maniera piuttosto tranchant, M. N. BETTINI, Commento agli artt. 2120-2122 c.c., in G. AMOROSO-V. DI CERBO-A. MARESCA, Il diritto del lavoro, cit., p. 942 e

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indennità, poi, come l’indennità di trasferta, hanno natura ibrida: di esse sarà

computata, nella base di computo del t.f.r., solo la parte che costituisce

corrispettivo per la maggiore spendita morale e materiale affrontata dal

lavoratore e non anche le quote costituenti mero ristoro delle spese sostenute

fuori sede.

Infine, il legislatore ha implicitamente incluso nella base di computo del t.f.r.

“l’equivalente delle prestazioni in natura” (art. 1, comma 2, l. 297/1982),

dovendosi intendere per prestazioni in natura quei benefici aggiuntivi rispetto

alla retribuzione in senso stretto, ma anch’essi di carattere remuneratorio, volti

ad a agevolare il lavoratore nella soddisfazione di alcuni bisogni o esigenze di

vita. In relazione a tali emolumenti, bisogna innanzitutto espungere quelli non

corrisposti “in dipendenza del rapporto”; inoltre, occorrerà distinguere tra

benefici riconosciuti nell’interesse del lavoratore (computabili) e agevolazioni

funzionali all’interesse del datore o, al più, al soddisfacente svolgimento della

prestazione lavorativa (non computabili). Ad esempio l’automobile concessa in

uso al lavoratore andrà computata per equivalente solo se e per la parte in cui è

destinata ad uso personale del lavoratore; non sarà computabile, invece, se e per

la parte in cui serve al lavoratore per gli spostamenti di servizio336. Possono

tuttavia, si potrebbe obiettare che una deroga di tal fatta cozzerebbe con quella giurisprudenza che richiede che le deroghe risultino in modo chiaro e univoco. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (Il trattamento…, cit., p. 76) avevano rilevato questa discrasia, auspicando che le parti collettive avrebbero espressamente individuato in sede di contrattazione, i compensi esclusi dal computo del t.f.r., eliminando, in tal modo, ogni imbarazzo. Gli stessi AUTORI, tuttavia, riconoscono che se la contrattazione collettiva non dovesse dar corso ad una prassi del genere, la questione ricadrebbe inevitabilmente sui giudici che non potendo riconoscere nella sola denominazione di “rimborso spese” una chiara manifestazione di volontà derogatrice, dovrebbero indagare in concreto la natura dell’emolumento corrisposto. 336 Utilizzano questa esemplificazione G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 77. Tale distinzione non sussiste, naturalmente, se la autovettura è concessa esclusivamente quale forma di retribuzione in natura: in tal caso si computerà nella retribuzione annua il controvalore in denaro dell’uso e della disponibilità (cfr. Cass. 15 novembre 2002, n. 16129, in NGL, 2003, p. 175 e in Rep. FI, voce Lavoro (rapporto), 2004, n. 1484).

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rientrare nella definizione di retribuzione in natura anche alcuni fringe benefits,

ovvero quei benefici di carattere remuneratorio, aggiuntivi rispetto alla

retribuzione, volti ad agevolare il lavoratore nella soddisfazione di alcuni suoi

bisogni come ad esempio la concessione in uso della casa di abitazione337 o il

pagamento dei trasporti, ecc..

2.2. Il divisore (rinvio).

Si è già detto che il divisore indicato dal legislatore ai fini della determinazione

della somma annuale da accantonar a titolo di t.f.r. è costituito dal numero fisso

13,5: un coefficiente sul cui regime di inderogabilità assoluta abbiamo avuto

ampiamente modo di soffermarci, specie nell’ambito del capitolo II. Rinviando,

dunque, alla ricostruzione offerta e alle considerazioni sin qui svolte in relazione

al suddetto divisore, ci limiteremo ad un breve cenno riassuntivo al solo fine di

offrire un omogenea prospettiva di insieme del criterio di computo introdotto

dalla legge dell’82.

Va subito ricordato, in tale prospettiva, che sul regime di inderogabilità assoluta

del divisore non v’è stata unanimità di vedute, all’indomani dell’emanazione

della legge 297. Tra i primi commentatori, infatti, un’autorevole voce338

dissentiva sull’estensinsibilità dell’inderogabilità dell’elemento di computo

anche all’autonomia collettiva. Ragioni di carattere testuale, fondate sul

carattere non sufficientemente esplicito dell’ipotetica deroga al generale 337 Andrà computato, ad esempio, l’equivalente dei canoni di locazione dell’abitazione concessa in uso in via continuativa (Cass. 22 aprile 1987, n. 3914, in Rep. FI, 1987, voce Lavoro (rapporto), n. 2724), a meno che per tale uso non sia versato un corrispettivo, configurandosi, in tal caso, un rapporto di locazione (Cass. 21 gennaio 1988, n. 466). Si veda altresì la più recente Cass. 27 febbraio 1998, n. 2187, in RIDL, 1998, II, p. 643, secondo cui, per includere nella base di calcolo del T.F.R. voci come il godimento di il lavoratore ha “l’onere di indicare e provare le circostanze di fatto che stanno alla base della sua pretesa, tanto più se la stessa è oggetto di specifica contestazione”). 338 Si fa riferimento a M. PERSIANI che manifestò tali perplessità nella Relazione tenuta al seminario svolto a Roma il 24-25 marzo 1983 e di cui è leggibile un dattiloscritto a quanto consta inedito.

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principio di trattamento più favorevole per il lavoratore, nonché ragioni di

carattere interpretativo-sistematico, suggerite dalla successiva attribuzione alla

stessa autonomia collettiva della competenza esclusiva a determinare la

retribuzione-dividendo, mal si concilierebbero con l’impossibilità delle

controparti sindacali ad incidere sul divisore. A tali osservazioni,

immediatamente suggerite dal telaio della novella, si replicò percorrendo gli

stessi piani di indagine: quanto al dettato normativo, evidenziando

l’inconfutabile presenza di un dato testuale, e quanto all’approccio sistematico,

enfatizzando l’esistenza di una precisa volontà di paralizzare l’autonomia

collettiva proprio in relazione ad un parametro che, diversamente, avrebbe

prodotto variazioni quantitative autonome e discriminanti. attraverso

un’insistita valorizzazione della ratio della norma e delle finalità politiche

perseguite. Già la emanazione della legge n. 297, certamente ascrivibile a

quell’epoca così puntualmente definita di emergenza, era chiaramente

finalizzata a risistemare l’area delle indennità di fine rapporto e, tuttavia, la

piena apertura dei relativi termini alla contrattazione collettiva avrebbe privato

la novella di buona parte della sua effettiva funzionalità. Il nuovo t.f.r. avrebbe

effettivamente contribuito a riportare ordine ed equità nella “giungla retributiva”

soltanto rendendo immodificabile il dividendo e attribuendo alle sole controparti

sindacali la possibilità di incidere (e, dunque, soltanto collettivamente) sulla

determinazione della retribuzione base: ciò ha evitato qualunque forma di

discriminazione e/o, viceversa, di favoritismo, cristallizzando un meccanismo

quantomeno collettivamente equo.

Le medesime argomentazioni, valorizzanti la funzione sia della norma che del

vincolo di inderogabilità assoluta, furono utilizzate dalla dottrina prevalente339

per arginare ulteriori “attacchi alla diligenza”. Accadde, per esempio, quando si

339 Si veda E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, Il nuovo trattamento di fine rapporto, Milano, 1982.

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dubitò della legittimità costituzionale della norma rispetto al 1° comma dell’art.

39 della Carta, poiché impedire all’autonomia collettiva di incidere su «di un

istituto non certo trascurabile nell’economia di un rapporto»340 sembrava porsi

in contrasto con la libertà sindacale intesa come libertà di azione contrattuale del

sindacato. A tale censura, si rispose anche per altra via, ovvero attribuendo al

trattamento di fine rapporto funzione previdenziale: in tale ottica il vincolo di

inderogabilità imposto dalla legge appariva funzionale ad evitare che l’istituto

venisse «ridisciplinato in una logica differenziata ingiustificabile con la sua

funzione»341.

2.3. Le ipotesi di sospensione della prestazione.

Il 3° comma dell’art. 2120 c.c. disciplina la rilevanza dei casi di sospensione

della prestazione di lavoro ai fini del computo del t.f.r.. La norma in parola

stabilisce che nelle ipotesi di sospensione dell’attività derivante dall’esercizio di

un diritto (ex art. 2110 c.c.) ovvero in caso di sospensione «per la quale sia

prevista l’integrazione salariale», rientra nella base annuale di computo del t.f.r.

quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse regolarmente svolto la propria

attività342. La più attenta dottrina ha ritenuto che tale norma andasse interpretata

come «indicazione tassativa ed eccezionale dei casi di sospensione (totalmente o

parzialmente retribuiti dal datore) “utili” ai fini del computo» ovvero «assistititi

dal beneficio dell’accantonamento figurativo»343. Tale interpretazione, in effetti,

si rivela più fedele al sistema di computo introdotto dalla legge n. 297 ed

imperniato sulla proporzione degli accantonamenti a quanto effettivamente

percepito dal (rectius: effettivamente di competenza del) lavoratore in relazione

a ciascun anno. Il nuovo criterio di computo, quindi, non attribuisce rilevanza 340 Così D’AVOSSA, Il trattamento di fine rapporto, in Lavoro ’80, 1983, pp. 15-16. 341 Così M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, cit., p. 91 ss. 342 In giurisprudenza si veda Cass. 19 aprile 2003, n. 6375, in GD, 2003, n. 23, p. 53. 343 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 79.

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diretta alla anzianità in sé considerata: quest’ultima diviene elemento di

computo solo se ed in quanto sia accompagnata da una erogazione retributiva.

Deve concludersi, pertanto, che la norma dell’art. 1, comma 3°, della l. n.

297/1982 abbia carattere eccezionale e che i casi a cui fa riferimento siano

tassativi, sebbene la loro interpretazione possa dirsi «aperta all’applicazione del

metodo analogico»344. Per un verso, infatti, un’interpretazione di tal fatta appare

coerente con la struttura del t.f.r., per altro verso, il metodo analogico può

consentire di ammettere al beneficio anche ipotesi di sospensione di immediata

attinenza o assimilabilità rispetto a quelle indicate dall’art. 2110 c.c. (si pensi

alle ipotesi di sospensione previste in favore della lavoratrice madre345, alle

assenze per cure termali346, ai congedi per donatori di sangue347). La dottrina

sembra ritenere, tuttavia, che eventuali ipotesi di sospensione non contemplate

dall’art. 2120 c.c., comma 3°, che comunque comportano una retribuzione totale

o parziale (ad esempio, un’aspettativa con conservazione parziale della

retribuzione), possano essere computate in proporzione nel t.f.r., proprio in

ragione della fedeltà dell’istituto al monte retribuzione effettivamente percepito

344 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 81. 345 Si fa riferimento ai congedi previsti dagli artt. 7, comma 2, e 3, legge n. 1204/1971 e dall’art. 7, comma 1, legge n. 903/1977: si vedano, in tal senso, A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 78 e G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 82. La giurisprudenza, tuttavia, si è divisa sulla computabiltà dell’astensione facoltativa post partum e dei permessi per allattamento. In senso favorevole si vedano: Cass. 22 febbraio 1993, n. 2114,in MGL, 1993, p. 244, con nota di SBROCCA, Sulla computabilità dell’assenza facoltativa “post partum” agli effetti del trattamento di fine rapporto; Trib. Milano 17 maggio 2001, in RCDL, 2001, p. 745; Pret. Milano 7 gennaio 1998, in LG, 1998, p. 614; Trib. Milano 26 marzo 1991, in OGL, 1991, p. 439; in senso contrario: Trib. Milano 18 settembre 1999, in LG, 2000, p. 80; Pret. Milano 5 dicembre 1992, in DPL, 1992, p. 1959; Trib. Milano 3 luglio 1991, in OGL, 1991, p. 722. 346 C. cost. 29 ottobre 1987, n. 355, in GC, p. 1987; Cass. 6 settembre 1993, n. 9340, in DPL, 1993, p. 2978. 347 Disciplinati dalla legge 4 maggio 1990, n. 107, art. 13. In relazione ad essi si veda la sentenza della Corte costituzionale del 18 febbraio 1992, n. 52 (in FI, 1992, I, p. 1036).

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dal lavoratore348. Viceversa si è ritenuto, sempre in via interpretativa, che la

contrattazione collettiva non possa prevedere che nella base di computo del t.f.r.

confluiscano retribuzioni figurative relative a periodi diversi dalle sospensioni

tassativamente indicate dal 3° comma dell’art. 2120 c.c.349: tale norme, infatti,

diversamente dal 2° comma, non contiene una esplicita clausola di salvezza per

le diverse determinazioni raggiunte in sede di contrattazione collettiva350. Altra

parte della dottrina, in maniera più possibilista, osservando che il divieto di

pattuizioni di miglior favore contenuto nel comma 1° «non può essere ampliato

fino a consolidare un principio di inderogabilità assoluta di tutti i disposti della

legge»351, conclude che eventuali diverse pattuizioni migliorative, previste dai

contratti collettive potrebbero considerarsi valide nella misura in cui non siano

finalizzate a frodare la norme che impone un tetto quantitativo massimo al

trattamento, bensì realizzino un deroga al principio di irrilevanza della anzianità

di servizio tout court352.

Ritornando alla possibilità di estendere analogicamente la portata dell’art. 2120,

3° comma, c.c., deve ritenersi che per effetto del rinvio indiretto alla suddetta

norma vadano computate nella retribuzione base annua anche i periodi di

sospensione per richiamo alle armi e per l’addestramento degli iscritti al ruolo

volontario del Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco353, mentre è stata oggetto di

348 Cfr., in tal senso, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 84. 349 In tal senso si esprime G. FERRARO, Commento all’art. 4 della legge n. 297 del 1982, in NLCC, 1983, pp. 296, 303. 350 Cfr., in tal senso, A. VALLEBONA, Il trattamento …, cit., p. 158. 351 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 86. 352 Oltre agli Autori citati, sostengono la possibilità del contratto collettivo di ampliare le ipotesi di retribuzione c.d. figurativa P.G. ALLEVA, Legislazione e contrattazione collettiva nel 1981-1982, in DDLRI, 1982, p. 537 ss., F. LISO, Intervista, in Trattamento di fine rapporto in 46 domande, a cura di ODOARDI, Roma, 1983, p. 50-51; D’AVOSSA, Il trattamento …, cit., p. 25 (in nota); FILADORO, Il trattamento di fine rapporto, in LPO, 1982, p. 1589. 353 Cfr. D’AVOSSA, Il T.F.R. …, cit., p. 83 e G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 85.

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un certo dibattito dottrinale e giurisprudenziale la commutabilità del servizio di

leva militare. Quest’ultimo, se equiparato al richiamo alle armi, a sua volta

ricondotto, ex art. 2111 c.c., alle ipotesi di sospensione contemplate dall’art.

2110 c.c., dovrebbe rientrare nel beneficio di cui al comma 3° dell’art. 1, l.

297/1982. Tuttavia, poiché la legislazione anteriore e financo la Costituzione,

all’art. 52, comma 3°, tutelano la conservazione del posto e l’anzianità di

servizio maturanda nel corso del servizio di leva, ciò aveva fatto paventare,

all’indomani dell’entrata in vigore della l. 297, il possibile contrasto dell’art. 1,

comma 3, proprio con il cennato art. 52 della Costituzione354. Chiamata

effettivamente a pronunciarsi sulla questione, la Consulta concluse per la

legittimità dell’art. 1 , comma 3 (rectius: art. 2120 c.c., comma 3) nella parte in

cui non prevede il periodo del servizio militare di leva tra i periodi di

sospensione della prestazione computabili nel t.f.r., in quanto «la correlazione

del T.F.R. alle retribuzioni effettivamente percepite, esclude la computabilità dei

periodi di sospensione della prestazione di lavoro durante i quali il lavoratore

non conserva la retribuzione né direttamente, né in forme equivalenti di

previdenza»355.

Vanno presi in considerazioni, infine, i periodi di sospensione della prestazione

assistiti da intervento straordinario o ancora i periodi di riduzione dell’orario di

lavoro a seguito di contratti di solidarietà: la Cassazione ha affermato la 354 Il dubbio di incostituzionalità della norma, avanzato, tra gli altri, da FRANCESCHELLI, I principali punti controversi della l. 297, in Contrattazione, 1982, n. 5, p. 9 e A. GARILLI, L’applicazione della l. 297, in Contrattazione, 1982, n. 5, p. 46, trovava un precedente rilevante nella questione di costituzionalità della l. 303 del 1946 nella parte in cui prevedeva che i contratti collettivi potessero rendere computabile il periodo di leva agli effetti dell’indennità di anzianità: rimessa alla Corte costituzionale, la questione fu risolta dalla Consulta con sentenza n. 8 del 16 febbraio 1963 dichiarativa della incostituzionalità della norma in questione. 355 C. cost. 7 novembre 1989, n. 491, in OGL, 1989, p. 1084. In dottrina si erano già pronunciati in tal senso D’AVOSSA, Il T.F.R. …, cit., p. 76 e G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 82; e in giurisprudenza Cass. 5 aprile 1991, n. 3570, in DPL, 1991, p. 1698; Cass. 11 giugno 1990, n. 5660, id., 1990, p. 2710. Contra, G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità…, p. 130, P. G. ALLEVA, Trattamento..., cit., p. 151.

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computabilità nel t.f.r. delle quote maturate in tali periodi, considerati alla

stregua di lavoro effettivo356.

2.4. La rivalutazione delle quote.

Il nuovo sistema di accantonamento delle quote annuali, in attesa

dell’erogazione complessiva alla cessazione del rapporto, ha reso necessaria la

previsione di un adeguato meccanismo di indicizzazione ad evitare che, in un

periodo di inflazione, dal momento del calcolo all’erogazione si determinasse

una diminuzione del valore reale delle quote stesse.

La disciplina del T.F.R. ha quindi previsto un sistema di rivalutazione al 31

dicembre di ogni anno su base composta nel senso che non solo le quote (con

esclusione di quella maturata nell’ultimo anno sola re), ma anche ciascun

incremento diviene successivamente oggetto di rivalutazione.

Il tasso di rivalutazione previsto è unico, ma consta di due componenti - una

fissa e una variabile - costituite rispettivamente dall’l,5% in misura fissa e dal

75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed

impiegati, accertato dal l’ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell’anno

precedente357.

356 In tal senso, M. MISCIONE, La cassa integrazione. Come funziona, come si utilizza, Ediesse, Roma, 1983, p. 188. In giurisprudenza, più di recente, si è pronunciata la cassazione con sentenze n. 2398 del 26 febbraio 1992, in OGL, 1992, p. 483 e n. 3410, del 19 marzo 1992, in OGL, 1992, p. 488. 357 La giurisprudenza ha riconosciuto la possibilità, per i lavoratori, di ottenere il risarcimento del maggior danno per svalutazione monetaria, verificatosi fra l’estinzione del rapporto ed il saldo effettivo (cfr. Cass. 15 aprile 1991, n. 4005, in MGL, 1991, p. 268), risarcimento che compete anche nell’ipotesi di intervento del Fondo di garanzia per il T.F.R. (Cass. 15 maggio 2003, n. 7601, in GD, 2003, n. 23, p. 41; Cass. 23 marzo 2001, n. 4261, in RIDL, 2002, II, p. 795, con nota di PILATI, Sull’obbligo del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto di corrispondere gli interessi e la rivalutazione monetaria fino al saldo. Si veda inoltre App. Roma 4 agosto 2005, a quanto consta inedita.

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La scelta di un tasso misto al posto di una indicizzazione pura garantisce una

copertura piena del valore reale delle quote solo in caso di inflazione pari al 6%

mentre in caso di inflazione superiore a tale livello la copertura diviene parziale

ed in caso di inflazione inferiore viene assicurata al lavoratore una piccola

rendita358. In tal modo l’adeguatezza della garanzia risulta inversamente

proporzionale all’andamento dell’inflazione, concorrendo a contenere il costo

del lavoro e, quindi, l’inflazione stessa allorché questa superi il livello

considerato tollerabile.

Al paventato dubbio di illegittimità costituzionale del criterio di rivalutazione in

relazione al principio di retribuzione sufficiente sancito dall’art. 36 della

Costituzione si è opposto il rilievo che la valutazione circa il rispetto della

suddetta norma costituzionale va operata con riguardo al risultato finale e cioè

non al momento dell’accantonamento, ma a quello dell’erogazione del

trattamento, poiché è solo in tale fase che si attua il trasferimento della somma

nel patrimonio del lavoratore359.

Il nuovo criterio presenta degli indubbi vantaggi rispetto al diverso meccanismo

previsto per l’indennità di anzianità. La differenza consiste nel fatto che nel

vecchio sistema la rivalutazione della somma da corrispondere era realizzata con

l’incremento del l’ultima retribuzione da moltiplicarsi per gli anni precedenti,

mentre nella nuova disciplina l’incremento è affidato ad un parametro esterno

alla dinamica retributiva ed uguale per tutti quale il tasso legale di rivalutazione

da applicarsi sulle quote accantonate. Si è in tale modo evitata quella dilatazione

automatica e rilevante dei fondi di anzianità, conseguenza del vecchio sistema,

358 Ad esempio con un tasso di inflazione del 16% la rivalutazione si attesta su una percentuale del 13,5% (75% di 16 = 12 + 1,5 = 13,5), con un tasso del 6% su una uguale percentuale del 6% (75% di 6 = 4,5 + 1,5 = 6), con un tasso del 4% sul 4,5% (75% di 4 = 3 -4- 1,5 = 4,5). 359 Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 94 ss.

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con la scelta di un meccanismo di rivalutazione che, non incidendo sul la base di

computo, ma sulle quote già calcolate e accantonate, consente una maggiore

prevedibilità delle somme da corrispondere alla cessazione del rapporto.

3. Il regime delle anticipazioni.

A fronte della inesigibilità, in costanza di rapporto, delle somme accantonate a

titolo di t.f.r., l’art. 2120 c.c., «coerentemente con la natura retributiva

dell’istituto, con la sua funzione economica e con le esigenze del lavoratore»360

attribuisce al lavoratore il diritto di ottenere una anticipazione sugli

accantonamenti qualora si realizzino determinate condizioni previste dalla legge

o dalla contrattazione collettiva. Tale possibilità, del tutto originale ed inedita

rispetto alla disciplina della precedente indennità di anzianità, costituisce una

«essenziale caratteristica»361 del nuovo trattamento di fine rapporto; ne

costituisce forse riprova il fatto che anche Autori362 attestati su posizioni

interpretative antitetiche, specie in merito al profilo funzionale dell’istituto,

riconoscono concordemente che il regime delle anticipazioni contrassegni, «in

maniera netta»363, la funzione del t.f.r..

L’istituto estende la propria rilevanza anche alla soluzione della questione

inerente il momento di maturazione del diritto, ben potendosi ritenere che la

disciplina delle anticipazioni configuri un diritto potestativo ad ottenere il

pagamento anticipato, rispetto al termine di adempimento coincidente con la

cessazione del rapporto, di un credito già maturato. Tale lettura, in effetti, è in

linea con l’interpretazione dottrinale secondo cui il diritto al T.F.R. matura in 360 M. N. BETTINI, Commento.., op. cit. p. 946, che rinvia, a sua volta, a A. PANDOLFO, Il trattamento di fine rapporto: i primi interventi dei giudici, in RGL, 1983, II, cit., p. 270 ss.; M. PAPALEONI, Le anticipazioni sul trattamento di fine rapporto, in GC, 1983, II, p. 363 ss.; SORESINA, Le anticipazioni sul trattamento di fine rapporto, in CG, 1983, p. 353 ss.. 361 A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 90. 362 Si veda il Capitolo I della ricerca. 363 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento….., cit., p. 90.

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corso di rapporto364 poiché attribuisce al lavoratore un ulteriore ed autonomo365

diritto a percepire una parte delle somme già accantonate a titolo di t.f.r. che

viene detratta “a tutti gli effetti” (art. 1, c. 9, legge n. 297/1982)366

dall’erogazione del trattamento e, dunque, ne estingue parzialmente

l’obbligazione. Deporrebbe in tal senso la previsione, da parte del legislatore, di

alcune cause giustificative in presenza soltanto delle quali il lavoratore può

accedere all’anticipazione; tale previsione, tuttavia, è derogabile367 da parte della

contrattazione collettiva e individuale368 attraverso la predisposizione di

«condizioni di miglior favore» a vantaggio dei lavoratori369.

Parte della dottrina ha sostenuto, viceversa, che l’autonomia del diritto

all’anticipazione poggerebbe su argomentazioni differenti370. In particolare la

necessaria sussistenza di specifici presupposti nella disciplina legale, induce ad

escludere che il diritto all’anticipazione sia espressione della maturazione del

diritto in corso di rapporto, dovendosi piuttosto ritenere che «la disciplina legale

dell’istituto sia, sul piano tecnico, eccezionale rispetto alla generale non

spettanza del T.F.R. se non alla cessazione del rapporto stesso»371.

364 Cfr. retro, capitolo I, e in dottrina, fra tutti, P. G. ALLEVA, Trattamento…, cit., p. 8. 365 Cass. 21 gennaio 1988, n. 448, in DPL, 1988, p. 503 (in motivazione). 366 Si vedano, sul punto, M. NAPOLI, Il quadro giuridico-istituzionale, in G. CELLA-T. TREU (a cura di), Relazioni industriali: manuale per l’analisi dell’esperienza italiana, Bologna, 1982, p. 219 ss. e G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità …, cit., p. 79 ss.. 367 P. G. ALLEVA, Legislazione e contrattazione collettiva nel 1981-1982, cit., p. 536; G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità, cit., p. 145; G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento, cit., p.124. 368 M. MISCIONE (a cura di), Il rapporto di lavoro subordinato: garanzie del reddito, estinzione e tutela dei diritti, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. CARINCI, Torino, 1998, vol. III, p. 598 ss.. 369 Sull’interpretazione offerta della derogabilità della norma sia consentito richiamare le considerazioni svolte nel capitolo II della presente ricerca. 370 E. GHERA-G. SANTORO PASSARELLI, op. cit., p. 34; R. DE LUCA TAMAJO, Il T.F.R., in DLRI, 1982, p. 440-441. 371 M. MARIANI, Le anticipazioni del T.F.R., in RIDL, 1988, II, p. 659 ss.; contro la qualificazione della disciplina delle anticipazioni in termini di eccezionalità A. VALLEBONA, op. cit., 90.

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162

Senza indugiare ulteriormente sulle problematiche inerenti la qualificazione

funzionale e il momento di maturazione del diritto al t.f.r., più accuratamente

sviluppate nei primi due capitoli della presente ricerca, ci si limita in questa sede

ad evidenziare che la disciplina delle anticipazioni costituisce il risultato della

serrata dialettica tra il principio, finora indiscusso, della totale disponibilità da

parte del datore di lavoro dei fondi accantonati e le contrapposte istanze dei

lavoratori a forme di godimento anticipato372: il primo attuato attraverso la

predisposizione di limiti quantitativi sia al numero di ammessi alla

anticipazione, sia all’ammontare della stessa, le seconde soddisfatte mediante la

valorizzazione, tra le finalità tipiche del trattamento, delle destinazioni tipiche

del risparmio373, con la disposizione di causali giustificatrici e la fissazione di

un’anzianità di servizio minima per poter accedere al beneficio.

Con il consueto aplomb compromissorio, dunque, anche questa parte della

disciplina del t.f.r. si fa carico di risolvere una serie di conflitti di interessi: non

solo quello, cui si è appena accennato, tra le contrapposte istanze dai datori di

lavoro e dei lavoratori, ma altresì gli insorgendi conflitti “tra lavoratori”, dettati

dalla disattesa aspettativa di ottenere un’anticipazione in ragione del dettato

normativo o, più sovente, della diversa disciplina contrattuale che, seppur

complessivamente più favorevole per i lavoratori, si risolve di necessità nella

introduzione di un filtro selettivo, lasciando egualmente delusi coloro cui è

precluso l’accesso al beneficio.

372 Cfr. Cfr. G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 102 ss., nonché, più in generale su tali profili A. GARILLI, Prime riflessioni sulla riforma dell’indennità di anzianità, in RGL, 1982, I, p. 352; D’AVOSSA, Il trattamento di fine rapporto, in L80, 1983, p. 26. 373 Cfr. A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit. p. 90 ss.; A. CESSARI, Ascesa e declino di un istituto, in RIDL, 1983, p. 433.

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Anche alle difficoltà sorte dalla eventuale sovrapposizione della disciplina

contrattuale rispetto a quella normativa si è avuto modi di accennare nel capitolo

II al quale sia consentito, per ragioni di sintesi, rinviare.

3.1. Criteri di priorità, condizioni di accesso e misura dell’anticipazione.

a) Il comma 11° dell’art 1, l. 297/1982 affida ai contratti collettivi la

determinazione dei criteri di priorità di accesso all’anticipazione. Non si tratta di

una forma di derogabilità, quanto piuttosto di una delega finalizzata al

«riempimento di un vuoto legale»374 e che attribuisce all’autonomia collettiva il

compito di «decidere con criteri normativi la distribuzione di vantaggi tra i

lavoratori»375. In tale contesto la contrattazione collettiva «assolve

esclusivamente alla tipica funzione di limitazione di un potere datoriale»376,

sicché l’eventuale assenza di una previsione collettiva in materia fa riespandere

il suddetto potere, ben potendo il datore di lavoro indicare dei propri criteri di

priorità per l’accoglimento delle domande, «purché ovviamente tali criteri siano

trasparenti, non celino discriminazioni o favoritismi ingiustificati e presentino

un minimo di coerenza con l’impianto legislativo delle anticipazioni (in

particolare con la definizione dei titoli giustificativi)»377. La dottrina sembra

lasciare al datore di lavoro, entro i limiti di ragionevolezza, coerenza e non

discriminazione appena indicati, piena libertà nell’individuazione dei criteri di

priorità, anche «diversi da (o integrati con) quello cronologico»378: in tal caso,

però, è necessario fissare dei criteri di prevalenza nell’ambito di ciascuna

374 Così A. VALLEBONA, Trattamento di fine rapporto, cit., p. 161. 375 M. NAPOLI, Il trattamento di fine rapporto nella nuova legge di riforma, cit., p. 83. 376 A. VALLEBONA, Il trattamento…, cit., p. 161. 377 Così G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 126. 378 Ancora G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 126. Contra, in giurisprudenza si veda la sentenza del Pret. La Spezia, 8 agosto 1996, in RIDL, 1997, p. 368.

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giustificazione causale come, ad esempio, l’anzianità di servizio, i carichi di

famiglia, il livello di reddito, la necessità di trasferimento per lavoro, il livello di

gravità della malattia et similia379. Alcuni accordi collettivi hanno preferito al

criterio cronologico quello basato sul “tipo” di necessità del lavoratore

attraverso la predisposizione di un ordine di precedenza: così, alcuni contratti

collettivi hanno stilato una graduatoria tra le causali legali di accesso

all’anticipazione nell’ambito della quale si dà solitamente priorità alle spese

sanitarie380 sulla scia di quell’indirizzo dottrinale381 che le colloca in posizione

prioritaria rispetto all’acquisto della prima casa.

La contrattazione può introdurre dei termini di presentazione delle richieste

oppure alla predisporre di una procedura di valutazione delle ipotesi di urgenza

da parte di apposite commissioni382; in nessun caso, però, può «alterare la

concorrenza tra i lavoratori interessati … (ovvero, n.d.r.) … pregiudicare la

posizione degli aventi diritto secondo il sistema prefissato»383. Si è

opportunamente rilevato, infatti, che la contrattazione collettiva non potrebbe,

attraverso l’indicazione dei criteri di priorità nell’accesso alle anticipazioni,

imporre il soddisfacimento di condizioni aggiuntive le quali costituirebbero

379 Si vedano, in tal senso, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 126-127, e A. VALLEBONA, Trattamento…, cit., p. 164. 380 Ne dà notizia F. LISO, Intervista, cit., p. 94-96 e A. VALLEBONA, Trattamento …, cit., p. 162 ss., il quale ricorda che in accordi collettivi siglati in Olivetti, Enel e Aem all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 297 (risalgono tutti e tre al 1983), era riservato alle anticipazioni per l’acquisto della prima casa solo la parte del contingente annuo residuo a seguito della concessione delle anticipazioni per spese sanitarie. 381 In tal senso, G. PERA, Trattamento di fine rapporto, in FI, cit., p. 220 ss. 382 In tal senso cfr., ex plurimus, G. PERA, Il trattamento, cit., p. 13; MONTEMARANO, Il trattamento di fine rapporto, Roma, 1982, p. 49 ss.. 383 Così, in termini, A. VALLEBONA, Problemi in tema di anticipazioni sul trattamento di fine rapporto: la disciplina contrattuale, nota a Pret. Firenze 8 giugno1983, in GC, 1983, III, p. 3116; si vedano inoltre, ID., Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 164 ss.; D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p. 137 ss.

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delle deroghe peggiorative rispetto alla disciplina legale «sicuramente

illegittime»384.

Restano escluse dall’ambito di applicazione della disciplina delle anticipazioni

le aziende in crisi, oggetto di esclusione espressamente sancita dall’art. 4, c. 3,

legge n. 297/1982385.

Il più delicato problema posto dai criteri di priorità di accesso alle anticipazioni,

però, non riguarda tanto la tipologia dei criteri adottati dalla contrattazione

collettiva, quanto piuttosto l’ambito di applicazione dei criteri medesimi.

Qualsiasi criterio di priorità è destinato, infatti, a creare delusione ed

insoddisfazione nei lavoratori che ne risultano pregiudicati386. Tuttavia si può

ritenere che «l’accordo regola l’esercizio di un potere dell’imprenditore»387 se

non addirittura che il suddetto accordo costituisce condizione di legittimità

all’esercizio di un tale potere388, configurandosi, in tal modo una sorta di

procedimentalizzazione del potere datoriale, con la conseguente applicabilità a

tutti i lavoratori, iscritti e non al sindacato, in ragione della comune

appartenenza alla medesima impresa.

b) La disciplina legale contiene degli sbarramenti quantitativi e causali di portata

notevolmente limitativa del diritto all’anticipazione e ciò a tutela del già

richiamato interesse aziendale ad utilizzare le somme accantonate quale fonte d

autofinanziamento. In particolare, l’art. 2120 c.c. stabilisce che possono chiedere

l’anticipazione i lavoratori «con almeno otto anni di servizio presso lo stesso

384 A. VALLEBONA, Trattamento.., cit. p. 164. 385 V. Cass. 15 luglio 1995, n. 7710, in MGL, 1995, p. 445. 386 Cfr., in tal senso, A. VALLEBONA, Trattamento …, cit., p. 166; G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto …, cit., 2007, p. 72-73; G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 126, i quali evidenziano che per tale motivo, il sindacato «ha mostrato notevoli remore ad aprire una trattativa sul punto». 387 Così G. SANTORO PASSARELLI, op. cit., p. 73. 388 In tal senso, F. LISO, Modifiche dell’organizzazione e contratto di lavoro, in DLRI, 1981, p. 571.

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datore di lavoro» e che le richieste ricevute devono essere soddisfatte

annualmente entro il limite389 del 10% degli aventi titolo e del 4% del numero

totale dei dipendenti. L’esistenza di un doppio limite quantitativo, con

prevalenza di quello più restrittivo e favorevole al datore di lavoro, è intesa a

garantire il mantenimento dell’ammontare complessivo delle anticipazioni entro

un’entità contenuta anche per le aziende ad elevata anzianità di servizio del

personale: la previsione del solo limite del 10% dei lavoratori con almeno otto

anni di servizio avrebbe infatti penalizzato le aziende con elevata anzianità del

personale. Pertanto la dottrina, muovendo dal presupposto che tali limiti

massimi390 siano posti a tutela dell’autofinanziamento aziendale, li ritiene

operanti a favore del datore di lavoro nel senso che le domande andranno

soddisfatte in base al risultato più basso derivante dall’applicazione dei due

parametri391.

389 Limite derogabile in melius da parte della contrattazione collettiva e/o individuale: cfr. Cass. 21 gennaio 1988, n. 488. 390 Cfr. D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p.129. 391 Un problema si è posto per quanto concerne li possibile esonero delle aziende con meno di 25 dipendenti, nelle quali non si ottiene la frazione intera (ad es., nel caso di un datore con 20 dipendenti, il 4% di 20 sarebbe pari a 0,8). La dottrina ha escluso tale possibilità non rinvenendo nella ratio della norma alcun elemento che deponesse in tal senso. Si è ritenuto piuttosto che la percentuale del 4% dovrebbe operare come delimitazione del numero dei beneficiari ottenuto calcolando il 10% degli aventi diritto (In tal senso FRANCESCHELLI, I principali punti controversi della legge 297, in Contrattazione, 1982, n. 5, 7; M. NAPOLI, Il quadro giuridico- istituzionale, in G. CELLA-T. TREU (a cura di), Relazioni industriali: manuale per l’analisi dell’esperienza italiana; Bologna, 1982, p. 29). Nondimeno, le posizioni in proposito sono state varie: arrotondamento per ciascun anno all’unità (P. G. ALLEVA, Flessibilità del lavoro e unità-articolazione del rapporto contrattuale, in LG, 1994, p. 777); arrotondamento iniziale ed esonero negli anni successivi finché la somma dei decimali non raggiunga l’unità (Pret. Milano 9 febbraio 1984, in NGL, 1984, p. 286; D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p. 132); attribuzione della somma anticipata soltanto quando il cumulo dei decimali di ogni anno raggiunga l’unità (Pret. Macerata 20 settembre 1984, in OGL, 1984, p. 1220). La Suprema Corte si è pronunziata nel senso della inapplicabilità dell’art. 2120 c.c., per la materia delle anticipazioni, nelle aziende con un numero ridotto di dipendenti, muovendo dal presupposto della ratio del provvedimento finalizzata a non privare le imprese di una fonte di finanziamento e solo in via secondaria a soddisfare una necessità del lavoratore mediante l’istituto della anticipazione. Con la conseguenza che lo stesso

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Il limite di otto anni di anzianità presso lo “stesso datore di lavoro”392,

necessario per il diritto all’anticipazione, è stato variamente interpretato dalla

dottrina, divisa, anche in tale ipotesi, tra i fautori della riferibilità alla mera

anzianità di rapporto393 e coloro che attribuivano rilievo ai soli periodi di

effettivo servizio394.

Quanto al profilo causale, le richieste di anticipazione devono presentare una

delle giustificazioni previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva al fine

dell’acquisizione del diritto a percepire un anticipo sul t.f.r già maturato. L’art.

2120 c.c. prevede due sole ipotesi giustificanti la richiesta di anticipazione: la

necessità di sostenere “spese sanitarie per terapie e interventi straordinari

riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche” (co. 8°, lett. a) e lo “acquisto

di una nuova casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto

notarile” (co. 8°, lett. b). Successivamente, il legislatore ha legittimato la

concessione di anticipazioni per le spese da sostenere durante i periodi di

fruizione dei congedi di maternità (art. 7, l. 8 marzo 2000, n. 53) e “ai fini del

sostegno economico” per la formazione continua nonché per il conseguimento di

un titolo di studio (art. 5, d. lgs. 26 marzo 2001, n. 151).

sarebbe applicabile alle imprese minori senza che vi sia lesione del principio di uguaglianza, entro il limite del 4%, che richiede una presenza di lavoratori di almeno 25 unità (Cass. 6 marzo 1992, n. 2749, in DL, 1992, II, p. 221). 392 La condizione viene considerata soddisfatta anche nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, senza che vi sia la liquidazione del T.F.R. pregresso. In particolare secondo G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO (Il trattamento, cit., p. 105) l’anzianità di servizio è conservata anche in caso di passaggio tra aziende dello stesso gruppo o collegate, diversamente da ciò che accade in ipotesi di novazione del rapporto. 393 In tal senso, A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 92. 394 G. PERA, Trattamento di fine rapporto, cit., p. 219.

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La necessità395 delle spese sanitarie, la cui qualificazione medica va desunta

dalla normativa sul S.s.n., va riferita ad interventi o terapie396 straordinari, sia

personali dei lavoratori che, secondo la dottrina consolidata397, dei familiari del

dipendente e presuppone, ai fini della concessione dell’anticipazione, l’attualità

dell’esigenza398 medico-economica.

Si considerano straordinari i trattamenti sanitari percepiti in tal modo nella

comune esperienza in base alla loro complessità e pericolosità, purché l’effettiva

esigenza della terapia o dell’intervento399 si evinca da documentazione

proveniente dalla competente struttura sanitaria pubblica400. Non è rilevante,

viceversa, la carenza assoluta o relativa di strutture pubbliche idonee al

395 Si considerano necessari anche gli importi accessori, ivi compresi i costi di viaggio e di permanenza nei luoghi di cura dei soggetti che prestano assistenza al malato: se veda, in tal senso, la pur risalente sentenza della Pret. Firenze 21 dicembre 1982, in RGL, 1983, p. 220, nonché in dottrina D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p. 143; G. PERA, Trattamento di fine rapporto..., cit., p. 221). 396 La Cassazione ha chiarito che l’espressione “terapie e interventi” va letta in chiave disgiuntiva poiché per la concessione dell’anticipazione non è necessario l’intervento ma è sufficiente la sola terapia (cfr. sentenza n. 3046 del 11 aprile 1990, in RIDL, 1991, II, p. 78 con nota di VALLEBONA, nonché in DPL, 1990, p. 1556, con nota di D’AVOSSA. Nella medesima pronuncia la Cassazione ha chiarito che i “requisiti della necessità e della straordinarietà, richiesti dall'art. 2120 c. c., così come modificato dalla l. n. 297/1982, sono autonomi, ancorché interdipendenti, e si identificano, quanto alla necessità, nel riconoscimento da parte delle strutture pubbliche della necessità appunto della terapia o dell'intervento, nonché nella caratterizzazione di dette misure sanitarie sotto il profilo dell'entità della spesa, e, quanto alla straordinarietà, nella rilevanza dell'intervento sanitario sotto il profilo della sua importanza e delicatezza dal punto di vista medico ed economico”. 397 Cfr. G. PERA, Trattamento di fine rapporto, cit., p. 220. 398 Cass. 21 gennaio 1988, n. 488, cit.; Pret. Milano 28 settembre 1984, in NGL, 1985, p. 349; Pret. Milano, 9 febbraio 1984, cit.. il requisito è stato anche interpretato, in dottrina, in termini di immediatezza tra richiesta e bisogno del lavoratore. 399 Il Tribunale di Torino (1 giugno 1998, in LG, 1998, p. 1064) ha affermato che “nell'ipotesi di spese sanitarie, che secondo il disposto del comma 8 lett. a), art. 2120 c.c., giustificano anch'esse l'anticipazione del trattamento di fine rapporto, l'onere probatorio consistente nel riconoscimento da parte delle competenti strutture pubbliche, è riferito alle "terapie e agli interventi straordinari", e non già alle spese sanitarie, sicchè risulta inequivocabilmente esplicitata l'intenzione del legislatore di ritenere sufficiente che tali spese possano essere "eventuali" e che quindi l'erogazione dell'anticipazione possa precedere l'esborso delle prime”. 400 Cfr. Trib. Firenze 30 settembre 1983, in OGL, 1984, p. 879.

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trattamento, ben potendo il lavoratore optare per la cura presso strutture anche

private di sua fiducia usufruendo dell’anticipazione sul T.F.R..

La richiesta di anticipazioni giustificata dalla necessità di acquisto della prima

casa di abitazione per sé o per i figli documentato con atto notarile va riferita sia

all’ipotesi di compravendita, sia ad altre attività negoziali idonee a produrre

l’acquisizione in proprietà di una casa di abitazione (compravendita,

assegnazione di casa costruita in cooperativa, riscatto ecc.), fra le quali rientra

anche l’ipotesi di costruzione in proprio della casa401. In ogni caso per prima

abitazione deve intendersi solo quella destinata a dimora stabile della famiglia,

con esclusione di qualsiasi residenza secondaria. Riferendo l’espressione “prima

casa” alla destinazione e non alla provenienza, costituirebbe un logico corollario

l’attribuzione della possibilità di accedere all’anticipazione anche al lavoratore

proprietario di abitazione sita in luogo diverso da quello della dimora abituale.

Viceversa la dottrina prevalente sembra escludere tale possibilità in ragione di

un preesistente diritto di proprietà su di un appartamento, ferma restando la

possibilità, però, di motivare la richiesta di anticipazione con l’acquisto di una

casa per il figlio402. Emerge con particolare pregnanza la vis espansiva,

giurisprudenzialmente orientata, delle condizioni normative di accesso al diritto

401 Cfr. Pret. Tivoli 11 luglio 1995, in RCDL, 1995, 1021, p. 23. Il diritto all’anticipazione è stato riconosciuto anche nei casi di ristrutturazioni o ampliamenti, particolarmente se resi necessari da provvedimenti della pubblica amministrazione o da calamità naturali (D’AVOSSA, Il T.F.R., cit.,p. 155), in quanto si ritiene sussistente la medesima finalità di acquisizione di un godimento stabile di un bene (in termini dubitativi, G. PERA, Trattamento di fine rapporto..., cit. p. 223; contra, A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto..., cit., p. 110). 402 Cfr. D’AVOSSA, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 20; ID., Il T.F.R., cit., p. 152, G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 117-118; A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto, cit., p. 109. In giurisprudenza, la Cassazione (sent. 8 luglio 1997, n. 6189, in MGL, 1997, p. 641) ha riconosciuto al lavoratore già titolare di abitazioni, il diritto di richiedere l’anticipazione del t.f.r. per l’acquisto della prima casa di abitazione del figlio, affermando il principio della equivalenza dei presupposti indicati nella norma dell’art. 2120 c.c. laddove prescrive che la richiesta deve essere giustificata dall’acquisto della prima casa di abitazione “per sé o per i figli”.

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nelle pronunce che riconoscono l’anticipo anche qualora l’acquisto

dell’immobile risulti formalmente concluso dal solo coniuge del richiedente,

attraverso il richiamo alla disciplina sul regime patrimoniale di comunione dei

beni: ai sensi dell’art. 177 c.c., infatti, entrano a far parte del patrimonio comune

non solo i beni acquistati congiuntamente, ma anche quelli acquisiti

separatamente da ciascuno di essi403.

Un delicato problema interpretativo si poneva in relazione alla richiesta di

documentazione dell’acquisto «con atto notarile», la cui interpretazione

formalistica configgeva con l’evidente impossibilità, per il lavoratore, di

documentare un negozio giuridico al cui perfezionamento è finalizzata la

richiesta anticipazione. Il presumibile contrasto della previsione normativa con

gli obiettivi perseguiti dalla norma, già rilevato dalla dottrina404, fu sottoposto al

vaglio della Consulta che si è pronunciata405 dichiarando costituzionalmente

illegittimo il comma ottavo dell’art. 2120 c.c. nella parte in cui non prevedeva la

possibilità di concessione dell’anticipazione in ipotesi di acquisto in itinere,

403 Cfr. Cass. 3 dicembre 1004, n. 10371, in NGCC, 1995, I, p. 1058, con nota di TOGNAZZI; Cass. 21 aprile 1993, n. 4666, in OGL, 1992, p. 971. 404Cfr. D’AVOSSA, Il T.F.R., cit., p. 157; A. VALLEBONA, Il Trattamento…, cit., p. 111; G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p. 118. Questi ultimi, in particolare, suggerivano, quale rimedio empirico per superare l’empasse interpretativa, il deposito della somma da parte dell’azienda presso un notaio, deputato a consegnarla al venditore al momento dell’acquisto. Parallelamente, la giurisprudenza si era orientata nell’ammettere documenti equivalenti all’atto notarile o, comunque, idonei a dimostrare l’acquisizione del bene ed il correlato pagamento del prezzo totale o parziale, sia nel caso di costruzione in economia (Cfr. per tutte Pret. Taranto 31 ottobre 1983, in RGL, 1984, II, p. 605; contra, Trib. Pavia 13 giugno 1984, cit.), che di acquisto mediante cooperativa (Cfr. per tutte Trib. Milano 23 marzo 1985, in OGL, 1985, p. 1251; Pret. Milano 22 maggio 1984, cit.). In particolare, si era ammessa la prova della serietà dell’operazione, tramite la produzione del preliminare d’acquisto o della dichiarazione dell’avvenuto acquisto mediante atto notarile (M. NAPOLI, Il quadro giuridico-istituzionale..., cit., p. 29; A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto..., cit. p. 112), oppure della dichiarazione da parte della cooperativa di assegnazione della casa e delle ricevute delle somme versate (Pret. Bari 29 ottobre 1982, cit.).

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comprovato con mezzi diversi dall’atto notarile purché idonei a dimostrare

l’effettività dell’operazione negoziale in corso.

Nel novero delle spese relative ai congedi parentali e per la formazione,

legittimanti la concessione di anticipazioni sul t.f.r., possono rientrare anche i

costi sostenuti per il sostentamento del lavoratore e della sua famiglia. Le

ipotesi, normativamente introdotte ad ampliare l’area di accesso alle

anticipazioni, sono finalizzate, infatti, “ad agevolare attraverso un supporto

economico l’assolvimento della funzione genitoriale o la promozione

professionale dei dipendenti”. Sicché la richiesta economica va “misurata nei

limiti della sua funzione di integrazione, o sostituzione, della retribuzione

nonché di copertura degli oneri contributivi per l’eventuale riscatto del periodo

di assenza non retribuita, sempreché detto onere sia documentato

contestualmente alla domanda di anticipazione” (Circ. Min. lav. 29 novembre

2000, n. 85).

Non determina, invece, un’esigibilità di per sé anticipata del t.f.r. il

trasferimento d’azienda, in perfetta linea con la disciplina complessiva della

fattispecie che prevede la prosecuzione in capo al cessionario, senza soluzione di

continuità, dei rapporti di lavoro imputati al cedente406). In particolare il 2°

comma dell’art. 2112 c.c. prevede la responsabilità solidale del cessionario nei

confronti del cedente per i crediti del prestatore di lavoro sussistenti alla data del

405 Sentenza n. 142 del 5.4.1991, in MGL, 1191, p. 15, con nota di VALLEBONA e in RIDL, 1994, II, p. 144, con nota di BANO. 406 Si vedano, sul tema, i contributi di S. CIUCCIOVINO, La nozione di “azienda trasferita” alla luce dei recenti sviluppi della giurisprudenza interna e della disciplina comunitaria, in ADL, 1998, p. 893; FOGLIA, Trasferimenti d’azienda..., 330 ss.; FONTANA, Trasferimento d’azienda..., 133 ss.; ROMEI, Trasferimento d’azienda...; SANTORO PASSARELLI G., Il trasferimento d’azienda..., 637 ss.; ID. Ancora sul trasferimento d’azienda..., 145 ss.. In particolare, sulla nuova formulazione dell’art. 2112 c.c., risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 18/2001 e dal d. lgs. 276/2003, v. C. CESTER, Trasferimento d’azienda..., 505; RUGGIERO, Trasferimento d’azienda..., 12;; SCARPELLI, Nuova disciplina ..., 779; SANTORO PASSARELLI G., Trasferimento d’azienda…; BAGLIONI, Trasferimento di ramo d azienda…, 930; FLAMMIA, Le modificazioni della disciplina…, 489

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trasferimento d’azienda, offrendo un ulteriore motivo di interesse all’indagine

relativa al momento di maturazione del t.f.r.: quest’ultimo, se individuato nella

cessazione del rapporto, rende responsabile il solo cessionario; se, viceversa,

viene collocato nel corso dello svolgimento del rapporto, rinnova la solidarietà

tra cedente e cessionario407.

c) L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto e in

misura comunque non superiore al 70% del trattamento che sarebbe spettato in

caso di ipotetica cessazione del rapporto all’atto della richiesta408 ovvero delle

quote già accantonate e rivalutate in applicazione del tasso introdotto dalla

stessa legge n. 297/1982. La misura dell’anticipazione può altresì essere ridotta

ove il lavoratore abbia già disposto di una parte della somma tramite cessione o

allo scopo di prestare garanzia409, ovvero nell’ipotesi in cui l’esigenza indicata

dal lavoratore sia inferiore alla causale della richiesta410. Tuttavia, anche qualora

l’anticipazione corrisposta sia di misura inferiore al 70% del t.f.r. maturato,

resterà comunque preclusa al lavoratore la possibilità di ottenerne una seconda.

Se, poi, l’anticipazione sia utilizzata in misura inferiore o diversa da quanto

risulta dalla richiesta o anche in caso di ottenimento della somma con dolosa

induzione in errore, sembra ammissibile, secondo la giurisprudenza prevalente,

la ripetibilità delle somme eccedenti da parte del datore di lavoro411. La somma

407 In giurisprudenza si veda Cass. 3 maggio 2000, n. 5550, in RGL, 2001, II, p. 67, con nota di MADERA; nonché, sui risvolti legati al momento di maturazione del diritto, Cass. 9 agosto 2004, n. 15371, in MGL, 2004, p. 829; Cass. 13 dicembre 2000, n. 15687, in GP, 2001, p. 150. 408 Secondo D’AVOSSA (Il T.F.R., cit., p. 143), nel computo della somma va tenuto conto anche dell’indennità di anzianità maturata al 31 maggio 1982, nonché della rivalutazione degli anni precedenti alla domanda. 409 G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento …, cit., p. 106. 410 Pret. Roma 22 ottobre 1982, in OGL, 1983, p. 392; diversamente Pret. Firenze 30 marzo 1983, in GC, 1983, I, p. 1852, con nota di G. PERA, Dubbi interpretativi della nuova disciplina delle anticipazioni sul trattamento di fine rapporto. 411 Pret. Napoli 4 aprile 1986, in DPL, 1986, p. 3213 e 24 gennaio 1986, id., p. 1887; G. PERA, Trattamento di fine rapporto, cit., p. 219; A. VALLEBONA, Il trattamento di fine

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anticipata viene detratta dal trattamento dovuto a tutti gli effetti, ivi compresa la

rivalutazione delle quote dal cui computo sarà debitamente sottratto l’importa

anticipato.

4. Il Fondo di garanzia.

A fronte del rischio i insolvenza del datore di lavoro, la l. 297/1982 ha istituito

presso l’INPS un Fondo di garanzia destinato ad erogare il t.f.r. in sostituzione

del datore di lavoro in alcune delle ipotesi in cui questi si renda inadempiente.

L’istituto rispondeva alla pretesa costituzione, in base alla direttiva n.

80/987/CE, di un sistema di garanzia collettiva in grado di assicurare «il

pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati, risultanti da contratto

di lavoro o da rapporti di lavoro e relativi alla retribuzione» (art. 3, Dir. n.

80/987/CE), con la funzione, dunque, di «socializzazione del rischio

dell’insolvenza» datoriale, attraverso l’accollo dei rischi derivanti dalle

lungaggini procedurali e dall’eventuale insufficienza dell’attivo fallimentare412.

Ciò ha indotto a considerare l’attività del Fondo come una forma particolare di

tutela previdenziale413. Più di recente, però, il legislatore ha attribuito al Fondo

rapporto, cit., p. 101. «L'anticipazione sul trattamento di fine rapporto, quale prevista dall'art. 1, l. 29 maggio 1982, n. 297, concessa dal datore di lavoro per le spese sanitarie che avrebbe dovuto sostenere il lavoratore, ove non sia stata utilizzata (totalmente o parzialmente) per gli scopi per i quali era stata richiesta ed ottenuta, deve essere restituita (in tutto o in parte) al datore di lavoro, unitamente agli interessi legali, che decorrono dalla data fissata per la restituzione dallo stesso datore di lavoro», così Pret. Genova 19 febbraio 1986. In difformità, Pret. Firenze 30 marzo 1983, cit.; G. SANTORO PASSARELLI, Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto..., p. 81. 412 V. P.G. ALLEVA, Trattamento.., cit. p. 59 e G. GIUGNI-R. DE LUCA TAMAJO-G. FERRARO, Il trattamento…, cit., p.139. 413 Cfr. R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, 2001, Padova, p. 570, e, in giurisprudenza, Cass. 19 dicembre 2005, n. 27917, in MGL, 2006, p. 377, con nota di MANNACIO, secondo cui il diritto del lavoratore nei confronti dell’Inps ha natura di diritto di credito ad una prestazione previdenziale, distinto ed autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro).

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di garanzia l’ulteriore funzione di garantire l’anticipazione delle imposte sul

trattamento di fine rapporto (art. 2, l. 140 del 1997).

Soggetti destinatari della tutela offerta dal fondo sono tutti i lavoratori

subordinati appartenenti al settore privato e agli enti pubblici economici414;

restano esclusi, viceversa, i dipendenti degli enti pubblici non economici e delle

pubbliche amministrazioni. Il d. lgs. 186 del 19 agosto 2005 ha inoltre

introdotto, in attuazione della Direttiva 2002/74/CE, un comma 4 bis nell’art. 2,

l. 297/1982, ai sensi del quale godono della tutela offerta dal Fondo di garanzia

tutti i lavoratori che hanno svolto abitualmente la propria attività lavorativa in

Italia, anche nel caso in cui il datore di lavoro eserciti attività di impresa anche

in altri stati membri dell’UE e sia interessato da una procedura concorsuale in un

stato diverso.

Il lavoratore potrà rivolgersi al Fondo di garanzia, ex art. 2, l. 297/1982, qualora

il datore di lavoro sia interessato da fallimento (c. 2), concordato preventivo (c.

3), liquidazione coatta amministrativa (c. 4), nonché, ad opera del d. lgs. 270 del

1999, nel caso in cui l’impresa versi in amministrazione straordinaria, mentre

continua a restare esclusa dalla gamma delle fattispecie “assistite” dal Fondo di

garanzia, l’amministrazione controllata, che presuppone non l’insolvenza ma

soltanto lo stato di «temporanea difficoltà» dell’impresa nell’adempimento

delle proprie obbligazioni415. In tutte le ipotesi menzionate, il lavoratore ha

l’onere di insinuare nella procedura concorsuale l’accertamento relativo

all’esistenza e all’ammontare del proprio credito. Decorsi 15 giorni dal deposito

dello stato passivo o della sentenza di omologazione (termine che decorre, in

414 Per i soci lavoratori di cooperative, si veda la pronuncia della Corte costituzionale del 20 luglio 1995, n. 334 (in LG, 1996, p. 235). 415 V. A. LEPORE, Il fondo di garanzia per il t.f.r., in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, cit., p. 81.

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caso di opposizione o impugnazione, dal deposito della sentenza che decide su

di esse), il lavoratore può presentare la propri domanda al Fondo di garanzia416.

Il quinto comma dell’art. 2, l. 297/1982 estende la garanzia del Fondo altresì alle

ipotesi di inadempimento diverse dall’insolvenza, «sempreché, a seguito

dell’esperimento della esecuzione forzata, …le garanzie patrimoniali siano

risultate in tutto o in parte insufficienti», offrendo tutela, in tal modo, anche ai

lavoratori dipendenti da piccole imprese, non soggette a procedure fallimentari.

In tal caso il lavorator e può presentare domanda per ottenere il pagamento del

t.f.r. al Fondo di garanzia all’esito, parzialmente o totalmente negativo,

dell’esperimento di una seria ed adeguata procedura di esecuzione forzata sui

beni dell’impresa insolvente, senza dover compiere ulteriori attività di ricerca di

beni mobili o immobili in luoghi di nascita o residenza del datore di lavoro,

diversi da quello in cui ha sede l’impresa417.

La giurisprudenza, infine, si è preoccupata di estendere la possibilità i ricorso al

Fondo di garanzia ai dipendenti del datore di lavoro interposto, nonostante sia

noto che, nell’ipotesi di interposizione illecita, i prestatori di lavoro sono

considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’interposto418.

Il Fondo - che è interamente finanziato dalle imprese mediante versamento, per

ciascun dipendente, di un contributo di aliquota inizialmente pari allo 0,03 %

della retribuzione e progressivamente modificata «al fine di assicurare il

pareggio della gestione» (art. 2, c. 8, l. 297/1982) – provvede, entro sessanta

giorni dalla richiesta, al pagamento della somma, della rivalutazione monetaria e

416 Cfr., ex plurimis, Cass. 21 marzo 2000, n. 3340, in DPL, 2000, p. 791. 417 cfr. Cass. 7 luglio 2005, n. 14282, in RIDL, 2006, II, p. 426; Cass. 2 febbraio 2004, n. 1848, in OGL, 2004, p. 180 e in NGL, 2002, p. 380. Contra, sulla necessità che il lavoratore utilizzi tutti i mezzi a sua disposizione per il soddisfacimento del proprio credito, anche in cumulo tra loro, v. Cass. 11 luglio 2003, n. 10953, in NGL, 2004, p. 102, Cass. 28 marzo 2003, n. 4783, in NGL, 2003, p. 627. 418 Cass. 3 marzo 2001, n. 3096, in RIDL, 2001, II, p. 699, con nota di G. SYLVAIN NADALET.

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degli interessi legali fino all’effettivo pagamento419. Il riferimento al lavoratore o

ai suoi aventi diritto (c. 7) consente, inoltre, di estendere la garanzia del Fondo

anche all’indennità a causa di morte di cui all’art. 2122 c.c.420. Con il

versamento della somma, il Fondo si surroga al lavoratore nel privilegio

spettante sul patrimonio del datore di lavoro ai sensi degli artt. 2751 bis e 2776

c.c..

419 Cfr. v. Cass. 15 maggio 2003, n. 7604, in Rep.FI, voce Lavoro (rapporto), n. 1863; Cass. S. U., 26 settembre 2002, n. 13988, in Rass.Giur.Lav., 2002, II, p. 807, ma si veda altresì C. cost. 2 novembre 2000, n. 459, in MGL, 2001, p. 468, sulla illegittimità dell’art. 22, c. 36, l. 23 dicembre 1994, n. 724 420 A. VALLEBONA, Il trattamento di fine rapporto per i lavoratori..., op. cit., p. 384.

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CAPITOLO IV

IL CONFERIMENTO DEL T.F.R. ALLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE NEL D. LGS. 252 DEL 5 DICEMBRE 2005

1. Premessa.

Alla fine degli anni ’60 l’Italia conosceva un unico sistema previdenziale

pubblico, c.d. a ripartizione, in cui i contributi versati dalla popolazione

lavoratrice in un dato momento storico venivano immediatamente utilizzati per

pagare le pensioni al contempo erogate ai lavoratori a riposo. Il sistema a

ripartizione si basava, dunque, su una sorta di patto intergenerazionale, siglato

dall’implicita garanzia, offerta dallo Stato, che le generazioni lavorativamente e

contributivamente attive avrebbero goduto, in futuro, dei medesimi benefici421.

Quanto all’ammontare dei trattamenti pensionistici, risale ancora alla fine degli

anni ‘60 l’adozione del criterio c.d. retributivo che si basava sulla

commisurazione della pensione all’anzianità di lavoro e alle ultime retribuzioni

percepite. Il sistema garantiva una prestazione pensionistica quasi allineata

all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore, consentendogli un tenore di vita

non dissimile da quello goduto all’esito della carriera lavorativa. D’altra parte,

tale criterio di computo comportava notevoli oneri a carico della previdenza

pubblica a causa della sua evidente discrasia rispetto al meccanismo di

421 Si veda M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Giappichelli, Torino, 2005.

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finanziamento a ripartizione: vi era, infatti, una netta disparità tra l’ammontare

contributivo corrisposto dai lavoratori giovani, ai loro primi anni di attività, e il

livello delle prestazioni contestualmente erogate ai pensionati,

significativamente più alto perché commisurato all’ultima retribuzione,

percepita il più delle volte, all’apice della carriera e dell’ avanzamento

retributivo.

L’avvento della crisi economica conosciuta, negli anni a venire, dal nostro come

da molti altri paesi industrializzati, in una con un insieme di altri fattori, ha reso

ben presto insostenibili gli oneri gravanti sul sistema previdenziale pubblico:

l’aumento della disoccupazione, il calo demografico e il contestuale

allungamento dell’aspettativa di vita hanno ulteriormente acuito lo squilibrio tra

risorse in entrata e prestazioni in uscita e richiesto un intervento del legislatore

finalizzato al risanamento del sistema. In seguito, il fallimento dei molteplici

tentativi, messi a punto dal legislatore, per bonificare la cassa previdenziale

pubblica ha messo definitivamente in crisi quel genuino patto

intergenerazionale, che per molti anni aveva accompagnato, con (apparente)

equilibrio, il ricambio di forze all’interno del mercato del lavoro, suggerendo,

con crescente urgenza, l’adozione di un sistema che inducesse ciascun

lavoratore ad occuparsi in maniera diretta di almeno una parte delle proprie

risorse pensionistiche. Si rendeva indispensabile una ristrutturazione del sistema

previdenziale pubblico su basi diverse (realizzata, tra l’altro, l’introduzione del

sistema c.d. contributivo, in base al quale l’ammontare del trattamento

pensionistico veniva commisurato all’entità della contribuzione versata per il

lavoratore) e, al tempo stesso, la valorizzazione della previdenza privata, già

nota sub specie di strumento pensionistico integrativo di matrice sindacale-

collettiva.

La mappatura normativa della materia mostra, a posteriori, un preciso disegno

finalizzato ad incentivare, in maniera graduale e crescente, il ricorso a forme

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pensionistiche (in seguito definite) complementari, a tutt’oggi suggerito come

facoltativo e discrezionale, ma probabilmente destinato in prospettiva a divenire

oggetto di un preciso obbligo “assicurativo”. Difatti, la fortissima attenzione

popolare alla gestione del welfare e la “(mala)educazione” assistenzialistica in

materia, sconsigliavano – specie all’esito di continui quanto insufficienti

ampliamenti dell’imponibile contributivo – una brusca diminutio delle garanzie

previdenziali pubbliche, che sarebbe stata senz’altro foriera di contestazioni e

malcontento, scontrandosi con l’innegabile inclinazione governativa nostrana

alla c.d. politica del consenso. Sicché, forte di tale consapevolezza, con i primi

organici interventi normativi in materia, il legislatore offriva la “opportunità” di

aderire alla previdenza complementare con l’aspettativa che quest’ultima

conoscesse una vasta diffusione sociale, funzionale al perseguimento dei fini

dell’ordinamento422.

Con d. lgs. 124 del 1993, dando attuazione alla delega contenuta nella legge n.

421 del 1992, all’art. 3, comma 1, lett. v), il governo “disciplinava le forme di

previdenza per l'erogazione di trattamenti pensionistici complementari del

sistema obbligatorio pubblico, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura

previdenziale” (art. 1). Prendeva forma, così, il sistema previdenziale c.d.

multipilastro nell’ambito del quale la previdenza obbligatoria pubblica (c.d.

primo pilastro) può (ma, in prespettiva, presumibilmente dovrà) essere integrata

da altri strumenti pensionistici quali le prestazioni erogate dai fondi di

previdenza complementare (c.d. secondo pilastro) e la pensione integrativa

individuale, frutto degli investimenti effettuali dal singolo individuo a scopo

previdenziale (c.d. terzo pilastro).

422 Cfr. D. MEZZACAPO, Nozioni e regole della previdenza complementare riformata, in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare, cit., p. 124.

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Un contributo alla causa veniva offerto sia dai giudici di legittimità sia dalla

Corte costituzionale che nell’ultimo decennio hanno contribuito al progressivo

accostamento funzionale tra previdenza pubblica e previdenza complementare.

Con la più recente riforma della materia (ex d. lgs. n. 252 del 2005), il

legislatore ha tentato di formalizzare la suddetta “funzionalizzazione”, non

risolvendo, tuttavia, le ambiguità qualificatorie che accompagnano la previdenza

complementare sin dall’avvento della Carta costituzionale e alle quali si

dedicherà un breve cenno oltre.

Con la riforma in parola, il legislatore ha preso atto - nonostante i precedenti

interventi legislativi contenessero svariati elementi di incentivazione - della

limitata diffusione delle forme pensionistiche complementari ed ha cercato di

porvi rimedio individuando nel trattamento di fine rapporto lo strumento elettivo

di finanziamento dei fondi privati, modificandone la natura retributiva di

compenso una tantum in risorsa destinata ad alimentare i suddetti fondi in vista

di un trattamento pensionistico attribuito all’aderente alla fine della vita

lavorativa.

Tale scelta è stata sùbito osteggiata dai diretti destinatari che, nella fase di

gestazione normativa, hanno tentato di impedire che la riforma venisse alla luce

con le prospettate fattezze: da un lato, i lavoratori si vedevano spossessati di un

emolumento retributivo, il t.f.r., di propria spettanza e che, seppur differito

quanto all’erogazione, costituiva in ogni caso un capitale di sicuro

percepimento423 al momento della cessazione del rapporto; dall’altro lato gli

imprenditori si vedevano spossessati, per il futuro, di somme, spesso ingenti,

tradizionalmente lasciate alla loro disponibilità e che per alcuni di essi

costituivano altresì un’importante fonte di autofinanziamento. Ciononostante, le

423 Anche grazie alla garanzia offerta dal Fondo di garanzia per il t.f.r. istituito dalla legge n. 297 del 1982; garanzia che non è altrettanto rinvenibile nella disciplina normativa dei fondi di previdenza complementare.

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forze di governo uscivano dal braccio di ferro, condotto specialmente con gli

industriali, concedendo, in cambio del sacrificio economico inferto, benefici in

materia fiscale e ipotesi di vantaggi in tema di accesso al credito. Ai lavoratori è

stata lasciata, invece, la possibilità di scegliere liberamente tra l’adesione alla

previdenza complementare e la conservazione del tradizionale emolumento di

fine rapporto: una libertà che, tuttavia, si rivela di poca sostanza dal momento

che il legislatore ha affidato la diffusione delle forme pensionistiche

complementari, tra l’altro, al discusso strumento del silenzio-assenso,

persuadendo il cittadino-lavoratore di avervi volontariamente aderito mediante

la manifestazione di un implicito (id est tacito) consenso.

Si delineano, così, in maniera ormai chiara, gli obiettivi di politica del welfare

perseguiti dalla riforma attraverso la forzosa diffusione della previdenza privata

e diventa più facile immaginare che, in un futuro non troppo lontano, la

previdenza complementare potrebbe, come si è accennato, divenire oggetto di un

preciso obbligo assicurativo. Basti pensare, in via esemplificativa, alle forme di

assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla

circolazione dei veicoli: allo stesso modo il legislatore potrebbe domani imporre

a tutti i cittadini, nel perseguimento dell’interesse generale alla liberazione dagli

stati di bisogno, la sottoscrizione di una forma di previdenza complementare,

formalizzando l’incapacità dello Stato di adempiere al compito (attribuitogli

dall’art. 38, comma 2° della Costituzione) di garantire le prestazioni

pensionistiche “adeguate” a soddisfare il predetto interesse. D’altra parte, la

paventata obbligatorietà della previdenza complementare le offrirebbe

finalmente una chiara qualificazione, risolvendo quella atavica ambiguità che

rende ancora oggi difficile la collocazione giuridica e costituzionale della

previdenza complementare e la verifica del conseguente rapporto intercorrente

tra la stessa e la previdenza pubblica obbligatoria.

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La risoluzione della questione, peraltro, rivela una particolare importanza anche

ai fini della presente ricerca: se si ritiene424, infatti, che l’eventuale devoluzione

del trattamento di fine rapporto ai fondi di previdenza complementare attribuisca

all’istituto carattere prettamente previdenziale, si impone all’interprete, quale

ulteriore piano di analisi, la determinazione della natura, pubblica o privata,

delle forme pensionistiche alle quali il trattamento accede. Ciò consentirebbe di

stabilire, infatti, se le quote accantonate di t.f.r. e devolute ai fondi pensionistici

abbiano altresì mutato la propria natura da privata in pubblica, in quest’ultimo

caso trasformandosi in contributi previdenziali assimilabili a quelli cc.dd.

obbligatori con tutte le conseguenze del caso. Proviamo, allora, a ricostruire

sommariamente le tappe più significative della querelle dottrinale e

giurisprudenziale che ha animato, nel tempo, questa complessa ed articolata

problematica, dovendosi necessariamente rinviare, per l’approfondimento

relativo a ciascuna di esse, a più ampi spazi di indagine.

2. La natura della previdenza complementare (cenni).

a) Le prime forme di previdenza di matrice privatistica furono realizzate alla

fine dell’800 mediante la costituzione di società cc.dd. di mutuo soccorso o

mutue assicuratici, che rappresentarono, peraltro, una delle prime “creazioni”

del nascente movimento sindacale. Le “mutue”, interamente regolata per via

contrattuale, erano espressione di una solidarietà limitata ai datori di lavoro e ai

lavoratori, basate su un complesso di rapporti analoghi a quelli assicurativi (ma

molto meno costosi e, dunque, più accessibili), che legavano contributi e

prestazioni previdenziali in una stretta relazione di corrispettività. La finalità

perseguita consisteva nella realizzazione di una tutela, inizialmente riservata ai

lavoratori subordinati e poi gradualmente estesa a tutti i produttori di reddito, di

424 Cfr. capitolo I, par. 2.4.

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fronte a situazioni di bisogno causate da una sopravvenuta menomazione della

capacità lavorativa e/o di produzione della ricchezza425.

Anche le prime forme di previdenza obbligatoria426, del resto, perpetrarono

questo regime: la previdenza pubblica, infatti, nelle sue prime declinazioni, non

perseguiva l’interesse pubblico generale, bensì gli interessi delle categorie dei

lavoratori e dei datori di lavoro nell’ambito di una solidarietà sempre limitata

alla logica del rapporto di lavoro427. Nel sistema corporativo, dunque, sebbene

convivessero due tipologie di previdenza, una pubblica statale e l’altra privata

sindacale, esse perseguivano sostanzialmente i medesimi obiettivi: la distinzione

andava rinvenuta, piuttosto, nella valutazione compiuta dall’ordinamento in

ordine alla necessità di dare soddisfazione a determinati interessi invece che ad

altri, interessi soltanto i quali divenivano oggetto della previdenza pubblica c.d.

obbligatoria.

Solo con l’avvento della Costituzione repubblicana il “sistema previdenza

sociale” esce dai binari produttivo-lavoristici e si estende all’intera collettività,

attraverso l’individuazione nella cittadinanza dell’unico titolo necessario per

accedere alle relative prestazioni. In particolare, la “nuova” previdenza

costituzionalizzata persegue la soddisfazione, immediata e diretta, dell’interesse

pubblico a che, mediante il ricorso alla solidarietà generale (art. 2 Cost.) siano

garantite a tutti i cittadini le condizioni economiche e sociali indispensabili per

l’effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3 Cost.): la relativa tutela

diviene, in altre parole, «espressione di una solidarietà estesa a tutti i cittadini, la

425 Cfr. R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Cedam, Padova, 2006, p. 3. 426 La prima forma di previdenza obbligatoria (ma ancora limitata agli operai e, solo successivamente, estesa agli impiegati appartenenti ad una bassa fascia reddituale) fu istituita con d. lgs. n. 603/1919 che introduceva la obbligatorietà della tutela per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti. 427 La XXVI disposizione della Carta del Lavoro chiarisce infatti che la realizzazione della tutela previdenziale è «compito delle categorie» e veniva realizzata sulla base di quella rigorosa corrispettività cui si è accennato tra contribuzione e successiva erogazione della prestazione.

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cui realizzazione corrisponde alla soddisfazione di tutta la collettività»428.

Tant’è che l’art 38 della Carta costituzionale attribuisce ad «organi ed istituti

predisposti o integrati dallo Stato» (comma 4°) il compito di garantire ai

cittadini429 «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita» (comma 2°), mentre lascia

le residue aree di previdenza alla libera iniziativa privata (comma 5°). Il disegno

costituzionale contempla, quindi, diversamente dal sistema corporativo, due

diversi sistemi previdenziali, quello pubblico e quello privato, distinti sia quanto

alla struttura che quanto alla funzione e agli interessi perseguiti: da un lato, la

previdenza pubblica, c.d. obbligatoria, destinata a realizzare l’interesse pubblico

generale e basata sulla obbligatorietà e sulla necessità della tutela; dall’altro lato,

la previdenza privata che, essendo funzionale alla realizzazione di interessi

esclusivamente privati, individuali o collettivi, «è volontaria e, quindi,

eventuale»430.

428 M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Cedam, Padova, 2003, p. 4. 429 In realtà il dettato costituzionale stabilisce, ai commi 1° e 2°, che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» e che «i lavoratori hanno diritto a che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria». La norma contiene una distinzione tra cittadini e lavoratori, coerentemente alla distinzione, di origine corporativa, tra assistenza e previdenza sociale laddove la prima «assolveva ad una generica funzione di tutela degli indigenti e costitutiva espressione di una solidarietà… limitata alle disponibilità degli enti erogatori», mentre la seconda assolveva alla »specifica funzione di tutela dei lavoratori in quanto espressione di una solidarietà imposta esclusivamente ai datori di lavoro» (M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, Cedam, 2003, p. 26). E tuttavia la migliore dottrina rileva che la stessa Costituzione repubblicana accoglie al contempo i più ampi principi della sicurezza sociale che, trovando attuazione «in quel complesso sistema attraverso il quale la pubblica amministrazione (realizza) il fine pubblico della solidarietà con l’erogazione di beni e di servizi ai cittadini che si trovano in condizioni di bisogno», conduce necessariamente ad un superamento della tradizione distinzione tra assistenza e previdenza sociale, dovendosi ritenere che l’art. 38 Cost. riguardi «allo stesso modo e allo stesso titolo, tanto i cittadini lavoratori che i cittadini in genere» (M. PERSIANI, op. loc. cit., p. 26-27). 430 M. PERSIANI, Previdenza pubblica e previdenza privata, Relazione svolta in occasione delle Giornate di studio AIDLASS, Ferrara 11-13 maggio 2000, che leggo in La previdenza complementare, Cedam, Padova, 2008, p. 8. Cfr. inoltre G. ZAMPINI, La previdenza complementare nella giurisprudenza. Una rassegna critica tra vecchie e nuovo riforme, in ADL, 2006, p. 313 ss.

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All’entrata in vigore della Costituzione non è seguita, tuttavia, la realizzazione

di un coerente progetto di riforma che regolasse ex novo gli istituti previdenziali

alla luce dei principi enunciati dalla Carta; di conseguenza, le principali forme di

tutela previdenziale hanno conservato una disciplina almeno in parte

corporativa. Ben si comprende, allora, la forte ambiguità che caratterizza l’intero

sistema italiano di previdenza sociale, diviso tra norme di matrice corporativa e

disposizioni di ispirazione costituzionale.

Ciononostante, fino alla fine degli anni ’60 il sistema previdenziale pubblico si è

sufficientemente adeguato al dettato costituzionale, limitandosi a garantire, nel

rispetto dell’art. 38, 2° comma, «i mezzi essenziali alla liberazione dal

bisogno»431, peraltro contemplando un tetto massimo di pensione e

commisurando le relative prestazioni esclusivamente a quanto versato nell’arco

della vita lavorativa dal contribuente. Lo stesso sistema, però, rimasto

strutturalmente immutato rispetto al periodo corporativo, finì per rivelarsi

scarsamente efficiente in ragione non solo delle limitate risorse disponibili, ma

soprattutto dell’intervenuta estensione del relativo ambito di tutela che, dagli

originari confini corporativamente collegati all’esistenza di un rapporto di

lavoro, si ampliava verso l’intera cittadinanza repubblicana. Di conseguenza

coloro che potevano permetterselo continuarono a coltivare forme di previdenza

privata, volte, almeno tendenzialmente, alla conservazione del tenore di vita

raggiunto con l’attività lavorativa. Proprio per il soddisfacimento di tale

interesse, nascevano, quale naturale evoluzione delle mutue assicuratrici di

epoca corporativa, le prime forme di previdenza integrativa, istituite mediante

accordi sindacali, aziendali o di categoria, e finanziate attraverso la destinazione

ad esse di una quota della retribuzione. Il fenomeno, del tutto privo di

regolamentazione e riferimenti normativi, si sviluppò in sede contrattuale,

attraverso «la creazione di una solidarietà collettiva per far fronte agli eventi che 431 M. PERSIANI, Previdenza pubblica e previdenza privata, cit., p. 12.

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possono provocare situazioni di bisogno socialmente rilevanti in alcuni dei

compartecipi»432.

La matrice collettiva di queste forme di «previdenza sindacale»433 e dei bisogni

al soddisfacimento dei quali erano volte, parallela rispetto alla portata generale

delle finalità perseguite dal sistema di previdenza pubblica, comportò

l’identificazione della previdenza integrativa (o complementare) con tali regimi

pensionistici aziendali, ormai del tutto distinta dalle altre forme di previdenza

privata.

b) Intanto, a partire dalla fine degli anni ’60, il legislatore si è progressivamente

discostato dal “progetto” costituzionale, assegnando al sistema previdenziale

pubblico funzioni ulteriori rispetto alla sola “liberazione dal bisogno”, con

l’ambizioso miraggio di creare una mutualità pubblica di consistenza tale da

garantire al lavoratore il tenore di vita raggiunto all’esito della propria carriera,

parametrandone il relativo trattamento pensionistico all’ultima retribuzione

percepita.

L’operazione si traduceva in un improprio ampliamento del concetto di

“adeguatezza” (ex art. 38, comma 2°, Cost.) dei trattamenti volti a garantire la

liberazione dagli stati di bisogno; parallelamente, si attenuava il ricorso alla

previdenza privata, resa pressoché inutile, specie per i lavoratori delle fasce di

reddito più basse, in ragione proprio del notevole aumento dei trattamenti

pensionistici pubblici434.

432 R. PESSI, La nozione di previdenza integrativa, in QDLRI, 3, 1988, p. 70. 433 La definizione è di M. PERSIANI, La previdenza complementare, in La previdenza complementare, Cedam, 2007, p. 41, nonché ID, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in La previdenza …, op. loc. cit., p. 141 ss.. 434 Già la previdenza del pubblico impiego svolgeva una funzione analoga in ragione della concezione, ormai superata, che il pubblico impiego non si estingue con il collocamento a riposo e, di conseguenza, la pensione dell’impiegato doveva essere considerata alla stregua della retribuzione vera e propria.

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L’ingiustificata estensione dell’area di tutela affidata alle casse pubbliche, ben

oltre quei bisogni considerati “tipici” della generalità dei soggetti protetti, apriva

, per altro verso, una illimitata caccia a nuove fonti di finanziamento della

previdenza obbligatoria chiamata a sostenere livelli di spesa in crescita

esponenziale435. La prima e più semplice fonte di incremento delle casse statali

di previdenza era costituita dal gettito contributivo, il cui innalzamento, però,

richiedeva la individuazione di nuove basi imponibili. Così, all’inizio degli anni

’80, gli enti previdenziali pretesero di assoggettare a contribuzione obbligatoria

anche le somme versate dai datori di lavoro per il finanziamento di regimi di

previdenza aziendale. In particolare, si richiamava l’art. 12 della legge n. 153 del

30 aprile 1969, che considerava i suddetti contributi datoriali come somme

erogate ai lavoratori “in dipendenza” del rapporto, sicché, offrendone una

qualificazione sostanzialmente retributiva (o equiparabile, dal punto di vista

strutturale alla retribuzione), si pretendeva che tali somme fossero assoggettate a

contribuzione come qualsiasi altra voce salariale. L’opzione normativa adottata

produceva, tuttavia, un innegabile attrito tra la previdenza pubblica e quella

privata: l’individuazione, quale nuova base imponibile, del finanziamento alle

forme pensionistiche integrative, da un lato aumentava gli oneri finanziari a

carico dei datori di lavoro che avevano accettato di istituire tali fondi e di

finanziarli, e, dall’altro lato, si poneva in aperto contrasto con la libertà

costituzionalmente garantita alla previdenza privata (art. 38 ultimo comma,

Cost.), nonché con il principio che incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue

forme (art. 47 Cost.). Difatti, se le somme versate ai fondi integrativi di

previdenza aziendale venivano considerate contributi previdenziali, versati,

anziché alle casse pubbliche, ad una cassa privata, l’assoggettamento delle

435 Cfr. M. PERSIANI, La previdenza fra libertà e garanzie. Primato e limiti della previdenza pubblica, in INPDAP, 1994, p. 273 ss., nonché in La previdenza complementare, cit., p. 59 ss.

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medesime somme a contribuzione obbligatoria non poteva che apparire come

«l’irrazionale imposizione di un “contributo sul contributo”»436.

Sul punto, la dottrina si divise in maniera netta:

- secondo alcuni, la previdenza integrativa, munita dei connotati essenziali della

solidarietà collettiva o della mutualità, sarebbe finalizzata a soddisfare bisogni

potenzialmente riguardanti tutti gli appartenenti ad un gruppo e dotati, quindi,

del carattere «della rilevanza sociale»437. Sicché le due forme di previdenza,

quella pubblica e quella integrativa, concorrerebbero entrambe a garantire quella

«prestazione adeguata»438 la cui realizzazione è affidata viceversa, nel disegno

del Costituente, esclusivamente ad «organi e istituti predisposti o istituiti dallo

Stato» (art. 38, 4° comma, Cost.). Questa complementarietà di funzioni, oltre

che di prestazioni, della previdenza integrativa sindacale rispetto a quella

pubblica rendeva ingiustificabile l’assoggettamento dei relativi finanziamenti a

contribuzione pubblica. - secondo altra parte della dottrina, invero minoritaria439,

la previdenza integrativa-sindacale andrebbe ricondotta all’ultimo comma

dell’art. 38 Cost. in ragione degli interessi squisitamente privatistici da essa

perseguiti. Tesi, quest’ultima, certamente più persuasiva per ragioni di

«coerenza» rispetto al disegno costituzionale poiché «se si riconosce che la

conservazione del tenore di vita raggiunto al momento della pensione non può

rientrare nel novero degli interessi pubblici, ne consegue che il suo

soddisfacimento non può che essere affidato ad un’iniziativa volontaria, e cioè

436 M. PERSIANI, Previdenza pubblica e previdenza privata, op. cit., p. 12. 437 Cfr. R. PESSI, La nozione di previdenza integrativa, cit., p. 70. 438 R. PESSI, La nozione di previdenza integrativa, cit., p. 63. 439 Così M. PERSIANI, Retribuzione e previdenza secondo legge e contratto, in GI, 1984, I, 1, c. 8 e ID, Retribuzione, previdenza privata e previdenza pubblica, in Questioni attuali di diritto del lavoro, Roma, 1989; M. CINELLI, Problemi di diritto della previdenza sociale, Torino, 1989, pp. 26-36; M. GRANDI, Previdenza integrativa e previdenza privata, in DL, 1990, I, p. 95 ss.; L. SPAGNUOLO VIGORITA, Qualificazione e interpretazione del contratto collettivo istitutivo di un fondo di previdenza complementare, in L’interpretazione dei contratti collettivi di lavoro, in NGL (I saggi de), Roma, 1999, p. 149 ss.

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facoltativa, come la previdenza integrativa»440. In quest’ottica, peraltro, le

prestazioni erogate dai regimi di previdenza complementare risultavano del tutto

assimilabili dal punto di vista funzionale all’indennità di anzianità e al

trattamento di fine rapporto, costituendo anch’esse una forma di retribuzione

differita con funzione previdenziale441: la disciplina del t.f.r. ne offrirebbe

un’implicita conferma dal momento che essa contempla la possibile erogazione

del trattamento mediante prestazioni periodiche e, dunque, in forma

pensionistica (cfr. art. 3, l. 297/1982). Sicché, anche secondo i fautori di questo

diverso orientamento, le forme di previdenza integrativa dovrebbero andare

esenti da contribuzione previdenziale per analogia rispetto alla citate indennità

di fine lavoro, sottratte alla contribuzione obbligatoria da apposite norme di

legge (si fa riferimento al già citato art. 12, della l. 153 del 1969, che al n. 3 del

2° comma e al 4° comma dello stesso articolo, poi modificato dal d. lgs.

314/1997, conteneva la suddetta liberatoria).

La giurisprudenza, dal canto suo, ha a lungo sostenuto la natura retributiva dei

finanziamenti alle forme pensionistiche private – financo attribuendo, a taluni

regimi di previdenza aziendale, una finalità integrativa dei trattamenti di fine

rapporto442 -, e ne ha corrispondentemente affermato la assoggettabilità alla

contribuzione obbligatoria, rifiutando di attribuire rilevanza alla funzione

previdenziale assolta da quelle “porzioni di retribuzione”443.

440 Cfr. G. SANTORO PASSARELLI, Il trattamento di fine rapporto, Giappichelli, Torino, 1995, specialm. p. 67 ss. 441 In tal senso si è pronunziata la cassazione con sentenza n. 974 del 1° febbraio 1997. 442 «Non si tratta dunque di un fondo di previdenza integrativa in senso tecnico, avente funzione complementare dei trattamenti pensionistici erogati dalla previdenza pubblica, ma piuttosto di un fondo integrativo del trattamento di fine rapporto, corrisposto dal datore di lavoro, il quale può chiamarsi “fondo di previdenza” solo nel senso in cui il trattamento di fine rapporto si definisce come retribuzione differita in funzione previdenziale», così Corte cost., 3 ottobre 1990, n. 427, in OGL, 1991, p. 220, con nota di DE LUCA TAMAJO e in RIDL, 1991, II, p. 239 con note di TOSI E REALMONTE). 443 «Un conto individuale, integrante, insieme con l'indennità di anzianità, il trattamento di quiescenza e costituito da versamenti mensili in parte del datore e in parte del prestatore di

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Così, quando, con un isolato intervento, la Corte di Cassazione sollevò la

questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 della legge 30 aprile 1969, n.

153444, la Consulta si espresse negativamente concludendo che sebbene la

previdenza integrativa dovesse essere incoraggiata, anche in ossequio alle

indicazioni fornite all’epoca dalla Comunità economica europea, tuttavia «il

principio di solidarietà (art. 2 Cost.) non consente che il suo finanziamento,

soprattutto se alimentato da redditi medio-alti, sia interamente esentato da

contribuzione alla previdenza pubblica»445.

c) Tale orientamento fu superato solo dall’intervento del legislatore che, con

legge n. 166 del 1991 (il cui regime è stato poi modificato dal successivo d. lgs.

124 del 1993), escluse i finanziamenti alla previdenza privata dall’imponibile

contributivo, ma, contestualmente gravò le medesime somme di un c.d.

“contributo di solidarietà”, pari al 10%, ad esclusivo carico dei datori di lavoro

finanziatori dei regimi pensionistici aziendali. Tale contributo era destinato

esclusivamente, nel rispetto altresì dell’orientamento appena manifestato dalla

Consulta, al perseguimento di interessi pubblici e imposto in attuazione del

lavoro, non ha carattere assistenziale, nè previdenziale, ma retributivo» (cfr. Cass., S.U., n. 3850 del 1975 e, n. 1717 del 1984; nonchè, Cass. n. 5980 del 1978 e n. 1136 del 1974). Deve darsi atto tuttavia del fatto che la giurisprudenza non produsse un orientamento unitario in tal senso, mostrandosi, viceversa, piuttosto oscillante in punto di qualificazione dei suddetti contributi. Sono recenti alcune pronunce con cui la Corte di Cassazione qualifica i versamenti dei datori ai fondi come «contributi di natura previdenziale, come tali estranei alla nozione di retribuzione imponibile» (così Cass. 7 novembre 2005, n. 21473, in PAPP, 2006, p. 115, con nota di FRAIOLI, Natura delle contribuzioni versate dai datori di lavoro ai fondi di previdenza complementare). Si vedano inoltre in relazione alla incidenza di tali somme su altri istituti retributivi i contrastanti approdi raggiunti da Cass. 17 gennaio 2006, n. 783, in ADL, 2006, p. 610, con nota critica di GAMBACCIANI; Cass. 17 gennaio 2006, n. 783, commentata congiuntamente a Trib. Perugia 31 gennaio 2006, da TURSI, La questione ancora aperta della commutabilità ai fini del t.f.r. del contributo del datore di lavoro a Fondi di previdenza complementare, in RIDL, 2006, II, p. 701; nonché Trib. Roma 17 marzo 2005, in NGL, 2005, p. 246; Trib. Bologna 10 febbraio 2005, ivi, 2005, p. 536. 444 Con l’ordinanza n. 208 del 28 marzo 1990. 445 Corte cost. 3 ottobre 1990, n. 427, cit.

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principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.. Così, in maniera coerente e

parallela rispetto al révirement normativo, anche i giudici della Corte

costituzionale capovolsero il proprio orientamento in merito alla qualificazione

giuridica dei finanziamenti ai regimi pensionistici aziendali, affermando che

questi «non possono più definirsi “emolumenti retributivi con funzione

previdenziale”, ma sono strutturalmente contributi di natura previdenziale»446.

Nasceva, così, una nuova idea di previdenza privata, non più intesa soltanto

come una modalità di risparmio liberamente adottata dal singolo cittadino-

lavoratore, nell’esercizio della libertà sancita dall’ultimo comma dell’art. 38

Cost., bensì come una forma di sostegno “complementare” al sistema

pensionistico pubblico.

In altre parole sembra che il legislatore, consapevole della crescente incapacità

del sistema previdenziale pubblico di far fronte alle esigenze pensionistiche

della popolazione, abbia recuperato quella concezione corporativa della

446 Corte cost. n. 421/1995, in RIDL, 1996, II, p. 7 con nota di G. PERA, Fondi pensionistici integrativi e contribuzione previdenziale; in GI, 1996, I, c. 290, con nota di P. BOZZAO, Previdenza complementare: la Corte costituzionale torna sulla questione del «contributo sul contributo»; in GC, 1996, I, p. 663, con nota di GIUBBONI e in LG, 1997, p. 233 ss., con nota di TRANQUILLO. Nel 1995, nel corso di un giudizio riguardante la legittimità ella seconda parte dell’art. 9 della l. 166/1991, la stessa Corte sollevò d’ufficio, dinnanzi a sé stessa, un’ulteriore questione di legittimità relativa alla prima parte del medesimo art. 9 nella parte in cui, interpretando l’art. 12 della legge n. 153 del 1969, escludeva i datori di lavoro sia dalla contribuzione previdenziale sia dal versamento di un contributo di solidarietà in relazione ai finanziamenti erogati prima del 1991. Con la citata sentenza n. 421 dell’8 settembre 1995, la Corte ritenne fondata la questione, affermando che il legislatore avrebbe dovuto imporre, per gli anni fino al 1991, una «contropartita analoga al contributo di solidarietà imposto per il futuro». Sulla base di tali “indicazioni”, il legislatore, in deroga al regime della prescrizione dei crediti previdenziali, con legge n. 662/1996 impose un contributo di solidarietà anche sui finanziamenti alla previdenza integrativa realizzati tra il 1 settembre 1985 e il 30 giugno 1991 (per un rapido ma efficace excursus su tali vicende, si veda M. PERSIANI, Previdenza pubblica e previdenza privata, cit., p. 13 ss.). Anche tale disciplina è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale che l’ha dichiarata legittima con sentenze 8 giugno 2000, n. 178, in NGL, 2000, p. 504; 28 luglio 2000, n. 3939, ivi, 2000, p. 794; 16 aprile 2002, n. 121, ivi, 2002, p. 402.

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previdenza privata attribuendole una «posizione ancillare»447 rispetto a quella

pubblica.

È bene, allora, ribadire, che la Carta costituzionale, dichiarando la libertà della

assistenza privata (art. 38, ultimo comma), sembra andare in tutt’altra direzione

e fondare, piuttosto, il sistema sulla «necessaria autonomia dell’una rispetto

all’altra»448 forma di previdenza. Autonomia che vuol dire, nel rispetto del

disegno costituzionale, impossibilità di interferenza tra le due aree di

previdenza, anche qualora la colleganza si traduca in una sott’ordinazione del

sistema privato rispetto a quello pubblico, per esempio mediante l’imposizione

al primo di un contributo di solidarietà da corrispondere in favore del secondo:

proprio perché separate e distinte sotto ogni profilo, le due forme di previdenza

non potrebbero instaurare alcuna relazione gerarchica tra loro. Senza

dimenticare, poi, che l’eventuale finanziamento di forme pensionistiche private

non sottrae i relativi finanziatori alla solidarietà generale oggetto

dell’inderogabile dovere di cui all’art. 2 Cost.: i datori di lavoro continuano a

versare alle casse pubbliche i contributi obbligatori nel rispetto delle norme che

realizzano il suddetto principio di solidarietà generale, e, al contempo,

finanziano la previdenza integrativa in adempimento degli obblighi

contrattualmente assunti nei confronti dei propri dipendenti.

d) Dopo aver a lungo ignorato il fenomeno della previdenza privata se non sotto

i cennati profili contributivi, il legislatore interveniva in materia, anche in

ragione della crisi finanziaria, che, investendo ormai appieno il sistema

previdenziale pubblico, imponeva la rimodulazione di quel concetto –

impropriamente ampliato in epoca post repubblicana - di “adeguatezza” della 447 Cfr. M. PERSIANI, La previdenza complementare tra iniziativa sindacale e mercato finanziario, in ADL, 2001, 3, p. 715 ss., nonché in ID, La previdenza complementare, cit., p. 147. 448 Così M. PERSIANI, Previdenza pubblica e previdenza privata, cit. p. 18.

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tutela previdenziale posta dalla Costituzione a carico del sistema previdenziale

pubblico.

Con l’emanazione della legge n. 421 del 1992 il Governo riceveva la delega a

regolare e a favorire l’istituzione di forme pensionistiche complementari e, al

contempo, ad attuare la suddetta riduzione dei livelli pensionistici erogati dal

sistema previdenziale obbligatorio. «La concomitanza di questi interventi –

tuttavia – ha determinato l’impressione che la complementarietà tra sistemi

previdenziali privati e sistema previdenziale pubblico (fosse) intensa»449. E alla

diffusione di tale impressione ha contribuito tanto la dottrina450 quanto la

giurisprudenza, specie costituzionale, che, a partire dal 1995, ha affermato che

«non può essere posta in dubbio la scelta del legislatore enunciata sin dalla legge

23 ottobre 1992, n. 421 e, via via, confermata nei successivi interventi, di

istituire un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza

complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’art. 38, comma 2°

449 Così M. PERSIANI, La previdenza fra libertà e garanzie. Primato e limiti della previdenza pubblica, in INPDAP, 1994, p. 273 ss., e, oggi, in ID., La previdenza complementare, op. cit., p. 59. 450 Attribuiscono alla previdenza complementare una funzione concorrente (e quindi analoga) rispetto a quella della previdenza pubblica, P. OLIVELLI, La costituzione e la sicurezza sociale, 1988, p. 190; P. SANDULLI, Riforma pensionistica e previdenza integrativa, in DLRI, 1991, p. 245 ss; ID., Il decreto legislativo n. 124/93 nel sistema pensionistico riformato, in DPL, 1993, n. 35 (inserto), p. 111 ss. ; ID., Previdenza complementare, in Digesto Disc. Priv., XI, Torino, 1995, p. 253 ss.; M. CINELLI, Progetto di riforma pensionistica e sistema di previdenza sociale, in GC, 1989, III, p. 3 ss.; ID., I problemi della previdenza complementare. L’adeguamento delle forme preesistenti alla disciplina di legge, in MGL, 1997, p. 505 ss.; R. PESSI, La nozione di previdenza integrativa, in La previdenza integrativa, Quaderni di diritto del lavoro e della previdenza sociale, Torino, 1988, p. 66 ss.; ID., La previdenza complementare tra legge e contratto, in La riforma delle pensioni e la previdenza complementare, Padova, 1997, p. 108 ss.; G. SANTORO PASSARELLI, Note sulla previdenza dei privati, in LD, 1991, p. 632 ss.; A. TURSI, Riflessioni sulla nuova disciplina della previdenza complementare, in LD, 1994, p. 78 ss.; F. MAZZIOTTI, Prestazioni pensionistiche complementari e posizioni contributive, in DL, 1997, p. 242 ss, secondo cui le forme di previdenza complementare sarebbero riconducibili al quarto comma dell’art. 38 Cost. (v. infra nel testo). Per una ricognizione degli orientamenti maturati in dottrina, si vedano, A. TURSI, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale. Fattispecie e disciplina giuridica, Milano, 2001, p. 11 ss.; G. ZAMPINI, La previdenza complementare. Fondamento costituzionale e modelli organizzativi., Padova, 2004, p. 27 ss.

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della Costituzione»451. Semplificando, sembra che la Corte abbia argomentato

l’asserita legittimità della contribuzione di solidarietà a carico dei finanziatori

della previdenza privata con «l’esigenza di concorrere all’eliminazione del

dissesto finanziario che affligge il sistema previdenziale pubblico»452.

La successiva riforma, introdotta con il d. lgs. n. 252 del 5 dicembre 2005

(emanato in attuazione della delega contenuta nella l. n. 243 del 2004) compie

un ulteriore passo avanti nella medesima direzione, al contempo valorizzando i

profili di libertà di scelta della forma pensionistica alla quale aderire e il ricorso

al trattamento di fine rapporto quale canale preferenziale di finanziamento delle

suddette forme (v. infra). Resta comunque inalterata, nella sostanza, la querelle

intorno alla qualificazione della previdenza complementare.

La recente dottrina maggioritaria, sulla scia dell’interpretazione da ultimo

offerta (e poc’anzi ricordata) dalla Corte costituzionale, conclude per la

complementarietà (non più soltanto delle prestazioni, bensì anche) delle funzioni

svolte dai due diversi sistemi. Secondo quest’orientamento la previdenza privata

sarebbe funzionalmente complementare a quella pubblica perché concorrerebbe

a garantire quei «mezzi adeguati alle esigenze di vita» di cui all’art. 38, secondo

comma, della Costituzione. Si è affermato, in particolare, che il sistema di

previdenza pubblica manterrebbe il suo carattere «di strumento necessario e

sufficiente» per garantire le prestazioni adeguate di cui all’art. 38, 2° comma

della Costituzione e che la previdenza complementare afferirebbe alla medesima

norma costituzionale in ragione delle finalità perseguite che, pur non

rispondendo ai suddetti canoni di adeguatezza, rileverebbero egualmente per il

loro carattere “sociale”453. Secondo altri, invece, la funzionalizzazione alla

451 Corte cost. 28 luglio 2000, n. 393, cit., ma si veda altresì l’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 421 dell’8 settembre 1995, cit., secondo cui -…… 452 M. PERSIANI, Previdenza privata… cit., p. 19. 453 Cfr. T. TREU, La previdenza complementare nel sistema previdenziale, in La previdenza complementare, in Dir. Lav. Commentario, diretto da CARINCI, IV, Torino, 2004, p. 3 ss..

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realizzazione di interessi pubblici si evincerebbe dal fatto che la previdenza

complementare mira al mantenimento del tenore di vita raggiunto, afferente alla

«area residuale dei bisogni socialmente rilevanti che, per carenza di risorse e/o

per opzione di politica socio-economica, non possono nel momento attuale

essere soddisfatti direttamente dallo Stato»454. A conferma di tale lettura

deporrebbe inoltre l’avvento della legislazione in materia di previdenza privata:

la scelta operata dal legislatore, che dopo lunghi anni di vuoto normativo ha

ritenuto di regolamentare tali strumenti previdenziali sottraendoli alla libera

gestione della volontà contrattuale, comporterebbe l’attribuzione alla previdenza

complementare della «natura di istituto integrato dallo Stato al fine della

realizzazione di scopi in linea di continuità con quelli della previdenza di

base»455. Su questa scia, ha preso forma anche l’idea456 che una parte degli

interessi protetti siano stati sostanzialmente “privatizzati” ovvero se ne sia

affidata la realizzazione alla responsabilità dei privati «con il risultato della

configurazione di un sistema di tutela riservato alle categorie più forti»457.

Ha conservato, invece, sostanzialmente inalterata la propria posizione Mattia

PERSIANI che, nel ribadire la «sostanziale diversità»458 funzionale delle due

forme di previdenza in ragione dei diversi interessi perseguiti, contesta che la

condizione di crisi delle casse previdenziali pubbliche possa incidere sulla

funzione attribuita dal Costituente alla previdenza privata; funzione che consiste

454 R. PESSI, La collocazione funzionale delle recenti innovazioni legislative in materia di previdenza complementare nel modello italiano di sicurezza sociale, in La previdenza complementare nella riforma del Welfare, a cura di FERRARO, Milano, 2000, p. 9 ss. 455 F. MAZZIOTTI, Prestazioni pensionistiche complementari…, cit. 456 Si veda R. VIANELLO, Previdenza complementare e autonomia collettiva, Padova, 2005, p. 83 ss. 457 Lo rileva O. BONARDI (Tassonomie, concetti e principi della previdenza complementare, Commento all’art. 1, in A. TURSI (a cura di), La nuova disciplina della previdenza complementare (d. lgs. 5 dicembre 2005, n. 252), in NLCC, 3-4, 2007, p. 560) ricostruendo il pensiero di T. TREU, La previdenza complementare nel sistema…, cit., p. 5 e DE LUCA, La disciplina dei fondi pensione, in DLRI, 1994, p. 78. 458 M. PERSIANI, Previdenza pubblica e previdenza privata, cit..

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esclusivamente nella realizzazione dell’interesse privato, individuale e/o

collettivo, a godere di «più elevati livelli di copertura previdenziale» come lo

stesso legislatore dichiara tra le finalità proprie della riforma della previdenza

complementare prima nell’art. 1 del d. lgs. 124/1993 e, poi, nell’art. 1 del

successivo d. lgs. 252/2005. In tal senso, l’esistenza di un sistema previdenziale

pubblico, che garantisca al cittadino mezzi adeguati alle esigenze di vita,

costituisce piuttosto “il presupposto” per l’esistenza della previdenza privata

ovvero la condizione necessaria affinché i cittadini possano effettivamente

esercitare la libertà di assistenza privata costituzionalmente garantita dall’art. 38

Cost.. Non a caso la previdenza complementare è rimessa alla libera scelta del

cittadino e deve ritenersi che essa conserverà la propria matrice privatistica

almeno fino a quando la costituzione dei relativi fondi sarà lasciata alla liberà

volontà e determinazione dei singoli. Deve concludersi, quindi, che la

complementarietà a cui si riferisce la stessa denominazione, con la quale si è

recentemente preferito indicare le nuove forme di previdenza privata

(probabilmente per contribuire alla distinzione anche nominale di queste ultime

rispetto alle forme previdenziali cc.dd. preesistenti, ovvero istituite

anteriormente all’entrata in vigore del d. lgs. 124 del 1993 e più note, all’epoca,

come previdenza integrativa459), vada riferita alle prestazioni e non alle funzioni

svolte dai due diversi regimi.

Se per alcuni versi la tesi di PERSIANI risulta particolarmente condivisibile460, per

altro verso non può ignorarsi che la previdenza complementare svolge una

459 In passato, peraltro, il legislatore aveva altresì consentito, con l. n. 55 del 20 febbraio 1958, la istituzione di regimi di previdenza aziendale cc.dd. esonerativi ovvero sostitutivi di quello obbligatorio gestito dall’INPS, successivamente soppressi e trasformati in regimi integrativi di quelli pubblici (cfr. art. 3, l. 218 del 1990 e d. lgs. 357 del 1990). 460 Si fa riferimento in particolare a: l’insistita distinzione tra gli interessi e i bisogni tutelati dalla previdenza pubblica e da quella privata; la riconduzione della previdenza complementare nell’alveo della seconda, poiché la sola rilevanza collettiva degli interessi perseguiti non è in grado di per sé di inficiare il carattere privatistico degli strumenti utilizzati per il relativo perseguimento; il rilievo per cui la gestione mutualistica e solidaristica di un

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funzione di indubbia rilevanza sociale e che le conferisce senz’altro una valenza

pubblicistica. Inoltre, risulta poco convincente la attribuita natura retributiva al

finanziamento dei fondi pensionistici complementari: sia i contributi

contrattualmente dovuti dal datore di lavoro al finanziamento di fondi pensione,

sia gli accantonamenti di t.f.r. utilizzati alla stessa maniera non possono essere

considerati emolumenti retributivi sol perché dovuti in ragione del rapporto di

lavoro! Difatti non tutto quanto sborsato dal datore di lavoro “a causa” del

contratto di lavoro ha natura retributiva: si pensi alle liberalità (il cesto natalizio

o piuttosto la maglietta con il logo dell’azienda in occasione del decennale di

attività), alla somma versata dal datore di lavoro al Fondo di garanzia per il t.f.r.

che senz’altro non costituisce un forma di retribuzione o ancora agli stessi

contributi previdenziali obbligatori.

Quanto al t.f.r., in particolare, non sembra corretto continuare ad attribuirvi

natura retributiva anche dopo la devoluzione alla previdenza complementare:

deve ritenersi, viceversa, che la destinazione dei relativi accantonamenti ne

modifichi la natura in senso previdenziale461. Né tantomeno è possibile

equiparare le prestazioni erogate dai fondi pensione al trattamento: quest’ultimo

costituisce, per ormai pacifica asserzione della dottrina e della giurisprudenza,

una forma di retribuzione differita, mentre le prime costituiscono un

emolumento previdenziale a tutti gli effetti. Il t.f.r., in quanto voce retributiva

indisponibile, spetta a tutti i lavoratori subordinati “in ogni ipotesi di cessazione

del rapporto”, laddove l’accesso alla previdenza complementare è subordinato

alla libera e volontaria adesione espressa (in maniera esplicita o tacita) dal

lavoratore.

fondo non è sufficiente ad attribuirgli natura pubblicistica; il fatto che il carattere volontario dell’adesione alle forme pensionistiche complementari renda impossibile la qualificazione delle stesse in termini pubblicistici: diversamente opinando, resterebbe ingiustificabile la mancanza di tutela nei confronti dei lavoratori che non possano o non vogliano aderirvi. 461 Si veda in proposito, cap. I del presente lavoro di ricerca.

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In definitiva, non può che rilevarsi il carattere del tutto aperto della questione

qualificatoria della previdenza complementare e condividersi la constatazione

del carattere «ibrido», «ambiguo» e «di difficile collocazione» di questo ramo

(come dell’intero) sistema previdenziale italiano. Così come non può negarsi

che il suddetto sistema poggia su un equivoco di fondo, generato dal cattivo

adattamento del sistema previdenziale corporativo al nuovo disegno contenuto

nella Carta costituzionale repubblicana. Il legislatore difatti non ha mai

abbandonato la previgente tradizione corporativa, che attribuiva alla

previdenza pubblica e a quella sindacale le medesime funzioni consistenti

nella salvaguardia degli interessi di categoria e ha cercato, piuttosto, di

adattarla al nuovo assetto repubblicano. Di conseguenza, non si è mai

superata del tutto quella “contaminazione” funzionale che, con un fastidioso

effetto domino, ha contribuito al disordine normativo di cui il sistema

previdenziale italiano reca ancora i problematici segni, riaffiorando, più o

meno consapevolmente, in gran parte delle scelte legislative compiute

nell’ultimo cinquantennio: alla fine degli anni ’60, come accennato, questa

contaminazione si è tradotta nell’ampliamento del concetto di “adeguatezza”

delle prestazioni previdenziali pubbliche garantite al cittadino, sull’onda

probabilmente del boom economico e dell’entusiasmo (ideologico o

clientelare?) di realizzare una politica di welfare assistenzialista; con la crisi

economica del sistema previdenziale pubblico, viceversa, il legislatore ha

utilizzato la medesima contaminazione funzionale prima per ampliare

l’imponibile contributivo e poi, rilevata l’insufficienza dell’escamotage, per

avviare un processo di progressiva annessione della previdenza privata (nel

frattempo dovutamente incentivata) a quella pubblica obbligatoria.

Sicché può considerarsi ormai acquisita quella commistione funzionale e

(coscientemente) cristallizzato, ad opera del legislatore, quell’equivoco di

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fondo generato dalla stessa e che ha accompagnato l’intera evoluzione del

sistema.

3. La disciplina della previdenza complementare: dal d. lgs. n. 124 del 1993

alla più recente riforma del 2005.

Il d. lgs. 124/1993 ha provveduto ad una prima definizione e regolamentazione

della materia, attraverso la descrizione dei fondi aperti e dei fondi chiusi,

destinati a costituire il secondo pilastro, mentre le forme pensionistiche

individuali avrebbero integrato quel terzo pilastro anch’esso voluto dal

legislatore del 1993.

All’art. 3, comma 1, il d. lgs. 124 definiva “chiusi” i fondi istituiti su base

contrattual-collettiva ai quali potevano aderire solo determinati soggetti, quali

coloro che lavorano per l’impresa o nell’ambito del gruppo di imprese in cui era

stato istituito il fondo, ovvero coloro che appartenevano a determinate categorie

o comparti di riferimento, anche territorialmente definiti. Viceversa l’art. 9 dello

stesso decreto lasciava “aperti” all’adesione di coloro per i quali non

sussistevano o non erano attivi i fondi chiusi, quelli istituiti e gestiti direttamente

da banche, società di assicurazioni, società di gestione del risparmio, società di

intermediazione mobiliare. Nel disegno del decreto n. 124, in altre parole,

veniva imposto una sorta di vincolo gerarchico alternativo che, se per un verso

consentiva al lavoratore di scegliere liberamente “se” aderire al sistema

pensionistico complementare, per altro verso non gli riconosceva l’ulteriore

libertà di scegliere “come” ovvero a quale forma previdenziale aderire, poiché in

presenza di un fondo chiuso di riferimento, il lavoratore non avrebbe potuto

scegliere di aderire ad un fondo aperto. Dunque, sebbene il regime delle forme

pensionistiche alternative a quella obbligatoria non contenesse (anche prima

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dell’intervento normativo del ’93) specifiche limitazioni di accesso alla

previdenza integrativa ovvero a quel terzo pilastro di interesse esclusivamente

individuale, appare forse eccessiva la enfatizzazione, ad opera di alcuni

Autori462, della “libertà di aderire alle forme pensionistiche complementari”

contenuta nel decreto legislativo 124. Quanto al trattamento di fine rapporto, sia

sufficiente accennare che già nell’impianto del decreto 124/1993 il legislatore

individuava nel trattamento di fine rapporto una possibile fonte di finanziamento

della forma pensionistica complementare alla quale avesse aderito il lavoratore;

finanziamento che si rendeva possibile attraverso una esplicita dichiarazione di

volontà in tal senso, ben potendo il lavoratore mantenere il silenzio e conservare

il proprio tfr.

Nel 2000, il d. lgs. 47 predispone un regime fiscale di favore per

l’implementazione delle forme pensionistiche complementari, ma l’incentivo si

rivela inadeguato a far decollare il c.d. secondo pilastro. Si rivelerà senz’altro

più efficace, in tal senso, la successiva riforma introdotta dal decreto legislativo

n. 252 del 5 dicembre 2005, emanato in attuazione della delega contenuta nelle

legge n. 243 del 2004, che provvede ad un organico riordino della materia e si

concentra sull’incentivazione delle forme pensionistiche complementari,

riprendendo, per altro, principi di trasparenza e di buona amministrazione463 che

avevano già ispirato il legislatore del 1993.

La regolazione ha ad oggetto soprattutto le fonti istitutive delle forme

pensionistiche complementari nonché i soggetti destinatari di tali forme, il

regime del finanziamento delle forme pensionistiche complementari, la

normativa relativa alla c.d. portabilità della posizione previdenziale e infine il

regime delle prestazioni erogate.

462 Cfr. D. MEZZACAPO, Nozioni e regole della previdenza complementare riformata, in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento…, cit., p. 124. 463 Come, del resto, già faceva il previdente d. lgs. 124 del 1993.

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L’obiettivo della incentivazione della previdenza complementare viene invece

perseguito attraverso la predisposizione di un regime fiscale di favore. Difatti,

tra i principi e criteri direttivi indicati dalla legge delega n. 243/2004 figurava

proprio la ridefinizione del regime fiscale della previdenza complementare in

modo da ampliare la deducibilità fiscale della contribuzione alle forme

pensionistiche complementari e rivedere la tassazione dei rendimenti

rendendone più favorevole il trattamento in ragione della finalità pensionistica.

Il punto cardine della riforma, però, sembra doversi rinvenire nella

valorizzazione della volontà individuale intesa non solo quale libertà di aderire

alle forme pensionistiche complementari (già introdotta dal decreto del 1993),

ma anche come libertà di scegliere a quale forma pensionistica aderire464 nonché

di trasferire la posizione previdenziale maturata da una forma pensionistica

all’altra. Diversamente dal decreto n. 124/1993, infatti, la riforma del 2005

rimuove il vincolo di alternatività tra fondi aperti e fondi chiusi, ampliando,

sotto tale profilo, lo spettro delle libertà positive del lavoratore al quale, adesso,

è consentito aderire a fondi pensionistici aperti o addirittura ad una forma

pensionistica individuale anche se esiste un fondo chiuso di riferimento. In altre

parole, il novello principio di equiparazione delle forme pensionistiche

complementari consente di «saltare il secondo pilastro e sviluppare un

programma di previdenza complementare anche esclusivamente fondato sulle

forme pensionistiche individuali»465, attribuendo indirettamente maggior

rilevanza alle tradizionali forme pensionistiche individuali.

A questa iniziale libertà di scelta della forma previdenziale alla quale aderire, fa

eco la c.d. portabilità della posizione previdenziale ovvero il diritto di trasferire 464 Valorizza la sussistenza di profili liberistici ulteriori ed egualmente riconducibili alla valorizzazione della volontà del lavoratore, quali, ad esempio, quelli inerenti la formazione del piano di previdenza complementare, il livello di contribuzione, le linee di investimento, l’individuazione di beneficiari diversi dagli eredi, le modalità di erogazione delle prestazioni ai beneficiari designati, ecc., D. MEZZACAPO, Nozioni e regole…, cit., p. 123. 465 Cfr. D. MEZZACAPO, Nozioni e regole..., cit., p. 125.

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la posizione previdenziale maturata, salvo doversi soffermare sui limiti ai quali è

soggetto tale diritto.

Quanto al trattamento di fine rapporto, esso diviene auspicabilmente lo

strumento privilegiato di finanziamento delle forme pensionistiche

complementari. Due norme, in particolare, stringono un nodo forte intorno alla

prestazione di fine rapporto e chiudono il cerchio mostrando in maniera

finalmente netta il disegno del legislatore:

L’art. 8, in particolare, da un lato, unifica i due momenti dell’adesione alla

forma pensionistica complementare e del finanziamento della medesima

mediante il conferimento del t.f.r., rendendo quest’ultima automaticamente

prodromica rispetto alla prima; dall’altro, introduce la modalità tacita di

conferimento che, attraverso il principio del silenzio assenso, inverte il

meccanismo di scelta onerando il lavoratore della espressa dichiarazione di “non

volere aderire e di non voler conferire il t.f.r.”, operando in caso contrario le

relative modalità tacite di adesione e di devoluzione del t.f.r. maturando.

La riforma del 2005, infatti, reca una trasformazione di notevole rilievo quanto

al meccanismo di conferimento del t.f.r. alla previdenza complementare: accanto

alla esplicita manifestazioni di volontà di aderire ad un determinato fondo, il

decreto n. 252 introduce il meccanismo del c.d. conferimento tacito.

Stravolgendo il significato attribuito all’inattività del lavoratore, quale contegno

legislativamente tipizzato, la riforma del 2005 sostituisce il c.d. “silenzio-

diniego”, introdotto dalla disciplina del 1993, con il più discutibile criterio del

“silenzio-assenso”. Di tal ché il lavoratore viene costretto ad un preciso facere

(manifestare il proprio dissenso nei confronti dell’adesione alla previdenza

complementare) per conservare inalterato il diritto all’indennità tipizzata dal

legislatore nell’art. 2120 del codice civile.

Si è condivisibilmente rilevata la delicatezza del ricorso a siffatto meccanismo la

cui origine legale rende «di incerta applicazione le cautele che nella tradizione

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civilistica circondano la qualificazione del silenzio». Difatti, «perché si possa

attribuire ad un comportamento meramente omissivo di un soggetto un valore

negoziale appare necessario che questi sia reso edotto delle conseguenze del suo

silenzio» : solo a queste condizioni potrà attribuirsi alla «inattività un significato

univoco»466. A tal fine, il legislatore dispone che il datore di lavoro debba

fornire al lavoratore «adeguate informazioni sulle diverse scelte disponibili»467.

Rinviando oltre per una breve ricostruzione della tematica, sia consentito,

intanto, rilevare che il meccanismo del silenzio-assenso, diffuso specialmente

nelle dinamiche pubblico-amministrative, viene applicato, dal d. lgs. 252 del

2005, ad un settore che, pur mostrando molteplici profili di rilevanza privatistica

(interesse del lavoratore a precostituirsi uno strumento previdenziale alternativo

e sussidiario rispetto a quello pubblicistico), si mostra voluto e (in parte)

strutturato per soddisfare, al fondo, un forte interesse pubblicistico. Sembra,

dunque, che l’adozione del suddetto meccanismo di consenso costituisca una

“spia” di quella presumibile evoluzione pubblicistica che si è prospettata in

apertura468. L’impronta pubblicistica, del resto, era già nota alla riforma della

previdenza complementare: il d. lgs. 124 del 1993, infatti, disegnava un sistema

di previdenza complementare fondato sui principi di trasparenza e buona

amministrazione, principi che, viceversa, risultavano del tutto insoddisfatti dalle

forme previdenziali private preesistenti. Coerentemente, il legislatore del 1993

predispose una forma di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari

demandandone la attuazione e gestione ad una apposita commissione, la COVIP,

«istituita con lo scopo di perseguire la trasparenza e la correttezza dei

comportamenti e la sana e prudente gestione delle forme pensionistiche 466 Il virgolettato è tratto dall’interessante commento all’art. 8 del d. lgs. 252 del 2005 di V. FERRANTE, Finanziamento della previdenza complementare e devoluzione tacita del t.f.r., in A TURSI (a cura di), La nuova disciplina della previdenza complementare (d. lgs. 5 dicembre 2005, n. 252), in NLCC, 3-4-, 2007, p. 696 ss, specialm. p. 718-719. 467 Art. 8, comma 8°, d. lgs. 252/2005. 468 Cfr. la “Premessa” a tale capitolo.

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complementari, avendo riguardo alla tutela degli iscritti e dei beneficiari e al

buon funzionamento del sistema di previdenza complementare»469.

4. Le forme pensionistiche complementari: nozioni e definizioni.

L’analisi delle forme di previdenza complementare impone, innanzitutto, una

serie di distinzioni concettuali, indispensabili per procedere nell’iter descrittivo

della materia, partendo dal distinguo tra fonti istitutive e fonti costitutive delle

stesse che, in una ideale schematizzazione anche temporale del procedimento di

formazione del fondo pensione, identificano due fondamentali fasi: la prima «in

cui si fissano gli elementi e le regole dell’operazione previdenziale,

determinando così gli specifici assetti degli interessi delle parti che istituiscono

il fondo», e la seconda «in cui la forma previdenziale viene concretamente

attuata mediante la costituzione del modello organizzativo prescelto»470.

L’art. 3, d. lgs. 252 del 2005 individua, riproponendo un’elencazione già

contenuta nel d. lgs. 124/1993, le possibili fonti istitutive di forme

pensionistiche complementari in contratti e accordi collettivi, accordi tra

lavoratori promossi da associazioni sindacali, regolamenti di enti o aziende.

Nell’istituire un fondo previdenziale, tali fonti ne dettano una prima regolazione

relativa ad aspetti essenziali quali l’identità e il programma del fondo pensione,

l’ambito dei soggetti legittimati all’adesione e le modalità della stessa, il regime

delle contribuzioni471.

La panoramica delle possibili fonti istitutive viene completata dal decreto n. 252

con la previsione di una tipologia, ulteriore rispetto al previgente sistema, ed

469 Cfr. art. 16, d. lgs. n. 124 del 1993, poi riproposto dal successivo art. 18, comma 2 , d. lgs. 252 del 2005. 470 Entrambe le definizioni si devono a G. ZAMPINI, La previdenza complementare, fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004. 471 Cfr. BESSONE, Previdenza privata e fondi pensione. Il sistema delle fonti normative di un nuovo ordinamento di settore, in BESSONE-CARINCI (a cura di), La previdenza complementare, in CARINCI (diretto da), Diritto del lavoro, Torino, 2004, 215 ss.

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individuata in forme pensionistiche complementari costituibili dalle Regioni472 e

dagli enti di diritto privato di cui ai dd. llgs. nn. 509/1994 e 103/1996.

Il fondo-pensione così istituito viene reso operativo dalla predisposizione dello

statuto e, in generale, di tutto quanto necessario a disciplinarne i profili di

organizzazione interna, costituendo tali strumenti le c.d. fonti costitutive delle

forme pensionistiche complementari. In dottrina non si è mancato di

evidenziare, pertanto, la mancanza di qualsiasi rapporto funzionale tra le

tipologie di fonti illustrate e, viceversa, una sorta di «sottordinazione gerarchica

delle fonti costitutive e statutarie rispetto a quelle istitutive». Soltanto a queste

ultime, infatti, come tassativamente individuate dal legislatore, è riconosciuta la

possibilità di creare un fondo-pensione di carattere complementare.

Restando sul piano classificatorio, la riforma del 2005 contiene un espresso

riconoscimento della distinzione tra forme pensionistiche individuali e

collettive.

Per comodità espositiva si accenna innanzitutto alle prime che, ai sensi dell’art.

1, comma 3, lett. b), si concretano nell’adesione su base individuale ai fondi

aperti e nella conclusione di contratti di assicurazione sulla vita aventi finalità

previdenziali (piani pensionistici o p.i.p.) stipulati con imprese di assicurazione

autorizzate dall’ISVAP.

Lo stesso art. 1, comma 3, alla lett. a) definisce, invece, forme di previdenza

complementare collettiva quelle istituite da contratti collettivi o da accordi tra

lavoratori promossi dalle associazioni sindacali, ma anche i c.d. accordi

plurisoggettivi, ovvero siglati tra una pluralità di lavoratori senza il

coinvolgimento dei sindacati. Infine, in un’ottica di pariordinazione tra fondi

aperti e fondi chiusi, la norma include nel novero delle forme previdenziali

collettive anche i fondi pensione aperti, con adesione su base collettiva, di cui

all’art. 12, d. lgs. 252 del 2005. La scelta del legislatore di inserire anche i fondi 472 Il cui funzionamento sarà demandato a leggi regionali.

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aperti tra le forme pensionistiche collettive ha suscitato qualche perplessità tra i

primi commentatori della riforma in ragione del fatto che l’adesione di un

lavoratore ad un fondo pensione ha sempre carattere individuale, evidenziando

la necessità di un ulteriore e rilevante distinguo delle diverse ipotesi di utilizzo

dell’attributo “collettivo”.

Ed infatti quando si parla di forme pensionistiche collettive, l’aggettivo è riferito

alla modalità costitutiva del fondo, voluto e istituito da una collettività di

lavoratori, solitamente mediante accordi o contratti stipulati dalle associazioni

sindacali: tale definizione è propria dei c.d. fondi chiusi, ai quali possono

accedere solo coloro che appartengono alla categoria, comparto,

raggruppamento ovvero, ed in altre parole, alla collettività che ha costituito quel

determinato fondo.

Viceversa, quando si parla di “adesione su base collettiva” a fondi pensione

aperti, lo stesso attributo assume tutt’altra valenza. I fondi aperti sono, infatti,

forme pensionistiche strutturalmente accessibili a chiunque poiché l’adesione ad

essi è «completamente svincolata dall’appartenenza dell’aderente a classi di

lavoratori predefinite»473. È possibile, allora, che i dipendenti di un’intera

azienda (o un gruppo di essi) abbiano interesse ad accedere ad un fondo aperto

(piuttosto che aderire ad un fondo chiuso o costituirne uno ad hoc) e che lo

facciano godendo della mediazione sindacale e del conseguente accordo siglato

con il datore di lavoro, affinché, alla propria corresponsione al fondo di quote di

accantonamento di t.f.r., corrisponda, da parte del datore di lavoro, il versamento

del suo contributo al medesimo fondo per ciascun lavoratore aderente. In

relazione a tali ipotesi, la rilevanza del profilo collettivo si sposta dalla modalità

di adesione alla più rilevante modalità di finanziamento della posizione

previdenziale dei singoli soggetti aderenti al fondo. In tale ottica ben si

473 G. ZAMPINI, La previdenza complementare, fondamento costituzionale e modelli organizzativi, Padova, 2004, p. 88.

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comprende l’insistito carattere «sempre individuale»474 dell’adesione ad un

fondo aperto nella lettura offerta da alcune frange della dottrina. Dal punto di

vista del lavoratore aderente, infatti, la c.d. adesione collettiva non avrebbe

«nulla di qualitativamente diverso rispetto all’adesione individuale, se non la

circostanza che, in questa forma, si rende possibile anche l’introduzione di un

obbligo di contribuzione datoriale e il conferimento, parziale o totale, del

t.f.r.»475. L’attributo “collettivo”, allora, più che descrivere l’aderente

(l’ipotizzato gruppo di lavoratori), qualifica la fonte istitutiva “intermedia”,

«proveniente da soggetti diversi dalla società promotrice e riguardante un certo

insieme di destinatari»476 ovvero l’accordo o il regolamento aziendale

disciplinante le condizioni di adesione e finanziamento del fondo.

Tale fonte intermedia in una certa misura “chiude” il fondo stesso, che, sebbene

non abbia di per sé una «genesi collettivo-professionale»477, propria dei fondi

chiusi, acquisisce, per quel determinato gruppo di aderenti, una matrice

collettivo-professionale: le modalità di finanziamento contenute nell’accordo o

regolamento raggiunto con il datore di lavoro saranno fruibili soltanto dai

sottoscrittori, ferma restando la possibilità di adesione al fondo aperto da parte

di qualsiasi altro soggetto e lasciando inalterate l’identità e le prerogative

proprie del soggetto gestore del Fondo.

Si tenga anche conto però del fatto che, dal punto di vista pratico, le particolarità

strutturali dei varie tipologie di fondo previdenziale e gli sforzi sistematici

compiuti dalla dottrina scolorano innanzi all’imposto regime della contribuzione

definita che vincola tutti i lavoratori subordinati ad aderire esclusivamente a 474 A. PANDOLFO, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (parziale) commento del d. lgs. n. 252 del 2005, in PAPP, n. 2, 2006. 475 A. TURSI, La previdenza pensionistica privata: forma complementari e forme individuali, in RDSS, 2002, p. 121. 476 Cfr. A. PANDOLFO, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare…, cit., p. 153. 477 A. TURSI, La previdenza pensionistica privata, cit., p. 114-115. Per una sommaria individuazione dei profili di gestione dei fondi, si rinvia ai successivi parr. 2.1. e 2.2..

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fondi che prestabiliscono l’ammontare dei contributi da versare rendendo, sotto

tale profilo, pressoché irrilevante il carattere “aperto” o “chiuso” del fondo

prescelto.

L’ultima distinzione concettuale utile per poter affrontare il lessico della riforma

previdenziale pone i fondi a contribuzione definita versus quelli a prestazione

definita. Ciascuna delle due tipologie, come si evince dalle stesse

denominazioni, è caratterizzata da un proprio elemento fisso, o definito che dir

si voglia, con precise ricadute sulle modalità ed entità sia di finanziamento del

fondo che di erogazione della prestazione pensionistica.

Si definiscono fondi a contribuzione definita quelli in cui «l’importo della

prestazione pensionistica finale non è predeterminato, ma dipende dai risultati di

gestione delle risorse, tempo per tempo accantonate con la contribuzione

periodica (questa si, predeterminata)» 478. La quantificazione di questa

prestazione dipende infatti dalla fruttuosità o «redditività»479 degli investimenti

effettuati, ponendo il rischio delle scelte di gestione a carico dei singoli

beneficiari.

Viceversa, i fondi a prestazione definita assicurano all’iscritto un’erogazione

pensionistica predeterminata nel suo ammontare , generalmente parametrata ai

livelli di reddito o dei trattamenti pensionistici obbligatori, e finanziata

attraverso una contribuzione variabile in base all’andamento degli investimenti

effettuati Tali forme pensionistiche sono accessibili, tuttavia, solo ai lavoratori

autonomi e ai liberi professionisti, in ragione dell’obbligo di contribuzione

definita imposto dal d. lgs. 124 del 1993480 (poi confermato e ampliato dal

478 M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2005, p. 558. 479 Come la definisce efficacemente F. MAZZIOTTI, Diritto della previdenza sociale, Napoli, 2001, p. 262. 480 Cfr. art. 2, comma 2, lett. a), come modificato dall’art. 4, l. 8 agosto 1995, n. 335.

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successivo d. lgs. 252 del 2005481) a tutti i lavoratori dipendenti, sia pubblici che

privati. Soltanto ai primi è riconosciuta infatti una piena libertà di scelta tra le

due tipologie pensionistiche descritte, mentre ai lavoratori dipendenti è

interdetto l’accesso a forme pensionistiche a prestazione definita sia, come

rileva la dottrina482, per consentire ai datori di lavoro una preventiva valutazione

circa l’ammontare dei contributi, in modo da tenere sotto controllo una delle

componenti del costo del lavoro, sia per evitare ai lavoratori l’alea eccessiva di

una contribuzione continuamente variabile in ragione dell’andamento degli

investimenti fatti dal fondo.

4.1. Le forme pensionistiche complementari collettive o negoziali: i c.d. fondi

chiusi.

I fondi pensione negoziali sono istituiti da accordi o contratti collettivi o

regolamenti aziendali che ne individuano i destinatari in base all’appartenenza

ad un determinato comparto, impresa o gruppo di imprese ovvero in relazione ad

un determinato territorio.

In ragione del numero degli aderenti, le forme negoziali costituiscono, ad oggi,

la più importante tipologia di forma pensionistica complementare anche a causa

del previgente vincolo di alternatività che, nella lettera dell’art. 9, d. lgs.

124/1993, consentiva al lavoratore si accedere ad un fondo chiuso oppure ad uno

aperto, senza la possibilità di cumulare i due strumenti previdenziali.

Successivamente, il legislatore del 2005 ha ritenuto di rimuovere tale vincolo

dando attuazione al principio di equiparazione e concorrenza tra le varie forme

pensionistiche complementari. 481 Tale ultimo intervento normativo affianca ai lavoratori dipendenti pubblici e privati, «i soci lavoratori di cooperative, anche unitamente ai lavoratori dipendenti dalle cooperative interessate», nonché «i soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565», cioè ai soggetti che svolgono senza vincolo di subordinazione lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari, anche se non iscritti al fondo ivi previsto (art., 2, comma 2, lett. a)). 482 Cfr. F. MAZZIOTTI, Diritto della previdenza sociale, cit., p. 262 ss.

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L’art. 3 del d. lgs. 252/2005 annovera le varie forme pensionistiche contrattuali

annoverabile nella categoria dei fondi “chiusi”, contemplando quali fonti

istitutive, accanto ai “contratti e accordi collettivi, anche a aziendali ovvero

interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri”, anche gli “accordi

fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti (lett. b); … i regolamenti di

enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o

accordi collettivi, anche aziendali ( lett. c); … gli accordi fra soci lavoratori di

cooperative (lett. e)”. Sin qui può tracciarsi una perfetta linea di continuità tra la

disciplina introdotta nel 1993 e la successiva emanata nel 2005; quest’ultima,

tuttavia, si spinge oltre, individuando nello stesso art. 3 del decreto n. 252 delle

ulteriori fattispecie istitutive. Tra queste, “le regioni, le quali disciplinano il

funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale

…(lett. d)”.

Si è correttamente rilevato tuttavia, per un verso, la superfluità della previsione

in ragione del dettato dell’art. 117 Cost., e, per altro verso, la possibile

violazione del riparto di competenze stabilito dalla medesima norma della Carta

costituzionale in ragione del carattere dettagliato del d. lgs. 252 del 2005, ciò

che invaderebbe l’area di legislazione riservata , in via concorrente, alle Regioni.

La legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 ha inserito, infatti, nell’art. 117

della Costituzione Italiana, tra le materie di legislazione concorrente Stato-

Regioni, la “previdenza complementare e integrativa”, precisando che “nelle

materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa,

salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla

legislazione dello Stato” (comma 3°). Il dettato costituzionale, dunque, sarebbe

stato di per sé sufficiente ad attribuire alle Regioni la prerogativa di istituire

forme pensionistiche complementari mediante l’emanazione di leggi regionali,

contenendo altresì quel vincolo costituito dal rispetto dei “principi

fondamentali”, determinati da legge dello Stato, del quale pure il decreto n. 252

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ha voluto fare esplicita menzione. Eppure la previsione del legislatore delegato

non può così agilmente ridursi ad inutile duplicato della norma costituzionale.

Innanzitutto, perché la disciplina dettata dal legislatore statale in materia di

previdenza complementare lega spesso inscindibilmente le norme di principio a

norme di dettaglio, impedendo di fatto alle Regioni di attenersi soltanto alle

prime come vorrebbe l’art. 117 Cost.483.

In secondo luogo perché, in probabile conflitto con la norma da ultimo citata, la

stessa lettera del d. lgs. 252/2005 sembra dilatare tale vincolo laddove impone,

alle Regioni che vogliano istituire forme di previdenza complementare, il più

ampio “rispetto della normativa nazionale in materia”. Il riferimento alla

normativa nazionale può senz’altro considerarsi comprensiva dei più essenziali

principi di diritto cui fa riferimento la Costituzione ma difficilmente può ridursi

ad essi.

Infine merita un cenno la previsione della lett. g), comma 3° del d. lgs. 252/2005

che menziona, tra le possibili fonti istitutive di fondi previdenziali, gli enti di

diritto privato di cui ai dd. Llgs. Nn. 509/1994 e 103/1996 ovvero le casse

professionali che gestiscono forme di previdenza e assistenza trasformate, dai

succitati decreti, in persone giuridiche private. Tali enti, ha chiarito al COVIP,

«possono istituire sia direttamente, con l’obbligo di gestione separata, sia

attraverso la creazione di soggetti autonomi, fondi pensione complementari che

erogano pensioni complementari destinate ai lavoratori iscritti al regime

obbligatorio dagli stessi gestito»484.

Quanto alla natura giuridica dei fondi pensione, l’art. 4 d. lgs. 252/2005

chiarisce che essi possono essere costituiti «come soggetti giuridici di natura

associativa, ai sensi dell' art. 36 del codice civile, distinti dai soggetti promotori

483 Lo rileva M. PICCARI, Le forme pensionistiche complementari, in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto…, cit., p. 141- 142. 484 COVIP, Relazione per l’anno 2005, su www.covip.it , 2006, p. 83.

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dell'iniziativa» ovvero «come soggetti dotati di personalità giuridica»

(rispettivamente lett. a) e b)). Nel primo caso, il rinvio all’art. 36 c.c. consente di

qualificare tali soggetti come associazioni non riconosciute, non dotate di

personalità giuridica ma con una relativa autonomia patrimoniale, necessaria,

del resto, per la gestione dl fondo.

Nel secondo caso, invece i soggetti dotati di personalità giuridica cui fa

riferimento la norma vanno rinvenuti nelle associazioni riconosciute a nelle

fondazioni anche in ragione del riferimento al d.P.R. n. 361/2000 sebbene in

chiave derogatoria. Il legislatore ha stabilito infatti che, in deroga a tale decreto,

il riconoscimento della personalità giuridica dei fondi «consegue al

provvedimento di autorizzazione all'esercizio dell'attività adottato dalla

COVIP», attribuendo alla stessa Commissione la tenuta del Registro delle

persone giuridiche e lo svolgimento dei relativi adempimenti. In attuazione di

tale norma, la COVIP ha emanato un regolamento485 che, ricalcando fedelmente

il testo normativo, subordina l’acquisto della personalità giuridica e la

conseguente iscrizione nel “Registro dei fondi pensione dotati di personalità

giuridica” alla propria autorizzazione.

La possibilità di scelta tra l’ipotesi sub a) e l’ipotesi sub b) viene tuttavia limitata

in relazione ai fondi “costituiti nell'ambito di categorie, comparti o

raggruppamenti, sia per lavoratori subordinati sia per lavoratori autonomi”: tali

fondi devono necessariamente essere muniti di personalità giuridica (art. 4, co.

5°, d. lgs. 252/2005). La ratio di tale disposizione è stata rivenuta dalla dottrina

nella estensione, potenzialmente molto ampia, dell’area dei soggetti

destinatari486.

485 Si tratta del “Regolamento relativo all'istituzione del Registro dei fondi pensione dotati di personalità giuridica e alle procedure per l'iscrizione nel Registro”, adottato con delibera del 28 novembre 2007, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’ 11 dicembre 2007, n. 287. 486 Cfr., sul punto, A. PANDOLFO, La nuova cornice legislativa della previdenza complementare, in DPL, 1993, n. 35.

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Alle casse di previdenza dei liberi professionisti, invece, il legislatore attribuisce

un’ulteriore opzione487 consentendogli di istituire fondi pensione, oltre che con

le modalità proprie dell’associazione riconosciuta e non, anche attraverso la

costituzione al loro interno “di un patrimonio di destinazione, separato ed

autonomo, nell'ambito della medesima società od ente”488.

La scelta di creare un fondo c.d. interno489 ovvero un patrimonio autonomo e

separato nell’ambito della stessa società che ha promosso l’istituzione del

fondo490, comporta la soggezione dello stesso alla norma di cui all’art. 2117 c.c.

che rende le risorse affluenti nel medesimo patrimonio non distraibili dal fine al

quale sono destinati e non assoggettabili ad esecuzione da parte dei creditori

dell’imprenditore o del prestatore di lavoro.

I fondi chiusi, dunque, sono soggetti giuridici autonomi, muniti o meno di

personalità giuridica ovvero costituiti come patrimonio separato, la cui attività

consiste prevalentemente nella raccolta delle adesioni e dei contributi e

nell’individuazione della politica di investimento delle risorse finanziarie. Tali

risorse sono depositate presso una banca e la loro gestione viene affidata ad

intermediari finanziari con i quali sono stipulate apposite convenzioni. Sulla

separazione giuridica della gestione del fondo, rispetto alla promozione e

istituzione dello stesso, è intervenuta peraltro la direttiva 2003/41/CE che

487 La stessa opzione è attribuita altresì ai fondi chiusi disciplinati dall’art. 12 e alle forme pensionistiche complementari individuali di cui all’art. 13. 488 Tale opzione, rinnovata rispetto all’impianto del d. lgs. 124/1993 quanto al relativo campo di applicazione, costituisce un vero e proprio cambio di rotta rispetto all’impianto della più risalente l. 335/1995 secondo cui la COVIP poteva autorizzare all’esercizio solo i fondi pensione costituiti come associazioni munite o meno di personalità giuridica, non menzionando, accanto a quest’ultime, i fondi costituiti come patrimoni di destinazione. 489 Si definiscono, viceversa, fondi esterni quelli costituiti da un ente esterno rispetto al promotore. 490 Nel caso di cessazione dell’attività o di sottoposizione a procedura concorsuale del datore di lavoro che abbia costituito un fondo interno, un commissario straordinario, nominato dal Ministro del lavoro su proposta della COVIP, dovrà procedere allo scioglimento del fondo stesso (art. 15, comma 2).

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obbliga i singoli Stati membri ad assicurare tale separazione al fine di evitare

che l’eventuale fallimento491 dell’impresa coinvolga le risorse pensionistiche.

La gestione del fondo deve essere svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti,

nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e

nei contratti. A tutela degli aderenti, la legge vieta ai promotori la gestione

diretta dei rispettivi fondi, imponendone l’attribuzione, mediante apposita

convenzione, a soggetti specializzati quali società di intermediazione mobiliare,

società di gestione di fondi comuni di investimento, assicurazioni (cfr. art. 6,

d.lgs. 252/2005)492.

Solo nelle ipotesi tassativamente individuate dal legislatore i promotori del

fondo possono curarne direttamente la gestione. Si tratta innanzitutto dei fondi

pensione costituiti, ex art. 6, comma 12 del d. lgs. 252/2005, “nell’ambito delle

autorità di vigilanza sui soggetti gestori a favore dei dipendenti delle stesse”. Lo

stesso articolo 6, al comma 1, lett. d) ed e) prevede inoltre la possibilità che i

fondi pensione e sottoscrivano azioni o quote di società immobiliari o fondi

comuni di investimento immobiliari e mobiliari chiusi, nel rispetto, però, dei

limiti quantitativi di investimento mediante partecipazione nei fondi comuni493.

Organi del fondo sono l’assemblea, gli organi di amministrazione e controllo, la

cui composizione deve rispettare il criterio della partecipazione paritetica dei

491 Tra le norme adottate dal nostro legislatore a tutela degli aderenti, il decreto n. 252 stabilisce che l’ipotesi in cui “vicende del fondo pensione capaci di incidere sull’equilibrio del fondo … gli organi del fondo e comunque i suoi responsabili devono comunicare preventivamente alla COVIP stessa i provvedimenti ritenuti necessari alla salvagauardia dell’equilibrio del fondo pensione” (art. 15, comma 4). Quanto alle procedure concorsuali, il successivo comma 5 prevede che ai fondi pensione si applichi esclusivamente la disciplina dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa, con esclusione del fallimento, rinviando per la relativa disciplina al T.U. in materia bancaria e creditizia (l. 1 settembre 1993, n. 385). 492 Cfr. A. PANDOLFO, La nuova cornice …, cit. p. 249; M. PICCARI, Le forme pensionistiche complementari, cit., p. 147; M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, cit., ed. 2008, p. 589 ss.. 493 Cfr. G. ZAMPINI, La previdenza complementare, fondamento costituzionale e modelli organizzativi, cit., p. 249.

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rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, il responsabile del fondo, in

possesso di particolari requisiti di onorabilità e professionalità.

Quanto alle prestazioni in forma di rendita, esse sono erogate da una compagnia

di assicurazione o, previa autorizzazione della COVIP, direttamente dal fondo.

4.2 (segue) I c.d. fondi aperti.

Accanto ai fondi pensione dedicati a soggetti “qualificati” in ragione della loro

appartenenza alla categoria, al comparto o, più semplicemente, al gruppo

promotore, la legislazione sulla previdenza complementare pone, in posizione

ormai paritetica, i c.d. fondi aperti, ovvero le forme pensionistiche

complementari destinate “a tutti coloro i quali vogliano iscriversi, senza

limitazioni di sorta”494.

La caratteristica più pregnante di tali fondi, dal punto di vista sistematico, va

forse rinvenuta nel carattere polivalente dovuto all’apertura ad adesioni sia

individuali che collettive; apertura che, secondo alcuni, li vedrebbe « “al

confine” tra la previdenza complementare collettiva e quella individuale»495.

La definizione non è priva di corredo normativo, stante la collocazione

normativa dei fondi aperti tra le “forme pensionistiche complementari

individuali” (ex art. 1, comma 3, lett. b), insieme ai contratti di assicurazione

sulla vita), qualora l’adesione ad essi avvenga su base individuale, e, viceversa,

tra le “forme pensionistiche complementari collettive” (ex art. 1, comma 3, lett.

a), insieme ai fondi chiusi), qualora l’adesione avvenga su base collettiva.

Proprio la sistematica normativa, adottata dal legislatore del 2005, ha acuito i

cennati problemi definitori relativi al vigente sistema previdenziale,

allontanando ulteriormente i fautori della c.d. teoria del doppio pilastro da quella 494 La definizione è di DE ANGELIS-SGROI, Manuale delle nuove pensioni, Il sistema pensionistico italiano e il regime internazionale, Rimini, 2005, p. 205. 495 Così D. MEZZACAPO, op. cit., pag. 145, che rinviene il concetto nella lettera stessa del d. lgs. 252 del 2005.

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parte della dottrina che, viceversa, attribuisce alla previdenza italiana una

struttura decisamente “multipilastro”.

La distinzione tra le due teorie, che di primo acchito, potrebbe sembrare un

semplice esercizio semantico, si rivela, viceversa di una certa portata.

A sostegno del carattere multipilastro del nostro attuale sistema previdenziale

deporrebbe quell’art. 13, d. lgs. 252/2005 che prevede la attuazione di forme di

previdenza complementare individuale attraverso due diverse modalità: a)

l’adesione ai c.d. fondi aperti di cui all’art. 12, b) la stipulazione di contratti di

assicurazione sulla vita (con imprese all’uopo autorizzate dall’ISVAP).

L’adesione ai fondi aperti fa accedere il lavoratore ad una forma di previdenza

ancora caratterizzata da una forma di solidarietà tra gli iscritti, quantomeno

perché questi ultimi sono tutti egualmente interessati dalle vicende gestionali del

fondo. Viceversa i contratti di assicurazione sulla vita (di cui alla lett. b) dell’art.

13) hanno genesi, finanziamento e gestione di taglio prettamente individuale e si

basano soltanto sulla capacità economica del contraente, eliminando qualsiasi

forma di riflesso collettivo sullo strumento previdenziale adottato.

La distinzione effettuata consente, allora, di affermare che nel nostro sistema

esiste un c.d. terzo pilastro, costituito dalle forme pensionistiche individuali tout

court 496, che conferisce all’ impianto un carattere multilivello. L’inserimento dei

contratti di assicurazione sulla vita nell’ambito della riforma della previdenza

complementare e il loro accostamento ai fondi pensione aperti testimonia la

volontà del legislatore si “assorbire” tale strumento contrattuale alle più

“canoniche” forme di previdenza pensionistica.

Se dunque può dirsi acquisita la volontà legislativa di tripartire l’area della tutela

previdenziale-pensionistica può altresì ritenersi che tale scelta sottenda una

valorizzazione degli strumenti privatistico-individuali in danno di quelli

solidaristico-collettivi. 496 L’espressione è di M. CINELLI, Diritto della previdenza sociale, op. cit.

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La riforma ci restituisce, infatti, un sistema strutturalmente costruito su una

sempre più esigua base pubblicistica obbligatoria, un piano, gradatamente

declinato al collettivo, in regime di “libertà vincolata”, ed un terzo livello,

ulteriore ed eventuale, rimesso totalmente alla volontà del singolo e basato

soltanto sulle sue capacità economiche. Se si considera inoltre che i lavoratori

subordinati possono aderire solo a fondi a contribuzione definita, che , come

accennato, sono soggetti a forti rischi legati alla gestione del capitale, mentre i

liberi professionisti e i lavoratori autonomi hanno accesso altresì a fondi aperti a

prestazione definita – soggetti a variabilità della contribuzione in funzione di un

ammontare pensionistico predeterminato –, è evidente che solo i ceti

economicamente più abbienti avranno accesso ad una più consistente pensione

grazie proprio alla possibilità di sottoscrivere l’adesione a fondi aperti. In altre

parole, la equiparazione tra fondi aperti e chiusi e la libertà di accesso ad

entrambe, mostra tutto il favor del legislatore per la libera concorrenza tra le

diverse forme di previdenza, a danno della originaria ispirazione solidaristica

della riforma che , al contrario, imponendo un vincolo di alternatività, mostrava

un assoluto favor nei confronti della previdenza complementare collettivo-

negoziale.

Come accennato, la collocazione dei fondi aperti tra le forme pensionistiche

complementari collettive non è del tutto esaustiva poiché, accanto ai fondi di

adesione collettiva, tale categoria comprende altresì le forme pensionistiche

complementari individuali. Tralasciando quest’ultima ipotesi, per la quale si

rinvia al paragrafo successivo, si evidenzia in primis che i fondi aperti sono

istituiti direttamente da intermediari finanziari (banche, SIM, assicurazioni,

SGR) ovvero dai soggetti con i quali è consentita la stipulazione di convenzioni

per la gestione ai sensi dell’art. 6, d. lgs. 252 del 2005. In altre parole,

diversamente dai fondi chiusi, i fondi aperti possono essere gestiti direttamente

dal medesimo soggetto promotore della forma previdenziale complementare,

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soggetto che non è in alcun modo espressione dell’autonomia collettiva e che

resta, in ogni caso, distinto dai beneficiari delle prestazioni497. L’indubbia

irrilevanza di tale caratteristica, in ragione dei suoi molteplici risvolti pratici, ha

indotto parte della dottrina a considerarla come il reale elemento distintivo

rispetto ai fondi chiusi, questi ultimi «a genesi collettivo-professionale e fondati

sull’autorganizzazione e la partecipazione dei lavoratori»498

I fondi aperti, già disciplinati dal d. lgs. 124 del 1993, sono sicuramente tra i

maggiori “beneficiari” della riforma del 2005 che li ha liberati dalla gabbia della

residualità in cui li aveva scientemente relegati il legislatore del 1993.

La precedente normativa, infatti, nell’ottica di favorire le forme pensionistiche

di matrice negozial-collettiva, condizionava la possibilità del lavoratore di

aderire ad essi all’inesistenza di fondi riservati alla categoria o comparto di

appartenenza. Anche tale situazione in ogni caso, non permetteva, al lavoratore

interessato, di prestare una libera e completa adesione al fondo aperto,

svolgendo, quest’ultimo, piuttosto la funzione di «una stanza di compensazione,

un parcheggio»499 dove all’aderente era consentito sostare nel passaggio da

un’azienda con dotata di un fondo chiuso ad una che ne fosse priva ovvero

nell’ipotesi di sopravvenuta disoccupazione.

Col cennato obiettivo di livellare l’offerta pensionistica complementare, il

legislatore elimina, dunque, il vincolo di alternatività gravante sui fondi aperti

rendendoli pienamente concorrenziali rispetto ai fondi chiusi500. Una

concorrenzialità temibile da parte di questi ultimi specie alla luce della nuova

possibilità di alimentare anche i fondi aperti attraverso il conferimento ad essi

del trattamento di fine rapporto nonché dei contributi datoriali (ex art. 13, 497 Si vedano, M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2005, p. 49 e G. ZAMPINI, La previdenza complementare…, cit., p. 148. 498 A. TURSI, La previdenza pensionistica privata…, cit., p. 114 ss. 499 L’efficace immagine è di G. ZAMPINI, op. cit., p. 147 ss. 500 Si vela M. L. VALLACQUA, La legge delega sulle pensioni e le prospettive future, primi riflessi sulla previdenza complementare, in LPO, 6, 2004, p. 973 ss.

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comma 4, d. lgs. 252/2005). Questa possibilità, peraltro, potrebbe incidere

persino sugli equilibri del sistema, descritto come multipilastro nelle pagine che

precedono, consentendo ai lavoratori di bypassare completamente quel secondo

pilastro costituito dalla previdenza complementare negozial-collettiva, per far

rifluire tutte le risorse a disposizione su un fondo aperto (magari individuale)

inquadrabile, quindi, nell’ambito del c.d. terzo pilastro previdenziale.

La costituzione e l’esercizio del fondo aperto sono condizionate

all’autorizzazione della COVIP (art. 12, co. 3°); lo stesso organismo, inoltre,

impartisce, al soggetto istitutore, le direttive necessarie alla redazione del

regolamento del fondo, deputato a stabilirne le modalità di gestione e di

partecipazione degli aderenti: a tal fine, l’art. 12 rinvia espressamente all’art. 4,

co. 3, assoggettando i fondi aperti al medesimo controllo, esercitato dalla

COVIP, previsto per la costituzione e autorizzazione all’esercizio dei fondi

chiusi.

Rilevante risulta, infine, il dettato dell’art. 5 del d. lgs. 2525/2005 che in primis

solleva i fondi aperti dall’obbligo di composizione paritetica vigente per gli

organi di amministrazione e di controllo dei fondi chiusi, e, in secondo luogo,

impone ai suddetti fondi aperti l’istituzione di “un organismo di sorveglianza,

composto da almeno due membri, in possesso dei requisiti di onorabilità e

professionalità, per i quali non sussistano le cause di incompatibilità e di

decadenza previste dal decreto di cui all’art. 4, comma3”. La norma rinvia

dunque al contenuto del decreto ministeriale che avrebbe dovuto (come poi

effettivamente ha provveduto a) dettare501 i criteri per la nomina dei componenti

degli organi collegiali in applicazione dell’art. 4, comma 3. E’ interessante

rilevare, tuttavia, che mentre quest’ultima norma chiude il cerchio rinviando

all’attività ministeriale, il comma 4 dell’art. 5, espressamente dedicato agli

organi di sorveglianza dei fondi aperti, offre un’ulteriore specificazione dei 501 Si tratta del d.m. 30 gennaio 2007.

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motivi di incompatibilità con la partecipazione al suddetto organismo di

sorveglianza menzionando la carica di amministratore o di componente di altri

organi sociali, lo svolgimento di attività lavorative in favore dei soggetti

istitutori del fondo o presso le relative società controllate o controllanti, lo status

di usufruttuario, proprietario o titolare d altri diritti relativamente a

partecipazioni azionarie di soggetti istitutori di fondi pensione aperti. Tali

indicazioni evidentemente improntate alla salvaguardia dell’imparzialità dei

membri dell’organismo di sorveglianza, rivelano l’accentuata preoccupazione

del legislatore di salvaguardare gli interessi degli aderenti dall’approccio

lucrativo dei soggetti promotori dei fondi aperti. Al fine cioè di offrire la

migliore tutela possibile nei confronti della gestione “imprenditoriale” di una

banca, una sim, un’assicurazione , il legislatore ha previsto ulteriori limitazioni,

questa volta destinate all’organismo di sorveglianza, che si affiancano alle forme

di controllo vigenti anche per i fondi chiusi ed esercitate per lo più dalla COVIP.

L’eventuale mancato possesso di tali requisiti determina la decadenza

dall’incarico dichiarata con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche

Sociali su proposta della COVIP.

5. Il FONDINPS.

L’art. 8, lett. b), del d. lgs. 252/2005 disciplina l’ipotesi in cui il lavoratore

aderisca tacitamente alla previdenza complementare ovvero non esprima alcuna

volontà in merito alla destinazione del proprio tfr: in tal caso, il datore di lavoro

dovrà il tfr maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o

contratti collettivi, anche territoriali (salvo che un accordo aziendale non

stabilisca diversamente), ovvero, qualora ve ne sia più di una, “ a quella alla

quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda” (art. 8, lett. b),

nn. 1 e 2 ); infine, nell’eventuale impossibilità di destinare il tfr maturando alle

forme pensionistiche così individuate dalla legge, per mancanza delle suddette

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forme pensionistiche collettive, il datore di lavoro è tenuto a trasferire il tfr

maturando alla forma pensionistica residuale costituita presso l’INPS. La

costituzione di tale forma pensionistica, disciplinata al successivo art. 9 del d.

lgs. 252/2005 dando attuazione alla delega contenuta nella l. 243 del 2004502, è

rimessa dalla norma alla successiva emanazione di un decreto del Ministro del

Lavoro e delle Politiche Sociali.

Corentemente alla suddetta previsione, il Fondo è stato costituito, con la

denominazione di “Fondo complementare INPS”, dal d.m. del 30 gennaio 2007,

decreto che, inserendosi nel complessivo normativo dettato dal decreto n.

252/2005, ne ha regolamentato alcuni profili relativi alla contribuzione, alla

gestione nonché al rapporto con gli iscritti. In particolare, il decreto del 30

gennaio 2007 stabilisce che il Fondo abbia un patrimonio separato ed autonomo

rispetto a quello dell’ente di previdenza obbligatoria che lo “ospita”; tale

patrimonio, inoltre, come previsto altresì per i fondi c.d. interni (disciplinati

dall’art. 4, d. lgs. n. 252/2005, ut supra) è indistraibile dal fine della erogazione

delle prestazioni e su di esso non sono ammesse azioni esecutive da parte dei

creditori dell’ente gestore del Fondo.

L’amministrazione del FONDINPS è rimessa ad un comitato al cui interno è

assicurata la partecipazione paritetica dei rappresentanti dei lavoratori e dei

datori di lavoro (art. 9, d. lgs. 252/2005). I membri di tale comitato devono

possedere i requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza determinati

dal Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali (con decreto di cui all’art. 4,

comma 3, d. lgs. 252), sono da quest’ultimo nominati e restano in carica quattro

anni.

502 Critico nei confronti della scelta compiuta dal legislatore delegato, P. SANDULLI, Il conferimento, tacito e non, del t.f.r. al sistema di previdenza complementare: riflessioni critiche, in MESSORI (a cura di), La previdenza complementare in Italia, Bologna, 2006, p. 188 ss..

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Probabilmente il profilo significativamente inciso dal decreto ministeriale del 30

gennaio 2007 riguarda la portabilità della posizione maturata presso il Fondo

INPS. Il decreto legislativo n. 252 attribuiva, infatti, al lavoratore aderente al

FONDINPS in ragione del mancato esercizio di una diversa opzione, la

possibilità di trasferire in qualsiasi momento la posizione previdenziale maturata

presso un’altra forma pensionistica prescelta dallo stesso lavoratore. Viceversa il

decreto del gennaio 2007 stabilisce che la posizione individuale maturata presso

il FONDINPS possa essere trasferita solo dopo che sia decorso un anno

dall’adesione.

Presso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, però, non viene costituito solo

il Fondo residuale per le quote di tfr tacitamente devolute alla previdenza

complementare e non altrimenti devolute. Nel 2006 la legge n. 296 aveva già

costituito un altro fondo, detto “Fondo Tesoreria”, finalizzato all’erogazione del

trattamento di fine rapporto e gestito, per conto dello Stato, dall’INPS, in cui

confluisce il tfr maturando dei lavoratori, dipendenti da aziende con più di 49

addetti, che hanno espressamente manifestato la volontà di non aderire alla

previdenza complementare e di mantenere il proprio tfr presso il datore di

lavoro. Si rinvia al successivo par. 6 per più ampie considerazioni relative al

Fondo Tesoreria, richiamandovi l’attenzione, in questa sede, al solo fine di

mantenerlo debitamente distinto dal Fondo di previdenza residuale, essendo

entrambi istituiti presso l’INPS ed entrambi ad opera di decreti ministeriali

datati 30 gennaio 2007.

6. Le forme pensionistiche complementari individuali.

Si definiscono forme pensionistiche individuali quelle alle quali il singolo

individuo accede individualmente e a prescindere dalla propria appartenenza ad

un determinato gruppo o categoria o comparto di lavoro. Sono attuate, ai sensi

dell’art. 13, comma 1, del d. lgs. 252/2005, mediante adesione ai fondi aperti di

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cui all’art. 12 del medesimo decreto (lett. a), ovvero mediante stipulazione di

contratti di assicurazione sulla vita (lett. b).

Per questi ultimi, il legislatore impone che siano corredati da un regolamento,

redatto nel rispetto delle direttive all’uopo impartite dalla COVIP e dalla stessa

preventivamente approvato, contenente l’indicazione delle modalità di

partecipazione e di trasferimento della posizione individuale nonché una serie di

ulteriori indicazioni relative alla gestione del fondo, alla trasparenza dei costi,

alle modalità di comunicazione delle attività della forma pensionistica e della

posizione individuale. A tutela dei contraenti, inoltre, il legislatore delegato ha

stabilito che le risorse delle forme pensionistiche complementari individuali di

cui all’art. 13, co. 1, lett. b) “costituiscono un patrimonio autonomo e separato”.

Ciò vuol dire che le imprese di assicurazione dovranno costituire un patrimonio

di destinazione separato ed autonomo all’interno dell’impresa, soggetto ai

vincoli di cui all’art. 2117 c.c. ovvero non distraibile dalla propria destinazione e

non assoggettabile ad esecuzione da parte dei creditori dell’assicuratore. La

novità normativa, senza dubbio sgradita alle imprese di assicurazione, sembra

costituire l’unica novità di rilievo, sin qui tratteggiata, della riforma delle forme

pensionistiche individuali. E tuttavia, appare forse più rilevante la previsione,

contenuta nel d. lgs. 252503 e del tutto innovativa rispetto all’impianto della

previdenza complementare disegnato dal legislatore del 1993, della possibilità di

destinare a tali forme pensionistiche anche le quote di accantonamento annuale

del tfr e de contribuzioni del datore di lavoro alle quali abbiano diritto (comma

4, art. 13). Dando seguito alla manifestata aspirazione di equiparazione delle

forme pensionistiche complementari, il legislatore offre a quelle individuali una

forte chance di crescita e sviluppo attraverso la possibilità di devolvere ad esse il

503 La possibilità di far confluire il t.f.r. nelle forme pensionistiche individuali è dovuta alla l. n. 47 del 2000 mediante l’introduzione di un art. 9 ter nel d. lgs. 124 del 1993, successivamente confluito nella novella del 2005.

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trattamento di fine rapporto. Ciò che ha reso le forme previdenziali individuali

fortemente competitive rispetto alle concorrenti forme di matrice contrattuale

collettiva504.

Quanto ai destinatari dell’offerta previdenziale in parola, il legislatore apre il

varco anche a soggetti estranei al mondo del lavoro e non ricompresi, dunque,

nel novero dei destinatari di cui all’art. 2 del decreto n. 252505.

7. Le forme di previdenza complementare “preesistenti”.

Questa sintesi descrittiva non poteva tralasciare la disciplina messa a punto dal

legislatore del 2005 per le forme pensionistiche complementari istituite alla data

di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (ovvero al 15 novembre

2002). Si tratta delle c.d. forme pensionistiche “preesistenti”, il cui attributo

caratterizzante è riferito al momento di costituzione, anteriore alla introduzione

della prima normativa organica della previdenza complementare. Secondo la

Relazione COVIP per il 2005506 si tratta di circa 450 fondi ovvero circa l’80%

del totale dei fondi operanti in Italia sebbene sia i corso un processo di

accorpamento che ne sta conseguentemente riducendo il numero complessivo. In

assenza di qualsivoglia riferimento normativo, tali forme pensionistiche non

risultano prive di tratti unitari e, in ogni caso, non classificabili secondo lo

schema adottato dalla più recente riforma della previdenza complementare. Per

la maggior parte di esse, infatti, si è prescelto il modello organizzativo e

gestionale più confacente al perseguimento degli interessi e delle finalità degli

aderenti, non sussistendo, peraltro, alcun vincolo “di sistema”. L’entrata in

504 V., sul punto, M. CINELLI, Sulle funzioni della previdenza complementare, in RGL, 2000, p. 535 ss.; S. GIUBBONI, Individuale e collettivo nella riforma della previdenza complementare, in LG, 3, 2006, p. 249 ss.; M. PICCARI, Le forme pensionistiche…, cit., p. 151-152. 505 Per costoro, si considera “età pensionabile” quella vigente nel regime obbligatorio di base (art. 13, co. 5, d. lgs. 252/2005). 506 Reperibile sul sito istituzionale dell’organismo: www.covip.it .

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vigore del d. lgs. 124 del 1993 modifica lo scenario e introduce una serie di

principi al cui rispetto era necessario “adeguare” anche le forme pensionistiche

preesistenti; di tal ché il decreto conteneva, all’art. 18, una disciplina finalizzata

alla armonizzazione507 di tali fondi, obiettivo poi fallito a causa dell’inutile

decorso del termine decennale di adeguamento che lo stesso decreto aveva

fissato. Lo stesso obiettivo viene però riproposto e rafforzato nel successivo

impianto di riforma della previdenza complementare: con una nuova rubrica che

esplicitamente riconduce la norma ad esse, l’art. 20 del d. lgs. n. 252 del 2005

individua le linee di intervento essenziali all’armonizzazione delle forme

previdenziali “preesistenti” rispetto al nuovo regime della previdenza

complementare. L’art. 20, infatti, riprende in buona parte i contenuti della

previgente disciplina, conservando per i fondi preesistenti un particolare regime,

ma al contempo imponendo a tali fondi l’obbligo di «adeguarsi alle disposizioni

del presente decreto legislativo secondo i criteri, le modalità e i tempi stabiliti …

con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze di concerto con

il Ministro del lavoro e delle politiche sociali» (art. 20, co. 2), da adottarsi entro

un anno dalla data di pubblicazione del presente decreto legislativo (e cioè entro

il 31 dicembre 2006). Tali decreti, peraltro, dovranno tener conto delle

specifiche caratteristiche dei fondi preesistenti, se necessario anche derogando

alla disciplina contenuta nel d. lgs. 252/2005508. Nelle more della decretazione

ministeriale, alle forme complementari preesistenti non si applicheranno una

serie di disposizioni relative alla natura giuridica del fondo o alle modalità

gestionali delle risorse. Viene implementata, inoltre, l’attività di vigilanza

svolta dalla COVIP nei confronti di tali forme pensionistiche, sottoforma altresì

507 Successivamente modificata dalla l. n. 335 del 1995 e poi dal d. lgs. N. 47 del 2000. 508 Cfr. in tal senso A. OCCHINO, Le forme pensionistiche cdd. «preesistenti», Commento all’art. 20, in A. TURSI (a cura di), La nuova disciplina della previdenza complementare…, cit., p. 848 ss.

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di sollecitazione all’adeguamento ai nuovi modelli legali di previdenza

complementare509.

Giova evidenziare, tuttavia, che il d. lgs. n. 252 del 2005 all’art 23, commi 3° e

4°, contiene un ulteriore processo di adeguamento, di carattere generale, rivolto

indistintamente «a tutte le forme pensionistiche»510. Si ritiene, quindi, che tale

regime generale si imponga alle forme pensionistiche preesistenti

contestualmente a quello c.d. speciale contenuto nell’art. 20: pertanto «sembra

improprio fare ricorso ad un modello che vorrebbe le forme pensionistiche

preesistenti interessate da un processo di doppio adeguamento» dovendosi

piuttosto ritenere che i due livelli «riflettono la duplicazione delle fonti

dell’adeguamento che sono sia il d. lgs. 252/2005 (ex art. 23, n.d.r.), sia (e

secondo le specificazioni de) la disciplina, che può derogarvi, adottata con la

decretazione ministeriale attuativa dell’art. 20, comma 2°»511. Resta inevitabile,

tuttavia la tendenza delle due fonti a sovrapporsi, ma si deve ritenere che per le

forme pensionistiche preesistenti prevalgano «i vincoli di cui all’adeguamento ai

sensi dell’art. 20» non solo in ragione del classico principio di prevalenza della

disciplina speciale su quella generale, ma anche perché la COVIP, nelle sue

direttive generali sull’adeguamento delle forme pensionistiche, dà espressa

prevalenza per le forme preesistenti al decreto ministeriale che deve dare

attuazione alla suddetta disciplina speciale. 509 Cfr. in tal senso P. SANDULLI, Il conferimento tacito e non…, cit., p. 187, che parla di «azione di moral suasion perseguita da COVIP». Più in generale, quanto al regime ed all’adeguamento delle forme preesistenti al nuovo modello legale di previdenza complementare, M. CINELLI, I problemi della previdenza complementare. L’adeguamento delle forme preesistenti alla disciplina di legge, in MGL, 1997, p. 505 ss.. Si veda inoltre, quanto al particolare regime dei fondi preesistenti, M. PERSIANI, Diritto della previdenza sociale, Padova, 2006, pp. 367-369. 510 In attuazione di tale norma la COVIP con deliberazione del 30 novembre 2006 ha approvato il Regolamento recante le procedure relative agli adeguamenti delle forme pensionistiche complementari al d. lgs. n. 252 del 5 dicembre 2005 e le istruzioni ai sensi dell’art. 23, comma 4°, del d. lgs. n. 252 del 2005 come modificato dall’art. 1 del d. l. n. 279 del 13 novembre 2006. 511 Cfr. A. OCCHINO, Le forme pensionistiche cdd. «preesistenti», cit. p. 848.

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227

Lo schema di decreto ministeriale, al vaglio del Consiglio di Stato individua

quattro ambiti di “adeguamento” inerenti la governance dei fondi (art. 3),

l’accesso dei fondi preesistenti ai conferimenti di t.f.r. (art. 4), i modelli

gestionali e gli investimenti (art. 5) e i conflitti di interesse (art. 6). Per quel che

principalmente rileva in questa sede, è opportuno soffermarsi sul tenore dell’art.

4 che, al comma 5°, impone l’adeguamento degli statuti alle norme e ai principi

sanciti dal d. lgs. 252 del 2005 in materia di amministrazione finanziamento

prestazioni e portabilità (entro il 30 maggio 2007 e sempreché non siano adottate

specifiche deroghe in merito). La norma si traduce nell’obbligo a carico delle

fondi preesistenti cc.dd. interni di rendersi autonomi rispetto al datore di lavoro

mediante la costituzione di associazioni riconosciute e non (art. 4, comma 1, lett.

a e b) che, in una con il suddetto adeguamento degli statuti, consente, tra l’altro,

alle forme preesistenti di accedere agli accantonamenti di t.f.r..

Sotto tale ultimo profilo, l’opportunità dell’adeguamento ai principi enunciati

dalla riforma del 2005 risultava già valorizzata dal testo della riforma come

modificato dalla legge n. 296/2006. Difatti, la legge finanziaria per il 2007 (cfr.

art. 1, comma 753°, l. n. 296/2006) ha introdotto un nuovo comma 4 bis nell’art.

23 del d. lgs. 252 del 2005 ai sensi del quale le forme preesistenti «possono

ricevere nuove adesioni anche con riferimento al finanziamento tramite

conferimento del t.f.r. a far data dal 1° gennaio 2007»: ai fini di tale ultimo

conferimento, tuttavia, è necessario che le suddette forme preesistenti si

adeguino al decreto n. 252 entro il 31 maggio 2007 e che costituiscano,

all’interno dei fondi, apposite sezioni a contribuzione definita.

Restano esclusi dall’obbligo di adeguamento degli statuti, i fondi preesistenti

bancari e assicurativi i quali, se vogliono poter accedere ai conferimenti di t.f.r.,

oltre a costituire specifiche sezioni a contribuzione definita, dovranno altresì

costituire un patrimonio separato.

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228

8. Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari.

L’art. 8 del d. lgs. 252 del 2005 disciplina il finanziamento delle forme

pensionistiche complementari individuando, per i lavoratori subordinati512, due

modalità cumulabili tra loro:

- la contribuzione a carico del datore di lavoro e/o del lavoratore;

- il conferimento del tfr maturando.

La norma sancisce il principio della libera determinazione della contribuzione, il

cui ammontare minimo a carico dei singoli lavoratori è definito da accordi tra i

medesimi lavoratori; quanto, invece alla contribuzione a carico dei datori di

lavoro, la determinazione delle relative modalità e della misura minima è

rimessa ad accordi o contratti collettivi, anche aziendali (art. 8, comma 2). La

stessa norma indica, inoltre, il parametro di quantificazione dei contributi a

carico delle varie categorie di aderenti. Così, il legislatore specifica che il

contributo può essere determinato in misura fissa ovvero: “per i lavoratori

dipendenti, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR o con

riferimento ad elementi particolari della retribuzione stessa; per i lavoratori autonomi

e i liberi professionisti, in percentuale del reddito d'impresa o di lavoro autonomo

dichiarato ai fini IRPEF, relativo al periodo d'imposta precedente; per i soci

lavoratori di società cooperative, secondo la tipologia del rapporto di lavoro, in

percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR ovvero degli imponibili

considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori ovvero in percentuale del

reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF relativo al periodo d'imposta

precedente”513 (art. 8, comma 2).

512 Lo stesso comma 1 dell’art. 8 stabilisce, invece, che per i lavoratori autonomi e i liberi professionisti “il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi”, mentre “nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d'impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il finanziamento alle citate forme è attuato dagli stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono a carico”. 513 Peraltro, il successivo comma 4, introduce una serie di facilitazioni fiscali in termini di deducibilità, per i contribuenti, dei suddetti contributi.

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229

Inoltre, la contribuzione alle forme pensionistiche complementari può

proseguire volontariamente oltre il raggiungimento dell'età pensionabile prevista

dal regime obbligatorio di appartenenza, a condizione che l'aderente, alla data

del pensionamento, possa far valere almeno un anno di contribuzione a favore

delle forme di previdenza complementare. Avvalendosi di tale opzione,

l’aderente stabilisce in piena autonomia il momento di fruizione delle

prestazioni pensionistiche514.

Il secondo, certo non in termini di importanza, strumento di finanziamento delle

forme pensionistiche complementari è individuato nel conferimento del t.f.r.

maturando.

Si tratta senz’altro della modalità di finanziamento privilegiata dal legislatore

che, con il decreto n. 252, ne ha notevolmente modificato la disciplina rispetto al

passato.

La scelta di conferire il proprio tfr ad un fondo di previdenza complementare

comporta l’automatica adesione alle stessa forma pensionistica515; adesione che

tuttavia non implica l’ulteriore obbligo di contribuzione a carico del datore di

lavoro e del lavoratore516. Il lavoratore, tuttavia, può autonomamente decidere,

anche in assenza di accordi collettivi che provvedano in tal senso, di destinare

una parte della retribuzione alla forma pensionistica prescelta. In tal caso, il

lavoratore comunicherà al datore di lavoro l'entità del contributo e il fondo di

destinazione. D’altra parte, anche il datore può liberamente e autonomamente

decidere di contribuire alla forma pensionistica alla quale il lavoratore ha già

aderito, ovvero a quella indicata dal contratto o accordo collettivo, anche

aziendale, quale fondo di destinazione.

514 Art. 8, comma 11. 515 Art. 8, comma 7. 516 Art. 8, comma 10.

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230

Il conferimento del tfr ad una forma pensionistica complementare può avvenire

mediante modalità esplicite oppure tacite. Si è rilevato, in merito, che i princìpi

di libertà e volontarietà dell’adesione alle forme pensionistiche complementari,

sui quali si fonda il sistema previdenziale in commento, ed il rilievo giuridico

attribuito all’eventuale contegno tacito del lavoratore rendono necessario

«garantire che la scelta sulla destinazione del t.f.r. sia effettuata con piena

consapevolezza da parte di ciascun lavoratore»517. A tal fine, il legislatore ha

imposto al datore di lavoro l’obbligo di curare una prima informativa all’atto

dell’assunzione ed una seconda informativa in prossimità della scadenza dei

termini per rendere la dichiarazione in ordine alla destinazione del tfr.

In particolare, l’art. 8, comma 8°, stabilisce che prima dell’avvio del periodo di

sei mesi previsto ai fini dell’esercizio della scelta, il datore di lavoro deve

fornire al lavoratore “adeguate informazioni” sulle diverse opzioni possibili.

Tale informativa, se difficilmente potrà vertere sulla convenienza dell’una o

dell’altra scelta, viceversa dovrà senz’altro informare i lavoratori sul

funzionamento della nuova previdenza complementare, sulle concrete possibilità

di adesione ad essa che si aprono al dipendente, sulla caratteristiche delle

diverse tipologie di fondi, la relativa gestione finanziaria, ecc.518.

La stessa norma dell’art. 8 prosegue introducendo un ulteriore obbligo di

informazione, che scatta opportunamente, a fronte del contegno silente del

lavoratore, «trenta giorni prima della scadenza dei sei mesi utili ai fini del

conferimento del t.f.r.». Questa seconda informativa ha ad oggetto il fondo al

517 C. FALERI, Asimmetrie informative e tutela del prestatore di lavoro, Giuffré, Milano, 2007, p. 99 ss., la quale evidenzia il rilievo dell’autonomia individuale del lavoratore non solo nella fase genetica della scelta, ma altresì in relazione alla possibilità di incidere su quella iniziale scelta, ad esempio trasferendo la propria posizione pensionistica da un fondo all’altro. Sulle problematiche relative all’adozione da parte del legislatore, del meccanismo del silenzio-assenso, si veda il ricco commento di V. FERRANTE, Finanziamento della previdenza complementare e devoluzione tacita del t.f.r., op. cit., specialm. pp. 715 ss. 518 In tal senso si veda C. FALERI, Asimmetrie…, op.cit., p. 99 ss.

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quale il datore di lavoro devolverà i futuri accantonamenti di t.f.r. qualora il

lavoratore ometta di manifestare alcuna volontà.

Il soddisfacimento delle apprezzabili finalità perseguite dal legislatore,

preoccupato di garantire, mediante la predisposizione dei suddetti obblighi

informativi, un effettivo « ampliamento della opportunità di scelta per i

lavatori»519, richiederebbe, tuttavia, la configurazione di una responsabilità del

datore di lavoro inadempiente rispetto agli obblighi derivanti dall’art. 8, comma

8°, d. lgs. 252/2005. L’attuale mancanza, infatti, di un regime sanzionatorio in

tal senso, rende «problematica la reale azionabilità dei diritti individuali di

informazione del lavoratore»520.

a) L’esplicito conferimento del tfr alla previdenza complementare.

Con modalità esplicite, entro sei mesi dalla data di assunzione, il lavoratore può

conferire il proprio tfr maturando alla forma di previdenza complementare dallo

stesso prescelta; in alternativa, il lavoratore può manifestare la volontà di

mantenere il proprio tfr presso il datore di lavoro, pur conservando la possibilità

di revocare successivamente tale scelta e conferire gli accantonamenti ad una

forma di previdenza complementare521.

Come si illustrerà appena oltre, l’eventuale conferimento tacito del t.f.r. alla

previdenza complementare comporta l’automatica adesione del lavoratore alle

forme pensionistiche individuate dalla legge; viceversa, la scelta compiuta in

maniera esplicita è connotata dalla più ampia libertà e può ricadere su qualsiasi

tipologia di forma pensionistica. La dichiarazione esplicita deve essere resa

compilando gli appositi modelli TFR1 e TFR2522 allegati al decreto ministeriale

519 C. FALERI, Asimmetrie informative…, p. 103. 520 C. FALERI, Asimmetrie informative …, cit., p. 103. 521 Art. 8, comma 7, lett. a). 522 Il modulo TFR1 è riservato ai lavoratori che hanno un rapporto di lavoro in essere alla data del 31 dicembre 2006; a coloro che sono stati assunti in data successiva, è dedicato, invece, il

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30 gennaio 2007523. Il datore di lavoro, oltre a dover adempiere agli obblighi di

informazione di cui al comma 8° dell’art. 8, è altresì tenuto a mettere a

disposizione di ciascun lavoratore i suddetti modelli per manifestare la loro

scelta, a conservare il modulo compilato e a rilasciarne copia controfirmata per

ricevuta.

Con la suddetta dichiarazione esplicita, però, oltre a poter conferire il t.f.r. al

prescelto fondo di previdenza complementare, il lavoratore può altresì optare per

la conservazione del tradizionale trattamento di fine rapporto e, quindi, decidere

di avvalersi, al termine del proprio rapporto di lavoro, di una somma in capitale

computata ai sensi dell’art. 2120 c.c.. Tale scelta è reversibile e, pertanto, il

lavoratore potrà in qualsiasi momento modificarla, aderendo alla previdenza

complementare.

È opportuno sottolineare, tuttavia, che anche qualora il lavoratore dovesse

manifestare la volontà di conservare inalterato il diritto al t.f.r., tale scelta non

comporterebbe necessariamente la conservazione degli accantonamenti nella

materiale disponibilità del datore di lavoro.

La l. 296 del 2006 (Legge finanziaria per il 2007) impone infatti ai datori di

lavoro - eccezion fatta per coloro «che abbiano alle proprie dipendenze meno di

50 addetti» (art. 1, co. 756, l. 296/2006) - di versare il t.f.r. maturando al fondo

istituito presso l’INPS (c.d. Fondo Tesoreria) dal decreto ministeriale 30 gennaio

2007, ai sensi dell’art. 1, comma 755, della stessa legge finanziaria524..

modello TFR2. in dottrina si è evidenziato che «la compilazione dei modelli sembra integrare una modalità tipica di manifestazione della volontà in ordine alla destinazione del tfr che non può essere surrogata da dichiarazioni rese con modalità differenti» (così G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto …, cit. p. 167). 523 In attuazione dell’art. 1, comma 765, l. 296 del 27 dicembre 2006 (Legge finanziaria per il 2007). 524 Art. 1, comma 755, l. 296/2006: “Con effetto dal 1° gennaio 2007, è istituito il «Fondo per l'erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all'articolo 2120 del codice civile», le cui modalità di finanziamento rispondono al principio della ripartizione, ed è gestito, per conto dello Stato, dall'INPS su un apposito conto corrente

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Il limite dimensionale dei 50 addetti viene valutato tenendo conto della media

annuale dei lavoratori alle dipendenze dell’impresa nell’anno di riferimento e

computando tutti i lavoratori subordinati «a prescindere dalla tipologia di

rapporto e dall’orario di lavoro» (art. 1, co. 7, d.m. 30 gennaio 2007). Nel

computo di tale soglia dimensionale, dunque, si prendono in considerazione tutti

i lavoratori con contratto di lavoro subordinato, a prescindere dalla tipologia

contrattuale e dall’orario di lavoro svolto, ivi compresi i part-timers in

proporzione all’orario di lavoro; restano esclusi, i lavoratori assenti, mentre

vengono computati i loro eventuali sostituti, nonché i lavoratori somministrati e

i soci di cooperativa. Lo stesso decreto ministerile chiarisce, inoltre, che gli

accantonamenti continueranno ad essere computati ai sensi dell’art. 2120 c.c. e

che il datore di lavoro è tenuto a versarli mensilmente pro-quota al Fondo

Tesoreria. Tale Fondo provvederà, poi, ad erogare il trattamento all’esito del

singolo rapporto di lavoro per l’ammontare maturato e ad esso versato a far data

dall’istituzione del Fondo medesimo ovvero dalla diversa data di iscrizione del

lavoratore. Quanto alle quote anteriormente accantonate, l’erogazione del t.f.r.

resterà a carico del datore di lavoro.

Resta inalterata, infine, la disciplina delle anticipazioni, in relazione alla quale il

d.m. 30 gennaio 2007 rinvia alla disciplina codicistica525.

b) Il conferimento mediante modalità tacite.

In assenza di una dichiarazione espressa resa entro il suddetto termine di sei

mesi dall’assunzione, il tfr maturando sarà automaticamente conferito alle forme

aperto presso la tesoreria dello Stato. Il predetto Fondo garantisce ai lavoratori dipendenti del settore privato l'erogazione dei trattamenti di fine rapporto di cui all'articolo 2120 del codice civile, per la quota corrispondente ai versamenti di cui al comma 756, secondo quanto previsto dal codice civile medesimo”. 525 Tale rinvio solleva peraltro qualche perplessità in ordine al coordinamento dell’attività del Fondo con il regime di derogabilità in melius che assiste la codicistica disciplina delle anticipazioni. Sul punto sia consentito rinviare al capitolo I, par. 2.8, specialm. n.1.

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pensionistiche indicate dall’art. 8, comma 7, lett. b), in ragione della tacita

adesione del lavoratore alla previdenza complementare. Mediante tale

previsione normativa, il legislatore si preoccupa di «evitare che la scelta del

fondo beneficiario dei conferimenti venga lasciata al datore di lavoro», cercando

di «definire una serie di regole in applicazione delle quali al silenzio del

lavoratore possa attribuirsi un significato concludente circa l’identificazione del

soggetto che sia destinatario dei conferimenti»526. In tale ottica, la norma

dispone che, in caso di “silenzio” del lavoratore circa la destinazione del proprio

t.f.r., il datore di lavoro debba devolvere gli accantonamenti maturandi alla

forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche

territoriali, salvo sia sopraggiunto un eventuale accordo aziendale. Se, tuttavia,

esistono più forme pensionistiche che rispondano ai suddetti requisiti, prevale

«quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda»527.

Infine, qualora le suddette disposizioni non siano applicabili, il datore di lavoro

dovrà trasferire il t.f.r. maturando al (già descritto) «Fondo complementare

INPS»528.

Non stupisce che il conferimento tacito riguardi solo forme pensionistiche

collettive, restando escluse quelle individuali in ragione del fatto che l’adesione

a queste ultime non può che essere «materia di personali decisioni, essendo

impensabili modalità legali di assegnazione del t.f.r. ad una o ad altra di queste

forme previdenziali»529.

Il comma 9° dell’art. 8 si preoccupa, inoltre, di offrire una tutela aggiuntiva ai

lavoratori tacitamente aderenti alla previdenza complementare prevedendo che

526 V. FERRANTE, Finanziamento della previdenza complementare e devoluzione tacita del t.f.r., op. cit., p. 725. 527 Art. 8, comma 7°, lett. b), n. 2. 528 Istituito, ai sensi dell’art. 8, comma 7°, lett. b), n. 3, dal decreto ministeriale 30 gennaio 2007 (cfr. art. 2). 529 BESSONE, Previdenza privata e fondi pensione. Il sistema delle fonti normative di un nuovo ordinamento di settore, in BESSONE-CARINCI ( a cura di), cit., p. 827.

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le relative somme di t.f.r. devolute alle forme pensionistiche complementari

siano investite nella linea a contenuto più prudenziale, si da garantire a tali

soggetti «la restituzione del capitale e rendimenti comparabili, nei limiti previsti

dalla normativa statale e comunitaria, al tasso di rivalutazione del t.f.r.». La

COVIP ha avuto modo di chiarire, tuttavia, che il lavoratore ha la possibilità di

incidere su tale direttiva chiedendo una diversa allocazione delle proprie risorse,

optando per più “impegnative” modalità di investimento.

c) Gli iscritti alla previdenza “obbligatoria” anteriormente al 29 aprile

1993.

Il decreto n. 252/2005 disciplina inoltre la posizione dei soggetti di prima

iscrizione alla previdenza obbligatoria “in data antecedente al 29 aprile 1993”.

Si tratta della data di entrata in vigore del d. lgs. 124 del 1993 che segna il

momento a partire dal quale gli iscritti alla previdenza obbligatoria, aderendo ad

una forma pensionistica complementare assumevano automaticamente l’obbligo

di integrale conferimento del tfr maturando alla stessa forma pensionistica. Di

conseguenza, tutti coloro che risultano iscritti alla previdenza complementare a

partire dal 29 aprile 1993 devolvono senz’altro in maniera integrale il proprio

t.f.r. al fondo prescelto.

Viceversa, coloro che erano già iscritti ad un fondo pensionistico

complementare alla data del 29 aprile 1993, potevano finanziare il suddetto

fondo mediante contribuzione e /o mediante conferimento soltanto pro-quota (e

non per intero) del t.f.r. maturando530. Proprio su tale ultima disposizione incide

il d. lgs. 252/2005, che, nell’ottica di trasformare il t.f.r. in preferenziale

strumento di finanziamento della previdenza complementare, consente a costoro

di incidere sulla previgente disciplina conferendo alla previdenza

530 Lo aveva stabilito il d. lgs. 124 del 1993 all’at. 8, comma 3°.

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complementare anche la residua quota di t.f.r., potendo ora devolvere

integralmente, al fondo di riferimento, il trattamento maturando.

In particolare il legislatore ha stabilito:

- per coloro che, al momento dell’entrata in vigore del decreto n. 252/2005,

risultavano iscritti a forme di previdenza complementare a contribuzione

definita, ferma restando la disciplina dei cc. dd. Fondi preesistenti, la

possibilità di scegliere, entro sei mesi dalla predetta data (ovvero dalla

data di assunzione, se successiva), di conservare il residuo t.f.r. maturando

presso il datore di lavoro ovvero conferirlo – anche tacitamente - alla

forma di previdenza complementare alla quale risultano iscritti;

- a coloro che alla data di entrata in vigore del decreto n. 252/2005 non

risultano più aderenti alla previdenza complementare, la possibilità di

scegliere, entro sei mesi dalla predetta data, se mantenere il TFR

maturando presso il proprio datore di lavoro, oppure conferirlo ad una

forma pensionistica complementare531. L’eventuale condotta tacita del

lavoratore si traduce, anche in questo caso, in una automatica adesione

alle forme pensionistiche complementari secondo quanto stabilito dall’art.

8, comma 7, lett. b).

9. La portabilità della posizione previdenziale.

La legge delega n. 243/2004 prevedeva già la possibilità che, al momento del

trasferimento ad una nuova forme pensionistica complementare, l’aderente

potesse “portare con sé” l’eventuale contributo datoriale a cui avesse diritto,

nonché i contributi datoriali già goduti insieme con gli accantonamenti di tfr. Si

è già evidenziato, infatti, come il legislatore delegante del 2004 e, giocoforza,

531 La misura del conferimento anche in questo caso è rimessa alla determinazione degli accordi o contratti collettivi ovvero, qualora detti accordi non prevedessero il versamento di t.f.r., in misura comunque non inferiore al 50% con possibilità di incrementi successivi.

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altresì il delegato che ha poi emanato il decreto n. 252 nel 2005, rirordinava la

previdenza complementare mirando ad un’equiparazione tra le varie forme

pensionistiche, al fine di realizzare «un secondo pilastro della previdenza

fondato sulla piena concorrenza tra tutte le diverse forme pensionistiche

complementari, definizione che ora ricomprende, non senza ambiguità, sia i

fondi chiusi di matrice sindacale, sia i fondi aperti, sia le forme pensionistiche

individuali»532. Tale equiparazione può dirsi efficacemente realizzata con la

previsione della portabilità della posizione previdenziale, mediante la quale il d.

lgs. 252 del 2005 ha dato attuazione all’indirizzo contenuto nella legge delega

instaurando un regime di libera concorrenza tra le forme pensionistiche

complementari. La possibilità di trasferire la posizione maturata da una forma

pensionistica all’altra, senza vincoli di sorta, garantisce infatti, all’interno del

nuovo sistema previdenziale complementare, una reale libertà di circolazione

dell’aderente inerente non più soltanto l’an dell’accesso al sistema, ma altresì il

quomodo della scelta medesima.

Com’è noto tale liberalizzazione ha conosciuto una progressiva evoluzione: il d.

lgs. 124 del 1993 consentiva al lavoratore di accedere alla previdenza

complementare mediante adesione ad un fondo aperto soltanto nell’ipotesi in cui

il contratto collettivo applicato al suo rapporto di lavoro non avesse istitutito

alcun fondo chiuso a lui accessibile. Successivamente il legislatore ha consentito

al lavoratore iscritto ad un fondo chiuso di uscirne ed aderire ad un fondo

aperto533 ovvero altresì ad una forma pensionistica individuale534. Con il d. lgs.

532 M. PALLINI, La «mobilità» tra le forme pensionistiche complementari, in La nuova disciplina della previdenza complementare, in NLCC, cit., p. 782. 533 Cfr. art. 1°, comma 1°, l. 8 agosto 1995, n. 335 che ha modificato il d. lgs. 124 del 1993 aggiungendovi il comma 3° bis. In dottrina, si veda A. VISCOMI, La facoltà di trasferimento della posizione individuale, in LD, 1997, p. 55 ss.; A. ALAIMO, La previdenza complementare nella crisi del welfare state: autonomia individuale e nuove frontiere dell’azione sindacale, in ADL, 2001, p. 201 ss. 534 Cfr. art.3 comma 1°, lett. b) del d. lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 che ha modificato l’art. 10 del d. lgs. 124 del 1993.

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n. 252, infine, il processo di liberalizzazione viene portato a termine

consentendo al lavoratore di aderire, fin dal primo accesso, a qualsiasi forma di

previdenza complementare. In tal modo i fondi pensionistici chiusi, di matrice

contrattuale collettiva perdono quel vantaggio che indubbiamente i precedenti

regimi gli riconoscevano; quale contropartita, seppur di rilievo minore, il

legislatore introduce (cfr. art. 9, comma 7°, d. lgs. 252/2005) un meccanismo di

tacito conferimento del t.f.r. inoptato al fondo chiuso istituito dal contratto

collettivo applicato al suo rapporto di lavoro (in mancanza di una diversa

previsione del contratto collettivo aziendale). Si è correttamente rilevato in

dottrina, tuttavia, come «a questa libertà di accesso al sistema non corrisponda

una speculare libertà di uscita» dal sistema. Se è vero infatti che il legislatore

consente il libero trasferimento della posizione pensionistica maturata da un

fondo complementare ad un altro, è altrettanto vero che, eccezion fatta per le

ipotesi di riscatto totale della posizione maturata (alle condizioni e con le

limitazioni stabilite dalla legge), resta preclusa all’aderente la facoltà di uscire

dal sistema previdenziale.

L’art. 14 del d. lgs. 252 del 2005, dunque, stabilisce innanzitutto che le modalità

di partecipazione, di portabilità della posizione individuale maturata e della

contribuzione nonché di riscatto della posizione medesima sono determinate

dagli statuti e dai regolamenti delle forme pensionistiche complementari nel

rispetto dei principi sanciti dal decreto n. 252. La norma contempla due

possibili ipotesi di trasferimento della posizione previdenziale maturata: il

trasferimento causale ovvero la c.d. «portabilità occasionata», e il trasferimento

libero che realizza la «portabilità discrezionale» della posizione previdenziale535.

La prima ipotesi, disciplinata dal comma 2° dell’art. 14, si verifica qualora

l’aderente perda i requisiti di partecipazione previsti dallo statuto o dal

535 Le definizioni virgolettate sono di G. ZAMPINI, La previdenza complementare, Padova, 2004, p. 181.

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regolamento della forma pensionistica: in tal caso, egli ha diritto di trasferire la

posizione pensionistica complementare maturata ad una diversa forma

pensionistica di cui abbia o abbia acquisito i requisiti. In particolare il legislatore

tipizza l’ipotesi in cui il lavoratore perda i requisiti di partecipazione al fondo in

ragione di un cambiamento di attività lavorativa che lo collochi in una diversa

categoria contrattuale che non consente l’accesso alla forma pensionistica

complementare di provenienza536. Tale tipizzazione, si è rilevato tuttavia, non

può in alcun modo considerarsi esaustiva o tassativa537, trattandosi piuttosto di

«un residuo inopportunamente (quanto meccanicamente e inconsapevolmente

importato dal testo dell’art. 10, comma 1°, lett. a) del d. lgs. 124 del 1993»538,

norma, quest’ultima, che contemplava la possibilità di trasferimento soltanto ad

altro fondo chiuso. In mancanza di esercizio della facoltà di trasferimento, la

posizione previdenziale maturata continuerebbe ad essere gestita dalla forma

pensionistica, senza alcun beneficio per il lavoratore che vi ha aderito fino a quel

momento539.

536 Il fondo Cometa, ad esempio, è riservato ai lavoratori di aziende che applicano il CCNL dell’industria metalmeccanica privata e dell’installazione di impianti nonché il CCNL delle aziende industriali orafe-argentiere. 537 Cfr. A. VISCOMI, La facoltà di trasferimento della posizione individuale, cit., p. 56. 538 Così M. PALLINI, La «mobilità»…, cit., p. 784. D’altronde, rileva l’Autore, sebbene il tenore letterale della norma sembri continuare a legittimare il trasferimento solo in caso di mutamento dell’attività, un’interpretazione di tal fatta risulterebbe del tutto irrazionale, condannando il lavoratore che ha perso i requisiti per ragioni diverse dal cambiamento di attività (si pensi ad una promozione a livello dirigenziale, che non consentirebbe più la permanenza nel Fondo Quadri e Capi Fiat, ovvero ad un’ipotesi di recesso per giusta causa dalla forma pensionistica complementare) ad una ingiustificata espulsione dal sistema ovvero a rimanervi ma con una situazione contributiva inattiva. In tal senso lo stesso Autore richiama i commenti di BESSONE, Previdenza complementare, Torino, 2000, p. 195 ss.; ID., Fondi pensione e diritti soggettivi. Portability della posizione previdenziale, disciplina di riscatto , il recesso per giusta causa, in DLRI, 2002, p. 565; G. ZAMPINI, La previdenza complementare, Padova, 2004, p. 184; A. PANDOLFO, Trasferimento e riscatto della posizione individuale, in BESSONE-CARINCI (a cura di), La previdenza complementare, Torino, 2004, p. 312 ss. 539 Lo chiarisce la COVIP nella Deliberazione del 28 giugno 2006, «Direttive generali alle forme pensionistiche complementari ai sensi dell’art. 23, comma 3, d. lgs. 5 dicembre 2005», n. 252, p. 20.

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È evidente, in ogni caso, che l’ipotesi di perdita dei requisiti inerisce la sola

adesione a forme pensionistiche collettive per le quali rileva l’attività svolta dal

lavoratore; le forme pensionistiche individuali, viceversa, non pongono alcuna

limitazione in ordine ai potenziali aderenti.

Il trasferimento discrezionale della posizione previdenziale è attuabile

indipendentemente dal venir meno dei requisiti di partecipazione ed è

condizionato unicamente al decorso del periodo di permanenza minima al Fondo

dal quale si intende trasferirsi. Tale periodo di permanenza minima è fissato

dalla legge in due anni, diversamente dalla previgente disciplina che imponeva

una permanenza minima di 3 anni aumentata a 5 se corrispondenti ai primi

cinque anni di vita del fondo con l’evidente finalità di tutelare la fase di start-up

del Fondo medesimo540.

Quanto alle sorti del trattamento di fine rapporto devoluto alla previdenza

complementare, anche esso segue il trasferimento costituendo parte integrante

della posizione pensionistica maturata dal lavoratore, mentre gli accantonamenti

maturandi a seguito del trasferimento saranno direttamente versati dal datore di

lavoro al nuovo fondo pensionistico prescelto dal lavoratore ai sensi dell’art. 14,

comma 6°. Il medesimo comma contiene il divieto per gli statuti e i regolamenti

delle forme pensionistiche di contenere clausole «che risultino, anche di fatto,

limitative del suddetto diritto alla portabilità dell’intera posizione individuale».

Il regime garantistico della possibilità di trasferimento della posizione

pensionistica risulta poi ulteriormente corredato dal limite temporale di

attuazione del trasferimento che non può superare i sei mesi dalla data della

540 Per una ricognizione dei rischi cui sono esposti i fondi in ragione di questa diminutio, specie in ordine alla stabilità finanziaria e al rischio, inerente gli investimenti a lungo di termine, di c.d. short termism, si veda, PANDOLFO, Prime osservazioni sulla nuova legge sulla previdenza complementare a mò di (di parziale) commento del d. lgs. n. 252/2005, cit., p. 203 e A VISCOMI, La facoltà di trasferimento…, cit., p. 59.

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richiesta e dalla esenzione da oneri fiscali delle relative operazioni di passaggio

di titolarità delle risorse economiche.

Tale esenzione fiscale risulta particolarmente significativa in chiave

comparativa, laddove, viceversa, la facoltà di riscatto della posizione

previdenziale maturata è soggetta a tassazione ordinaria e in alcuni casi a

tassazione separata, segno dell’evidente sfavore del legislatore verso l’esercizio

di tale opzione.

Il riscatto, in effetti, a differenza del semplice trasferimento della posizione

previdenziale, si traduce in una sottrazione di risorse al “sistema previdenza

complementare” passibile di creare effetti destabilizzanti per il sistema

medesimo. In particolare, il riscatto ha ad oggetto la contribuzione accantonata

individualmente dall’aderente, maggiorata o decurtata in ragione dell’andamento

della relativa gestione finanziaria541.

L’art. 14, comma 2°, lettera b) disciplina il c.d. riscatto parziale, consentito nella

misura massima del 50% in caso di «cessazione dell’attività lavorativa che

comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo non inferiore a 12 mesi e non

superiore a 48 mesi» nonché in caso «di ricorso da parte del datore di lavoro a

procedure di mobilità, cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria».

La collocazione della norma all’interno del comma secondo, strutturato come

un’elencazione di conseguenze derivanti dalla perdita dei requisiti di

partecipazione alla forma pensionistica complementare, lascerebbe presumere

che il disposto della lettera b), appena richiamato, annoveri delle fattispecie

riconducibili al genus “perdita dei requisiti”. E tuttavia si è correttamente

rilevato che la cassa integrazione guadagni non comporta la cessazione del

rapporto ma solo la sospensione temporanea di alcune obbligazioni da esso

derivanti, sicché non integra necessariamente un’ipotesi di perdita dei requisiti

di partecipazione al fondo. L’inequivocabile dizione della norma sembra, 541 M. PALLINI, op.loc. cit., p. 799.

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dunque, consentire il riscatto, in maniera incoerente rispetto alla complessiva

ratio della disciplina542, anche qualora l’aderente, in possesso dei requisiti di

permanenza nel fondo, sia interessato da una forma di integrazione salariale.

La lettera c) del comma 2° consente, invece, il riscatto totale della posizione

pensionistica maturata: in maniera immediata, in caso di «invalidità permanente

che comporti la riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo e a seguito

di cessazione dell’attività lavorativa» ovvero dopo un periodo di in occupazione

di almeno 48 mesi «a seguito di cessazione dell’attività lavorativa». Tale facoltà

non può essere esercitata, però, nel quinquennio anteriore alla maturazione dei

requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche erogate dalla forma

pensionistica complementare. La stessa norma, in relazione a tale periodo, rinvia

alla norma dell’art. 11, comma 4° che consente l’accesso anticipato, nell’arco di

un periodo massimo di cinque anni anteriore alla maturazione ordinaria del

diritto, alle prestazioni pensionistiche proprio nel caso in cui l’aderente sia

rimasto inoccupato per più di 48 mesi. L’infelice dizione dell’art. 14 lascerebbe

presumere che l’accesso all’anticipazione sarebbe possibile solo nell’ipotesi di

inoccupazione, cui è espressamente dedicato l’art. 11, comma 4°;

comprensibilmente si è rilevato, tuttavia, che l’esclusione della possibilità di

anticipazione per le ipotesi di invalidità permanente risulterebbe del tutto

irrazionale e priva di qualsivoglia giustificazione: sicché sembra più corretto

concludere che laddove la norma sancisce che «in questi casi si applicano le

previsioni di cui al comma 4 dell’art. 11», il legislatore intendeva estendere la

possibilità di anticipazione di cui al suddetto art. 11, comma 4° anche alle

ipotesi di invalidità permanente543.

542 Cfr. in tal senso R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Padova , 2006, p. 579; D. MEZZACAPO, La portabilità della posizione previdenziale, in G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto…, cit., 2007, p. 177-178. si veda inoltre l’interpretazione in chiave altrettanto critica di M. PALLINI, La «mobilità» …, cit., p. 800. 543 Lo rileva M. PALLINI, op. cit., p. 800 ss.

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Il comma 3° dell’art. 14 disciplina invece il riscatto della posizione pensionistica

dell’aderente morto prima della maturazione del diritto alla prestazione: in tal

caso l’intera posizione individuale maturata «è riscattata dagli eredi ovvero dai

diversi beneficiari dallo stesso designati». In tal caso devono ritenersi

applicabili, dunque, le ordinarie norme codicistiche in materia successoria, salvo

che l’aderente premorto non abbia designato un diverso beneficiario. Infine,

nell’ipotesi in cui non vi siano eredi né beneficiari, la posizione pensionistica del

premorto, limitatamente alle forme pensionistiche individuali, è devoluta a

finalità sociali secondo modalità stabilite con decreto del Ministro del lavoro;

nelle forme pensionistiche collettive, la posizione «resta acquisita al fondo

pensione» (art. 14, comma 3°).

È opportuno menzionare, infine, la possibilità contemplata dal comma 5°

dell’art. 14, di esercitare il riscatto «per cause diverse da quelle di cui ai commi

2 e 3». La norma vi fa riferimento per imporre a tali ipotesi di riscatto una

ritenuta a titolo di imposta più onerosa rispetto a quella prevista per le “ipotesi

legali” di riscatto, sin qui descritte. Ciò si traduce, implicitamente, nella

possibilità, riconosciuta agli statuti e ai regolamenti delle forme pensionistiche

complementari544, di introdurre ipotesi di riscatto ulteriori rispetto a quelle di cui

all’art. 14, sebbene il legislatore tenti di disincentivarle attraverso la leva fiscale.

10. Le prestazioni erogate dal fondo pensione.

Anche una descrizione sommaria del sistema di previdenza complementare

riformato dal decreto del 2005 impone di riservare uno spazio, seppur limitato a

brevi cenni, alla disciplina delle prestazioni erogate dai relativi fondi

pensionistici. Proprio il regime delle prestazioni, infatti, «offre fondamentali

indicazioni sulla collocazione della previdenza complementare in rapporto alla

544 Lo evidenzia la COVIP nella Deliberazione del 28 giugno 2006, cit.

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previdenza obbligatoria»545, rivelando un’indubbia centralità condivisa anche da

coloro che, svalutando il collegamento funzionale tra i due sistemi previdenziali

in parola, riconducono il rapporto di complementarietà tra previdenza

obbligatoria e previdenza complementare proprio alle prestazioni erogate da

entrambe546.

Le forme di previdenza erogano prestazioni per vecchiaia o per anzianità ed

eventualmente nei casi di invalidità e premorienza.

Diversamente dal previgente regime, la riforma del 2005 non distingue più le

prestazioni per vecchiaia da quelle erogate per anzianità, introducendo una sorta

di «prestazione pensionistica unificata»547, il cui diritto «si acquisisce nel

momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel

regime obbligatorio di appartenenza, con almeno cinque anni di partecipazione

alle forme pensionistiche complementari»548. Concorrono alla determinazione

dei suddetti cinque anni di permanenza nel fondo tutti i periodi di partecipazione

per i quali non si sia esercitato il riscatto totale della posizione pensionistica

maturata (cfr. art. 11, comma 9°). Resta possibile derogare al requisito di

anzianità di permanenza nel fondo nelle ipotesi di erogazione anticipata delle

prestazioni previste dall’art. 11, comma 4°.

Per quanto non definito legislativamente, l’atto costitutivo o lo statuto della

forma pensionistica determinano i requisiti minimi e le modalità di accesso alle

prestazioni.

Com’è noto per i lavoratori vige l’obbligo di aderire esclusivamente a forme

pensionistiche in regime di contribuzione definita, il ché comporta che i livelli di

545 S. TOZZOLI, Le prestazioni di previdenza complementare, nel Commentario curato da A. TURSI per le Nuove Leggi Civili Commentate, cit. p. 747. 546 In tal senso si veda M. PERSIANI, Aspettative e diritti nella previdenza pubblica e privata, in ADL, 1998, p. 317 ss., nonché G. PROIA, Tutela previdenziale pubblica, consenso del soggetto protetto e previdenza complementare, in ADL, 2000, p. 120 ss. 547 Così la definisca, ad esempio, l’INPDAP, nella nota del 1° febbraio 2006, www.inpdap.it 548 Art. 11, comma 2°, d. lgs. n. 252/2005.

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prestazione sono determinati, in base alla tecnica della capitalizzazione, dai

contributi accreditati dal datore di lavoro e dal lavoratore, ivi compresi quelli

devoluti dal t.f.r., sommati al rendimento prodotto dai relativi investimenti. La

legge consente che le prestazioni possano essere erogate sotto forma di rendita

ovvero in capitale.

La liquidazione in capitale può interessare al massimo il 50% del montante

(diminuito della somma eventualmente erogata a titolo di anticipazione), salvo

nel caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70% del

montante risulti inferiore al 50% dell’assegno sociale: in tal caso l’aderente può

ottenere l’intera somma in capitale. Tali limitazioni rispondono all’esigenza di

preservare quella finalità pensionistico-previdenziale al cui perseguimento

dovrebbero essere volte le forme di previdenza complementare. Difatti, sia che

si accolga la tesi della complementarietà della funzione di tali forme

pensionistiche rispetto alla previdenza obbligatoria, sia che si propenda per la

complementarietà delle sole prestazioni erogate dai due sistemi previdenziali,

resta innegabile il legame tra essi e il contributo apportato dalla previdenza

complementare al perseguimento di interessi sociali generali. Ciononostante, la

necessità di incentivare il nuovo sistema di previdenza complementare ha

suggerito di introdurre la possibilità di riscatto della posizione in capitale, così

come ha reso opportuna l’introduzione di un regime di anticipazioni simmetrico

rispetto a quello contemplato nella disciplina del t.f.r. di cui all’art. 2120 c.c.. In

effetti, proprio la presenza nel nostro ordinamento di un emolumento retributivo,

qual è il trattamento di fine rapporto, «rivolto a sopperire ad esigenze del

lavoratore in buona misura analoghe a quelle cui intende rispondere la

costituzione dei fondi complementari», si presenta come una «formidabile

alternativa»549 a questi ultimi, contrastabile solo attraverso una

549 La nuova disciplina della previdenza complementare (d. lgs. 5 dicembre 2005, n. 252), A. TURSI (a cura di), in NLCC, 3-4-, 2007.

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regolamentazione che li renda realmente “concorrenziali”. Nella medesima

ottica deve essere letta, del resto anche la norma che consente a eredi e

beneficiari, in caso di morte del titolare della posizione previdenziale, la

restituzione del montante ovvero l’erogazione agli stessi soggetti di una rendita

calcolata in base al montante medesimo.

10.1 Il regime delle anticipazioni.

Come accennato, la predisposizione della possibilità di ottenere anticipazioni

dalla posizione individuale maturata si pone, per molti versi, in contrasto con la

eventuale struttura solidaristica del fondo e con le stesse finalità prettamente

pensionistiche consuetamente ricondotte ai fondi di previdenza complementare.

Tuttavia, si è altresì evidenziato lo scarso successo della previdenza

complementare in Italia e la difficoltà a decollare anche in ragione della forte

concorrenza esercitata dall’istituto del trattamento di fine rapporto. Per rendere

competitivo il ricorso a queste forme privatistiche di previdenza, il legislatore ha

dovuto renderle appetibili, possibilmente quanto e più del t.f.r., nell’ottica di

puntare sull’incentivazione dell’adesione ai fondi pensione complementari

mediante devoluzione ad essi proprio degli accantonamenti di t.f.r.. In tal modo,

il lavoratore si ritrova a finanziare un fondo pensionistico privato senza doverne

sostenere in maniera immediata e diretta i costi e, cosa di non poco conto, senza

rinunciare, ad esempio, alla possibilità di accedere a quel montante di denaro

accumulato a suo nome presso il fondo prescelto nell’ipotesi in cui dovesse

averne bisogno. Si sono già evidenziate in altra sede le perplessità in merito al

lineare funzionamento di questo meccanismo550, posto che non contempla il

fattore rischio derivante dalle scelte e dall’andamento degli investimenti

550 Sul punto si rinvia al paragrafo introduttivo del presente capitolo. Quanto invece alla rilevanza del regime delle ancipazioni nell’evoluzione funzionale dell’istituto del t.f.r., si rinvia al capitolo I.

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effettuati dai fondi; pertanto, qui si descriverà sommariamente la sola disciplina

delle anticipazioni.

La possibilità di ottenere un anticipo sul montante accumulato, prima del

raggiungimento dei requisiti di accesso alle prestazioni pensionistiche vere e

proprie, è disciplinata dall’art. 11, commi 7° e 8°, del d. lgs. 252/2005 che le

inserisce nell’ambito delle prestazioni erogate dal fondo pensione. Tale

possibilità è sottoposta ad una serie di condizioni di carattere temporale,

quantitativo e causale. Possono essere richieste «in qualsiasi momento» e,

dunque, a prescindere da qualsiasi vincolo di permanenza minima nel fondo, le

anticipazioni finalizzate a sostenere «spese sanitarie a seguito di gravissime

situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari

riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche»551. È necessario, invece, un

periodo di permanenza di almeno otto anni nel fondo per poter accedere alle

anticipazioni giustificate dallo «acquisto della prima casa, per sé o per i figli,

documentato con atto notarile»552, dalla realizzazione di interventi di

ristrutturazione relativi alla prima casa, nonché da «ulteriori esigenze degli

aderenti»553. Sotto il profilo quantitativo, l’anticipazione può raggiungere il 75%

del posizione pensionistica maturata, salvo si tratti di esigenze diverse da quelle

legalmente tipizzate, per le quali il comma 7°, lett. c dell’art. 11 stabilisce che

l’anticipazione non può superare il 30% del montante. Di particolare rilievo si

rivela la norma contenuta nel comma 8° dell’art. 11 laddove, stabilendo che «le

somme percepite a titolo di anticipazione non possono mai eccedere

complessivamente, il 75% del totale dei versamenti», afferma implicitamente la

possibilità di ricorrere più volte all’istituto delle anticipazioni. Il testo

551 Art. 11, comma 7°, lett. a). 552 Art. 11, comma 7°, lett. b). 553 Art. 11, comma 7° lett. c).

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normativo, in effetti, individua il tetto massimo anticipabile, ma non contiene

alcuna limitazione in merito al numero di anticipazioni richiedibili554.

Un’interessante novità (sia rispetto al previgente regime introdotto con d. lgs.

124 del 1993, sia rispetto al regime delle anticipazioni di t.f.r.) è costituita

senz’altro dal rilievo attribuito ad eventuali “ulteriori esigenze degli aderenti”,

«non sottoposte ad alcun sindacato di meritevolezza»555 e, dunque, traducibili

nella possibilità di richiedere anticipazioni sostanzialmente «acausali»556. Tale

previsione, se per un verso potrebbe favorire il ricorso, anche reiterato (sempre,

però, nel rispetto del tetto massimo costituito dal 75% del montante, ex art. 11,

comma 8°), alle anticipazioni, non dovendo l’aderente fornire particolari

giustificazioni a fondamento della propria richiesta, per altro verso dovrebbe

disincentivare le richieste fondate su futili motivi in ragione della notevole

limitazione quantitativa cui resterebbero comunque sottoposte (il 30% del totale

dei versamenti).

554 Cfr. art. 11, comma 8°. Diversamente dal regime del trattamento di fine rapporto che consente di richiedere una sola anticipazione nel corso del rapporto (art. 2120 c.c.). Peraltro le anticipazioni sul t.f.r. possono raggiungere al massimo il 70% del maturato, sebbene la norma di chiusura che consente pattuizioni migliorative, attribuisce alla contrattazione individuale e collettiva di incidere su tale limitazione. 555 G. SANTORO PASSARELLI, Trattamento di fine rapporto …, cit., 207, p. 195. 556 Così R. Pessi, Lezioni …, cit., p. 575. Più prudente è l’interpretazione offerta da CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Giappichelli, Torino, 2007, secondo il quale alle ulteriori esigenze di cui al comma 7°, lett. c) dell’art. 11 sarebbero riconducibili con certezza i congedi parentali (art. 5, d. lgs. 151 del 2001), i congedi per la formazione e per la formazione continua (art. 7, l. n. 53 del 2000). In tal senso, si è pronunciata altresì la COVIP nella Delibera del 28 giugno 2006 (cit.), che, tuttavia, non ha considerato tale richiamo esaustivo delle suddette «ulteriori esigenze». Per ulteriori valutazioni in merito ed una più articolata critica alla tesi della acausalità delle «ulteriori esigenze» legittimanti l’anticipazione, sia consentito rinviare al capitolo I, par. 2.4, n. 3.

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Il trattamento di fine rapporto

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